Tra il palco e la vita

di MisterPulp
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un nuovo inizio ***
Capitolo 2: *** Lo spettacolo ***
Capitolo 3: *** Glauco alla prova ***
Capitolo 4: *** Carol Banglesia, di madre spagnola ***
Capitolo 5: *** Mia Carosky, di madre polacca ***
Capitolo 6: *** Una strana coppia ***
Capitolo 7: *** Strane sorprese ***
Capitolo 8: *** L'ultimo spettacolo ***



Capitolo 1
*** Un nuovo inizio ***


Mi tremavano le gambe quando entrai nel parcheggio del Disco Pub “Morositas” di Poggiomarino (NA).
I quattro camper color crema scambiato erano dinanzi a me: mi fermai … tremavo come una foglia …
Quel nanetto di Nanni mi venne incontro:
  • Ah, finalmente sei arrivato.
Mi accolse con calore e dandomi una pacca sul braccio mentre io lo squadravo con gli occhi:
era alto appena un metro, era calvo, con gli occhi piccoli e scuri e un naso grosso come un pomodoro.
Madre natura non era stata generosa con lui.
Mi prese per mano e mi trascinò verso il suo camper, come un padre che trascina il figlio con sé verso chissà cosa.
Entrai nel suo camper, nella sua casa.
Non era così piccolo come pareva da fuori: c’era un tavolino per mangiare, un piccolo frigo, una piccola toilette e ben due letti.
C’era poco, insomma, ma in compenso lo spazio era sufficiente per muoversi e respirare.
  • Quello -  disse, indicando il letto più vicino alla toilette – sarà il tuo letto … sempre che Antonio ti voglia.
  • Antonio?
Fu la prima parola che uscì timidamente dalla mia bocca.
  • Antonio, il tuo capo, anzi, il nostro.
  • Quando posso vederlo?
  • Subito!
E senza altre storie, posai la ma valigetta in legno, consumata dal tempo, sul letto.
  • Cos’hai lì dentro? – chiese Nanni indicandola
  • Le mie poche cose.
  • Ovvero?
Restai un attimo in silenzio.
  • Niente riviste sporche, se ti interessa!
Sembrava una battuta ironica, ma l’avevo pronunciata con sguardo serio.
Almeno Nanni dovette prenderla come una battuta, dato che mi rise in faccia, per poi riprendermi per mano e portarmi dal nostro capo.
 
*****
 
Attraversammo il tracciato in polvere del parcheggio per arrivare da Antonio.
Fuori dal suo camper, vidi una figura che catturò subito la mia attenzione: una donna ballava da sola e con dolcezza accanto ad una sedia sulla quale era riposto uno stereo … ballava sulle note di un brano classico.
Non ricordo quale … forse un brano di Schubert.
Non riuscii a vederla in faccia, ma balzò subito alla mia vista i lunghi e lisci capelli biondi che la “inondavano” fin giù alla schiena.
Non m’importò nulla di che vestito avesse indosso (neanche lo ricordo), il mio sguardo era solo per quei capelli e quella figura celestiale.
Senza una parola, Nanni diede uno scossone al braccio che mi fece tornare con l’attenzione sul pianeta Terra.
Dunque mi spinse dentro il camper del nostro capo.
 
*****
 
Mi sedetti su una vecchia sedia in legno ad un tavolo che si affacciava su una piccola finestrella, l’unica del camper.
Dalla toilette uscì un signore vestito di un frac con una coda lunga che gli arrivava fino ai piedi, tutta rossa e con chiazze tonde color giallo, verde e fucsia; il pantalone era bianco e a righe azzurre e largo tre volte la sua taglia, quanto le scarpe bianche di taglia cinquanta … di certo non la taglia dei suoi piedi.
Quell’aspetto buffo faceva pensare ad un autentico clown … o ad una persona buona …
  • Sto provando gli abiti di scena: non sapete bussare? – chiese quest’uomo bruscamente
  • Antonio ... questo – e mi indicò – è quello nuovo.
Dunque quello era il mio capo.
Antonio si ammutolì e si sedette senza pensarci al tavolo con me e Nanni.
Potei guardarlo bene in faccia: aveva una chioma di capelli castani lunghi fino alle spalle, la fronte alta, due occhi piccoli e blu e un naso e una bocca di misura perfetta.
Non era proprio il massimo del fascino maschile, ma non era di certo uno scorfano umano.
A differenza mia che avevo i capelli corti e scuri, gli occhi grandi e verdi, le guance grossacce, la bocca piccola e un naso grosso, per fortuna non come quello di Nanni.
Certo, non che fossi uno scorfano umano (almeno non mi ritenevo così … e sinceramente poco mi importava di quanto fossi bello o brutto), ma di certo Antonio aveva più fascino di me.
Egli mi studiò per un attimo in silenzio e con il solo ausilio degli occhi … poi si riempì un bicchiere con del vino rosso e bevve un sorso d’un fiato.
  • Come ti chiami? – mi chiese
  • Glauco – risposi io con voce bassa
  • Quanti anni hai?
  • Ne ho compiuti trenta due giorni fa. E lei?
Un “botta e risposta” quasi inaspettato, dato che l’interrogato ero io.
Mi sentivo come un bambino con un riflettore puntato in faccia e pieno di curiosità quanto il mio “interrogatore”.
  • Quaranta compiuti un mese fa. – rispose lui.
Due secondi di silenzio. Poi ricominciò.
  • Hai avuto esperienze?
  • Ho fatto qualche spettacolino teatrale anni fa, con una compagnia amatoriale, nei pressi di Scafati.
  • Scafati? Abitavi nella provincia di Salerno?
Annuii.
  • Poi? – chiese lui
  • Poi niente: la compagnia si sciolse cinque anni fa e da allora non ho fatto più nulla … ma mi sono esercitato in questo tempo: se dovessi salire su un palco, sarebbe come se questi anni di pausa non fossero mai passati.
Antonio bevve un altro sorso di vino prima di chiedermi:
  • Non hai un lavoro?
  • No.
  • Proprio niente?
Annuii di nuovo.
  • Voglio essere chiaro – disse – Io e il mio gruppo non abbiamo dimora; avrai notato i camper … non sono solo mezzi di trasporto, sono le nostre uniche abitazioni. Siamo tutti in preda della crisi e ci guadagniamo il pane con pochi soldi, perché solo quelli riusciamo a guadagnare: è un lavoro che da poche soddisfazioni, il nostro.
  • Perché, il successo del pubblico non è una soddisfazione? – intervenne Nanni – Le loro risate non lo sono?
  • Con le risate non ci mangi – ringhiò di rimando Antonio
Rimasi ammutolito, guardando in basso. La domanda fondamentale arrivò, diretta:
  • Perché vuoi fare cabaret?
Restai ancora muto, a guardarlo negli occhi.
  • RISPONDI ! – ringhiò lui, sbattendo un pugno sul tavolo che fece tremare il bicchiere e per poco a far cadere la bottiglia di vino rosso in terra.
Nanni ed io sobbalzammo.
  • PERCHE’ VUOI FARE CABARET? – mi chiese di nuovo con durezza
Non avevo scelta: dovevo rispondere … ma ciò che uscì dalla mia bocca fu:
  • E lei? Perché lo fa?
Non so da dove avessi trovato il coraggio di fronteggiarlo: dentro di me tremavo, ero spaventato da quella figura.
Ora mi picchia e mi sbatte fuori a calci, pensai.
Mi guardò rabbioso, senza una parola.
Ma invece di alzare le mani, rispose:
  • Perché altrimenti sarei un morto di fame!
  • E io sarei un morto e basta! – risposi.
Ci guardammo fissi: il suo sguardo duro vinceva sul mio, insicuro.
Mi aveva in pugno.
Nanni voltava lo sguardo tra me e lui, preoccupato.
Antonio mi versò del vino in un bicchiere vuoto e me lo porse; facemmo un cin-cin e bevemmo: sapeva di aceto.
  • Inizi domani!
Nanni tirò un sospiro di sollievo e mi diede una pacca affettuosa:
  • Benvenuto tra noi – e mi sorrise.
Io iniziai a sciogliermi … ma gli occhi di quell’Antonio mi incutevano un certo timore.
Ancora.
  • Che ore sono? – chiese egli al nanetto
Nanni guardò l’orologio …
  • Le ore 20:30.
  • Dobbiamo festeggiare: si va a cena fuori!
 
*****
 
Poco vicino al Disco Pub c’era una piccola pizzeria/trattoria, “La Giara”; in cinque minuti si raggiungeva comodamente a piedi.
Erano le 21:15 quando mi avviai verso il sosto: avevo impiegato il tempo a farmi una doccia dato che ero sudato non poco (era l’inizio di un giugno afoso) e per cambiare vestito.
La piccola toilette del camper di Nanni aveva davvero poco da offrire: un lavandino, un water e un minuscolo spazio per la doccia; inoltre, lo spazio era stretto in modo che, se mi sedevo sul water, potevo appoggiare la testa sul lavandino.
Ma non mi importava.
Avevo impiegato una buona mezz’ora per asciugarmi con una lunga asciugamano usata, uno dei miei oggetti personali e volevo lavare la camicia sudata, ma si stava facendo tardi e gli altri si erano già avviati: così avevo lasciato la camicia nel lavandino (che avrei lavato in nottata o all’indomani) e avevo messo una vecchia t-shirt color rosso ciliegia.
Pantalone e giacca, color beige consumato, sapevano ancora di pulito, dunque diedi solo una pulitina alle scarpe di camoscio usate e infine mi guardai nello specchio del bagno:
nonostante mangiassi poco, avevo ancora la pancetta.
Lasciai l’asciugamano bagnata sul water, richiusi la valigetta e mi avviai.
Lungo quel breve tratto di strada, la testa mi ribolliva di pensieri: il giorno dopo avrei iniziato una nuova attività e avrei avuto una nuova casa, forse una nuova famiglia.
Certo, quell’Antonio non mi ispirava ancora fiducia, ma forse, col tempo … col tempo … non so cosa sarebbe capitato col tempo, ma volevo avere fiducia nel futuro: mi serviva quel lavoro.


Non mi era rimasto più nulla: mia madre e mio padre erano passati a miglior vita da tre anni e il contatto familiare più stretto l’avevo con la mia anziana nonna, ma ormai ella aveva perso il lume della ragione (aveva novanta anni) ed era incapace di intendere e di volere, figurarsi a mantenere un nipote scapestrato e senza uno straccio di lavoro.
Così, affidata la nonna a Laura, la mia cugina più grande, avevo preparato i bagagli (la mia piccola valigia) ed ero partito: mi era dispiaciuto lasciarle, ma la modesta cittadina di Scafati non aveva più nulla da offrirmi.
Era stato un miracolo quando avevo incontrato Nanni, il nanetto;


ero in un bar e stavo mangiando qualcosa, era tardo pomeriggio: poco dopo avrei fatto l’autostop e sarei andato in giro a cercar fortuna, come si faceva ai vecchi tempi (e come si fa ancora); notai due bambini, un maschietto ed una femminuccia, forse fratellini, che piangevano ininterrottamente.
Era una bella rottura di scatole.
I genitori non sapevano più come calmarli … e io amavo i bambini.
D’impulso mi ero alzato e mi ero avvicinato a loro: sulle prime i due genitori mi avevano guardato storto, ma poi si erano rilassati quando avevo agito: iniziai a cantar loro una canzone in lingua africana, una canzone buffa e insensata e con voce da cartone animato, una canzone che mio padre mi cantava da piccino.
In quella canzone imitavo due personaggi: uno dalla voce altisonante e un altro dalla voce più bassa e rauca, entrambe voci molto buffe; inoltre usavo molto i movimenti degli occhi e del viso: stringevo e spalancavo gli occhi, gonfiavo e sgonfiavo le guance e scuotevo le spalle per rendermi ancor più buffo; poi improvvisai un balletto mentre cantavo e scossi le gambe, saltellando ripetutamente; finita la canzone, feci un inchino e sorrisi ai bambini, che si trattenevano la pancia dalle risate, come i genitori.
Ero felice.
Il suono di un applauso era arrivato al mio orecchio destro; mi girai …
Un nanetto seduto al bancone rideva come un matto e non la finiva di applaudire.
  • Ehi, tu! – mi diceva, indicandomi – Vieni qui!
Lo avevo raggiunto;
  • Come ti chiami?
Ebbi un po’ di dubbi nel rispondergli: in fondo era uno sconosciuto.
  • Perché me lo chiede?
  • Hai bisogno di lavorare?
Non credevo a ciò che sentivo: ma cosa voleva quest’uomo?
  • Cosa? – chiesi stupito
  • Ti serve un lavoro?
  • Beh … sì … - stavo rispondendo imbarazzato
  • Se sai far ridere come ora, potresti andar bene.
  • Per cosa? – domandai io, confuso
Il nanetto mi aveva allungato la mano:
  • Mi chiamo Nanni.
Ora non era più uno sconosciuto, non del tutto: aveva un nome. Gliela strinsi.
  • Io Glauco – risposi.
  • Piacere di conoscerti – rispose – Ora che ci siamo presentati, ti spiego tutto: lavoro come attore comico insieme a degli amici, abbiamo i camper presso il Disco Pub “Morositas”, a Poggiomarino.
In quel momento eravamo a Striano, un paese vicino.
  • Perché non vieni a trovarci stasera? Ti presento al mio capo, potrebbe darti un lavoro.
Non credevo a ciò che sentivo: forse stavo sognando.
  • Mi prende in giro?
  • Assolutamente no! Ti lascio il mio numero – e subito afferrò un tovagliolo e scrisse qualcosa con una penna tirata fuori dalla tasca, per poi porgermelo – Ti ho scritto anche l’indirizzo del locale: vieni stasera e vedremo di darti qualcosa.
  • Ma … - ero imbarazzato a dirgli la verità.
  • Cosa? – chiese lui.
  • Veramente io sono in viaggio …
  • E dov’è la tua macchina?
Quella domanda diretta mi confuse.
  • Non vedo automobili fuori!
Era furbo il piccoletto. Infatti mi lanciò un sorrisetto cattivello.
  • Se non te la senti, non c’è problema, non sentirti imbarazzato …
  • In verità … sono a piedi: ho appena lasciato la mia città e stavo andando a cercar fortuna.
E divenni rosso dalla vergogna.
Nanni scoppiò a ridere.
  • A cercar fortuna? – domando ridendo, ma con una vena di malinconia – Come nei film?
Nonostante l’imbarazzo, mi feci serio:
  • Non ho più niente: ho perso i genitori e mia nonna si è ammattita; sono scappato perché ero incapace di pensare a lei. Non so dove andare, non so cosa fare, so solo che devo allontanarmi, che devo tentare qualcosa, altrimenti sarò morto!
Avevo parlato veloce. Non ero arrabbiato, ero solo infastidito.
Nanni aveva smesso di ridere; mi aveva poggiato una mano sulla spalla e aveva detto:
  • Scusami.
Rimanemmo zitti per due secondi, poi un lampo si accese nella sua testa:
  • Senti, io ho un letto in più nel mio camper: se il capo ti “assume”, puoi dormire da me.
Mi parve che un raggio di sole mi inondasse il viso: un miracolo.
Gli sorrisi, come un bambino che sorride al padre che gli ha promesso un bel gioco.
Non serviva aggiungere altro. Si era alzato e andandosene disse:
  • Ti aspetto per stasera verso le otto.
Ed era sparito.
Avevo lanciato un’occhiata al tovagliolo scritto: non c’era bisogno di telefonare al numero … mi bastava l’indirizzo.

 
Ed ecco che camminavo felice lungo una strada consumata dal tempo per raggiungere la mia nuova famiglia in pizzeria, pronto ad iniziare una nuova vita.
 
*****
 
Alle 21:20 arrivai alla pizzeria “La Giara”: mi accolse Nanni, fermo sulla porta principale.
  • Ce l’hai fatta, eh?
Mi sorrise e mi lasciò spazio per entrare. Il locale era quasi vuoto: gli unici clienti eravamo noi.
Una tavolata di sette persone aspettavano me: ora eravamo al completo.
Mi sedetti affianco a Nanni, affianco a lui c’erano Oreste e Federica (), i cugini più grandi di Antonio: lui grassoccio e buffo, lei magra e altrettanto bruttina e buffa; ancor più affianco Gigi e Lisa, due anziani marito e moglie e genitori di Antonio; lui bassino, lei più alta, ma entrambi con i lineamenti del figlio; accanto a loro c’era quest’ultimo, stavolta di natura allegra e con in mano un bicchierone di birra.
La quarta di quella sera.
Mi sorrisero e mi salutarono tutti, tranne Antonio che era impegnato con una conversazione a bassa voce con una donna: la mia vista e il mio udito caddero subito su di lei.
  • Secondo te – chiedeva ella ad Antonio – questa parrucca mi sta bene?
  • Ma perché l’hai messa per uscire?
  • Volevo vedere come mi sta … mi sta bene o no?
  • Che ne sooooo … sì, ti sta bene, dai! – rispondeva un Antonio scocciato e mezzo ubriaco.
La riconobbi subito: era la donna che avevo visto fuori dal camper di Antonio, la donna che ballava dolcemente sulle note di un tema di Schubert.
Ora potevo vederla in viso: aveva i miei stessi occhi, grandi e verdi (forse più scuri), un naso alla francese e una bocca di grandezza perfetta, due labbra carnose e ammorbidite da un grazioso rossetto color lampone; inoltre aveva una fronte piccola che ben si sposava con il viso.
La bella chioma bionda aveva lasciato posto a dei capelli ricci e castani … una parrucca.
Parrucca o no, non potevo che rimanere colpito da tanta bellezza … e dal bel paio di tette che si intravedevano dalla sua camicetta.
Quando mi sedetti, i due si accorsero di me.
  • Ciao, Glauco. – disse Antonio alzando il bicchiere in segno di saluto.
  • Piacere. – disse la donna al suo fianco, sorridendomi e mostrando tutti i suoi denti perfetti.
Mi sentì vibrare: sorridendo era ancora più bella. Le risposi con un timido sorriso e un cenno della mano.
Arrivò un cameriere:
  • Siete pronti per ordinare?
Non mancava nessuno: sì, eravamo pronti.
Io mi accontentai di una pizza bianca con pomodorini, mentre gli altri si ingozzavano di crocchette di patate, arancini, zeppole fritte con sale e olio e pizze imbottite di ogni ben di Dio: chi la prese con salame e peperoni, chi con salsiccia, pomodoro e wurstel, chi con melanzane e salsiccia, chi con patatine e peperoncini … dovevano avere una gran fame.
Mangiavano in silenzio, ogni tanto interrotto da qualche chiacchiera su argomenti a caso (il calcio, la Formula 1, i ricordi dei vecchi spettacoli), io rimasi zitto … avevo occhi solo per la bellissima donna accanto ad Antonio, che ogni tanto accarezzava sul viso e rideva alle sue battute; dovette accorgersi che la guardavo, dato che, d’un tratto, mi lanciò un’occhiata curiosa ed io, di scatto, abbassai lo sguardo verso la mia pizza e continuai a mangiare.
Poi i nostri bicchieri furono riempiti di birra e il capo si alzò:
  • Adesso facciamo un brindisi al nuovo arrivato – e indicò me – nella speranza che domani ci faccia fare bella figura e che non ci faccia cacciare a calci in culo!
Ci fu un momento di imbarazzo, la battutaccia non era piaciuta. Ma poi tutti alzarono i bicchieri in segno di un brindisi: io fui l’ultimo a brindare.
Bevvi a stento un sorso di birra, mentre Antonio finì il bicchiere in un sorso.
Il suo quinto bicchiere.
  • Nanni! – urlò il capo al nanetto – Com’è che lo conosci? – chiese, mentre mi indicava ancora
  • L’ho conosciuto stamattina in un bar.
Tutti si zittirono.
E mi guardarono come se ci fosse uno scarafaggio a tavola con loro.
Antonio alzò il tono di voce:
  • E tu porti uno sconosciuto a casa nostra?
Iniziava a scaldarsi.
Io ero stupito: guardai Nanni;
  • Ma scusa – gli chiesi – non gli hai detto niente?
  • Gli ho detto che probabilmente c’era uno nuovo e lui non ha chiesto nulla, solo di incontrarti.
  • Pensavo che fosse un tuo amico! – ringhiò Antonio.
  • Beh – sorrise preoccuoato Nanni – lo è da stasera!
Il nostro capo sbatté un pugno sul tavolo;
  • Ma come? – urlò – Io mi fido di te da una vita ... e tu mi porti uno qualunque? Magari è un ladro!
Tutti continuavano a guardarmi sospettosi.
  • Non c’è bisogno che ti infuri! – rispose il nano di rimando e senza timore – Eri tu che dovevi interessarti meglio, te ne sei fregato: ora lo accetti come uno di noi! E poi non è un ladro, è un vagabondo come noi e si aiuta chi è in difficoltà … hai visto la sua valigia in che stato è? Se fosse un ladro non ne avrebbe una più decente? O vestiti più decenti?
Mi sentì piccolo come una formica.
Il capo lo guardò per svariati secondi, poi sembrò calmarsi: si rimise a sedere;
  • Mi fido di te da sempre … voglio fidarmi ancora: ma se domani va male o combina qualche casino, va fuori dalle palle.
E ci fu il silenzio. Di nuovo. E tutti con le facce nei piatti.
D’un tratto, il capo scoppiò a ridere.
  • Che hai? – chiese la donna al suo fianco
  • Mi è venuta in mente una barzelletta – disse lui, come se il fatto di pochi secondi prima non fosse mai accaduto
  • Beh, raccontala! – rispose il padre, stringendo la mano al figlio, sorridente.
Tutti gli porsero attenzione, io ero ancora stordito da quanto avvenuto, ma mi sforzai di ascoltare:
  • Allora … tre carabinieri vanno a caccia in un bosco; il primo spara un colpo e colpisce qualcosa, va per vedere e i colleghi chiedono: “Cos’hai colpito?” e lui risponde: “Dalla pelle, sembrerebbe un orso”. Il secondo spara e colpisce qualcos’altro, va a vedere e i colleghi chiedono: “Che cos’hai colpito?” e lui risponde: “Dalle ali, sembrerebbe un pavone”. Il terzo spara e colpisce un’altra cosa, va a vedere e ritorna preoccupato; i colleghi chiedono: “Cos’hai colpito?” e lui fa: “Dai documenti … sembrerebbe un comunista!”
E scoppiò a ridere … e i genitori a seguire. I cugini ridevano a denti stretti, Nanni fingeva di ridere, io e la ragazza misteriosa eravamo muti.
Antonio se ne accorse: guardò prima lei e poi me:
  • Che c’è? – chiese ad entrambi – Non vi ha fatto ridere? … Glauco – e mi guardò – non ti ha fatto ridere?
Trovai coraggio per rispondere:
  • In verità … non l’ho capita.
  • Come sarebbe? – chiese lui
  • Non l’ho capita!
Riprese ad alzare il tono di voce:
  • Ma è divertente … - come se cercasse l’approvazione da me.
  • Neanche io l’ho capita!- esordì la ragazza.
Avvenne tutto in un lampo: Antonio l’afferrò per la gola e la sbatte in terra, prendendola a calci nello stomaco e a schiaffi più volte in faccia.
Tutti rimasero immobili, terrorizzati.
Come me.
Quando ebbe finito tornò a sedersi come se niente fosse.
La ragazza era stesa per terra a piangere in silenzio.
Il cameriere aveva visto tutto, ma rimase al suo posto, in disparte.
  • IO … - urlò il capo – DECIDO COSA FA RIDERE: IO SONO IL CAPO, IO VI SFAMO E IO COMANDO!
Nessuno fiatò.
Cinque minuti dopo, egli pagò il conto e ci alzammo tutti per andarcene.
La donna era ancora per terra, immobile e muta.
Nessuno si azzardava a darle una mano a rialzarsi.
Se voleva alzarsi, dipendeva solo da lei.
Uscirono tutti e la lasciarono sola; io rimasi indietro … avrei voluto aiutarla … ma avevo paura del capo …
Alla fine mi decisi: corsi da lei e l’alzai da terra, facendola sedere su una sedia.
Mi guardo sorpresa …
Senza una parola, uscì di corsa dal locale.
 
*****
 
Erano le undici di sera.
Eravamo tornati da appena dieci minuti e tutti si erano già rintanati nei loro camper.
Nessuno aveva chiesto della ragazza.
Nanni notò che tremavo, così mi diede un’altra pacca sul braccio;
  • Stai tranquillo, fa sempre così quando beve.
  • E quando beve?
  • Quasi ogni sera.
Andai a prendere la sedia accanto al camper di Antonio, quella che sorreggeva ancora lo stereo, tolsi quest’ultimo e la portai accanto al mio camper, dunque mi sedetti.
Dovevo scaricare la tensione: non potevo dormire così.
  • Ti senti bene? – chiese il nano sulla porta
  • Sono solo un po’ teso … ora mi passa …
Di colpo ebbi seri dubbi sulla mia vita: quella prospettiva di fare cabaret ora mi preoccupava seriamente ...
Ok, mi piacevano i bambini e mi piaceva far ridere e soprattutto amavo recitare: gli anni trascorsi a recitare con la compagnia amatoriale della mia città natale erano stati tra i più belli e divertenti della mia vita, ma ora, in quel gruppo, con un uomo brusco come capo avevo paura di sbagliare tutto …
Ma che potevo fare? Tornare a Scafati e ricominciare da capo con il nulla?
Possibile che la mia vita doveva basarsi sul nulla?
  • Sono preoccupato per domani. – confessai – Sono preoccupato per Antonio.
  • Hai paura di lui? – domandò Nanni.
Annuii.
  • Una volta che ci fai l’abitudine – mi disse – non lo temi più.
Era una magra risposta, ma meglio di nulla.
Rientrò nel camper e mi lasciò solo, in balia delle mie paure.
Poi la vidi arrivare: la donna misteriosa attraversava il parcheggio di ghiaia e si avviava lentamente nel suo camper, nella casa del capo.
La sua casa.
Mi alzai e le corsi incontro, fregandomene che potessero vederci, in particolare che mi vedesse il capo.
  • Ehi! – la chiamai.
Ella aveva occhi solo per il camper, ma poi si girò e guardò me che gli andavo incontro; rallentò il passo sino a fermarsi e si fece raggiungere.
  • Stai bene? – chiesi preoccupato
Aveva una scia di sangue secco che le arrivava fino al labbro inferiore e la guancia sinistra gonfia, ma stava bene.
  • Non preoccuparti.
Stava per riavviarsi, quando la fermai:
  • Perché ti ha picchiato?
Si rifermò per rispondermi;
  • Mi picchia sempre quando beve … gli piace – mi colpì il modo in cui lo disse: senza emozione, come un animale rassegnato alle sevizie del padrone.
  • Non dovrebbe farlo!
Mi guardò fissò. Non sapevo cosa dire … il mio sguardo era perso nel suo … con i suoi occhi avrebbe potuto leggere l’anima di ogni persona … Dio, quanto era bella!
  • Sciupa la tua bellezza! – risposi come uno scemo e arrossendo.
Pensai che mi avrebbe guardato schifata e sarebbe filata via … invece mi sorrise tristemente.
  • Grazie – mi disse.
Fui sollevato.
  • Dico sul serio – continuai – sciupa la tua bel …
  • No … grazie per prima. – e il sorriso lentamente si spense.
Dunque filò nel camper di Antonio, togliendosi finalmente la parrucca riccia e castana e lasciando arieggiare la bella e lunga chioma bionda.
Rimasi fermo ad osservarla entrare e chiudersi dietro la porta.
Nanni mi chiamo a sé. Corsi nel mio camper.
Appena ebbi chiusa la porta, egli mi disse:
  • Non perdere tempo con lei, è la donna del nostro capo!
  • Me n’ero accorto … però è bella. – risposi sorridendo come un idiota
  • E’ pur sempre la donna del capo!
E filò dritto nel bagno.
  • Cos’è questa camicia nel lavandino?
  • E’ mia. – risposi – E’ sudata, la lavo domani.
Si affacciò da fuori alla toilette, mi guardò due secondi e ricacciò la testa dentro.
Mi sedetti sul mio nuovo letto e mi spogliai lentamente.
Solo in quel momento mi venne in mente la cosa più importante:
  • Nanni … ma lei come si chiama?
  • Carol! Carol Banglesia! – urlò lui da dentro il bagno.
  • Che strano nome …
  • E’ spagnola!
  • Sul serio? – chiesi io, sorpreso – Ma parla bene l’italiano, sembra italiana …
  • La madre era spagnola!
Ora si spiegavano i suoi begli occhi grandi.
Grandi e verdi come i miei.

Dieci minuti dopo dormivo profondamente, sognando tori, toreri e spagnole sexy.

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Capitolo 2
*** Lo spettacolo ***


La mattina dopo facemmo colazione ognuno chiuso nel proprio camper, in silenzio.
Mi affacciai alla finestrella, l’unica della mia nuova casa, mentre davo un morso ad un panino con cioccolata spalmabile da discount (ma commestibile): il cielo era nuvoloso e pareva tutto tranquillo … non camminava una persona da quelle parti di mattina.
Guardai l’orologio: erano le nove.
Tornai a sedermi e a bere un sorso di caffèlatte freddo preparato ad Nanni.
Fu lui a rompere il silenzio:
  • Come hai dormito? – mi chiese sorridente
  • Non male – risposi … in verità il materasso era un po’ sprofondato nella parte centrale, infatti sentivo un po’ di male alla schiena, essendo abituato a dormire a pancia all’aria.
  • Senti ansia per stasera?
  • Non lo so … è tutto nuovo per me.
  • Spero che ti divertirai.
  • Devo divertirmi!
Quel “devo” diceva tutto: se non mi tenevo stretto quelle persone e quel lavoro, ero spacciato.
  • Stasera abbiamo uno sketch con dei bambini: tu ed Antonio vi vestirete da clown.
  • Io e Antonio? – chiesi, sobbalzando
  • Sì e Carol reciterà con voi.
Sentendo quel nome, mi parve di star meglio.
  • A che ora è lo spettacolo? – domandai
  • Alle otto.
  • Alle otto? Ma non è un po’ prestino?
  • Senti – mi guardò fisso – gli orari non li stabilisco io e neanche Antonio, li stabiliscono le persone che gestiscono locali, teatri e altro: si è deciso per le otto e alle otto andiamo in scena.
Ci fissammo un attimo.
  • E quanto durerà il tutto?
  • Forse un’oretta, per noi.
  • Così poco? – chiesi un po’ deluso, dato che mi aspettavo un esordio migliore.
  • Non recitiamo solo noi, c’è un altro gruppo che si esibirà prima di noi. E se non ti sta bene, quella è la porta – ed indicò la porta del camper.
Mi ammutolii.
Nella voce di Nanni non c’era rabbia, forse un po’ di durezza, ma era solo perché non gli andava di discutere appena alzato e a colazione.
Così pensai.
E ci azzeccai, dato che egli tornò a sorridermi.
Mi guardai intorno:
  • Non c’è un televisore qui?
  • Il televisore rincretinisce la gente e infatti, ora, si vedono i risultati: certa gente nin riesce più neanche ad andare di corpo; non vedi quanti repressi mentali e folli ci sono in giro? 
  • Dai, non esagerare …
  • Non esagero: la gente di questi tempi ha dimenticato cosa vuol dire essere umani … cosa vuol dire vivere.
Ci ammutolimmo e tornammo a mangiare.
 
*****
 
Passai più di un’ora nel camper di Oreste e Federica, seduto su una sedia in plastica mezza rotta mentre loro armeggiavano con diversi costumi di scena: Federica cuciva le parti scucite e Oreste li stirava.
  • Ma se avete da fare vado via … - dicevo io più volte.
  • No, no – rispondeva Oreste – Aspetta … - e non solo una volta
Ma che volevano da me? Perché dovevo star lì, fermo, a girarmi i pollici?
  • Devi osservare i costumi – rispose Federica – Iniziare a farti un’idea di cosa dovrai indossare quando salirai sul palco.
  • Ma non c’è bisogno di farmi aspettare così, inutilmente – contrattaccai io – Non ha senso!
  • E come vuoi passare la mattinata? Prendendo a calci i sassi? Andandotene in giro? Credi che qui ci divertiamo? No, bello mio: qui si lavora e lavori anche tu!
Ella aveva alzato la voce. Mi zittì.
  • Ecco – disse, finendo l’ultima cucitura su un vestito bianco con due strisce nere sui lati – Questo andrebbe bene per fare il pagliaccio triste.
  • E chi lo farà?
  • Tu: hai la faccia giusta.
 
*****
 
Uscii dal loro camper vestito in quel modo buffo, con scarpe bianche taglia cinquanta e un cappello a cono in testa.
Sembravo Pinocchio senza il naso lungo.
  • Al trucco ci penserà mia madre stasera – esordì Antonio venendomi incontro – Ora proviamo un po’ lo sketch.
  • Con gli abiti di scena?
  • Certo.
  • E se si sporcano?
  • Siamo in un parcheggio: salvo un po’ di polvere, di cosa vuoi che si sporchino? Una sbattuta e sono come prima? E poi ci vedi, no? Riesci a distinguere una cagata di cane per terra se ci passi sopra, no?
  • Sì.
Che “bel” modo di accogliere un “collega”.
Non vedevo però Carol. Buttai un occhio alla roulotte di Antonio: probabilmente era lì dentro a riposarsi … o forse a “riprendersi” … forse quel bastardo gli aveva dato il resto
  • Bene – disse lui e tirò fuori dei fogli di carta, mostrandomeli – Questo è lo sketch dei pagliacci: io e te siamo due fratelli, io quello buffo e tu quello triste. Io sto dipingendo una porta, tu entri e io ti dipingo la faccia; tu per ripicca mi strappi i vestiti di dosso e riveli un altro vestito che avrò sotto.
  • Quale?
  • Uno da donna; poi mi togli la bombetta dalla testa e riveli dei capelli biondi. A quel punto ti inseguo attorno alla porta, poi dalla stessa entra Carol che sarà la nostra mamma.
Feci una risatina immaginando Carol come mamma …
  • E cosa dirà? – chiesi io.
  • Non ti interessa: lei ha la sua parte e la sta studiando.
  • Da sola? Nel camper? – chiesi, indicando proprio quest’ultimo.
  • Sì, da sola e nel camper. – tagliò corto - Torniamo a noi … dopodiché tu dici queste battute – e mi porse il copione.
Lessi velocemente le mie battute in testa. Egli si avvicinò a me;
  • E io leggo le mie, queste qui – e le indicò sulla carta.
Mi venne da sorridere pensando al contenuto dello sketch.
  • E’ simpatico, ma sembra più una cosa da circo. – dissi.
  • E’ uno sketch per bambini, vanno pazzi per i clown.
  • Ma non mi sembra cabaret vero.
Mi guardò fisso, rabbioso.
Ricordai l’episodio della sera prima … e mi sentì tremare.
  • Ti ricordo che sono io il capo, io ti sfamo e decido io cosa fa ridere!
Aveva ripetuto le stesse parole pronunciate la sera prima, ma invece di urlare le aveva sussurrate con voce rauca, quasi per incutermi timore.
E c’era riuscito.
Mi fulminò con gli occhi.
Mi aveva in pugno.
  • Hai ragione – tagliai corto. – Va bene proviamo … ah … ce la faremo ad imparare tutto questo in mezza giornata?
  • Beh, non perdiamo altro tempo: volere è potere.
 
*****
 
Si fecero le due del pomeriggio.
Io e Antonio provavamo ancora le nostre battute. Lui mi spiegava come muovermi e io imparavo subito.
E me la cavavo abbastanza bene nel fare il pagliaccio triste … ma il mio sogno era far ridere i bambini.
Antonio era bravo nel fare la parte che avrei voluto fare io: il pagliaccio buffo. Muoveva gli arti nel modo giusto e calibrava il tono di voce come si deve … nella vita era un burbero, nella finzione pareva saper fare il suo dovere.
Provammo fino alle due e mezza, poi ci ritirammo nei nostri camper per pranzare.
Non che mangiai chissà che: due panini piccoli con petto di pollo tagliato a fette (sempre del discount) e una mela. Feci attenzione a non sporcare il vestito.
Alle tre io e il capo eravamo di nuovo operativi.
Verso le quattro però Antonio si fermò e mi guardò fisso: analizzò il mio corpo, i miei arti e il mio sguardo confuso dal suo indagatore.
  • Senti – esordì sorridendo con malizia – Ma perché non fai tu il pagliaccio comico?
Sgranai gli occhi.
  • Cosa?
  • Prova a leggere le battute del pagliaccio comico, voglio vedere come te la cavi – rispose lui, ridendomi in faccia.
Era un test di prova: glielo lessi in quei denti esposti alla luce.
Ma l’idiota non sapeva che era quello che aspettavo.
Afferrai il copione e recitai le battute del pagliaccio buffo, improvvisando alcuni dei movimenti che prevedeva il copione.
Dopo tre minuti, tutti i componenti del gruppo erano attorno a me a guardarmi sbalorditi: Gigi e Lisa si reggevano la pancia dal ridere e Oreste e Federica sorridevano soddisfatti … anche Carol mi sorrise e ricambiai anch’io di rimando, lanciandole un’occhiata dolce.
Antonio mi guardò furente per un momento: l’avevo messo spalle al muro … avevo superato il test.
Ma ormai era tardi per riprendersi il suo ruolo: io avrei interpretato il pagliaccio buffo.
 
*****

Erano le sette e mezza di sera.
Lisa, la madre del capo, stava finendo di truccarmi gli occhi da pagliaccio su un volto già di suo dipinto di bianco.
Non avevo contraddetto nulla, ma quando mi mostrò il rossetto da adoperare sulle labbra (rosso scuro), chiesi:
  • Non ha qualcosa di un po’ più chiaro?
  • Perché?
  • Perché in fondo mi vesto anche da donna … giusto per dare un tocco di ironia in più …
Mi fissò come per dirmi: Credi che non sappia fare il mio lavoro?
Ma poi analizzò meglio il rossetto ... forse ci avevo azzeccato … infatti mi disse:
  • Dovrei averne uno più chiaro … fammi controllare.
 
*****
 
Mezz’ora dopo, alle otto (e cinque minuti), ero sul palco del Disco Pub.
Era un palco piccolo, di quelli che si montano per specifiche messe in scene in spazi ristretti: infatti non mi trovavo in un teatro, ma in una sala per il ristoro, comunque non così piccola, riempita da almeno una trentina di tavoli.
Diversi occhi di diverse persone mi osservavano, ma io non potevo ricambiare, dato che lo sketch iniziava con il pagliaccio buffo girato in parte di spalle, intento a dipingere una porta  in legno con pittura azzurra.
Mi tremavano le gambe: non recitavo da anni.
Trovai coraggio quando i bambini risero del mio aspetto: una giacchetta nera con cerchi di colori arcobaleno, grande tre volte la mia taglia, un pantalone a righe con macchie (volute) e il paio di scarpe del pagliaccio triste: Antonio si era voluto tenere le sue.
Sorrisi come un perfetto idiota e mi girai a guardare la platea: genitori e bambini ricambiavano il sorriso.
Qualcuno bussò alla porta.
  • Ooooh, ma chi sarà mai? – esordì con un vocione alto e grottesco, degno di un cartone animato.
E tutti i bimbi a ridere.
  • Io non aspetto nessuno – continuai.
Aprì la porta e vidi Antonio truccato in viso di bianco con due sopracciglia grosse e una lacrima sotto l’occhio sinistro, tutto dipinto in nero.
Gli passai il pennello in faccia e si ritrovò naso ed occhi dipinti d’azzurro.
E giù risate grosse di bimbi e genitori.
  • Eh, lo dicevo che non c’era nessuno!
E via ad altre risate. E risi anch’io: era previsto nel copione che prendessi in giro il pagliaccio triste.
Antonio tirò fuori una bella faccia triste e buffa contemporaneamente; poi mi guardò rabbioso e mi stracciò la giacca da dosso, rivelando la camiciona da donna obesa color turchino.
  • Ehi! – urlai goffamente.
Poi mi tirò via la bombetta e rivelò, come da copione, una parrucca riccia e bionda.
Ora ero una perfetta donna obesa, salvo il pantalone e le scarpe.
Tutta la platea si teneva la pancia dalle risate.
Ora era Antonio a ridere. Prese il cappello da terra e iniziò a correre attorno alla porta di scena.
Lo inseguivo.
  • Vieni qui: ridammi il mio cappello! – urlai
  • No, nooooo … no, noooooooooooo! – rispondeva lui ridendo.
Usavamo entrambi una voce altisonante da cartone animato, gesticolando con braccia in aria (io) e bracciate avanti e indietro (lui): una perfetta coppia di scemi.
Dalla porta di scena entrò Carol, sorridendo al pubblico: partì un applauso.
Finimmo di rincorrerci, come da copione.
La guardai: aveva usato una massiccia dose di trucco sul viso (anche per coprire la guancia gonfia), truccato gli occhi di un bel colore blu marino che si intonava bene coi suoi occhioni verdi, adoperato un rossetto color frutti di bosco … e il vestito mi colpì ancora di più: era lo stesso vestito bianco con diamanti cuciti sulla stoffa che le avevo visto indosso la prima volta, il giorno prima, mentre ballava sulle note di Schubert; infine aveva due splendide e robuste gambe scoperte e un paio di scarpe dorate da ballerina.
Di per sé era già bella, ma così era una fata.
Ci guardò stupefatta … come da copione.
  • Che avete combinato? – chiese con una voce da oca.
  • Lui – e indicai il pagliaccio triste – mi ha rovinato il vestito – risposi piagnucolando come una peste.
  • E lui – ricambiò l’altro – mi ha dipinto la faccia.
E mostrammo al pubblico il labbrone inferiore e riducemmo gli occhi a fessure: due perfette facce da scemi.
E giù altre risate.
  • Ragazzi, ragazzi … quante volte vi ha detto la vostra mamma che non dovete litigare? – chiese l’ “oca”.
  • Ma mammina – proseguì io – il mio fratellone è cattivo, mi umilia sempre.
  • Perché tu no? Tu sei il primo che mi prende in giro, guarda la mia faccia!
  • Ma stai zitto!
  • No, stai zitto tu!
  • No, tu!
  • Tu!
  • Tu!
  • Tu!
I bimbi non la smettevano di ridere.
  • TUUUUUUUUUUUUUUUUU !!!
E mi spostai, nascondendomi dietro la “mamma”. Il fratellone cercava di prendermi.
Ancora risate.
Io muovevo il corpo della “mamma” a destra e a sinistra, cercando di coprirmi dagli attacchi, lo facevo grazie ai suoi bei fianchi.
  • Ehi, smettetela! – urlava l’ “oca”.
Ma non la smettevamo: io la muovevo sempre più bruscamente, a momenti la facevo cadere … eravamo perfettamente in sintonia: tutti e tre buffamente in sintonia.
  • Ora basta! – urlò, lasciando andare la mia presa e afferrando entrambi i pagliacci per le orecchie.
  • AAAAAH! AHIAAAAA!!! – urlammo altisonanti entrambi.
E ancora risate.
  • Ora fate la pace o vi faccio il culo rosso!
Ci guardammo un momento.
  • Va bene … va bene … - dissi io
I due fratelli clown si strinsero la mano … ma poi saltarono giù dal palchetto con un balzo.
E dunque io inseguivo il pagliaccio triste correndo tra i tavoli.
La gente rimase sorpresa: non se l’aspettavano.
Continuavamo a sbraitare con le braccia e a tratti saltavamo come due pony; i bambini erano estasiati.
Balzò giù anche la “mamma” e ci insegui, urlando buffamente:
  • Tornate subito qui!
Ma noi niente, continuavamo a saltellare tra un tavolo e l’altro urlando e facendo versacci cartooneschi.
Molto infantile come scelta, ma per far ridere si fa di tutto.
Alla fine risalimmo sul palco con l’ “oca” alle calcagna e ci prendemmo a strattoni.
Risalì anche lei e ci separò, per poi prenderci per le orecchie.
  • Va bene, adesso basta! Ci vuole un bel culo rosso!
E giù risatone.
Cominciò con me: mi fece inchinare a novanta gradi e cominciò a sculacciarmi: io mi lamentavo come un bambino, per far ridere … ma dentro di me mi stava salendo un’eccitazione pazzesca.
Ebbi il sospetto di avere un’erezione e mi spaventai: con i bambini presenti …
Ma poi toccò al pagliaccio triste e io rimasi in quella goffa posizione, tirando un sospiro.
Alla fine l’ “oca” parlò al pubblico, sorridendo:
  • Ecco cosa si fa ai bambini capricciosi: prendete esempio!
Ovviamente era una battuta e gli spettatori la presero per tale … forse.
Partì un applauso generale e tutti e tre sorridemmo loro, inchinandoci.
Dunque sparimmo dal palco.
Era andata bene.

*****

Per quella sceneggiata guadagnammo cinquanta euro a testa. Una miseria.
Ma la soddisfazione più grande fu di ricevere sorrisi e abbracci dai genitori e dai cugini di Antonio.
  • Devo ricredermi: ci sai fare. Bravo – disse quest’ultimo, dandomi una pacca sulla spalla.
E si avviò senza dire altro nel suo camper.
Poi arrivò correndo proprio colei che più di tutti desideravo: Carol.
Mi saltò addosso con un abbraccio, mi stampò un bacio sulla guancia sinistra e mi guardò sorridendo con tutti i bei denti bianchi e perfetti.
  • Sei stato bravissimo.
  • Ho fatto quello che potevo … - dissi io, timidamente.
  • Invece sei stato in gamba: bravissimo.
Intanto gli altri rientravano pian piano nelle loro “case”: dovevano cambiarsi per la cena … avevamo il tavolo prenotato nel Disco Pub: era il minimo, vista la miseria guadagnata.
  • Ehi, ti va di portarmi a fare un giro dopo cena?
Spalancai gli occhi … forse non avevo sentito bene … cioè … Carol, la donna più bella che avessi mai visto mi chiedeva di farle compagnia dopo cena?
Diventai rosso come un peperone.
  • Non so se …
  • Certo che ti ci porta! – intervenne in mio soccorso Nanni
  • Perfetto: allora dopo cena, ok?
E mi scoccò un altro sorriso dolce, prima di avviarsi in “casa” per cambiarsi.
Sentii il cuore che martellava sotto le costole … e non lentamente.
 
*****
  • Come faccio a portarla fuori? – domandai preoccupato a Nanni mentre mi toglievo il costume nel camper.
  • Come sarebbe come fai? La porti a fare un giro, le compri qualcosa, parlate un po’ …
Parlava con molta tranquillità, non si rendeva conto della gravità della situazione.
  • Non posso farlo: è la ragazza del capo, se lo scopre mi fa a fettine.
  • Non lo scoprirà, fidati.
  • Come fai a dirlo?
Ero preoccupato sul serio.
  • Fidati: non lo farà.
Mi zittii un attimo mentre mi toglievo i pantaloni e le scarpe di dosso; dunque rimasi in mutande dinanzi agli occhi del mio amico nano.
  • Ma poi … perché me l’ha chiesto lei? Non capisco …
  • Perché gliel’ho consigliato io!
Mi bloccai dinanzi alla porticina della toilette.
Lo guardavo sbalordito, non riuscivo a sbattere le palpebre.
Sembravo esser diventato una statua grottesca.
  • Come sarebbe?
Mi sorrise. Il furbone.
 
*****
 
Alle sette di sera, mentre Carol si iniziava a preparare per lo spettacolo, Nanni l’aveva chiamata nel suo camper perché, a sua detta, aveva bisogno di un consiglio urgente.
Quando furono soli, egli chiuse la porta a chiave e affrontò la ragazza a tu per tu, ma con serenità, come un genitore che da delle dritte ad una figlia adolescente:
  • Quello nuovo ha una cotta per te!
La risposta di lei fu diretta:
  • Mah, non credo … - intanto i suoi occhi mentivano.
  • Non dire scemenze! – Nanni se n’era accorto – Hai visto come ti guarda? Quello si è innamorato a prima vista!
  • Perché, esiste ancora l’amore a prima vista? – fece lei, sorridendo, ma con un velo di malinconia negli occhi.
  • Tutto può essere!
  • Dunque?
  • Dunque niente: invitalo ad uscire!
  • Sei pazzo? – e alzò leggermente il tono di voce – Antonio mi ammazza.
  • Ci penso io! – e detto ciò, le aveva mostrato una piccola boccetta contenente sonnifero.
 
*****
 
La stessa che ora stava mostrando a me.
  • La uso ogni tanto quando ho problemi di sonno: stasera il sonno l’avrà Antonio.
Il mio viso si allargò in un’espressione di gioia. Nanni sorrideva ancora.
  • Tanto domani dobbiamo partire presto: una buona dormita gli farà bene.
  • Tu sei pazzo! – dissi io, scoppiando a ridere.
Dunque corsi da lui e lo abbracciai.
  • Ma non saltarle subito addosso!
  • Ma vai al diavolo!
E ridemmo insieme.
 
*****
 
Nella sala in cui avevamo tenuto lo spettacolino, noi e l’altro gruppo di cabarettisti, ora si stava esibendo un dj con della musica di intrattenimento. Le famigliole con bambini avevano lasciato posto a coppie di giovani.
In un’altra saletta, più tranquilla, mangiavamo tutti e otto.
Tutti si ingozzarono nuovamente di cibarie varie: grigliata di carne con melanzane arrostite sott’olio, polpettine al sugo piccante, bruschette con olio, pomodorini ed origano e involtini di pesce crudo con salsa tonnata.
Siccome questi ultimi mi facevano schifo, mangiai appena un po’ di carne (buonissima) e qualche polpettina.
Ma mi chiedevo da quando le gocce di sonnifero avrebbero iniziato a fare effetto.
E poi come faceva Nanni a metterle nel suo bicchiere sotto gli occhi di tutti?
A questo ci aveva già pensato: era entrato nella sala per primo e aveva versato immediatamente cinque o sei gocce nel bicchiere vuoto di Antonio.
Poche, ma tanto con tutto il vino che beveva, avrebbero fatto effetto lo stesso.
Tra un boccone e l’altro, lanciai delle occhiate a Carol e lei, quando il compagno era distratto nel raccontare battute ai cugini, mi rispondeva con un occhiolino.
E io mangiavo con maggiore voglia boccone dopo boccone.
 
*****
 
Uscito dal locale, Antonio accusava giramenti di testa: si era scolato due bottiglie di vino bianco pregiato, uno di quelli dalla gradazione altuccia.
  • Ho sonno …
In fondo quelle poche gocce di Nanni stavano facendo in parte il loro dovere. Carol lo sorreggeva.
  • Voglio andare a letto! – urlò a tutti.
  • Ma come? – chiese il padre – E la nostra partita a poker?
  • Rimandiamo a domani – rispose il figlio, stonato – Dobbiamo affrontare un viaggio e ho proprio bisogno di dormire.
Gigi sospirò.
  • Va bene.
Dentro di me, sentivo un leone che ballava la salsa, pensando a ciò che mi aspettava a breve.
Nanni mi lanciò un’occhiata. Ricambiai.
 
*****
 
Alle 22:15 uscì in silenzio dal camper, con gli stessi vestiti della sera prima.
Mi avviai in punta di piedi all’uscita del parcheggio e aspettai che Carol mi raggiungesse.
La vidi uscire lentamente dal suo camper.
Si tolse le scarpe e fece una corsa; arrivata da me, tolse un po’ di ghiaia e polvere dai piedi e si rimise le scarpe.
Aveva rimesso la parrucca della sera prima.
Per evitare di farsi beccare.
Inoltre aveva del trucco sul viso (e sulla guancia ancora un po’ gonfia), usato del trucco viola per le ciglia e di nuovo il rossetto color frutti di bosco; indosso aveva una t-shirt bianca con su scritto I’m the best bitch of the world, un piccolo antivento nero sopra, una gonna corta che faceva ben intravedere le belle gambe e di nuovo le scarpe dorate da ballerina.
Dovevano piacerle non poco.
  • Allora, dove mi porti? – domando, felice.
  • Non so – sorrisi di rimando – C’è una qualche attrazione nei paraggi?
  • C’è il parco comunale di Poggiomarino.
  • E’ lontano?
  • Un quarto d’ora a piedi.
  • Allora andiamo, mademoiselle!
E le lanciai un sorrisone a tutti denti, mentre accoglievo la sua mano nella mia.
 
*****
 
Quando controllai l’orologio, mi accorsi che erano già le 23:30.
Stavamo passeggiando da quasi un’ora nel parco.
Non c’era molto da vedere: alberi discretamente puliti, un piccolo ponticello che dava su un minuscolo laghetto sporco, un paio di piazzole con panchine, una fontanella per bere …
Ma ciò che colpì l’attenzione di entrambi furono delle anatre, dei piccoli cuccioli biancastri, infagottati nelle loro piccole ali, che si inseguivano l’un l’altro nuotando con i piedi nell’acqua.
Sorridevamo come due bambini che scoprono una nuova semplice ma grande meraviglia del mondo; mi venne un nodo in gola a vedere in che acqua sporca erano costretti a nuotare.
Bevvi un sorso d’acqua (potabile, per fortuna) dalla fontanella e mi sedetti su una panchina; Carol era sedutami affianco mentre mangiava una granita al limone che le avevo comprato.
Mi guardava con un mezzo sorriso, ma io mi sentivo distante: un pensiero, una frase, mi ribolliva nell’animo …
dovevo dirglielo, ma temevo le conseguenze del gesto …
mi feci coraggio e la guardai dritto in faccia e serio le dissi:
  • Dovresti lasciarlo!
Ella posò il cucchiaino nel bicchiere con la granita e stette a fissarmi per qualche secondo;
  • Cosa?
Era tutta una farsa: aveva capito bene cosa avevo detto … e anche a chi mi riferissi.
  • Devi lasciarlo!
Continuava a guardarmi muta, senza batter ciglio.
Era sorpresa: non si aspettava che dicessi quando avevo detto.
Mi sorrise lievemente, ma leggevo preoccupazione nei suoi occhi;
  • E perché dovrei farlo? – chiese, mentre riprendeva a mangiare la granita.
  • Perché ti picchia.
  • Tutti picchiamo qualcuno nella vita …
  • Ma non è giusto che un bruto picchi una bella ragazza come te.
Restò con il cucchiaino fermo in aria e mi guardò nuovamente, immobile.
  • Non è giusto che tu debba nascondere le tue ferite – e indicai la guancia truccata, la guancia ferita – con il trucco e le lacrime.
E girai lo sguardo, abbassandolo per osservare un punto che non c’era.
Per non guardarla in quegli occhi che parevano stregarmi, penetrarmi l’anima come due spade appuntite.
  • Credevo che fossi un uomo come gli altri … ho sbagliato: sei molto diverso da lui, da tutti.
  • Sono come un bambino rinchiuso dentro sé stesso e che ha paura del mondo. Non c’è bisogno che me lo dici, lo so già.
Avevo alzato il tono di voce. Una coppietta seduta su un’altra panchina si era voltata a guardarci.
Mi alzai, vergognandomi e tornai a bere dalla fontanella.
Quando mi girai, vidi Carol in piedi dietro di me.
Nei suoi occhi leggevo malinconia.
Abbassai lo sguardo e le dissi;
  • Scusami.
  • Perché sei come un bambino? – mi chiese
Rialzai gli occhi;
  • Te l’ho detto: ho paura del mondo. Non ho fatto molte esperienze nella mia vita, ho perso tante occasioni, sono rimasto indietro, chiuso nelle mie paure … e lo sono ancora.
Pausa.
  • Non è per l’aspetto fisico – continuai – non me n’è mai importato nulla … è la mia anima che ha qualcosa che non va.
Mi mise una mano su una spalla: sentivo la morbidezza delle sue mani delicate su di me e un piccolo brivido mi corse lungo la colonna vertebrale;
  • Tutti abbiamo qualcosa che non va – mi disse – Siamo tutti un po’ maledetti, anch’io lo sono … ecco perché non posso lasciare Antonio.
  • Non hai paura di lui? – chiesi
  • Molta … ma …
Non seppe continuare.
Conoscevo già la risposta:
perché la mia dose di maledizione mi tiene accanto a lui, la mia parte cattiva non può rinunciare a lui.
  • Ognuno ha i propri guai! – concluse – Io ho i miei e ci combatto tutti i giorni.
  • E non ti fa star male questo?
  • Certo … ma la vita è così …
Mi lasciò andare la spalla e tornò alla sua granita.
Ci incamminammo verso l’uscita, dimenticando quei discorsi.
Tirai fuori un sorriso e le feci la più comune delle domande:
  • Ma tu quanti anni hai?
Anche lei sembrò dimenticare e contraccambiò il mio sorriso:
  • Venticinque e tu?
  • Trenta.
 
*****
 
Tornammo ai camper che era quasi mezzanotte.
Carol si ritolse le scarpe per correre sulla polvere e arrivò dinanzi al suo camper.
Mi lanciò un bacio prima di entrare e lasciarmi solo.
Sorridendo, mi tolsi le scarpe anch’io e feci una corsa al mio camper.
Credo non mi sentì nessuno.
Aprì la porta ed entrai, per poi chiuderla subito a chiave.
  • Com’è andata?
Una voce mi fece sobbalzare.
Mi calmai quando vidi Nanni steso sul suo letto che mi sorrideva.
  • Ti vedo rosso in volto.
  • E’ perché mi hai fatto cagare sotto!
  • O perché hai centrato il bersaglio?
Non sapevo cosa rispondere: mi avviai al mio letto e mi tolsi le scarpe.
  • Allora? Mi dici com’è andata? – insisteva il nano.
Mi tolsi la giacca prima di rispondere.
  • Nanni, ho un problema.
  • Anch’io ho un problema: se mi risolvi il MIO problema, io ti risolvo il TUO.
  • Eh?
Non avevo capito niente: che problema aveva?
Si indicò …
Capì in ritardo che era una battuta sulla sua forma statuaria.
Io sono un nano: se mi risolvi il MIO problema, se mi fai diventare alto, io ti risolvo il TUO problema.
E rise sguaiatamente.
Mi innervosii.
  • Che razza di battute sono?
  • Mah, così!
  • Non fa ridere!
  • Eh vabbé, non sono bravo quanto te.
E intanto rideva ancora.
  • Parlo di una cosa seria! – insistetti io.
  • Ti prendevo per il culo, volevo farti fare una risata per non farti prendere sul serio i problemi di cuore.
  • Quali problemi di cuore?
  • Dai, Glauco: ho capito che ti piace Carol, te lo leggo in faccia: è amore a prima vista.
E rise di nuovo. Mi sentì imbarazzato, come sempre, incapace di dare una definizione ai miei sentimenti.
  • Non me lo so spiegare – continuai – Lei mi cattura molto … non so … quegli occhi … quel viso … quel corpo …
  • Allora è amore a prima vista!
E ancora risate. Non ne potevo più.
  • E’ che non la capisco: soffre perché Antonio la maltratta, ma non ha il coraggio di lasciarlo … ha paura di lui … o è attratta dalla sua violenza …
  • E’ questo il tuo problema? Non riesci a capire quella donna?
Annuii. Nanni si fece serio.
  • Noi del gruppo siamo tutti maledetti, siamo tutti marci, campiamo del nulla in cessi come questo. - e allargò le braccia per indicare il camper – Se non fosse per quei pochi soldi guadagnati in questi anni, forse saremmo assassini, ladri, vagabondi … in verità siamo già vagabondi … ma almeno abbiamo una ragione per cui vivere.
  • Cosa?
  • L’arte del palco! L’arte della finzione!
Anche nel suo sguardo leggevo nostalgia, la stessa che si poteva leggere nel mio.
Il sentimento che si può leggere nell’anima di chi soffre o di chi è solo.
Come lo eravamo noi.
Poi riprese a sorridermi.
  • In fondo ... vagabondare ha anche i suoi vantaggi: viaggi, conosci posti sempre più nuovi … certo, devi avere anche i soldi per farlo … ma al momento non ne mancano ancora. Ma ora basta con queste stronzate: spogliati e coricati.
Ripresi a spogliarmi.
 
 
Dieci minuti dopo ero nel letto. Ero circondato dal buio, come Nanni.
Era ancora sveglio: vedevo la sua sagoma girarsi sul materasso, avvolta nell’oscurità.
Mi parve che si girasse verso di me:
  • Che intenzioni hai con Carol? – mi chiese
  • Non lo so …
  • Vuoi continuare?
  • Cosa?
  • Ciò che state facendo tu e lei!
Mi soffermai un attimo a pensarci.
  • Prenderò gli avvenimenti così come verranno.
  • Mi auguro che tu non faccia stronzate.
E si girò di lato.
Mi misi di profilo, sperando di dormire bene, quella notte.
Ma avevo ancora dei dubbi da chiarire;
  • Nanni! – sussurrai.
  • Che c’è? – mi domandò la sua voce
  • Perché siete arrivati qui con un giorno d’anticipo se lo spettacolo era stasera?
Aspettò due secondi prima di rispondermi.
  • Perché Antonio ragiona col cazzo! E poi perché gli organizzatori dei nostri eventi gli dettano regole precise: se Antonio doveva arrivare prima, è arrivato prima. Di più non so e non voglio sapere.
Non mi serviva altro.
Ma avevo ancora un dubbio:
  • Domani dove andiamo?
  • A Torino!
  • A TORINO?
Mi alzai di scatto.
  • Ma è lontano! Ci vorrà mezza giornata per arrivarci, se non di più!
  • Ci esibiamo dopodomani sera: abbiamo tempo per provare!
Mi calmai.
  • Comunque sono molti chilometri: ce la faremo con la benzina?
Pensai allo scarso guadagno della serata.
  • Antonio ha detto che ci pensa lui … avrà dei risparmi … non ne voglio sapere nulla: finché posso mangiare, mi faccio i fatti miei.
Mi stesi di nuovo sul letto.
  • Nanni!
  • Eeeeh? – sbuffò lui, assonnato.
  • Se non fossi arrivato io … chi avrebbe interpretato il pagliaccio buffo?
  • Triste vuoi dire! Tu dovevi fare il pagliaccio triste!
Me n’ero dimenticato.
  • Antonio ha voluto metterti alla prova, ma tu dovevi fare il pagliaccio triste!
  • Beh, chi l’avrebbe interpretato?
  • Io!
Alzai di poco la testa per guardare la sua sagoma che mi dava le spalle, nel buio.
  • E come avresti fatto?
  • In un modo o nell’altro, avremmo fatto lo sketch.
Alludeva alla sua statura. Forse l’avevo offeso.
  • Se ti ho rubato il ruolo mi dispiace.
Si girò a guardarmi: mi parve di scorgere un nuovo mezzo sorriso nelle tenebre.
  • Tranquillo: Antonio l’ha migliorata.
Pausa.
  • Rilassati. – finì – Nel prossimo sketch reciteremo insieme.
Sorrisi anch’io nel buio e distesi la testa sul cuscino.
Un attimo dopo dormivo.

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Capitolo 3
*** Glauco alla prova ***


Ero seduto sui sedili posteriori di una macchina.
Un auto di lusso, forse.
Carol era sopra di me, a cavalcioni e si sorrideva dolcemente.
I suoi bei capelli biondi coprivano i nostri volti mentre ci baciavamo.
La sua mano cercava la zip dei miei pantaloni, io stendevo le braccia aperte sui sedili, sorridendo beato, pronto per chissà cosa …
La portiera destra si aprì e comparve Antonio che mi puntava una canna di pistola in faccia.
Urlava …
  • AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH!!!
E sparò ...
 
*****
 
Sobbalzai dal letto.
Avevo fatto un brutto sogno.
Il camper si muoveva, alla guida c’era Nanni, che si voltò, ridendo:
  • Ben alzato, dormiglione.
Guardai l’orologio: erano le dieci passate.
Nonostante l’incubo, mi ero fatto una buona dormita.
  • Se vuoi fare colazione, accomodati. – diceva il nano e intanto guidava.
Il mio sguardo ricadde su un particolare che mi colpì e divertì molto:
Nanni era seduto sul sedile di guida con tre cuscini sotto il sedere e riusciva a raggiungere i pedali tramite tre stecche di legno doppie collegate ad essi e che erano incollate a tre forme rettangolari verso l’altro, grazie alle quali il mio amico nano poteva schiacciare frizione, freno e acceleratore.
Risi in silenzio mentre versavo del caffè in una tazza di latte freddo e mi preparavo una brioche con marmellata di pesca.
Aprì la finestrella del camper e buttai gli occhi fuori: macchine infinite, asfalto grigio interminabile, cartelli autostradali e sprazzi di campagna verde si estendevano oltre il mio sguardo.
Finalmente vedevo il mondo in movimento. Scorgevo la vita.
Non avevo mai viaggiato in vita mia: mi sentivo felice … come un bambino.
Mi sedetti accanto al mio amico masticando la brioche.
  • Almeno ti sei perso lo show del capo. – disse.
  • Quale show?
Antonio ne aveva combinata un’altra.
  • Stamattina il camper dei genitori del capo non partiva; Antonio era infuriato …
 
*****
 
  • QUESTO CAMPER CI E’ COSTATO UN OCCHIO …
  • Ma Antonio – diceva Lisa, la madre, cercando di calmare il figlio – I camper sono anche vecchi: il nostro ha quasi quindici anni …
  • NON ME NE IMPORTA NIENTE! LI HO PAGATI ANCHE IO QUESTI CESSI E DEVONO FUNZIONARE!
  • Li hai pagati anni fa! – concluse il padre, spazientito.
  • TU STAI ZITTO, VECCHIO! – aveva ringhiato Antonio.
*****
  • Ha impiegato quasi un’ora per far ripartire il loro camper – continuò Nanni – Ha messo le mani tra il motore, la batteria e il serbatoio, ma il camper era morto.
  • Morto? – chiesi io.
  • Definitivamente. Dunque Antonio si è caricato i genitori sul suo veicolo.
  • E dove dormiranno?
  • Mah … avevano due sedie a sdraio: ci piazzeranno sopra dei cuscini e si arrangeranno.
Rimasi a bocca aperta, immaginando in che razza di modo sarebbero stati costretti a riposare quei due poveri vecchietti.
  • Almeno spenderemo meno per la benzina. – concluse, sorridendo alla battuta … che battuta non sembrava.
  • Da quanto siamo partiti?
  • Che ore sono?
Controllai nuovamente l’ora:
  • Le dieci e mezza.
  • Allora da un paio d’ore.
  • Dove siamo?
Dinanzi a me vedevo solo asfalto autostradale infinito, popolato da auto di ogni forma e colore; ci capivo ben poco di cartelli stradali.
Nanni invece sembrava capirci eccome: buttò un occhio sul primo cartello che gli capito a tiro e disse:
  • Abbiamo appena passato Latina … questo rottame più veloce di così non va.
Il viaggio durò altre quattro ore prima dell’ora di pranzo: passai quelle ore tra la vista del mondo esterno e un foglio di carta bianco con una penna tra le mani.
Nelle ultime ore stavo avendo illuminazioni per alcuni sketch comici (grazie anche ai discorsi della sera prima con Nanni) e buttai giù qualche appunto … in particolare c’era un idea curiosa che mi balenava in testa: uno sketch diverso dagli altri, una messa in scena tragicomica …

“Il protagonista è un vagabondo, alla Charlie Chaplin; vive per le strade, cercando di racimolare qualche spicciolo arrabattandosi in ogni modo (esibendosi addirittura in balletti buffi per strada) ma il risultato è sempre il medesimo: la gente lo evita e lo spintona, troppo indaffarata nelle cose di tutti i giorni.
Finché un giorno …”

E qui mi fermai … dovevo elaborare meglio il tutto.
Nel frattempo mi concentrai su altri sketch, più “leggeri”.
 
*****
 
Alle due del pomeriggio fermammo i tre camper in una piazzola di sosta di un Autogrill per pranzare.
Ci trovavamo nelle vicinanze di Pisa, pensavo, dato che l’ultimo cartello verde autostradale che lessi indicava “Pisa”.
Non ero esperto in queste cose.
Mangiavamo in silenzio dei modesti panini al prosciutto; io passeggiavo avanti e indietro accanto al mio camper mentre masticavo: stavo ancora scervellandomi per portare avanti la trama del mio sketch “tragicomico”.
Tranne me e Nanni, gli altri componenti del gruppo mangiavano nelle loro “case”, lasciando solo le porte aperte, senza dire una parola. Riuscii ad affacciarmi sulla porta del camper di Antonio e notai Carol, priva di espressività, che masticava lentamente il suo panino.
Ciò che mi balzò immediatamente alla vista fu l’occhio destro di Carol, annerito …
Il capo l’aveva picchiata un’altra volta.
Forse ha scoperto tutto, pensai.
Era meglio starle alla larga per un po’.
Tornai nel mio camper e tra un boccone e l’altro rilessi ciò che avevo scritto.
La porta fu spalancata e piombò dentro proprio Antonio:
  • Tra dieci minuti si parte: se dovete pisciare fatelo ora!
E sparì.
Io e Nanni ci eravamo cagati in mano dalla paura. Il capo faceva paura.
 
*****
 
Mi ritrovai in un bagno lercio e mal messo per fare pipì; la mia testa vagava in zona “Carol”:
Ora che cosa faccio? Se ci ha scoperti sono nei guai anch’io … e se mi caccia via? Se mi picchia?
Cercai di darmi un contegno mentre lavavo le mani col sapone.
Uscendo dal bagno fui colpito da qualcosa … dei suoni … suoni di voci umane.
Provenivano dal bagno delle donne.
Siccome non c’era nessuno, mi appostai in modo da poter sentire … e sentì:
  • Ti piace?
Era la voce di un uomo! In un bagno delle donne!
E non era solo una voce: forti respiri accompagnavano più di una voce.
Sì, ce n’era più di una, dato che sentì una seconda voce che rispose:
  • Sììììì … - un filo di voce tremante.
Riconobbi quelle voci e capì tutto: Antonio era entrato nel bagno delle donne e, approfittando dell’assenza di signore, si stava scopando Carol.
Non potevo entrare … ma avrei voluto … avrei voluto fermarli, avrei voluto salvarla …
Avvertivo piacere negli ansimi del capo:
  • Dillo che ti piace!
  • Sìììììììììì …
E nella voce di Carol avvertivo dolore … ma anche goduria.
Lentamente, uscì dall’autogrill.
Un quarto d’ora dopo i due “piccioncini” raggiunsero il gruppo e il viaggio riprese.
 
*****
 
Alle sei del pomeriggio uscivamo dall’autostrada in direzione “Torino”.
Nel camper era piombato il silenzio: salvo poche parole, né io né Nanni avevamo parlato molto.
Tanto meglio: ne approfittai per dedicarmi di più ai miei sketch.
Alle sei e mezza parcheggiavamo nel parcheggio del Bar Caffetteria “Ghezzi” : non ricordo in che zona della città fosse situato e non mi importava.
Pensavo solo al giorno dopo, a tornare di nuovo in scena.
Mi sgranchii la schiena appena scesi dal camper e fui irradiato dagli ultimi raggi di un sole sul viale del tramonto.
Antonio mi venne incontro:
  • Quello – e indicò il bar – è il locale in cui ci esibiremo domani sera.
  • A che ora? – chiesi
  • Alle nove: avremo poco più di mezz’ora per esibirci in due sketch.
  • C’è un altro gruppo di cabarettisti?
  • Ovvio … ma almeno saremo i primi ad andare in scena … così andiamo via prima.
  • Quand’è il prossimo spettacolo?
Antonio tirò fuori una lista:
  • Domani sera qui … dopodomani sera a Melegnano, vicino Milano … - e leggeva – su un palcoscenico di piazza … e la sera dopo a Teramo, in Abruzzo … al Teatro delle Girandole.
  • Ce la faremo con le spese? Tra benzina, trasporto …
  • Non sono cose che ti riguardano – ringhiò – Pago io le spese, tu pensa a recitare bene!
E tornò al suo camper per aiutare l’anziana madre a scendere.
 
*****
 
Passai la serata facendo un giro da solo per Torino; gli altri stavano ingozzandosi nel “Ghezzi”, a spese del proprietario, a me andava di starmene per conto mio, soprattutto di stare alla larga da Carol: volevo riflettere … e stare alla larga dai guai.
Consultando i cartelli stradali e chiedendo più volte indicazioni, riuscì a spostarmi lungo via Pietro Giannone, arrivai dinanzi al teatro Alfieri e proseguì per via Santa Teresa: dunque arrivai al Museo Egizio, ma non sapevo se potevo entrarvi e in tutta franchezza, non ne avevo voglia; proseguendo per via Roma, arrivai a Palazzo Madama e rimasi colpito dalla grande piazza che lo circondava: avrebbero potuto installarvi un palco per esibizioni teatrali o di cabaret o tant’altro ancora.
Intravidi poi il Palazzo Reale … molto bello, non c’è che dire … anche nella sua piazza si poteva installare un palco.
Tornai indietro per via Pietro Micca e mi ritrovai nella zona del Giardino Lamarmora: in una zona avevano installato un piccolo lunapark …
Lì vi intravedevo persone di ogni tipo: madri con bambini, uomini adulti, fidanzatini … e da lontano mi sembravano felici, persi nelle loro illusioni, nelle proprie maschere indossate per farsi forza ogni giorno nell’affrontare la vita.
Solo allora mi accorsi che erano le dieci di sera passate e che iniziavo ad avere sonno: il viaggio doveva avermi stancato.
Avevo visto ben poco di Torino, ma mi era bastato per capire che era una città con un suo fascino.
Lontano anni luce da quel buco di merda della mia cittadina natale … Scafati … puah!
Così continuai dritto per via Cernaia, girai a destra per Corso Palestro e poi a sinistra per via Filippo Juvarra.
Lì era situato il Bar Caffetteria “Ghezzi”.
Fortuna che mi ero anche procurato una cartina della città, altrimenti mi sarei perso dopo cinque minuti.
Quando rincasai mi accorsi che tutti già dormivano nelle loro “case”.
Avrei voluto vedere Carol, sapere se stava bene, se aveva bisogno di aiuto … ma il mio istinto mi disse che dovevo filare a letto: all’indomani avrei valutato come e se agire.
 
*****
 
  • Dove sei stato? – domandò Nanni appena chiusi la porta a chiave
  • In giro.
  • Com’è Torino?
  • Bella: dovresti vedere il Palazzo Reale … c’è una piazza perfetta per montare un palcoscenico: sai quanti bei spettacoli …
  • Vai a dirlo al comune! – e sorrise stancamente
Mi spogliai in silenzio, poi filai in bagno perché ero tutto sudato e avevo bisogno di una doccia; stavo per infilarmi sotto lo sciacquone quando entrò nella toilette il mio amico nano per lanciarmi in faccia la mia camicia, quella che ancora non avevo lavato.
  • Non sei in un albergo, ragazzo: ognuno bada alle sue cose qui!
Ma non era arrabbiato: si evinceva dalla voce che era stanco morto e aveva bisogno di dormire.
Dunque mi infilai sotto la doccia. Mezz’ora dopo lavavo la camicia con una squallida saponetta bianca e consumata.
Accanto al letto Nanni mi aveva messo un piccolo stendi-abiti in plastica, da me mai visto prima.
Lo usai per stendere la camicia fuori, nel parcheggio.
Pochi istanti dopo dormivo.
 
*****
 
Fui svegliato da una notte senza sogni. Ci pensò un urlo disumano a farmi sobbalzare nel sonno: un urlo senza fine, un urlo di rabbia furente.
La prima cosa che vidi fu la porta del camper aperta: fregandomene del fatto che fossi scalzo, balzai fuori e fui colpito in pieno dai raggi del sole della mattina.
Erano le nove.
Ancora stordito, vidi Antonio che urlava addosso a Nanni; i cugini e i genitori si trovavano in disparte, sparpagliati nel parcheggio.
Vidi passanti incuriositi che si fermavano per vedere cosa stesse accadendo.
Poi l’indice di Antonio puntò me:
  • AH, TI SEI ALZATO TU!
Il cuore iniziò a battermi.
Lo vidi avvicinarsi a me a passo spedito.
Allora ha scoperto tutto … ora mi spezza le gambe!
Due mani enormi mi afferrarono per le spalle: mi feci piccolo piccolo.
  • ALLA BUON ORA! – urlò – DOBBIAMO LAVORARE NOI, LO SAI? VAI A METTERTI UNO STRACCIO ADDOSSO!
E solo ora mi accorsi che ero in mutande e canottiera e che un numero limitato di passanti mi indicavano, qualcuno ridendo pure.
Rientrai nel camper e dopo poco più di un minuto mi ero vestito.
Uscii e raggiunsi Antonio presso il suo camper: mi aspettava fuori.
Il resto della banda teneva le distanze; solo i genitori provavano ad avvicinarsi.
La cosa mi insospettiva.
  • Stammi a sentire: per stasera non si fa niente!
Lo guardai stupefatto.
  • Come sarebbe?
  • SAREBBE CHE NON SI FA NIENTE! – ringhiò.
  • Che è successo? – chiesi io spaventato
Antonio rientrò nel camper e riuscì immediatamente tenendo per i capelli Carol; vidi il suo naso che sanguinava e la guancia ferita rigonfiatasi di nuovo.
Non riusciva a smettere di piangere. Mi venne un nodo alla gola e le gambe mi tremarono.
  • QUEST' IDIOTA – e la sbatté con il viso per terra – HA PERSO I COPIONI CHE DOVEVAMO RIPASSARE STAMATTINA!
Carol piangeva sempre più, mentre tentava di parlare;
  • Non … sono … stata …
  • E ALLORA CHI E’ STATO? – e le mollò un calcio nello stomaco.
Mi sentii bollire le viscere e salire il disgusto per la gola: avrei voluto picchiare a sangue quel verme.
  • Antonio, calmati – diceva tremante Lisa, sua madre – Reciteremo gli altri copioni …
  • GLI ALTRI SONO PER LE PROSSIME SERATE !
E la zittì in un lampo.
  • E ORA CHE FACCIAMO? NON POSSIAMO FARE UNA FIGURACCIA PER COLPA DI QUEST' IDIOTA ! – e giù un altro calcio nei fianchi a Carol che ormai non aveva più lacrime da versare.

Fai schifo! - pensai - Ragioni con il culo e te la prendi con quella povera ragazza … e con tutti noi!


Non ne potevo più. Lo guardai torvo e gli dissi:
  • Senti: perché tutto questo casino per due cazzo di sketch? Non vuoi usare gli altri? Ne vuoi due nuovi? Te li do io!
E mi avviai di corsa nel mio camper.
Tutti mi guardarono entrare ed uscire dalla porta confusi, soprattutto quando ritornai al cospetto di Antonio con dei fogli in mano.
  • ECCO! – gli urlai – COSI’ STASERA SI VA IN SCENA: ORA BASTA!
Mi guardò spalancando gli occhi e la bocca.
Quei fogli erano una dichiarazione di guerra.
Aiutai Carol ad alzarsi e le pulì il naso con un fazzoletto mentre la sorreggevo.
Mi guardò negli occhi e io guardai nei suoi, colmi di tristezza.
Sotto gli occhi di tutti (e fregandomene anche dei passanti curiosi) , la trascinai su una delle sedie a sdraio di Gigi e Lisa e la feci stendere.
  • Riposati un po’ . – le dissi con dolcezza, accarezzandole il viso.
Quando il mio sguardo puntò di nuovo quello del capo, ero calmo fuori, ma dentro tutta la rabbia era sparita, lasciando posto di nuovo alla paura:
L’ho fatta grossa: ora mi ammazza!
Invece lo stronzo si limitò a guardarmi confuso prima, furente dopo, ma invece di suonarmi uno sganascione affondò gli occhi in quei fogli scritti a penna; lesse in silenzio per due minuti … gli altri erano come pietrificati, ci fissavano muti, come se aspettassero qualcosa …
Poi Antonio alzò gli occhi e mi disse:
  • C’è da aggiustare qualcosa, ma non sono male!
Dunque la serata era salva. Grazie a me.
 
*****
 
Non ci muovemmo dal parcheggio per tutta la giornata.
Provammo oltre dieci volte tutte le battute e le mosse che avevo scritto, improvvisando il più delle cose.
All’inizio ci fu qualche tensione: erano sketch di “salvataggio”, okay, avevano un che di particolare, ma alla fine buona parte del branco dovette riconoscere che avevo scritto qualcosa di divertente.
Senza che ce ne accorgessimo, si erano fatte le sei e mezza di sera.
Avevamo provato anche troppo.
Entrai nel camper di Federica ed Oreste per accertarmi che avessero gli oggetti e i costumi che cercavo … e li trovai: una t-shirt e un pantalone bianco, una camicia hawaiana giallo oro con degli alberi verde scuro e un’onda marina blu marino disegnata sopra.
E frugando tra gli oggetti, sorrisi felice quando lo trovai: un bongo.
Avevo quasi tutto.
 
*****
 
Passò un’altra ora.
Uscii dalla toilette con indosso la camicia hawaiana e il pantalone bianco quando vidi Carol seduta sul mio letto: Nanni non era presente, eravamo soli.
Fossi stato un altro ne avrei approfittato … ma io ero Glauco.
  • Ciao. – mi accolse lei sorridente.
  • Ciao.
Guardai il viso: le chiazze di sangue erano sparite e la guancia ferita stava iniziando a sgonfiarsi, grazie ad una crema spalmataci sopra.
Mi sedetti accanto a lei.
  • Come ti senti? – chiesi
  • Ho avuto giorni peggiori. – rispose felice, come se nulla fosse accaduto.
  • Sicura? Non hai dolori? – mi riferivo allo stomaco e ai fianchi colpiti dai calci di quella bestia del capo.
  • So sopportarli, fidati.
Risposta secca. Cambiai discorso.
  • Credi che andrà bene?
  • Non lo so: li hai scritti tu quei copioni!
E sorrise ancora. Quando amavo quel sorriso.
  • Ma ieri sera sei stato in giro? – chiese.
  • Sì … non avevo fame … e volevo vedere la città.
  • E com’è? – chiese come un’adolescente curiosa.
  • Non ho visto granché, ma mi sembra bella …
Poi, senza un perché, le dissi:
  • In un giardino qui vicino hanno messo un luna-park.
Le si illuminarono gli occhi.
  • Perché non mi ci porti?
Sbarrai gli occhi.
  • Come?
  • Perché non mi porti al luna-park? Ci manco da anni!
Come un ebete, chiesi:
  • Ma quando? Stasera?
  • E quando? Domani? – ricambiò divertita.
  • Ma … e lo spettacolo?
  • Mi ci porti dopo, stupido! – e mi rise in faccia.
  • E Antonio?
Lei mi afferrò le guance con le mani e iniziò a giocarci;
  • Beh, potrebbe scoprirci … venire a cercarci … e ucciderci tutti e due! Non lo trovi eccitante?
E ancora a ridere come una ragazzina. Io non ci trovavo nulla di buffo.
  • Non mi pare il caso … e poi domani dobbiamo affrontare un altro viaggio …
  • Ooooh, che c’è? Il piccolo ha paura?
Quel tono m’innervosì; balzai in piedi, cogliendola di sorpresa.
Smise di ridere.
  • Perché mi prendi in giro, Carol? Perché proprio io?
Ella si alzò e mi fissò, seria, accarezzandomi i capelli:
  • Tu sei diverso da lui … con te mi sento sicura … mi sento meno marcia!
Quella parola … marcio … stava iniziando a spaventarmi.
Soprattutto riferita a lei.
  • Tu non sei marcia. – le risposi – Sei bellissima.
Mi sorrise tristemente e mi diede un bacio a stampo sulle labbra.
  • Stasera … dopo cena … luna-park!
E mi lasciò solo, in compagnia delle mie fantasie.
 
*****
 
L’orologio centrale del Bar Caffetteria “Ghezzi” indicava le ore nove.
Era l’ora del cabaret.
La sala in cui ci esibivamo era ancor più piccola di quella del Disco Pub “Morositas” di Poggiomarino: era occupata a stento da una quindicina di tavoli e c’era un palchetto ancor più piccolo di quello sul quale avevo esordito sere prima.
Insomma, dovevamo arrangiarci a fare tutto in ristrettezze.
Fortuna che non saremmo rimasti a lungo.
Una luce mi “illuminò” al pubblico: ero vestito della t-shirt e del pantalone bianco che avevo trovato poche ore prima, avevo i capelli pettinati alla rinfusa e camminavo scalzo.
Poi un’altra luce “illuminò” Nanni, accovacciato su una sedia vestito di un accappatoio rosa.
Sentivo le prime risate: buon segno.
Mi sedetti accanto al mio amico e la recita iniziò:
  • Ugo (a Nanni), c’ho un problema!
  • Anch’io c’ho un problema.
Utilizzammo nuovamente voci da cartone animato con toni alti: io sembravo Bugs Bunny e Nanni Daffy Duck.
Udivo altre risate.
  • Eh, ma il mio problema è grave!
  • Anche il mio problema è grave!
Ancora risate.
  • Eh, ma il mio è un problema personale.
  • Anche il mio è un problema personale! No dico … - e si indicava – Non so se mi hai visto.
Si riferiva ancora al fatto che era nano.
Scorsi sorrisi tra la gente.
  • Ugo, ti sto parlando del mio problema …
  • Ecco, bravo, hai detto bene, è il TUO problema, te lo devi risolvere te; oh, anch’io c’ho il MIO problema, ma mica me lo risolvi te! Se tu mi risolvi il MIO problema, io ti risolvo il TUO!
Ancora risate.
  • Ugo, guardami, GUARDAMI! – (alzammo di più i toni di voce) Ti sto parlando del MIO problema …
  • Appunto, è un TUO problema, te lo devi risolvere te! Anch’io c’ho il MIO problema, ma mica me lo risolvi te! Se tu risolvi il MIO problema, io lo risolvo a te! FORZAAAA! RISOLVILOOO! RENDIMI PIU’ ALTO SE CI RIESCI!
  • UGOOOO! SI STA PARLANDO DI UN’ALTRA COSA!
  • NON URLAREEEEEEEEEEEEE! NON URLAREEEEEEEEEEEEEEEEEEE!
  • NO! IO URLO QUANTO MI PARE, VA BENE?
In effetti urlavo … urlavamo … ma come due cartoni animati impazziti; il pubblico, soprattutto i più giovani, parevano divertirsi.
Nanni (Ugo) continuò:
  • TU FAI SEMPRE QUELLO CHE TI PARE! URLI QUANDO TI PARE, CAMMINI QUANDO TI PARE, A CASA NON CI SEI MAI E QUANDO TORNI SEI SEMPRE NERVOSO! E NON PENSI A ME CHE SONO UN POVERO NANO? CHE VORREI ESSERE PIU’ ALTO E NON CI RIESCO?
Parlando sforzando la lingua come Daffy Duck, provocava risate numerose alla gente.
Contrattaccai col mio “Bugs Bunny”:
  • UGOOOOOOOOOOOO! STASERA SI PARLA DI ME!
  • AH SI’? E ALLORA A ME NON ME NE FREGA NIENTE DI TE! PORTAMI A LETTO!
E si alzò osservando il pubblico, tra le risate quasi generali.
  • NO, NON TI PORTO A LETTO!
  • PORTAMI A LETTOOOOOOO!
  • NO, STASERA SI PARLA DI ME E DEL MIO PROBLEMA!
  • PORTAMI A LETTOOOOOOOOOOOOOOOOOO!
  • NO! E GUARDAMI NEGLI OCCHI QUANDO TI PARLO!
  • SE NON MI PORTI A LETTO TI DO UN CALCIO NELLE PALLE!
Con una degna faccia da culo tutta per il pubblico, portai le mani a coprire le parti basse.
E giù ancora risate e i primi applausi.
Il bello era quello: come faceva un nano a darmi un calcio nelle palle se era, appunto, un nano?
Dunque lo presi letteralmente in braccio … e via ad altre risate.
  • VA BENE, TI PORTO A LETTO!
L’avevo sollevato da terra.
  • NANO!
  • CATTIVO!
Dentro di me, mi stavo divertendo anch’io: senza quelle voci cartoonesche, saremmo sembrati due pazzoidi in preda a deliri di follia, invece la formula aveva funzionato.
Appoggiai Nanni (Ugo) su un materasso presente in scena (uno dei nostri).
  • LA LUCE!- urlò.
Sbattei le mani e si accese una luce che lo illuminò.
  • LA COPERTA!
Presi una coperta termica (di scena) da terra e gliela gettai in faccia.
Ancora risate.
  • SULLE GAMBE!
E l’aggiustai.
Mi allontanai, ma fui richiamato:
  • ACCENDIMELA!
Afferrai la spina della coperta e la infilai in un buco nel palco, spacciato, per l’occasione, per “presa della corrente”.
  • SPERO TI FACCIA CORTO CIRCUITO: CATTIVO!
Uscii di scena. E calò il buio.
Ci furono alcuni applausi; forse qualcun altro era rimasto offeso o confuso dall’ultima battuta.
Sapevo che dovevo cambiarla, pensai.
Ma ormai era fatta: buona parte de pubblico si era divertita.
Dopo dieci minuti per il cambio costume e di scena, salì sul palco Antonio vestito da pagliaccio buffo.
Ovviamente i bambini furono i primi a ridere.
Parlò anche lui con voce buffa:
  • Adesso, signore e signori … ladies and gentlemen … mesdames et monsieurs … canterò per voi una canzone!
E iniziò a cantare una versione volutamente stonata de O’ Sole mio; i bambini erano i principali a divertirsi.
Poi scoppiò una risata generale quando entrai io in scena: avevo sostituito la t-shirt bianca con la camicia hawaiana e avevo tra le mani il bongo.
Con un dito e un sorriso, feci shhhh al pubblico.
Il pagliaccio buffo stava finendo la canzone … e attaccai io a suonare il bongo.
  • Cosa … - chiese (come da copione) il pagliaccio – cosa sta succedendo?
Si girò e mi vide.
E incominciai a cantare la canzone africana e insensata che avevo cantato giorni prima nel bar di Striano ai due bambini capricciosi.
Anche qui si ammazzavano dal ridere.
Interpretavo, ancora, due personaggi nella canzone: il primo dalla voce rauca che insultava il secondo dalla voce altisonante.
Ovviamente in lingua finto/buffa/africana.
  • Questo “pagliaccio” – detto dal pagliaccio (che colmo!) – mi sta rovinando il numero!
Ma io continuavo la mia assurda canzone, per poi simulare un pianto cretino del secondo personaggio e una risata cattivo/cartoonescha del primo.
Poi suonai velocemente le ultime note e il pezzo finì.
Scrosciarono applausi da tutta la platea.
Come ciliegina sulla torta, improvvisai un balletto idiota saltellando sulle gambe e sbattendo le braccia in aria.
Avevo ripreso un vecchio numero del comico Andy Kaufmann per quello sketch … e avevo fatto bene.
Il pagliaccio buffo scese dal palco (come da copione) e si avvicinò ad un tavolo;
  • Posso prenderlo in prestito un secondo? – indicando un bicchiere di vino.
Il cliente seduto, divertito, acconsentì, curioso di vedere cosa sarebbe accaduto.
Mentre finivo il balletto, il clown bevve un sorso di vino e mi getto in faccia il resto.
Tutta la sala si ammutolì.
Egli rise buffamente;
  • AH, AH! ADESSO SEI TUTTO BAGNATO! INFATTI MI SEMBRAVA CHE AVESSI BISOGNO DI BERE!
Suonai il bongo velocemente … la gente capì che faceva parte dello sketch e riprese a sorridere.
  • FINISCILA! – urlò il clown buffo e tentò di strapparmi il bongo dalle mani.
Iniziò una sorta di battaglia “tira e molla” tra noi, con tanto di facce sceme rivolte al pubblico.
Cosa si fa pur di far ridere!
E infatti ridevano.
Entrò Nanni in scena, parlando con accento napoletano;
  • EHI! COS’E’ STO CASINO?
  • E’ lui – disse il clown indicandomi – Non mi fa fare lo spettacolo!
  • No, è lui – contrattaccai – che non mi fa suonare!
  • BASTA: ORA CI PENSO IO!
Entrò in scena Carol vestita da combattente, con tanto di striscia rossa intorno alla fronte.
Disse qualche parola sconclusionata in finto giapponese … e la gente rise.
  • Questa è la mia combattente e ora vi darà una lezione!
  • Sììììì – dissi buffamente io – Questa ragazzina …
E partì uno schiaffone in faccia (finto, ovviamente) e un calcione nello stomaco, poi tocco al pagliaccio che tentò di scappare, ma fu colpito da un cazzotto in pieno volto e un calcio dritto in mezzo alle gambe.
Ah, quanto avrei pagato perché lo picchiasse sul serio!
Rimanemmo in terra, muti.
Nanni concluse:
  • Facevano schifo tutti e due!
Fine dello sketch.
E applausi finali.

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Capitolo 4
*** Carol Banglesia, di madre spagnola ***


Stavamo seduti tra la gente, ad un tavolo nostro, a mangiare e a guardare l’altro gruppo di cabarettisti.
Del cibo e delle risate non mi importava nulla, perfino della misera paga: stavo pensando al dopo.
Ma il dubbio restava: come avrebbe fatto stavolta Carol a scappare sotto il naso di Antonio?
Poi guardai proprio lui: era già ubriaco fradicio e lanciava bestemmie silenziose addosso ai ragazzi sul palco e sorreggeva a stento la testa.
Carol mi lanciò un occhiolino.
Capì tutto e le sorrisi … impaziente.
 
 
 
Alle undici meno un quarto tutti si erano appena ritirati.
Io ero sgattaiolato fuori dal camper e aspettavo Carol all’uscita del parcheggio.
La vidi uscire e correre verso di me: si era rimessa i vestiti di due sere prima, ma aveva cambiato la parrucca ... un caschetto nero, degno di Mia Wallace di Pulp Fiction.
  • Tutto apposto? – le chiesi.
  • E’ crollato come un sasso; hai visto quanto ha bevuto?
  • E allora andiamo.
E la presi per mano.
 
*****
 
Il Giardino Lamarmora era affollato, grazie anche al luna-park.
Non avevo mai visto così tanta gente in un solo posto.
Carol spalancò gli occhi appena fummo dinanzi all’attrazione: sembrò tornare bambina.
Mi afferrò per il braccio e corremmo dentro.
Non mi ero divertito così tanto da anni: andammo sulle auto scontro, ridendo come matti mentre ci scontravamo a vicenda, poi urlammo come i matti sui seggiolini volanti e infine la presi in giro (bonariamente) perché, nella pesca dei cigni, non riusciva ad acchiapparne una.
Verso mezzanotte il sosto iniziò a sfollarsi ed entrambi fummo costretti a ritirarci dato che l’indomani saremmo partiti per un nuovo spettacolo.
Ci avviammo per via Cernaia; io tenevo le mani in tasca mentre lei mangiava un pacchetto di caramelle che le avevo comprato.
Sembrava ritornata davvero bambina … sembrava contenta.
Ma la mia felicità, sulla via del ritorno, aveva lasciato posto a dei pensieri seri e profondi … ero indeciso se confessarle ciò che provavo per lei o meno … non ero sicuro che avrei avuto un’altra occasione;
presi coraggio e le chiesi:
  • Carol … per te stasera è come stare con un amico o no?
Mi guardò con i suoi occhioni verdi mentre masticava una caramella gommosa alle fragole;
  • Perché me lo chiedi?
Mi martellò forte il cuore e diventai tutto rosso; lei se ne accorse … era tardi per tornare indietro …
  • Perché tu mi piaci!
Mi sorrise;
  • Davvero?
Annuii.
  • E quanto? Poco o tanto?
  • Tanto!
Non capì dove avessi trovato tanto coraggio, introverso com’ero, ma se da un lato mi sentì libero da un peso, dall’altro avevo una paura matta … paura di perderla …
Mi sorrise affettuosamente e mi accarezzò una guancia …
  • Però se devi prendermi in giro, lasciamo tutto come sta!
Avrei voluto mordermi la lingua! Perché diavolo l’avevo detto? Avevo rovinato tutto.
Mi vergognai e mi allontanai da lei, abbassando lo sguardo.
Rimasi in disparte per qualche secondo … poi la sua mano sfiorò la mia guancia;
  • Ehi …
Che voce dolce che aveva …
  • Sei l’unico che l’ha fronteggiato – si riferiva ad Antonio – Perché dovrei prenderti in giro? Ti sei comportato da uomo!
  • Ora non esagerare …
Ma di colpo si avvicinò a me e mi baciò.
Ma non fu un bacio a stampo … fu un bacio vero, morboso, carnale … insomma, con la lingua.
E io ricambiai unendo la mia alla sua.
Restammo immobili a baciarci … non so per quanto … sentì un fischio in lontananza di un deficiente che rideva di noi … ma me ne fregai.
Quel bacio di Carol me lo godei appieno: per qualche istante il mondo era sparito.
Quando ci staccammo e tornai alla realtà, lei mi sussurrò nell’orecchio:
  • Complimenti tigre: hai appena fatto centro!
E mi sorrise con tutti i denti in mostra.
Mi afferrò per un braccio e iniziammo a correre come due ragazzini … come due innamorati.


Io e Carol ci tenevamo per mano, ogni tanto le davo un bacio sulle labbra e diventavo rosso e lei ricambiava mordendomi affettuosamente la guancia sinistra e baciandomi a sua volta. Rientrammo nel parcheggio a notte fonda. Il Bar Caffetteria “Ghezzi” si era svuotato.
Il tempo di scambiarci un ultimo sorriso … e trovammo la “sorpresa cattiva” … spalancammo gli occhi, colmi d’improvvisa tensione.
Antonio era in piedi, accanto al suo camper, con le braccia lungo i fianchi e un sorriso maligno stampato in faccia.
  • E bravo, Glauco: sei molto coraggioso!
Carol si fece avanti tremante, per difendermi;
  • Antonio … è colpa mia, gli ho chiesto io di …
Ma il capo agì rapido: diede uno schiaffo a Carol che la fece cadere in terra, poi le strappò la parrucca dalla testa che rivelò i capelli biondi legati all’indietro;
  • E’ COSI’ CHE VOLEVI FREGARMI, EH?
E comincio a prenderla a calci, ma stavolta non nello stomaco: dritto in faccia.
La sentì gridare aiuto, la chioma bionda le si sciolse in terra e si sporcò di sangue, polvere e lacrime.
Io che ero rimasto pietrificato dalla paura, trovai il coraggio di reagire:
  • LASCIALA !
Balzai addosso ad Antonio e lo allontanai da lei; gli diedi un pugno in faccia, ma parve non sentirlo; con un calcio in mezzo alle gambe, mi spinse in terra e cominciò a fare a me ciò che voleva fare a lei …
Mi prese a calci in faccia più volte, poi dritto nella pancia e mi piazzò due bei pugni assestati dritto nei denti.
Mi sembrò che il mondo girasse tra il sangue e il dolore.
Udii Carol che gridava:
  • LASCIALO STARE! LASCIALO STAREEEEEEEEEEE!
E balzò addosso ad Antonio, che riprese a picchiarla selvaggiamente.
Solo allora gli altri membri del gruppo uscirono dai camper ed intervennero per trattenere quel pazzo bastardo.
  • LASCIATEMI! LASCIATEMI, NON HO FINITO! LASCIATEMIIIIIIIIIII !
Il pazzo fu allontanato da me.
La testa mi girava tutta; sentivo il cuore che sbatteva forte lungo le costole, come se stesse per sfondarle …
Sentivo le urla disumane di quel bastardo lontane … vidi le sagome di Nanni e Federica accanto a me … poi vidi lei, Carol, che piangeva e mi accarezzava il viso, invocando il mio nome:
  • Glauco … alzati, Glauco … - gocce delle sue lacrime e del suo sangue mi bagnarono il viso, già abbastanza insanguinato – Glauco … ti prego … non lasciarmi …
E ci fu il buio.
 
*****
 
Ci fu il buio per davvero: non vedevo e non sentivo nulla.
Ero come sprofondato in un limbo, sospeso tra la vita e la morte.
Poi, lentamente, mi parve di udire qualche voce in lontananza, ma vedevo solo buio intorno a me … mi sembrava di essere in un tunnel e che le voci provenissero da una parte del “tunnel” lontana, speranzose di riportarmi alla vita.
E dopo non so quanto tempo … aprì gli occhi.
 
*****
 
Ero steso su un letto d’ospedale, in una stanza dal soffitto grigio consumato dal tempo; la stanza era occupata da me e da altri cinque infermi stesi su dei letti.
Con la testa che mi girava, tentai di guardarmi intorno, ma scorsi a stento un paio di ammalati, la finestra e il muro color bianco crema, perché due mani delicate mi fecero stendere sul lettino.
  • Stenditi!
Riconobbi quella voce e mi voltai: c’era Carol seduta su una sedia con gli occhi gonfi e la voce rotta dalle lacrime; aveva i capelli biondi sciolti, sciupati e a tratti sporchi di sangue; i segni delle botte le erano rimasti impressi in volto, insieme a qualche altra chiazza di sangue sotto il naso: sembrava sfinita.
Ora la sua bellezza era davvero sciupata.
Riuscii a cacciar fuori un filo di voce:
  • Come stai?
Non volle rispondermi: gli occhi le si inumidirono.
  • Che ore sono?
  • Le … le quattro … e mezza.
Gettai un occhio alla finestra: era buio. Dunque era quasi mattina.
  • Cos’è successo? – chiesi
Carol era sull’orlo di piangere:
  • Potevi morire … stavi per avere un’emorragia interna … ti hanno salvato per miracolo.
  • Chi mi ha portato qui?
La sua voce era scossa dai singhiozzi;
  • Abbiamo chiesto aiuto a dei ragazzi che passavano di lì … per fortuna avevano la macchina.
  • E Antonio?
Scoppiò a piangere.
  • E’ sul camper … mi sta aspettando.
Alzai di scatto la testa.
  • Come sarebbe? Vuoi tornare da lui? Dopo quello che ti ha fatto?
Portò le mani al viso: piangeva in silenzio, si sforzava di parlare tra i continui singhiozzi;
  • Hanno dovuto calmarlo con i sonniferi di Nanni … è ancora su tutte le furie … se non torno da lui ci spezza a metà entrambi: è capace di piombare qui e di fare una strage.
Aveva ancora le mani sul viso, per coprire le copiose lacrime che la bagnavano.
  • Ma non puoi!
  • Tra poche ore dobbiamo partire … io devo andare …
Fece per alzarsi dalla sedia, ma le afferrai il braccio destro con la mia mano sinistra.
  • Non puoi andare!
  • Glauco … - e mi accarezzò il volto con le mani bagnate di lacrime – Te l’ho detto che sono marcia: ho paura di lui, ma non posso farne a meno!
  • Che diavolo dici? Finirai per farti ammazzare!
Mi scivolò la presa su di lei e la lasciai alzare.
  • Devi riposarti …
  • E che ne sarà di me? Mi lasciate qui?
Si risedette, ma non ebbe il coraggio di toccarmi:
  • Non possiamo fare più nulla per te … dovrai cavartela da solo.
E prese da terra la mia valigetta in legno.
  • Qui dentro ci sono le tue cose, compresi i vestiti e qualche soldo che ti ho lasciato: di più non posso fare.
  •  E l’operazione? Bisogna pagarla?
Singhiozzava ancora tra le lacrime, ma stavolta potevo vederle gli occhi gonfi e umidi:
  • Non lo so!
  • Che cosa vuol dire …
  • Non lo so, Glauco … io devo andare!
  • Aspetta!
Non riuscì ad afferrarla, ma lei si fermò lo stesso a guardarmi.
  • Non posso fare nulla … addio!
Si avviò, ma la mia voce rimbombò piuttosto forte nella stanza … forse svegliai un ammalato.
  • Carol … ti amo!
Si fermò sulla soglia della porta e si girò un’ultima volta; corse da me e mi baciò teneramente.
Durò poco: si stacco da me e corse fuori, scossa dalle lacrime.
Mi sentii morto dentro: avrei voluto chiamarla, ma non riuscivo a parlare.
Sentii le forze abbandonarmi e chiusi gli occhi.
 
*****


L’immagine di Carol tormentò il mio sonno.

Mi trovavo in una stanza completamente ricoperta da una luce bianca e su un letto, altrettanto bianco, la vidi stesa a pancia in sotto; mi guardava e mi sorrideva con malizia: era completamente nuda.
Il suo corpo era di quanto più perfetto desiderassi: stavo per saltarle addosso, quando balzò sotto dal letto Antonio, mascherato da pagliaccio buffo;
rideva come il diavolo mentre l’accoltellava a morte e io urlavo:
  • NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!
La di lei pancia fu aperta e uno squarcio esteso lungo lo stomaco l’aprì in due: litri di sangue e pezzi di stomaco mi piombarono in faccia … e tutto divenne buio.

Poi mi trovavo su un palcoscenico: un’unica luce bianca illuminava me e in parte Carol: era sul fondo del palco, a braccia aperte verso il buio e il vuoto.
Si girò e mi guardo con il sorriso che avevo amato da subito in lei.
Feci per raggiungerla, ma lei, ancora a braccia aperte, si lasciò cadere all’indietro verso il nulla.
Forse urlai. O forse piansi.
 
*****
 
Mi svegliai di colpo. Ruotai gli occhi intorno alla stanza e constatai che era tutto tranquillo.
Dalla finestra scrutavo i primi segni del mattino nuovo.
Controllai la piccola sveglia accanto a me: erano le cinque e mezza di mattina.
Quel poco di sonno pareva avermi fatto bene, ma non potevo più perdere tempo.
Mi alzai lentamente dal letto e presi la mia valigetta.
Fregandomene che ero in camice e a piedi nudi, aprì lentamente la porta e sgattaiolai fuori.
Camminavo in punta di piedi lungo il corridoio: non vedevo ancora anima viva.
Poi mi parve di scorgere in lontananza due figure: spaventato, mi lanciai a sinistra verso la prima porta che trovai: vi avevano inciso sopra una piccola figura raffigurante una signora … era la toilette delle donne.
Sbattendomene altamente, piombai dentro.
Mi parve che non ci fosse nessuno … poi il suono di uno sciacquone mi fece drizzare i peli.
Filai dentro una delle quattro porte presenti (proprio la quarta da che ricordo) e chiusi la porta.
Mi voltai e vidi un’infermiera seduta sul water con una rivista in mano e le mutande abbassate: mi guardava scioccata.
Non ebbe il tempo di urlare perché le misi una mano sulla bocca.
Le feci segno di tacere, minaccioso … e mi sorpresi di questo.
Buttai un’ occhio fuori la porta e scorsi due infermiere in camicie che si guardavano allo specchio:  una delle due stava rifacendosi il trucco.
Fui colto da un’idea tanto grottesca quanto folle.
  • Mi dia il suo camice! – dissi sotto voce all’infermiera in mio “ostaggio”.
Non se lo fece ripetere due volte: si alzò le mutande e si tolse il camicie.
Tolsi il mio da paziente e infilai il suo da donna: mi accorsi che mi stava stretto, ma me ne fregai.
Le feci segno con l’indice di star zitta e sgattaiolai fuori.
Le due infermiere si girarono e videro un uomo vestito con un camicie da donna, i piedi scalzi e una valigetta di legno in una mano.
Mi bloccai per un attimo; poi sorrisi come un cretino e con voce “femminile” dissi:
  • Je suis frocio! Parecchio frocio!
E con la mia bella faccia da culo, sculettai goffamente e uscii dalla toilette sotto i loro occhi increduli.
Una volta fuori, udii una voce da dentro che urlava:
  • AIUTOOOOOO! MI HANNO RUBATO IL CAMICE! AIUTOOOOOOO!
La vipera mi aveva tradito.
Corsi per i corridoi, quel tanto che potevo essendo ancora debole e raggiunsi l’ascensore.
Mi ci piombai dentro e premetti un bottone.
Pensai di arrivare al piano terra, ma avevo premuto il bottone sbagliato.
Mi ritrovai nel parcheggio sotterraneo dell’ospedale.
Tanto meglio.
Corsi come un dannato su un tracciato in cemento contrassegnato da linee bianche e gialle che indicavano i posti per le auto; ne vedevo in quantità parcheggiate, nonostante fosse mattina presto.
Non mi vide nessuno.
All’uscita c’era un minuscolo ufficio con dentro un guardiano: lui ed una sbarra a linee rosse e bianche mi separavano dall’uscita.
Mi avvicinai al sosto e mi accovacciai: mi stesi e strisciai lentamente sotto la sbarra.
Ma non avevo calcolato le telecamere di sicurezza.
Una di quelle riprendeva l’uscita del parcheggio e dunque anche me che strisciavo sotto le sbarre.
Il guardiano se ne accorse e si affacciò dalla vetrata, urlando:
  • EHI, TU!
Riuscì a strisciare oltre la sbarra e corsi via, mentre lui usciva dal sosto.
Fu una corsa senza fiato: non mi voltai neppure, non volevo sapere se qualcuno stava inseguendomi o meno: volevo solo allontanarmi da lì e raggiungere l’unica persona che aveva dato un senso alla mia inutile vita: Carol Banglesia, di madre spagnola.
 

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Capitolo 5
*** Mia Carosky, di madre polacca ***


Correvo per le strade di Torino in camice da infermiera e a piedi scalzi, con una valigetta in mano, mentre le prime luci dell’alba illuminavano un cielo limpido di una mattina di giugno.
Correvo senza sapere dove stavo andando, senza sapere che strada imboccare: correvo e basta.
Senza accorgermene, passai dinanzi ad un’abitazione di grande nome e importanza: Villa Scott, la villa di Profondo Rosso.
Cominciai a sentire delle fitte nella pancia, nel punto in cui ero stato preso a calci;
mi infilai in un vicolo, con il fiatone e appoggiai le spalle ad un muro.
Aprii la valigetta e constatai che Carol aveva detto la verità: dentro c’erano la mia giacca e il mio pantalone color beige consumato, la maglietta color rosso ciliegia e le scarpe di camoscio, anch’esse consumate … insieme alle mie cose.
In due minuti mi ero già rivestito. Mi affacciai fuori dal vicolo: non c’era ancora nessuno.
Le fitte alla pancia stavano passando, potevo riprendere a correre … ma non sapevo dove andare.
Non ricordavo in che posto il gruppo avrebbe fatto lo spettacolo!

“M” … “Meeeee” … “Me” qualcosa …
Antonio aveva detto “un paese vicino Milano” … ma niente, non ricordavo proprio.
Eppure dovevo ricordare! Che diamine aveva detto Antonio?

Meeeee … vicino Milano … Meeeee … aspetta … Teramo … aveva detto anche TERAMO!
Ricordai solo quello:

“Teramo” … “Teatro delle Girandole” … “la sera dopo” … “la sera dopo lo spettacolo” … “vicino Milano”.
Visto che non ricordavo altro, non avevo altra scelta: dovevo arrivare a Teramo, trovare quel teatro e rintracciare la banda.
Il vantaggio era che avevo oltre ventiquattro ore per arrivarci … e in un modo o nell’altro dovevo farlo.
Riaprii la valigetta e scavai tra le mie cose: i soldi promessi da Carol non c’erano.
Poi scavai tra le tasche dei pantaloni … e trovai centocinquanta euro.
Potevo prendere un treno per Teramo, casomai l’avessi trovato, o un pullman o un taxi o qualunque cosa mi avesse portato a Teramo … poi avrei potuto dormire una notte in un alberghetto, se restavano i soldi … sennò avrei dormito per strada: nella mia situazione ero disposto a tutto.
Richiusi la valigetta e mi riaffacciai fuori dal vicolo, pronto per andare …
  • Ehi!
Una voce mi aveva chiamato. Mi voltai di scatto: nel vicolo non c’era nessuno.
  • Ehi!
Eppure sentivo una voce … poi la vidi, nascosta dietro ad un bidone dell’immondizia: vidi i suoi occhi piccoli e neri e i suoi capelli rossi a caschetto.
Una donna.
  • Mi dai la giacca?
Ero confuso e turbato: la sconosciuta si affacciava lentamente sempre più fuori da dietro il bidone; vedevo meglio la sua faccia ora: naso lungo e un po’ gonfio in punta e bocca piccola, senza rossetto.
  • Per favore!
Finalmente uscì allo scoperto: rimasi a bocca aperta.
  • Ho freddo!
Capii perché: indosso aveva solo un paio di stivali di pelle beige e un paio di mutande rosse … nient’altro.
Il suo corpo era magro e i seni mingherlini: a giudicare da esso, la donna non doveva avere più di vent’anni.
Il suo tono di voce era supplichevole, degno di quelle persone che necessitano di vero aiuto.
Mi tolsi la giacca e gliela porsi, chiudendo gli occhi, in modo che potesse coprirsi.
Quando li riaprii, la vidi con la faccia nascosta tra le mani; forse piangeva.

Era una strana situazione, non ci capivo nulla: riuscivo solo a stare muto e a guardarla sfogarsi da sola.
Poi alzò lo sguardo e notai i suoi occhi lucidi: li asciugò immediatamente e mi rivolse la parola:
  • Puoi farmi un favore?
Un altro? … pensai.
  • Cosa? – le chiesi
  • Puoi affacciarti fuori e vedi se trovi una macchina?
Che razza di favore era? Ma non volli farmelo ripetere: prima me ne andava, meglio era.
Mi affacciai e buttai un occhio in giro: sulla mia destra vedevo solo asfalto, marciapiedi e un paio di persone che lasciavano le loro abitazioni; sulla sinistra altrettanto … ma c’era anche una macchina.
  • Sì! – le dissi – E’ laggiù! – e indicai la sinistra.
Senza una parola, la sconosciuta mi passò davanti e uscì dal vicolo.
Invece di scappare, la seguii … forse per curiosità … o forse per la mia voglia infantile di non farmi gli affari miei.
  • Aspetta!
La ragazza camminava a passo svelto verso la macchina e non si voltava neppure a guardarmi: le stavo dietro.
L’auto in questione era una vecchia Lancia Delta di colore grigio; raggiuntala, ella infilò due dita in uno stivale e tirò fuori due piccoli ferretti … quelli che si usano per scassinare una porta o un’automobile, come quella.
Capii tutto, ma invece di scappare, le chiesi:
  • Oh, che fai?
Lei li stava già usando per tentare di aprire lo sportello; mi guardò furiosa:
  • Che vuoi? Vai via!
Il tono di voce supplichevole era mutato in rabbioso e pauroso.
Cocciutamente, le dissi:
  • Come vai via? Dammi la giacca!
Che cretino! Invece di darmela a gambe, pensavo ad una stupida giacca!
E infatti ne pagai le conseguenze.
Riuscì ad aprire lo sportello, ma quando stava per salire, un’auto della polizia imboccò la strada e venne verso di noi.
La ragazza si spaventò; mi afferrò e mi tirò a sé, appoggiò le spalle alla macchina e schiacciò le sue labbra sulle mie.
Ci fingevamo due amanti.
Sentii l’auto della polizia fermarsi e uno sportello aprirsi e chiudersi.
Passi silenziosi si avvicinavano sempre di più; entrambi i cuori battevano dall’ansia.
Una luce ci illuminò: tenevamo gli occhi chiusi.


E’ fatta! Siamo fregati!
… pensai ...
 
  • Trovatevi una stanza! – disse una voce brusca.
La donna si staccò da me e disse:
  • Scusi! – come se nulla fosse.
Salì in auto e aprì l’altro sportello anche per me; mentre salivo senza dire una parola, guardai di sfuggita il poliziotto: ricordo a stento dei capelli neri e lunghi e una barba folta … e la torcia con cui ci aveva segnalati.
Il poliziotto tornò verso l’auto; mentre quest’ultima veniva messa in moto, la ragazza stava già “giocando” con i fili per far partire la nostra auto.
 
*****
 
L’auto della polizia ripartì.
La nostra si accese.
Sentii una frenata improvvisa. Mi affacciai fuori dal finestrino e vidi l’altra auto ferma in fondo alla strada.
 La ragazza la notò dallo specchietto retrovisore: la colpì un tuffo al cuore.
Diede potenza e partì all’impazzata.
L’auto “avversaria” stava facendo retromarcia e aveva acceso la sirena.
Ci avevano beccati.
Dunque, da vagabondo, diventai un fuggitivo!
 
*****
 
Nell’ “auto avversaria”, il poliziotto che ci aveva sorpresi urlava:
  • E’ LEI! E’ CAROSKY: L’EVASA!
Il collega intanto dava massima potenza al motore.
 
*****
 
  • Che succede? – chiesi stupidamente, come se non sapessi cosa stava accadendo.
Eravamo inseguiti dalla polizia!
  • MANNAGGIA A TE! – urlò la ragazza alla guida.
  • MA CHE E’ COLPA MIA SE CI HANNO BECCATI? SEMMAI E’ COLPA TUA!
Ma non rispose: era impegnata a spingere l’acceleratore.
 
 
La sirena della polizia risuonò a tutto volume in quell’alba torinese.
La donna svoltò a destra e diede gas: per poco investì due vecchietti e due cani.
La polizia era incollata dietro di noi, cercava di spostarsi prima a destra e poi a sinistra e viceversa: tentava di sorpassarci, ma la ragazza riusciva ad evitarlo muovendo lo sterzo in ambedue le direzioni.
Questo provocò diversi sbandamenti su un rettilineo dritto; io iniziai a sentirmi male.
Sentivo la paura che mi saliva lungo lo stomaco, iniziavo a sentirmi affannato.
La Lancia Delta svoltò a sinistra, prendendo larga la curva; l’ansia mi salì ancora di più.
Volevo scendere.
  • Senti … - la mia voce era lieve e tesa – se mi fai scendere ti lascio la giacca …
L’auto della polizia era ancora dietro di noi: non voleva staccarsi.
La donna al volante non ascoltava: aveva occhi solo per gli specchietti e la strada dinanzi a sé.
La sirena mi stonava le orecchie; una luce blu filtrava fin dentro la Lancia.
Davanti a me vidi un muro: segnava la fine della strada; ai lati destro e sinistro, ancora strada.
La Lancia andava sempre più veloce.
  • Giuro che ti lascio la giacca …
Il muro si avvicinava sempre di più … anzi, eravamo noi ad andargli incontro a tutta velocità.
L’altra auto era sempre più vicina; la vidi che si era creata un varco sulla destra, sul mio lato.
Il muro si avvicinava.
La polizia ci stava sorpassando.
Preso dal panico, gridai:
  • IL MUROOOOOOOOOO!!!
La Lancia girò per un pelo a sinistra e ci salvammo. L’ “auto avversaria” non ebbe fortuna: si schiantò in pieno contro il muro.
Sospirai per lo scampato pericolo.
E’ finita, pensai …
Da un vicolo spuntò fuori un’altra auto della polizia.
I bastardi avevano chiamato i rinforzi.
La nostra auto andava sempre più veloce: la donna al volante spingeva sempre di più, fregandosene dei limiti di velocità.
Altra luce e sirena fastidiose.
Ci infilammo in un vicolo, con la polizia sempre alle calcagna.
Colpimmo in pieno un bidone dell’immondizia, che creò un bozzo nel paraurti e ruppe il faro sinistro, ma correvamo sempre di più.
Gente che abitava lì, si affacciò dai balconi, incuriositi dallo “spettacolo”.
La Lancia uscì dal vicolo e per poco non investì un gatto.
Svoltò a destra: un rettilineo dritto e lungo.
La ragazza piegò a tavoletta. La polizia anche.
Volevo allacciarmi la cintura, ma avevo troppa paura: avevo gli occhi sbarrati dal terrore e non riuscivo neanche più a parlare.
Mi sentii piegarmi all’indietro per la forte velocità.
Stavamo staccandoci di poco dall’auto avversaria.
Solo allora notai che davanti a noi c’era un incrocio: dalla destra arrivava un autobus mattutino, pronto a riprendere servizio.
Lo vidi a pochi centimetri da me: il cuore martellò.
Chiusi gli occhi.


Ora è finita!
...



Passammo per un pelo, l’auto della polizia no: lo prese in pieno sul lato sinistro, fracassando i vetri e disintegrando il ferro dell’autobus e il suo stesso motore.
Il cuore mi martellò meno, ma non riuscivo a respirare bene, mi sentivo di vomitare.
Con un filo di voce, dissi:
  • Ora però ti fermi e mi fai scendere! – le dissi.
Cinque minuti dopo, ormai sola, la Lancia fu fermata in una viottola vuota: eravamo in una zona di periferia.
  • Scendi! – ordinò la donna
Aprii lo sportello e sospirai.
Avrei voluto vomitare, ma ero solo terribilmente spaventato.
Solo una questione di terrore.
Misi un piede fuori dalla macchina, quando lei la vide:
un’altra volante, con tanto di sirena e luci, ci stava raggiungendo.
Ripiegò a tavoletta e io riuscii a stento a richiudere la portiera.
Il cuore riprese a martellarmi.
  • OH, MA SE MI DICI “SCENDI”, FAMMI SCENDERE, NO?
  • CHIUDI IL BECCO !
Correvamo lungo una strada mezza rotta, con numerose buche e fossi lungo il tracciato.
Ne prendemmo tre o quattro in pieno. L’auto rimbalzò tre o quattro volte, a tutta birra.
Mi parve di sentirmi nuovamente sull’orlo di vomitare.
La volante non demordeva.
Dinanzi a noi comparve un passaggio a livello; la sbarra si stava abbassando proprio in quel momento.
La Lancia sorpassò una fila di macchine in procinto di fermarsi e si avviò verso l’altra parte.
Ebbi timore che la sbarra avrebbe diviso in due la macchina … invece passammo e raggiungemmo l’altra metà della strada.
La volante della polizia si era fermata, bloccata da una sbarra abbassata, in attesa che passasse un treno.
Dallo specchietto notai un poliziotto scendere dall’auto ed estrarre una pistola: sparò un colpo … che colpì l’aria.
Eravamo salvi. Per il momento.
Qualche angelo lassù in cielo ci voleva bene.
Dopo pochi istanti, un cartello particolare balzò alla mia vista … avevamo appena lasciato Torino.
 

*****
 

L’orologio della Lancia Delta grigia segnava le ore sette e un quarto di mattina.
Essa correva lungo una strada statale; davanti ad essa solo vecchio asfalto in cemento, ai lati tutta campagna e tranquillità.
Non avevo la più pallida idea di dove fossimo.
Io e la ragazza misteriosa non avevamo detto una parola da quando eravamo scampati alla polizia; io stavo ancora riprendendomi dal forte spavento e forse anche lei.
Ricordo solo il suo sguardo furente e immobile, rivolto solo alla strada.
Avrei voluto dirle grazie, in fondo ero salvo per merito suo … ma quell’aria così silenziosa mi insospettiva. Voltai il mio sguardo alla campagna alla mia destra.
Com’era bella quella vista: mi sembrava di scorgere la pace in quel silenzio, in quelle distese infinite di erba, terra, fiori e alberi.
Cos’avrei dato per conoscerla anch’io … la pace.
 
*****
 

L’auto iniziò a singhiozzare verso le otto meno un quarto.
Era finita la benzina.
  • Cavolo! – urlò la donna.
Ma l’angelo benevolo che ci aveva salvati volle porgerci un’altra mano: a duecento metri, indicava un cartello, si trovava un bar/ristorante della zona.
Mi parve di leggerne anche il nome: “Paella”.
Abbandonammo la macchina sul giglio della strada e proseguimmo a piedi: io con la mia valigetta, lei con la mia giacca indosso.
Nessuno dei due disse una parola.
Pochi minuti dopo arrivammo al parcheggio del bar/ristorante “Paella”.
La ragazza aumentò il passo e si aggirò tra le poche auto nel parcheggio.
Sì, c’erano delle auto a quell’ora di mattina.
Gente che faceva colazione, impiegati, direttori, turisti … chissà.
Dopo un breve “giro di perlustrazione”, ella scelse una vecchia Fiat Uno, di colore nero.
Forse era più facile da scassinare.
Tirò fuori i suoi ferretti e si mise all’opera.
La raggiunsi e le dissi:
  • Senti … ma tu dove vai?
  • Vai via! – ringhiò.
Ancora con questo vai via!
  • Come vai via? E la giacca?
  • Non hai detto che me la lasciavi? – urlò di rimando – Allora sii di parola e vattene!
  • Non puoi lasciarmi qui! Dove siamo? – chiesi io, teso.
Riuscì ad aprire lo sportello e salì in auto. Mentre cercava i fili, io mi avvicinai alla macchina.
  • Sei ancora qui? – mi urlò in faccia – Te ne vuoi andare?
  • Ma aspetta …
Non poteva lasciarmi solo; la polizia ci aveva visti insieme, forse ora stava cercando anche me.
E se mi prendevano? Fesso com’ero, l’avrebbero fatto in poche ore.
Ormai era fatta: dovevo restare con lei.
  • NON ASPETTO NULLA: VAI VIA!
Era infuriata. Aveva unito i fili necessari e stava mettendo in moto l’auto.
  • Aspetta … dove stai andando tu?
  • Sono affari miei!
Non ne potevo più. Urlai come un matto:
  • EH NO, CARA MIA, ORA SONO ANCHE I MIEI ! QUELLI LI’ – riferito ai poliziotti – CI HANNO BECCATI INSIEME, ORA STARANNO CERCANDO ANCHE ME! NON MI PUOI LASCIARE SOLO! DIMMI DOVE VAI!
  • IN ABRUZZO, VA BENE? ORA VATTENE!
Aveva urlato perché seccata di avermi intorno.
Ma la risposta l’avevo percepita forte e chiara.

“Abruzzo” … “Abruzzo” … “Teramo” … TERAMO SI TROVA IN ABRUZZO …
“A Teramo, in Abruzzo” , così aveva detto Antonio.

Il mio volto si illuminò.
La Fiat Uno nera fu messa in moto.
Ero appoggiato allo sportello sinistro, quello del guidatore.
  • SCANSATI! – ringhiò la donna.
Infilai la testa nel finestrino aperto da lei e la guardai dritto in faccia; le dissi, con tono ansioso:
  • Senti, anch’io devo andare in Abruzzo: portami con te!
Mi guardò scioccata, come se fossi diventato un alieno.
  • CHE COSA?
  • Devo andare in Abruzzo: portami con te! – insistetti
  • Non se ne parla! – e iniziò ad alzare il finestrino: mi stava schiacciando la testa all’interno. La tirai fuori..
Bussai insistentemente sul finestrino, lei mi guardò furiosa dall’interno.
  • VATTENEEEEEEEE!
  • Ti prego – la supplicai sull’orlo delle lacrime – E’ una cosa importante, importantissima!
  • NO!
Quel no secco mi fece uscire dai gangheri, di nuovo.
Presi a calci lo sportello.
  • APRI QUESTA MACCHINA!
E lei lo aprì e scese, pronta a darmi uno schiaffo … che non mi diede, limitandosi ad urlare:
  • CHE CAZZO VUOI ANCORA DA ME?
Mi calmai, ma la mia voce era ancora furente:
  • I tuoi ferretti!
  • Cosa?
Aveva capito bene.
  • Dammi i tuoi ferretti!
Me li porse.
  • ECCOLI: ORA SPARISCI!
Li presi e sparì dalla sua vista; lei risalì in macchina.
Se non voleva portarmi in Abruzzo, ci sarei arrivato da solo, in un modo o nell’altro.
Mi avvicinai ad un’auto un po’ più nuova: una Hyundai I10 rossa.
Non avevo mai scassinato nulla in vita mia, ma in fondo ... c’è sempre una prima volta.
Posai la valigetta per terra ed infilai i ferretti nella serratura, muovendoli in maniera casuale, sperando, nella mia banale ingenuità, che la portiera si aprisse.
La ragazza era ridiscesa dalla macchina e mi stava osservando a bocca aperta.
Ma tutti io li trovo i deficienti?, pensava.
E deficiente fui: per sbaglio, toccai sullo sportello con la gamba e l’antifurto suonò.
Fui preso dal panico. Non sapevo cosa fare, né dove andare.
Un vecchietto con un berretto in testa uscì dal bar/ristorante e corse verso di me.
  • EHI! CHE STAI FACENDO?
Era il proprietario dell’auto.
Infilai i ferretti in un calzino, ma ormai mi aveva colto con le mani nel sacco.
  • BRUTTO FIGLIO DI PUTTANA: TI AMMAZZO!
Mi afferrò e mi scaraventò a terra.
Vecchietto o no, picchiava forte: dava certi schiaffi in faccia che avrei ricordato per diverso tempo.
Una ginocchiata nel fianco fece perdere l’equilibrio al vecchio; la ragazza ladra era accorsa ad aiutarmi.
Prese a calci nello stomaco l’anziano altre due volte, poi mi porse il braccio e mi aiutò ad alzarmi.
  • Vieni, cretino! – mi disse.
Presi la valigetta e la seguì alla macchina. Il vecchietto stava lamentandosi dei calci presi e lanciava bestemmie che non è il caso di descrivere.
Saliti dentro, la Fiat Uno nera sgommò via come impazzita.
Ora potevo dirglielo:
  • Grazie.
  • Prego! – rispose lei ancora furente.
 
*****
 
Quante cose erano accadute in poche ore?
Ero finito in ospedale, ero diventato un fuggitivo, avevo rischiato di morire, per ben la seconda volta e stavo per diventare un improbabile ladro.
Sul palcoscenico ero qualcuno … nella vita reale, senza un tetto sulla testa, ero una nullità.
Era a questo che pensavo mentre ero seduto accanto ad una giovane ladruncola che mi aveva salvato la vita.
Continuava ad osservare gli specchietti e il tracciato davanti a sé; non aveva occhi per nient’altro.
Quel silenzio assordante mi stava seccando: dovevo dire qualcosa.
  • Perché devi andare in Abruzzo?
Pessima domanda.
Mi guardò, nuovamente arrabbiata:
  • Senti, ufo, ti ho dato una mano, ma non prenderti tutto il braccio!
Mi zittii.
Lei guardò verso il contachilometri e cacciò un nuovo urlo:
  • MERDA!
Guardai e vidi che la tacchetta della benzina indicava che il serbatoio era pieno solo per un quarto del totale.
  • COME FACCIO AD ARRIVARE IN ABRUZZO? – urlò – NON HO NEANCHE I SOLDI!
  • Ce li ho io! – esordì.
Si voltò a guardarmi, di nuovo, con degli occhi scioccati: forse per lei ero davvero un alieno.
Tirai fuori dalla tasca i centocinquanta ero lasciatimi da Carol.
  • Con questi dovremmo arrivarci in Abruzzo … quanta benzina occorre?
Non rispose: continuava a guardarmi con quegli occhi strani.
Alla fine mi chiese:
  • Ma tu chi sei?
Finalmente un po’ di umanità in quella voce. Le porsi la mano:
  • Glauco! – e le sorrisi.
Non mi porse la sua, ma rispose:
  • Mia!
E tornò a fissare la strada.

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Capitolo 6
*** Una strana coppia ***


Melegnano.

Questo era il nome del paese vicino Milano: Melegnano.
Ed era lì che Antonio e la sua banda si trovavano, pronti per andare in scena su un palcoscenico in piazza.
Erano partiti alle cinque di mattina e alle sei e mezza, anche prima, erano già arrivati; avevano parcheggiato in uno spiazzale dietro il palco, già montato, che affacciava su dei campi agricoli.
Nanni era ripiombato a dormire, Oreste e Federica si erano concentrati sul ricucire e stirare abiti di scena, Gigi e Lisa si erano sistemati fuori sulle loro misere sedie a sdraio per dormire (infischiandosene dei passanti) e Antonio e Carol dividevano il loro unico e stretto letto.
Una stanchezza li aveva colpiti tutti: la mia perdita aveva pesato non poco sul gruppo.
Proprio ora che avevano trovato un uomo di talento … sarebbe stata dura riprendere come prima … ma in fondo si erano arrangiati per tanti anni: avrebbero ripreso le vecchie abitudini … forse.


Antonio era sprofondato in un sonno profondo: gli erano state date diverse gocce di sonnifero per tranquillizzarlo, accompagnato dal solito vino rosso all’essenza di aceto che beveva sempre più spesso.
A guidare ci aveva pensato Gigi, il padre, dato che la moglie e Carol non avevano mai preso la patente.
Ora, nel camper, c’era il silenzio.
Carol non riusciva a prendere sonno: piangeva lacrime amare, mantenendo una mano fissa sulla bocca, sperando di non svegliare il compagno con i suoi singhiozzi.
Lo guardò lì, steso di profilo sul letto, con la faccia addormentata rivolta alla compagna, costretta a stare su una vecchie sedia di legno.
Quel viso animalesco, quella sua barba, quei suoi lunghi capelli unti le fecero venire il voltastomaco.
Ora più che mai.
Corse nella piccola toilette e chiuse la porta.
Lì dentro poté piangere tutte le lacrime che voleva … ed erano tante.
Rimase per diversi minuti in piedi, davanti al lavandino, sorreggendosi con le braccia, a versarne numerose in quel oggetto igienico ormai arrugginito.
Lentamente, alzò gli occhi e si vide riflessa nello specchio:
c’era una faccia gonfia di calci, pugni e schiaffi; c’erano due occhi sempre più rossi e gonfi; c’era il riflesso di una tristezza che accompagna tutte le persone sole … il riflesso della cattiveria, della maledizione, del marciume, sempre più evidenti su quel volto.
Il suo sguardo mutò: sulle guance umide, vide due occhi colmi di odio, sentimento represso per troppo tempo, una follia che le stava mangiando l’anima, una pazzia che stava per esplodere, come un vulcano in eruzione che distrugge tutto ciò che trova sul suo cammino.
In quel momento, qualcosa si incrinò nel suo cervello.
Da quel momento, non sarebbe più tornata indietro.
Non sarebbe stata più la stessa.
Mai più.
 
*****

Non sapevamo che ora fosse, io e Mia.
Viaggiavamo da diverso tempo su quella Fiat Uno nera lungo una strada infinita tra case abitative e campagna: sembravano non finire mai.
Ad un certo punto, Mia decise di fermarsi, non per fare benzina … ma perché doveva fare una cosa.
Sostò la macchina nel parcheggio di un piccolo negozio di articoli sportivi, composto da una grande vetrata, dalla quale si potevano osservare diversi capi d’abbigliamento: mutande, t-shirt, giubbotti imbottiti, pantaloncini, pantaloni di tuta, scarpe di ginnastica … tutti indumenti sportivi, ovviamente.
E lei era ancora mezza nuda, coperta solo dalla mia giacca.
Aprì lo sportello, ma prima di scendere mi guardò fissa, serissima:
  • Sai guidare?
Non dicevamo una parola da tempo. Annuii.
  • Allora – continuò – prendi il mio posto e quando torno vai a tutto gas!
Scese dall’auto e io cambiai sediolino: mi ritrovai così con il volante tra le mani.
  • E non farla spegnere!
Annuii.
Lei chiuse lo sportello e si avviò nel negozio; quando fu entrata, rimasi solo, in compagnia dei miei pensieri.
E i miei pensieri erano questi:
“Sai guidare”? Non guido da anni! L’ultima volta è stata con mio padre a ventitré anni … e la patente è anche scaduta!
Non toccavo un volante da sette anni! Né pigiavo i pedali da sette anni!
Ma per fortuna non avevo una brutta memoria.
Osservai i pedali:
“Frizione” … la pigiavo … “Freno” … “Acceleratore” … okay, questo me lo ricordo!
Poi guardai il freno a mano … anche quello lo ricordavo.
Accesi la radio … vabbé, sapevo cos’era, ma volevo sentire un po’ di musica.
L’auto fu invasa da Another Brick in the Wall.
Poi vidi la marcia e cominciai a “giocarci”, per riprenderci la mano.

“Prima” … “Seconda” … “Terza” …
E intanto io cantavo:

We don’t need to education,
We don’t need to no thought control;
No dark sarcasm in the classroom;
Teachers, leave them kids alone …”
E la parte più bella:
“ Hey! Teachers! Leave theme kids alone!
All’ in all it’s just another brick in the wall …”

Poco dopo vidi Mia uscire dalla porta principale e scappare a gambe levate dal negozio: aveva indosso una tuta verde, un paio di occhiali scuri e una parrucca bionda e riccia (causa: polizia).
Aveva perso la mia giacca.
Dietro di lei uscì un uomo, con indosso un camicione rosso da donna e la testa pelata, che la indicava e urlava, tipo “gallina isterica”:
  • FERMATELA! MI HA RUBATO LA PARRUCCA!
Mia aprì la portiera e piombò al mio posto.
  • VOLA! – gridò
 E volai … all’indietro!
Sì, perché avevo lasciata inserita la retromarcia; spaventato, girai lo sterzo casualmente, ma ciò peggiorò ulteriormente le cose; Mia si girò e ciò che vide la incollò al sedile …
La Fiat Uno sfondò la vetrata del negozio.
Dietro di noi c’erano persone e commessi che urlavano e tentavano di scappare.
  • METTI LA PRIMA! – strillò Mia.
Cambiai marcia e partii, in avanti stavolta.
Solo che non maneggiavo ancora bene lo sterzo; infatti stavo andando a sbattere contro un’auto e contro due persone che scappavano.
  • ATTENTO! VAI DRITTO!
Raddrizzai lo sterzo e mi rimisi in carreggiata.
Dopo quello spavento, Mia, sudando freddo, si fece il segno della croce, invocando l’aiuto dell’angelo che ci aveva aiutati fino a quel momento.
Dopo dieci minuti avevo ripreso la mano a guidare, almeno in parte.
Mia aveva spento la radio; io ruppi il silenzio dicendo:
  • Ti sta bene la parrucca!
In effetti sembrava più bella.
Non mi rispose. Era di nuovo arrabbiata. Cambiai discorso.
  • Hai preso dei soldi?
  • Non ho avuto tempo – rispose acida – Mi avevano beccata!
Mi ammutolii un attimo prima di affermare:
  • Ho un po’ fame!
Lei mi lanciò un’occhiata degna di Arnold Schwarzenegger sull’orlo di fare una strage.
Ma dovette arrendersi, rispondendo:
  • Anch’io!
Proprio in quel momento, imboccai l’autostrada.
 
*****


Eravamo rimasti bloccati in un traffico infinito per diverso tempo (mi era toccato ascoltare le parolacce e le bestemmie di Mia, che non sto qui a descrivere) ed avevamo una fame nera.
Ci fermammo presso un Autogrill tra Imola e Faenza, poco dopo Bologna e ci fiondammo come due missili tra le cibarie.
Fregandomene della mia pancia, presi un piattone di tagliatelle al ragù, una cotoletta e un piatto di patatine fritte con ketchup; Mia prese degli spaghetti con le cozze e una bistecca in bianco con aglio e limone. Prendemmo anche due bottiglie d’acqua, dato che morivamo di sete.
Pagai sui trenta euro e qualcosa (ladri!), ma in compenso seppi dal cassiere l’orario: mezzogiorno e mezza.
Per quante ore eravamo rimasti bloccati nel traffico?
Ci sedemmo ad un tavolo per due e ci ingozzammo di quelle leccornie.
Mangiavo le mie tagliatelle con l’avidità di chi non mangia da diverse ore (ed era vero), Mia mangiava altrettanto, ma con passo più calmo.
Nessuno parlò durante il pranzo: ci studiavamo a vicenda con gli occhi.
In effetti lei, con quella parrucca riccia e bionda aveva un aspetto diverso: non sembrava una ladruncola, bensì una donna di elevata classe sociale, quasi un’aristocratica.
Certo, peccato per la tuta verde, che male si addiceva al tutto, ma almeno il viso sembrava giovarne da quella parrucca.
Mentre infilavo in bocca un pezzo di cotoletta, le chiesi:
  • Allora? Dove sei diretta?
Lei alzò il viso dal suo piatto di spaghetti e mi guardò seccata, come per dire “Ancora con questa domanda? Tanto non te lo dico!” .
L’avevo chiesto solo per attaccar bottone: non ne potevo più di quel silenzio, di quella distanza, tra noi due.
  • Se vuoi ti dico dove vado io! – continuai – Devo arrivare a Teramo entro domani, al teatro delle Girandole.
  • Ad un teatro? – mi incalzò lei, tutt’a un tratto curiosa – E che devi fare, una commedia?
E sorrise. Il primo sorriso che le vedevo sulla faccia. Ricambiai.
  • Non esattamente.
  • E allora cosa?
Esitai un secondo.
  • Te lo dico se prometti di non ridere.
Annuì.
  • Sto andando a salvare la donna della mia vita!
Si bloccò; la vidi confusa, come se non avesse capito … e invece aveva capito eccome, dato che scoppiò a ridermi in faccia.
Diventai rosso per l’imbarazzo.
  • Mi prendi per il culo? – chiese
Divenni serio:
  • Per niente! – dissi – C’è una ragazza bellissima, Carol, che in questo momento è vittima di un aguzzino: non puoi immaginare quanto sia bella! Non può rimanere al fianco di quella bestia, deve venire via.
  • Con te?
  • Con me!
Non c’era altro da aggiungere.
  • Mi pare una folla! – concluse lei, ridendo – Sembra una situazione da film!
  • Invece è una storia vera …
La mia storia, pensai.
Ripresi a mangiare; ma la curiosità era troppa, così tornai a chiederle:
  • Insomma, mi dici dove stai andando?
Sbuffò annoiata, mentre finiva di bere da un bicchiere colmo d’acqua.
  • Perché vuoi saperlo?
  • Io ti ho detto di me: ora tu devi dirmi di te! Siamo compagni di viaggio!
  • Potrei anche lasciarti qui!
  • E io potrei denunciarti alla polizia!
Mi guardò con aria di sfida.
  • Lo faresti? – chiese.
Ricambiai lo sguardo, sorridendo:
  • Se mi costringi, sì!
Era una battuta: non l’avrei mai fatto … ero un fuggitivo, come lei.
Si arrese e vuotò il sacco.
  • Sono evasa di galera tre giorni fa!
Addentai una patatina col ketchup.
  • Che hai fatto?
  • Son cazzi miei! – rispose burbera
  • Oh, non ti arrabbiare, eh! Ho solo chiesto …
  • Hai chiesto perché vuoi sapere, non sai farti gli affari tuoi, sembri …
  • Un bambino?
Pausa.
  • Sì! Un bambino!
Era vero, fin troppo vero.
  • Sì, non so farmi i fatti miei e siccome hai iniziato il discorso, ora lo finisci! – dissi.
Capì da come mi guardò che la voglia di parlare l’aveva eccome. Infilò due dita in uno stivale (quanta roba nascondeva in questi stivali?) e tirò fuori un minuscolo taglio di giornale; l’afferrai … vidi solo un ritaglio di una fotografia:
una ragazza con il caschetto rosso e le manette, affiancata da due poliziotti; in basso, scritto in minuscolo, c’era il suo nome intero:
Mia Carosky.
  • Carosky? – chiesi, perplesso.
  • Mia madre era polacca!
Prima Carol Banglesia, di madre spagnola; ora Mia Carosky, di madre polacca:
ma solo a me capitavano donne con nomi strani?
Le restituii la foto, che lei accartocciò e gettò nel ex-piatto di spaghetti alle cozze.
Guardava la bistecca in bianco con disgusto:
  • Non hai più fame?
Scosse la testa.
Io guardai il mio piatto ancora pieno di patatine: la fame stava passando anche a me.
Forse preferivo aprirmi con lei invece di ingozzarmi di schifezze. Scostai il piatto di lato.
  • Allora, che hai fatto? – insistetti.
  • E tu che hai fatto per finire insieme a me? – mi incalzò con un sorriso malizioso
  • Cioè? – chiesi, confuso.
  • Cioè … come hai fatto a perdere la “donna della tua vita”? Perché devi salvarla per forza?
In un quarto d’ora le riassunsi tutto ciò che mi era accaduto negli ultimi giorni: del mio incontro con il nano Nanni, del burbero e alcolizzato Antonio, dell’amore a prima vista per Carol, degli sketch che avevano divertito me e il pubblico, del primo bacio con Carol e della mia fuga dall’ospedale.
Mi ascoltò attentamente, prima di concludere:
  • Sembra proprio la trama di un film!
  • Che genere di film?
  • Un dramma sentimentale, condito di elementi da road-movie.
  • Questo “road-movie” lo stiamo vivendo io e te, adesso!
Ci sorridemmo a vicenda: era bello poterci parlare e sorriderci come due persone legate, se così poteva definirsi il nostro rapporto, in quel momento.
Ma volevo sapere di più su di lei:
  • Non vuoi proprio dirmi perché sei scappata di galera?
Dopo un altro attimo di silenzio, si arrese:
  • Avevo un negozietto di ortofrutta a Torino, con mia madre; negli ultimi mesi vendevamo sempre meno, sai … la crisi … la vita costa in questo paese e senza introiti, come campavamo? Facemmo qualche debito per tirare avanti, ma non bastò: il negozio ci fu portato via dalle innumerevoli tasse! Io e mamma eravamo a casa senza un lavoro: io andavo girando ogni giorno per trovare qualcosa, mamma si arrangiava a fare le pulizie per due spiccioli e a spezzarsi la schiena anche per me …
Mi chiesi se la ragazza avesse un titolo di studio … ma continuai ad ascoltarla:
  • … i soldi non bastavano mai, le tasse erano troppe e perfino i debiti fatti per mangiare ci stavano strozzando …
  • Rischiavate lo sfratto? – chiesi
  • Sì: eravamo in casa-affitto … e quando sei sull’orlo della disperazione, cosa fai? Non ti ingegni in qualche modo? La miseria non porta la fame? E la fame a cosa porta?
Conoscevo già la risposta …
  • A rubare! – continuò – Non ci sapevo fare per nulla, ma non fu difficile imparare, grazie anche a persone di fiducia che non ti sto ad indicare. Cominciai con piccoli furti … non ti dico dove o cosa rubavo … riuscì a portare qualcosa a casa, potevamo finalmente permetterci qualcosa da mangiare in più …
Si fermò un istante: la sua voce stava mutando, il solito tono furioso stava cedendo il posto ad un altro tono, più umile:
  • E poi?
  • E poi un giorno si presentarono gli sbirri a casa nostra!
La vidi portare le mani sul viso: iniziò a singhiozzare. Non sapevo cosa fare;
  • Mia madre è morta in carcere! – concluse.
La sentii piangere in silenzio: un pianto liberatorio; teneva nascosto il viso sotto le mani: piccoli frammenti della parrucca bionda si bagnarono lievemente.
Ed io, fregandomene che altre persone, turisti e comuni mortali seduti affianco a noi potessero vederci, mi alzai e mi avvicinai a lei; la strinsi in un forte abbraccio, come un prete che si muove in un moto d’affetto verso una povera devota di Dio appena confessatasi.
Piangeva sulla mia spalla e io avrei voluto piangere sulla sua: eravamo due anime sole, unite da uno scherzo del destino.
Qualche persona incuriosita ci fissò, muta; quando Mia parve calmarsi e io tornai al mio posto, quell’attimo di curiosità umana era svanito nel nulla.
Quel pianto, quello sfogo, mi parve le avesse fatto bene;
  • Quando ti hanno arrestato? – domandai.
  • Quattro mesi fa: se vuoi sapere com’è il carcere … lascia perdere.
  • Non avevo intenzione di chiedertelo!
Pausa. Poi riformulai per l’ennesima volta la domanda:
  • Dove sei diretta?
Stavolta me lo disse:
  • A Vasto, una città in provincia di Chieti, sul mare.
Non avevo mai visto il mare.
  • E’ molto lontana da Teramo?
  • E più a sud … se ci sbrighiamo, tra tre ore, forse prima, ci arriviamo.
Guardai quella figura mite e umile a fondo: voleva a tutti i costi portare la corazza della persona rude e arrabbiata, ma la vera Mia era quella là: una donna triste e abbandonata.
Mi pareva una persona buona.
 
*****
 
  • MA PERCHE’ TUTTE QUESTE AUTO?
Era ritornata la Mia infuriata di qualche ora prima. Avevamo fatto benzina con un’alta cinquanta euro (mia) ed eravamo ripartiti da non poco tempo e da non poco tempo eravamo fermi. La coda trafficata di automobili sembrava non finire mai lungo il tracciato autostradale.
Alla radio, ascoltammo che era una giornata da “bollino nero” sulla maggior parte delle autostrade: in certe code, alcuni automobilisti erano bloccati addirittura da quattro ore.
Così disse una voce alla radio.
  • MA ‘STI SCEMI NON POTEVANO RESTARE A CASA? – urlò Mia in risposta alla radio.
Io intanto stringevo le gambe e tenevo le mani sulla pancia: avevo un problema, già da diversi minuti.
  • Che hai? – mi chiese lei, guardando la mia posa sofferente e la mia espressività che faceva prevedere qualcosa che non andava.
  • Mi scappa!
Mia sbarrò gli occhi. Non bastava la fila di macchine, ora anche quello.
  • COSA?
  • Me la sto facendo addosso!
  • E NON POTEVI FARLA ALL’AUTOGRILL?
  • E ora ho lo stimolo.
Sbatté una mano sulla faccia. Un “facepalm”.
Imboccò la prima uscita autostradale e uscimmo da quell’ingorgo.
Fu sollevata nel non guardar più quelle innumerevoli macchine: forse le avevo fatto un favore.
 
 
 
Percorrevamo le strade di un paesino di provincia: non ricordo il suo nome.
Ricordo solo una sequela di casette, piccoli condomini, qualche albero, profonde buche sull’asfalto, marciapiedi rotti … sembrava una grande periferia.
Ci fermammo al primo bar che trovammo. Sceso dall’auto, mi fiondai di corsa nel bar, salutando a stento il barista e poi via, nella toilette.
Mia era in macchina, si stava rilassando un momento, ascoltando Too Funky di George Michael alla radio.
Stava chiudendo gli occhi … per riposarli un istante … ma li riaprì di scatto quando vide una Fiat Punto della polizia fermarsi dinanzi a lei.
Il cuore le salì in gola. Si abbassò, quel tanto che bastava per non farsi vedere e per guardare fuori: dall’auto scesero due sbirri in divisa, passarono davanti alla Fiat Uno ed entrarono nel bar: non l’avevano notata.
Il panico però l’aveva invasa tutta, come un virus.
 
 
  • Ciao, Max! – era stato il saluto di uno dei due sbirri al barista, che gli sorrideva come fossero vecchi amici.
  • Dacci un paio di birre! – ordinò l’altro poliziotto.
Uscii dal bagno in quell’istante e mi pietrificai sulla porta: li vidi là, fermi, in divisa, ad un passo da me, dall’uomo che stava aiutando un’evasa di galera nella sua fuga.
Non dovevano beccarmi: forse ora mi tenevano “schedato”.
Erano voltati di spalle, verso il bancone.
Uscii lentamente, sperando che non si voltassero.
Così fu, ma una volta fuori ebbi una brutta sorpresa:
vidi la Fiat Uno che si allontanava senza di me.
Capii tutto: Mia si era fatta prendere dallo spavento.
Corsi come un pazzo lungo la strada, urlando:
  • MIAAAAAAAAAAAA! MIAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!
Dovetti fermarmi dopo pochi metri: le fitte alla pancia ripresero a farmi male.
Mi aveva abbandonato. L’aveva fatto sul serio.
Mi sentii perduto … ma poi ebbi un’idea folle.
Pregai che mi stessi sbagliando mentre correvo indietro, al bar.
La Fiat Punto della polizia era ancora lì, parcheggiata, ferma, vuota.
I due sbirri erano ancora dentro.
Buttai un occhio nell’auto … e la vidi: la chiave, inserita dove doveva essere.
Forze dell’ordinepuah!

 
Mia correva nella vecchia Fiat Uno nera, spaventata e con un rimorso sulla coscienza.
Lo sguardo attento solo alla strada.
Una sirena colpì il suo udito: guardò nello specchietto e vide la Fiat Punto della polizia che la inseguiva.
  • MERDA!
Piegò a tavoletta, ma la Punto la stava raggiungendo con facilità: il motore della vecchia Uno non sorreggeva quello dell’ “auto avversaria” più nuovo.
D’un tratto la Punto le fu dietro e cercava di sorpassarla;
prima a destra e la Uno glielo impediva;
poi a sinistra, ma la Uno non demordeva;
alla fine riuscì ad infilarsi sulla sinistra e le si avvicinò di lato.
  • MERDA! MERDA! MERDA!
La Punto le fu vicino tanto da far scoprire a Mia chi la guidava:
sbarrò gli occhi quando vide me, che le sorridevo da grande ebete qual’ero e le urlavo:
  • EHILAAAA’!
Ma entrambi gli sguardi furono catturati da qualcos’altro.
 

 
Un cucciolo di volpe, rosso e bianco, si era piazzato al centro della strada.
Entrambi urlammo mentre frenavamo di colpo.
La Uno sbandò e mi finì addosso.
Entrambe le auto uscirono fuori dalla carreggiata.
Eravamo su una strada di campagna. Un’altra.
Le auto fecero un volo e ruotarono per aria per ben tre volte mentre si ammaccavano.
La Uno si ritrovò con le ruote all’aria, gli sportelli volati via, i vetri distrutti e il motore distrutto.
La Punto anche, ma sembrava più “accartocciata”.

...  le “macchine moderne”.
 

Il cucciolo di volpe, così com’era apparso, sparì dalla strada.
 

Mia, nonostante tutto, si era salvata, strisciando fuori dal detrito che era diventata la vecchia Uno nera.
Io ero incastrato tra il tetto ammaccato come plastica e il fondo dell’auto, ancora intero per miracolo.
Il volante si era staccato come il burro e lo sportello, senza vetro, era completamente piegato in due, ma mi teneva prigioniero all’interno.
Sentii uno scroscio, come di qualcosa di liquido, che abbandonava il veicolo e toccava terra.
La benzina.
Fui colto dal panico.
  • AIUTOOOOOOOOOOOOO! AIUTOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!
Tentai di sfondare lo sportello, ma si era incastrato. Lo prendevo a calci sempre più forti, ma quel bastardo non voleva staccarsi.
Fu tirato via dall’esterno e staccato con forza; mani di donna tirarono fuori le mie gambe e poi la mia pancia e le braccia.
Mia mi aveva salvato la vita, di nuovo.
Mi parve di vedere una piccola scintilla.
Corremmo via zoppicando, raggiungendo la strada.
Le auto, o meglio, ciò che restava di loro, esplosero.
Cademmo in terra, tremanti di paura.
Ci girammo e l’unica cosa che vedemmo erano fiamme.
C’era mancato un pelo.
Fui afferrato per il collo dalle mani furenti di Mia; solo ora mi accorgevo che non aveva più la parrucca, che aveva un graffio insanguinato lungo la guancia sinistra e che mi guardava con due occhi indiavolati, mai visti prima.
Stavolta l’avevo fatta grossa.
  • TU SEI PAZZO!
E mi diede un pugno in faccia; stavo per cadere, ma mi riafferrò per il collo della maglia.
  • TU SEI PAZZO!
Ed ebbi un altro pugno, sul naso.
Sentii il mio naso bollirmi, come un vulcano incandescente sull’orlo di eruttare sangue.
La Mia umile e triste che avevo “conosciuto” nell’Autogrill era sparita: era diventata un demonio impazzito.
  • DIMMI CHE SEI EVASO DA UN MANICOMIO! TI PREGO, DIMMELO!
Sentivo un tremore allo stomaco scendermi fin giù alle gambe.
  • IO SONO EVASO DA UN MANICOMIO”! DILLO!
E mi diede un calcio in mezzo alle gambe.
Mi accasciai per terra, in ginocchio, percependo un dolore così forte da farmi girare la testa.
Mia mi lanciò addosso la mia valigetta, dimenticata da me nella Uno e salvata da lei alle fiamme; la vidi che si allontanava da me, indicandomi:
  • Non voglio vederti mai più! Hai capito? NON VOGLIO VEDERTI PIU’!
E se ne andò a passo spedito, in compagnia della sua rabbia.
Io mi limitai a rimanere seduto in mezzo alla strada, con gli occhi abbassati.
 

Una Mercedes berlina e color bianco quasi mi investì.
Sentì il suo clacson poco dopo avermi sorpassato.
Mi voltai e vidi Mia che alzava le braccia in aria: la Mercedes si fermò
Ella si appoggiò al finestrino e parlò con l’unica persona presente all’interno: un mite anziano.
  • Scusi, ho avuto un incidente: mi darebbe un passaggio?
L’anziano restò colpito dal segno insanguinato sul suo volto. Non esitò.
  • Ma certo. Salga su.
Mia gli sorrise e aprì lo sportello, ma poi si fermò.
Vidi che si voltava a guardare quell’adulto bambino seduto sulla strada.
Era tornata, di colpo, la Mia buona e triste.
Evitai i suoi occhi e fissai l’asfalto: ero offeso, come un bambino al quale si è negato un bel gioco.
Sentii i suoi passi avvicinarsi a me e la sua voce sempre più vicina che diceva:
  • Muoviti, dobbiamo andarcene!
Poi la sentii allontanarsi.
Mi alzai: ero scuro in volto.
La raggiunsi senza fiatare.
Lei salì dietro e io davanti.
Appena l’anziano mi vide, malconcio com’ero, mi mise una mano sulla spalla:
  • Come ti senti? – chiese, mitemente.
Gli piantai un cazzotto in viso; tre secondi dopo cadde con la testa sul volante e svenne.

Il clacson prese a suonare, ininterrotto:

BIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII …

Mia scattò in avanti:
  • MA ALLORA SEI PROPRIO PAZZO!
  • O LO DAVO A LUI O LO DAVO A TE! – le urlai di rimando.
Si zittì.

E il clacson, ancora:

BIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII …
  • SPOSTAGLI LA TESTA! – gridò.
Obbedì, spostando la testa del vecchietto sul poggiatesta del sedile: sembrava dormire.
  • Perché volevi darmi un pugno? – chiese, d’un tratto calma.
Non osavo girarmi a guardarla.
  • Perché mi hai abbandonato!
Un minuto dopo, l’anziano dormiva beatamente, steso sulla strada, accanto al suo portafoglio … vuoto.
Ora avevamo trecento euro con noi.

 
Mia era alla guida. Non osavo guardarla: si era ricreato il vuoto intorno a noi.
Fu lei a decidere di interromperlo:
  • Mi dispiace per prima … ho avuto paura e ho agito d’impulso … non volevo davvero …
Si voltò ad osservarmi: il mio labbro inferiore era all’infuori e i miei occhi semichiusi.
Non so perché, ma ricambiai il suo sguardo.
Quella mia faccia buffa la fece sorridere un attimo.
Mi guardò di nuovo e scoppiò a ridere.
Non rideva tanto di me, ma della situazione ai limiti dell’incredibile che avevamo vissuto.
O forse rideva anche di me, di quell’assurdo compagno di viaggio che ero io.
Forse rideva della mia infantilità, del mio animo mite ed insicuro.
Qualunque fosse il motivo, rideva.
Ed era la Mia che mi piaceva, quella che desideravo, come amica.
Ci osservammo a vicenda e lei rise ancora di più: scappò da sorridere anche a me.

Ridemmo tutti e due, come bambini.

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Capitolo 7
*** Strane sorprese ***


  • Ora calza a pennello!
Così disse Oreste a Carol mentre le sistemava la camicetta color bianco crema lungo i fianchi.
La osservò: in testa aveva una cuffia blu scura, una gonna alta rosso porpora e un paio di sandali neri, oltreché la camicia.
Una perfetta sguattera, proprio ciò in cui doveva trasformarsi per lo sketch di quella sera.
Avrebbe interpretato una cameriera intenta ai suoi servizi e Antonio avrebbe interpretato un ricco nobile grasso e buffo che tentava di farle la corte con scarsi successi.
Carol sorrise ad Oreste: un sorriso falso, dato che la sua testa era altrove.
Erano le cinque del pomeriggio quando ella uscì dal camper e si avviò da Antonio per le ultime prove dello sketch; lo osservò da lontano con occhi torvi … stava pensando al dopo.
 
*****
 

Alle cinque e mezza, la Mercedes berlina e bianca uscì dall’autostrada ed arrivò a Teramo.
Fortuna che c’era un navigatore satellitare al suo interno; io non ci capivo nulla, mentre Mia lo maneggiava come se fosse la cosa più comune del mondo.
Grazie ad esso, la macchina si muoveva sicura tra le strade anonime, per me, di quella città nuova: non mi importava di visitarne una parte, come Torino, mi importava solo la mia metà, che raggiungemmo grazie al navigatore.
L’auto fu fermata lungo via Maestri del Lavoro, al numero otto;
scesi dall’auto e espirai, di felicità: ero arrivato.
Davanti a me c’era una comune porta a vetri scorrevole e sopra ad essa una scritta a tinte grandi e rosse: “Teatro delle Girandole”.
Anche Mia scese e mi chiese:
  • Allora è qui  che incontrerai la tua amata? – con una punta di malizia che mi sorprese.
  • Arriverà domani! – risposi
  • E cosa intendi fare fino a domani?
Quello era ancora un rebus.
  • Potrei dormire in un albergo, ho soldi a sufficienza per una notte …
  • Se la polizia ti ha visto con me, non sei al sicuro!
Giusto.
  • Allora passerò la notte per strada: non ho paura!
Mentii.
  • Tu? Non hai paura? – chiese, ridendo – Sei incapace di badare a te stesso e vorresti stare per strada tutta la notte?
Di cattivo gusto. Era molto di cattivo gusto come battuta. O forse non era una vera battuta: era la sacrosanta verità.
  • In un modo o nell’altro, devo arrivare a domani.
Risalii in auto, con lei.
  • E se invece ti accompagnassi a Vasto?
Gliel’avevo chiesto di sfuggita. Mi fissò dubbiosa.
  • E come ritorni qui?
  • Prenderò un treno.
  • Ma allora sei idiota! Se ci hanno visti insieme, non sei al sicuro!
Sì: ero proprio un idiota. Idiota e distratto.
  • Mi lasci la macchina e ritorno.
  • Quest’auto deve sparire, anzi, facciamola sparire ora!
 
 
Abbandonammo la Mercedes bianca in un vicolo buio.
Tornati alla luce, ci tenemmo per mano per mischiarci alla folla, come due comuni mortali.
 Riprendemmo il discorso:
  • Dunque? Che hai deciso? – chiese lei
  • Se proprio non ho dove andare – risposi – preferisco accompagnarti.
  • Non ce la faresti a tornare da solo.
  • E se ti sbagliassi? – la incalzai.
Non volle rispondermi: si limitò a dirmi:
  • Ho bisogno di una parrucca!
Doveva nascondersi dalla polizia. Da tutti.
  • Secondo me – dissi – la polizia ci ha dimenticato.
  • Come sarebbe? – chiese lei, sbarrando gli occhi.
  • Rifletti: se siamo segnalati entrambi, ci avrebbero già presi: tu hai perso la tua parrucca e io cammino per le strade come se nulla fosse: non avrebbero già dovuto beccarci?
Avevo parlato troppo presto e inutilmente. Come sempre.
Un’Alfa Romeo della polizia ci passò davanti e si fermò in mezzo alla strada.
Sbarrammo entrambi gli occhi: afferrai Mia e la spinsi spalle al muro.
Dunque schiacciai le mie labbra sulle sue: ripetevamo la recita del nostro primo incontro.
Passi ostili si avvicinavano a noi.
Involontariamente, il mio bacio sulle sue labbra non era falso: mi ero lasciato prendere a tal punto che la stavo baciando sul serio.
Lei ricambiò, ad occhi chiusi, infilando la sua lingua nella mia bocca: entrambe le lingue s’incontrarono e si unirono in matrimonio.
Sentivo il suo cuore battere accanto al mio.
I passi si facevano sempre più vicini. Le nostre lingue si univano sempre di più.
Finché una voce nemica ci fece sobbalzare ed accettare la sconfitta:
  • Ma guarda un po’ chi c’è qui! – disse sarcastico il poliziotto.
 

Mezz’ora dopo eravamo sistemati in una piccola cella insieme ad altri quattro individui, in attesa di essere trasferiti altrove.
Al di fuori delle sbarre in acciaio, vedevo un giovane sbirro seduto ad una scrivania che scriveva qualcosa al computer. Accanto ad esso c’era la mia valigetta in legno, pronta ad essere perquisita.
Poliziotti e commissari che passavano da lì ogni minuto.
Avanti e indietro. Avanti e indietro.
Nella cella, gli altri individui erano tutti particolari: c’era un punk dai capelli lunghi e verdi e dai vestiti in pelle strappati, un ragazzino pelato con una consunta maglia rossa di Speed Racer e un jeans pieno di buchi (la “moda giovanile”), un tizio a torso nudo con una folta barba e con pochi capelli biondi in testa e l’ultimo, grasso come una botte, con una t-shirt verde acqua e un pantalone di tuta beige con chiazze di qualcosa che sembrava tintura rossa, la testa pelata e un naso degno di Dante Alighieri.
Quest’ultimo dormiva seduto, appoggiato con le spalle al muro.
Il punk rideva di me e di Mia: della cicatrice sul volto di lei e dei vestiti di entrambi: sporchi, sgualciti e con non un buco impresso nei tessuti.
Causa l’incidente d’auto di qualche ora prima.
Mi sembrava mancasse l’aria in quella cella. E tra gente che camminava avanti e indietro, che andava e veniva, capii che in una centrale di polizia vi regna il caos.
Avevamo una gran sete e i primi sintomi di fame.
Un poliziotto si fermò alla scrivania e domando al giovane collega:
  • Claudio: sai mica l’ora?
E il ragazzo osservò qualcosa dallo schermo del computer e rispose:
  • Le nove e mezza.
 
*****
 
A quell’ora, sul palco pubblico di Melegnano, Antonio e Carol si esibivano nel loro sketch: c’era una gara di cabaret e al primo classificato veniva dato in dono una coppa ed un buon compenso in banconote.
Era un’occasione d’oro per guadagnare qualcosa in più.
Si accesero e luci e la platea si zittì: un signore panciuto con un camicione lungo due metri e un cappello rosso degno di Babbo Natale, camminava a passo lento sul palco a piedi scalzi.
Si udirono le prime risate.
Egli teneva in mano una candela, spenta, sperando di vedere nel “buio”.
  • Teresa! – gridò
E fissava il pubblico con il labbro inferiore esposto all’infuori e due occhi finto – furiosi.
Un’altra faccia buffa.
Altre risate dalla platea.
  • Teresa! – ripeté la voce, alta.
E ancora quella faccia al pubblico divertito.
  • TEREEEEEESAAAAAAAAAAAAA!
Gridò con una voce sì alta, ma quasi grottesca e spaventata, degna di chi ha ancora paura del “buio”.
Sul palco piombò Carol, tra risate ed applausi, con indosso il costume da sguattera provato ore prima.
  • Dite, signore!
La di lei voce, però, non pareva comica, né si addiceva ad un personaggio che incitasse alla risata.
Antonio se ne accorse, gettandole un’occhiataccia che non passò inosservata al pubblico.
  • Non riesco a trovare il letto!
  • E’ lì, signore! – rispondeva la cameriera, brusca.
La gente riprese a sorridere, ma Antonio sentiva che qualcosa non quadrava:

Non l’abbiamo provata così oggi! La cameriera deve essere scocciata, non dura.

Spostò la candela spenta verso il lato destro del palco: una luce illuminò un materasso di scena.
  • Eeeeeee … mi accompagneresti?
  • Perché, la luce non basta?
  • E’ che mi fa male il piede … - e Antonio prese a zoppicare goffamente sul piede destro.
Risate plateali.
La cameriera prese sotto braccio il signore, bruscamente.

Doveva afferrarmi scocciata, non così!

Il panciuto signore appoggiò le natiche sul materasso e sorrise alla cameriera:
  • Grazie, cara, infinitamente grazie!
La cameriera fece per allontanarsi, ma fu richiamata:
  • Teresa: mi stendi le gambe?
Chiesto con una punta evidentissima di malizia, che fece sorridere il pubblico.
Teresa tornò indietro e afferrò le di lui gambe, per poi sbatterle sul letto con forza.
Non doveva fare così.
Ma il pubblico lo prese come parte dello sketch e sorrise.
  • Teresa! – urlò alla cameriera che se ne stava andando, di nuovo – Mi dai la coperta, per favore? – chiesto sempre con malizia.
Teresa afferrò una coperta posizionata su una sedia di scena e gliela sbatté in faccia.

Ma allora è scema! Non doveva fare così!

La gente in platea sorrideva, in parte, ma il numero non stava andando come previsto; Antonio doveva fare qualcosa.
  • Ma Teresa! – disse, offeso.
  • COSA C’E’?
Carol aveva gridato con furia: il pubblico si zittì. Questo non era decisamente da copione.

Che stai combinando?
  • Ma che si da così una coperta al proprio padrone?
  • OOOOH, SCUSI TANTO!
E questo da dove esce?
Si avvicinò al letto e lo rimboccò come un bambino, infilando brandelli della coperta sotto le gambe, sotto la schiena e sotto le braccia, fin su al collo.
Lo aveva trasformato in un fagotto umano.
La gente rise di quella sua posa buffa.
  • Non ti pare di esagerare un po’? – domandò lui
Cretina! Come faccio così a toccarti una gamba, come da copione?
  • SUA ILLUSTRISSIMA MAESTA’ NON E’ ANCORA A SUO AGIO?
Ogni volta che strillava, il pubblico si ammutoliva.
Gli tirò via la coperta, facendolo cascare dal letto e gettandola in terra.
Ci fu qualche risata, subito zittita dalle grida della cameriera:
  • ALLORA DORMA SENZA!
Ma allora sei pazza!

Antonio si alzò e le andò incontro, tentando un’ultima carta per rispettare il copione.
La afferrò per un braccio;
  • Ma Teresa …
Non riuscì a sfiorarle una gamba, come da copione: in compenso ricevette uno schiaffone che lo fece ricadere in terra.
La cameriera uscì da dietro, lasciando il palco.

Egli si alzò e la inseguì.
  • OOOOOOOH!
Il palco rimase vuoto. Dopo un attimo di silenzio, scrosciò qualche applauso: qualcuno aveva scambiato quel disastro come “parte dello sketch”, qualcun altro non c’era cascato.
Era il turno di altri attori.
 
*****
 
  • Chi è quello lì?
Così avevo chiesto al signore a torso nudo, indicando il “Dante Alighieri” che dormiva ancora nella sua posa da seduto.
Quel tizio era stato l’unico con il quale avevo potuto fare due chiacchiere: era un tipo tranquillo; del punk e del ragazzino non mi fidavo, leggevo nei loro occhi odio e desiderio di distruzione.
Mia si era stesa per terra, cercando di prender sonno.
  • E’ il “Conte Ugolino” – rispose il tizio.
  • “Conte Ugolino”?
  • S’è mangiato i figli!
Sbarrai gli occhi. Mia balzò in piedi, da terra, con la bocca spalancata.
  • Lo chiamano “Conte Ugolino” apposta!
Ecco perché se ne stava in disparte e gli altri membri della cella lo tenevano a distanza.
Presi a fissare il “Conte Ugolino”: sembrava tranquillo nel suo sonno, ma si sa: il sonno frega gli svegli.
Quest’ultimo aprì gli occhi di colpo: forse non aveva mai dormito nelle ultime ore, forse faceva finta e ascoltava ogni cosa intorno a sé, come una bestia che si mimetizza con l’ambiente, aspettando il momento giusto per attaccare.
Ci spostammo tutti verso la sbarra, terrorizzati.
Il giovane sbirro alla scrivania scriveva ancora al computer: si bloccò, vedendoci spostare in massa.
  • Ehi!
Io e Mia ci tenevamo la mano, con gli occhi spalancati dalla paura.
Il “Conte” ci osservò, con gli occhi degni di un lupo pronto ad azzannare la sua preda.
Parlò, con una voce sottile e tranquilla che, vista la situazione, ci fece ancor più paura:
  • Me le voleva portare via … quella troia!
La troia doveva essere sua moglie.
  • Voleva lasciarmi … e voleva portarmele via!
La sua apparente calma poteva esplodere da un istante all’altro.
  • La più grande aveva dieci anni … la più piccola quattro …
Aveva avuto due figlie, femmine.
  • Prima ho ammazzato lei … e poi ho azzannato loro!
Ne parlava come se avesse fatto una normalissima scampagnata al mare.
  • E ora – si massaggiò la pancia – resteranno con me … per sempre!
Ma che razza di gente metterebbe in una cella delle persone insieme ad un individuo come quello?
Le forze dell’ordine
  • Ehi! – urlò il poliziotto – Allontanatevi dalla sbarra!
Seppur spaventata, Mia ebbe un’idea:
  • Hai fame? – gli chiese, con voce tremante
Non avevo la più pallida idea di cosa stesse accadendo, troppo preso dal mio respiro affannoso.
Il “Conte” annuì.
Mia gli fece cenno, con la testa, di avvicinarsi a noi.
  • E allora mangia!
Tenendomi per mano, mi spinse verso il muro a sinistra: gli altri si spostarono sull’altro lato.
Il poliziotto si era alzato, lasciando incustodita la scrivania con la mia valigetta sopra.
In quell’istante, nessuno passò di lì: dunque nessuno vide quanto accadde.
Lo sbirro aveva appena appoggiato le mani sulle sbarre: il “Conte” si alzò di scatto e corse verso di lui;
gli morse le mani con violenza: urla disumane piombarono nella cella, tra dolore e sangue che scorreva da quelle mani e che bagnava i denti di un cannibale pazzo.
Fu tutta una conseguenza: il punk dai capelli verdi afferrò per i testicoli il poliziotto, fregandosene del “Conte”, così il ragazzino pelato poté fregare un mazzo di chiavi dalla cintura del giovane tutore della legge.
La porta a sbarre fu così aperta e tutti potemmo scappare, tranne il “Conte”, intento a “mangiare” lo sbirro.

*****
 
Aveva gettato in terra il cuscino che faceva da “pancia grassa” e senza togliersi il costume, si era avviato verso il suo camper, furente.
  • Aspetta, Antonio … - lo aveva pregato Lisa, sua madre.
Il figlio l’aveva scansata indietro, con uno spintone.
  • VATTENE: DEVO PARLARE CON LEI!
Senza dire altro, entrò nel camper, sbattendo la porta.
  • CHE TI E’ SALTATO IN MENTE? – urlò a Carol, ancora con il costume e il trucco indosso.
Lei non osava girarsi a guardarlo: teneva lo sguardo fisso conto il muro, mentre beveva, seduta al tavolo, un bicchiere di vino rosso.
Antonio scaraventò il tavolo per aria, disintegrando la bottiglia e il bicchiere dal quale la donna beveva.
  • STO PARLANDO CON TE, SGUALDRINA! CHE TI E’ SALTATO IN MENTE? DA DOVE HAI TIRATO FUORI QUELLA ROBA?
Lei era ancora a viso basso.
Il capo non poteva sopportare un simile affronto, né tantomeno dalla sua donna.
Le mollò un ceffone in viso, così forte che la fece sbattere contro il materasso accanto.
La di lei guancia, la solita guancia ancora gonfia da giorni e giorni di botte, riprese ad arrossirsi.
Fu allora che la belva umana l’udì: una risata.
Una risata diabolica impressa sul volto ferito di Carol.
Rideva come non aveva mai riso, come invasa tutt’a un tratto da un demonio.
Ad Antonio parve scendere una goccia fredda lungo la schiena: si stava preoccupando seriamente per la salute psico-fisica della compagna.
Ma non poteva non mostrare, una volta di troppo, il suo lato bestiale:
  • COSA RIDI?
E la risata svanì, lasciando spazio solo agli occhi, intensi di odio e disgusto.
Il marciume e la follia del suo animo stavano eruttando.
Senza che lui potesse prevederlo, Carol l’afferrò per la gola e con una forza sovrumana, materializzatasi d’un tratto, lo sbatté con entrambe le braccia contro la parete del camper.
I suoi occhi parvero tramutarsi nel colore del sangue.
Mostrò tutti i denti, ma non nel solito dolce sorriso, ma in un’espressione di rabbia immensa, di desiderio di morte.
Antonio soffocava dietro quelle mani che attanagliavano le sue vie respiratorie: il suo viso era mutato in un’espressione di terrore.
I ruoli si erano definitivamente invertiti.
Carol urlò con una voce assatanata che gli fece gelare le viscere:
  • ORA TOCCA A ME, SCHIFOSO!
 
 
Urla potenti provenivano dal camper dei due “sposini”, urla di uomo; nessuno intervenne: né i genitori, né i cugini, né Nanni.
Sapevano già cosa stava succedendo, cos’era mutato in Carol per sempre.
Sapevano che in quella casa su quattro ruote un uomo brusco, irrispettoso e cattivo, stava finalmente pagando il prezzo salato delle sue cattiverie, inflitte a tutto il gruppo, ma soprattutto a quella povera ragazza.
Nessuno osò toccare cibo. Nessuno osò fare nulla.
Oreste e Federica entrarono nel loro camper, senza dire una parola; Gigi e Lisa dormirono sui letti del camper di Nanni.
Quest’ultimo si addormentò al posto di guida, sognando un’altra vita che non fosse quella.

 
*****
 
  • FERMIIIII !
Le urla degli sbirri rimbombavano dappertutto mentre io, Mia e gli altri tre delinquenti scappavamo lungo i corridoi del distretto di polizia.
Il punk “verde” e il ragazzino si avventarono su due di loro, evitando loro di sparare; il punk picchiò di gusto lo sbirro, il ragazzino anche.
Il tizio a dorso nudo correva insieme a noi. Cominciarono a volare pallottole a destra e a manca; i suoni degli spari ci facevano tremare lungo la corsa, ma non ci arrendemmo.
Non so come, ma raggiungemmo la porta d’uscita: un proiettile colpì in pieno petto la schiena del “petto nudo”, mentre Mia apriva la porta.
Ci eravamo salvati di nuovo, per un pelo.
Ci ritrovammo in strada, correndo senza fiato, ma senza l’intenzione di arrenderci alla stanchezza.
  • FERMI O SPARO! – urlò uno sbirro alle nostre spalle.
Ma chi si fermava?
Partì uno sparo …
Mia cadde in avanti e sbatté la faccia in terra.
  • MIIIAAAAAAAAAAAAAA! – gridai.
Il poliziotto sparò ancora, ma dalla pistola non uscì nulla: aveva finito i proiettili.
E rimaneva fermo, sull’androne della porta d’uscita, indeciso su cosa fare.
L’idiota.
  • MUOVETEVI, PRESTO! – gridò all’interno dell’edificio.
Tenni Mia e la valigetta in legno tra le mie braccia mentre fuggivo, lontano dal caos.
 

 
Ci infilammo in un vicolo e ci nascondemmo dietro un bidone dell’immondizia.
Una sirena della polizia passò di lì, ma non entrò all’interno della stradina.
Eravamo salvi. O almeno, IO lo ero.
Appoggiai la valigetta in terra e misi stesa Mia.
Aveva gli occhi socchiusi e respirava a stento, ma era ancora viva.
Tastai il suo corpo per trovare il foro del proiettile: lo trovai poco dopo. Sulla testa.
Il proiettile aveva colpito il suo cranio, solo una ferita di striscio, che però sanguinava non poco.
Mia ragionava ancora:
  • Dobbiamo … trovare … macchina …
Le accarezzai il volto, con gli occhi lucidi.
  • Sì … una macchina … la trovo subito.
Affacciai la testa fuori dal vicolo: non c’era più nessuno.
Sulla destra intravidi una vecchia Fiat Croma grigia.
  • L’ho trovata! – le urlai.
La sorressi per le spalle mentre la trascinavo verso la macchina.
Ricordai di avere ancora, nascosti in un calzino, i suoi ferretti per i furti.
Appoggiai il suo corpo con le spalle sugli sportelli, misi in terra la valigetta e mi misi all’opera.
Che stupido: non mi era riuscito la prima volta con una Hyundai I10, come poteva riuscirmi ora?
Ma qualcosa dovevo fare …
Con una forza che mi sorprese, la mano di Mia afferrò i ferretti:
  • Lascia fare a me! – disse, sul punto di svenire.
Quando lo sportello si aprì, sembrò accasciarsi sull’asfalto. L’aiutai a sedersi sul sedile passeggeri, accanto a quello del guidatore.
Ma lei non si arrese:
  • Devo … accenderla …
Quando ebbe collegato i fili giusti e la macchina partì, chiuse gli occhi e non fiatò più.

E’ MORTA!

Avvicinai l’orecchio sul suo petto, mentre le tenevo una mano sulla testa.
Il cuore batteva: era solo svenuta.
Ma quella ferita, apparentemente banale, andava curata.
Mi decisi ad aprire la valigetta in legno; dentro c’erano:
un asciugamano, una camicia di riserva, un pantalone di tuta nero e …
Avevo mentito a Nanni: c’erano tre o quattro riviste porno, in particolare, c’era una rivista di cinema e a pagina 54, contrassegnata da una piega all’interno, una foto a colori che occupava tutta la pagina.
C’era raffigurata un’attrice di cui mi ero invaghito quand’ero ragazzino e che aveva perseguitato il mio sonno e i miei desideri sessuali.
Quella rivista aveva più di dieci anni.
E non vi svelerò il nome di quest’attrice: soffrite!
Ma non era finita: nella valigetta, c’erano anche: una bottiglina di alcol medico (forse scaduto), ovatta bianca, cerotti, garze sparpagliate lungo il fondo e del nastro adesivo nero.
Dovevo arrangiarmi, per il bene di Mia.
Versai dell’alcol su un triplo strato di ovatta, gliel’appoggia sulla ferita e la tenni premuta, mentre ci appoggiavo sopra tre garze mediche e attaccavo il tutto, maldestramente, con tanto nastro adesivo.
Era una mediocre fasciatura, ma meglio di nulla.
L’adagiai sui sedili posteriori: sembrava dormire dolcemente.
Nella valigia trovai anche un vecchio orologio di mio padre, ancora funzionante.
Lo infilai al polso e chiusi tutto.
Mi sistemai al posto di guida, deciso: partii, pronto a rendere un favore alla mia amica.
E stavolta non avrei errato.
 
*****
 

A mezzanotte meno un quarto, arrivai a Vasto.
Non avevo sbagliato strada, né mi ero aiutato con un navigatore (che non c’era in auto): avevo imparato ad osservare i cartelli.
Giravo con la Fiat Croma lungo strade affollate di persone: chi entrava ed usciva dai bar, chi passeggiava per le piazze, chi si sedeva sulle panchine … persone normali, adattate alle loro comuni vite.
Cosa che io non ero in grado di fare.
Seguii la scia che un cartello bianco mi indicò d’un tratto:
“Vasto Marina”.
Cinque minuti dopo percorrevo la lungomare della città; non sapendo dove sostare, continuai a camminare, finché un muro non mi obbligò a sostare.
Sulla mia destra, c’era un vecchio molo in cemento che dalla strada portava fin sopra al mare: un vecchio molo per l’attracco delle navi.
  • La macchina …
La voce di Mia mi fece sobbalzare; la vidi riaprire di poco gli occhi e parlare con voce flebile:
  • … fai sparire la macchina …
E si riaddormentò.
 
*****
 
Mia dormiva, stesa in terra, accanto alla mia valigia, sull’asfalto.
La Fiat Croma correva a cinquanta chilometri orari sul molo in cemento.
La fermai di scatto ad un centimetro dal baratro.
Scesi dall’auto e la spinsi in mare: scomparve nell’oscurità.
Pochi istanti dopo, camminavo lungo una strada buia e solitaria con la mia valigia e la mia amica tra le braccia.
 
 
  • Fammi scendere …
Per poco non mi fece allentare la presa e farla cadere.
Mia aveva riaperto gli occhi e aveva ripreso a parlare, flebilmente, ma con chiarezza.
  • Fammi scendere!
La rimisi in piedi e la sorressi per le spalle; a stento riusciva a camminare.
  • Come ti senti? – le chiesi
  • Mi fa male la testa …
  • Vuoi qualcosa?
  • Co … come?
  • Vuoi da mangiare? – ero preoccupatissimo per la sua salute.
  • Me la cavo … tranquillo …
Ad entrambi parve di non aver bisogno di nulla: né di mangiare, né di bere … troppo scossi dagli eventi delle ultime ore.
  • Per di là … - disse, indicando una spiaggia solitaria.
Ci ritrovammo a camminare su della sabbia fine, quasi morbida.
Dinanzi a noi, una distesa infinita di acqua che sbatteva ininterrottamente sulla riva sabbiosa.
Era il mare e lo vedevo per la prima volta.
Peccato che di notte non fosse un gran spettacolo: troppo scuro.
Feci sedere Mia sulla sabbia e aprì la mia valigetta: tirai fuori l’unica asciugamano che avevo e gliela misi sulle spalle.
Mi sedetti accanto a lei: percepii la sua testa che si adagiava sulle mie gambe.
Teneva gli occhi chiusi e la bocca aperta …
  • Ti va di parlare un po’? Non voglio dormire, ho paura …
  • Per la testa?
Non c’era bisogno che annuisse: avevo appena risposto per lei.
  • Va bene: parliamo.
Aprì lievemente gli occhi e mi sorrise: era bello vederla sorridere.
Fece un piccolo cenno verso il mare:
  • Sai cosa c’è la in fondo?
Scossi la testa.
  • Il Confine!
  • Cosa?
  • Il Confine tra questo mondo ed un altro!
Sbarrai gli occhi e mi chiesi se nel buio notturno, lei li vedesse:
  • COSA?
Che follia è questa?
Mi sorrise.
  • Non ci credi, eh?
Ero confuso come non mai. Lentamente, si mosse di poco e portò il braccio destro in avanti, per indicare qualcosa di indefinito in lontananza, verso le oscure acque marine.
  • La in fondo – continuò – da qualche parte, esiste un posto … come un’isola … distante da questo paese e da tutto il mondo degli umani … ci si può vivere, meglio che in questa società di merda … che in questo mondo umano di merda …
Forse quei discorsi erano deliri dovuti al colpo in testa … o forse no … lei parlava con incredibile sicurezza di ciò che diceva. Provai ad assecondarla:
  • E tu che ne sai che laggiù c’è un posto distante da questo?
Ricambiò il mio sguardo:
  • Ho sentito di persone che hanno fuggito questo paese e ora vivono lì … come una tribù … come un’altra specie che non ha a che fare con noi … esseri nuovi …
Chiuse gli occhi, affaticata: la testa doveva farle ancora male.
Non riuscivo a credere alle assurdità che mi diceva.
  • Ed è lì che sei diretta? – chiesi.
Annuì lievemente.
  • Allora … fammi capire: mi stai dicendo che abbiamo affrontato un viaggio … tra mille peripezie … e rischiato di finire in galera, o peggio ancora, uccisi … per raggiungere una fantomatica “Isola degli Emigranti”?
Non sembrava, ma ero piuttosto arrabbiato.
  • Te l’avevo detto di non seguirmi … l’hai voluto tu …
Continuava a sorridermi come se fossi io nel torto e lei nel giusto.
E forse era così.
  • Potevi restare a Teramo e lasciarmi andare – continuò – ma hai voluto rischiare.
  • Ci hanno presi appena arrivati: è stato un caso! – tagliai corto io.
  • E’ stato un caso anche quando mi hai incontrata nel vicolo?
Mi zittii.
  • Perché mi hai dato la tua giacca? Perché mi hai aiutata? Potevi andartene e lasciarmi sola, ma mi hai aiutata … perché?
Ecco la domanda cruciale di tutta la vicenda:
perché avevo aiutato un’evasa?
  • Perché sono solo, come te! – confessai.
Ora fu lei a zittirsi: era il mio turno di sfogarmi.
  • Ho abbandonato una nonna ed una cugina, l’unica mia famiglia, per inseguire una chimera, perché sono incapace di badare a me stesso: sono come un bambino sbandato, un burattino in giro per il mondo, incapace di sfondare le gabbie che mi tengono prigioniero nelle mie paure … ho sempre amato recitare e far ridere la gente; su un palco io sono vivo, nella vita sono un morto che cammina. – Pausa. – E’ stata una ragazza (Carol) a darmi una ragione per vivere sul serio e mi è stata portata via: ecco perché sono arrivato a questo … il solo pensiero che lei ora sia col suo aguzzino, a pagare per colpe che non ha commesso … non immagini quanto detesti ciò … la devo salvare … devo dare una ragione alla mia esistenza, altrimenti potrei morire, domattina stessa …
Era la confessione definitiva su di me: quella avrei voluto fare alla mia anima e che ora facevo ad un’evasa di galera.
Non c’era bisogno della luce per capire che stavo piangendo in silenzio, in quella notte stellata, accanto al mare.
Abbassai il viso verso Mia e toccò a me piangere su di lei e a lei abbracciarmi.
Lei era ancora stesa sulle mie gambe, bagnando il suo collo con lacrime di sfogo.
Non ricordo chi fu per primo, ma le nostre labbra si incontrarono e rimanemmo in silenzio ancora per un po’.
Quando ci staccammo, Mia mi guardò, mascherando la tristezza con un sorriso falso e mi chiese:
  • Ma tu ci sei mai stato con una donna?
Scossi la testa, sincero.
Mi fece togliere la maglia, lentamente e mi trovai con la pancia all’aria.
Poi si tolse la giacca di tuta verde, sporca, strappata e sgualcita e rivelò i piccoli seni;
portò le mani sulla lampo dei miei pantaloni e l’aprì.
  • Aspetta! – dissi – Non sono sicuro ...
Mi fece shhhhh con le labbra.
Infilò una mano nel pantalone e poi nelle mutande: stava stuzzicando il mio membro.
Pochi istanti dopo, quest’ultimo si “risvegliò” da un letargo durato anni e mi feci rosso come un peperone.
Lentamente, Mia mi tolse i pantaloni e le mutande, poi si tolse il pantalone di tuta e le mutande rosse.
Eravamo entrambi nudi.
Si abbassò verso di me e mi accarezzò dolcemente una guancia. Mi sfiorò appena le labbra quando chiesi:
  • E se viene la polizia?
  • Fregatene!
Ed io me ne fregai. Me ne fregai del fatto che, all’indomani, saremmo stati di nuovo due estranei soli e abbandonati in fuga.
O che non ci saremmo più rivisti.
La baciai, pensando a Carol e mi lasciai trascinare dalle emozioni e dai nostri corpi.
 
*****
 

“Il protagonista è un vagabondo, alla Charlie Chaplin; vive per le strade, cercando di racimolare qualche spicciolo arrabattandosi in ogni modo (esibendosi addirittura in balletti buffi per strada) ma il risultato è sempre il medesimo: la gente lo evita e lo spintona, troppo indaffarata nelle cose di tutti i giorni.
Finché un giorno … non incontra una ragazza, vagabonda anch’ella, che gli propone di scappare lontano dal mondo e da tutti, per vivere insieme e felici, per sempre …”

Lo sketch tragicomico che avevo lasciato in sospeso trovò un pezzo in più quella notte.
 

*****
 

Fui svegliato da un forte raggio di sole. Ero ancora nudo. Ma Mia non era accanto a me.
Mi voltai a destra e a sinistra, osservai ogni parte della spiaggia abbandonata, ma niente: Mia Carosky era sparita.
Fui catturato dalla visione del mare: finalmente potevo osservarlo in tutta la sua bellezza, la sua infinità e il suo blu profondo.
Forse è partita nella notte … forse è scappata … forse l’hanno presa …
Chissà se quella storia dell’ “Isola degli Emigranti” era vera … e chissà se era già arrivata.
Ero di nuovo solo.
Mi ricordai che avevo ancora l’orologio di mio padre al polso: osservai l’ora e sobbalzai: erano le undici di mattina.
Dovevo tornare a Teramo.
Sforzai i miei occhi a non piangere mentre mi rivestivo per cercare una stazione dei treni.
 

 
Ero disteso in mezzo ad una strada poco trafficata, ad occhi chiusi, come morto.
Udii una macchina fermarsi e uno sportello aprirsi.
Passi sconosciuti si avvicinarono alla mia figura distesa.
  • Si sente male? – chiese una voce di donna.
Senza aprire gli occhi, le diedi una testata in pieno viso.
Mi svenne addosso.
Un minuto dopo, dormiva beatamente stesa sul marciapiede vuoto, accanto al suo portafoglio … anch’esso vuoto.
Guidavo una Volvo XC60 rossa, con tanto di navigatore satellitare.
Ma non ne avevo bisogno: ricordavo che strada percorrere per tornare a Teramo.

 
*****
 

L’orologio segnava quasi l’una.
Avevo appena abbandonato la Volvo in un vicolo buio della città e stavo raggiungendo il Teatro delle Girandole di Teramo a piedi.
Ebbi un tuffo al cuore quando, un quarto d’ora dopo, ero nel parcheggio del suddetto teatro e alla mia vista balzarono i tre camper usati che ben conoscevo.
Mi mancò l’aria dalla felicità. Corsi verso uno dei tre.
  • APRITEEEEEEEEEEE!
Bussavo ed urlavo all’impazzata.
  • APRITEEEEEEEEEEEE! SONO IOOOOOOOOOO!
La porta fu spalancata da una mia vecchia conoscenza: Nanni.
Mutò in una statua di sale quando mi vide, spalancando occhi e bocca come se stesse guardando un alieno.
Senza aspettare risposta, abbracciai il mio vecchio amico; due secondi dopo, sentii le sue braccia che ricambiavano, stringendomi forte … come un figlio.
Percepii le sue lacrime silenziose bagnarmi il collo: piangevo anch’io.
  • Cosa succede …
Dall’interno del suo camper, sbucò Gigi e dietro di lei sua moglie Lisa: ebbero la stessa reazione di Nanni nel rivedermi.
Non dissero una parola: si limitarono ad osservarmi, scioccati.
  • Che ci fate lì dentro? – chiesi, lasciando andare Nanni.
La porta del camper affianco fu aperta e da dentro sbucarono Federica ed Oreste: mi corsero incontro, abbracciandomi, tra lacrime di commozione.
Indicai il camper di Antonio, d’un tratto serio:
  • E’ lì dentro?
Nessuno fiatò.
  • Glauco …  - disse Nanni, prendendomi per il braccio – Le cose sono cambiate da quando …
Non lo lasciai continuare.
  • Che è successo? – chiesi.
D’un lampo ebbi il terrore che fosse accaduto qualcosa di brutto a Carol.
  • COSA LE HA FATTO?
Nanni mi guardò, stanco. Non sapeva cosa dire.
E non aspettai che dicesse qualcosa.
Mi fiondai verso il terzo camper.
  • ASPETTA …
La porta era semi-aperta.
Entrai dentro con una spallata … e il mio sogno precipitò nel baratro.

 
*****
 

Antonio giaceva nudo sul letto: la fronte segnata da cicatrici e le guance da profondi graffi ancora freschi di sangue.
Piangeva in silenzio, con le mani legate dietro alla schiena e i piedi immobili, impietriti dal terrore.
Il suo corpo era una mistura di pelle, peli e striscie rosse di sangue denso e sgorgante.
Spalancai gli occhi, impietrito come una statua.
La porta del bagno si aprì ... e spalancai anche la bocca dal disgusto: Carol apparve nuda in tutta la sua bellezza ... distrutta da un'immensa massa sanguigna che le scendeva dal seno fin giù ai piedi: aveva sostituito il color pelle con quella visione ripugnante.
La faccia però era pulita: doveva averla appena lavata ... e stava per infliggere altre torture al suo ex-aguzzino ... 

La Carol che avevo amato era morta. Morta per sempre. Sopraffatta dal suo lato malvagio e tramutata in un mostro.
Avevo amato un’illusione.

Si accorsero di me quando mi cadde la valigetta di mano.
Diventarono anche loro due statue di sale nel vedermi li, sulla porta, sporco e mal messo, ma ancora vivo.
Carol sbarrò gli occhi e mi guardò come si guarda una creatura feroce o un batterio.
  • Glauco ... – provò a dire.
Glauco morì in quel momento. Il mio bambino interiore fu spazzato via da quell’immagine orribile, da una lama diabolica che accoltellò il mio animo, ferendolo a morte.
Diventai adulto in un lampo.
 
*****
 
Il prezzo da pagare nel passaggio dall’infantilità all’età adulta è che un adulto si macchia sempre la coscienza, prima o dopo.

Lo capìì quando due minuti dopo uscìì dal camper e mi immobilizzai davanti alla porta aperta ...

l'avevo picchiata selvaggiamente, avevo sfogato su di lei tutta la mia delusione, tutto il mio odio ... anche quello che provavo per Antonio.

Portai le mani sul viso, credendo di dover piangere.
Non una lacrima bagnò il mio viso.
Ero davvero diventato “grande”.
Il pianto ininterrotto di Carol e di Antonio inondò il mio udito, facendomi desiderare di zittirli.
Scesi dal camper e le occhiate spaventate del resto della banda mi accolsero.

Mi avviai nel MIO camper, senza fiatare.
Non udii le strilla di orrore degli altri, dato che ero filato sotto la doccia.
 

 
Raggiunsi la banda dopo mezz’ora, con la camicia fresca e il pantalone di tuta che avevo in valigia.
Gli unici vestiti che mi rimanevano.
Oreste e Federica piangevano, mentre mi guardavano; Nanni si sforzava di guardarmi; Gigi e Lisa erano nel camper del figlio, intenti a ripulire il caos.
La mia risposta fu dura:
  • E’ ANCHE COLPA VOSTRA! SE VI FOSTE RIBELLATI PRIMA A QUEL VERME (Antonio), SE VI FOSTE PRESI CURA DI CAROL … NON SAREBBE DIVENTATA QUELLO CHE E’!
Guardavo tutti torvo, come se fossi infuriato con tutti: ero infuriato con me stesso, con i sogni ai quali avevo creduto, alle illusioni che avevano caratterizzato la mia esistenza, non permettendomi di affrontare il mio destino.
Voltai le spalle a tutti e risalii sul camper.
Nanni mi seguì.
Né io né lui avemmo il coraggio di guardarci negli occhi. Io scrivevo a penna su della carta bianca il mio “ultimo sketch”.
Dopo un’ora raggiunsi il camper del capo e piombai dentro: Gigi sorreggeva il figlio mentre lo faceva sedere al tavolo e Lisa stava finendo di curare le ferite di Carol.
Mi guardarono tutti terrorizzati. Evitai gli occhi supplichevoli di Carol.
Lanciai dei fogli sul tavolo e mi rivolsi ad Antonio, calmo:
  • A che ora è lo spettacolo?
Mi guardò tremante. Rispose con voce fioca:
  • Alle dieci.
  • Allora abbiamo tempo. Cancella ogni sketch: stasera si recita questo!
Ero io il capo ora.
Mi rivolsi a tutti i presenti:
  • Vi voglio fuori tra dieci minuti, per provare!
E uscii.
Bussai al camper di Oreste e venne ad aprirmi una Federica ancora terrorizzata.
Le feci capire che non avevo cattive intenzioni:
  • Dovete preparare dei costumi !
 *****
 

Il Teatro delle Girandole di Teramo non era pieno … era strapieno.
Avevano dovuto mettere delle sedie di plastica per far entrare la restante parte del pubblico pagante.
C’era a stento spazio per uscire.
Tutto perfetto.
Quella sera c’era uno spettacolo di cabaret, durante il quale si esibivano diverse compagnie di attori.
Alle dieci fu il nostro turno: eravamo i quarti.
Non ricordo chi erano gli altri gruppi e non me n’è mai importato.

Quella era la MIA serata.

La sala divenne buia e una luce si accese.

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Capitolo 8
*** L'ultimo spettacolo ***


Un barbone seduto in terra fu irradiato dai raggi di una luce artificiale.
Era vestito da un cappotto lungo e verde scuro, una camicia grigia, sbottonata e sgualcita e un pantalone nero pieno di buchi. E ai piedi aveva due sandali neri.
Aprì gli occhi e guardò stupito la platea. Si alzò in piedi e si diede un’aggiustata ai vestiti.
Ai suoi piedi c’era un bicchiere di plastica, per l’elemosina.
Una coppia, maschio e femmina, passarono lungo il palco.
E il vagabondo decise di mettersi all’opera per guadagnare qualche spicciolo.
La coppia riapparve dal punto in cui era sparita e si fermò ad osservarlo.
Il barbone iniziò un balletto ridicolo, con tanto di canzoncina cantata.
Le parole sembravano un misto tra parole finto – africane e degli starnuti.
Si udirono le prime risate.
Il vagabondo scuoteva i piedi a destra e a sinistra. La coppia andò via.
Egli continuò il balletto, scuotendo le gambe.
La coppia riapparve e lo osservò. Egli scosse anche le braccia, dal petto ruotando all’infuori verso i lati: sbatteva nervosamente le gambe e i piedi.
La coppia andò via di nuovo, nel buio.
Il barbone prese a saltellare, prima su una gamba, poi sull’altra.
Comparve un nanetto e il vagabondo prese a saltellare goffamente sulle gambe, indicando con un dito il bicchiere.
Datemi da mangiare, ve ne prego.
Ma anche il nano sparì dal palco nell’oscurità.
Le parole sconclusionate della canzone non volevano cedere. Uscirono urlanti dalla bocca del barbone, ma nessuno voleva aiutarlo.
Ricomparve il nano: il vagabondo gli urlò contro l’ultima parola della “canzone”, un autentico starnuto.
Non ricevette un centesimo.
Il pubblico rideva a crepapelle di quell’assurdo numero.
Il barbone si risedette in terra.
Apparve in scena una barbona, vestita allo stesso modo, solo con un cappello di lana nero e una camicia bianca. Le sue guance erano ricoperte di fuliggine.
Si sedette accanto al barbone e cacciò fuori un medesimo bicchiere di plastica per l’elemosina.
I due si osservarono: lui era sospettoso, lei gli sorrideva, cordiale.
La barbona cominciò a ballare e a cantare: imitò perfettamente il barbone uomo, che la guardava sbalordito.
La coppia e il nano ricomparvero più volte e lasciarono numerose monete nel bicchiere della donna, prima di sparire per sempre.
Finita la buffa canzone, il pubblico applaudì, sorpreso e divertito.
Il vagabondo maschio era diventato una statua. La vagabonda gli sorrise nuovamente.
Fu lei a prendere parola:
  • Geloso? – chiese la di lei voce buffa.
Risate.
Il maschio si limitò a scuotere la testa.
  • Non puoi parlare?
Scosse di nuovo la testa, offeso come un bambino.
La mano della donna afferrò dolcemente il suo braccio.
  • Facciamo a metà?
Il viso del vagabondo si allargò in un sorriso buffo.
Risate.
Divisero le monete guadagnate dalla donna. Fu ancora lei a parlare:
  • Senti … ma perché non scappiamo da questa vita? Da questo mondo? Gente come me e te non hanno un avvenire in questa società. Perché non scappiamo in un posto isolato, tranquilli, dove poter esser felici, io e te? Per sempre?
Il viso del maschio si allargò lentamente in un nuovo sorriso buffo.
Altre risate.
  • Allora andiamo! – disse la donna, afferrandolo e baciando la sua guancia.
Fece per tirarlo via, ma comparve in scena un nobiluomo, vestito da un frac nero, una panciotto grigio chiaro, camicia e cravatta color crema, pantalone grigio a strisce blu scure e scarpe degne di un lord inglese di fine ottocento.
E due baffoni grigi e una bombetta nera.
Il pubblico sorrise alla sua vista.
Il gentiluomo si rivolse alla vagabonda.
  • Madame … io sono un galantuomo, un uomo ricco e con un futuro roseo davanti a me. Visto che sono “zitello”, per non dire “scapolo” e dato che non trovo una compagna dato il mio alito insopportabile, perché non si unisce a me per un avvenire ricco di soldi, potere e forse bambini?
I due barboni si guardarono confusi negli occhi.
Il tono da zio Paperone, da cartone animato, con il quale l’uomo parlava, non poté non far ridere la platea.
  • Certo – continuò – dovrete esser preparata ad una sopportazione immensa per il mio … “problema” … ma sono quasi sicuro che basterà un semplice tè con biscotti al cacao e un buon bagno caldo a farle cambiare idea. Ovviamente i primi di una lunga vita. Che ne dice?
Il viso della donna si irradiò. Diede uno spintone al barbone e balzò in braccio al nobiluomo che abbracciò e baciò sulla guancia, tra le risate generali.
  • Accetto ad occhi chiusi!
Ed infatti gli occhi li chiuse ed anche le narici del naso, disgustata dal fetore del suo alito.
Porse la sua migliore espressione di disgusto ad un pubblico piegato dalle risate, per poi sparire dalla scena in braccio al nobile signore.
Il vagabondo restò solo, illuminato da un’unica luce, immobile, con lo sguardo basso.
C’era ancora qualche risata nell’aria …
Egli alzò gli occhi e guardò tutti: lacrime infinite bagnarono il suo volto triste.
Nessuno rideva più.
Lentamente, egli si girò e si avviò verso l’oscurità, ma poi ritornò nella luce, un’ultima volta, per osservare il suo pubblico.
Rimase a guardare tutti, per quasi un minuto, tutti quegli sguardi confusi, innocenti, colpevoli …
Piangendo a dirotto, scomparve nell’oscurità.
Il palco rimase vuoto.
Per sempre.


 
*****
 

La gente rimase sorpresa da quello strano sketch più tragico che comico.
Io, il vagabondo, Carol, la vagabonda e Antonio, il nobiluomo, fummo inondati da infinti applausi.
Nessuno dei due sorrideva. Fissavano me.
Piangevo a dirotto mentre il pubblico mi applaudiva.
Lacrime vere. Lacrime di addio.
E tutto finì. In quell’istante, tra mani scroscianti e le mie lacrime liberatorie.
Avevo unito insieme lo squallore della realtà umana e la magnificenza della fantasia, del palcoscenico.
Quella era la mia storia.
Un’esistenza tra il palco e la vita.
E si concluse tutto lì.
Non avrei più camminato su un palcoscenico: mai più.
Avevo raccontato tutto.
In lontananza, tra la gente festante, riconobbi un poliziotto che comunicava qualcosa ad un telefonino.
Capii che mi avevano beccato, ma non mi importava più.
La fantasia era finita: una vita mi attendeva al di là del palco.
 

 
 
Percorsi il parcheggio a passo svelto.
Dinanzi al mio camper vidi Nanni.
Lo abbracciai un’ultima volta: non l’avrei più rivisto.
Era il mio migliore amico.  Un padre.
Mi staccai da lui ed entrai dentro.
Non avevo tempo per cambiarmi: dovevo prendere la valigetta e scappare via.
Non riuscii ad afferrarla che entrò dentro Carol.
Si era piazzata davanti alla porta.
  • Che vuoi fare? – mi chiese, secca.
Evitai di guardarla.
  • Me ne vado!
Fui costretta a fissarle gli occhi quando tentai di uscire.
  • FAMMI PASSARE, MOSTRO!
Una capocciata mi investì in pieno volto.
Caddi all’indietro, per terra, stordito.
Carol era sopra di me, mi osservava con l’aria crudele e folle che aveva quando torturava Antonio.
La donna che avevo amato era davvero sparita, morta. Per sempre.
Urlò frasi folli in lingua madre:
  • SIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII’! SIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII’, SOY UN MONSTRUOOOOOO! Y TE QUIEEEEEEEEEROOOOOOOOOOOOOOOOO! TE QUIEEEEEEEEEEEEEEROOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!
(SIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII’! SIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII’, SONO UN MOSTROOOOOOO! E TI AMOOOOOOOOOOOOOOOO! IO TI AMOOOOOOOOOOOOOOOOO!)

Si gettò su di me, ma la respinsi con forza, sbattendola contro la porta, che si aprì di scatto.
Balzai fuori e iniziai a correre.
Il tuo non è “amore”, Carol. Non più.
Sentii alle mie spalle la sua voce furente:
  • GLAUCOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!
Non mi voltai.
Fui in strada e vidi un’auto della polizia che accendeva in quel momento le sirene.
Una voce gridò:
  • FERMO! POLIZIA!
Me ne fregai e corsi via.

 
*****
 

Correvo come un missile, incurante degli occhi dei passanti.
Sentivo le sirene della polizia incessanti e costanti alle mie spalle, ma non osavo voltarmi né fermarmi.
Mi sentivo pieno di energie, mi sentivo rinato.
Ero più veloce di non una volante degli sbirri, intenti a inseguirmi.
Sentii qualche sparo venirmi addosso, ma pallottole che colpivano solo l’aria.
Mi tolsi il cappotto di scena e lo lasciai volare in aria.
Mille pensieri mi martellavano il cervello, come il cuore sotto le costole.
Finalmente capii che tutti abbiamo un destino scritto e che prima o poi le carte della vita vengono scoperte.
E tutto ci risulta più chiaro.
Capii che il tempo dei sogni era finito e che d’ora in avanti dovevo pensare al mio futuro, alla mia vita vera, umana.
Che senso avrebbe una vita se non vissuta fino in fondo? Nessuna!
Tanto vale non nascere per niente.
E capii il ruolo che due donne importanti avevano occupato nel mio cuore.

Carol Banglesia, di madre spagnola, era un diavolo mascherato da angelo: una figura bellissima, ma tentatrice, all’esterno perfetta, all’interno putrida e folle.
Mia Carosky, di madre polacca, era l’angelo: una figura apparsa per caso e intervenuta per dare una raddrizzata alla mia esistenza. Lei mi aveva fatto vivere diverse disavventure assurde e surreali. Lei mi aveva salvato la vita più volte. Lei mi era stata accanto in quel mio assurdo viaggio e lei mi aveva donato una notte d’amore prima di svanire nel nulla.

Per ridarmi speranza.

Quella storia dell’ “Isola degli Emigrati” era una balla, anzi, una prova:

Preferisci la realtà o la fantasia? Esistere o vivere? Bloccarti nelle illusioni e nelle fantasie o lasciarti andare alla vita e alle sorprese che può riservarti?

Capii anche l’importanza che quel viaggio aveva avuto per me: non l’avevo fatto per una donna … l’avevo fatto per me.
Il viaggio della maturità.
La maturità. Il mio lato migliore, coraggioso, energico, sicuro di mé, che avevo sempre celato nel mio corpo e che di rado avevo mostrato all’infuori, se non mai.
Ed ero sicuro che da lì in avanti, in ogni istante della mia vita, avrei dato sempre e solo il meglio di me.
Sentivo sempre più energia durante quella corsa, le auto della polizia mi parevano sempre più lontane, nonostante continue urla alle mie spalle.
 

 
Saltellavo tra le rotaie di una ferrovia.
Dinanzi a me, un treno merci prendeva velocità.
Raggiunsi l’ultima carrozza semi – aperta e tentai di spalancare la portiera del vagone.
Forse avrei perso quel treno … ma così non fu.
Con un balzo, fui sulla carrozza.
Mi sedetti sul bordo, tra la carrozza e il vuoto.
Nonostante quella corsa, non mi sentivo stanco. Per niente.
Guardai fuori: nessun poliziotto, nessuna volante, nessuna sirena, nessun urlo.
E niente dolore, sofferenza, odio, follia, marciume.
Nulla.
L’avevo trovata, finalmente: la pace.
Misi una mano in tasca e tirai fuori gli ultimi soldi rimasti.
Aprii la mia vecchia valigetta in legno, contenente tutti i miei segreti e li misi dentro.
Poi la lanciai fuori. Nel vuoto. Senza chiuderla.
Vidi tutte le mie cose prendere aria e volare via.
Non avevo più nulla.

Sorrisi lievemente.

E iniziai a ridere. Come mai avevo riso in vita mia.  Una risata liberatoria.

Ero libero. E in pace.

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