Figli del Sole

di Manto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ombre ***
Capitolo 2: *** La Regina ***
Capitolo 3: *** Destino ***
Capitolo 4: *** Elegia per i Vinti ***
Capitolo 5: *** Nelle Braccia del Fuoco ***
Capitolo 6: *** Il Mare Sussurra ***
Capitolo 7: *** Nel Labirinto del Cuore ***
Capitolo 8: *** Astro delle Tenebre ***
Capitolo 9: *** Sole Nero ***
Capitolo 10: *** Gli Immortali ***
Capitolo 11: *** Il Sorriso delle Moire ***
Capitolo 12: *** Il Dimenticato ***
Capitolo 13: *** Solo Un Fiore ***
Capitolo 14: *** L'Eterno Abbraccio ***



Capitolo 1
*** Ombre ***




Figli del Sole




I - Ombre




Il vento, ancora.
Penso che quest'isola sia fatta interamente di esso: un vento violento che strappa lacrime e pensieri e li porta ovunque, forse anche negli Inferi, dove le anime dei morti li attendono con avida tristezza. Che tu possa sentirli, amore mio.


Anche quel giorno, tanti anni fa, c'era il vento. Lo percepii lieve, inizialmente, come un dolce respiro. Per un momento, un solo istante, mi parve anche di sentire voci lontane, tutte quelle che recava con sé. Poi la sua potenza aumentò, mi strappò dalle mani i magnifici fiori che avevo portato dal palazzo e tentò di rapirmi il velo che mi copriva il capo. Non riuscii a trattenere un grido, e Leuca si agitò.
Il vento ritornò, dolce e profumato, una promessa di estate, e gonfiò la nera criniera della cavalla rendendola ancora più maestosa. Fissai lo sguardo su di essa per non vedere la grotta che ci aspettava alla fine del sentiero, l'enorme voragine nera.
Più ci avvicinavamo, più sentivo il mio cuore aumentare i battiti.
Io la temevo fin da bambina, fin da quando vedevo dalle mie stanze le sue lugubre pareti risplendere alle luci dei fuochi, ogni notte. Il Sole non l'aveva mai baciata e il vento stesso che giocava con noi non l'aveva mai rinfrescata; incassata nell'azzurra montagna, come un gigantesco occhio nel volto di un gigante osservava ogni nostro movimento, e avevo sempre la sgradevole sensazione che fissasse in particolare i miei.
Mio padre, il re Teleuta, si voltò verso di me sorridendo. “Tecmessa, devi entrare sola.”
Io lo guardai con spavento. Il panico che avevo cercato di controllare fino a quel momento eruppe come sangue da una ferita, e Leuca nitrì irrequieta. Smontai, tremante, accarezzandole la criniera per calmare entrambe. La lasciai con mio padre e iniziai l'ultimo tratto di sentiero.
Sei una codarda, Tecmessa. Guardala, é solo un'incisione. Una brutta, sgraziata incisione di una donna grassa. Perché la temi?
Un nauseante odore di decomposizione mi mozzò il fiato quando varcai l'entrata. Alzai gli occhi: l'immagine della Dea era lì, a pochi passi da me, incisa sulla parete. Teneva le braccia aperte, intenta ad accarezzare i leoni che le erano ai fianchi; i suoi seni erano enormi, come le sue natiche.
Eccola, la potente Dea: la Madre Terra, Kubile, l'incarnazione della fertilità, il potere femminile racchiuso in quel grembo umido di vita di cui la grotta era rappresentazione.
Tesi una mano davanti a me e sfiorai l'immagine, i suoi seni pieni di latte, il grande pube inciso che generava in me turbamento. “Lo sai perché sono qui, vero, Grande Dea? Un sogno mi perseguita ogni notte. E tu ne sai il motivo.”
Il contatto con la pietra non mi diede alcun effetto. Era pietra, materia morta; ero io che insistevo a darle vita.
Quando lasciai la grotta, mio padre mi prese il volto tra le mani. Lo guardai, quindi scossi il capo.

“Concubina e Madre” è il significato del mio nome. Mia madre me lo assegnò, ma non ebbe il tempo per dirmi il motivo.
Concubina e Madre, in questo nome si celava il mio destino. Ancora non lo sapevo.
Come ancora non sapevo il significato di quell'immagine: un piccolo fiore che stillava lacrime umane e portava impresse sui petali scarlatti due parole: Ai, Ai. Io continuavo a sognarlo e quando mi svegliavo, nella notte nera, le lacrime mi rigavano il volto, i singhiozzi riecheggiavano nel palazzo.
Sempre.


NOTE

Il significato del nome Tecmessa non è inventato, ma è un'ipotesi riportata nel “Dizionario Etimologico della Mitologia Greca”. Qua viene detto che il nome, se dipendesse dall'indoeuropeo, potrebbe essere l'unione della radice teuk- (concubina) con mater (madre).
Il fatto che il nome si presenti non Tecmetra ma Tecmessa dipende dal fatto che era un nome pregreco orientale, quindi al posto di -tr- presenta doppia sigma (-ss-).

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Capitolo 2
*** La Regina ***




II - La Regina




Poi il vento divenne tempesta. E fui io stessa a scatenarlo.
E solo adesso comprendo tutti i segni, anche quelli più piccoli: il Destino mi parlava già allora. Ma io non lo sentivo.

Mio padre era partito per un controllo ai confini orientali, ed erano già due giorni che mancava da palazzo. Non era mai successo, se non per cause di grave entità.
Che cosa poteva essere accaduto?
Ci pensavo da tutto il pomeriggio, all'ombra della quercia, lo sguardo all'orizzonte in attesa del mio caro padre. Un grido di allegria attirò la mia attenzione, e girandomi osservai Tealissa la Bionda, l'unica che potessi chiamare mia amica, che giocava con i figli delle serve nel lago poco lontano. Lei si accorse del mio sguardo, uscì dall'acqua e fece un cenno alle serve perché portassero via i bambini; quindi mi raggiunse. Mi abbracciò da dietro mordendomi un orecchio, e rotolammo entrambe a terra.
“Perché ti ostini a rimanere qui?”, esordì, scuotendo la chioma dorata.
Accennai un sorriso. “Lo sai.”
Lei sbuffò. “Solo un normale controllo di confine. Che cosa ti preoccupa?”
Volsi il capo alla strada. “Non è ancora tornato. La Torre Rossa sul Sangario non è molto lontana, mi chiedo perché ci metta così tanto a...” Non feci in tempo a finire che fui investita da un getto d'acqua fredda. “Tea!”, urlai balzando in piedi. La rincorsi fino al centro del lago, solleticandola fino a farle mozzare il fiato in gola dal ridere. “Le ho tentate tutte, e alla fine ce l'ho fatta”, mi disse Tealissa respirando a fatica, e mi lanciò un'occhiata complice.
Sorrisi sorniona. “Hai qualcosa di interessante da dirmi, amica mia? Per esempio, le ultime rivelazioni di Makros?”
La bionda arrossì, si accarezzò la pancia. “Questa volta le sue rivelazioni non saranno un segreto tra me e te. Sto aspettando un bambino.”
Spalancai gli occhi. “Quando?”
“Alla fine dell'inverno. Mi chiedo... cosa dirà la gente...”
“Non importa, Tea. È una notizia bellissima. E tu sarai un'ottima madre”, dissi con sincerità. Non mi era mai importato molto delle convenzioni. Lo sai bene.
Tealissa versò qualche lacrima, quindi mi prese per mano, e mi guidò fuori dall'acqua. “Vieni. Andiamo alla cala del Sangario. Fremo dalla voglia di dirti cosa abbiamo deciso io e Metra...”
“Prima dovresti accertarti che io non sia nei paraggi.”
Ci voltammo, e Makros scese le scale del palazzo con lentezza, gustandosi la nostra sorpresa.
Scoppiammo a ridere, e io abbracciai la mia unica amica. “Tu, villano, come osi spiare i nostri momenti privati?” Il ragazzo si passò una mano fra i capelli nerissimi, facendo un sorriso beffardo. “Attenta, potrei diventare geloso. Sarai anche la mia principessa, ma io peso il doppio!”
Strinsi ancora di più Tealissa, reggendo il gioco. “Mi permetterai almeno di darle un bacio!”
“No, non ti è permesso!”
“Grande Dea, sentilo, questo figlio di contadini!”
“Tu dovresti ascoltare la tua alterigia, oh figlia di re Teleuta! O dovrei dire wanaxa [1], come fanno gli Achei?”
“Mi stai paragonando a una donna achea? La vuoi lavare nel sangue quest'offesa, è questo che vuoi?”
Tealissa si svincolò dalla mia presa, ridendo si frappose fra noi. “Propongo una sfida: vi immergerete entrambi nel lago, e chi tra i due riuscirà a resistere più a lungo sott'acqua potrà baciarmi finché vuole. Andate!”
Io e Makros si lanciammo uno sguardo di sfida, poi corremmo in acqua. “Preparati a piangere lacrime amare, gigante”, dissi, dandogli un pugno scherzoso.
Per tutta risposta, Makros mi prese per la vita e mi fece fare un piccolo tuffo.
“Grosso, brutto e anche permaloso!”, urlai quando riemersi, tirando un getto d'acqua al giovane.
“Basta giocare! Diamo inizio alla sfida!”, urlò Tealissa dalla riva.
Ci immergemmo. Aprii gli occhi e vidi che tutto intorno a me il mondo era azzurro e verde, e c'era una grande macchia ondeggiante, dorata: la luce del Sole che arrivava fino laggiù.
Toccai il fondo con la schiena e mi adagiai, muovendo appena le gambe, incurante della melma che sporcava la veste e i capelli. L'acqua mi spingeva in superficie e il fiato iniziava già a mancarmi, ma non mi mossi. Lì sotto udii un silenzio pieno di pace, e mi sembrò di non essere mai stata così libera.
Poi sentii un grande dolore al petto, fui costretta a risalire. Dopo qualche istante riemerse anche Makros, il viso congestionato per la fatica.
“Ha vinto Makros! A lui spetta il diritto di baciarmi!”, urlò Tealissa entrando in acqua.
“Non montarti troppo la testa, ci affronteremo ancora", sussurrai, scompigliando i capelli al giovane e spostandomi verso riva. Lui accennò un sorriso, quindi impallidì improvvisamente.
“Makros!”, urlò Tealissa mentre il giovane ripiombava nell'acqua, svenuto.
“Corri a chiamare aiuto, Tea! Sta annegando!”, urlai, spingendola lontano e rituffandomi.
Intravidi il corpo del ragazzo molto più in basso, in una piccola fossa. Raggiungerla fu difficile, perché ero affaticata, ma alla fine riuscii ad afferrarlo sotto le ascelle. Mi diedi una spinta con i piedi, ma la melma mi fece scivolare e mi gettò sul fondo.
Non posso morire ora, non posso morire ora, pensai sentendo una forte pressione sul petto. Con rabbia puntai i piedi, li affondai nella melma viscida; riuscii ad alzarmi, e a trascinare con me Makros. “Tealissa! Qualcuno mi aiuti!”, gridai esausta.
Non c'era nessuno. Ero sola.
Il peso di Makros mi rigettava sotto, stirandomi le braccia e rischiando di farmi annegare, ma non lo lasciai andare; feci piccoli passi, tenendogli la testa fuori dall'acqua, e quando sentii il fondale sicuro della riva sotto i piedi mi fermai, caddi in ginocchio.
Respirai rumorosamente, e al mio fianco anche Makros si mosse.
Finalmente i servi accorsero, aiutandomi ad alzarmi e assiepandosi intorno al corpo del giovane.
Tealissa spuntò dietro di me piangendo, ma la allontanai. Makros era vivo, ma c'era qualcosa che non andava: il suo corpo aveva dei tremiti, come se...
“Giratelo su un lato!”, urlai quando compresi. I servi obbedirono, e un istante dopo Makros spalancò gli occhi e iniziò a vomitare acqua e fango.
Chiusi gli occhi, sospirai di sollievo. Tealissa piombò tra le mie braccia, piangendo di gioia.
Le accarezzai i capelli, sorrisi.
“Arriva il Re! Arriva il Re!”
Dopo qualche istante vidi sfrecciare sul sentiero Kioss, il messaggero di mio padre, che appena smontato da cavallo mi cercò con lo sguardo. “Principessa Tecmessa, vostro padre chiede che prendiate posto al vostro seggio”, disse quando mi vide.
Vacillai: se mio padre chiedeva la mia presenza nella sala del trono era per qualcosa di cruciale.
Mi diedi una veloce occhiata: ero completamente sporca di fango. “Tieni”, disse Tealissa, staccando un pezzo della sua veste, “mettilo sulla testa come un velo.”
Lo feci, e di corsa entrai nel palazzo. Raggiunsi la sala del trono e mi sedetti sul seggio che era stato costruito apposta per mia madre; lasciai cadere il velo fino al pavimento per coprire le pozze d'acqua che andavano creandosi, e mi ripulii in fretta il volto.
Il portale si aprì dopo qualche istante e mio padre entrò, chiuso nella sua più bella armatura, i capelli candidi legati in una lunga treccia che ricadeva sulla spalla. Non era solo.
Dietro di lui procedevano due guerrieri dall'aspetto nobile, che non conoscevo né avevo mai visto.
Il più vecchio aveva corti capelli castani e una barba ben curata, era tarchiato e camminava guardingo, voltando qua e là il capo e scrutando tutto con occhi brillanti e profondi; il secondo, più alto e molto più giovane, era semplicemente bellissimo: i capelli biondi rilucevano come oro puro sotto i raggi del Sole, gli occhi color del cielo risplendevano come gemme, e io notai che si illuminarono ancora di più quando si puntarono sullo scranno di mio padre.
Quindi, dopo aver ammirato le ricchezze della sala, i loro sguardi si spostarono su di me.
Quello che vi lessi mi fece rabbrividire. E in questi momenti ancora di più, ora che so che fu in quell'istante che gli Dèi iniziarono a ridere di me.
Di noi.
Mio padre mi sorrise, quindi si rivolse a loro. “La mia unica figlia, Tecmessa, principessa di Frigia. Figlia mia, il re di Itaca, Odisseo figlio di Laerte, e Diomede figlio di Tideo, re di Argo.”
Risposi con un freddo cenno ai loro inchini, e ricambiai il loro sguardo pieno di superbia.
Achei.
Mio padre prese posto sul suo seggio, mi lanciò uno sguardo carico di intesa, quindi si rivolse al bruno. “Re Odisseo, prima mi accennavi a qualcosa di importante di cui dovevi discutere con me. Puoi parlare liberamente, ora: il mio palazzo è un posto più che sicuro.”
Il re di Itaca mi rivolse un'occhiata carica di stupore e disappunto. “Perdonami, re Teleuta, ma preferirei che la bella Tecmessa non fosse presente al nostro colloquio.”
Mio padre fece un sorriso sornione. “Le leggi del vostro popolo non valgono in terra frigia, re Odisseo. Le nostre donne sono libere quanto gli uomini, forse anche di più.
Inoltre, voglio che mia figlia partecipi ai colloqui, in modo che sappia consigliare saggiamente il suo futuro marito nella gestione del governo.”
Vidi che l'altro sovrano, Diomede di Argo, reprimeva a stento un moto d'ira, quindi decisi d'intervenire. “Perdonatemi, padre, ma farò come vuole il signore di Itaca; non voglio che la mia presenza sia fonte di turbamento o malumore.”
Detto questo, mi alzai con tutta la grazia che possedevo, e con un cenno mi congedai dalla loro presenza, godendo dello sguardo sorpreso dei due sovrani stranieri al vedere l'acqua ruscellare giù dalle mie gambe.
Le serve mi attendevano nei bagni reali, e mi lasciai andare alle loro attenzioni. Mentre mi lavavano e massaggiavano con delicatezza guardai il fango colare dai miei capelli, e la stanchezza si impadronì improvvisamente di me.
Quando mi lasciarono andare, davanti ai bagni trovai ad attendermi Metra, la madre di Makros. Questa mi baciò le ginocchia, piangendo. “Pagherei con la mia stessa vita quello che hai fatto. Pregherò la Grande Dea ogni giorno affinché ti protegga sempre.”
Notai una presenza ostile a poca distanza, ma decisi di ignorarla. Mi inginocchiai e feci rialzare la donna. “Ho fatto solamente quello che dovevo. Tuo figlio è salvo. Basta questo.”
Metra trattenne un singhiozzo, e prendendomi le mani me le baciò. Quindi si dileguò nel palazzo, lasciandomi sola.
Io mi voltai... e mi trovai davanti gli occhi del re di Itaca. Questi accennò un sorriso notando il turbamento che tentavo di nascondere mentre osservavo i suoi occhi cangianti e vividi, così in contrasto con il resto del corpo, bello ma senza alcuna luce.
“Non eravamo neanche giunti a palazzo che la gente gridava il tuo nome e ti onorava. La principessa coraggiosa, ti chiamano.
Perché? Che cosa hai fatto di tanto valoroso?”
Deglutii. La sua voce, profonda e carica. Più lo fissavo, più pensavo al fiore che riempiva i miei sogni. “Ho salvato un giovane uomo dall'annegamento.”
“Interessante. E dimmi, wanaxa, tutte le donne di Frigia sono belle e ardite come te? Se sì, sono disponibile a conoscerle.”
Socchiusi gli occhi, ignorando l'orribile parola con la quale mi aveva chiamata. “La stirpe delle donne di Frigia è la più orgogliosa fra quelle orientali. Attento, grande re: potresti trovare ciò che stai cercando. E potrebbe non piacerti.”
Gli occhi del figlio di Laerte brillarono di una luce sinistra, ma non una parola uscì più dalle sua labbra. Chinai il capo in segno di congedo, e lo lasciai da solo.

Verso il tramonto, mio padre venne nelle mie stanze. Vidi dal suo sorriso che lo avevano già avvertito degli avvenimenti del pomeriggio, e chinai il capo in attesa.
“Perdonami, Tecmessa, se non ti farò chiamare questa sera per cenare con noi. Il motivo lo sai.”
Annuii, e mio padre sorrise, mi abbracciò. “Tu sei veramente la degna figlia di tuo padre.
Sei stata molto coraggiosa, oggi pomeriggio. E non solo per quello che hai fatto al lago, ma per come ti sei comportata con il sovrano di Itaca.
Dice che hai usato saggezza e fierezza, due tra le doti di un buon re. Ti manca solo un'armatura e poi potrai scendere in battaglia.”
Ridemmo entrambi, quindi lui mi prese il volto tra le mani, mi guardò a lungo. “Non dimenticare mai chi sei, ragazza mia.
Non ingannare mai il tuo cuore, non lasciare che un altro imponga la sua mano su di te.
E non perdere mai il tuo coraggio. Mai.”
Io alzai lo sguardo per guardarlo, colpita da quelle parole; lui fissava il lontano orizzonte.



NOTE

[1] Wanaxa è il termine miceneo per indicare la regina. Wanax è il re.

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Capitolo 3
*** Destino ***




III - Destino




Quante volte fissavo l'alba e sorridevo, pensando che sarei stata io l'artefice del mio Destino.
Ora lo so, voi Dee del Fato ridevate, udendo i miei pensieri.
Quanto ridevate.


L'afa del pomeriggio non si dileguò con l'avvento della nera notte, ma strisciò nelle nostre stanze, spingendoci a rigirarci nei nostri letti, incapaci di prendere sonno.
Tormentata dal caldo, uscii dal palazzo. La luce lunare rischiarava con dolcezza il paesaggio, e le acque del lago ad ogni movimento brillavano come argento liquido. Un lato di esso rimaneva però nell'oscurità: e in queste tenebre si celava lui. E non era solo.
Qualcuno lo accompagnava, ma non era re Odisseo.
Il buio sembrava splendere mentre Lei si muoveva. Ho imparato ben presto a riconoscere la presenza di un Dio.
Girai lo sguardo e feci per andarmene, quando sentii i suoi occhi su di me. “Principessa”, mi chiamò il re di Argo, e la luce stessa tremò al suono della sua voce.
Mi fermai, attesi che mi raggiungesse. Quando sentii il suo respiro sulla mia nuca, parlai. “Eri con un Dio. Non mi era permesso assistere.”
“Spesso gli Dèi si rivelano agli uomini.”
“Ma i tuoi sono diversi dai miei. Temo la loro presenza nella mia dimora.”
“Dovresti temere anche chi essi proteggono.”
Mi girai e lo fissai negli occhi color zaffiro. “La crudeltà, l'arroganza, la sete di vendetta e di potere sono comuni a tutti gli uomini. Perché dovrei temere te, re acheo, più di un licio o un frigio? Siamo tutti mortali, tutti abbiamo le nostre ombre e le nostre luci, miste insieme e celate nel cuore.
Cosa ti rende superiore e più pericoloso di altri, mio re? Più pericoloso di me?”
Il suo sguardo scintillò per l'ira. “Barbari, ecco cosa siete. Credete che il vostro regno possa durare per sempre, protetti dal vostro oro e dalla vostra superiorità. Non riuscite a vedere la grande rovina che vi sovrasta, e sta per abbattersi su di voi senza pietà.
Siete colpevoli di un crimine orrendo, ma non volete pagarne il fio. Lo farete comunque, con il vostro sangue e le vostre lacrime.”
“Bada, re di Argo”, sibilai, “non osare oltraggiare il mio nome. Io non sono come quelle che dimorano tra voi, fantocci privi di carattere che chiamate, in modo indegno, donne. Io non temo le vostre violenze, né la mia morte. Né le conseguenze della tua.
La mia non è superbia: ogni cosa che prometto, mantengo.”
Non riuscii ad evitare il colpo, e mi ritrovai a terra, tramortita. Quell'animale mi prese sotto le ascelle, mi alzò e mi spinse contro un albero; mi afferrò i capelli, mi costrinse ad alzare il volto.
Rantolai, e lui sorrise. Un sorriso pieno di oscenità. “Godrò nel vederti resa schiava. Godrò nel vedere il tuo palazzo bruciare, tutto ciò che hai di più caro oltraggiato.
Godrò quando ti vedrò chinare il capo e chiedere pietà e perdono.
Bada a te: non osare sfidarmi. Sarebbe un peccato, se i tuoi stupendi occhi si prosciugassero per l'interminabile pianto.”
Gli afferrai i capelli dorati, con forza, e lui strinse i denti. Ancora qualche istante, e mi avrebbe ucciso. Prima che lo facesse, gli sputai in pieno volto. I suoi occhi si incendiarono, e mi diede un altro schiaffo.
La sua ombra si ingrandì, sotto i miei occhi atterriti e sotto la pallida Luna. Un Dio lo stava sostenendo, chiedeva il mio sangue.
Non abbassai il capo. Non gli avrei dato quella soddisfazione.
Un altro colpo, violentissimo. Men, Signore della Morte, iniziò ad avvicinarsi.[1]
“Diomede, fermati. Lei non vale la tua ira. È solo una donna.”
Il re di Argo mi lasciò cadere, indietreggiò. “Insubordinata, selvaggia come tutte le orientali”, sibilò, quindi Odisseo l'allontanò; attese che se ne andasse e quindi venne da me, che giacevo al suolo. Si chinò, e mi prese il volto tra le mani, delicatamente. “Diomede non è proprio la persona adatta con cui litigare, principessa. Perdonalo.”
Mi sfiorò il labbro, e io lo guardai con odio. “Non osare toccarmi.”
Odisseo scoppiò a ridere. Mi prese tra le braccia e mi portò nel palazzo, nei bagni reali; dopo avermi spogliato e immerso nell'acqua, senza dire una parola iniziò a lavarmi il corpo pieno di graffi. Intanto che lo faceva, intonò una canzone, in una lingua che mai avevo udito prima; forse quella più antica della sua isola, che solo lui conosceva. Quante cose avrebbe conosciuto lui, lui solo.
Io mi strinsi le ginocchia al petto, chiusi gli occhi. Il suo tocco era delicato, ma sulla mia pelle lo sentivo come una frustata. Temevo quello che sarebbe successo dopo. Perché sapevo che non avrei vinto, contro di lui.
Qualche lacrima cadde dai miei occhi. Sempre cantando, lui l'asciugò. Alla fine si tolse il mantello, e mi avvolse in esso. Mi prese di nuovo tra le braccia, mi portò nelle mie stanze.
Io mi divincolai dalla sua presa e corsi a rifugiarmi nel letto, tremando. Non avrei avuto abbastanza forza. Avrebbe vinto lui.
Lui non si mosse, ma rimase sulla porta a fissarmi, per un tempo che mi parve interminabile.
Ingannevole, multiforme Odisseo. In quel momento non hai voluto farmi del male, per pietà, forse per rispetto a mio padre; ma avrei preferito che tu mi avessi violato lì, sotto il mio stesso tetto, piuttosto che subire quello che ci avresti fatto dopo.
Non chiusi occhio per tutta la notte, per il terrore. Quando sentii forti e continui rumori, scesi dal letto. Mi affacciai alla finestra, e vidi i due re che sui loro carri andavano incontro all'alba.
Rimasi a guardare la polvere che le ruote sollevavano, e mi accorsi che un'altra figura si stava dirigendo verso la mia casa. Quando vidi il purosangue che cavalcava, completamente nero tranne che per una macchia bianca in fronte, come una stella che fende le tenebre, sobbalzai e corsi fuori dal palazzo.
“Otreo!”, urlai, andando incontro al nipote della regina Ecuba, e lui fermò il cavallo e smontò. Mi prese tra le braccia, mi fece volteggiare.
“Tecmessa, mia adorata!”, disse, regalandomi uno dei suoi splendidi sorrisi.
Arrossii sotto il suo sguardo, e con le dita gli strinsi le spalle, assaporando l'odore deciso della sua pelle. Poteva essere il mio sposo. Lo avrei accettato con gioia.
Furono soltanto gli Dèi a volere diversamente, o anche io, in fondo al mio cuore, sapevo che ero destinata ad un altro?

L'affascinante Otreo dai lunghissimi capelli neri mi prese il volto tra le mani. “Ho un dono per te, mia amata principessa. Spero che tu ne abbia uno uguale”, disse, sfiorandomi il ventre.
Io ridacchiai, gli morsi con malizia il collo. Lui mi baciò sulle labbra, quindi guardò dietro di me e aprì le braccia.
Mi girai, e vidi che mio padre ci guardava sorridendo, a poca distanza. “Amato figliolo, il tempo non ha avuto pietà di me, ma della tua persona si è dimenticato. Il Sole deve provare forte invidia per la tua grande bellezza, e per la tua velocità. Ma la risposta a quest'ultima domanda, forse, è sotto i nostri occhi.”
Disse questo, il re mio padre, e mi guardò. Sapevi che lo avrei accettato con gioia, padre.
Sapevi che con lui sarei stata felice, e non avevi paura di lasciarmi andare... nonostante fossi l'immagine, l'unica rimasta, della tua perduta regina.

“Ti ringrazio, re Teleuta, per il tuo invito. Non negherò che la causa della mia celerità sia il desiderio di vedere tua figlia.
Ma non ti chiederò oltre, se non ospitalità.”
Mio padre sorrise, annuì. “E allora, che il palazzo risuoni delle tue risate, re di Otrea.”
Sì, quel giorno il palazzo risuonò delle sue risate, e i miei occhi si persero spesso nei suoi. Le stanze erano state riempito di fiori selvatici, i preferiti di Otreo, e il loro profumo intenso e aspro mi rendeva la testa leggera, mi solleticava i pensieri più segreti.
Più guardavo il re di Otrea più lo desideravo. Non mi importava che lui non fosse più giovane, che quarantacinque inverni pesassero sulle sue ampie spalle: lui doveva essere mio, e io dovevo essere sua.
Quando calò la notte, infine, scese il silenzio. Mio padre si congedò presto, e lo stesso feci io.
Mi voltai verso Otreo, gli lanciai uno sguardo penetrante che gli fece interrompere il noioso discorso che stava tenendo con gli altri nobili; quindi me ne andai.
Non mi spogliai quando entrai nel letto, perché doveva essere lui a farlo; non dovetti attendere molto il suo arrivo, perché non avevo nemmeno fatto in tempo a sdraiarmi, quando sentii i suoi passi. Sorrisi, quando lui apparve sulla soglia. Mi alzai, sciolsi la cintura che sosteneva la tunica e la feci scivolare lentamente ai miei piedi. Mentre lo facevo lui entrò, si avvicinò al talamo.
Io mi chinai verso di lui, presi una ciocca di capelli e l'arrotolai intorno alle dita. “Gli uomini dicono che il tuo ardore in battaglia travolge ogni cosa, toglie il respiro. Questa notte perché non combatti con me?”, sussurrai, penetrando con l'altra mano sotto la sua tunica, facendo scorrere le dita sul suo petto.
Otreo sorrise, mi accarezzò le gambe; quindi salì sul letto e mi intrappolò sotto di sé, con un gesto fluido mi liberò della veste. “Sarà una lunga lotta. Non mi arrenderò facilmente.”
Appoggiai la fronte contro la sua. “Fai del tuo meglio, guerriero”, sussurrai.
Lo amai più volte quella notte, stringendo i suoi lunghi capelli con la bocca, godendo delle sue forti prese e dei suoi baci audaci che mi strappavano gemiti e tremiti. Sotto le sue dita esperte le parole di Odisseo, le ingiurie di Diomede si dispersero come cenere nell'aria, e dopo tante notti quando mi addormentai, esausta, non sognai.
Invece quando mi svegliai, il mattino seguente, il mio dolce Otreo non era più lì, ma il sentore della sua pelle permeava tutto il letto. Su di esso, nel punto in cui aveva dormito, era appoggiato un meraviglioso bracciale d'oro. Lo infilai al polso e mi rotolai a lungo, ricordando ogni istante della notte passata insieme; quindi scesi, con l'intenzione di rapirlo per una cavalcata.
Lo trovai nella sala del trono, intento ad ascoltare mio padre parlare.
Mi bloccai. Re Teleuta portava la sua armatura da guerra, e dal portale fissava tristemente il lago dove i bambini e le serve stavano giocando. “La loro bellezza spaventa la stessa Frigia. La gente mormora di cedere entrambe al nemico, per poter salvare la nostra terra.
Otreo, io mi fido di te: conosco i sentimenti di mia figlia e i tuoi, e so che saprai proteggerla. Porta lei e Tealissa più lontano che puoi, dove la guerra non possa trovarle. Se le dovessero prendere, gli Achei non avrebbero alcuna pietà di loro.”
Lasciai la sala del trono di corsa, senza ascoltare una parola di più, e ritornai nella mia stanza. Mi presi la testa tra le mani, e attesi che mio padre mi raggiungesse. Arrivarono entrambi, mio padre e Otreo, e io li guardai. “State andando in guerra, vero, padre?”
“Tecmessa...”
“Perché? I guerrieri sono già partiti tempo fa. Il vostro posto è qui.”
“Non più.”
Mio padre fece un cenno e Otreo se ne andò. Quindi entrò nella camera, si sedette sul letto. Con le mani in grembo, lo sguardo assente, sembrava ancora più vecchio.
“Per questo i due re Achei sono giunti qui? A dichiararci guerra perché stiamo aiutando i Troiani?”
Un'ombra passò sul suo viso. La Rovina lo stava marchiando, lo stava già strappando alle mie braccia.
Indietreggiai. Urlai, e caddi in ginocchio. “Non andate, padre! Vi scongiuro! Non lasciatemi!”
Mio padre si riscosse. Si alzò, mi prese tra le braccia. “Otreo ha ricevuto precisi ordini: tu e Tealissa avrete una nuova vita, lontano dalle urla dei soldati e dal terrore del sangue. Quando tutto sarà finito farete ritorno, e io sarò qui ad attendervi.
Bambina mia, non piangere, non piangere. Io devo salvarvi tutti.”
Fuori dal palazzo risuonò un corno. Morte, diceva.
“Padre... ti prego, rimani con me.”
“Addio, Tecmessa.”
“Padre...”
“Addio.”
Se ne andò, e io lo seguii, reggendomi a malapena sulle gambe.
Il suo cavallo era già pronto; le sue guardie attendevano.
Si girò per l'ultima volta verso di me, mi salutò. Non ebbi il coraggio di rispondere.
Montò a cavallo; attese qualche istante, infine partì. Sparì in fretta, e quando la polvere svanì, lui non c'era più.
Sbarrai gli occhi; premetti una mano sul petto, e urlai. Un urlo atroce, acuto, continuo.
Otreo fu l'unico ad avere il coraggio di avvicinarsi a me. Mi prese tra le braccia, mi strinse fino a togliermi il fiato. “Io sono qui. Non sarai sola.”
Con furia mi graffiai una guancia; il sangue colò, gli imbrattò la veste candida. “Lo vedi questo sangue, Kubile? Lo dono a te, affinché mio padre possa tornare.
Mi senti, Grande Madre? Dove sei?”, urlai.
Ora so che non potevi nulla.

Scese la notte, che fu spesso mia amica.
Nell'armeria reale, passai le dita sopra l'armatura di mio padre, sul suo arco e sul lungo pugnale dalla lama ricurva, che da piccola bramavo avere.
Chiusi gli occhi. A qualche camera di distanza, sul letto di mio padre, stava dormendo Otreo; e io, poche ore prima, su quello stesso letto ero stata amata da lui, come suole esserlo una moglie.
Morte o Vita, Sangue o Amore? Cosa scegli, Tecmessa? diceva una voce, nel mio cuore.
E io scelsi.
Scelsi.
Scelsi, e iniziai ad armarmi.



NOTE DELL'AUTRICE


[1] Men era il dio della Morte per i Frigi. Veniva raffigurato a cavallo, accompagnato dal Sole e dalla Luna, con in mano patere (coppe sacrificali) o uno scettro.
Era anche il custode dei mesi.

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Capitolo 4
*** Elegia per i Vinti ***




IV – Elegia per i Vinti




Stavo facendo una pazzia. E ne ero felice.
Dopo aver dato un bacio al mio Otreo, il sogno che per due notti era divenuto realtà, sgusciai nei corridoi bui e scesi nelle stalle, più silenziosa di un assassino.
Il manto bianco di Leuca rifulse alla luce della Luna, quando aprii le porte, e la cavalla alzò il capo. Si agitò, vedendomi, e io le misi una mano sul capo, accarezzai la criniera. “Mia inseparabile amica, il silenzio sia il tuo dono per me. Andiamo, Leuca; il nostro re ha bisogno di noi.”
“Mi chiedo se tu sappia davvero quello che stai per fare.”
Mi voltai, con calma, e vidi gli occhi di Tealissa brillare nell'oscurità. Sospirai di sollievo e calmai il mio cuore. “Torna da Makros, Tea.”
“No. Rimarrò qui, a cercare di farti ragionare.”
“Allora preparati a sprecare il tuo tempo.”
La ragazza avanzò, uscì dalle tenebre fissando gli occhi sull'arco che tenevo dietro la schiena. “Mi fai paura con questa armatura. Non sei tu.”
Gonfiai il petto, orgogliosa. “Ti sbagli: ora più che mai sono me stessa.”
Tealissa sospirò. “Ti servirà qualcuno che possa raccontare del tuo coraggio.”
“Non ci pensare neanche. Tu stai qui, al sicuro.”
I suoi occhi si incendiarono. “Ora sei tu che rischi di perdere il tuo tempo. Ti ricordi cosa ci eravamo promesse? Insieme, fino alla morte.
Muoviti, prendi la tua cavalla; e non dirmi più cosa devo fare.”
“Tea, non hai...”
“Prova a fermarmi.”
Sorrisi. Aprii il recinto di Leuca e lei uscì, silenziosa. Le montai in groppa e la spronai. Tealissa mi tese la mano. Non aveva mai imparato a cavalcare. Amata, ingenua ragazza. Sorella mia. Sorrisi, le accarezzai i riccioli dorati. “Spero che quel bambino prenda la tua bellezza.”
La spinsi delicatamente da parte, e mi lanciai al galoppo.

La terra volava sotto gli zoccoli di Leuca, e con lei la notte. L'alba sorse, e io non ero nemmeno arrivata alla Torre Bianca, l'ultima roccaforte.
Mentre mi tenevo stretta alla criniera di Leuca, pensavo a come avrei agito. Il berretto frigio nascondeva i miei lunghi capelli e parte del volto: inoltre il corpo magro, ben nascosto sotto l'armatura, forse non avrebbe destato sospetti. Con un po' di fortuna sarei potuta passare benissimo per uno dei soldati.
Sapevo usare l'arco, ma dubitavo della mia capacità di uccidere, anche se per salvare mio padre sarei stata disposta a tutto, anche a scannare l'intero esercito di quei demoni, i figli del Grande Mare; avrei cercato il mio adorato genitore e lo avrei costantemente sorvegliato.
Tentando, nel frattempo, di restare in vita.
La Torre Bianca apparve come una visione; dopo pochi istanti la superai. Leuca sentiva, forse, i miei pensieri, e dimenticava la stanchezza per raggiungere il suo re il prima possibile. E poi, finalmente, pennacchi neri di fumo, tende dai colori sgargianti con il simbolo della Frigia, la terra dei Signori dei Cavalli.
Frenai la corsa di Leuca e la feci deviare verso un piccolo boschetto poco distante dall'accampamento; nascosta in quel luogo avrei osservato la situazione con calma, prima di intervenire. Gli uomini non sopportano la presenza delle donne in guerra. La guerra appartiene a loro; le lacrime, invece, sono state create per noi.
Appoggiai una mano sul collo di Leuca e le sussurrai una dolce nenia all'orecchio, per calmare la sua frenesia. Quindi mi avvicinai al limitare del bosco, e nascosta dai cespugli scrutai il campo.
La situazione sembrava tranquilla: gli uomini giravano per l'accampamento, lucidavano le armi e affilavano spade, si preparavano, parlavano tra loro.
La tensione era nell'aria.
Anche da là li scorgevo, i demoni Achei. Le nostre tuniche, sotto l'armatura, erano blu; le loro erano rosso scuro, come il sangue che agognavano spargere.
Li vedevo, sciamare nella piana tra il nostro e il loro accampamento. Sentivo le loro voci, e anche i soldati di Frigia le sentivano, e ne erano innervositi.
Mi sedetti al suolo, e Leuca venne a sdraiarsi accanto a me. Con la sua testa in grembo cercai mio padre; non lo vidi, e neanche riuscii a scorgere la sua tenda.
Ero in un bagno di sudore per la tensione, e il caldo che gravava sulla piana non migliorava certo la situazione.
Un suono di tromba.
Scattai in piedi, e Leuca nitrì forte. Le accarezzai il fianco, e scrutai attentamente quello che succedeva. Vidi mio padre uscire dalla sua tenda, confusa in mezzo alle altre come se fosse quella di un comune soldato; il mantello blu come la notte ondeggiava ad ogni suo passo, come un'onda. Dal campo Acheo, intanto, avanzava una figura avvolta in un'armatura di bronzo che mandava inquietanti bagliori. Dietro di lui vidi l'esercito serrarsi, e il nostro prendere posizione; per vedere bene quello che succedeva dovetti arrampicarmi su di un albero.
Fino a che i due capi si parlarono anche il vento rimase immobile. Tutti trattennero il fiato mentre essi si dividevano e tornavano ai rispettivi eserciti.
Poi le Dee svolsero i fili. E tutto ebbe inizio.
Un urlo rimbombò nella piana, seguito da cento, mille altre grida. Vidi, sgomenta, tutti quegli uomini lanciarsi in corsa, gli uni contro gli altri.
Vidi la polvere tingersi immediatamente di rosso, udii urla di agonia, vittoria, follia. E lì c'ero anche io, che non riuscivo a muovermi, paralizzata dall'orrore delle membra martoriate, dagli occhi pieni di euforica soddisfazione nel versare sempre più sangue. Guardai, guardai e guardai ancora, incapace di distogliere lo sguardo da quel folle gioco di membra dilaniate e armi strappate, vite spezzate dal bacio mortale.
Poi Leuca nitrì, spaventata, e cominciò a scalpitare. Io spostai lo sguardo al suolo e mi morsi un labbro, per non farmi scappare un grido di sorpresa. Un soldato acheo era giunto nel bosco, e ora si aggirava intorno all'albero e cercava di calmare la cavalla. La sete di sangue prese anche me, vinse anche la paura. Il soldato alzò lo sguardo, quando gli piombai addosso, e qualche istante dopo rotolavamo insieme.
Le mie mani si strinsero intorno al suo collo, le sue intorno al mio. Iniziammo a strangolarci a vicenda, nessuno dei due intenzionato a demordere. Poi il berretto si sfilò dai miei capelli, e il guerriero mi fissò. Vidi lo stupore dipingersi sul suo volto, quando riconobbe in me i tratti di una donna. Usai questo a mio favore, e gli sferrai un pugno in viso.
L'uomo lasciò la presa e si prese il naso che ruscellava sangue, urlando di dolore.
Io sgusciai via e corsi al cespuglio dove avevo lasciato l'arco. L'uomo si girò per urlarmi qualcosa ma si bloccò, quando vide la freccia a poca distanza da lui, che ero riuscita a incoccare. Sussurrò qualcosa: forse pietà.
Chiusi gli occhi, sentendo la mia furia sciogliersi. Dovevo comunque salvarmi. Scoccai la freccia, colpendo senza guardare, e mi voltai, corsi il più velocemente possibile via da lì.
Con un fischio chiamai Leuca, e le montai in groppa. Corsi fuori dal bosco e osservai l'orribile panorama che si presentava ai miei occhi. Ma non potevo starmene solo a guardare: dovevo vincere il ribrezzo, gettarmi nella mischia, cercare mio padre. Il pensiero di lui vinse la repulsione. “Avanti, Leuca. Avanti!”, gridai, e lanciai la cavalla in mezzo ai soldati ad una velocità impressionante, falciando soldati e lanciando urla orribili. La mia corsa finì dopo breve tempo: i soldati Achei brandirono le loro lance, ferirono e spaventarono Leuca che si impennò, rischiando di farmi precipitare al suolo.
Mi aggrappai con tutta la forza alla sua criniera; impazzita dal dolore la cavalla ricominciò a correre, seminando il panico e la confusione, senza che io potessi, o sapessi, fermarla. Ero completamente in sua balia; avrei resistito ancora per poco prima di scivolare a terra ed essere infilzata dalle lame nemiche.
Delle figure si pararono davanti a noi, frenarono bruscamente la folle corsa. “Principessa Tecmessa!”
Mi girai, e vidi alcuni soldati Frigi che mi correvano incontro facendosi largo tra cadaveri e nemici. Alcuni riuscirono a prendere il muso di Leuca, a calmarla e a farmi scendere; altri si misero davanti a me per farmi da scudo. “Principessa, che cosa volevate fare? Scappate, il più lontano possibile!”
Li guardai, senza capire le loro parole. “Mio padre...”, dissi.
Loro si guardarono. Abbassarono il capo.
No.
No.
“Lo hanno ucciso, principessa... regina. Un guerriero gigantesco gli ha trapassato il cuore.
Fuggite, mia signora. La Frigia non ha più speranze di resistere.”
Gli avevano spaccato il cuore. Si spaccò anche a me.
“No! Non è vero niente! Lui è vivo! Mio padre è vivo!”
Uno dei soldati mi prese per la vita, mi trascinò via da lì. Mi portò fuori dalla mischia, e ignorando i miei insulti mi posò a terra. Corse via, e dopo qualche tempo ritornò con un cavallo nero. “La riporterà a palazzo. Scappate.”
Mi abbandonò, ritornò in battaglia. Senza comprendere pienamente quello che facevo, montai in groppa al cavallo. Non ebbi bisogno di dargli alcuna direzione: si gettò al galoppo in direzione della Torre Bianca, rapido come un nero fulmine.
Gli avevano spaccato il cuore. Era morto lontano dai miei occhi.
Avevo fallito.

“Tecmessa!”
Sollevai appena il capo. Re Otreo mi stava venendo incontro, e io fermai il cavallo.
Lui mi rivolse un'occhiata furibonda. “Hai solamente una vaga idea di quello che hai rischiato?
Ho fatto un giuramento a tuo padre, e tu stavi per rovinare tutto! Folle!”
Lo guardai. “Volevo salvarlo. Gli hanno spaccato il cuore", dissi con voce atona.
Otreo spalancò gli occhi. Senza dire una parola mi prese, mi sollevò e mi mise sul suo cavallo, lo fece voltare e lo lanciò al galoppo.
Io chiusi gli occhi. “Uccidimi, Otreo. Ti prego, uccidimi”, sussurrai, e tra le sue braccia svenni.

Era tardo pomeriggio quando giungemmo a palazzo.
Otreo frenò il cavallo, mi prese tra le braccia e scese. I servi uscirono a frotte dalla mia dimora, e Tealissa con loro. “Tecmessa! Sia ringraziata la Dea, re di Otrea, l'hai salvata!”
Il mio amato mi lasciò tra le sue mani e corse dai servi. “Preparatevi: dobbiamo partire al più presto. Prendete solo il necessario; ci aspetta un lungo viaggio, non possiamo permetterci di andare lenti.”
Mentre il palazzo risuonava di ordini e voci, Tealissa mi stese a terra, mi bagnò la fronte con un po' di acqua del lago. Io non vedevo niente.
Makros ci raggiunse, si chinò su di me. “Tranquilla, mia principessa.”
Un urlo scosse tutti. E fu come svegliarsi da un brutto sogno per ritrovarsi in uno peggiore.
Carri neri, neri come le nubi che portano tempesta. Lontano, eppure così vicini.
Otreo sfoderò la spada. “Abbandonate il palazzo! Gli Achei sono qui!”

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Capitolo 5
*** Nelle Braccia del Fuoco ***




V - Nelle Braccia del Fuoco




In Guerra non ci sono vinti, né vincitori; l'unica a vincere è Lei.
Per noi due è stato diverso: noi siamo stati vinti dal più dolce e crudele dei re.



Fuggirono spaventati i maestosi cavalli di mio padre, travolgendo e uccidendo chiunque incontrassero sulla loro corsa. Otreo ne fermò uno, montò sul suo dorso.
Mi tese la mano, ma io mi ritrassi. “No”, dissi, spingendo avanti Tealissa.
Vidi gli occhi del mio amato ingrandirsi, farsi ancora più neri. “No...”
“Sì, amore mio. Non c'è tempo da perdere.”
“Non andrò senza di te!”
“Lo farai! Se mi ami, lo farai!”
Otreo chiuse la bocca. Le lacrime riempirono i suoi occhi, e il mio cuore si spezzò una seconda volta.
Mi voltai quindi verso Tealissa, ma lei indietreggiò scuotendo il capo, in lacrime. “Non puoi fare questo.”
Le presi il volto tra le mani. “Devi scappare. Qui c'è solo dolore per te... ucciderebbero il tuo bambino”, mormorai, accarezzandole il ventre. “Tu non devi sopportare niente di tutto ciò.”
La ragazza crollò al suolo, in singhiozzi. Makros le comparve al fianco, la sollevò. Li guardai con dolcezza, cercando di non voltarmi verso Otreo e non fissare i suoi amati occhi.
Il giovane mi guardò, chinò il capo. “Io resterò con te, principessa. Mi hai salvato la vita una volta; ora tocca a me.”
Tealissa si aggrappò con violenza alle braccia del suo promesso. “No! Ti prego, no!”
Urla, nitriti, e la polvere che si alzava ricoprendo ogni cosa. Il nostro tempo stava per finire: di noi, nessuno sapeva che cosa ne sarebbe stato.
Makros strinse Tealissa a sé, le baciò la fronte. “Perdonami.”
Otreo chinò il capo, prese la ragazza per la vita, la pose davanti a sé sul cavallo. Ci scambiammo un ultimo sguardo carico di rimpianto, promesse e sogni, io e il mio impossibile amore; quindi lui lanciò l'animale al galoppo, per lasciare al più presto quella terra non più nostra.
Makros mi mise la mano sulla spalla. “Ora tocca a noi.”
Gliela strinsi. “Sì. Ora tocca a noi.”
Corremmo nel palazzo. I servi mi fecero passare, ed una volta entrata Makros chiuse la gigantesca porta alle mie spalle.

Nella sala del trono ascoltavo le urla dei vittoriosi e quelle dei morenti, il tonfo dei corpi che cadevano a terra.
Ma io... io non avrei atteso invano. Io, Tecmessa, unica figlia del re di Frigia, non ero più una principessa: ero una regina. E da tale sarei morta.
L'armatura che avevo indossato giaceva ai miei piedi; il pugnale di mio padre era tra le mie mani. Tremando me lo portai al cuore, e cercai di farmi coraggio.
Improvviso, terribile, un rombo, e il portale fu divelto.
Scattai in piedi e il pugnale mi scivolò dalle dita, cadde a terra con un tintinnio. Vidi il fuoco che cominciava a divorare il palazzo, e udii un nome riempire la sala e l'aria: “Aiace Telamonio! Aiace Telamonio!”
In mezzo a tutti, immobile, una gigantesca figura nera.
Brividi di terrore percorsero il mio corpo, ma non riuscivo a chiudere gli occhi, spostare lo sguardo da quel guerriero enorme celato dalle tenebre.
Poi lui avanzò, con calma; e come quando le nuvole si sfaldano nel cielo notturno e lasciano trasparire l'argentea Luna, lui apparve.
Era talmente grande che i bracieri più alti gli arrivavano solamente al petto; la pelle era bianca come se fosse fatta di neve, i suoi capelli erano morbidi riccioli di un rosso scurissimo e i suoi occhi recavano la luce del valore. In contrasto con la purezza dei suoi lineamenti, la sua armatura era imbrattata di sangue, come le sue grandi mani.
E a quel punto vidi qualcosa che mi raggelò: al suo polso stava un largo bracciale d'oro, con inciso un simbolo circolare. Era quello che aveva circondato, per anni, il polso del re Teleuta.
Mi trovavo davanti all'assassino di mio padre.

Ricorderò sempre cosa provai quando lui posò lo sguardo su di me. I suoi occhi si illuminarono, e la spada gli scivolò di mano, cadde quasi senza fare rumore.
Si inginocchiò davanti a me, e per un tempo interminabile non lo sentii respirare.
Restammo a guardarci per un tempo lunghissimo: poi lui si alzò e si chinò verso di me, e io indietreggiai.
Le sue mani erano ancora sporche del sangue di mio padre.
Con quelle mani mi prese il volto, me lo alzò. Lo fissai, il gigante che chiamavano Aiace, cercando di apparire coraggiosa.
Vidi i suoi occhi cangianti, ne rimasi rapita. La mia sete di vendetta, i miei impulsi suicidi si sfaldarono sotto la forza di qualcosa che ancora non potevo capire.
Mi prese tra le braccia, mi sollevò. Affondò il viso nei miei capelli e chiuse gli occhi.
Qualcosa, nel mio animo, si mosse. Era ancora troppo presto, per capire.
Si girò, passò sopra il portale, mi portò fuori dal palazzo. I soldati ammutolirono quando lui apparve sulla soglia; poi le loro voci esplosero in un'ovazione. “Aiace Telamonio! Aiace Telamonio!”, urlavano.
Io chiusi gli occhi e nascosi il volto contro la sua spalla, per non vedere. Lui mi baciò sulla fronte e mi disse quelle parole, che non udii mai da nessun altro. “Io ho conquistato il tuo regno; ma tu hai conquistato il mio cuore. E io non posso, né voglio, riprendermelo.
Tu sarai la mia regina.”
Questo fu ciò che mi diedero gli Dèi.
Sangue.
Lacrime.
Urla.
E infine, prima che le tenebre mi potessero prendere e cancellare, la luce dei tuoi occhi.

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Capitolo 6
*** Il Mare Sussurra ***




VI – Il Mare Sussurra




Il Mare, il luogo dell'inganno e del mistero.
Il Mare, l'Incerto Regno.
Il Mare, il Divoratore di Navi.
Avevo sentito tante storie su di Te, Mare. Ma mai avevo udito che abbandonassi la tua infinita dimora, per amore di una donna.

Imparai a piangere, in quegli istanti.
Nella notte rischiarata dai fuochi degli incendi, mentre tutta la Frigia ardeva come una pira e i soldati portavano via le ricchezze di mio padre, piansi.
Piansi fino a non sapere più perché lo facessi.
Mentre ci avvicinavamo alla Troade e la mia prigionia diventava sempre più realtà, cominciarono a rimbombarmi nella mente le astiose parole di Diomede, e questo fermò le mie lacrime. Prigioniera, schiava. Ma non priva di dignità e di fierezza. Non priva della memoria di chi era stata.
Il mio rapitore mi accarezzò il volto. “Temevo che gli occhi ti si sarebbero sciolti, con tutte quelle lacrime.”
Non risposi.
Il mio cuore era in tumulto. Lo odiavo, sì, lo odiavo, lui che aveva spezzato la vita di mio padre e tutti i miei sogni. Ma c'era anche qualcosa d'altro; come se lui fosse l'uomo che nelle mie notti solitarie avevo sempre agognato, la speranza di felicità che aiuta il nostro cuore a sopportare.
Non riuscivo a capire il perché.

Il luccichio del mare ci sorprese, e le nere mura di Troia comparvero all'orizzonte. Mi appoggiai al bordo del carro, e lo strinsi con forza.
Chiusi gli occhi e non li riaprii fino a quando non ci fermammo, e una sferzata di vento caldo ci accolse. I violenti colori del campo acheo ferirono i miei occhi; la lingua ostile declinata dalle voci di mille, mille soldati, si prese la mia mente. E un solo nome riempiva la piana: quello del gigantesco guerriero, Aiace. Questi, sorridendo, mi prese per una mano, mi aiutò a scendere dal carro, e allora udii battute di ogni genere, sulla mia bellezza così singolare, sul fatto che sembrassi un'agnella tra le zampe di un leone.
Infine il silenzio calò su di noi, e i grandi re degli Achei avanzarono. Conoscevo i loro nomi, perché mio padre me ne aveva parlato a lungo. Ora li vedevo davanti a me, come in un incubo.
Il primo fu il Re dei re, il miceneo Agamennone dalla chioma argento e dal portamento pieno di nobiltà. “Figlio di Telamone, gloria e vanto degli Achei, perfino gli Dèi ammirano il tuo valore”, disse, quindi spostò lo sguardo su di me e sugli innumerevoli carri che portavano il tesoro di mio padre.
Fu poi la volta del bel Menelao dalla pelle di bronzo, re di Sparta, il marito della divina Elena, e del vecchio re di Pilo, Nestore il Saggio, che per l'aspetto mi ricordò il mio povero padre e dovetti girarmi, per non versare nuove lacrime.
A loro seguirono il re di Creta, Idomeneo simile ad un dio, e quello dei Locresi, Aiace d'Oileo, dall'inquietante sguardo semi nascosto dai capelli color rame, che si diceva fosse imbattibile con la lancia.
Ultimi, un sorriso pieno di scherno dipinto sul volto, il bellissimo Diomede, davanti al quale non abbassai gli occhi, ed Odisseo, nel quale volto, per un istante, lessi un moto di dispiacere.
Quindi due soldati mi presero, uno per braccio, e mi condussero via, mentre i sovrani si allontanavano.
Fui portata ad un'enorme tenda dal colore purpureo, con due grandi bracieri davanti all'entrata, e spinta avanti. Entrai, e mi trovai in un ambiente spoglio, come doveva essere una tenda di guerra, ma la sensazione che provai fu quella di immenso calore e protezione.
Confusa, con la testa che mi girava, mi sedetti al suolo, cercando di calmarmi.
Sapevo cosa sarebbe successo. I capi si sarebbero riuniti in assemblea e avrebbero deciso la spartizione del bottino del palazzo e delle città conquistate.
Io sarei stata assegnata ad Aiace con parte del tesoro. Sarei stata suo possesso.
E quella notte stessa sarei entrata nel suo letto.
Un senso di freddo mi prese; ma al pensiero di essere assegnata a lui, piuttosto che ad un essere odioso come Diomede, il freddo iniziò lentamente a sfaldarsi.
“Aiace!”
Quella voce squillante e piena di allegria mi tolse dai miei pensieri, e nella tenda irruppe un giovane guerriero dai lunghi capelli nerissimi e dai verdi occhi vivaci, che appena mi vide si bloccò.
Io abbassai gli occhi – e questo avrei dovuto farlo davanti ad ogni uomo, da quel momento –, e in quel momento Aiace entrò nella tenda, seguito da re Nestore. Appena vide il giovane, il volto del gigante si aprì in un grande sorriso, e i due si strinsero in un abbraccio.
“Teucro, fratello mio, quanto mi sei mancato! Pensavo di vederti insieme agli altri capi.”
“Perdonami, ma fino a qualche istante fa ero impegnato con i Salamini nella revisione delle navi, e sono corso alla tenda appena ho potuto... tutti parlano di te!
Hai portato un bottino ancora più ricco di quello che ha recato con sé Achille. Nessuno sospettava che il vecchio re avesse un tesoro di così grande valore.”
Aiace sorrise, e si girò a guardarmi. “Il suo più grande tesoro non è in oro, fratello mio.”
Quindi lo condusse fuori dalla tenda, mentre re Nestore rimase. Mi fissò a lungo, poi si avvicinò, facendomi segno di alzarmi. “Odisseo e Diomede ci avevano riferito quanto la tua bellezza fosse grande, ma le loro parole non ti rendono giustizia. Gioisci, fanciulla: condividerai la vita con un guerriero di indole saggia e nobile, che potrebbe anche amarti; non a tutte è data questa opportunità.”
Non risposi niente. Mi mostrai il più possibile docile e remissiva.
Il re di Pilo annuì, e lasciò la tenda. Io mi risedetti, la mente svuotata di ogni pensiero, e attesi fino a quando Aiace non rientrò, e si avvicinò fino a torreggiare su di me. “Il tuo posto non è seduta a terra, come una comune schiava. Alzati”, disse gravemente.
Obbedii. Lui stette immobile per qualche istante; quindi iniziò a togliersi l'armatura, e alla fine rimase completamente nudo.
Chiusi gli occhi, il mio cuore accelerò. Mi desiderava in quello stesso istante.
Aiace mi prese il volto tra le mani, me lo alzò. “Guardami.”
Riaprii gli occhi, lo fissai; lui mi baciò con foga, tenendomi ferma, quindi iniziò a spogliarmi. Per primi sfilò gli orecchini, che caddero al suolo tintinnando; il bracciale di Otreo li seguì.
Mi morsi le labbra, quando sciolse la cintura, ma non abbassai lo sguardo. Con un fruscio la veste scivolò ai miei piedi; su di essa, infine, finì lo spillone che teneva ravviati i capelli.
Aiace mi fissò negli occhi per un'ultima volta, quindi fece correre lo sguardo sul mio corpo. Allungò una mano, lentamente, e l'appoggiò sul mio cuore. “Se non lo sentissi battere, penserei che tu fossi fatta di bronzo”, disse, rapito.
Mi strinse a sé, accostò la sua bocca al mio collo, iniziò a baciarmi. Il contatto con la sua pelle bollente mi ricordò Otreo, ed istintivamente mi allontanai. Aiace si staccò da me, indietreggiò.
Un velo di tristezza calò sul suo volto. Si rivestì, uscì dalla tenda.
Anche io mi rivestii, con estrema lentezza, quindi raggiunsi un angolo della tenda, quello più lontano dall'entrata. Piansi fino alla sfinimento, finché il pietoso sonno calò su di me.
Non passò molto tempo che mi svegliai, e vidi il mio rapitore seduto sul suo scranno, a poca distanza da me. Notò che ero sveglia, e mi fece segno di raggiungerlo.
Obbedii, tremante, le lacrime che riprendevano a sgorgare dagli occhi. Lui mi afferrò per la vita, mi mise sulle sue gambe.
Io lo guardai, e presa da un moto di disperazione affondai il viso nel suo petto. “Prendete il mio corpo... mio signore, ma lasciatemi le mie lacrime. Lasciate che continui a sognare la mia vecchia vita”, mormorai.
Lo sentii accarezzarmi i capelli, quindi un dito scivolò sotto il mio mento, mi alzò il volto fino a che le nostre fronti non si sfiorarono. “No. Dimenticherai la tua vecchia vita, perché io te ne darò una migliore”, rispose, quindi mi prese fra le braccia, mi sollevò e mi stese sul suo giaciglio.
“Non proverai dolore. Non ho alcuna intenzione di farti soffrire”, mormorò, prima di sdraiarsi accanto a me e perdersi nei miei occhi, quegli occhi pieni di desiderio.

Nella notte odorosa di fumo e canto sentii il bacio del mare sulla pelle, per la prima volta. Sotto lo sguardo di Aiace entrai nell'acqua.
Il sapore del sale e la sensazione di morte si impadronirono di me.
Davanti ai miei occhi la Luna si sollevò dalle acque, e salì, lento disco argentato, donandoci la sua luce.
Io chinai il capo, e vidi il mio riflesso. Immaginai che potesse lasciarmi, che si sarebbe staccato da me da un momento all'altro per correre lontano, a vivere quella vita che io non potevo neanche più sperare.
Aiace mi si avvicinò, e accarezzandomi i capelli mi sorrise. “Il primo ricordo che ho di esso è la sensazione di libertà che provai, quando mio padre mi lanciò per la prima volta nelle sue azzurre acque. L'avevi mai visto prima?”
Mi girai verso di lui. “No. Ma l'ho sempre temuto, e sempre lo farò.”
“Perché?”
Perché ha favorito il vostro viaggio, invece di inghiottirvi, custodirvi per sempre nei suoi abissi, pensai.
Aiace comprese i miei pensieri, e chinò il capo. “Ne vedo già troppo, di odio. Non voglio che anche il tuo sguardo ne sia pieno.”
Uscii dall'acqua, mi sedetti sulla spiaggia. Lui si mise accanto a me. “La verità, wanax Aiace, è che ti odio, per quello che hai fatto a mio padre e al mio regno... ma non quanto dovrei e vorrei: la tua gentilezza mi stupisce. Perché usi questa premura nei miei confronti?
Io non sono più nessuno. Potresti uccidermi, possedermi con la forza, torturarmi, e nessuno arriverebbe a difendermi.
Eppure i tuoi occhi mi dicono che non farai niente di tutto questo, e i tuoi gesti me lo hanno confermato: prima... prima non mi hai preso, non mi hai usato violenza. Nonostante desiderassi il contrario, soffrire per odiarti ancora di più, ciò non è successo.”
Aiace continuò a fissare il mare, e per qualche istante rimase in silenzio. “Appena ti ho visto non ho pensato a te come schiava: non sei da meno delle grandi regine che stanno al fianco di noi sovrani di Acaia, o delle Dee che siedono con Zeus, il re dei nostri Dèi.
Tecmessa, io sono confuso. Non riesco a spiegarti quello che ho provato quando ti ho visto, ma so che se ti dovessi fare del male, lo farei anche a me.
Nello sguardo, nel portamento, hai la tempra di un guerriero, ma la dolcezza delle donne. E se tu volessi uccidermi, per vendicare il tuo amato padre, io non opporrei resistenza.
Ormai Amore mi ha vinto, e non posso niente contro di te.
Il vero schiavo, tra noi due, sono io.”
Restai in silenzio per lunghi istanti; poi, con lentezza, mi appoggiai a lui.
Neanche nella notte Aiace non mi possedette, nonostante bruciasse di desiderio. Posò la testa sul mio grembo, e io gli passai le dita tra i riccioli, prima con timore, come se accarezzassi una fiera, poi con dolcezza.
La mattina seguente, dopo alcuni giorni di tregua per seppellire i caduti, la guerra tra Achei e Troiani riprese, e all'alba vidi il principe rivestire l'armatura e lasciare la tenda, non prima avermi dato un bacio sulle labbra.
Mentre mi avvolgevo nel suo mantello, nel mio cuore mi ritrovai a desiderare che ritornasse, e pregai quegli Dèi che lui stesso onorava perché lo vegliassero.

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Capitolo 7
*** Nel Labirinto del Cuore ***




VII – Nel Labirinto del Cuore




Il Sole moriva all'orizzonte e rinasceva, moriva e rinasceva, senza posa, scandendo il tempo delle nostre vite.
Ogni mattina mi svegliavo con il tintinnare delle armi, tra le voci dei guerrieri che si preparavano ad assaporare nuovo sangue e gli ultimi baci di Aiace, che non si era ancora sciolto dalla stretta delle mie braccia e già il suo gigantesco scudo lo attendeva in fondo alla tenda, come un cupo richiamo. E mentre lui combatteva, io scendevo verso il mare, a fissare l'acqua farsi oro o a passeggiare sulla sabbia bagnata, mentre lasciavo scorrere i miei pensieri verso lidi lontani.
Nessuno mi rivolgeva la parola: le altre prigioniere mi evitavano, mi lanciavano sguardi chi di timore, chi di sfida, e scappavano verso una cala sul mare, dove l'acqua era dolce perché proveniva da un lago poco distante.
A volte raggiungevo il bosco che lo custodiva, da dove potevo vedere tutta la piana di Troia, e fissavo l'orribile strage che vi aveva luogo, guardando con apprensione Aiace, ben visibile nella sua gigantesca armatura di bronzo, affrontare orde di Troiani insieme a suo fratello Teucro; tremavo per ogni colpo che ricevevano, tanto che alla fine scappavo a rifugiarmi nella tenda, dove abbracciavo il mantello del mio guerriero immaginando che tra le mie braccia ci fosse lui, e il mio gesto potesse proteggerlo da ogni pericolo.
Pregavo a lungo che il Sole accelerasse la sua corsa e quando, al tramonto, sentivo il vociare e le risate dei soldati, la mia trepidazione aumentava, finché la figura di Aiace non si stagliava all'ingresso della tenda e il sorriso gli illuminava il volto, dopo che mi aveva vista.
Allora, mentre lui si spogliava e si dirigeva verso il mare perché le onde lo liberassero del sangue non suo – non veniva mai ferito –, correvo al lago con le anfore a prendere l'acqua con cui avrei riempito la tinozza, dove si sarebbe adagiato per ricevere le mie carezze. Non avevo ancora terminato il compito, che Aiace rientrava, mi bloccava la mano e mi trascinava nell'acqua con lui, per amarmi a lungo.
Mi lasciava nuovamente per raggiungere le tende dei capi, e due dei suoi soldati mi accompagnavano da Teucro, al quale mi ero legata come ad un fratello, che passava tutta la sera a narrarmi della loro amata isola natale, Salamina. Infine, venivo riaccompagnata alla tenda di Aiace, e dopo poco lui mi raggiungeva.
Questo agognavo per tutta la giornata: il momento in cui la Guerra avrebbe smesso di chiamarlo, e lo avrei avuto tutto per me; la sua dolcezza e il suo luminoso sorriso avevano vinto sulla mia ritrosia, e desideravo che la notte si prolungasse per altre due, come accadeva nei racconti che spesso lui mi raccontava, dopo esserci ancora amati. Poi lui smetteva di parlare, mi guardava, e mi chiedeva di cantare.
Sì, alla fine imparai ad amarlo, anche se era l'uccisore di mio padre. Ma nell'accordo del nostro amore, che cresceva ogni giorno di più, udivo una nota stridula.
Sentivo che avrei dovuto fare una scelta, una terribile scelta, e da quella sarebbe dipesa la nostra felicità.
Non avrei dovuto attendere a lungo, per scoprirlo.

Quel mattino lasciai la tenda con una strana sensazione sulla pelle e nel cuore. Il campo era stranamente tranquillo, e i rumori della Guerra giungevano attutiti, come se tutto fosse immerso nella nebbia.
Mentre mi recavo alla cala sul fiume per lavare il mantello del mio guerriero, fui certa che qualcuno mi stesse osservando. Mi voltai più volte; non c'era nessuno.
Eppure ero sicura di non essere sola, di essere seguita e spiata, come se qualcuno stesse valutando il momento giusto per ghermirmi.
Cercai di dimenticare quella sensazione impegnandomi nel mio compito, ma mentre sfregavo il mantello vidi l'acqua scorrere agitata: eppure in quella cala, di solito, correva placida.
Cavalli in corsa, verso di noi... e dalla parte non sorvegliata del campo. L'inquietudine mi prese il cuore e mi spinse a lasciare in fretta la cala, senza attendere che il mantello si asciugasse sulle rocce, per correre verso la tenda, dove trovai un po' di pace.
Forse era stata solo una sensazione. Un'orribile sensazione.
Improvvisamente, dal campo e tutt'intorno si alzarono delle urla, e il clangore delle spade riempì l'aria.
Ci stavano attaccando, ed eravamo senza difesa!
Spaventata, frugai tra il bottino di Aiace, e ne trassi una spada. Non morirò senza tentare di difendermi, pensai, mentre contro la tenda si stagliavano ombre orribilmente distorte, come demoni urlanti che fiutavano il sangue dei vivi. Una su tutte, gigantesca, continuò ad aggirarsi intorno, brandendo una grande spada e urlando parole che mi parve di riconoscere, ma che la paura mi fece dimenticare.
Alla fine si fermò davanti alla tenda e tutto oscurò, coprendo il Sole, fino a che lontano non si udì l'urlo dei soldati Achei e l'ombra fuggì, consentendo il ritorno della luce. Quindi udii un pianto straziante e una fanciulla entrò nella tenda, cadendo sull'ingresso.
Mi alzai e corsi al suo fianco, la presi tra le braccia. Era veramente bella, ma i lunghi riccioli scarlatti e la pelle di latte erano intrisi di sangue, una guancia le era stata crudelmente sfregiata e la veste era ridotta a brandelli.
“Non temere. Ora non ti possono più fare del male”, dissi, sperando che le mie parole fossero vere. Piantai vicino a me la spada, e al vederla la ragazza singhiozzò.
“Stavo dormendo, quando ho sentito delle mani che mi strattonavano, mi serravano le caviglie. Ho cercato di urlare, ma un uomo mi è balzato sopra e mi ha serrato la bocca con una mano, intimandomi di non urlare.
Quattro guerrieri mi hanno trascinata fuori dalla tenda, tenendomi una spada alla gola, ma io non volevo calmarmi e ne ho colpito uno con un pugno; questo mi ha preso e sbattuto al suolo, e aggredendomi mi ha inciso una guancia sputandoci sopra, mentre gli altri dicevano ingiurie di ogni tipo.
Si sono dati alla fuga quando hanno udito gli Achei arrivare, e io mi sono trascinata dietro a loro, bloccandone uno per le gambe. L'ho fatto cadere, e gli Achei lo hanno fatto a pezzi sotto ai miei occhi. Sono scappata via, per non vedere altro orrore.”
La strinsi a me, e dopo qualche istante Teucro balzò nella tenda. “Tecmessa! Stai...”, si bloccò, quando vide la ragazza, e si avvicinò.
“Stiamo bene”, dissi, e il giovane arciere prese delicatamente il viso della giovane e fissò la ferita. Strinse i denti, e la presa sul suo arco si indurì. “Cani di Lici”, sibilò alzandosi, “si battevano come leoni, nella piana. Non eravamo in grado di controllarli, e alcuni di loro sono riusciti ad aggirarci e ad arrivare fino al campo, mentre il loro re seminava il panico tra gli Achei... non ho mai visto uno Spirito ardito e furioso come quello tra gli alleati Troiani: perfino Achille gli teneva testa a fatica e, per quanto tentasse, i suoi attacchi si infrangevano come acqua sugli scogli contro quell'essere divino, senza scalfirlo... se non fosse stato per le urla che provenivano dal campo, avremmo trovato solo cadaveri.”
Una fiamma di rabbia si accese nei suoi occhi, mentre rivolgeva di nuovo lo sguardo al volto della giovane. Mi morsi un labbro. “Aiace... è stato ferito?”
Teucro accennò un sorriso. “Lui potrebbe anche scendere in battaglia senz'armi. Non hai da temere niente per mio fratello.”
“Lasciatemi, maledetti!”
Il rabbioso grido ci fece sobbalzare, e ci spinse fuori dalla tenda. Qui vedemmo Aiace d'Oileo, il feroce principe dei Locresi, trascinare per i capelli un giovane guerriero licio; appena ci vide fece un segno a Teucro, che annuì e sparì con altri soldati. Il figlio di re Oilo fece poi scorrere uno sguardo su tutti noi, e infine lo spostò sul licio. A quel punto un ghigno orribile si dipinse sul suo volto, e un tremito percorse anche noi.
“Che cosa gli faranno?”, mi chiese la ragazza, stretta a me.
Io scossi la testa. Temevo di conoscere la risposta, avendo scorto quanto maligno fosse l'animo del locrese.
Quando vidi Teucro tornare con due pali e delle corde, e altri due con un braciere ardente, compresi di aver ragione e chiusi gli occhi, pregando che tutto finisse in fretta.
Ci furono istanti di silenzio.
“Ora vediamo di che pasta sei fatto”, sentii dire da Aiace, e conficcai le unghie nella carne dei palmi.
Un lungo, agghiacciante grido mi fece sfuggire un singhiozzo, e l'odore di carne bruciata mi diede alla nausea. Sentii che la ragazza si scioglieva dal mio abbraccio e correva mia, mentre io non osavo aprire gli occhi. Copiose lacrime iniziarono a rigarmi le guance.
Il secondo urlo fu ancora più terribile del precedente, e mi volsi a rifugiarmi nella tenda.
“Questo è solo un assaggio, se non risponderai alle domande che ti farò. Quindi comportati bene, rispondi alla mie domande e ti concederò una morte rapida.”
La malvagia voce di quell'animale mi raggiungeva anche lì, e tremai di nuovo.
“Dimmi, bel giovane: perché avete attaccato il campo, ben sapendo che qui c'erano solo donne e servi? Cercavate di arrivare alle navi?”
Un rantolio. “La scorsa notte... ci ha raggiunto un gruppo di guerrieri. Non erano... Lici.
Chi li guidava ha parlato a lungo con il nostro principe, e questa mattina lui ci ha guidato in battaglia. Noi avevamo... avevamo...”
Un altro grido, soffocato, e una risata. “Stai andando bene, ragazzo mio. Ma non hai ancora risposto pienamente.”
“Non ci ha detto niente della navi. Noi dovevamo... solo arrivare al campo, e uccidere chiunque avessimo trovato, donne comprese. Dovevamo trovare... trovarne una.”
“Quale donna?”
“Una donna che voi tenete prigioniera, una delle ultime che avete preso. Altro... altro non so.”
Un sospiro, poi il suono della lama che fendeva la carne. E tutto finì.
Attesi qualche istante e poi uscii, e vidi Teucro e gli altri che slegavano il cadavere del povero licio, che aveva ancora la spada di Aiace infilzata nel cuore.
Mi diressi al lago, nelle orecchie ancora le disperate grida del torturato, e qui incontrai la ragazza, seduta sulla riva e con il volto chinato sulle sue ginocchia. Alzò lo sguardo quando mi vide, e io le sorrisi. Mi sedetti al suo fianco, le presi una mano. “Dimmi il tuo nome”, le chiesi, mentre mi strappavo un lembo della veste e lo intingevo nell'acqua per ripulirle il viso.
“Partenia.”
Sorrisi. “Da dove vieni?”
La fanciulla scosse il capo. “Da quando mia madre ha deciso di espormi nella piazza della mia città ad una lenta e atroce morte, ho deciso che non pronuncerò mai il nome di quei luoghi. Io sono nata nell'esercito, perché fu uno dei guerrieri achei ad avere pietà di me e a salvarmi.
L'esercito è la mia famiglia, il mio passato, tutto quello che ho.”
Annuii. Partenia mi guardò con grandi occhi neri. “E tu? Tu chi sei?”
Sospirai, e posai la pezza a terra. “Una donna che aveva tutto quello che si potesse desiderare. Eppure, cercava qualcosa che non riusciva mai a trovare.”
“E ora sai cos'è?”
Sorrisi. Pensai ad Aiace, il mio gigantesco guerriero. “Lo sto imparando”, risposi.
Partenia si appoggiò alla mia spalla. “Quel giovane uomo... quell'arciere. Mi ha guardato in un modo che nessun altro aveva mai fatto, tranne... tranne quel guerriero che mi salvò.”
Sorrisi. “Sei bellissima, chi non ti guarderebbe con piacere?”
Lei chiuse gli occhi. “Lo so bene come mi guardano gli uomini. Io sono una comune prostituta, appartengo a tutti, anche ai capi... e vedo i loro sguardi.
Non c'è affetto, non c'è amore quando mi guardano. Per questo so riconoscere quando essi vi sono.”
La baciai sulla fronte. “Allora, non lasciarli scappare.”
Lei annuì, e sorrise. Ritornò al campo, mentre io rimasi al lago, a fissare le onde lambirmi i piedi e ritirarsi, senza tregua.
Al tramonto, il mio Aiace mi raggiunse, e si sedette accanto a me. “Perdonami per quello che hai dovuto vedere. Se fossi riuscito a fermare quei maledetti... ti avrei risparmiato un tale spettacolo.”
Scossi la testa. “Sono le leggi della Guerra. Dovrò imparare a conviverci.”
Aiace mi prese tra le braccia, cullandomi dolcemente e ricoprendomi di baci, fino a che mi sentii meglio. Tornammo insieme alla tenda, ma sul cammino trovammo re Nestore, venuto per chiamare Aiace alla tenda di Agamennone.
Lo lasciai andare e feci per raggiungere Teucro, ma lo vidi insieme a Partenia, quindi declinai verso la spiaggia. Mi sedetti sulla sabbia e per un lungo tempo osservai con tristezza il cadavere del giovane licio, lasciato in pasto a cani; alla fine non riuscii più a trattenermi, e lo seppellii.
Quindi mi spogliai e mi immersi nel mare, per lavarmi dalla sabbia intrisa di sangue che mi macchiava le mani. Toccai il fondale con la schiena, guardai l'opaca macchia argentata della Luna e risalii, senza fiato. Raggiunsi la riva per rivestirmi, e improvvisamente sentii un respiro sul mio collo. “Solo le Dee sorgono dal mare come fai tu, mia principessa.”
Mi girai pensando di avere a che fare con Odisseo, invece mi trovai davanti gli occhi di Otreo. Balzai indietro per la sorpresa, e lui mi afferrò i polsi e strinse a sé.
“Otreo...”, sussurrai, e il suo bacio mi mozzò il fiato. Sentii la sua bruciante eccitazione premere contro le mie gambe, e mi scostai.
Lui mi tenne ferma. “Seguimi. Tra poco i capi torneranno alle loro tende, e la tua scomparsa verrà notata.” Fece per trascinarmi, ma io rimasi ferma. “Sei stato tu ad ordinare a quei Lici di venirmi a prendere.”
Il re sorrise. “Pensavi che ti lasciassi in mano agli Achei? Sapevo che non ti avevano uccisa, sei troppo desiderabile, e che tu non avevi avuto il coraggio di farlo.”
Corrugai la fronte, infastidita da quelle parole. “Lo stavo per fare. Ma loro sono arrivati prima”, risposi.
Otreo fece un altro sorriso, come di comprensione. “Comunque sia, ora sei libera. Andiamo: non ho l'armatura con me, non so se riuscirei ad affrontare un combattimento.”
Non mi mossi. “Perché, il tuo coraggio non ti basta?”
Otreo mi fissò, sorpreso. Io indietreggiai. “Un giovane guerriero è morto sotto la tortura, oggi. Era uno di quelli che avevi mandato per la tua missione.
Tu non eri con loro. Perché non sei venuto tu in persona a salvarmi?”
“Mi avrebbe inseguito tutto l'esercito! Come avrei potuto salvarti?”
“Hai ragione: non avresti potuto. Perché io non voglio esserlo.”
Gli occhi di Otreo si allargarono. “Sei impazzita? Qui sei solo una schiava!”
Scossi la testa. “No. Non è vero.”
Il re mi prese la testa fra le mani. “Cosa ti hanno fatto, per farti diventare così?
Ti hanno terrorizzato a tal punto da renderti succube?”
Mi liberai dalla sua presa. “Tra gli Achei c'è chi ha mutato il mio cuore, cancellando l'odio e ridandomi il sorriso. Non lo lascerò.”
Otreo mi strinse le mani intorno al collo. “Tuo padre ti rinnegherebbe, se fosse ancora in vita per sentire queste parole. Stai dimenticando chi sei.
Ma io te lo farò ricordare.”
Rantolai, il fiato che veniva a mancare sempre più velocemente, e Otreo lasciò la presa, inorridito dal suo stesso gesto.
Tossii, e lo fissai con rabbia. “Tu non conosci chi mi ha preso prigioniera, ma ti dico che mio padre sarebbe felice sapendomi al suo fianco non come schiava, ma come una moglie.
Gli Dèi mi hanno destinato al suo amore, e non al tuo. Lasciamelo vivere.”
Otreo indietreggiò, rabbioso. “Non ti lascerò andare. Tu mi appartieni!”
“Io appartengo solo a me stessa!”, ruggii.
Il re fece un sorrisetto. “Se questo ti da felicità, allora credici. Ma scoprirai che la realtà è molto diversa.”
“Spero che sia l'ira a parlare per te, e che non sia questa la tua vera indole. Altrimenti, ringrazio di essere stata strappata alle tue mani.”
Otreo mi schiaffeggiò con violenza, e io a mia volta lo colpii; quindi, con la guancia in fiamme, corsi via, verso il campo.
Quando Aiace tornò mi trovò ancora in lacrime, la guancia gonfia. Lui mi alzò il volto, e si imporporò per la rabbia. “Chi ha osato colpirti?”, disse, fremendo.
Io gli presi una mano e la poggiai sulla mia guancia. “Il Passato”, singhiozzai.

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Capitolo 8
*** Astro delle Tenebre ***




VIII – Astro delle Tenebre




Mi svegliai frequentemente quella notte, e ogni volta che lo facevo allungavo una mano per toccare il corpo di Aiace, per assicurarmi che lui fosse accanto a me.
Temevo il giorno e quello che sarebbe accaduto. Così, quando vidi l'alba sorgere e Aiace si mosse, io lo serrai in un abbraccio.
Il mio gigante mi baciò sui capelli, mi accarezzò il volto. “Non temere, mia amata. Oggi non ci sarà battaglia, perché abbiamo stabilito una tregua per tributare i degni onori ai nostri morti.”
“Allora resta con me.”
Come avrei voluto fermare il tempo e portarti via da lì, in un luogo dove niente avrebbe turbato il tuo sonno, dove io avrei potuto sempre vegliare sulla tua felicità.
Aiace mi prese fra le sue braccia. “Non mi conosci ancora, ragazza. Io non temo nessuno, neanche gli Dei.”
Se solo tu avessi potuto sapere che la sofferenza era parte del tuo Destino, parte del tuo nome stesso.
Chiusi gli occhi. “Tu non conosci Otreo.”
Lui sbuffò, mi lasciò andare e si girò sull'altro lato. “Dimenticavo: tu lo conosci meglio di me.”
Esitai. “Non puoi rimproverare il mio passato.”
Il mio guerriero si alzò in piedi, ergendosi nudo in tutto la sua altezza, e mi guardò con rabbia. “Lui ti ha avuto prima di me. Mi è nemico più degli altri.”
Mi alzai anche io. “Dovrei esserti nemica anche io, in quanto ho consentito che mi prendesse.”
Aiace distolse lo sguardo dal mio. Si diresse verso il suo scudo, lo sfiorò con la stessa timorosa delicatezza che usava per toccare il mio corpo.
Io mi avvicinai, lo abbracciai da dietro. “Vorrei che tu rimanessi con me. Almeno per oggi.
La Guerra, gli altri Achei ti hanno per tutto il giorno; io ti ho per me solo la notte, a volte neanche per quella.”
Sentii che il suo corpo si irrigidiva, reagiva con il mio, e il suo scudo scivolò al suolo. “Non posso.”
Mi staccai, indietreggiai. “Dici di amarmi, ma con i tuoi atteggiamenti dimostri il contrario.
Tu ami la Guerra, il sangue, la Morte; ami i loro baci furiosi, non i miei.”
Lui si girò verso di me, gli occhi ardenti. Mi afferrò per i polsi, mi strinse a lui. “Dici il vero, perché tu sei questo: ogni notte con te è come il fragore di una battaglia; ogni volta che mi guardi, ogni volta che mi sorridi e ti fai amare, immagino se quello sguardo, quel sorriso non ci fosse, se tu non ci fossi... e io muoio dal desiderio di te.”
Sorrisi. “Allora muori tra le mie braccia. Ora”, gli sussurrai.
Vidi i suoi occhi cambiare colore, riempirsi di lacrime che mai scendevano: esprimeva così la sua furia, il suo scoramento. Compresi che non avrebbe ceduto, e sospirai.
“Oggi devo scendere alla cala, e dopo mi recherò al lago... ti aspetterò lì, se tu vorrai raggiungermi”, dissi.
Lui spalancò gli occhi, scosse il capo. “No. Ho dato ordine ai miei uomini di sorvegliarti finché non avrò preso quel demone.”
“So difendermi benissimo da sola”, replicai.
Aiace incrociò le braccia sul petto. “Conosco la tempra delle donne d'Oriente e ti credo. Ma farai quello che dico io: attenderai il mio ritorno qui, al sicuro.”
Socchiusi gli occhi, e Aiace fece lo stesso con i suoi. “Tecmessa, non osare”, sibilò.
Lo guardai sostenuta, quindi sorrisi; dopo qualche istante, il sorriso illuminò il volto anche a lui, che si inginocchiò davanti a me. “Tu mi farai impazzire, donna”, mi sussurrò, e prendendomi per la vita mi stese nel suo grande scudo; e quando si staccò da me, dopo un tempo che mi parve troppo breve, io vi rimasi, cullandomi, e infine cedendo al sonno.
Mi svegliai di colpo, quasi tre ore dopo, per via di un orribile odore che mi fece lacrimare gli occhi e salire un conato, dal tanto che era forte e tremendo. Uscii sulla tenda, barcollando, e due dei guerrieri di Aiace fecero appena in tempo a prendermi, prima che cadessi rovinosamente al suolo.
“Acqua”, sussurrai senza forze, “vi prego, portatemi dell'acqua.”
Uno dei due mi prese fra le braccia e mi portò alla cala sul mare. Appena mi immerse nell'acqua fredda mi sentii meglio, e il senso di nausea lentamente si calmò.
Dopo qualche istante Partenia mi raggiunse. “Tecmessa! Che succede?”, gridò preoccupata.
Io sorrisi. “Stavo dormendo... quando mi sono svegliata di colpo. Sentivo un terribile puzzo, e quando mi sono alzata le forze mi sono mancate. Ora sembra che tutto sia passato.”
Partenia corrugò la fronte e non disse niente. Prese nelle mani altra acqua, mi risciacquò il viso; quindi mi aiutò ad alzarmi e mi accompagnò alla tenda, per poi rimanere con me.
“Forse ti stai facendo coinvolgere troppo da quello che sta accadendo”, disse la ragazza, facendomi stendere e coprendomi con il suo velo.
“Difficile non esserlo, quando vedi la carneficina che ogni giorno si compie alle porte di Troia e il tuo amato che vi combatte in mezzo... ancora più difficile resistere al pensiero di armarmi e scendere in battaglia con lui.”
Partenia sorrise. “Non te lo lascerebbero fare, neanche se tu fossi invincibile come Achille.”
Da fuori provennero grida e ordini; la ragazza andò all'entrata della tenda a osservare i guerrieri che costruivano le pire funebri, l'ultimo onore ai fratelli d'armi caduti.
Mentre guardava, vidi calare sul suo volto un'ombra nera. “Tutti gli uomini agognano il sangue. Odiano la Guerra eppure la cercano, perché solo con essa possono dimostrare quello che valgono.
E poi ci siamo noi, noi donne. Ci strappano ai nostri affetti, alle nostre case, ci conducono lontano; dicono di amarci, promettono di rispettarci, ci reclamano al loro fianco.
Ma la verità è un'altra. Noi siamo il loro premio, il simbolo della loro dignità.
Noi viviamo solo per questo: ricordare loro chi sono.”
Rimasi in silenzio, perché anche io avevo conosciuto uomini simili.
Partenia si girò a guardarmi, il sorriso ritornò sul suo volto. “Ma tu sei stata fortunata; e anche io, alla fine.”
Si avvicinò, si sedette accanto a me. “Non so cosa i Numi abbiano in sorte per gli Achei, ma ascolta le mie parole: se Aiace e Teucro dovessero perire, non devi permettere a nessun altro, capo o guerriero che sia, di averti. Fuggi, o ucciditi: altrimenti avrai solo sofferenza.
Io l'ho provata sulla mia pelle, e so di cosa parlo: tu non devi subirla. Promettimelo.”
Annui; Partenia mi strinse la mano, quindi mi lasciò. Rimasi a crogiolarmi nel tepore della tenda per qualche tempo, fino a quando un giovane con la benda blu intorno al braccio – un guerriero di Salamina – entrò nella tenda e si inchinò davanti a me. “Il mio signore Aiace chiede che ti scorti fino alla spiaggia, dove ti sta attendendo.”
Sorrisi, mi alzai. Uscii dalla tenda, e quasi mi scontrai con Diomede, che girò il viso dall'altra parte, un'espressione superba dipinta sul viso.
Feci per proseguire ma lo vidi bloccarsi, girarsi e fissare il braccio del guerriero che mi precedeva.
“Tu”, gli disse, dopo qualche istante, e quello si fermò, “dove stai portando questa donna?”
L'altro non rispose, ma lo feci io. “Dal wanax Aiace. Mi ha chiesto di raggiungerlo alla spiaggia.”
Diomede spostò lo sguardo verso di me, poi alle mie spalle. Mi voltai anche io, e vidi in lontananza la gigantesca mole del mio guerriero spiccare fra gli altri soldati, mentre si apprestava a costruire una pira, e mi rigirai verso il salaminio, che in quel momento estrasse una spada ricurva.
Notai il simbolo che incideva l'elsa – un sole nero –, e impallidii. Un guerriero di Otreo.
Diomede estrasse la spada, fulmineo, e afferrandomi per un braccio mi trascinò dietro di lui.
“Corri! Più veloce che puoi!”, mi gridò mentre si gettava in avanti, e io gli obbedii. Iniziai a correre oltre il campo, al limitare della piana, verso un gruppo di Achei, ma un guerriero uscì improvvisamente da una tenda e mi prese per la vita, facendomi cadere.
Urlai e il mio assalitore mi sferrò un pugno, rompendomi il labbro. Mi prese con violenza e mi rigirò, si appoggiò su di me con tutto il suo peso e tra le sue mani spuntò un pugnale, che puntò alla mia gola.
“Perdonami”, lo sentii sibilare, e il gelido della lama che scorreva sulla gola. Il sangue sgorgò, e io urlai disperata.
Sentii allora come una raffica di vento, e Diomede prese il guerriero per le gambe e lo trascinò via da me, per poi lottarci insieme nella polvere.
“Tecmessa!”
Teucro apparve al mio fianco e mi prese tra le braccia, guardando con orrore la ferita. “Non è profonda... poco più che un graffio”, dissi, mentre un sibilo tagliava l'aria. L'arciere ebbe un singulto e si accasciò al suolo con me, un pugnale conficcato nel petto.
“No!”, urlai, gli occhi pieni di lacrime.
“Allontanati da lui.”
Alzai lo sguardo, e incontrai gli occhi di Otreo, pieni di odio e crudeltà. Boccheggiai.
“Allontanati, ho detto.”
Io scossi la testa, mi misi davanti a Teucro. “Non lo farò.”
Otreo mi puntò la spada contro. “Quindi è lui il tuo uomo?”
Con uno scatto da serpente mi prese per i capelli, mi sollevò. “Sarà il primo a morire; poi sarà il tuo turno, infine il mio. Così ti avremo entrambi, mia lussuriosa regina.”
In preda alla furia gli morsi il braccio, e Otreo mi lasciò andare con un grido. Strisciai verso Teucro, afferrai l'arco che aveva lasciato cadere e armeggiai con la faretra.
Sentii la carica di Otreo dietro di me, incoccai. Mi voltai, e la punta della freccia gli sfiorò il petto.
Il re si fermò, mi guardò spaurito mentre la spada gli cadeva di mano. “Tecmessa...”, sussurrò, e io repressi un singhiozzo. Per un istante pensai di non farlo. Glielo dovevo, per tutto quello che era stato per me; era tutto ciò che mi rimaneva della mia vecchia vita.
Poi vidi che Diomede era a poca distanza e altri Achei stavano accorrendo e lo circondavano, aspettando il momento di averlo nelle loro mani. E io non avrei avuto il coraggio di stare a guardare mentre lo torturavano e uccidevano atrocemente.
Lo guardai negli occhi. “Valoroso Otreo... io non ti dimenticherò mai”, dissi, e scoccai. La freccia gli trapassò il cuore, uno spruzzo di sangue mi raggiunse.
Cadde in ginocchio senza un lamento, il mio Otreo, e poi al suolo, gli occhi aperti e rivolti al cielo.
Aiace, Idomeneo e gli altri capi arrivarono di corsa e i loro occhi passarono da me, ancora con l'arco tra le mani, al cadavere di Otreo, e viceversa. Perfino il terribile Diomede fissava attonito la scena e non osava avvicinarsi.
Un silenzio irreale gravava su tutti noi.
Poi sentimmo un passo cadenzato, e tutti distolsero lo sguardo quando giunsero Menelao ed Agamennone. Quest'ultimo fissò la scena, gonfiò il petto e i suoi occhi brillarono di furore.
“Tu”, puntò il dito contro di me, “una donna, una schiava, hai osato brandire un'arma e colpire un re?”
Impallidii, e tremai.
“L'ha fatto per proteggermi”, tentò di difendermi Teucro, ma Agamennone lo zittì con un'occhiata. “Perché, non eri capace di farlo da solo? Quel graffio al petto ti ha tolto il coraggio?
Hai bisogno di una donnicciola per difenderti, tu che sei il migliore fra i nostri arcieri?”
Quindi si girò, guardò l'esercito. “E voi, avete perfino paura di parlare? Cosa siete, uomini o pecore?
Perché non siete intervenuti? Volete essere la vergogna dell'Ellade, voi che un giorno volete gloriarvi di aver preso la superba Ilio?”
L'ira del re di Micene era terribile e nessuno osava contrapporsi, neppure il suo stesso fratello. Dopo essersi sfogato su Teucro e sull'esercito, Agamennone tornò a me. “Hai osato prendere il posto di un uomo, privando il re di Argo”, e indicò Diomede, “di una preda ambita, per questo verrai punita come tutti i soldati codardi e irrispettosi. Diomede, sai cosa fare.
Quanto a voi, cani, al lavoro! Vi siete riposati abbastanza, e gli Spiriti dei nostri compagni attendono i loro onori!”
L'esercito si disperse, e solo Aiace mi si avvicinò. “Lo farò io”, disse a Diomede, guardandolo con sfida.
Il re di Argo rispose con uno sguardo duro. “No, spetta a me. Conosci le regole”, rispose prima di allontanarsi.
Aiace strinse i pugni, si voltò verso di me. “Alzati, subito!”
Obbedii, impaurita dal suo tono. “Cosa mi faranno?”, balbettai.
Il suo sguardo mi fulminò. “Che cosa ti è preso? Spettava a Diomede a ucciderlo, non a te!
Hai privato un re del suo onore, hai commesso una colpa enorme! Perché lo hai fatto?”
Le lacrime mi salirono agli occhi. “Perché ora non avresti più un fratello”, singhiozzai, “e io non avrei nemmeno il coraggio di guardarti.”
L'espressione di Aiace mutò; distolse lo sguardo, per non piangere.
Diomede ritornò in quel momento, la frusta che usava per i suoi cavalli tra le mani. Mi prese per un braccio e mi trascinò alla spiaggia, in una zona appartata dove non potevamo essere visti da nessuno.
Aiace ci seguì, e notai con la coda dell'occhio che anche Partenia lo fece.
“Inginocchiati”, disse Diomede, e io fui costretta ad ubbidire.
Aiace si mise davanti a me, mi strinse i polsi. “Il dolore passerà presto. Stringi i denti e non urlare, se puoi”, mi sussurrò, e già versavo lacrime di umiliazione e rabbia, mentre Diomede mi lacerava la veste sulla schiena con un gesto secco.
Il primo colpo quasi mi gettò a terra, per la violenza con cui venne dato.
Il secondo mi annebbiò la vista.
Al terzo repressi a stento un urlo in un mugolio.
Sentii un nuovo sibilo e attesi il morso del quarto; invece, la frusta scivolò sulla mia schiena come una carezza, e Aiace mi lasciò andare.
Caddi al suolo, e Diomede si inginocchiò accanto a me. “Avrei dovuto continuare a colpirti fino a spezzarti in due, ma non lo farò. Hai ucciso l'uomo che toccava a me affrontare... ma hai anche salvato un mio compagno; sei stata coraggiosa e nobile, ma ricordati che sei pur sempre una donna, e che se dovesse accadere di nuovo non avrò questo riguardo.”
Aiace mi aiutò ad alzarmi, mi avvolse nel suo mantello. Mi girai a guardare il re di Argo e lessi nei suoi occhi, per la prima volta, qualcosa di simile all'ammirazione, mista al consueto disprezzo.
In quel momento il vento portò di nuovo quel terribile odore, e io non riuscii a trattenere lo stomaco.
Aiace mi prese fra le braccia e mi ripulì la bocca, e stava per riversare dure parole su Diomede, quando Partenia si avvicinò e lo fermò. Annusò l'aria, quindi sorrise.
Aiace la fissò con stupore, e la ragazza continuò a sorridere. “Ne avevo il sospetto, ma ora ne sono sicura”, disse infine, indietreggiando un poco.
“Sospetto di cosa? Parla, stupida, sospetto di cosa?”, sbraitò il mio amato.
Partenia non rispose, ma mi guardò. Compresi, e boccheggiai portandomi le mani al ventre.
Aiace spalancò gli occhi e si inginocchiò al suolo, mentre Partenia se ne andava seguita da Diomede, che teneva lo sguardo a terra e sul viso recava un'ombra, una traccia di tristezza.
Pianse a lungo il mio Aiace, il volto sepolto nei miei capelli e le mani strette alle mie sul mio ventre, mentre il rumore del mare ci cullava.

Il momento di raggiungerti si avvicina.
Ed è per questo, prima che ogni forza mi abbandoni, che sarò costretta a lasciare sepolti nel cuore tutti gli istanti che ci legarono negli anni che fui al tuo fianco, per riportare invece alla mente altri ricordi: come alcuni Mortali divennero Immortali.

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Capitolo 9
*** Sole Nero ***




IX – Sole Nero




Fissai il mio volto nello specchio, quel giorno. Quando Aiace lasciò la tenda offrendosi ad un altro giorno di sangue e sabbia, io lo trassi dal mantello e mi guardai a lungo.
Cinque anni erano passati da quando mi avevi recato con te la prima volta.
Quattro, da quando ogni sera prendevi tra le braccia Eurisace, il nostro adorato bambino, e lo cullavi a te fino a farlo addormentare.
Io non avevo più la bellezza di quando tu mi vedesti per la prima volta: il mio corpo si era ingrossato ed ero logorata, come tutti voi, dalla Guerra; ma mi sentivo bella nel tuo sorriso, nelle tue carezze sui miei capelli, nelle parole che nonostante il tuo sconforto, la tua pena, continuavi a riservarmi.
Avevi l'animo nobile, fiero ma gentile, e le rare volte che mi trattasti con durezza ti perdonai sempre. Io vedevo dentro il tuo cuore e cercavo di curare le tue ferite. Ma per alcune ho fallito.
Non sono riuscita a vedere in tempo le nubi che si addensavano su di noi; e quando seppi il nostro Destino, esse erano già Tempesta.

“Madre... madre, perché ti stai specchiando? Hai perso qualcosa in fondo agli occhi?”
Alzai lo sguardo, sorrisi. Eurisace, i grandi occhi neri di re Teleuta e i soffici riccioli di suo padre, mi salì in grembo e si accoccolò a me.
“Piccolo guerriero, sì, ho perso qualcosa. Ma se tu mi dai un bacio, lo ritroverò.”
Il mio bambino mi baciò entrambi gli occhi, e due lacrime ne uscirono. “Perle liquide”, sussurrò lui, prendendole.
Io lo strinsi al mio petto, lo cullai.
“Madre...”
“Ti ascolto.”
“Perché mio padre questa mattina è uscito senza armatura? Come farà a combattere?”
“Oggi non si combatte. Dobbiamo onorare i nostri amici morti.”
“E come si fa?”
“Li si mette su di una torre di legno, e dopo il fuoco li condurrà in un luogo dove potranno essere di nuovo felici.”
“E io quando ci andrò?”
Rabbrividii. “Non ti piace più giocare con Patroclo e Teucro?”
“Certo che mi piace! E voglio che anche nel luogo dove i morti sono felici io continui a giocare con loro.”
Sorrisi, lo baciai sui capelli.
“Mio padre ha promesso che mi farà vedere la sua isola. Quando ci andremo?”
“Quando tutto questo sarà finito.”
“E se non finisse mai?”
“Finirà.”
“Come fai a saperlo?”
Sorrisi di nuovo. “Io sono tua madre. Io so tutto.”
“Davvero? E sai anche cosa diventerò?”
“Un guerriero bellissimo, e fortissimo. Tutti tremeranno al tuo apparire, e il tuo urlo risuonerà per intere città.”
“Come quello di Diomede?”
“Più forte.”
“A me il suo urlo fa veramente paura. E anche lui. E Odisseo.”
“Imparerai a non temerli.”
“Tu hai paura?”
“No.”
“Come fai? Tutti hanno paura di loro!”
“Io e tuo padre no.”
“Perché?”
“Perché siamo i tuoi genitori.”
Eurisace sorrise, poi mi abbracciò. “Vorrei che tu mi portassi via di qui. Che mio padre smettesse di armarsi, che fosse sempre con me. A volte sogno che lui non torni, e io... io piango.”
Le parole mi si mozzarono in gola, non seppi cosa rispondere. Dopo qualche istante la tenda si aprì e Patroclo, il giovanissimo compagno di Achille che tutte le donne amavano per la sua dolcezza, entrò.
“Patroclo!”, urlò Eurisace, fiondandosi tra le sue braccia per poi correre fuori.
Sorrisi al figlio di Menezio. “Portalo alla cala. Non voglio che veda le pire”, sussurrai al giovane, e lui annuì. Mi guardò, e il suo sorriso si incrinò. “La tristezza non s'addice al tuo volto.”
Distolsi lo sguardo dai suoi capelli dorati. “Non s'addice a nessuno, Patroclo, eppure regna da tempo in questo campo. Mi chiedo come sarebbe la nostra vita, se esso non esistesse.”
Lui mi accarezzò una guancia. “Non conosceremmo la felicità.”
Sorrisi a mia volta, e Patroclo si congedò con un cenno, rispondendo agli allegri richiami di Eurisace.
Andai sulla soglia a vederli scendere verso la spiaggia, poi mi diressi alla tenda di Teucro, dove trovai Partenia intenta a prendere vesti e mantelli. Anche lei si accorse del mio umore. “Non ti ho mai visto così, Tecmessa. Che succede?”
Scossi la testa. Non lo sapevo neanche io. La verità, Tecmessa, è che già sapevi. Mentire non cambia le cose.
La accompagnai al lago, la aiutai a lavare le vesti. Quindi le mettemmo ad asciugare sulle rocce, e intanto ci sedemmo sulla riva.
Partenia annusò l'aria, scosse la testa. “Credo che oggi succederà qualcosa di... nuovo. Ho come una sensazione.”
“Come un sentore di pioggia”, risposi.
L'ira di un dio condiziona ogni cosa. Come ho fatto a dimenticarlo?
Mi voltai verso la ragazza. “Sento che stai per dirmi qualcosa. Qualcosa che ti disturba.”
La ragazza si torse le mani. Si alzò, cominciò a camminare in tondo. “Questa mattina ho accompagnato Teucro fuori dalla tenda, e ho visto quel vecchio uomo camminare solo sulla spiaggia. Piangeva, quel poveretto, e tutti si sono fermati a guardarlo.
Portava con sé le insegne sacerdotali, ricchi doni e un dolore così forte da mozzarmi il fiato.
Si è recato alla tenda di Agamennone, quindi tutti i capi si sono immediatamente diretti là. Poco dopo ho sentito le urla del re, e ho visto quel vecchio spinto fuori dalla tenda a forza. Le sue lacrime sono raddoppiate, e così la mia oppressione.
Lo rividi... lo rividi tornare indietro, camminare di nuovo sulla spiaggia, e all'improvviso alzare le mani al cielo e urlare di rabbia. Ci ha maledetti, Tecmessa... ci ha maledetti tutti.”
Spalancai gli occhi, mi presi la testa fra le mani. Fu allora che mi accorsi di quello che stava accadendo. Il Sole era diventato nero, e c'era silenzio. Tutto si preparava alla strage imminente.
Fissai il cielo, quindi presi le vesti e le diedi a Partenia. “Partenia, ritorniamo al campo. Ho... ho paura a rimanere qui.”
Ritornammo indietro, e dopo aver lasciato la ragazza alla tenda di Teucro scesi alla cala, per cercare Eurisace. Quando lo vidi giocare spensierato con Patroclo la mia inquietudine si placò un poco, e tornai indietro. E sulla soglia della tenda di Aiace, vidi quella ragazza.
Due guerrieri argivi la trascinavano per le braccia e lei li guardava, con occhi spaventati, stringendo le labbra per non piangere. I nostri occhi si incrociarono per qualche attimo e ne rimasi affascinata, dal tanto erano lucenti.
I guerrieri la gettarono al suolo e lei rotolò nella polvere, le mani sul capo per proteggersi. Le sue vesti erano belle, rosso cupo e ricche, segno che era di nobile famiglia, e mettevano in mostra le forme morbide e ampie della ragazza.
Uno dei guerrieri corse alla tenda di Agamennone, mentre l'altro faceva rialzare la ragazza e le ripuliva la veste, indugiando lascivamente sul seno. La ragazza per risposta gli diede uno schiaffo, facendomi sorgere un sorriso, e iniziò a urlare.
Il guerriero le serrò la bocca con una mano e la strinse per la vita, mentre l'altro arrivava in corsa con il suo re. Diomede.
“Spero che il motivo per il quale mi avete costre...”, iniziò a sbraitare il biondo sovrano, poi il guerriero spinse avanti la ragazza, e lui si bloccò.
Io mi ritrassi un po' dentro la tenda, osservando Diomede avanzare di qualche passo e sovrastare con tutta la sua altezza la giovane, che abbassò il capo.
“L'abbiamo trovata sulle rive dello Scamandro, mio wanax”, esordì il guerriero che la teneva stretta.
Il re non disse nulla, ma fece allontanare i guerrieri e le si avvicinò di più. “Dimmi il tuo nome”, le chiese, e la ragazza alzò il capo per guardarlo. “A chi potrebbe importare del mio nome?”, rispose, e io feci un altro sorriso. Bel carattere.
“Ti ho fatto una domanda, e tu devi rispondere.”
“Anche io ho fatto una domanda.”
Diomede strinse i pugni. Osservò i riccioli scuri che le lambivano il collo, quindi passò un dito sulla pelle candida delle spalle, facendola rabbrividire.
Il re ridacchiò, socchiudendo gli occhi. “Non sei troiana. La tua pelle è troppo bianca per essere una di loro.” [1]
Tacque e si chinò verso la ragazza, che tentò inutilmente di indietreggiare. “Invidio chi ha il privilegio di averti nel suo talamo, ma a me concedi almeno quello di sapere il tuo nome.”
“Athanassa”, rispose lei, “Immortale.”
Diomede sorrise, le accarezzò i capelli con un gesto pieno di malizia.
“Non è un premio di guerra, figlio di Tideo.”
Il re si rialzò con uno scatto rabbioso e si girò verso Nestore, che avanzava lentamente e guardava la fanciulla.
“È una nobile misia, promessa ad un figlio di Antenore.”
A quel nome Diomede impallidì, e un fugace sorriso solcò il volto del wanax di Pilo.
“Agamennone deve essere informato”, mormorò il vecchio, quindi Diomede lo seguì, lo sguardo a terra.
Li seguii nascondendomi tra le tende, non riuscendo a reprimere la curiosità con il pensiero di ciò che mi avrebbero fatto se mi avessero scoperto.
“Grande Agamennone, ti chiedo il permesso di parlare. Miei compagni, miei amici”, sentii esordire Nestore, “i guerrieri del prode Diomede hanno trovato una fanciulla sulle rive dello Scamandro e l'hanno portata come prigioniera al campo.”
“E interrompi il nostro consiglio per una scaldaletto?”, lo interruppe la dura voce di Agamennone.
“È una figlia della Misia... e promessa sposa ad uno dei figli di Antenore.”
“In questo caso, dobbiamo riportarla. Antenore ci è amico, non possiamo fare altrimenti”, udii in risposta, e riconobbi la voce profonda del signore di Creta, Idomeneo.
“Senza un riscatto?”, si intromise Menelao.
“Questo non sarebbe rispettoso, Menelao. La fanciulla è legata ad un nostro ospite.”
“Antenore è un troiano, quindi un nemico.”
“Potremmo perdere la sua amicizia”, intervenne infine Odisseo, “e questo ci potrebbe costare molto.”
“Costare cosa? Altro dolore? Altri lutti? Come se già non ci fossimo abituati alle sofferenze.”
“Compagni, re, ascoltatemi: propongo di tenere la ragazza presso di noi.
È molto legata ad Antenore, e per questo è ancora più preziosa al nostro scopo; con lei nelle nostre mani, il vecchio non potrà che onorare il patto”, mi avvicinai di più, non riuscendo più a sentire la voce dell'astuto itacese, “... se ci tiene veramente.” [2]
“E sia, wanax Odisseo. Sarai tu, saggio Nestore, a custodirla.
E ora basta; abbiamo già perso troppo tempo a parlare di donne”, fu l'ultima risposta di Agamennone.
I capi uscirono dalla tenda, e anche io corsi via, fermandomi presso quella di Diomede. Dopo qualche attimo vidi il giovanissimo figlio di Nestore, Antiloco, entrare e prelevare la ragazza misia, e Diomede sopraggiungere dopo pochi istanti.
Mi vide e con poche falcate mi raggiunse, afferrandomi per un braccio senza che io avessi il tempo di allontanarmi. “Hai ancora il sorriso dipinto sul volto”, ringhiò.
“La volevi per te, vero? Ma non l'avrai”, gli sibilai in risposta.
Il re sorrise. “Non ci sarà mai uomo che riuscirà a insegnarti il rispetto e il decoro, vedo. E sappi che non mi metto a litigare con le donne; non c'è alcun onore.”
La parola con cui mi chiamò subito dopo era così umiliante, che per la prima volta in sua presenza le parole mi mancarono.
Il re si allontanò, perdendo alcun interesse per me, mentre io mi diressi verso la tenda di Aiace, cercando di non piangere.
“Pensavo di trovarti qui”, disse il mio eroe, disteso sulle pelli di lupo che costituivano il nostro giaciglio.
“Ero al lago”, mentii, sdraiandomi sul suo ampio petto. Lui mi accarezzò i capelli, me li baciò.
Non so quanto tempo trascorse, prima di udire quel grido lacerante. L'urlo di un bambino.
“Eurisace!”
Balzammo in piedi, corremmo fuori dalla tenda; dovetti appoggiarmi al braccio di Aiace, per non cadere.
I guerrieri scivolavano nella polvere, dissanguati, senza un lamento. Non si vedeva l'arma che li aveva colpiti.
Ben presto, l'intero accampamento era pieno di moribondi.

Fissai il cielo: era sempre più nero. “Aiace, entriamo nella tenda”, sussurrai trascinandolo dentro.
Eurisace piangeva disperato tra le sue braccia, vedendo i guerrieri contorcersi e gettare sangue.
Aiace si sedette al suolo con lui tra le braccia, e mi guardò. “È tutta colpa nostra.”
Mi inginocchiai davanti a lui, gli presi la testa tra le mani e lo costrinsi a guardarmi. Lui strinse ancora di più Eurisace e il suo sguardo si riempì di angoscia. “Che cosa abbiamo fatto... che cosa abbiamo fatto.”

La peste infuriò per nove giorni, senza darci tregua.
Le tende si chiazzavano di sangue, la sabbia era umida dagli umori che lasciavano il corpo.
E tutto iniziò quel giorno, il giorno in cui Agamennone rifiutò al sacerdote di Apollo, Crise, la restituzione della sua bella figlia.
Ai nove giorni in cui passammo il tempo abbracciati, terrorizzati che le frecce invisibili potessero raggiungersi e ucciderci, seguì quello in cui scoppiò l'ira di Achille, quando la sua prediletta Briseide gli venne sottratta perché andasse ad Agamennone, che in cambio restituì a Crise la figlia.
Tutto iniziò quel giorno: il primo degli ultimi giorni della città di Troia... e della nostra storia.



NOTE


[1] Ho ripreso la descrizione di Athanassa da quella di Briseide: essa (di origine misia) nell'Ars Amandi di Ovidio viene descritta come pallida di carnagione, di capelli scuri e vestita di porpora.

[2] Quando Menelao e Odisseo vennero sotto le mura di Priamo per la prima volta e chiesero, con un'ambasciata, la restituzione di Elena, i due furono ospitati dal nobile Antenore. Questi rimase sempre in buoni rapporti con il nemico anche durante la guerra e, secondo una versione del mito, aiutò gli Achei a prendere Troia consegnando loro il Palladio, la statua di Atena che proteggeva a rendeva inespugnabile la città, in cambio della sua salvezza.
Per questo, nel Medioevo divenne il simbolo del tradimento (tanto che Dante chiama Antenora la zona dell'Inferno dove giacciono i traditori della patria).

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Capitolo 10
*** Gli Immortali ***


X – Gli Immortali




Mi svegliai, scrutai l'oscurità della tenda. Quel canto... uccelli. Gli Dèi avevano cessato l'ira.
E questo significava solo una cosa... Guerra.

Mi misi a sedere e Aiace aprì gli occhi. Ci guardammo per qualche istante, poi lui si alzò.
Rimasi a fissarlo mentre senza una parola si armava, infine mi alzai anche io e lo aiutai a prepararsi. Presi la sua spada, mi specchiai in essa. “Tutto questo ci porterà alla follia.”
Aiace prese la spada senza rispondere, inquieto quanto me. Incrociai le braccia sul petto, mi misi a camminare per la tenda e lui digrignò i denti. “Fermati, donna. Mi innervosisci ancora di più.”
“Terribili cose succedono quando i Numi scendono tra gli uomini. Si sono placati, ma per quanto?”, mormorai.
Aiace socchiuse gli occhi. “Temili pure, tu. Io non ho bisogno di loro.”
Perché lo hai detto? “Attento a quello che dici.”
Aiace piantò la grande spada al suolo, i suoi occhi si incendiarono fissandomi. “Dovresti scendere in campo anche tu, per capire quello che sto dicendo. Agli Immortali non importa niente di noi; basta solo concedere loro il nostro sangue, le nostre vite.
Se ne stanno in pace nella loro dimora, e ci osservano soffrire, indifferenti come se neanche esistessimo.
Come se neanche esistessero.”
Indietreggiai spaventata. “Smettila di dire questo, ti prego. Non attirare su di noi vendette che non meritiamo.”
Aiace si fermò, chinò il capo. “Che mi puniscano pure, ma che sia solo io ad esserlo. Tu non hai colpe. Tu ed Eurisace siete l'unico motivo per cui io continuo a pregarli.”
Il silenzio calò nella tenda. Lui prese lo scudo, lo fissò. “A volte vorrei che tu fossi al mio fianco anche nella piana, a darmi forza e sostegno quando penso di non poter più resistere oltre.
Poi mi giro e lancio uno sguardo fugace al campo, e ti penso al sicuro con nostro figlio... e mi maledico per avere solo immaginato che...”
Sorrisi. “Anche io vorrei essere con te. Vorrei essere questo scudo che ti ripara, che ti permette di ritornare ogni sera. Ma posso solo proteggerti con il pensiero.”
Aiace mi alzò il viso, mi baciò sugli occhi. “Tu sei la mia Dea, Tecmessa.”
Gli presi una mano, gliela baciai. “No, Aiace. Io sono solo il tuo cuore.”
Un groppo mi si formò in gola quando lo vidi uscire, e mi stesi di nuovo sulle pelli di lupo per dissipare i pensieri nel sonno. Versai qualche lacrima, pregai gli Dèi come facevo tutti i giorni, tutti gli istanti, e infine mi addormentai.
Mi svegliai di soprassalto, perché c'era qualcuno che mi osservava. Mi voltai e vidi, seduta al suolo a qualche passo da me, Tealissa.
Io boccheggiai, tesi una mano. “Sei un sogno”, sussurrai, e lei si alzò, venne a stendersi al mio fianco. “Sorella”, disse, e sentii la sua voce, sentii veramente la sua mano che stringeva la mia, “davvero dici di amare il tuo forte sposo, se neanche vegli su di lui?
Alzati, corri al lago: guarda come gli uomini possono diventare pari ai Numi.”
Io la guardai stupita, e lei mi tese una mano. “Vai al lago, Tecmessa. L'epoca delle meraviglie ha bisogno di un testimone.”
Mi svegliai appena in tempo per sentire l'aria muoversi, mentre il Sogno abbandonava la tenda. Avevi torto. Gli Immortali amano giocare con gli uomini.
Mi alzai e mi recai al lago, al limitare dei boschi, dove potevo vedere la piana. Dovetti sedermi e respirare forte per l'emozione, perché impossibile da credere era ciò che vedevo. Gli Dèi erano sul campo, con voi.
“Un altro giorno di sangue.”
Mi voltai e Athanassa, la fanciulla misia, avanzò e venne a sedersi accanto a me, leggera come una rondine.
“Quelli che piangi tu non sono gli stessi che piango io”, dissi osservandola attentamente.
Lei sorrise. “Sì, quello per cui potrei piangere forse ti è nemico. Ma potrei anche piangere per un Acheo. Non posso saperlo, perché non conosco il disegno del mio Destino.”
Sospirò, il suo sguardo volò alle mura di Ilio. “Ilio”, iniziò, la sua voce più dolce del suono della cetra, “la casa da cui ho avuto solo disprezzo; un disprezzo che nacque con me, frutto non voluto di una relazione pericolosa e oscena.
Mia madre non si perdonò mai l'errore che aveva portato alla mia nascita, e appena diventai fertile cercò di farmi sposare un nobile di Licia. Io e quel giovane dagli occhi viola ci conoscemmo... e ci innamorammo. Per notti e notti riuscimmo a eludere la sorveglianza dei nostri palazzi e ad incontrarci nelle grotte dell'Ida, dove non solo conobbi il fuoco impetuoso del Desiderio e il piacere che porta con sé, ma per la prima volta compresi cosa volesse dire essere amata. Mia madre scoprì che non ero più pura perché qualcuno ci tradì e, dopo avermi fatto frustare a sangue, ruppe l'accordo matrimoniale. “Tu lo ami, e l'amore porta solo rovina”, fu la sua fredda risposta alla mie lacrime.
Tra gli uomini che avevano chiesto la mia mano, solo uno non ritrasse la sua proposta, dopo aver scoperto la mia colpa: Antenore di Troia. Egli accettò di accogliermi nella sua famiglia anche senza dote, e io non dimenticherò mai il mattino che lo vidi giungere e gli corsi incontro, mi gettai tra le sue braccia implorandolo di portarmi via da lì, da mia madre.
Lui è un uomo buono, ma il figlio al quale mi aveva destinata non lo è. La stessa notte del mio arrivo penetrò nella mia stanza e prendendomi per i capelli mi puntò un coltello alla gola, ordinandomi poi di spogliarmi. A nulla valsero i miei tentativi di resistere; mi colpì con tale crudeltà da farmi perdere ogni forza, e solo l'intervento di Antenore impedì che lui mi uccidesse.
Dopo quella notte il ragazzo non mi rivolse più la parola né allungò ancora le mani su di me, ma Antenore mi dovette allontanare mandandomi in dono al figlio maggiore.
Ieri ho lasciato la città dopo mesi, per cercare un po' di ristoro dalla confusione; era ancora presto per combattere, neanche era l'aurora, e c'era così silenzio...
Non potevo sapere che ci fossero guerrieri in ricognizione, e... e ora sono qui. Dove, prigioniera, ho trovato più rispetto e gentilezza di quando ero libera.”
Si girò verso di me, mi fissò. “Ora che ti guardo... tu sei la donna di quel gigante, Aiace Telamonio. Dicono che sia invincibile in battaglia, secondo solo a quella furia dai capelli rossi, Achille, ma che sorrida sempre.”
Annuii, arrossendo leggermente. “Sì, lui sorride sempre.”
Mi fissò ancora per qualche istante, quindi ritornò con lo sguardo alla piana. I suoi occhi si puntarono su Diomede, dal cimiero scarlatto, che quel giorno guidava tutti gli Achei con un impeto degno di un Nume.
“Diomede di Argo”, disse Athanassa, mentre gli occhi le brillavano, “il più giovane e il più irritabile dei capi.”
“La sua aggressività è nota a tutti. Non ti fa paura?”, le chiesi, guardandola di sottecchi.
“Non li biasimo: pare un Dio, per l'ardore. Ma non lo temo. Non so perché... ma credo che dentro di lui ci sia di più di quel che appare, qualcosa di profondo... e triste.”
Insieme lo guardammo, il re di Argo. Nubi color porpora che sembravano mandate dagli Dèi, o Dèi stessi, si contorcevano nel campo, e lui le affrontava senza timore.
Un urlo terrificante scosse tutto l'esercito, e Athanassa distolse lo sguardo. Un Dio richiede rispetto. Un Dio ferito, terrore.
“Hai mai combattuto, Tecmessa?”, riprese la sua dolce voce.
Esitai. “Due volte. La prima seminai lo scompiglio tra i soldati, e quasi rimasi uccisa anche io.
La seconda volta salvai il fratello di Aiace da... da un nemico. E per questo, mi presi tre frustate.”
Athanassa sorrise. “Impulsiva ed inesperta, ma coraggiosa. Sei come me.”
Sorrisi. “Questo è il giudizio di un guerriero.”
La ragazza annuì. “Quello che ognuno di noi è, in fondo al cuore. Anche noi donne dobbiamo imparare a combattere... anche se in altri modi.”
“Tecmessa! Tecmessa, dove sei?”
Mi voltai. Partenia mi raggiunse, trafelata per la corsa, lo sguardo pieno di terrore. Guardò Athanassa, e poi me. “Ettore di Troia ha proposto un duello. Gli Achei hanno accettato, e hanno fatto un sorteggio tra nove di loro... ed è stato estratto il nome di Aiace.
Aiace combatterà contro Ettore, Tecmessa... fino alla morte.”
Un rivolo di sudore freddo mi scese lungo la schiena. Ettore, il campione dei Troiani, contro il mio Aiace. Barcollai, e Athanassa mi sorresse. “Non avere paura per lui.”
“Uno dei due morirà. E tutti sanno quanta furia ci sia in Ettore, e quanto sia abile nel combattere.”
Lei mi bloccò la bocca con la mano. “Basta così; Aiace non è ancora morto. Non piangerlo prima che sia giunto il suo momento e sappi che, fra tutti, lui solo potrebbe battere il potente Ettore.
Ma ora osserva attentamente, perché singhiozzare e fuggire via non ti aiuterà a soffrire meno.”
Annuii, e concentrai i miei occhi nella piana. Tremavo, perché temevo che le parole che il mio guerriero aveva rivolto agli Dèi quella mattina avessero segnato il suo Destino. Troppo presto. Gli Dèi sono pazienti.
Strinsi Partenia a me, mentre Athanassa mi afferrò le mani, me le strinse per tenerle ferme.
Ci fu un grido, quindi i due eserciti si serrarono e i due guerrieri avanzarono l'uno contro l'altro. Li osservai parlare per qualche istante, quindi balzare indietro e dare inizio alla danza del Sangue.
Il primo a sferrare l'attacco fu Ettore, che scagliò la sua lancia. Fiacco fu il suo tiro, perché lo scudo del mio guerriero trattenne la punta micidiale.
Con un urlo ferino, Aiace tirò la sua: questa colpì Ettore fin dentro l'armatura, e il principe barcollò per il colpo ricevuto... senza essere ferito.
Entrambi strapparono via le lance e lasciarono da parte ogni gioco, gettandosi uno contro l'altro con furia. Ancora colpì Ettore, e ancora Aiace, che riuscì a far sgorgare una stilla di sangue dal collo del principe di Troia; ma la lotta era destinata a durare per un tempo lunghissimo, e ad ogni colpo il mio cuore accelerava o rallentava i battiti, così che mi sembrava di essere io stessa a combattere con Ettore.
Esultai quando Aiace colpì Ettore con un gigantesco masso e lo rovesciò al suolo, per poi affrontarlo con la spada senza, tuttavia, riuscire ad ucciderlo. Mai.
Improvvisamente sentii la dolce Partenia chiamarmi, e quando ebbe la mia attenzione indicò il cielo.
“Il tramonto”, disse Athanassa, per poi sorridere, “La Guerra rispetta la Notte. Non ci sarà alcun vincitore, e nessun vinto.”
Qualche istante dopo queste parole, da entrambi gli eserciti uscirono i messaggeri, che corsero ai rispettivi campioni; quindi Aiace ed Ettore si fermarono, si fissarono per qualche istante. Infine, lasciarono cadere le spade... e si sorrisero. Lo scontro era finito.
Entrambi gli eserciti esultarono, mentre noi ci abbracciamo per poi correre dai nostri amati.
Il campo degli Achei risuonava di grida di lode e richiami, in quel giorno in cui i capi si erano distinti valicando il confine tra umano e divino, diventando fulgide stelle piene d'onore.
Sorrisi, vedendo Teucro che abbracciava Partenia e la trascinava dentro alla tenda, ed Eurisace mi corse incontro e mi saltò in braccio. “Mio padre ha combattuto tutto da solo, madre! Io voglio diventare come lui! Voglio combattere anche io!”
Singhiozzai di gioia e lo baciai mentre osservavo le lacrime e il sudore, i sorrisi pieni di stanchezza e di orgoglio dei combattenti e, alla fine, Aiace. Eurisace si sciolse dal mio abbraccio, corse verso di lui, e il mio cuore si commosse, quando vidi il padre alzare fra le braccia il proprio figlio e l'esercito esplodere in un boato di esultanza.
Attesi che il baluardo degli Achei mi vedesse, quindi mi voltai e mi diressi verso la cala. Mi immersi senza svestirmi, godendo dell'acqua fresca sul corpo.
“Eccola, il mio scudo e la mia spada.”
Risi, mi voltai. Aiace si fece avanti, lentamente, e io uscii dall'acqua per aiutarlo a spogliarsi dell'armatura; quindi lavai il suo corpo, baciandogli il viso segnato di graffi, e lo strinsi al mio petto senza parlare; guardammo insieme il Sole lasciare il nostro mondo, scomparire nel mare.
“Non mi hai mai raccontato come gli Immortali crearono la notte, come la resero un dono per noi umani”, gli dissi, accarezzandogli i riccioli.
“Noi non siamo umani, Tecmessa”, fu la risposta, mentre i suoi occhi intrappolavano le ultime stille di luce, “noi siamo figli del Sole. Gli umani scompaiono senza lasciare traccia; noi, invece, sempre ritorneremo, come il Sole ricompare ogni mattino, e vinceremo i millenni con le parole e i ricordi di chi verrà dopo di noi.
Noi siamo i figli del Sole: coloro che non muoiono mai veramente.”

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Capitolo 11
*** Il Sorriso delle Moire ***


XI – Il Sorriso delle Moire




Quella notte si banchettò a lungo.
Accoccolata nel nostro giaciglio, sorridevo vedendo le ombre dei guerrieri che ridevano e si stringevano attorno al fuoco, e ascoltavo le mille storie che raccontavano sul duello avvenuto nella piana e sull'encomiabile ardore con cui il re di Argo aveva affrontato i Troiani.
Mi addormentai abbracciata ad Eurisace, serena, perché gli Dèi vegliavano su di noi. Provavo nel cuore la stessa euforia di quei guerrieri, condividevo la loro speranza che presto tutto sarebbe cessato e le navi sarebbero ripartite verso le terre d'Acaia, dove avremmo trovato l'agognata pace. Quella notte sognai Salamina, così come Aiace e Teucro me l'avevano raccontata: profumata di fiori, così bella da togliere il fiato.
Nel cuore della notte mi svegliai perché Aiace aveva fatto ritorno, ed Eurisace si era alzato per andargli incontro. Alla luce dei fuochi ancora accesi vidi il padre abbracciare il figlio, e una dolcissima nenia riempì la tenda e mi fece salire le lacrime agli occhi per la commozione.
Poi, quando Eurisace si addormentò, Aiace si stese accanto a me; io allungai una mano, gliela passai tra i capelli.
Lui mi prese tra le braccia baciandomi con passione, quindi mi portò fuori dalla tenda; e in quel momento lo vidi, il frutto di quella notte: il gigantesco muro costruito su consiglio di Nestore, l'unica cosa che, ora che la guerra sembrava giunta ad una violenza inarrestabile, avrebbe potuto proteggere le nostre navi dai Troiani.
Aiace mi portò fin sotto di esso e si lusingò dei miei sguardi stupiti mentre fissavo quell'opera gigantesca, toccandola per assicurarmi che non fosse un inganno dei sogni; poi il mio eroe mi prese per mano, mi condusse sulla spiaggia.
Io mi strinsi al suo braccio, lo baciai. “A volte ricordo la prima notte che mi portasti qui. Allora desideravo la tua morte... mentre adesso, se gli Dèi me lo permettessero, morirei al posto tuo.”
Aiace sorrise. “Ricordo anche io, quando scende la notte e finalmente posso vedere i tuoi occhi. Ricordo e vorrei dirti tante cose, ma alla fine non riesco a fare nulla se non guardarti, e guardarti ancora.
Questa Guerra ci sta privando anche di noi stessi; ma io, almeno per una notte, voglio che non sia così.”
Il suo tono si incrinò mentre diceva queste ultime parole, e la mia presa si fece più forte. Lui chinò il capo senza dire niente, poi mi fece virare verso un piccola altura, una collinetta arsa dal sole, dove solo un gigantesco albero era riuscito a crescervi.
Si fermò sotto di esso, mi guardò. “Lo so cosa stai pensando: che siamo invincibili.
Ma la verità è un'altra: giorno dopo giorno, i Troiani sembrano aumentare il loro impeto, farsi più forti... mentre noi siamo sempre più stanchi, sfiduciati e senza scopo. Ma non tutti; io combatto ancora per qualcosa.”
Fece una pausa e io attesi, impaziente. Lui mi fece girare intorno all'albero e scostò alcuni cespugli che erano cresciuti alla base del tronco.
Nascosta tra le radici, comparve una specie di tana; quindi Aiace staccò un ramo dall'albero, e con delle pietre accese un fuoco per farne una torcia.
Mi aiutò a scendere in quell'umido anfratto, e ai miei occhi apparvero le pareti di un cunicolo.
Il mio guerriero mi prese per mano, iniziò a percorrerlo. “La spiaggia poco più avanti fa una curva, una rientranza, che è impossibile notare dal pendio; essa è abbastanza ampia perché una nave vi si possa nascondere. Il cunicolo conduce proprio là.”
Iniziai a comprendere; ma aspettai che fosse lui a dirlo. Uscimmo dalla galleria e ci trovammo in una spiaggia riparata, dove l'aria era più calda e la sabbia bianchissima.
Ci fermammo, e lui si sedette con me in grembo. “Tecmessa, da adesso in poi dovrai ascoltarmi attentamente, e fare tutto quello che ordinerò. Se io...”
Le parole gli mancarono per qualche istante. “Se i Troiani dovessero sfondare il nostro muro, voglio che tu sia pronta. In questi giorni, ti chiedo di stare vicina alla spiaggia.
Se l'esercito Acheo dovesse cedere, tu lascerai immediatamente il campo con Eurisace, e senza voltarti correrai qui. Alcuni dei miei guerrieri hanno già ricevuto gli ordini: mentre gli altri saranno impegnati a combattere, prenderanno una nave e verranno a prendervi, per portarvi in salvo a Salamina.”
Chinai il capo, in silenzio, e lui mi sollevò il viso.
“Vuoi salvarmi da una vita di vergogna... come se tu non sapessi cosa farei, se tu non tornassi”, risposi lugubre.
Aiace si fermò, mi afferrò per un braccio. “Se fosse questo ciò che vorrei, allora nel momento della disfatta lascerei la battaglia per venirti ad uccidere con le mie stesse mani!
Non mi ingannare, donna. Sarebbe come se tu mi uccidessi due volte.”
Esitai, e Aiace mi strinse a sé. “Il mio palazzo ha trenta stanze [1], e le tue saranno quelle più belle. I miei genitori ti ameranno come una figlia e tu conoscerai solo pace, rispetto, e felicità.”
Mi divincolai dalla sua presa. “Il cuore mi detta altro, Aiace. Se tu morirai, io ti seguirò.
Non ti lascerò scendere da solo nella casa di Ade.”
Aiace si imporporò, sferrò un pugno sulla sabbia. “Pensi forse che tutto questo sia un gioco?” Mi morsi le labbra, chinai il capo.
“Non darmi questo dolore, Tecmessa... mia regina.”
I miei occhi si inumidirono, quindi affondai il viso nel suo petto. “Ti attenderò là, nel palazzo dalle trenta stanze. Ma tu dovrai tornare.”
“Tecmessa...”
“Gli Immortali mi hanno donata a te, non possono dividerci. Tu sei il mio Destino!”, singhiozzai.
Lui mi accarezzò una guancia, e io piansi. Alzammo lamenti come un canto funebre. Tutto era già stato deciso, e una mortale cosa può contro le mani del Fato?

Come se le nostre parole l'avessero evocato, quel giorno funesto venne.
Eurisace giocava sulla riva con Partenia, la cui pancia sembrava ingrossarsi ogni giorno di più, ma io non guardavo, non prestavo la benché minima attenzione alle loro risate.
La testa posata sulle gambe di Athanassa, la mia mente era concentrata sui suoni che provenivano dalla piana, oltre il grande muro, e quasi non udii le parole che la ragazza mi rivolse.
All'improvviso la sentii ridere. “Sembra che questa notte il Sonno non ti abbia concesso sollievo”, disse, e io aprii gli occhi. Mi accorsi di essermi assopita, e feci un lieve sorriso. “Oscuri pensieri che non riesco a reprimere.”
“Attenta a non soccombere al loro potere. In particolare se ciò che temi è ancora lontano.”
“Nessun male è troppo lontano, in Guerra.”
“E allora, godiamoci ogni istante di pace.”
Iniziò a canticchiare e a passare le dita tra i miei capelli con delicatezza, e con la sua voce mi calmai un poco. Dovetti assopirmi di nuovo, perché quando mi svegliai ero stesa sulla sabbia e avvolta nel velo di Athanassa.
E così vidi il marchio violaceo che portava alla base del collo. Erano i segni di un morso e io balzai a sedere, le afferrai un braccio sapendo bene chi era stato ad affondare i denti nella sua carne.
Lei arrossì. “Non temere, Tecmessa. Sono stata io ad andare da lui”, mormorò.
Non dissi niente, anche perché in quel momento intravidi il giovane Patroclo che si avvicinava a me agitato, come se fosse in ansia. Mi alzai in piedi, mentre Athanassa si allontanava.
“Tecmessa”, disse il giovane, facendo un debole sorriso.
“Sei inquieto, Patroclo.”
“Lo sono. La situazione degli Achei mi preoccupa. Oggi gli Dèi ci sembrano avversi.”
Gli presi le mani. “Che cosa sta accadendo?”
Il giovane scosse il capo. “Non ho mai visto i miei compagni così disperati, e i Troiani così numerosi. Se Achille fosse con gli altri... se solo la sua forza li aiutasse...”
Restammo per un attimo a fissare il mare, quindi deglutì. “Wanax Nestore ha proposto che io scendessi in campo con le armi di Achille per infondere paura nei Troiani, e coraggio ai nostri.”
Strinsi un braccio al giovane, e lui scosse la testa. “Non posso rimanere più a guardare, dolce Tecmessa. Se la rovina calerà su di noi solo io potrò allontanarla.
Io non sono nato per stare a guardare i miei fratelli morire nel sangue, come arieti immolati sull'altare dell'Odio. Io li salverò.”
Distolsi lo sguardo, e Patroclo lo stesso. “Sono venuto per salutarti, wanaxa.”
“Smettila di chiamarmi così. Non lo sono.”
Patroclo sorrise. “Lo sei, invece. Sei l'unica che la prigionia non ha piegato.”
Sorrisi, lo guardai andare via. Mi sedetti, guardai per un poco Athanassa e Partenia giocare con il mio bambino e poi udii, sempre più forte, il boato della guerra.
Mi alzai, i sensi all'erta. Netto, distinto, udii un grido. “Non devono entrare! Presidiate il muro, sono sempre di più!”
Era la voce di uno dei capi Achei, anche se non mi ricordavo a chi appartenesse. Un freddo brivido mi percorse e corsi da Athanassa, la tirai in disparte. “Fai uscire Partenia ed Eurisace dall'acqua. State pronte a fuggire.”
Lei mi guardò stupita, poi annuì e ubbidì, mentre io correvo al muro. Vidi la struttura tremare e io mi fermai, lasciai da parte ogni altro pensiero e corsi dalle mie compagne.
“Svelte! I Troiani stanno per entrare”, urlai, prendendo per un braccio Eurisace.
Partenia non si mosse. “Fuggite voi. Io non riesco a correre... e la cala la conosciamo solo noi.
Sarò al sicuro là.”
Boccheggiai. “Partenia... se dovessero prendere il campo...”
“Non pensate a me.”
“Partenia...”
Un nuovo boato. Attonite, vedemmo il muro vacillare. Non potevamo più aspettare.
“Gli Dèi ti proteggano, amica mia”, dissi infine, il cuore gonfio di tristezza.
“Lo stesso facciano con voi. Ma fuggite, ora!”

Mentre cercavo con gli occhi l'albero che Aiace mi aveva indicato, ricordai il giorno in cui la mia terra cadde in mano agli Achei. Sperai che i Numi non avessero stabilito per me una nuova prigionia, perché allora niente avrebbe potuto frenare il proposito di uccidermi.
“Tecmessa!”, sentii urlare Athanassa, e mi voltai indietro: la ragazza mi indicò una piccola nave nera che si stava staccando dalle altre.
“Madre, sono Troiani?”, chiese Eurisace.
“No, piccolo mio. Sono amici. Ci porteranno al sicuro.”
“E mio padre?” Tuo padre ha seguito il suo Destino. “Ci raggiungerà. Non temere, lui verrà.”
Finalmente l'albero comparve alla mia vista, e io lo indicai. “Alla sua base vi è l'imboccatura di un cunicolo. Dobbiamo nasconderci lì”, dissi. Ci calammo dentro velocemente e scivolammo lungo le pareti, stremate.
Eurisace nascose il viso nel mio grembo. “Madre, madre, ho paura.”
Lo abbracciai forte. “No, non averne. Ce la faremo”, dissi, cercando di non far trapelare la mia angoscia. “Athanassa, dobbiamo percorrerlo”, sussurrai, “alla fine di questo cunicolo vi è una spiaggia, dove ci sta attendendo una nave.”
La ragazza rimase in silenzio e io annui, rispondendo alla tacita domanda che i suoi occhi mi rivolgevano: tu già sapevi?
Procedemmo e davanti a noi, infine, si aprì il mare: era agitato dalle onde, in mezzo alle quali stava la nave che doveva portarci a Salamina.
Athanassa mi strinse forte, mentre attendevamo che venisse in nostro aiuto; quindi, quando la nave giunse sulla spiaggia e ne scesero alcuni guerrieri, mi affidò alle loro braccia, mentre prendeva tra le sue Eurisace.
Mentre ci allontanavamo dal lido fissavo il mare sotto di me farsi sempre più scuro e non riuscivo a non pensare ad Aiace, che abbandonavo nella piana e che forse mai più avrei rivisto, e improvvisamente sentii un colpo fortissimo; un'onda enorme si rovesciò sulla nave riempiendola d'acqua ed essa, senza alcun governo, era trascinata qua e là dalla furia del mare.
I guerrieri urlavano, disperati, vedendo i remi rompersi uno dopo l'altro, e come in sogno vidi delle scogliere, e qualche istante dopo la nave andò a infrangersi contro di esse.
Fui risucchiata fuori e sprofondai nell'acqua alta, senza possibilità di muovermi e senza vedere niente se non ombre indistinte... e poi subii una spinta. Forse fu lo stesso Mare a darmela, perché il mio Destino non era di morire allora, e mi ritrovai a galleggiare in superficie.
Sentii un paio di braccia che mi afferravano, quindi uno dei guerrieri mi sollevò e mi issò su una trave; le onde mi spinsero a riva, dove mi scontrai con gli scogli. Girai lo sguardo intorno, e vidi con sgomento cadaveri sanguinanti... e non solo per la furia della tempesta.
Un drappello di Troiani aveva visto e seguito la nave, e ora ci stava dando battaglia. I Salaminii che riuscivano a reggersi in piedi combattevano con ardore e disperazione cercando di resistere il più possibile.
Io mi rannicchiai tra gli scogli per non essere scoperta. Il mio pensiero era ad Eurisace ed Athanassa, che non riuscivo a vedere.
“Madre! Madre!”
Mi voltai a quel grido, e con orrore vidi due Troiani che prendevano per le braccia il mio povero bambino e lo trascinavano via.
“Eurisace! No!”, urlai disperata gettandomi in avanti e lacerandomi in ogni parte del corpo, accecata dall'acqua e dalle lacrime.
“Lasciatelo!”
Intravidi Athanassa, pari ad una fiera, balzare fuori dalle onde con una trave in mano e sferrare un colpo alla schiena di uno dei due guerrieri, che lasciò andare il bambino; ma l'altro colpì la ragazza con il piatto della spada, con tale violenza da farle perdere i sensi.
Impotente, rimasi a guardare mentre la prendevano tra le braccia e la portavano nel cunicolo, da dove provenivano le urla spaventate di mio figlio.
Anche i Salaminii videro questo, e la loro furia raddoppiò. Il loro urlo sovrastò anche la furia del mare. “Aiace Telamonio! Aiace Telamonio!”
Mi trascinai con le ultime forze rimaste sulla spiaggia e lì mi adagiai, lasciando che il Destino avesse il suo corso, perché non potevo più fare niente. “Perdonami, mio amato. Perdonami, bambino mio”, sussurrai prima che le tenebre mi prendessero.

Quando mi ripresi mi ritrovai in una tenda che non era la mia, e balzai a sedere, un urlo che nasceva nella mia gola.
Un paio di mani mi rimisero supina, una voce si fece largo nella mia testa. “Calmati, giovane frigia”, udii, e io riconobbi la voce di Idomeneo.
“Tecmessa.”
Voltai il capo e vidi Aiace che usciva dall'ombra. “Eurisace”, sussurrai, e lui sorrise lievemente. “Lui e la tua amica stanno bene. Ma ora riposa, sei ancora molto debole.”
“Le tue parole si sono avverate”, mormorai.
“Ma non le mie speranze. Quella tempesta ha ucciso molti dei miei uomini... e poteva uccidere anche te.”
Rimase per un istante in silenzio. “Tutti noi oggi abbiamo dovuto dimostrare chi siamo. Ti ringrazio per avermi ubbidito... e mi dispiace per ciò che ti dirò: i Troiani sono riusciti a entrare nel campo Acheo, nonostante i nostri tentativi di resistere. Abbiamo perso molti fratelli, e... Tecmessa... non hanno avuto pietà per nessuno... e per nessuna. E lei ha scelto di morire, pur di salvare...”
“Aiace, la verità.”
Un breve silenzio. “Partenia è morta. Era alla cala quando due Achei sono giunti lì, feriti ed incalzati dai Troiani.
Lei li ha nascosti lì e ai Troiani che la minacciavano non ha voluto rivelare il luogo in cui si rifugiavano. L'hanno torturata per farla parlare, poi le hanno tagliato la gola come ad un'agnella.
E... e hanno ucciso anche lui. Ci ha ridato il coraggio indossando le armi di Achille e facendoci credere che fosse lui, ed Ettore lo ha ucciso.
Ora Achille sta urlando il suo dolore e tutto il campo ne risuona... e temo che questo sia solo l'inizio... della fine.”



NOTE DELL'AUTRICE

[1] Nel 2001, nel villaggio di Kanakia di Salamina sono state trovate le rovine di un palazzo miceneo, definito “palazzo di Eaco”. Si pensa che esso sia stato abbandonato all'incirca all'epoca della guerra di Troia.

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Capitolo 12
*** Il Dimenticato ***


XII – Il Dimenticato




Sì, quello fu l'inizio della fine.
Era giunto il momento: i nostri Destini si svelarono a noi, divennero Realtà.
Prima di entrare nella Storia, ognuno di noi si domandò nel cuore chi era, chi sarebbe stato: re o schiavo?
Eroe o assassino?
Uomo o lupo?



Ricordo il grande dolore e sgomento quando Achille, fuori di sé per la perdita del suo amato Patroclo, lo vendicò uccidendo il principe Ettore.
Ricordo il sorriso trionfale degli Achei e le loro danze intorno ai fuochi, nella notte che aveva il colore del sangue, ebbri di vino, folli e spietati come fiere.
Fui l'unica tra di noi a piangere per il principe: lo vedevo come un altro fratello caduto, prefiguravo la sua stessa ignobile sorte per molti dei nostri.
Ne avevo pietà.
Perfino Aiace, preso dal ricordo delle pene che Ettore aveva fatto soffrire al nostro esercito, gioì per la sua morte. “Piangi per i nostri fratelli, invece che sprecare la tua bellezza per lui”, mi disse, mentre mi coprivo con il velo perché nessuno vedesse le mie lacrime.


Ricordo quella cupa alba, il momento in cui seppellimmo Partenia e i due gemelli che portava in grembo. Scavammo la fossa sulla spiaggia, vicino al mare, perché le onde baciassero sempre i loro corpi.
Athanassa intonò per loro un canto così dolce che fu impossibile trattenere le lacrime, quindi ricoprimmo con fiori e boccioli il pietoso tumulo.
Nei giorni successivi, il suo ricordo scomparve dalla mente di ognuno: lei, una semplice donna che aveva accettato la Morte per risparmiarla ad altri, nessuno l'avrebbe ricordata mai.


Ricordo il giorno in cui Antiloco, il gentile figlio di Nestore, cadde nella polvere della piana per difendere il padre. Vedemmo la figura distrutta del re di Pilo trascinarsi nella polvere rossa, reggendo tra le braccia il corpo del suo adorato ragazzo. “Bambino mio... torna da me”, sussurrava, e il cuore di tutti si spezzò.
Aiace mi raggiunse, senza il coraggio di rivolgermi la parola, e Athanassa uscì dalla tenda di Nestore e andandogli incontro; in quei giorni, nonostante la passione per Diomede, si era molto legata anche ad Antiloco, e la vidi prendere tra le sue braccia il capo del giovane, accarezzargli i lunghi capelli.
Quindi, re Nestore la guardò. La prese per le braccia, la strinse a sé. “Dovevi essere la sua sposa.”
Mi strinsi ad Aiace, il quale mi dovette trascinare nella tenda perché le mie lacrime erano senza controllo.
Ricordo la stessa notte, mentre la pira ardeva e il fumo saliva al cielo in nere volute, macabra offerta agli Dèi. All'alba tutti si ritirarono e solo Athanassa rimase, senza neanche più piangere.
Indietreggiai anche io, senza il coraggio di andarmene, e mi ritrovai accanto a Diomede.
Il re di Argo sospirò, chinò il capo. “Successe tanti anni fa, quando ero solo un bambino.
Quel giorno Argo era in festa: re Adrasto era tornato vittorioso da un duro scontro, e tutti i nobili della città si erano riuniti nel palazzo per recargli doni: la sala del trono risplendeva di oro e splendide armi, nelle scuderie scalpitavano cavalli di bellezza immane, mentre giovani splendide venivano condotte al cospetto della regina.
Ultimo fra tutti, stava quel pastore. Lo riconoscemmo subito: le sue erano le greggi più belle della regione e gli animali che teneva tra le braccia, due agnelli dal vello candido come mai avevo visto, lo dimostravano.
Quando giunse re Adrasto abbandonò i nobili per recarsi da lui, e nella sala calò il silenzio.
Il pastore con un sorriso gli porse il suo dono, ma Adrasto scosse il capo. “Non posso. Questi agnelli sostengono la tua famiglia, come posso accettarli?”
“Prendili, mio wanax. Non rifiutare questo omaggio.”
“Pensaci; potresti ricavere molto più di semplice benevolenza.”
Il pastore rise. “La ricchezza non mi interessa. In essa non vi è nessuna libertà.”
Quelle parole così schiette e oneste mi entrarono nel cuore. Mi resi conto che lui, nella sua povertà e semplicità, era molto più felice di tutti noi, che vedevamo soddisfatto ogni nostro capriccio. Lo invidiai, allora, come lo invidio ora.
Invidio la vita dei semplici, allietata solo dalla presenza dei suoi figli; io non ho avuto neanche questa felicità. In questo momento scambierei la mia, piena di gloria, con una sconosciuta, pur di non soffrire così... pur di non soffrire ancora.”
Guardai i penetranti occhi azzurri di Diomede, vi lessi la sua sincerità. Lui ricambiò lo sguardo per qualche istante, poi rivolse la sua attenzione ad Athanassa.
Lo osservai avvicinarsi alla ragazza, accarezzarle i capelli con dolcezza. Me ne andai, perché quell'istante doveva essere solo per loro.


Ricordo, infine, quella notte.
Quello stesso mattino, mentre controllavano le navi, gli Achei trovarono un grosso scrigno, una specie di tesoretto sepolto nella sabbia del lido e riaffiorato durante l'ultima marea.
I guerrieri lo presero, lo portarono al centro del campo e qui lo aprirono rivelando oggetti di scarso valore: perline, calici di legno, qualche pugnale; poi un Argivo tirò fuori un oggetto che destò l'ilarità di tutti.
Mi avvicinai, riconobbi immediatamente una statuetta della dea Kubile. In quel mentre, infastidito da ciò che stava succedendo, apparve Agamennone, e le risate cessarono; la statuetta finì a terra e nessuno si curò più di essa. Attesi che se ne fossero tutti andati, e avvicinandomi la presi tra le mie mani, la portai al sicuro nella tenda e sedendomi mi misi a fissarla.
La strinsi al mio cuore, ricordando anni lontani e volti perduti, e Aiace, quando ritornò, mi trovò intenta ancora ad osservarla e ad accarezzarla.
Lui me la prese per guardarla, passando un dito sul ventre prominente, e io sorrisi. “In Frigia la chiamiamo Kubile, la Grande Madre. Le femmine di ogni specie le sono care, perché sono portatrici di Vita, come lei.
Le grotte sono i suoi templi, e ricordo che la sua effigie, scolpita nella pietra o dipinta sulle pareti, mi intimoriva sempre: la reputavo orribile, così sformata... eppure ora mi sembra così bella.”
Aiace mi si sedette accanto, e io sentii l'impulso di rivelargli ciò che nessuno sapeva. “La prima volta che sentii parlare della Dea ero così piccola che non raggiungevo neanche le ginocchia di mia madre. Così piccola, e già lei stava per lasciarmi sola, consumata da una lunga malattia.
Io piangevo a lungo, perché non aveva la forza di alzarsi dal letto, perché non poteva giocare con me; e lei non faceva altro che sorridermi, per darmi forza.
Era così diversa da tutte le altre donne del palazzo, da tutte quelle che conobbi: amava me e mio padre senza falsità, senza volgarità, con passione e affetto.
La stessa notte in cui lei mi parlò di Kubile iniziai a pregarla, promettendole in dono ogni cosa: le mie vesti, i miei giocattoli, persino la mia stessa vita; tutto, purché salvasse mia madre.” Qualche lacrima riempì i miei occhi. “Questo non successe. Mia madre morì pochi giorni dopo, al tramonto, e io mi arrabbiai molto. Perché la Dea non mi aveva ascoltato? Aveva forse dimenticato la mia preghiera?
Per molto tempo pensai che fosse tutta colpa mia, perché io non volevo essere una sposa. Cercai quindi di innamorarmi, perché pensavo che in tal modo la Madre della Natura potesse perdonarmi, e riportare la regina alla vita.
Quest'ombra mi perseguitò finché mio padre non l'allontanò con il suo amore.”
Aiace mi accarezzò i capelli, e io appoggiai la testa contro la sua spalla. “Io odiavo Teucro.”
Lo guardai stupita, e lui scoppiò a ridere. “Ero anche io molto piccolo quando tutto iniziò, eppure già conoscevo e comprendevo ogni cosa del mondo degli adulti... tranne una: il motivo per cui mio padre, che aveva al suo fianco una tra le più belle regine di Acaia, avesse sposato anche la principessa Esione.
La vedemmo arrivare, io e mia madre, in un pomeriggio di primavera così freddo che tutti i fiori avvizzirono e gli uccelli smisero di cantare. Lei era giovanissima, e mia madre credette di aver davanti a sé una prigioniera di guerra; invece mio padre l'aveva presa in moglie, ne aveva fatto l'altra regina.
Fin dal primo momento provai solo odio verso quella fanciulla che fu causa di grandi pianti per la mia adorata madre. Come aveva potuto il re dimenticarci? La colpa doveva essere sua, di quella maledetta principessa: era stata lei a sedurlo e ad incatenarlo a sé, coprendo di vergogna la legittima regina.
Il mio astio aumentò quando nacque Teucro. Non potevo sopportarlo, sentire il suo pianto, vedere i suoi occhi così simili a quelli di mio padre, ai miei...
Ma tutto mutò, una notte: la terra tremò improvvisamente, e parte del nostro palazzo crollò, tra cui il soffitto della mia stanza.
Non riuscii a correre abbastanza veloce, e le travi mi bloccarono al suolo; sbattei il capo, la voce mi si mozzò in gola. Udii mio padre urlare il mio nome, ma non potei rispondere.
Poi, in mezzo alla polvere, spuntò Teucro. Mi chiamava, con la sua voce appena percettibile.
“Vattene! Vai via!”, urlai, per spaventarlo.
Lui mi vide e si avvicinò, mi ripulì il viso con le sue piccole mani. “No, se non vieni anche tu”, rispose. Si infilò tra le travi, si stese al mio fianco.
“Corri via da qui, stupido! Moriremo entrambi!” ruggii di nuovo. Per risposta, lui mi abbracciò.
Io lo guardai stupito... e poi ricambiai il suo abbraccio. Lo strinsi a me, e immediatamente non ebbi più paura.
Nostro padre, quando riuscì a penetrare nella camera, ci trovò addormentati, con le mani intrecciate. Da quel giorno non ci lasciammo più.”
Chinai il capo, gli occhi lucidi di commozione, e gli strinsi la mano. Non parlammo più, ma quella notte ci addormentammo con un sorriso sul volto.
Entrambi avevamo vissuto nelle tenebre, per poi rinascere alla luce.


Tecmessa.
Quella voce...
Tecmessa.
Mi riscossi, e per un momento mi parve di vedere Tealissa accanto a me; ma erano gli occhi di Odisseo a fissarmi, e sobbalzai. Il re di Itaca mi lanciò un'ultima, penetrante occhiata, e allungando una mano fece per scuotere Aiace dal sonno.
Questi balzò a sedere e gli afferrò i polsi con forza, poi, quando lo riconobbe, lo lasciò andare. Odisseo indietreggiò, senza perdere il suo sorriso. “Sei temibile nel sonno come nella veglia, figlio di Telamone.”
Aiace mi lanciò un'occhiata, e io mi alzai, svegliai Eurisace e lo portai alla spiaggia. Lo condussi alla nave di suo padre e giocai con lui all'ombra della grande prua, e un senso di sicurezza mi prese mentre mi appoggiavo alla fiancata, la sensazione che finché sarei rimasta lì, tra il mare e il cielo, nessuno avrebbe potuto vedermi, neanche gli Dèi.
Ma mi sbagliavo: lo sguardo del re arrivò fino là, e ben presto lo sentii bruciare sulla pelle e nel mio cuore. Interruppi i giochi, mi voltai: Odisseo ci fissava dalla spiaggia, e quando i miei occhi incontrarono i suoi sorrise, chinò il capo.
Rabbrividii quando Eurisace corse da lui e quando vidi il re prenderlo, come se... come se fosse suo. Non ho il coraggio di pensarlo, ora come allora.
Mi avvicinai a riva e Odisseo mi sorrise nuovamente, mentre Eurisace si staccava da lui e tornava nell'acqua.
“Gli Dèi vogliano che abbia la stessa tempra del padre, e lo stesso splendente Destino”, disse. E i Numi risero.
“Avrà tutto questo. Ha già dimostrato il suo coraggio e la sua forza”, risposi.
Mi voltai, ma il re mi afferrò per un braccio. Mi divincolai, spaventata, e un'ombra triste gli solcò il volto.
Fissai quel viso di modesta bellezza e gli occhi pieni di una luce sovrannaturale, inquietante. “Tu mi guardi con desiderio, figlio di Laerte. Lo fai sempre.” E mi fai paura.
Il re abbassò il capo. Quando lo rialzò, il suo sguardo non era mai stato più intenso. “La mano di un Dio antico, sconosciuto e terribile, è posta sul tuo capo e ti protegge, ti rende irraggiungibile.
Hai ragione, figlia di Teleuta: io ti desidero... ma non ti avrò mai.”
Non avevo mai sentito nessuno parlare in tal modo, e non seppi cosa rispondere. Odisseo mi volse le spalle, si allontanò.
Quell'uomo ha ragione. Non ti avrà.
Mi voltai, e vidi il riflesso di Tealissa prendere il posto del mio nell'acqua. Alzai lo sguardo, e con sgomento vidi che non c'era nessuno.
“Tu... sei un'ombra”, sussurrai, tremante.
Sono la Sua messaggera. Lei soffrirà con te.
Corrugai la fronte, senza comprendere quelle parole.
In questo giorno molti Destini si compiranno, e il tuo sarà uno di questi. Sii forte.
Un battito di ciglia, e il riflesso svanì.
“Madre?”
Eurisace era accanto a me, mi tirava per un braccio. “Madre, torniamo alla tenda? Sono stanco”, disse, e io annuii.
Ero scossa, e piena di domande e pensieri: che cosa era successo veramente e cosa era frutto della mia mente?
Mama [1]... stai bene?”
Annuii, cercando di essere convincente, quindi un grido ci scosse. Corremmo al campo, e compresi che qualcosa di grave era accaduto: i guerrieri si aggiravano spaesati, gli occhi spalancati e vitrei, e le donne, corse fuori dalle tende, si strappavano i capelli piangendo.
Strinsi Eurisace a me perché non fosse travolto dagli uomini in corsa, e in quel momento qualcuno mi afferrò per un braccio. Mi voltai e vidi gli occhi spaventati di Laio, il giovane Salaminio che mi aveva salvato la vita nella tempesta.
“Che cosa sta succedendo?”, gli chiesi, prendendogli il volto fra le mani.
Il giovane scoppiò in pianto. “Quel vile cane di Paride... ho visto tutto, perché ero con il wanax Aiace... è stato orribile...”
Vidi che stava per svenire, e lo presi tra le braccia. “Achille è morto, mia signora! Lo hanno ucciso!”
Per la sorpresa lo lasciai andare, e lui scivolò al suolo, si aggrappò alle mie ginocchia.
“Achille è morto”, sussurrai. E ora, come potevamo avere speranza di vincere, di abbattere le mura di Ilio, ora che il più forte tra i campioni ci era stato strappato?
“Achei!”
Quella voce, sovrannaturale, forte come un grido di guerra, ebbe il potere di immobilizzarci.
L'aria scintillò, e tutti chinammo il capo mentre il mare ribolliva e la più potente delle figlie di Oceano, Teti, la sventurata madre di Achille, usciva dalle onde.
Le sue urla di dolore, orrende a udirsi, ci fecero tremare e indietreggiare, mentre entrava nel campo Acheo spostando le navi al suo passaggio. “Achei... voi che custodite il corpo del glorioso Achille, non disperate! Lasciate a me il dolore, e organizzate la difesa.
Ora i Troiani gioiscono dell'insperata vittoria, ma voi non cedete: scegliete un campione, il più valoroso di voi, che si affianchi ad Agamennone nel condurre l'esercito, e a lui io donerò le armi del mio amato figlio.”
Un brusio si diffuse per il campo, seguito poi da un profondo silenzio. Poi, i guerrieri si fecero da parte e Aiace avanzò, lo sguardo fiero e risoluto, e dopo qualche istante si fece avanti Odisseo. Nessun altro li seguì.
Incrociai gli occhi di Athanassa, a poca distanza, e ci scambiammo uno sguardo carico di preoccupazione.
Teti guardò a lungo i due guerrieri, quindi annuì. “Affido le armi di mio figlio agli Atridi. Saranno loro a giudicare chi tra il figlio di Telamone e quello di Laerte sarà il più degno di riceverle.” Dette queste parole, l'Oceanina si tramutò in acqua e scomparve.
Aiace ed Odisseo si volsero l'uno contro l'altro e portarono la mano all'impugnatura della spada; ma Agamennone si frappose fra di loro. “No, fratelli e compagni: sangue prezioso è scorso oggi, e io non voglio perdere un altro campione. Vi sfiderete in altro modo.”
Aiace estrasse la spada e la piantò al suolo con violenza, facendolo tremare. “Questa contesa non dovrebbe nemmeno avere luogo! A me spettano le armi. Io ho combattuto contro Ettore, salvando la sorte del nostro esercito.
Io ho resistito, più di ogni altro, all'assalto dei Troiani, quando irruppero nel campo per incendiare le navi; io li ho cacciati e tenuti a bada, con le mie sole forze, mentre voi eravate feriti e scoraggiati.
Io mai sono stato ferito in battaglia, pur combattendo sempre tra i primi.
Io ho portato al campo il corpo di Achille, evitando che finisse tra le mani nemiche per essere spogliato e umiliato.
Io sono il campione che porterà alla rovina Troia.”
Aiace tacque, nell'esercito ci furono mormorii di assenso; anche Agamennone e Menelao annuirono.
Odisseo sospirò, e tutti si azzittirono mentre avanzava. E guardandoti, re dell'Inganno, compresi che mi avresti ucciso.
Chinò il capo, sospirò di nuovo. “Tutti conoscono e ammirano la forza e l'audacia del figlio di Telamone. Senza la sua presenza saremmo stati sconfitti, uccisi e respinti molto tempo fa, e l'umiliazione e l'oblio coprirebbero il nome dell'Acaia.
Lui è la torre e lo scudo della nostra terra, a lui vada eterno onore.”
Questo disse il re di Itaca, e già Agamennone stava per assegnare le armi ad Aiace, quando l'altro rialzò la testa. “Tuttavia, questa guerra non avrà termine con la forza.
Aiace non potrebbe riuscire nell'impresa di espugnare la città, come non vi è riuscito Achille; perché la città è imprendibile con le armi.”
Fece una pausa, e noi non osammo respirare. “Gli Immortali ci hanno dotato di astuzia e ingegno, oltre che della forza nelle membra. E io vi dico, fratelli, che sarà con la nostra superiore intelligenza che abbatteremo le odiate Porte Scee e finalmente porteremo a compimento questa guerra.”
“Parla apertamente, Odisseo”, sbuffò Agamennone, spazientito.
Odisseo sorrise, e io tremai.
“Un immenso cavallo di legno. La spiaggia deserta, le navi lontane, solo quel gigantesco dono a dominare questo lido, come offerta ad Atena per un propizio viaggio di ritorno.
I Troiani non potranno fare altro che accoglierlo quale simbolo di vittoria su di noi, gli odiati invasori, e apriranno le porte della città, e gioiranno... senza sapere che saremo noi a gioire per ultimi. Noi, che nascosti nell'oscuro ventre del cavallo, con pazienza attenderemo la notte più nera per aggredirli.”
“Tu vuoi prendere Troia con l'inganno”, disse Aiace indignato, “da uomo vile quale sei.”
Agamennone e Menelao si guardarono per qualche istante, e questi sospirò. “Basta così, Odisseo. Il valore di Aiace è molto grande, wanax di Itaca, perfino gli Dèi lo invidiano...”, disse, e fece una breve pausa, “ma il decimo anno di guerra sta finendo, e noi siamo ancora bloccati alle porte di Ilio. Forse sei tu la soluzione a tutto questo.
A te vadano le armi del divino Achille, figlio di Laerte: tu sarai il nostro campione.”
Aiace impallidì, e per un momento sentii che il suo cuore si era fermato.
L'esercito si ritirò lentamente, senza una parola, e percepii il suo malumore: i soldati amavano molto Aiace. Con la coda dell'occhio vidi i Salaminii piantare le spade al suolo in segno di protesta e andarsene sprezzanti, e la stessa cosa fece Aiace di Oileo, molto legato al mio amato, seguito dai suoi Locresi.
Il volto del mio guerriero, invece, non lasciava trasparire alcuna emozione.
“Padre!”, gridò Eurisace quando lo vide andare via, ma Aiace non lo ascoltò. Si diresse verso il mare, solo, e gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Guardatelo, il Dimenticato, sembravano dire le onde lontane, guardatelo, e piangetelo.
Athanassa mi si avvicinò, ma io scossi la testa e mi allontanai, prendendo per mano Eurisace. Corremmo via, ci fermammo solo quando fummo al riparo della tenda, e io chiusi gli occhi. Li riaprii solo quando sentii dei passi alle mie spalle, e Aiace entrò. Istintivamente indietreggiai, ed Eurisace si nascose dietro di me, tremante. I tuoi occhi, pieni di follia. Come una belva sembravi fiutare il nostro sangue, ne assaporavi il gusto.
“Aiace”, sussurrai, e i suoi occhi si spostarono su di noi.
“Tecmessa”, disse, e la sua voce suonò distorta, spaventosa, “Tecmessa, perché?”
Cadde in ginocchio, affondò il viso nel mio grembo scoppiando in singhiozzi.
Io allungai una mano per accarezzargli i capelli, e lui la prese, me la torse dolorosamente facendomi urlare. Eurisace si staccò da me, spaventato. “Madre!”
“Corri alla tenda di Teucro! Scappa!”, gli gridai mentre Aiace mi gettava al suolo e mi strappava le vesti con violenza, mi lacerava il petto con i denti e le unghie.
“Fermati, ti prego”, sussurrai, mentre con una mano mi serrava la gola e con l'altra mi costringeva ad aprire le gambe.
“Sono io il campione degli Achei! Sono io che ho salvato questo esercito maledetto!”, gridò, schiaffeggiandomi.
“No! No!”, urlai, graffiandolo in viso.
Lui sembrò riscuotersi, balzò indietro.
Io mi alzai e feci per correre via, ma lui mi afferrò per la vita, mi sollevò. “Dove fuggi? Tu sei mia!”, ruggì stringendo la presa e togliendomi il fiato.
“Aiace... torna in te...”, singhiozzai, mentre mi sbatteva al suolo in un angolo della tenda. Senza curarsi dei miei lamenti si strappò strisce di stoffa dalla tunica e mi legò con esse ad uno dei pali; quindi indietreggiò, senza guardarmi, e si fermò sulla soglia.
Stagliato nell'ultima luce del Sole sembrava ancora più grande, ancora più feroce. “Tutti sapranno chi hanno privato dell'onore. Nuovi lutti, nuove lacrime riempiranno questa piana.
Solo allora, quando i colpevoli saranno morti ai miei piedi, avrò pace e potrò ritornare ad essere Aiace Telamonio.”



NOTE

[1] Termine affettivo per definire la madre.

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Capitolo 13
*** Solo Un Fiore ***


XIII – Solo Un Fiore




Ti vedo accanto a me, mia Dea. Allora non sono solo, i Numi mi sostengono ancora?
Io sarò sempre con te, guerriero.
E voglio che tu porti a termine il tuo proposito. Sosterrò il tuo impeto.

La mia mano trema.
Hai paura? Il tuo onore reclama questa strage!
Vuoi essere considerato un vile, come Odisseo?

No, non quel nome.
Lo pronuncerò continuamente, invece, per farti ricordare chi sei.
Impugna la tua spada, principe di Salamina, e prendi da te quella giustizia che ti hanno negato.
Non temere: gli Dei vegliano su di te.
Ora vai, non indugiare oltre.



************



Wanaxa”, sentii sussurrare al mio orecchio, e immediatamente mi risvegliai dal torpore in cui ero caduta. L'atroce dolore ai polsi mi strappò un pietoso gemito, quando le corde caddero a terra e due Salaminii mi presero tra le braccia, mi portarono fuori dalla tenda.
“Aiace... cercatelo”, riuscii solo a sussurrare, mentre un dolore ben più profondo mi premeva il cuore.
I guerrieri esitarono. “Corre per il lido da questa notte, torturando e massacrando gli armenti, e gioisce sulle loro carni martoriate, credendo che si trattino dei suoi fratelli d'armi.
Ha rivolto la spada contro di noi, quando abbiamo tentato di avvicinarci; i suoi occhi non ci hanno riconosciuto, erano neri, e crudeli.”
“Lo voglio vedere”, supplicai, e mi alzai in piedi con il loro aiuto.
Wanaxa... non è sicuro.”
“Io devo vederlo, devo farlo. Ha bisogno di me.”
I Salaminii si guardarono, chinarono il capo davanti al mio sguardo risoluto.
Mi accompagnarono alla spiaggia, e qui dovetti appoggiarmi a loro per non cadere dall'orrore: la sabbia era insozzata da sangue e visceri, e i cadaveri di animali erano sparsi ovunque. L'odore di morte era insopportabile, e le grida di agonia, così simili a quelle umane, avrebbero spaventato chiunque.
Il mio uomo non smetteva di mulinare la spada intorno e spiccare le teste di quelle povere bestie, e gli schizzi di sangue raggiungevano perfino le navi. L'alba, dietro di esse, tingeva di rosso l'acqua del mare, così che anch'esso sembrava ribollire sangue, sempre più sangue, sangue senza fine.
I guerrieri fecero per portarmi via da lì, ma io non volli. Con timore scesi sul lido, scivolando sulle interiora e sulle membra dilaniate, sporcandomi i piedi e la veste.
Il disgusto mi rivoltava lo stomaco, mi spingeva ad andarmene; ma il dolore, nel vedere cosa stava soffrendo il mio sposo, era più forte di esso, e io non me ne sarei andata da lì, senza il mio Aiace.


*********



Non sono io a guidare questa mano, a calare questa lama. Un altro si è impossessato del mio corpo e mi spinge a violare ogni legge.
Sbagli, Aiace. Sei tu, sei proprio tu, questo l'ha voluto il tuo cuore.
Ma ora che abbondante sangue è stato versato, lascia cadere la spada, smetti il massacro; e dimmi... hai avuto la tua vendetta?

Ora vedo. Dèi, Numi che non conoscete pena, perché mi avete fatto questo?
Perché mi avete gettato tra le braccia di una vergogna ancora più nera?
Questo è il frutto delle tue azioni, Aiace.
Non ricordi quel lontano giorno in cui ti offrii il mio aiuto, e tu sdegnato lo rifiutasti?
Questo è ciò che hai ottenuto sfidandomi e adirandomi. Avevi il mio appoggio e lo hai perso per sempre, con le tue parole piene di superbia.
Ho ingannato la tua mente, l'ho ricoperta di nebbia e ti ho spinto a commettere follia per punirti, per dirti che sei solo un mortale, figlio di Telamone. Sei solo un uomo.

Per punirmi mi hai fatto questo, mia signora Atena; ora chiedi la mia morte.
Mi basta averti umiliato.
Non voglio vederti morto, l'esercito ha bisogno di te.

Come farò a guardare negli occhi i miei compagni, ora? Come farò a chiamarli “fratelli”?
Io sono diventato un reietto, non vi è alcuna redenzione per me.
Thanatos, implacabile Morte, almeno tu ascolta le mie preghiere: prendimi, prendimi ora.
“Aiace.” Un sussurro, la sua voce che mi chiama. Ma io non mi giro, non ho la forza di incontrare lo sguardo della mia amata.
“Aiace.”
“Vattene!”, grido orribilmente, grido con sempre più forza. La sua mano mi sfiora il braccio.
Mi volto, infine, e la guardo; nei suoi occhi non vedo biasimo, ma lacerante tristezza.
“Torna da me”, sussurra. Io le accarezzò il viso, affondo il volto nel suo petto e piango. Tecmessa, mia bellissima regina... perdonami.


************



Mentre ti portavo alla tenda e i tuoi occhi riprendevano la consueta luce, interrogai a lungo gli Dèi.
Che cosa avevi fatto per meritare questo? Quali azioni così gravi e crudeli poteva avere commesso il tuo grande cuore, da spingerli a gettarti in un tale abisso di ignominia?
Animi ben più neri popolavano l'esercito; eppure, avevano deciso di colpire il tuo.
Ricordo che al riparo della nostra tenda cadesti in ginocchio, e io ti presi le tue mani tra le mie perché non ti cavassi gli occhi. E ti dissi: “È tutto finito”.
Quale amara verità, in queste parole.


************



Stringo tra le braccia il mio bambino, e temo la luce dei suoi occhi. Eurisace mi fissa a lungo, poi alza una mano verso il mio viso, lentamente. “Prometti che non mi farai più paura e che non farai ancora piangere mama.”
Io sorrido, annuisco; il suo volto si distende, e lui si adagia sul mio petto. Alzo lo sguardo e incontro quello di Tecmessa, che mi guarda con un sorriso triste.
Il cuore inizia a sanguinare, mentre in silenzio vi saluto per l'ultima volta.


************



“Per quello che ho fatto gli Dèi esigono un sacrificio; non ci vorrà molto.
Mi aspetterai, Tecmessa?”
Io sorrisi. “Lo farò, proprio qui. Vai, non tardare.”
Mi sorridesti, mi sfiorasti il viso con una carezza e ti allontanasti da me. E io non vidi, nascosta sotto il mantello, la spada; non riconobbi che quelle lacrime lucenti erano per me.


************



La spada è pesante tra le mie mani; ma io non la lascerò cadere.
Se questa è la fine, io la accetterò. Se questo è ciò che volete, io non mi opporrò.
Ma ora so, so che il mio nome risuonerà ancora e sarà accompagnato da lacrime e gemiti.
Non mi avete battuto: l'onore continua a vivere in me.
Ora so che il vincitore sono io, sono sempre stato io: perché io sono solo un uomo, ma voi siete uguali a me; la vostra invidia, la vostra malvagità vi rende così mortali...
Non piangerò la mia sorte nella casa di Ade; non piangerò, perché un giorno io ritornerò, e voi sarete i primi a vedermi rinascere.


************



Fosti tu la prima a trovare il suo corpo.
Cosa pensasti, Tecmessa, quando ti fu chiaro l'inganno che i Numi ti avevano teso?
Piangesti, quanto piangesti; le tue grida ammutolirono l'esercito, che si arrese al dolore con te.
Su quel cadavere sanguinante ti gettasti, tu che lo avevi tanto amato, tu che avevi sempre cercato di proteggerlo; ma, bambina mia, dal riso degli Dèi come avresti potuto salvarlo?
Fu da quel momento che smettesti di avere paura e diventasti forte come mai lo eri stata.
Desti l'ultimo bacio al tuo sposo in solitudine; in lontananza l'esercito gemeva, rivolgeva pensieri di odio ai due figli di Atreo che fino all'ultimo ti ostacolarono, impedendo che il corpo del tuo amato venisse arso sull'onorevole pira.
In disparte stava il figlio di Laerte, che teneva lo sguardo al suolo e cercava il perdono che mai, tuttavia, otterrà.

Lo seppellisti all'ombra delle sue navi, il tuo Aiace, e i suoi guerrieri cantarono per lui.
Io, Kubile la Dolce Madre, piansi con te mentre i fuochi si spegnevano e il tuo bambino, spossato dalle lacrime, si addormentava nello scudo di suo padre; rimasi con te mentre afferravi il pugnale del tuo sposo e fendevi con esso il viso deturpandolo orrendamente, perché nessuno ti guardasse più con diletto, perché tu saresti appartenuta per sempre, e solo, al valoroso figlio di Telamone.
Ma non mi limitai a guardare: asciugai il sangue dalle ferite e ti feci addormentare, quindi ti portai via con me, verso la pace che tanto meritavi, Tecmessa... regina di Salamina.

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Capitolo 14
*** L'Eterno Abbraccio ***




XIV – Epilogo: L'Eterno Abbraccio




Dolce vento, ora conosci la nostra storia.
Dolce vento, quanto la porterai lontano? Perché so che queste parole valicheranno ogni distanza e tempo.
Lo so, l'ho appreso, come ho appreso molte altre cose. So come il nostro bambino divenne re, un re con il mare sussurrante negli occhi e l'animo fermo e stabile come la roccia.
So come Tealissa venne sacrificata da Otreo per la mia salvezza e il mio cuore, per poi divenire compagna della Grande Dea.
So come Diomede e Athanassa vennero separati, e come lei non rimase sola a lungo sulla desolata spiaggia di Ilio, a fissare le onde mai uguali con il dono del suo re, il più meraviglioso, che cresceva nel suo ventre.

E io... io tra le mani stringo ancora il fiore scarlatto nato dal tuo sangue, che porta sui petali quelle due parole: Ai, Ai, in ricordo di te. Il sogno è divenuto realtà, e il piccolo fiore non è mai appassito, come non è mai finito il mio amore.
Ora so chi mi salvò dall'amara prigionia che mi sarebbe toccata se fossi rimasta al campo: Lei, che qui chiamano Cibele o Rea, non apparve mai a me, ma io riconobbi la sua mano amorevole, che mi portò qui dove le mie speranze si rifugiavano: Salamina, la tua profumata dimora.
Salamina, l'isola tanto sognata, mi accolse tra i suoi fiori e nel suo mare e mi protesse come una madre. Io avrei potuto regnarvi, la sua Natura stessa si inchinava a me quando passavo, ma non lo feci; io agognavo la calma, non il potere. Io volevo solo te.
Nel suo grembo ho vissuto in solitudine con i miei pensieri, ascoltando la tua voce che Lei mi portava e rispondendoti come potevo, osservando dal mio rifugio le vite dei miei amati.
Ma ora, ora è tempo di andare. Da giorni Tealissa mi compare di nuovo in sogno, mandata dalla mia Dea, e nei miei sogni non fa che sorridere: tra poco ritornerò da te.
Sì, anche per noi ultimi è tempo di andare, di lasciare questa vita.
Ma non dobbiamo temere: un altro ci seguirà, raccoglierà i nostri pensieri e le storie da noi mai raccontate; qualcuno ci ricorderà, ci innalzerà o denigrerà, ci darà giustizia o ce la toglierà. Qualcuno, che forse deve ancora nascere, ci farà vivere di nuovo.
Un vento nuovo si alza intorno a me, e le tenebre mi avvolgono: inizi il mio ultimo viaggio.

Queste tenebre potrebbero portarmi via il sorriso, ma non lo faranno: oscurità ben più nere io ho sconfitto da tempo.
La Dimora di Ade ha molti ambienti, molte grida la popolano: io non vedo, non sento niente se non la voce di chi mi attende.
Le anime in attesa di passare nei luoghi eterni sono molte, e mentre prendo il mio posto sento che il mio corpo sta cambiando, che io sto ritornando ad essere la splendida principessa che tu hai conosciuto.
“Bambina mia”, odo in lontananza la voce dei miei genitori, a cui si aggiungono quella di Tealissa, quella di Makros e di tutti coloro che ho amato e da cui sono stata amata.
Infine la tua, rotta dal pianto, spezza le altre: “Per sempre con te”, dici.
“Per sempre con te”, ti rispondo.
Ora sono davanti al cupo traghettatore, al quale porgo i due oboli che una mano pietosa ha posto sul mio capo; salgo sulla sua barca, e ti sono sempre più vicina.
“Per sempre con te”, ripeto mentre già intravedo le luci dei Campi Elisi. Ancora qualche istante ci separa, ma i Tre Giudici [1] non indugiano con me, mi permettono di varcare la porta e penetrare nei Luoghi Felici.
Chiudo gli occhi, e ti sento mentre ti avvicini. Le nostre braccia si stringono in un abbraccio che non verrà mai sciolto, e in un bacio il nostro esilio ha fine.
Noi siamo i Figli del Sole: le Tenebre ci avvolgeranno, ma noi sempre risplenderemo.





NOTE

[1] I Tre Giudici sono Radamanto, Eaco e Minosse: essi giudicavano le anime per poi destinarle ai vari luoghi del regno (Tartaro, Prato degli Asfodeli o Campi Elisi).


ANGOLO DELL'AUTRICE

Di solito i ringraziamenti li faccio sempre alla fine.
Quindi, grazie per aver letto, grazie a chi mi ha sempre seguito e grazie a tutti quelli che, in qualunque modo, vorranno lasciare un segno del loro passaggio.
Grazie a chi mi ha sostenuto, grazie a chi mi ha ispirato e alla quale è dedicata questa storia: tu sai chi sei, mia dolce Tecmessa.
Grazie a coloro che ho avuto l'onore di chiamare nonni, i miei personali Filemone/Bauci e Socrate/Santippe, per la vita che passano o hanno passato al mio fianco.


Manto

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