Regali di Natale/Anno Nuovo/Befana di _ayachan_ (/viewuser.php?uid=32975)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A Maria, Francesca e Laura - NaruHina (spinoff di Sinners) ***
Capitolo 2: *** A Maura - NaruSakuNaru (AU) ***
Capitolo 3: *** A Elisa - Uchiha centric (Fugaku & Itachi) - PRIMA CLASSIFICATA AL CONTEST SULLA PAZZIA ***
Capitolo 4: *** A Sara - accenno di NaruSasu (AU) ***
Capitolo 5: *** A Enrica - ItaNaruSasu (più o meno... ehm...), AU. - PARTECIPANTE AL CONTEST SULL'EROTISMO ***
Capitolo 6: *** A Letizia - JiraTsu ***
Capitolo 1 *** A Maria, Francesca e Laura - NaruHina (spinoff di Sinners) ***
Natale3-NaruHina
A Maria, aka Talpina Pensierosa.
A Francesca, aka Rina83.
A Laura, aka Maobh.
E a tutte le anime pie
che seguono l'infinita saga di Sinners!
Perché questa
NaruHina, di fatto, è un extra di quella storia.
NaruHina
(spinoff di "Sinners")
20 Febbraio
Uno pensa che le
cose debbano cambiare in momenti speciali.
L'istante magico,
l'attimo fuggente, la mezzanotte di un nuovo giorno, Capodanno.
Ma,
per il mio “momento
speciale”,
erano solo le 14.25 di uno stupido 20 febbraio.
Insomma, non ero
pronto per niente.
«Non posso
fingermi malato?»
«Tu?»
«Raffreddore
fulminante»
Hinata sospirò
stancamente, accarezzando con una mano il kimono rosso steso sul
letto. «Naruto, per favore...» supplicò,
lanciandogli uno sguardo afflitto. «E’ solo un
pranzo. Dal
nostro matrimonio non siamo mai stati alla residenza principale, mio
padre si arrabbierà molto se rifiuteremo il suo
invito»
Si
arrabbierà
molto. Come
minimo lo avrebbe
denunciato per rapimento, pensò Naruto sbuffando. Anche se
per
la legge non aveva alcun obbligo verso Hiashi.
«Okay»
ringhiò, i peli delle braccia ritti ed elettrici.
«Okay,
ma lo faccio solo per te, sia chiaro»
Hinata gli sorrise,
e tornò a lisciare le pieghe del kimono sul letto, sperando
intensamente che per amor suo Naruto e Hiashi avrebbero abbassato le
armi almeno una sera.
Ma Naruto si
scompigliò i capelli, nervoso, e aprì bocca
un’altra
volta.
«E se avessi
il vaiolo? No, okay, niente vaiolo» ritrattò in
fretta,
di fronte all’occhiata di Hinata. «E’
che... Cioè,
lo sai. L’ultima volta che mi sono presentato davanti a
Hiashi ci
siamo comportati come due manichini. Ci odiamo, Hinata! E lo so che a
te non piace, ma non posso farci niente»
No che non le
piaceva. Nei sogni di Hinata, Hiashi riconosceva Naruto come suo
degno erede, entravano in confidenza, e i pranzi a villa Hyuuga si
sprecavano. Ma i suoi desideri si erano dissolti già alla
proposta di matrimonio, mesi prima, quando suo padre voleva opporsi e
Naruto lo aveva minacciato. Da allora, era stato evidente che Uzumaki
e Hyuuga non sarebbero mai stati un’unica, grande famiglia.
Meno male che era
certa di amare Naruto più di ogni altra cosa.
«Non pretendo
che diventiate amici...» mormorò con un sospiro.
«Vorrei
solo che vi comportaste cortesemente per un pomeriggio... Uno
solo»
Naruto ringhiò
sottovoce.
«Ma
lo faccio solo
per te»
*
Villa Hyuuga non
veniva mai addobbata a festa. Dal momento che era sempre in
condizioni impeccabili ed estremamente lussuosa, Hiashi riteneva
superfluo accrescerne lo splendore con inutili orpelli o
centritavola. La stessa cosa, naturalmente, valeva per la sua
persona: non aveva bisogno di kimono vistosi o accessori
eccessivamente ricchi, perché su di lui la seta bianca
cadeva
divinamente – o così pensava.
Pertanto, la mattina
della prima cena ufficiale con sua figlia e suo genero, si fece
trovare abbigliato come sempre, in un ambiente assolutamente neutro,
e affiancato da una Hanabi altrettanto modesta.
«Padre, siete
sicuro che non posso indossarla?» si lamentò lei,
in un
sibilo nervoso. Tra le sue mani c’era un ciondolo in corallo,
di un
rosa molto delicato, unito a una catenella d’argento.
«Mettila
via»
ordinò Hiashi, rigido. «E’ soltanto tua
sorella, a che
ti serve?»
Con uno sbuffo, la
ragazza fece scivolare il ciondolo in una tasca, e arrossì
leggermente.
Aveva sempre provato
un certo senso di competizione nei confronti di Hinata. Da quando poi
la sorella era riuscita felicemente a coronare il suo sogno,
l’idea
di non averci ricavato niente nonostante il suo impegno la frustrava
più che mai.
«Nobile
Hiashi, credo che siano arrivati» esordì una voce
inattesa.
Hanabi si voltò
di scatto, e vide Neji entrare nella stanza con lo stesso
abbigliamento neutro che indossavano loro.
Ecco, ora avrebbe
voluto intensamente avere quel maledetto ciondolo. Non che fosse
particolarmente bello o appariscente, ma forse l’avrebbe resa
leggermente più attraente agli occhi di Neji, spingendolo a
pensare che una loro eventuale unione sarebbe stata decisamente
proficua per il clan. E lei, com’era giusto, avrebbe
finalmente
conquistato il posto che le competeva, alla testa degli Hyuuga.
«Bene. Di’
ai domestici di introdurli» annuì Hiashi, con un
cenno
incapace di nascondere il nervosismo.
Neji annuì,
incrociò lo sguardo di Hanabi per una frazione di secondo, e
poi se ne andò con un piccolo inchino.
«Padre, quella
collana...» sussurrò lei, in tono leggermente
petulante.
«Mettila via o
la prendo io» sibilò lui seccato. «Ho
ben altri
pensieri che non quella stupida cosa!»
E allora Hanabi
sbuffò e strinse una mano in tasca, furiosa. Solo uno
sciocco
ciondolo, eppure aveva espresso divieto di metterlo! Che ingiustizia!
Rimase a borbottare
tra sé per tutto il tempo che Hinata e Naruto impiegarono ad
attraversare i lunghi corridoi di villa Hyuuga, e quando
sentì
bussare alla porta trasalì, ricordando
all’improvviso che
doveva correre accanto a Hiashi.
Il primo ad
affacciarsi nel salotto fu comunque Neji, che si piegò in un
inchino rispettoso e annunciò che gli ospiti erano arrivati.
Hanabi deglutì e si irrigidì alla destra del
padre,
mentre il cugino andava a portarsi alla sua sinistra. Chissà
poi perché era così nervosa, visto che Hinata era
pur
sempre Hinata. Il fatto che fosse sposata non cambiava nulla, era la
solita piccola, insicura Hinata.
Poi entrarono. E
all’improvviso Hanabi capì cosa c’era
diverso: accanto a
Naruto, Hinata non era più la solita creatura
insignificante.
Accanto a Naruto, Hinata era una piccola stella. Splendeva.
E lei, senza la sua
sciocca collana, si sentiva sciatta e infima.
«Vi do il
benvenuto» salutò Hiashi, con un cenno del capo
che
voleva essere una parvenza di inchino, e un’occhiata asciutta
al
kimono vistoso di Naruto. «Sono lieto di accogliervi nella
mia
casa»
«Lieto»
bofonchiò rigidamente l’ospite, scuotendo
vagamente la testa
e fissando ovunque tranne che il suocero.
Hanabi,
involontariamente, roteò gli occhi. Hinata, accanto al
marito,
arrossì e gli lanciò uno sguardo supplice.
«Ehm»
fece allora lui, schiarendosi la voce e sforzandosi di piegare la
schiena. «Vi ringraziamo per il gentile invito, e auguriamo
ogni bene alla vostra famiglia» brontolò asciutto.
Hinata sospirò
leggermente, e Neji sollevò un angolo della bocca in un
minuscolo sorriso. Hiashi si limitò ad annuire accigliato,
serrando i pugni con forza, e poi accennò ai vassoi posati
lungo la stanza, a intervalli regolari.
«Accomodatevi.
Il pranzo sarà servito in pochi minuti»
Con l’aria di un
corteo funebre tutti e cinque andarono a inginocchiarsi ai loro
posti. Hiashi, com’era ovvio, occupò
l’equivalente del
capotavola, e guardò rigidamente Naruto che si sedeva a una
delle estremità opposte, lasciando Hinata alla sua sinistra.
Fu allora che cadde
il silenzio.
Naruto prese le
bacchette dal suo vassoio e iniziò a studiarle tutto
intento,
come se le vedesse per la prima volta. Hinata, lì accanto,
lisciava timidamente le pieghe del kimono, intimorita dalla vicinanza
al padre. Hiashi, con la schiena più che dritta, sistemava
scioccamente le ciotole vuote sul vassoio. E Neji e Hanabi, alla sua
destra, guardavano tutti e tre con un misto di compassione ed
esasperazione. Neji anche con un pizzico di divertimento.
A
interrompere il freeze,
dopo un tempo che sembrò a tutti infinitamente lungo,
intervenne la prima cameriera, che fece il suo ingresso con una
teiera fumante.
«Chiedo
scusa»
sussurrò intimorita, inginocchiandosi accanto a Hiashi per
riempire la sua tazza. Ripeté lo stesso iter anche con tutti
gli altri invitati, trovandosi leggermente spiazzata con le posizioni
di Hinata e Naruto, e poi si scusò ancora, si
alzò e
scomparve silenziosa. Allora Hiashi tossicchiò.
«La vostra...
ehm, dimora, è abbastanza accogliente?»
domandò
corrucciato. Sembrava fare molta, molta, molta fatica.
«Oh, sì,
padre. Molto» sussurrò Hinata arrossendo.
La loro
‘dimora’
non poteva minimamente essere paragonata a villa Hyuuga. Naruto
l’aveva fatta costruire un po’ fuori dal villaggio,
nei pressi
della foresta, con il chiaro intento di renderla accogliente, e non
certo elegante. Hiashi era stato naturalmente contrario, dal momento
che aveva insistito pesantemente perché i novelli sposi
restassero nel circuito degli Hyuuga, e fu per questo che Naruto
percepì la domanda come un’evidente provocazione,
e drizzò
il capo.
«E’
perfetta» se ne uscì, asciutto. «Nuova,
profumata,
calda.
Abbiamo persino tre gatti, ora»
«Tre?»
intervenne Neji, adocchiando lo sguardo irritato di Hiashi.
«Li ha portati
la bestia pulciosa» annuì Naruto.
«Naruto?»
fece Hanabi, con un minuscolo sorrisino.
Naruto
arrossì. «L’altro
Naruto»
precisò, maledicendo Sakura che, anni prima, aveva
infelicemente battezzato il loro gatto.
«Sono molto...
molto carini» mormorò Hinata, abbassando lo
sguardo con
evidente imbarazzo. Nervosa, afferrò la tazza di
tè e
la portò alle labbra, quasi per nascondersi.
«Dunque
ora avete non uno, ma tre randagi»
puntualizzò Hiashi, calcando sull’ultima parola.
«Non
credo che un gatto che dorme sul mio portico possa definirsi
randagio»
sibilò Naruto tra i denti.
«Di che razza
sono?»
«Mista»
«Oh»
Naruto
ebbe uno scatto della testa. In un semplice ‘oh’
era stato
condensato tutto il possibile disprezzo di Hiashi, e probabilmente
attraverso i gatti era possibile arrivare a un ragionamento simile a:
così
come i gatti, anche gli uomini hanno diverse razze. E tu sei di razza
mista.
«Sapete,
stavo pensando di restaurare il simbolo del clan di mio
padre,
il quarto Hokage»
ringhiò, con un sorriso falso come Giuda. Hinata lo
fissò
ad occhi sgranati, lottando per nascondere la sorpresa. Non solo
Naruto non aveva mai accennato a nulla di simile, ma a dire il vero
evitava il più possibile di parlare di Namikaze Minato.
«Sarebbe
un’azione intelligente, finalmente»
annuì Hiashi, acido.
«Finalmente?»
scattò Naruto, pronto a balzare in piedi, ma Neji
coprì
la sua voce.
«Sarebbe
davvero una bella cosa» si affrettò a dire.
«Ma
forse dovresti iniziare a pensare a un tuo simbolo. Un unione tra
quello dei Namikaze e quello degli Uzumaki»
Hanabi fu certa di
vedere una smorfia derisoria sul viso del padre, ma si
guardò
bene dal dirlo, visto che Naruto non sembrava essersene accorto. Tra
l’altro: ora che riguardava Hinata, la quale, pallida,
continuava a
bere a scatti dalla sua tazza, non le sembrava più tanto
splendente. Interiormente, sorrise.
«Ah, beh... Ci
penserò...» borbottò Naruto, tornando a
fissare
accigliato il suo tè.
Di lì a poco
tornò la domestica che aveva portato da bere, seguita da
un’altra ragazza. Entrambe portavano due vassoi coperti di
ciotoline, e una seconda teiera fumante.
Quando il cibo
arrivò, tutti tirarono un sospiro di sollievo. Non esiste
argomento più neutro di un buon pranzo, grazie al cielo.
I commenti sulle
pietanze furono dosati con estrema cura. La maggior parte dei
complimenti vennero da Neji e Hinata, e Naruto si limitò a
grugnire il suo assenso di tanto in tanto. Hanabi
sbocconcellò
annoiata, ora che gli attriti sembravano scomparsi, ma Hiashi non
smise un solo istante di mantenersi vigile e all’erta, come
non gli
accadeva dai tempi in cui usciva in missione. E fece bene, in ultima
analisi. Perché il disastro accadde al dolce, quando
sembrava
che ormai ogni pericolo fosse stato scongiurato.
«Dicono che
nevicherà ancora» esordì Neji, ispirato
da un
dolcetto al cocco. «Eppure siamo ormai alla fine di
febbraio»
Hanabi, alla sua
destra, roteò gli occhi. Il tempo. Dei
del cielo, erano
arrivati a discutere del tempo! Che noia.
«A me la neve
piace» commentò Naruto, scrollando le spalle.
«Ciò
non toglie che in missione sia un disturbo notevole»
appuntò
Hiashi.
«Sì,
beh, la cosa è irrilevante, dato che non uscirò
in
missione ancora per un po’»
«Come?»
Hiashi posò
il suo biscotto alle mandorle e fissò Naruto.
«La mia luna
di miele si protrarrà fino alla primavera»
commentò
Naruto. «Insomma, mi sono sposato. Non succede tante volte,
nella vita di un uomo. Senza contare che è stato lo stesso
Hokage a costringermi a stare a casa»
«Il matrimonio
risale all’autunno» insisté Hiashi,
rigido. «Sei
mesi di vacanza mi sembrano eccessivi»
«Considerate
tuttavia che prima di sposarsi Naruto ha lavorato senza
sosta...»
si intromise Neji, forzatamente diplomatico.
«Ma è
preciso dovere di ogni shinobi rendersi disponibile per il villaggio
in ogni momento» replicò Hiashi, rigido.
«E io non
accetto che il marito di mia figlia si dimostri un tale
smidollato!»
«Prego?»
sbottò Naruto, fulminandolo con lo sguardo. «Devo
elencare tutte le volte che ho salvato questo villaggio?»
«Forse
dovremmo elencare tutte quelle in cui lo hai messo in
pericolo»
Hanabi sogghignò,
accomodandosi meglio sui talloni. Il tempo era un argomento
più
divertente del previsto, realizzò.
«Non credo che
sia l’argomento più indicato...»
sussurrò
Hinata, arrossendo allarmata.
«Nobile
Hiashi, volete altro tè?» tentò Neji,
sull’attenti, sporgendosi con la teiera bollente in mano.
«Ho
soprasseduto su molte cose, Naruto Uzumaki»
sibilò,
fermando Neji con un cenno imperioso. «Ma non
cederò
sull’onore degli Hyuuga»
«Mi fa piacere
saperlo, perché io e Hinata, fino a prova contraria, siamo
Uzumaki!» sibilò Naruto, stringendo i pugni sulle
ginocchia.
«Mia figlia
resterà mia figlia fino alla morte, indipendentemente dalle
sfortunate scelte che deciderà di fare!»
«Padre, vi
prego...» sussurrò Hinata, con il respiro
leggermente
accelerato.
«Tua
figlia non è mai stata tua,
genitore perverso!»
«Naruto, per
favore...» tentò ancora Hinata, ora decisamente
spaventata.
Hiashi arrossì
d’indignazione, e balzò in piedi con aria
bellicosa, imitato
istantaneamente da Naruto. Neji si affrettò a fare la stessa
cosa, pronto a sedarli in caso di emergenza, e Hanabi lo
seguì
a ruota, con gli occhi accesi dall’entusiasmo.
«Io conosco
gli affari del mio clan e della mia famiglia! Tu non hai voce in
capitolo, né devi permetterti di esprimere pareri non
richiesti!» esclamò Hiashi, ora alzando la voce.
«Io
posso parlare in lungo e in largo di mia
moglie,
mi pare! Tu invece dovresti cucirti la bocca, da quando hai
acconsentito al matrimonio!»
«Faccio
portare dell’altro tè?» chiese Neji,
inascoltato.
«Fai portare
delle bende» suggerì Hanabi, giocherellando con il
ciondolo nella sua tasca.
«Per favore,
tornate a sedervi...» supplicò Hinata, in un
gemito.
«Come osi,
nella mia casa, parlarmi con questo tono?!»
«Come osi,
dopo avermi invitato, trattarmi in questo modo?!»
«Padre,
Naruto...»
Hanabi colse
l’attimo per sfilare la catenella di tasca e legarsela al
collo
fintanto che il padre non vedeva. Neji fece lavorare disperatamente
il cervello, in cerca di una soluzione, e contemporaneamente
coniò
una decina di nuovi insulti per Naruto.
«Mi pento
più
che mai di aver acconsentito alla vostra unione!» esplose
Hiashi.
«E io mi pento
di aver accettato di venire a questa stupido pranzo!»
replicò
Naruto, con il viso arrossato.
Hinata si portò
una mano sul volto, e gemette sconsolata.
«Non ho
intenzione di tollerare una simile insolenza un minuto di
più!
Esigo che...»
«Sono
incinta»
Silenzio improvviso.
Per un lungo
istante, la stanza in cui si trovavano smise di scorrere con il tempo
e si soffermò in un attimo non ben definito. Poi Neji
fissò
Hanabi.
«Ehi, non
io»
scattò lei, arrossendo indignata, e contemporaneamente il
tempo riprese a scorrere più veloce, per rimettersi in pari
con il resto del mondo.
Sia Naruto che
Hiashi abbassarono lo sguardo su Hinata, ancora inginocchiata tra
loro.
«Incinta?»
ripeté Hiashi, con una voce stranamente incolore.
Hinata, con il volto
più arrossato che mai, annuì impercettibilmente.
«Aspetto un bambino. Da cinque settimane»
«Ottimo
diversivo» commentò Neji sottovoce, spossato.
Naruto,
semplicemente, rimase a bocca spalancata.
Insomma, non ero
pronto per niente.
«U-Un
bambino?» balbettò poi, riemergendo faticosamente
dal
limbo dello shock in cui era precipitato. «Un bambino
vero?»
«Ah, se non lo
sai tu che lo hai fatto» bofonchiò Hanabi, e
nonostante
la battuta caustica non riuscì ad evitare di arrossire.
Naruto si
inginocchiò accanto a Hinata, ancora combattuto tra lo
stupore
e l’estasi.
«Dimmi che
stai scherzando» mormorò Hiashi.
«Dimmi
che non
stai scherzando» gli fece eco Naruto, mentre
l’estasi si
avviava a vincere la sua battaglia.
«E’
vero»
arrossì Hinata. «Sono stata a farmi visitare...
E’
ancora troppo presto per parlarne, e infatti volevo nascondervelo
ancora un po’... Insomma, il terzo mese è il
più
pericoloso, e... sì, ecco, speravo che sarei riuscita ad
avvicinare te e mio padre...»
«Oh, lascia
perdere lui!» sbottò Naruto, prendendole le mani
con
occhi che finalmente brillavano senza traccia di sorpresa.
«E’
meraviglioso, Hinata! Un bambino! Un bambino nostro! Diventeremo
genitori!»
«E questo
è
un bene?» Hanabi roteò gli occhi.
«Secondo me lo
ammazzano appena nasce, quel bambino» Neji le
scoccò
un’occhiataccia, e lei si strinse nelle spalle.
Hiashi, ancora in
piedi, rimase a fissare la nuca della sua primogenita con la fronte
corrugata.
Nonno. Stava per
diventare nonno. Grazie a Naruto Uzumaki.
Da
un lato il calcolatore genetico che era in lui meditava sulle
infinite possibilità di un’unione tra il sangue
Namikaze e
quello Hyuuga; dall’altro, la faccia stupida di Naruto
continuava a
ronzargli davanti, e un bambino paurosamente simile a lui continuava
a ridere gridando ‘Hyuuga,
Hyuuga!’
Con lentezza, si
portò una mano alla faccia.
«Padre, stai
male?» esclamò Hanabi, vedendolo.
«No»
rispose lui, sollevando una mano. «Credo di no.
Credo»
Naruto e Hinata
sollevarono lo sguardo, e Hinata trattenne il respiro.
«Padre... Mi
dispiace, non volevo dirlo così...»
sussurrò
mortificata.
Hiashi la interruppe
con un cenno, e prese un respiro profondo.
«Bene»
esordì poi, togliendo la mano dal viso e recuperando la
calma.
«Dovrai trasferirti qui. Immediatamente»
«Che?!»
scattò Naruto, balzando in piedi.
«E’ per il
suo bene. Abbiamo domestiche esperte, che hanno fatto nascere decine
di bambini» spiegò Hiashi, con
l’efficienza di un
capogruppo. «All’ospedale della Foglia sanno come
muoversi,
non lo nego, ma qui avrà un’assistenza continua e
perfetta»
Naruto esitò
per un istante, combattuto.
«Non ho
intenzione di mettere a rischio mio nipote nemmeno per una frazione
di secondo» sibilò Hiashi, assottigliando gli
occhi.
«Mio
figlio»
lo corresse Naruto, ma con meno belligeranza del previsto.
Si fermò un
istante, e guardò Hinata. Poi guardò Hiashi, e di
nuovo
Hinata. Tornò a inginocchiarsi.
«Hinata...
Dimmi tu cosa vuoi fare. Si tratta di te, prima di tutto»
mormorò, mentre Hanabi distoglieva lo sguardo disgustata.
Hinata ebbe un moto
di spavento. L’idea di restare nelle mani del clan la
terrorizzava,
ma allo stesso tempo offendere suo padre sembrava peggio. E la
prospettiva di assistenza continua e particolare la attraeva, suo
malgrado.
«Io... Vorrei
pensarci» sussurrò con voce metallica.
«Ho bisogno
di qualche tempo per raccogliere le idee...»
«Certo! Tutto
quello che vuoi!» esclamò rapidamente Naruto, con
un
certo sollievo. «Anzi, sai che facciamo ora? Andiamo a casa e
ti metti a letto»
«E’
incinta,
non tubercolotica» sibilò Hanabi, scuotendo la
testa con
irritazione.
«No, per una
volta ha detto una cosa sensata» la contraddisse Hiashi,
tornato imperioso e sicuro. «I domestici allestiranno una
portantina per accompagnarla, non deve prendere freddo. Hanabi, vai a
chiamare qualcuno. E, per tutti gli dei del cielo, levati quel
gingillo che hai al collo!»
Hanabi arrossì,
nascondendo il ciondolo sotto la mano.
Ahh, che nervoso!
Hinata era esplosa da stella a supernova, e lei
all’improvviso era
diventata una sguattera. Splendido.
«Ti
accompagno» disse Neji a sorpresa, subodorando aria di grandi
manovre tra Hiashi, Hinata e Naruto.
L’umore di Hanabi
si sollevò di qualche tacca, e, contravvenendo agli ordini
del
padre, sistemò meglio il ciondolo sul kimono. Poi, con un
leggero sorriso, si avviò insieme al cugino alla ricerca dei
domestici.
Hinata, Naruto e
Hiashi rimasero soli, e solo allora Hiashi realizzò il
grande
errore che aveva fatto: mai trovarsi nella stessa stanza con due
futuri genitori; si finisce sempre dimenticati. Fu così che,
con evidente imbarazzo, si guardò attorno e si
rassegnò
ad andare a rimuginare in un angolo, progettando piani di
reintegrazione tra gli Hyuuga: i figli di Hinata erano pur sempre
sangue del suo sangue; non potevano sfuggire alla sua ala protettiva.
Naruto e Hinata,
allora, rimasero soli nel loro piccolo paradiso di novelli genitori,
le mani strette l’una all’altra e gli occhi
incapaci di guardare
altrove.
«Perché
non me l’hai detto prima?» sussurrò lui,
ma senza tono
di rimprovero.
«Perché...
ecco, insomma, è così presto... io temevo
che...»
balbettò lei, abbassando lo sguardo.
«Ehi, scherzi?
I nostri bambini saranno tutti fortissimi e sanissimi, non devi
neanche iniziare a pensare il contrario. Saranno tutti uguali al loro
papà, da quel punto di vista»
Hinata sorrise, e
Naruto, con una sorta di esitazione quasi mistica, posò
lentamente una mano sul suo ventre, sopra il kimono.
«Non si sente
ancora nulla» sussurrò lei.
«Ma
c’è»
rispose lui.
«Sì,
c’è»
«E ci saranno
tanti altri fratellini...»
«Ehm... Per
adesso pensiamo a questo bambino, che ne dici?»
«Oh, sì,
certo. Bisogna pensare ai bambini uno per volta»
«Sì,
non è proprio quello che intendevo, ma...»
«Oh, secondo
te sarà maschio o femmina? Sai, Sasuke ha avuto un
maschio...»
Hinata si sforzò
di sorridere, ma le risultò profondamente difficile. Al
momento Sasuke e Sakura vantavano quattro figli, e non sembravano
intenzionati a fermarsi – dovevano rifondare un intero clan,
dopotutto. Conoscendo Naruto, avrebbe preso anche quel piccolo
aspetto della vita coniugale come una sfida mortale, ovviamente da
vincere.
Sospirò a
fondo, armandosi di pazienza. Negli anni a venire avrebbe avuto modo
di porre qualche paletto; ma per ora poteva lasciare che il suo
adorabile marito si crogiolasse nelle gioie della paternità,
che sognasse quella che sarebbe diventata la sua primogenita, che
litigasse con Hiashi e ponderasse centinaia di nomi, fino al tre
settembre, fino al giorno del primo traguardo...
Sì,
per
ora
glielo avrebbe lasciato fare.
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Capitolo 2 *** A Maura - NaruSakuNaru (AU) ***
Natale2-Maura
Per Maura, aka izayoi007.
Perché sa
cosa significa NaruSaku,
e perché sa
cosa significa essere pendolari!
NaruSaku, AU.
Binario morto
Ormai
dovrei averci fatto l’abitudine,
pensa, mentre apre le porte del treno con uno sforzo inumano.
Dovrebbe essere cosa
di tutti giorni, una formalità... quella roba che chiamano
ruotina, o una
parola del genere!
A fatica, sale i gradini e si
appoggia alla parete
azzurrastra, riprendendo fiato.
«No, non mi
abituerò mai» sbuffa,
infilando un dito nel colletto della maglia e scuotendola per farsi
aria.
Lungo il vagone si diffonde un
trillo monotono, nella
tonalità più sgradevole che sia mai stata
concepita, e
le porte che ha aperto a fatica scorrono sui loro binari e si
richiudono con un tonfo. Le fissa torvo, mentre il treno si mette in
moto con uno scossone, e a quel punto si stacca dalla parete.
Ovviamente non c’è nemmeno la minima traccia di
aria
condizionata.
Si trova davanti
all’ennesima porta, ma questa volta
riesce ad aprirla con relativa facilità. Attraversa
l’intersezione tra i due vagoni, apre una nuova porta, e
finalmente
si trova tra i sedili sdruciti che conosce fino alla nausea –
e che
con la nausea hanno molto a che fare, in effetti, dato che il loro
colore non ispira esattamente poesia.
Il vagone è
semivuoto, i blocchi di sedili da
quattro sono quasi tutti occupati da un’unica persona, ma
ecco che
sul fondo, vicino alla prossima porta, ne trova alcuni liberi.
Sistema lo zaino sulle spalle e avanza con passo sicuro, bilanciando
i leggeri scossoni del treno e l’inclinazione dei binari,
finché
non raggiunge la postazione e sfila lo zaino, lasciandolo cadere sul
sedile di fronte a quello che lo accoglierà.
Si accomoda, lasciandosi
scivolare con le gambe lunghe e
la schiena quasi dritta, e punta gli occhi azzurri fuori dal
finestrino, dove la monotona campagna scorre sempre uguale. Di
lì
a dieci minuti ci sarà la prima fermata, un pugno di cascine
sconosciute nel mezzo del nulla, e poi campi e campi e campi, almeno
per mezzora, fino alla prima comparsa della città, e poi,
ancora oltre, la sua fermata.
Sbuffa, alla prospettiva di
quasi un’ora passata a
sonnecchiare in un vagone puzzolente, e per l’ennesima volta
si
trova ad augurare le peggiori cose al disgraziato che gli ha fregato
il lettore mp3.
Ma non sa che quel viaggio
è ben lungi
dall’essere noioso. Non lo immagina nemmeno quando vede la
ragazza
che avanza lungo il vagone con un I-pod nuovo fiammante nelle
orecchie, e l’unica cosa che pensa è che
è carina,
che le gambe che le spuntano dai pantaloncini sembrano proprio da
mordere, e che vorrebbe sapere cosa ascolta. E avere anche lui un
maledetto I-pod.
Poi, lei si ferma davanti a
lui, e si sfila una cuffia.
«Scusa, qui
c’ero io»
Lui la fissa, stranito.
«No. Erano quattro
posti vuoti» la
contraddice, tirandosi a sedere diritto.
«Mi spiace, ma
c’ero io» insiste lei con
un sorriso quasi minaccioso, e due minuscole rughe si formano attorno
ai suoi occhi verdi, mentre lo fa. «Sono stata in bagno per
un
istante, qualunque persona del vagone può dirtelo»
«Quando sono
arrivato i posti erano vuoti. Ed è
vietato usare i bagni durante le soste del treno» puntualizza
lui, con un filo di irritazione.
«Avevo bisogno dello
specchio, nel bagno» si
impunta lei, e quasi ad avvalorare la sua tesi si passa una mano tra
i capelli, di un rosa discutibile.
«Beh, ci sono tanti
altri altri posti»
sbuffa lui, tornando a fissare fuori dal finestrino.
«Scegline
uno e accomodati»
Gli
occhi di lei si assottigliano minacciosi. «Si dà
il caso
che questo fosse il mio
posto. Per questo motivo sarebbe molto più logico che fossi io
a consigliarti gentilmente di cercarne un altro»
Lui la guarda di nuovo,
voltando la testa lentamente.
«Senti, parliamoci chiaro. Fa caldo, sto andando a dare un
esame per il quale probabilmente verrò bocciato in tronco,
mi
sono dovuto alzare alle quattro per ripassare le ultime cose, e
l’ultima tentazione che potrei mai avere è di
litigare con
una squinternata sul treno»
«Squinternata?»
ripete lei, a voce
leggermente più alta, e qualche testa si volta nella loro
direzione. «L’educazione non cresce sugli alberi di
questi
tempi, ma tu sei largamente l’essere umano più
maleducato
che io abbia incontrato negli ultimi sei mesi!»
«Quando una si
presenta dicendo che un posto a
caso sul treno è suo, e lo fa con un colore di capelli
assurdo
quanto il tuo, è piuttosto naturale prenderla per una fuori
di
testa!» si giustifica lui, scaldandosi.
«Non ci
credo» lei ruota gli occhi,
sollevando le mani. «Sto davvero litigando su un treno con
uno
sconosciuto, e per una ragione idiota, oltretutto. Lo sapevo che non
sarei dovuta uscire di casa, l’oroscopo mi consigliava di
chiudermi
dentro!»
«Ci mancava solo
l’oroscopo!» grugnisce
lui, sarcastico, e lei lo fulmina con lo sguardo.
Ma prima che possa ribattere,
il treno ha un sussulto
improvviso e frena bruscamente, facendole perdere
l’equilibrio. Lui
si trova con una mano di lei su metà faccia e le cuffie
dell’I-pod che penzolano davanti al naso, ancora
perfettamente in
funzione, e non appena lei si stacca si piega su sé stesso,
gemendo con una mano sullo zigomo.
«Porca
vacca!» impreca, un occhio pieno di
lacrime. «Che male!»
«Tutto
bene?» chiede lei con una leggera
ansia, chinandosi su di lui. «Dove ti ho preso? Scusa, non ho
calcolato... Fa’ vedere»
«Col cavolo! Che
vuoi farmi ora?» si difende
lui, scostandosi.
«Niente»
sbuffa lei, prendendogli il mento a forza e voltandolo nella sua
direzione. «Sono una laureanda di medicina e un volontario
della Croce Rossa, oltre che una squinternata»
All’improvviso lui
se la trova vicina, troppo vicina,
e scopre che sotto i capelli rosa gli occhi sono verdi e
intelligenti. Senza una ragione precisa si trova ad arrossire, e
prega ardentemente che si confonda nel livido che sicuramente gli sta
crescendo sulla guancia.
«Niente di
rotto» decreta lei dopo averlo
tastato delicatamente. «E scusa ancora»
«Mh...»
mugugna lui, distogliendo lo sguardo
non appena è libero di muoversi.
La ragazza a questo punto
sembra incerta. Forse vorrebbe
insistere per avere indietro i suoi posti, ma a quel punto le sembra
discretamente sconveniente. E poi si accorge all’improvviso
del
mormorio che si diffonde lungo il vagone.
«Che è
successo?»
«Non lo so, dove
siamo?»
«Non
c’è una stazione, solo campi...»
«La prossima
è xxx, vero?»
«Sì, ma
qua non ci muoviamo...»
Corrucciata, si guarda attorno
per un lungo istante.
«Che
succede?» si azzarda a chiedere a voce
alta, e lui finalmente si riscuote dal suo torpore meditabondo e
riacquista contatto con la realtà.
«Siamo
fermi» dice, con aria smarrita.
«Ma dai?»
replica lei ironica. «Solo
che non sappiamo perché»
«Aspetta... Siamo
fermi? No, cazzo no! Io devo
darlo quel maledetto esame!» esclama lui tutto a un tratto,
balzando in piedi.
«Ma due minuti fa
non sostenevi che saresti stato
bocciato?»
«Sì,
ovvio! Ma bisogna sempre tentarla!
Dov’è il controllore?»
«Avanti»
pronta, la ragazza addita la porta
che separa il vagone da quello successivo, e il ragazzo afferra lo
zaino con l’angoscia dipinta sul volto.
«Ciao»
bofonchia in fretta, senza nemmeno
guardarla, e un attimo dopo sforza i muscoli per aprire la porta,
quello successivo è tra i vagoni, e quello dopo ancora
è
scomparso.
La ragazza sbuffa, guardandosi
attorno nel vagone
tranquillo, e poi riprende finalmente possesso dei posti che erano
suoi di diritto, e stende le gambe nude fino all’altro
sedile. Con
un minuscolo sorriso, allora, sfila dallo zaino un libro voluminoso e
comincia a sfogliarlo.
Il treno resta fermo per
qualche minuto, forse una
decina. Fuori dai finestrini la campagna si stende immobile, e di
tanto in tanto gli intercity sfrecciano sul binario accanto, spavaldi
sbeffeggiatori dei più modesti regionali. Poi,
all’improvviso,
il treno riparte con uno scossone, e dall’altoparlante si
diffonde
un messaggio.
«Informiamo i
signori passeggeri che a causa di un
problema tecnico, il treno dovrà effettuare una sosta
forzata
nella stazione di xxx. Ci scusiamo per il disagio»
La reazione di disappunto
è pressoché
immediata. I bisbigli ricominciano, le domande si susseguono
irritate, e la ragazza alza gli occhi dal manuale di anatomia e
corruga leggermente la fronte. Naturalmente non hanno detto per
quanto resteranno fermi.
D’istinto, senza
ragioni particolari, il suo pensiero
corre al maleducato che pretendeva di rubarle il posto, e si trova a
chiedersi come farà con l’esame. Un po’
gli fa pena,
realizza, e intanto mette via il libro, perché sa
già
che alla stazione di xxx scenderà per chiedere delucidazioni
al capotreno.
Di lì a poco i
sussulti dei binari si fanno meno
frequenti, e il treno perde velocità. Ai lati della linea si
snodano le prime case, cascine fatiscenti circondate da magri orti, e
poi, ben prima del previsto, la stazione cadente.
Il treno si arresta
fischiando, e con un ultimo scossone
è immobile. La ragazza si assicura che lo zaino sia ben
chiuso, e solo allora si alza, sulla scia dei passeggeri che
già
hanno deciso di cercare il capotreno.
Si mette pazientemente in
colonna, aspetta di
raggiungere l’uscita, e balza a terra con un piccolo salto.
Una
volta lì, perde un istante a guardarsi attorno:
nient’altro
che campi e cascine a perdita d’occhio. Un paese grande come
lo
sputo di un gigante, e con la vita notturna di un ospizio. Splendido.
Sbuffando, cerca il capotreno
con lo sguardo e incrocia
il controllore alla fine del treno, circondato da un paio di
vecchiette mezze sorde. Con passo marziale lo avvicina, si fa largo
tra la folla, e sfoggia il suo sorriso semi-professionale da
volontaria della Croce Rossa.
«Salve, mi scusi,
che succede?» domanda con
cortesia esasperata.
Il controllore, un ragazzo
dall’aria annoiata che avrà
sì e no tre anni più di lei, le scocca
un’occhiata
irritata e sbuffa.
«C’è
un gregge di pecore sul binario»
annuncia atono. «Siamo a malapena riusciti ad allontanarle da
una linea, passano solo i treni veloci»
«Un cosa?»
allibisce la ragazza, spalancando
la bocca.
«Gregge-di-pecore»
sillaba il controllore,
sotto occhi di un nero assolutamente inespressivo. «Sono
bianche e puzzano»
«So
cos’è una pecora! M-Ma perché
sono sui binari?»
«In tutta
franchezza, penso che dovrebbe chiederlo
al pastore»
«Non ci credo! Ma
che idiozia!» sbotta il
ragazzo, scompigliandosi furiosamente i capelli.
Accucciato su un pavimento
polveroso, accanto a una
biglietteria chiusa e deserta, si lascia andare a un grido che sembra
quasi un ringhio, e poi alza uno sguardo frustrato sul foglio bianco
che campeggia un metro più su della sua testa.
Siamo
al lavoro per fornirvi un servizio ancora migliore,
ci
scusiamo per il disagio.
La
biglietteria riaprirà il 12 gennaio.
La polvere di luglio si
è posata su tutti gli
angoli della stazione, ricoprendo ogni superficie piana e non, e il
nastro adesivo che sorregge il messaggio ha perso aderenza da molto
tempo.
Il ragazzo sbuffa furioso e si
tira su, pensando che ci
sarà sicuramente un servizio sostitutivo. Deve solo prendere
per il collo un controllore, o un capotreno, o qualcosa di simile, e
potrà andare a dare il suo maledetto esame. E’ un
pensiero
abbastanza concreto da fargli scrocchiare le nocche delle mani, e
quando si volta di scatto è così battagliero che
solo
per un soffio non finisce addosso alla ragazza alle sue spalle.
«Piano» lo
ammonisce lei, scoccandogli
un’occhiataccia.
«Oh, sei
tu» fa lui, riconoscendo
immediatamente il ciuffo rosa sulla sua testa. «E’
chiuso»
aggiunge poi, additando la biglietteria alle sue spalle.
«Niente
biglietti, niente informazioni»
«Cosa?»
esclama lei, strappando l’avviso
sulla porta polverosa. «Non ci credo!»
«Sì
invece. E infatti volevo andare a
cercare un controllore...»
«Lascia perdere. Ci
ho già provato io, e
sono stata a tanto così dal prenderlo a schiaffi. Non sanno
niente neanche loro, a parte che c’è un gregge di
pecore sui
binari»
«Un cosa?»
«Gregge di pecore.
Lo so, sembra assurdo, ma
dicono che dobbiamo solo aspettare»
«Aspettare
quanto?» chiede il ragazzo
nervosamente.
«Ovviamente non lo
sanno» sbuffa lei. «A
che ora è il tuo esame?»
«Tra due ore. Dio,
dio, dio, non posso
crederci...» mormora, passandosi una mano tra i capelli
biondi
scompigliati. «Ma porca vacca, proprio oggi!»
«Già,
proprio oggi» concorda la
ragazza, incrociando le braccia. «Non
c’è neanche un
bus?»
«E a chi lo
chiediamo?» si lamenta lui,
alzando le mani impotente. «Non c’è
un’anima»
«Beh, ci
sarà un bar aperto di fronte alla
stazione... C’è sempre» risponde lei
accigliandosi.
«Io non mi muovo da
qui» borbotta lui, sulla
difensiva. Se il treno riparte senza di me sono fottuto. Qui non si
fermano neanche i carri del bestiame»
«E allora stai
fermo» la ragazza rotea gli
occhi e sistema meglio lo zainetto su una spalla, poi, scuotendo i
capelli con stizza, oltrepassa il ragazzo e si dirige in fondo al
binario, verso il cartello arrugginito che segna l’uscita.
Lui rimane lì, a
fissarla con un filo di
irritazione, e sposta lo sguardo alternativamente dal cartello al
treno. No, no e poi no. Non si muoverà di lì. Non
può
perdere il treno, se riparte senza di lui è morto. E non
gliene frega niente se la ragazza è stronza ma carina!
Insomma, nella vita di un uomo ci sono cose più importanti
di
un bel paio di gambe e un I-pod, e poi non la vedrà mai
più,
e in fondo un po’ per quell’esame ha studiato, e
certo che la
piazzola di quel buco di posto è ancora più
squallida
della stazione, ora che la vede bene. E perché diavolo
è
arrivato fin lì?
Mentre ancora se lo chiede,
vede la ragazza avviarsi
verso l’unico bar – polveroso come tutto il resto
– e spingere
la porta per entrare.
Resta un po’ fermo
dove si trova, giocherella con un
sasso ai suoi piedi, e poi sbuffa, maledice sé, lei e le sue
gambe, e si affretta a seguirla.
Il
bar all’interno è, se possibile, ancora
più
squallido. Il bancone è di legno rigato e macchiato, gli
espositori sono quasi vuoti, fatta eccezione per un paio di
confezioni scadute di caramelle, e il pavimento si rivela
appiccicoso.
Il proprietario, poi, sembra uscito da Hazzard,
fasciato nella sua camicia a quadri e jeans anni settanta, e
probabilmente non ha ancora afferrato il concetto di rasoio,
perché
ha un paio di baffi neri assolutamente orribili, su un viso che
già
ha poco di bello. Se non altro guarda la ragazza con uno sguardo
così
apatico che è impossibile pensare a delle molestie.
«Non passano
bus?» sta chiedendo in quel
momento lei, sconvolta. «Neanche uno schifosissimo
bus?!»
«Hanno tolto la
fermata nel... uhm,
millenovecentosettanta... sette, se non sbaglio. O otto»
commenta l’uomo, sereno.
«Che schifo, schifo,
schifo di posto!»
esplode la ragazza, pestando un piede a terra.
«Nel
retro ho un telefono, se vuole chiamare un tassì»
«Come se avessi
abbastanza denaro!»
«Forse se dividiamo
per due...» interviene
il ragazzo, scrollando le spalle con leggero imbarazzo.
La ragazza finalmente si
accorge della sua presenza, e
gli lancia uno sguardo stralunato.
«Non dovevi restare
accanto al treno?»
chiede stupita.
«Sì, ehm,
ho cambiato idea» si
schiarisce la voce lui. «Comunque, quanto verrà un
taxi
fino a xxx?»
«Troppo, per
me» sospira lei, allontanandosi
dal banco fino a raggiungerlo. «Mi conviene aspettare che il
treno riparta...»
Con un cenno saluta il
barista, che ricambia laconico
buttandosi in bocca un chewing gum che sembra antico come lui, e
insieme escono sulla piazza assolata.
«E
quindi?» sospira lui, afflitto. «L’esame
salta»
«Orale?»
«Sì»
«Sei uno dei
primi?»
«Che? Scherzi?! No!
Ma l’appello lo fa
all’inizio»
«Oh. Mi spiace. Non
credi che ascolterebbe le tue
spiegazioni?»
Il ragazzo affonda le mani in
tasca e avanza, diretto
verso la stazione. «Sì, beh, non è che
sia un
esame poi così importante... Nel senso, sicuramente mi
boccerà. E poi dove sto io non si fa mai un cazzo,
è
normale che la gente non si presenti agli appelli»
«Dove stai
tu?»
«DAMS*, il paradiso
dei nullafacenti» Con un
ghigno sarcastico, lui la guarda. «Abbiamo un paio di lezioni
di fianco al dipartimento di Medicina, sai? Ma le cose in comune
finiscono qui»
«Ma no,
dai...» commenta lei, con un leggero
imbarazzo. «Non è la facoltà dei
nullafacenti, se
ti piace. Come tutte le cose, si può fare bene o
male»
«Ah, sì
sì. Ma io la faccio male,
fidati. Oh, quante palle! Niente esame, stop. La mia giornata
sarà
un po’ meno stressante! Anzi, ti offrirei volentieri un
gelato, se
non fossimo in questo buco di posto»
Silenzio.
Il ragazzo deglutisce, conscio
di aver fatto il passo
più lungo della gamba. Solo venti minuti prima la stava
insultando sul treno, e ora le propone un gelato. Mille a uno che si
è tirato la zappa sui piedi.
Con lentezza, estrema
lentezza, si azzarda a voltarsi
quel tanto che basta per spiarla con la coda dell’occhio. Se
il
silenzio si protrarrà ancora cinque secondi, la
butterà
sul ridere e cambierà argomento.
La vede che si guarda attorno,
ma non riesce a capire se
sia imbarazzata, lusingata o infastidita. Pensa che le donne sono
sempre creature maledettamente complesse, e quando già sta
per
fingere una risata asciutta, la vede fissarlo all’improvviso.
«Beh, se non dai
l’esame me lo puoi offrire
quando arriviamo» butta lì.
Il ragazzo si volta di scatto,
sorpreso, e finalmente la
vede arrossire.
«Sì, beh,
sempre se non dai l’esame,
cosa che comunque dovresti fare, almeno per
provare, no? Lo
hai detto tu» si affretta a spiegare lei, in tono sostenuto.
«Oh... Oh
sì, certo» annuisce lui,
con un mezzo sorriso. «Vediamo come è messo il
treno,
ok?»
Con aria fintamente rilassata,
la ragazza scrolla le
spalle e insieme si avviano oltre l’arco della stazione,
verso i
binari roventi. Il treno è ancora fermo al secondo binario,
e
l’aria che lo sovrasta tremola nella calura di luglio.
«Ma tu hai ancora
lezioni?» chiede lui,
mentre si avviano verso il sottopassaggio più fresco.
«E’ un
seminario non obbligatorio... Colgo
l’occasione per fare una piccola ricerca in
biblioteca»
risponde lei, mentre l’eco dei loro passi risuona sulle
scale. «La
fregatura quando studi medicina è che non tutte le
informazioni si trovano sul web»
«Ah
beh, io posso solo immaginarlo... Non credo che avrò mai il
coraggio di mettere
piede a Medicina... Direi che non fa proprio per me!»
Il ragazzo ride, e la sua
risata si diffonde e rimbalza
lungo il cemento, insieme a un rombo lontano cui nessuno fa caso. I
due raggiungono il secondo binario, e salgono il primo gradino.
«In effetti sono
abbastanza delle iene»
sospira lei, passandosi una mano sulla fronte sudata. «Ma se
impari a mordere sei a posto»
«Ah, no grazie. Al
DAMS saremo cazzoni, ma almeno
ci diamo una mano a vicenda»
La ragazza sorride, e lui
ricambia.
E’ così
che sbucano sul binario, nel sole di
luglio, nell’afa già soffocante della mattinata.
Ed è
così che scoprono che il loro treno
sta trottando in fondo alla stazione, e lo sentono fischiare
nell’aria riarsa.
Il ragazzo spalanca la bocca.
La ragazza rimane immobile,
pietrificata.
«Non
ci credo...» mormora lui, con una mano sulla fronte.
«Cazzo,
cazzo, cazzo!»
esclama poi, facendo un giro su sé stesso e dando un pugno
all’aria. «Che coglione!»
«Oddio, mi
dispiace... Che idiota... Se non fossi
andata...» inizia lei, preoccupata, ma lui con un cenno la
zittisce.
«Lascia
perdere, per favore. Sono un imbecille integrale!» esclama,
accucciandosi e quasi strappandosi i capelli, da quanto li
scompiglia. «E quelle pecore! Ahh, io le odio
le pecore! Stupide, coglionissime pecore!»
Suo malgrado, la ragazza si
lascia scappare una
risatina. Poi esita un istante, e tira giù lo zaino,
iniziando
a frugarci dentro. Bastano pochi secondi perché trovi quello
che cerca, e quando lo fa si avvicina al ragazzo e si accuccia al suo
fianco.
«Ho controllato nel
portafoglio, forse ce la
facciamo a dividere un taxi» dice, sfoggiando con un sorriso
un
paio di banconote. «Ci stai?»
Il ragazzo la fissa stupito,
troppo sorpreso per
ricordarsi di essere furioso, e poi sbatte le palpebre.
«Magari passa un
altro treno...»
«Sì,
forse uno al giorno. E non d’estate»
«Ah, certo. Ma...
insomma, mi spiace farti
spendere tutti quei soldi... Poi magari non arriviamo in tempo
comunque»
«E se non arriviamo
in tempo, mi offri quel
gelato»
Il ragazzo esita, combattuto.
Ha davvero tutta questa
voglia di dare l’esame? Tanto da spenderci quei soldi?
E però in taxi
starebbero ancora vicini, magari
con l’aria condizionata, e avrebbero tutto il viaggio per
parlare,
e forse scambiarsi i numeri di telefono, e chissà che...
«Ok»
annuisce, improvvisamente
convintissimo. «Davvero, non so come ringraziarti... Ah, che
imbecille, tra una scemenza e l’altra non mi sono nemmeno
presentato»
Si alza, e lei con lui, e
finalmente si stringono la
mano, dopo essersi insultati, inseguiti e quasi picchiati.
«Naruto
Uzumaki»
«Sakura Haruno,
piacere»
* DAMS: discipline delle Arti,
della Musica e dello
Spettacolo. Non chiedetemi cosa si studi, sarebbe troppo lungo da
spiegare! XD
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Capitolo 3 *** A Elisa - Uchiha centric (Fugaku & Itachi) - PRIMA CLASSIFICATA AL CONTEST SULLA PAZZIA ***
Natale-7 Elisa
A Elisa, aka Gweiddi at Ecate
(ma non so quanto a lungo terrà questo nick),
perché credo che non scriverò mai altro che
prevede tanto Itachi.
Quindi voglio dedicare questa storia tutta a te.
Questa fanfiction si è classificata prima al Contest sulla Pazzia
indetto da akane_val.
Un
passo di troppo
Labile
è il confine che separa genio e follia.
Fino
a che punto l’anormalità è
straordinaria, e quando
diventa pericolosa?
Dove
finisce il sogno e iniziano le allucinazioni?
Esiste
un luogo, una linea, un piano, in cui
il
genio diventa folle?
Fugaku Uchiha aveva sempre
saputo che suo figlio Itachi
era un genio.
Non aveva bisogno di vedere i
suoi voti all’Accademia
o sentire i pareri entusiastici degli insegnanti, a lui bastava
ricordare che a due anni Itachi già leggeva, e senza che
nessuno glielo avesse insegnato.
«Itachi,
vai a giocare con gli altri bambini»
«Perché?»
Fugaku era orgoglioso di quel
suo erede tanto speciale,
erede che lo aveva già superato e si sarebbe spinto ben
oltre
i suoi limiti, ed era convinto che finalmente avrebbe riportato la
casata agli antichi fasti.
Era il genio di Konoha, suo
figlio. Era il genio degli
Uchiha.
Aveva un grande destino.
«Stai
ancora studiando, Itachi?»
«Domani
ho l’esame, papà»
«Sono
dieci ore che studi...»
«Esatto»
«...»
«Quando
esci, chiudi la porta»
A sette anni Itachi si era
diplomato con il massimo dei
voti, sbalordendo la comunità tutta.
A otto era diventato Jounin, e
la sua leggenda era
cresciuta.
A
tredici
era
già capitano degli Anbu.
E,
oltre che il capitano della
squadra più letale di Konoha, era anche la spia degli Uchiha
tra i fedeli all’Hokage e al Consiglio.
«Tu
sei importante, Itachi. Sei la nostra arma segreta»
«Io
farò ciò che devo»
«Lo
so. Sei il mio orgoglio...»
* *
*
Alla
fine era successo ciò
che tutti temevano.
Il
quartiere degli Uchiha era nato
quasi in sordina, senza troppo clamore, ed era stato circondato da
mura bianche e anonime. L’Hokage e il Consiglio avevano
disposto
che tutti gli Uchiha vivessero in un angolo insignificante di Konoha,
lontano dai centri nevralgici della città, lontano dalla
parete degli Hokage e dal loro potere, e loro avevano dovuto
adeguarsi senza opporsi. Perché, anche se erano i
discendenti
di uno dei fondatori del villaggio, non erano mai stati davvero parte
di Konoha.
Gli
Uchiha avevano un grande
orgoglio.
Principi.
Doveri.
Morale.
Gli
Uchiha erano severi
soprattutto con sé stessi, ma quando erano nel giusto
sapevano
essere spietati con i nemici, chiunque essi fossero.
E,
dal momento che chiunque
era fuori dal clan, era fuori da LORO,
gli altri abitanti di Konoha erano tutti potenziali nemici.
Non
si facevano illusioni, gli
Uchiha.
Erano
soli.
Erano
i discendenti di Madara
Uchiha, il suo sangue amaro scorreva nelle loro vene, e il rancore
non si diluiva con gli anni.
Non
importava che fossero stati
rinchiusi.
Non
importava nemmeno che gli Anbu
si aggirassero quotidianamente lungo i confini del quartiere.
E
anche se erano stati estromessi
dal Consiglio, questo era assolutamente irrilevante.
Perché
gli Uchiha avevano
già iniziato a muoversi, e presto, molto presto, avrebbero
riportato la bilancia in equilibrio.
Grazie
al loro piccolo,
importantissimo genio.
«Itachi,
mi sembri stanco»
Al
suono della voce paterna,
Itachi alzò gli occhi dai sandali che stava allacciando e
fissò Fugaku con il solito sguardo assente.
«E’
una tua impressione»
rispose atono, e tornò a chinare il capo per finire di
vestirsi.
«Sai
che devi uscire in
missione solo al meglio delle forze» replicò
Fugaku,
accigliandosi appena. «Non puoi permetterti fallimenti, o un
calo delle prestazioni»
«Lo
so» Itachi si alzò
in piedi, e sistemò la fibbia del marsupio
sull’addome. «C’è
altro?» chiese, con una fugace occhiata.
Fugaku
ingoiò il sospiro
che voleva uscirgli dalla gola, e invece scosse la testa.
«Vai.
E fatti onore»
Itachi
annuì, senza
ringraziare, e gli voltò la schiena per uscire.
La
porta si aprì, le sue
spalle grandi si delinearono per un istante nel sole intenso del
pomeriggio, e poi Fugaku le vide scomparire in un silenzio
così perfetto e così freddo da mettere i brividi.
Una
mano si posò morbida
sul suo braccio, e una donna dai capelli mori e lo sguardo
preoccupato cercò i suoi occhi, riportando il calore
nell’aria.
«Va
tutto bene?»
domandò esitante.
«Mi
sembrava stanco»
rispose lui, passandosi una mano sulle tempie. «Ma
probabilmente non riesco nemmeno a immaginare fino a che punto si
spinga la sua resistenza...»
«Siamo
i suoi genitori»
sussurrò la donna, stringendo leggermente il suo braccio.
«E’
naturale che ci preoccupiamo»
«Probabilmente
hai ragione.
Sono solo... non lo so...»
Fugaku
fissò la porta per
un lungo istante con sguardo assente, e si trovò ad
accarezzare i capelli della moglie senza nemmeno accorgersene.
Sospirò
e scosse la testa.
«Torniamo
dentro; Sasuke ha
già la sua merenda?» chiese, voltando la schiena
all’ingresso.
Ma
se il corpo poteva girarsi e allontanarsi, la mente non poteva
altrettanto; e rimase fissa sulle spalle che si erano allontanate,
fredde e silenziose, e che mai, mai
una volta avevano smesso di essere rivolte a lui.
Itachi
era il genio della
famiglia.
Itachi
era la loro speranza.
Itachi
aveva un destino.
Fugaku
pensava di conoscerlo.
La
notte in cui Itachi tornò
coperto di sangue, il cielo era illuminato a giorno dai lampi.
La
pioggia non aveva ancora
iniziato a scrosciare, ma un vento freddo e imprevedibile scuoteva le
fronde degli alberi e sibilava tra i tetti delle case.
Fugaku
e Mikoto erano andati a
dormire da poche ore, eppure nessuno dei due riusciva a chiudere
occhio; Sasuke era nella sua stanza, presumibilmente addormentato, ma
se un tuono lo avesse svegliato Mikoto sarebbe dovuta andare a
controllarlo, perché non si sarebbe mai abbassato a mostrare
la sua paura dei temporali al padre. E non sapeva che anche Fugaku,
da bambino, si era nascosto spesso sotto le coperte per non vedere i
lampi.
Ma
i suoi erano altri tempi, tutto un altro mondo, rifletté.
Ora
ciò che faceva paura era ben
altro. E
quando il tuono fece vibrare i vetri delle finestre, si
limitò
a sussultare per la sorpresa.
Mikoto
scostò le lenzuola,
sospirando piano.
«Vado
da Sasuke»
mormorò sentendolo muoversi.
Fugaku
grugnì in risposta,
rotolando su un fianco e chiudendo gli occhi.
Strano.
Aveva superato la fobia
dei temporali anni e anni prima, ma quella notte continuava a
sentirsi nervoso. Si girava e rigirava sul materasso, pensava a sei
cose diverse e non arrivava a nessuna conclusione, e sentiva lo
stomaco gorgogliare sottovoce, ma non per la fame.
Al
terzo tuono, si arrese. Gettò
indietro le lenzuola, e fece scendere i piedi dal letto con
un’occhiata cupa ai lampi che si intravedevano tra le
persiane.
Infilò le pantofole sul tappeto e si alzò in
piedi,
stringendo le braccia al petto in un brivido di freddo.
Itachi
era ancora in missione
insieme agli Anbu, nel paese del Vento. Secondo le previsioni non
sarebbe tornato prima dell’indomani. Non aveva ragione di
pensare a
lui, nessuna ragione. Per questo, quando si trovò a
camminare
lungo il corridoio che portava all’ingresso, Fugaku si disse
che lo
faceva per sgranchirsi le gambe.
Il
debole fruscio delle pantofole
sul legno lo accompagnava lungo il tragitto, insieme ai gemiti del
vento e ai tuoni lontani. Poi, soffuso, ai rumori della notte si
aggiunse anche il ticchettio della pioggia.
Un
altro fremito gli scosse le
spalle.
Si
stava sgranchendo le gambe.
Solo sgranchendo le gambe.
Arrivò
in vista
dell’ingresso.
Un
lampo improvviso illuminò
l’atrio, e le chiazze d’acqua sul parquet liscio.
Un
tuono rombò fin nel suo
stomaco, mormorando cupo insieme al battito del suo cuore.
La
sagoma china sullo stipite alzò
gli occhi scarlatti e incontrò i suoi, neri e sbarrati.
Poi
un altro lampo. E lo sharingan
scomparve, e le spalle bagnate di Itachi si piegarono in avanti,
verso il pavimento.
«Mikoto!»
chiamò
Fugaku, riscuotendosi dal torpore e muovendosi verso di lui.
Itachi
cadde in ginocchio,
lasciando l’impronta insanguinata della mano sullo stipite
bagnato.
Una folata di vento portò in casa gli spruzzi della pioggia
e
scosse i capelli fradici sulle sue spalle, ma Fugaku arrivò
a
sostenerlo prima che si accasciasse completamente.
«Ferite
da taglio»
sussurrò lui, perfetto e impeccabile anche in quelle
condizioni. «Contusioni... Forse un dito rotto. Non
è
grave»
«Questo
lascialo decidere a
me» lo zittì Fugaku, adagiandolo a terra e
strappando la
maglia sul suo petto.
Alla
luce irregolare dei lampi
vide le ecchimosi sul torace e il gonfiore delle ferite ancora
fresche, il cui sangue si mescolava all’acqua e si condensava
in
gocce rosate. Corrugò la fronte, ampliando lo strappo, e si
rese conto che, come diceva Itachi, non era davvero grave; doveva
essere rimasto stordito dalla perdita di sangue, più che
altro.
«Mikoto!»
chiamò
di nuovo, e poi scostò il coprifronte dal suo viso gonfio,
spingendo indietro la frangia.
«Come
ti senti?»
chiese, e la sua voce quasi fu soffocata da un nuovo tuono, e la
pioggia ticchettò contro le sue guance, trasportata dal
vento.
«Stanco»
rispose
Itachi, ad occhi chiusi.
«Cosa
è successo?»
«Un’imboscata,
sulla
strada del ritorno. Siamo stati colti di sorpresa»
«Gli
altri Anbu?»
«Vivi»
Fugaku
annuì, confortato.
«Ti
sei comportato bene»
Itachi
non rispose, e Fugaku pensò
si fosse addormentato. Alzò lo sguardo verso il corridoio,
alla ricerca di Mikoto, ma nel buio della stanza intravide solo le
sagome dei soprammobili.
«...Sarà
davvero
così?» mormorò all’improvviso
Itachi.
Fugaku
riabbassò gli occhi
e lo vide che fissava il soffitto, livido, i tratti morbidi del viso
resi acuti dalla luce cruda dei lampi.
«E’
davvero quello che
devo fare?» continuò lui, e nella sua voce
vibrò
una nota incerta, qualcosa difficile a definirsi. «Combattere
con gli shinobi di Konoha, rischiare la vita per loro... Quanto
ancora durerà? Quanto andrà avanti questa
farsa?»
I
tratti di Fugaku si indurirono
prima che rispondesse.
«Abbiamo
bisogno di altro
tempo» disse piano. «Non molto, ma ancora un
po’. E tu
sei la nostra arma segreta, Itachi. E’ importante che tu non
ceda»
«Perché?»
negli occhi di Itachi passò un lampo di rabbia.
«Perché
devo fingere, ingannarli, diventare loro amico
e poi ucciderli?»
«Non
devi essere loro amico»
lo interruppe Fugaku. «Devi solo conquistare la loro
fiducia»
«E
restare impassibile,
vero?» domandò Itachi, amaro. «Devo solo
ingannarli. E poi distruggerli» un sorriso di scherno gli
tirò
le labbra pallide, e non fu più bello e giovane, ma molto
più
vecchio e crudele. «Sono la vostra arma e
nient’altro, è
questo che sono, no?»
«Itachi,
sei stanco e
ferito...»
«Sì.
Hai ragione»
lo interruppe, asciutto. «Sono stanco»
E
Fugaku capì che non c’era
altro da dire, e fu sollevato quando Mikoto finalmente li raggiunse.
Era
stanco, Itachi.
Stanco
stanco stanco.
Aveva
un destino.
Era
un ragazzo.
Era
un genio.
Ma
dove stava di preciso la linea da NON oltrepassare?
Poco
dopo Shisui fu trovato morto
nei pressi del fiume.
E
Itachi divenne il primo
sospettato.
*
Fugaku
Uchiha non sapeva più
chi fosse suo figlio.
L’aveva
sempre capito a fatica,
ma ultimamente non riusciva proprio a parlargli, se non nel tono
formale di uno shinobi a un suo subordinato. Le poche volte che aveva
cercato un dialogo con lui si era visto rispondere a monosillabi e
occhiate spaventosamente neutre, e ben presto si era arreso e aveva
iniziato a sorvegliarlo, più che guardarlo.
Mikoto
era seriamente preoccupata
per entrambi, e anche se le faceva piacere vedere che ora Fugaku
prestava più attenzione a Sasuke, sapeva che non era
così
che dovevano andare le cose.
Fugaku
non doveva dire a Sasuke di non
imitare suo fratello.
Fugaku
doveva fidarsi di Itachi.
Fugaku
aveva sempre adorato
Itachi.
Provò
a parlarne al marito,
una sera, mentre aspettavano di addormentarsi a letto. Ma lui si
rinchiuse nel suo guscio e rispose soltanto che Itachi conosceva il
suo dovere.
«Itachi
è troppo importante»
Così
importante che non gli
staccava gli occhi di dosso.
«Sei
stato in missione?»
«Sì»
«E’
andata bene?»
«Sì»
«E
poi sei tornato dall’Hokage?»
«Papà,
devo andare, ho una convocazione»
«Hai
scoperto qualcosa di interessante durante la riunione?»
«Niente»
«Come
sarebbe a dire niente?»
«Niente.
E ora posso andare nella mia stanza? Sono stanco»
«Itachi,
così non va. I membri del clan iniziano a non fidarsi di
te»
«Non
capisco...»
«Sì
che capisci! Smettila di essere così impassibile! Reagisci!
Fa’ qualcosa, di’ qualcosa, qualunque
cosa!»
«E
cosa dovrei dire?»
Cosa
doveva dire?
Con
quali parole avrebbe
riconquistato la fiducia degli Uchiha?
C’era
qualcosa che poteva
riuscirci, qualcosa che sarebbe passato sopra le occhiate fredde e i
discorsi smozzicati, qualcosa che lo avrebbe reso il vecchio,
affidabile, geniale Itachi?
Fugaku
voleva crederci.
Ne
aveva un bisogno disperato.
«Stai
uscendo?»
Di
nuovo nell’atrio, di nuovo
Itachi chino sui sandali. Ma questa volta non si disturbò ad
alzare lo sguardo, e si limitò ad annuire in risposta.
«Dove
vai?»
Itachi
scrollò le spalle.
«Dove
vai?»
ripeté Fugaku, fermo dietro di lui.
«Voglio
allenarmi»
ribatté Itachi sistemando l’ultimo laccio e
alzandosi in
piedi.
Finalmente
si voltò e fronteggiò Fugaku, ma se avesse
continuato a
mostrargli le spalle, nulla sarebbe cambiato comunque;
perché
i suoi occhi, semplicemente, non
erano lì.
«Dove?»
«Nella
foresta. Vuoi farmi
seguire?»
«Non
dire sciocchezze»
Fugaku fece un cenno irritato.
«Sciocchezze?»
replicò
Itachi, e un sorriso strano gli incurvò un angolo della
bocca.
«Non sarebbe la prima volta che mi sorvegliate»
«Cosa?»
Fugaku si
accigliò, turbato. «Sorvegliato? Non ne sapevo
nulla...
come... Ne sei sicuro? Assolutamente sicuro? Ed erano Uchiha?»
«Da
quando dubiti delle mie capacità?»
rispose Itachi, freddo. «Passi per la fiducia e la stima, ma
ora anche le capacità? Erano Uchiha. Ed erano lì
per
me. Ma forse qualcuno ha iniziato a lasciarti ai margini... Forse non
sono l’unico da tenere sotto controllo»
Fugaku
si irrigidì, e
strinse i pugni sotto le maniche del kimono.
«Quando
sei diventato così?»
chiese, in un mormorio carico di amarezza. «Una volta eri
diverso, Itachi. Eri la mia speranza, eri il genio del clan...
avresti potuto diventare il nostro capo e nessuno avrebbe
fiatato»
«Dillo,
papà» Itachi lo fissò, lo
inchiodò anche
senza bisogno di sharingan, e Fugaku sentì le parole
piombare
nello stomaco come macigni. «C’è ancora
una cosa che
ero,
non è così?»
Silenzio.
Silenzio
e ancora silenzio.
Un
silenzio colmo di pensieri, di
grida che nessuno avrebbe mai sentito.
E
l’unica frase che uscì
dalle labbra di Itachi.
«Una
volta ero tuo figlio»
Fugaku
chiuse gli occhi, e senza
volerlo distolse il capo.
Itachi
sorrise, senza la minima
allegria, e gli voltò la schiena.
«Vado
ad allenarmi» ripeté, raggiungendo la porta.
«Ci
vediamo stasera»
E
Fugaku, di nuovo, lo vide allontanarsi in silenzio, e restò
immobile mentre Itachi se ne andava; restò immobile,
immobile,
immobile, senza dirgli che no, non
avrebbe mai smesso di essere suo figlio.
Quella
sera, Itachi tornò
per l’ultima volta.
*
Sasuke
era vivo?
Era
tornato?
Itachi
lo aveva trovato?
E
Mikoto?
Mikoto
era lì con lui, la sentiva, eccola...
Il
dolore al petto era troppo, era
lancinante, era al di là delle sue possibilità. E
il
sangue continuava a scorrere, gli offuscava la vista, gli faceva
salire conati di vomito dallo stomaco, gli toglieva le ultime
briciole di respiro.
Mikoto.
Mikoto
era...
E
sopra, ecco Itachi, e la sua
spada corta, e gli schizzi di sangue sul suo viso, e quegli occhi,
quei maledetti, orribili occhi spenti, quegli occhi che un tempo
erano il suo orgoglio e ora erano scarlatti, maledetti, quegli occhi
che grondavano sangue...
Fugaku
aprì la bocca per
chiamarlo, per dire qualcosa, forse, ma non ne uscì alcun
suono.
Sentiva
il corpo di Mikoto sotto
di sé, ancora caldo, ma sapeva che il suo cuore aveva
già
smesso di battere, ed era più di quanto potesse sopportare.
Non
avrebbe mai smesso di essere suo figlio.
«Ora
non ha più
importanza che tu ti fidi. In fondo, facevi bene a dubitare»
La
voce di Itachi lo raggiunse da
una distanza spaventosa, roca, profonda, molto più profonda
di
quanto ricordasse.
Dov’era
il bambino che aveva
visto crescere?
Dov’era
il suo adorato, piccolo
genio?
«Mi
sarebbe piaciuto che le
cose andassero diversamente...»
Fugaku
boccheggiò. Voleva rispondere. Doveva dirgli che non era
tutto
perduto, che poteva ancora salvarsi, che poteva... che doveva... che
aveva un destino...
Ma
poi, vide le sue lacrime.
E
quando la spada calò, una
voce lontana riecheggiò nelle sue orecchie, la voce di un
bambino, questa volta, la piccola voce di Sasuke che scomparve e
diventò quella di un piccolo, geniale e adorato Itachi...
E
allora seppe che il genio degli Uchiha aveva fatto un passo di
troppo.
*
* *
La
luce del sole era accecante, in
quel primo pomeriggio di luglio.
Le
foglie degli alberi brillavano
più intense che mai, rigogliose e scosse da una brezza
leggera
e tiepida, e nel cielo sgombro volavano le rondini a caccia di
insetti. Il ronzio delle cicale era pressoché assordante, ma
attutito dalla cappa di calore, e le infermiere in pausa si
sventolavano stancamente con piccoli ventagli di carta, grondando
sudore. Non c’era un solo centimetro di stoffa che non
sembrasse
decisamente troppo, quel giorno. E quando l’uomo in completo
nero
fece la sua comparsa lungo il vialetto, molti pensarono a
un’allucinazione.
Era
un ragazzo alto, con i capelli scuri e lunghi trattenuti in una coda
bassa. Vestiva elegante, pur senza eccedere, e camminava con un
portamento invidiabile. Le infermiere che ebbero la fortuna di
vederlo passare a pochi metri furono avvolte dal suo profumo fresco,
e tutto ciò che riuscirono a fare fu rimpiangere che i suoi
occhi fossero nascosti dagli occhiali da sole. Sicuramente dovevano
essere splendidi,
ne erano certe.
L’uomo
oltrepassò tutte
le panchine senza mai rallentare, senza nemmeno una goccia di sudore
sulla fronte, finché non raggiunse l’ingresso del
grande
complesso ottocentesco che si ergeva al centro del giardino.
Non
perse tempo ad ammirarne
colonne e stucchi, e invece salì i pochi gradini che lo
separavano dal portone in vetro e dall’aria condizionata, e
lasciò
che le porte scorressero silenziose al suo arrivo.
Una
folata di aria quasi gelida lo
fece rabbrividire nel completo, e l’improvvisa penombra lo
spinse a
togliere gli occhiali scuri, rivelando occhi neri e bordati da ciglia
lunghe.
Si
guardò attorno, fermo a
pochi passi dalla porta, e incrociò gli sguardi delle
ragazze
alla reception e di una donna seduta in attesa.
«Oh,
ha bisogno di aiuto?» chiese una voce
all’improvviso, al suo
fianco, e voltandosi l’uomo vide quella che, dal cartellino
appeso
al camice, si fregiava del nome e del titolo di ‘Sakura
Haruno, Medico psichiatra’.
Aveva un colore di capelli alquanto discutibile, qualcosa a
metà
tra il chewing-gum appena scartato e la peggior colorazione stinta
della storia delle colorazioni, ma l’uomo sorvolò
con
eleganza.
«Sono
Itachi Uchiha» disse, pacato. «Non mi pare di
averla mai
vista prima, dottoressa
Haruno. Immagino sia nuova»
«Oh,
sì, in
effetti... appena laureata» arrossì lei, scostando
dietro l’orecchio una ciocca di capelli. «Viene
spesso qui?»
«Sì»
rispose
lui, distogliendo lo sguardo e puntandolo sulle scale che salivano ai
piani superiori. «Vuole accompagnarmi di sopra?»
propose
cortesemente, senza dilungarsi in spiegazioni.
«Oh,
io veramente...»
mormorò lei nervosa, e gettò uno sguardo
disperato alle
ragazze alla reception.
«Ino
e Tenten saranno liete
di dirle che so perfettamente dove devo andare» la
anticipò
Itachi, controllando distrattamente l’ora. «Le
chiedo di
accompagnarmi perché è prevista la presenza di
almeno
un medico, tuttavia, mi creda, ormai potrei anche muovermi da solo
per tutta la clinica»
Sakura
deglutì, nervosa, ma
vide le ragazze alla reception farle dei cenni inequivocabili, e
allora annuì brevemente.
«Va
bene...» mormorò,
e Itachi si mosse ancor prima che l’eco dell’ultima
sillaba
scemasse.
La
dottoressa dovette quasi
corrergli dietro fino alle scale, rischiando di inciampare nelle
scarpe troppo strette, e lo raggiunse solo all’altezza del
terzo
gradino.
«Allora,
ehm, signor
Uchiha...» iniziò, sfoderando un sorriso
impacciato.
«Lei è stato qui molto a lungo?»
Lui
le lanciò un’occhiata
obliqua. «Credo che abbia frainteso. Io non sono mai stato un
paziente»
«Oh,
no, certo che no!»
arrossì Sakura, maledicendosi mentalmente.
«Intendevo...
ecco...»
«Ho
passato molte ore tra
questi corridoi» le venne in soccorso lui, mentre
raggiungevano
il primo pianerottolo e attaccavano la seconda rampa di scale.
«Ma
soltanto in visita»
«Oh,
certo, ora capisco...» mormorò lei, ancora
imbarazzata.
«Mi deve scusare... Sono arrivata a malapena tre giorni fa,
so
giusto dove sono i bagni... Ma non credo che la cosa la interessi, mi
perdoni!» scosse la testa, confusa. Nessuno le aveva detto
che
trattare con la gente fosse tanto complicato,
da medico.
Itachi
le gettò un’occhiata
neutra e proseguì, senza aggiungere altro.
«Ehm,
mi scusi, a che piano
stiamo salendo?» si azzardò a chiedere lei, quando
arrivarono alla targhetta che indicava il primo.
«Terzo»
rispose lui, e negli occhi della ragazza brillò un lampo di
comprensione: al terzo piano c’erano i pazienti a lunga
degenza,
molto
lunga,
quindi era ragionevole che quell’uomo sapesse tanto bene come
muoversi.
Inaspettatamente,
Itachi riprese a
parlare.
«E’
per mio padre»
spiegò.
«Oh»
riuscì a
dire lei, e poi le parole le si seccarono in gola.
«Il
suo nome è Fugaku
Uchiha»
«Ah!»
esclamò
Sakura, portandosi una mano alla bocca, e Itachi le sorrise appena.
«Immaginavo
che lo avesse
sentito nominare»
«No,
ecco... è solo
che...» balbettò lei, avvampando per
l’ennesima volta.
«E’
un nome piuttosto famoso, qui dentro» completò
lui,
mentre arrivavano al secondo piano e Sakura iniziava a sentire un
filo di affanno. «E’ un paziente un po’ problematico»
«Ma
no...» tento di
dire lei. «E’ solo il tipo di patologia
che...»
«La
schizofrenia non è
necessariamente violenta» la interruppe Itachi, laconico.
«E
allucinazioni e manie di persecuzione possono essere tenute a bada
dai medicinali. Ma mio padre è particolarmente testardo...
Mi
diceva il dottor Sarutobi che la sua allucinazione è
straordinariamente intensa»
«Credo...
di averne sentito
parlare...»
Itachi
sorrise ancora, in parte
sarcastico e in parte amaro. «Allora anche lei conosce
‘Konoha’? E l’Hokage, e il Consiglio, e
tutti i tentativi dei
perfidi ninja di distruggere lui e il suo clan?»
Sakura
arrossì, annuendo
impacciata.
A
dire il vero conosceva anche un altro particolare, ma mai
lo avrebbe introdotto lei.
«L’allucinazione
di mio
padre si regge sulla realtà dei suoi personaggi»
proseguì Itachi, piatto, con lo stesso tono con cui avrebbe
discusso dell’opportunità o meno di sostituire la
Coca-cola
con la Pepsi. «Il dottor Sarutobi è
l’Hokage, la
vecchia infermiera che lo accudisce uno dei consiglieri, i parenti e
altri pazienti sono i membri del fantomatico clan... E poi, ci sono
io»
Itachi
si interruppe non appena
arrivarono al terzo piano, e il corridoio pulito della clinica si
stese davanti ai loro occhi. Sakura deglutì e riprese a
camminare al suo fianco, combattuta tra il desiderio di sentirlo
raccontare ancora e la paura di sapere come continuasse la storia, ma
questa volta lui non le venne incontro. Fino alla terza porta non
volò una mosca, e quando arrivarono alla stanza di Fugaku
Uchiha, Itachi si fermò davanti all’ingresso.
«Sa
chi sono io?»
chiese, fissando assorto il nome sulla targhetta elegante, e Sakura
capì che avrebbe continuato. «Nella sua Konoha
fatta di
complotti e tranelli, io sono il figlio traditore. Sono il genio del
clan che impazzisce e stermina la sua intera famiglia, alleandosi con
il perfido Hokage»
Suo
malgrado, Itachi sorrise
amaramente e guardò Sakura, che tratteneva il fiato, senza
osare parlare.
«Il
dottor Sarutobi non è
d’accordo con me, ma personalmente sono convinto che mio
padre
ricordi fin troppo bene che mia madre è morta alla mia
nascita» continuò lui, con tono straordinariamente
pacato. «E nella sua Konoha la uccido di nuovo, davanti ai
suoi
occhi... Ho anche un fratello. Ma non ho mai capito bene come fosse,
non c’è ogni volta»
«O-Ogni
volta?»
balbettò Sakura, suo malgrado.
«La
sua allucinazione è complessa, ma termina sempre allo stesso
modo: con la sua morte, per mano mia» spiegò
Itachi, e
nonostante la sua espressione si mantenesse perfettamente neutra,
Sakura riuscì a sentire una nota amara, in
profondità.
Una nota straordinariamente amara. «Tuttavia, mio padre non
muore fisicamente ogni
volta.
Quando ‘Konoha’ arriva alla sua fine, tutto il
sogno ricomincia
da capo. Io torno bambino, sono il suo adorato piccolo genio, e ogni
volta che vengo a trovarlo si mostra fiero e orgoglioso di me. Poi,
lentamente, la situazione degenera. Ci sono periodi in cui mi vede e
urla. Ci sono state volte in cui lo hanno trovato sui gradini
dell’ingresso, sotto il temporale, che parlava con un
immaginario
corpo steso a terra. E ci sono i momenti peggiori, quelli finali, in
cui devono sedarlo perché non si faccia del male. E ogni
volta, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, lui
continua così. Passa dalla mia infanzia alla sua morte, e
poi
ricomincia, senza mai stancarsi e senza mai ricordare nulla della
volta precedente»
Sakura
si accorse di avere la
bocca aperta e si affrettò a richiuderla, scossa.
Sapeva
che esistevano pazienti del
genere, lo aveva studiato e sentito raccontare mille volte. Sapeva
che avevano storie anche più incredibili e crudeli, ma
sentirlo ora, con le proprie orecchie, era molto peggio che leggerlo
dai libri. La professoressa Tsunade le aveva sempre detto che era
troppo emotiva per la specializzazione che aveva scelto.
«Io...
Mi-mi dispiace...»
balbettò confusa.
«Non
è il caso» rispose Itachi, con un sorriso
– no, una
smorfia
– appena accennato. «Per me è la
quotidianità.
E ogni volta, sarò quello che lui vorrà.
Dopotutto è
mio padre»
Posò
la mano sulla
maniglia, una mano ben curata e grande, forte, ma prima di abbassarla
guardò un’ultima volta Sakura.
«Mi
dispiace, devo averla
annoiata» si scusò. «Per farmi
perdonare, la
prossima volta le offrirò un caffè»
«M-Ma
no, si figuri...
C-Cioè...» scattò Sakura,
irrigidendosi, e Itachi
scosse la testa e aprì la porta.
«Credo
che ci incontreremo spesso, dottoressa» la salutò,
e con
quel sorriso tanto strano e quegli occhi che, nonostante tutto, erano
ancora così vuoti,
entrò nella stanza.
La
porta si richiuse, ma
attraverso le fessure dei cardini continuò ad arrivarle la
sua
voce attutita, insieme a un’altra simile ma più
profonda.
«Stai
ancora studiando, Itachi?»
«Domani
ho l’esame, papà»
«Sono
dieci ore che studi...»
Con
un inspiegabile groppo in
gola, Sakura afferrò la cartella clinica nel contenitore
accanto alla porta e la sfogliò rapida, stretta da
un’angoscia
immotivata e più profonda di quanto avesse mai provato.
Non
avrebbe dovuto lasciarsi
toccare così tanto dai suoi pazienti, e nemmeno dai loro
familiari; la professoressa Tsunade lo ripeteva in continuazione,
così come le ripeteva di scegliere pediatria, o qualcosa di
simile... e lei, stupida, credeva che sarebbe stata in grado di far
fronte a qualunque cosa.
Ma
non quando era così.
Non
quando chi si trovava davanti aveva quegli
occhi... non quando si trovava a dire frasi come ‘dopotutto
è mio padre’.
Non
così.
Si
trovò a leggere le prime
pagine della cartella clinica senza quasi capire cosa si trovava
davanti, e le parole sulla carta andarono a sovrapporsi a quelle di
Itachi...
...Tutti
i tentativi dei perfidi ninja di distruggere lui e il suo clan...
...Adozione
nell’infanzia. Liti e cause legali
tra
le famiglie che lo tenevano in affido...
...Sono
convinto che mio padre ricordi fin troppo bene
che
mia madre è morta alla mia nascita...
...La
moglie muore di parto...
...Sa
chi sono io? Sono il genio del clan che impazzisce...
...Note:
intelligenza incredibilmente pronta, qualcuno parlava di
‘genio’.
Fine.
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Capitolo 4 *** A Sara - accenno di NaruSasu (AU) ***
Natale1-Sara
Dedicata a Sara, aka Serrua_chan.
Perché lei ha letto la versione originale,
e perché "sotto l'albero ci sono gli Uchiha"!
XD
NaruSasu appena accennata (e un po' buffa), AU.
Cinquanta perché
E’ normale chiedersi il
perché delle cose.
Glielo
avevano insegnato verso i tre anni, dopo il primo ‘e
perché è così?’ tanto
tipico dei bambini, e Itachi lo aveva sempre ricordato, più di
ogni altra cosa.
Si
era chiesto il perché tante e tante volte, nella sua vita, e
non aveva trovato risposte convincenti nemmeno per la metà
delle occasioni. Aveva avuto a che fare con perché
increduli, perché
rassegnati, perché
rabbiosi, perché
tristi. Si era chiesto perché
tante volte che aveva finito per trovare la parola priva di senso, e
arrivare a chiedersi perché
‘c’
e ‘h’
insieme si leggessero ‘c’
come cane invece che ‘ci’
come cera.
Si faceva un sacco di
domande, Itachi, tutte con lo stesso incipit, e se le faceva per le
cose più stupide e quelle più serie.
Per
esempio, seduto davanti al libro di Anatomia
(II),
si chiedeva perché il capitolo dei peli stesse tra quello dei
muscoli e quello dei neuroni, scelta incomprensibile, e poi perché
fosse finito proprio a medicina. Spinte familiari, probabilmente, ma
anche i professori avevano avuto una certa parte. Per la facoltà,
non per il libro.
Si tolse gli occhiali e
massaggiò gli occhi stancamente, accogliendo con gioia il buio
delle palpebre abbassate. Studiava da più di tre ore, e nel
frattempo il cielo si era annuvolato e aveva iniziato a cadere una
pioggia insistente. La luce era accesa sul grande tavolo della
cucina, e il frigorifero ronzava in un angolo. Le piastrelle del
pavimento splendevano nel loro bordeaux cupo, perfettamente pulite, e
un tuono fece vibrare il vetro delle finestre.
Itachi sollevò lo
sguardo, incontrando l’orologio. Le cinque passate. Forse era il
momento di una pausa.
Si alzò dalla
sedia e aggirò il tavolo per raggiungere il frigorifero.
Quando lo aprì sentì il freddo al suo interno che
usciva e lo aggrediva, avvolgendosi alle sue braccia nude. Rabbrividì
e prese una spremuta dal secondo ripiano, poi si affrettò a
chiuderlo, a caccia di un bicchiere. Ma non riuscì nemmeno a
raggiungere la credenza, che sentì suonare il campanello
dell’ingresso.
Sbuffò.
Perché
andare fino alla porta, all’unico scopo di comunicare all’ignaro
visitatore che chiunque cercasse non era in casa, e poi tornare
esattamente lì?
Tanto valeva non muoversi.
Annotò
mentalmente il trentaduesimo perché
della giornata, e poi si tese per prendere un bicchiere sul ripiano
alto.
Il campanello suonò
di nuovo, due volte. Con una certa irritazione, quasi.
Itachi fece orecchie da
mercante e si versò 190ml di succo, non uno di più, non
uno di meno.
Ma
poi il campanello suonò ancora, e questa volta sembrava
proprio che il maledetto
– non più ignaro
– visitatore si fosse addormentato sul pulsante, perché il
monotono ronzio del citofono invase l’atrio, la cucina e le
orecchie di Itachi, spingendolo a sbuffare e corrugare la fronte,
mettendo giù succo e bicchiere. Passò accanto al
tavolo, acciuffò gli occhiali posati sul libro, e proseguì
verso l’ingresso, montando la sua espressione meno amichevole.
«Sì?»
fece, gelido, aprendo la porta.
«Alla buon ora!»
squillò una voce esasperata, quasi prima che riuscisse ad
aprire del tutto.
Prima
che Itachi capisse con chi aveva a che fare, si sentì urtare,
per poco non inciampò, e si ritrovò con una chiazza
umida nel mezzo della maglietta, una piccola pozzanghera accanto al
tappeto nuovo e un deficiente biondo bagnato fino alle mutande che si
scrollava sul
tappeto
nuovo. La mamma non l’avrebbe presa bene.
Perplesso e vagamente
irritato, Itachi squadrò il nuovo arrivato.
Capelli
biondi, probabilmente tinti, felpa arancione e jeans ad altezza
ginocchio, il tutto coronato da qualcosa come tre litri d’acqua tra
stoffa e materiale
umano.
«Potrei gentilmente
sapere chi sei?» chiese, mantenendosi guardingo.
Il ragazzo si voltò
e lo fissò stralunato. «E tu chi sei?» se ne uscì
all’improvviso, accigliato.
«Io vivo qui»
mormorò Itachi, assottigliando gli occhi scuri.
«Oh.
Uh. Oh!»
esclamò il ragazzo, illuminandosi e schioccando le dita. «Ci
sono! Itachi, il fratello di Sasuke, giusto? Ehilà, è
un bel po’ che non ci vediamo!» e, tutto entusiasta, gli
batté una pacca bagnata sul braccio.
Itachi lo fissò,
rigido.
Il ragazzo sbatté
le palpebre. «Ehi. Sono Naruto. Na-ru-to. L’amico di Sasuke.
A proposito, lui dov’è? Di sopra?»
Senza
perdere tempo Naruto fece un giro su sé stesso – Itachi vide
mille gocce d’acqua schizzare e posarsi su tutti i libri più
delicati di suo padre, e questa volta si chiese solo uno striminzito
ma esasperato ‘perché?’
– e puntò le scale che si inerpicavano verso l’alto in
fondo all’ingresso.
«Sasuke non c’è»
disse Itachi, con un sospiro che sembrava più uno sbuffo.
Ma
certo, Naruto Uzumaki. L’unico biondo naturale nel raggio di
duecentoventi città.
Perché
si era dimenticato una cosa tanto insolita?
E dire che pensava di avere ottima memoria.
Naruto lo fissò
spalancando gli occhi. «Come non c’è?»
«E’ uscito dopo
pranzo, forse è in biblioteca, o qualcosa di simile»
Itachi iniziò a tamburellare con il piede sul pavimento.
«Come in
biblioteca?»
Quel Naruto aveva la
varietà espressiva di un cavatappi.
«Non so che dirti.»
«Ma aveva detto che
sarebbe stato qui!» esplose Naruto, evidentemente indignato.
«Mi aveva detto che se fossi arrivato in ritardo mi avrebbe
ammazzato, come osa non presentarsi?!»
«Ripeto: non so che
dirti.»
«E
io mi sono anche fatto tutta la strada sotto l’acqua, perché
non trovavo l’ombrello, e, effettivamente, ero
in ritardo!» esasperato, si mise le mani tra i capelli e
provocò la rovina di un’altra decina dei poveri libri
impilati nella libreria dell’ingresso. «Come faccio domani?
La Mitarashi mi scuoia vivo, me lo sento!» gemette, disperato.
«Condoglianze»
commentò Itachi, sforzandosi di non sembrare troppo
infastidito. «Ti faccio chiamare quando arriva.»
«Come, quando
arriva?» sbottò Naruto, le pupille dilatate e gli occhi
vitrei.
Itachi
iniziò a pensare che avesse qualche tara mentale. «Quando
Sasuke rientra,» sillabò, chiedendosi perché
esistevano persone con cui la pazienza veniva messa alla prova tanto
intensamente. «gli dico di telefonarti. Così potete
chiarirvi.»
«Ma io non ho
l’ombrello per tornare!» inorridì Naruto. «E
fuori diluvia ancora!»
L’occhio di Itachi ebbe
un guizzo di irritazione, ma lo controllò molto bene. «Te
ne prestiamo uno» disse solerte, e si girò verso il
portaombrelli accanto alla porta.
Vuoto.
Perché,
maledizione, perché?
«Non importa»
sorrise Naruto, allegro come una berta. «Posso restare qui
finché Sasuke non torna.»
PERCHE’?
«Veramente ho da
fare...»
«Oh, non importa,
non importa! Non disturbo, io! Sarò silenzioso come una mosca,
ti dimenticherai persino della mia presenza!»
Difficile. L’ultima
volta che Naruto Uzumaki aveva messo piede in quella casa, aveva
mandato in frantumi un vecchio vaso finto Ming ed era riuscito a
cadere dalle scale, strillando come un maialino sgozzato.
«Ma non c’è
nessuno, oltre a me» insisté Itachi, cercando di
apparire diplomatico. «Ti annoieresti. Già che sei
bagnato, forse ti conviene fare una corsa a casa.»
«Oh, davvero, non è
un problema!» Naruto sorrise smagliante, con l’idea di
rassicurare Itachi. «Io salgo su nella stanza di Sasuke, frugo
un po’ tra le sue cose, e, giuro, non verrò nemmeno a
cercarti. Ah, non rubo niente, eh.»
Ci
mancherebbe solo.
«Senti...»
«Ah, ce l’hai
mica un asciugamano? Sai, sto gocciolando sul pavimento.»
Itachi avrebbe voluto
fargli notare che stava gocciolando sul tappeto nuovo di sua madre.
Che auto-invitarsi in casa d’altri era profondamente maleducato.
Che la sua semplice presenza era gran fonte di disturbo.
Ma poi si chiese perché
sprecar fiato con uno che evidentemente non vuole capire, e,
sospirando, richiuse la porta, che aveva speranzosamente tenuto
aperta fino a quel momento.
«Non ti muovere.
Vado a prendere l’asciugamano.»
Un
quarto d’ora dopo era di nuovo seduto al tavolo della cucina, con
gli occhiali ben inforcati sul naso, e scorreva rapido le righe di
Anatomia
(II),
immagazzinando concetti e soffermandosi di tanto in tanto a
sottolineare una parola. La pioggia ticchettava fuori dalla finestra,
il frigo ronzava nel suo angolo e, appoggiato con noncuranza al
microonde, Naruto succhiava la spremuta dal bicchiere con una
cannuccia rossa, tenendo un asciugamano umido in testa.
«Potresti fare meno
rumore?» sibilò Itachi, scoccandogli un’occhiataccia.
«Uh,
scusa, ho quasi finito» sorrise Naruto, e con un’ultima
succhiata ancora più sonora svuotò anche l’ultima
goccia di ciò che avrebbe dovuto essere di Itachi. «Ualà!»
commentò, posando il bicchiere nel lavandino e facendo
risuonare l’intera cucina.
Itachi si impose la
calma. Da quando aveva avuto la sventurata idea di prendergli
quell’asciugamano, Naruto non solo non era mai salito in camera di
Sasuke, ma si era tolto le scarpe, aveva infilato quelle di suo
fratello, aveva steso la felpa su un termosifone e poi si era
installato in cucina, pretendendo non solo da bere, ma anche una
cannuccia. E Itachi, in quei quindici minuti, si era chiesto almeno
nove perché diversi, metà dei quali comprendenti un
insulto più o meno pesante. E aveva anche raggiunto un nuovo
record di frequenza.
«Vuoi salire nella
camera di Sasuke?» propose posando la matita.
«Mmh... Prima
avresti mica qualcosa da sgranocchiare?» replicò Naruto
con una smorfia, trottando fino al frigo e aprendolo.
All’improvviso sentì
lo sguardo di Itachi perforargli la schiena e si fermò, con la
mano sulla portiera. Si voltò, incontrando i suoi occhi
severi, e arrossì leggermente, togliendosi l’asciugamano
dalla testa.
«Scusa...»
mormorò, richiudendo imbarazzato. «E’ che quando c’è
Sasuke mi comporto sempre come se fossi a casa mia... Non volevo
essere rozzo, è un riflesso condizionato.»
Itachi sbuffò e si
passò una mano tra i capelli, tornando sui libri.
Perché
era passato proprio quel giorno?
«Tu normalmente sei
in collegio, no?» se ne uscì Naruto, senza lasciare
nemmeno un secondo tra un argomento e l’altro. Forse si interessava
a Itachi per scusarsi di poco prima, o forse, più
probabilmente, per ascoltare il suono della propria voce.
«Sì»
rispose Itachi, lapidario.
«Wow. Che figata. E
adesso perché sei a casa?»
«Perché è
andata a fuoco l’ala del dormitorio in cui stavo, e ci hanno
mandati tutti temporaneamente indietro.»
«Wow!» le
pupille di Naruto si dilatarono per l’entusiasmo. «Com’è
successo?»
«Con il treno»
rispose Itachi, chiudendo gli occhi e posando la matita, ormai
rassegnato.
«No, dico
l’incendio! Chissene frega del ritorno, senza offesa.»
«Ah. Uno. Dicono
che abbia acceso uno spinello in camera e poi se lo sia fatto cadere
sul copriletto, addormentandosi per terra.»
«E’ ancora vivo?»
«Non lo so. I suoi
non erano molto contenti di vederlo tornare a casa.»
«Wow.»
Itachi dovette
riconfermare la prima opinione: quel Naruto non aveva alcuna varietà
espressiva.
«E che stai
studiando?» chiese tutto interessato, sporgendosi da sopra il
tavolo.
«Anatomia»
«Cavolo, sembrano
un sacco di pagine... Toh, ci sono anche le illustrazioni a colori.»
«Senti
un po’, perché
parli sempre così tanto?»
finì per domandare Itachi, fissandolo dritto negli occhi.
Naruto si bloccò
nella posizione in cui si trovava, rigido.
«Oh. Scusa. Vuoi
studiare, capito» mormorò, facendo bruscamente marcia
indietro. «Ma non è che parlo sempre tanto. E’ che mi
succede quando sono nervoso. E Sasuke che dà buca mi rende
nervoso»
«Uscite insieme?»
Voleva essere una domanda
assolutamente neutra, non una provocazione, né una presa in
giro. Se Naruto avesse risposto di sì, tanti saluti, se avesse
risposto di no, l’avrebbe buttata sul ridere.
Ma Naruto si scandalizzò.
«No! Dio, no! Che
schifo!» esclamò, avvampando con una rapidità
disumana.
Lo sguardo di Itachi si
raffreddò notevolmente, puntato su di lui. Si sfilò gli
occhiali.
«Tecnicamente, io
sono gay.»
Silenzio.
«Uh.
Cioè. Non intendevo... Il concetto era ‘me
e lui’,
se mi capisci...» farfugliò Naruto, nel panico. «Non
ho assolutamente niente contro... contro, ehm, contro di voi. E’
solo che l’idea che io e lui... Ah ah... Brr!» cercò
di scherzare, con una risata molto poco convinta.
«Capisco»
commentò Itachi, freddo, continuando a fissarlo.
«Non ci stai
provando, vero?» indagò Naruto, sull’attenti.
Itachi sentì una
piccola fitta d’irritazione. «Il fatto che io sia gay non
significa che vorrei farmi tutti i maschi su cui poso lo sguardo»
sibilò, più caustico di quanto fosse sua intenzione.
«No! Non
intendevo... Scusa» bisbigliò Naruto, ormai nel panico
più completo.
«Immagino che anche
tu non voglia farti tutte le ragazze che vedi.»
«Ehm...»
Okay. Discutere con
Naruto Uzumaki era perfettamente inutile.
Itachi inforcò
nuovamente gli occhiali e tornò a chinarsi sul suo libro,
teso. Detestava essere nervoso mentre studiava, faceva il doppio
della fatica.
«Senti, scusa, mi
dispiace» si fece avanti Naruto, dimostrando la sua buona fede
passando dal suo stesso lato del tavolo. «Non volevo dire
niente... E’ solo che sono rivelazioni che colpiscono, sai?»
Itachi pensò alla
volta in cui il suo compagno di stanza aveva scoperto della sua
omosessualità.
«Senti
un po’, ho per le mani una sventola e la cugina... Ci stai domani
sera?»
«Deidara,
sono gay.»
«Oh.
Suppongo sia un no.»
E, la sera dopo, il
doppio con la sventola e la cugina si era trasformato in un doppio
tra le cugine e uno tra loro due.
Non era il caso di
raccontarlo a Naruto.
«Lascia perdere»
si limitò a dire, scrollando le spalle senza alzare gli occhi
dal libro.
Naruto si appoggiò
al tavolo, e giocherellò con il bordo della maglietta,
lanciando occhiate di traverso a Itachi.
«Ehm... pratichi?»
buttò lì, avvampando dietro l’espressione
finto-innocente.
Itachi sollevò lo
sguardo e lo fissò, semplicemente.
«No, sai, per
curiosità!» si difese Naruto, sempre più rosso.
«Insomma, si sentono tante di quelle cose... e io mi
chiedevo... No, niente, fa’ finta di niente!»
«Sei curioso?»
chiese Itachi, interrompendo i suoi balbettii.
«No!» esclamò
Naruto, con voce stridula.
«A livello
teorico?»
«N...» si
zittì, sbattendo le palpebre.
Checché ne dicano
tutti, la prima volta che ha direttamente a che fare con qualcosa che
lo disgusta, l’uomo prova sempre un accenno di curiosità
morbosa. Se, una volta soddisfatta tale curiosità, l’uomo
trova quel qualcosa ancora disgustoso, la faccenda si chiude lì.
Ma se quella curiosità gli fa cambiare idea, allora cambia
tutto quanto.
«Perché?»
chiese Itachi, facendosi attento.
«Come perché?»
replicò Naruto, sulla difensiva.
«Perché
ti interessa?»
«Perché...
boh. Curiosità.»
Itachi lo studiò.
Nervosi giocherelli con le mani, sguardo sfuggente, evidente
incapacità di stare fermo. Tutti i sintomi del mentitore
inesperto.
E allora nascose un
sorriso dietro la mano, e fece rotolare la matita tra l’indice e il
pollice.
«I
rapporti omosessuali sono diversi da quelli eterosessuali»
spiegò. «L’intesa a livello fisico ha molta, molta più
importanza. Certe volte l’innamoramento è solo successivo,
tante altre volte non esiste nemmeno... Non è una questione di
spiritualità, credo sia semplicemente perché sappiamo
come siamo fatti. Mi spiego: tra maschi e femmine il rapporto
sessuale è una scoperta, una frontiera da valicare con estrema
attenzione. Il corpo dell’altro è completamente nuovo, certe
volte il timore supera il piacere, in casi estremi diventa quasi un
simulacro. Ma tra maschi ci si conosce fin dall’infanzia, si va in
bagno gomito a gomito, e il pudore è praticamente bandito.
Quindi è tutto in un certo senso più semplice...»
scoccò un’occhiata obliqua a Naruto. «Il piacere è
un desiderio naturale, e quando l’attrazione è reciproca,
naturale è anche soddisfarlo. E’ ovvio
che
io
pratichi»
Naruto si schiarì
la voce, fissandosi corrucciato le unghie di una mano. La tonalità
assunta dalle sue guance era pericolosamente vicina allo scarlatto.
Parlare di quelle cose era molto più difficile quando non c'erano donne da commentare! Ed era ancora più difficile con un Uchiha.
«Oh, ehm... Allora
parte a livello fisico, eh?» chiese conferma, con un’occhiata
rapidissima.
«Quasi sempre»
sorrise Itachi.
Naruto annuì, a
disagio, e lui contò mentalmente fino a cinque, godendosi il
suo imbarazzo. Poi parlò di nuovo.
«Perché
me lo chiedi?»
«Io?» scattò
Naruto. «Ah, beh, sì... certo» scrollò
goffamente le spalle, fissò il soffitto. «Così,
sai...»
Itachi scosse
impercettibilmente la testa, faticando a mantenersi serio. Il moccioso era
quasi carino, nonostante fosse completamente insopportabile.
«E sentiamo un po’,
che ricerca devi fare con Sasuke?» buttò lì in
tono casuale.
Come previsto, Naruto
fece un salto da terra, e lo fissò ad occhi sgranati.
«Che? Eh? Sasuke?»
squittì sull’attenti.
«La
ricerca» ripeté Itachi, costringendo gli angoli della
sua bocca ad abbassarsi. «La
ricerca»
«Oh,
sì, la ricerca!»
annuì Naruto, fin troppo freneticamente. «Sì,
ehm»
«Quella nella sua
camera»
«Sì!»
si strozzò quasi.
E poi, adorabile colpo di
grazia, la porta dell’ingresso si aprì e Sasuke fece il suo
umido e trionfante ingresso.
«Sono a casa!»
annunciò, mentre Naruto voltava la testa di scatto. «Dove
sono le mie scarpe?»
Itachi sorrise, incrociò
il suo sguardo, e inarcò le sopracciglia. Naruto avvampò
fin sopra le orecchie, e iniziò a iperventilare quando Sasuke
arrivò in cucina.
«Nh? Tu che ci fai
qui?» gli chiese l’Uchiha, vedendolo. «E perché
hai le mie scarpe?» aggiunse dopo un attimo, abbassando gli
occhi.
«La ricerca»
spiegò Itachi, serafico, puntandolo educatamente con la
matita. «Nella tua stanza»
La saliva di Naruto
imboccò la via della trachea, causandogli un violento colpo di
tosse, e i due fratelli lo fissarono.
«Argh,
ehm, veramente si è fatto tardi!» esclamò
riprendendosi. «Davvero
tardi!
Mi sa che beccherò la punizione della Mitarashi, eh... Anzi,
facciamo che domani non vengo direttamente a scuola!» ridacchiò
nervosamente. «Grazie comunque, eh. E ciao, eh»
Sotto lo sguardo
perplesso di Sasuke, si sfilò le scarpe e saltellò
attraverso la cucina con insospettata premura. Quando gli passò
accanto, per un assurdo momento a Sasuke sembrò che evitasse
il suo sguardo, e poi lo fissò mentre arraffava la felpa sul
termosifone e si buttava nelle scarpe ancora umide. Perché le
sue orecchie erano rosse?
«Ma che...»
borbottò, sussultando leggermente alla porta che sbatteva, e
finalmente si voltò a fissare Itachi. «Cosa diavolo gli
hai fatto?»
Itachi sorrise sornione,
inforcando di nuovo gli occhiali.
«Gli ho offerto
qualcosa» spiegò. «Un succo» aggiunse, dopo
un attimo di pausa.
Sasuke sbatté le
palpebre, confuso. «Bah...» bofonchiò poi,
grattandosi la nuca con aria stordita. «Il solito imbecille»
E sbuffando, infilò
le scarpe lasciate da Naruto.
Itachi lo lasciò
andare senza aggiungere altro, ascoltando il rumore dei suoi piedi
sulle scale. Aspettò che la porta della sua stanza si
chiudesse in lontananza, e solo allora si lasciò andare a una
risatina.
All’improvviso
ricordava quando e perché aveva iniziato a chiedersi il perché
delle cose.
Perché
era divertente.
«Perché
me lo chiedi?»
«Io?
Ah, beh, sì... certo... Così, sai...»
Fine.
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Capitolo 5 *** A Enrica - ItaNaruSasu (più o meno... ehm...), AU. - PARTECIPANTE AL CONTEST SULL'EROTISMO ***
Natale8-Enrica
A Enrica,
nonostante il suo compleanno risalga addirittura al 18 dicembre!
Scusa per il terribile ritardo, scusa per i personaggi e scusa
perché è quello che è...
In compenso, se la cosa ti aggrada, puoi considerare regalo unificato
questa e l'altra cosina che devi ancora leggere!
<3
Drowning
Erano
veramente con l’acqua alla gola.
Da
molto tempo respirare si era fatto difficile, quasi vischioso, e ogni
movimento si svolgeva con la massima cautela e ogni cura possibile e
immaginabile. Restare a galla era difficile. Le onde cercavano di
sommergerli ad ogni piè sospinto, e mantenere la bocca sopra
il pelo dell’acqua si faceva sempre più faticoso...
Ma
cedere sarebbe stato peggio. Arrendersi, pur sapendo di avere ancora
una goccia di coraggio in corpo, sarebbe stato semplicemente
patetico.
E
loro no - loro mai
- avrebbero accettato la più terribile delle onte.
Fare
pena.
«Nel
secondo chō*?»
«Niente anche
lì, silenzio assoluto»
«A Nakano?»
«Da due settimane
abbiamo perso i contatti»
«Quelli
di Shinjuku, cazzo?»
«Loro ci sono
ancora. Ma sono a pezzi»
Una mano si mosse rapida,
andando ad afferrare con
rabbia una manciata di capelli neri.
«Ci hanno tagliato
tutti i ponti» sibilò
una voce roca, trattenendo a stento la rabbia. «Siamo
isolati!»
I tre uomini presenti nella
stanza oltre al Capo
rimasero in silenzio, fissandosi nervosamente le scarpe.
Erano nella merda
più molle e vischiosa che
avessero mai incontrato. Anche se fossero riusciti a liberarsene, la
sua puzza sarebbe rimasta attaccata ai vestiti per sempre. Erano
finiti.
Qualcuno sfregò a
terra la suola delle scarpe, un
paio di Nike sporche che anticamente dovevano essere state dorate.
Qualcun altro si schiarì leggermente la voce, quasi a
incrinare il silenzio troppo denso. Il Capo sbuffò di nuovo.
«Andate. Vi
chiamerò io, questa settimana
siete liberi» li congedò asciutto, ignorandoli
l’attimo
successivo. Corrucciato, si chinò sulla scrivania e prese a
fissare una consunta cartina della città, stesa sul piano
scuro del tavolo e piena di segni a penna rossa. Non si accorse
nemmeno del momento in cui due dei tre uomini si guardarono, scossero
la testa e si allontanarono silenziosi.
Il terzo, invece, rimase.
«Sasuke...»
mormorò, facendo un passo
verso la scrivania.
«Ho
detto che potete andare» sibilò lui, stringendo i
pugni
contro il legno e chinando la testa, per nascondere il rossore di
rabbia che gli coloriva il volto. «Sarò io a
chiamarvi,
se
e quando ne avrò voglia»
L’uomo oltre la
scrivania inspirò lentamente,
ferito, ma non insisté oltre. Distolse lo sguardo dalla
testa
china del Capo, e annuì da solo, in silenzio.
«Ho
capito» sussurrò.
Quindi fece un giro su
sé stesso e si avviò
alla porta con passo fermo. Tradì una lieve incertezza
soltanto nel momento in cui la sua mano si posò sulla
maniglia, ma fu di brevissima durata.
Egoisticamente
avrebbe voluto restare; ma sapeva che per l’orgoglio di
Sasuke era
meglio un po’ di solitudine... Un bel
po’, probabilmente. Così, si lasciò
alle spalle il
rumore della serratura che scattava e una parete invalicabile di
orgoglio e disperazione.
Uscì
nell’aria inquinata del quartiere, passando con finta
indifferenza
dal locale di Pachinko**
che era la loro copertura. Fece un vaghissimo cenno al vecchio
proprietario che puliva il pavimento, poi fece tintinnare la
campanella dell’ingresso, e fu fuori.
Il cielo di marzo era coperto
da un sottile strato di
nubi grigie e spugnose, che si mescolavano come volute di fumo. Non
sembrava che volesse piovere, ma in quel mese dell’anno nulla
era
mai certo.
Il ragazzo, che fuori dal
locale non era più un
uomo, ficcò la mano in tasca e ne estrasse un pacchetto
malmesso di Camel. Lo fissò con sguardo assente, come se in
realtà guardasse altro, poi, sospirando, lo rimise via.
Non ancora. Erano nella merda,
non morti.
Alzò lo sguardo e
lo passò tutt’attorno.
La strada era una banalissima via di quartiere popolare, su un lato
della quale si apriva un cantiere. A quell’ora del pomeriggio
passavano soltanto una massaia piena di preoccupazioni e un cane,
forse un randagio. Il ragazzo si passò una mano tra i
capelli,
scompigliandoli con un senso di rabbiosa frustrazione.
Il
mondo restava sempre indifferente alle calate.
Le
ascese no, quelle erano celebrate in pompa magna e tripudio di
stendardi, ma calate e cadute passavano in sordina, ricordate qua e
là con miseri sussurri di compatimento.
A
nessuno interessava chi scendeva la china. Come
la società ignorava vecchi e deboli, l’interesse
ignorava
chi aveva perduto il potere, per quanto grande fosse stato. E loro...
oh, sì, loro ne avevano avuto tanto, di potere: uomini nei
quartieri di mezza città, informatori, collaboratori,
infiltrati nella polizia, reti di lavoro efficienti e ben oliate. Un
piccolo e fruttuoso impero che si reggeva
sull’illegalità –
ma quale impero non lo faceva?
La
polizia vedeva e taceva, in cambio di piccole bustarelle natalizie, e
anche le autorità erano disposte a chiudere occhi, naso e
orecchie con un minuscolo incentivo
morale,
per così dire. Era un perfetto sistema do
ut des,
e non era mai entrato in conflitto con nessun altro organismo simile.
Chissà
cos’era andato storto. Forse all’inizio era stata
colpa delle
autorità, che avevano preteso di più. O della
polizia,
che aveva avuto una fiammata di moralità... O forse il
problema era interno alla compagnia, e ne minava da sempre le
fondamenta con un virus chiamato avidità.
Qualunque
fosse, era riuscito rapidamente a distruggerli: nell’arco di
pochi
mesi, settimane quasi, la loro rete si era completamente sfaldata.
Gli uomini erano scomparsi, morti o traditi, i confini del loro
impero si erano fatti frastagliati, e poi sfilacciati, infine a
brandelli. Del loro potere non era rimasta che una grande bolla di
sapone, ed erano fin troppe le dita pronte a farla scoppiare.
Ma forse era inevitabile,
rifletté il ragazzo.
Con
la mani premute a fondo nelle tasche, prese a camminare lungo la
strada senza una meta precisa. Il loro mondo si reggeva sulla
precarietà, sul carpe
diem
continuo e ininterrotto. Oggi la fortuna gira, domani
chissà.
Cogli il momento finché sei sulla cresta
dell’onda, e cerca
di discenderla con stile. L’importante è non
cadere, certo.
Eppure, anche se erano caduti,
e pure rovinosamente, lui
non provava vergogna, rabbia, o disperazione. Si era in un certo
senso rassegnato a quell’idea da molto tempo, forse ancora
prima
che tutto iniziasse. Sì, doveva essere così,
perché
non riusciva a scovare nemmeno un briciolo di delusione dentro di
sé.
Se si guardava, vedeva solo una grande malinconia.
La loro compagnia, per quanto
precaria, dissolta.
Persone che si erano salvate
la vita a vicenda, ora
erano separate e destinate a diventare rivali, o peggio cadaveri.
Il ricordo delle bevute in
compagnia sarebbe diventato
unicamente un ricordo... e presto anche Sasuke. Lo conosceva. Sapeva
che non sarebbe rimasto a farsi guardare mentre cadeva, sapeva che
avrebbe preferito affondare da solo, che forse ci avrebbe anche
provato.
E lui, come uno scemo, sarebbe
rimasto a guardare.
Ho
detto che potete andare.
Gli ordini non si discutono,
vero teme?
Si accorse
dell’altro ragazzo quando ormai gli era
quasi andato a sbattere addosso. All’improvviso la sua ombra
incespicò nei piedi di un uomo, e allora ricordò
di
essere ancora un essere umano in un mondo di uomini, e si decise ad
alzare lo sguardo.
Il cuore gli
rimbalzò nel petto con un sussulto
improvviso. Conosceva la persona che gli si era parata davanti.
Quello gli sorrise, amabile,
le mani infilate nelle
tasche del lungo cappotto di tweed nero e i capelli elegantemente
raccolti alla base della nuca. Sebbene i suoi lineamenti fossero
totalmente diversi da quelli di Sasuke, era innegabile che Itachi
Uchiha ne fosse il fratello: avevano gli stessi, identici occhi... ma
sguardi diametralmente opposti.
«Naruto
Uzumaki» Itachi chinò
lievemente il capo, aspettandosi che il ragazzo rispondesse al
saluto; ma quello rimase rigido a fissarlo, nervoso, e non fece
nulla.
Il sorriso si
raffreddò lievemente sul viso
liscio dell’Uchiha, ma non scomparve. Con delicatezza
estrasse le
mani di tasca e fece un cenno indicando la strada, come lo avrebbe
fatto per lasciare la precedenza a una donna.
«Posso offrirti
qualcosa?» chiese
serenamente.
«Cosa?»
scattò Naruto,
istantaneamente rigido.
«Un tè,
un caffè, una coca, un
alcolico... Quello che preferisci»
«Perché?»
«Perché
c’è qualcosa di cui vorrei
parlare con te»
Era inutile aggiungere che
quel qualcosa riguardava
Sasuke.
Itachi avrebbe voluto prendere
un taxi e spostarsi in un
quartiere più ricco, per portarlo in un locale che
conosceva,
ma Naruto rifiutò categoricamente di allontanarsi. Dovettero
accontentarsi di un piccolo bar sporco all’angolo della via,
e
Itachi ci entrò nascondendo perfettamente il disgusto.
Presero posto
nell’angolo più lontano
dall’ingresso, che era anche il più buio e meno
igienico, e
Naruto appoggiò i gomiti sul tavolo con nervosa aria di
sfida.
«Allora?»
esordì, senza girarci
intorno.
Itachi si accomodò,
apparentemente a suo agio,
guardandosi attorno con ostentata calma.
«Allora?»
insisté Naruto, digrignando
i denti.
«Un
caffè» disse lui all’uomo che
li aveva raggiunti, e si puliva le mani in un grembiule macchiato.
«Tu cosa prendi?» aggiunse rivolto a Naruto.
«Una coca»
sibilò quello rapido,
incassando la testa tra le spalle.
«Un caffè
e una coca» ripeté
Itachi, e l’uomo annuì, li squadrò per
un lungo
istante, e si avviò verso il bancone zoppicando leggermente.
«Senti, se siamo qui
perché ti annoi,
allora...» sbottò Naruto, stringendo una mano
all’altra
con irritazione, ma Itachi lo interruppe prima che concludesse la
frase.
«Sasuke come
sta?» chiese distaccato,
sfilando di tasca un pacchetto di Lucky Strike.
Le spalle di Naruto si
irrigidirono, i suoi occhi si
affilarono immediatamente. Non rispose, e Itachi gli lanciò
un’occhiata rapida, mentre accendeva la sua sigaretta.
«Naruto, non sono
qui per minacciarvi»
sospirò, con aria annoiata. «La nostra compagnia
cresce
sulle rovine della vostra, non abbiamo alcun bisogno di infierire:
ormai siete condannati. Tutto quello che mi interessa...»
fece
un piccola pausa, sporgendosi leggermente sul tavolo, e per un attimo
espirò brevemente, lasciando che il fumo si sollevasse sul
tavolo. «Quello che mi interessa, è soltanto mio
fratello»
«Lo so»
sibilò Naruto, serrando i
pugni. A Itachi era sempre interessato Sasuke, così come a
Sasuke era sempre interessato Itachi, più che la sua
organizzazione. Tutti ne erano al corrente.
«Allora, come sta
mio fratello?» ripeté
l’Uchiha, fissando Naruto dritto negli occhi.
«Come pensi che
stia?» irritato, Naruto
guardò altrove.
A
Sasuke era sempre importato di Itachi. Solo
di Itachi.
Per questo lo odiava.
«Lo
immaginavo» Itachi si lasciò
scappare un piccolo sorriso, giocherellando con la sigaretta accesa.
«E’ sempre stato molto orgoglioso»
E
tu che ne sai?,
avrebbe voluto chiedergli. Da
quanti anni non gli rivolgi la parola?
«Che
vuoi?» sussurrò cupamente,
schivando i suoi occhi.
Itachi sospirò.
«Siete sempre così
sospettosi nel vostro gruppo, o è una novità
degli
ultimi tempi?»
«Te l’ho
detto, se vuoi solo perdere tempo hai
sbagliato persona»
«Ma io non voglio
perdere tempo»
Itachi puntò gli
occhi in quelli di Naruto, e lui
non riuscì ad evitarlo. Odiava che quegli occhi fossero
tanto
uguali a quelli di Sasuke, e odiava l’idea che Sasuke,
guardandosi
allo specchio la mattina, fosse costretto ad incontrarli.
L’insulto si
acquattò sulla punta della lingua,
pronto a sferzare violentemente il nemico, quando il barista
tornò
all’improvviso con le loro ordinazioni.
«Caffè.
Coca» borbottò
monotono, e posò il primo davanti a Naruto, e il secondo
davanti a Itachi.
L’Uchiha, senza dire
nulla, annuì brevemente e
li scambiò, mentre l’uomo se ne andava. Naruto
afferrò
il suo bicchiere e lo strinse per scaricare la tensione,
finché
le nocche della mano non sbiancarono.
«Mi stai dicendo che
siamo qui perché vuoi
sapere come cazzo sta tuo fratello?» sibilò
astioso.
«Non ti bastano gli informatori che hai
già?»
Itachi sorrise, e prima di
rispondere lo fissò a
lungo.
«Gli informatori
possono dirmi tutto sulla sua
situazione finanziaria» spiegò pazientemente.
«Ma
chi meglio di te potrebbe informarmi sulle sue condizioni come essere
umano?»
Naruto si sentì
arrossire, affrettandosi a
guardare altrove.
Chi
meglio di te?
«Se tu davvero
volessi informazioni su tuo
fratello, le chiederesti a lui, non a me...»
borbottò
corrucciato. «Sai che non aspetta altro»
Itachi continuò a
sorridere, imperterrito,
sorseggiando lentamente il suo caffè. Naruto
giocherellò
nervoso con la coca-cola, e gli lanciò un’occhiata
veloce.
Forse avrebbe potuto muoversi talmente bene da spingere i fratelli
Uchiha sulla via della riconciliazione... E una volta ottenuta
quella, anche la salvezza per la compagnia sarebbe seguita a ruota.
Ma voleva davvero che Sasuke e
Itachi si
riavvicinassero?
«Allora
credi che potrei entrare nel locale di Pachinko
a
duecento metri da qui e chiedere a Sasuke come sta?»
domandò
Itachi a quel punto, posando il caffè e intrecciando le dita
sotto il mento.
Naruto deglutì,
involontariamente costretto a
fissare i suoi occhi. Perché ogni volta che succedeva aveva
l’impressione di essere sfidato? Perché gli
sembrava sempre
di essere sotto esame?
Reticente, si strinse nelle
spalle. «Certo...»
mugugnò abbassando il viso.
«Ma oggi io sono
molto impegnato» sbuffò
Itachi, quasi con un leggero senso di rimpianto.
«Non abbastanza,
direi» replicò
subito Naruto, accennando al suo caffè.
Itachi sorrise enigmatico, e
svuotò la tazzina.
«Già, forse non abbastanza...»
Naruto rimase in attesa di
altro, una spiegazione, una
richiesta, qualunque cosa; ma, con suo grande sconcerto, Itachi si
limitò a pulirsi le labbra con un tovagliolo di carta e a
fare
un cenno al barista per pagare il conto.
Cosa
vuole davvero?, si
chiese turbato. Perché
è qui?
Svuotò in un colpo
solo la coca-cola, sentì
le bollicine risalire su per il naso fino a fargli lacrimare gli
occhi. Itachi, davanti a lui, si alzò dalla sedia senza
degnarlo di uno sguardo, ma rimase accanto al tavolo in sua attesa.
Naruto sbatté il
bicchiere sul piano di plastica
e si tirò su, torvo. Quindi Itachi era venuto lì,
l’aveva innervosito e ora se ne andava senza nulla di fatto.
Gli
faceva tanta rabbia che lo avrebbe volentieri aggredito. Invece si
limitò a incassare la testa tra le spalle e avanzare verso
la
porta, ansioso di allontanarsi dall’aria pesante del locale e
tornare a immergersi nella sua solitaria malinconia. Gli faceva
schifo essere triste, ma era sempre meglio che ronzare attorno a
Itachi Uchiha.
Quando arrivò alla
porta e stese la mano per
aprirla, si rese conto anche del perché fosse
così.
«Prego»
sussurrò Itachi, precedendolo
sulla maniglia. Facendolo, si trovò –
involontariamente? –
a chinarsi dietro la schiena di Naruto, e per un istante il suo
respiro gli solleticò il collo.
Naruto sentì il
sangue salire alle guance, per
l’irritazione e anche per altro, e di scatto, senza
ribattere, uscì
dal bar e si avviò lungo la strada. Non si girò
neanche
una volta.
Il pelo dell’acqua
aveva raggiunto la bocca.
Ormai dovevano annaspare con
il naso, se non volevano
morire soffocati, e Naruto si rese conto all’improvviso che
erano
rimasti solo in tre: lui, Sasuke e il vecchio strambo Jiraya.
Ancora una volta avevano fatto
il punto della
situazione, contato defezioni e morti, e avevano raggiunto la
conclusione che la fine era a un tiro di sputo; ancora una volta
Sasuke aveva preteso di essere il primo ad affondare, e li aveva
congedati senza guardarli negli occhi; e, ancora una volta, Naruto
aveva capito che l’umiliazione era troppa e troppo pesante.
Che,
probabilmente, se Sasuke fosse scivolato sott’acqua non
sarebbe più
tornato su.
Quando
lasciò il locale di Pachinko,
di nuovo fu colto dalla tentazione di fumare il pacchetto di Camel
nelle sue tasche. Giaceva lì da anni, con gli angoli
rovinati
e i colori sbiaditi, e simboleggiava la fine, l’ultimo
tassello di
una rovina iniziata tempo prima. Ma ancora una volta lo
lasciò
intatto. Lo guardò, e lo guardò ancora, poi lo
infilò
in tasca senza aprire bocca.
Quando rialzò lo
sguardo, Itachi era lì.
«Allora, come sta
Sasuke?»
Naruto ebbe uno scatto
nervoso. «Vai a
chiederglielo!» ringhiò aggressivo, stringendo i
pugni.
Erano nel cantiere che si
apriva lungo la strada davanti
al Pachinko, e il vento fischiava tra le travi coprendo il suono
delle loro voci. Itachi, stretto nel suo cappotto, scostò
una
ciocca di capelli dal viso, e socchiuse gli occhi.
«Ha alzato il muro,
vero?» domandò,
con voce a malapena percepibile nelle folate.
Naruto tacque. Non
c’era nulla che sapesse dire.
«Lo fa sempre,
quando si trova in difficoltà.
Per orgoglio è disposto ad andare a fondo e trascinare tutti
gli altri. Anche te» continuò Itachi, pacato, e fu
proprio la calma nella sua voce a irritare Naruto.
«Perché
lo dici a me?!» scattò,
furioso. «Perché continui a cercare me, invece di
andare
da lui? Sai tutto ciò che succede, sai come sta, eppure
continui a seguire me! Sei uno stronzo bastardo cagasotto!»
L’Uchiha sorrise a
malapena, nient’affatto turbato.
«Hai
paura?» domandò sottovoce.
Naruto si irrigidì.
«Hai paura di
vederlo scivolare via, giorno dopo
giorno, e non poter fare nulla? Quando sarà affondato, tu a
chi ti aggrapperai?»
Naruto scosse la testa.
«Idiota»
sibilò, a sguardo basso e
denti stretti. «Che ne sai tu di quello che voglio
io?»
Non andartene.
Non andare da solo.
«...Capisco»
Itachi prese ad avanzare,
sotto l’espressione tesa di
Naruto.
«Cosa
vuoi?» inveì lui, facendo un
passo indietro. «Vai da Sasuke!»
«Chi sei tu per
Sasuke?»
La mascella di Naruto si
serrò contro la
mandibola in uno spasmo d’irritazione.
Vattene!
Stai lontano da me!,
avrebbe gridato, se solo la voce avesse risposto.
E invece rimase muto e
immobile, aspettando che Itachi
si avvicinasse, e quando fu a meno di un braccio da lui
sentì
tornare il rossore che lo aveva colto all’uscita dal bar,
l’ultima
volta.
Avevano
gli stessi, identici occhi...
e Naruto, quegli occhi, li amava.
«Vai da
Sasuke» ripeté, roco. «Non
da me»
Perché, sebbene
amasse quegli occhi, sapeva verso
chi erano rivolti.
Itachi non sorrideva.
Immobile, fissò Naruto con
un’intensità quasi dolorosa, come aghi ardenti
sulla pelle.
«Se io andassi da
Sasuke, so già cosa
vedrei» mormorò, e una folata di vento spinse i
suoi
capelli fin contro il viso. «Orgoglio. Disperazione.
Solitudine. So di cosa ama rivestirsi mio fratello. Ma tu...»
Lentamente, sollevò
una mano e posò un
singolo polpastrello contro la guancia fredda di Naruto, facendolo
sobbalzare.
«Tu sai cosa
c’è dietro, non è
vero? Tu hai guardato fino in fondo a Sasuke, a te è stata
concessa l’ultima chiave; sai cosa nasconde»
Il suo dito scorse leggermente
lungo il viso, seguito da
un altro, e un altro ancora; finché l’intero palmo
non
accarezzò il collo di Naruto, e la mano affondò
tra i
capelli della nuca.
«Come sei riuscito
ad arrivare fin là?»
chiese in un sussurro. «Cosa hai fatto per oltrepassare
l’ultima barriera?»
Naruto rimase immobile sotto
lo sguardo di Itachi. Il
suo corpo vedeva soltanto gli occhi degli Uchiha, non tutto il resto,
e, purtroppo, reagiva di conseguenza. Il respiro correva affannato
nel petto, le labbra serrate e livide erano strette sotto i denti,
così come le unghie affondavano nei palmi delle mani.
Itachi, non Sasuke.
Itachi.
«Perché,
a te, lui ha permesso di vedere?»
mormorò Itachi, con suadente lentezza.
E
poi, senza preavviso, fu lì, a pochi millimetri dalle sue
labbra. E altrettanto improvvisamente le sue
labbra furono loro.
«Come ci
sei riuscito?»
«L’ultima
barriera»
«Cosa hai
fatto?»
«Perché
a te...?»
Ricordi confusi e parole,
nella sua testa.
Naruto non ricordava come
fosse arrivato in quella
stanza d’albergo, ma iniziava fortemente a sospettare che
Itachi,
in qualche modo, lo avesse drogato.
Rimase rannicchiato in un
angolo del letto, avvolto
strettamente alle lenzuola, e fissò la parete bordeaux
davanti
ai suoi occhi.
«Cosa hai
fatto per oltrepassare l’ultima
barriera?»
Quella era la domanda che, per
assurdo, gli era rimasta
più impressa... E poi, c’erano il calore di Itachi
sotto le
sue mani, la sensazione morbida dei suoi capelli tra le dita, i baci
sul corpo e sulla bocca, i brividi, gli ansiti, il suo odore, il suo
sapore, e la confusione tra lui e Sasuke, in ogni gesto, in ogni
istante.
Distrattamente,
sentì che l’acqua della doccia
veniva chiusa nel piccolo bagno della stanza, e un brivido gli corse
lungo la schiena.
Ora Itachi sarebbe rientrato.
Lo avrebbe guardato negli
occhi. E Naruto avrebbe capito di aver dato l’ultima spinta a
Sasuke, quella definitiva che lo avrebbe portato sul fondo.
La porta scattò
debolmente, nella luce ambrata
delle lampade. Naruto si irrigidì, serrando convulsamente le
dita alle lenzuola. Sentì i movimenti sommessi di Itachi
alle
sue spalle, il fruscio dei vestiti, il tonfo impercettibile
dell’asciugamano gettato sul letto. Quando sentì
la sua voce
per poco non trasalì, sorpreso di avvertirla tanto forte.
«Non devi
preoccuparti per il conto»
«Non
l’avrei fatto comunque» trovò
la forza di bofonchiare.
Silenzio. Il rumore
impercettibile di una cravatta che
veniva annodata. Qualcuno deglutì.
«Hai trovato quello
che cercavi?» sussurrò
poi Naruto, torvo. «Qualunque cosa fosse...»
Non arrivò nessuna
risposta. Naruto contò
fino a dieci, poi fino a venti, ma a ventitré perse la
pazienza e scattò a sedere, voltandosi bruscamente.
«Che
cosa volevi?» sbottò. «Perché
hai fatto
tutto quanto, se ciò che ti interessa e ti è
sempre
interessato è tuo fratello? Perché coinvolgermi,
perché
mentire, perché questo?»
Itachi gli gettò
un’occhiata distratta, e tornò
ad allacciare i bottoni sulle maniche.
«Voi Uchiha siete
dei maledetti idioti»
sibilò allora Naruto, passandosi una mano tra i capelli.
«Cazzo»
«Mio fratello non
esiste» mormorò
Itachi inaspettatamente.
Naruto corrugò la
fronte e risollevò la
testa, rabbiosamente confuso.
«Davanti ai miei
occhi esiste solo Sasuke Uchiha»
continuò Itachi. «La stessa immagine che mostra
alla
gente, e che non è quella che conoscevo da bambino. Sono
tanti
anni che cerco il vecchio Sasuke, da qualche parte. Tanti anni che
questo mondo minaccia di schiacciarlo e fargli dimenticare chi
è...
Poi ho trovato te»
Itachi fece una pausa,
sistemandosi il colletto della
camicia.
«Pensavo seriamente
che sarebbe stata una donna a
cambiarlo» proseguì. «Che avrebbe
scoperto l’amore
e forse la sua maschera si sarebbe trasformata, o, per assurdo,
sarebbe scomparsa. Sapevo che se fosse successo sarebbe morto,
perché
è così che vanno le cose, perché il
vero Sasuke
non è abbastanza forte per stare qui, ma lo credevo lo
stesso.
E invece quella donna non c’è stata, e ci sei
stato tu. Ma
la sua maschera, con me, non è caduta»
Naruto sbatté le
palpebre, interdetto.
«Tu...?»
mormorò confuso.
«Se so che tu e
Sasuke siete amanti? Naturalmente.
Se mi pento di averti spinto al tradimento? No. Era necessario.
Volevo capire. Speravo di trovare Sasuke dentro di te, o almeno di
intravederlo»
«E ci sei
riuscito?»
Itachi non rispose. Dopo un
lungo istante voltò
il viso e si avvicinò allo specchio, per sistemarsi i
capelli,
ancora umidi dopo la doccia.
Naruto strinse un pugno e
gettò indietro le
coperte, balzando in piedi.
«Sei uno stupido
idiota cieco!» sbottò,
portandosi alle spalle di Itachi e fissando rabbiosamente il suo
riflesso nello specchio. «Tu e lui, tu come lui... Voi siete
uguali! Se cerchi Sasuke non devi guardare dentro di me, ma dentro te
stesso! Li vedi quegli occhi? Di chi credi che siano?»
Itachi smise di armeggiare con
l’elastico e si bloccò.
Fissò il proprio
riflesso, altrettanto immobile,
e per un attimo, con la coda dell’occhio, gli parve quasi di
riconoscere un altro viso. Corrugò la fronte.
«Tutti e due siete
così impegnati a salvare
l’orgoglio da non accorgervi di
nient’altro» continuò
Naruto, con voce bassa e vibrante. «Sasuke si
lascerà
morire, e tu lo lascerai fare, perché tutti e due siete
stupidi e ciechi! Non fate altro che cercarvi e cercarvi e cercarvi,
ma non vi vedete mai perché siete occupati a nascondervi!
Ahh,
mi fate incazzare!» esasperato, si mise le mani nei capelli e
li scompigliò furiosamente.
Ma Itachi non si mosse.
Soltanto i suoi occhi scorsero
lungo il viso, con una lentezza nuova e studiata. Scavarono tra le
piccole rughe d’espressione, lungo il contorno degli zigomi,
il
mento, la bocca, e poi scrutarono sé stessi, intenti,
pensierosi.
Sasuke era dentro di
lui, lo era sempre stato.
E tutt’a un tratto,
per un brevissimo istante, gli
sembrò di intravvederlo.
Ne fu sinceramente stupito.
Non si era mai osservato
troppo attentamente allo specchio, ma per la prima volta
capì
di non essersi mai guardato davvero.
Sasuke, lo stesso Sasuke con
cui era cresciuto e che
credeva di avere perso, in realtà era sempre stato
lì,
in un angolo della sua memoria, o forse della sua coscienza, in
attesa di essere guardato come quando erano bambini. E lui non se ne
era mai accorto.
Non se ne era mai accorto
prima di incontrare Naruto.
Lo cercò con la
coda dell’occhio, scrutando il
riflesso della stanza attraverso lo specchio. Lo vide in fondo al
letto, mentre si infilava rabbiosamente i pantaloni, e socchiuse
leggermente le palpebre.
Inavvertito, lo raggiunse con
passo felpato. Si prese un
paio di secondi per guardarlo imprecare con la lampo dei jeans, poi,
delicatamente, gli afferrò un polso.
Naruto trasalì,
sulla difensiva, e lo fissò
guardingo.
«Che vuoi
ora?»
«Dove vai?»
«L’ho
chiesto prima io»
«Voglio sapere dove
vai»
Naruto mugugnò
contrariato: detestava perdere con
la logica.
«Da
Sasuke» grugnì distogliendo lo
sguardo. «Prima che decida di legarsi una pietra al collo,
idiota com’è»
Itachi sorrise a malapena,
allentando la stretta sul suo
polso.
«Lo
salverai» sussurrò piano. «Tu
puoi»
Naruto sbatté le
palpebre arrossendo.
«Eh?»
fece, balbettando leggermente, e di
scatto allontanò il polso.
«Ti affido mio
fratello» continuò
Itachi. «Voglio che sopravviva, e voglio che lo faccia con
te.
Se fallirai, mi costringerai ad ucciderti»
Naruto strabuzzò
gli occhi e avvampò
contemporaneamente.
«Cos...? Ma che
è, sei suo padre e io la
sposa?! Cosa blateri? Brutto deficiente, guarda te se sono discorsi
da...»
Non finì mai la
frase.
Con la maglia stretta nella
destra e il bottone dei
jeans ancora slacciato, si trovò la mano di Itachi premuta
sulla nuca e le sue labbra contro le proprie.
Itachi non lo
lasciò andare subito. Gli riservò
un bacio lungo e lento, senza tuttavia spingersi oltre.
In fondo all’anima
era convinto di aver ritrovato
Sasuke grazie a Naruto. Come se lui, in qualche modo, avesse avuto
anche la sua, di chiave.
Naruto era una persona
spaventosa. Strana, impulsiva,
irragionevole, ma spaventosa.
Riusciva ad aprire serrature
delle quali si ignorava
addirittura l’esistenza, e con il suo sangue caldo si faceva
strada
attraverso i corpi più gelidi. Naruto Uzumaki fendeva
qualunque resistenza, senza mai perdere se stesso.
Quando Itachi si
allontanò dalle sue labbra, gli
accarezzò i capelli fino a scompigliarli.
«Vai»
sussurrò contro la sua bocca,
ancora leggermente affannata. «Torna da Sasuke»
«Nel
secondo chō?»
«Niente di
nuovo»
«A Nakano?»
«Tutto sotto
controllo, abbiamo respinto anche gli
ultimi uomini degli Aburame»
«Quelli
di Shinjuku?»
«Proliferano.
Abbiamo preso il controllo di due
case da gioco e una sala da tè»
«Ottimo»
Sasuke sorrise del sorriso
tronfio che riservava ai
giorni migliori, e levò gli occhi dalla cartina nuova che
era
dispiegata sulla scrivania.
«Bel lavoro, questa
settimana avrete degli extra»
Gli uomini nella stanza si
scambiarono occhiate
soddisfatte e pacche sulle spalle, promettendosi bevute su bevute.
Non erano più due, né tre, né cinque.
Ormai otto
facce tra nuove e vecchie si scambiavano occhiate moderatamente
fiduciose, e l’aria era nettamente più
respirabile. Naruto,
fermo in un angolo con le braccia conserte, taceva e si limitava a
sorridere.
Sasuke
congedò i suoi uomini con espressione soddisfatta, e li
guardò
uscire dall’ufficio parlottando come giovani commilitoni.
L’ultimo
ad andarsene fu il vecchio Jiraya, che prima ancora di essere fuori
lanciò un grido di richiamo al gestore del Pachinko,
annunciandogli grandi perdite, infine rimase solo Naruto.
Si scambiarono
un’occhiata d’intesa, che sostituiva
qualunque parola, mentre Sasuke infilava nel portamatite il
pennarello con cui aveva segnato la cartina. Si passò una
mano
tra i capelli, che da qualche tempo erano tornati lucenti e in
ordine, e oltrepassò la scrivania fino a raggiungerlo.
«Andiamo?»
chiese, e Naruto annuì,
affiancandolo.
Richiusero
la porta dell’ufficio con un doppio giro di chiave, passarono
attraverso il Pachinko
mezzo pieno per uscire in strada. Il vecchio proprietario li
salutò
sfoggiando i nuovi denti d’oro che gli ornavano la bocca, e
Naruto
ridacchiò dell’orgoglio con cui li portava.
Ignorarono gli inviti di
Jiraya e di un paio di uomini,
e invece uscirono all’aria aperta, sotto il sole di maggio.
Naruto
levò gli occhi al cielo limpido e inspirò
l’aria del
quartiere, avvertendone il sottile retrogusto di smog.
Abbassò
poi lo sguardo, e sorrise guardando il nuovo palazzo che era sorto
all’altro lato della strada, dove prima c’era il
cantiere.
«A che
pensi?» gli chiese Sasuke, rovistando
in tasca alla ricerca di un accendino, con la sigaretta già
stretta tra i denti.
«Penso che va tutto
bene» rispose lui,
tirando fuori un pacchetto consunto di Camel.
«Da quando Akatsuki
si è ritirata dal porto
va più che bene» rincarò Sasuke,
trovando
finalmente l’oggetto della sua ricerca. «Ora siamo
all’asciutto»
«Sì,
siamo all’asciutto» ripeté
Naruto, soppesando le sigarette nella mano.
«Vai. Torna
da Sasuke»
Naruto aveva fissato
Itachi con occhi leggermente
smarriti, poi aveva sorriso.
«Tu e lui
avete sempre guardato dalla stessa
parte» aveva commentato, con un leggero senso di amarezza.
«Dici?»
Itachi non aveva
detto che sia lui che Sasuke avevano
guardato attraverso Naruto, ma aveva lasciato che lui lo capisse da
solo, o che, un giorno, fosse lo stesso Sasuke a spiegarglielo.
«Stai per
fare qualcosa con Akatsuki, vero?»
aveva chiesto Naruto a quel punto.
Itachi si era
limitato a sorridere enigmaticamente,
senza ribattere, finché, prima di indossare il cappotto, non
gli era venuta in mente una cosa.
«Quelle
sigarette che ti porti sempre dietro...
Se fossi in te le getterei. Non sono pesanti?»
Le aveva tenute in mano tante
e tante volte, senza mai
fumarle. Ma quel giorno, in quel sole, con quel Sasuke accanto, a
Naruto sembrò che il pacchetto di Camel fosse di un quintale.
Sin dall’inizio si
era aspettato che sarebbero
affondati, e aveva conservato le sigarette a quello scopo: prima di
andare giù, si sarebbe fatto una poco sana fumata con
Sasuke,
e poi lo avrebbe seguito.
Ma ora non serviva
più. Ora erano a galla, e si
sarebbe sforzato di restarci, per salvare sé e Sasuke,
perché
Itachi glielo aveva chiesto, perché sì.
Con noncuranza, fece volare il
pacchetto ancora integro
verso il più vicino bidone della spazzatura, e quello
rimbalzò
sul bordo e cadde dentro con un tonfo metallico.
Sasuke lo lasciò
fare inarcando un sopracciglio,
poi gli scompigliò i capelli con una mano, espirando la
prima
boccata della sua sigaretta.
«Sei fortunato che
le Camel mi fanno schifo»
commentò. «Altrimenti ti avrei picchiato»
«Ma tu fumi solo
Lucky Strike» ghignò
Naruto.
Come lui.
*
Chō:
blocco di edifici di estensione variabile all’interno di un
quartiere; il numero dei chō è uno degli elementi di un
indirizzo giapponese.
** Pachinko:
passatempo assai diffuso in Giappone che consiste nel lanciare biglie
d’acciaio all’interno di un circuito, tentando di
provocare la
caduta di ulteriori biglie, che diventano patrimonio di chi gioca. Le
biglie conquistate possono essere sostituite con premi, a loro volta
spesso convertibili in soldi, anche se in teoria il gioco non
dovrebbe permettere di ottenere vincite in denaro.
-
Note tratte da: “Kafka
sulla Spiaggia”,
di Murakami Haruki -
|
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Capitolo 6 *** A Letizia - JiraTsu ***
Natale4-Leti
A Leti, aka Kaho_chan,
anche se ormai Natale è passato, Pasqua pure, e quasi arriviamo a ferragosto... XD
Ma ogni giorno è buono per farsi un po' di male, no?
<3
Probabilmente sono stupido
Seduto su una sediolina assolutamente idiota, nascosto
dietro a una rivista che non so nemmeno di cosa parli, li spio come
l’ultimo dei deficienti.
Non
è che io non abbia niente da fare... E’ che ho questo
da fare, ecco.
Sì.
Devo essere decisamente stupido.
Sposto il peso da una natica all’altra, sfoglio una
pagina con aria casuale, sbircio dal margine superiore della rivista.
Sono ancora lì, appoggiati al parapetto. Non si
parlano neppure. Non ne hanno bisogno, direbbero.
Ahh,
mi dà il voltastomaco!
Che poi, adesso che me ne accorgo, a ore due c’è
un bel bocconcino. Bionda, formosa, con l’aria un po’ tonta.
Forse ci scappa una bottarella, se mi impegno.
Alt, ma che faccio? Mi distraggo? In piena missione? Non
è degno di me, proprio no.
Distolgo lo sguardo e torno a posarlo sulle mie prede, o
almeno sul punto in cui si trovavano fino a un attimo fa. Ma loro non
ci sono più.
Mi alzo di scatto, con la rivista ancora davanti alla
faccia, e scruto sospettoso il lungofiume. Eccoli, hanno ripreso a
passeggiare verso sud, li vedo camminare a qualche metro di distanza.
Accidenti a me e alle bionde formose.
Lascio perdere la rivista e raggiungo rapidamente la
balaustra che separa strada e argine. Scavalcarla è un gioco
da ragazzi, evitare di cadere sulle rose che ci sono alla base un po’
meno. Estraggo le spine dai polpacci e, imprecando sottovoce,
ricomincio il pedinamento.
Mi sento un po’ idiota, per essere onesto. Un po’
tanto idiota. E un filino masochista.
D’altronde, se così non fosse non mi troverei
in queste condizioni, e dunque tutto fila ed è normale.
Si fermano di nuovo, lui indica qualcosa in lontananza,
lei guarda il cielo e sorride. D’istinto anche io li imito e cerco
tra le nuvole quello che hanno visto, ma per me non c’è
nulla. Salvo quel cirrocumulo che sembra il vecchio Sarutobi. Uh, non
vorrei distrarmi di nuovo.
Mi affretto ad abbassare lo sguardo e vedo che hanno
ripreso la loro passeggiata, com’è giusto che sia. Continuo
a seguirli scivolando discreto lungo l’argine, e faccio in modo di
svuotare accuratamente la testa. E’ inutile pensare a quanto io sia
avvilente, o a quanto l’intera situazione sia patetica; non
corrisponde alla mia immagine, e non mi tirerebbe affatto su di
morale. Posso comportarmi come uno shinobi in missione, però:
testa vuota, sensi all’erta, occhio sulla preda. Questo è
fattibile e dignitoso.
A un tratto li vedo deviare, allontanandosi dal fiume.
Scavalco di nuovo la balaustra, sotto gli sguardi stupiti di un paio
di altre coppiette, e sgattaiolo rapido fino a un grosso vaso di
fresie.
Si stanno inoltrando per il villaggio, qui mi sarà
più difficile seguirli. Senza contare che dalla segretezza di
questa missione dipende davvero la mia vita. Tremo al pensiero di
quello che mi capitrebbe se mi beccasse... Ma non mi beccherà.
Non scherziamo.
Che poi, dove diavolo hanno intenzione di andare? Per
carità, amo Konoha e tutto il resto, ma questa zona non è
esattamente il massimo della vita. Locali morti, vita notturna
azzerata, paesaggi inesistenti. Ci sono solo case e strade, che ci fa
una coppia qui, eh?
Li
pedino – ehm, no, li
seguo;
fa meno perverso – oltre una svolta e lungo un’altra via. Ho come
l’impressione che la zona dovrebbe essermi familiare, ma la
modalità shinobi non conserva ricordi in merito. A un tratto
mi sembra che rallentino, e infine si fermano.
Mi rendo conto all’improvviso di essere scoperto, e
allora con un balzo agile sono oltre un cancello, nascosto dalla
colonna.
Come faccio a sentire quello che si dicono?
Provo ad arrampicarmi un po’ più su e a tendere
l’orecchio. Sento vaghi bisbigli incomprensibili, l’accenno di
una risata che mi ingarbuglia le viscere, e poi le voci che si
assottigliano. Che succede?
Stringo gli occhi per vedere tra le foglie della siepe
che mi nasconde, e tutto ciò che riesco a captare è un
codino biondo che scompare oltre una porta, che poi viene richiusa.
Oh.
All’improvviso mi è chiaro.
La modalità shinobi si sgretola in un istante,
portandosi via anche le mie forze, o così sembra. Scivolo giù
dalla colonna, mi accuccio a terra e sbuffo avvilito.
Ma certo. Che ci fa una coppia in un quartiere di sole
case?
Con imbarazzo misto a delusione mi gratto la nuca, e
decido che mi sento definitivamente idiota. Era ovvio che pedinarli
non mi avrebbe reso felice – a meno di un’improbabile lite –
dovrei chinare il capo e picchiarmi da solo; invece me ne resto qui,
nascosto dietro una siepe, e rosico.
«Certo che sei un bell’idiota» dice una
voce all’improvviso.
Il mio stomaco si contorce e sale su per la gola, mentre
imbastisco l’espressione più furiosa che mi riesce. Alzo la
testa di scatto e la punto su Orochimaru, che beffardo mi fissa dalla
colonna.
«Ti piace farti del male, eh?» continua, con
il sorriso che di solito gli vedo usare davanti ai nemici. «Che
tristezza. Li hai seguiti fin qui sperando che litigassero, e invece
loro si sono persino appartati... Patetico»
«Che
vuoi? Hai bisogno di me, o semplicemente sei così patetico
da seguire un patetico?»
sibilo astioso.
Hai
ragione, maledettamente ragione, invece. E io non riesco nemmeno a
ribattere in maniera pungente, perché hai fatto centro.
«Certo
che ho bisogno di te» risponde lui, con una smorfia stizzita.
«Ho di meglio da fare, che non pedinare i membri del mio
gruppo... Almeno io.
C’è una missione. Ma forse la possiamo portare a termine in
due»
Orochimaru sorride, del sorriso viscido che mi fa
imbestialire, e io mi infurio ancora di più, perché so
che completare la missione noi soli significa lasciare lei con lui, e
tutto ciò che la situazione implica.
Eppure non posso fare niente. Presentarsi alla sua porta
e tirarla fuori dal letto sarebbe ancora peggio, ancora più
umiliante.
Forse posso ammazzare Orochimaru tra uno shuriken e
l’altro, in compenso.
Digrignando i denti, mi tiro su e lo fulmino con gli
occhi.
«Andiamo. Bastiamo noi»
Con un salto sono di nuovo in strada; Orochimaru mi
raggiunge silenzioso, serpente qual è. Mi scruta per un
istante, forse deluso della mia reazione fiacca, e per una volta non
sorride. Sembra quasi interessato, mentre mi porge la sua domanda.
«Vorresti che lui morisse?»
Mi irrigidisco bruscamente.
Cose del genere non si dicono con quella faccia seria.
Mai.
Perché poi richiedono risposte serie.
Distolgo il viso in fretta, sfregando nervosamente le
dita, e la mia replica è sbrigativa, vuota.
«Che dici? Per chi mi hai preso?»
Oh,
sì. Se potessi, lo ucciderei con le mie mani.
Probabilmente
sono stupido.
Me
ne sto qui, al funerale di Dan, e ripenso a una bravata da
adolescente irrisolto, con tanto di lite con adolescente ugualmente
imbecille.
Ripenso
a quanto sia facile desiderare una persona morta, e a quanto faccia
schifo vedere questo desiderio realizzato.
Dan
era un bravo ragazzo, per quanto lo odiassi.
E
Tsunade, con quel ciondolo maledetto tra le mani, non si merita
quello che sta passando.
Non
si merita nulla di quello che ha già passato, quello stesso
dolore che io non sono stato in grado di lenire, dopo Nawaki.
Se
potessi, lo resusciterei con le mie mani.
Ma
sono solo uno stupido.
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