Regali di Natale/Anno Nuovo/Befana

di _ayachan_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A Maria, Francesca e Laura - NaruHina (spinoff di Sinners) ***
Capitolo 2: *** A Maura - NaruSakuNaru (AU) ***
Capitolo 3: *** A Elisa - Uchiha centric (Fugaku & Itachi) - PRIMA CLASSIFICATA AL CONTEST SULLA PAZZIA ***
Capitolo 4: *** A Sara - accenno di NaruSasu (AU) ***
Capitolo 5: *** A Enrica - ItaNaruSasu (più o meno... ehm...), AU. - PARTECIPANTE AL CONTEST SULL'EROTISMO ***
Capitolo 6: *** A Letizia - JiraTsu ***



Capitolo 1
*** A Maria, Francesca e Laura - NaruHina (spinoff di Sinners) ***


Natale3-NaruHina


A Maria, aka Talpina Pensierosa.

A Francesca, aka Rina83.
A Laura, aka Maobh.
E a tutte le anime pie che seguono l'infinita saga di Sinners!
Perché questa NaruHina, di fatto, è un extra di quella storia.

NaruHina
(spinoff di "Sinners")





20 Febbraio





Uno pensa che le cose debbano cambiare in momenti speciali.
L'istante magico, l'attimo fuggente, la mezzanotte di un nuovo giorno, Capodanno.
Ma, per il mio momento speciale, erano solo le 14.25 di uno stupido 20 febbraio.
Insomma, non ero pronto per niente.



«Non posso fingermi malato?»
«Tu?»
«Raffreddore fulminante»
Hinata sospirò stancamente, accarezzando con una mano il kimono rosso steso sul letto. «Naruto, per favore...» supplicò, lanciandogli uno sguardo afflitto. «E’ solo un pranzo. Dal nostro matrimonio non siamo mai stati alla residenza principale, mio padre si arrabbierà molto se rifiuteremo il suo invito»
Si arrabbierà molto. Come minimo lo avrebbe denunciato per rapimento, pensò Naruto sbuffando. Anche se per la legge non aveva alcun obbligo verso Hiashi.
«Okay» ringhiò, i peli delle braccia ritti ed elettrici. «Okay, ma lo faccio solo per te, sia chiaro»
Hinata gli sorrise, e tornò a lisciare le pieghe del kimono sul letto, sperando intensamente che per amor suo Naruto e Hiashi avrebbero abbassato le armi almeno una sera.
Ma Naruto si scompigliò i capelli, nervoso, e aprì bocca un’altra volta.
«E se avessi il vaiolo? No, okay, niente vaiolo» ritrattò in fretta, di fronte all’occhiata di Hinata. «E’ che... Cioè, lo sai. L’ultima volta che mi sono presentato davanti a Hiashi ci siamo comportati come due manichini. Ci odiamo, Hinata! E lo so che a te non piace, ma non posso farci niente»
No che non le piaceva. Nei sogni di Hinata, Hiashi riconosceva Naruto come suo degno erede, entravano in confidenza, e i pranzi a villa Hyuuga si sprecavano. Ma i suoi desideri si erano dissolti già alla proposta di matrimonio, mesi prima, quando suo padre voleva opporsi e Naruto lo aveva minacciato. Da allora, era stato evidente che Uzumaki e Hyuuga non sarebbero mai stati un’unica, grande famiglia.
Meno male che era certa di amare Naruto più di ogni altra cosa.
«Non pretendo che diventiate amici...» mormorò con un sospiro. «Vorrei solo che vi comportaste cortesemente per un pomeriggio... Uno solo»
Naruto ringhiò sottovoce.
«Ma lo faccio solo per te»

*

Villa Hyuuga non veniva mai addobbata a festa. Dal momento che era sempre in condizioni impeccabili ed estremamente lussuosa, Hiashi riteneva superfluo accrescerne lo splendore con inutili orpelli o centritavola. La stessa cosa, naturalmente, valeva per la sua persona: non aveva bisogno di kimono vistosi o accessori eccessivamente ricchi, perché su di lui la seta bianca cadeva divinamente – o così pensava.
Pertanto, la mattina della prima cena ufficiale con sua figlia e suo genero, si fece trovare abbigliato come sempre, in un ambiente assolutamente neutro, e affiancato da una Hanabi altrettanto modesta.
«Padre, siete sicuro che non posso indossarla?» si lamentò lei, in un sibilo nervoso. Tra le sue mani c’era un ciondolo in corallo, di un rosa molto delicato, unito a una catenella d’argento.
«Mettila via» ordinò Hiashi, rigido. «E’ soltanto tua sorella, a che ti serve?»
Con uno sbuffo, la ragazza fece scivolare il ciondolo in una tasca, e arrossì leggermente.
Aveva sempre provato un certo senso di competizione nei confronti di Hinata. Da quando poi la sorella era riuscita felicemente a coronare il suo sogno, l’idea di non averci ricavato niente nonostante il suo impegno la frustrava più che mai.
«Nobile Hiashi, credo che siano arrivati» esordì una voce inattesa.
Hanabi si voltò di scatto, e vide Neji entrare nella stanza con lo stesso abbigliamento neutro che indossavano loro.
Ecco, ora avrebbe voluto intensamente avere quel maledetto ciondolo. Non che fosse particolarmente bello o appariscente, ma forse l’avrebbe resa leggermente più attraente agli occhi di Neji, spingendolo a pensare che una loro eventuale unione sarebbe stata decisamente proficua per il clan. E lei, com’era giusto, avrebbe finalmente conquistato il posto che le competeva, alla testa degli Hyuuga.
«Bene. Di’ ai domestici di introdurli» annuì Hiashi, con un cenno incapace di nascondere il nervosismo.
Neji annuì, incrociò lo sguardo di Hanabi per una frazione di secondo, e poi se ne andò con un piccolo inchino.
«Padre, quella collana...» sussurrò lei, in tono leggermente petulante.
«Mettila via o la prendo io» sibilò lui seccato. «Ho ben altri pensieri che non quella stupida cosa!»
E allora Hanabi sbuffò e strinse una mano in tasca, furiosa. Solo uno sciocco ciondolo, eppure aveva espresso divieto di metterlo! Che ingiustizia!
Rimase a borbottare tra sé per tutto il tempo che Hinata e Naruto impiegarono ad attraversare i lunghi corridoi di villa Hyuuga, e quando sentì bussare alla porta trasalì, ricordando all’improvviso che doveva correre accanto a Hiashi.
Il primo ad affacciarsi nel salotto fu comunque Neji, che si piegò in un inchino rispettoso e annunciò che gli ospiti erano arrivati. Hanabi deglutì e si irrigidì alla destra del padre, mentre il cugino andava a portarsi alla sua sinistra. Chissà poi perché era così nervosa, visto che Hinata era pur sempre Hinata. Il fatto che fosse sposata non cambiava nulla, era la solita piccola, insicura Hinata.
Poi entrarono. E all’improvviso Hanabi capì cosa c’era diverso: accanto a Naruto, Hinata non era più la solita creatura insignificante. Accanto a Naruto, Hinata era una piccola stella. Splendeva.
E lei, senza la sua sciocca collana, si sentiva sciatta e infima.
«Vi do il benvenuto» salutò Hiashi, con un cenno del capo che voleva essere una parvenza di inchino, e un’occhiata asciutta al kimono vistoso di Naruto. «Sono lieto di accogliervi nella mia casa»
«Lieto» bofonchiò rigidamente l’ospite, scuotendo vagamente la testa e fissando ovunque tranne che il suocero.
Hanabi, involontariamente, roteò gli occhi. Hinata, accanto al marito, arrossì e gli lanciò uno sguardo supplice.
«Ehm» fece allora lui, schiarendosi la voce e sforzandosi di piegare la schiena. «Vi ringraziamo per il gentile invito, e auguriamo ogni bene alla vostra famiglia» brontolò asciutto.
Hinata sospirò leggermente, e Neji sollevò un angolo della bocca in un minuscolo sorriso. Hiashi si limitò ad annuire accigliato, serrando i pugni con forza, e poi accennò ai vassoi posati lungo la stanza, a intervalli regolari.
«Accomodatevi. Il pranzo sarà servito in pochi minuti»
Con l’aria di un corteo funebre tutti e cinque andarono a inginocchiarsi ai loro posti. Hiashi, com’era ovvio, occupò l’equivalente del capotavola, e guardò rigidamente Naruto che si sedeva a una delle estremità opposte, lasciando Hinata alla sua sinistra.
Fu allora che cadde il silenzio.
Naruto prese le bacchette dal suo vassoio e iniziò a studiarle tutto intento, come se le vedesse per la prima volta. Hinata, lì accanto, lisciava timidamente le pieghe del kimono, intimorita dalla vicinanza al padre. Hiashi, con la schiena più che dritta, sistemava scioccamente le ciotole vuote sul vassoio. E Neji e Hanabi, alla sua destra, guardavano tutti e tre con un misto di compassione ed esasperazione. Neji anche con un pizzico di divertimento.
A interrompere il freeze, dopo un tempo che sembrò a tutti infinitamente lungo, intervenne la prima cameriera, che fece il suo ingresso con una teiera fumante.
«Chiedo scusa» sussurrò intimorita, inginocchiandosi accanto a Hiashi per riempire la sua tazza. Ripeté lo stesso iter anche con tutti gli altri invitati, trovandosi leggermente spiazzata con le posizioni di Hinata e Naruto, e poi si scusò ancora, si alzò e scomparve silenziosa. Allora Hiashi tossicchiò.
«La vostra... ehm, dimora, è abbastanza accogliente?» domandò corrucciato. Sembrava fare molta, molta, molta fatica.
«Oh, sì, padre. Molto» sussurrò Hinata arrossendo.
La loro ‘dimora’ non poteva minimamente essere paragonata a villa Hyuuga. Naruto l’aveva fatta costruire un po’ fuori dal villaggio, nei pressi della foresta, con il chiaro intento di renderla accogliente, e non certo elegante. Hiashi era stato naturalmente contrario, dal momento che aveva insistito pesantemente perché i novelli sposi restassero nel circuito degli Hyuuga, e fu per questo che Naruto percepì la domanda come un’evidente provocazione, e drizzò il capo.
«E’ perfetta» se ne uscì, asciutto. «Nuova, profumata, calda. Abbiamo persino tre gatti, ora»
«Tre?» intervenne Neji, adocchiando lo sguardo irritato di Hiashi.
«Li ha portati la bestia pulciosa» annuì Naruto.
«Naruto?» fece Hanabi, con un minuscolo sorrisino.
Naruto arrossì. «L’altro Naruto» precisò, maledicendo Sakura che, anni prima, aveva infelicemente battezzato il loro gatto.
«Sono molto... molto carini» mormorò Hinata, abbassando lo sguardo con evidente imbarazzo. Nervosa, afferrò la tazza di tè e la portò alle labbra, quasi per nascondersi.
«Dunque ora avete non uno, ma tre randagi» puntualizzò Hiashi, calcando sull’ultima parola.
«Non credo che un gatto che dorme sul mio portico possa definirsi randagio» sibilò Naruto tra i denti.
«Di che razza sono?»
«Mista»
«Oh»
Naruto ebbe uno scatto della testa. In un semplice ‘oh’ era stato condensato tutto il possibile disprezzo di Hiashi, e probabilmente attraverso i gatti era possibile arrivare a un ragionamento simile a: così come i gatti, anche gli uomini hanno diverse razze. E tu sei di razza mista.
«Sapete, stavo pensando di restaurare il simbolo del clan di mio padre, il quarto Hokage» ringhiò, con un sorriso falso come Giuda. Hinata lo fissò ad occhi sgranati, lottando per nascondere la sorpresa. Non solo Naruto non aveva mai accennato a nulla di simile, ma a dire il vero evitava il più possibile di parlare di Namikaze Minato.
«Sarebbe un’azione intelligente, finalmente» annuì Hiashi, acido.
«Finalmente?» scattò Naruto, pronto a balzare in piedi, ma Neji coprì la sua voce.
«Sarebbe davvero una bella cosa» si affrettò a dire. «Ma forse dovresti iniziare a pensare a un tuo simbolo. Un unione tra quello dei Namikaze e quello degli Uzumaki»
Hanabi fu certa di vedere una smorfia derisoria sul viso del padre, ma si guardò bene dal dirlo, visto che Naruto non sembrava essersene accorto. Tra l’altro: ora che riguardava Hinata, la quale, pallida, continuava a bere a scatti dalla sua tazza, non le sembrava più tanto splendente. Interiormente, sorrise.
«Ah, beh... Ci penserò...» borbottò Naruto, tornando a fissare accigliato il suo tè.
Di lì a poco tornò la domestica che aveva portato da bere, seguita da un’altra ragazza. Entrambe portavano due vassoi coperti di ciotoline, e una seconda teiera fumante.
Quando il cibo arrivò, tutti tirarono un sospiro di sollievo. Non esiste argomento più neutro di un buon pranzo, grazie al cielo.
I commenti sulle pietanze furono dosati con estrema cura. La maggior parte dei complimenti vennero da Neji e Hinata, e Naruto si limitò a grugnire il suo assenso di tanto in tanto. Hanabi sbocconcellò annoiata, ora che gli attriti sembravano scomparsi, ma Hiashi non smise un solo istante di mantenersi vigile e all’erta, come non gli accadeva dai tempi in cui usciva in missione. E fece bene, in ultima analisi. Perché il disastro accadde al dolce, quando sembrava che ormai ogni pericolo fosse stato scongiurato.
«Dicono che nevicherà ancora» esordì Neji, ispirato da un dolcetto al cocco. «Eppure siamo ormai alla fine di febbraio»
Hanabi, alla sua destra, roteò gli occhi. Il tempo. Dei del cielo, erano arrivati a discutere del tempo! Che noia.
«A me la neve piace» commentò Naruto, scrollando le spalle.
«Ciò non toglie che in missione sia un disturbo notevole» appuntò Hiashi.
«Sì, beh, la cosa è irrilevante, dato che non uscirò in missione ancora per un po’»
«Come?»
Hiashi posò il suo biscotto alle mandorle e fissò Naruto.
«La mia luna di miele si protrarrà fino alla primavera» commentò Naruto. «Insomma, mi sono sposato. Non succede tante volte, nella vita di un uomo. Senza contare che è stato lo stesso Hokage a costringermi a stare a casa»
«Il matrimonio risale all’autunno» insisté Hiashi, rigido. «Sei mesi di vacanza mi sembrano eccessivi»
«Considerate tuttavia che prima di sposarsi Naruto ha lavorato senza sosta...» si intromise Neji, forzatamente diplomatico.
«Ma è preciso dovere di ogni shinobi rendersi disponibile per il villaggio in ogni momento» replicò Hiashi, rigido. «E io non accetto che il marito di mia figlia si dimostri un tale smidollato!»
«Prego?» sbottò Naruto, fulminandolo con lo sguardo. «Devo elencare tutte le volte che ho salvato questo villaggio?»
«Forse dovremmo elencare tutte quelle in cui lo hai messo in pericolo»
Hanabi sogghignò, accomodandosi meglio sui talloni. Il tempo era un argomento più divertente del previsto, realizzò.
«Non credo che sia l’argomento più indicato...» sussurrò Hinata, arrossendo allarmata.
«Nobile Hiashi, volete altro tè?» tentò Neji, sull’attenti, sporgendosi con la teiera bollente in mano.
«Ho soprasseduto su molte cose, Naruto Uzumaki» sibilò, fermando Neji con un cenno imperioso. «Ma non cederò sull’onore degli Hyuuga»
«Mi fa piacere saperlo, perché io e Hinata, fino a prova contraria, siamo Uzumaki!» sibilò Naruto, stringendo i pugni sulle ginocchia.
«Mia figlia resterà mia figlia fino alla morte, indipendentemente dalle sfortunate scelte che deciderà di fare!»
«Padre, vi prego...» sussurrò Hinata, con il respiro leggermente accelerato.
«Tua figlia non è mai stata tua, genitore perverso!»
«Naruto, per favore...» tentò ancora Hinata, ora decisamente spaventata.
Hiashi arrossì d’indignazione, e balzò in piedi con aria bellicosa, imitato istantaneamente da Naruto. Neji si affrettò a fare la stessa cosa, pronto a sedarli in caso di emergenza, e Hanabi lo seguì a ruota, con gli occhi accesi dall’entusiasmo.
«Io conosco gli affari del mio clan e della mia famiglia! Tu non hai voce in capitolo, né devi permetterti di esprimere pareri non richiesti!» esclamò Hiashi, ora alzando la voce.
«Io posso parlare in lungo e in largo di mia moglie, mi pare! Tu invece dovresti cucirti la bocca, da quando hai acconsentito al matrimonio!»
«Faccio portare dell’altro tè?» chiese Neji, inascoltato.
«Fai portare delle bende» suggerì Hanabi, giocherellando con il ciondolo nella sua tasca.
«Per favore, tornate a sedervi...» supplicò Hinata, in un gemito.
«Come osi, nella mia casa, parlarmi con questo tono?!»
«Come osi, dopo avermi invitato, trattarmi in questo modo?!»
«Padre, Naruto...»
Hanabi colse l’attimo per sfilare la catenella di tasca e legarsela al collo fintanto che il padre non vedeva. Neji fece lavorare disperatamente il cervello, in cerca di una soluzione, e contemporaneamente coniò una decina di nuovi insulti per Naruto.
«Mi pento più che mai di aver acconsentito alla vostra unione!» esplose Hiashi.
«E io mi pento di aver accettato di venire a questa stupido pranzo!» replicò Naruto, con il viso arrossato.
Hinata si portò una mano sul volto, e gemette sconsolata.
«Non ho intenzione di tollerare una simile insolenza un minuto di più! Esigo che...»
«Sono incinta»
Silenzio improvviso.
Per un lungo istante, la stanza in cui si trovavano smise di scorrere con il tempo e si soffermò in un attimo non ben definito. Poi Neji fissò Hanabi.
«Ehi, non io» scattò lei, arrossendo indignata, e contemporaneamente il tempo riprese a scorrere più veloce, per rimettersi in pari con il resto del mondo.
Sia Naruto che Hiashi abbassarono lo sguardo su Hinata, ancora inginocchiata tra loro.
«Incinta?» ripeté Hiashi, con una voce stranamente incolore.
Hinata, con il volto più arrossato che mai, annuì impercettibilmente. «Aspetto un bambino. Da cinque settimane»
«Ottimo diversivo» commentò Neji sottovoce, spossato.
Naruto, semplicemente, rimase a bocca spalancata.

Insomma, non ero pronto per niente.

«U-Un bambino?» balbettò poi, riemergendo faticosamente dal limbo dello shock in cui era precipitato. «Un bambino vero?»
«Ah, se non lo sai tu che lo hai fatto» bofonchiò Hanabi, e nonostante la battuta caustica non riuscì ad evitare di arrossire.
Naruto si inginocchiò accanto a Hinata, ancora combattuto tra lo stupore e l’estasi.
«Dimmi che stai scherzando» mormorò Hiashi.
«Dimmi che non stai scherzando» gli fece eco Naruto, mentre l’estasi si avviava a vincere la sua battaglia.
«E’ vero» arrossì Hinata. «Sono stata a farmi visitare... E’ ancora troppo presto per parlarne, e infatti volevo nascondervelo ancora un po’... Insomma, il terzo mese è il più pericoloso, e... sì, ecco, speravo che sarei riuscita ad avvicinare te e mio padre...»
«Oh, lascia perdere lui!» sbottò Naruto, prendendole le mani con occhi che finalmente brillavano senza traccia di sorpresa. «E’ meraviglioso, Hinata! Un bambino! Un bambino nostro! Diventeremo genitori!»
«E questo è un bene?» Hanabi roteò gli occhi. «Secondo me lo ammazzano appena nasce, quel bambino» Neji le scoccò un’occhiataccia, e lei si strinse nelle spalle.
Hiashi, ancora in piedi, rimase a fissare la nuca della sua primogenita con la fronte corrugata.
Nonno. Stava per diventare nonno. Grazie a Naruto Uzumaki.
Da un lato il calcolatore genetico che era in lui meditava sulle infinite possibilità di un’unione tra il sangue Namikaze e quello Hyuuga; dall’altro, la faccia stupida di Naruto continuava a ronzargli davanti, e un bambino paurosamente simile a lui continuava a ridere gridando ‘Hyuuga, Hyuuga!
Con lentezza, si portò una mano alla faccia.
«Padre, stai male?» esclamò Hanabi, vedendolo.
«No» rispose lui, sollevando una mano. «Credo di no. Credo»
Naruto e Hinata sollevarono lo sguardo, e Hinata trattenne il respiro.
«Padre... Mi dispiace, non volevo dirlo così...» sussurrò mortificata.
Hiashi la interruppe con un cenno, e prese un respiro profondo.
«Bene» esordì poi, togliendo la mano dal viso e recuperando la calma. «Dovrai trasferirti qui. Immediatamente»
«Che?!» scattò Naruto, balzando in piedi.
«E’ per il suo bene. Abbiamo domestiche esperte, che hanno fatto nascere decine di bambini» spiegò Hiashi, con l’efficienza di un capogruppo. «All’ospedale della Foglia sanno come muoversi, non lo nego, ma qui avrà un’assistenza continua e perfetta»
Naruto esitò per un istante, combattuto.
«Non ho intenzione di mettere a rischio mio nipote nemmeno per una frazione di secondo» sibilò Hiashi, assottigliando gli occhi.
«Mio figlio» lo corresse Naruto, ma con meno belligeranza del previsto.
Si fermò un istante, e guardò Hinata. Poi guardò Hiashi, e di nuovo Hinata. Tornò a inginocchiarsi.
«Hinata... Dimmi tu cosa vuoi fare. Si tratta di te, prima di tutto» mormorò, mentre Hanabi distoglieva lo sguardo disgustata.
Hinata ebbe un moto di spavento. L’idea di restare nelle mani del clan la terrorizzava, ma allo stesso tempo offendere suo padre sembrava peggio. E la prospettiva di assistenza continua e particolare la attraeva, suo malgrado.
«Io... Vorrei pensarci» sussurrò con voce metallica. «Ho bisogno di qualche tempo per raccogliere le idee...»
«Certo! Tutto quello che vuoi!» esclamò rapidamente Naruto, con un certo sollievo. «Anzi, sai che facciamo ora? Andiamo a casa e ti metti a letto»
«E’ incinta, non tubercolotica» sibilò Hanabi, scuotendo la testa con irritazione.
«No, per una volta ha detto una cosa sensata» la contraddisse Hiashi, tornato imperioso e sicuro. «I domestici allestiranno una portantina per accompagnarla, non deve prendere freddo. Hanabi, vai a chiamare qualcuno. E, per tutti gli dei del cielo, levati quel gingillo che hai al collo!»
Hanabi arrossì, nascondendo il ciondolo sotto la mano.
Ahh, che nervoso! Hinata era esplosa da stella a supernova, e lei all’improvviso era diventata una sguattera. Splendido.
«Ti accompagno» disse Neji a sorpresa, subodorando aria di grandi manovre tra Hiashi, Hinata e Naruto.
L’umore di Hanabi si sollevò di qualche tacca, e, contravvenendo agli ordini del padre, sistemò meglio il ciondolo sul kimono. Poi, con un leggero sorriso, si avviò insieme al cugino alla ricerca dei domestici.
Hinata, Naruto e Hiashi rimasero soli, e solo allora Hiashi realizzò il grande errore che aveva fatto: mai trovarsi nella stessa stanza con due futuri genitori; si finisce sempre dimenticati. Fu così che, con evidente imbarazzo, si guardò attorno e si rassegnò ad andare a rimuginare in un angolo, progettando piani di reintegrazione tra gli Hyuuga: i figli di Hinata erano pur sempre sangue del suo sangue; non potevano sfuggire alla sua ala protettiva.
Naruto e Hinata, allora, rimasero soli nel loro piccolo paradiso di novelli genitori, le mani strette l’una all’altra e gli occhi incapaci di guardare altrove.
«Perché non me l’hai detto prima?» sussurrò lui, ma senza tono di rimprovero.
«Perché... ecco, insomma, è così presto... io temevo che...» balbettò lei, abbassando lo sguardo.
«Ehi, scherzi? I nostri bambini saranno tutti fortissimi e sanissimi, non devi neanche iniziare a pensare il contrario. Saranno tutti uguali al loro papà, da quel punto di vista»
Hinata sorrise, e Naruto, con una sorta di esitazione quasi mistica, posò lentamente una mano sul suo ventre, sopra il kimono.
«Non si sente ancora nulla» sussurrò lei.
«Ma c’è» rispose lui.
«Sì, c’è»
«E ci saranno tanti altri fratellini...»
«Ehm... Per adesso pensiamo a questo bambino, che ne dici?»
«Oh, sì, certo. Bisogna pensare ai bambini uno per volta»
«Sì, non è proprio quello che intendevo, ma...»
«Oh, secondo te sarà maschio o femmina? Sai, Sasuke ha avuto un maschio...»
Hinata si sforzò di sorridere, ma le risultò profondamente difficile. Al momento Sasuke e Sakura vantavano quattro figli, e non sembravano intenzionati a fermarsi – dovevano rifondare un intero clan, dopotutto. Conoscendo Naruto, avrebbe preso anche quel piccolo aspetto della vita coniugale come una sfida mortale, ovviamente da vincere.
Sospirò a fondo, armandosi di pazienza. Negli anni a venire avrebbe avuto modo di porre qualche paletto; ma per ora poteva lasciare che il suo adorabile marito si crogiolasse nelle gioie della paternità, che sognasse quella che sarebbe diventata la sua primogenita, che litigasse con Hiashi e ponderasse centinaia di nomi, fino al tre settembre, fino al giorno del primo traguardo...
Sì, per ora glielo avrebbe lasciato fare.

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Capitolo 2
*** A Maura - NaruSakuNaru (AU) ***


Natale2-Maura

Per Maura, aka izayoi007.

Perché sa cosa significa NaruSaku,
e perché sa cosa significa essere pendolari!

NaruSaku, AU.





Binario morto





Ormai dovrei averci fatto l’abitudine, pensa, mentre apre le porte del treno con uno sforzo inumano. Dovrebbe essere cosa di tutti giorni, una formalità... quella roba che chiamano ruotina, o una parola del genere!
A fatica, sale i gradini e si appoggia alla parete azzurrastra, riprendendo fiato.
«No, non mi abituerò mai» sbuffa, infilando un dito nel colletto della maglia e scuotendola per farsi aria.
Lungo il vagone si diffonde un trillo monotono, nella tonalità più sgradevole che sia mai stata concepita, e le porte che ha aperto a fatica scorrono sui loro binari e si richiudono con un tonfo. Le fissa torvo, mentre il treno si mette in moto con uno scossone, e a quel punto si stacca dalla parete. Ovviamente non c’è nemmeno la minima traccia di aria condizionata.
Si trova davanti all’ennesima porta, ma questa volta riesce ad aprirla con relativa facilità. Attraversa l’intersezione tra i due vagoni, apre una nuova porta, e finalmente si trova tra i sedili sdruciti che conosce fino alla nausea – e che con la nausea hanno molto a che fare, in effetti, dato che il loro colore non ispira esattamente poesia.
Il vagone è semivuoto, i blocchi di sedili da quattro sono quasi tutti occupati da un’unica persona, ma ecco che sul fondo, vicino alla prossima porta, ne trova alcuni liberi. Sistema lo zaino sulle spalle e avanza con passo sicuro, bilanciando i leggeri scossoni del treno e l’inclinazione dei binari, finché non raggiunge la postazione e sfila lo zaino, lasciandolo cadere sul sedile di fronte a quello che lo accoglierà.
Si accomoda, lasciandosi scivolare con le gambe lunghe e la schiena quasi dritta, e punta gli occhi azzurri fuori dal finestrino, dove la monotona campagna scorre sempre uguale. Di lì a dieci minuti ci sarà la prima fermata, un pugno di cascine sconosciute nel mezzo del nulla, e poi campi e campi e campi, almeno per mezzora, fino alla prima comparsa della città, e poi, ancora oltre, la sua fermata.
Sbuffa, alla prospettiva di quasi un’ora passata a sonnecchiare in un vagone puzzolente, e per l’ennesima volta si trova ad augurare le peggiori cose al disgraziato che gli ha fregato il lettore mp3.
Ma non sa che quel viaggio è ben lungi dall’essere noioso. Non lo immagina nemmeno quando vede la ragazza che avanza lungo il vagone con un I-pod nuovo fiammante nelle orecchie, e l’unica cosa che pensa è che è carina, che le gambe che le spuntano dai pantaloncini sembrano proprio da mordere, e che vorrebbe sapere cosa ascolta. E avere anche lui un maledetto I-pod.
Poi, lei si ferma davanti a lui, e si sfila una cuffia.
«Scusa, qui c’ero io»
Lui la fissa, stranito.
«No. Erano quattro posti vuoti» la contraddice, tirandosi a sedere diritto.
«Mi spiace, ma c’ero io» insiste lei con un sorriso quasi minaccioso, e due minuscole rughe si formano attorno ai suoi occhi verdi, mentre lo fa. «Sono stata in bagno per un istante, qualunque persona del vagone può dirtelo»
«Quando sono arrivato i posti erano vuoti. Ed è vietato usare i bagni durante le soste del treno» puntualizza lui, con un filo di irritazione.
«Avevo bisogno dello specchio, nel bagno» si impunta lei, e quasi ad avvalorare la sua tesi si passa una mano tra i capelli, di un rosa discutibile.
«Beh, ci sono tanti altri altri posti» sbuffa lui, tornando a fissare fuori dal finestrino. «Scegline uno e accomodati»
Gli occhi di lei si assottigliano minacciosi. «Si dà il caso che questo fosse il mio posto. Per questo motivo sarebbe molto più logico che fossi io a consigliarti gentilmente di cercarne un altro»
Lui la guarda di nuovo, voltando la testa lentamente. «Senti, parliamoci chiaro. Fa caldo, sto andando a dare un esame per il quale probabilmente verrò bocciato in tronco, mi sono dovuto alzare alle quattro per ripassare le ultime cose, e l’ultima tentazione che potrei mai avere è di litigare con una squinternata sul treno»
«Squinternata?» ripete lei, a voce leggermente più alta, e qualche testa si volta nella loro direzione. «L’educazione non cresce sugli alberi di questi tempi, ma tu sei largamente l’essere umano più maleducato che io abbia incontrato negli ultimi sei mesi!»
«Quando una si presenta dicendo che un posto a caso sul treno è suo, e lo fa con un colore di capelli assurdo quanto il tuo, è piuttosto naturale prenderla per una fuori di testa!» si giustifica lui, scaldandosi.
«Non ci credo» lei ruota gli occhi, sollevando le mani. «Sto davvero litigando su un treno con uno sconosciuto, e per una ragione idiota, oltretutto. Lo sapevo che non sarei dovuta uscire di casa, l’oroscopo mi consigliava di chiudermi dentro!»
«Ci mancava solo l’oroscopo!» grugnisce lui, sarcastico, e lei lo fulmina con lo sguardo.
Ma prima che possa ribattere, il treno ha un sussulto improvviso e frena bruscamente, facendole perdere l’equilibrio. Lui si trova con una mano di lei su metà faccia e le cuffie dell’I-pod che penzolano davanti al naso, ancora perfettamente in funzione, e non appena lei si stacca si piega su sé stesso, gemendo con una mano sullo zigomo.
«Porca vacca!» impreca, un occhio pieno di lacrime. «Che male!»
«Tutto bene?» chiede lei con una leggera ansia, chinandosi su di lui. «Dove ti ho preso? Scusa, non ho calcolato... Fa’ vedere»
«Col cavolo! Che vuoi farmi ora?» si difende lui, scostandosi.
«Niente» sbuffa lei, prendendogli il mento a forza e voltandolo nella sua direzione. «Sono una laureanda di medicina e un volontario della Croce Rossa, oltre che una squinternata»
All’improvviso lui se la trova vicina, troppo vicina, e scopre che sotto i capelli rosa gli occhi sono verdi e intelligenti. Senza una ragione precisa si trova ad arrossire, e prega ardentemente che si confonda nel livido che sicuramente gli sta crescendo sulla guancia.
«Niente di rotto» decreta lei dopo averlo tastato delicatamente. «E scusa ancora»
«Mh...» mugugna lui, distogliendo lo sguardo non appena è libero di muoversi.
La ragazza a questo punto sembra incerta. Forse vorrebbe insistere per avere indietro i suoi posti, ma a quel punto le sembra discretamente sconveniente. E poi si accorge all’improvviso del mormorio che si diffonde lungo il vagone.
«Che è successo?»
«Non lo so, dove siamo?»
«Non c’è una stazione, solo campi...»
«La prossima è xxx, vero?»
«Sì, ma qua non ci muoviamo...»
Corrucciata, si guarda attorno per un lungo istante.
«Che succede?» si azzarda a chiedere a voce alta, e lui finalmente si riscuote dal suo torpore meditabondo e riacquista contatto con la realtà.
«Siamo fermi» dice, con aria smarrita.
«Ma dai?» replica lei ironica. «Solo che non sappiamo perché»
«Aspetta... Siamo fermi? No, cazzo no! Io devo darlo quel maledetto esame!» esclama lui tutto a un tratto, balzando in piedi.
«Ma due minuti fa non sostenevi che saresti stato bocciato?»
«Sì, ovvio! Ma bisogna sempre tentarla! Dov’è il controllore?»
«Avanti» pronta, la ragazza addita la porta che separa il vagone da quello successivo, e il ragazzo afferra lo zaino con l’angoscia dipinta sul volto.
«Ciao» bofonchia in fretta, senza nemmeno guardarla, e un attimo dopo sforza i muscoli per aprire la porta, quello successivo è tra i vagoni, e quello dopo ancora è scomparso.
La ragazza sbuffa, guardandosi attorno nel vagone tranquillo, e poi riprende finalmente possesso dei posti che erano suoi di diritto, e stende le gambe nude fino all’altro sedile. Con un minuscolo sorriso, allora, sfila dallo zaino un libro voluminoso e comincia a sfogliarlo.

Il treno resta fermo per qualche minuto, forse una decina. Fuori dai finestrini la campagna si stende immobile, e di tanto in tanto gli intercity sfrecciano sul binario accanto, spavaldi sbeffeggiatori dei più modesti regionali. Poi, all’improvviso, il treno riparte con uno scossone, e dall’altoparlante si diffonde un messaggio.
«Informiamo i signori passeggeri che a causa di un problema tecnico, il treno dovrà effettuare una sosta forzata nella stazione di xxx. Ci scusiamo per il disagio»
La reazione di disappunto è pressoché immediata. I bisbigli ricominciano, le domande si susseguono irritate, e la ragazza alza gli occhi dal manuale di anatomia e corruga leggermente la fronte. Naturalmente non hanno detto per quanto resteranno fermi.
D’istinto, senza ragioni particolari, il suo pensiero corre al maleducato che pretendeva di rubarle il posto, e si trova a chiedersi come farà con l’esame. Un po’ gli fa pena, realizza, e intanto mette via il libro, perché sa già che alla stazione di xxx scenderà per chiedere delucidazioni al capotreno.
Di lì a poco i sussulti dei binari si fanno meno frequenti, e il treno perde velocità. Ai lati della linea si snodano le prime case, cascine fatiscenti circondate da magri orti, e poi, ben prima del previsto, la stazione cadente.
Il treno si arresta fischiando, e con un ultimo scossone è immobile. La ragazza si assicura che lo zaino sia ben chiuso, e solo allora si alza, sulla scia dei passeggeri che già hanno deciso di cercare il capotreno.
Si mette pazientemente in colonna, aspetta di raggiungere l’uscita, e balza a terra con un piccolo salto. Una volta lì, perde un istante a guardarsi attorno: nient’altro che campi e cascine a perdita d’occhio. Un paese grande come lo sputo di un gigante, e con la vita notturna di un ospizio. Splendido.
Sbuffando, cerca il capotreno con lo sguardo e incrocia il controllore alla fine del treno, circondato da un paio di vecchiette mezze sorde. Con passo marziale lo avvicina, si fa largo tra la folla, e sfoggia il suo sorriso semi-professionale da volontaria della Croce Rossa.
«Salve, mi scusi, che succede?» domanda con cortesia esasperata.
Il controllore, un ragazzo dall’aria annoiata che avrà sì e no tre anni più di lei, le scocca un’occhiata irritata e sbuffa.
«C’è un gregge di pecore sul binario» annuncia atono. «Siamo a malapena riusciti ad allontanarle da una linea, passano solo i treni veloci»
«Un cosa?» allibisce la ragazza, spalancando la bocca.
«Gregge-di-pecore» sillaba il controllore, sotto occhi di un nero assolutamente inespressivo. «Sono bianche e puzzano»
«So cos’è una pecora! M-Ma perché sono sui binari?»
«In tutta franchezza, penso che dovrebbe chiederlo al pastore»

«Non ci credo! Ma che idiozia!» sbotta il ragazzo, scompigliandosi furiosamente i capelli.
Accucciato su un pavimento polveroso, accanto a una biglietteria chiusa e deserta, si lascia andare a un grido che sembra quasi un ringhio, e poi alza uno sguardo frustrato sul foglio bianco che campeggia un metro più su della sua testa.

Siamo al lavoro per fornirvi un servizio ancora migliore,
ci scusiamo per il disagio.
La biglietteria riaprirà il 12 gennaio.

La polvere di luglio si è posata su tutti gli angoli della stazione, ricoprendo ogni superficie piana e non, e il nastro adesivo che sorregge il messaggio ha perso aderenza da molto tempo.
Il ragazzo sbuffa furioso e si tira su, pensando che ci sarà sicuramente un servizio sostitutivo. Deve solo prendere per il collo un controllore, o un capotreno, o qualcosa di simile, e potrà andare a dare il suo maledetto esame. E’ un pensiero abbastanza concreto da fargli scrocchiare le nocche delle mani, e quando si volta di scatto è così battagliero che solo per un soffio non finisce addosso alla ragazza alle sue spalle.
«Piano» lo ammonisce lei, scoccandogli un’occhiataccia.
«Oh, sei tu» fa lui, riconoscendo immediatamente il ciuffo rosa sulla sua testa. «E’ chiuso» aggiunge poi, additando la biglietteria alle sue spalle. «Niente biglietti, niente informazioni»
«Cosa?» esclama lei, strappando l’avviso sulla porta polverosa. «Non ci credo!»
«Sì invece. E infatti volevo andare a cercare un controllore...»
«Lascia perdere. Ci ho già provato io, e sono stata a tanto così dal prenderlo a schiaffi. Non sanno niente neanche loro, a parte che c’è un gregge di pecore sui binari»
«Un cosa?»
«Gregge di pecore. Lo so, sembra assurdo, ma dicono che dobbiamo solo aspettare»
«Aspettare quanto?» chiede il ragazzo nervosamente.
«Ovviamente non lo sanno» sbuffa lei. «A che ora è il tuo esame?»
«Tra due ore. Dio, dio, dio, non posso crederci...» mormora, passandosi una mano tra i capelli biondi scompigliati. «Ma porca vacca, proprio oggi!»
«Già, proprio oggi» concorda la ragazza, incrociando le braccia. «Non c’è neanche un bus?»
«E a chi lo chiediamo?» si lamenta lui, alzando le mani impotente. «Non c’è un’anima»
«Beh, ci sarà un bar aperto di fronte alla stazione... C’è sempre» risponde lei accigliandosi.
«Io non mi muovo da qui» borbotta lui, sulla difensiva. Se il treno riparte senza di me sono fottuto. Qui non si fermano neanche i carri del bestiame»
«E allora stai fermo» la ragazza rotea gli occhi e sistema meglio lo zainetto su una spalla, poi, scuotendo i capelli con stizza, oltrepassa il ragazzo e si dirige in fondo al binario, verso il cartello arrugginito che segna l’uscita.
Lui rimane lì, a fissarla con un filo di irritazione, e sposta lo sguardo alternativamente dal cartello al treno. No, no e poi no. Non si muoverà di lì. Non può perdere il treno, se riparte senza di lui è morto. E non gliene frega niente se la ragazza è stronza ma carina! Insomma, nella vita di un uomo ci sono cose più importanti di un bel paio di gambe e un I-pod, e poi non la vedrà mai più, e in fondo un po’ per quell’esame ha studiato, e certo che la piazzola di quel buco di posto è ancora più squallida della stazione, ora che la vede bene. E perché diavolo è arrivato fin lì?
Mentre ancora se lo chiede, vede la ragazza avviarsi verso l’unico bar – polveroso come tutto il resto – e spingere la porta per entrare.
Resta un po’ fermo dove si trova, giocherella con un sasso ai suoi piedi, e poi sbuffa, maledice sé, lei e le sue gambe, e si affretta a seguirla.
Il bar all’interno è, se possibile, ancora più squallido. Il bancone è di legno rigato e macchiato, gli espositori sono quasi vuoti, fatta eccezione per un paio di confezioni scadute di caramelle, e il pavimento si rivela appiccicoso. Il proprietario, poi, sembra uscito da Hazzard, fasciato nella sua camicia a quadri e jeans anni settanta, e probabilmente non ha ancora afferrato il concetto di rasoio, perché ha un paio di baffi neri assolutamente orribili, su un viso che già ha poco di bello. Se non altro guarda la ragazza con uno sguardo così apatico che è impossibile pensare a delle molestie.
«Non passano bus?» sta chiedendo in quel momento lei, sconvolta. «Neanche uno schifosissimo bus?!»
«Hanno tolto la fermata nel... uhm, millenovecentosettanta... sette, se non sbaglio. O otto» commenta l’uomo, sereno.
«Che schifo, schifo, schifo di posto!» esplode la ragazza, pestando un piede a terra.
«Nel retro ho un telefono, se vuole chiamare un tassì»
«Come se avessi abbastanza denaro!»
«Forse se dividiamo per due...» interviene il ragazzo, scrollando le spalle con leggero imbarazzo.
La ragazza finalmente si accorge della sua presenza, e gli lancia uno sguardo stralunato.
«Non dovevi restare accanto al treno?» chiede stupita.
«Sì, ehm, ho cambiato idea» si schiarisce la voce lui. «Comunque, quanto verrà un taxi fino a xxx?»
«Troppo, per me» sospira lei, allontanandosi dal banco fino a raggiungerlo. «Mi conviene aspettare che il treno riparta...»
Con un cenno saluta il barista, che ricambia laconico buttandosi in bocca un chewing gum che sembra antico come lui, e insieme escono sulla piazza assolata.
«E quindi?» sospira lui, afflitto. «L’esame salta»
«Orale?»
«Sì»
«Sei uno dei primi?»
«Che? Scherzi?! No! Ma l’appello lo fa all’inizio»
«Oh. Mi spiace. Non credi che ascolterebbe le tue spiegazioni?»
Il ragazzo affonda le mani in tasca e avanza, diretto verso la stazione. «Sì, beh, non è che sia un esame poi così importante... Nel senso, sicuramente mi boccerà. E poi dove sto io non si fa mai un cazzo, è normale che la gente non si presenti agli appelli»
«Dove stai tu?»
«DAMS*, il paradiso dei nullafacenti» Con un ghigno sarcastico, lui la guarda. «Abbiamo un paio di lezioni di fianco al dipartimento di Medicina, sai? Ma le cose in comune finiscono qui»
«Ma no, dai...» commenta lei, con un leggero imbarazzo. «Non è la facoltà dei nullafacenti, se ti piace. Come tutte le cose, si può fare bene o male»
«Ah, sì sì. Ma io la faccio male, fidati. Oh, quante palle! Niente esame, stop. La mia giornata sarà un po’ meno stressante! Anzi, ti offrirei volentieri un gelato, se non fossimo in questo buco di posto»
Silenzio.
Il ragazzo deglutisce, conscio di aver fatto il passo più lungo della gamba. Solo venti minuti prima la stava insultando sul treno, e ora le propone un gelato. Mille a uno che si è tirato la zappa sui piedi.
Con lentezza, estrema lentezza, si azzarda a voltarsi quel tanto che basta per spiarla con la coda dell’occhio. Se il silenzio si protrarrà ancora cinque secondi, la butterà sul ridere e cambierà argomento.
La vede che si guarda attorno, ma non riesce a capire se sia imbarazzata, lusingata o infastidita. Pensa che le donne sono sempre creature maledettamente complesse, e quando già sta per fingere una risata asciutta, la vede fissarlo all’improvviso.
«Beh, se non dai l’esame me lo puoi offrire quando arriviamo» butta lì.
Il ragazzo si volta di scatto, sorpreso, e finalmente la vede arrossire.
«Sì, beh, sempre se non dai l’esame, cosa che comunque dovresti fare, almeno per provare, no? Lo hai detto tu» si affretta a spiegare lei, in tono sostenuto.
«Oh... Oh sì, certo» annuisce lui, con un mezzo sorriso. «Vediamo come è messo il treno, ok?»
Con aria fintamente rilassata, la ragazza scrolla le spalle e insieme si avviano oltre l’arco della stazione, verso i binari roventi. Il treno è ancora fermo al secondo binario, e l’aria che lo sovrasta tremola nella calura di luglio.
«Ma tu hai ancora lezioni?» chiede lui, mentre si avviano verso il sottopassaggio più fresco.
«E’ un seminario non obbligatorio... Colgo l’occasione per fare una piccola ricerca in biblioteca» risponde lei, mentre l’eco dei loro passi risuona sulle scale. «La fregatura quando studi medicina è che non tutte le informazioni si trovano sul web»
«Ah beh, io posso solo immaginarlo... Non credo che avrò mai il coraggio di mettere piede a Medicina... Direi che non fa proprio per me!»
Il ragazzo ride, e la sua risata si diffonde e rimbalza lungo il cemento, insieme a un rombo lontano cui nessuno fa caso. I due raggiungono il secondo binario, e salgono il primo gradino.
«In effetti sono abbastanza delle iene» sospira lei, passandosi una mano sulla fronte sudata. «Ma se impari a mordere sei a posto»
«Ah, no grazie. Al DAMS saremo cazzoni, ma almeno ci diamo una mano a vicenda»
La ragazza sorride, e lui ricambia.
E’ così che sbucano sul binario, nel sole di luglio, nell’afa già soffocante della mattinata.
Ed è così che scoprono che il loro treno sta trottando in fondo alla stazione, e lo sentono fischiare nell’aria riarsa.
Il ragazzo spalanca la bocca.
La ragazza rimane immobile, pietrificata.
«Non ci credo...» mormora lui, con una mano sulla fronte. «Cazzo, cazzo, cazzo!» esclama poi, facendo un giro su sé stesso e dando un pugno all’aria. «Che coglione!»
«Oddio, mi dispiace... Che idiota... Se non fossi andata...» inizia lei, preoccupata, ma lui con un cenno la zittisce.
«Lascia perdere, per favore. Sono un imbecille integrale!» esclama, accucciandosi e quasi strappandosi i capelli, da quanto li scompiglia. «E quelle pecore! Ahh, io le odio le pecore! Stupide, coglionissime pecore!»
Suo malgrado, la ragazza si lascia scappare una risatina. Poi esita un istante, e tira giù lo zaino, iniziando a frugarci dentro. Bastano pochi secondi perché trovi quello che cerca, e quando lo fa si avvicina al ragazzo e si accuccia al suo fianco.
«Ho controllato nel portafoglio, forse ce la facciamo a dividere un taxi» dice, sfoggiando con un sorriso un paio di banconote. «Ci stai?»
Il ragazzo la fissa stupito, troppo sorpreso per ricordarsi di essere furioso, e poi sbatte le palpebre.
«Magari passa un altro treno...»
«Sì, forse uno al giorno. E non d’estate»
«Ah, certo. Ma... insomma, mi spiace farti spendere tutti quei soldi... Poi magari non arriviamo in tempo comunque»
«E se non arriviamo in tempo, mi offri quel gelato»
Il ragazzo esita, combattuto. Ha davvero tutta questa voglia di dare l’esame? Tanto da spenderci quei soldi?
E però in taxi starebbero ancora vicini, magari con l’aria condizionata, e avrebbero tutto il viaggio per parlare, e forse scambiarsi i numeri di telefono, e chissà che...
«Ok» annuisce, improvvisamente convintissimo. «Davvero, non so come ringraziarti... Ah, che imbecille, tra una scemenza e l’altra non mi sono nemmeno presentato»
Si alza, e lei con lui, e finalmente si stringono la mano, dopo essersi insultati, inseguiti e quasi picchiati.
«Naruto Uzumaki»
«Sakura Haruno, piacere»



* DAMS: discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo. Non chiedetemi cosa si studi, sarebbe troppo lungo da spiegare! XD


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Capitolo 3
*** A Elisa - Uchiha centric (Fugaku & Itachi) - PRIMA CLASSIFICATA AL CONTEST SULLA PAZZIA ***


Natale-7 Elisa

A Elisa, aka Gweiddi at Ecate
(ma non so quanto a lungo terrà questo nick),
perché credo che non scriverò mai altro che prevede tanto Itachi.
Quindi voglio dedicare questa storia tutta a te.




Questa fanfiction si è classificata prima al Contest sulla Pazzia indetto da akane_val.











Un passo di troppo





Labile è il confine che separa genio e follia.
Fino a che punto l’anormalità è straordinaria, e quando diventa pericolosa?
Dove finisce il sogno e iniziano le allucinazioni?
Esiste un luogo, una linea, un piano, in cui
il genio diventa folle?






Fugaku Uchiha aveva sempre saputo che suo figlio Itachi era un genio.
Non aveva bisogno di vedere i suoi voti all’Accademia o sentire i pareri entusiastici degli insegnanti, a lui bastava ricordare che a due anni Itachi già leggeva, e senza che nessuno glielo avesse insegnato.

«Itachi, vai a giocare con gli altri bambini»
«Perché?»

Fugaku era orgoglioso di quel suo erede tanto speciale, erede che lo aveva già superato e si sarebbe spinto ben oltre i suoi limiti, ed era convinto che finalmente avrebbe riportato la casata agli antichi fasti.
Era il genio di Konoha, suo figlio. Era il genio degli Uchiha.
Aveva un grande destino.

«Stai ancora studiando, Itachi?»
«Domani ho l’esame, papà»
«Sono dieci ore che studi...»
«Esatto»
«...»
«Quando esci, chiudi la porta»

A sette anni Itachi si era diplomato con il massimo dei voti, sbalordendo la comunità tutta.
A otto era diventato Jounin, e la sua leggenda era cresciuta.
A tredici era già capitano degli Anbu.
E, oltre che il capitano della squadra più letale di Konoha, era anche la spia degli Uchiha tra i fedeli all’Hokage e al Consiglio.

«Tu sei importante, Itachi. Sei la nostra arma segreta»
«Io farò ciò che devo»
«Lo so. Sei il mio orgoglio...»


* * *


Alla fine era successo ciò che tutti temevano.
Il quartiere degli Uchiha era nato quasi in sordina, senza troppo clamore, ed era stato circondato da mura bianche e anonime. L’Hokage e il Consiglio avevano disposto che tutti gli Uchiha vivessero in un angolo insignificante di Konoha, lontano dai centri nevralgici della città, lontano dalla parete degli Hokage e dal loro potere, e loro avevano dovuto adeguarsi senza opporsi. Perché, anche se erano i discendenti di uno dei fondatori del villaggio, non erano mai stati davvero parte di Konoha.
Gli Uchiha avevano un grande orgoglio.
Principi.
Doveri.
Morale.
Gli Uchiha erano severi soprattutto con sé stessi, ma quando erano nel giusto sapevano essere spietati con i nemici, chiunque essi fossero.
E, dal momento che chiunque era fuori dal clan, era fuori da LORO, gli altri abitanti di Konoha erano tutti potenziali nemici.
Non si facevano illusioni, gli Uchiha.
Erano soli.
Erano i discendenti di Madara Uchiha, il suo sangue amaro scorreva nelle loro vene, e il rancore non si diluiva con gli anni.
Non importava che fossero stati rinchiusi.
Non importava nemmeno che gli Anbu si aggirassero quotidianamente lungo i confini del quartiere.
E anche se erano stati estromessi dal Consiglio, questo era assolutamente irrilevante.
Perché gli Uchiha avevano già iniziato a muoversi, e presto, molto presto, avrebbero riportato la bilancia in equilibrio.
Grazie al loro piccolo, importantissimo genio.


«Itachi, mi sembri stanco»
Al suono della voce paterna, Itachi alzò gli occhi dai sandali che stava allacciando e fissò Fugaku con il solito sguardo assente.
«E’ una tua impressione» rispose atono, e tornò a chinare il capo per finire di vestirsi.
«Sai che devi uscire in missione solo al meglio delle forze» replicò Fugaku, accigliandosi appena. «Non puoi permetterti fallimenti, o un calo delle prestazioni»
«Lo so» Itachi si alzò in piedi, e sistemò la fibbia del marsupio sull’addome. «C’è altro?» chiese, con una fugace occhiata.
Fugaku ingoiò il sospiro che voleva uscirgli dalla gola, e invece scosse la testa. «Vai. E fatti onore»
Itachi annuì, senza ringraziare, e gli voltò la schiena per uscire.
La porta si aprì, le sue spalle grandi si delinearono per un istante nel sole intenso del pomeriggio, e poi Fugaku le vide scomparire in un silenzio così perfetto e così freddo da mettere i brividi.
Una mano si posò morbida sul suo braccio, e una donna dai capelli mori e lo sguardo preoccupato cercò i suoi occhi, riportando il calore nell’aria.
«Va tutto bene?» domandò esitante.
«Mi sembrava stanco» rispose lui, passandosi una mano sulle tempie. «Ma probabilmente non riesco nemmeno a immaginare fino a che punto si spinga la sua resistenza...»
«Siamo i suoi genitori» sussurrò la donna, stringendo leggermente il suo braccio. «E’ naturale che ci preoccupiamo»
«Probabilmente hai ragione. Sono solo... non lo so...»
Fugaku fissò la porta per un lungo istante con sguardo assente, e si trovò ad accarezzare i capelli della moglie senza nemmeno accorgersene.
Sospirò e scosse la testa.
«Torniamo dentro; Sasuke ha già la sua merenda?» chiese, voltando la schiena all’ingresso.
Ma se il corpo poteva girarsi e allontanarsi, la mente non poteva altrettanto; e rimase fissa sulle spalle che si erano allontanate, fredde e silenziose, e che mai, mai una volta avevano smesso di essere rivolte a lui.

Itachi era il genio della famiglia.
Itachi era la loro speranza.
Itachi aveva un destino.
Fugaku pensava di conoscerlo.



La notte in cui Itachi tornò coperto di sangue, il cielo era illuminato a giorno dai lampi.
La pioggia non aveva ancora iniziato a scrosciare, ma un vento freddo e imprevedibile scuoteva le fronde degli alberi e sibilava tra i tetti delle case.
Fugaku e Mikoto erano andati a dormire da poche ore, eppure nessuno dei due riusciva a chiudere occhio; Sasuke era nella sua stanza, presumibilmente addormentato, ma se un tuono lo avesse svegliato Mikoto sarebbe dovuta andare a controllarlo, perché non si sarebbe mai abbassato a mostrare la sua paura dei temporali al padre. E non sapeva che anche Fugaku, da bambino, si era nascosto spesso sotto le coperte per non vedere i lampi.
Ma i suoi erano altri tempi, tutto un altro mondo, rifletté. Ora ciò che faceva paura era ben altro. E quando il tuono fece vibrare i vetri delle finestre, si limitò a sussultare per la sorpresa.
Mikoto scostò le lenzuola, sospirando piano.
«Vado da Sasuke» mormorò sentendolo muoversi.
Fugaku grugnì in risposta, rotolando su un fianco e chiudendo gli occhi.
Strano. Aveva superato la fobia dei temporali anni e anni prima, ma quella notte continuava a sentirsi nervoso. Si girava e rigirava sul materasso, pensava a sei cose diverse e non arrivava a nessuna conclusione, e sentiva lo stomaco gorgogliare sottovoce, ma non per la fame.
Al terzo tuono, si arrese. Gettò indietro le lenzuola, e fece scendere i piedi dal letto con un’occhiata cupa ai lampi che si intravedevano tra le persiane. Infilò le pantofole sul tappeto e si alzò in piedi, stringendo le braccia al petto in un brivido di freddo.
Itachi era ancora in missione insieme agli Anbu, nel paese del Vento. Secondo le previsioni non sarebbe tornato prima dell’indomani. Non aveva ragione di pensare a lui, nessuna ragione. Per questo, quando si trovò a camminare lungo il corridoio che portava all’ingresso, Fugaku si disse che lo faceva per sgranchirsi le gambe.
Il debole fruscio delle pantofole sul legno lo accompagnava lungo il tragitto, insieme ai gemiti del vento e ai tuoni lontani. Poi, soffuso, ai rumori della notte si aggiunse anche il ticchettio della pioggia.
Un altro fremito gli scosse le spalle.
Si stava sgranchendo le gambe. Solo sgranchendo le gambe.
Arrivò in vista dell’ingresso.
Un lampo improvviso illuminò l’atrio, e le chiazze d’acqua sul parquet liscio.
Un tuono rombò fin nel suo stomaco, mormorando cupo insieme al battito del suo cuore.
La sagoma china sullo stipite alzò gli occhi scarlatti e incontrò i suoi, neri e sbarrati.
Poi un altro lampo. E lo sharingan scomparve, e le spalle bagnate di Itachi si piegarono in avanti, verso il pavimento.
«Mikoto!» chiamò Fugaku, riscuotendosi dal torpore e muovendosi verso di lui.
Itachi cadde in ginocchio, lasciando l’impronta insanguinata della mano sullo stipite bagnato. Una folata di vento portò in casa gli spruzzi della pioggia e scosse i capelli fradici sulle sue spalle, ma Fugaku arrivò a sostenerlo prima che si accasciasse completamente.
«Ferite da taglio» sussurrò lui, perfetto e impeccabile anche in quelle condizioni. «Contusioni... Forse un dito rotto. Non è grave»
«Questo lascialo decidere a me» lo zittì Fugaku, adagiandolo a terra e strappando la maglia sul suo petto.
Alla luce irregolare dei lampi vide le ecchimosi sul torace e il gonfiore delle ferite ancora fresche, il cui sangue si mescolava all’acqua e si condensava in gocce rosate. Corrugò la fronte, ampliando lo strappo, e si rese conto che, come diceva Itachi, non era davvero grave; doveva essere rimasto stordito dalla perdita di sangue, più che altro.
«Mikoto!» chiamò di nuovo, e poi scostò il coprifronte dal suo viso gonfio, spingendo indietro la frangia.
«Come ti senti?» chiese, e la sua voce quasi fu soffocata da un nuovo tuono, e la pioggia ticchettò contro le sue guance, trasportata dal vento.
«Stanco» rispose Itachi, ad occhi chiusi.
«Cosa è successo?»
«Un’imboscata, sulla strada del ritorno. Siamo stati colti di sorpresa»
«Gli altri Anbu?»
«Vivi»
Fugaku annuì, confortato.
«Ti sei comportato bene»
Itachi non rispose, e Fugaku pensò si fosse addormentato. Alzò lo sguardo verso il corridoio, alla ricerca di Mikoto, ma nel buio della stanza intravide solo le sagome dei soprammobili.
«...Sarà davvero così?» mormorò all’improvviso Itachi.
Fugaku riabbassò gli occhi e lo vide che fissava il soffitto, livido, i tratti morbidi del viso resi acuti dalla luce cruda dei lampi.
«E’ davvero quello che devo fare?» continuò lui, e nella sua voce vibrò una nota incerta, qualcosa difficile a definirsi. «Combattere con gli shinobi di Konoha, rischiare la vita per loro... Quanto ancora durerà? Quanto andrà avanti questa farsa?»
I tratti di Fugaku si indurirono prima che rispondesse.
«Abbiamo bisogno di altro tempo» disse piano. «Non molto, ma ancora un po’. E tu sei la nostra arma segreta, Itachi. E’ importante che tu non ceda»
«Perché?» negli occhi di Itachi passò un lampo di rabbia. «Perché devo fingere, ingannarli, diventare loro amico e poi ucciderli?»
«Non devi essere loro amico» lo interruppe Fugaku. «Devi solo conquistare la loro fiducia»
«E restare impassibile, vero?» domandò Itachi, amaro. «Devo solo ingannarli. E poi distruggerli» un sorriso di scherno gli tirò le labbra pallide, e non fu più bello e giovane, ma molto più vecchio e crudele. «Sono la vostra arma e nient’altro, è questo che sono, no?»
«Itachi, sei stanco e ferito...»
«Sì. Hai ragione» lo interruppe, asciutto. «Sono stanco»
E Fugaku capì che non c’era altro da dire, e fu sollevato quando Mikoto finalmente li raggiunse.

Era stanco, Itachi.
Stanco stanco stanco.
Aveva un destino.
Era un ragazzo.
Era un genio.

Ma dove stava di preciso la linea da NON oltrepassare?


Poco dopo Shisui fu trovato morto nei pressi del fiume.
E Itachi divenne il primo sospettato.

*

Fugaku Uchiha non sapeva più chi fosse suo figlio.
L’aveva sempre capito a fatica, ma ultimamente non riusciva proprio a parlargli, se non nel tono formale di uno shinobi a un suo subordinato. Le poche volte che aveva cercato un dialogo con lui si era visto rispondere a monosillabi e occhiate spaventosamente neutre, e ben presto si era arreso e aveva iniziato a sorvegliarlo, più che guardarlo.
Mikoto era seriamente preoccupata per entrambi, e anche se le faceva piacere vedere che ora Fugaku prestava più attenzione a Sasuke, sapeva che non era così che dovevano andare le cose.
Fugaku non doveva dire a Sasuke di non imitare suo fratello.
Fugaku doveva fidarsi di Itachi.
Fugaku aveva sempre adorato Itachi.
Provò a parlarne al marito, una sera, mentre aspettavano di addormentarsi a letto. Ma lui si rinchiuse nel suo guscio e rispose soltanto che Itachi conosceva il suo dovere.
«Itachi è troppo importante»
Così importante che non gli staccava gli occhi di dosso.


«Sei stato in missione?»
«Sì»
«E’ andata bene?»
«Sì»
«E poi sei tornato dall’Hokage?»
«Papà, devo andare, ho una convocazione»


«Hai scoperto qualcosa di interessante durante la riunione?»
«Niente»
«Come sarebbe a dire niente?»
«Niente. E ora posso andare nella mia stanza? Sono stanco»


«Itachi, così non va. I membri del clan iniziano a non fidarsi di te»
«Non capisco...»
«Sì che capisci! Smettila di essere così impassibile! Reagisci! Fa’ qualcosa, di’ qualcosa, qualunque cosa!»
«E cosa dovrei dire?»


Cosa doveva dire?
Con quali parole avrebbe riconquistato la fiducia degli Uchiha?
C’era qualcosa che poteva riuscirci, qualcosa che sarebbe passato sopra le occhiate fredde e i discorsi smozzicati, qualcosa che lo avrebbe reso il vecchio, affidabile, geniale Itachi?
Fugaku voleva crederci.
Ne aveva un bisogno disperato.


«Stai uscendo?»
Di nuovo nell’atrio, di nuovo Itachi chino sui sandali. Ma questa volta non si disturbò ad alzare lo sguardo, e si limitò ad annuire in risposta.
«Dove vai?»
Itachi scrollò le spalle.
«Dove vai?» ripeté Fugaku, fermo dietro di lui.
«Voglio allenarmi» ribatté Itachi sistemando l’ultimo laccio e alzandosi in piedi.
Finalmente si voltò e fronteggiò Fugaku, ma se avesse continuato a mostrargli le spalle, nulla sarebbe cambiato comunque; perché i suoi occhi, semplicemente, non erano lì.
«Dove?»
«Nella foresta. Vuoi farmi seguire?»
«Non dire sciocchezze» Fugaku fece un cenno irritato.
«Sciocchezze?» replicò Itachi, e un sorriso strano gli incurvò un angolo della bocca. «Non sarebbe la prima volta che mi sorvegliate»
«Cosa?» Fugaku si accigliò, turbato. «Sorvegliato? Non ne sapevo nulla... come... Ne sei sicuro? Assolutamente sicuro? Ed erano Uchiha?»
«Da quando dubiti delle mie capacità?» rispose Itachi, freddo. «Passi per la fiducia e la stima, ma ora anche le capacità? Erano Uchiha. Ed erano lì per me. Ma forse qualcuno ha iniziato a lasciarti ai margini... Forse non sono l’unico da tenere sotto controllo»
Fugaku si irrigidì, e strinse i pugni sotto le maniche del kimono.
«Quando sei diventato così?» chiese, in un mormorio carico di amarezza. «Una volta eri diverso, Itachi. Eri la mia speranza, eri il genio del clan... avresti potuto diventare il nostro capo e nessuno avrebbe fiatato»
«Dillo, papà» Itachi lo fissò, lo inchiodò anche senza bisogno di sharingan, e Fugaku sentì le parole piombare nello stomaco come macigni. «C’è ancora una cosa che ero, non è così?»
Silenzio.
Silenzio e ancora silenzio.
Un silenzio colmo di pensieri, di grida che nessuno avrebbe mai sentito.
E l’unica frase che uscì dalle labbra di Itachi.
«Una volta ero tuo figlio»
Fugaku chiuse gli occhi, e senza volerlo distolse il capo.
Itachi sorrise, senza la minima allegria, e gli voltò la schiena.
«Vado ad allenarmi» ripeté, raggiungendo la porta. «Ci vediamo stasera»
E Fugaku, di nuovo, lo vide allontanarsi in silenzio, e restò immobile mentre Itachi se ne andava; restò immobile, immobile, immobile, senza dirgli che no, non avrebbe mai smesso di essere suo figlio.


Quella sera, Itachi tornò per l’ultima volta.


*


Sasuke era vivo?
Era tornato?
Itachi lo aveva trovato?

E Mikoto?
Mikoto era lì con lui, la sentiva, eccola...

Il dolore al petto era troppo, era lancinante, era al di là delle sue possibilità. E il sangue continuava a scorrere, gli offuscava la vista, gli faceva salire conati di vomito dallo stomaco, gli toglieva le ultime briciole di respiro.

Mikoto.
Mikoto era...

E sopra, ecco Itachi, e la sua spada corta, e gli schizzi di sangue sul suo viso, e quegli occhi, quei maledetti, orribili occhi spenti, quegli occhi che un tempo erano il suo orgoglio e ora erano scarlatti, maledetti, quegli occhi che grondavano sangue...
Fugaku aprì la bocca per chiamarlo, per dire qualcosa, forse, ma non ne uscì alcun suono.
Sentiva il corpo di Mikoto sotto di sé, ancora caldo, ma sapeva che il suo cuore aveva già smesso di battere, ed era più di quanto potesse sopportare.

Non avrebbe mai smesso di essere suo figlio.

«Ora non ha più importanza che tu ti fidi. In fondo, facevi bene a dubitare»
La voce di Itachi lo raggiunse da una distanza spaventosa, roca, profonda, molto più profonda di quanto ricordasse.
Dov’era il bambino che aveva visto crescere?
Dov’era il suo adorato, piccolo genio?
«Mi sarebbe piaciuto che le cose andassero diversamente...»
Fugaku boccheggiò. Voleva rispondere. Doveva dirgli che non era tutto perduto, che poteva ancora salvarsi, che poteva... che doveva... che aveva un destino...
Ma poi, vide le sue lacrime.
E quando la spada calò, una voce lontana riecheggiò nelle sue orecchie, la voce di un bambino, questa volta, la piccola voce di Sasuke che scomparve e diventò quella di un piccolo, geniale e adorato Itachi...

E allora seppe che il genio degli Uchiha aveva fatto un passo di troppo.


* * *




La luce del sole era accecante, in quel primo pomeriggio di luglio.
Le foglie degli alberi brillavano più intense che mai, rigogliose e scosse da una brezza leggera e tiepida, e nel cielo sgombro volavano le rondini a caccia di insetti. Il ronzio delle cicale era pressoché assordante, ma attutito dalla cappa di calore, e le infermiere in pausa si sventolavano stancamente con piccoli ventagli di carta, grondando sudore. Non c’era un solo centimetro di stoffa che non sembrasse decisamente troppo, quel giorno. E quando l’uomo in completo nero fece la sua comparsa lungo il vialetto, molti pensarono a un’allucinazione.
Era un ragazzo alto, con i capelli scuri e lunghi trattenuti in una coda bassa. Vestiva elegante, pur senza eccedere, e camminava con un portamento invidiabile. Le infermiere che ebbero la fortuna di vederlo passare a pochi metri furono avvolte dal suo profumo fresco, e tutto ciò che riuscirono a fare fu rimpiangere che i suoi occhi fossero nascosti dagli occhiali da sole. Sicuramente dovevano essere splendidi, ne erano certe.
L’uomo oltrepassò tutte le panchine senza mai rallentare, senza nemmeno una goccia di sudore sulla fronte, finché non raggiunse l’ingresso del grande complesso ottocentesco che si ergeva al centro del giardino.
Non perse tempo ad ammirarne colonne e stucchi, e invece salì i pochi gradini che lo separavano dal portone in vetro e dall’aria condizionata, e lasciò che le porte scorressero silenziose al suo arrivo.
Una folata di aria quasi gelida lo fece rabbrividire nel completo, e l’improvvisa penombra lo spinse a togliere gli occhiali scuri, rivelando occhi neri e bordati da ciglia lunghe.
Si guardò attorno, fermo a pochi passi dalla porta, e incrociò gli sguardi delle ragazze alla reception e di una donna seduta in attesa.
«Oh, ha bisogno di aiuto?» chiese una voce all’improvviso, al suo fianco, e voltandosi l’uomo vide quella che, dal cartellino appeso al camice, si fregiava del nome e del titolo di ‘Sakura Haruno, Medico psichiatra’. Aveva un colore di capelli alquanto discutibile, qualcosa a metà tra il chewing-gum appena scartato e la peggior colorazione stinta della storia delle colorazioni, ma l’uomo sorvolò con eleganza.
«Sono Itachi Uchiha» disse, pacato. «Non mi pare di averla mai vista prima, dottoressa Haruno. Immagino sia nuova»
«Oh, sì, in effetti... appena laureata» arrossì lei, scostando dietro l’orecchio una ciocca di capelli. «Viene spesso qui?»
«Sì» rispose lui, distogliendo lo sguardo e puntandolo sulle scale che salivano ai piani superiori. «Vuole accompagnarmi di sopra?» propose cortesemente, senza dilungarsi in spiegazioni.
«Oh, io veramente...» mormorò lei nervosa, e gettò uno sguardo disperato alle ragazze alla reception.
«Ino e Tenten saranno liete di dirle che so perfettamente dove devo andare» la anticipò Itachi, controllando distrattamente l’ora. «Le chiedo di accompagnarmi perché è prevista la presenza di almeno un medico, tuttavia, mi creda, ormai potrei anche muovermi da solo per tutta la clinica»
Sakura deglutì, nervosa, ma vide le ragazze alla reception farle dei cenni inequivocabili, e allora annuì brevemente.
«Va bene...» mormorò, e Itachi si mosse ancor prima che l’eco dell’ultima sillaba scemasse.
La dottoressa dovette quasi corrergli dietro fino alle scale, rischiando di inciampare nelle scarpe troppo strette, e lo raggiunse solo all’altezza del terzo gradino.
«Allora, ehm, signor Uchiha...» iniziò, sfoderando un sorriso impacciato. «Lei è stato qui molto a lungo?»
Lui le lanciò un’occhiata obliqua. «Credo che abbia frainteso. Io non sono mai stato un paziente»
«Oh, no, certo che no!» arrossì Sakura, maledicendosi mentalmente. «Intendevo... ecco...»
«Ho passato molte ore tra questi corridoi» le venne in soccorso lui, mentre raggiungevano il primo pianerottolo e attaccavano la seconda rampa di scale. «Ma soltanto in visita»
«Oh, certo, ora capisco...» mormorò lei, ancora imbarazzata. «Mi deve scusare... Sono arrivata a malapena tre giorni fa, so giusto dove sono i bagni... Ma non credo che la cosa la interessi, mi perdoni!» scosse la testa, confusa. Nessuno le aveva detto che trattare con la gente fosse tanto complicato, da medico.
Itachi le gettò un’occhiata neutra e proseguì, senza aggiungere altro.
«Ehm, mi scusi, a che piano stiamo salendo?» si azzardò a chiedere lei, quando arrivarono alla targhetta che indicava il primo.
«Terzo» rispose lui, e negli occhi della ragazza brillò un lampo di comprensione: al terzo piano c’erano i pazienti a lunga degenza, molto lunga, quindi era ragionevole che quell’uomo sapesse tanto bene come muoversi.
Inaspettatamente, Itachi riprese a parlare.
«E’ per mio padre» spiegò.
«Oh» riuscì a dire lei, e poi le parole le si seccarono in gola.
«Il suo nome è Fugaku Uchiha»
«Ah!» esclamò Sakura, portandosi una mano alla bocca, e Itachi le sorrise appena.
«Immaginavo che lo avesse sentito nominare»
«No, ecco... è solo che...» balbettò lei, avvampando per l’ennesima volta.
«E’ un nome piuttosto famoso, qui dentro» completò lui, mentre arrivavano al secondo piano e Sakura iniziava a sentire un filo di affanno. «E’ un paziente un po’ problematico»
«Ma no...» tento di dire lei. «E’ solo il tipo di patologia che...»
«La schizofrenia non è necessariamente violenta» la interruppe Itachi, laconico. «E allucinazioni e manie di persecuzione possono essere tenute a bada dai medicinali. Ma mio padre è particolarmente testardo... Mi diceva il dottor Sarutobi che la sua allucinazione è straordinariamente intensa»
«Credo... di averne sentito parlare...»
Itachi sorrise ancora, in parte sarcastico e in parte amaro. «Allora anche lei conosce ‘Konoha’? E l’Hokage, e il Consiglio, e tutti i tentativi dei perfidi ninja di distruggere lui e il suo clan?»
Sakura arrossì, annuendo impacciata.
A dire il vero conosceva anche un altro particolare, ma mai lo avrebbe introdotto lei.
«L’allucinazione di mio padre si regge sulla realtà dei suoi personaggi» proseguì Itachi, piatto, con lo stesso tono con cui avrebbe discusso dell’opportunità o meno di sostituire la Coca-cola con la Pepsi. «Il dottor Sarutobi è l’Hokage, la vecchia infermiera che lo accudisce uno dei consiglieri, i parenti e altri pazienti sono i membri del fantomatico clan... E poi, ci sono io»
Itachi si interruppe non appena arrivarono al terzo piano, e il corridoio pulito della clinica si stese davanti ai loro occhi. Sakura deglutì e riprese a camminare al suo fianco, combattuta tra il desiderio di sentirlo raccontare ancora e la paura di sapere come continuasse la storia, ma questa volta lui non le venne incontro. Fino alla terza porta non volò una mosca, e quando arrivarono alla stanza di Fugaku Uchiha, Itachi si fermò davanti all’ingresso.
«Sa chi sono io?» chiese, fissando assorto il nome sulla targhetta elegante, e Sakura capì che avrebbe continuato. «Nella sua Konoha fatta di complotti e tranelli, io sono il figlio traditore. Sono il genio del clan che impazzisce e stermina la sua intera famiglia, alleandosi con il perfido Hokage»
Suo malgrado, Itachi sorrise amaramente e guardò Sakura, che tratteneva il fiato, senza osare parlare.
«Il dottor Sarutobi non è d’accordo con me, ma personalmente sono convinto che mio padre ricordi fin troppo bene che mia madre è morta alla mia nascita» continuò lui, con tono straordinariamente pacato. «E nella sua Konoha la uccido di nuovo, davanti ai suoi occhi... Ho anche un fratello. Ma non ho mai capito bene come fosse, non c’è ogni volta»
«O-Ogni volta?» balbettò Sakura, suo malgrado.
«La sua allucinazione è complessa, ma termina sempre allo stesso modo: con la sua morte, per mano mia» spiegò Itachi, e nonostante la sua espressione si mantenesse perfettamente neutra, Sakura riuscì a sentire una nota amara, in profondità. Una nota straordinariamente amara. «Tuttavia, mio padre non muore fisicamente ogni volta. Quando ‘Konoha’ arriva alla sua fine, tutto il sogno ricomincia da capo. Io torno bambino, sono il suo adorato piccolo genio, e ogni volta che vengo a trovarlo si mostra fiero e orgoglioso di me. Poi, lentamente, la situazione degenera. Ci sono periodi in cui mi vede e urla. Ci sono state volte in cui lo hanno trovato sui gradini dell’ingresso, sotto il temporale, che parlava con un immaginario corpo steso a terra. E ci sono i momenti peggiori, quelli finali, in cui devono sedarlo perché non si faccia del male. E ogni volta, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, lui continua così. Passa dalla mia infanzia alla sua morte, e poi ricomincia, senza mai stancarsi e senza mai ricordare nulla della volta precedente»
Sakura si accorse di avere la bocca aperta e si affrettò a richiuderla, scossa.
Sapeva che esistevano pazienti del genere, lo aveva studiato e sentito raccontare mille volte. Sapeva che avevano storie anche più incredibili e crudeli, ma sentirlo ora, con le proprie orecchie, era molto peggio che leggerlo dai libri. La professoressa Tsunade le aveva sempre detto che era troppo emotiva per la specializzazione che aveva scelto.
«Io... Mi-mi dispiace...» balbettò confusa.
«Non è il caso» rispose Itachi, con un sorriso – no, una smorfia – appena accennato. «Per me è la quotidianità. E ogni volta, sarò quello che lui vorrà. Dopotutto è mio padre»
Posò la mano sulla maniglia, una mano ben curata e grande, forte, ma prima di abbassarla guardò un’ultima volta Sakura.
«Mi dispiace, devo averla annoiata» si scusò. «Per farmi perdonare, la prossima volta le offrirò un caffè»
«M-Ma no, si figuri... C-Cioè...» scattò Sakura, irrigidendosi, e Itachi scosse la testa e aprì la porta.
«Credo che ci incontreremo spesso, dottoressa» la salutò, e con quel sorriso tanto strano e quegli occhi che, nonostante tutto, erano ancora così vuoti, entrò nella stanza.
La porta si richiuse, ma attraverso le fessure dei cardini continuò ad arrivarle la sua voce attutita, insieme a un’altra simile ma più profonda.

«Stai ancora studiando, Itachi?»
«Domani ho l’esame, papà»
«Sono dieci ore che studi...»

Con un inspiegabile groppo in gola, Sakura afferrò la cartella clinica nel contenitore accanto alla porta e la sfogliò rapida, stretta da un’angoscia immotivata e più profonda di quanto avesse mai provato.
Non avrebbe dovuto lasciarsi toccare così tanto dai suoi pazienti, e nemmeno dai loro familiari; la professoressa Tsunade lo ripeteva in continuazione, così come le ripeteva di scegliere pediatria, o qualcosa di simile... e lei, stupida, credeva che sarebbe stata in grado di far fronte a qualunque cosa.
Ma non quando era così.
Non quando chi si trovava davanti aveva quegli occhi... non quando si trovava a dire frasi come ‘dopotutto è mio padre’.
Non così.
Si trovò a leggere le prime pagine della cartella clinica senza quasi capire cosa si trovava davanti, e le parole sulla carta andarono a sovrapporsi a quelle di Itachi...



...Tutti i tentativi dei perfidi ninja di distruggere lui e il suo clan...

                                                                                                                                           ...Adozione nell’infanzia. Liti e cause legali
tra le famiglie che lo tenevano in affido...

...Sono convinto che mio padre ricordi fin troppo bene
                                                                    che mia madre è morta alla mia nascita...

...La moglie muore di parto...

...Sa chi sono io? Sono il genio del clan che impazzisce...

...Note: intelligenza incredibilmente pronta, qualcuno parlava di ‘genio’.








Fine.

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Capitolo 4
*** A Sara - accenno di NaruSasu (AU) ***


Natale1-Sara

Dedicata a Sara, aka Serrua_chan.
Perché lei ha letto la versione originale,
e perché "sotto l'albero ci sono gli Uchiha"!
XD

NaruSasu appena accennata (e un po' buffa), AU.




Cinquanta perché






E’ normale chiedersi il perché delle cose.
Glielo avevano insegnato verso i tre anni, dopo il primo ‘e perché è così?’ tanto tipico dei bambini, e Itachi lo aveva sempre ricordato, più di ogni altra cosa.
Si era chiesto il perché tante e tante volte, nella sua vita, e non aveva trovato risposte convincenti nemmeno per la metà delle occasioni. Aveva avuto a che fare con perché increduli, perché rassegnati, perché rabbiosi, perché tristi. Si era chiesto perché tante volte che aveva finito per trovare la parola priva di senso, e arrivare a chiedersi perchéc’ e ‘h’ insieme si leggessero ‘c’ come cane invece che ‘ci’ come cera.
Si faceva un sacco di domande, Itachi, tutte con lo stesso incipit, e se le faceva per le cose più stupide e quelle più serie.
Per esempio, seduto davanti al libro di Anatomia (II), si chiedeva perché il capitolo dei peli stesse tra quello dei muscoli e quello dei neuroni, scelta incomprensibile, e poi perché fosse finito proprio a medicina. Spinte familiari, probabilmente, ma anche i professori avevano avuto una certa parte. Per la facoltà, non per il libro.
Si tolse gli occhiali e massaggiò gli occhi stancamente, accogliendo con gioia il buio delle palpebre abbassate. Studiava da più di tre ore, e nel frattempo il cielo si era annuvolato e aveva iniziato a cadere una pioggia insistente. La luce era accesa sul grande tavolo della cucina, e il frigorifero ronzava in un angolo. Le piastrelle del pavimento splendevano nel loro bordeaux cupo, perfettamente pulite, e un tuono fece vibrare il vetro delle finestre.
Itachi sollevò lo sguardo, incontrando l’orologio. Le cinque passate. Forse era il momento di una pausa.
Si alzò dalla sedia e aggirò il tavolo per raggiungere il frigorifero. Quando lo aprì sentì il freddo al suo interno che usciva e lo aggrediva, avvolgendosi alle sue braccia nude. Rabbrividì e prese una spremuta dal secondo ripiano, poi si affrettò a chiuderlo, a caccia di un bicchiere. Ma non riuscì nemmeno a raggiungere la credenza, che sentì suonare il campanello dell’ingresso.
Sbuffò. Perché andare fino alla porta, all’unico scopo di comunicare all’ignaro visitatore che chiunque cercasse non era in casa, e poi tornare esattamente lì? Tanto valeva non muoversi.
Annotò mentalmente il trentaduesimo perché della giornata, e poi si tese per prendere un bicchiere sul ripiano alto.
Il campanello suonò di nuovo, due volte. Con una certa irritazione, quasi.
Itachi fece orecchie da mercante e si versò 190ml di succo, non uno di più, non uno di meno.
Ma poi il campanello suonò ancora, e questa volta sembrava proprio che il maledetto – non più ignaro – visitatore si fosse addormentato sul pulsante, perché il monotono ronzio del citofono invase l’atrio, la cucina e le orecchie di Itachi, spingendolo a sbuffare e corrugare la fronte, mettendo giù succo e bicchiere. Passò accanto al tavolo, acciuffò gli occhiali posati sul libro, e proseguì verso l’ingresso, montando la sua espressione meno amichevole.
«Sì?» fece, gelido, aprendo la porta.
«Alla buon ora!» squillò una voce esasperata, quasi prima che riuscisse ad aprire del tutto.
Prima che Itachi capisse con chi aveva a che fare, si sentì urtare, per poco non inciampò, e si ritrovò con una chiazza umida nel mezzo della maglietta, una piccola pozzanghera accanto al tappeto nuovo e un deficiente biondo bagnato fino alle mutande che si scrollava sul tappeto nuovo. La mamma non l’avrebbe presa bene.
Perplesso e vagamente irritato, Itachi squadrò il nuovo arrivato.
Capelli biondi, probabilmente tinti, felpa arancione e jeans ad altezza ginocchio, il tutto coronato da qualcosa come tre litri d’acqua tra stoffa e materiale umano.
«Potrei gentilmente sapere chi sei?» chiese, mantenendosi guardingo.
Il ragazzo si voltò e lo fissò stralunato. «E tu chi sei?» se ne uscì all’improvviso, accigliato.
«Io vivo qui» mormorò Itachi, assottigliando gli occhi scuri.
«Oh. Uh. Oh!» esclamò il ragazzo, illuminandosi e schioccando le dita. «Ci sono! Itachi, il fratello di Sasuke, giusto? Ehilà, è un bel po’ che non ci vediamo!» e, tutto entusiasta, gli batté una pacca bagnata sul braccio.
Itachi lo fissò, rigido.
Il ragazzo sbatté le palpebre. «Ehi. Sono Naruto. Na-ru-to. L’amico di Sasuke. A proposito, lui dov’è? Di sopra?»
Senza perdere tempo Naruto fece un giro su sé stesso – Itachi vide mille gocce d’acqua schizzare e posarsi su tutti i libri più delicati di suo padre, e questa volta si chiese solo uno striminzito ma esasperato ‘perché?’ – e puntò le scale che si inerpicavano verso l’alto in fondo all’ingresso.
«Sasuke non c’è» disse Itachi, con un sospiro che sembrava più uno sbuffo.
Ma certo, Naruto Uzumaki. L’unico biondo naturale nel raggio di duecentoventi città.
Perché si era dimenticato una cosa tanto insolita? E dire che pensava di avere ottima memoria.
Naruto lo fissò spalancando gli occhi. «Come non c’è?»
«E’ uscito dopo pranzo, forse è in biblioteca, o qualcosa di simile» Itachi iniziò a tamburellare con il piede sul pavimento.
«Come in biblioteca?»
Quel Naruto aveva la varietà espressiva di un cavatappi.
«Non so che dirti.»
«Ma aveva detto che sarebbe stato qui!» esplose Naruto, evidentemente indignato. «Mi aveva detto che se fossi arrivato in ritardo mi avrebbe ammazzato, come osa non presentarsi?!»
«Ripeto: non so che dirti.»
«E io mi sono anche fatto tutta la strada sotto l’acqua, perché non trovavo l’ombrello, e, effettivamente, ero in ritardo!» esasperato, si mise le mani tra i capelli e provocò la rovina di un’altra decina dei poveri libri impilati nella libreria dell’ingresso. «Come faccio domani? La Mitarashi mi scuoia vivo, me lo sento!» gemette, disperato.
«Condoglianze» commentò Itachi, sforzandosi di non sembrare troppo infastidito. «Ti faccio chiamare quando arriva.»
«Come, quando arriva?» sbottò Naruto, le pupille dilatate e gli occhi vitrei.
Itachi iniziò a pensare che avesse qualche tara mentale. «Quando Sasuke rientra,» sillabò, chiedendosi perché esistevano persone con cui la pazienza veniva messa alla prova tanto intensamente. «gli dico di telefonarti. Così potete chiarirvi.»
«Ma io non ho l’ombrello per tornare!» inorridì Naruto. «E fuori diluvia ancora!»
L’occhio di Itachi ebbe un guizzo di irritazione, ma lo controllò molto bene. «Te ne prestiamo uno» disse solerte, e si girò verso il portaombrelli accanto alla porta.
Vuoto.
Perché, maledizione, perché?
«Non importa» sorrise Naruto, allegro come una berta. «Posso restare qui finché Sasuke non torna.»
PERCHE’?
«Veramente ho da fare...»
«Oh, non importa, non importa! Non disturbo, io! Sarò silenzioso come una mosca, ti dimenticherai persino della mia presenza!»
Difficile. L’ultima volta che Naruto Uzumaki aveva messo piede in quella casa, aveva mandato in frantumi un vecchio vaso finto Ming ed era riuscito a cadere dalle scale, strillando come un maialino sgozzato.
«Ma non c’è nessuno, oltre a me» insisté Itachi, cercando di apparire diplomatico. «Ti annoieresti. Già che sei bagnato, forse ti conviene fare una corsa a casa.»
«Oh, davvero, non è un problema!» Naruto sorrise smagliante, con l’idea di rassicurare Itachi. «Io salgo su nella stanza di Sasuke, frugo un po’ tra le sue cose, e, giuro, non verrò nemmeno a cercarti. Ah, non rubo niente, eh.»
Ci mancherebbe solo.
«Senti...»
«Ah, ce l’hai mica un asciugamano? Sai, sto gocciolando sul pavimento.»
Itachi avrebbe voluto fargli notare che stava gocciolando sul tappeto nuovo di sua madre. Che auto-invitarsi in casa d’altri era profondamente maleducato. Che la sua semplice presenza era gran fonte di disturbo.
Ma poi si chiese perché sprecar fiato con uno che evidentemente non vuole capire, e, sospirando, richiuse la porta, che aveva speranzosamente tenuto aperta fino a quel momento.
«Non ti muovere. Vado a prendere l’asciugamano.»

Un quarto d’ora dopo era di nuovo seduto al tavolo della cucina, con gli occhiali ben inforcati sul naso, e scorreva rapido le righe di Anatomia (II), immagazzinando concetti e soffermandosi di tanto in tanto a sottolineare una parola. La pioggia ticchettava fuori dalla finestra, il frigo ronzava nel suo angolo e, appoggiato con noncuranza al microonde, Naruto succhiava la spremuta dal bicchiere con una cannuccia rossa, tenendo un asciugamano umido in testa.
«Potresti fare meno rumore?» sibilò Itachi, scoccandogli un’occhiataccia.
«Uh, scusa, ho quasi finito» sorrise Naruto, e con un’ultima succhiata ancora più sonora svuotò anche l’ultima goccia di ciò che avrebbe dovuto essere di Itachi. «Ualà!» commentò, posando il bicchiere nel lavandino e facendo risuonare l’intera cucina.
Itachi si impose la calma. Da quando aveva avuto la sventurata idea di prendergli quell’asciugamano, Naruto non solo non era mai salito in camera di Sasuke, ma si era tolto le scarpe, aveva infilato quelle di suo fratello, aveva steso la felpa su un termosifone e poi si era installato in cucina, pretendendo non solo da bere, ma anche una cannuccia. E Itachi, in quei quindici minuti, si era chiesto almeno nove perché diversi, metà dei quali comprendenti un insulto più o meno pesante. E aveva anche raggiunto un nuovo record di frequenza.
«Vuoi salire nella camera di Sasuke?» propose posando la matita.
«Mmh... Prima avresti mica qualcosa da sgranocchiare?» replicò Naruto con una smorfia, trottando fino al frigo e aprendolo.
All’improvviso sentì lo sguardo di Itachi perforargli la schiena e si fermò, con la mano sulla portiera. Si voltò, incontrando i suoi occhi severi, e arrossì leggermente, togliendosi l’asciugamano dalla testa.
«Scusa...» mormorò, richiudendo imbarazzato. «E’ che quando c’è Sasuke mi comporto sempre come se fossi a casa mia... Non volevo essere rozzo, è un riflesso condizionato.»
Itachi sbuffò e si passò una mano tra i capelli, tornando sui libri.
Perché era passato proprio quel giorno?
«Tu normalmente sei in collegio, no?» se ne uscì Naruto, senza lasciare nemmeno un secondo tra un argomento e l’altro. Forse si interessava a Itachi per scusarsi di poco prima, o forse, più probabilmente, per ascoltare il suono della propria voce.
«Sì» rispose Itachi, lapidario.
«Wow. Che figata. E adesso perché sei a casa?»
«Perché è andata a fuoco l’ala del dormitorio in cui stavo, e ci hanno mandati tutti temporaneamente indietro.»
«Wow!» le pupille di Naruto si dilatarono per l’entusiasmo. «Com’è successo?»
«Con il treno» rispose Itachi, chiudendo gli occhi e posando la matita, ormai rassegnato.
«No, dico l’incendio! Chissene frega del ritorno, senza offesa.»
«Ah. Uno. Dicono che abbia acceso uno spinello in camera e poi se lo sia fatto cadere sul copriletto, addormentandosi per terra.»
«E’ ancora vivo?»
«Non lo so. I suoi non erano molto contenti di vederlo tornare a casa.»
«Wow.»
Itachi dovette riconfermare la prima opinione: quel Naruto non aveva alcuna varietà espressiva.
«E che stai studiando?» chiese tutto interessato, sporgendosi da sopra il tavolo.
«Anatomia»
«Cavolo, sembrano un sacco di pagine... Toh, ci sono anche le illustrazioni a colori.»
«Senti un po’, perché parli sempre così tanto?» finì per domandare Itachi, fissandolo dritto negli occhi.
Naruto si bloccò nella posizione in cui si trovava, rigido.
«Oh. Scusa. Vuoi studiare, capito» mormorò, facendo bruscamente marcia indietro. «Ma non è che parlo sempre tanto. E’ che mi succede quando sono nervoso. E Sasuke che dà buca mi rende nervoso»
«Uscite insieme?»
Voleva essere una domanda assolutamente neutra, non una provocazione, né una presa in giro. Se Naruto avesse risposto di sì, tanti saluti, se avesse risposto di no, l’avrebbe buttata sul ridere.
Ma Naruto si scandalizzò.
«No! Dio, no! Che schifo!» esclamò, avvampando con una rapidità disumana.
Lo sguardo di Itachi si raffreddò notevolmente, puntato su di lui. Si sfilò gli occhiali.
«Tecnicamente, io sono gay.»
Silenzio.
«Uh. Cioè. Non intendevo... Il concetto era ‘me e lui’, se mi capisci...» farfugliò Naruto, nel panico. «Non ho assolutamente niente contro... contro, ehm, contro di voi. E’ solo che l’idea che io e lui... Ah ah... Brr!» cercò di scherzare, con una risata molto poco convinta.
«Capisco» commentò Itachi, freddo, continuando a fissarlo.
«Non ci stai provando, vero?» indagò Naruto, sull’attenti.
Itachi sentì una piccola fitta d’irritazione. «Il fatto che io sia gay non significa che vorrei farmi tutti i maschi su cui poso lo sguardo» sibilò, più caustico di quanto fosse sua intenzione.
«No! Non intendevo... Scusa» bisbigliò Naruto, ormai nel panico più completo.
«Immagino che anche tu non voglia farti tutte le ragazze che vedi.»
«Ehm...»
Okay. Discutere con Naruto Uzumaki era perfettamente inutile.
Itachi inforcò nuovamente gli occhiali e tornò a chinarsi sul suo libro, teso. Detestava essere nervoso mentre studiava, faceva il doppio della fatica.
«Senti, scusa, mi dispiace» si fece avanti Naruto, dimostrando la sua buona fede passando dal suo stesso lato del tavolo. «Non volevo dire niente... E’ solo che sono rivelazioni che colpiscono, sai?»
Itachi pensò alla volta in cui il suo compagno di stanza aveva scoperto della sua omosessualità.
«Senti un po’, ho per le mani una sventola e la cugina... Ci stai domani sera?»
«Deidara, sono gay.»
«Oh. Suppongo sia un no.»
E, la sera dopo, il doppio con la sventola e la cugina si era trasformato in un doppio tra le cugine e uno tra loro due.
Non era il caso di raccontarlo a Naruto.
«Lascia perdere» si limitò a dire, scrollando le spalle senza alzare gli occhi dal libro.
Naruto si appoggiò al tavolo, e giocherellò con il bordo della maglietta, lanciando occhiate di traverso a Itachi.
«Ehm... pratichi?» buttò lì, avvampando dietro l’espressione finto-innocente.
Itachi sollevò lo sguardo e lo fissò, semplicemente.
«No, sai, per curiosità!» si difese Naruto, sempre più rosso. «Insomma, si sentono tante di quelle cose... e io mi chiedevo... No, niente, fa’ finta di niente!»
«Sei curioso?» chiese Itachi, interrompendo i suoi balbettii.
«No!» esclamò Naruto, con voce stridula.
«A livello teorico?»
«N...» si zittì, sbattendo le palpebre.
Checché ne dicano tutti, la prima volta che ha direttamente a che fare con qualcosa che lo disgusta, l’uomo prova sempre un accenno di curiosità morbosa. Se, una volta soddisfatta tale curiosità, l’uomo trova quel qualcosa ancora disgustoso, la faccenda si chiude lì. Ma se quella curiosità gli fa cambiare idea, allora cambia tutto quanto.
«Perché?» chiese Itachi, facendosi attento.
«Come perché?» replicò Naruto, sulla difensiva.
«Perché ti interessa?»
«Perché... boh. Curiosità.»
Itachi lo studiò. Nervosi giocherelli con le mani, sguardo sfuggente, evidente incapacità di stare fermo. Tutti i sintomi del mentitore inesperto.
E allora nascose un sorriso dietro la mano, e fece rotolare la matita tra l’indice e il pollice.
«I rapporti omosessuali sono diversi da quelli eterosessuali» spiegò. «L’intesa a livello fisico ha molta, molta più importanza. Certe volte l’innamoramento è solo successivo, tante altre volte non esiste nemmeno... Non è una questione di spiritualità, credo sia semplicemente perché sappiamo come siamo fatti. Mi spiego: tra maschi e femmine il rapporto sessuale è una scoperta, una frontiera da valicare con estrema attenzione. Il corpo dell’altro è completamente nuovo, certe volte il timore supera il piacere, in casi estremi diventa quasi un simulacro. Ma tra maschi ci si conosce fin dall’infanzia, si va in bagno gomito a gomito, e il pudore è praticamente bandito. Quindi è tutto in un certo senso più semplice...» scoccò un’occhiata obliqua a Naruto. «Il piacere è un desiderio naturale, e quando l’attrazione è reciproca, naturale è anche soddisfarlo. E’ ovvio che io pratichi»
Naruto si schiarì la voce, fissandosi corrucciato le unghie di una mano. La tonalità assunta dalle sue guance era pericolosamente vicina allo scarlatto. Parlare di quelle cose era molto più difficile quando non c'erano donne da commentare! Ed era ancora più difficile con un Uchiha.
«Oh, ehm... Allora parte a livello fisico, eh?» chiese conferma, con un’occhiata rapidissima.
«Quasi sempre» sorrise Itachi.
Naruto annuì, a disagio, e lui contò mentalmente fino a cinque, godendosi il suo imbarazzo. Poi parlò di nuovo.
«Perché me lo chiedi?»
«Io?» scattò Naruto. «Ah, beh, sì... certo» scrollò goffamente le spalle, fissò il soffitto. «Così, sai...»
Itachi scosse impercettibilmente la testa, faticando a mantenersi serio. Il moccioso era quasi carino, nonostante fosse completamente insopportabile.
«E sentiamo un po’, che ricerca devi fare con Sasuke?» buttò lì in tono casuale.
Come previsto, Naruto fece un salto da terra, e lo fissò ad occhi sgranati.
«Che? Eh? Sasuke?» squittì sull’attenti.
«La ricerca» ripeté Itachi, costringendo gli angoli della sua bocca ad abbassarsi. «La ricerca»
«Oh, sì, la ricerca!» annuì Naruto, fin troppo freneticamente. «Sì, ehm»
«Quella nella sua camera»
«Sì!» si strozzò quasi.
E poi, adorabile colpo di grazia, la porta dell’ingresso si aprì e Sasuke fece il suo umido e trionfante ingresso.
«Sono a casa!» annunciò, mentre Naruto voltava la testa di scatto. «Dove sono le mie scarpe?»
Itachi sorrise, incrociò il suo sguardo, e inarcò le sopracciglia. Naruto avvampò fin sopra le orecchie, e iniziò a iperventilare quando Sasuke arrivò in cucina.
«Nh? Tu che ci fai qui?» gli chiese l’Uchiha, vedendolo. «E perché hai le mie scarpe?» aggiunse dopo un attimo, abbassando gli occhi.
«La ricerca» spiegò Itachi, serafico, puntandolo educatamente con la matita. «Nella tua stanza»
La saliva di Naruto imboccò la via della trachea, causandogli un violento colpo di tosse, e i due fratelli lo fissarono.
«Argh, ehm, veramente si è fatto tardi!» esclamò riprendendosi. «Davvero tardi! Mi sa che beccherò la punizione della Mitarashi, eh... Anzi, facciamo che domani non vengo direttamente a scuola!» ridacchiò nervosamente. «Grazie comunque, eh. E ciao, eh»
Sotto lo sguardo perplesso di Sasuke, si sfilò le scarpe e saltellò attraverso la cucina con insospettata premura. Quando gli passò accanto, per un assurdo momento a Sasuke sembrò che evitasse il suo sguardo, e poi lo fissò mentre arraffava la felpa sul termosifone e si buttava nelle scarpe ancora umide. Perché le sue orecchie erano rosse?
«Ma che...» borbottò, sussultando leggermente alla porta che sbatteva, e finalmente si voltò a fissare Itachi. «Cosa diavolo gli hai fatto?»
Itachi sorrise sornione, inforcando di nuovo gli occhiali.
«Gli ho offerto qualcosa» spiegò. «Un succo» aggiunse, dopo un attimo di pausa.
Sasuke sbatté le palpebre, confuso. «Bah...» bofonchiò poi, grattandosi la nuca con aria stordita. «Il solito imbecille»
E sbuffando, infilò le scarpe lasciate da Naruto.
Itachi lo lasciò andare senza aggiungere altro, ascoltando il rumore dei suoi piedi sulle scale. Aspettò che la porta della sua stanza si chiudesse in lontananza, e solo allora si lasciò andare a una risatina.
All’improvviso ricordava quando e perché aveva iniziato a chiedersi il perché delle cose.
Perché era divertente.




«Perché me lo chiedi?»
«Io? Ah, beh, sì... certo... Così, sai...»




Fine.

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Capitolo 5
*** A Enrica - ItaNaruSasu (più o meno... ehm...), AU. - PARTECIPANTE AL CONTEST SULL'EROTISMO ***


Natale8-Enrica

A Enrica,
nonostante il suo compleanno risalga addirittura
al 18 dicembre!
Scusa per il terribile ritardo, scusa per i personaggi e scusa perché è quello che è...
In compenso, se la cosa ti aggrada, puoi considerare regalo unificato
questa e l'altra cosina che devi ancora leggere!
<3







Drowning





Erano veramente con l’acqua alla gola.

Da molto tempo respirare si era fatto difficile, quasi vischioso, e ogni movimento si svolgeva con la massima cautela e ogni cura possibile e immaginabile. Restare a galla era difficile. Le onde cercavano di sommergerli ad ogni piè sospinto, e mantenere la bocca sopra il pelo dell’acqua si faceva sempre più faticoso...
Ma cedere sarebbe stato peggio. Arrendersi, pur sapendo di avere ancora una goccia di coraggio in corpo, sarebbe stato semplicemente patetico.
E loro no - loro mai - avrebbero accettato la più terribile delle onte.
Fare pena.


«Nel secondo chō*
«Niente anche lì, silenzio assoluto»
«A Nakano?»
«Da due settimane abbiamo perso i contatti»
«Quelli di Shinjuku, cazzo
«Loro ci sono ancora. Ma sono a pezzi»
Una mano si mosse rapida, andando ad afferrare con rabbia una manciata di capelli neri.
«Ci hanno tagliato tutti i ponti» sibilò una voce roca, trattenendo a stento la rabbia. «Siamo isolati!»
I tre uomini presenti nella stanza oltre al Capo rimasero in silenzio, fissandosi nervosamente le scarpe.
Erano nella merda più molle e vischiosa che avessero mai incontrato. Anche se fossero riusciti a liberarsene, la sua puzza sarebbe rimasta attaccata ai vestiti per sempre. Erano finiti.
Qualcuno sfregò a terra la suola delle scarpe, un paio di Nike sporche che anticamente dovevano essere state dorate. Qualcun altro si schiarì leggermente la voce, quasi a incrinare il silenzio troppo denso. Il Capo sbuffò di nuovo.
«Andate. Vi chiamerò io, questa settimana siete liberi» li congedò asciutto, ignorandoli l’attimo successivo. Corrucciato, si chinò sulla scrivania e prese a fissare una consunta cartina della città, stesa sul piano scuro del tavolo e piena di segni a penna rossa. Non si accorse nemmeno del momento in cui due dei tre uomini si guardarono, scossero la testa e si allontanarono silenziosi.
Il terzo, invece, rimase.
«Sasuke...» mormorò, facendo un passo verso la scrivania.
«Ho detto che potete andare» sibilò lui, stringendo i pugni contro il legno e chinando la testa, per nascondere il rossore di rabbia che gli coloriva il volto. «Sarò io a chiamarvi, se e quando ne avrò voglia»
L’uomo oltre la scrivania inspirò lentamente, ferito, ma non insisté oltre. Distolse lo sguardo dalla testa china del Capo, e annuì da solo, in silenzio.
«Ho capito» sussurrò.
Quindi fece un giro su sé stesso e si avviò alla porta con passo fermo. Tradì una lieve incertezza soltanto nel momento in cui la sua mano si posò sulla maniglia, ma fu di brevissima durata.
Egoisticamente avrebbe voluto restare; ma sapeva che per l’orgoglio di Sasuke era meglio un po’ di solitudine... Un bel po’, probabilmente. Così, si lasciò alle spalle il rumore della serratura che scattava e una parete invalicabile di orgoglio e disperazione.

Uscì nell’aria inquinata del quartiere, passando con finta indifferenza dal locale di Pachinko** che era la loro copertura. Fece un vaghissimo cenno al vecchio proprietario che puliva il pavimento, poi fece tintinnare la campanella dell’ingresso, e fu fuori.
Il cielo di marzo era coperto da un sottile strato di nubi grigie e spugnose, che si mescolavano come volute di fumo. Non sembrava che volesse piovere, ma in quel mese dell’anno nulla era mai certo.
Il ragazzo, che fuori dal locale non era più un uomo, ficcò la mano in tasca e ne estrasse un pacchetto malmesso di Camel. Lo fissò con sguardo assente, come se in realtà guardasse altro, poi, sospirando, lo rimise via.
Non ancora. Erano nella merda, non morti.
Alzò lo sguardo e lo passò tutt’attorno. La strada era una banalissima via di quartiere popolare, su un lato della quale si apriva un cantiere. A quell’ora del pomeriggio passavano soltanto una massaia piena di preoccupazioni e un cane, forse un randagio. Il ragazzo si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli con un senso di rabbiosa frustrazione.
Il mondo restava sempre indifferente alle calate. Le ascese no, quelle erano celebrate in pompa magna e tripudio di stendardi, ma calate e cadute passavano in sordina, ricordate qua e là con miseri sussurri di compatimento.
A nessuno interessava chi scendeva la china. Come la società ignorava vecchi e deboli, l’interesse ignorava chi aveva perduto il potere, per quanto grande fosse stato. E loro... oh, sì, loro ne avevano avuto tanto, di potere: uomini nei quartieri di mezza città, informatori, collaboratori, infiltrati nella polizia, reti di lavoro efficienti e ben oliate. Un piccolo e fruttuoso impero che si reggeva sull’illegalità – ma quale impero non lo faceva?
La polizia vedeva e taceva, in cambio di piccole bustarelle natalizie, e anche le autorità erano disposte a chiudere occhi, naso e orecchie con un minuscolo incentivo morale, per così dire. Era un perfetto sistema do ut des, e non era mai entrato in conflitto con nessun altro organismo simile.
Chissà cos’era andato storto. Forse all’inizio era stata colpa delle autorità, che avevano preteso di più. O della polizia, che aveva avuto una fiammata di moralità... O forse il problema era interno alla compagnia, e ne minava da sempre le fondamenta con un virus chiamato avidità. Qualunque fosse, era riuscito rapidamente a distruggerli: nell’arco di pochi mesi, settimane quasi, la loro rete si era completamente sfaldata. Gli uomini erano scomparsi, morti o traditi, i confini del loro impero si erano fatti frastagliati, e poi sfilacciati, infine a brandelli. Del loro potere non era rimasta che una grande bolla di sapone, ed erano fin troppe le dita pronte a farla scoppiare.
Ma forse era inevitabile, rifletté il ragazzo.
Con la mani premute a fondo nelle tasche, prese a camminare lungo la strada senza una meta precisa. Il loro mondo si reggeva sulla precarietà, sul carpe diem continuo e ininterrotto. Oggi la fortuna gira, domani chissà. Cogli il momento finché sei sulla cresta dell’onda, e cerca di discenderla con stile. L’importante è non cadere, certo.
Eppure, anche se erano caduti, e pure rovinosamente, lui non provava vergogna, rabbia, o disperazione. Si era in un certo senso rassegnato a quell’idea da molto tempo, forse ancora prima che tutto iniziasse. Sì, doveva essere così, perché non riusciva a scovare nemmeno un briciolo di delusione dentro di sé. Se si guardava, vedeva solo una grande malinconia.
La loro compagnia, per quanto precaria, dissolta.
Persone che si erano salvate la vita a vicenda, ora erano separate e destinate a diventare rivali, o peggio cadaveri.
Il ricordo delle bevute in compagnia sarebbe diventato unicamente un ricordo... e presto anche Sasuke. Lo conosceva. Sapeva che non sarebbe rimasto a farsi guardare mentre cadeva, sapeva che avrebbe preferito affondare da solo, che forse ci avrebbe anche provato.
E lui, come uno scemo, sarebbe rimasto a guardare.
Ho detto che potete andare.
Gli ordini non si discutono, vero teme?

Si accorse dell’altro ragazzo quando ormai gli era quasi andato a sbattere addosso. All’improvviso la sua ombra incespicò nei piedi di un uomo, e allora ricordò di essere ancora un essere umano in un mondo di uomini, e si decise ad alzare lo sguardo.
Il cuore gli rimbalzò nel petto con un sussulto improvviso. Conosceva la persona che gli si era parata davanti.
Quello gli sorrise, amabile, le mani infilate nelle tasche del lungo cappotto di tweed nero e i capelli elegantemente raccolti alla base della nuca. Sebbene i suoi lineamenti fossero totalmente diversi da quelli di Sasuke, era innegabile che Itachi Uchiha ne fosse il fratello: avevano gli stessi, identici occhi... ma sguardi diametralmente opposti.
«Naruto Uzumaki» Itachi chinò lievemente il capo, aspettandosi che il ragazzo rispondesse al saluto; ma quello rimase rigido a fissarlo, nervoso, e non fece nulla.
Il sorriso si raffreddò lievemente sul viso liscio dell’Uchiha, ma non scomparve. Con delicatezza estrasse le mani di tasca e fece un cenno indicando la strada, come lo avrebbe fatto per lasciare la precedenza a una donna.
«Posso offrirti qualcosa?» chiese serenamente.
«Cosa?» scattò Naruto, istantaneamente rigido.
«Un tè, un caffè, una coca, un alcolico... Quello che preferisci»
«Perché?»
«Perché c’è qualcosa di cui vorrei parlare con te»
Era inutile aggiungere che quel qualcosa riguardava Sasuke.

Itachi avrebbe voluto prendere un taxi e spostarsi in un quartiere più ricco, per portarlo in un locale che conosceva, ma Naruto rifiutò categoricamente di allontanarsi. Dovettero accontentarsi di un piccolo bar sporco all’angolo della via, e Itachi ci entrò nascondendo perfettamente il disgusto.
Presero posto nell’angolo più lontano dall’ingresso, che era anche il più buio e meno igienico, e Naruto appoggiò i gomiti sul tavolo con nervosa aria di sfida.
«Allora?» esordì, senza girarci intorno.
Itachi si accomodò, apparentemente a suo agio, guardandosi attorno con ostentata calma.
«Allora?» insisté Naruto, digrignando i denti.
«Un caffè» disse lui all’uomo che li aveva raggiunti, e si puliva le mani in un grembiule macchiato. «Tu cosa prendi?» aggiunse rivolto a Naruto.
«Una coca» sibilò quello rapido, incassando la testa tra le spalle.
«Un caffè e una coca» ripeté Itachi, e l’uomo annuì, li squadrò per un lungo istante, e si avviò verso il bancone zoppicando leggermente.
«Senti, se siamo qui perché ti annoi, allora...» sbottò Naruto, stringendo una mano all’altra con irritazione, ma Itachi lo interruppe prima che concludesse la frase.
«Sasuke come sta?» chiese distaccato, sfilando di tasca un pacchetto di Lucky Strike.
Le spalle di Naruto si irrigidirono, i suoi occhi si affilarono immediatamente. Non rispose, e Itachi gli lanciò un’occhiata rapida, mentre accendeva la sua sigaretta.
«Naruto, non sono qui per minacciarvi» sospirò, con aria annoiata. «La nostra compagnia cresce sulle rovine della vostra, non abbiamo alcun bisogno di infierire: ormai siete condannati. Tutto quello che mi interessa...» fece un piccola pausa, sporgendosi leggermente sul tavolo, e per un attimo espirò brevemente, lasciando che il fumo si sollevasse sul tavolo. «Quello che mi interessa, è soltanto mio fratello»
«Lo so» sibilò Naruto, serrando i pugni. A Itachi era sempre interessato Sasuke, così come a Sasuke era sempre interessato Itachi, più che la sua organizzazione. Tutti ne erano al corrente.
«Allora, come sta mio fratello?» ripeté l’Uchiha, fissando Naruto dritto negli occhi.
«Come pensi che stia?» irritato, Naruto guardò altrove.
A Sasuke era sempre importato di Itachi. Solo di Itachi.
Per questo lo odiava.
«Lo immaginavo» Itachi si lasciò scappare un piccolo sorriso, giocherellando con la sigaretta accesa. «E’ sempre stato molto orgoglioso»
E tu che ne sai?, avrebbe voluto chiedergli. Da quanti anni non gli rivolgi la parola?
«Che vuoi?» sussurrò cupamente, schivando i suoi occhi.
Itachi sospirò. «Siete sempre così sospettosi nel vostro gruppo, o è una novità degli ultimi tempi?»
«Te l’ho detto, se vuoi solo perdere tempo hai sbagliato persona»
«Ma io non voglio perdere tempo»
Itachi puntò gli occhi in quelli di Naruto, e lui non riuscì ad evitarlo. Odiava che quegli occhi fossero tanto uguali a quelli di Sasuke, e odiava l’idea che Sasuke, guardandosi allo specchio la mattina, fosse costretto ad incontrarli.
L’insulto si acquattò sulla punta della lingua, pronto a sferzare violentemente il nemico, quando il barista tornò all’improvviso con le loro ordinazioni.
«Caffè. Coca» borbottò monotono, e posò il primo davanti a Naruto, e il secondo davanti a Itachi.
L’Uchiha, senza dire nulla, annuì brevemente e li scambiò, mentre l’uomo se ne andava. Naruto afferrò il suo bicchiere e lo strinse per scaricare la tensione, finché le nocche della mano non sbiancarono.
«Mi stai dicendo che siamo qui perché vuoi sapere come cazzo sta tuo fratello?» sibilò astioso. «Non ti bastano gli informatori che hai già?»
Itachi sorrise, e prima di rispondere lo fissò a lungo.
«Gli informatori possono dirmi tutto sulla sua situazione finanziaria» spiegò pazientemente. «Ma chi meglio di te potrebbe informarmi sulle sue condizioni come essere umano?»
Naruto si sentì arrossire, affrettandosi a guardare altrove.
Chi meglio di te?
«Se tu davvero volessi informazioni su tuo fratello, le chiederesti a lui, non a me...» borbottò corrucciato. «Sai che non aspetta altro»
Itachi continuò a sorridere, imperterrito, sorseggiando lentamente il suo caffè. Naruto giocherellò nervoso con la coca-cola, e gli lanciò un’occhiata veloce. Forse avrebbe potuto muoversi talmente bene da spingere i fratelli Uchiha sulla via della riconciliazione... E una volta ottenuta quella, anche la salvezza per la compagnia sarebbe seguita a ruota.
Ma voleva davvero che Sasuke e Itachi si riavvicinassero?
«Allora credi che potrei entrare nel locale di Pachinko a duecento metri da qui e chiedere a Sasuke come sta?» domandò Itachi a quel punto, posando il caffè e intrecciando le dita sotto il mento.
Naruto deglutì, involontariamente costretto a fissare i suoi occhi. Perché ogni volta che succedeva aveva l’impressione di essere sfidato? Perché gli sembrava sempre di essere sotto esame?
Reticente, si strinse nelle spalle. «Certo...» mugugnò abbassando il viso.
«Ma oggi io sono molto impegnato» sbuffò Itachi, quasi con un leggero senso di rimpianto.
«Non abbastanza, direi» replicò subito Naruto, accennando al suo caffè.
Itachi sorrise enigmatico, e svuotò la tazzina. «Già, forse non abbastanza...»
Naruto rimase in attesa di altro, una spiegazione, una richiesta, qualunque cosa; ma, con suo grande sconcerto, Itachi si limitò a pulirsi le labbra con un tovagliolo di carta e a fare un cenno al barista per pagare il conto.
Cosa vuole davvero?, si chiese turbato. Perché è qui?
Svuotò in un colpo solo la coca-cola, sentì le bollicine risalire su per il naso fino a fargli lacrimare gli occhi. Itachi, davanti a lui, si alzò dalla sedia senza degnarlo di uno sguardo, ma rimase accanto al tavolo in sua attesa.
Naruto sbatté il bicchiere sul piano di plastica e si tirò su, torvo. Quindi Itachi era venuto lì, l’aveva innervosito e ora se ne andava senza nulla di fatto. Gli faceva tanta rabbia che lo avrebbe volentieri aggredito. Invece si limitò a incassare la testa tra le spalle e avanzare verso la porta, ansioso di allontanarsi dall’aria pesante del locale e tornare a immergersi nella sua solitaria malinconia. Gli faceva schifo essere triste, ma era sempre meglio che ronzare attorno a Itachi Uchiha.
Quando arrivò alla porta e stese la mano per aprirla, si rese conto anche del perché fosse così.
«Prego» sussurrò Itachi, precedendolo sulla maniglia. Facendolo, si trovò – involontariamente? – a chinarsi dietro la schiena di Naruto, e per un istante il suo respiro gli solleticò il collo.
Naruto sentì il sangue salire alle guance, per l’irritazione e anche per altro, e di scatto, senza ribattere, uscì dal bar e si avviò lungo la strada. Non si girò neanche una volta.


Il pelo dell’acqua aveva raggiunto la bocca.
Ormai dovevano annaspare con il naso, se non volevano morire soffocati, e Naruto si rese conto all’improvviso che erano rimasti solo in tre: lui, Sasuke e il vecchio strambo Jiraya.
Ancora una volta avevano fatto il punto della situazione, contato defezioni e morti, e avevano raggiunto la conclusione che la fine era a un tiro di sputo; ancora una volta Sasuke aveva preteso di essere il primo ad affondare, e li aveva congedati senza guardarli negli occhi; e, ancora una volta, Naruto aveva capito che l’umiliazione era troppa e troppo pesante. Che, probabilmente, se Sasuke fosse scivolato sott’acqua non sarebbe più tornato su.
Quando lasciò il locale di Pachinko, di nuovo fu colto dalla tentazione di fumare il pacchetto di Camel nelle sue tasche. Giaceva lì da anni, con gli angoli rovinati e i colori sbiaditi, e simboleggiava la fine, l’ultimo tassello di una rovina iniziata tempo prima. Ma ancora una volta lo lasciò intatto. Lo guardò, e lo guardò ancora, poi lo infilò in tasca senza aprire bocca.
Quando rialzò lo sguardo, Itachi era lì.

«Allora, come sta Sasuke?»
Naruto ebbe uno scatto nervoso. «Vai a chiederglielo!» ringhiò aggressivo, stringendo i pugni.
Erano nel cantiere che si apriva lungo la strada davanti al Pachinko, e il vento fischiava tra le travi coprendo il suono delle loro voci. Itachi, stretto nel suo cappotto, scostò una ciocca di capelli dal viso, e socchiuse gli occhi.
«Ha alzato il muro, vero?» domandò, con voce a malapena percepibile nelle folate.
Naruto tacque. Non c’era nulla che sapesse dire.
«Lo fa sempre, quando si trova in difficoltà. Per orgoglio è disposto ad andare a fondo e trascinare tutti gli altri. Anche te» continuò Itachi, pacato, e fu proprio la calma nella sua voce a irritare Naruto.
«Perché lo dici a me?!» scattò, furioso. «Perché continui a cercare me, invece di andare da lui? Sai tutto ciò che succede, sai come sta, eppure continui a seguire me! Sei uno stronzo bastardo cagasotto!»
L’Uchiha sorrise a malapena, nient’affatto turbato.
«Hai paura?» domandò sottovoce.
Naruto si irrigidì.
«Hai paura di vederlo scivolare via, giorno dopo giorno, e non poter fare nulla? Quando sarà affondato, tu a chi ti aggrapperai?»
Naruto scosse la testa.
«Idiota» sibilò, a sguardo basso e denti stretti. «Che ne sai tu di quello che voglio io?»
Non andartene.
Non andare da solo.
«...Capisco»
Itachi prese ad avanzare, sotto l’espressione tesa di Naruto.
«Cosa vuoi?» inveì lui, facendo un passo indietro. «Vai da Sasuke!»
«Chi sei tu per Sasuke?»
La mascella di Naruto si serrò contro la mandibola in uno spasmo d’irritazione.
Vattene! Stai lontano da me!, avrebbe gridato, se solo la voce avesse risposto.
E invece rimase muto e immobile, aspettando che Itachi si avvicinasse, e quando fu a meno di un braccio da lui sentì tornare il rossore che lo aveva colto all’uscita dal bar, l’ultima volta.
Avevano gli stessi, identici occhi... e Naruto, quegli occhi, li amava.
«Vai da Sasuke» ripeté, roco. «Non da me»
Perché, sebbene amasse quegli occhi, sapeva verso chi erano rivolti.
Itachi non sorrideva. Immobile, fissò Naruto con un’intensità quasi dolorosa, come aghi ardenti sulla pelle.
«Se io andassi da Sasuke, so già cosa vedrei» mormorò, e una folata di vento spinse i suoi capelli fin contro il viso. «Orgoglio. Disperazione. Solitudine. So di cosa ama rivestirsi mio fratello. Ma tu...»
Lentamente, sollevò una mano e posò un singolo polpastrello contro la guancia fredda di Naruto, facendolo sobbalzare.
«Tu sai cosa c’è dietro, non è vero? Tu hai guardato fino in fondo a Sasuke, a te è stata concessa l’ultima chiave; sai cosa nasconde»
Il suo dito scorse leggermente lungo il viso, seguito da un altro, e un altro ancora; finché l’intero palmo non accarezzò il collo di Naruto, e la mano affondò tra i capelli della nuca.
«Come sei riuscito ad arrivare fin là?» chiese in un sussurro. «Cosa hai fatto per oltrepassare l’ultima barriera?»
Naruto rimase immobile sotto lo sguardo di Itachi. Il suo corpo vedeva soltanto gli occhi degli Uchiha, non tutto il resto, e, purtroppo, reagiva di conseguenza. Il respiro correva affannato nel petto, le labbra serrate e livide erano strette sotto i denti, così come le unghie affondavano nei palmi delle mani.
Itachi, non Sasuke. Itachi.
«Perché, a te, lui ha permesso di vedere?» mormorò Itachi, con suadente lentezza.
E poi, senza preavviso, fu lì, a pochi millimetri dalle sue labbra. E altrettanto improvvisamente le sue labbra furono loro.

«Come ci sei riuscito?»
«L’ultima barriera»
«Cosa hai fatto?»
«Perché a te...?»
Ricordi confusi e parole, nella sua testa.
Naruto non ricordava come fosse arrivato in quella stanza d’albergo, ma iniziava fortemente a sospettare che Itachi, in qualche modo, lo avesse drogato.
Rimase rannicchiato in un angolo del letto, avvolto strettamente alle lenzuola, e fissò la parete bordeaux davanti ai suoi occhi.
«Cosa hai fatto per oltrepassare l’ultima barriera?»
Quella era la domanda che, per assurdo, gli era rimasta più impressa... E poi, c’erano il calore di Itachi sotto le sue mani, la sensazione morbida dei suoi capelli tra le dita, i baci sul corpo e sulla bocca, i brividi, gli ansiti, il suo odore, il suo sapore, e la confusione tra lui e Sasuke, in ogni gesto, in ogni istante.
Distrattamente, sentì che l’acqua della doccia veniva chiusa nel piccolo bagno della stanza, e un brivido gli corse lungo la schiena.
Ora Itachi sarebbe rientrato. Lo avrebbe guardato negli occhi. E Naruto avrebbe capito di aver dato l’ultima spinta a Sasuke, quella definitiva che lo avrebbe portato sul fondo.
La porta scattò debolmente, nella luce ambrata delle lampade. Naruto si irrigidì, serrando convulsamente le dita alle lenzuola. Sentì i movimenti sommessi di Itachi alle sue spalle, il fruscio dei vestiti, il tonfo impercettibile dell’asciugamano gettato sul letto. Quando sentì la sua voce per poco non trasalì, sorpreso di avvertirla tanto forte.
«Non devi preoccuparti per il conto»
«Non l’avrei fatto comunque» trovò la forza di bofonchiare.
Silenzio. Il rumore impercettibile di una cravatta che veniva annodata. Qualcuno deglutì.
«Hai trovato quello che cercavi?» sussurrò poi Naruto, torvo. «Qualunque cosa fosse...»
Non arrivò nessuna risposta. Naruto contò fino a dieci, poi fino a venti, ma a ventitré perse la pazienza e scattò a sedere, voltandosi bruscamente.
«Che cosa volevi?» sbottò. «Perché hai fatto tutto quanto, se ciò che ti interessa e ti è sempre interessato è tuo fratello? Perché coinvolgermi, perché mentire, perché questo
Itachi gli gettò un’occhiata distratta, e tornò ad allacciare i bottoni sulle maniche.
«Voi Uchiha siete dei maledetti idioti» sibilò allora Naruto, passandosi una mano tra i capelli. «Cazzo»
«Mio fratello non esiste» mormorò Itachi inaspettatamente.
Naruto corrugò la fronte e risollevò la testa, rabbiosamente confuso.
«Davanti ai miei occhi esiste solo Sasuke Uchiha» continuò Itachi. «La stessa immagine che mostra alla gente, e che non è quella che conoscevo da bambino. Sono tanti anni che cerco il vecchio Sasuke, da qualche parte. Tanti anni che questo mondo minaccia di schiacciarlo e fargli dimenticare chi è... Poi ho trovato te»
Itachi fece una pausa, sistemandosi il colletto della camicia.
«Pensavo seriamente che sarebbe stata una donna a cambiarlo» proseguì. «Che avrebbe scoperto l’amore e forse la sua maschera si sarebbe trasformata, o, per assurdo, sarebbe scomparsa. Sapevo che se fosse successo sarebbe morto, perché è così che vanno le cose, perché il vero Sasuke non è abbastanza forte per stare qui, ma lo credevo lo stesso. E invece quella donna non c’è stata, e ci sei stato tu. Ma la sua maschera, con me, non è caduta»
Naruto sbatté le palpebre, interdetto.
«Tu...?» mormorò confuso.
«Se so che tu e Sasuke siete amanti? Naturalmente. Se mi pento di averti spinto al tradimento? No. Era necessario. Volevo capire. Speravo di trovare Sasuke dentro di te, o almeno di intravederlo»
«E ci sei riuscito?»
Itachi non rispose. Dopo un lungo istante voltò il viso e si avvicinò allo specchio, per sistemarsi i capelli, ancora umidi dopo la doccia.
Naruto strinse un pugno e gettò indietro le coperte, balzando in piedi.
«Sei uno stupido idiota cieco!» sbottò, portandosi alle spalle di Itachi e fissando rabbiosamente il suo riflesso nello specchio. «Tu e lui, tu come lui... Voi siete uguali! Se cerchi Sasuke non devi guardare dentro di me, ma dentro te stesso! Li vedi quegli occhi? Di chi credi che siano?»
Itachi smise di armeggiare con l’elastico e si bloccò.
Fissò il proprio riflesso, altrettanto immobile, e per un attimo, con la coda dell’occhio, gli parve quasi di riconoscere un altro viso. Corrugò la fronte.
«Tutti e due siete così impegnati a salvare l’orgoglio da non accorgervi di nient’altro» continuò Naruto, con voce bassa e vibrante. «Sasuke si lascerà morire, e tu lo lascerai fare, perché tutti e due siete stupidi e ciechi! Non fate altro che cercarvi e cercarvi e cercarvi, ma non vi vedete mai perché siete occupati a nascondervi! Ahh, mi fate incazzare!» esasperato, si mise le mani nei capelli e li scompigliò furiosamente.
Ma Itachi non si mosse. Soltanto i suoi occhi scorsero lungo il viso, con una lentezza nuova e studiata. Scavarono tra le piccole rughe d’espressione, lungo il contorno degli zigomi, il mento, la bocca, e poi scrutarono sé stessi, intenti, pensierosi.
Sasuke era dentro di lui, lo era sempre stato.
E tutt’a un tratto, per un brevissimo istante, gli sembrò di intravvederlo.
Ne fu sinceramente stupito. Non si era mai osservato troppo attentamente allo specchio, ma per la prima volta capì di non essersi mai guardato davvero.
Sasuke, lo stesso Sasuke con cui era cresciuto e che credeva di avere perso, in realtà era sempre stato lì, in un angolo della sua memoria, o forse della sua coscienza, in attesa di essere guardato come quando erano bambini. E lui non se ne era mai accorto.
Non se ne era mai accorto prima di incontrare Naruto.
Lo cercò con la coda dell’occhio, scrutando il riflesso della stanza attraverso lo specchio. Lo vide in fondo al letto, mentre si infilava rabbiosamente i pantaloni, e socchiuse leggermente le palpebre.
Inavvertito, lo raggiunse con passo felpato. Si prese un paio di secondi per guardarlo imprecare con la lampo dei jeans, poi, delicatamente, gli afferrò un polso.
Naruto trasalì, sulla difensiva, e lo fissò guardingo.
«Che vuoi ora?»
«Dove vai?»
«L’ho chiesto prima io»
«Voglio sapere dove vai»
Naruto mugugnò contrariato: detestava perdere con la logica.
«Da Sasuke» grugnì distogliendo lo sguardo. «Prima che decida di legarsi una pietra al collo, idiota com’è»
Itachi sorrise a malapena, allentando la stretta sul suo polso.
«Lo salverai» sussurrò piano. «Tu puoi»
Naruto sbatté le palpebre arrossendo.
«Eh?» fece, balbettando leggermente, e di scatto allontanò il polso.
«Ti affido mio fratello» continuò Itachi. «Voglio che sopravviva, e voglio che lo faccia con te. Se fallirai, mi costringerai ad ucciderti»
Naruto strabuzzò gli occhi e avvampò contemporaneamente.
«Cos...? Ma che è, sei suo padre e io la sposa?! Cosa blateri? Brutto deficiente, guarda te se sono discorsi da...»
Non finì mai la frase.
Con la maglia stretta nella destra e il bottone dei jeans ancora slacciato, si trovò la mano di Itachi premuta sulla nuca e le sue labbra contro le proprie.
Itachi non lo lasciò andare subito. Gli riservò un bacio lungo e lento, senza tuttavia spingersi oltre.
In fondo all’anima era convinto di aver ritrovato Sasuke grazie a Naruto. Come se lui, in qualche modo, avesse avuto anche la sua, di chiave.
Naruto era una persona spaventosa. Strana, impulsiva, irragionevole, ma spaventosa.
Riusciva ad aprire serrature delle quali si ignorava addirittura l’esistenza, e con il suo sangue caldo si faceva strada attraverso i corpi più gelidi. Naruto Uzumaki fendeva qualunque resistenza, senza mai perdere se stesso.
Quando Itachi si allontanò dalle sue labbra, gli accarezzò i capelli fino a scompigliarli.
«Vai» sussurrò contro la sua bocca, ancora leggermente affannata. «Torna da Sasuke»


«Nel secondo chō
«Niente di nuovo»
«A Nakano?»
«Tutto sotto controllo, abbiamo respinto anche gli ultimi uomini degli Aburame»
«Quelli di Shinjuku
«Proliferano. Abbiamo preso il controllo di due case da gioco e una sala da tè»
«Ottimo»
Sasuke sorrise del sorriso tronfio che riservava ai giorni migliori, e levò gli occhi dalla cartina nuova che era dispiegata sulla scrivania.
«Bel lavoro, questa settimana avrete degli extra»
Gli uomini nella stanza si scambiarono occhiate soddisfatte e pacche sulle spalle, promettendosi bevute su bevute. Non erano più due, né tre, né cinque. Ormai otto facce tra nuove e vecchie si scambiavano occhiate moderatamente fiduciose, e l’aria era nettamente più respirabile. Naruto, fermo in un angolo con le braccia conserte, taceva e si limitava a sorridere.
Sasuke congedò i suoi uomini con espressione soddisfatta, e li guardò uscire dall’ufficio parlottando come giovani commilitoni. L’ultimo ad andarsene fu il vecchio Jiraya, che prima ancora di essere fuori lanciò un grido di richiamo al gestore del Pachinko, annunciandogli grandi perdite, infine rimase solo Naruto.
Si scambiarono un’occhiata d’intesa, che sostituiva qualunque parola, mentre Sasuke infilava nel portamatite il pennarello con cui aveva segnato la cartina. Si passò una mano tra i capelli, che da qualche tempo erano tornati lucenti e in ordine, e oltrepassò la scrivania fino a raggiungerlo.
«Andiamo?» chiese, e Naruto annuì, affiancandolo.
Richiusero la porta dell’ufficio con un doppio giro di chiave, passarono attraverso il Pachinko mezzo pieno per uscire in strada. Il vecchio proprietario li salutò sfoggiando i nuovi denti d’oro che gli ornavano la bocca, e Naruto ridacchiò dell’orgoglio con cui li portava.
Ignorarono gli inviti di Jiraya e di un paio di uomini, e invece uscirono all’aria aperta, sotto il sole di maggio. Naruto levò gli occhi al cielo limpido e inspirò l’aria del quartiere, avvertendone il sottile retrogusto di smog. Abbassò poi lo sguardo, e sorrise guardando il nuovo palazzo che era sorto all’altro lato della strada, dove prima c’era il cantiere.
«A che pensi?» gli chiese Sasuke, rovistando in tasca alla ricerca di un accendino, con la sigaretta già stretta tra i denti.
«Penso che va tutto bene» rispose lui, tirando fuori un pacchetto consunto di Camel.
«Da quando Akatsuki si è ritirata dal porto va più che bene» rincarò Sasuke, trovando finalmente l’oggetto della sua ricerca. «Ora siamo all’asciutto»
«Sì, siamo all’asciutto» ripeté Naruto, soppesando le sigarette nella mano.

«Vai. Torna da Sasuke»
Naruto aveva fissato Itachi con occhi leggermente smarriti, poi aveva sorriso.
«Tu e lui avete sempre guardato dalla stessa parte» aveva commentato, con un leggero senso di amarezza.
«Dici?»
Itachi non aveva detto che sia lui che Sasuke avevano guardato attraverso Naruto, ma aveva lasciato che lui lo capisse da solo, o che, un giorno, fosse lo stesso Sasuke a spiegarglielo.
«Stai per fare qualcosa con Akatsuki, vero?» aveva chiesto Naruto a quel punto.
Itachi si era limitato a sorridere enigmaticamente, senza ribattere, finché, prima di indossare il cappotto, non gli era venuta in mente una cosa.
«Quelle sigarette che ti porti sempre dietro... Se fossi in te le getterei. Non sono pesanti?»

Le aveva tenute in mano tante e tante volte, senza mai fumarle. Ma quel giorno, in quel sole, con quel Sasuke accanto, a Naruto sembrò che il pacchetto di Camel fosse di un quintale.
Sin dall’inizio si era aspettato che sarebbero affondati, e aveva conservato le sigarette a quello scopo: prima di andare giù, si sarebbe fatto una poco sana fumata con Sasuke, e poi lo avrebbe seguito.
Ma ora non serviva più. Ora erano a galla, e si sarebbe sforzato di restarci, per salvare sé e Sasuke, perché Itachi glielo aveva chiesto, perché sì.
Con noncuranza, fece volare il pacchetto ancora integro verso il più vicino bidone della spazzatura, e quello rimbalzò sul bordo e cadde dentro con un tonfo metallico.
Sasuke lo lasciò fare inarcando un sopracciglio, poi gli scompigliò i capelli con una mano, espirando la prima boccata della sua sigaretta.
«Sei fortunato che le Camel mi fanno schifo» commentò. «Altrimenti ti avrei picchiato»
«Ma tu fumi solo Lucky Strike» ghignò Naruto.
Come lui.













* Chō: blocco di edifici di estensione variabile all’interno di un quartiere; il numero dei chō è uno degli elementi di un indirizzo giapponese.

** Pachinko: passatempo assai diffuso in Giappone che consiste nel lanciare biglie d’acciaio all’interno di un circuito, tentando di provocare la caduta di ulteriori biglie, che diventano patrimonio di chi gioca. Le biglie conquistate possono essere sostituite con premi, a loro volta spesso convertibili in soldi, anche se in teoria il gioco non dovrebbe permettere di ottenere vincite in denaro.


- Note tratte da: Kafka sulla Spiaggia, di Murakami Haruki -

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Capitolo 6
*** A Letizia - JiraTsu ***


Natale4-Leti

A Leti, aka Kaho_chan,

anche se ormai Natale è passato, Pasqua pure, e quasi arriviamo a ferragosto... XD
Ma ogni giorno è buono per farsi un po' di male, no?
<3




Probabilmente sono stupido




Seduto su una sediolina assolutamente idiota, nascosto dietro a una rivista che non so nemmeno di cosa parli, li spio come l’ultimo dei deficienti.
Non è che io non abbia niente da fare... E’ che ho questo da fare, ecco.
Sì. Devo essere decisamente stupido.
Sposto il peso da una natica all’altra, sfoglio una pagina con aria casuale, sbircio dal margine superiore della rivista.
Sono ancora lì, appoggiati al parapetto. Non si parlano neppure. Non ne hanno bisogno, direbbero.
Ahh, mi dà il voltastomaco!
Che poi, adesso che me ne accorgo, a ore due c’è un bel bocconcino. Bionda, formosa, con l’aria un po’ tonta. Forse ci scappa una bottarella, se mi impegno.
Alt, ma che faccio? Mi distraggo? In piena missione? Non è degno di me, proprio no.
Distolgo lo sguardo e torno a posarlo sulle mie prede, o almeno sul punto in cui si trovavano fino a un attimo fa. Ma loro non ci sono più.
Mi alzo di scatto, con la rivista ancora davanti alla faccia, e scruto sospettoso il lungofiume. Eccoli, hanno ripreso a passeggiare verso sud, li vedo camminare a qualche metro di distanza. Accidenti a me e alle bionde formose.
Lascio perdere la rivista e raggiungo rapidamente la balaustra che separa strada e argine. Scavalcarla è un gioco da ragazzi, evitare di cadere sulle rose che ci sono alla base un po’ meno. Estraggo le spine dai polpacci e, imprecando sottovoce, ricomincio il pedinamento.
Mi sento un po’ idiota, per essere onesto. Un po’ tanto idiota. E un filino masochista.
D’altronde, se così non fosse non mi troverei in queste condizioni, e dunque tutto fila ed è normale.
Si fermano di nuovo, lui indica qualcosa in lontananza, lei guarda il cielo e sorride. D’istinto anche io li imito e cerco tra le nuvole quello che hanno visto, ma per me non c’è nulla. Salvo quel cirrocumulo che sembra il vecchio Sarutobi. Uh, non vorrei distrarmi di nuovo.
Mi affretto ad abbassare lo sguardo e vedo che hanno ripreso la loro passeggiata, com’è giusto che sia. Continuo a seguirli scivolando discreto lungo l’argine, e faccio in modo di svuotare accuratamente la testa. E’ inutile pensare a quanto io sia avvilente, o a quanto l’intera situazione sia patetica; non corrisponde alla mia immagine, e non mi tirerebbe affatto su di morale. Posso comportarmi come uno shinobi in missione, però: testa vuota, sensi all’erta, occhio sulla preda. Questo è fattibile e dignitoso.
A un tratto li vedo deviare, allontanandosi dal fiume. Scavalco di nuovo la balaustra, sotto gli sguardi stupiti di un paio di altre coppiette, e sgattaiolo rapido fino a un grosso vaso di fresie.
Si stanno inoltrando per il villaggio, qui mi sarà più difficile seguirli. Senza contare che dalla segretezza di questa missione dipende davvero la mia vita. Tremo al pensiero di quello che mi capitrebbe se mi beccasse... Ma non mi beccherà. Non scherziamo.
Che poi, dove diavolo hanno intenzione di andare? Per carità, amo Konoha e tutto il resto, ma questa zona non è esattamente il massimo della vita. Locali morti, vita notturna azzerata, paesaggi inesistenti. Ci sono solo case e strade, che ci fa una coppia qui, eh?
Li pedino – ehm, no, li seguo; fa meno perverso – oltre una svolta e lungo un’altra via. Ho come l’impressione che la zona dovrebbe essermi familiare, ma la modalità shinobi non conserva ricordi in merito. A un tratto mi sembra che rallentino, e infine si fermano.
Mi rendo conto all’improvviso di essere scoperto, e allora con un balzo agile sono oltre un cancello, nascosto dalla colonna.
Come faccio a sentire quello che si dicono?
Provo ad arrampicarmi un po’ più su e a tendere l’orecchio. Sento vaghi bisbigli incomprensibili, l’accenno di una risata che mi ingarbuglia le viscere, e poi le voci che si assottigliano. Che succede?
Stringo gli occhi per vedere tra le foglie della siepe che mi nasconde, e tutto ciò che riesco a captare è un codino biondo che scompare oltre una porta, che poi viene richiusa.
Oh.
All’improvviso mi è chiaro.
La modalità shinobi si sgretola in un istante, portandosi via anche le mie forze, o così sembra. Scivolo giù dalla colonna, mi accuccio a terra e sbuffo avvilito.
Ma certo. Che ci fa una coppia in un quartiere di sole case?
Con imbarazzo misto a delusione mi gratto la nuca, e decido che mi sento definitivamente idiota. Era ovvio che pedinarli non mi avrebbe reso felice – a meno di un’improbabile lite – dovrei chinare il capo e picchiarmi da solo; invece me ne resto qui, nascosto dietro una siepe, e rosico.
«Certo che sei un bell’idiota» dice una voce all’improvviso.
Il mio stomaco si contorce e sale su per la gola, mentre imbastisco l’espressione più furiosa che mi riesce. Alzo la testa di scatto e la punto su Orochimaru, che beffardo mi fissa dalla colonna.
«Ti piace farti del male, eh?» continua, con il sorriso che di solito gli vedo usare davanti ai nemici. «Che tristezza. Li hai seguiti fin qui sperando che litigassero, e invece loro si sono persino appartati... Patetico»
«Che vuoi? Hai bisogno di me, o semplicemente sei così patetico da seguire un patetico?» sibilo astioso.
Hai ragione, maledettamente ragione, invece. E io non riesco nemmeno a ribattere in maniera pungente, perché hai fatto centro.
«Certo che ho bisogno di te» risponde lui, con una smorfia stizzita. «Ho di meglio da fare, che non pedinare i membri del mio gruppo... Almeno io. C’è una missione. Ma forse la possiamo portare a termine in due»
Orochimaru sorride, del sorriso viscido che mi fa imbestialire, e io mi infurio ancora di più, perché so che completare la missione noi soli significa lasciare lei con lui, e tutto ciò che la situazione implica.
Eppure non posso fare niente. Presentarsi alla sua porta e tirarla fuori dal letto sarebbe ancora peggio, ancora più umiliante.
Forse posso ammazzare Orochimaru tra uno shuriken e l’altro, in compenso.
Digrignando i denti, mi tiro su e lo fulmino con gli occhi.
«Andiamo. Bastiamo noi»
Con un salto sono di nuovo in strada; Orochimaru mi raggiunge silenzioso, serpente qual è. Mi scruta per un istante, forse deluso della mia reazione fiacca, e per una volta non sorride. Sembra quasi interessato, mentre mi porge la sua domanda.
«Vorresti che lui morisse?»
Mi irrigidisco bruscamente.
Cose del genere non si dicono con quella faccia seria. Mai.
Perché poi richiedono risposte serie.
Distolgo il viso in fretta, sfregando nervosamente le dita, e la mia replica è sbrigativa, vuota.
«Che dici? Per chi mi hai preso?»

Oh, sì. Se potessi, lo ucciderei con le mie mani.







Probabilmente sono stupido.
Me ne sto qui, al funerale di Dan, e ripenso a una bravata da adolescente irrisolto, con tanto di lite con adolescente ugualmente imbecille.
Ripenso a quanto sia facile desiderare una persona morta, e a quanto faccia schifo vedere questo desiderio realizzato.
Dan era un bravo ragazzo, per quanto lo odiassi.
E Tsunade, con quel ciondolo maledetto tra le mani, non si merita quello che sta passando.
Non si merita nulla di quello che ha già passato, quello stesso dolore che io non sono stato in grado di lenire, dopo Nawaki.

Se potessi, lo resusciterei con le mie mani.

Ma sono solo uno stupido.

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