Figlia della Terra

di Ghen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Capitolo ***
Capitolo 2: *** II Capitolo ***
Capitolo 3: *** III Capitolo ***



Capitolo 1
*** I Capitolo ***


Figlia della Terra



I Capitolo

Strinse le mani sulle ginocchia, provando a sgranchirsi i muscoli e le ossa, scrutando con disattenzione il passeggero accanto a lei. Parlava inglese, era sceso dal suo stesso aereo con un gruppo di altre quattro persone. Ogni tanto ascoltava i loro discorsi e rideva per sé; non certo per prenderli in giro, tanto più per passare il tempo. Guardare oltre al finestrino alla sua destra aveva cominciato a procurarle una tenue nausea e non voleva peggiorare la situazione, così aveva chiuso la tendina viola, come avevano fatto molti altri passeggeri. Dopotutto, il suo corpo aveva tutto il diritto di lamentarsi: era stanco dopo aver viaggiato per più di tre ore tra bus londinesi, aereo e treno, sballottato a destra e sinistra, trascinando una pesante valigia. A poco valeva che avesse le ruote, quella scatola rettangolare aveva il superpotere di incastrarsi ovunque, anche da ferma.
Aprì la borsetta che manteneva sulle gambe e, cercando con attenzione, prese in mano un piccolo specchietto da viaggio, osservandosi con attenzione negli occhi castani. Aveva le occhiaie. Ci passò l’indice, come se potesse aiutare a farle sparire, e passò la mano fra i capelli legati indietro in una alta coda, assicurandosi di non avere ciuffi fuori posto. Voleva essere perfetta per il suo ritorno a casa, nella sua terra, dopo tempo che non ci metteva piede. Ripose lo specchietto in una tasca interna con velata angoscia e ansimò, chiudendo la borsa. Si rifiutò di guardare il cellulare, lo aveva spento per non rovinare la sorpresa, anche a costo di non riuscire a intrattenersi. In ogni caso, il suo viaggio era finito: sentiva di essere arrivata dalle svolte che prendeva l’autobus, come si giostrava fra una via e l’altra, le pause nel traffico, le fermate, le risa e le voci dei passanti così vicine a una realtà che le era mancata, dopotutto.
L’ennesima fermata e lei strinse la borsetta in spalla, alzandosi dal suo sedile e saltando l’uomo al suo fianco; da come rideva con gli amici nei sedili accanto, sembrava felice che gli avesse lasciato il posto libero. Salutò con garbo l’autista e lui rispose appena, chiudendo le porte automatiche dietro di lei. Appena i suoi piedi toccarono il marciapiede, si sentì pervadere di nostalgia, spalancando i suoi occhi e girandosi intorno, con sguardo alto e fiero, accendendo nella sua mente tanti ricordi. Le sembrava che tutto fosse diverso eppure così uguale, al tempo stesso. Corse a riprendere la sua valigia dal vano dedicato e l’autobus riprese la sua corsa, lasciandola sola lì, a immaginare quante cose erano successe, in sua assenza. Decise di muoversi poco dopo, osservata con curiosità dai passanti, trascinando le ruote sporche e ammaccate del suo trolley. Attraversò, badando più alla chiesa non distante, che suonava le campane, piuttosto che alle macchine con a bordo uomini spazientiti. Non avrebbe mai pensato che un giorno quel rumore le sarebbe mancato; a Londra non davano mai lo stesso suono e non le avevano mai trasmesso lo stesso torpore. Quella era la sua Iglesias, la città delle chiese.
Salutava con sguardi e sorrisi chiunque le passasse accanto, fermandosi, quando vide una donna scendere dalle scalette a fianco alla porta di casa sua. Piegata su se stessa, capelli bianchi e crespi, vestita di nero come ogni signora di una certa età ormai vedova, con indosso una lunga gonna e le calze velate alle gambe, anche se era inverno. Lei sorrise ancora, avvicinandosi. Quando l’altra si voltò per trascinare la sua vecchia e malandata borsa a ruote, quasi non cadde all’indietro dallo stupore, non trattenendo una risata goliardica.
«Lauretta», per poco non gridò, con emozione, «Lauretta! Quando sei tornata?», rise, cogliendola in un caloroso abbraccio, «ohia, quasi… quasi non me ne facevi prendere un colpo». Si mantenne il petto con una mano e la ragazza osservò quel movimento come rapita, riportandole alla mente ricordi lontani. La mano raggrinzita della signora si portò poi al volto della ragazza, carezzandole una guancia rossastra con affetto.
«Sono tornata proprio adesso», rispose, indicando alle sue spalle, «Il bus ha fermato qui vicino».
«Il bus?», rise, trovando quasi ironico quel termine così lontano dalla sua quotidianità. «Su pullmi? [Il pullman?] Ma non me ne sarai uscita troppo inglese, adesso? Ti se scarescia su sardu? [Hai dimenticato il sardo?]», gesticolò con una mano, come se potesse dare più enfasi alle sue parole.
«No, no», scosse la testa, sorridendo a sua volta, «Come potrei dimenticarlo?».
Dimenticarlo? Era la sua lingua, dopotutto, e un po’ di tempo in Inghilterra non poteva cancellare le sue origini, né avrebbe permesso che accadesse.
Salutò la donna e si lasciarono. Si fermò per un po’ per vederla allontanarsi, attraversando la strada e portandosi verso la chiesa, con la sua camminata goffa ma svelta. Signora Assunta era la vicina di casa di Laura da quando era bambina e con la sua famiglia si era trasferita laggiù, in quelle che erano case nuove, allora. Quella donna l’aveva vista crescere e l’aveva amata come una sua nipote, festeggiando con lei i compleanni e facendole regali a Natale. Col sentire quella mano calda nonostante le temperature sulla sua guancia, aveva trovato fra i suoi pensieri il ricordo di lei in lacrime, quando la ragazza aveva deciso di trasferirsi all’estero per lavorare e provare a essere indipendente.
Si rivoltò, prendendo un grosso respiro prima di decidere di suonare il campanello di casa Pilia e ritrovare mamma e papà sorpresi e commossi per il suo ritorno a casa. Salì i tre scalini e si affacciò alla porta, pensandoci bene. Suonò con titubanza, premendo il pulsante appena, quasi con l’unghia, sentendo il suo cuore farsi carico e prendere la rincorsa. Quando la serratura scattò, capì che a quel punto era troppo tardi per tornare indietro: una donna dai capelli corti e neri la assalì con un abbraccio ancor prima di aprire bocca, portandola dentro, aiutata dall’uomo basso e brizzolato arrivato a breve, che prese sotto braccio la valigia. Per poco entrambi non si mettevano a piangere dalla commozione, facendo sedere la ragazza su un morbido divano pieno di cuscini colorati, fissandola come solo due amorevoli genitori potevano fare, scrutandola come se potessero entrarle nella testa e capire il motivo del suo ritorno a casa ancor prima che potessero chiederglielo. Sapeva quanto erano paranoici e cominciava già a ipotizzare le loro fantasiose teorie.
«Potevi chiamare», la sgridò amorevolmente l’uomo, pur non rinunciando a quel sorriso fiero di rivederla lì, la sua bambina, ritta sulla sua schiena e le sue gambe, senza aver avuto bisogno di aiuto per ritrovare la via di casa. «Andavamo a prenderti all’aeroporto», si passò le mani sui baffi grigi.
La donna al suo fianco concordò annuendo, con gli occhi lucidi. «Se sapevo che stavi tornando, mettevo un po’ in ordine camera tua… I tuoi cugini ci sono entrati a giocare la settimana scorsa e c’è il letto… no, tutto… è un disordine unico», faticava a mettere insieme le parole, talmente era emozionata.
La ragazza scosse la testa, guardandosi attorno con velata nostalgia. I ricordi in quella casa riaffioravano uno dopo l’altro: come il settimo compleanno e le avevano regalato quella bambola che parlava, che Laura aveva desiderato tanto; o quando a nove pensò di imparare ad andare sui pattini nel soggiorno, rompendo un vaso; le risate con gli amici e le partite ai giochi di società durante le feste; o il suo primo bacio, proprio su quel divano, a quel ragazzino ripetente che era stato con Laura due lunghe settimane, in terza media. La sua relazione più lunga con un ragazzo, un maschio. Fissò i due genitori con un attimo di angoscia, poiché per quanto Laura fosse cresciuta e cambiata, e senza dubbi maturata, non era mai riuscita a parlare loro della sua omosessualità, e men che mai pensava di farlo in quel momento. «Ma figurati, mamma. Sistemo io», disse in un sorriso, «Volevo farvi una sorpresa, per questo non ho detto nulla e ho spento il telefono».
A quelle parole, la donna si emozionò, annuendo. «Hai mangiato? Vado a prepararti qualcosa».

Aprì la porta di camera sua quasi con timore e questa cigolò. C’era odore di chiuso e di muffa, ma non ne aveva mai sentito uno più buono. Accese la luce e andò alla finestra, sviando una sedia al centro della stanza, alzando la rumorosa serranda e aprendola per far cambiare aria, spegnendo il lampadario. I vecchi peluche e le bambole erano sparsi per tutta la stanza, in compagnia di cuscini e i modellini di cavalli: da adolescente, Laura si era impegnata tanto per mettere su quella collezione che, vedendola a terra, si morsicò un labbro per il fastidio. Per fortuna non si era rotto nulla e pensò di rimettere un po’ a posto, mentre sua madre le preparava la merenda. Canticchiando una canzoncina, riportò al suo ordine i cavallini sugli scaffali, accanto ai cd di musica e alle riviste, e agli immancabili libri che aveva letto durante le notti prima di addormentarsi, e a volte senza addormentarsi affatto. Chiuse la porta della sua stanza dietro di lei, ascoltando le voci non troppo discrete dei due che parlavano della loro bambina finalmente a casa, e sistemò il letto rapidamente, sedendo sopra dapprima con timore e poi sdraiandocisi, cercando una posizione comoda. Al momento che si trovava in quella stanza a fissare il grande lampadario a forma di mongolfiera, riusciva a ricordare il motivo che l’aveva spinta a partire verso una nuova terra: quella voglia di autodeterminazione, di riuscita, di poter vivere se stessa alla luce del sole, alla ricerca di un lavoro che la potesse soddisfare. Più di tutto, però, ricordava quello che l’aveva obbligata a fare qualche passo indietro e a tornare a casa: il fallimento. Laura era piena di speranze, di iniziative, e se in un primo momento pensava veramente di riuscire nel suo intento, si era ritrovata infine a stare male per nostalgia e a sentirsi soffocata da un lavoro non soddisfacente e probabilmente sottopagato. Sapeva che aveva fatto male i suoi conti: sperava sul serio che una volta raggiunta Londra si sarebbe trovata in mano una nuova vita piena di appagamento e nessuna difficoltà? Probabilmente fare la cameriera per un piccolo localino in un borgo di Londra non era il suo sogno nel cassetto, tuttavia poteva decidere di non mollare e andarsene ma restare e tenere duro…

«Te ne vai?»: la domanda di Diane parve più accusatoria di quanto volesse intendere.
Laura la fissò con occhi lucidi e sconsolati, riuscendo appena a sostenere il suo sguardo. «Non prenderla male, tesoro, non ti sto lasciando», specificò, carezzandole i capelli corvini con insistenza, come se, con quel gesto, volesse consolare più se stessa che la sua ragazza.
L’altra la allontanò da sé, afferrandole la mano che continuava a scendere sui suoi capelli con cadenza ritmica. «Ci stai così male, qui?», si guardò attorno, prendendo fiato, «Non abitiamo in un appartamento con tutti i comfort e non possiamo comprare tutto quello che vogliamo a causa del nostro basso stipendio, ma ne abbiamo uno e pensavo che lentamente saremmo riuscite a costruirci la nostra vita insieme».
Laura prese un grande respiro. Vivevano in due in un piccolo alloggio con due stanze e un bagno, arredato con vecchi mobili cadenti, l’unico che si poterono permettere, ma non era quello il problema e Laura pensava che Diane non l’avrebbe mai capito; non che fosse stupida o insensibile, ma la conosceva abbastanza da sapere che i reali motivi che la spingevano a lasciare tutto erano per lei deboli e sopravalutati. L’insoddisfazione e la nostalgia della culla sicura di casa si potevano sopraffare se non ci si lasciava sopraffare a propria volta. «Non è questo, Diane… I-Io ti amo, okay? Ti amo», le sussurrò tentando un sorriso, soffocando le lacrime. «E non ti sto lasciando, vado e torno, non so quando, ma potremo sentirci via Skype o… non lo so, troverò una promozione per il cellulare che ci permetta di-», si interruppe, fissando lo sguardo contrariato dell’altra, non riuscendo più a trattenere il pianto, «di… restare insieme».
Diane scosse la testa e calciò il tappeto, colta da un impeto di rabbia. «No», tuonò poco dopo, «Va bene così, okay? Non tornare», la scrutò immobile, con severità, «Non tornare».

Fermò quei ricordi che le bombardavano la testa e si alzò dal letto con lentezza, sentendo sua madre bussare alla porta. La donna si affacciò il tanto per dirle di andare a mangiare in cucina e lei annuì, stirando le braccia contro al soffitto. Il vento si era fatto più forte e decise di chiudere la finestra per permettere di lasciare la porta aperta, ma quando si affacciò, trovò dall’altro lato del muro un ragazzo dall’aspetto familiare che chiudeva la finestra a sua volta, fermandosi nel vederla, colpito. Le sorrise e salutò, così la ragazza ricambiò.
«Sei tornata?», rise, «Esci che ti voglio salutare».
Chiuse la finestra.
Daniele: quasi non lo riconosceva con quel ciuffo castano chiaro sugli occhi. Era cresciuto e decisamente cambiato, come modo di porsi e perfino nel vestirsi, considerando che Laura non lo vedeva solo da quasi un anno. Morsicò con golosità il grosso panino con burro e zucchero e, ancora masticando, riaprì la porta di casa, mostrandosi al ragazzo che, seduto sugli scalini, l’aspettava. Nel vederla, non poté che ridere di gioia e lei altrettanto, abbracciandosi.
«Non ci posso credere! Quando sei tornata? Non ne sapevo niente», le sorrise con affetto, appoggiandosi alla bassa ringhiera davanti alla porta di casa.
«Oggi. Poco fa. Non lo sapeva nessuno, era una sorpresa», annuì, continuando a mangiare, «Sei a casa di tua nonna, adesso?».
Lui annuì, scostandosi il ciuffo dagli occhi castani.
Era lui quel ragazzino cresciuto quasi sempre con Laura, il nipote della signora Assunta. Il ricordo di lui e lei che giocavano a rincorrersi vestiti a maschera con le stelle filanti fra le mani e ricoperti di schiuma, nelle sere di carnevale, le balenò nella testa con insistenza: quel ragazzo era importante per Laura; era stato il suo amico sempre, un fratello, quasi una cosa sola per molto tempo. Lo scrutò, perdendosi nei suoi occhi grandi.
«Mi sono trasferito per starle vicino e così lascio i miei un po’ in pace», rise sulle sue, tappandosi la bocca con un gesto involontario, una sfumatura sulla sua timidezza. «E tu? Come mai sei tornata? Credevo ti stessi facendo una vita inglese, che ti fossi ormai abituata ai tè delle cinque».
«No», sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «Non era proprio… come me l’aspettavo».
Al contrario, il ragazzo abbassò lo sguardo, fissando un punto immaginario. Riprese a ridere dopo un attimo, goffamente, grattandosi la nuca. «Senti… è da quando sei partita che ho in testa questa domanda e non riesco togliermela dalla testa perché… beh, sì, vorrei che tra noi… le cose fossero a posto».
«E non lo sono?», domandò, corrucciando gli occhi, facendosi curiosa.
«Sì, appunto». La mano sulla bocca, immancabile. «È che… non vorrei che te ne fossi andata perché… per quello… sai», rise, mentre quell’immagine di lui imbarazzato si metteva a fuoco fra i suoi pensieri.
Lei emise un sospiro, voltandosi quasi per un attimo, il tempo di pensare bene a quello da dire. «Non c’entri con la mia partenza», sorrise, annuendo, «Ma figurati».
«Ti ho detto che mi piaci e una settimana dopo parti per Londra», rise lui, «Strano».
«Ti ho detto che non potevo ricambiare… in quel senso».
«Sì, sì. Hai avuto relazioni, a Londra?», la scrutò.
«Si chiama Diane».
«E come fate adesso che sei tornata?», ridacchiò.
«Non facciamo», rispose, «Ci siamo lasciate».
La sua faccia si piegò con sorpresa, girando passo verso la porta della casa accanto. «Te ne sei andata da qui dopo che ti ho detto che avevo una cotta per te, e torni qui quando ti sei lasciata con la tua ragazza londinese», annuì, stringendo le labbra, «Alla grande».
«Non è come credi», lo spintonò e lui ne approfittò per balzare dagli scalini, raggiungendo la sua abitazione.

La notte era scesa molto rapidamente e sottolineava il contorno degli edifici di un bagliore azzurro. Le stradine in ciottoli erano scivolose ma quella signora ci camminava sopra con tale abitudine da non guardare neppure dove metteva i piedi. Vestita in nero di tutto punto, continuava a sistemarsi con ostinata perfezione il fazzoletto che le teneva nascosti i capelli bianchi, stringendo la sua borsetta ogni qual volta che vedeva un ragazzino correre verso di lei; li guardava passarle davanti e borbottava, infastidita che non fossero ancora nelle proprie case. Odiava che i marmocchi non avessero più regole com’era stato invece per lei, quando era giovane; i tempi del coprifuoco e del rispetto per i più grandi, oltre al fatto che era proibito uscire senza genitori o altri parenti a seguito, a quell’età. Continuava a borbottare lungo la strada, incurante che qualcuno la vedesse parlare da sola. Lei non parlava da sola, ma era infastidita. Che la vedessero, pensava, tanto era anziana, e per quanto ne sapevano quelli là, poteva star recitando un rosario.
La donna proseguì ancora qualche passo tenendosi al lato sinistro dei caseggiati, alzando gli occhi agli stretti balconi al lato destro, schifata da come stessero cadendo a pezzi uno dopo l’altro, invecchiati, tra la muffa e il tempo che li stava portando via, proprio come lo splendore originario di quella città a lei tanto cara. Sentì dei passi dietro di lei e camminò più velocemente, girandosi indietro solo un attimo, il momento per vedere che non c’era nessuno e che era solo la sua immaginazione. Arrivata alla porta di casa, tirò fuori la chiave in un seguente borbottio, colpevolizzando i ragazzini che amavano fare scherzi agli anziani. Ci si infilò dentro e chiuse di fretta, impaurita, accendendo la luce. Deviò un tavolo tondo e ci poggiò la borsa, cominciando a spogliarsi, raggiungendo l’andito dopo la stanzetta d’ingresso che faceva da soggiorno. Spense la luce della stanza ma quando udì un rumore la riaccese di fretta, guardandosi intorno. La donna spalancò gli occhi e deglutì, facendo due passi verso il tavolo: la sua borsa era sparita. Guardò sotto al tavolo ma non c’era nulla, a parte un po’ di polvere. Si rialzò lentamente, aiutando la schiena con le mani, e quando si rivoltò ebbe un sobbalzo, vedendo la sua borsa e il suo contenuto sparpagliato per l’andito. Si avvicinò con cautela, ormai tremando dalla paura, udendo una campanella suonare dentro la sua casa. Era una casa vecchia costruita con pietre e non di mattoni, per cui il suono si disperdeva bene e in fretta.
La donna stava per dire qualcosa, reggendosi il petto e le gambe che si mantenevano ferme appena, ma la campanella suonò più forte e più forte, finché la vecchina non cadde per terra e tentò un urlo, bloccato da un’ombra: «Chi ti pighiri su mali [Che ti prenda il male]», sussurrò questa con una voce forte ma disturbata. La signora spalancò gli occhi e la bocca, ansando come un pesce fuor d’acqua, fino a quando i suoi occhi neri persero lucentezza, diventando bianchi e inespressivi. L’ombra sparì veloce con una folata di vento che aprì e richiuse l’unica finestra, lasciando il corpo cadere sulle mattonelle fredde, senza vita.

Laura non aveva mai avuto molte amiche, ma quelle che aveva erano dei piccoli tesori. Appena saputo del suo ritorno in patria, le tre ragazze sono corse da lei per festeggiare, facendosi lunghe camminate avanti e indietro per Via Nuova, la Via Matteotti battezzata così dai suoi cittadini ancor prima di avere un nome ufficiale e passato nelle mani delle generazioni a venire. Sedute davanti a un tavolino mangiando patatine e bevendo cola, riaccesero i loro ricordi del liceo e delle loro vicissitudini, ricordandosi della loro amicizia nonostante il tempo passato. Le guardava parlare e ridere e lo faceva a sua volta, lasciandosi trasportare dai forti sentimenti che Laura provava per loro. Pagarono al locale e salirono per la strada adibita ai soli pedoni, mentre la calca si faceva più numerosa. Passò qualche bimbo vestito in maschera e nessuna delle quattro poté credere che, ridendo e scherzando, distratte dal ritorno della loro amica, avevano perso la cognizione del tempo: febbraio, carnevale.
«Stavamo davvero per perderci i mamuthones, quest’anno», disse una delle tre, improvvisatasi capogruppo, facendo cenno alle altre di seguirla. «Non che sia chissà cosa», rise poco dopo, a bassa voce, «Tutti gli anni sempre uguale».
Risero, non mancando di darle ragione. Tuttavia, per la loro amica era qualcosa a cui non avrebbe rinunciato anche quest'anno, poiché quei costumi erano simbolici, erano sardi e non esistevano da nessun'altra parte del mondo, erano il suo effettivo ritorno a casa.
Le quattro ragazze si fermarono ai pressi di un negozietto e lasciarono passare della gente dietro di loro, ascoltando i rumori dei campanacci che si avvicinavano. Una delle amiche guidò le altre ai piedi della fontana vuota e sporca in piazza Lamarmora e si spostarono verso il negozio degli abiti da sposa, per non restare in mezzo: loro stavano arrivando. La folla seguì presto il loro esempio e Via Nuova diventò un lungo fiume biforcato, in loro attesa. Qualcuno rise, probabilmente dei bambini, e la gente iniziò ad alzare gli occhi verso i cornicioni delle vecchie case e i balconi decadenti, dove due uomini vestiti di nero e con indosso grosse pellicce nere e marroni si arrampicavano, provando a fare qualche passo brusco per mettere in ansia gli spettatori e alcuni urli di gloria: i mamuthones erano arrivati. I due uomini proseguirono sopra una casa dietro l'altra, seguiti dagli sguardi curiosi e spesso stupiti, anche se non facevano nulla di nuovo da sempre. Quando scesero, tenendosi stretti ai tubi dell'acqua, il resto dei compagni erano arrivati: i mamuthones indossavano grosse maschere nere dagli sguardi arrabbiati, a volte infelici, o disturbati. Erano grossi e camminavano quasi dondolando, ricoperti di pelliccia nerissima e grandi campanacci. Se ne andavano in giro a infastidire la gente e molti si tiravano indietro, soprattutto i più piccoli, con paura. Gli issohadores arrivarono a breve: maschere bianche e squadrate in volto, indossavano un capello scuro sulla testa tenuto stretto da un fiocco al mento, casacca rossa e pantaloni larghi e bianchi, tenuti stretti dagli stivali neri. Erano lì per tenere tranquilli i mamuthones, per seguirli e non farli disperdere: erano i pastori e loro il gregge. Tuttavia, anche loro incutevano timore fra la folla: usavano lanciare il lazo per acchiappare i mamuthones ma, spesso e volentieri, sbagliavano e catturavano qualche passante. Lo facevano apposta, era la loro esibizione. Ruotavano attorno al bestiame con cadenza musicale e lanciavano il lazo. Lei e le tre amiche si tirarono un po' indietro ma uno di loro sbucò dal nulla, forse in mezzo alla calca, e scrutò le ragazze con estrema attenzione, sotto la maschera. L'issohadores distese le mani verso il cielo e strinse la corda con fermezza, pronto al lancio. Lei lo fissò a sua volta e il lazo la afferrò, stringendola appena. Qualcuno dietro di lei rise, forse felice che non fosse il suo turno, e le ragazze del gruppo fecero altrettanto, congratulandosi, battendo le mani. I due si fissarono intensamente, senza muoversi, finché i mamuthones non ripresero il loro cammino e lui fu costretto a lasciare la presa, continuando a fissarla, fino a sparire dietro la gente.
«Okay, io mi sarei cagata dalla paura», accennò una risata una delle tre ma lei non si mosse, alla ricerca dello sguardo di quel ragazzo mascherato che si sentiva ancora addosso. Prese passo ancora prima di avvertirle e la seguirono fra la massa di gente, ma lo spettacolo carnevalesco stava continuando e fra i ragazzi vestiti di rosso e bianco non sembrava trovare quello che cercava.
«Stai cercando vendetta?», rise una delle amiche, con innocenza, quando lei si voltò per osservarla con sguardo interrogativo, quasi arrabbiato.
«Cosa? Cosa hai detto?».
«Se cercavi vendetta su quello che ti ha legata», rispose, scrollando le spalle, «Cavolo se sei strana».
Lei scosse la testa e poi sorrise, chiedendo scusa. «No, è che quello aveva uno sguardo strano, mi ha fatto impressione. Volevo capire chi è».
«Eh, buona fortuna. Questi staccano tardi, ma con tutta la gente che c'è, poi, mica ce la fai a seguirli», esclamò un'altra.
La costrinsero a lasciar perdere e ad andare verso Piazza Sella per una passeggiata fra le stelle filanti, ma lei continuava a essere altrove, a quello sguardo sul suo.

La donna chiamò sua madre al telefono per tutto il giorno. Aveva fatto la pasta al forno come piaceva a lei e ne aveva fatta tanta, così decise di dividerne un po' e portargliela, ma non rispondeva al telefono dalla mattina. Parcheggiò la sua panda sulle strisce gialle conscia di non poterlo fare, giustificando se stessa che avrebbe fatto in fretta, e corse al lato passeggeri per prendere il vassoio. Chiuse a chiave e camminò a passi decisi, facendo attenzione al cemento ricoperto di schiuma colorata, borbottando sui ragazzini che spruzzavano ovunque con le loro bombolette senza curarsi di chi, come lei, indossava i tacchi. Mantenne il vassoio con una mano e con l'altra si reggeva la sciarpa al collo per il freddo, camminando sulla scivolosa strada in ciottoli. Alla porta di casa di sua madre bussò ancora prima di suonare, e si affacciò alla finestra dell'ingresso che faceva da soggiorno, ma non vide niente. Bussò ancora, più forte, e la chiamò. Infine sbuffò, appoggiando sul cornicione della finestra il vassoio con la pasta al forno e cercando la copia delle sue chiavi in borsa, tirandosi indietro i capelli, seccata. Spinse la chiave e girò, aprendo la porta, tornando indietro per recuperare il vassoio. «Mamma?», chiamò, «Sei in casa o no?». Spense la luce e poggiò il vassoio sul tavolo tondo, inumidendosi le labbra e tastando il rossetto. «Mamma?». Vide una gamba a terra e corse per raggiungerla, inchinandosi come meglio riusciva, sui tacchi. Scosse il corpo della donna appena, colta da un impeto di paura, e si distanziò pronta per guardarsi attorno e urlare con tutto il fiato che aveva in corpo.

L'improvvisa morte della signora Gavina si era sparsa in fretta in centro. Da quelle parti la conoscevano in molti, anche solo di vista: andava a comprare le cose nel negozietto sotto casa, le verdure in quello poco più avanti, e il pane al mercato. La vedevano spesso, passava tutte le mattine e salutava sempre chiunque con un sorriso, prima di vederla borbottare per sé. Era una donna un po' acida, ammetteva qualcuno, ma tutti le volevano bene. Avevano trovato casa sua in ordine a parte la borsetta che era stata gettata nell'andito di casa; il medico legale dichiarò che era stata stroncata da un infarto, proprio dopo essere tornata a casa dalla messa serale. Un vero lutto per tanti, anche per signora Assunta, che quella mattina era uscita prima del solito per andare in chiesa e pregare per lei.
«Erano molto amiche da giovani», le disse sua madre, quando udì la donna uscire di casa molto presto, trascinando la borsa a ruote. «Poverina. La conoscevo anche io ed era una brava persona, forse un po' scorbutica».
«Mi dispiace», rispose lei, annuendo. Soffiò il latte bollente e, con sguardo malinconico, scrutò oltre la finestra, agli alberi lontani. Laura non aveva mai conosciuto signora Gavina; ci pensò finché non notò qualcosa di strano accanto a un albero. Strizzò gli occhi e allungò lo sguardo, cercando mettere a fuoco. Quella figura nera e marrone stava sopra il tronco di un albero e lei spalancò gli occhi, non credendolo possibile; lasciò la tazza sul tavolo e corse alla finestra, affacciandosi: quel mamuthones la fissava a sua volta.
«Laura, finisci in fretta, così mi fai compagnia al mercato».
Sua madre le distolse l'attenzione e si girò, per annuire, ma quando si rivoltò quella maschera non c'era più.
























Benvenuti a una mia nuova storia ^_^
Figlia della Terra è diversa da precedenti racconti che ho scritto perché l'ambientazione non è esattamente quella che preferisco, ma colta da un impeto di ispirazione dato da un contest ho voluto provarci lo stesso :) Non è mia abitudine ambientare ciò che scrivo in Italia (infatti preferisco luoghi più lontani come gli Stati Uniti o il Giappone, creando in ogni caso città che realmente non esistono) e men che meno in un luogo in particolare e definito come in questa, quindi è un po' un azzardo.
Per scrivere per il contest cui questa storia partecipa, mi sono fatta una bella ricerca tra creature sovrannaturali semisconosciute, girando sul folclore internazionale e poi italiano, approdando in Sardegna. Avevo in mente un'altra trama simile prima di arrivare a questa che vedeva un'altra creatura, ma credo che infine Figlia della Terra mi sia riuscita meglio in ogni caso.
Non credo di essere arrivata esattamente dove volevo e sicuramente avrò sbagliato qualcosa, ma caspita se è mi è costata fatica scriverla. È stato per me molto difficile ma, per quanto vale, ne sono pure soddisfatta.

Spero possa piacere anche a voi e che il campidanese (dialetto del sud-ovest della Sardegna) non infici troppo la lettura :)

APPUNTO:
Iglesias, la città delle chiese: il nome “iglesias” viene dal sardo is cresias, cioè le chiese. Più profetico di così non si può: ci sono parecchie chiese, ad Iglesias. Il nome viene attribuito anche alla dominazione spagnola, e significa sempre chiese.



Il contest da cui ho preso ispirazione è questo (che poi sia praticamente senza traccia e che prendo le ispirazioni dal nulla sono dettagli): Trick me, deceive me! indetto da graceavery. E scade oggi, ho fatto appena appena in tempo per partecipare ^_^



I capitoli sono solo 3 e, se tutto va bene, ne posterò uno alla settimana! Siccome non so se ce la farò domenica prossima, nel caso aspettatevelo per lunedì.

Se vi va piacere, lasciatemi un commento in recensione :)
A presto, chu!



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Capitolo 2
*** II Capitolo ***


Figlia della Terra



II Capitolo

C'era molta gente quel pomeriggio ma nessuno osava fiatare e si udiva appena qualche bisbiglio. In molti si erano presentati per recare omaggio e dare un ultimo saluto a signora Gavina, e sua figlia si spostava scricchiolando sulla ghiaia con i suoi tacchi neri a uno a uno fra i presenti per ringraziare tutti di esserci in quel giorno per lei così triste.
Sua madre le aveva pregato di farle compagnia ma Laura non aveva mai conosciuto quella donna e lei aveva paura di sentirsi un po' in fuori luogo, dandole fastidio la giacchetta nera che aveva dovuto indossare per l'occasione. Signora Assunta le vide a distanza e si accostò a passo svelto in compagnia di un'altra donna, più bassottina e anche lei dai capelli corti e bianchi, che salutarono entrambe con un abbraccio.
«Mancu mali ca c'è genti, lè [Meno male che c'è gente, eh]», sussurrò quella donna, con un accennato colpo di tosse.
Signora Assunta annuì e la madre di Laura la seguì poco dopo.
«Beh, dai, era molto conosciuta», aggiunse quest'ultima, «certo che doveva venire tanta gente».
«Eh, ma du scisi cumment'esti… [ma sai com'è…] Gavina a tempo ha litigato con molti», le ricordò l'altra.
Lei ascoltava senza proferire parola, finché quella donna non la investì con un'intensa e curiosa occhiata.
«Filla rua, lè? [Tua figlia, eh?]», domandò, continuando a fissarla, «Ugualisi [Uguali]», tentò un sorriso e con una mano le carezzò una guancia, mettendola in imbarazzo.
Sua madre annuì e lei si distanziò di mezzo passo, per non darlo troppo a vedere. «Piacere di conoscerla, sono Laura».
«Bellu nomini [Bel nome]», sorrise, «Io Efisia. Nome antico», bisbigliò, dando una veloce occhiata a sua madre, che sorrise a sua volta.
La gente iniziò a camminare con lentezza inoltrandosi verso il cimitero e loro quattro seguirono gli ultimi in coda. Lei allungò lo sguardo alle tombe che conosceva a memoria, ritrovandole così diverse e così uguali, talmente antiche da essere quasi un monumento, fra angeli e bambini. Si guardò attorno con curiosità, non vedeva l'ora che la internassero per tornare a casa, quando il suo sguardo fu catturato da ombre che si muovevano furtive fra bare lontane. Erano due, forse. Ed erano veloci, tanto. Lei le seguiva con gli occhi al punto da inciampare su una pietra e reggersi con le gambe all'ultimo, ritrovando quelle ombre. Si erano spostate: erano a qualche bara più vicina. Deglutì. Si voltò verso il resto della veglia ma nessuno oltre lei sembrava interessato a quello che stava succedendo, così si voltò per cercarle ancora ma erano scomparse. Cominciava a credere che era solo frutto della sua immaginazione. Un uomo le andò quasi sopra un piede e si voltò infastidita, bloccandosi, quando scoprì che le ombre non c'erano più perché chi ne era proprietario stava dietro di lei, a una decina di metri: erano due mamuthones, in piedi, con maschere nere e lunghe, arrabbiate. I campanacci sembravano ricoprire tutto il loro pelo nero. L'uomo le schiacciò il piede ancora e si costrinse a continuare il cammino, tenendosi più stretta a sua madre e signora Assunta.

«Vedi mamuthones ovunque?». Daniele rise così forte da darle quasi fastidio.
«Mi sembra di diventare matta», sbottò lei, «c'è ben poco da ridere».
Lui sfogliò con gli occhi le carte nella mano di lei come se avesse potuto leggere quello che nascondevano e poi si decise, gettando una carta blu al tavolo, o meglio sul muretto che faceva da tavolo. «Evidentemente ti mancava così tanto la Sardegna che adesso un suo simbolo ti perseguita», pescò una carta, mettendo la mano alla bocca.
Lei sbuffò. «Guarda che non sto giocando, ho visto davvero due mamuthones che mi fissavano, al cimitero». Si grattò la nuca e sbuffò ancora: le carte in mano non la aiutavano per niente.
Daniele la scrutò attentamente e le mostrò l'unica carta in mano, estraendo un sorriso trionfante. «Uno!», gridò, gettandola sulle altre, mentre lei buttava via le carte nella sua mano sul muretto, sparpagliandole dappertutto. «Non giocavi a Uno a Londra?», rise, gustandosi la vittoria. Per poco, non lo vedeva alzarsi e sgambettare per la felicità.
Lei stava per rispondere ma un uccellino le volò accanto e si poggiò sul tronchetto di un albero, ricordandole il mamuthones che aveva visto dalla finestra. Osservando il suo sguardo perso nel vuoto, il giovane le gettò una carta contro, richiamando la sua attenzione.
«Vedi un altro mamuthones? Qui, adesso?».
«Smettila di prendermi per il culo», gli rigettò la carta addosso e una signora coprì il sole, facendo ombra ai due giocatori.
«Su mamuthones? [Il mamuthones?]», esordì una voce roca dall'ombra. «Chini biri su mamuthones? [Chi vede il mamuthones?]», rise la donna, aprendo le braccia e aspettando una reazione.
I due sorrisero e lei si alzò da terra lentamente, andando ad abbracciarla. «Ciao, nonna».
«Laura», rispose il ragazzo, «Dice che i mamuthones la perseguitano».
L'anziana sorrise, scrutandola appena, passandole la mano sul mento, in una carezza. «Ohi ohi, nepori mia… [nipote mia] I mamuthones fanno paura perché sono selvaggi, diciamo, ma non sono cattivi. Ih, tutte qui le disgrazie», ansimò, ridendo e scuotendo la testa, reggendosi meglio la borsa nera sotto spalla. «Se proprio ne vogliamo… Ce ne sono altre di creature sarde che devono fare paura davvero».
«Tipo?», le chiese Daniele con curiosità, mentre la ragazza si risedeva al suo posto e riprendeva le carte per formare un mazzo.
«Tipu sa bruxa [Tipo la bruxa]», annuì ed entrambi si bloccarono, fissandosi per un momento. «Non la conoscete? La bruxa è una strega. Ce n'era una, qui, anni fa…».
«Qui dove?», domandò la ragazza, reggendosi le ginocchia e lasciando le carte da un lato del muretto. Daniele si strinse le labbra e annuì alla domanda.
«Qui a Iglesiasa [Iglesias]», si passò una mano sul mento, «Si diceva che l'avevano bandita perché l'avevano trovata con una neonata in braccio e la bruxa se ne ciba… Sono racconti popolari, la bruxa è pericolosa».
Lei storse un sopracciglio. «L'hanno solo trovata con una neonata in braccio ed è bastato per bandirla?», alzò un poco la voce e Daniele la fissò per un momento. «Non è un po' poco?».
«L'ha detto: la bruxa si mangia i neonati. È una motivazione sufficiente, mi pare», lui accennò una risata, indicando l'anziana.
«No», obiettò, «Detto così fa pensare che l'abbiano bandita solo perché l'hanno vista con una bimba in braccio, che potrebbe voler dire molte cose. Non la stava mangiando», fissò l'uno e poi la nonna, che scrollò di spalle. «La bambina poteva anche essere sua sorella, sua nipote o sua figlia».
«Sì, certo», rispose lui sarcasticamente, invece la nonna scuoteva la testa.
«Ohi, nepori mia… [nipote mia] Pensi subito il bene, ma una bruxa è solo una strega, e non ci si può fidare delle streghe». Lei abbassò lo sguardo e deglutì, intanto che la signora distribuiva un po' di caramelle che aveva trovato nella borsa ai due, facendo aprire loro bene le mani. «Andatevene dentro a giocare, piccioccusu. [ragazzi] Che qui si sta facendo freddo, non lasciatevi ingannare da quel bel sole che è uscito che poi vi ammalate. Siamo a febbraio, dai».
Entrambi si alzarono, pronti per rientrare in casa.

Il viaggio in treno sembrava volesse crearle problemi alla pancia più di quanto non ci avesse già pensato prima l'aereo. Questo rallentò sui binari in vista dell'ennesima stazione, dove i passeggeri diretti a Iglesias avrebbero fatto scalo, e Laura si alzò in piedi, tirando con sé il trolley fino alle porte automatiche. Quando queste si aprirono, Laura fu una delle prime a scendere, quasi spintonata, ma non aveva voglia di ribellarsi. Stanca e affamata, si guardò in cerca di un distributore automatico senza risultati, così decise che si sarebbe fatta una corsetta al bar lì vicino prima di ripartire. Si affacciò ai bagni della stazione e, vedendo che nessuna fila le avrebbe dato filo da torcere, trascinò il suo trolley fino al bagno dedicato alle signore, chiudendo la porta alle sua spalle. La porta interna era chiusa e accostò la valigia ai lavelli, poggiando i palmi delle mani sul piano e affacciandosi al grande specchio. Aveva le occhiaie, constatò. Passò le dita sui capelli sciolti e li smosse un po', sbuffando. Pensò di sembrare un cadavere. Amareggiata, sfilò il cellulare dalla borsa e diede una veloce occhiata a Facebook, incappando su un post di sua madre raffigurante dei gattini. Ansimò e si morsicò un labbro, pensando che era decisamente arrivato il momento di avvertire i suoi del suo ritorno a casa. Si sentiva estremamente sconfitta e si vergognava molto, ma non aveva più alternative. Iniziò a digitare quando la porta del bagno si aprì e lei restò a bocca aperta, con il cellulare a mezz'aria. I capelli corvini raccolti in una coda alta, sguardo serio e irremovibile, quasi senza espressione. Diane.
Laura sorrise ma era troppo sorpresa per fare nient'altro, e si guardò attorno con un po' di imbarazzo, come appena scoperta in un momento solo per lei da una persona importante.
«D… Diane? Cosa… Cosa fai tu qui?».
«Ti aspettavo».

Signora Efisia era un'abitudinaria. Usciva presto per fare la spesa e tornava a casa per preparare il pranzo, che la impegnava molto. Amava cucinare. Preparava con cura e apparecchiava la tavola, aspettando che il marito, ormai pensionato da un po', tornasse dall'orto. Mangiavano con la televisione rigorosamente spenta e, mentre lui usciva di nuovo, lei spazzava in terra e lavava i piatti. Dava una pulita alla cucina e al bagno, per poi tornare a cucinare per la cena, e così uscire per andare in chiesa, fino a che la messa serale non le avrebbe dato il permesso di tornare a casa. Quel pomeriggio si era portata avanti coi lavori e aveva già finito di preparare la minestra per la cena, così spense il fornello e corse al bagno, armandosi di straccio e prodotto spray. S'inchinò per lavare la vasca, spruzzando il prodotto sulla superficie, ma udì qualcosa sbattere in cucina e si alzò con fatica; ormai la vecchiaia cominciava a farsi sentire. Affacciandosi alla porta di cucina, vide che la porta finestra che portava fuori si era spalancata e che il vento aveva aperto tutti i suoi pensili, facendo cadere fogli e centrotavola. A passo svelto si mobilitò per chiuderla ma il vento si fece ancora più forte, costringendola ad arretrare, finché non udì l'acqua del bagno scorrere e, chiamando il marito, lasciò perdere la porta finestra e tornò indietro. Il marito non c'era ma l'acqua della vasca era così piena da salire sul bordo e gocciolare per terra. Lei corse talmente veloce a chiudere i rubinetti che scivolò sulle pianelle bagnate e sbatté la testa con forza, udendo solo allora il suono di una campanella. Cercò di urlare, chiamando il marito, ma nessuno poteva sentirla. Un'ombra si distese lungo signora Efisia e aprì la bocca contornata da denti fini e stretti, forse rotti e marci. «Chi ti pighiri su mali [Che ti prenda il male]», recitò quella voce disturbata, e la povera donna ansava ingoiando l'acqua che scendeva copiosa dalla vasca, finendo per farla affogare.

Lei si svegliò di soprassalto, toccandosi il petto agitato. Quegli stupidi mamuthones non riuscivano a lasciarla in pace neppure durante il sonno. Si posò adagio sul cuscino, tremando come una foglia, e tentò di richiudere gli occhi; quelle maschere nere le apparivano come nebbia e li riaprì, sbuffando. Decise di alzarsi e mangiare qualcosa, forse andare in bagno e, magari, cercare su internet qualcosa di più sui suoi nuovi stalker. Così accese il portatile e compì qualche ricerca con mamuthones come parola chiave, leggendo articoli su di loro fino al sorgere del sole.
Quel mattino fu duro un po' per tutti. Sua madre accese la televisione e a Videolina passarono la notizia di un'altra anziana morta in casa sua a Iglesias: a trovarla fu il marito, immersa nella sua vasca da bagno completamente vestita. La donna era affogata e ancora non si conoscevano i dettagli del caso. Lei entrò in cucina quasi in punta di piedi, ascoltando la notizia con interesse e preoccupazione, incrociando le braccia al petto.
«Ti ricordi di signora Efisia? L'abbiamo incontrata al funerale di signora Gavina», le ricordò la donna e lei annuì, lentamente, increspando lo sguardo.
«È morta?».
«Ieri pomeriggio, a quanto pare», rispose, preparandosi il tè. «Povera donna… Cosa fai in piedi a quest'ora?».
«Non riuscivo a dormire», si prese una sedia e si accovacciò sul tavolo, osservando la madre ai fornelli. «Mamma?», aspettò che le desse un cenno, per continuare, «Pensi che i mamuthones esistano davvero?».
L'altra rise, chiedendole se voleva del tè anche lei. «No, Lau. Certo che no. Sono leggende». Riempì di nuovo il pentolino d'acqua e riaccese il fornello. «Ti preoccupano queste cose?».
«Un po', a dire il vero. Sembrerà sciocco, ma mi stanno incasinando la testa, e per questo non riesco a dormire», si ammutolì di colpo, voltandosi verso la televisione. «E poi pensaci, prima signora Gavina, adesso signora Efisia».
«Cosa c'entrano con i mamuthones?», le servì il tè davanti al naso e lei si distanziò appena, cominciando a soffiare.
«Non lo so, però a me questi qui stanno tormentando l'esistenza e non vorrei essere la prossima in lista».
«Non dire scemenze, Lau. Questi sono solo incidenti, e gli incidenti purtroppo succedono», le avvicinò una mano a una sua, tentando di sostenerla. «E a te questi cosi stanno tormentando perché sei stanca dall'Inghilterra e il resto. Hai bisogno di pensare ad altro», aggiunse, «Staccati un po' da qualsiasi cosa vuoi fare e vai a farti una passeggiata. L'aria fresca ti farà bene».
Lei annuì.

Suonò al campanello e aspettava, incrociandosi le dita delle mani, che qualcuno andasse ad aprire la porta. Daniele si stropicciò un occhio e sbadigliò, quando la vide così presto davanti a casa sua, mentre signora Assunta sorrise, ringraziandola che lo facesse alzare dal letto invece che lasciarlo a poltrire tutta la mattina.
«Andiamo a fare una camminata, ci guardiamo le vetrine; dai!», cercò di spronarlo. Daniele si trascinò in camera sua per prepararsi e lei si sedette su una poltrona del piccolo soggiorno con palese imbarazzo, dando una rapida occhiata alle foto appese alle pareti e incorniciate sopra gli scaffali. Molte di quelle erano antiche, giallognole, e rappresentavano sicuramente signora Assunta da giovane, pensò, per continuare fra le foto di una bambina e poi ragazza, di qualche festa, perfino un matrimonio, che doveva essere quello della madre di Daniele con suo marito. C'erano anche parecchie foto di Daniele da bambino. Laura era già entrata parecchie volte in quel soggiorno e nelle altre parti della casa, ma non aveva mai badato troppo a quelle foto come faceva lei in quel momento.
Signora Assunta smise di annaffiare i vasi, accorgendosi dello sguardo un po' perso della ragazza, guardando incuriosita dove si volgeva il suo sguardo. Poggiò l'annaffiatoio ormai vuoto e si accostò a una delle foto posta accanto a dei libri; vecchia, gialla, un po' sbiadita, raffigurava tre ragazze al mare, coperte da pesanti gonne spostate dal vento.
«Guarda, Lauretta», disse, prendendo la foto in mano. Lei alzò il suo sguardo e fece due passi verso la donna, osservando la foto. «Queste siamo io», indicò la ragazza in mezzo, dai capelli corti e disordinati, «e Gavina, e Efisia», spostò il suo dito indice sulle altre due, prima a sinistra e poi a destra.
Lei fissò quella foto e deglutì. «Eravate molto amiche, voi tre, vero?», domandò.
«Molto», annuì. I suoi occhi si chiusero per un secondo, diventando lucidi.
Le si strinse un nodo in gola. Laura voleva molto bene a signora Assunta e vederla così triste per la morte delle sue amiche le infondeva profondo dispiacere.
Daniele esordì con uno sbadiglio, passandosi con insistenza le mani sul ciuffo castano, disposto verso l'alto con un po' di gel. Sua nonna rise, nel vederlo, risistemando la foto sullo scaffale.

«Di cosa parlavi con mia nonna? Non dirmi che ti ha fatto vedere le foto». Daniele si accostò a una vetrina e si appiccicò al vetro come una falena, tenendo d'occhio un paio di scarpe molto costose, indicandole.
«Una sola», sospirò. «Non te le puoi permettere, smettila», ridacchiò e lui scese dallo scalino della vetrina con un balzo, agganciandosi a lei per non cadere. Le sorrise e lei altrettanto, allontanando poi lo sguardo. «Non essere severo con tua nonna, ha perso due amiche in poco tempo».
«Già», scalciò una carta incastrata fra i ciottoli, riprendendo a camminare, infilandosi nelle mani nelle tasche del pesante giubbotto. «Non la vedevo così giù dalla separazione dei miei», sbuffò, alzando gli occhi al cielo. La scrutò solo per un attimo, il tempo di vederla abbassare lo sguardo e aggrottare le sopracciglia.
Il ricordo di un Daniele ancora molto bambino e arrabbiato, in seconda media, si fece spazio fra i suoi pensieri: i suoi genitori litigavano spesso e avevano deciso di separarsi.
«Come vanno le cose fra loro, adesso?», chiese, scartando una caramella e infilandosela in bocca. Giocava distrattamente con la carta, stropicciandola e piegandola, svolgendola e osservandone con minuzia i dettagli.
«Bene. Più o meno. Da quando me ne sono andato di casa meglio, credo, lui va a trovarla spesso e parlano, da che ne so…», rispose, abbracciando la ragazza all'improvviso, a cui cadde la carta dalle mani. «Lui le ha chiesto scusa per un sacco di cose, e anche lei si sta dando da fare… Non dico che ritorneranno insieme, ma ancora non si parla di firmare per il divorzio, ecco. Forse stanno bene così. Sai, lui in fondo l'ha lasciata spesso sola e si sente in un po' colpa».
«Per cosa?».
«Perché mia madre da quando l'ha saputo si è sempre sentita un po' sola e incompleta e…», scosse la testa, mordendosi un labbro, «Non che mia nonna le abbia fatto mancare qualcosa, per carità, però forse avrebbe dovuto dirglielo prima. Al posto suo, io avrei voluto saperlo prima. Assolutamente». Lei lo guardò con aria interrogativa e lui la fissò, battendole un'affettuosa pacca sulla spalla. «Dai, te lo sei dimenticata, non fa niente. Te ne avevo parlato qualche mese fa, quando stavi a Londra, per telefono: mia madre è stata adottata».
«A-Adottata?», lei spalancò gli occhi e il ricordo di quella telefonata le arrivò veloce nella mente, «Accidenti, sì, scusa. Me ne ero proprio scordata».
«Nulla. Ci mancherebbe che ti ricordi tutto quello che ti dico», rise.
Lei tentò un sorriso ma si voltò a breve, fermandosi, sentendosi osservata. Via Azuni era colma di gente ma c'era qualcosa di diverso, fra loro: s'intravedevano degli scarponi neri, fermi proprio in sua direzione. Deglutì e afferrò il braccio del ragazzo, tirandolo, indicandogli dietro di loro.
«Non vedo niente; cosa? Oddio», ansimò, «non dirmi che c'è un mamuthones?! Devo spaventarmi?», rise più forte e lei gli lasciò la presa, infastidita dal suo comportamento.
La gente si divise lentamente, camminando via, e lei cominciò a vedere la pelliccia nera di quell'essere e i campanacci, finché non si mostrò la maschera enorme e più nera della pece, dallo sguardo triste. Il mamuthones alzò il braccio destro e raggiunse un occhio della maschera, stringendo la mano ricoperta di cerone nero e simulando il pianto. Lei arretrò e gemette dalla paura, seguita dallo sguardo attento del ragazzo.
«Tu lo vedi davvero…?» , le domandò, controllando il punto interessato, stringendo gli occhi.
«Andiamocene», asserì, riprendendo il braccio di lui, «Per favore».
Si voltò e lui poco dopo, fissando ancora quel punto, cambiando espressione e facendosi serio.
Mangiarono una pizza e passarono insieme una bella mattinata, parlando di com'era scura Londra e delle piogge, senza accennare ai mamuthones che ancora riusciva a vedere, sopra le strutture dei negozi e delle case: era sicura che la stessero seguendo ma si sforzava di fare finta di niente. Le ricerche su internet non avevano portato a nessuna svolta interessante, non c'era molto, se non com'erano fatti i loro abiti e le dinamiche delle esibizioni. Tuttavia, era praticamente certa che quelli che lei vedeva non erano uomini vestiti a maschera ma qualcos'altro. Comparivano e scomparivano nel nulla e poteva vederli solo lei. Non erano uomini ma altro. Qualcos'altro che l'aveva presa di mira.

La borsa a ruote si bloccò e signora Assunta dovette spingerla con più forza per farla arrivare a casa, quella sera. Aveva pregato tanto per Efisia e Gavina, in chiesa, tanto che le avevano fatto male le ginocchia, per com'era si era accovacciata sulla panca. Molte signore le avevano fatto le condoglianze e perfino il prete si era fermato con lei due minuti dopo la messa, per ricordarle che, se ne voleva parlare, lui era disponibile. Ma Assunta non voleva parlare; non ne voleva parlare con nessuno. Era quasi certa che la morte di Gavina fosse stato un incidente ma quello di Efisia a poco dal suo e in circostanze ancora ignote, le avevano fatto rimettere qualcosa in discussione. Loro tre erano legate da un segreto, oltre che da un'amicizia che era durata tantissimi anni. Un segreto pericoloso.
Tornò a casa con l'ansia che le percuoteva il cuore in gola e ci si chiuse così in fretta che le tremavano le mani raggrinzite. Aveva gridato il nome di suo nipote ma sapeva che era ancora fuori come ogni mercoledì, per la serata film con gli amici. Scommetteva che, se gli avesse detto che lo voleva a casa, sarebbe rimasto, ma non voleva rovinargli quella serata speciale con delle persone speciali, poiché i ricordi con loro un giorno sarebbero stati come oro prezioso. Più di tutto, in ogni caso, non gli avrebbe parlato della paura che la attanagliava dalla morte di Efisia.
Corse in cucina e accese la televisione, mettendola per la prima volta ad alto volume, dandole un fastidio necessario: doveva distrarsi. La preghiera per le sue due amiche le aveva dato modo di pensare a lungo su ciò che avevano fatto almeno cinquant'anni prima e una vena di terrore le aveva percorso il corpo come un serpente freddo. Si domandava chi fosse a conoscenza di ciò che era successo ma non trovava risposta. Non ne avevano mai fatto parola con nessuno e, comunque, nessuno avrebbe potuto volere la loro morte per quello. Avevano fatto bene, continuava a ripetersi; era stato triste ma necessario. Era stato a fin di bene. Neppure lei poteva volerle ammazzare, sarebbe stato assurdo, e non ne era capace. E quella non poteva tornare. Sarebbe stata l'unica con un motivo.
Si mantenne la fronte e si accorse che era molto sudata. Si strofinò gli occhi poco dopo, alzandoli verso la televisione, all'ennesima pubblicità, senza davvero ascoltarla.
Era stata una sciocchezza. A fin di bene, ma forse era stata solo una sciocchezza. Erano solo delle ragazze quando era successo e stavano pagando con la vita dopo così tanto tempo. Ansimò, deglutendo, e rizzò le orecchie, quando udì una porta aprirsi, quella d'ingresso. Si era aperta e richiusa subito dopo; si sentivano dei passi. La donna si mantenne il petto e si alzò dalla sedia lentamente, allontanandosi verso l'andito che portava al soggiorno.
«Dani! Giai torrau? [Già tornato?] Ohia, filmi curtu custa diri, ah? [Film corto quest'oggi, eh?]», urlò. Stava per raggiungerlo quando si accorse che il volume della televisione si era abbassato di colpo e si voltò, vedendo che qualcosa faceva interferenza. Deglutì. Il cuore aveva ripreso a battere molto rapidamente e percorse l'andito con la paura dipinta sul volto. La luce era spenta.
«Nun seu Dani [Non sono Dani]», dichiarò una voce a lei familiare, tanto che, per un attimo, pensò di poter stare tranquilla, reggendosi ancora il petto.
«Cosa ci fai qui a quest'ora? Masi fattu pigai un accidenti! [Mi hai fatto prendere un colpo!] Appu lassau opertu? [Ho lasciato aperto?]», si trascinò nel soggiorno. Stava per dirle di accendere la luce ma si accorse che gli occhi di quella sagoma, delineata dalla luce che filtrava dalle finestre, erano rossi come il sangue. Si fermò, tremando impercettibilmente. Era lì per lei.
«Sa bruxa… [La bruxa]», sussurrò, irrigidendo i denti.
Si voltò per correre verso la cucina ma la sagoma balzò come se potesse volare e le arrivò addosso così velocemente che signora Assunta fece appena in tempo a chiudere la porta, spingendola con le braccia e mettendole una sedia davanti. La donna era troppo agitata e questa non riuscì a stare in equilibrio, cadendo. La porta si riaprì con un cigolio fastidioso e l'anziana arretrò, immobile, fissando l'andito con preoccupazione. La strega era sparita. Portò una mano al tavolo e prese il cellulare, in fretta, cercando di comporre il numero di suo nipote, l'unico che avrebbe voluto chiamare, in quel momento. Continuava a sbagliare e iniziò a piangere. Non aveva mai voluto quel telefono e Daniele aveva insistito perché lo avesse e imparasse a usarlo. Non avrebbe mai più rivisto il suo adorato nipote. O la sua amata bambina. Sapeva che era arrivata la sua morte e il momento di pagare per i suoi peccati.
La campanella iniziò lentamente a suonare e lei tremò, singhiozzando.
Compose il numero e portò il telefono all'orecchio, voltandosi verso il televisore che continuava a fare interruzione, ma quello che l'aspettava alle sue spalle era il volto tumefatto della bruxa: i suoi occhi rossi la ipnotizzarono e la sua grande bocca dai denti marci e nera come un baratro la divorò.
«Chi ti pighiri su mali [Che ti prenda il male]».


















Bentornati!
Dovevo postare ieri, lo so, ma… mi sono dimenticata! Aemh, capita anche ai migliori, figuratevi a me XD

E anche Assunta è morta, uccisa da qualcuno che pareva conoscere. Qual era il segreto di Assunta, Gavina ed Efisia? Al prossimo e ultimo capitolo ^_^

Intanto, colgo l'occasione per ringraziare Eirein98 per aver messo Figlia della Terra nella sua lista delle seguite :)

Alla prossima settimana!
Se vi fa piacere, lasciatemi un commento in recensione :)
A presto, chu
^^



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Capitolo 3
*** III Capitolo ***


Figlia della Terra


III Capitolo

Lei era una ragazza incredibilmente sola. Assunta vedeva sempre che se ne stava in disparte, a gambe incrociate e con un libro in mano. Aveva i capelli nerissimi legati in una coda bassa, gli occhiali e le sopracciglia spesse; vestiva di nero e molte ragazze la prendevano in giro. Era diversa da loro: Assunta, come molte altre ragazze della loro età, aveva cominciato a lavorare da ragazzina, mentre lei ancora studiava o fingeva di farlo, dicevano le malelingue, in modo che non potesse sporcarsi le mani. Si sedeva sui gradini della fontana di Piazza Lamarmora e leggeva anche per delle ore, come se potesse spostarsi dal loro mondo al suo, quello immerso in quelle righe, in quelle pagine, in quei libri che divorava uno dopo l'altro. Assunta era incuriosita da lei: erano state nel banco vicino alla scuola elementare ed era sempre stata una bambina molto strana, crescendo si erano perse di vista e avrebbe voluto parlarle, sapere come stava, sapere perché non si sforzava di fare amicizia e di essere un po' come le altre. Così, quel nuvoloso pomeriggio, si strinse la borsa sotto braccio e si tirò indietro i capelli corti, lisci, schiarendosi la gola, avvicinandosi a lei a passo quieto. Non sapeva come intraprendere un discorso, così s'inchinò appena e le sventolò una mano a poco dal viso, attirando la sua attenzione.
«C-Ciao», esordì, schiarendosi la gola ancora una volta. «Sono Assunta, t'arrerc- [ti ricord-]», l'altra la interruppe: la voce ferma, glaciale.
«Du sciu chini sesi [So chi sei]». Le alzò il viso appena, prima di posarsi di nuovo a quelle parole scritte a macchina.
«Oh, mellusu aicci [meglio così]», sospirò, guardandosi indietro per un attimo: uomini leggevano i quotidiani sdraiati sulle sedie del bar davanti, ragazze civettavano intorno a dei ragazzi più presi da se stessi e dai propri capelli che da loro, e bambini tiravano le giacche color pastello delle loro madri, che parlavano e ridevano posando delicatamente una mano alla bocca. Forse cercava una distrazione. Voleva conoscerla ma lei non sembrava interessata a sua volta. Stava per riaprire bocca quando udì il suo nome e si voltò, ritrovando le sue amiche Efisia e Gavina, a braccetto, che la intimavano di avvicinarsi. «Scusami, devo andare», le sussurrò, allontanandosi. Le due amiche la accolsero con un forte abbraccio, trascinandola via.
«Amicizia noa, lè? [Nuova amica, eh?]», rise Efisia, allontanandosi un ricciolo nero dal viso.
«Figuraridda [Figurati]», rispose con sarcasmo, alzando gli occhi al cielo, «Volevo vedere cosa stava leggendo, non fa altro tutto il giorno, cussa in gunis' [quella lì]».
Risero, allontanandosi, seguite a vista dallo sguardo attento sotto gli occhiali della ragazza.

Daniele stava fuori di casa con entrambe le mani alla bocca, continuando a passarsele in viso e ai capelli, in gesto disperato. I carabinieri lo avevano trattenuto fuori e non gli avevano permesso di rivedere il corpo di sua nonna. I vicini erano tutti fuori dalle loro case e guardavano la scena che si stava consumando a pochi passi da loro come avrebbero fatto con una telenovela in televisione e gli si poteva scorgere parlottare e indicare, a volte. Lei stava al suo fianco ma lui continuava a spostarsi, a inchinarsi, a sbattere i piedi a terra, a stringere i pugni e a urlare senza voce. I genitori di Laura gli avevano aperto la porta di casa, promettendogli che poteva stare da loro e con loro quando e come voleva, ma lui non ascoltava, era distante. Portarono fuori sua nonna sotto un telo nero e mancò il fiato a entrambi, fatti allontanare dai carabinieri.
«Dani, andiamo dentro», sussurrò con un filo di voce appena, così asciutta da bloccarle il respiro. «Non ci fanno avvicinare, lo sai». Gli allungò la mano alla spalla ma lui si scansò come se ne avesse paura.
«No, no», si voltò, fissandola ad occhi sgranati, rossi e lucidi, «Adesso… Adesso torno da mia madre. Ho bisogno… Ho bisogno di mia madre», annuì, abbassando per un attimo lo sguardo. Lei immobile. «Lei deve venire qui, ma prima devo andare io da lei», annuì ancora, come se la sua mente facesse domande per poi rispondersi da sola.
«Va bene», tentò un sorriso malinconico. «Vengo con te. Potreste aver bisogno di me. È da molto che non vedo tua mad-».
«No», quasi le urlò e lei sobbalzò, «No. Vado io. Non… Non seguirmi», la intimò, puntandole contro un dito, prima di allontanarsi con passo pesante verso una delle macchine dei carabinieri.
Sua madre le poggiò una mano sulla spalla come per consolarla e lei fissò il ragazzo con sguardo attento, serio.

Assunta era una donnina estremamente tenace, se si metteva in testa qualcosa. Le sue amiche le avevano caldamente consigliato di lasciar perdere quella strana, ma lei si era messa in testa di salvarla dalla sua condizione di solitudine e vittima, e di provare a farle capire com'era stare in compagnia, in amicizia. Convinse Gavina ed Efisia ad uscire tutte e quattro insieme un pomeriggio che non avevano da lavorare, uscendo di casa senza essere viste dai loro genitori, e si ritrovarono in Piazza Sella, fra imbarazzi e risate sottomesse. Gavina in verità era molto in ansia per essere uscita senza avvertire nessuno ed Efisia la spintonava per tentare di tranquillizzarla; era quasi sorpresa di scoprire che anche quella strana aveva il suo stesso timore e si guardava attorno con angoscia e scontento. Si fecero una lunga passeggiata avanti e indietro fra la piazza e le vie adiacenti, fermandosi di tanto in tanto all'ombra degli alberi per far riposare la testa lontana dal sole. Assunta tentava con ogni mezzo di far parlare la ragazza, di metterla a suo agio senza grande successo, ma le altre due continuavano a prenderla in giro, spingendola, ridendo di lei e di quello che diceva appena trovava il coraggio di aprire bocca. Assunta le trovava divertenti ma la nuova arrivata non sembrava apprezzarle allo stesso modo. Un gruppo di ragazzi attirò la loro attenzione e, mentre le tre amiche intrattenevano i giovani, lei se ne stava in disparte a guardare per terra, immobile, ansando come un pesce fuor d'acqua. Assunta sapeva che lei doveva sentirsi fuori luogo ma sperava che provasse a sciogliersi, così le inviò un tale Mario per farle compagnia e lui sembrò gradire. Indossava un completo marrone chiaro e i capelli ben pettinati: sperava fosse il suo tipo poiché, secondo lei, era semplicemente affascinante. Mario le mostrò uno dei suoi migliori sorrisi ma lei lo aveva scrutato appena, riabbassando velocemente lo sguardo, come rapita dal suo mondo interiore. Il ragazzo aveva provato a prenderle un fiorellino giallo da un'aiuola e a offrirglielo in dono, ma lei rifiutò anche quello, scuotendo selvaggiamente la sua testa nera. Assunta sbuffò e tale Mario allo stesso modo. Una volta tornate a casa, Efisia e Gavina speravano di poter in parte dimenticare quella serata imbarazzante, ma Assunta, anche se per un attimo si era sentita decisamente sconfitta, non era pronta a rinunciarci e aveva provato ad avvicinarsi alla ragazza strana ancora, e ancora, e ancora, creando una piccola crepa sul suo scudo invisibile, definendola amicizia.

Daniele aveva deciso di prendere il primo pullman per Carbonia quella stessa sera. Aveva avuto il via libera dai carabinieri per prendere alcune delle sue cose dalla loro casa e, con sguardo smarrito e sofferente, aveva trascinato uno zaino dall'aspetto pesante fin su alla panchina della fermata, senza volere aiuti di nessun tipo. Di tanto in tanto si guardava alle spalle come se si aspettasse di vedere qualcosa e poi riaffondava il viso tra le mani, scuotendo la testa.
Lei lo aveva seguito e lo scrutava con insistenza da dietro la parete di un'abitazione. Le si spezzava il cuore a vederlo in quello stato per sua nonna, d'altronde anche lei stava soffrendo molto: Laura le aveva voluto molto bene e quei sentimenti sembravano voler tentare di lacerarle qualcosa dall'interno. Riabbassò un poco lo sguardo e si volse indietro, udendo dei passi, scontrandosi con un'enorme faccia nera: quella maschera aveva un naso gonfio, la bocca pendeva pesantemente verso il basso in una forma che ricordava quasi un ferro di cavallo e i suoi occhi erano delle fessure piccole e arrabbiate, accentuate dalle rifiniture del legno che rappresentavano le sopracciglia. Gli occhi al di là della maschera erano neri e la fissavano con severità. Lei tremò impercettibilmente, tornando indietro di mezzo passo e sbattendo le spalle contro il muro.
Non sapeva cosa fare. Quell'essere era reale ed era davanti a lei, in una presenza forte e maestosa, nonché inquietante. Prese coraggio e spinse quel mamuthones spalancando i palmi delle mani, tastando il crespo e vischioso manto nero e marrone. Gli scivolò accanto e corse via, sperando di seminarlo.

Per un po', Gavina ed Efisia giurarono di troncare la loro amicizia con Assunta se lei non avesse smesso di invitare ai loro ritrovi quella ragazza strana. Continuavano a ripetere che lei non era una di loro e che non lo sarebbe stata mai, ma, soprattutto, che non era la benvenuta. Quella ragazza aveva iniziato a fare conversazione, anche se breve, e a ridere, per giunta. Quella piccola crepa sul suo scudo invisibile fatta da Assunta con tanto sforzo si era dilatata e aveva stretto una connessione con la loro amica. Loro due avevano tentato più volte di ferirla, facendola apparire ancora più inadeguata a ogni cosa più di quanto da sola già non fosse, ma la sua amicizia con Assunta si era fatta così forte che a lei non interessava più apparire sciocca davanti a lei e ci rideva un po' su, dopo un attimo appena di disorientamento.
Un pomeriggio, le due ragazze erano uscite di casa con l'intento di parlare con Assunta e dirle ciò che pensavano senza impedimenti e, per questa ragione, le avevano chiesto di farsi trovare un po' prima del solito orario, in una via senso unico, piccola e poco trafficata. Imboccarono Via Nuova e girarono a destra, sotto un breve tunnel, arrivando dinanzi a una scena raccapricciante: non solo la ragazza strana era già lì, ma con le mani congiunte e soffiandoci sopra, riusciva a creare dei piccoli giochi di luci e colori, osservata da Assunta che era a un metro da lei, a bocca aperta. Loro due gridarono e la ragazza strana sbatté le mani, facendo svanire la magia.
Assunta spalancò gli occhi, indicando l'altra. «Avete visto anche voi cosa…?». Le due la presero per le braccia e la trascinarono di qualche passo più indietro, sfidando con lo sguardo la poverina che, spaventata dall'intrusione, si era messa a boccheggiare dall'ansia.
«Sesi 'na macca [Sei una (ragazza) matta]», le gridò Gavina, irrigidendo i denti.
«Du sciemmu ga no viasta 'na giusta [Lo sapevo che non eri una (ragazza) sana]», rincarò Efisia, in preda alla collera.
Disperata e sul punto di piangere, la ragazza si rivolse alla sua unica amica, implorando aiuto con il solo sguardo. Assunta la fissava senza parole finché, di scatto, non abbracciò le due amiche al suo fianco, fissandola con sgomento, iniziando a scuotere brevemente la testa. «M'anti chistionau de… de cussasa diaicci[Mi hanno parlato di quelle così]». L'altra iniziò a scuotere la testa a sua volta, sussurrando di non dare retta a quelle voci; aveva preso passo verso di lei quando Assunta si fece indietro, e così si fermò, deglutendo. «Diacci cummenti e tui! [Così come te] No, no, ti credevo adiversa, mi spraxiri. [mi dispiace] Diarerusu! [Davvero] Sembri una…», prese una breve pausa, squadrandola da capo a piedi, mentre lei scuoteva la testa sempre più forte e irrigidiva i denti, «Una… Sa bruxa [La bruxa]».
Le altre due concordarono e, iniziando a chiamarla in quel modo con urla, finirono per farla scappare via. Lei e Assunta si scambiarono un ultimo e lungo sguardo prima che la seconda venne spinta dalle amiche verso Via Nuova per vedere quella ragazza fuggire e gridarle, con tutta Iglesias presente, della sua natura di strega. Tale Mario e il suo gruppo di amici le sbatterono contro e, mentre le tre ragazze si allontanavano, la seguirono.
Assunta si era sempre sentita un po' in colpa per ciò che era successo con quella ragazza ma, quando le ritornava alla mente quel giorno, pensava di aver fatto la cosa giusta: sapeva che le bruxa amavano nascondere la loro vera indole e giunse alla conclusione che quella ragazza mite era solo finzione. La bruxa aveva tentato di ingannarla e si era mostrata in parte per ciò che era con quel trucchetto di stregoneria nera, per convertirla alla sua fede religiosa, qualunque essa fosse. Dopotutto, nessuna delle tre l'aveva mai vista andare a pregare, e men che mai parlava di messe. Giunsero facilmente alla conclusione che era una figlia del diavolo.
Speravano che, per la vergogna di essere stata scoperta, la bruxa avesse abbandonato la loro amata città, ma quando la rividero quasi un anno più tardi con in braccio una neonata, pensarono di intervenire.

Erano comparsi altri mamuthones: tre erano sui tetti e due sulle strade. La seguivano come un'ombra e lei, per quanto corresse, non trovava modo di lasciarseli alle spalle. La gente che dapprima la guardava con interesse poiché pareva scappando da un nemico invisibile, aveva cominciato a ignorarla sempre più, stimolandola a capire di stare diventando lei quella invisibile: pensò che la stavano trascinando in un'altra dimensione. Si fermò, guardandosi attorno, e le macchine e i pedoni scomparvero a poco, lasciando una città vuota e senza rumori, se non quelli dei campanacci che si diffondevano rapidamente nell'aria. Lei deglutì e, stringendo i pugni, tentò di infondersi coraggio, camminando sull'asfalto deserto.
«Va bene», sbatté le mani contro ai fianchi, «Mi arrendo. Sono la prossima?», sbraitò. «Avete ammazzato quelle signore e adesso è il mio turno?», ringhiò con rabbia ed esasperazione, «Si può sapere cosa vi ho fatto da meritarmi questo?».
I mamuthones scesero per la strada e la circondarono come una preda, iniziando a canticchiare, ballando con cadenza ritmica intorno a lei, facendo in modo che i campanacci suonassero sempre più forte. La danza terminò solo quando apparvero gli issohadores. Erano in quattro e giunsero dal nulla, disponendosi a poco dai mamuthones; svolsero dal cinturino in vita la loro arma, il lazo, e presero a picchiettarlo per terra, richiamando all'ordine il loro gregge. Uno di loro si fece spazio fra i mamuthones e avanzò dei passi verso di lei, schiarendosi la voce roca.
«Sai bene perché sei qui», enunciò, intanto che gli altri tre picchiettavano ancora il lazo sull'asfalto freddo. «Non abbiamo ucciso noi quelle donne», strinse con forza il lazo, come colto da un impeto di rabbia, sotto la sua anonima maschera bianca, «ma tu».
Lei ansimò, cambiando improvvisamente espressione, facendosi fredda e scostante. Lo fissò per un breve attimo, riconoscendolo: l'issohadores era lo stesso che l'aveva presa con il lazo quel giorno, a carnevale; per poco non le scappò una risata, al pensiero che fin dal suo ritorno in patria l'avevano inquadrata, senza eppure riuscire a fermarla.

Il pullman diretto a Carbonia non rallentò verso la fermata, poiché non c'era nessuno ad aspettarlo: Daniele se n'era già andato. Vedendo scendere la notte, i genitori di Laura provarono a telefonare a lei e il ragazzo, immaginandoli insieme dalla madre di lui, ma non rispondendo iniziarono a preoccuparsi, guardando con velata nostalgia la pioggia che aveva cominciato a battere sui vetri della casa. Assunta era morta e la loro figlia e il suo amico non rispondevano. Quando udirono il telefono fisso squillare accorsero entrambi in preda all'ansia, rispondendo con il cuore in gola che era tardi, che doveva farsi sentire prima, ma al telefono non era Laura. I carabinieri comunicarono ai coniugi di aver trovato la loro bambina, anche se non dove se l'aspettavano: il suo corpo senza vita giaceva nascosto sotto ai tubi dell'acqua nei bagni delle signore in una stazione. A trovarlo, fu una donna quel pomeriggio, scendendo dal treno. Era in bella vista, sotto ai lavelli. Sembrava essere lì da giorni, eppure nessuno l'aveva mai vista o sentito l'odore. I due si accasciarono al pavimento una dopo l'altro; terrorizzati, disperati, dal dolore, faticavano a respirare.

«Non è mai stato nei miei piani, sapete?», dichiarò lei, reggendosi il petto. Il cielo si era annuvolato e la pioggia aveva inondato la strada in fretta, rendendo i movimenti dei mamuthones più lenti, impediti dalle pelli zuppe. «Non parlo di loro tre… Ma di Laura», le si strinse un nodo in gola a pronunciare quel nome, deglutendo con fatica. «Lei era diventata molto per me… Le volevo bene», confessò, riaffiorando il ricordo di quando l'aveva rivista, in quella stazione. Aveva uno sguardo smarrito, lei. E un sorriso innocente. Aveva deciso di ritornare a casa, nella sua terra, che, anche se non lo sapeva, era quella di entrambe. Si erano conosciute per caso, o così pensava Laura. Lei l'aveva notata per quel suo sguardo perso e meravigliato da turista e, scoprendo le sue origini, aveva fatto in modo di incontrarsi con quella ragazza. Una ragazza sarda era un colpo di fortuna, per lei; soprattutto se era insicura e aveva bisogno di una figura di riferimento. Lei era stata per Laura quella figura e qualcosa di più. «Laura non doveva scegliere di tornare», gridò, mentre il suo corpo prendeva lentamente un'altra forma, squagliandosi al contatto dell'acqua piovana come fosse stato acido, riportandole a galla i capelli corvini e lo sguardo severo. «Mi ha deluso», chiosò.

«Mi… aspettavi?», aveva provato a ridere. «In che senso? Mi prendi in giro? Mi hai seguito? Perché non mi hai detto che-».
Lei l'aveva interrotta, tenendo un sorriso malinconico. «Non sono stata del tutto sincera con te, tesoro».
Laura si era girata e aveva sbuffato, reggendosi al lavello. «Ci mancava questa…», aveva sussurrato poco dopo. «Allora, dimmi».
«Ti ho amata davvero».
Laura si era stretta le labbra con i denti, finendo per ridere. «Mi hai seguito per dirmi che mi hai amata? Beh, wow, grazie… Andava bene così, Diane, ci siamo lasciate, mi pare… Tu non stai bene». Era tornata un po' indietro, quando l'altra aveva provato a fare dei passi verso di lei.
«No», aveva scosso la testa, «Tu non stai bene».
Laura si era sentita improvvisamente mancare e Diane le era corsa incontro per un ultimo abbraccio, proprio poco prima che le ginocchia le cedessero.
«SstI'm so sorry, my dear».
Le aveva appoggiato la mano destra al petto e, lentamente, il corpo di Laura aveva iniziato a vibrare insieme al suo, che stava delicatamente cambiando aspetto, prendendo quello di lei, diventando presto indistinguibili. Gli occhi di Diane si erano spalancati e sul loro specchio si stavano depositando le immagini di alcuni ricordi di Laura, dalla bambina alla ragazza insicura che era diventata.
Aveva pianto. Aveva deciso di lasciare lì il corpo vuoto, sotto ai lavelli, nascosto solo dalla sua magia, quella che le concedeva di poter vivere con il suo aspetto. Si era guardata allo specchio un'ultima volta, passandosi l'indice sugli occhi rossi, prima di prendere il trolley e ripartire. Sapeva che il cambiamento le avrebbe riservato qualche effetto collaterale, così si assicurò di chiudere un po' gli occhi una volta di nuovo sul treno per Iglesias e, soprattutto, di chiudere le finestre con le tendine.

«Ti ha deluso?», le fece eco quell'issohadores, tenendo un tono accusatorio.
Lei annuì. «Potevamo essere felici, insieme. Avevo accantonato la mia vendetta, per lei. Ma non è stata abbastanza forte e io, se perdevo lei, potevo almeno riprendere la mia vendetta», ringhiò, stringendo i pugni.
L'acqua che le scivolava sulla pelle e sui vestiti stava continuando a scavare, mostrando altri aspetti, altri volti, sotto quello che appariva. Visi di donne più grandi, dagli sguardi stressati, fino alla comparsa delle prime rughe. Gli altri la fissavano senza intervenire, come se quell'unico issohadores che le stava davanti le facesse da giudice e giuria.
«L'hai uccisa», tuonò con rabbia, pestando il lazo a terra così forte da far spaventare alcuni mamuthones a lui vicini.
«Dovevo», gridò a sua volta, versando qualche lacrima che le scorreva lenta sul suo volto da anziana. «Era l'unico modo… L'unica cosa che mi avrebbe permesso di rimettere piede qui, nella mia terra, a Iglesias. La Sardegna mi aveva concesso di tornare, sono passati anni e la forza che mi ha spinto via si è indebolita, ma non mi avrebbe mai permesso di recarmi qui, senza essere un'altra, una residente. Io dovevo essere Laura per passare», prese respiro.
«Ti avevano bandito», rispose l'issohadores, «Gavina, Efisia e Assunta. Ti sei vendicata dell'esilio con la loro morte?».
Lei mostrò un sorriso sconsolato, scuotendo la testa, asciugandosi una lacrima depositata sulla ruga di una guancia. «No, no… Loro non mi hanno solo esiliata, caro. Cussasa… m'anti pigau sa pipia! [Loro… mi hanno preso la bambina] Sa pipia 'e cosa mia [La mia bambina]», gridò più forte.
La pioggia iniziò a battere più violentemente e il vento a soffiare contro di loro e gli edifici come mosso da un'incredibile forza, mentre il cielo si faceva scuro come le tenebre.

Assunta era stata indescrivibilmente crudele. Sapeva dell'ostilità più che ostentata di Gavina ed Efisia e non se ne stupiva, ma mai si sarebbe immaginata una tale reazione da lei, che la considerava un'amica. Lei si fidava di Assunta ed era stata così sciocca da pensare di farle vedere cosa sapeva fare, del suo gioco di luci.
Aveva corso e poi camminato per un po', nascondendosi nella fitta campagna sulla collina, abbandonando le strade trafficate. Era giunta ai pressi di un albero e si era appallottolata sulle sue radici, iniziando a piangere tanto forte che quel ragazzo non fece fatica a trovarla.
«Mario?», domandò, alzando lo sguardo appannato, cercando di asciugarsi gli occhi. «Giusto? Sesi rui? [Sei tu?]».
Lui si abbassò il tanto di vederle bene il viso, tirando fuori, poi, un fazzoletto di stoffa da una tasca dei suoi pantaloni, porgendoglielo. «Una ragazza bella come non dovrebbe piangere», disse lui. Vedendo che lei non si era mossa, il ragazzo decise di prendere l'iniziativa, raggomitolando il fazzoletto su una mano e asciugandole il viso dalle lacrime, con accortezza e delicatezza.
Lei restò immobile, forse sorpresa, tirando su con il naso.
«Ti ho vista scappare, prima. Tu e quelle tre non siete più amiche?».
«Io e Assunta», rispose, «Non siamo più amiche, no», scosse la testa, «Efisia e Gavina non sono mai state mie amiche».
«Capisco», sussurrò. Sembrò guardarsi attorno, come alla ricerca di qualcosa, ma lei non pareva essersene resa conto.
«T'arricheriri 'i scusasa [Ti servono delle scuse]», ansimò, tirando ancora una volta su con il naso. «Non ti ho mai dato la possibilità di… sai, farti aconoscere».
«Non importa», rispose dopo un attimo, stringendo le labbra. «Adesso mi aconoscerai», aggiunse, vedendo finalmente arrivare i suoi amici. «Ci aconoscerai tutti».
Quando il gruppo se n'era andato, lei era ancora lì, con alcuni vestiti stracciati e mezza nuda, fra l'erba alta e le radici dell'albero. Anche se avesse potuto gridare e a turno non le avessero coperto la bocca, non l'avrebbe sentita nessuno. Si era sentita umiliata, sporca, tradita e ferita. Si era sentita finita.

L'anziana strinse i pugni con più forza di quanta sembrasse dimostrarne e il vento iniziò a girare attorno a loro con sospetto, mentre una campanella dal suono fine e delicato aveva iniziato a risuonare nell'aria, tanto da rendere irrequieti i mamuthones.
«Hanno preferito assecondare i detti popolari a me…», ringhiò, prendendo un pesante respiro, «Hanno preferito togliere una bambina dalle braccia della sua mamma… Hanno preferito la bruxa a me. E la bruxa hanno ottenuto», recitò infine con una voce metallica forte e disturbata. I suoi occhi si tinsero di rosso e il vento si fece ancora più forte, stringendo i mamuthones, che stavano per perdere il loro ordine. Gli issohadores sbatterono il lazo a terra ma non sembrava avere un grande effetto su quell'antico potere.

Non si era più fatta rivedere in giro. Aveva paura di uscire, di incontrare ancora uno di quei ragazzi o Assunta e le sue amiche e che loro potessero leggerle la vergogna negli occhi. Si era immersa nei libri nuovamente e più spesso di prima, abbandonando gli studi. Lei aveva desiderato così tanto di sparire da aver paura di guardarsi allo specchio, di scoprire cos'era diventata, di capire quanto odio provasse per se stessa e la sua debolezza. Era disgustata e infastidita. Eppure qualcosa cambiò il suo modo di vedere il mondo: aveva iniziato a stare male, a non capire la ragione secondo cui il suo corpo si comportava in modo così dispettoso con lei da non lasciarle più il tempo di finire un libro in un giorno, finché non notò la sua pancia arrotondarsi. Il destino era stato crudele con lei, tuttavia, secondo la ragazza, gli spiacevoli episodi che le erano capitati le avevano allo stesso tempo fatto dono di qualcosa di infinitamente buono. Era un regalo.
Appuntava i cambiamenti giornalieri su un blocco e, invece di leggere un libro, si rileggeva gli appunti scritti precedentemente. Era felice e, per la creatura che portava in grembo, era arrivata a prendere una decisione molto importante: poiché non era sano per un piccino crescere in una casa nella solitudine, pensò che lo avrebbe portato a girare il mondo, alla scoperta delle bellezze e delle cattiverie, per non avere paura di affrontarle come ne aveva avuto lei. Con il suo bimbo al suo fianco, lei per prima pensava che avrebbe vinto le sue paure.
Aveva chiamato Diana la sua bambina. Era piccola e rosa come una bambolina, le manine strette in un pugno, il naso tondo e le labbra fini. Era per lei tutta la forza di cui aveva bisogno.
Ogni pomeriggio aveva preso l'abitudine di prendere la piccola e uscire di casa. Aveva iniziato con il giardino e le vie accanto a casa sua, prendendo grandi boccate d'aria per ogni volta che pensava di allargare un po' le zone sicure del suo giro pomeridiano. Quando riusciva nel suo intento non faceva che guardarsi avanti e indietro, in preda all'ansia, ma era una vittoria a dispetto di quando la sua paura la forzava a fare un passo indietro, stringere forte al petto la sua bambina e tornare a casa con le gambe che tremavano. Non voleva essere debole per Diana e darle un cattivo esempio, così tornava fuori e sfidava a testa alta le strade nuove che le facevano tanta paura. Lei voleva cambiare.
Fu percorrendo una strada nuova del suo giro pomeridiano che incontrò di nuovo Assunta, Efisia e Gavina. Diana aveva iniziato a piangere e lei, credendo che la piccola avesse captato la paura della sua mamma, decise di affrontarle.
In principio, voleva solo salutarle. Ricordava ancora bene i pensieri che le avevano affollato la mente: salutarle a testa alta, sorridere come mai aveva fatto, esibire la sua bellissima bimba per dimostrare di essersi realizzata. Temeva avrebbero scoperto che non era sposata né aveva un padre da dare a sua figlia, ma era talmente fiera della piccola da sfidare i suoi timori per lei. La vergogna faceva parte del passato.
Quando incrociò i loro sguardi, Efisia aveva già preso Gavina sottobraccio per indicarla. Avevano riso come al loro solito, ma non Assunta. Quest'ultima aveva adocchiato Diana per prima, fra le sue braccia, mentre piangeva forte. Lei aveva cominciato a cullarla, camminando verso le tre, ma non riusciva a calmarla.
«Ora 'e prandi? [Ora di pranzare?]». Assunta aveva quasi urlato e nella vietta deserta la voce aveva riecheggiato. Le due ragazze smisero a breve di ridere e fissarono la bimba come cogliendo solo in un secondo momento il nesso con il commento dell'amica. Al contrario, lei non aveva capito e salutò le tre con un gesto rapido di una sola mano, con innocenza, spostando la piccina per reggerla meglio. «Dove hai preso quel neonato?», le chiese con vigore, mettendola in serio imbarazzo.
«Esti filla mia [È mia figlia]», rispose lei, abbassando lievemente il capo. «Diana», aggiunse poco dopo.
«Ti chiedo di nuovo dove hai preso il neonato».
«Esti filla mia [È mia figlia]», insisté lei.
Ma Assunta, Gavina ed Efisia che sapevano bene quanto quella ragazza strana non riuscisse neppure a parlare con un ragazzo, faticavano realmente a credere alle sue parole. Lei era una creatura di Satana, una strega il cui scopo era quello di stravolgere le menti altrui e, le credenza popolari, raccontavano fin troppo bene di come le bruxa si spostavano di culla in culla per rapire bambini e divorarli. Le tre erano donne di chiesa e fede: dovevano sapere tutto su di loro e anche come combatterle.
«Tè bedda [Che bella]», dichiarò Efisia a un certo punto, mostrandole un raggiante sorriso.
«'E berusu [È vero]», aggiunse Gavina, congiungendo le mani.
Assunta scrutò le due per un attimo e dopo annuì, mostrando alla giovane madre un felice sorriso. «Parriri propriu una bedda pipia! [Sembra proprio una bella bambina!] Da pozzu biri? [La posso vedere?]».
Lei si accostò a loro con titubanza poiché la piccola non smetteva di piangere, ma i complimenti ricevuti le avevano fatto così piacere, soprattutto da parte loro, che non riuscì a fermarsi. Doveva solo avvicinarsi, aveva pensato, e poi l'avrebbe riportata a casa. Forse aveva mal di pancia o fame. Assunta la raggiunse e nel vedere la piccola non riuscì a non sorridere, allungando d'istinto le mani verso di lei e afferrandola. Lei stava per tirarsi indietro quando era ormai troppo tardi e, per non sembrare maleducata, lasciò che la prendesse.
«Conosco un qualchecosa per farla smettere di piangere», affermò, iniziando a cullarla. Diana in verità continuava a strillare e probabilmente lo stare con una sconosciuta non faceva che aumentare il suo fastidio, ma lei non riusciva a contraddirla.
Avvertiva il vuoto della bimba sulle sue braccia e, per un attimo, uno strano sentore che sapeva di nostalgia. Allungò le mani verso Assunta per riprendersela ma lei si spinse via facendo due passi indietro e Gavina ed Efisia le si pararono davanti. Non capiva cosa stava succedendo ma iniziò a mancarle l'aria, sentendosi inerme. La sua Diana era lì a poco da lei ma non riusciva a raggiungerla, la stavano spingendo via, le stavano separando. Lei piangeva e non poteva raggiungerla, non poteva cullarla, non poteva darle un bacio. L'ansia prestò generò terrore che si propagò in un attacco di panico: il respiro pesante, la testa le girava e il corpo tremava.
«Diana», sussurrò, «Assunta, sa pipia [la bambina]». Cercò di fare due passi ma le due la spinsero indietro e lei per poco non cadde, reggendosi a stento. «Smettetela», quasi urlò, passandosi la mano sulla fronte. «Sa pipia».
«Smetterà di piangere, ti dappu nau [te l'ho detto]», disse a quel punto Assunta, «Quando te ne sarai andata».
«Bairindi [Vattene]», la spinsero via.
Lei cadde. Tentò di rialzarsi, però il suo corpo era troppo pesante e la terra non stava ferma. Vedeva Gavina ed Efisia sorridere ma non ne era sicura, non riusciva a fissarle troppo a lungo, la sua vista si stava appannando. L'unica cosa di cui era certa era la sua bambina che piangeva, ancora e sempre più forte, tenuta stretta da delle braccia che non erano le sue. Si sentiva fine, piccola, sola, incompleta. Alzava una mano per tentare di raggiungerla ma era troppo distante e, poi, udì ancora la sua voce, quella di Assunta, con decisione.
«Allora non te ne vai?», le diceva, «Non te ne vai?». Le altre due parlavano ma erano bisbigli senza significato, per quanto si sforzasse non riusciva a comprenderle, finché non le vide camminare e distanziarsi, disponendosi in un cerchio intorno a lei. «Te ne andrai, bruxa», le aveva gridato dopo. «Te ne stai già andando».
Silenzio. Il suono di una campanella.
Il mondo che aveva iniziato a girare si era finalmente fermato e non sentiva più Diana che piangeva. Alzò lo sguardo lentamente come se potesse essere accecata dal sole e fissò le tre una dopo l'altra con gli occhi ben strizzati, riconoscendo la sua piccola, vestita di bianco. Capì in quel momento che non l'avrebbe più rivista.
Le giovani donne presero per mano un rosario e, strisciando il pollice avanti e indietro su di esso, cominciarono a pregare, rendendo le loro tre voci una sola forza. La campanella sconosciuta si fece eco nell'aria mentre lei tentava di rialzarsi; strinse così forte gli occhi che cambiarono colore, diventando rossi. Si alzò da terra e il vento si rafforzò, mentre il cielo si faceva grigio, ma era troppo tardi: sentì il suo corpo divenire più leggero e i suoi occhi persero lucentezza, intanto che l'immagine della sua piccola Diana fra le braccia di Assunta svaniva con punti di luce.
«No». A quel punto, non le restò che urlare. «Assunta, ti prego! Sa pipia! Ti prego! No! Sa pipia». La luce la accecò per troppo tempo e si coprì gli occhi, continuando a urlare, finché non udì qualcosa di diverso, caos, risate e tanti piedi che si muovevano verso varie direzioni, confondendola, così li riaprì, lentamente, scoprendo di ritrovarsi in un luogo mai visto.

Il vento si faceva sempre più forte e alcuni mamuthones furono sbalzati via. Il cielo aveva iniziato a tuonare e quella donna stringeva i pugni con più forza e rabbia. Gli issohadores si guardavano attorno con meraviglia, preparandosi a contrattaccare, quando uno di loro, quello che fino a quel punto aveva parlato da solo, non decise di fare loro un cenno con la mano per calmarli, mettendo questa sulla maschera. Dotata di grande curiosità, la signora lasciò che il vento perdesse potenza per permetterle di distrarsi e guardare oltre al viso anonimo e bianco: lui se la sfilava lentamente, lasciando intravedere un sorriso insoddisfatto e triste e un occhio pieno di lacrime sotto il ciuffo castano chiaro.
«Daniele…», esclamò in un sussurro.
La scoperta fece cessare il vento e la pioggia, e appena dopo i tuoni si ritirarono con le nuvole. Una lacrima rigò il viso della donna una dopo l'altra ma si sforzò di sorridere. Aveva tolto a Daniele la ragazza di cui era innamorato e sua nonna, quella che credeva tale. Le era stata portata via la bambina ed era in ogni caso riuscita a rovinare la sua vita e quella di suo nipote, pensò la signora. Gli allungò una mano per raggiungerlo, scorgendo per un attimo il ricordo di Diana vestita di bianco, prima che gli issohadores la legarono con il loro lazo, stringendola.
«Dobbiamo portarti via», bisbigliò lui.
La donna non oppose resistenza e rise, e, mentre i mamuthones tutti suonavano i loro campanacci con i salti di una danza sconosciuta intorno a lei, loro quattro si voltarono e tesero bene la corda sopra la spalla, iniziando a tirare ognuno verso il punto opposto all'altro che stava dietro. Lei si sentì stringere appena e il dolore svanì presto. Scomparve e con lei gli issohadores e mamuthones, lasciando ad Iglesias il traffico del mattino ancora nuovo, con le lunghe file di bambini e genitori verso la scuola, l'odore dolce del pane appena sfornato che portava nel Panificio all'angolo e, naturalmente, le campane della chiesa.


















Terzo e ultimo capitolo :) Mi piace come ho reso la vera protagonista della storia l'ultima a presentarsi, perché Laura era una maschera “potente”: la protagonista sembra lei, è scontato, e invece no, e la mostro solo all'ultimo capitolo. Spero solo di aver reso questa cosa bene anche per i lettori :)

Piccola nota: ci ho pensato solo adesso perché lo davo per scontato ma non lo è: la "x" in sardo non si dice come la si direbbe normalmente, non ha un suono marcato e forte, ma leggero e sfumato, quindi "bruxa" si legge un po' come "brusc[i]a". La i non si legge ma ve la devo mettere per forza, per non leggere brusca XD Che sembra più una bruschetta. Lo stessa regola quindi anche per le altre parole con la x.   


Ci tengo a ringraziare nadine5 per aver messo questa storiella nella lista delle seguite ^^

E così, questa breve storia si conclude qui… Fatemi sapere cosa ne pensate!
Ci rileggiamo in giro, a presto! Chu!




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