Figlia della Terra di Ghen (/viewuser.php?uid=13358)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Capitolo ***
Capitolo 2: *** II Capitolo ***
Capitolo 3: *** III Capitolo ***
Capitolo 1 *** I Capitolo ***
Strinse
le mani sulle ginocchia, provando a sgranchirsi i muscoli e le ossa,
scrutando con disattenzione il passeggero accanto a lei. Parlava
inglese, era sceso dal suo stesso aereo con un gruppo di altre
quattro persone. Ogni tanto ascoltava i loro discorsi e rideva per
sé; non certo per prenderli in giro, tanto più
per passare il
tempo. Guardare oltre al finestrino alla sua destra aveva cominciato
a procurarle una tenue nausea e non voleva peggiorare la situazione,
così aveva chiuso la tendina viola, come avevano fatto molti
altri
passeggeri. Dopotutto, il suo corpo aveva tutto il diritto di
lamentarsi: era stanco dopo aver viaggiato per più di tre
ore tra
bus londinesi, aereo e treno, sballottato a destra e sinistra,
trascinando una pesante valigia. A poco valeva che avesse le ruote,
quella scatola rettangolare aveva il superpotere di incastrarsi
ovunque, anche da ferma.
Aprì
la borsetta che manteneva sulle gambe e, cercando con attenzione,
prese in mano un piccolo specchietto da viaggio, osservandosi con
attenzione negli occhi castani. Aveva le occhiaie. Ci passò
l’indice, come se potesse aiutare a farle sparire, e
passò la mano
fra i capelli legati indietro in una alta coda, assicurandosi di non
avere ciuffi fuori posto. Voleva essere perfetta per il suo ritorno a
casa, nella sua terra, dopo tempo che non ci metteva piede. Ripose lo
specchietto in una tasca interna con velata angoscia e
ansimò,
chiudendo la borsa. Si rifiutò di guardare il cellulare, lo
aveva
spento per non rovinare la sorpresa, anche a costo di non riuscire a
intrattenersi. In ogni caso, il suo viaggio era finito: sentiva di
essere arrivata dalle svolte che prendeva l’autobus, come si
giostrava fra una via e l’altra, le pause nel traffico, le
fermate,
le risa e le voci dei passanti così vicine a una
realtà che le era
mancata, dopotutto.
L’ennesima
fermata e lei strinse la borsetta in spalla, alzandosi dal suo sedile
e saltando l’uomo al suo fianco; da come rideva con gli amici
nei
sedili accanto, sembrava felice che gli avesse lasciato il posto
libero. Salutò con garbo l’autista e lui rispose
appena, chiudendo
le porte automatiche dietro di lei. Appena i suoi piedi toccarono il
marciapiede, si sentì pervadere di nostalgia, spalancando i
suoi
occhi e girandosi intorno, con sguardo alto e fiero, accendendo nella
sua mente tanti ricordi. Le sembrava che tutto fosse diverso eppure
così uguale, al tempo stesso. Corse a riprendere la sua
valigia dal
vano dedicato e l’autobus riprese la sua corsa, lasciandola
sola
lì, a immaginare quante cose erano successe, in sua assenza.
Decise
di muoversi poco dopo, osservata con curiosità dai passanti,
trascinando le ruote sporche e ammaccate del suo trolley.
Attraversò,
badando più alla chiesa non distante, che suonava le
campane,
piuttosto che alle macchine con a bordo uomini spazientiti. Non
avrebbe mai pensato che un giorno quel rumore le sarebbe mancato; a
Londra non davano mai lo stesso suono e non le avevano mai trasmesso
lo stesso torpore. Quella era la sua Iglesias, la città
delle
chiese.
Salutava
con sguardi e sorrisi chiunque le passasse accanto, fermandosi,
quando vide una donna scendere dalle scalette a fianco alla porta di
casa sua. Piegata su se stessa, capelli bianchi e crespi, vestita di
nero come ogni signora di una certa età ormai vedova, con
indosso
una lunga gonna e le calze velate alle gambe, anche se era inverno.
Lei sorrise ancora, avvicinandosi. Quando l’altra si
voltò per
trascinare la sua vecchia e malandata borsa a ruote, quasi non cadde
all’indietro dallo stupore, non trattenendo una risata
goliardica.
«Lauretta»,
per poco non gridò, con emozione, «Lauretta!
Quando sei tornata?»,
rise, cogliendola in un caloroso abbraccio, «ohia,
quasi…
quasi non me ne facevi prendere un colpo». Si mantenne il
petto con
una mano e la ragazza osservò quel movimento come rapita,
riportandole alla mente ricordi lontani. La mano raggrinzita della
signora si portò poi al volto della ragazza, carezzandole
una
guancia rossastra con affetto.
«Sono
tornata proprio adesso», rispose, indicando alle sue spalle,
«Il
bus ha fermato qui vicino».
«Il
bus?», rise, trovando quasi ironico quel
termine così
lontano dalla sua quotidianità. «Su pullmi? [Il
pullman?] Ma
non me ne sarai uscita troppo inglese, adesso? Ti se scarescia su
sardu? [Hai dimenticato il sardo?]»,
gesticolò con una mano,
come se potesse dare più enfasi alle sue parole.
«No,
no», scosse la testa, sorridendo a sua volta, «Come
potrei
dimenticarlo?».
Dimenticarlo?
Era la sua lingua, dopotutto, e un po’ di tempo in
Inghilterra non
poteva cancellare le sue origini, né avrebbe permesso che
accadesse.
Salutò
la donna e si lasciarono. Si fermò per un po’ per
vederla
allontanarsi, attraversando la strada e portandosi verso la chiesa,
con la sua camminata goffa ma svelta. Signora Assunta era la vicina
di casa di Laura da quando era bambina e con la sua famiglia si era
trasferita laggiù, in quelle che erano case nuove, allora.
Quella
donna l’aveva vista crescere e l’aveva amata come
una sua nipote,
festeggiando con lei i compleanni e facendole regali a Natale. Col
sentire quella mano calda nonostante le temperature sulla sua
guancia, aveva trovato fra i suoi pensieri il ricordo di lei in
lacrime, quando la ragazza aveva deciso di trasferirsi
all’estero
per lavorare e provare a essere indipendente.
Si
rivoltò, prendendo un grosso respiro prima di decidere di
suonare il
campanello di casa Pilia e ritrovare mamma e papà sorpresi e
commossi per il suo ritorno a casa. Salì i tre scalini e si
affacciò
alla porta, pensandoci bene. Suonò con titubanza, premendo
il
pulsante appena, quasi con l’unghia, sentendo il suo cuore
farsi
carico e prendere la rincorsa. Quando la serratura scattò,
capì che
a quel punto era troppo tardi per tornare indietro: una donna dai
capelli corti e neri la assalì con un abbraccio ancor prima
di
aprire bocca, portandola dentro, aiutata dall’uomo basso e
brizzolato arrivato a breve, che prese sotto braccio la valigia. Per
poco entrambi non si mettevano a piangere dalla commozione, facendo
sedere la ragazza su un morbido divano pieno di cuscini colorati,
fissandola come solo due amorevoli genitori potevano fare,
scrutandola come se potessero entrarle nella testa e capire il motivo
del suo ritorno a casa ancor prima che potessero chiederglielo.
Sapeva quanto erano paranoici e cominciava già a ipotizzare
le loro
fantasiose teorie.
«Potevi
chiamare», la sgridò amorevolmente
l’uomo, pur non rinunciando a
quel sorriso fiero di rivederla lì, la sua bambina, ritta
sulla sua
schiena e le sue gambe, senza aver avuto bisogno di aiuto per
ritrovare la via di casa. «Andavamo a prenderti
all’aeroporto»,
si passò le mani sui baffi grigi.
La
donna al suo fianco concordò annuendo, con gli occhi lucidi.
«Se
sapevo che stavi tornando, mettevo un po’ in ordine camera
tua… I
tuoi cugini ci sono entrati a giocare la settimana scorsa e
c’è il
letto… no, tutto… è un disordine
unico», faticava a mettere
insieme le parole, talmente era emozionata.
La
ragazza scosse la testa, guardandosi attorno con velata nostalgia. I
ricordi in quella casa riaffioravano uno dopo l’altro: come
il
settimo compleanno e le avevano regalato quella bambola che parlava,
che Laura aveva desiderato tanto; o quando a nove pensò di
imparare
ad andare sui pattini nel soggiorno, rompendo un vaso; le risate con
gli amici e le partite ai giochi di società durante le
feste; o il
suo primo bacio, proprio su quel divano, a quel ragazzino ripetente
che era stato con Laura due lunghe settimane, in terza media. La sua
relazione più lunga con un ragazzo, un maschio.
Fissò i due
genitori con un attimo di angoscia, poiché per quanto Laura
fosse
cresciuta e cambiata, e senza dubbi maturata, non era mai riuscita a
parlare loro della sua omosessualità, e men che mai pensava
di farlo
in quel momento. «Ma figurati, mamma. Sistemo io»,
disse in un
sorriso, «Volevo farvi una sorpresa, per questo non ho detto
nulla e
ho spento il telefono».
A
quelle parole, la donna si emozionò, annuendo.
«Hai mangiato? Vado
a prepararti qualcosa».
Aprì
la porta di camera sua quasi con timore e questa cigolò.
C’era
odore di chiuso e di muffa, ma non ne aveva mai sentito uno
più
buono. Accese la luce e andò alla finestra, sviando una
sedia al
centro della stanza, alzando la rumorosa serranda e aprendola per far
cambiare aria, spegnendo il lampadario. I vecchi peluche e le bambole
erano sparsi per tutta la stanza, in compagnia di cuscini e i
modellini di cavalli: da adolescente, Laura si era impegnata tanto
per mettere su quella collezione che, vedendola a terra, si
morsicò
un labbro per il fastidio. Per fortuna non si era rotto nulla e
pensò
di rimettere un po’ a posto, mentre sua madre le preparava la
merenda. Canticchiando una canzoncina, riportò al suo ordine
i
cavallini sugli scaffali, accanto ai cd di musica e alle riviste, e
agli immancabili libri che aveva letto durante le notti prima di
addormentarsi, e a volte senza addormentarsi affatto. Chiuse la porta
della sua stanza dietro di lei, ascoltando le voci non troppo
discrete dei due che parlavano della loro bambina finalmente a casa,
e sistemò il letto rapidamente, sedendo sopra dapprima con
timore e
poi sdraiandocisi, cercando una posizione comoda. Al momento che si
trovava in quella stanza a fissare il grande lampadario a forma di
mongolfiera, riusciva a ricordare il motivo che l’aveva
spinta a
partire verso una nuova terra: quella voglia di autodeterminazione,
di riuscita, di poter vivere se stessa alla luce del sole, alla
ricerca di un lavoro che la potesse soddisfare. Più di
tutto, però,
ricordava quello che l’aveva obbligata a fare qualche passo
indietro e a tornare a casa: il fallimento. Laura era piena di
speranze, di iniziative, e se in un primo momento pensava veramente
di riuscire nel suo intento, si era ritrovata infine a stare male per
nostalgia e a sentirsi soffocata da un lavoro non soddisfacente e
probabilmente sottopagato. Sapeva che aveva fatto male i suoi conti:
sperava sul serio che una volta raggiunta Londra si sarebbe trovata
in mano una nuova vita piena di appagamento e nessuna
difficoltà?
Probabilmente fare la cameriera per un piccolo localino in un borgo
di Londra non era il suo sogno nel cassetto, tuttavia poteva decidere
di non mollare e andarsene ma restare e tenere duro…
«Te
ne vai?»: la domanda di Diane parve più
accusatoria di quanto
volesse intendere.
Laura
la fissò con occhi lucidi e sconsolati, riuscendo appena a
sostenere
il suo sguardo. «Non prenderla male, tesoro, non ti sto
lasciando»,
specificò, carezzandole i capelli corvini con insistenza,
come se,
con quel gesto, volesse consolare più se stessa che la sua
ragazza.
L’altra
la allontanò da sé, afferrandole la mano che
continuava a scendere
sui suoi capelli con cadenza ritmica. «Ci stai
così male, qui?»,
si guardò attorno, prendendo fiato, «Non abitiamo
in un
appartamento con tutti i comfort e non possiamo comprare tutto quello
che vogliamo a causa del nostro basso stipendio, ma ne abbiamo uno e
pensavo che lentamente saremmo riuscite a costruirci la nostra vita
insieme».
Laura
prese un grande respiro. Vivevano in due in un piccolo alloggio con
due stanze e un bagno, arredato con vecchi mobili cadenti,
l’unico
che si poterono permettere, ma non era quello il problema e Laura
pensava che Diane non l’avrebbe mai capito; non che fosse
stupida o
insensibile, ma la conosceva abbastanza da sapere che i reali motivi
che la spingevano a lasciare tutto erano per lei deboli e
sopravalutati. L’insoddisfazione e la nostalgia della culla
sicura
di casa si potevano sopraffare se non ci si lasciava sopraffare a
propria volta. «Non è questo, Diane…
I-Io ti amo, okay? Ti amo»,
le sussurrò tentando un sorriso, soffocando le lacrime.
«E non ti
sto lasciando, vado e torno, non so quando, ma potremo sentirci via
Skype o… non lo so, troverò una promozione per il
cellulare che ci
permetta di-», si interruppe, fissando lo sguardo contrariato
dell’altra, non riuscendo più a trattenere il
pianto, «di…
restare insieme».
Diane
scosse la testa e calciò il tappeto, colta da un impeto di
rabbia.
«No», tuonò poco dopo, «Va
bene così, okay? Non tornare», la
scrutò immobile, con severità, «Non
tornare».
Fermò
quei ricordi che le bombardavano la testa e si alzò dal
letto con
lentezza, sentendo sua madre bussare alla porta. La donna si
affacciò
il tanto per dirle di andare a mangiare in cucina e lei
annuì,
stirando le braccia contro al soffitto. Il vento si era fatto
più
forte e decise di chiudere la finestra per permettere di lasciare la
porta aperta, ma quando si affacciò, trovò
dall’altro lato del
muro un ragazzo dall’aspetto familiare che chiudeva la
finestra a
sua volta, fermandosi nel vederla, colpito. Le sorrise e
salutò,
così la ragazza ricambiò.
«Sei
tornata?», rise, «Esci che ti voglio
salutare».
Chiuse
la finestra.
Daniele:
quasi non lo riconosceva con quel ciuffo castano chiaro sugli occhi.
Era cresciuto e decisamente cambiato, come modo di porsi e perfino
nel vestirsi, considerando che Laura non lo vedeva solo da quasi un
anno. Morsicò con golosità il grosso panino con
burro e zucchero e,
ancora masticando, riaprì la porta di casa, mostrandosi al
ragazzo
che, seduto sugli scalini, l’aspettava. Nel vederla, non
poté che
ridere di gioia e lei altrettanto, abbracciandosi.
«Non
ci posso credere! Quando sei tornata? Non ne sapevo niente»,
le
sorrise con affetto, appoggiandosi alla bassa ringhiera davanti alla
porta di casa.
«Oggi.
Poco fa. Non lo sapeva nessuno, era una sorpresa»,
annuì,
continuando a mangiare, «Sei a casa di tua nonna,
adesso?».
Lui
annuì, scostandosi il ciuffo dagli occhi castani.
Era
lui quel ragazzino cresciuto quasi sempre con Laura, il nipote della
signora Assunta. Il ricordo di lui e lei che giocavano a rincorrersi
vestiti a maschera con le stelle filanti fra le mani e ricoperti di
schiuma, nelle sere di carnevale, le balenò nella testa con
insistenza: quel ragazzo era importante per Laura; era stato il suo
amico sempre, un fratello, quasi una cosa sola per molto tempo. Lo
scrutò, perdendosi nei suoi occhi grandi.
«Mi
sono trasferito per starle vicino e così lascio i miei un
po’ in
pace», rise sulle sue, tappandosi la bocca con un gesto
involontario, una sfumatura sulla sua timidezza. «E tu? Come
mai sei
tornata? Credevo ti stessi facendo una vita inglese, che ti fossi
ormai abituata ai tè delle cinque».
«No»,
sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «Non era
proprio… come me
l’aspettavo».
Al
contrario, il ragazzo abbassò lo sguardo, fissando un punto
immaginario. Riprese a ridere dopo un attimo, goffamente, grattandosi
la nuca. «Senti… è da quando sei
partita che ho in testa questa
domanda e non riesco togliermela dalla testa
perché… beh, sì,
vorrei che tra noi… le cose fossero a posto».
«E
non lo sono?», domandò, corrucciando gli occhi,
facendosi curiosa.
«Sì,
appunto». La mano sulla bocca, immancabile.
«È che… non vorrei
che te ne fossi andata perché… per
quello… sai», rise, mentre
quell’immagine di lui imbarazzato si metteva a fuoco fra i
suoi
pensieri.
Lei
emise un sospiro, voltandosi quasi per un attimo, il tempo di pensare
bene a quello da dire. «Non c’entri con la mia
partenza»,
sorrise, annuendo, «Ma figurati».
«Ti
ho detto che mi piaci e una settimana dopo parti per Londra»,
rise
lui, «Strano».
«Ti
ho detto che non potevo ricambiare… in quel
senso».
«Sì,
sì. Hai avuto relazioni, a Londra?», la
scrutò.
«Si
chiama Diane».
«E
come fate adesso che sei tornata?», ridacchiò.
«Non
facciamo», rispose, «Ci siamo lasciate».
La
sua faccia si piegò con sorpresa, girando passo verso la
porta della
casa accanto. «Te ne sei andata da qui dopo che ti ho detto
che
avevo una cotta per te, e torni qui quando ti sei lasciata con la tua
ragazza londinese», annuì, stringendo le labbra,
«Alla grande».
«Non
è come credi», lo spintonò e lui ne
approfittò per balzare dagli
scalini, raggiungendo la sua abitazione.
La
notte era scesa molto rapidamente e sottolineava il contorno degli
edifici di un bagliore azzurro. Le stradine in ciottoli erano
scivolose ma quella signora ci camminava sopra con tale abitudine da
non guardare neppure dove metteva i piedi. Vestita in nero di tutto
punto, continuava a sistemarsi con ostinata perfezione il fazzoletto
che le teneva nascosti i capelli bianchi, stringendo la sua borsetta
ogni qual volta che vedeva un ragazzino correre verso di lei; li
guardava passarle davanti e borbottava, infastidita che non fossero
ancora nelle proprie case. Odiava che i marmocchi non avessero
più
regole com’era stato invece per lei, quando era giovane; i
tempi
del coprifuoco e del rispetto per i più grandi, oltre al
fatto che
era proibito uscire senza genitori o altri parenti a seguito, a
quell’età. Continuava a borbottare lungo la
strada, incurante che
qualcuno la vedesse parlare da sola. Lei non parlava da sola, ma era
infastidita. Che la vedessero, pensava, tanto era anziana, e per
quanto ne sapevano quelli là, poteva star recitando un
rosario.
La
donna proseguì ancora qualche passo tenendosi al lato
sinistro dei
caseggiati, alzando gli occhi agli stretti balconi al lato destro,
schifata da come stessero cadendo a pezzi uno dopo l’altro,
invecchiati, tra la muffa e il tempo che li stava portando via,
proprio come lo splendore originario di quella città a lei
tanto
cara. Sentì dei passi dietro di lei e camminò
più velocemente,
girandosi indietro solo un attimo, il momento per vedere che non
c’era nessuno e che era solo la sua immaginazione. Arrivata
alla
porta di casa, tirò fuori la chiave in un seguente
borbottio,
colpevolizzando i ragazzini che amavano fare scherzi agli anziani. Ci
si infilò dentro e chiuse di fretta, impaurita, accendendo
la luce.
Deviò un tavolo tondo e ci poggiò la borsa,
cominciando a
spogliarsi, raggiungendo l’andito dopo la stanzetta
d’ingresso
che faceva da soggiorno. Spense la luce della stanza ma quando
udì
un rumore la riaccese di fretta, guardandosi intorno. La donna
spalancò gli occhi e deglutì, facendo due passi
verso il tavolo: la
sua borsa era sparita. Guardò sotto al tavolo ma non
c’era nulla,
a parte un po’ di polvere. Si rialzò lentamente,
aiutando la
schiena con le mani, e quando si rivoltò ebbe un sobbalzo,
vedendo
la sua borsa e il suo contenuto sparpagliato per l’andito. Si
avvicinò con cautela, ormai tremando dalla paura, udendo una
campanella suonare dentro la sua casa. Era una casa vecchia costruita
con pietre e non di mattoni, per cui il suono si disperdeva bene e in
fretta.
La
donna stava per dire qualcosa, reggendosi il petto e le gambe che si
mantenevano ferme appena, ma la campanella suonò
più forte e più
forte, finché la vecchina non cadde per terra e
tentò un urlo,
bloccato da un’ombra: «Chi ti pighiri su mali [Che
ti prenda il
male]», sussurrò questa con una voce
forte ma disturbata. La
signora spalancò gli occhi e la bocca, ansando come un pesce
fuor
d’acqua, fino a quando i suoi occhi neri persero lucentezza,
diventando bianchi e inespressivi. L’ombra sparì
veloce con una
folata di vento che aprì e richiuse l’unica
finestra, lasciando il
corpo cadere sulle mattonelle fredde, senza vita.
Laura
non aveva mai avuto molte amiche, ma quelle che aveva erano dei
piccoli tesori. Appena saputo del suo ritorno in patria, le tre
ragazze sono corse da lei per festeggiare, facendosi lunghe camminate
avanti e indietro per Via Nuova, la Via Matteotti battezzata
così
dai suoi cittadini ancor prima di avere un nome ufficiale e passato
nelle mani delle generazioni a venire. Sedute davanti a un tavolino
mangiando patatine e bevendo cola, riaccesero i loro ricordi del
liceo e delle loro vicissitudini, ricordandosi della loro amicizia
nonostante il tempo passato. Le guardava parlare e ridere e lo faceva
a sua volta, lasciandosi trasportare dai forti sentimenti che Laura
provava per loro. Pagarono al locale e salirono per la strada adibita
ai soli pedoni, mentre la calca si faceva più numerosa.
Passò
qualche bimbo vestito in maschera e nessuna delle quattro
poté
credere che, ridendo e scherzando, distratte dal ritorno della loro
amica, avevano perso la cognizione del tempo: febbraio, carnevale.
«Stavamo
davvero per perderci i mamuthones, quest’anno»,
disse una delle
tre, improvvisatasi capogruppo, facendo cenno alle altre di seguirla.
«Non che sia chissà cosa», rise poco
dopo, a bassa voce, «Tutti
gli anni sempre uguale».
Risero,
non mancando di darle ragione. Tuttavia, per la loro amica era
qualcosa a cui non avrebbe rinunciato anche quest'anno,
poiché quei
costumi erano simbolici, erano sardi e non esistevano da nessun'altra
parte del mondo, erano il suo effettivo ritorno a casa.
Le
quattro ragazze si fermarono ai pressi di un negozietto e lasciarono
passare della gente dietro di loro, ascoltando i rumori dei
campanacci che si avvicinavano. Una delle amiche guidò le
altre ai
piedi della fontana vuota e sporca in piazza Lamarmora e si
spostarono verso il negozio degli abiti da sposa, per non restare in
mezzo: loro stavano arrivando. La folla
seguì presto il loro
esempio e Via Nuova diventò un lungo fiume biforcato, in
loro
attesa. Qualcuno rise, probabilmente dei bambini, e la gente
iniziò
ad alzare gli occhi verso i cornicioni delle vecchie case e i balconi
decadenti, dove due uomini vestiti di nero e con indosso grosse
pellicce nere e marroni si arrampicavano, provando a fare qualche
passo brusco per mettere in ansia gli spettatori e alcuni urli di
gloria: i mamuthones erano arrivati. I due uomini proseguirono sopra
una casa dietro l'altra, seguiti dagli sguardi curiosi e spesso
stupiti, anche se non facevano nulla di nuovo da sempre. Quando
scesero, tenendosi stretti ai tubi dell'acqua, il resto dei compagni
erano arrivati: i mamuthones indossavano grosse maschere nere dagli
sguardi arrabbiati, a volte infelici, o disturbati. Erano grossi e
camminavano quasi dondolando, ricoperti di pelliccia nerissima e
grandi campanacci. Se ne andavano in giro a infastidire la gente e
molti si tiravano indietro, soprattutto i più piccoli, con
paura.
Gli issohadores arrivarono a breve: maschere bianche e squadrate in
volto, indossavano un capello scuro sulla testa tenuto stretto da un
fiocco al mento, casacca rossa e pantaloni larghi e bianchi, tenuti
stretti dagli stivali neri. Erano lì per tenere tranquilli i
mamuthones, per seguirli e non farli disperdere: erano i pastori e
loro il gregge. Tuttavia, anche loro incutevano timore fra la folla:
usavano lanciare il lazo per acchiappare i mamuthones ma, spesso e
volentieri, sbagliavano e catturavano qualche passante. Lo facevano
apposta, era la loro esibizione. Ruotavano attorno al bestiame con
cadenza musicale e lanciavano il lazo. Lei e le tre amiche si
tirarono un po' indietro ma uno di loro sbucò dal nulla,
forse in
mezzo alla calca, e scrutò le ragazze con estrema
attenzione, sotto
la maschera. L'issohadores distese le mani verso il cielo e strinse
la corda con fermezza, pronto al lancio. Lei lo fissò a sua
volta e
il lazo la afferrò, stringendola appena. Qualcuno dietro di
lei
rise, forse felice che non fosse il suo turno, e le ragazze del
gruppo fecero altrettanto, congratulandosi, battendo le mani. I due
si fissarono intensamente, senza muoversi, finché i
mamuthones non
ripresero il loro cammino e lui fu costretto a lasciare la presa,
continuando a fissarla, fino a sparire dietro la gente.
«Okay,
io mi sarei cagata dalla paura», accennò una
risata una delle tre
ma lei non si mosse, alla ricerca dello sguardo di quel ragazzo
mascherato che si sentiva ancora addosso. Prese passo ancora prima di
avvertirle e la seguirono fra la massa di gente, ma lo spettacolo
carnevalesco stava continuando e fra i ragazzi vestiti di rosso e
bianco non sembrava trovare quello che cercava.
«Stai
cercando vendetta?», rise una delle amiche, con innocenza,
quando
lei si voltò per osservarla con sguardo interrogativo, quasi
arrabbiato.
«Cosa?
Cosa hai detto?».
«Se
cercavi vendetta su quello che ti ha legata», rispose,
scrollando le
spalle, «Cavolo se sei strana».
Lei
scosse la testa e poi sorrise, chiedendo scusa. «No,
è che quello
aveva uno sguardo strano, mi ha fatto impressione. Volevo capire chi
è».
«Eh,
buona fortuna. Questi staccano tardi, ma con tutta la gente che
c'è,
poi, mica ce la fai a seguirli», esclamò un'altra.
La
costrinsero a lasciar perdere e ad andare verso Piazza Sella per una
passeggiata fra le stelle filanti, ma lei continuava a essere
altrove, a quello sguardo sul suo.
La
donna chiamò sua madre al telefono per tutto il giorno.
Aveva fatto
la pasta al forno come piaceva a lei e ne aveva fatta tanta,
così
decise di dividerne un po' e portargliela, ma non rispondeva al
telefono dalla mattina. Parcheggiò la sua panda sulle
strisce gialle
conscia di non poterlo fare, giustificando se stessa che avrebbe
fatto in fretta, e corse al lato passeggeri per prendere il vassoio.
Chiuse a chiave e camminò a passi decisi, facendo attenzione
al
cemento ricoperto di schiuma colorata, borbottando sui ragazzini che
spruzzavano ovunque con le loro bombolette senza curarsi di chi, come
lei, indossava i tacchi. Mantenne il vassoio con una mano e con
l'altra si reggeva la sciarpa al collo per il freddo, camminando
sulla scivolosa strada in ciottoli. Alla porta di casa di sua madre
bussò ancora prima di suonare, e si affacciò alla
finestra
dell'ingresso che faceva da soggiorno, ma non vide niente.
Bussò
ancora, più forte, e la chiamò. Infine
sbuffò, appoggiando sul
cornicione della finestra il vassoio con la pasta al forno e cercando
la copia delle sue chiavi in borsa, tirandosi indietro i capelli,
seccata. Spinse la chiave e girò, aprendo la porta, tornando
indietro per recuperare il vassoio. «Mamma?»,
chiamò, «Sei in
casa o no?». Spense la luce e poggiò il vassoio
sul tavolo tondo,
inumidendosi le labbra e tastando il rossetto.
«Mamma?». Vide una
gamba a terra e corse per raggiungerla, inchinandosi come meglio
riusciva, sui tacchi. Scosse il corpo della donna appena, colta da un
impeto di paura, e si distanziò pronta per guardarsi attorno
e
urlare con tutto il fiato che aveva in corpo.
L'improvvisa
morte della signora Gavina si era sparsa in fretta in centro. Da
quelle parti la conoscevano in molti, anche solo di vista: andava a
comprare le cose nel negozietto sotto casa, le verdure in quello poco
più avanti, e il pane al mercato. La vedevano spesso,
passava tutte
le mattine e salutava sempre chiunque con un sorriso, prima di
vederla borbottare per sé. Era una donna un po' acida,
ammetteva
qualcuno, ma tutti le volevano bene. Avevano trovato casa sua in
ordine a parte la borsetta che era stata gettata nell'andito di casa;
il medico legale dichiarò che era stata stroncata da un
infarto,
proprio dopo essere tornata a casa dalla messa serale. Un vero lutto
per tanti, anche per signora Assunta, che quella mattina era uscita
prima del solito per andare in chiesa e pregare per lei.
«Erano
molto amiche da giovani», le disse sua madre, quando
udì la donna
uscire di casa molto presto, trascinando la borsa a ruote.
«Poverina.
La conoscevo anche io ed era una brava persona, forse un po'
scorbutica».
«Mi
dispiace», rispose lei, annuendo. Soffiò il latte
bollente e, con
sguardo malinconico, scrutò oltre la finestra, agli alberi
lontani.
Laura non aveva mai conosciuto signora Gavina; ci pensò
finché non
notò qualcosa di strano accanto a un albero.
Strizzò gli occhi e
allungò lo sguardo, cercando mettere a fuoco. Quella figura
nera e
marrone stava sopra il tronco di un albero e lei spalancò
gli occhi,
non credendolo possibile; lasciò la tazza sul tavolo e corse
alla
finestra, affacciandosi: quel mamuthones la fissava a sua volta.
«Laura,
finisci in fretta, così mi fai compagnia al
mercato».
Sua
madre le distolse l'attenzione e si girò, per annuire, ma
quando si
rivoltò quella maschera non c'era più.
Benvenuti
a una mia nuova storia ^_^
Figlia
della Terra è diversa da precedenti racconti che
ho scritto
perché l'ambientazione non è esattamente quella
che preferisco, ma
colta da un impeto di ispirazione dato da un contest ho voluto
provarci lo stesso :) Non è mia abitudine ambientare
ciò che scrivo
in Italia (infatti preferisco luoghi più lontani come gli
Stati
Uniti o il Giappone, creando in ogni caso città che
realmente non
esistono) e men che meno in un luogo in particolare e definito come
in questa, quindi è un po' un azzardo.
Per
scrivere per il contest cui questa storia partecipa, mi sono fatta
una bella ricerca tra creature sovrannaturali semisconosciute,
girando sul folclore internazionale e poi italiano, approdando in
Sardegna. Avevo in mente un'altra trama simile prima di arrivare a
questa che vedeva un'altra creatura, ma credo che infine Figlia
della Terra mi sia riuscita meglio in ogni caso.
Non
credo di essere arrivata esattamente dove volevo e sicuramente
avrò
sbagliato qualcosa, ma caspita se è mi è costata
fatica scriverla.
È stato per me molto difficile ma, per quanto vale, ne sono
pure
soddisfatta.
Spero
possa piacere anche a voi e che il campidanese (dialetto del
sud-ovest della Sardegna) non infici troppo la lettura :)
APPUNTO:
Iglesias,
la città delle chiese: il nome
“iglesias” viene dal sardo is
cresias, cioè le chiese.
Più profetico di così non si
può: ci sono parecchie chiese, ad Iglesias. Il nome viene
attribuito
anche alla dominazione spagnola, e significa sempre chiese.
Il
contest da cui ho preso ispirazione è questo (che poi sia
praticamente senza traccia e che prendo le ispirazioni dal nulla sono
dettagli): Trick me, deceive me! indetto da graceavery.
E
scade oggi, ho fatto appena appena in tempo per partecipare ^_^
I
capitoli sono solo 3 e, se tutto va bene, ne posterò uno
alla
settimana! Siccome non so se ce la farò domenica prossima,
nel caso
aspettatevelo per lunedì.
Se
vi va piacere, lasciatemi un commento in recensione :)
A
presto, chu!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** II Capitolo ***
C'era
molta gente quel pomeriggio
ma nessuno osava fiatare e si udiva appena qualche bisbiglio. In
molti si erano presentati per recare omaggio e dare un ultimo saluto
a signora Gavina, e sua figlia si spostava scricchiolando sulla
ghiaia con i suoi tacchi neri a uno a uno fra i presenti per
ringraziare tutti di esserci in quel giorno per lei così
triste.
Sua madre le aveva pregato di
farle compagnia ma Laura non aveva mai conosciuto quella donna e lei
aveva paura di sentirsi un po' in fuori luogo, dandole fastidio la
giacchetta nera che aveva dovuto indossare per l'occasione. Signora
Assunta le vide a distanza e si accostò a passo svelto in
compagnia
di un'altra donna, più bassottina e anche lei dai capelli
corti e
bianchi, che salutarono entrambe con un abbraccio.
«Mancu mali ca
c'è genti, lè
[Meno male che
c'è
gente, eh]»,
sussurrò
quella donna, con un accennato colpo di tosse.
Signora Assunta
annuì e la madre
di Laura la seguì poco dopo.
«Beh, dai, era molto
conosciuta», aggiunse quest'ultima, «certo che
doveva venire tanta
gente».
«Eh, ma du scisi
cumment'esti…
[ma sai com'è…] Gavina a tempo ha litigato con
molti», le ricordò
l'altra.
Lei ascoltava senza proferire
parola, finché quella donna non la investì con
un'intensa e curiosa
occhiata.
«Filla rua,
lè? [Tua
figlia, eh?]»,
domandò, continuando a fissarla, «Ugualisi [Uguali]»,
tentò un sorriso e con una mano le carezzò una
guancia, mettendola
in imbarazzo.
Sua madre annuì e
lei si
distanziò di mezzo passo, per non darlo troppo a vedere.
«Piacere
di conoscerla, sono Laura».
«Bellu nomini [Bel
nome]», sorrise,
«Io
Efisia. Nome antico», bisbigliò, dando una veloce
occhiata a sua
madre, che sorrise a sua volta.
La gente iniziò a
camminare con
lentezza inoltrandosi verso il cimitero e loro quattro seguirono gli
ultimi in coda. Lei allungò lo sguardo alle tombe che
conosceva a
memoria, ritrovandole così diverse e così uguali,
talmente antiche
da essere quasi un monumento, fra angeli e bambini. Si
guardò
attorno con curiosità, non vedeva l'ora che la internassero
per
tornare a casa, quando il suo sguardo fu catturato da ombre che si
muovevano furtive fra bare lontane. Erano due, forse. Ed erano
veloci, tanto. Lei le seguiva con gli occhi al punto da inciampare su
una pietra e reggersi con le gambe all'ultimo, ritrovando quelle
ombre. Si erano spostate: erano a qualche bara più vicina.
Deglutì.
Si voltò verso il resto della veglia ma nessuno oltre lei
sembrava
interessato a quello che stava succedendo, così si
voltò per
cercarle ancora ma erano scomparse. Cominciava a credere che era solo
frutto della sua immaginazione. Un uomo le andò quasi sopra
un piede
e si voltò infastidita, bloccandosi, quando
scoprì che le ombre non
c'erano più perché chi ne era proprietario stava
dietro di lei, a
una decina di metri: erano due mamuthones, in piedi, con maschere
nere e lunghe, arrabbiate. I campanacci sembravano ricoprire tutto il
loro pelo nero. L'uomo le schiacciò il piede ancora e si
costrinse a
continuare il cammino, tenendosi più stretta a sua madre e
signora
Assunta.
«Vedi mamuthones
ovunque?».
Daniele rise così forte da darle quasi fastidio.
«Mi sembra di
diventare matta»,
sbottò lei, «c'è ben poco da
ridere».
Lui sfogliò con gli
occhi le
carte nella mano di lei come se avesse potuto leggere quello che
nascondevano e poi si decise, gettando una carta blu al tavolo, o
meglio sul muretto che faceva da tavolo. «Evidentemente ti
mancava
così tanto la Sardegna che adesso un suo simbolo ti
perseguita»,
pescò una carta, mettendo la mano alla bocca.
Lei sbuffò.
«Guarda che non sto
giocando, ho visto davvero due mamuthones che mi fissavano, al
cimitero». Si grattò la nuca e sbuffò
ancora: le carte in mano non
la aiutavano per niente.
Daniele la scrutò
attentamente e
le mostrò l'unica carta in mano, estraendo un sorriso
trionfante.
«Uno!»,
gridò, gettandola sulle altre, mentre lei buttava via le
carte nella
sua mano sul muretto, sparpagliandole dappertutto. «Non
giocavi a
Uno
a Londra?», rise, gustandosi la vittoria. Per poco, non lo
vedeva
alzarsi e sgambettare per la felicità.
Lei stava per rispondere ma un
uccellino le volò accanto e si poggiò sul
tronchetto di un albero,
ricordandole il mamuthones che aveva visto dalla finestra. Osservando
il suo sguardo perso nel vuoto, il giovane le gettò una
carta
contro, richiamando la sua attenzione.
«Vedi un altro
mamuthones? Qui,
adesso?».
«Smettila di
prendermi per il
culo», gli rigettò la carta addosso e una signora
coprì il sole,
facendo ombra ai due giocatori.
«Su mamuthones? [Il
mamuthones?]»,
esordì
una voce roca dall'ombra. «Chini biri su mamuthones? [Chi
vede il mamuthones?]»,
rise la donna, aprendo le braccia e aspettando una reazione.
I due sorrisero e lei si
alzò da
terra lentamente, andando ad abbracciarla. «Ciao,
nonna».
«Laura»,
rispose il ragazzo,
«Dice che i mamuthones la perseguitano».
L'anziana sorrise, scrutandola
appena, passandole la mano sul mento, in una carezza. «Ohi
ohi,
nepori mia… [nipote
mia] I mamuthones
fanno paura perché sono selvaggi, diciamo, ma non sono
cattivi. Ih,
tutte qui le disgrazie», ansimò, ridendo e
scuotendo la testa,
reggendosi meglio la borsa nera sotto spalla. «Se proprio ne
vogliamo… Ce ne sono altre di creature sarde che devono fare
paura
davvero».
«Tipo?»,
le chiese Daniele con
curiosità, mentre la ragazza si risedeva al suo posto e
riprendeva
le carte per formare un mazzo.
«Tipu sa bruxa [Tipo
la bruxa]», annuì
ed
entrambi si bloccarono, fissandosi per un momento. «Non la
conoscete? La bruxa è una strega. Ce n'era una, qui, anni
fa…».
«Qui
dove?», domandò la
ragazza, reggendosi le ginocchia e lasciando le carte da un lato del
muretto. Daniele si strinse le labbra e annuì alla domanda.
«Qui a Iglesiasa [Iglesias]»,
si passò una mano sul mento, «Si diceva che
l'avevano bandita
perché l'avevano trovata con una neonata in braccio e la
bruxa se ne
ciba… Sono racconti popolari, la bruxa è
pericolosa».
Lei storse un sopracciglio.
«L'hanno solo trovata con una neonata in braccio ed
è bastato per
bandirla?», alzò un poco la voce e Daniele la
fissò per un
momento. «Non è un po' poco?».
«L'ha detto: la
bruxa si mangia
i neonati. È una motivazione sufficiente, mi
pare», lui accennò
una risata, indicando l'anziana.
«No»,
obiettò, «Detto così
fa pensare che l'abbiano bandita solo perché l'hanno vista
con una
bimba in braccio, che potrebbe voler dire molte cose. Non la stava
mangiando», fissò l'uno e poi la nonna, che
scrollò di spalle. «La
bambina poteva anche essere sua sorella, sua nipote o sua
figlia».
«Sì,
certo», rispose lui
sarcasticamente, invece la nonna scuoteva la testa.
«Ohi, nepori
mia… [nipote
mia] Pensi subito il
bene, ma una bruxa è solo una strega, e non ci si
può fidare delle
streghe». Lei abbassò lo sguardo e
deglutì, intanto che la signora
distribuiva un po' di caramelle che aveva trovato nella borsa ai due,
facendo aprire loro bene le mani. «Andatevene dentro a
giocare,
piccioccusu. [ragazzi]
Che qui si sta facendo freddo, non lasciatevi ingannare da quel bel
sole che è uscito che poi vi ammalate. Siamo a febbraio,
dai».
Entrambi si alzarono, pronti
per
rientrare in casa.
Il viaggio in treno sembrava
volesse crearle problemi alla pancia più di quanto non ci
avesse già
pensato prima l'aereo. Questo rallentò sui binari in vista
dell'ennesima stazione, dove i passeggeri diretti a Iglesias
avrebbero fatto scalo, e Laura si alzò in piedi, tirando con
sé il
trolley fino alle porte automatiche. Quando queste si aprirono, Laura
fu una delle prime a scendere, quasi spintonata, ma non aveva voglia
di ribellarsi. Stanca e affamata, si guardò in cerca di un
distributore automatico senza risultati, così decise che si
sarebbe
fatta una corsetta al bar lì vicino prima di ripartire. Si
affacciò
ai bagni della stazione e, vedendo che nessuna fila le avrebbe dato
filo da torcere, trascinò il suo trolley fino al bagno
dedicato alle
signore, chiudendo la porta alle sua spalle. La porta interna era
chiusa e accostò la valigia ai lavelli, poggiando i palmi
delle mani
sul piano e affacciandosi al grande specchio. Aveva le occhiaie,
constatò. Passò le dita sui capelli sciolti e li
smosse un po',
sbuffando. Pensò di sembrare un cadavere. Amareggiata,
sfilò il
cellulare dalla borsa e diede una veloce occhiata a Facebook,
incappando su un post di sua madre raffigurante dei gattini.
Ansimò
e si morsicò un labbro, pensando che era decisamente
arrivato il
momento di avvertire i suoi del suo ritorno a casa. Si sentiva
estremamente sconfitta e si vergognava molto, ma non aveva
più
alternative. Iniziò a digitare quando la porta del bagno si
aprì e
lei restò a bocca aperta, con il cellulare a mezz'aria. I
capelli
corvini raccolti in una coda alta, sguardo serio e irremovibile,
quasi senza espressione. Diane.
Laura sorrise ma era troppo
sorpresa per fare nient'altro, e si guardò attorno con un
po' di
imbarazzo, come appena scoperta in un momento solo per lei da una
persona importante.
«D…
Diane? Cosa… Cosa fai tu
qui?».
«Ti
aspettavo».
Signora Efisia era
un'abitudinaria. Usciva presto per fare la spesa e tornava a casa per
preparare il pranzo, che la impegnava molto. Amava cucinare.
Preparava con cura e apparecchiava la tavola, aspettando che il
marito, ormai pensionato da un po', tornasse dall'orto. Mangiavano
con la televisione rigorosamente spenta e, mentre lui usciva di
nuovo, lei spazzava in terra e lavava i piatti. Dava una pulita alla
cucina e al bagno, per poi tornare a cucinare per la cena, e
così
uscire per andare in chiesa, fino a che la messa serale non le
avrebbe dato il permesso di tornare a casa. Quel pomeriggio si era
portata avanti coi lavori e aveva già finito di preparare la
minestra per la cena, così spense il fornello e corse al
bagno,
armandosi di straccio e prodotto spray. S'inchinò per lavare
la
vasca, spruzzando il prodotto sulla superficie, ma udì
qualcosa
sbattere in cucina e si alzò con fatica; ormai la vecchiaia
cominciava a farsi sentire. Affacciandosi alla porta di cucina, vide
che la porta finestra che portava fuori si era spalancata e che il
vento aveva aperto tutti i suoi pensili, facendo cadere fogli e
centrotavola. A passo svelto si mobilitò per chiuderla ma il
vento
si fece ancora più forte, costringendola ad arretrare,
finché non
udì l'acqua del bagno scorrere e, chiamando il marito,
lasciò
perdere la porta finestra e tornò indietro. Il marito non
c'era ma
l'acqua della vasca era così piena da salire sul bordo e
gocciolare
per terra. Lei corse talmente veloce a chiudere i rubinetti che
scivolò sulle pianelle bagnate e sbatté la testa
con forza, udendo
solo allora il suono di una campanella. Cercò di urlare,
chiamando
il marito, ma nessuno poteva sentirla. Un'ombra si distese lungo
signora Efisia e aprì la bocca contornata da denti fini e
stretti,
forse rotti e marci. «Chi ti pighiri su mali [Che
ti prenda il male]»,
recitò quella voce disturbata, e la povera donna ansava
ingoiando
l'acqua che scendeva copiosa dalla vasca, finendo per farla affogare.
Lei si svegliò di
soprassalto,
toccandosi il petto agitato. Quegli stupidi mamuthones non riuscivano
a lasciarla in pace neppure durante il sonno. Si posò adagio
sul
cuscino, tremando come una foglia, e tentò di richiudere gli
occhi;
quelle maschere nere le apparivano come nebbia e li riaprì,
sbuffando. Decise di alzarsi e mangiare qualcosa, forse andare in
bagno e, magari, cercare su internet qualcosa di più sui
suoi nuovi
stalker. Così accese il portatile e compì qualche
ricerca con
mamuthones
come parola chiave, leggendo articoli su di loro fino al sorgere del
sole.
Quel mattino fu duro un po'
per
tutti. Sua madre accese la televisione e a Videolina
passarono la notizia di un'altra anziana morta in casa sua a
Iglesias: a trovarla fu il marito, immersa nella sua vasca da bagno
completamente vestita. La donna era affogata e ancora non si
conoscevano i dettagli del caso. Lei entrò in cucina quasi
in punta
di piedi, ascoltando la notizia con interesse e preoccupazione,
incrociando le braccia al petto.
«Ti ricordi di
signora Efisia?
L'abbiamo incontrata al funerale di signora Gavina», le
ricordò la
donna e lei annuì, lentamente, increspando lo sguardo.
«È
morta?».
«Ieri pomeriggio, a
quanto
pare», rispose, preparandosi il tè.
«Povera donna… Cosa fai in
piedi a quest'ora?».
«Non riuscivo a
dormire», si
prese una sedia e si accovacciò sul tavolo, osservando la
madre ai
fornelli. «Mamma?», aspettò che le desse
un cenno, per continuare,
«Pensi che i mamuthones esistano davvero?».
L'altra rise, chiedendole se
voleva del tè anche lei. «No, Lau. Certo che no.
Sono leggende».
Riempì di nuovo il pentolino d'acqua e riaccese il fornello.
«Ti
preoccupano queste cose?».
«Un po', a dire il
vero.
Sembrerà sciocco, ma mi stanno incasinando la testa, e per
questo
non riesco a dormire», si ammutolì di colpo,
voltandosi verso la
televisione. «E poi pensaci, prima signora Gavina, adesso
signora
Efisia».
«Cosa c'entrano con
i
mamuthones?», le servì il tè davanti al
naso e lei si distanziò
appena, cominciando a soffiare.
«Non lo so,
però a me questi
qui stanno tormentando l'esistenza e non vorrei essere la prossima in
lista».
«Non dire scemenze,
Lau. Questi
sono solo incidenti, e gli incidenti purtroppo succedono», le
avvicinò una mano a una sua, tentando di sostenerla.
«E a te questi
cosi stanno tormentando perché sei stanca dall'Inghilterra e
il
resto. Hai bisogno di pensare ad altro», aggiunse,
«Staccati un po'
da qualsiasi cosa vuoi fare e vai a farti una passeggiata. L'aria
fresca ti farà bene».
Lei annuì.
Suonò al campanello
e aspettava,
incrociandosi le dita delle mani, che qualcuno andasse ad aprire la
porta. Daniele si stropicciò un occhio e
sbadigliò, quando la vide
così presto davanti a casa sua, mentre signora Assunta
sorrise,
ringraziandola che lo facesse alzare dal letto invece che lasciarlo a
poltrire tutta la mattina.
«Andiamo a fare una
camminata,
ci guardiamo le vetrine; dai!»,
cercò di spronarlo. Daniele si trascinò in camera
sua per
prepararsi e lei si sedette su una poltrona del piccolo soggiorno con
palese imbarazzo, dando una rapida occhiata alle foto appese alle
pareti e incorniciate sopra gli scaffali. Molte di quelle erano
antiche, giallognole, e rappresentavano sicuramente signora Assunta
da giovane, pensò, per continuare fra le foto di una bambina
e poi
ragazza, di qualche festa, perfino un matrimonio, che doveva essere
quello della madre di Daniele con suo marito. C'erano anche parecchie
foto di Daniele da bambino. Laura era già entrata parecchie
volte in
quel soggiorno e nelle altre parti della casa, ma non aveva mai
badato troppo a quelle foto come faceva lei in quel momento.
Signora Assunta smise di
annaffiare i vasi, accorgendosi dello sguardo un po' perso della
ragazza, guardando incuriosita dove si volgeva il suo sguardo.
Poggiò
l'annaffiatoio ormai vuoto e si accostò a una delle foto
posta
accanto a dei libri; vecchia, gialla, un po' sbiadita, raffigurava
tre ragazze al mare, coperte da pesanti gonne spostate dal vento.
«Guarda,
Lauretta», disse,
prendendo la foto in mano. Lei alzò il suo sguardo e fece
due passi
verso la donna, osservando la foto. «Queste siamo
io», indicò la
ragazza in mezzo, dai capelli corti e disordinati, «e Gavina,
e
Efisia», spostò il suo dito indice sulle altre
due, prima a
sinistra e poi a destra.
Lei fissò quella
foto e deglutì.
«Eravate molto amiche, voi tre, vero?»,
domandò.
«Molto»,
annuì. I suoi occhi
si chiusero per un secondo, diventando lucidi.
Le si strinse un nodo in gola.
Laura voleva molto bene a signora Assunta e vederla così
triste per
la morte delle sue amiche le infondeva profondo dispiacere.
Daniele esordì con
uno
sbadiglio, passandosi con insistenza le mani sul ciuffo castano,
disposto verso l'alto con un po' di gel. Sua nonna rise, nel vederlo,
risistemando la foto sullo scaffale.
«Di cosa parlavi con
mia nonna?
Non dirmi che ti ha fatto vedere le foto». Daniele si
accostò a una
vetrina e si appiccicò al vetro come una falena, tenendo
d'occhio un
paio di scarpe molto costose, indicandole.
«Una
sola», sospirò. «Non te
le puoi permettere, smettila», ridacchiò e lui
scese dallo scalino
della vetrina con un balzo, agganciandosi a lei per non cadere. Le
sorrise e lei altrettanto, allontanando poi lo sguardo. «Non
essere
severo con tua nonna, ha perso due amiche in poco tempo».
«Già»,
scalciò una carta
incastrata fra i ciottoli, riprendendo a camminare, infilandosi nelle
mani nelle tasche del pesante giubbotto. «Non la vedevo
così giù
dalla separazione dei miei», sbuffò, alzando gli
occhi al cielo. La
scrutò solo per un attimo, il tempo di vederla abbassare lo
sguardo
e aggrottare le sopracciglia.
Il ricordo di un Daniele
ancora
molto bambino e arrabbiato, in seconda media, si fece spazio fra i
suoi pensieri: i suoi genitori litigavano spesso e avevano deciso di
separarsi.
«Come vanno le cose
fra loro,
adesso?», chiese, scartando una caramella e infilandosela in
bocca.
Giocava distrattamente con la carta, stropicciandola e piegandola,
svolgendola e osservandone con minuzia i dettagli.
«Bene.
Più o meno. Da quando me
ne sono andato di casa meglio, credo, lui va a trovarla spesso e
parlano, da che ne so…», rispose, abbracciando la
ragazza
all'improvviso, a cui cadde la carta dalle mani. «Lui le ha
chiesto
scusa per un sacco di cose, e anche lei si sta dando da
fare… Non
dico che ritorneranno insieme, ma ancora non si parla di firmare per
il divorzio, ecco. Forse stanno bene così. Sai, lui in fondo
l'ha
lasciata spesso sola e si sente in un po' colpa».
«Per
cosa?».
«Perché
mia madre da quando
l'ha saputo si è sempre sentita un po' sola e incompleta
e…»,
scosse la testa, mordendosi un labbro, «Non che mia nonna le
abbia
fatto mancare qualcosa, per carità, però forse
avrebbe dovuto
dirglielo prima. Al posto suo, io avrei voluto saperlo prima.
Assolutamente». Lei lo guardò con aria
interrogativa e lui la
fissò, battendole un'affettuosa pacca sulla spalla.
«Dai, te lo sei
dimenticata, non fa niente. Te ne avevo parlato qualche mese fa,
quando stavi a Londra, per telefono: mia madre è stata
adottata».
«A-Adottata?»,
lei spalancò
gli occhi e il ricordo di quella telefonata le arrivò veloce
nella
mente, «Accidenti, sì, scusa. Me ne ero proprio
scordata».
«Nulla. Ci
mancherebbe che ti
ricordi tutto quello che ti dico», rise.
Lei tentò un
sorriso ma si voltò
a breve, fermandosi, sentendosi osservata. Via Azuni era colma di
gente ma c'era qualcosa di diverso, fra loro: s'intravedevano degli
scarponi neri, fermi proprio in sua direzione. Deglutì e
afferrò il
braccio del ragazzo, tirandolo, indicandogli dietro di loro.
«Non vedo niente;
cosa? Oddio»,
ansimò, «non dirmi che c'è un
mamuthones?! Devo spaventarmi?»,
rise più forte e lei gli lasciò la presa,
infastidita dal suo
comportamento.
La gente si divise lentamente,
camminando via, e lei cominciò a vedere la pelliccia nera di
quell'essere e i campanacci, finché non si mostrò
la maschera
enorme e più nera della pece, dallo sguardo triste. Il
mamuthones
alzò il braccio destro e raggiunse un occhio della maschera,
stringendo la mano ricoperta di cerone nero e simulando il pianto.
Lei arretrò e gemette dalla paura, seguita dallo sguardo
attento del
ragazzo.
«Tu lo vedi
davvero…?» , le
domandò, controllando il punto interessato, stringendo gli
occhi.
«Andiamocene»,
asserì,
riprendendo il braccio di lui, «Per favore».
Si voltò e lui poco
dopo,
fissando ancora quel punto, cambiando espressione e facendosi serio.
Mangiarono una pizza e
passarono
insieme una bella mattinata, parlando di com'era scura Londra e delle
piogge, senza accennare ai mamuthones che ancora riusciva a vedere,
sopra le strutture dei negozi e delle case: era sicura che la
stessero seguendo ma si sforzava di fare finta di niente. Le ricerche
su internet non avevano portato a nessuna svolta interessante, non
c'era molto, se non com'erano fatti i loro abiti e le dinamiche delle
esibizioni. Tuttavia, era praticamente certa che quelli che lei
vedeva non erano uomini vestiti a maschera ma qualcos'altro.
Comparivano e scomparivano nel nulla e poteva vederli solo lei. Non
erano uomini ma altro. Qualcos'altro che l'aveva presa di mira.
La borsa a ruote si
bloccò e
signora Assunta dovette spingerla con più forza per farla
arrivare a
casa, quella sera. Aveva pregato tanto per Efisia e Gavina, in
chiesa, tanto che le avevano fatto male le ginocchia, per com'era si
era accovacciata sulla panca. Molte signore le avevano fatto le
condoglianze e perfino il prete si era fermato con lei due minuti
dopo la messa, per ricordarle che, se ne voleva parlare, lui era
disponibile. Ma Assunta non voleva parlare; non ne voleva parlare con
nessuno. Era quasi certa che la morte di Gavina fosse stato un
incidente ma quello di Efisia a poco dal suo e in circostanze ancora
ignote, le avevano fatto rimettere qualcosa in discussione. Loro tre
erano legate da un segreto, oltre che da un'amicizia che era durata
tantissimi anni. Un segreto pericoloso.
Tornò a casa con
l'ansia che le
percuoteva il cuore in gola e ci si chiuse così in fretta
che le
tremavano le mani raggrinzite. Aveva gridato il nome di suo nipote ma
sapeva che era ancora fuori come ogni mercoledì, per la
serata film
con gli amici. Scommetteva che, se gli avesse detto che lo voleva a
casa, sarebbe rimasto, ma non voleva rovinargli quella serata
speciale con delle persone speciali, poiché i ricordi con
loro un
giorno sarebbero stati come oro prezioso. Più di tutto, in
ogni
caso, non gli avrebbe parlato della paura che la attanagliava dalla
morte di Efisia.
Corse in cucina e accese la
televisione, mettendola per la prima volta ad alto volume, dandole un
fastidio necessario: doveva distrarsi. La preghiera per le sue due
amiche le aveva dato modo di pensare a lungo su ciò che
avevano
fatto almeno cinquant'anni prima e una vena di terrore le aveva
percorso il corpo come un serpente freddo. Si domandava chi fosse a
conoscenza di ciò che era successo ma non trovava risposta.
Non ne
avevano mai fatto parola con nessuno e, comunque, nessuno avrebbe
potuto volere la loro morte per quello. Avevano fatto bene,
continuava a ripetersi; era stato triste ma necessario. Era stato a
fin di bene. Neppure lei poteva volerle ammazzare, sarebbe stato
assurdo, e non ne era capace. E quella
non poteva tornare. Sarebbe stata l'unica con un motivo.
Si mantenne la fronte e si
accorse che era molto sudata. Si strofinò gli occhi poco
dopo,
alzandoli verso la televisione, all'ennesima pubblicità,
senza
davvero ascoltarla.
Era stata una sciocchezza. A
fin
di bene, ma forse era stata solo una sciocchezza. Erano solo delle
ragazze quando era successo e stavano pagando con la vita dopo
così
tanto tempo. Ansimò, deglutendo, e rizzò le
orecchie, quando udì
una porta aprirsi, quella d'ingresso. Si era aperta e richiusa subito
dopo; si sentivano dei passi. La donna si mantenne il petto e si
alzò
dalla sedia lentamente, allontanandosi verso l'andito che portava al
soggiorno.
«Dani! Giai torrau? [Già
tornato?] Ohia, filmi
curtu custa diri, ah? [Film
corto quest'oggi, eh?]»,
urlò. Stava per raggiungerlo quando si accorse che il volume
della
televisione si era abbassato di colpo e si voltò, vedendo
che
qualcosa faceva interferenza. Deglutì. Il cuore aveva
ripreso a
battere molto rapidamente e percorse l'andito con la paura dipinta
sul volto. La luce era spenta.
«Nun seu Dani [Non
sono Dani]»,
dichiarò
una voce a lei familiare, tanto che, per un attimo, pensò di
poter
stare tranquilla, reggendosi ancora il petto.
«Cosa ci fai qui a
quest'ora?
Masi fattu pigai un accidenti! [Mi
hai fatto prendere un colpo!]
Appu lassau opertu? [Ho
lasciato aperto?]»,
si trascinò nel soggiorno. Stava per dirle di accendere la
luce ma
si accorse che gli occhi di quella sagoma, delineata dalla luce che
filtrava dalle finestre, erano rossi come il sangue. Si
fermò,
tremando impercettibilmente. Era lì per lei.
«Sa
bruxa…
[La
bruxa]»,
sussurrò,
irrigidendo i denti.
Si voltò per
correre verso la
cucina ma la sagoma balzò come se potesse volare e le
arrivò
addosso così velocemente che signora Assunta fece appena in
tempo a
chiudere la porta, spingendola con le braccia e mettendole una sedia
davanti. La donna era troppo agitata e questa non riuscì a
stare in
equilibrio, cadendo. La porta si riaprì con un cigolio
fastidioso e
l'anziana arretrò, immobile, fissando l'andito con
preoccupazione.
La strega era sparita. Portò una mano al tavolo e prese il
cellulare, in fretta, cercando di comporre il numero di suo nipote,
l'unico che avrebbe voluto chiamare, in quel momento. Continuava a
sbagliare e iniziò a piangere. Non aveva mai voluto quel
telefono e
Daniele aveva insistito perché lo avesse e imparasse a
usarlo. Non
avrebbe mai più rivisto il suo adorato nipote. O la sua
amata
bambina. Sapeva che era arrivata la sua morte e il momento di pagare
per i suoi peccati.
La campanella
iniziò lentamente
a suonare e lei tremò, singhiozzando.
Compose il numero e
portò il
telefono all'orecchio, voltandosi verso il televisore che continuava
a fare interruzione, ma quello che l'aspettava alle sue spalle era il
volto tumefatto della bruxa: i suoi occhi rossi la ipnotizzarono e la
sua grande bocca dai denti marci e nera come un baratro la
divorò.
«Chi ti pighiri su
mali [Che
ti prenda il male]».
Bentornati!
Dovevo
postare ieri, lo so, ma… mi
sono dimenticata! Aemh,
capita anche ai migliori, figuratevi a me XD
E
anche Assunta è morta, uccisa da
qualcuno che pareva conoscere. Qual era il segreto di Assunta, Gavina
ed Efisia? Al prossimo e ultimo capitolo ^_^
Intanto,
colgo l'occasione per
ringraziare Eirein98
per aver messo Figlia della
Terra nella sua lista delle
seguite :)
Alla
prossima settimana!
Se
vi fa piacere, lasciatemi un commento
in recensione :)
A
presto, chu
^^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** III Capitolo ***
Lei era una ragazza
incredibilmente sola. Assunta vedeva sempre che se ne stava in
disparte, a gambe incrociate e con un libro in mano. Aveva i capelli
nerissimi legati in una coda bassa, gli occhiali e le sopracciglia
spesse; vestiva di nero e molte ragazze la prendevano in giro. Era
diversa da loro: Assunta, come molte altre ragazze della loro
età,
aveva cominciato a lavorare da ragazzina, mentre lei ancora studiava
o fingeva di farlo, dicevano le malelingue, in modo che non potesse
sporcarsi le mani. Si sedeva sui gradini della fontana di Piazza
Lamarmora e leggeva anche per delle ore, come se potesse spostarsi
dal loro mondo al suo, quello immerso in quelle righe, in quelle
pagine, in quei libri che divorava uno dopo l'altro. Assunta era
incuriosita da lei: erano state nel banco vicino alla scuola
elementare ed era sempre stata una bambina molto strana, crescendo si
erano perse di vista e avrebbe voluto parlarle, sapere come stava,
sapere perché non si sforzava di fare amicizia e di essere
un po'
come le altre. Così, quel nuvoloso pomeriggio, si strinse la
borsa
sotto braccio e si tirò indietro i capelli corti, lisci,
schiarendosi la gola, avvicinandosi a lei a passo quieto. Non sapeva
come intraprendere un discorso, così s'inchinò
appena e le sventolò
una mano a poco dal viso, attirando la sua attenzione.
«C-Ciao»,
esordì, schiarendosi
la gola ancora una volta. «Sono Assunta, t'arrerc- [ti
ricord-]»,
l'altra la interruppe: la voce ferma, glaciale.
«Du sciu chini sesi [So
chi
sei]». Le alzò il viso appena, prima di
posarsi di nuovo a
quelle parole scritte a macchina.
«Oh, mellusu aicci [meglio
così]», sospirò, guardandosi
indietro per un attimo: uomini
leggevano i quotidiani sdraiati sulle sedie del bar davanti, ragazze
civettavano intorno a dei ragazzi più presi da se stessi e
dai
propri capelli che da loro, e bambini tiravano le giacche color
pastello delle loro madri, che parlavano e ridevano posando
delicatamente una mano alla bocca. Forse cercava una distrazione.
Voleva conoscerla ma lei non sembrava interessata a sua volta. Stava
per riaprire bocca quando udì il suo nome e si
voltò, ritrovando le
sue amiche Efisia e Gavina, a braccetto, che la intimavano di
avvicinarsi. «Scusami, devo andare», le
sussurrò, allontanandosi.
Le due amiche la accolsero con un forte abbraccio, trascinandola via.
«Amicizia noa,
lè? [Nuova
amica, eh?]», rise Efisia, allontanandosi un
ricciolo nero dal
viso.
«Figuraridda [Figurati]»,
rispose con sarcasmo, alzando gli occhi al cielo, «Volevo
vedere cosa stava leggendo, non fa altro tutto il giorno, cussa in
gunis' [quella lì]».
Risero, allontanandosi,
seguite a
vista dallo sguardo attento sotto gli occhiali della ragazza.
Daniele stava fuori di casa
con
entrambe le mani alla bocca, continuando a passarsele in viso e ai
capelli, in gesto disperato. I carabinieri lo avevano trattenuto
fuori e non gli avevano permesso di rivedere il corpo di sua nonna. I
vicini erano tutti fuori dalle loro case e guardavano la scena che si
stava consumando a pochi passi da loro come avrebbero fatto con una
telenovela in televisione e gli si poteva scorgere parlottare e
indicare, a volte. Lei stava al suo fianco ma lui continuava a
spostarsi, a inchinarsi, a sbattere i piedi a terra, a stringere i
pugni e a urlare senza voce. I genitori di Laura gli avevano aperto
la porta di casa, promettendogli che poteva stare da loro e con loro
quando e come voleva, ma lui non ascoltava, era distante. Portarono
fuori sua nonna sotto un telo nero e mancò il fiato a
entrambi,
fatti allontanare dai carabinieri.
«Dani, andiamo
dentro»,
sussurrò con un filo di voce appena, così
asciutta da bloccarle il
respiro. «Non ci fanno avvicinare, lo sai». Gli
allungò la mano
alla spalla ma lui si scansò come se ne avesse paura.
«No, no»,
si voltò, fissandola
ad occhi sgranati, rossi e lucidi, «Adesso… Adesso
torno da mia
madre. Ho bisogno… Ho bisogno di mia madre»,
annuì, abbassando
per un attimo lo sguardo. Lei immobile. «Lei deve venire qui,
ma
prima devo andare io da lei», annuì ancora, come
se la sua mente
facesse domande per poi rispondersi da sola.
«Va bene»,
tentò un sorriso
malinconico. «Vengo con te. Potreste aver bisogno di me.
È da molto
che non vedo tua mad-».
«No»,
quasi le urlò e lei
sobbalzò, «No. Vado io. Non… Non
seguirmi», la intimò,
puntandole contro un dito, prima di allontanarsi con passo pesante
verso una delle macchine dei carabinieri.
Sua madre le poggiò
una mano
sulla spalla come per consolarla e lei fissò il ragazzo con
sguardo
attento, serio.
Assunta era una donnina
estremamente tenace, se si metteva in testa qualcosa. Le sue amiche
le avevano caldamente consigliato di lasciar perdere quella
strana, ma lei si era messa in testa di salvarla dalla sua
condizione di solitudine e vittima, e di provare a farle capire
com'era stare in compagnia, in amicizia. Convinse Gavina ed Efisia ad
uscire tutte e quattro insieme un pomeriggio che non avevano da
lavorare, uscendo di casa senza essere viste dai loro genitori, e si
ritrovarono in Piazza Sella, fra imbarazzi e risate sottomesse.
Gavina in verità era molto in ansia per essere uscita senza
avvertire nessuno ed Efisia la spintonava per tentare di
tranquillizzarla; era quasi sorpresa di scoprire che anche quella
strana aveva il suo stesso timore e si guardava attorno con angoscia
e scontento. Si fecero una lunga passeggiata avanti e indietro fra la
piazza e le vie adiacenti, fermandosi di tanto in tanto all'ombra
degli alberi per far riposare la testa lontana dal sole. Assunta
tentava con ogni mezzo di far parlare la ragazza, di metterla a suo
agio senza grande successo, ma le altre due continuavano a prenderla
in giro, spingendola, ridendo di lei e di quello che diceva appena
trovava il coraggio di aprire bocca. Assunta le trovava divertenti ma
la nuova arrivata non sembrava apprezzarle allo stesso modo. Un
gruppo di ragazzi attirò la loro attenzione e, mentre le tre
amiche
intrattenevano i giovani, lei se ne stava in disparte a guardare per
terra, immobile, ansando come un pesce fuor d'acqua. Assunta sapeva
che lei doveva sentirsi fuori luogo ma sperava che provasse a
sciogliersi, così le inviò un tale Mario per
farle compagnia e lui
sembrò gradire. Indossava un completo marrone chiaro e i
capelli ben
pettinati: sperava fosse il suo tipo poiché, secondo lei,
era
semplicemente affascinante. Mario le mostrò uno dei suoi
migliori
sorrisi ma lei lo aveva scrutato appena, riabbassando velocemente lo
sguardo, come rapita dal suo mondo interiore. Il ragazzo aveva
provato a prenderle un fiorellino giallo da un'aiuola e a
offrirglielo in dono, ma lei rifiutò anche quello, scuotendo
selvaggiamente la sua testa nera. Assunta sbuffò e tale
Mario allo
stesso modo. Una volta tornate a casa, Efisia e Gavina speravano di
poter in parte dimenticare quella serata imbarazzante, ma Assunta,
anche se per un attimo si era sentita decisamente sconfitta, non era
pronta a rinunciarci e aveva provato ad avvicinarsi alla ragazza
strana ancora, e ancora, e ancora, creando una piccola crepa
sul
suo scudo invisibile, definendola amicizia.
Daniele aveva deciso di
prendere
il primo pullman per Carbonia quella stessa sera. Aveva avuto il via
libera dai carabinieri per prendere alcune delle sue cose dalla loro
casa e, con sguardo smarrito e sofferente, aveva trascinato uno zaino
dall'aspetto pesante fin su alla panchina della fermata, senza volere
aiuti di nessun tipo. Di tanto in tanto si guardava alle spalle come
se si aspettasse di vedere qualcosa e poi riaffondava il viso tra le
mani, scuotendo la testa.
Lei lo aveva seguito e lo
scrutava con insistenza da dietro la parete di un'abitazione. Le si
spezzava il cuore a vederlo in quello stato per sua nonna, d'altronde
anche lei stava soffrendo molto: Laura le aveva voluto molto bene e
quei sentimenti sembravano voler tentare di lacerarle qualcosa
dall'interno. Riabbassò un poco lo sguardo e si volse
indietro,
udendo dei passi, scontrandosi con un'enorme faccia nera: quella
maschera aveva un naso gonfio, la bocca pendeva pesantemente verso il
basso in una forma che ricordava quasi un ferro di cavallo e i suoi
occhi erano delle fessure piccole e arrabbiate, accentuate dalle
rifiniture del legno che rappresentavano le sopracciglia. Gli occhi
al di là della maschera erano neri e la fissavano con
severità. Lei
tremò impercettibilmente, tornando indietro di mezzo passo e
sbattendo le spalle contro il muro.
Non sapeva cosa fare.
Quell'essere era reale ed era davanti a lei, in una presenza forte e
maestosa, nonché inquietante. Prese coraggio e spinse quel
mamuthones spalancando i palmi delle mani, tastando il crespo e
vischioso manto nero e marrone. Gli scivolò accanto e corse
via,
sperando di seminarlo.
Per un po', Gavina ed Efisia
giurarono di troncare la loro amicizia con Assunta se lei non avesse
smesso di invitare ai loro ritrovi quella ragazza strana.
Continuavano a ripetere che lei non era una di loro e che non lo
sarebbe stata mai, ma, soprattutto, che non era la benvenuta. Quella
ragazza aveva iniziato a fare conversazione, anche se breve, e a
ridere, per giunta. Quella piccola crepa sul suo scudo invisibile
fatta da Assunta con tanto sforzo si era dilatata e aveva stretto una
connessione con la loro amica. Loro due avevano tentato più
volte di
ferirla, facendola apparire ancora più inadeguata a ogni
cosa più
di quanto da sola già non fosse, ma la sua amicizia con
Assunta si
era fatta così forte che a lei non interessava
più apparire sciocca
davanti a lei e ci rideva un po' su, dopo un attimo appena di
disorientamento.
Un pomeriggio, le due ragazze
erano uscite di casa con l'intento di parlare con Assunta e dirle
ciò
che pensavano senza impedimenti e, per questa ragione, le avevano
chiesto di farsi trovare un po' prima del solito orario, in una via
senso unico, piccola e poco trafficata. Imboccarono Via Nuova e
girarono a destra, sotto un breve tunnel, arrivando dinanzi a una
scena raccapricciante: non solo la ragazza strana era già
lì, ma
con le mani congiunte e soffiandoci sopra, riusciva a creare dei
piccoli giochi di luci e colori, osservata da Assunta che era a un
metro da lei, a bocca aperta. Loro due gridarono e la ragazza strana
sbatté le mani, facendo svanire la magia.
Assunta spalancò
gli occhi,
indicando l'altra. «Avete visto anche voi
cosa…?». Le due la
presero per le braccia e la trascinarono di qualche passo
più
indietro, sfidando con lo sguardo la poverina che, spaventata
dall'intrusione, si era messa a boccheggiare dall'ansia.
«Sesi 'na macca [Sei
una
(ragazza) matta]», le gridò Gavina,
irrigidendo i denti.
«Du sciemmu ga no
viasta 'na
giusta [Lo sapevo che non eri una (ragazza) sana]»,
rincarò
Efisia, in preda alla collera.
Disperata e sul punto di
piangere, la ragazza si rivolse alla sua unica amica, implorando
aiuto con il solo sguardo. Assunta la fissava senza parole
finché,
di scatto, non abbracciò le due amiche al suo fianco,
fissandola con
sgomento, iniziando a scuotere brevemente la testa. «M'anti
chistionau de… de cussasa diaicci…
[Mi hanno parlato di
quelle
così]».
L'altra iniziò a scuotere la testa a sua volta, sussurrando
di non
dare retta a quelle voci; aveva preso passo verso di lei quando
Assunta si fece indietro, e così si fermò,
deglutendo. «Diacci
cummenti e tui! [Così
come te] No, no, ti credevo adiversa, mi spraxiri. [mi
dispiace] Diarerusu!
[Davvero]
Sembri una…», prese una breve pausa, squadrandola
da capo a piedi,
mentre lei scuoteva la testa sempre più forte e irrigidiva i
denti,
«Una… Sa bruxa [La
bruxa]».
Le
altre due concordarono e, iniziando a chiamarla in quel modo con
urla, finirono per farla scappare via. Lei e Assunta si scambiarono
un ultimo e lungo sguardo prima che la seconda venne spinta dalle
amiche verso Via Nuova per vedere quella ragazza fuggire e gridarle,
con tutta Iglesias presente, della sua natura di strega. Tale Mario e
il suo gruppo di amici le sbatterono contro e, mentre le tre ragazze
si allontanavano, la seguirono.
Assunta
si era sempre sentita un po' in colpa per ciò che era
successo con
quella ragazza ma, quando le ritornava alla mente quel giorno,
pensava di aver fatto la cosa giusta: sapeva che le bruxa amavano
nascondere la loro vera indole e giunse alla conclusione che quella
ragazza mite era solo finzione. La bruxa aveva tentato di ingannarla
e si era mostrata in parte per ciò che era con quel
trucchetto di
stregoneria nera, per convertirla alla sua fede religiosa, qualunque
essa fosse. Dopotutto, nessuna delle tre l'aveva mai vista andare a
pregare, e men che mai parlava di messe. Giunsero facilmente alla
conclusione che era una figlia del diavolo.
Speravano che, per la vergogna
di
essere stata scoperta, la bruxa avesse abbandonato la loro amata
città, ma quando la rividero quasi un anno più
tardi con in braccio
una neonata, pensarono di intervenire.
Erano
comparsi altri mamuthones: tre erano sui tetti e due sulle strade. La
seguivano come un'ombra e lei, per quanto corresse, non trovava modo
di lasciarseli alle spalle. La gente che dapprima la guardava con
interesse poiché pareva scappando da un nemico invisibile,
aveva
cominciato a ignorarla sempre più, stimolandola a capire di
stare
diventando lei quella invisibile: pensò che la stavano
trascinando
in un'altra dimensione. Si fermò, guardandosi attorno, e le
macchine
e i pedoni scomparvero a poco, lasciando una città vuota e
senza
rumori, se non quelli dei campanacci che si diffondevano rapidamente
nell'aria. Lei deglutì e, stringendo i pugni,
tentò di infondersi
coraggio, camminando sull'asfalto deserto.
«Va
bene», sbatté le mani contro ai fianchi,
«Mi arrendo. Sono la
prossima?», sbraitò. «Avete ammazzato
quelle signore e adesso è
il mio turno?», ringhiò con rabbia ed
esasperazione, «Si può
sapere cosa vi ho fatto da meritarmi questo?».
I mamuthones scesero per la
strada e la circondarono come una preda, iniziando a canticchiare,
ballando con cadenza ritmica intorno a lei, facendo in modo che i
campanacci suonassero sempre più forte. La danza
terminò solo
quando apparvero gli issohadores. Erano in quattro e giunsero dal
nulla, disponendosi a poco dai mamuthones; svolsero dal cinturino in
vita la loro arma, il lazo, e presero a picchiettarlo per terra,
richiamando all'ordine il loro gregge. Uno di loro si fece spazio fra
i mamuthones e avanzò dei passi verso di lei, schiarendosi
la voce
roca.
«Sai bene
perché sei qui»,
enunciò, intanto che gli altri tre picchiettavano ancora il
lazo
sull'asfalto freddo. «Non abbiamo ucciso noi quelle
donne», strinse
con forza il lazo, come colto da un impeto di rabbia, sotto la sua
anonima maschera bianca, «ma
tu».
Lei ansimò,
cambiando
improvvisamente espressione, facendosi fredda e scostante. Lo
fissò
per un breve attimo, riconoscendolo: l'issohadores era lo stesso che
l'aveva presa con il lazo quel giorno, a carnevale; per poco non le
scappò una risata, al pensiero che fin dal suo ritorno in
patria
l'avevano inquadrata, senza eppure riuscire a fermarla.
Il pullman diretto a Carbonia
non
rallentò verso la fermata, poiché non c'era
nessuno ad aspettarlo:
Daniele se n'era già andato. Vedendo scendere la notte, i
genitori
di Laura provarono a telefonare a lei e il ragazzo, immaginandoli
insieme dalla madre di lui, ma non rispondendo iniziarono a
preoccuparsi, guardando con velata nostalgia la pioggia che aveva
cominciato a battere sui vetri della casa. Assunta era morta e la
loro figlia e il suo amico non rispondevano. Quando udirono il
telefono fisso squillare accorsero entrambi in preda all'ansia,
rispondendo con il cuore in gola che era tardi, che doveva farsi
sentire prima, ma al telefono non era Laura. I carabinieri
comunicarono ai coniugi di aver trovato la loro bambina, anche se non
dove se l'aspettavano: il suo corpo senza vita giaceva nascosto sotto
ai tubi dell'acqua nei bagni delle signore in una stazione. A
trovarlo, fu una donna quel pomeriggio, scendendo dal treno. Era in
bella vista, sotto ai lavelli. Sembrava essere lì da giorni,
eppure
nessuno l'aveva mai vista o sentito l'odore. I due si accasciarono al
pavimento una dopo l'altro; terrorizzati, disperati, dal dolore,
faticavano a respirare.
«Non è
mai stato nei miei
piani, sapete?», dichiarò lei, reggendosi il
petto. Il cielo si era
annuvolato e la pioggia aveva inondato la strada in fretta, rendendo
i movimenti dei mamuthones più lenti, impediti dalle pelli
zuppe.
«Non parlo di loro tre… Ma di Laura», le
si strinse un nodo in
gola a pronunciare quel nome, deglutendo con fatica. «Lei era
diventata molto per me… Le volevo bene»,
confessò, riaffiorando
il ricordo di quando l'aveva rivista, in quella stazione. Aveva uno
sguardo smarrito, lei. E un sorriso innocente. Aveva deciso di
ritornare a casa, nella sua terra, che, anche se non lo sapeva, era
quella di entrambe. Si erano conosciute per caso, o così
pensava
Laura. Lei l'aveva notata per quel suo sguardo perso e meravigliato
da turista e, scoprendo le sue origini, aveva fatto in modo di
incontrarsi con quella ragazza. Una ragazza sarda era un colpo di
fortuna, per lei; soprattutto se era insicura e aveva bisogno di una
figura di riferimento. Lei era stata per Laura quella figura e
qualcosa di più. «Laura non doveva scegliere di
tornare», gridò,
mentre il suo corpo prendeva lentamente un'altra forma, squagliandosi
al contatto dell'acqua piovana come fosse stato acido, riportandole a
galla i capelli corvini e lo sguardo severo. «Mi ha
deluso»,
chiosò.
«Mi…
aspettavi?», aveva
provato a ridere. «In che senso? Mi prendi in giro? Mi hai
seguito?
Perché non mi hai detto che-».
Lei l'aveva interrotta,
tenendo
un sorriso malinconico. «Non sono stata del tutto sincera con
te,
tesoro».
Laura si era girata e aveva
sbuffato, reggendosi al lavello. «Ci mancava
questa…», aveva
sussurrato poco dopo. «Allora, dimmi».
«Ti ho amata
davvero».
Laura si era stretta le labbra
con i denti, finendo per ridere. «Mi hai seguito per dirmi
che mi
hai amata? Beh, wow, grazie… Andava bene così,
Diane, ci siamo
lasciate, mi pare… Tu non stai bene». Era tornata
un po' indietro,
quando l'altra aveva provato a fare dei passi verso di lei.
«No»,
aveva scosso la testa,
«Tu non stai bene».
Laura si era sentita
improvvisamente mancare e Diane le era corsa incontro per un ultimo
abbraccio, proprio poco prima che le ginocchia le cedessero.
«Sst…
I'm so sorry,
my dear».
Le aveva appoggiato la mano
destra al petto e, lentamente, il corpo di Laura aveva iniziato a
vibrare insieme al suo, che stava delicatamente cambiando aspetto,
prendendo quello di lei, diventando presto indistinguibili. Gli occhi
di Diane si erano spalancati e sul loro specchio si stavano
depositando le immagini di alcuni ricordi di Laura, dalla bambina
alla ragazza insicura che era diventata.
Aveva pianto. Aveva deciso di
lasciare lì il corpo vuoto, sotto ai lavelli, nascosto solo
dalla
sua magia, quella che le concedeva di poter vivere con il suo
aspetto. Si era guardata allo specchio un'ultima volta, passandosi
l'indice sugli occhi rossi, prima di prendere il trolley e ripartire.
Sapeva che il cambiamento le avrebbe riservato qualche effetto
collaterale, così si assicurò di chiudere un po'
gli occhi una
volta di nuovo sul treno per Iglesias e, soprattutto, di chiudere le
finestre con le tendine.
«Ti ha
deluso?», le fece eco
quell'issohadores, tenendo un tono accusatorio.
Lei annuì.
«Potevamo essere
felici, insieme. Avevo accantonato la mia vendetta, per lei. Ma non
è
stata abbastanza forte e io, se perdevo lei, potevo almeno riprendere
la mia vendetta», ringhiò, stringendo i pugni.
L'acqua che le scivolava sulla
pelle e sui vestiti stava continuando a scavare, mostrando altri
aspetti, altri volti, sotto quello che appariva. Visi di donne
più
grandi, dagli sguardi stressati, fino alla comparsa delle prime
rughe. Gli altri la fissavano senza intervenire, come se quell'unico
issohadores che le stava davanti le facesse da giudice e giuria.
«L'hai
uccisa», tuonò con
rabbia, pestando il lazo a terra così forte da far
spaventare alcuni
mamuthones a lui vicini.
«Dovevo»,
gridò a sua volta,
versando qualche lacrima che le scorreva lenta sul suo volto da
anziana. «Era l'unico modo… L'unica cosa che mi
avrebbe permesso
di rimettere piede qui, nella mia terra, a Iglesias. La Sardegna mi
aveva concesso di tornare, sono passati anni e la forza che mi ha
spinto via si è indebolita, ma non mi avrebbe mai permesso
di
recarmi qui, senza essere un'altra, una residente. Io dovevo essere
Laura per passare», prese respiro.
«Ti avevano
bandito», rispose
l'issohadores, «Gavina, Efisia e Assunta. Ti sei vendicata
dell'esilio con la loro morte?».
Lei mostrò un
sorriso
sconsolato, scuotendo la testa, asciugandosi una lacrima depositata
sulla ruga di una guancia. «No, no… Loro non mi
hanno solo
esiliata, caro. Cussasa… m'anti pigau sa pipia! [Loro…
mi
hanno preso la bambina] Sa pipia 'e cosa mia [La
mia
bambina]», gridò più forte.
La pioggia iniziò a
battere più
violentemente e il vento a soffiare contro di loro e gli edifici come
mosso da un'incredibile forza, mentre il cielo si faceva scuro come
le tenebre.
Assunta era stata
indescrivibilmente crudele. Sapeva dell'ostilità
più che ostentata
di Gavina ed Efisia e non se ne stupiva, ma mai si sarebbe immaginata
una tale reazione da lei, che la considerava un'amica. Lei si fidava
di Assunta ed era stata così sciocca da pensare di farle
vedere cosa
sapeva fare, del suo gioco di luci.
Aveva corso e poi camminato
per
un po', nascondendosi nella fitta campagna sulla collina,
abbandonando le strade trafficate. Era giunta ai pressi di un albero
e si era appallottolata sulle sue radici, iniziando a piangere tanto
forte che quel ragazzo non fece fatica a trovarla.
«Mario?»,
domandò, alzando lo
sguardo appannato, cercando di asciugarsi gli occhi. «Giusto?
Sesi
rui? [Sei tu?]».
Lui si abbassò il
tanto di
vederle bene il viso, tirando fuori, poi, un fazzoletto di stoffa da
una tasca dei suoi pantaloni, porgendoglielo. «Una ragazza
bella
come non dovrebbe piangere», disse lui. Vedendo che lei non
si era
mossa, il ragazzo decise di prendere l'iniziativa, raggomitolando il
fazzoletto su una mano e asciugandole il viso dalle lacrime, con
accortezza e delicatezza.
Lei restò immobile,
forse
sorpresa, tirando su con il naso.
«Ti ho vista
scappare, prima. Tu
e quelle tre non siete più amiche?».
«Io e
Assunta», rispose, «Non
siamo più amiche, no», scosse la testa,
«Efisia e Gavina non sono
mai state mie amiche».
«Capisco»,
sussurrò. Sembrò
guardarsi attorno, come alla ricerca di qualcosa, ma lei non pareva
essersene resa conto.
«T'arricheriri 'i
scusasa [Ti
servono delle scuse]», ansimò, tirando
ancora una volta su con
il naso. «Non ti ho mai dato la possibilità
di… sai, farti
aconoscere».
«Non
importa», rispose dopo un
attimo, stringendo le labbra. «Adesso mi
aconoscerai», aggiunse,
vedendo finalmente arrivare i suoi amici. «Ci aconoscerai
tutti».
Quando il gruppo se n'era
andato,
lei era ancora lì, con alcuni vestiti stracciati e mezza
nuda, fra
l'erba alta e le radici dell'albero. Anche se avesse potuto gridare e
a turno non le avessero coperto la bocca, non l'avrebbe sentita
nessuno. Si era sentita umiliata, sporca, tradita e ferita. Si era
sentita finita.
L'anziana strinse i pugni con
più
forza di quanta sembrasse dimostrarne e il vento iniziò a
girare
attorno a loro con sospetto, mentre una campanella dal suono fine e
delicato aveva iniziato a risuonare nell'aria, tanto da rendere
irrequieti i mamuthones.
«Hanno preferito
assecondare i
detti popolari a me…», ringhiò,
prendendo un pesante respiro,
«Hanno preferito togliere una bambina dalle braccia della sua
mamma…
Hanno preferito la bruxa a me. E la bruxa
hanno ottenuto»,
recitò infine con una voce metallica forte e disturbata. I
suoi
occhi si tinsero di rosso e il vento si fece ancora più
forte,
stringendo i mamuthones, che stavano per perdere il loro ordine. Gli
issohadores sbatterono il lazo a terra ma non sembrava avere un
grande effetto su quell'antico potere.
Non si era più
fatta rivedere in
giro. Aveva paura di uscire, di incontrare ancora uno di quei ragazzi
o Assunta e le sue amiche e che loro potessero leggerle la vergogna
negli occhi. Si era immersa nei libri nuovamente e più
spesso di
prima, abbandonando gli studi. Lei aveva desiderato così
tanto di
sparire da aver paura di guardarsi allo specchio, di scoprire cos'era
diventata, di capire quanto odio provasse per se stessa e la sua
debolezza. Era disgustata e infastidita. Eppure qualcosa
cambiò il
suo modo di vedere il mondo: aveva iniziato a stare male, a non
capire la ragione secondo cui il suo corpo si comportava in modo
così
dispettoso con lei da non lasciarle più il tempo di finire
un libro
in un giorno, finché non notò la sua pancia
arrotondarsi. Il
destino era stato crudele con lei, tuttavia, secondo la ragazza, gli
spiacevoli episodi che le erano capitati le avevano allo stesso tempo
fatto dono di qualcosa di infinitamente buono. Era un regalo.
Appuntava i cambiamenti
giornalieri su un blocco e, invece di leggere un libro, si rileggeva
gli appunti scritti precedentemente. Era felice e, per la creatura
che portava in grembo, era arrivata a prendere una decisione molto
importante: poiché non era sano per un piccino crescere in
una casa
nella solitudine, pensò che lo avrebbe portato a girare il
mondo,
alla scoperta delle bellezze e delle cattiverie, per non avere paura
di affrontarle come ne aveva avuto lei. Con il suo bimbo al suo
fianco, lei per prima pensava che avrebbe vinto le sue paure.
Aveva chiamato Diana la sua
bambina. Era piccola e rosa come una bambolina, le manine strette in
un pugno, il naso tondo e le labbra fini. Era per lei tutta la forza
di cui aveva bisogno.
Ogni pomeriggio aveva preso
l'abitudine di prendere la piccola e uscire di casa. Aveva iniziato
con il giardino e le vie accanto a casa sua, prendendo grandi boccate
d'aria per ogni volta che pensava di allargare un po' le zone sicure
del suo giro pomeridiano. Quando riusciva nel suo intento non faceva
che guardarsi avanti e indietro, in preda all'ansia, ma era una
vittoria a dispetto di quando la sua paura la forzava a fare un passo
indietro, stringere forte al petto la sua bambina e tornare a casa
con le gambe che tremavano. Non voleva essere debole per Diana e
darle un cattivo esempio, così tornava fuori e sfidava a
testa alta
le strade nuove che le facevano tanta paura. Lei voleva cambiare.
Fu percorrendo una strada
nuova
del suo giro pomeridiano che incontrò di nuovo Assunta,
Efisia e
Gavina. Diana aveva iniziato a piangere e lei, credendo che la
piccola avesse captato la paura della sua mamma, decise di
affrontarle.
In principio, voleva solo
salutarle. Ricordava ancora bene i pensieri che le avevano affollato
la mente: salutarle a testa alta, sorridere come mai aveva fatto,
esibire la sua bellissima bimba per dimostrare di essersi realizzata.
Temeva avrebbero scoperto che non era sposata né aveva un
padre da
dare a sua figlia, ma era talmente fiera della piccola da sfidare i
suoi timori per lei. La vergogna faceva parte del passato.
Quando incrociò i
loro sguardi,
Efisia aveva già preso Gavina sottobraccio per indicarla.
Avevano
riso come al loro solito, ma non Assunta. Quest'ultima aveva
adocchiato Diana per prima, fra le sue braccia, mentre piangeva
forte. Lei aveva cominciato a cullarla, camminando verso le tre, ma
non riusciva a calmarla.
«Ora 'e prandi? [Ora
di
pranzare?]». Assunta aveva quasi urlato e nella
vietta deserta
la voce aveva riecheggiato. Le due ragazze smisero a breve di ridere
e fissarono la bimba come cogliendo solo in un secondo momento il
nesso con il commento dell'amica. Al contrario, lei non aveva capito
e salutò le tre con un gesto rapido di una sola mano, con
innocenza,
spostando la piccina per reggerla meglio. «Dove hai preso
quel
neonato?», le chiese con vigore, mettendola in serio
imbarazzo.
«Esti filla mia [È
mia
figlia]», rispose lei, abbassando lievemente il
capo. «Diana»,
aggiunse poco dopo.
«Ti chiedo di nuovo
dove hai
preso il neonato».
«Esti filla mia [È
mia
figlia]», insisté lei.
Ma Assunta, Gavina ed Efisia
che
sapevano bene quanto quella ragazza strana non riuscisse neppure a
parlare con un ragazzo, faticavano realmente a credere alle sue
parole. Lei era una creatura di Satana, una strega il cui scopo era
quello di stravolgere le menti altrui e, le credenza popolari,
raccontavano fin troppo bene di come le bruxa si spostavano di culla
in culla per rapire bambini e divorarli. Le tre erano donne di chiesa
e fede: dovevano sapere tutto su di loro e anche come combatterle.
«Tè bedda
[Che bella]»,
dichiarò Efisia a un certo punto, mostrandole un raggiante
sorriso.
«'E berusu [È
vero]»,
aggiunse Gavina, congiungendo le mani.
Assunta
scrutò le due per un attimo e dopo annuì,
mostrando alla giovane
madre un felice sorriso. «Parriri propriu una
bedda pipia!
[Sembra proprio una bella bambina!] Da pozzu biri? [La
posso vedere?]».
Lei si accostò a
loro con
titubanza poiché la piccola non smetteva di piangere, ma i
complimenti ricevuti le avevano fatto così piacere,
soprattutto da
parte loro, che non riuscì a fermarsi. Doveva solo
avvicinarsi,
aveva pensato, e poi l'avrebbe riportata a casa. Forse aveva mal di
pancia o fame. Assunta la raggiunse e nel vedere la piccola non
riuscì a non sorridere, allungando d'istinto le mani verso
di lei e
afferrandola. Lei stava per tirarsi indietro quando era ormai troppo
tardi e, per non sembrare maleducata, lasciò che la
prendesse.
«Conosco un
qualchecosa per
farla smettere di piangere», affermò, iniziando a
cullarla. Diana
in verità continuava a strillare e probabilmente lo stare
con una
sconosciuta non faceva che aumentare il suo fastidio, ma lei non
riusciva a contraddirla.
Avvertiva il vuoto della bimba
sulle sue braccia e, per un attimo, uno strano sentore che sapeva di
nostalgia. Allungò le mani verso Assunta per riprendersela
ma lei si
spinse via facendo due passi indietro e Gavina ed Efisia le si
pararono davanti. Non capiva cosa stava succedendo ma iniziò
a
mancarle l'aria, sentendosi inerme. La sua Diana era lì a
poco da
lei ma non riusciva a raggiungerla, la stavano spingendo via, le
stavano separando. Lei piangeva e non poteva raggiungerla, non poteva
cullarla, non poteva darle un bacio. L'ansia prestò
generò terrore
che si propagò in un attacco di panico: il respiro pesante,
la testa
le girava e il corpo tremava.
«Diana»,
sussurrò, «Assunta,
sa pipia [la bambina]». Cercò
di fare due passi ma le due la
spinsero indietro e lei per poco non cadde, reggendosi a stento.
«Smettetela», quasi urlò, passandosi la
mano sulla fronte. «Sa
pipia».
«Smetterà
di piangere, ti dappu
nau [te l'ho detto]», disse a quel punto
Assunta, «Quando te
ne sarai andata».
«Bairindi [Vattene]»,
la
spinsero via.
Lei cadde. Tentò di
rialzarsi,
però il suo corpo era troppo pesante e la terra non stava
ferma.
Vedeva Gavina ed Efisia sorridere ma non ne era sicura, non riusciva
a fissarle troppo a lungo, la sua vista si stava appannando. L'unica
cosa di cui era certa era la sua bambina che piangeva, ancora e
sempre più forte, tenuta stretta da delle braccia che non
erano le
sue. Si sentiva fine, piccola, sola, incompleta. Alzava una mano per
tentare di raggiungerla ma era troppo distante e, poi, udì
ancora la
sua voce, quella di Assunta, con decisione.
«Allora non te ne
vai?», le
diceva, «Non te ne vai?». Le altre due parlavano ma
erano bisbigli
senza significato, per quanto si sforzasse non riusciva a
comprenderle, finché non le vide camminare e distanziarsi,
disponendosi in un cerchio intorno a lei. «Te ne andrai,
bruxa», le
aveva gridato dopo. «Te ne stai già
andando».
Silenzio. Il suono di una
campanella.
Il mondo che aveva iniziato a
girare si era finalmente fermato e non sentiva più Diana che
piangeva. Alzò lo sguardo lentamente come se potesse essere
accecata
dal sole e fissò le tre una dopo l'altra con gli occhi ben
strizzati, riconoscendo la sua piccola, vestita di bianco.
Capì in
quel momento che non l'avrebbe più rivista.
Le giovani donne presero per
mano
un rosario e, strisciando il pollice avanti e indietro su di esso,
cominciarono a pregare, rendendo le loro tre voci una sola forza. La
campanella sconosciuta si fece eco nell'aria mentre lei tentava di
rialzarsi; strinse così forte gli occhi che cambiarono
colore,
diventando rossi. Si alzò da terra e il vento si
rafforzò, mentre
il cielo si faceva grigio, ma era troppo tardi: sentì il suo
corpo
divenire più leggero e i suoi occhi persero lucentezza,
intanto che
l'immagine della sua piccola Diana fra le braccia di Assunta svaniva
con punti di luce.
«No». A
quel punto, non le
restò che urlare. «Assunta, ti prego! Sa pipia! Ti
prego! No! Sa
pipia». La luce la accecò per troppo tempo e si
coprì gli occhi,
continuando a urlare, finché non udì qualcosa di
diverso, caos,
risate e tanti piedi che si muovevano verso varie direzioni,
confondendola, così li riaprì, lentamente,
scoprendo di ritrovarsi
in un luogo mai visto.
Il vento si faceva sempre
più
forte e alcuni mamuthones furono sbalzati via. Il cielo aveva
iniziato a tuonare e quella donna stringeva i pugni con più
forza e
rabbia. Gli issohadores si guardavano attorno con meraviglia,
preparandosi a contrattaccare, quando uno di loro, quello che fino a
quel punto aveva parlato da solo, non decise di fare loro un cenno
con la mano per calmarli, mettendo questa sulla maschera. Dotata di
grande curiosità, la signora lasciò che il vento
perdesse potenza
per permetterle di distrarsi e guardare oltre al viso anonimo e
bianco: lui se la sfilava lentamente, lasciando intravedere un
sorriso insoddisfatto e triste e un occhio pieno di lacrime sotto il
ciuffo castano chiaro.
«Daniele…»,
esclamò
in un sussurro.
La scoperta fece cessare il
vento
e la pioggia, e appena dopo i tuoni si ritirarono con le nuvole. Una
lacrima rigò il viso della donna una dopo l'altra ma si
sforzò di
sorridere. Aveva tolto a Daniele la ragazza di cui era innamorato e
sua nonna, quella che credeva tale. Le era stata portata via la
bambina ed era in ogni caso riuscita a rovinare la sua vita e quella
di suo nipote, pensò la signora. Gli allungò una
mano per
raggiungerlo, scorgendo per un attimo il ricordo di Diana vestita di
bianco, prima che gli issohadores la legarono con il loro lazo,
stringendola.
«Dobbiamo portarti
via»,
bisbigliò lui.
La donna non oppose resistenza
e
rise, e, mentre i mamuthones tutti suonavano i loro campanacci con i
salti di una danza sconosciuta intorno a lei, loro quattro si
voltarono e tesero bene la corda sopra la spalla, iniziando a tirare
ognuno verso il punto opposto all'altro che stava dietro. Lei si
sentì stringere appena e il dolore svanì presto.
Scomparve e con
lei gli issohadores e mamuthones, lasciando ad Iglesias il traffico
del mattino ancora nuovo, con le lunghe file di bambini e genitori
verso la scuola, l'odore dolce del pane appena sfornato che portava
nel Panificio all'angolo e, naturalmente, le campane della chiesa.
Terzo e
ultimo capitolo :) Mi piace come ho reso la vera protagonista della
storia l'ultima a presentarsi, perché Laura era una maschera
“potente”: la protagonista sembra lei, è
scontato, e invece no,
e la mostro solo all'ultimo capitolo. Spero solo di aver reso questa
cosa bene anche per i lettori :)
Piccola nota:
ci ho pensato solo adesso perché lo davo per scontato ma non
lo è: la "x"
in sardo non si dice come la si direbbe normalmente, non ha un suono
marcato e forte, ma leggero e sfumato, quindi "bruxa" si legge un po'
come "brusc[i]a". La i
non si legge ma ve la devo mettere per forza, per non leggere brusca XD Che
sembra più una bruschetta. Lo stessa regola quindi anche per
le altre parole con la x.
Ci
tengo a ringraziare nadine5
per aver messo questa storiella nella lista delle seguite ^^
E
così, questa breve storia si conclude
qui… Fatemi sapere cosa ne pensate!
Ci
rileggiamo in giro, a presto!
Chu!
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3120412
|