Insane.

di polvere di biscotto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** l ***
Capitolo 2: *** ll ***
Capitolo 3: *** lll ***
Capitolo 4: *** lV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** Vl ***
Capitolo 7: *** Vll ***
Capitolo 8: *** Vlll ***
Capitolo 9: *** lX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** Xl ***
Capitolo 12: *** Xll ***
Capitolo 13: *** Xlll ***
Capitolo 14: *** XlV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVl ***
Capitolo 17: *** XVll ***
Capitolo 18: *** XVlll ***



Capitolo 1
*** l ***


Nonostante la folla cercai di raggiungere il gruppo di amici che stava dall’altra parte della stanza. Con il passare della notte la festa si fece più movimentata e numerose ragazze e ragazzi arrivarono e la stanza iniziò a riempirsi. L’odore di alcool e sudore impregnava l’aria. La musica echeggiava in tutta la casa e rimbombava nelle mie orecchie. Mi feci spazio fra la folla, allontanando con degli spintoni alcuni ragazzi ubriachi già ancora prima di cominciare. Fu allora, che fra i tanti volti riconobbi il suo, quello di Aaron Mayson. Capelli scuri, rasati ai lati, occhi verdi, un naso e delle labbra carnose e perfette, un sorriso da far innamorare tutte e ovviamente un fisico da paura. Un dilatatore nero a cono faceva capolino dal suo orecchio destro, sarà stato di 6 mm. Indossava una camicia scura e dei jeans aderenti alle sue gambe lunghe e muscolose. Catherine mi aveva raccomandato di stargli lontano ed io avevo sentito tre o quattro storielle su di lui. Si diceva che un giorno avesse picchiato un ragazzo, stendendolo al suolo e mandandolo addirittura al pronto soccorso. Non sapevo se quelle storie fossero vere, oppure le aveva inventate qualcuno, invidioso della sua bellezza; ma nonostante ciò decisi di fidarmi di Catherine e di tutti gli altri, quindi distolsi lo sguardo, quando i suoi occhi verdi inchiodarono i miei.
Senza nemmeno rendermene conto, l’altezza del ragazzo fece ombra su di me.
«Balli con me?» mi domandò all’improvviso. Fui spiazzata da quella richiesta. In quel momento pensai a quello che mi aveva detto Catherine e a tutte quelle chiacchiere che circolavano in giro riguardo al suo conto. Lo fissai per alcuni minuti, senza dire parola. Il suo profumo entrò nelle mie narici, era dolce.
«Allora?» ripeté, mentre mi offrì un sorriso, mostrando i denti dritti e perfettamente bianchi.
«I miei amici mi aspettano» dissi, indicando Catherine, Davis e Julia vicino al bancone. Catherine si voltò verso di me, con aria preoccupante, e mi fece segno di ‘no’ con la testa. Strinsi forte le dita intorno al bicchiere che avevo in mano. Forse Aaron notò il disappunto di Catherine, poiché mi sembrò infastidito.
«Andiamo, solo per un po’». Non mi diede il tempo di rispondere che la sua mano scivolò sul mio fianco e mi attirò a se, le sue dita si strinsero al contatto con il mio sedere. Feci cadere involontariamente il bicchiere di vodka alla fragola che tenevo in mano.
Infastidita dal modo rude con cui mi aveva presa per ballare, spinsi il mio palmo contro il suo petto, cercando di allontanarlo il più possibile da me. Lo sapevo, sarei dovuta andarmene.
«Come ti chiami?» mi chiese, facendomi l’occhiolino.
«Non penso che ti serva saperlo» risposi acidamente e mi voltai.
«Jordan!» mi chiamò. Come faceva a sapere il mio nome? Mi voltai di scatto, guardandolo preoccupata.
«Come lo sai?» domandai spaventata.
«La tua collana» rispose, indicando il gioiello. Mi ricordai della collana che indossavo al collo, era d’argento e c’era la scritta del mio nome, cioè Jordan.
«Sono Aaron» si presentò.
«Lo so». Mi girai verso i miei amici, ma vidi che si erano spostati e in mezzo alla folla non li riconobbi.
«Ti voglio!» mi disse all’improvviso, facendomi capovolgere lo stomaco.
«Cosa? Ma non mi conosci nemmeno!» quasi risi, quella scena era ridicola.
«Conosco il tuo nome. E poi, secondo me, sotto quel vestito nero si nasconde un corpo bellissimo! E questo mi basta per sapere che già mi appartieni» sorrise maliziosamente, cosa che m’infastidì parecchio.
«Maiale!» sputai, allontanandomi da lui.
Afferrò il mio polso, quando cercai di girare i tacchi e andarmene.
«Lasciami stare, stronzo!». Con gli occhi cercai i miei amici per tutta la stanza, ma non riuscii a scorgere i loro volti. Capitavano tutte a me, e ti pareva.
«Calmati, bellezza» ammiccò.
«Lasciami stare, e sarò calmissima» spiegai.
«Questo mai».
«Tu sei pazzo!» confessai.
«Mm. Forse» pronunciò. Roteai gli occhi al cielo. In quel preciso istante lui si avvicinò, diminuendo la distanza fra noi, si accostò al mio orecchio e un brivido percorse tutta quanta la mia schiena.
«Hai un culo stupendo!» sussurrò al mio orecchio. Fu allora che m’innervosii talmente tanto che gli mollai un ceffone in piena faccia. Alcuni si girarono a guardarmi, ero quella che aveva osato sfidare Aaron Mayson. Lui sorrise, quasi divertito, mentre si massaggiava la mascella arrossata.
«Violenta, eh!» scherzò. Alzò un sopracciglio, mentre alzò un angolo della bocca.
«Non mi lasciavi scelta».
«Vieni con me! Usciamo in giardino» m’invitò, porgendomi una mano. Io incrociai le braccia.
«Non vengo da nessuna parte con te, che sia chiaro» mi opposi alle sue avances. Lui non disse nemmeno una parola, e senza sforzi, con un’agilità quasi sorprendente, mi sollevò da terra come fanno i mariti con le loro spose il giorno del matrimonio e mi portò verso la porta di uscita di quella villa enorme. Mi trattenni dall’urlare.
Le mie scarpe col tacco toccarono l’erba fresca del giardino, mentre Aaron stava proprio di fronte a me. Il cielo stellato di fine agosto ci faceva da scenario.
«Ripeto: tu sei pazzo!» dissi, sistemandomi meglio il vestito sulle cosce. Rise. Si portò una mano fra i capelli scuri e poi riprese a fissarmi insistentemente. Le sue iridi verdi si rifletterono nel nocciola delle mie.
«Ripeto: forse» parlò.
Estrasse dalla tasca un pacchetto di Marlboro e con i denti ne prese una dalla scatola. Infilò l’altra mano in tasca e tirò fuori l’accendino per accenderla.
Alzai un po’ la testa, per guardarlo meglio. Mi costava ammetterlo, ma era proprio bello. I suoi occhi verdi, incorniciati dalle ciglia lunghe e scure, squadrarono tutto il mio corpo. Aspettavo che dicesse qualcosa, in modo da poter controbattere, ma l’unica cosa che fece fu sorridere solo con l’angolo destro della bocca. Ricambiai con un sorriso forzato, ma che mi pentii subito di aver fatto. Distolsi lo sguardo, e da quel momento lui iniziò a parlare.
«Quanti anni hai?» chiese, rigettando il fumo che aveva inspirato.
«Diciassette. E tu?»
«Diciannove».
«Immaginavo» mentii. Pensavo ne avesse di più.
«Possiamo vederci ancora?» mi domandò.
«Perché vuoi vedermi?» risposi con un’altra domanda.
«Frena, principessa! Qui le domande le faccio io» si atteggiò.
«Principessa a chi?» feci ancora un’altra domanda.
«Ehi. Ehi. Cosa ti avevo detto? Le domande le faccio io!».
«Scusa» risi, sorprendendomi di me stessa per averlo fatto.
«Quindi? Possiamo vederci anche domani?» ribatté. Rimasi seria.
«No» dissi piano. Lui non sembrò molto turbato, lo capii dal suo sorriso malizioso.
«Bene. Vuol dire che domani sera passerò a prenderti alle otto» si fece serio.
«Cosa?» quasi urlai, «Non sai neanche dove abito!» aggiunsi.
«Ah, pensavo avessi capito che stasera ti accompagno io a casa». Il suo caratteristico sorriso malizioso si disegnò sulle sue labbra piene.
«Tu sei pazzo». 

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Capitolo 2
*** ll ***


Aaron insistette per riaccompagnarmi a casa con la sua macchina blu, ed io, alla fine, esasperata, accettai.
Il tragitto fino a casa mia non fu per niente silenzioso come avrei di gran lunga sperato, io dettavo le indicazioni per arrivare a casa mia, ma lui sbagliava sempre, probabilmente lo faceva di proposito.
«Gira a destra» gli indicai, ma lui voltò a sinistra.
«Avevo detto a destra!». Rise.
«Tranquilla principessa, ora torniamo indietro» disse con la sua solita nonchalance.
«Non chiamarmi principessa!» alzai gli occhi al cielo.
«Come vuoi, principessa» rise. Sbuffai. Ci furono alcuni minuti di silenzio. Si sollevò leggermente dal sedile, per pigiare il tasto per accendere la radio, che trasmetteva 21 guns dei Green Day.
«Lay down your arms
Give up the fight
One, 21 guns
Throw up you arms into the sky
You and I» cantò. Non era stonato, anzi era quasi piacevole sentirlo cantare.
Intanto, eravamo ritornati sulla giusta direzione.
«Quella là in fondo» dissi, indicando una casa dal prospetto giallo in fondo alla strada.
«When it’s time to live and let die
And you can’t get another try» cantò, prima di parcheggiarsi e spegnere il motore.
«Grazie» dissi piano, mentre aprivo la portiera per scendere dalla macchina.
«Di niente, principessa. A domani!» strizzò l’occhio. Roteai gli occhi e scossi la testa, mentre lo vedevo scomparire in fondo alla strada.
Infilai la chiave nella serratura, la girai e aprii la porta. Appesi la giacca all’attaccapanni e mi tolsi le scarpe, per non fare rumore e non svegliare i miei genitori.
«Something inside this heart has died
You’re in ruins» continuai a cantare sottovoce la canzone, nel punto in cui Aaron l’aveva interrotta.
Il mattino seguente non mi svegliai molto presto. Scesi di sotto a fare colazione e quasi non credevo a ciò che avevo davanti agli occhi.
«Buongiorno» la sua voce roca echeggiò in tutta la cucina.
«Cosa diamine ci fai qui? Chi ti ha fatto entrare?» domandai stupita e allo stesso tempo spaventata. Ero anche imbarazzata dato che ero in pigiama e avevo i capelli scompigliati. In quel preciso istante entrò mia madre.
«Io. Chi altrimenti?» rispose. Guardai mia madre con uno sguardo omicida, che subito dopo rivolsi ad Aaron.
«Perché?» chiesi, mettendomi le mani in testa.
«È carino» ammiccò mia madre, portandosi una mano alla bocca per non farsi sentire da Aaron. Roteai gli occhi.
«Signora Darren, vorrei portare sua figlia a cena se mi permette» s’intromise Aaron. Guardai mia madre con la speranza che dicesse di no, ma ovviamente mi negò questo piacere.
«Per me va bene, ma la decisione non spetta a me» rivolse lo sguardo su di me e poi su Aaron. I suoi occhi m’incoraggiavano ad acconsentire e le sarebbe piaciuto se avessi accettato l’invito. Lei ci teneva al fatto che avessi un ragazzo e teneva anche al fatto che questo ragazzo fosse carino e educato, peccato che non conoscesse per niente quel che era in realtà Aaron Mayson.
«Okay» risposi, scrollando le spalle. Il volto di Aaron s’illuminò, come se aspettasse questa risposta da tutta la vita. Mia madre sorrise e facendomi l’occhiolino si diresse nella sua camera.
«Non smetterò mai di ripetere che sei completamente pazzo!» dissi, non appena mia madre se ne andò.
«Ed io non smetterò mai di ripetere che sei bellissima» disse lui. Sbuffai. Come m’infastidiva quel suo essere così sfacciato, insomma, come poteva pretendere che cadessi ai suoi piedi se poi faceva lo stupido?
«Cerca di non farti trovare più qui senza invito, siamo intesi?» puntai il dito.
«Mm» mormorò.
«Puoi anche andare» lo informai, facendo cenno con la mano verso la porta.
«Noi ci vediamo stasera» alzò un sopracciglio. La sua mano destra sfiorò la mia guancia, le sue dita mi solleticarono il mento.
«Mi raccomando indossa qualcosa di sexy» mi sussurrò all’orecchio, facendomi rabbrividire.
«Sparisci, cretino!» imprecai.
Quando Aaron uscì dalla porta, mi precipitai correndo in camera mia, salii gli scalini a due a due per fare più in fretta. Mi catapultai sul morbido letto a due piazze e presi il telefono sul comodino.
A: Catherine ♥
Ore: 11:27
Oggetto: Catherine, stasera ho un appuntamento. Aiuto!
 
Da: Catherine ♥
Ore: 11:32
Oggetto: Oddio! Con chi? :)
 
A: Catherine ♥
Ore: 11:36
Oggetto: Ehm …
 
Da: Catherine ♥
Ore: 11:41
Oggetto: Sto arrivando … Ti ammazzo.
Andai di corsa a darmi una rinfrescata e mi vestii. Indossai un paio di jeans sbiaditi e una camicia a quadretti rossa.
Dopo circa mezzora il campanello suonò. Aprii la porta e davanti a me trovai Catherine con le braccia incrociate. Indossava una gonna nera e una canotta gialla. Le sue ballerine calpestarono il tappeto con la scritta Welcome che si trovava all’ingresso.
«Ehi!» accennai a un sorriso, «Non pensavo saresti venuta sul serio» aggiunsi, facendola entrare. Lei non mi degnò di nessuno sguardo.
«Come diamine ti è saltato in mente di uscire con uno come Aaron Mayson?» strillò. Le feci cenno di abbassare la voce, poiché c’era mia madre nella stanza accanto.
«Andiamo a fare due passi» dissi, afferrando la giacca dalla spalliera della poltrona. Lei mi seguì, ancora con le braccia conserte.
L’aria fresca mi entrò nelle narici e la respirai a pieno. Mi voltai verso Catherine, cosa avrei fatto senza quella ragazza. Non riuscivo ad immaginare una vita senza di lei, chissà come avevo fatto prima di conoscerla. So che è scontato dire che è speciale, ma lei lo è e basta.
Camminammo per un po’, nessuna delle due esitò ad iniziare un discorso.
«Jordan» mi chiamò. Si fermò di scatto, lasciandomi perplessa.
«Sì» le rivolsi lo sguardo.
«Perché hai accettato? Ti ha forse minacciata? Lo ammazzo quel ragazzo, lo giuro! Se solo ti ha toccata… io... io giuro…» s’innervosì.
«Ehi. Ehi. Catherine, calmati! Nessuna minaccia. Mia madre ha insistito» spiegai, agitando nervosamente le mani.
«Cosa c’entra ora tua madre? Tu sei malata!» farfugliò.
«Certo. Si è presentato a casa mia e mi ha chiesto di uscire davanti a mia madre. Non potevo dirgli di no» mi giustificai. Iniziavo ad odiare veramente quel ragazzo.
«Adesso mi spieghi come cazzo fa a sapere dove abiti?» s’informò.
«Ehm, ieri, dopo la festa, mi ha accompagnata»  mi morsi il labbro per il nervoso.
«Stai scherzando? Ecco perché eri sparita!» mi guardò in cagnesco.
«Scusa. Ti prometto che uscirò da questo casino. Hai la mia parola».
«Jordan, non ne uscirai così facilmente, lo sai. Ti avevo detto di stargli alla larga. È pericoloso» mi rimproverò.
«Io non volevo, lui mi ha costretta» mi coprii gli occhi con le mani.
«Vuole portarti solo a letto. Come fa con tutte. E poi è violento» disse, «Non pensavo ci cascassi anche tu» aggiunse.
«Non ci sono cascata» sussurrai. 

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Capitolo 3
*** lll ***


Erano appena le sei e mezzo del pomeriggio, quando tornata dalla passeggiata con Catherine, mi preparai per l’appuntamento delle otto con quell’idiota di Aaron Mayson.
Prima di tutto, raccolsi i capelli scuri in uno chignon perfetto. Indossai un maglione azzurro di cotone e un paio di jeans chiari, strappati sulle ginocchia. Abbinai a ciò delle Converse bianche. Misi giusto un filo di eye-liner nero e un velo di mascara sulle ciglia. Colorai le gote con un pochino di blush.
Scesi le scale e andai in soggiorno, dove mia madre sedeva sul divano. La sua espressione non emetteva soddisfazione.
«Scherzi vero?» mi disse con tono serio.
«Perché?» protestai.
«Non vorresti mica andare all’appuntamento con Aaron vestita in quel modo» accennò a una nota di rimprovero.
«Be’, in realtà sì» dissi turbata.
«Ad Aaron farebbe piacere vederti con qualcosa di carino addosso» cercò di farmi cambiare idea. «Non credi?» soggiunse.
«Uhm, suppongo di sì» ammisi seccata.
«Allora cambiati, che aspetti?» mi mise fretta.
Sbuffando pesantemente m’incamminai verso la mia camera, sbattendo la porta per il nervoso.
Tolsi delicatamente il maglione per non disfare lo chignon e poi lo gettai sul letto. Mi sedetti ai piedi del letto, e mi tolsi le scarpe. Poi sfilai i jeans.
M’incamminai verso l’armadio e lo aprii, cercando qualcosa da mettere che andasse bene a mia madre.
«Questo non sarebbe male» dissi a me stessa. Estrassi dalla cruccia un semplice vestito nero e lo abbinai a delle decolleté del medesimo colore.
«Vada per questo!». Indossai l’abito e mi diressi nuovamente da mia madre che questa volta sorrise di compiacimento.
«Perfetta!» esclamò, facendomi roteare su me stessa. Mi limitai ad abbozzare un sorriso.
Il campanello suonò e un brivido percosse tutta quanta la mia colonna vertebrale. Afferrai la giacca e la borsa dall’attaccapanni e mi precipitai ad aprire la porta.
«Ehi, ciao, splendore!» la sua voce roca parlò. Fui sicura di arrossire, anche se non potei vederlo.
«Ciao, Aaron» dissi, mostrando l’ombra di un sorriso lieve.
«Andiamo, su» m’incoraggiò a seguirlo.
Aaron mi aprì la portiera, lo ringraziai a voce bassa e scivolai sul sedile, sistemandomi il vestito. Fece il giro e si sedette sul lato del conducente. Indossava un paio di jeans, una camicia bianca e una giacca nera. Dal colletto della camicia, si intravedeva un tatuaggio sulla parte destra del collo. Stava benissimo. Il suo profumo m’inebriò, cosa che mi creò un certo nervosismo. Se Catherine mi avesse vista, mi avrebbe sicuramente uccisa.
Il tragitto fu silenzioso, al contrario di come pensavo. Non accese nemmeno la radio.
Arrivammo in un locale non molto distante. La sala dove ci fecero accomodare era abbastanza modesta, niente di particolarmente lussuoso o eccentrico. Si respirava un’atmosfera calda e accogliente. Il tavolo quadrato era posto in un angolo della stanza, coperto da una tovaglia color crema. Sopra di essa c’erano due candele profumate e dei petali rossi di rosa sparsi sopra, una bottiglia di champagne e due calici.
«Siediti» m’invitò, spostando la sedia per farmi sedere.
«Grazie» sussurrai piano.
«Bene. Vedo che mi hai accontentato» sorrise soddisfatto.
«Riguardo cosa?» domandai confusa. Bevve un sorso di champagne dal calice.
«Ti avevo detto di indossare qualcosa di sexy, be’, sei sexy, fattelo dire» ridacchiò. Deglutii.
«Senti, mia madre si è messa in testa cose assurde. Io sarei rimasta a casa, fosse stato per me» dissi senza timore.
«Cos’è che non ti piace di me?» mi guardò serio.
«Il tuo modo di comportarti» confessai. Intanto arrivò il cameriere con gli antipasti.
«Cos’ha che non va?»
«Scherzi, vero?» alzai un sopracciglio, «conosco le storie sul tuo conto» aggiunsi.
«E cosa direbbero queste storie?» chiese.
«Sì, come se non lo sapessi» sbuffai.
La sua mano scivolò sotto il tavolo e accarezzò la mia coscia da sotto il vestito. Avevo la pelle d’oca. Mi scostai velocemente, traballando con la sedia a causa del movimento improvviso. La sua risata si fece sentire.
«Non ho intenzione di venire a letto con te, mettitelo in quella testa!» esclamai, alzando un po’ la voce.
«Non ti ho chiesto di venire a letto con me, o sbaglio?» rise. Roteai gli occhi. Il cameriere portò via i piatti e ci offrì il dolce.
«Senti, ho intenzione di andarmene al più presto» feci per alzarmi.
«No» affermò seriamente, «rimani qui» continuò.
«Voglio essere chiara con te: non sono il tipo di ragazza che va a letto con il primo che passa» spiegai.
«Ma io non sono il primo che passa» si atteggiò. Bevve un altro sorso.
«Usi le ragazze per portartele a letto e poi le scarichi quando ti stanchi. Per non parlare del tuo atteggiamento violento, mi hanno detto di quel ragazzo che hai mandato al pronto soccorso» dissi tutto d’un fiato.
«Ehi. Così mi offendi!». Non riuscii a capire se in quel momento fosse serio, oppure stava facendo il cretino.
«Gradirei che mi riportassi a casa, per favore».
«Non ci penso nemmeno, sono ancora le dieci». Sbuffai.
Aaron si alzò, mi porse una mano per aiutarmi ad alzarmi dalla sedia, ma io ignorai il gesto. Ci dirigemmo verso il bancone e lui pagò il conto. Uscimmo dalla sala e l’aria fresca che c’era fuori mi entrò nelle narici. Soffiava un leggero venticello, perciò mi strinsi ancora di più nella mia giacca.
«Quanto ti devo per la cena?» domandai, mettendo mani sulla borsa per prendere il portafogli.
«Niente, principessa» sorrise.
«Non chiamarmi così».
In poco tempo arrivammo al parcheggio, dove c’era l’auto blu di Aaron. Mi precipitai ad aprire la portiera, ma Aaron fece prima di me e bloccò la mia mano, prendendola fra le sue. Attirò il mio corpo al suo, facendomi rabbrividire. Deglutii.
«Hai un buon profumo, lo sai?» chiuse gli occhi, mentre respirava sul mio collo. Il suo respiro era caldo e il suo alito profumava di menta, come la sera precedente.
«Pesca, giusto?» mi domandò, posando la mano sul mio fianco. Annuii lievemente, e cercai di respingerlo, ma lui era forte e non si mosse di un centimetro.
Un lamento lasciò le mie labbra quando le sue labbra furono in stretto contatto con la pelle del mio collo.
«Aaron, smettila, per favore» dissi con un filo di voce. Tutta la mia sicurezza svanì e mi sentii una stupida per aver accettato l’invito di uno come lui, anche se la maggior parte della colpa era di mia madre che aveva insistito tanto.
La sua lingua tracciò una circonferenza sulla pelle del mio collo, appena sotto l’orecchio. La sua bocca assorbiva la pelle sottostante e le sue dita si strinsero intorno al mio fianco quando mordicchiò la pelle ormai arrossata.
Ne avevo avuto abbastanza. Stava esagerando, ma nonostante ciò non riuscii a respingerlo del tutto, pur volendo togliermelo di dosso.
«Aaron, basta!» dissi, stavolta alzando la voce. Lui allentò la presa sul mio fianco ed io lo allontanai. Rise di gusto e si leccò le labbra soddisfatto, ammirando il segno sul mio collo. Armeggiò con l’elastico che legava lo chignon e lo sciolse.
«Così va meglio!» disse più a se stesso che a me.
«Meno male che non ti piacevo!»  aggiunse ridendo e andò verso il lato del conducente. Non riuscii a controbattere, le parole mi morirono in gola, mentre la rabbia e il nervosismo mi ribollivano dentro.
Salii in macchina, frustrata, ma con una certezza: non sarei mai più uscita con Aaron Mayson, né con un suo simile.
Presi la borsa ed estrassi il cellulare per vedere l’ora, notai che avevo un messaggio.
Da: Catherine♥
Ore: 21:54
Oggetto: Come sta andando con quel deficiente?
 
A: Catherine♥
Ore: 23:03
Oggetto: Non lo so.
 
«A proposito, non ho ancora il tuo numero» interruppe il silenzio.
«Non penso che ti serva, dato che non ci vedremo mai più» dissi.
«Io non ne sarei tanto sicuro» sorrise.
«Sì, come no» ironizzai.
La macchina si fermò davanti casa mia. Tenevo ancora il cellulare in mano, aspettando che Catherine mi rispondesse.
Con scatto repentino prese il cellulare dalle mie mani e lo custodì tra le sue.
«Dammelo subito!» urlai seccata.
«Prima devo fare una cosa» ridacchiò.
Velocemente si mandò un messaggio, in modo che potesse avere il mio numero.
«Ecco fatto» mi restituì il cellulare.
«Ti odio, lo sai?».
«Cambierai presto idea, principessa» mi accarezzò la guancia. 

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Capitolo 4
*** lV ***


«Cosa diamine hai fatto ieri sera?» urlò Catherine non appena mi vide seduta sulla panchina dove le avevo dato appuntamento. Si trovava in un parco non molto distante da casa sua ed è lì che andavamo quando volevamo starcene un po’ per conto nostro. Lei arrivò alle quattro del pomeriggio, puntuale come sempre.
«Innanzitutto calmati e abbassa quella voce» le feci cenno con la mano di abbassare il volume.
«Allora, cosa è successo con quell’idiota?» bisbigliò. Non risposi e la mia mutezza le fece capire che qualcosa non andava.
«Allora?» ripeté.
«C’è questo!» alzai la voce, con un gesto veloce e attento spostai i miei capelli dall’altro lato per far vedere a Catherine il lavoro fatto da Aaron, appena sotto l’orecchio.
«Oh mio Dio, Jordan! Quel succhiotto è enorme!» parlò, mentre osservava il livido con i colori blu e viola sovrapporsi. Si poteva notare la pelle arrossata sottostante, causata dall’assorbimento.  «Perché te lo sei fatto fare? Dio, non voglio credere ai miei occhi. Ti rendi conto che è un maniaco?». Era evidentemente preoccupata, e faceva bene, anch’io mi sarei preoccupata per lei in una simile situazione.
«Sì. Me ne rendo conto, ma sai, non posso spiegare tutto questo a mia madre. Mi capisci?» spiegai e mi misi a posto i capelli.
«Sì. Dobbiamo cercare di farlo allontanare da te e anche piuttosto velocemente»
«Catherine, cosa gli aveva fatto il ragazzo che ha mandato al pronto soccorso?» domandai dopo qualche minuto di silenzio.
«Non lo so di preciso. Frequenta il mio stesso corso di biologia, si chiama Roy Seward. A quanto pare Roy ha fatto una battuta squallida e meschina su Aaron e lui ha reagito rompendogli la mascella. A Seward non piace parlarne» raccontò.
«Capisco» mi limitai a dire.
«Da tener conto che non è stata l’unica vittima. In discoteca succedono sempre un sacco di risse a causa sua»
«Lo so» la informai.
«È da tenere alla larga, è pericoloso» disse preoccupata.
«Lo so» dissi di nuovo.
Improvvisamente il mio cellulare squillò. Il display mostrava un numero che non avevo salvato in rubrica. Risposi a quel numero sconosciuto.
«Pronto» dissi con voce tremolante.
«Ciao, principessa» la sua voce roca parlò.
«Aaron?» imprecai mentalmente. Catherine mi fulminò con lo sguardo.
«Gli hai dato il tuo numero?» s’intromise Catherine urlando.
«Sh» le feci, portando l’indice alle labbra e coprendo l’altoparlante con le altre dita.
«Jordan, sono davanti casa tua, ma non c’è nessuno. Dove sei?» chiese. Mi domandai dove fosse mia madre, forse era uscita con Hanna, la sua amica. Misi il vivavoce in modo che anche Catherine potesse sentire.
«Sono con una mia amica. Che vuoi?»  risposi acida.
«Ho voglia di vederti» confessò.
«Io no» dissi senza il timore di ferirlo.
«O vieni tu, o vengo io» disse piuttosto duramente.
«O magari mi lasci in pace» affermai, guardando Catherine che mi suggeriva di non farmi persuadere. Riuscii a sentire la sua risata lieve.
«Vuol dire che aspetterò davanti alla porta fino a che non tornerai».
«Dio. Rassegnati Aaron!» chiusi la telefonata.
«Che farai?» mi domandò Catherine, «Non avrai mica intenzione di raggiungerlo, vero?» soggiunse.
«Devo farlo. Devo dirgli di starmi alla larga» spiegai.
«Non dirmi che sei attratta da quel ragazzo, invece».
«Non pensarlo nemmeno» la guardai in cagnesco.
Presi un autobus al volo e andai verso casa mia. Salutai Catherine dal finestrino, ma non ricambiò il gesto. Che casino.
Scesi alla fermata che si trovava a 30 metri da casa mia. Seduto sulla veranda, c’era Aaron. Il suo viso si illuminò non appena mi vide. Indossava una maglietta nera e potei osservare meglio il tatuaggio sul collo: era una fenice. Notai che ne aveva un altro sull’avambraccio, più piccolo, era una breve frase che non riuscì a leggere.
«Principessa, eccoti!» esclamò
«Ma cosa vuoi da me? Non sono stata chiara?»  domandai innervosita.
«Entriamo dentro» disse.
«Ti ho fatto una domanda» puntualizzai.
«E allora?» scrollò le spalle. Roteai gli occhi al cielo. Sorrise.
«Bene. Ciao» infilai la chiave nella serratura.
«Non mi inviti a entrare?» pronunciò. Le sue labbra si curvarono in un sorriso.
«Ancora non ti sei messo in testa che tra noi non succederà mai nulla?» la porta si schiuse.
«Mi riesce difficile crederci» disse con un tono che mi fece rabbrividire. Il verde smeraldo intenso dei suoi occhi inchiodò il nocciola dei miei. Abbassai la testa, non riuscendo a sostenere il suo sguardo. Si passò la lingua sulle labbra.
«Ho intenzione di baciarti» mi ammutolì, «e ho intenzione di farlo adesso» continuò. Non risposi. Aprì del tutto la porta ed entrò. Fui costretta a seguirlo. Le sue dita mi accarezzarono il mento, il suo tocco era delicato. Chiuse la porta dietro di me e mi inchiodò ad essa, facendomi sussultare. Il mio corpo era bloccato tra il suo e la porta. Mi sentii mancare l’aria. Spostò i miei capelli su un lato e un gemito lasciò le mie corde vocali quando le sue labbra premettero insistentemente sul succhiotto che aveva fatto la sera precedente.
«Mm. Dovrei fartene un altro» lasciò un bacio umido sul mio collo.
«Lasciami stare, per favore» mi lamentai.
«Magari un’altra volta» disse a se stesso. Cercai di spostarlo con i palmi delle mani. Poggiai le mani sul suo petto, riuscivo a percepire il movimento che eseguiva il suo respiro. Mi feci forza e lo respinsi con tutta la violenza che avevo, e ci riuscii, tanto che precipitammo entrambi. Io su di lui.
«Adoro quando le ragazze stanno sopra» rise. Velocemente ribaltò i nostri corpi e mi trovai sotto di lui.
«Ma preferisco di gran lunga quando stanno sotto» rise ancora.
«Sei un maiale» dissi con freddezza.
A cavalcioni sul mio addome, bloccò i miei polsi al pavimento con le sue mani forti.
«Non hai scampo, principessa» si chinò su di me, «allora, dov’eravamo rimasti?» fece per concludere. Sentii il suo alito fresco tagliarmi la faccia; sapeva di menta, come sempre. Mi girai di scatto, in modo che mancasse l’obiettivo, le sue labbra premettero sulla mia guancia. Riuscii a percepire il suo sorriso sulla mia pelle.
«Furba, eh!» esclamò. Allentò la presa sui miei polsi, e ne approfittai per scivolare sotto di lui e alzarmi. Si alzò dopo di me, stabilizzandosi subito in piedi.
«Questa volta hai vinto tu» iniziò a parlare, «ma la prossima volta sarò più deciso … e più veloce» continuò, mostrando l’ombra di un sorriso.
«Non ci sarà un’altra volta» gli ricordai. Gli indicai la porta, sperando che se ne andasse.
«Vedremo» si limitò a dire. Mi salutò con un cenno della mano e uscì chiudendo la porta. Feci un lungo sospiro di sollievo. L’avevo scampata, ma restava sempre il fatto che non sarei riuscita a liberarmi facilmente di lui come pensavo. Rimasi ferma nel corridoio. Mi tolsi la giacca e la lasciai cadere per terra, non curandomene più di tanto. Mi diressi in cucina. Notai che sul frigorifero era attaccato un post-it arancione con la scrittura di mia madre.

Sono fuori con Hanna, torno per cena.

Puntai lo sguardo sull’orologio, erano quasi le sette, sarebbe arrivata a momenti.
 

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Capitolo 5
*** V ***


Ero distesa sul letto a leggere un libro, quando sentii mia madre arrivare e urlare.
«Jordan!» gridò, «quante volte ti ho detto di non lasciare i vestiti a terra?» si lamentò per la giacca che avevo lasciato in corridoio.
Piegai l’angolo della pagina per non perdere il segno e poggiai il volume sul comodino. Rapidamente scesi le scale e mi precipitai verso mia madre.
«Scusa» dissi, dandole un bacio sulla guancia. Raccolsi la giacca e la misi sull’attaccapanni.
«Jordan, devo parlarti di una cosa» mantenne un’espressione serena, quasi rilassata.
«Certo, dimmi» le mostrai un sorriso.
«L’azienda dove lavoriamo io e Hanna ci ha dato due settimane di vacanza» mi raccontò, evidentemente entusiasmata.
«Oh. Ma è fantastico!» fui contenta per lei. Con Hanna lavoravano sodo e si meritavano qualche giorno di vacanza.
«Già. Due settimane di puro relax» sospirò.
«E dove sarà?» le domandai curiosa.
«Amsterdam. Fra due giorni è prevista la partenza».
«Wow! Devi andarci assolutamente!» la incoraggiai.
«Non saprei. Lasciarti qui, da sola, per due settimane» un velo di tristezza calò sul suo volto. Era evidente che ci teneva a quel viaggio.
«Ma io starò bene! Catherine mi farà compagnia. Non puoi lasciarti sfuggire un’opportunità come questa!».
«Ne sei sicura?» chiese.
«Ovviamente. Io me la caverò» le feci l’occhiolino e lei sorrise, sia con la bocca che con gli occhi.
Ordinammo una pizza per festeggiare e la mangiammo sedute sul divano mentre guardavamo un film.
 
La mattina seguente mi svegliai di buon ora. Sistemai il letto e andai in bagno per prepararmi. L’acqua calda scorreva sul mio corpo e dentro la doccia mi rilassai quasi del tutto, almeno non pensavo ai fatti che erano accaduti gli ultimi giorni. Uscii canticchiando una canzone e mi avvolsi nell’accappatoio bianco. Mi asciugai i capelli con il phon e mi vestii. Sentii il mio cellulare vibrare. Era un messaggio.
Da: Aaron
Ore: 9:47
Oggetto: Amore, stasera passo a prenderti alle 11. Indossa qualcosa di carino per me. A♥
 
A: Aaron
Ore: 9:51
Oggetto: Ho già un impegno.
 
Da: Aaron
Ore: 9:54
Oggetto: Vuol dire che disdirai per venire con me. A♥
 
A: Aaron
Ore: 9:59
Oggetto: Ti odio.
 
Da: Aaron
Ore: 10:01
Oggetto: Dai. Ho voglia di divertirmi stasera. A♥
 
Sbuffai e arrabbiata gettai il cellulare sul letto che rimbalzò, colpendo la testiera.
Intuii subito che Aaron volesse portarmi in qualche locale, dato che mi aveva detto che passava tardi. A che gioco stava giocando? Cominciai a domandarmi quando tutta questa storia assurda sarebbe finita. Preferii non chiamare Catherine, si era già preoccupata troppo in questi giorni a causa di quell’idiota.

 
«Principessa, sei bellissima!» disse Aaron non appena mi vide. Indossavo un vestito aderente, blu scuro, coordinato a delle scarpe col tacco dello stesso colore, ma di tonalità più scura. I capelli sciolti ricadevano lunghi fino a metà schiena e coprivano gran parte della scollatura dietro.
«Non immaginavo avresti indossato qualcosa di così azzardato» disse non appena salimmo in macchina.
«Suppongo che dove andremo ci siano anche altri ragazzi, quindi» lo guardai, alzando un sopracciglio. Lui aggrottò le sopracciglia, ovviamente sorpreso dalla mia risposta.
«Non ti lascerò sola nemmeno un attimo» strizzò l’occhio e la sua mano andò a poggiarsi sul mio ginocchio. Mi sottrassi velocemente al calore delle sue dita.
La luce flebile dei lampioni illuminava la strada. Aaron strinse la mano al buttafuori ed entrammo in quel locale così ampio. Seguii Aaron dentro e la mia mente venne inondata da quella musica a un volume altissimo.
Mi afferrò il polso e mi trascinò al centro della pista da ballo. Avvolse i miei fianchi con un braccio e mi attirò a sé. Strinse forte il mio corpo contro il suo e si avvicino al mio orecchio. Il suo respiro caldo mi solleticava la pelle.
«Ti voglio così tanto» disse, socchiudendo gli occhi e pressando ancora i nostri corpi.
«Aaron» lo supplicai debolmente.
Le sue mani si muovevano lungo tutto quanto il mio addome. Più volte tentò di baciarmi, ma mi sottrassi velocemente alle sue labbra.
«Vieni con me» afferrò nuovamente il mio polso e mi condusse al bancone del bar.
«Due vodka alla pesca, grazie» ordinò al barista, un uomo sui 25 anni, alto e robusto.
«Ehi Mayson!» una voce maschile ed estranea parlò, mentre il barista preparava i nostri alcolici.
Era un ragazzo alto, biondo e aveva gli occhi grigi. Era affiancato da un altro ragazzo con i capelli scuri e ricci.
«Ciao, Luke. Ciao, Scott» si salutarono con una stretta di mano, probabilmente erano amici.
«Come va?» domandò il riccio, palesemente disinteressato.
«Mi diverto» rispose, afferrando i bicchieri dal bancone e porgendomene uno. Sorseggiai dalla cannuccia e il liquido mi scese in gola.
Notai che un altro gruppo di ragazzi stava chiamando Aaron, doveva essere conosciuto in quel posto; dedussi che ci veniva spesso.
«State attenti a Jordan, non fatela allontanare!» raccomandò ai ragazzi, mentre si allontanava. Mi infastidì che disse questo ai suoi amici, non ero mica una bambina.
Il ragazzo riccio si allontanò non appena vide una bionda passargli accanto, mentre io rimasi da sola con il biondo.
«Sono Luke, bambolina» mi porse una mano. Accettai il gesto e gli strinsi la mano, sussurrando il mio nome.
«Sei la ragazza di Aaron?» mi domandò. Scossi la testa. «Meglio così» aggiunse.
Il ragazzo biondo mi attirò bruscamente a se, facendo cadere il bicchiere che avevo in mano. Mi trascinò fino al centro della sala e iniziò a far muovere la mano sulla mia coscia. Premette ancora i nostri corpi l’un l’altro. Cercai di respingerlo, ma mi afferrò i polsi e iniziai a dimenarmi come una bambina che fa i capricci.
«Bambolina, calmati! Voglio solo divertirmi» sussurrò al mio orecchio. Una delle sue mani si strinse a contatto con il mio fianco, mentre l’altra risalì sulla mia pancia fino ad arrivare al seno. Il suo sguardo era malizioso ed io capii di essermi cacciata nei guai.
«Che cazzo stai facendo?» la voce roca di Aaron si fece sentire. Strano a credersi, ma fui felicissima di vederlo.
«Calmati, amico! Mi sto solamente divertendo» si scusò Luke.
«Non con lei. Lei è mia» affermò. Lo colpì con un pugno in piena faccia prima che potesse controbattere. Sussultai. Luke drizzò la testa e con tutta la forza che aveva in corpo, si scagliò contro Aaron, facendolo cadere a terra. Velocemente si alzò da terra e iniziò a tempestare di pugni la faccia e le spalle di Luke. Riuscivo a vedere la rabbia con cui lo colpiva. Le sue mascelle erano tese e il suo corpo rigido. Luke guaì di dolore quando Aaron gli diede una ginocchiata sullo stomaco. La sua mano destra sferzò ancora un altro pugno sulla faccia di Luke che barcollando si accasciò a terra. Aaron si mise a cavalcioni su di lui e iniziò a ricoprire di pugni la faccia di Luke. Se non si fosse fermato, l’avrebbe sicuramente ucciso. Si udirono in lontananza le sirene della polizia, qualcuno doveva averla chiamata. Il mio cuore iniziò a palpitare e il mio battito accelerò. Mi sentii in dovere di intervenire, benché fosse pericoloso.
«AARON!» urlai con tutta la voce che avevo in gola. Mi chinai e lo tirai per le spalle, cercando di farlo alzare.
«Sta arrivando la polizia!» dissi con le lacrime agli occhi.
«Porca puttana!». Si alzò dal corpo malridotto di Luke, era messo veramente male, il sangue gli colava abbondantemente dal naso, doveva averglielo rotto. Aaron afferrò il mio braccio e violentemente mi trascinò con lui, mentre correva a perdifiato verso il retro del locale, dove aveva parcheggiato. 

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Capitolo 6
*** Vl ***


Velocemente corremmo tra i corridoi di quel locale. Aaron spinse forte la porta e uscimmo. La macchina era a pochi metri. Salimmo e senza mettere le cinture Aaron sfrecciò a una velocità incredibile. Teneva le mani strette sul volante, le sue nocche erano sbucciate per via dei tanti pugni, le mascelle tese, i muscoli delle braccia contratti. Io ero al suo fianco, immobile e spaventata. Le lacrime rigavano ancora il mio viso. Guardai fuori dal finestrino, era buio. Guardai l’orologio della macchina, erano le 4:10 del mattino.
«Fermati, voglio scendere» dissi guardandolo in faccia. Aveva il labbro tutto spaccato, probabilmente anche lui aveva ricevuto qualche colpo.
«Non posso. Devo riportarti a casa» non mi guardò. Il suo sguardo fisso sulla strada mi inquietò.
«Mi spieghi che problemi hai? Aaron, l’hai quasi ucciso» urlai, mentre cercavo di trattenere le lacrime. Non rispose.
«Allora?» insistei, «Non sei capace di dire qualcosa al riguardo».
«Senti, l’ho picchiato perché ti ha messo le mani addosso» cercò di giustificarsi.
«Ah. Quindi dovrei sentirmi lusingata? Sei ridicolo, per favore» dissi in preda all’agitazione.
«No, non devi» le uniche parole che uscirono dalla sua bocca.
«Bene. Ora riportami a casa» pronunciai.
«Okay» non esitò. Lo guardavo: aveva i capelli arruffati e la manica della camicia era strappata e c’era qualche goccia di sangue.
«Non mi meraviglio del fatto che tu abbia paura di me» proferì dopo qualche minuto di silenzio.
«Non ho paura di te» confessai.
«Non picchierei mai una ragazza» spiegò, senza mai staccare gli occhi dalla strada.
«Bene» dissi.
Arrivammo davanti casa mia, sussurrai un grazie ad Aaron e scesi dalla macchina. Lui non mi guardò nemmeno scendere e non disse una parola, non aveva il coraggio. Aspettò che entrai in casa e poi partì.
Tastai il muro alla ricerca dell’interruttore. Salii in camera mia, mi spogliai, indossai il mio pigiama e mi sistemai sotto le coperte. Non riuscii ad addormentarmi. Le immagini di Aaron che picchiava Luke si susseguirono velocemente nella mia mente, quasi come un cortometraggio.
 
Era arrivato il giorno della partenza per Amsterdam, e fino a quel momento Aaron non si era fatto sentire. Meglio così.
Mia madre abbracciò prima me e poi Catherine, che era venuta a salutarla, e poi si diresse in macchina dove Hanna la stava aspettando. Guardammo la macchina scomparire in fondo alla strada e poi entrammo dentro. Catherine era visibilmente più rilassata, le avevo raccontato del comportamento di Aaron e del fatto che per i due giorni successivi non si fosse fatto sentire.
Improvvisamente il mio cellulare vibrò. Lo estrassi dalla tasca e sbloccai automaticamente lo schermo. Era un messaggio di Julia.
Da: Julia
Ore: 10:54
Oggetto: Sto pomeriggio tutti da me a guardare un film, c’è anche quel cretino di mio fratello. Avvisa tu Catherine. :)
 
A: Julia
Ore: 11:01
Oggetto: Porto il gelato. :)
«Catherine, questo pomeriggio andiamo da Julia a vedere un film» la informai, dopo aver già dato la conferma. Lei rise.
«Tanto mangeremo solamente il gelato e ci scorderemo il film» disse sorridendo.
 
Io e Catherine suonammo al campanello di Julia che venne ad aprirci dopo qualche secondo. Aveva i capelli rossi legati in una treccia che poggiava sulla spalla sinistra e indossava già il pigiama. Entrammo dentro e notammo già suo fratello gemello Davis sdraiato sul divano che urlava al cellulare imprecazioni poco carine.
«Ma che gli prende?» domandai ridendo a Julia.
«Kerry lo ha lasciato. Di nuovo» ironizzò sulla parte finale della frase.
Andai verso di lui e gli afferrai il cellulare dalle mani. Chiusi la chiamata in corso.
«Smettila» lo rimproverai, «troverai di meglio» risi. Lui sbuffò e mi sbatté un cuscino in faccia. Risi ancora, contagiando tutti.
«Hai portato il gelato?» mi chiese Julia.
«Eccolo!» esclamai, alzando in alto la vaschetta come fosse un trofeo.
«Vado a prendere i cucchiai» Julia si diresse verso la cucina e si presentò subito dopo con quattro cucchiai. Ci sedemmo tutti e quattro sul morbido tappeto del salotto a parlare del più e del meno, dimenticandoci come tutte le altre volte del film. Ordinammo anche il sushi e la serata procedette per il meglio. Catherine e Julia ridevano, Davis si era calmato per la rottura con Kerry ed io al momento non pensavo più ad Aaron. Tutto era perfetto.
Alla fine della serata, Catherine chiamò un taxi, benché casa sua fosse distante. Io invece decisi di andare a piedi e godermi una passeggiata, anche se era quasi mezzanotte.
«Sicura di non volere un passaggio?» mi chiese Davis sbadigliando. Tra noi quattro lui era l’unico ad avere la patente.
«Tranquillo, vado a piedi» lo ringraziai e lo salutai.
Mi allontanai dalla loro casa a passo non molto veloce. Mi strinsi ancora di più nella mia giacca quando il vento divenne più insistente. Forse avrei dovuto farmi accompagnare.
Passai davanti ad un pub e cercai di evitare alcuni ragazzi ubriachi che uscivano barcollando. Tuttavia la mia attenzione si spostò su delle urla provenienti da un cunicolo lì vicino. Riuscii a riconoscere quella sagoma. Vidi che non era da solo. Il mio istinto mi suggeriva di scappare, ma ero troppo curiosa per ascoltarlo.
«AARON!» urlai. Lui si girò. Aggrottò le sopracciglia e strizzò gli occhi per mettere a fuoco la mia figura. Un ragazzo davanti a lui approfittò del suo momento di distrazione per colpirlo con un pugno, che lo scagliò a terra. Mi coprii istintivamente la bocca in stato di shock. Corsi e raggiunsi il gruppo di ragazzi. Fu allora che capii chi era il ragazzo che stava colpendo Aaron: Luke. Le sue ferite erano lievemente guarite, ma si potevano notare ancora i suoi occhi contornati di lividi. Aveva un cerotto sul naso e un taglio sulla mascella.
«Piacere di rivederti, bambolina» disse Luke in tono scherzoso. Mi voltai verso Aaron, stava ricevendo pugni e calci da ragazzi che non conoscevo ed era accasciato a terra inerme. L’odore di alcool e sudore impregnava l’aria. Un urlo lasciò la mia bocca quando Luke estrasse dalla tasca dei jeans un coltellino e si avventò su di Aaron, senza colpirlo. Caddi in ginocchio davanti a lui.
«Non farlo, ti prego» lo supplicai.
Mi misi velocemente tra il corpo di Aaron e quello di Luke.
«Hai bisogno che una ragazzina ti protegga?» lo schernì Luke, mentre si stava alzando da terra. Sapevo che queste parole lo avevano provocato, ma poggiai una mano sul suo petto e cercai di tranquillizzarlo.
«Basta» sussurrai al suo orecchio, mentre ripulivo la sua guancia dalla polvere. La mia mano si sporcò di sangue.
«Vattene!» gridai a Luke.
«Oh. Ci vediamo presto, Mayson» disse con tono rude, «Anche con te, bambolina» concluse. Si girò e uscì dal vicolo, con i suoi compagni che lo seguirono.
Il suo commento fece innervosire Aaron, che si dimenò dietro di me.
«No, no. Guardami» la mia voce usciva volutamente dolce, mentre cercavo di calmarlo. Mi guardò e un sorriso spuntò sul suo bellissimo volto. Gli occhi verdi incorniciati dalle ciglia lunghe mi fissarono insistentemente.
«Dove andiamo adesso?» mi domandò, ripulendosi il labbro dal sangue. Nonostante lo avesse ripulito, il sangue sgorgò nuovamente. Indugiai un po’ prima di dare una risposta.
«A casa mia» affermai, dopo qualche minuto di silenzio.
 

 

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Capitolo 7
*** Vll ***


Aaron parve molto contento dell’idea di andare a casa mia. Afferrai saldamente il suo braccio e lo poggiai intorno alle mie spalle. Lui rideva, era evidentemente ubriaco.
La passeggiata verso casa mia non fu per niente facile, Aaron inciampava di continuo. Feci un lungo respiro di sollievo quando arrivammo davanti alla porta di ingresso. Aaron si appoggiò allo stipite della porta, ridendo mentre cercavo le chiavi nella borsa. Gli feci cenno di fare silenzio e lui tentò di baciarmi, capii che sarebbe stato meglio se lo avessi ignorato. Una volta trovate, aprii la porta. Afferrai il suo polso e lo trascinai dentro.

Feci bere ad Aaron un bel po’ d’acqua, sperando che lo aiutasse a riprendersi. Lo feci distendere sul divano e andai in cucina. Presi dal cassetto un panno e lo bagnai sotto il rubinetto. Andai nuovamente da lui e iniziai a tamponare le sue ferite. Un lieve gemito di dolore lasciò le sue labbra quando feci un po’ di pressione con il dito sul suo labbro gonfio e sanguinante. La salita su per le scale fu leggermente più facile del previsto, il suo braccio stringeva ancora le mie spalle mentre lo trascinavo nella mia camera. Rideva senza alcun motivo, ma era una risata ingenua. Il suo corpo cadde a peso morto sul mio letto. Lo aiutai a togliersi la maglietta, che lui gettò sul pavimento. Iniziai a tamponare con il panno bagnato la macchia rossa sul suo addome. Il suo viso si contrasse in una smorfia di dolore. Gemette quando la mia mano poggiò sul suo petto. Riuscivo a sentire il suo respiro, il petto si alzava e si abbassava lentamente, mentre i suoi occhi erano socchiusi. Tossì e il mio nome uscì in piccoli sbuffi. La sua espressione si rilassò quando accarezzai il suo viso con la mano. Lui la baciò ed io la ritrassi lentamente. 
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto prima che lui parlasse.
«Perché mi hai salvato?».
Fui colta alla sprovvista dalla sua domanda, per niente sicura della risposta. Presi la maglietta dal pavimento e lo aiutai a indossarla, badando a non fargli male.
«No. Io non ho fatto niente» articolai. Scossi la testa. Aaron alzò un sopracciglio.
«Sì. Mi hai difeso» insisté.
«Be’, loro ti stavano facendo male» ammisi.
«Quindi mi hai perdonato» disse sorridendo. L’effetto dell’alcool stava pian piano svanendo.
«Dormi, Aaron» gli sussurrai dolcemente, premendo le labbra sulla sua fronte. Lui mugolò, poi chiuse gli occhi. Prima di spegnere la luce, afferrai una coperta e un cuscino dall’armadio, mi diressi al piano di sotto e andai a sistemarmi sul divano.
 
La luce del sole entrò dalla finestra, svegliandomi. Mi guardai intorno spaesata, disabituata allo scenario della mia camera, ma poi mi resi conto di aver dormito sul divano. Mi vestii velocemente: indossai un paio di jeans scuri e stretti e una maglietta con il logo di una band che non ascoltavo neppure. Salii al piano di sopra per controllare se fosse tutto a posto. Vidi Aaron sdraiato sul letto, dormiva ancora. Aveva un’espressione beata sul volto e sorrideva lievemente. Sistemai meglio la coperta sul suo corpo e spostai all’indietro i capelli che gli erano scivolati sulla fronte. Dischiuse la bocca e il mio nome uscì in un soffio.
«Buongiorno» sussurrò piano, mentre apriva gli occhi.
«Ehi» sorrisi. Si guardò intorno e si sollevò un poco. Mi sedetti ai piedi del letto.
«Ma tua madre non ha detto niente?» domandò stupito, dopo qualche minuto di silenzio.
«Mia madre non c’è. È partita, per due settimane» spiegai.
«Dove?» chiese ancora.
«Amsterdam» risposi con nonchalance.
«Bene» disse, «vuol dire che abbiamo due settimane di tempo per divertirci» soggiunse sogghignando.
«Ma tu non cambi mai!» dissi seccata. Lui fece una smorfia e con un braccio mi attirò a sé. I nostri visi erano a pochi centimetri di distanza. Trasalii.
«Principessa, pare che a te, infondo, non dispiaccia» disse con un tono di maliziosità.
«Sei un cretino».
Aaron fece per alzarsi dal letto, una smorfia di dolore si disegnò sul suo viso, quando si stiracchiò. Lo osservai.
«Puoi fare una doccia, se vuoi» dissi, indicando la porta del bagno nella mia camera.
«Grazie» sorrise.
«Scusa, ma non ho vestiti di ricambio» articolai imbarazzata.
«Non fa niente, metterò di nuovo questi» disse, per nulla infastidito.
  
Rifeci il letto mentre aspettavo che Aaron uscisse dalla doccia. Oltre al rumore dell’acqua, si sentiva Aaron che cantava. Mi fermai un attimo per ascoltarlo.
«No one ever died for my sins in hell, as far as I can tell» cantò la sua voce. Riconobbi la canzone, era Jesus of Suburbia, dei Green Day. Intuii fossero il suo gruppo preferito.
Improvvisamente il rumore dell’acqua cessò ed io pensai che forse avrei fatto meglio a non essere lì. Troppo tardi: la maniglia si abbassò e uscì Aaron da dietro la porta. Indossava solamente i pantaloni, ed era a torso nudo. Alcune goccioline d’acqua imperlavano il suo addome e i capelli bagnati gocciolavano sul pavimento.
«Ehm, ti aspetto in cucina» farfugliai arrossendo.
«Come vuoi» lui scrollò le spalle.
Uscii in fretta dalla stanza e mi diressi al piano di sotto, lasciando Aaron solo nella mia stanza.
Sentii il phon spegnersi e un rumore di passi sempre più vicino. Mi voltai, Aaron era a due metri da me.
«Come va?» dissi, guardando il suo labbro ancora un po’ gonfio.
«Meglio, grazie» sorrise. Rimasi ferma sul posto, non sapendo che altro dire.
«Quando ricomincia la scuola?» mi domandò lui, di punto in bianco.
«Martedì, perché?» chiesi, a mia volta.
«Penso che potrei ricominciare i miei corsi» disse, più a se stesso che a me.
«Perché ti sei fermato?» gli chiesi curiosa.
«Lunga storia» rispose lui. Capii che non volesse parlarne.
«Okay» mi limitai a dire.
 
Uscimmo da casa a piedi e ci dirigemmo in un bar non molto distante a fare colazione.
Ci sedemmo in un tavolino fuori e iniziammo a parlare, mentre aspettavamo il cameriere.«Che cosa posso fare per voi?» ci domandò il cameriere, un ragazzo alto e un po’ impacciato.
«Due cappuccini con panna» rispose Aaron, guardandomi.
Non appena il ragazzo si allontanò, Aaron si avvicinò a me con la sedia ancora di più. Lo guardai, assumendo un’aria interrogativa. La sua mano scivolò sotto il tavolo, si poggiò sul mio ginocchio e lentamente risalì. Il suo tocco mi dava i brividi.
«Smettila» dissi sbuffando. La sua mano era pericolosamente vicina al mio inguine e ringraziai il cielo di indossare dei jeans e non una gonna. Il suo sorriso non prometteva nulla di buono. Un verso stridulo lasciò le sue labbra quando gli pestai fortemente il piede. Ritirò velocemente la mano, come per istinto.
«Sempre così aggressiva. Tu mi piaci sempre di più» dichiarò, sorridendo nuovamente.
«Non succederà mai nulla, te l’ho detto ormai tante volte» affermai molto sicura di me.
«Vedremo» esitò, senza aggiungere altro. Io sbuffai e di conseguenza roteai gli occhi al cielo. Lui sorrideva, come sempre, un sorriso puro, buono, ma non innocente. C’era qualcosa in lui che mi catturava, forse quella scintilla negli occhi che si accendeva ogni volta che rideva.
 

 

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Capitolo 8
*** Vlll ***


Erano le tre del pomeriggio e avevo invitato le ragazze a casa mia per ripassare gli ultimi argomenti prima del rientro a scuola. Avevo anche bisogno di parlare con loro, specialmente con Catherine, non avevo ancora avuto l’occasione di raccontarle le ultime novità su Aaron. Chissà come prenderà la notizia che Aaron ha dormito da me stanotte.
Suonò il campanello e mi precipitai ad aprire. Erano Catherine e Julia.
«Dov’è Davis?» domandai, dopo averle salutate.
«Aveva un appuntamento. Sai com’è mio fratello» disse senza troppi giri di parole.
Ci accomodammo sul divano e iniziammo a prendere i libri. Sbuffai, tra tutti i miei pensieri, studiare era l’ultima cosa che avrei voluto fare.
«Iniziamo con la biologia» commentò Catherine. Lei era un genio nelle materie scientifiche.
«Ti prego. Tutto tranne biologia» si lamentò Julia, che invece le odiava. Catherine iniziò a borbottare qualcosa sulle meiosi, ripetendo a memoria tutto ciò che era scritto sul libro.
«Quel deficiente si è fatto sentire?» mi chiese Catherine, interrompendo la lettura sulla divisione delle cellule.
 «Chi? Aaron?» feci, fingendo di non aver capito subito. Lei annuì.
«Ma lui ti piace?» mi domandò Julia.
«Ma sei pazza?!» urlai.
«Però è carino» disse Julia, sorridendo.
«Sì, ma è un idiota» aggiunse Catherine.
«Stanotte ha dormito qui» dissi tutto d’un fiato. Le ragazze mi guardarono con gli occhi spalancati.
«Ti prego, dimmi che scherzi» parlò Catherine.
«È successo ieri sera. Lo stavano picchiando a sangue, era ridotto malissimo» cercai di spiegare.
«Ti avevo detto di stargli alla larga!» s’infuriò Catherine.
«Calmati Catherine» disse piano Julia, «non è successo niente» soggiunse.
«Non ancora!» quasi gridò.
«Si stancherà presto di me, non sono la tipa adatta a lui» mi giustificai.
«Ti sbagli, Jordan. Ai cattivi ragazzi piacciono le brave ragazze» disse, «e tu sei una brava ragazza» continuò.
«Jordan, devi lasciarlo stare, ascoltaci» disse Julia, seria.
In quel preciso istante il mio cellulare squillò, automaticamente sbloccai lo schermo. Lessi il nome sul display: Aaron. Mostrai il cellulare alle ragazze.
«Che faccio?» domandai preoccupata.
«Cazzo!» esclamò Julia.
«Rispondi e spiegagli che non lo vuoi più fra i piedi» tagliò corto Catherine.
«P-Pronto» dissi con voce tremolante. Misi il vivavoce in modo che anche Catherine e Julia potessero sentire.
«Principessa, mi è mancata la tua voce» parlò lui.
«Pff» sbuffò Catherine. Le diedi una gomitata.
«Sei sola?» mi chiese dopo qualche secondo di attesa.
«Ehm, no. Sono con due mie amiche» spiegai.
«Senti, stasera c’è una festa a casa di un mio amico. Puoi portare pure le tue amiche, ma preferirei che fossimo solamente noi due».
«Digli che non ci vai!» mi suggerì Catherine.
«Non posso venire, scusa» risposi.
«Ti prego. Non mi va di andarci da solo» mi disse in tono di supplica.
«Ho detto che non posso».
«Avrei voglia di baciarti, in realtà» ammise. Ammutolii. Non risposi.
«Per favore, vieni. Ho voglia di vederti» aggiunse dopo un po’.
«È inutile che insisti. Non ci sarà mai nulla tra di noi» chiarii.
«Nemmeno tu credi a quello che dici. Pensaci e fammi sapere entro stasera, così passo a prenderti verso le ventidue» disse piuttosto duramente.
«Okay, ciao»  riattaccai. Rimasi muta, aspettai che fossero le ragazze a parlare.
«Quale parola della frase Spiegagli che non lo vuoi più fra i piedi non ti è chiara?» scherzò Catherine.
«Smettila, scema».
«Se vuoi andare a quella festa, vacci» pronunciò Catherine con un sorriso.
«Ma se mi hai detto che devo stargli alla larga!» farfugliai confusamente.
«Almeno ti renderai conto con i tuoi stessi occhi del cretino che è» spiegò.
«Se lo dici tu» scrollai le spalle.
«Non chiamarlo subito, però. Fallo aspettare» mi consigliò Julia.
«Voi siete completamente matte» risi.
«Siamo tue amiche e lo sappiamo che ti piace» disse Julia.
«Cosa?» urlai, «Neanche per idea».
«Sì, certo» Catherine alzò gli occhi al cielo. Risi.
 
Erano le otto di sera quando mandai un messaggio ad Aaron.
A: Aaron
Ore: 20:02
Oggetto: Va bene, verrò
 
Da: Aaron
Ore: 20:07
Oggetto: Non vedo l’ora. A♥
«Sicure di non voler venire anche voi?» chiesi alle ragazze.
«No, devi andarci da sola agli appuntamenti» parlò Catherine a nome di tutte e due.
«Non è un appuntamento» sbuffai.
«Mettila come vuoi». Catherine scrollò le spalle.
«Piuttosto, che metterai?» s’informò Julia.
«Non saprei» rimuginai a lungo sulla mia risposta.
«Dai, andiamo!» esclamò Catherine. Mi afferrarono per un braccio e mi portarono al piano di sopra, nella mia camera.
Julia aprì l’armadio e cercò tra i vestiti, mentre Catherine prese l’arricciacapelli e insistette per farmi i boccoli.
«Ecco!» urlò soddisfatta Julia. Estrasse dall’armadio un vestito nero cortissimo e con una scollatura sulla schiena fino al sedere.
«Te lo scordi!» esclamai.
«Zitta, a te ci pensiamo noi» proferì Catherine.
«Non vi sembra di esagerare?». Nessuno rispose alla mia domanda. Julia abbinava scarpe a quel vestito e alla fine scelse un paio di decolleté gialle con il tacco altissimo che avevo comprato tempo fa ad una svendita, mentre Catherine arricciava i miei capelli e spruzzava lacca ovunque.
«Ripeto: non vi sembra di esagerare?» riproposi la domanda.
«No» disse seccamente Julia.
«Aaron impazzirà!» farfugliava tra sé e sé Catherine.
«Voi siete malate».
Indossai il vestito e mi guardai allo specchio, era bellissimo, ma forse un po’ troppo corto. Mi rigirai più volte su me stessa e indugiai sulla scollatura troppo profonda sulla schiena, ma alla fine mi convinsi. Le scarpe erano un po’ esuberanti, ma mi piaceva il contrasto con il vestito scuro.
Le ragazze, per completare il tutto, mi truccarono. Catherine mi mise l’ombretto sulle palpebre e Julia stese del rossetto rosso sulle mie labbra.
«Sei bellissima» disse Julia.
«Troppo sexy» disse Catherine, che solitamente era quella più moderata.
Erano già quasi le dieci quando Catherine e Julia se ne andarono. Mi salutarono e mi augurarono buona fortuna. Aspettai Aaron sull’uscio, che arrivò cinque minuti dopo, piuttosto puntuale. Scese dalla macchina e mi venne incontro. Indossava una camicia nera e un paio di jeans scuri e stretti. Il suo volto s’illuminò non appena mi vide.
«Wow» si meravigliò. Sorrisi, arrossendo.
«Andiamo» mi porse la mano. Accettai il gesto e mi condusse alla macchina.
«Dovrò tenerti stretta stasera» disse, mentre osservava la scollatura sulla mia schiena. Risi. Scivolai sul sedile, non appena mi aprì la portiera.
«Come mai alla fine hai accettato di venire?» mi chiese. Non sapevo cosa rispondere, così mi limitai a scrollare le spalle.
«Comunque sei stupenda» mi disse, rivolgendo lo sguardo a me e non più alla strada da percorrere.
«Grazie» sussurrai piano, spostando una ciocca di capelli dietro l’orecchio. 

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Capitolo 9
*** lX ***


Dopo venti minuti di strada eravamo arrivati nel posto dove era tenuta la festa. Aaron parcheggiò sul retro della casa. Percorremmo insieme il viale contornato da piante, prima di varcare l’entrata dell’abitazione. La musica si riusciva a sentire anche da fuori, ma il divertimento stava tutto all’interno.
Entrammo e un’ondata di musica ad altissimo volume mi pervase. Venne un ragazzo ad accoglierci, era alto e magro, con i capelli ricci e gli occhi scuri.
«Ehi, Aaron! Eccovi finalmente!» parlò il ragazzo; aveva una voce roca. Dal suo plurale intuii che Aaron lo aveva informato a proposito del mio arrivo.
«Ehi, Matt!» rispose Aaron, battendogli il pugno.
«Lei è Jordan Darren, un’amica» mi presentò dopo qualche secondo Aaron. Salutai con la mano e con un sorriso Matt, che mi diede il benvenuto. Infine, ci congedò con un semplice Divertitevi.
Aaron mi prese per mano e mi portò verso il centro della casa, dove era concentrata la maggior parte delle persone. Conoscevo qualche ragazza, due frequentavano il mio stesso corso di storia, mentre due le avevo viste parlare con Julia l’altro giorno. Le ragazze del mio corso mi gettarono un’occhiataccia quando Aaron mi prese per mano e mi trascinò su un divanetto.
«Vado a prendere qualcosa da bere, aspettami qui» disse velocemente.  Non ebbi il tempo di dire che non desideravo niente che lui già era sparito. Lo attesi sul divanetto di pelle. Vidi Tess e Joy, le ragazze del mio corso di storia, avvicinarsi a me. Non avevo mai provato simpatia per loro due, avevano sempre da spettegolare e mettevano in giro strane voci su tutti, e inoltre, non avevamo mai parlato, ci salutavamo a malapena.
«Ehi» mi dissero in coro. Restai seduta sul divano, le salutai con la mano e abbozzai un sorriso.
«Quindi esci con Aaron Mayson?» mi domandò Tess, che nel frattempo si era seduta affianco a me, la seguì Joy.
«No, no» mi limitai a rispondere.
«Dai, tanto quello le ha già provate tutte» ridacchiò all’improvviso Joy.
«Bene» dissi.
«Dovresti vedere come sa usare la lingua» rise di gusto Tess. Joy era la sua spalla destra e rideva ogni volta che l'altra lo faceva. Inoltre, andavano insieme ovunque.
«Non mi interessa» risposi seccata. Tess guardò dietro di sé, sussurrò qualcosa all’orecchio di Joy e poi si alzò dal divano.
«Vedo che il tuo ragazzo sta arrivando, ci vediamo in giro» disse Tess, indicando Aaron alle mie spalle. Le salutai con la mano, mentre prendevo il bicchiere pieno di liquido azzurro dalle mani di Aaron.
«Conosci quelle due?» mi chiese Aaron sorpreso.
«Sì. Frequentano il mio stesso corso di storia».
Aaron si sedette al mio fianco sul divanetto di pelle.
«Tu le conosci?» chiesi a mia volta.
«Tutti le conoscono. Chissà con quanti ragazzi sono andate a letto» fu la sua risposta. Sorseggiai dalla cannuccia un po’ di liquido azzurro che mi scese freddo in gola.
«Compreso te, immagino» dissi senza pensare.
«Una cosetta da niente» ammise lui, «con la bionda» continuò, riferendosi a Tess.
«Sei pazzo se pensi che otterrai lo stesso da me» lo informai freddamente. Ero rimasta delusa dalla sua risposta, certo, sapevo che aveva avuto davvero un’infinità di ragazze, ma che anche Tess fosse una sua preda non me lo aspettavo.
«Non ti ho mai chiesto di venire a letto con me, sbaglio?».
«No» dissi imbarazzata.
«Quindi basta parlare di questo» disse, piuttosto duramente.
«Okay».
Aaron si alzò dal divano e mi porse una mano. Io poggiai a terra il bicchiere ormai vuoto e accettai il suo gesto. Mi trascinò verso un angolo della casa un po’ più isolato, dove non c’era gente. Strinsi la sua mano più forte quando un ragazzo mi urtò, facendomi perdere per un attimo l’equilibrio sui tacchi.
«Che fai?» domandai confusa ad Aaron quando mi inchiodò al muro. Mi vennero i brividi quando la mia schiena nuda toccò il freddo della parete.
«Principessa, te l’avevo detto che avevo voglia di baciarti». Deglutii.
«Per favore, Aaron. Smettila, cazzo!» imprecai, mentre teneva stretti i miei fianchi.
«Piccola» sussurrò al mio orecchio, mentre mi teneva stretta tra il suo corpo e il muro. Sussurrava il mio nome e le sue labbra erano pericolosamente vicine alle mie. Il suo alito mi faceva impazzire, sapeva di menta, come sempre. Chiusi gli occhi e le sue labbra morbide si posarono sulle mie, prima delicatamente, poi con più insistenza. Aprii gli occhi un attimo e vidi che i suoi erano chiusi. Mi staccai da lui subito dopo. Un lamento lasciò le sue labbra non appena lo respinsi leggermente, ma lui si avvicinò di nuovo e in maniera più risoluta a quella precedente pressò di nuovo le sue labbra sulle mie. Questa volta non fu delicato. La sua lingua scivolò sul mio labbro, inizialmente serrai le labbra, ma poi le dischiusi, affinché la sua lingua entrasse nella mia bocca. In quel momento non riuscì a capire cosa mi fosse preso. Le nostre lingue si intrecciavano di continuo e le sue mani si muovevano lente sul mio corpo. Questa volta fu lui a staccarsi da me, mi guardò e sorrise.
«Alla fine hai ceduto» rise. Io arrossii.
«Non farti strane illusioni, è stata la prima e l’ultima volta» dissi acidamente.
«Perché me l’hai lasciato fare, allora?» mi domandò lui, forse un po’ infastidito.
«Non importa» tagliai corto.
«Tranquilla, ci saranno altri baci» mi rassicurò.
«Non penso. Guarda, è meglio se restiamo amici» spiegai.
«Non ti ho chiesto di metterti con me» puntualizzò. Alzai gli occhi al cielo.
«Non ancora» continuò, facendomi l’occhiolino. Arrossii al pensiero di quel bacio, Aaron era stato veramente dolce, ma io avevo sbagliato. Non dovevo farmi persuadere dalle sue avances. Lui mi fissava insistentemente ed io mi sentii un po’ a disagio.
«Che significato ha quel tatuaggio?» dissi, cercando di colmare quel silenzio imbarazzante e fastidioso. Indicai la fenice sul suo collo.
«È qualcosa collegata al fuoco. Indica il coraggio, l’immortalità. Ti piace?» mi spiegò, e poi mi chiese un parere al riguardo. Io annuì di compiacimento, quel tatuaggio mi piaceva davvero.
«Ne ho anche un altro» m’informò. Si alzò la manica della camicia per mostrarmelo. Era una frase, diceva: Boulevard of Broken Dreams.
«Viale dei sogni infranti. Mi piace» sorrisi.
«È anche il titolo di una canzone dei Green Day» disse.
«Sì, lo so. Amo quella canzone» confessai.
«I walk this empty street on the Boulevard of Broken Dreams»  cantò. Mi porse una mano e mi trascinò verso il centro della stanza, mentre canticchiava ancora qualche verso di quella canzone.
«Balliamo» m’invitò. Avvolse il suo braccio attorno alla mia vita e mi attirò a sé. Più volte tentò di baciarmi, ma io lo ignorai e cercai di guardarlo il meno possibile. Appoggiai la testa sulla sua spalla e assaporai il suo profumo fresco, mentre lui posò un bacio sulla mia spalla. Tra le braccia di Aaron mi misi a pensare a tutta questa storia, cosa stava succedendo? 

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Capitolo 10
*** X ***


Masticavo nervosamente una gomma, mentre aspettavo Catherine e Julia alla solita panchina. Avevo sentito da poco mia madre e le avevo assicurato che tutto stava andando per il meglio, e che ero pronta per il ritorno a scuola di domani. Mia madre ed Hanna se la stavano passando benissimo ad Amsterdam, dicevano che era bellissima. Alloggiavano in un hotel fantastico, dove il servizio era ottimo e avevano visitato un sacco di posti stupendi. Mi chiese anche qualcosa a proposito di Aaron e io le dissi che eravamo solamente amici.
Vidi in lontananza le sagome delle mie amiche che, non appena mi videro, mi corsero incontro.
«Jordan!» mi abbracciò Catherine.
«Ehi, ragazze!» ammiccai.
«Allora, novità?» mi domandò Julia curiosa.
«Be’, io credo di aver fatto una cazzata» ammisi.
«N-Non dirmi che è quello che penso io» balbettò Catherine.
«No, Catherine. Non ci sono andata a letto». Un sospiro di sollievo uscì dalle sue labbra.
«Quindi?» mi fece fretta Julia.
«Ci siamo baciati» confessai. E mentre pronunciai queste parole fui sicura di arrossire, anche se non potei vedermi.
«Pensavo sarebbe andata diversamente» ammise Catherine.
«Non pensavo che ti saresti fatta abbindolare così facilmente» continuò Julia. Dai loro toni capii che erano un po’ deluse, ma loro mi avevano convinte ad andare a quella festa.
«Com’è stato?» mi chiese Catherine, mostrandomi l’ombra di un sorriso lieve. Forse sotto sotto era contenta per me.
«Non saprei» mi limitai a rispondere, scrollando le spalle.
«Sei cotta di lui, tesoro» mi disse ad un certo punto Julia.
«No. Ve l’ho già detto che non fa per me. È uno stronzo».
«È allora perché gliel’hai lasciato fare? Non capisco, non c’è altra soluzione, se non quella che ti piace Aaron Mayson» interferì Catherine. Aggrottai le sopracciglia.
«Ho già detto che non mi piace, cazzo!»  mi alzai di scatto dalla panchina di legno, infastidita dalla continua insistenza delle mie amiche.
«Jordan,» cominciò a parlare Catherine, «è inutile che continui a mentire a te stessa, oltre che a noi» finì.
«Non penso di mentire».
«Hai visto?» disse Julia, «non sei nemmeno sicura di quello che dici».
«Io ti dico solo che qualunque cosa deciderai di fare noi ti sosterremo sempre» mi abbracciò Catherine.
Improvvisamente il mio cellulare prese a squillare. Lo estrassi dalla tasca e lessi il nome sul display: Aaron. Il mio cuore iniziò a palpitare.
«P-Pronto» dissi con la voce tremolante.
«Guardala, è tutta rossa!» ridacchiarono le ragazze. Portai il dito indice alla bocca per far loro cenno di stare zitte.
«Principessa, sono sotto casa tua con una sorpresa» parlò.
«Cosa? Quale sorpresa?» domandai sorpresa.
«Se te lo dicessi che sorpresa sarebbe?» rise.
«Sappi che se è un’altra delle tue cazzate, stavolta ti ammazzo!».
«Niente cazzate, promesso» riattaccò.
«Ragazze, dovete venire con me subito» farfugliai, in preda alla confusione.
«Che succede?» mi chiesero.
«Dice di avere una sorpresa per me» spiegai agitata. Le ragazze mi guardarono meravigliate.
 
Dopo venti minuti arrivammo davanti casa mia, Aaron aspettava seduto sullo scalino, era teso e aveva una scatola rosa con un enorme fiocco in una mano e nell’altra teneva una sigaretta che si stava pian piano consumando. Venne velocemente verso di me, ma poi si fermò quando vide le ragazze dietro la mia figura.
«Non ti fidavi a venire da sola?» ironizzò.
«Veramente no» dissi, cercando di immaginare cosa contenesse la scatola.
«Piacere, comunque, sono Aaron» disse, rivolgendosi alle ragazze.
«Lo sappiamo chi sei» disse acidamente Catherine. Julia si limitò a sorridere lievemente.
«Allora, qual è questa sorpresa?» domandai ad Aaron, mentre giravo la chiave nella serratura. La porta si aprì e li feci entrare. Ci sedemmo sul divano e finalmente Aaron mi porse la scatola rosa. La scossi un pochino per capire cosa c’era dentro, ma sentii un mugolio non appena mi fermai.
«No, ferma. Non farlo!» urlò Aaron.
«Scusa» sussurrai imbarazzata. Notai due fori sul lato sinistro della scatola e feci per sbirciarci dentro quando venni colta da un entusiasmo improvviso.
«Tu sei pazzo! Non ci posso credere!» esclamai, aprendo la scatola rosa. Un cucciolo bianco di labrador fece capolino dal bordo della scatola.
«Lei è Alaska» la presentò Aaron, sorridendo.
«Non ci posso credere! Mi hai preso un cucciolo! Dio, grazie» dissi, in preda alla contentezza. Lo sollevai in braccio, era morbidissimo. Aveva gli occhi grandi che brillavano e il pelo lucido. Indossava un collarino fucsia con dei brillantini applicati.
«Sapevo che ti sarebbe piaciuta». Le ragazze guardavano meravigliate la scena. Mi sentii in dovere con Aaron, istintivamente lo abbracciai e lui ricambiò, stringendomi ancora più forte, ma poi mi ritrassi e tenni lo sguardo basso, verso il cucciolo.  
«N-Non so nemmeno come ringraziarti» balbettai.
«Non devi».
«Non sapevo che fossi così dolce» s’intromise Catherine. Percepii dal suo tono di voce desiderio di sfida.
«Non sai quasi niente di me. Credi solo a tutto quello che ti dicono» la zittì Aaron.
«Vorresti smentire?» lo provocò Julia.
«Non ho detto questo» disse. Sentii la tensione. Feci cenno con la mano a Catherine e a Julia e le raccomandai di smetterla, avevo paura che Aaron impazzisse con la sua irascibilità.
«Adesso, scusate, ma devo andare» si riferì alle ragazze. Poi rivolse a me le sue attenzioni, mi baciò la fronte, accarezzò la testa della cagnolina e mi diede appuntamento domattina alle otto per fare colazione assieme e poi andare a scuola. Mi sentii quasi in dovere di accettare, era stato così premuroso a regalarmi quel cucciolo. Speravo solo che mia madre me lo avrebbe fatto tenere, ma non mi preoccupavo più di tanto perché sapevo che alla fine mi avrebbe accontentata.
Invitai le ragazze a cena da me e ordinammo messicano. La serata procedette per il meglio e si erano fatte le undici quando le ragazze lasciarono l’appartamento.
 
Erano le otto e cinque del mattino quando il clacson dell’auto di Aaron si fece sentire. Era passato a prendermi. Io stavo coccolando un po’ Alaska, le avevo lasciato una ciotola d’acqua e un’altra con del cibo per cani. Il clacson suonò un’altra volta, facendomi sussultare. Velocemente mi infilai lo stivaletto e uscii di corsa afferrando la tracolla con i libri dentro. Avevo indossato un paio di pantaloni neri molto attillati e una camicia a fiorellini rossi.
«Scusa il ritardo» dissi, non appena entrai in macchina.
«Tranquilla, principessa». Mi salutò con un bacio sulla guancia.
«Com’è lei?» mi domando, dopo qualche istante di silenzio.
«Lei chi?» feci io.
«Alaska».
«Oh. È dolcissima. Ha dormito tutta la notte!» dissi, mostrando un sorriso.
«Sapevo che l’avresti adorata» mi fece l’occhiolino. Annuii senza riuscire a smettere di sorridere. Iniziai a pensare che Aaron non fosse poi così terribile come tutti dicevano, ma decisi di mantenere comunque una certa distanza. 

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Capitolo 11
*** Xl ***


I nostri piedi varcarono la soglia del cancello mezzo arrugginito. Il cortile della scuola popolava di studenti. Mi guardai intorno, dei cespugli contornavano il viale d’ingresso e il portone era semiaperto. Cercai con lo sguardo Catherine, Julia e Davis, ma in mezzo a quella folla di studenti impazziti non riuscii a scorgere i loro volti.
«Bentornato, Mayson!» urlò in coro un gruppo dei ragazzi. Erano tutti alti e indossavano la giacca della squadra di basket della scuola. Uno di loro, un po’ più alto degli altri, teneva una palla in mano.
«Ciao, ragazzi!» disse Aaron, battendo il pugno al caposquadra e salutando gli altri con un cenno della mano.
La campanella indicò che il primo giorno di scuola aveva inizio. La moltitudine di ragazzi, soprattutto matricole, si avviò verso il portone della scuola. Io e Aaron entrammo, seguiti dai suoi amici.
«Mayson, non hai intenzione di presentarci la tua nuova ragazza» scherzò uno di loro. Mi infastidì parecchio il modo in cui il suo amico aveva detto nuova, sicuramente pensava che già ero caduta ai piedi di Aaron, ma non era così. Quel tono stava a significare che ce n’erano state parecchie prima di me, e che sicuramente ce ne sarebbero state altrettante dopo.
«Sta’ zitto, Alan, non è la mia ragazza». Io ero imbarazzata.
La seconda campanella, che suonò esattamente cinque minuti dopo, ci invitò ad entrare ognuno nelle nostre classi.
«Ci vediamo dopo» mi salutò Aaron, dandomi un bacio sulla fronte. Mi allontanai, ma sentii Aaron sussurrare qualcosa.
«Siete degli idioti» borbottò ai suoi amici. Mi diressi verso la mia classe, dove Catherine mi aveva tenuto un posto.
«Eccoti, finalmente!» bofonchiò, roteando gli occhi.
«Scusami» tentai di giustificarmi, «ti ho portato questo, per farmi perdonare» sorrisi. Estrassi dalla tracolla un sacchettino bianco a righe rosa e glielo porsi.
«Grazie, tesoro» disse, addentando il muffin al cioccolato che avevo comprato stamattina con Aaron.
«È buonissimo!» soggiunse. Dopo qualche secondo la professoressa di matematica ci invitò a fare silenzio. Scarabocchiai disegnini vari sul mio quadernetto, mentre Catherine seguiva prontamente la lezione.
«Segui, cretina!» mi incitò.
«Non rompere» le diedi una gomitata.
 
Scendemmo le scale per andare al piano di sotto, in mensa. Presi una porzione di pasta e una mela e mi diressi al tavolo dove le ragazze, Davis e un suo amico mi stavano aspettando.
«Invitante» dissi disgustata, mentre osservavo la pasta con il pomodoro nel piatto.
«Dai, non è così male» disse Kurt, l’amico di Davis.
Improvvisamente Alan, l’amico di Aaron si presentò al nostro tavolo.
«Jordan Darren?» domandò, ridendo.
«Che vuoi?» risposi acidamente, scuotendo la testa.
«Conosci Alan McLee?» mi sussurrò Davis all’orecchio. Io feci spallucce come segno di risposta.
«Ho questo per te» mi porse un bigliettino. Lo scrutai meglio e vidi che era un tovagliolo.
«Va bene» dissi, non curandomene più di tanto. Lui ci salutò con un cenno del capo e si allontanò.
Aprii il tovagliolo e lessi  ciò che c’era scritto. La scrittura era irregolare, era un po’ a stampatello e un po’ in corsivo. Lo lessi ad alta voce.
I'm in for nasty weather, but I'll take whatever you can give that comes my way. A♥
«Che c’è scritto?» chiese Julia curiosa.
«Di chi è?» domandò Catherine.
«Aaron».
Rilessi nuovamente la frase della canzone dei Green Day: sono pronto al tempo cattivo, ma accetterò qualsiasi cosa tu sia disposta a darmi.
«Che dolce!» esclamò Catherine. Io fui sicura di arrossire anche se non potei vedermi.
«Ma tu non lo odiavi?» risi. In questi giorni Catherine era stata veramente incoerente. Un momento mi diceva di stargli alla larga, quello dopo mi organizzava un appuntamento con lui.
Ripiegai il tovagliolo e lo custodii in tasca. Kurt e Davis iniziarono a parlare di Abigail, la nuova ragazza di Davis.
«Perché non vai al suo tavolo. Guarda, è là in fondo» mi incoraggiò Catherine.
«Ti sta fissando da mezzora» mi avvisò Julia.
«Bene» dissi senza preoccupazione.
«Cazzo, Jordan! Ma lo vuoi capire che è cotto di te?» alzò la voce Catherine.
«Non mi interessa» dissi, «e poi non è cotto di me» aggiunsi.
«Sì, certamente». Catherine alzò gli occhi al cielo.
«O ci vai tu, o ci andiamo noi» prese posizione Julia. Suonò appena in tempo la campanella che ci avvisava che l’ora di mensa era appena terminata. Salvata dalla campanella, un classico.
«Va bene, non voglio assistere» mi alzai e mi diressi al piano di sopra, nella mia classe. Prima di andarmene mi voltai e vidi Catherine scrivere frettolosamente qualcosa su un pezzo di carta. Poi, insieme a Julia, si diressero verso Aaron e i suoi amici. Mi raggiunsero in classe qualche minuto dopo.
«Fatto!» mi assicurarono.
«Siete due deficienti».
Le ore, fortunatamente, non furono poi così pesanti e volarono abbastanza in fretta. Uscimmo fuori e percorremmo il viale ricoperto di ciottoli rotondi. Notai subito Aaron e i suoi compagni su una panchina. Ridevano. Catturai l’attenzione di Aaron, ma distolsi subito lo sguardo e cambiai direzione, quando si incamminò verso di me.
«Ehi!» mi urlò, sventolando un foglietto di carta. Fui costretta a fermarmi.
«Ehi» dissi piano.
«Molto dolce da parte tua, ma non capisco buona parte delle parole» mi mostrò il biglietto, sorridendo imbarazzato. Lo presi in mano, c’era scritta una frase in francese.
Par les soirs bleus d’été, j’irai dans les sentiers, Picoté par les blés, fouler l’herbe menue, Je ne parlerai pas, je ne penserai rien: Mais l’amour infini me montera dans l’âme.
Sospirai. «L’ha scritto la mia amica, non io. Comunque dice: Le sere azzurre d’estate, andrò per i sentieri, Punzecchiato dal grano, a calpestare erba fine, Non parlerò, non penserò a niente: Ma l’amore infinito mi salirà nell’anima. È una poesia» spiegai. Non riuscii a capire se ci fosse rimasto male o meno.
«Pensavo che saresti venuto tu a portarmi il biglietto» dissi ironicamente.
«Era più ad effetto con Alan» fece spallucce.
«Penso che mi tatuerò questa frase al più presto».
«Dici sul serio?» mi chiese meravigliato.
«Non saprei. Mi piace, ma devo pensarmela» pronunciai, portandomi una mano alla testa.
«Pensaci bene» mi raccomandò. Estrasse dalla tasca un pacchetto di sigarette, Marlboro precisamente, ne estrasse una e se la mise tra le labbra. Con l’altra mano frugò nella tasca dei jeans scuri  e tirò fuori un accendino. Accese la sua sigaretta.
«Vuoi che ti riporti a casa?» mi domandò, guardando verso l’autobus che stava andando via.
«Accidenti!» imprecai, «Tutta colpa tua» aggiunsi. Lui rise.
«Dai, ti do un passaggio» ridacchiò, mentre avvolse le mie spalle con il suo braccio.
«L’hai fatto apposta» sbuffai. Lui mi attirò ancora di più a sé. Il suo profumo dolce mi entrò nelle narici e lo respirai a pieno.
«Lo so». 

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Capitolo 12
*** Xll ***


Avevo appena chiuso la telefonata con mia madre quando Aaron svoltò pericolosamente a destra, andando verso un cunicolo per poi svoltare nuovamente e sbucare in una traversa più larga.
«Ma chi ti ha dato la patente?» mi lamentai.
«Scusa, piccola» rise.
«Dove stiamo andando?» domandai, riconoscendo che quello non era il tragitto da percorrere per arrivare a casa mia.
«Una piccola tappa, poi andiamo a casa» mi spiegò.
«Ma io devo studiare!» protestai.
«Tranquilla, principessa. Poi ti aiuto io»
«Dimmi almeno dove stiamo andando».
«A casa di una persona» si limitò a dire.
«Chi sarebbe?» domandai ancora, badando a non infastidirlo troppo.
«Una specie di amico» rispose. Guardai oltre il parabrezza: la strada che stavamo percorrendo era malridotta, non c’ero mai passata ed ero un po’ preoccupata.
«E cosa dovremmo andare a farci?» chiesi. Lui si spazientì, ma non perse la calma, nemmeno quando urtò con la macchina un vecchio bidone per la spazzatura tutto arrugginito. Sussultai per via del rumore.
«Tu niente. Mi aspetterai in macchina» rispose secco.
«E…» non riuscii a terminare la frase.
«Basta domande» disse. Io abbassai la testa, in preda alla vergogna.
Aaron spinse il freno a mano e si fermò davanti ad una casa scalcinata. Bussò violentemente, quasi buttò giù la porta. Sulla soglia uscì un uomo sulla cinquantina. Indossava una vestaglia sgualcita. Aveva i capelli brizzolati e la barba incolta. Teneva una bottiglia di vino in mano. L’uomo guardò verso la mia direzione ed io distolsi lo sguardo altrove. Aaron prese del denaro dalla tasca e glielo porse, sussurrando qualcosa che non riuscii a capire. Osservavo la scena da dietro il vetro della macchina, non riuscendo ad immaginare chi potesse essere quell’individuo e non riuscendo a leggere il labiale dei due. L’uomo fece per abbracciare Aaron, ma lui lo bloccò con i palmi delle mani. Aspettò che rientrasse per poi venire verso la macchina e raggiungermi. Salì in macchina, si posizionò sul sedile e mise subito in moto. Preferii non fare domande. Nella mia mente pensavo ai possibili collegamenti tra Aaron e quell’uomo. Talmente assorta nei miei pensieri non mi accorsi che eravamo arrivati davanti alla mia casa.
«Che hai?» mi scosse, riportandomi alla realtà. Mi guardai intorno, percependo che eravamo proprio nel mio quartiere.
«Tu lavori?» domandai di punto in bianco. Lui parve sconvolto dalla mia domanda.
«A volte do ripetizioni a qualche ragazzino. Perché?».
«Niente, niente» mi divulgai.
«Se vuoi ti do una mano a studiare» disse, mentre stavo scendendo dall’auto trascinando con me la tracolla. Acconsentii in segno di risposta. Mi sorrise.
«Grazie» sussurrai, non appena mi raggiunse in veranda con lo zaino nero su una spalla.
«Di niente, piccola» mi fece l’occhiolino.
Entrammo dentro subito dopo lo scatto della serratura. Alaska, zampettando sul pavimento, si precipitò subito verso di noi.
«Ciao, piccolina!» l’accarezzò Aaron. Lei gli leccò la mano, come per salutarlo. Mi abbassai e accarezzai anche io Alaska sulla testa. Leccò anche la mia mano. La raccolsi da terra e la portai con me al piano di sopra. Aaron mi seguiva, portando anche la mia tracolla, oltre al suo zaino.
Lui sistemò i suoi libri sulla scrivania mentre io presi posizione sul letto, dopo aver posato Alaska sul tappeto morbido vicino al letto.
«Quindi, da dove vuoi cominciare?» mi domando, sorridendo allegramente.
«È uguale» scrollai le spalle, mentre lui ruotava lentamente su se stesso sulla sedia girevole.
 
Alzò gli occhi dal suo libro di storia e li posizionò su di me, che frattanto stavo svolgendo i miei esercizi di matematica. Stavo coricata sul letto a pancia sotto con le gambe incrociate su di me. Aaron venne verso di me per vedere se stavo facendo correttamente. Mi spostai dalla posizione comoda e mi misi a sedere sul letto, facendogli spazio. Lui dopo averli guardati attentamente, approvò. Presi Alaska dal tappeto e me la misi sulle ginocchia.
«Sei bravo» ammisi, guardando la sua mano mentre impugnava la penna per scrivere qualche formula chimica sul mio quaderno.
«Così dicono» disse.
«Dove tieni le tue ripetizioni?» domandai curiosa.
«A casa mia, solitamente» rispose. Smise di scrivere e delicatamente toccò il muso di Alaska, che rispose al suo tocco con una leccata al suo dito.
«Vivi da solo?» chiesi sorpresa.
«Sì. Tu, però, non raccontarlo a nessuno» bisbigliò per non farsi sentire, come se ci fosse qualcun altro in stanza oltre a noi due e alla cagnolina.
«Cosa? Che vivi da solo?».
«No, scema» rise, «che do ripetizioni» aggiunse.
«Oh. E perché?» m’informai.
«Andiamo, io sono Aaron Mayson, ricordi?» rise. Io roteai gli occhi. Fui tentata di domandargli chi fosse quell’uomo a cui aveva dato quei soldi, ma scacciai subito quel pensiero, insicura di voler conoscere la risposta. Alaska passò dalle mie ginocchia a quelle di Aaron.
«Tu le piaci» dissi.
«Guarda che io piaccio a tutte» scherzò.
«Sei sempre il solito» sbuffai, dandogli un buffetto sulla spalla. Lui mi guardò insistentemente con i suoi occhi verdi, non sbattendo nemmeno un ciglio. Non riuscii a reggere il suo sguardo penetrante, tanto che arrossii. Rivolsi il mio sguardo ad Alaska.
«Su dai, ripetimi l’ultimo paragrafo, così finiamo» m’incitò. Rapidamente e in maniera concisa, evidenziando tutti gli aspetti più rilevanti, ripetei le ultime righe ad Aaron che si congratulò con me per aver appreso tutto alla perfezione.
«Sarà meglio che vada» disse, guardando il quadrante del suo orologio. Erano le 20:05. Prese il suo zaino e se lo caricò sulla spalla. Io annuii e insieme scendemmo le scale con Alaska che ci seguiva. Lo accompagnai fino alla porta.
«Grazie per avermi aiutato» mormorai.
«Figurati, piccola. Quando vuoi». Gli sorrisi istintivamente, non rendendomi nemmeno conto di averlo fatto.
«Grazie» dissi di nuovo, sentendomi stupida per aver ripetuto la stessa cosa due volte. Lui si avvicinò a me e posò un bacio sulle mie labbra. Fu delicato e io non mi opposi, sorprendendomi nuovamente di me stessa. Sentii un fremito lungo tutto quanto il corpo. Si staccò da me subito dopo. Tenevo ancora gli occhi chiusi.
«Passo a prenderti domattina. Ciao, piccola» mi sorrise.
«Ciao, Aaron» dissi. Chiusi la porta solamente quando la sua macchina scomparve in fondo alla strada. Richiusi la porta dietro di me e mi appoggiai ad essa scivolando fino ad accasciarmi a terra. Presi il cellulare dalla tasca e mi portai le ginocchia al mento. Sbloccai automaticamente lo schermo e vidi che avevo due messaggi, erano entrambi di Catherine.
Da: Catherine♥
Ore: 16:01
Oggetto: Drew Fox mi ha contattata. Ha chiesto il tuo numero.
 
Da: Catherine♥
Ore: 16:03
Oggetto: Ovviamente gliel’ho dato. Cazzo, è stupendo. Hai un culo! ;)
Spalancai gli occhi quando lessi il nome di Drew Fox, era il rappresentante di istituto della nostra scuola, nonché uno dei ragazzi più belli. Risposi immediatamente al messaggio di Catherine. L’idea che Drew Fox avesse chiesto il mio numero mi aveva mandato in confusione.
A: Catherine♥
Ore: 20:23
Oggetto: Scusami, ero con Aaron. Comunque, hai ragione, è da sbavo! :P
Mi alzai da terra e mi diressi verso la cucina. Il mio cellulare vibrò nuovamente. Sbloccai lo schermo e lessi il testo del messaggio di Catherine.
Da: Catherine♥
Ore: 20:26
Oggetto:  Mi ha detto che domani vorrebbe vederti. Gli ho detto che in mensa ci saremmo sedute con lui.
 
A: Catherine♥
Ore: 20:29
Oggetto: Fantastico! Sei una grande! ♥ 

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Capitolo 13
*** Xlll ***


Mi svegliai subito, non appena la sveglia suonò. Corsi subito in bagno a prepararmi. Il motivo della mia tanta agitazione era che dovevo vedermi con Drew Fox. Decisi di indossare un paio di jeans chiari e stretti, una camicia nera non abbottonata del tutto e gli stivaletti neri con le borchie. Lasciai i capelli ondulati ricadere sulle spalle. Misi un filo di eye-liner e un po’ di blush sulle gote.
Scesi velocemente le scale e andai in cucina dove versai dei croccantini nella ciotola di Alaska. Il clacson della macchina di Aaron mi spinse a darmi una mossa. Indossai la giacca di pelle nera e afferrando la tracolla mi catapultai fuori dalla porta.
Feci un sospiro di sollievo non appena mi posizionai sul sedile.
«Wow» disse Aaron guardandomi. Si soffermò sul mio petto, forse avevo esagerato con la scollatura.
«Smettila» sbuffai. Lui mise in moto.
«Quanto porti? Una seconda? Una terza?» sghignazzò.
«Non sono affari tuoi, idiota» imprecai.
«Uh. Ti sei alzata con il piede sbagliato?» scherzò. Io lo guardai in cagnesco.
«Comunque, se vi va, potete sedervi con noi in mensa» disse, dopo un po’ di silenzio, «Tu e le tue amiche, intendo» aggiunse subito dopo.
«Spiacente, siamo già state invitate» spiegai.
«Vi siederete con qualche ragazzina a parlare di smalti, permanenti e quella roba lì?» rise.
«No, caro. Ci siederemo con Drew Fox» dissi con aria e voce sognante.
«Cosa? Quel coglione?» spalancò gli occhi.
«Sta’ zitto, che non lo conosci neppure!» esclamai.
«Tu, invece, lo conosci bene?» mi ammutolì severamente.
«Be’, di vista» ammisi. Lui non controbatté più ed io incrociai le braccia e buttai la schiena sul sedile.
Arrivati davanti al cancello della scuola, ci salutammo freddamente. Lui raggiunse Alan e gli altri sulla solita panchina ed io mi diressi verso la fontana, dove c’erano Catherine e Julia.
«Tutto bene?» mi chiesero, non appena mi videro arrivare. Io annuii.
«Guarda, Drew è laggiù» mi disse Catherine all’orecchio, indicando l’albero su cui era appoggiato.
«Stamattina è venuto da noi a chiederci di te» sussurrò Julia estasiata.
«Ma perché non viene da me direttamente!» esclamai. Ero lusingata dal fatto che Drew si informasse su di me, ma avrei di gran lunga preferito che fosse lui personalmente a chiedermi come stavo o cosa facevo.
«Chi li capisce i ragazzi» parlò Catherine, scuotendo la testa. Guardai di nuovo nella direzione dell’albero. Drew stava elegantemente appoggiato al tronco, con un ginocchio sollevato. Indossava dei jeans scusi, strappati sulle ginocchia e una maglietta bianca. Portava gli occhiali da sole, nonostante la giornata non fosse particolarmente soleggiata.
«Se vuoi andiamo a salutarlo» propose Julia.
«No, siete pazze» mi opposi a quell’idea.
«Oppure possiamo passare lì davanti e vedere come si comporta» progettò Catherine.
«Mm. Si può fare» dissi. Julia annuì.
Passammo davanti a Drew e i suoi amici cercando di non dare troppo nell’occhio.
«Jordan!» qualcuno urlò, una voce maschile tremendamente virile. Sussultando, mi girai di scatto. Vidi Drew venirmi incontro. Mi voltai nuovamente verso le ragazze, ma stavano andando via a passo svelto. E ti pareva.
«Scusa, non volevo spaventarti» disse, togliendosi gli occhiali e portandosi la mano dietro la testa.
«Tranquillo» risposi arrossendo. Dalla maglietta bianca si intravedevano i suoi pettorali.
«Sono Drew, comunque» mi porse una mano, che debolmente gli strinsi. I suoi occhi grigi squadrarono tutto il mio corpo.
«Jordan» dissi piano.
«Sì, lo so» parlò lui. Dondolai leggermente su me stessa.
«Ti accompagno in classe, se ti va» continuò. Io acconsentii, incapace di pronunciare parola alla vista di quelle labbra così dannatamente perfette. La campanella suonò. Io e Drew ci incamminammo verso le scale, e varcammo la soglia oltre al portone.
«Ci vediamo dopo, bellissima» mi salutò con un bacio sulla guancia e poi si diresse verso la sua classe.
«A dopo» dissi piano, le mie gote presero letteralmente fuoco.
Una mano mi afferrò il braccio violentemente, trascinandomi dietro a un pilastro.
«Ci vediamo dopo, bellissima» disse Aaron, ridicolizzando la voce di Drew.
«Non ti hanno insegnato che non si pedina la gente?» berciai acidamente.
«No. Non me l’hanno insegnato» rise. Impugnò saldamente i miei polsi.
«Lasciami andare, Aaron» supplicai debolmente. I suoi occhi verdi inchiodarono i miei.
«Andiamo, amore, non può piacerti quell’idiota» fece.
«Non mi piace Drew, e smettila di chiamarmi amore» mi arrabbiai.
«Sicuramente tu gli piaci» disse. Vidi un luccichio nei suoi occhi.
«Magari, è così sexy!» esclamai.
«Dio, non ci posso credere» scosse la testa, mentre lasciò andare i miei polsi.
«Te l’avevo detto che tra di noi non ci sarebbe stato niente» spigai. Mi sentii tremendamente in colpa a dire quelle cose. Aaron finora mi aveva fatto uno strano effetto, ma ora era arrivato Drew a scombussolare nuovamente le cose.
«Senti, fammi andare in classe» dissi. Mi voltai e mi incamminai verso la mia aula, non girandomi più.
«Scusi il ritardo, professoressa» mi scusai, non appena entrai in aula. Lei mi guardò severamente e non appena mi andai a sedere vicino a Catherine continuò la sua spiegazione.
«Eri con Drew?» mi chiese maliziosamente Catherine.
«No, con Aaron» sussurrai.
«Tesoro, devi scegliere. Non puoi barcamenare tra due ragazzi» mi spiegò. Ripensai al bacio di Aaron e alla conversazione con Drew.
«Poi si vedrà» mi limitai a dire.
«Svegliati, Jordan. Drew è un incanto, ma è quello che vuoi?» Catherine mi riportò alla realtà.
«Io non lo so» mi arresi all’incoerenza di Catherine.
«Vedi come va con lui, potrebbe essere interessante».
 
Scendemmo velocemente in mensa. Presi la mia porzione di pasta e mi diressi verso il tavolo di Drew.
«Come sto?» chiesi nervosa a Catherine.
«Bene, ma tranquillizzati» mi consigliò. Julia approvò.
«Ciao, ragazzi!» esclamò Catherine non appena giungemmo al tavolo di Drew. Assieme a lui c’era un altro ragazzo che ci sorrise. Era Ian Walker, il vice rappresentante di istituto, biondo con gli occhi azzurri, anche lui considerato uno dei ragazzi più affascinanti della scuola.
«Ehi» fece lui, guardando nella mia direzione, «Jordan, ti ho tenuto il posto» soggiunse subito dopo. Tenendo il vassoio in mano andai a sedermi accanto a lui.
«Grazie» sussurrai. Vidi Aaron seduto in un tavolo lontano dal nostro, era seduto con Alan e gli altri componenti della squadra di basket. Stavano ridendo. Forse non si era ancora accorto di me. In un tavolo all’angolo c’era Luke. Mi immobilizzai a quella vista, credevo che anche lui avesse abbandonato la scuola, mi ritornò in mente quella notte in quel locale, Aaron che picchiava Luke e poi quella sera in quel cunicolo buio, Luke che picchiava Aaron. Era seduto con due ragazzi e una ragazza; le sue ferite sembravano del tutto guarite.
«Jordan» mi scosse Drew. Ritornai alla realtà, non mi resi conto di aver fissato Aaron per più di cinque minuti.
«Oh, scusami» dissi piano.
«Tutto bene? Non hai toccato niente» indicò il mio piatto, ancora pieno di pasta.
«Tutto okay, non ho fame» sorrisi. Julia mi guardò, facendomi segno di interferire con Drew, mentre Catherine aveva attaccato conversazione con Ian.

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Capitolo 14
*** XlV ***


Drew Fox insistette per accompagnarmi a casa con la sua moto, io accettai entusiasta, non riuscendo a smettere di sorridere nemmeno per un attimo. Uscimmo sul retro del cortile, dove era riservata l’area per parcheggiare. La sua Yamaha blu elettrico luccicava alla luce del sole.
«Ecco, tieni» mi porse il suo casco, nero e lucido con lo stemma dei Chicago Bulls stampato sopra. Lo indossai sulla testa e strinsi il cinturino di sicurezza. Salii subito dopo di lui, mi stabilizzai meglio sul sellino e cercai dietro di me le maniglie per tenermi, ma mi resi conto che non c’erano, quindi dovetti aggrapparmi alla sua vita, molto volentieri tra l’altro. Sentii sotto le mie mani il suo addome tonico e ben scolpito.
«Pronta?» disse Drew sorridendo, io acconsentii, stringendomi ancora di più a lui. Drew fece per accelerare, ma qualcosa lo fermò. Un ragazzo si presentò davanti a noi, aprendo il palmo per farci fermare. Strinsi gli occhi per mettere a fuoco la figura davanti a noi, poiché il casco non mi permetteva una visuale eccellente, era Aaron. Sbuffai pesantemente, infastidita dalla sua presenza.
«Ma che cazzo fai?» urlò Drew, frenando di colpo.
«Falla scendere subito» ordinò lui, non preoccupandosi del fatto che stava per essere investito.
«Aaron, vai via, per favore» intervenni. Lo osservai con uno sguardo di biasimo, ma che lui non colse.
«Ci stavi spiando?» disse stupito Drew.
«Scendi immediatamente, Jordan. È pericoloso!» mi rimproverò.
«Smettila di seguirmi, non sono una bambina!» gridai.
Aaron si precipitò verso di noi, mi afferrò un braccio e con violenza mi fece scendere dal sellino della moto. Barcollai leggermente, ma ripresi subito l’equilibrio. Attirammo l’attenzione di alcuni studenti che passavano.
«Non farlo mai più, piccola» disse, carezzandomi la guancia. Fece per slacciare il cinturino del casco, ma io glielo impedii, respingendolo con i palmi delle mani.
«Aaron, spiegami che problema hai. So badare a me stessa» sbottai e subito dopo incrociai le braccia.
«Jordan, sali, ti accompagno» parlò Drew. Mi imbarazzò parecchio che Drew dovesse assistere a quelle sceneggiate di gelosia assurde.
«Coglione, ho detto che lei lì non ci sale!» alzò la voce Aaron.
«Aaron, smettila» supplicai.
«Mi sto solamente preoccupando, potresti cadere!» esclamò.
«Con me sarebbe in pericolo? E con te? No? Tu che massacri di pugni la gente» sputò, «Lo sanno tutti quello che hai fatto a Luke» continuò. Sapevo che quelle parole lo avevano provocato e anche parecchio, subito mi preoccupai per l’incolumità di Drew. Pensai di controbattere, certamente Drew non era a conoscenza di ciò che aveva fatto Luke ad Aaron, ma decretai che sarebbe stato meglio se non mi fossi immischiata più di tanto, poi pensai che ad Aaron non avrebbe fatto piacere il fatto che io andassi a raccontare in giro che era stato preso a pugni e che poi una ragazza più piccola lo aveva difeso.
«Stronzo, non dirlo mai più» ringhiò. I suoi occhi s’incupirono.
«Aaron, ti prego, non farlo» supplicai quando vidi la sua mascella tendersi e le sue nocche sbiancarsi. Mi precipitai verso di lui sussurrandogli di non perdere il controllo. I suoi lineamenti si ammorbidirono quando gli parlai e i suoi occhi tornarono a brillare. Aaron, per fortuna, si calmò e non picchiò Drew. Un sospiro di sollievo lasciò le mie labbra.
«Andiamo, amore» disse Aaron, circondandomi le spalle con il suo braccio forte.
«Mayson, andiamo, sei patetico. Non è la tua ragazza» parlò Drew. Aaron si limitò a rivolgergli un’occhiataccia fredda e severa che lo ammutolì. Io li guardai entrambi, incapace di decidere da che parte stare. Mi divincolai dal braccio di Aaron e li guardai nuovamente negli occhi. Gli occhi grigi di Drew fissavano a terra e con il piede cacciò violentemente un sasso che colpì lo pneumatico di un’auto lì vicino. D’altra parte c’era Aaron, le sue iridi smeraldine erano puntate su di me, il suo sguardo mi parve sofferente, vuoto. Iniziai a fissarmi i piedi, come se la punta degli stivaletti che indossavo fosse la cosa più interessante del mondo.
«Drew» iniziai, «ci vediamo domani» gli sorrisi. Lui sbuffò e biascicò un A domani forzato, gli sorrisi un’altra volta. Mi tolsi il casco e lo porsi a Drew, mimando la parola ‘scusa’ con la bocca e sorridendo nuovamente, lui salì in sella alla sua moto e partì velocemente, lasciando a noi una bassa nube di polvere. Pensavo a come avrebbe potuto reagire, chissà, fosse non mi voleva nemmeno più vedere.
«Sapevo che avresti lasciato stare quel coglione» disse Aaron, ridendo. Era esattamente di fronte a me. La mia mano fu in contatto con la sua mascella in un sonoro schiaffo che provocò lo stupore di entrambi. Mi voltai e mi incamminai verso il cancello, quando la mano di Aaron saldamente impugnò il mio polso.
«Ma che ti prende?» domandò urlando. Lo guardai in faccia, il rossore causato dalla mia manata si era esteso su tutto il viso.
«Che mi prende? Ti rendi conto di quanto sei ridicolo?» gridai furiosa.
«Jordan, io non capisco» balbettò confuso, strinse forte la mia mano, ma io non mi accorsi di niente, talmente ero presa dalla rabbia.
«Da un momento all’altro ti presenti qui e mi impedisci di salire su una moto, a momenti prendevi a pugni Drew. Io esco con chi voglio, cazzo!» esclamai, agitando velocemente la mano libera in aria.
«Ma non lo capisci che lo faccio per te? Io voglio proteggerti» disse. Mi attirò bruscamente a sé, eravamo pericolosamente vicini. Le nostre labbra distavano due centimetri tra loro. Poggiai una mano sul suo petto, percepii perfettamente il movimento che eseguiva il suo respiro e la sua cassa toracica che si alzava e abbassava ritmicamente. Il mio nome uscì in un piccolo soffio dalla sua bocca, il suo alito fresco di menta mi inebriò. In quel momento non pensai a niente e non mi passò nemmeno per la testa di provare a respingerlo. Le sue labbra catturarono presto le mie, morse il mio labbro inferiore, fu lì che riuscii a recuperare di nuovo il controllo delle mie azioni. Lo respinsi fortemente. Le mie labbra si staccarono dalle sue, provocando la fuoriuscita di un gemito da parte sua.
«Aaron, smettila con queste stronzate!». Le sue parole mi avevano scosso e anche il suo bacio, ma non poteva andare avanti così. Io non sarei andata a letto con lui, doveva metterselo in quella testa. Adesso ero arrabbiata anche con me stessa, ci cascavo ogni volta che mi ripromettevo di non farlo.
«Senti, devo andare. Ho mal di testa» parlai, portandomi una mano al capo.
«Vuoi che ti accompagni?» si offrì.
«No, Aaron. No» rifiutai. 
«Ma perché ti comporti così? Un momento prima mi dai uno schiaffo, poi ti lasci baciare e ora ti incazzi di nuovo. Io non so che devo fare» disse lui con tono sofferente.
«Te l’ho già detto, Aaron. Lasciami in pace».
«Ti prometto che cambierò» enfatizzò. Risi per la ridicolezza di quella scena.
«Non devi cambiare per me» sussurrai. Me ne andai senza voltarmi, lasciando Aaron da solo in mezzo al parcheggio. Mi morsi il labbro per il nervosismo, ripensando a quel bacio. Non sapevo quanto avesse intenzione di rimanere lì, ma io sarei tornata a casa a piedi. Lungo il mio tragitto pensai anche a Drew, Catherine aveva ragione, non poteva più andare così, io dovevo decidere da quale parte stare. 

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Capitolo 15
*** XV ***


«Ma che stai dicendo?» domandò sbalordita Catherine. Stavo raccontando alle ragazze cosa era accaduto il giorno precedente.
«Non ci posso credere!» esclamò Julia. Io e le ragazze sedevamo su una panchina di legno nel cortile della scuola, aspettando che la campanella suonasse.
«Non so che fare» ammisi demoralizzate.
«Potresti uscire con me» una voce estremamente virile piombò alle mie spalle. Balzai in aria, colta all’improvviso. Mi voltai e vidi due iridi grigie, incorniciate da ciglia scure, fissarmi. Mi rivolse un sorriso, mostrandomi i denti bianchi e dritti. Il suo torace era fasciato dal tessuto di una maglietta nera, alle gambe portava dei jeans scuri e strappati sulle ginocchia, mentre ai piedi indossava degli anfibi.
«Drew» dissi piano, probabilmente arrossendo.
«Scusa, non volevo spaventarti».
«Non ti preoccupare» la mia voce uscì non volutamente mielosa.
«Be’, noi ti aspettiamo dentro» parlò Catherine, trascinando con sé Julia.
«Allora, ti va?» mi chiese, sorridendo.
«C-Cosa?» balbettai, in quel momento non capii.
«Di uscire con me, ti andrebbe?» rise.
«Ah, sì, okay. Certo, volevo dire» farfugliai. Nonostante il leggero venticello, cominciai a sentire caldo.
«Va bene stasera?».
«Perfetto» dissi. Questa volta cercai di controllarmi, cercando di non dare risposte idiote.
«Okay, lasciami il tuo indirizzo; così passo a prenderti» ammiccò. Presi la mia agenda dalla tracolla, alla quale strappai una pagina dove scrissi la via e il numero civico.
«Ecco a te» gli porsi il foglietto. Lui lo conservò in tasca. Ci incamminammo insieme verso l’entrata ed io sfruttai l’occasione di essere sola con lui per scusarmi per quanto accaduto il giorno prima.
«Ci vediamo in mensa, bellissima» le sue labbra premettero sulla mia guancia, che prese un colorito rosato, estendendosi poi su gran parte del viso. Lo salutai con un cenno della mano, non riuscendo a dire niente. Lo vidi scomparire in fondo al corridoio, poi mi decisi a entrare nella mia classe.
«Allora, che ti ha detto?» mi sussurrò Catherine, mentre prendevo i libri dalla tracolla.
«Niente di che, vuole vedermi stasera» spiegai, nel frattempo presi un quaderno per gli appunti.
«E tu?».
«Gli ho detto che andava bene» dissi.
«Non mi sembri molto estasiata» indugiò.
«Lo sono, invece» aggrottai le sopracciglia.
«È per Aaron, vero?» domandò lei.
«Io e Aaron siamo solamente amici» dissi infastidita.
«Certo, giustamente tu baci gli amici» roteò gli occhi.
«È stato lui a baciarmi» controbattei.
«Ma tu non hai fatto niente per respingerlo» ribatté.
«Catherine, cambiamo discorso» proposi.
«Come vuoi».
In quel momento il mio cellulare vibrò. Lo estrassi dalla tasca e cercando di non farmi beccare dalla professoressa di fisica, lessi il testo del messaggio.
Da: Aaron
Ore: 10:01
Oggetto: Vieni in corridoio, per favore.
Era strano quel messaggio, questa volta non si era firmato e non aveva lasciato il cuoricino. Insicura sul fatto di voler uscire o meno, alzai ugualmente la mano, chiedendo il permesso di andare in bagno. Sotto gli occhi insospettiti di Catherine, uscii dall’aula. Mi incamminai verso la fine del corridoio, dove la figura di Aaron, appoggiata a un distributore di bevande, mi stava aspettando.
«Che succede?» dissi, incrociando le braccia. Anche se in fondo ero preoccupata, non volli darlo a vedere.
«Stamattina ero passato a prenderti, ma non c’era nessuno a casa» cominciò, senza muoversi dalla sua posizione.
«Sono andata con l’autobus» spiegai.
«Perché?» mi chiese duramente.
«Pensavo che avessimo chiarito» sospirai pesantemente.
«Non sarà chiaro fino a quando quell’idiota ti starà fra i piedi» disse con voce spezzata.
«Aaron, devo tornare in classe» sussurrai, cercando di sfuggire a quella che poi era una scenata di gelosia mista a rabbia.
«Tu non vai da nessuna parte!» il pugno di Aaron colpì la parete metallica del distributore, provocando un sonoro rumore.
«Smettila, Aaron!» esclamai, mentre lui colpì con un calcio il cestino della spazzatura che finì a terra, rovesciando sul pavimento il suo contenuto: bicchieri, fazzoletti, carta straccia. Lui non badò al mio rimprovero, poiché sferzò un altro pugno contro il distributore, provocando un altro tonfo che echeggiò per tutto quanto il corridoio.
«Stai esagerando, Aaron! Smettila!» quasi urlai. Mi misi una mano in fronte, chiedendomi che diavolo avrei dovuto fare. Lui corse subito da me, superò quel metro che ci separava. Mi abbracciò talmente forte che quasi persi l’equilibrio. Le sue braccia forti, gettate attorno al mio collo, mi fecero sentire protetta e al sicuro. Esitai un po’ prima di ricambiare il suo gesto, ma poi mi decisi e circondai la sua schiena con le mie braccia. Mi strinse ancora più forte.
«Dormi con me stanotte» sussurrò al mio orecchio. Mi irrigidii completamente, formicolii e brividi invasero tutto il mio corpo.
«Esco con Drew stasera» dissi, questa volta fu lui a irrigidirsi.
«Ti prego» sussurrò con voce sempre più flebile e sensuale. Mordicchiò il lobo del mio orecchio destro, leccando la parte sottostante.
«Aaron» respirai a fondo. Un gemito lasciò le mie labbra quando la sua lingua tracciò una circonferenza sulla pelle sottostante l’orecchio.
«Okay» mi convinsi, «ma prima uscirò con Drew» aggiunsi. Riuscii a percepire il suo ghigno sulla pelle. Aveva vinto un’altra volta.
«Tieni» mormorò, porgendomi un foglietto di carta stropicciato. La grafia disordinata indicava l’indirizzo e il numero civico.
«Avevi già intenzione di propormi questa cosa assurda?» domandai. Lui rise.
«Non si accettano ripensamenti» disse lui, continuando a ridere.
«Non hai risposto alla mia domanda». Lui guardò l’orologio, poi mi guardò.
«È da quindici minuti che sei fuori, credo sia ora di rientrare» parlò Aaron, evitando un’altra volta la mia domanda. Erano passati quasi venti minuti da quando ero uscita dalla classe, avrei dovuto dare una bella spiegazione e inventarmi un paio di scuse da fornire all’insegnante. Mimai un Ti odio con la bocca e a passo svelto mi diressi verso la mia classe.
«Scusi il ritardo, professoressa. Ho avuto un piccolo malore» dissi con voce sofferente mentre mi massaggiavo lo stomaco. Scusa banale, ma efficace a quanto pare. Sotto gli sguardi sospetti di tutti i miei compagni e quello omicida di Catherine, andai a sedermi al mio posto.
«Dove cazzo sei stata tutto ‘sto tempo?» mi interrogò furiosa.
«Aaron voleva vedermi» spiegai.
«Avete litigato?» s’informò.
«No, abbiamo soltanto parlato». Cercai di dire a Catherine che stanotte sarei andata a dormire da Aaron, ma non mi venne in mente nessuna frase che potesse riassumere tutto ciò delicatamente, così sbottai tutto ciò che ci eravamo detti. Le mostrai anche il foglietto con l’indirizzo. Catherine spalancò gli occhi.
«Non posso credere che tu abbia accettato!» quasi gridò, infatti, ci procurammo gli sguardi di rimprovero dalla professoressa.
«Non posso crederci nemmeno io» ammisi stupefatta.
«Reggiseno e mutandine coordinati, mi raccomando» mi fece l’occhiolino.
«Non ho intenzione di fare sesso con lui» sbuffai acidamente.
«Non si sa mai». 

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Capitolo 16
*** XVl ***


Erano quasi le otto di sera, ed io non avevo la minima idea di cosa mettermi per l’appuntamento con Drew. Optai alla fine per una gonna nera e una blusa rossa semitrasparente, e abbinai delle decolleté nere. Mi truccai giusto un pochino, un velo di ombretto, un filo di mascara e un po’ di rossetto per valorizzare le labbra e per fare pendant con la blusa.
Erano esattamente le 20:15, quando Drew suonò al campanello. Mi precipitai ad aprire, lasciando dietro di me una scia di profumo, mentre il risuonare dei tacchi echeggiava per tutta la stanza. Mi assicurai che fosse tutto a posto prima di lasciare l’appartamento. Spensi le luci e mi dedicai a Drew.
«Buonasera» disse piano, passandosi una mano tra i capelli folti e morbidi. Era piuttosto affascinante, indossava i jeans scuri, una camicia bianca e una giacca nera.
«Ehi» sussurrai, dondolandomi su me stessa.
«Sei bellissima, come sempre» mi disse mentre mi aiutava a salire sulla Yamaha. Feci un po’ di fatica a salire sulla moto, poiché il mio abbigliamento non era del più comodo.
«Grazie» mormorai, afferrando il casco. Lo indossai e mi aggrappai alla schiena di Drew che subito partì, lasciandosi indietro una scia di polvere e fumo.
Il tragitto in moto fu piuttosto breve, il vento ci scompigliava i capelli, mi strinsi di più a Drew quando sentii una sensazione di pelle d’oca su tutto il corpo. Quando arrivammo, lui mi aiutò a scendere. Avvolse un braccio intorno alle mie spalle e insieme ci dirigemmo verso la porta di quel locale.
«Bello qui» dissi mentre occupavamo posto a un tavolo per due. Cercai di interrompere il silenzio, diventato ormai imbarazzante. Mi guardai intorno, un piccolo ristorantino di città, completamente diverso da quello in cui mi aveva portato Aaron la prima volta che eravamo usciti insieme. Il nostro tavolo era rotondo, sul quale era stesa una tovaglia color avorio. Sopra la tovaglia c’erano le posate e i bicchieri per lo champagne. Drew spostò la sedia, spingendola verso il tavolo subito dopo che mi sedetti. Niente candele e niente petali di rosa, al contrario di Aaron.
«Cosa vuoi?» mi chiese gentilmente, indicandomi il menù a destra del piatto. Lo aprii e lessi i vari antipasti, poi mi basai su quello che aveva scelto lui. Drew prese i nostri calici e ci versò dentro lo champagne, poi me ne porse uno. Sorseggiai lentamente, mentre lo fissavo negli occhi cenerini.
«Che vorresti fare all’università?» gli chiesi, giusto per conoscerlo un po’ di più e per colmare quel silenzio che oramai era diventato imbarazzante.
«Aspirerei a diventare magistrato» rispose fiero, «E tu?» aggiunse subito dopo.
«Devo pensarmela» mi limitai a rispondere. Lui annuì lentamente con il capo.
«Buono, vero?» mi domandò, riferendosi allo champagne. Ne sorseggiai un altro po’, acconsentendo con la testa e sorridendo con approvazione. La sua mano lentamente scivolò sulla tovaglia, depositandola sopra alla mia, stringendola lievemente. Penso che avvertì la mia tensione, giacché la ritrasse qualche secondo dopo.
Trascorremmo la serata parlando del più e del meno. Una volta usciti, mi strinsi ancora di più nella mia giacchetta di pelle, poi lui mi aiutò a salire sulla sua moto.
«Grazie per la serata» lo ringraziai e sorridendo strinsi le mani attorno al suo girovita. Era circa mezzanotte quando arrivammo nella via dove si trovava l’appartamento di Aaron. Gli avevo dettato le indicazioni durante il viaggio e gli avevo mentito, dicendogli che andavo a dormire a casa di una mia compagna, invece che da Aaron Mayson. Mi sentii in colpa, se lo avesse saputo, sicuramente non mi avrebbe più rivolto un misero sguardo. Scesi attentamente dalla moto, cercando di non stramazzare a terra. Slacciai il cinturino di sicurezza del casco e glielo porsi. Lui mi attirò a sé, cogliendomi di sorpresa e facendomi sussultare. Strinse il suo braccio attorno alla mia vita e il mio petto sbatté contro il suo torace.
«Wow!» esclamò. Subito dopo poggiò le sue labbra sulle mie. Rabbrividii, velocemente mi staccai da lui, ancora un po’ scossa. Da un lato mi sentivo lusingata, perché uno dei ragazzi più belli mi aveva appena baciata, dall’altra mi sentii in colpa, perché fra poco sarei andata da un altro ragazzo.
«No, non ancora» sussurrai lievemente.
«Scusa, non volevo metterti fretta» arrossì.
«Devo andare, buonanotte» dissi, incurvando gli angoli della bocca in un sorriso più che forzato.
«Ci vediamo domani, bellissima» mi salutò con un bacio sulla guancia. A passo svelto mi diressi verso la porta dell’appartamento di Aaron, mentre mi giravo continuamente per vedere quanto lontano fosse Drew. Era abbastanza distante da me, quindi mi decisi a suonare il campanello. Qualche secondo dopo qualcuno venne ad aprire.
«Ciao, piccola» pronunciò con voce seducente. Indossava una tuta e una maglietta con il logo dei Rolling Stones, un po’ sbiadita.
«Ciao, Aaron». In quel momento mi pentii di aver accettato il suo invito, trovandomi completamente non a mio agio.
«Entra» m’invitò. A passi piccoli e brevi percorsi il modesto corridoio per arrivare in salotto, mentre lui richiuse la porta. Mi osservai intorno, niente era come immaginavo. Era tutto in perfetto ordine, lo zaino e i libri erano poggiati ai piedi del divano, rosso e vellutato. Il salotto e la cucina erano comunicanti e al centro di quest’ultima si trovava un’isola.
«Carino» dissi, guardandomi ancora intorno.
«Dai, vieni, ti do qualcosa per dormire». Sussurrai un grazie e lo seguii in quella che presumo fosse la sua camera da letto. Entrai in quella stanza abbastanza spaziosa, dove al centro era situato un letto matrimoniale completamente disfatto.
«Scusami, oggi non ho trovato il tempo di sistemare» disse imbarazzato. Io gli sorrisi, ancora incapace di parlare. Cercò qualcosa dentro l’armadio. Mi lanciò una maglietta grigia che afferrai al volo.
«Questa dovrebbe andare bene» convinse più se stesso che me. Restò a fissarmi per qualche secondo, in attesa che mi spogliassi davanti a lui.
«Girati!» gli ordinai.
«Andiamo, Jordan, ti vedrò nuda prima o poi» rise.
«Girati, ho detto» lo esortai di nuovo. Lui sbuffò, poi finalmente si decise a voltarsi. Velocemente mi tolsi le scarpe, mi sfilai la blusa e subito infilai la maglietta di Aaron. Agilmente tolsi anche la gonna. In quel momento lui si girò di scatto.
«Accidenti! Sono stato troppo lento» imprecò scherzosamente. La maglietta di Aaron mi arrivava a un po’ meno della metà della coscia.
«Non è che avresti qualcos’altro da mettere sotto?» domandai, «E dei calzini» soggiunsi. Lui si avvicinò a un mobile con dei cassetti. Aprì il primo e mi tirò i pantaloni di una tuta. Prima di lanciarmeli mi scrutò diligentemente. Li acciuffai per un pelo.
«Non potresti porgermeli gentilmente, invece che lanciarmeli?» sbuffai, provocando la sua risata.
«Tieni, piccola» mi porse anche un paio di calzini neri, dopo che indossai i pantaloni della tuta sotto il suo sguardo vigile.
«Grazie» sussurrai, tornando nuovamente allo stato di imbarazzo.
«Vieni qui» tornò serio. Un po’ titubante mi avvicinai a lui, che fece premere la mia schiena contro il suo petto. Mi immobilizzai completamente al contatto di qualcosa di duro che premeva forte contro il mio sedere.
«Senti quanto ti voglio?» sussurrò al mio orecchio con voce accattivante. Mi liberai della sua presa, imprecando contro di lui che rise forte non appena vide le mie guance prendere fuoco.
«Tu sei tutto malato!» berciai. La sua risata fragorosa rimbombò in tutta la stanza.
«Scusa, devo andare in bagno» disse, ghignando ancora maliziosamente, mentre io lo aspettavo nella sua camera. 

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Capitolo 17
*** XVll ***


Aaron era appena uscito dal bagno con un paio di pantaloni della tuta puliti ed io ero immobile davanti al lato del letto, con i piedi incollati al pavimento.
«Puoi coricarti, eh» mi incoraggiò Aaron, che nel frattempo si era già stabilizzato comodamente sul letto. Si era tirato il lenzuolo fin sopra le spalle, nonostante nella stanza ci fosse un bel calduccio alquanto piacevole. Alzai il lenzuolo con la mano e feci per infilarmi dentro.
«O-Okay» farfugliai. Maldestramente scivolai sotto il lenzuolo bianco, mantenendo una notevole distanza tra il mio corpo e quello di Aaron, giusto per prudenza. Ero incredibilmente in imbarazzo.
«Puoi avvicinarti, così rischi di cadere» mi avvisò, con fare malizioso.
«Non azzardarti a sfiorarmi» lo raccomandai severamente. Lui alzò il sopracciglio destro, in segno di sfida.
«Altrimenti?» disse con tono cantilenante, sempre cercando di sfidarmi.
«Me ne vado» affermai.
«Ed io verrò a riprenderti» disse. La sua mano scivolò sotto il lenzuolo, insediandosi sulla mia coscia. Istintivamente ritrassi l’arto, guardai Aaron in cagnesco. Provocai la sua risata fragorosa.
«È l’ultima volta che ti assecondo nelle tue pazzie, ti avverto» lo rimproverai. Lui rise e spense l’abat-jour. Nella stanza calò una sorta di penombra, riuscivo ancora a vedere la sua figura, anche se non nitidamente.
«Buonanotte, amore» sussurrò Aaron.
«’Notte» dissi piano. Mi voltai di fianco, con il volto rivolto verso la finestra. Inutile dire che non riuscii a prendere sonno, stavo sempre allerta, timorosa di qualche mossa improvvisa e inopportuna di Aaron. Mi voltai, facendo poggiare la mia schiena sul materasso. Notai che anche Aaron aveva la mia stessa posizione, con le mani incrociate sotto la testa, guardava il soffitto. Era ancora sveglio, nemmeno lui evidentemente era riuscito a prendere sonno.
«Mi è impossibile riuscire a dormire sapendo che c’è una bellissima ragazza affianco a me e non poterla nemmeno sfiorare» sussurrò.
«Sei il solito pervertito» sbuffai, lui rise.
«Posso farti una domanda?» mi chiese dopo alcuni istanti di silenzio.
«Certo» dissi.
«Sei vergine?» mi domandò, percepii dal suo tono una lieve risata. Sinceramente non immaginavo che volesse chiedermi proprio questa cosa. Scossa da questa domanda molto intima, mi imbarazzai talmente tanto che mi innervosii.
«Ma che te ne frega!» esclamai. Lui rise ancora più forte. Scossi la testa, impaziente.
«Lo prendo come un sì» proferì, «anche perché si nota» aggiunse subito dopo.
«In che senso?» gli domandai, sistemandomi il lenzuolo sulle braccia.
«In nessun senso, si vede che non sei la solita puttanella» disse, smettendo di ridere.
«È un complimento?» chiesi. Mi voltai sull’altro fianco, in modo da poterlo osservare meglio, lui mantenne il suo sguardo puntato su di me per tutta quanta la conversazione.
«Be’, credo di sì» ammise.
«Adesso ti faccio io una domanda» presi l’iniziativa. Dapprima non volevo chiederglielo, ma poi alla fine mi convinsi.
«Vai».
«Con quante ragazze sei stato a letto?» m’informai, insicura di voler veramente conoscere la risposta.
«Mm, difficile. Lindsay, Ellen, Alice, Emily, Hazel, Britney… parecchie» disse, elencando una serie di nomi contandole sulle dita delle mani, dopo le prime dieci persi il conto.
«Hanno tutte una certa fama» dissi, alludendo a qualche mia possibile conoscente. Anche se non mi aveva detto il cognome, alcune ragazze godevano di una certa notorietà all’interno della mia scuola, per cui si poteva risalire alla ragazza senza nemmeno conoscere il nome completo. Ad esempio, Emily era sicuramente la prima delle cheerleader. Era una bellissima ragazza dopotutto, aveva due occhi talmente azzurri che ti ghiacciavano non appena ti guardavano. Britney, invece, doveva essere la rappresentante di qualche consulta, anche lei era molto carina, con la sua pelle ambrata e gli scuri, ma soprattutto il suo seno prosperoso, faceva strage di cuori ogni volta.
«Come le hai mollate?» chiesi, immaginando la risposta di Aaron.
«Succedeva tutto a casa loro. Lo facevamo e quando mi stufavo, me ne andavo» mi spiegò impassibile.
«Disgustoso!» esclamai.
«Non è mica un contratto. Non ho mai promesso niente a nessuna di loro».
«E loro come reagiscono?» domandai ancora.
«Be’, dipende dal soggetto. Alcune mi danno del puttaniere, altre mi lasciano il numero» spiegò.
«Capisco, così tu le chiami e vi mettete d’accordo per un’altra notte» dissi.
«In verità, non ne ho mai richiamata nessuna».
«Oh, e come mai?» chiesi, senza preoccuparmi di apparire troppo invadente.
«Mi annoiano alcune» si limitò a rispondere.
«Capisco».
«Voglio svelarti un segreto: non sono mai andato a letto con una ragazza vergine» rise.
«Non ci credo» inconsciamente spalancai la bocca, ma lui non parve farci caso.
«Te lo assicuro» disse, «Non voglio essere la prima volta di qualcuno, sapendo che è solo per divertimento» continuò, accrescendo ancora il mio sbalordimento.
«Wow, non pensavo che fossi così caritatevole» scherzai. Lui rise.
«Ci sono tante cose che non sai di me» disse con tono teatrale.
«Ad esempio?» domandai.
«Giocavo a basket prima» confessò.
«Lo avevo immaginato» dissi.
«Questa era facile» rise.
«Un po’» ammisi.
«Perché hai smesso?» chiesi.
«Forse un giorno te lo spiegherò» rise, «Forse, però» puntualizzò.
«Allettante» dissi ironicamente.
«Sai che non scopo da quando ti conosco?».
«Oh, ma quale onore» dissi sarcastica, «quelle gatte morte aspettano solo che io mi levi di torno» continuai.
«Io non voglio che ti tolga di torno». Passarono attimi di silenzio incolmabili, riuscii a percepire il suono dei nostri respiri.
«Aaron» sussurrai pianissimo, quasi senza emettere un filo di voce.
«Mm» mormorò.
«Chi era quell’uomo?» mi ero finalmente decisa a porgli quella domanda fatidica, e quello mi sembrò il momento giusto, dato che ci stavamo scambiando delle confidenze. Lui smise di guardarmi, e tornò a fissare il soffitto, cercando di aggrapparsi a qualunque argomento pur di sfuggire a quella domanda.
«Quale uomo?» chiese, cercando di divulgare. Io sapevo che lui aveva capito a chi mi riferivo, lo avevo intuito dal suo disagio.
«Non devi dirmelo, se non ti va» dissi.
«Uno che conosco a malapena» si limitò a spiegarmi. La sua risposta mi fece capire che inizialmente aveva capito di chi parlassi.
«Okay». Preferii non toccare più l’argomento, né adesso né inseguito, e poi non erano affari miei ed io non dovevo immischiarmi, ma come si sa, curiosità è donna.
Lui guardò l’ora dal display del cellulare erano le 02:04.
«Faremmo bene a dormire, domani c’è scuola» disse, riposando il cellulare sul comodino.
«Buonanotte» sussurrai, senza ricevere alcuna risposta in cambio. 

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Capitolo 18
*** XVlll ***


Quella mattina l’unica cosa che avrei voluto fare era rimanere a dormire nel mio letto. La risata fragorosa di Aaron echeggiò in tutta quanta la camera da letto. Trasalii e aprii gli occhi di scatto. Le mie gote avvamparono quando realizzai di aver dormito faccia a faccia con Aaron.
«Buongiorno, principessa» disse Aaron, stampandomi un bacio sulla fronte. Mi ripresi dallo stato di imbarazzo. Risposi al suo saluto con un sorriso.
«Dormito bene?» mi chiese dopo qualche istante. Annuii leggermente, mettendomi a sedere sul letto, poggiando la schiena allo schienale. Aaron si alzò, facendo vacillare il materasso sotto i nostri corpi. Andò verso la parete opposta e si precipitò ad aprire la finestra. La luce flebile proveniente da fuori illuminò la stanza.
«I miei vestiti!» esclamai, «E i libri!» aggiunsi subito dopo.
«Cosa?» mi domandò Aaron con un’espressione interrogativa. Mi alzai subito dal letto e mi precipitai verso di lui.
«I miei vestiti puliti sono a casa mia, così come i miei libri» spiegai.
«Cazzo, è vero!». Lo guardai con un’espressione di biasimo.
«Allora, adesso passiamo da casa tua e ti prepari, poi andiamo a scuola» disse subito dopo.
«Okay».
«Per ora metti questi». Aaron prese dall’armadio una tuta e una felpa leggera.
«Grazie» sussurrai.
«Puoi fare una doccia, se vuoi» mi indicò la porta del bagno. Acconsentii con il capo.
«Tieni anche questi» mi porse un paio di boxe con la scritta Calvin Klein sul bordo e un paio di calzini. Presi gli indumenti e imbarazzata mi diressi al bagno. Mi assicurai che la porta fosse ben chiusa a chiave prima di iniziare a spogliarmi, conoscendo Aaron Mayson bisognava essere prudenti. Iniziai a spogliarmi e rapidamente mi infilai nella doccia. Lasciai che l’acqua calda scorresse sul mio corpo e poi mi insaponai. Nel giro di dieci minuti avevo finito di lavarmi. Uscita dalla doccia, mi avvolsi nel suo accappatoio e mi asciugai. Lo sentii armeggiare con la maniglia, la vedevo alzarsi e abbassarsi continuamente. Non potei fare a meno di sorridere a quella scena. Notai che numerosi profumi e deodoranti capeggiavano sul mobiletto del bagno. Mi tolsi l’accappatoio e indossai la biancheria e i vestiti di Aaron. Per la fretta non asciugai completamente i capelli, ma li legai in una treccia che feci ricadere sulla spalla sinistra.
«Perché ti sei chiusa a chiave?» mi domandò, forse un po’ dispiaciuto.
«Prudenza, solo prudenza» risi.
«Non ti fidi di me?» mi chiese, sfidandomi con il tono della voce.
«Mm. Forse no» dissi, emettendo un lieve risolino.
«Se non ti fidi di me, perché hai accettato?» mi chiese. Ritornai seria.
«Accettato cosa?» cercai di dissimulare la domanda, in modo da poter fornire una risposta che non cadesse a pezzi.
«Di passare la notte con me, sai a cosa mi riferisco» ammiccò. Scacco matto.
«Oh», feci spallucce in segno di risposta. Lui roteò gli occhi.
«Che c’è?» esclamai, non appena lo vidi fare quel gesto.
«Quando ti deciderai ad ammettere che sono l’uomo più sexy che tu abbia mai conosciuto?» disse sarcastico.
«Pff. E tu quando deciderai di rassegnarti all’idea che non due saremo solo amici e niente di più?».
«Se fossi solo una mia amica, non avresti accettato» insistette, «A ‘sto punto andavi a dormire con quell’idiota patentato di Drew Fox» continuò.
«Smettila» lo ammonii.
«Ammettilo che non vedi più dalla voglia di venire a letto con me» mi fece un occhiolino.
«Te lo puoi anche scordare».
Aaron prese le chiavi della macchina dal mobiletto in corridoio, mentre portava un borsone con dentro i miei vestiti e le scarpe della sera precedente. Avevamo all’incirca venti minuti per tornare a casa mia, cambiarmi e tornare a scuola.
«Aspetta un attimo!» disse. Fece cadere il borsone con i miei vestiti della sera precedente e lo zaino con i libri.
«Che succede?» gli chiesi, guardandolo con aria interrogativa.
«Ho dimenticato una cosa» si precipitò verso il bagno. Istintivamente lo seguii. Stavo per chiedergli cosa avesse dimenticato quando prese una boccetta di profumo di Hugo Boss e se la spruzzò addosso. Tossii, ne aveva spruzzato una quantità esagerata.
«Scusa, ma non esco mai senza profumo» tentò di giustificarsi.
«L’avevo notato».
Improvvisamente il campanello suonò, facendo sussultare entrambi.
«Ma chi è a quest’ora?!» esclamò Aaron.
 Aaron aprì la porta e sulla soglia comparve un ragazzo alto e impettito, dagli occhi grigi. Spalancai gli occhi alla vista di Drew, che a sua volta sembrava non capire cosa ci facesse Aaron in quel posto (o meglio, cosa ci facessi io a casa di Aaron).
«Merda!» imprecai a bassa voce. Aaron guardò verso di me e con sguardo supplichevole mi rivolsi a Drew.
«Posso sapere che cazzo ci fai tu qui?» Drew aggredì verbalmente Aaron.
«Fino a prova contraria, questa è casa mia» spiegò impassibile. Ecco che arrivava il momento, Drew si sarebbe infuriato con me talmente tanto che non solo non mi avrebbe rivolto più un minimo sguardo, ma anche mi avrebbe screditata davanti a tutta la scuola. In quel momento avrei preferito se una voragine mi si fosse aperta sotto e mi avesse inghiottito, facendomi scomparire dalla faccia del pianeta.
«Cosa?» questa volta il suo sguardo era puntato su di me. Quelle fessure grigie, incorniciate da ciglia scure, trasudavano umiliazione.
«Drew, posso spiegarti» dissi in tono teatrale la solita frase che pronuncia usualmente chi vuole farsi perdonare ad ogni costo.
«Non c’è nulla da spiegare, Jordan» disse, evidentemente molto deluso.
«Scusami, mi dispiace veramente» mi scusai.
«Ero venuto qui perché volevo vederti, volevo andare a fare colazione con te, e avrei voluto accompagnarti a scuola» mi spiegò, «Ma tolgo subito il disturbo» soggiunse.
«Drew, aspetta, cazzo!» esclamai.
«Jordan, per favore. Indossi anche i suoi vestiti» mi fece notare. Guardò Aaron con sguardo truce. Aaron rispose a quell’occhiataccia alzando un sopracciglio, pronto a gongolare e a manifestare la sua soddisfazione.
«Non è come credi» cercai invano di giustificarmi, anche se in questo caso ero stata io quella a sbagliare e lui aveva perfettamente ragione ad essere infuriato con me, non lo biasimai per niente. Aaron osservava tutta la scena con un’espressione divertita.
«Se non volevi avere a che fare con me, potevi benissimo dirmelo, piuttosto che uscire con me per poi andare a scopare con un altro!» quasi urlò, in preda all’agitazione mista alla frustrazione.
«Non ho scopato con nessuno» dissi, ferita da quelle parole.
«Non ti credo» disse freddamente.
«Te lo giuro, dammi un’altra possibilità» supplicai. L’agitazione era talmente tanta che le lacrime presero a sgorgare dagli occhi.
«Un’altra possibilità? Così potrai di nuovo mentirmi sul fatto che dormi da una tua amica, quando invece te ne vai a letto con Aaron Mayson».
«Non ci sono andata a letto» ripetei con voce spezzata.
«Scusami» sussurrai dopo alcuni istanti di silenzio. Lui non mi rispose e rimase per alcuni attimi a guardarmi freddamente, l’avevo deluso, ferito soprattutto; l’avevo umiliato di fronte ad Aaron, anche se non avevo la minima intenzione. Lui si fidava di me ed io avevo tradito la sua fiducia.
«Ci vediamo in giro» disse, gettandomi un’occhiata gelida.
«Drew» sussurrai debolmente, mentre lo vedevo allontanarsi e sfrecciare sulla sua Yamaha. Rientrai in casa, Aaron chiuse la porta dietro di me e io mi appoggiai ad essa con la schiena, scivolando fino a sedermi sul pavimento. La risata di Aaron spezzò il silenzio che si era formato da quando Drew se ne era andato. Lo guardai in cagnesco.
«Sta’ zitto, coglione» lo ammonii.
«Non hai fatto una gran bella figura, eh» rise ancora.
«Grazie per avermelo fatto notare» puntualizzai.
«Di niente, principessa».
 

 
 

 

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