Liberum - Libero

di aturiel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dita paffute ***
Capitolo 2: *** Dita sottili ***
Capitolo 3: *** Dita agili ***
Capitolo 4: *** Dita spezzate ***



Capitolo 1
*** Dita paffute ***


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1279 - Perugia

Un bambino dai capelli rossi come il sangue appena sparso era seduto su un giaciglio di paglia, sotto il tetto di una casa di campagna. I suoi occhi erano chiusi, come se stesse dormendo, ma in realtà stava solamente ascoltando. Dal piano inferiore giungevano urla indistinte, urla di donna e gemiti di uomo. Pianti di neonato.
Il ragazzino dai capelli del Diavolo ascoltava le urla della madre che veniva presa a forza, ascoltava i gemiti del padre ubriaco e gli strilli del fratellino di pochi mesi; ascoltava tutto ciò e si chiedeva se quelle persone chiassose fossero davvero la sua famiglia.
Passarono le ore e, dopo un po', tutto tacque. Il ragazzino allora scese di sotto e guarda: osserva una donna che singhiozzava piano nel sonno, sporca di sangue, osservava un bambino finalmente addormentato e un uomo accasciato su un fianco nel pavimento della cucina. Una volta accertatosi che tutto era tornato alla tranquillità, tornò nella sua stanza, pronto a non dormire.

La pioggia non smetteva, erano giorni ormai che continuava a cadere senza sosta, tanto che alcuni già iniziavano a sussurrare con timore che quella fosse una punizione divina per i loro peccati. Che lo fosse o meno, però, non cambiava il fatto che il nuovo raccolto di grano fosse andato nuovamente distrutto e che, ormai tutti lo sapevano, si sarebbe andati incontro all'ennesima carestia: il contadino Tommaso, quello con due dita in meno nella mano destra, era stato trovato ubriaco in una delle taverne della città e, si sa, tutte le volte che succede, da lì a poco sarebbe successo qualcosa di brutto ai pochi campi presenti in quel posto troppo inclinato per essere fiorente. Quindi la pioggia continuava a cadere e a inzuppare i terreni e gli abitanti, che divenivano ogni giorno più scontrosi, come se in ogni goccia fosse contenuta una piccola quantità di veleno che inaspriva i loro animi. E forse è proprio a causa di questo veleno che, quando un bambino che non doveva aver visto più di otto estati superò le mura, molte porte gli vennero chiuse in faccia. Nessuno aveva abbastanza denaro o risorse per prendersi cura di un ragazzino pelle e ossa, per di più se questo aveva una zazzera di capelli come il fuoco impiantata nella cute: si sa che quelli con i capelli rossi sono figli di Satana e portano solo sciagure. Probabilmente fu proprio per quella sua chioma che la sua vita fu tanto miserabile, e fu per quella sua chioma che tutti – dal panettiere Lemmo al cavaliere Ser Feliciano – lo ritennero la causa principale della pioggia e della carestia che ne sarebbe conseguita, ma nonostante ciò, gli innocenti a volte sono un poco fortunati e, in questo caso, Dio volle che una sarta, Giuliana, ebbe compassione di quello scricciolo e lo accogliesse in casa sua.
Giuliana era una donna di buon cuore, lo sapevano tutti a Perugia, ma era stata estremamente sfortunata: sorella di un cavaliere piuttosto importante, era stata data in sposa a soli quindici anni a un altro giovane e promettente ser, cugino, seppur alla lontana, di quello che era stato un Console della città; ma il matrimonio durò poco, poiché lui morì pochi mesi dopo durante una battuta di caccia. In poco tempo una serie di lutti avevano segnato Giuliana, portandola a perdere il padre e il fratello, oltre che una sorella. Aveva dunque ereditato le sostanze di famiglia, e con esse anche i numerosi debiti del padre, di cui non era mai stata a conoscenza; poco dopo era morta anche sua madre e, con lei, ogni speranza di una vita signorile: si era quindi rimboccata le maniche e sfruttando la sua abilità nel cucito, con il denaro rimasto, era riuscita ad aprire una sartoria. E, da quel momento, vi aveva lavorato senza sosta per anni da sola... o quasi.

****

Quando i battenti della porta sgangherata della sartoria si aprirono per farlo entrare, Rinaldo si sentì così sollevato che scoppiò in lacrime. Non era mai stato un bambino che piagnucolava troppo, ma veder finalmente l'interno di una casa, dopo quasi tre giorni che dormiva sulle sterpaglie umidicce per la pioggia senza toccare cibo - se non per poche bacche - aveva avuto un effetto così devastante da fargli sciogliere tutta la tensione in un sol colpo. Era così preso dal tepore che proveniva dalla stufa di fronte a lui, così abbagliato dalla tenue luce delle candele – così forti rispetto a quella della Luna – che quasi non si accorse che la donna gli aveva parlato.
«Oltre che figlio del Diavolo, anche un ragazzetto duro d'orecchi ho accolto?»
A quelle parole Rinaldo si riscosse un attimo e chiese: «Mi perdoni, mia signora, ma non ho udito le tue parole...»
«Non sono stupida, l'ho capito. Ti ho solo chiesto il tuo nome».
«Rinaldo, mia signora».
«Rinaldo e...?»
«Rinaldo e basta».
Giuliana scosse il capo con fare rassegnato, facendo svolazzare un poco i suoi lunghi capelli castani. Benché Rinaldo fosse solamente un bambino e per nulla esperto in volti femminili, era certo che sotto alle rughe d'espressione ci fossero stati un tempo dei lineamenti nobili, ma il tempo, se le aveva tolto la bellezza, certamente non aveva fatto lo stesso con la gentilezza del suo sguardo.
«E dimmi, Rinaldo e basta, come mai sei capitato quaggiù?»
Un brivido scosse le sue piccole membra di bambino: «Un uomo con un'armatura senza vessilli è entrato nel pomeriggio a casa nostra, chiedendo qualcosa da mangiare. Mio padre ha chiesto a mia sorella di andare a preparare qualcosa da mangiare e a me di portare le capre al pascolo. Sono tornato e la casa era tutta bruciata. Sono scappato via e ora sono qui» disse lui, cercando di reprimere la paura con cui aveva vissuto negli ultimi tre giorni. Finché la donna avrebbe avuto pietà di lui, sarebbe stato salvo, ma era sicuro che, appena avesse scoperto la verità, lo avrebbe cacciato via.
La donna lo osservò con occhio attento, cercando di capire se davvero ciò che stava dicendo fosse vero e, una volta giunta alla conclusione che, anche se ci fosse stata ben altra storia sotto la fuga di quel bambino, non l'avrebbe mai scoperta, con un sospiro lo fece sedere a tavola e, poco dopo, si sedette anche lei al suo fianco.
Prima però che Rinaldo riuscisse a immergere il cucchiaio nella minestra, la donna disse: «E mi chiamo Giuliana, Rinaldo, non “signora”».
Ora il ragazzino era certo che avrebbe potuto finalmente mangiare, ma di nuovo il suo pasto venne interrotto dall'entrata in scena di un altro componente della famiglia che, fino a quel momento, non si era nemmeno avvicinato. Era un ragazzetto smilzo con gli occhi blu come il mare e i capelli neri come la notte; la sua pelle era bianca e le sue labbra sottili e stringeva le manine ancora un po' paffute in due pugni. Non doveva essere molto felice di trovarsi con un altro bambino nella stessa stanza a giudicare da quei pugnetti, eppure i suoi occhi erano calmi e controllati e non tradivano alcuna emozione. Quando si sedette affianco a Rinaldo, lui si sentì subito a disagio: lo sguardo del bambino non si voleva staccare da lui, e gli sembrava che, anche se il colore ricordava tanto quello delle acque calme di un lago, lo perforassero come fossero frecce ardenti. La cosa più strana era, però, che, se tutti si soffermavano soprattutto sul colore dei suoi capelli, lui non smetteva di fissare le sue dita, e con un'intensità tale che Rinaldo stava incominciando a pensare che volesse staccargliele una a una.
Il momento di tensione fra loro due venne però interrotto in fretta da Giuliana che fece le dovute presentazioni: «Lui è Arunte, mio nipote».
«P...piacere, io sono Rinaldo» rispose lui: non sapeva cosa avrebbe dovuto dire, e quelle parole gli sembrarono le più adatte, ipotesi che venne subito stroncata però da Arunte che, ignorando il suo palese disagio, rispose: «Lo so, ho sentito».
Iniziarono così a mangiare in silenzio. Lui non aveva avuto per tre giorni un pasto caldo sotto il naso, quindi quella minestra gli sembrò la più buona che avesse mai assaggiato in vita sua, anche se i pezzi di verdura erano tagliati troppo grossi e anche se aveva un retrogusto strano che pareva tanto il sapore della tintura che sua sorella usava per dipingere i suoi vestiti. Una volta finito, la donna si alzò e disse: «Senti, Rinaldo, io ho intenzione di ospitarti qui con me, perché non me la sento di buttarti in strada, però voglio qualcosa in cambio, o i miei soldi non riusciranno a farci tirare avanti».
«Certo, certo, tutto quello che vuoi, mia signora».
«Devi darci una mano per spostare i carichi più grossi e per i lavori più pesanti: io ormai sto invecchiando, e le dita di Arunte mi servono più delle tue» poi, con uno sbuffo, aggiunse: «E non chiamarmi “mia signora”, basta Giuliana».

****

«Devi andare di là, con Arunte, e aiutarlo quando gli serve qualcosa. Mi raccomando, non toccare niente, siamo intesi?» con quelle parole la sarta aveva spedito Rinaldo nel retrobottega e lo aveva consegnato nelle piccole dita di suo nipote. Erano passati giusto due giorni dal suo arrivo in quella casa e già da quello successivo aveva incominciato a trasportare le stoffe che dovevano essere messe in vendita, ad assistere Giuliana al bancone e a fare una serie di lavoretti domestici, ma non era ancora entrato mai nel retro, quel luogo che, aveva capito, era il regno di Arunte.
Appena spalancò la stanza, si ritrovò davanti a un grosso tavolo di legno pieno di incisioni e ammaccature e coperto di stoffe di vari colori. Nei lati c'erano due scaffali ricolmi di matasse di fili di ogni spessore e sfumatura, una decina di aghi e spilli erano impiantati in un cuscinetto di piume e una grossa sedia imbottita era posta proprio in cima al tavolo. Subito Arunte si sedette su di essa e disse: «Probabilmente non avrò bisogno di te, per oggi: mi manca ancora tanto da cucire con questa stoffa» e, detto ciò, afferrò un lembo rosso e iniziò a cucire, con aria concentrata. In un primo momento Rinaldo era affascinato dal movimento veloce e preciso di quelle dite così sottili e agili, ma ben presto iniziò ad annoiarsi. Pensò quindi di iniziare una conversazione con l'altro ragazzino, ma appena fece per aprir bocca, l'altro lo zittì con un “lasciami concentrare” piuttosto seccato. Non sapeva per quanto avrebbe cucito quel giorno, ma sperava ardentemente che non fosse per troppo tempo e, per troppo tempo, voleva dire per oltre dieci minuti.

****

«Ehi, tu, mi serve il tuo aiuto».
Rinaldo aprì gli occhi, tornando indietro dal mondo dei sogni in cui era caduto per la noia e se li stropicciò un poco, giusto per permettere alla sua vista appannata di riconoscere il volto di chi lo aveva svegliato. Quando si trovò il viso di Arunte a mezzo palmo dal naso, però, fece un improvviso salto indietro che lo fece cadere dalla sedia di legno su cui si era appisolato. L'altro, completamente indifferente alla smorfia di dolore che gli aveva deformato l'espressione, lo guardò intensamente e ripeté: «Mi serve il tuo aiuto».
Rinaldo sentì la terra sprofondare sotto di lui: la Grazia divina gli aveva permesso di incontrare Giuliana e lui, come uno sciocco, si era addormentato quando avrebbe dovuto aiutare il nipote della sua salvatrice. Pensava che la donna non fosse troppo severa, ma non la conosceva ancora abbastanza bene da sapere se lo avrebbe cacciato, se avesse saputo l'accaduto. Quindi si affrettò ad alzarsi e chiese ad Arunte di cosa avesse bisogno; lui non rispose, ma si limitò a indicare con una delle sue dita sottili un rotolo di stoffa verde posto sull'ultimo scaffale, troppo in alto perché lui o Rinaldo potessero raggiungerlo.
Non capendo come arrivare a quel rotolo, Rinaldo chiese: «Ma non ci arrivo! Come faccio a prendertelo?» Allora l'altro, guardandolo come se si trovasse di fronte un essere privo di facoltà intellettive, gli disse: «Mi sembra ovvio: devi usare la scala!» e, detto ciò, indicò un insieme traballante di assi di legno piena di buchi causati, probabilmente, dai topi che aveva davvero poco in comune con una scala. Poi aggiunse: «Io non posso salirci perché altrimenti rischio di cadere e rompermi le dita e mia zia sarebbe rovinata: senza io che cucio, lei non riuscirebbe a mandare avanti la sartoria. Devi andarci tu».
Bene, pensò Rinaldo non ci può andare lui, quindi mandiamoci il nuovo disgraziato, così se qualcuno deve sfracellarsi a terra, non sarà lui. Formulato questo pensiero, Rinaldo si avvicinò alla scala e iniziò a salirci e, poco tempo dopo, riuscì miracolosamente anche a scendere con tanto di pensante rotolo di stoffa verde sulle spalle.
Appena raggiunto il suolo, Arunte afferrò il carico di Rinaldo e lo ringraziò con un impercettibile movimento del capo. Approfittando del momento di cambio della stoffa per iniziare, finalmente, una conversazione, disse: «Senti, Arunte, ma tu quanti anni hai?»
«Nove tra pochi mesi».
«E da quanto tempo sei qui con la signora Giuliana?»
«Un po'» rispose lui, evidentemente non particolarmente entusiasta di iniziare a parlare con l'altro.
«Ma perché ti ha preso lei? Non hai i genitori?»
«Più o meno».
Ora Rinaldo incominciava un po' a spazientirsi: «E, di grazia, cosa significa che hai 'più o meno' i genitori? O li si ha, o non li si ha».
«Li ho, ma non li conosco. O meglio, conosco solo mio padre, che era il fratello di Giuliana. Mia madre non so chi sia, io sono un bastardo e mia zia mi ha accolto, per le mie dita» e lo disse con una freddezza tale che Rinaldo non riuscì nemmeno a capire se fosse arrabbiato con lui o meno. Si rese conto di non essere stato molto cortese, quindi da quel momento decise che se mai avesse conosciuto il passato e i pensieri di Arunte, lo avrebbe fatto solo se l'altro si fosse confidato con lui. D'altronde lui per primo non sopportava chi gli faceva troppe domande: la sua vita era sua e di nessun altro.
«Senti, Arunte... scusami, io...-»
«Non scusarti,» lo interruppe lui: «non mi interessa di essere un bastardo. Finché ho le mie dita, avrò Giuliana, e tanto basta».
Dopo ciò, nessuno dei due si rivolse più la parola per tutto il pomeriggio, anche perché Arunte era concentrato nel suo lavoro di sarto e non aveva certamente tempo per rispondere alle sue curiosità. D'altro canto Rinaldo aveva smesso di annoiarsi: una farfalla bianca come la neve era entrata nella stanza e si era posata in un angolo non troppo lontano dalla sua vista. Prima che lui riuscisse però a staccare gli occhi da quel grazioso animale, un ragno nero dalle lunghe zampe si avvicinò; la farfalla quindi tentò di spiccare il volo ma, senza accorgersene, era rimasta impigliata nella tela trasparente. Il ragno quindi aspettò che l'insetto, dibattendosi, vi si intrappolasse ancora di più e, solo dopo, si avvicinò ancora di più e la divorò, con calma.







 




Note:
Il Ragno: Ci riporta all’infinito, rappresentato dal numero otto come le sue zampe, ricordandoci le sterminate possibilità del creato. Come il ragno tesse la sua tela, l’uomo intreccia faticosamente la trama e l’ordito della propria vita in un susseguirsi di responsabilità. Gli individui che non hanno assimilato questo concetto rimangono prigionieri della loro ingannevole realtà sulla quale non hanno nessun controllo. Il Ragno ci insegna anche a voltarci indietro verso tutto ciò che ha contribuito a rendere tale il nostro presente.
I nomi li ho presi da Wikipedia, da un elenco di nomi medievali. Li ho scelti in base al loro suono, cosicché ricordano quello del nome originale.

Rinaldo → Rin

Arunte → Haru

 

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Capitolo 2
*** Dita sottili ***


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1293 – Perugia

La notte successiva suo padre non si era fermato a dormire a casa, probabilmente perché era troppo ubriaco per riuscire a uscire dalla taverna in cui aveva passato la sera. Il buio era silenzioso, senza di lui. Fin troppo, talmente tanto da mettere paura nel giovane cuore di Rinaldo.
Il ragazzino dai capelli rossi era rinchiuso nella sua stanza e cercava di addormentarsi, ma un po' per l'assenza della Luna nel cielo, un po' per quel silenzio innaturale, non riusciva a prendere sonno. Iniziò quindi a contare i respiri lenti del fratellino che, con un po' di attenzione, si riuscivano a distinguere anche dietro la sottile parete.
Uno, due, tre... ventisei, ventisette... quaranta.
Ad un tratto si interruppero di colpo e Rinaldo, con il cuore in gola, spalancò gli occhi nella notte.

Un giovane dai capelli neri e lunghi, un po' come usavano tenere i nobili a quel tempo, era seduto su una grossa sedia color mattone che, se di solito era posta di fronte al lungo tavolo che faceva mostra di sé al centro della stanza, in quel momento era schiacciata contro l'unica parete libera del locale. I suoi occhi azzurri, illuminati dalla forte luce del sole che entrava dalla finestra, erano socchiusi, le ciglia leggermente abbassate e tanto lunghe da proiettare un'ombra elegante sulle sue guance glabre e pallide. Era certamente bellissimo, tanto che più o meno ogni fanciulla di Perugia, quando lo vedeva passare, non poteva fare a meno di rivolgergli un'occhiata e una sottile risata cristallina. Ma il motivo per cui quel giovane leggiadro era premuto sullo schienale di quella grossa sedia che, a sua volta, era ripetutamente sbattuta contro il muro, non era certo per la presenza di una delle sue concittadine: un ragazzo dai capelli purpurei era sopra di lui, lo baciava, lo toccava ed entrava in lui con passione. Riusciva a malapena a trattenere i suoi gemiti e, per questo, aveva affondato i suoi denti nella spalla appuntita dell'altro.
«B... Basta, Rin. Se facciamo ancora altro rumore, la zia ci sentirà e...-» il suo discorso venne interrotto da un gemito profondo e roco che proprio non era riuscito a intrappolare fra le labbra.
«Fai silenzio, Aru» rispose l'altro che, nel frattempo, aveva staccato i denti dalla sua spalla e aveva spostato la sua bocca famelica su quella sottile dell'altro.
Il loro seme si sparse nello stesso momento, come quasi ogni volta, e Rinaldo uscì dal corpo di Arunte che, ancora con le gote arrossate, si asciugò la fronte dal sudore.
«Dobbiamo smetterla, non possiamo più farlo. È peccato, lo sai» disse Arunte, non guardando negli occhi il suo amante.
«Non mi sembra ti interessasse fino a cinque minuti fa».
Arunte quindi lo fissò con aria truce e gli sibilò: «Andremo all'Inferno, tu e io, per questo, se non ci fermiamo e pentiamo in tempo. E io vorrei almeno avere la possibilità di non patire pene per l'eternità» e, detto questo, fece per andarsene. Ma Rinaldo lo afferrò e lo costrinse a girarsi verso di lui e lo baciò. Forse era per quello che gli era successo, per il suo passato, che ormai era sicuro che sarebbe andato all'Inferno comunque, con o senza Aru. E pensare che, però, avrebbe avuto forse la possibilità di andarci con il ricordo di quegli occhi celesti nella mente, gli faceva bramare ancora di più il contatto con l'altro.
«Aru,» iniziò, quando sentì il corpo del giovane adeguarsi al suo per rispondere al suo bacio «pensi davvero che sia così sbagliato?» gli sussurrò a fior di labbra.
«Non lo penso, ma è Dio che sceglie ciò che è e ciò che non è sbagliato, non tu o io».
«Non m'ami almeno un poco?» gli chiese allora Rinaldo, dopo averlo baciato nuovamente, con più dolcezza.
«T'amo, Rin. E per questo so di essere ormai perduto» poi, dopo che sentì le labbra dell'amante sorridere sulle sue, aggiunse: «Tu sei come il Diavolo, Rin. Io amo il Diavolo» e, detto questo, si liberò della sua stretta e salì le scale che portavano in cucina.
****
Rinaldo, quel pomeriggio, era stato incaricato da Giuliana per consegnare a uno dei cavalieri della città, ser Similiano, la sua cappa, quella che aveva ordinato giusto tre giorni prima e per cui Giuliana aveva dovuto spendere un patrimonio: la stoffa che aveva preteso era bianca come la neve con una fantasia di fili d'oro intessuta nei bordi e, soprattutto quest'ultimi, erano costati davvero molto; ma, anche se lei avrebbe voluto rifiutare l'incarico, le era stato impossibile quando quello aveva menzionato Arunte: era disdicevole che un uomo cucisse gli abiti e non una donna, soprattutto quando questo aveva superato la prima adolescenza ormai da anni. Il ragazzo ancora non lo sapeva, poiché se ne stava molto spesso rinchiuso nella stanza dove tesseva, ma ogni volta che passava da qualche parte oltre ai sorrisi sognanti delle ragazze, si era procurato il poco gentile soprannome di Bella fanciulla: i suoi lineamenti non erano per nulla mascolini, i suoi modi fin troppo eleganti e di certo la sua professione non poteva che peggiorare la situazione.
Ovviamente, però, i Perugini non potevano sapere che anche dietro a quel faccino ben fatto e a quelle dita affusolate si nascondesse un animo più che virile. Rinaldo conosceva bene i suoi scatti d'ira, la sua forza d'animo e anche quella del suo corpo: non accadeva spesso, ma alcuni giorni, quando gli scherzi che lui gli preparava erano troppo cattivi (come quando era sgattaiolato nella stanza delle stoffe e, di nascosto, aveva tagliato tutti i punti che Arunte aveva cucito in tre giorni di lavoro), si alzava dalla sua enorme sedia e, con sguardo gelido – anche più del suo solito -, gli afferrava le spalle e gli riempiva il volto di schiaffi. Non era certo una persona violenta, ma non era nemmeno una femminuccia, come alcuni invece credevano, e, quando ce n'era necessità, non si tirava indietro dall'agire come avrebbe fatto un qualsiasi uomo.
Dopo quella sorta di litigio mattutino, però, Rinaldo si sentiva sempre più esposto al rischio che lui e Arunte venissero scoperti, e questo non solo perché la reputazione del suo amante sarebbe ancora più peggiorata, ma anche perché, negli ultimi tempi, si tendeva a punire i peccati nei modi più violenti. Rinaldo non aveva paura, non più almeno, di ciò che sarebbe potuto accadergli una volta morto – ormai aveva su di sé talmente tanti peccati che, di certo, non sarebbe riuscito a scampare la dannazione eterna -, ma avrebbe voluto evitare una pena identica anche in vita e, soprattutto, avrebbe voluto evitarla ad Arunte. Per questo motivo, quando sentì un uomo che non aveva mai visto dire a un altro che quella notte lui e altri sarebbero andati a prendere uno “sporco invertito”, sentì il sangue nelle vene divenire ghiaccio: che stesse parlando di lui? O, peggio ancora, di Aru?
Si bloccò in mezzo alla strada, con il suo pacco sulle spalle e la bocca semi-aperta e, forse proprio per la sua espressione così costernata, i due uomini lo notarono e gli chiesero: «Ehi, tu, giovinotto! Che fai lì impalato in mezzo alla via?»
Rin non si era mai ritenuto particolarmente sveglio, ma la paura, invece di immobilizzarlo come faceva a molti, gli diede la scossa per rispondere a tono: «Nulla, mio signore. Stavo solamente ascoltando».
«E cosa hai udito?»
«Ho sentito di quello sporco invertito che volete andare a prendere, 'sta notte. Mi stavo chiedendo chi fosse».
«E perché ti interessa, giovinotto?»
«Perché se si tratta di qualcuno a cui ho consegnato uno degli abiti della mia signora Giuliana, allora mi sentirei in dovere di andare a fargliela pagare: pensate, signori, se mi avesse attaccato la sua malattia!» rispose lui, con il cuore in gola.
«Se è questo il tuo dramma, non angustiarti: il suo nome è Lucio, il garzone della cucina di quella vecchia di Angela e non credo che si sia potuto permettere uno dei vestiti della tua signora».
Non ci fu bisogno di simulare sollievo all'affermazione dell'uomo: «No, certo che no. Ora vado, mio signore, e punite ben bene quel lurido anche per me» rispose, e, così dicendo, si allontanò per la sua strada. Eppure, più ci pensava, più sentiva il morso della coscienza: non conosceva quel Lucio – se non di vista -, ma sapere che da lì a poche ore la sua vita si sarebbe conclusa - e nel più violento dei modi - lo metteva in agitazione. Lui avrebbe potuto impedirlo, ma andando semplicemente dal garzone per avvertirlo, avrebbe condannato se stesso e Arunte, sicuramente: doveva escogitare un piano per salvarlo senza però tradirsi e, di certo, Arunte avrebbe potuto dargli una mano.
****
C'erano diverse cose in cui Arunte era particolarmente bravo – cucire, sembrare senza emozioni e fare l'amore -, ma non nel far finta di nulla. Sembrava una persona a cui non interessava niente di nessuno, ma non era così: non era stato così quando Giuliana, per paura di perdere la bottega, non aveva mollato un ceffone a un cliente che aveva incominciato a strusciarsi contro il suo fondoschiena davanti agli occhi di Arunte; il ragazzo, vedendo la scena, aveva preso le sue forbici e le aveva casualmente piantate sul tavolo, a due centimetri dalle dita aperte dell'uomo che, spaventato, si era allontanato subito da Giuliana. Probabilmente avrebbe voluto protestare, ma lo sguardo glaciale di Arunte e il suo “mi scusi, ma quando cucio mi concentro troppo su quello che sto facendo, e non mi curo di ciò che mi sta intorno” sibilato, lo fece tacere. Non fece finta di nulla nemmeno quando, da piccolo, Rinaldo era stato preso di mira da due ragazzini più grandi che lo facevano inciampare quando era costretto a portare i pesanti rotoli di stoffa che Giuliana teneva nel suo magazzino – che si trovava due vicoli più in là rispetto al luogo in cui vivevano – nella sartoria: di punto in bianco Arunte, vedendolo di nuovo con le ginocchia sbucciate e le dita schiacciate dai pestoni dei due, era andato loro incontro e aveva chiesto loro cortesemente di piantarla; ma poi, quando gli erano scoppiati a ridere in faccia, aveva sfilato le sue forbici – che ormai si erano trasformate nella sua arma di difesa – e le aveva puntate alla gola di quello più grosso che era scoppiato a piangere e, chiedendo pietà, si era bagnato le braghe del suo piscio.
Se ne potevano contare a decine di eventi del genere, e non tanto perché Aru fosse una persona violenta, ma semplicemente perché, a volte inconsapevolmente, si prendeva carico delle questioni altrui e le risolveva. Era per questo motivo che Rinaldo aveva pensato a lui per risolvere la questione del garzone: sapeva sempre cosa fare e come farlo, come se i suoi occhi gelidi nascondessero dietro una sorta di intelligenza divina che gli permettesse di avere una soluzione per ogni cosa. Allo stesso tempo, però, non voleva coinvolgerlo troppo nella faccenda per non metterlo in pericolo: la sua reputazione era già abbastanza bassa che era meglio non rischiare di essere visto in compagnia di un presunto sodomita. Quindi decise che gli avrebbe posto la questione nel modo più vago possibile: «Aru, come si può allontanare un garzone dalla sua cucina di notte?»
L'altro lo guardò di sbieco, cercando di capire come fosse uscita quella domanda, soprattutto dopo la discussione che avevano avuto quella mattina: «Perché me lo chiedi?»
«No, perché... ecco, curiosità».
Arunte lo squadrò ancora qualche secondo poi, tornando con lo sguardo al suo lavoro, rispose: «Lo spaventerei con un rumore, cosicché esca fuori casa».
«E... e se non deve più tornarci, in quella casa?»
«Lo spaventerei tanto da convincerlo che la sua casa non sia sicura».
Rinaldo aveva già la mente che lavorava freneticamente: come spaventarlo tanto da aver timore delle mura dove aveva vissuto fino a quel momento?






 


Note:
Lucio → Nagisa (non ho trovato un nome simile, mi dispiace)

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Capitolo 3
*** Dita agili ***


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Notte tra 12 e 13 luglio 1293 – Perugia

Non c'era luce, nemmeno quella della Luna, eppure la lama che minacciava la vita del ragazzino dai capelli vermigli riluceva sinistra, come animata dalla magia. Le dita che stringevano quel coltello erano sottili e allungate, ma piene di calli e con le unghie spezzate. Il bambino conosceva quelle dita: erano quelle che sempre lo avevano accarezzato quando aveva gli incubi, quelle che gli avevano preparato il pranzo, quelle che lo avevano avvolto in un caldo abbraccio. Erano dita così conosciute che non avrebbe potuto confonderle con quelle di nessun altro: erano le dita di sua madre.

Tutto era pronto: doveva solo riuscire ad uscire di sera senza essere visto da Giuliana. Le strade erano pericolose di notte, lo sapeva bene, e sicuramente la donna che lo aveva salvato ormai quattordici anni prima, di certo non sarebbe stata felice di vederlo rischiare la vita per un garzone qualunque con cui non aveva nemmeno mai parlato. Per non parlare di Aru... probabilmente lo avrebbe inchiodato da qualche parte piuttosto che farlo uscire, quella notte.
Per fortuna dormiva nella stanza più vicina alla porta d'ingresso: se fosse stato relegato, come Arunte, in sartoria o nel piano superiore, dove invece aveva passato la sua infanzia, non sarebbe mai riuscito a sgattaiolare fuori. Una volta in strada, si tirò su il mantello e calò il cappuccio fino a coprirgli gli occhi e, passando per i vicoli, si diresse velocemente verso la taverna della vecchia Angela. Normalmente non si sarebbe mai sognato di passare per quelle viuzze, per di più di notte, ma aveva assoluta necessità che nessuno lo vedesse, o il suo piano sarebbe andato in fumo in breve tempo.
Dopo una mezz'ora si trovò nel retro del luogo che aveva come meta: ora doveva solo capire come entrare, e doveva farlo in fretta, o qualcuno lo avrebbe scoperto. Sapeva che il garzone Lucio dormiva sempre nel retrobottega, mentre la padrona nel piano di sopra, perché non voleva essere disturbata durante il sonno. Inoltre lì in paese, più o meno ogni persona pensava che più in alto si dormisse, più si avessero possibilità di sopravvivere in caso l'abitazione fosse stata attaccata, ma mai cosa era più falsa, e Rinaldo lo sapeva bene: l'ultimo piano forse era anche l'ultimo ad essere controllato, ma si trasformava in una trappola mortale se non si era abbastanza forti da gettarsi giù dalla finestra e riuscire ad alzarsi e correre via come il vento. In quel caso, però, che si trattasse di una falsa credenza o meno, a lui non interessava: avrebbe salvato la vita a quel ragazzo proprio per quel fattore fortuito.
Quindi individuò la porta sul retro, tentò di sforzarla: cercò di riportare alla memoria gli insegnamenti di Sveno, il figlio dell'armaiolo che era stato per anni il suo compagno di giochi quando viveva ancora con i suoi genitori; era stato lui, con quei suoi occhi verdi come la foresta, a spiegargli come fare per aprire la dispensa del panettiere e rubare, di tanto in tanto, qualche dolciume. Gli ricordava molto Aru, quel ragazzino, eppure non potevano essere più diversi: pareva sempre freddo e distante, ma se Sveno aveva un cuore bollente e istintivo, anche più di Rin, che a malapena riusciva a controllare, Arunte aveva impresso nella sua anima una tale gabbia alle sue emozioni che era ormai difficilissimo per lui o per quelli che gli stavano intorno rompere i confini che si era auto-imposto. Comunque, solo dopo alcuni tentativi riuscì ad aprire la porta che, con un cigolo, si spalancò. Un ragazzo dai ricci capelli biondi dormiva tranquillo sul suo giaciglio; il suo respiro leggero e tranquillo ricordò a Rinaldo quello del suo fratellino, tanto che dovette cacciare con violenza i suoi ricordi, prima che questi lo turbassero troppo e gli impedissero di agire. Quindi iniziò a preparare il suo teatrino: attorcigliò il filo semi-trasparente che aveva sottratto dal magazzino in quanti più oggetti della stanza riusciva, dai soprammobili in semplice legno al bauletto che si trovava proprio a due passi dall'ingresso; poi salì l'unica rampa di scale che conduceva alla stanza di Angela e si assicurò che non potesse essere aperta, bloccandola con una sedia. Fatto questo, dopo aver cosparso di tintura rossa le mani e le gambe sottili di Lucio, uscì nuovamente dalla stanza e socchiuse la porta davanti a sé, cosicché il garzone non riuscisse a vederlo mentre agiva.
Tirò il primo filo. Il rumore di un boccale che si infrangeva per terra risuonò per tutta la casa. Lucio si svegliò di soprassalto, spalancando i suoi graziosi occhi di una tonalità che pareva simile al viola.
Capisco perché lo hanno preso di mira: sembra una femmina, ancora più di Aru. È molto grazioso...
Non riuscì a impedire che la sua mente formulasse tali pensieri quando tirò anche il secondo filo che, invece, fece rovesciare un vaso di terracotta. Il ragazzo ora era assolutamente terrorizzato, ma non abbastanza da impedirgli di accendere, con mani tremanti, una candela. La luce soffusa si sparse per la stanza, illuminando calda e rassicurante l'ambiente, ma un soffio di vento la spense, così provvidenzialmente che Rin, in quel momento, fu quasi sicuro che Dio volesse aiutarlo a salvare quel povero garzone. Il ragazzino cacciò un grido quando questa si spense, e un altro quando, dopo averla accesa di nuovo, si vide le mani e le gambe semi-scoperte dal camicione che portava sporche di rosso. Quindi anche la vecchia Angela si svegliò, imprecando rumorosamente: «Per Dio, Lucio, che combini in quella stanza?»
«N.. niente, mia signora» rispose lui, balbettando.
«E perché cacci quegli urli da ragazzetta, allora?»
«Mia signora, qui dentro è passato il Diavolo! Ho le mani... ho le mani tutte rosse, e cadono oggetti...»
«Taci, bambino! Adesso scendo e ti do una bella lezione: così impari a dire certe cose...» ma poi, andando alla porta e trovandola bloccata, la donna iniziò a strepitare e a chiedere all'altro di venire a liberarla.
Quindi Rinaldo, prima che lui seguisse il suo consiglio, tirò in contemporanea tutti gli altri fili, creando un rumore assordante, coperto quasi dagli strilli di Lucio che, in lacrime, fuggì dalla casa.
Ce l'ho fatta.
****
Entrò dalla porta anteriore, la stessa da cui era uscito, ma questa volta le luci delle candele erano accese. Giuliana era seduta sulla sua sedia e, accanto a lei, c'era Arunte. Appena lo videro entrare, si girarono nella sua direzione e lo fissarono con aria a metà tra il preoccupato e l'adirato; in breve tempo, però, la prima emozione scomparve dalle loro facce, e in particolare da quella di Aru.
Non aveva mai visto quei due con i volti così tesi e gli occhi così stretti: Giuliana lo guardava con una tale rabbia che iniziò a pensare che avrebbe fatto in modo che la terra si affossasse sotto di lui e lo inghiottisse, portandolo direttamente all'Inferno, mentre Arunte... Arunte era bianco come un cadavere e lo fissava in modo freddo, gelido come non lo era stato nemmeno il primo giorno in cui si erano conosciuti. Fu proprio lui ad alzarsi in piedi e ad andargli incontro: «Dove sei stato?» chiese, quasi sottovoce. Non poteva certo rispondergli con la verità, ma voleva che lui capisse; d'altronde non comprendeva come mai fossero così arrabbiati con lui: aveva visto più di venti primavere ormai, in teoria avrebbe potuto benissimo scomparire per una settimana senza dire niente. Questo non voleva dire, anche se lo ammetteva malvolentieri, che l'avrebbe fatto – non si sarebbe mai allontanato per tanto tempo da Giuliana e, soprattutto, da Aru, anche perché entrambi avevano bisogno di lui -, ma non avrebbero dovuto avere niente in contrario; e invece eccoli lì, a guardarlo come fosse un'anima fuggita dall'Inferno senza il consenso di Dio: «Sono andato... ehm, a fare un giro».
«Di notte? Tu hai paura del buio, Rinaldo» rispose Aru. Era tantissimo tempo che non lo chiamava con il suo nome completo, e questo lo fece ancora più insospettire.
«Avevo voglia di fare una passeggiata notturna proprio per questo: dovevo sconfiggere le mie paure. Non mi dite sempre così?» rispose.
«Senti, non scherzare, ragazzo. Noi qui siamo seri» si intromise quindi Giuliana, con la sua aria minacciosa.
«Sentite, ma perché tutte queste domande?»
«Ma come perché? Non mi dire che nella tua “passeggiata notturna” non ti sei reso conto di che cosa è successo!»
Rin, in quel momento, cadde letteralmente dalle nuvole: che cosa poteva essere accaduto nel giro di un'ora - un'ora e mezza al massimo?
«Veramente io...» balbettò Rin, confuso.
Giuliana guardò Arunte con aria rassegnata: «Te l'avevo detto che era andato in un bordello. Rin, ma lo sai che è peccato darsi ai peccati carnali in questo modo? E poi mentire! Che modi... non mi sembra di averti insegnato questo in tutti questi anni».
Ci mancò poco che scoppiasse a ridere: lui, in un bordello? Sul serio? E gli venne ancora di più da ridere quando vide il volto di Aru: era leggermente arrossato, voltato di lato – come tutte le volte in cui era in collera con lui – e guardava altrove, come se la questione non lo riguardasse. Era davvero un ragazzo freddo, Aru, ma a chi sapeva conoscerlo tutto era più che evidente: le sue – poche – espressioni erano facilmente comprensibili e, in quel caso, aveva mostrato una certa dose di gelosia. Comunque fosse, ciò non spiegava ancora la situazione, quindi chiese di nuovo:
«Non sono andato in un bordello, Giuliana, ma a fare una passeggiata. Ora, però, mi potreste con grande cortesia dire che è accaduto durante questa notte?»
La donna ridiventò immediatamente seria e Aru perse quella nota di porpora sulle guance che aveva prima: «Perugia ha degli ospiti, ora».
«Chi, per Dio?»
«Carlo II d'Angiò e suo figlio, Carlo Martello».
****
Conosceva quel nome di fama, e le notizie certe erano discordanti. Si sapeva che, insieme a suo padre, si era opposto agli Aragona, si sapeva che aveva condannato tantissimi funzionari invocando il giudizio divino e tante altre cose, come che era chiamato lo Zoppo, aveva un appuntito naso aquilino e che da piccolo aveva contratto una malattia da cui s'era salvato per miracolo.
Di per sé non ci sarebbe stato alcun problema, a dire il vero, se non fosse che era giunto a Perugia con il suo seguito di soldati che, pur non essendo tanti, avevano le loro necessità: Rin aveva sentito cosa succedeva quando un esercito attraversava una città o un villaggio: c'erano stupri, razzie e violenze di ogni genere; la domanda era, però, se, anche quando si trattava di una cinquantina di uomini, accadessero le medesime cose. I cittadini erano piuttosto preoccupati: la motivazione ufficiale era che Carlo lo Zoppo si stava dirigendo verso Roma, e che quindi gli era necessario fermarsi per qualche giorno – forse una settimana – a Perugia, ma quale fosse il motivo ufficioso – sempre che ce ne fosse uno -, nessuno lo sapeva con certezza.
D'altronde nessuno guardava con favore i potenti stranieri che giungevano nella loro terra, in quanto potevano benissimo decidere di creare scompiglio per le strade e, se il loro Comune non li avesse protetti, probabilmente sarebbero stati completamente in balia dei soldati e delle loro volontà.
Giuliana e Arunte erano così preoccupati perché avevano pensato che fosse stato catturato o coinvolto in una rissa e, solitamente, le risse con i soldati non andavano mai a buon fine per il popolano qualsiasi. Per fortuna, però, non era accaduto niente del genere al ragazzo, anche se, da quanto si diceva, qualcun altro era caduto nelle grinfie dello Zoppo. Non si conosceva il suo nome, ma si era certi che si trattasse di una condanna a morte che, ovviamente, sarebbe stata vista dalla maggior parte della città: nessuno si tirava indietro quando c'era da vedere qualcuno perdere la testa.
Aveva un brutto presentimento, perciò quella notte, mentre tentava di prendere sonno, cercò e trovò sotto le lenzuola sfatte le dita fresche di Aru che, come fosse un riflesso incondizionato, si strinsero attorno alle sue.










 

Note:

Sveno → Sousuke

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Capitolo 4
*** Dita spezzate ***


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13 Luglio 1293 – Perugia

Rin scattò di lato quando la donna fece per trafiggerlo, e scattò di lato ancora una volta quando ella provò ad afferrarlo per i capelli, mancato il primo tentativo. Sussurrava qualcosa, sua madre, qualcosa che assomigliava tanto a una nenia folle. Inizialmente il ragazzino non riusciva a capirne le parole, ma, appena si accorse del sangue luccicante su quella lama che non si sarebbe mai neppure dovuta vedere, collegò ogni cosa e comprese finalmente ciò che la donna andava dicendo: «Amore mio, amore mio... è per te, solo per te: non soffrirai più, bambino mio». Gli occhi si spalancarono, i muscoli si indurirono, la paura lo possedette completamente. Colpì le dita conosciute e quella fu costretta ad abbandonare il coltello; si avventò quindi al collo del figlio che però, afferrata la lama corta che era appena scivolata dalle mani della madre, la infilò sotto il suo sterno, uccidendola.

Rin e Aru si diressero in piazza con tutto il resto della popolazione: come tutti, erano curiosi di sapere chi sarebbe stato il condannato e quale fosse il suo crimine; non erano molti i crimini punibili con la morte, anzi, non erano nemmeno necessarie tutte le dita di una mano per contarli: tradimento, omicidio (ma di quello nessuno se ne curava troppo, a meno che fosse ucciso un personaggio particolarmente importante da un uomo qualsiasi) ed eresia.
Ad Arunte non erano mai piaciute troppo le esecuzioni, e Rinaldo non vi aveva mai partecipato. Era la prima volta che si recava in piazza per vedere una cosa simile, ma quella volta non aveva voluto lasciar andare solo Aru, soprattutto dopo la paura che aveva preso sentendo il dialogo dei due uomini il giorno prima.
Decine e decine di uomini e donne si accalcavano intorno al palco di legno allestito al centro, bambini lerci e magri iniziavano a girare tra la folla, con il palese tentativo di rubare qualche spicciolo dalle tasche degli spettatori e, ogni volta che erano troppo lenti a fuggire o troppo maldestri per non farsi vedere al momento del furto, venivano colpiti sul viso tanto forte da farli quasi svenire. La situazione era sempre la stessa, ogni esecuzione era uguale a tutte le altre, ma quella destava parecchia curiosità, prima di tutto perché a volerla era stato lo Zoppo, secondo perché nessuno conosceva l'identità del condannato.
Trascorse qualche minuto che entrarono in scena Carlo e la sua schiera di soldati. Un uomo era trascinato in catene dietro di loro, i capelli mossi e scuri incorniciavano un viso scarno che, una volta, doveva essere stato piuttosto bello con i suoi lineamenti duri e affilati, ora coperti da una barba incolta e da numerose ferite. Sotto tutta quella sporcizia, nessuno lo riconobbe, nonostante fosse un viso piuttosto noto a Perugia e, solo quando Carlo lo Zoppo disse il suo nome – il conte di Acerra -, si levò un boato di stupore. Ma ce ne fu uno ancora più alto quando venne annunciato il suo crimine: sodomia.
Rin sentì la testa girare, e solo la spalla di Aru contro la sua gli impedì di crollare al suolo come un pesante rotolo di stoffa. Il caldo era opprimente, il suo sguardo si stava offuscando e sentiva il peso del suo corpo farsi sempre più pesante. La gente intorno a lui gridava insulti contro l'accusato, ma quello non si faceva intimidire: non piangeva, non implorava pietà, se ne stava solo lì, rassegnato, aspettando con nobiltà la sua fine.
Quindi Carlo Martello diede il segnale al boia di procedere: quello prese un palo di legno con la punta acuminata e strappò gli abiti lerci dell'uomo. Solo dopo un po' Rin si rese conto di ciò che stava per accadere, e fu troppo tardi per distogliere lo sguardo: l'uomo venne trafitto da dietro, dalla parte del corpo con cui aveva commesso il suo peccato e così lacerato letteralmente a metà. Le sue urla erano così terribili e animalesche che, per tutta la procedura, la folle rimase in silenzio, congelata. Quando il palo raggiunse la testa e infine morì, dopo qualche altro singulto, il boia accese un fuoco e iniziò a bruciarlo.
Le fiamme lambivano il cielo, eppure, nonostante tutta la luce che emanavano non pareva a Rin altro che buio: tutta la sua vita era stata segnata da buio e luce; ogni momento di felicità e speranza era avvenuto con la luce: il coltello con cui si era salvato la vita era stato come illuminato dalla luce della Luna inesistente, quando era stato accolto per la prima volta da Giuliana e Aru, la casa era illuminata, ogni volta che aveva posseduto Aru o era stato posseduto da quello era avvenuta alla luce del sole, sotto la finestra della sartoria, quando aveva salvato il garzone Lucio dal suo linciaggio, tutto aveva conquistato la giusta atmosfera proprio grazie alla candela accesa dal ragazzo, spentasi poco dopo dal vento. Ogni cosa bella della sua vita era stata dominata dalla luce, e lui ringraziava Dio per questo; al contrario ogni volta in cui aveva subito del male, era successo al buio, a partire dal tentato omicidio di sua madre, la morte del fratellino, il vagare per le strade per tre giorni e tre notti senza cibo né riparo. E anche questa condanna gli sembrava quanto più nera potesse essere, anche se il fuoco cercava di farsi strada nelle tenebre.
A un tratto Aru allungò una mano a stringere forte le sue dita. Il suo volto era sconvolto, i lineamenti contratti e gli occhi gelati in un'espressione di orrore e paura. Eppure stava stringendo la mano del suo Diavolo; nonostante si sentisse in colpa per ciò che provava, stava aggrappato alle sue dita come se fossero l'ultima possibilità di salvarsi. Rin avrebbe voluto abbracciarlo, ma di certo non avrebbe fatto una cosa così stupida all'interno di una folla così esaltata dall'odore della carne bruciata e del sangue appena sparso. Quindi si limitò a stringere a sua volta la mano di Aru, sperando che nessuno dei due cadesse al suolo.
****
Quella notte, nella sartoria, alla debole luce della candela che Aru teneva sempre a portata di mano, il giovane dai capelli bruciati dal Diavolo e quello dagli occhi toccati dalle dita celesti del Signore fecero l'amore. Il primo tentava di consolare l'altro, di placare le sue paure con i suoi tocchi sicuri, l'altro tremava, diceva che stavano commettendo peccato, che sarebbero morti nello stesso modo atroce del conte. Pianse persino, cosa che non era mai accaduta da che Rin lo conosceva: mai una lacrima aveva bagnato quelle bianche guance, neppure di dolore o di rabbia. Il suo volto gelido si era completamente sciolto, pareva perduto e spezzato, sconvolto.
Rin, mentre usciva da lui, si chinò per baciarlo, ma lui si ritrasse, voltando il viso. Il giovane tentò nuovamente, ma nemmeno questa volta ci riuscì; quindi Aru gli disse, con il fiato rotto per il troppo ansimare: «Questa è l'ultima volta, Rin».
«Lo hai detto tante volte, ma ce n'è stata sempre una seguente».
«Questa volta non ce ne sarà».
Rin si alzò di scatto, quindi chiese: «Forse che ciò che è successo oggi ti ha a tal punto spaventato?»
«Non voglio morire in quel modo...»
«Nemmeno io, e non moriremo così. Io lo impedirò» disse risoluto.
«Quello... quello che facciamo è peccato, è innaturale, è un morbo incurabile» rispose, volgendo lo sguardo altrove, come faceva sempre quando era in imbarazzo.
«Credi davvero sia tanto male? Ti distrugge così tanto?»
«No, ma il Diavolo tenta sempre con cose che noi uomini possiamo desiderare».
«Quindi mi desideri quanto io desidero te».
«Tu sei il mio Diavolo».
Rin, a quelle parole, scosse la testa, irritato: era sempre stato chiamato Diavolo per via dei suoi capelli, sentirsi chiamare così dalla persona che amava per la seconda volta, lo fece adirare.
«Tu desideri me o il mio corpo?» chiese allora, fissandolo dritto negli occhi.
«Io non lo so» rispose. Ma quando tentò di volgere nuovamente il viso verso un punto imprecisato della stanza per evitare il suo sguardo, Rin gli afferrò forte il volto e lo costrinse a incrociare i suoi occhi.
«Io entrambe le cose. Ma non perché sei un uomo, ma perché sei tu. T'amo perché sei tu, semplicemente tu» e, dopo queste parole, uscì dalla stanza, sbattendo la porta.
****
Da due giorni ormai Aru non gli rivolgeva la parola, e da due giorni Rin si sentiva morire. Era peggio di quando aveva smesso di sentire il respiro di suo fratello, peggio della lama tra le dita sottili e callose di sua madre, peggio di tutto. Una lancia dolorosa si era infilata nel suo ventre e lo stava percorrendo tutto, fino a raggiungere il cuore. Era adirato con Aru per tutto ciò che non gli aveva detto, ed era adirato con se stesso per ciò che invece gli aveva confessato. Come spiegargli che non aveva mai sentito attrazione per nessuno? Come spiegargli che per lui era come il fratello che aveva perso? Come?
Non comprendeva, semplicemente. E lui era troppo orgoglioso forse per ripetere ciò che gli aveva detto due notti prima. Eppure, nonostante tutto, le urla del conte di Acerra erano ancora troppo impresse nella sua mente per non capire perché Arunte fosse così spaventato. Non poteva forzarlo ancora, non poteva costringerlo, ma il suo corpo ne sentiva la mancanza e a mala pena riusciva a trattenersi dall'obbligarlo a entrare nella sartoria e fargli ciò che desiderava.
Si evitavano palesemente, e anche Giuliana se ne accorse: la terza volta che Rin tornò dal magazzino con la stoffa sbagliata perché non si era prima consultato con Aru su cosa avrebbe dovuto prelevare, la donna perse la pazienza e li rinchiuse, come fossero due bambini, nella sartoria dicendo: «Io ho bisogno delle tue dita, Arunte, e delle tue braccia, Rinaldo. Ma se le braccia e le dita fanno cose diverse, tanto vale che me le amputi entrambe. Chiaritevi e, solo quando l'avrete fatto, uscite. Non voglio litigi inutili dentro questa casa, sono stata chiara?» e, detto ciò, uscì dalla porta.
La luce del sole non filtrava, quella volta, attraverso i vetri e non illuminava gli occhi celesti di Arunte come faceva di solito. Le nuvole scure lo coprivano e la stanza era semi-buia. Passò quasi mezz'ora prima che uno dei due iniziasse a parlare, e toccò a Rinaldo prendere per primo la parola: «Giuliana ci ha detto di chiarire, quindi chiariamo».
«Io non ho niente da dire».
«Io ho già detto tutto» rispose Rin, e, vedendo che l'altro non dava segni di voler parlare, aggiunse: «Credi che non abbia paura anche io, che io sia in qualche modo immune da tutto ciò? Credi forse che l'esecuzione di tre giorni fa non mi abbia sconvolto, o che non tema anche io l'Inferno?»
«A volte lo penso».
«Bene, ti sbagli. Io ho paura di tutto ciò, e tanta. Ma visto che ho già commesso abbastanza male, da piccolo, non credo che qualcuno potrebbe mai impedirmi di finire la vita sulla Terra in modo violento e di continuarla, nell'aldilà, come dannato».
«E tu, che dici di amarmi, non temi per me, invece?»
«Certo, ogni giorno».
«E allora lasciami in pace» rispose, guardando in basso.
L'altro si passò una mano fra i capelli: «Sei sicuro che, facendo ciò che mi chiedi, tu sarai felice?»
«Non lo sarò, ma forse mi salverò».
Rinaldo si sentì tutto d'un tratto egoista: come aveva potuto evitare di pensare ad Arunte? Lui che aveva sempre sostenuto di amarlo, come faceva a non rendersi conto di ciò che gli aveva causato?
«Ti lascerò in pace, ma promettimi che non smetterai di parlarmi, questo almeno, te ne prego» chiese, con il volto scuro.
«Lo farò. T'amo Rin, solo ora, e poi mai più».
«T'amo anche io, Aru, ora e per sempre» rispose.
****




1306 – Perugia
Un giovane dai rossi capelli piangeva su un tumulo di terra. Urlava, batteva i pugni al suolo, adirato con il mondo, con se stesso, con il defunto e con Dio. Era morto un uomo, due giorni prima, un uomo dai neri capelli e dagli occhi celesti come il cielo primaverile, un uomo che da anni lavorava in sartoria e che era riuscito a mantenere le dita sottili e delicate come quelle di un bambino. Un drappo bianco aveva coperto il suo corpo e lui solo stava piangendo sulla sua tomba: era morto suicida, troppo angustiato da turbamenti religiosi e di carne.
Si era gettato sulla lama matricida e si era trafitto il cuore, quello stesso cuore che, il giorno precedente, lo aveva spinto a toccare e a possedere ancora una volta il corpo di un uomo. Con freddezza aveva abbandonato il mondo terreno, forse preferendo essere condannato all'Inferno per essersi tolto la vita che per aver amato e desiderato qualcuno che non poteva dargli figli, facendosi dunque chiamare sodomita.
Aveva dichiarato di amare colui che piangeva, solo, sul suo luogo di sepoltura e, ora che finalmente lo aveva dimostrato, aveva deciso di porre fine ai morsi della coscienza e alla sua vita con la stessa lama che, anni prima, la vita del suo amato aveva salvato.
E l'amato piangeva e urlava, sopra quella tomba, perché sapeva che, con l'amante, ogni ombra di luce sarebbe svanita per sempre dalla sua vita.












 

Note autrice:
In Italia la prima attestazione dell’uso del fuoco per punire i peccatori “contro natura” risale al 1293. In quell’anno, a Perugia, Carlo II d’Angiò, in viaggio col figlio Carlo Martello verso la corte papale di Roma, fece arrestare il conte di Acerra, verso cui provava aperta ostilità. Accusatolo di essere un sodomita (un’accusa, verosimilmente, infondata), lo fece impalare e «come un pollo il fece arrostire». In questo caso il rogo è abbinato al supplizio del palo, non è ancora considerato il metodo migliore per punire chi si macchiava del crimine “contro natura”.
Non era immaginabile l’espressione “essere omosessuale”, semmai si parlava di “chi pratica il peccato di sodomia”. Anzi, a ben vedere, non si osava nemmeno parlarne più di tanto. In generale, come mette in evidenza Michel Foucalt (il primo a occuparsi della sessualità dell’uomo medievale), l’esperienza dell’uomo omosessuale dell’Occidente moderno non è nemmeno confrontabile con chi, in altri luoghi e in altre epoche, aveva rapporti omosessuali. Indubbiamente, l’autoidentificazione ha un ruolo assai rilevante nel definire il comportamento sessuale di una persona, ma è anche chiaro che l’omosessualità come la intendiamo oggi poteva esistere anche senza un nome che la definisse. Quando gli autori medievali si riferivano alla «sodomia» intendevano riferirsi al rapporto sessuale tra maschi, non al legame affettivo omosessuale.
L’esame di alcuni processi dell’inquisizione nella Francia meridionale indica che gli imputati non avevano avuto problemi nel trovare partner sessuali, alternando senza problemi ruolo attivo e passivo. Pare dunque che la canonica distinzione attivo/passivo, cara alla cultura classica, non facesse molta presa sulla cultura occidentale dell’epoca. Del resto anche nell’ambiente cavalleresco tale distinzione non emerge mai. Potrebbe essere una conseguenza del fatto che, poiché la Chiesa comunque condannava la sodomia, chi sceglieva, a proprio rischio, di praticarla, non doveva aver presente la distinzione attivo/passivo, quanto semmai il rischio connesso con la pratica di un’attività severamente punita qualora scoperta.
Per questo motivo, nell'ultima parte, anche se ho usato lo stesso verbo al participio una volta attivo e una volta passivo per riferirsi all'uno e all'altro, non lo faccio nel senso di ruolo sessuale, ma per semplice comodità.
Quando faccio menzione della “nebbia negli occhi”, sto in realtà citando Omero: lui era solito usare quest'espressione quando un uomo stava per morire, ed è proprio questa la sensazione che prova Rinaldo vedendo la condanna del conte di Acerra.

Per quel che riguarda invece questa storia in genrale... beh, ammetto che è stato davvero bello scriverla. Il Medioevo non è uno dei miei periodi preferiti, e d'altronde il clima che c'era non è il migliore in cui si potesse vivere, ma nonostante tutto non poteva mancare in questa serie. 
L'ultimo capitolo è arrivato anche per questa seconda mini-long, tanto che posso dire di essere arrivata a metà dell'opera, anche se le prossime due saranno probabilmente ancora più difficili da scrivere, la prima perché sarà ambientata in un luogo e in un tempo che non conosco molto bene e che non ho ancora trattato a scuola (ma tranquilli, mi informerò come sempre, nella speranza di non dire troppe stupidaggini), la seconda perché il luogo dovrò inventarlo totalmente io... e scoprirete perché.
Quest'estate mi cimentrò nella terza mini-long, in cui voglio riprendere una long passata già iniziata tempo fa, ma poi lasciata morire per mancanza d'ispirazione e di tempo e perché la trama stava andando in una direzione troppo diversa da quella che mi ero immaginata. Sarà divertente, o almeno spero, e forse un poco più lunga del solito.
Inoltre voglio anticiparvi un progettino che mi ha fatto venire in mente una lettrice che ha recensito lo scorso capitolo (shironeko65), ovvero quello di fare anche una raccolta di shot, per la precisione quattro per mini-long, in cui racontare e approfondire aspetti lasciati un po' in disparte per ragioni di tempo... ma questo verrà di sicuro iniziato dopo la conclusione della serie, quindi tra un po'. In compenso mi sono iscritta ad un altro contest di Ili91 e ne approfitterò di certo per scrivere, quest'estate, la prossima mini-long che, vi anticipo, sarà ambientata in Francia.
Ringrazio infinitamente tutti quelli che hanno letto, apprezzato, recensito o inserito nelle seguite, ricordate, preferite questa storia, e chi, per la curiosità, si è pure letto la mini-long precendente, ovvero Eleutheròs - Libero . Infine ringrazio anche Ili91 che ormai è diventata un po' la madrina della serie con i suoi contest!


Un abbraccio e a presto,

Aturiel

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