Golem

di Ranessa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1° - Kampa ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2° - Becherovka ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3° - Malá Strana ***
Capitolo 5: *** Epilogo - Český Krumlov ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


[ Prologo ]


But if I crossed a million rivers
And I rode a million miles
Then I'd still be where I started

'Keep yourself alive', Queen


Il fatto che l'Oscuro abbia scelto noi è al contempo lusinghiero e spaventoso. Lusinghiero perchè per quasi quindici anni ho atteso il giorno in cui avrei finalmente ricevuto il riconoscimento che mi spettava per la mia fedeltà. Spaventoso perchè non sono più abituato ad uccidere o a sostenere la compagnia di un altro essere umano, soprattutto quando si tratta di mio fratello.
Mi muovo nella piccola stanza per raggiungere la valigia che mi ha preparato Narcissa, abbandonata sul letto sfatto. La apro senza alcuna curiosità, stupendomi però di trovare come prima cosa dei vestiti babbani. Sono di lana pregiata, adatta al clima ingrato che troveremo una volta giunti a destinazione. In fondo vi sono poi vesti nere da mago; ne tiro fuori una, osservando le iniziali di Lucius ricamate in argento sul risvolto di una delle maniche, e qualcosa cade ai miei piedi, con un rumore sordo attutito dalla moquette scura del pavimento.
È la mia bacchetta. Non ho bisogno di raccoglierla per riconoscerla immediatamente. Mi domando se sia stata Narcissa a conservarla per tutto questo tempo, come abbia fatto ad ottenerla e perchè. Narcissa ha sempre fatto questo genere di cose, piccoli gesti che a lei paiono semplici e premurosi e che spesso hanno invece il potere di devastare il suo prossimo, di lasciarlo incredulo e impotente a chiedersi cosa ci sia, in fondo, di così doloroso in ciò che si ritrova di fronte.
Mi siedo sul letto lasciando la bacchetta dov'è. Penso che non voglio più toccarla per il resto della mia vita e so già che, inevitabilmente, non sarà così.
«Ceniamo?»
La voce di mio fratello giunge inaspettata dalla porta, da dove lui mi osserva, poggiato con una spalla allo stipite.
«Hai fame?» domando facendogli cenno di entrare.
Rodolphus annuisce e si dirige verso di me. Lo osservo attentamente per la prima volta da quando abbiamo lasciato Azkaban. Il suo viso è più scavato di come lo conoscevo un tempo, ma non più pallido. I capelli sono più lunghi e gli occhi cerchiati sempre incredibilmente viola. Distolgo lo sguardo repentinamente, terrorizzato all'idea che la sua figura eccessivamente magra, stanca e a tratti inquietante possa rassomigliare troppo alla mia. Abbiamo lo stesso naso, le stesse labbra, le stesse mani e non voglio guardare e scoprire che, forse, Azkaban ha scavato dentro di noi anche la stessa voragine.
Mi ha quasi raggiunto quando mi rendo conto con orrore che sta per calpestare la mia bacchetta.
«Fermo!»
«Cos'è?» domanda voltandosi a guardare nella direzione in cui punta il mio dito.
«E' la mia bacchetta» replico chinandomi a raccoglierla. «Narcissa l'ha messa nella mia valigia».
«Anche io ho trovato la mia nella valigia».
Rodolphus si siede finalmente al mio fianco infilando una mano nella tasca della sua veste vecchia e logora. Aspettandomi di vederlo estrarre la sua bacchetta, mi stupisco notevolmente quando la sua mano pallida riemerge stringendo invece una bottiglia di whisky incendiario mezza vuota.
«Cos'è?»
Rodolphus mi regala uno dei suoi fastidiosi ghigni prima di rispondere.
«La cena».

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Capitolo 2
*** Capitolo 1° - Kampa ***


[ Capitolo 1° - Kampa]


Siamo a Praga da quasi due settimane, ormai. La città ha un aspetto sinistro, sembra una vecchia foto in bianco e nero sbiadita dal tempo. Non ci sono colori qui, tutto è scandito dal grigio plumbeo ed uniforme del cielo e dal candore accecante della neve che ricopre ogni cosa. I babbani hanno uno strano modo di definire Praga, la chiamano città magica, ma per quanto mi sforzi non è magia ciò che percepisco camminando per le strette vie di acciottolato umido, quanto piuttosto un lieve senso di inquietudine. Ci si muove per Praga costantemente all'erta, come se si dovesse incontrare qualcosa di inaspettato dietro ogni angolo. Il Golem[1], forse.
Percorro il Ponte Carlo[2] a grandi falcate, diretto alle scale che conducono alla piccola isola di Kampa. Accelero ulteriormente il passo, anche se so che Rodolphus sarà immancabilmente in ritardo, costringendomi ad attenderlo nell'aria fredda e pungente della mattina, seduto su una delle panchine della piazza. Nessuno dei numerosi turisti che affollano il ponte sembra fare caso a me, tutti troppo impegnati ad ammirare le statue e le bancarelle che ci circondano, formando piccoli capannelli che a tratti impediscono il passaggio.
«Dovresti toccarla» mi suggerisce all'orecchio mio fratello, comparendo d'improvviso alle mie spalle.
«Rodolphus! Sei in anticipo...» commento incredulo, suscitando sul suo volto un'espressione a metà tra il divertito e l'offeso.
«Perchè pensi sempre male di me, Rabastan?» domanda però con tono serissimo, spingendomi a distogliere lo sguardo per posarlo sulla statua a cui si riferiva prima.
«Perchè dovrei toccarla?»
«E' San non so cosa[3], la leggenda dice che chi tocca i pannelli dorati ai suoi piedi tornerà a Praga».
Osservo la gente che, raccolta in una fila vagamente ordinata, allunga le mani per toccare il cane dorato e il resto delle placche, con l’oro scintillante che rimane visibile unicamente dove il tocco giornaliero di centinaia di turisti lo protegge dal tempo e dalle intemperie.
«Come fai a saperlo?»
«Lo so e basta».
«Credi davvero che vorremo tornare qui, Rodolphus, dopo che avremo compiuto il nostro compito?»
Lo guardo dritto negli occhi, sperando così di poter capire se la sua risposta sarà sincera o meno. Sta per replicare quando uno dei turisti che si è appena assicurato un futuro ritorno in città lo urta involontariamente.
«Oh, pardonnez moi! »
Mio fratello abbozza un sorriso nella sua direzione e ricomincia a camminare verso la scalinata di Kampa.
«Rispondimi» gli intimo cercando di non perderlo tra la folla.
«Cammina e basta. O faremo tardi».

L'isola di Kampa non ha molto da offrire ai suoi visitatori se non la sua sconvolgente bellezza. Attraversiamo un piccolo ponte, superando alla nostra destra il Mulino del Diavolo, per ritrovarci poi nell'intricato dedalo di viuzze lastricate.
«Sai dov'è?» domando a Rodolphus, che da quando siamo giunti in città sembra essersi mosso tra i suoi vari quartieri senza apparente difficoltà.
«Piton me lo ha spiegato».
«Piton?»
«L'addetto alle missioni all'estero in nostra assenza, a quanto sembra». Rodolphus sorride beffardo nella mia direzione e alza una mano a mezz'aria, ad indicare qualcosa al di là della strada. Rouven's, recita l'insegna del negozio. La porta è piccola, ma di legno massiccio, e non ci sono vetrine.
«Il Sinister praghese, suppongo» commento scettico, attraversando la via alle spalle di mio fratello.
«O molto di più... se Severus non ha esagerato».
Al nostro ingresso nel negozio, annunciato da un fastidioso scampanellio, ci accoglie un'aria densa e carica dell'odore di sostanze e pozioni a noi sconosciute. In sottofondo, le note di un brano popolare ceco si spandono nell'ambiente ampio e cupo, suddiviso in corsie da altissimi espositori in legno spesso. A rendere l'atmosfera ancora più inquietante sono le decine di marionette che ci osservano dagli scaffali, gli occhi più realistici e vivi di quanto avrei pensato possibile. Ne siamo completamente circondati, come se, all'improvviso, gli uomini avessero smesso di popolare questo mondo, sostituiti repentinamente da questi simulacri di vita.
«Quella delle marionette è una tradizione antica e consolidata qui» mi informa Rodolphus, apparentemente meno turbato da questa realistica eppure assurda situazione di quanto non lo sia io. Oppure incline al dialogo proprio in virtù del suo maggiore turbamento.
Inizia ad avanzare lentamente tra gli innumerevoli scaffali, seguendo un percorso casuale, che nulla ha di studiato. Le marionette sono suddivise in gruppi a seconda della grandezza, del sesso, della professione e dell'era di appartenenza. Ci sono streghe, fate, principi e principesse, semplici uomini di epoche ormai passate o ancora vicine e figure che non riconosco, probabilmente riconducibili a mitologie e fiabe babbane a me estranee. Continuiamo ad inoltrarci sempre più in profondità nel negozio che sembra non dover avere mai fine, con gli occhi delle marionette che ci seguono ad ogni nostro passo muovendosi all'unisono, ed io dubito fortemente che possa essere una semplice illusione ottica dettata dall'inquietudine e dall'angoscia. «Rodolphus, dove stiamo andando? Forse ci conveniva aspettare all'ingresso» sussurro con voce strozzata, temendo stupidamente che le marionette possano anche udire le nostre voci e vergognandomi per il tono impaurito che non sono riuscito a controllare.
«Non preoccuparti, Rabastan, è soltanto una bottega, non ci si può perdere in una bottega».
«Come puoi essere così calmo? Non sappiamo nemmeno chi o cosa dobbiamo incontrare!»
«Chiunque o qualunque cosa sia» replica mio fratello, fermandosi per voltarsi a guardarmi dritto negli occhi, «di certo non potrà essere peggiore di chiunque o qualunque cosa abbiamo incontrato quotidianamente ad Azkaban negli ultimi quindici anni, non credi?»
Il suo sguardo è gelido, e il tono duro e astioso. Prima che possa replicare, alza una mano scarna ad indicare un altro corridoio di scaffali di fronte a noi, invitandomi a precederlo. Obbedisco riluttante, pronto ad andare incontro ad altri malevoli burattini ma poco propenso a voltare le spalle al mio unico fratello. Seguo mio malgrado la direzione indicata da lui e dopo una sola svolta mi ritrovo con enorme sorpresa al punto di partenza, di fronte alla porta d'ingresso, affianco ad un piccolo bancone impolverato cui prima non avevo nemmeno fatto caso.
«Come hai fatto?» domando incredulo. «Questo posto è un labirinto!»
La musica popolare si interrompe all'improvviso, come se anche il negozio stesso volesse ascoltare con la massima attenzione la sua risposta.
Rodolphus scrolla le spalle con la sua solita e detestabile aria di sufficienza.
«L'ho studiato nella mente di Severus».
«Perché siamo qui? Dubito che l'Oscuro ci abbia fatto attraversare mezza Europa unicamente per comprargli un paio di burattini...»
«Se questi fossero semplici burattini, straniero, io non saprei fare il mio mestiere. È questo che stai insinuando?»
Le parole giungono sibilanti alle nostre spalle, in un inglese perfetto, ma in un accento difficile da comprendere.
Il vecchio, la cui età apparente sembra mutare a seconda di come la fioca luce dell'ambiente lo illumina mentre avanza a piccoli passi misurati verso di noi, è particolarmente basso e indossa le vesti tipiche degli alchimisti che un tempo popolavano Praga numerosi. E che oggi ci hanno lasciato unicamente uno stretto vicolo affollato di turisti babbani vocianti intenti a sperperare il proprio denaro in stupidi souvenir della città. Ha parlato molto vicino alle nostre spalle, eppure né io né Rodolphus l'abbiamo sentito avvicinarsi, così come non udiamo alcun suono adesso, mentre guadagna il retro del piccolo bancone.
«Non stavo insinuando nulla, signore» mi ritrovo a scusarmi incerto, costretto ad avanzare di qualche passo per riuscire a scorgere la figura bassa e immobile del vecchio al di là del ripiano lucido del bancone, cercando di imprimermi nella memoria la sua fisionomia particolare, il suo volto scuro e i lunghi capelli bianchi. La sua immagine è però estremamente volatile, ho l’assurda impressione che, appena non lo avrò più di fronte ai miei occhi, mi dimenticherò completamente del suo viso, del suo corpo e della sua voce burbera.
«Il mio nome è Rouven» mi ignora lui, rivolgendo il suo sguardo vivace sul volto impassibile di Rodolphus. «E vi stavo aspettando. Sfortunatamente per voi, però, ciò che state cercando non si trova più in questa città, pur essendo ancora nel nostro Paese».
«Puoi aiutarci a trovarlo ugualmente, Rouven?» domanda mio fratello, nascondendo una mano in una delle tasche dei suoi vestiti da babbano; ed io lo conosco sufficientemente bene da sapere che adesso è nervoso e contrariato, nonostante le apparenze, e che con le dita celate dalla stoffa nera sta stringendo il suo accendino d'argento, quello attorno al quale si srotola sinuosa una lingua di serpente. L'accendino che gli ho donato io e che sembra ormai appartenere ad una vita passata, l'unico regalo che gli abbia mai fatto a cui si sia realmente affezionato.
«Naturalmente» è la risposta piccata, quasi offesa, del vecchio. «Ma avrete bisogno di una delle mie marionette».
Rouven sorride beffardo ed estrae dalle sue vesti un bastone che, se non fosse per la magia, le pieghe dell'abito non avrebbero mai potuto ospitare. Lo batte due volte a terra con decisione e ci invita con un gesto rapido e secco a dirigere il nostro sguardo verso i corridoi e gli scaffali che abbiamo esplorato prima. Una sottile linea rossa e brillante si dipana sul pavimento, scomparendo presto tra gli espositori ad indicare una via che, ne sono certo, non mi piacerà percorrere.
«Seguite la linea. E riportatemi la creatura che vi suggerirà».
«Posso fumare?» gli domanda Rodolphus, estraendo dalla tasca, insieme all'accendino, un logoro pacchetto di sigarette. Ad Azkaban, i primi giorni, pensavo a lui, e mi domandavo come potesse sopravvivere senza fumare, mio fratello Purosangue afflitto da quella squallida dipendenza babbana. Poi ho pensato che il fumo, per lui, dovesse rientrare tra le cose piacevoli della vita, le prime a scomparire dalla mente, dall'anima e dalla coscienza, crudelmente risucchiate dai Dissennatori. Non gli ho mai chiesto nulla a riguardo, ma so che ha lasciato la prigione senza avere più la sua fede nuziale, ma con l'accendino d'argento ancora saldamente in suo possesso.
«Non dove si trovano le marionette, straniero, ma puoi farlo qui, mentre tuo fratello recupera l'oggetto che tanto vi serve».
Mi volto verso Rodolphus con uno scatto repentino, sperando che non abbia realmente intenzione di abbandonarmi a vagare da solo per i meandri di questa bottega, surreale persino agli occhi di un mago. Non provo neanche a domandarmi come faccia il vecchio a sapere che siamo fratelli, faccio semplicemente finta di credere che la nostra vaga rassomiglianza sia sufficiente a farlo intuire.
Rodolphus sembra riflettere sulla proposta per qualche istante, prima di voltarsi a sua volta a guardarmi, un ghigno che conosco fin troppo bene a distorcergli le labbra pallide. Non parla, non ne ha bisogno, ma porta alle labbra una sigaretta sottile e l'accende con un solo gesto deciso dell'altra mano, lasciando che la fiamma rossastra gli danzi davanti agli occhi per un momento prima di spegnerla.
«Ti aspetto» sottolinea poi inutilmente nella mia direzione, sbuffando nell'aria pesante del negozio la prima boccata di fumo.
A me non resta che sospirare, sconfitto, e lanciare un'ultima occhiata di sbieco al vecchio prima di avviarmi lentamente seguendo la linea rossa magicamente dipinta sulla pietra grigia del pavimento.
Rouven sta osservando divertito la sigaretta accesa di mio fratello con un occhio. Ma l'altro, quello destro, è rivolto verso di me, in attesa che mi addentri tra le innumerevoli corsie del suo regno, ed è indubbiamente una delle cose più sinistre e raccapriccianti che abbia mai visto in tutta la mia vita.

La cosa che mi inquieta di più non è l'attraversare il negozio da solo, o l'idea folle che a tratti mi invade e mi spinge a pensare che una volta giunto a destinazione la linea rossa scomparirà, impedendomi per sempre di tornare all'ingresso, al vecchio, a mio fratello e al suo tradimento. È il non riuscire a riconoscere nessuno dei corridoi, nessuno degli scaffali, nessuno dei burattini visti in precedenza. Tutto nell'ambiente concorre a far sembrare la bottega un vero e proprio labirinto senza fine, immerso in una realtà parallela e sconosciuta ai più. Ma la paura, quella vera, si impossessa di me quando mi ritrovo finalmente di fronte all'oggetto oscuro che ci porterà alla nostra meta e lo riconosco.
Lo strappo al suo scaffale con più convinzione di quanta pensassi di avere e ripercorro velocemente la strada a ritroso, quasi correndo. Quando infine giungo in vista del bancone ignoro il vecchio, intento a fumare una delle sigarette di Rodolphus, e mi limito invece a passare a lui la marionetta, attendendo impaziente una sua reazione.
Mio fratello osserva assorto il giocattolo, la veste e il mantello neri, la maschera argentata stretta in una delle piccole manine di legno. Il Marchio Nero magistralmente dipinto sull'avambraccio sinistro squadrato e i lineamenti perfetti di Igor Karkaroff. I suoi occhietti piccoli e ravvicinati, il naso adunco e i capelli folti e crespi.
Per un momento, uno soltanto, l'affettata sicurezza di Rodolphus vacilla.
«Come dovrebbe aiutarci, questo pezzo di legno?» domanda sprezzante, in un tono volto a mascherare la sua inquietudine che fallisce miseramente, facendo sbocciare sulle labbra rinsecchite del vecchio un nuovo sorriso beffardo, derisorio. Senza rispondere, punta il bastone sulla marionetta e la trasfigura con un incantesimo silenzioso.
«Dovete sapere, stranieri, che ogni burattino che vedete nel mio umile negozio cela in realtà in sé un oggetto magico, e questo» indica il medaglione verde che giace adesso tra le mani di Rodolphus, «è tutto ciò che vi serve per trovare l'uomo che sino a poco fa rappresentava».
«Ci condurrà direttamente a lui?» chiedo, sperando che questo possa essere l'ultimo scambio di battute. Sperando di poter tornare al più presto alla neve e al freddo penetrante dell'isola di Kampa.
«Vi condurrà a qualcuno che saprà indicarvi la giusta via, qualcuno che vi troverà da solo, se uno di voi indosserà costantemente il medaglione».
«Fra quanto?» domanda a sua volta mio fratello, impaziente.
«Quando deciderà che è il momento di incontrarvi».
«Cosa vuoi in cambio dei tuoi servigi?»
«Sei dunque così convinto che il mio oggetto funzionerà, straniero
Il vecchio abbandona il retro del bancone per andare a pararsi di fronte a Rodolphus, per nulla intimorito dall'abisso che lo separa da lui in altezza.
«Voglio il tuo accendino» replica allora, adocchiando il piccolo oggetto d'argento ancora stretto in una delle sue mani.
Con un gesto protettivo, feroce, quasi commovente, Rodolphus nasconde immediatamente l'accendino nella tasca dell'abito babbano.
«No» si limita poi a sottolineare a voce, con fermezza.
Il vecchio ride, indicandoci il portone massiccio che si è silenziosamente aperto alla nostra sinistra e invitandoci ad andarcene.
«Allora non voglio niente. Anzi, prendete voi qualcosa... » Il vecchio infila una mano tra le pieghe della veste e ne estrae due piccoli Golem di argilla, consegnandone cerimoniosamente uno ad entrambi. «Vi porteranno fortuna».
Prima che la porta si sia richiusa alle nostre spalle, Rouven è nuovamente scomparso tra gli oscuri corridoi della sua bottega e la musica popolare ceca è tornata a colmare l'ambiente inospitale.

Sulla via del ritorno nessuno pronuncia una sola parola. Rodolphus ha indossato il medaglione, nascondendolo sotto i vestiti, e il suo passo spedito, sicuro nonostante le strade siano ricoperte da un manto nevoso traditore a tratti sostituito da lunghe lastre di ghiaccio, è difficile da seguire.
Avviene tutto in un attimo, quando ci troviamo a passare di nuovo di fronte alla statua di San non so cosa, ancora attorniata da numerosi turisti nonostante l'ora ormai tarda, il freddo e il buio. Mi volto un istante soltanto, ad ammirare ancora i fini pannelli dorati, e senza badare alla strada di fronte ai miei piedi scivolo sul ghiaccio. Quando mi riprendo dallo stupore sono seduto a terra e mio fratello mi sovrasta, un'espressione illeggibile ad aleggiare effimera sul suo volto. Poi qualcosa si rompe e Rodolphus scoppia a ridere, incurante dei passanti che mi adocchiano con sguardi vagamente preoccupati.
«Non c'è niente da ridere» gli faccio notare in tono offeso, cercando inutilmente di rialzarmi da solo in quella che è palesemente una lotta impari con il ghiaccio. Senza smettere di ridere, mio fratello mi tende una mano per aiutarmi.
«Si che c'è» replica crudele, spazzando via un po' di neve dalla mia schiena, in uno di quei gesti amichevoli e fraterni che raramente abbiamo mai condiviso. «Andiamo in albergo, a riposare, domani sarà una giornata lunga».
«Il vecchio ha detto che, chiunque sia, sarà lui a trovarci...»
«Ho voglia di girare ancora per la città, ci troverà anche camminando».
«Ormai la conosci a memoria, la città» sottolineo in tono irritato, stanco del suo perenne peregrinare. Abbiamo ripreso a muoverci adesso, e la porta del Ponte che dà sulla Città Vecchia[4] è ormai a pochi metri da noi.
«Ti sembra così strano voler camminare libero all'aria aperta, dopo così tanti anni di prigionia?»
«Di cosa hai parlato col vecchio, mentre non c'ero?» domando senza nemmeno pensarci, tentando di evitare per l'ennesima volta l'argomento scottante e tacitamente proibito dei nostri anni da reclusi.
Rodolphus risponde senza esitare e senza più guardarmi, gli occhi concentrati unicamente su un punto imprecisato di fronte a sé.
«Azkaban».




[1] Golem
[2] Ponte Carlo
[3] San Giovanni Nepomuceno
[4] Città Vecchia

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Capitolo 3
*** Capitolo 2° - Becherovka ***


[ Capitolo 2° - Becherovka ]


Una settimana dopo il nostro incontro con Rouven ancora non è successo nulla. Rodolphus continua ad indossare costantemente il medaglione nelle sue peregrinazioni per la città e si dice fiducioso.
«Nessuno proverebbe mai ad ingannare l'Oscuro, anche se è appena risorto, anche se è ancora debole».
Sdraiato sul suo letto nella nostra piccola camera d'albergo, fuma con un braccio sotto la nuca, osservando le volute grigie del fumo che si rincorrono nell'aria fredda della stanza. Tenta inutilmente, come sempre, di modularle nell'immagine semplice e al contempo complessa di un cerchio, ma il suo misero fallimento non sembra irritarlo più di tanto, come faceva invece quando eravamo giovani. O più giovani.
«Ne sei così sicuro?»
«Non mi interessa, in realtà».
«Saremo noi a rimetterci, se il vecchio ci ha imbrogliati, Rodolphus. L'Oscuro riterrà responsabili noi due!»
«Non mi interessa...»
Si alza con uno scatto felino, spegnendo la sigaretta fumata solo per metà sul ripiano polveroso del comodino che separa i nostri letti.
«Dove vai?» gli domando spazientito, mentre si tira sulle spalle un mantello decisamente insufficiente a proteggerlo dal freddo malevolo dell'inverno praghese, nonostante questo scivoli ormai verso la primavera. «Non puoi uscire con le vesti da mago...»
«Ti conviene seguirmi, Rabastan».
«Sono stanco...»
«Ma se il nostro misterioso informatore decidesse di agire proprio questa sera, poiché segue unicamente il portatore del medaglione verde, ti perderesti lo spettacolo, fratellino» ribatte lanciandomi un'occhiata sardonica che mi infastidisce notevolmente.
«Dici così ogni sera, è non è ancora accaduto nulla...»
«Dici così ogni sera, e ogni sera mi segui, Rabastan».
Usciamo dallo squallido alberghetto in uno degli innumerevoli vicoli della Città Vecchia pochi minuti più tardi, camminando fianco a fianco eppure terribilmente distanti. La notte è già quasi calata e dalla strada che sceglie mio fratello capisco che vuole percorrere ancora una volta il lungofiume. La Moldava non ha nulla del Tamigi, a cominciare dal colore. Persino il suono dell'acqua scrosciante giunge diverso alle mie orecchie: non è un semplice rumore di sottofondo, di quelli che smetti persino di udire quando ti ci sei ormai abituato. Non ti accompagna per la città, ma piuttosto te la fa temere, ti ricorda costantemente che Praga c'è, è viva, ed è una minaccia oscura che ti circonda da ogni parte.
Rodolphus abbandona il fiume per prendere una stradina sulla nostra destra e attraversa guardando dalla parte sbagliata.
«Non costringermi a salvarti all'ultimo secondo ancora una volta» lo stuzzico, seguendo il suo passo rapido attraverso un altro dedalo di strade.
«Quella macchina si sarebbe fermata, Rabastan, quante volte devo ancora dirtelo?» replica lui in tono infantile. «E poi non è colpa mia. Già sono poco abituato a queste diavolerie babbane per ovvi motivi, e come se non bastasse qui guidano pure dalla parte sbagliata!»
«In realtà siamo noi inglesi a farlo...»
«Ne dubito. E comunque da quando sei così esperto in babbanologia?» conclude sarcastico, lanciandomi un'occhiata di sbieco prima di aprire la porta che ci sta di fronte. Non mi ero nemmeno accorto che ci fossimo fermati, né avevo fatto caso all'insegna ormai familiare.
«Chissà se è un semplice nome o se significa qualcosa...» borbotto entrando, investito in un istante dal calore eccessivo del locale.
U Fleků. [1]

«I primi ad essere colpiti saranno i traditori».
Gli occhi serpentini e purpurei dell'Oscuro ci osservano con estrema attenzione, percorrendo il cerchio di Mangiamorte con studiata e metodica lentezza.
«Ma suppongo che sarebbe inutile chiedere loro di fare un passo avanti adesso e rendere la mia punizione più semplice...»
Il nostro Signore ride, una risata inumana e breve, che rimbomba tra le mura della Sala Circolare il tempo necessario affinché si alzi dal suo scranno di semplice pietra per raggiungerci al centro della stanza spoglia. Un attimo, un battito di ciglia.
«D'altronde, che soddisfazione trarrei da una vendetta così rapida ed elementare?»
Cammina alle nostre spalle a grandi falcate, percorrendo più volte il cerchio perfetto che creiamo stando immobili, ognuno con la schiena ritta e lo sguardo fisso su un punto imprecisato di fronte a sè. Con la coda dell'occhio colgo lo svolazzare sinuoso del suo mantello e lo sento sfiorare le mie caviglie quando mi passa accanto.
«I primi traditori ad essere colpiti, saranno coloro che sono fuggiti, quelli che hanno cercato rifugio in altri Paesi. Quelli che hanno tradito semplicemente per tradire, senza trovare nemmeno il coraggio di agire contro di noi. Di spiarci e di riferire a chi ancora crede di poterci annientare. Quelli che così facendo» l'Oscuro interrompe la sua marcia per fermarsi alle spalle del Mangiamorte che mi sta di fronte, «hanno dimostrato di aver portato per tutti questi anni il Marchio indegnamente».
Conclude il suo discorso senza più guardare il Mangiamorte che gli è dinnanzi, ma fissando il suo inquietante sguardo su di me. E in un attimo io so che quell'uomo, anche con il cappuccio tirato sul capo, anche con la maschera calata sul volto, è mio fratello.
È Rodolphus.


L’antica birreria, come ogni sera, è gremita di clienti. Un vociare costante e indistinto si spande tra le sue innumerevoli sale. Rodolphus si dirige a passo deciso verso il cortile interno, incurante delle occhiate curiose che le sue eccentriche vesti suscitano negli avventori.
«Te l’avevo detto di non vestirti così…»
«Pensi che Rouven svesta gli abiti da alchimista quando lascia il negozio?»
«Pensi davvero che Rouven lasci mai il negozio?»
«Pensi davvero che mi interessi?» ribatte lui in un tono a metà tra l’indifferente e lo scherzoso.
Si siede ad uno dei lunghi tavoli invitandomi a fare lo stesso con un ampio gesto della mano e mi porge distrattamente il menù, pur sapendo già cosa ordinerò. Lascio che il mio sguardo percorra il cortile semibuio in ogni direzione, curioso come al solito di ogni volto dai tratti così marcatamente diversi dai nostri e di una lingua così spietatamente estranea e incomprensibile. Mi stupisco sempre di più della familiarità che provo ormai verso i luoghi, le abitudini, la precisa routine che seguono le nostre giornate a Praga, come se fossimo qui da anni, piuttosto che da settimane.
Quando il cameriere ci raggiunge ordino la mia anatra, quella porzione per uno che in realtà sfamerebbe almeno tre persone, e attendo che mio fratello si produca in una delle uniche due parole ceche che abbia imparato in queste settimane che sembrano anni.
«Pivo».
Birra.
«Dovresti anche mangiare qualcosa, Rodolphus…»
«Ti aiuterò con l’anatra».
«Non ti piace l’anatra» gli faccio notare irritato, domandandomi perché ho ancora voglia di lanciarmi in queste discussioni senza speranza e infantili con lui.
Rodolphus mi risponde con una silenziosa alzata di spalle e infila una mano tra le sue vesti scure, alla ricerca delle sigarette.
«Potresti evitare di fumare almeno finché mangio?»
«Non stai ancora mangiando, Rabastan, ed io non sto ancora fumando». Sembra sul punto di aggiungere qualcosa, probabilmente un’altra di quelle sue frasette acide che lo divertono tanto, quando all’improvviso si blocca, la mano che stringe l’accendino immobile a pochi centimetri dalla sigaretta a cui stava per dar vita.
«Cosa c’è?» domando allarmato, osservandolo impallidire.
«Credo che sarà davvero questa sera» risponde lui, senza aver bisogno di specificare cosa.
«Come fai a dirlo?»
«Il medaglione» sussurra lasciando cadere la sigaretta sul tavolaccio di legno per portare la mano a stringere il gioiello, nascosto sotto la stoffa pesante delle vesti. «Brucia».
Avrei decine di altre domande da fargli, ma le dimentico all’istante quando un cameriere, non quello di prima, ci porta le nostre ordinazioni zittendoci involontariamente. Rodolphus non aspetta nemmeno che se ne sia andato prima di iniziare a bere avidamente dal proprio boccale, come se la birra fresca potesse annullare magicamente il calore del medaglione di Rouven.
«Ne sei sicuro?» riesco a chiedergli dopo un po’, quando ormai ha già quasi finito la pinta.
Mio fratello non risponde, ed emozioni contrastanti si impadroniscono di me. Ansia, nervosismo, una punta di paura. Una vocina maliziosa che mi suggerisce che apprezzerò questo incontro tanto quanto quello con l’alchimista. Divertimento, soddisfazione, derisione, all’idea che anche lui, anche Rodolphus che mi siede di fronte ha paura.
Anche mio fratello ha paura.
Ed io ne sono imperdonabilmente felice.

Nonostante siano ormai passati anni dalla prima volta in cui ho messo piede in questa Torre, i suoi corridoi di pietra grezza e spoglia ancora mi confondono. L’eco continua dei miei stessi passi che rimbomba tra le pareti ancora mi inquieta.
Lo trovo esattamente dove pensavo che sarebbe stato, nonostante il vento gelido e la pioggia sferzante che, grazie a un qualche incantesimo, si ferma sfrigolando nell'aria prima di poter colpire la sua sigaretta accesa. È appoggiato con i gomiti al parapetto del balcone e i suoi occhi sono persi da qualche parte tra le colline della campagna che ci circonda, nonostante sia difficile distinguere qualsiasi cosa nella semioscurità prepotente della notte che avanza.
«Ti stavo cercando» dico, ancora sulla soglia dell'ampia portafinestra, semplicemente per fargli sapere che sono qui. «L'Oscuro ha parlato anche con te?»
Rodolphus si volta a guardarmi e mi fa cenno con il capo di raggiungerlo sotto la pioggia scrosciante.
«Non ho voglia di bagnarmi».
«Un'affermazione
audace qui in Inghilterra. Le tue illusioni sono sempre così commoventi, Rabastan...»
«Cosa ne pensi?» domando ignorando le sue assurde, insensate e inutili provocazioni. «Vuoi farlo?»
«Dubito che sia questione di volere, fratellino».
Sussulto involontariamente nel sentirmi chiamare così, un brivido estremamente spiacevole a scendermi rapido lungo la schiena. Sono passati quindici anni dall'ultima volta in cui ho sentito pronunciare quella parola, che sempre ho detestato e che adesso, pur nella sua forza inaspettatamente destabilizzante, riesce quasi a strapparmi un mezzo sorriso, o una piccola lacrima, forse perchè priva di quell'intento provocatorio che la contraddistingueva un tempo.
«Non possiamo farlo, Rodolphus».
«Perchè no?»
«Perchè è... è sbagliato» è la mia risposta esitante, appena udibile nel frastuono assordante della pioggia. Mio fratello scoppia invece in una risata talmente fragorosa da non avere alcuna difficoltà a raggiungere le mie orecchie. Si volta per cercare di distinguere la mia espressione nella sempre maggiore oscurità, appoggiandosi con la schiena al parapetto, di pietra come qualsiasi altra cosa nella Torre.
«Più sbagliato di tutto quello che abbiamo fatto in passato, Rabastan?» mi chiede in tono scettico, gettandosi alle spalle la sigaretta ormai finita, lasciando che il vento la trasporti da qualche parte tra la vegetazione scura e fitta.
«Sì».
«Non devo ricordarti perchè abbiamo trascorso ad Azkaban gli ultimi quindici anni della nostra vita, vero?»
«E' uno di noi, Rodolphus, Igor è uno di noi».
«Uno di noi che non ci è mai piaciuto, che ha tradito e che per questo va eliminato. Mi risulta che non sia il primo, Rabastan, da quando ti fai tutti questi problemi?»
«E tu da quando hai smesso?» gli domando vagamente stizzito, facendo un involontario passo verso di lui. La pioggia inizia a battere ritmicamente sulle mie scarpe, impregnando la stoffa del mantello che carezza le mie caviglie. Anche lui avanza verso di me, sino a che riesco nuovamente a scorgere i sui lineamenti, la mascella serrata e gli occhi che mi lanciano una sfida chiarissima.

Vuoi ribellarti fratellino? E nella mia mente l'inflessione su quell'ultima parola torna ad essere derisoria. Vuoi dire all'Oscuro che non lo farai? Oppure mi sta semplicemente invitando a spiegargli il perchè della mia apparentemente incomprensibile riluttanza, perchè non voglio fare proprio questa cosa, proprio ora, proprio in quel posto, e temo di non sapere cosa potrei rispondergli. Sto tentando febbrilmente di trovare qualcosa da ribattere quando una voce alle nostre spalle ci interrompe.
«Lestrange» chiama Piton, chiaramente rivolto a Rodolphus, anche se non saprei dire il perchè. Mi supera senza degnarmi di uno sguardo per portarsi a metà strada tra me e mio fratello sul balcone, incurante della pioggia. Aspetta che mio fratello distolga lo sguardo da me per posarlo sul suo volto pallido e magro prima di parlare nuovamente.
«Dobbiamo discutere di Praga».


Quando lui ci raggiunge il mio piatto di anatra non è ancora stato toccato e Rodolphus sta bevendo il suo sesto boccale di birra. Un lieve rossore ha iniziato a macchiargli timidamente le guance.
«Smettila, Rodolphus, non è il caso».
«Di continuare a bere birra?» replica lui alzando un sopracciglio, in vena di ovvietà. «Hai ragione, Rabastan, hai proprio ragione». Posa il boccale di fronte a sé, improvvisamente dimentico delle ultime due dita di birra che ancora vi restano, e con un braccio alzato rivolto verso il cameriere più vicino, urla a pieni polmoni la seconda unica parola che abbia imparato: «Becherovka! [2]»
Per un attimo penso che la gente si sia voltata a guardarci stupita per via della sua inusuale maleducazione, poi, d’improvviso, circondata da un’inspiegabile aura di ineluttabilità, una figura incappucciata, e ammantata di nero esattamente come Rodolphus, si siede al suo fianco, comparendo apparentemente dal nulla. Ecco il centro dell’attenzione dei generalmente riservati avventori di U Fleků.
«I fratelli Lestrange?»
«L’uomo che può far smettere di bruciare questo dannato affare?» gli domanda Rodolphus, battendosi un sonoro colpo sul petto con il pugno chiuso dove evidentemente si trova il medaglione.
L’uomo inclina lievemente il capo in un gesto d’assenso prima di calarsi il cappuccio del mantello sulle spalle.
«Radek».
La sua voce è priva della forte inflessione ceca di Rouven.
Ed io non riesco ad evitare un sussulto alla vista del suo viso.

«Ho parlato con tuo fratello, Lestrange».
La sua voce mi giunge alle spalle, sinistra.
«Lo so» rispondo senta voltarmi, restio a incontrare il suo sguardo.
«E’ tutto pronto, ma dovrete fare attenzione, Karkaroff ha più risorse di quanto pensiate. Nascondersi è sempre stata la sua abilità».
«Tanto che abbiamo scoperto che si trova a Praga…» commento scettico, concedendomi una risatina derisoria di cui mi pento all’istante.
Severus muove qualche passo per venire a pararsi di fronte a me, costringendomi infine ad affrontare il suo sguardo scuro eppure glaciale.
«Per il momento».
E poi mi lascia con più dubbi di quanti ne avessi sino a pochi istanti fa.


I capelli castani arrivano a sfiorargli le spalle in lunghi riccioli, gli occhi piccoli e sottili sono azzurri, la mascella larga e squadrata e i lineamenti completamente assenti. Al loro posto un intricato mosaico di cicatrici e ustioni si dipana sul suo volto deformandogli le labbra nella perenne scimmiottatura di un sorriso. Proseguono senza interruzione sul collo, parzialmente nascosto dalla veste, per poi ricomparire al di là delle ampie maniche, ricoprendo impietosamente anche le mani.
«Quello dell’alchimista è un lavoro che porta poche soddisfazioni e comporta molti sacrifici, amico mio…» si limita a constatare con apparentemente sincera indifferenza il mago, e poi inaspettatamente, senza alcun preavviso, il suo volto cambia di fronte ai miei occhi. Le cicatrici si ridisegnano in un nuovo labirinto di forme, gli occhi si socchiudono e le labbra si arricciano, conferendo un’aria particolarmente fragile alla sua intera figura, come se rischiasse di frantumarsi in mille pezzi in ogni momento.
Comprendo che mi stava semplicemente rivolgendo un sorriso educato quando ormai è troppo tardi, e la sua intera attenzione è ora rivolta a mio fratello; un breve ma intenso senso di nausea si impadronisce di me.
«Spero che non me ne vogliate per questo, amici miei, ma dovrò controllare che siate realmente chi dite di essere».
Rodolphus lo osserva incredulo, talmente sbigottito da non accorgersi nemmeno del cameriere che adagia sul tavolo la sua nuova ordinazione. Prima di andarsene lancia un’occhiata distratta a Radek e lo saluta brevemente con un cenno del capo: «Rastislav…»
Radek risponde al suo cenno senza mai distogliere lo sguardo da Rodolphus, il volto nuovamente ridipinto nell’immagine mostruosa del suo inquietante sorriso.
«E come intendi stabilire se siamo davvero i fratelli Lestrange?» domanda scettico Rodolphus quando ormai il cameriere non è più a portata d’orecchio.
«Mi basterà poter osservare i vostri Marchi…»
«Stai scherzando?!» sbotto involontariamente, combattendo il feroce istinto di guardarmi intorno, controllare che tutto, il locale, le persone, le luci e la notte, siano ancora come un attimo fa.
«Fidatevi, e domani a quest’ora, se tutto andrà secondo i vostri piani, sarete già di ritorno in Inghilterra».
«Perché dovremmo mentire sulle nostre identità?» insiste Rodolphus, bevendo in un sorso il bicchierino trasparente di Becherovka.
«Voi non potete saperlo, ma non avete idea di quante persone siano venute a Praga in passato, pretendendo favori in nome del vostro Signore. Persone che in realtà non erano suoi seguaci, persone che ancora non siamo riusciti a punire per questo. Sappiamo però imparare dai nostri errori, noi praghesi, una capacità di cui dovreste fare tesoro anche voi Mangiamorte, oserei suggerire».
Quando decide che il nostro silenzioso si è protratto a sufficienza, Radek si appoggia con i gomiti al tavolo e prosegue in tono conciliatorio: «Posso accontentarmi di uno solo dei vostri Marchi, se preferite».
E prima ancora che possa succedere qualsiasi altra cosa, lo so. So che mio fratello, ancora una volta, così come nel negozio di marionette che marionette in realtà non sono, mi tradirà. Mi costringo ad incontrare il suo sguardo e le sue uniche parole, senza la minima traccia di imbarazzo o esitazione, sono semplicemente: «Io ho portato il medaglione…»
«In mezzo a tutta questa gente?» sospiro, nonostante l’agitazione, adesso, inizi ad essere sostituita da un crescente senso di rabbia e frustrazione.
«Non preoccuparti di questo, dammi il braccio».
Allungo il braccio sinistro sul tavolo nella sua direzione, osservandolo mentre solleva con delicatezza la manica del mio maglione babbano. Il contatto con la sua pelle è spiacevole, alieno, i polpastrelli ruvidi di ustioni mi solleticano l’avambraccio provocandomi un intenso brivido lungo la schiena. Distolgo lo sguardo dalle sue mani per concentrarmi sulla prima cosa che cattura la mia attenzione: la stoffa nera che ricopre il suo petto, dove un nome è ricamato in lettere argentate, Radomír.
Quando le sue dita fredde incontrano infine il Marchio Nero, l’indelebile segno della mia dannazione inizia a palpitare dolorosamente, come sino ad ora aveva fatto unicamente sotto il tocco del suo creatore. Radek chiude gli occhi per un istante, e un attimo prima che un gemito sfugga alle mie labbra il contatto si interrompe e il dolore cessa immediatamente, rapido come quando è iniziato.
«Grazie, Rabastan» mi dice poi con la sua voce bassa e gentile. «Incontriamoci domani, nella Chiesa di San Nicola[3] in Malá Strana, e vi rivelerò tutto ciò che vi occorre sapere. Mi troverete a qualsiasi ora».
L’alchimista si alza e fa per dirigersi verso l’uscita, ma Rodolphus lo trattiene saldamente per un braccio.
«Perché non ora?» domando, convinto che sia questo interrogativo ad aver spinto mio fratello a fermarlo, ma Rodolphus mi zittisce con un cenno secco della mano libera e si rivolge a Radek in tono rabbioso.
«Avevi detto che lo avresti fatto smettere di bruciare!»
Radek ci fa dono di un altro sorriso indesiderato e, con un gesto rapido e feroce, si limita a strappare il medaglione dal collo di Rodolphus e a nasconderlo tra le morbide pieghe della propria veste. Senza aggiungere altro, ci volta le spalle e percorre in fretta la poca distanza che lo separa dall’uscita.
«Cosa ne pensi?» sussurro, vagamente restio a parlare a voce alta, la mia voce stranamente estranea alle mie stesse orecchie.
Ma Rodolphus non pensa.
Rodolphus sta ordinando un altro bicchiere di Becherovka.





[1] U Fleků
[2] Becherovka
[3] Chiesa di San Nicola

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Capitolo 4
*** Capitolo 3° - Malá Strana ***


[ Capitolo 3° - Malá Strana ]


La neve si è quasi completamente sciolta, lasciando al proprio posto un ruscellare continuo d'acqua e pozzanghere che riflettono scorci di cielo limpido e di città. Attraversiamo per l'ennesima volta il Ponte Carlo, le bancarelle che lo occupano ai lati ormai indelebilmente impresse nella mia mente. E mi sorprendo a pensare che, in fondo, non è poi una brutta sensazione, il sentirsi quasi a casa ogni volta che percorriamo a piedi le strade di questa città, il primo posto in cui abbiamo trascorso un periodo di tempo relativamente lungo dopo Azkaban. Relativamente. Tutto adesso è relativo. Alla prigione, alle mura di pietra e ruggine, alla salsedine, al rumore costante e insopportabile delle onde che si infrangono sull'imponente carcere magico.
«Rabastan?» mi giunge ovattata alle orecchie la voce di mio fratello, tinta da un'unica, lieve sfumatura di preoccupazione. «Tutto bene?»
«Sì, certo. Stavo solo pensando...»
«A cosa?» mi domanda Rodolphus, che ha rallentato il suo passo rapido sino a fermarsi completamente, per potermi osservare meglio.
«Nulla di importante, andiamo».
«Non c'è fretta» replica lui scrollando distrattamente le spalle. «Ha detto che lo avremmo trovato a qualsiasi ora».
Vorrei fargli notare che prima si inizia, prima si finisce, ma probabilmente è restio quanto me a dare il via a questa ultima parte del nostro ingrato compito. Non mi illudo però che la sua esitazione derivi da qualsivoglia genere di scrupolo. Rodolphus, semplicemente, non vuole dover tornare in Inghilterra. Ed io, mio malgrado, la penso esattamente come lui.
Riprende a camminare di fronte a me ad un'andatura molto più lenta, che ci porta presto a confonderci tra i numerosi turisti che come ogni giorno affollano il Ponte. Osserva le merci esposte come se le vedesse per la prima volta, foto, disegni, dipinti di Praga, bracciali, anelli e orecchini artigianali fatti dei materiali più disparati. Poi, d'improvviso, come colto da un'inaspettata epifania, si ferma rapito davanti ad una della bancarelle. Seguendo il suo sguardo, mi ritrovo a contemplare un paio d'orecchini, bellissimo persino ai miei occhi inesperti. Sono tre cerchi concentrici in argento; il più piccolo ospita incastonata una pietra lucida che non so riconoscere, sulla quale, in tonalità di bianco, nero e grigio, si sviluppa un affascinante disegno astratto fatto di linee curve che si intrecciano. È un attimo, e prima ancora che io riesca a dire qualcosa, Rodolphus si è già avvicinato al proprietario della bancarella per chiederne il prezzo.
«Dieci euro».
Rodolphus annuisce, fingendo di comprendere l’importo in moneta non solo babbana, ma persino straniera. Attendo che si volti nella mia direzione, chiedendomi silenziosamente di aiutarlo, ma lui mi stupisce, estraendo dalla tasca una banconota blu.
«Tieni il resto».
«Vuole un pacchetto regalo?» si affretta a domandare l’uomo, fissando lievemente stupito la banconota che ha preso dalle mani di mio fratello.
Immagino che lui stia per esibirsi in uno dei suoi famigerati ghigni prima di rispondere No, grazie, sono per me, ma evidentemente oggi ha intenzione di continuare a sorprendermi.
«No, grazie» replica semplicemente prima di tornare a dirigersi vero Malá Strana, gli orecchini a scomparire in una delle sue tasche.
«Sono per Bellatrix?»
«No».
«Sono per te?»
Rodolphus scoppia in una risata fragorosa che fa voltare qualche testa intorno a noi. Si ferma poi di scatto e si volta verso di me, fronteggiandomi come se stessimo per intraprendere un duello mortale, sfidandomi a parlare ancora. E ancora una volta mi stupisce.
«Sono per Narcissa».

La Chiesa di San Nicola in Malá Strana[1] è probabilmente la più brutta che io abbia mai visto in vita mia, pur non avendone visitate molte. La sensazione che si ha appena varcata la grande soglia è di entrare in una gigantesca torta, rosa confetto e troppo decorata. L’oro brillante delle innumerevoli statue disseminate in ogni dove colpisce gli occhi quasi con ferocia. Mi guardo intorno incredulo, domandandomi quale mente insana possa aver progettato un’accozzaglia così pacchiana di colori e decorazioni.
«Non lo vedo» dice seccato Rodolphus, totalmente disinteressato ai marmi lucidi e alle colonne imponenti. In effetti, al di là di una manciata di persone intente a pregare, la chiesa è deserta. Mi fermo a metà della navata centrale per osservare questi uomini e donne, impegnati a sussurrare inutili preghiere al loro dio. Inginocchiati, proprio come noi al cospetto dell’Oscuro. È questo che è per noi? Un dio? Forse lo è stato un tempo. Prima di Azkaban, prima della guerra, prima del sangue. Prima. Può continuare ad esserlo anche ora, un dio? Posso davvero credere ancora in Lui?
Uno degli uomini assorti in preghiera solleva lentamente la testa, sino a un attimo prima abbandonata contro le mani giunte. Le sue guance sono rigate di lacrime.
«Vieni».
La mano di Rodolphus si posa con decisione sulla mia spalla e mi distoglie dal filo insensato dei miei pensieri. Si dirige a grandi falcate verso un uomo che ci dà le spalle, impegnato a sistemate alcuni oggetti sull’altare.
«Mi scusi…» Rodolphus attende che l’uomo si volti a guardarlo prima di proseguire, con voce bassa, in un tono delicato, come se avesse il timore di farsi udire da qualcun altro. «Stiamo cercando un uomo, un certo Radek. Sa dirci dove possiamo trovarlo?»
L’uomo inclina lievemente il capo da un lato, probabilmente soppesando le parole di mio fratello.
«Mi dispiace, ma non conosco nessun Radek».
Rodolphus sta già per ringraziarlo ed andarsene quando un pensiero improvviso colpisce la mia mente, inaspettato.
«Rastislav allora? O Radomír?» chiedo, pur dubitando che la mia domanda possa essere di alcun aiuto.
L’uomo si gira allora nella mia direzione sorridendo, un’espressione inspiegabilmente compiaciuta ad aleggiare sul suo volto. Ha tratti molto marcati, grandi mascelle squadrate e capelli cortissimi.
«Rehor» mormora, annuendo quasi sovrappensiero. «Accomodatevi pure, andrò a chiamarlo io per voi», e con un ampio gesto del braccio sinistro ci invita a sederci.
La mano di Rodolphus torna a posarsi sulla mia spalla per spingermi verso una delle innumerevoli file di panche in legno scuro. «Complimenti» sussurra al mio orecchio, in un tono indecifrabile.
«Grazie» rispondo a voce troppo alta, un po’ a mio fratello, un po’ alla schiena dell’uomo che sta già scomparendo dietro a una piccola porta, soffocata da statue di angioletti dorati.
Ci sediamo in una delle prime file, attendendo pazientemente di incontrare il nostro informatore.
Più trascorre il tempo in questa città e più ogni azione che compiamo mi appare assurda, ogni gesto o parola pronunciata surreale. Mi invade lentamente la spiacevole sensazione che le nostre piccole gesta quotidiane non ci stiano affatto conducendo al raggiungimento di alcuno scopo. Non stiamo evolvendo, dopo Azkaban, dopo la guerra, dopo il sangue, stiamo semplicemente tornando al punto di partenza. Non impariamo dai nostri errori, e anche se ce ne rendiamo conto non abbiamo la forza di cambiare.
Regrediamo per inerzia, e la cosa mi spaventa.
«Eccolo».
Rodolphus indica con un cenno del capo una figura ammantata di nero di fronte a noi che si dirige lentamente nella nostra direzione.
Sospiro. Più il tempo trascorre e più sembra non farlo.

«Benarrivati».
Questa volta l’improvviso ridisegnarsi delle sue cicatrici non mi trae in inganno, e faccio del mio meglio per ricambiare il suo sorriso. Radek prende posto nella fila di fronte alla nostra dandoci le spalle, si fa il segno della croce prima di riprendere a parlare.
«Sono felice che siate venuti».
«Credevi che non l’avremmo fatto?» domanda mio fratello, lievemente irritato dalla sua affermazione.
«L’esperienza mi ha insegnato a non dare mai nulla per scontato, amico mio».
«Ad ogni modo adesso siamo qui» intervengo io in tono conciliante. «Hai le nostre informazioni?»
«Non immaginavo aveste così tanta fretta…»
«Vogliamo soltanto tornare a casa» rispondo, pur sapendo che si tratta di un’ignobile bugia.
Al mio fianco, Rodolphus ride.
«Benissimo allora» prosegue Radek, ignorandolo. Si volta infine verso di noi, osservandoci attentamente uno per uno prima di estrarre qualcosa dalle pieghe della sua veste da alchimista. È una pergamena ingiallita, i bordi consumati dal tempo e dal morso dei topi.
«Il vostro amico…»
«Non è nostro amico».
Rodolphus ha parlato con estrema calma, lo sguardo concentrato sull’accendino d’argento che stringe tra le mani abbandonate in grembo. Non mi ero nemmeno accorto che lo avesse estratto dalla tasca della veste scura.
«L’uomo che chiamate Igor Karkaroff si nasconde a Český Krumlov[2], una città nel Sud del Paese. Lo troverete nella Città Vecchia, seguendo le indicazioni di questa mappa».
Allunga il rotolo di pergamena verso mio fratello, che lo prende senza esitare per poi aprirlo di fronte ai nostri occhi. È vuoto, immacolato, nessun segno a solcarne il tessuto fibroso.
Rodolphus decide di fidarsi e lo fa scomparire all’interno della sua veste senza ulteriori domande.
«Grazie».
Radek annuisce e continua a guardarci, probabilmente in attesa che ce ne andiamo, ma Rodolphus non dà alcun segno di volersi muovere. Ha ricominciato a giocare con l’accendino, percorre la lingua di serpente che gli si attorciglia intorno con il polpastrello dell’indice sinistro.
Io ripenso a come siamo arrivati ad essere seduti qui oggi, nell’immobilità e nel silenzio spettrali di questa chiesa, che tanto contrastano con i suoi colori eccessivamente vivi e brillanti. Ripenso al passato per non dover immaginare il futuro e una domanda, sciocca forse, mi giunge spontanea.
«Perché ci aiutate?»
Radek, o Rehor, o Radomír, distoglie lo sguardo dalle mani di Rodolphus per posarlo sul mio volto teso.
«Come, prego?»
«Perché lo fate?» domando nuovamente, sentendomi più stupido ad ogni nuova parola che lascia le mie labbra. «Cosa ottenete in cambio?»
Il nostro informatore continua a scrutare con attenzione il mio viso come se lo vedesse per la prima volta. Ogni cicatrice più tesa del solito, ogni ustione più in rilievo, in qualche oscuro modo più visibile. Eppure ciò che più mi inquieta è l’assurda consapevolezza, l’assoluta certezza che, se potesse ignorare per un attimo il silenzio della chiesa e le sue altrettanto tacite regole, scoppierebbe in una sonora risata, una lunghissima, infinita risata di scherno e derisione.
Mi domando quale nuova conformazione assumerebbe il suo volto.
«Mi sorprende che tu mi faccia questa domanda».
Mi sposto a disagio sulla panca, cogliendo con la coda dell’occhio lo sguardo felino di Rodolphus che si posa su di me, una vaga espressione di interesse sul suo viso stanco.
«Perché?»
«Per via del Marchio che mi hai mostrato ieri. Tu ti stupisci che io aiuti voi e, di riflesso, l’Oscuro Signore. Ti domandi cosa possa ottenere in cambio. Eppure i miei sforzi per aiutarvi sono stati minimi e nel momento esatto in cui varcherete quella soglia» indica con un cenno del capo l’imponente ingresso della chiesa alle nostre spalle, «la mia vita tornerà ad essere quella di ogni giorno. Ma per voi, che avete deciso di indossare il Marchio Nero sulla vostra stessa carne, è questa la vita di tutti i giorni: dedicare ogni vostra energia, ogni vostro attimo, ogni vostra scintilla di vita a Lui. Non sarebbe più sensato domandarsi perché voi lo fate? Cosa voi ne ottenete?»
Radek, finalmente, tace, il silenzio intorno a noi più assordante di prima.
«Azkaban» giunge però indesiderata la voce di Rodolphus. «Per il momento abbiamo ottenuto solamente Azkaban».
Mio fratello si alza all’improvviso, invitandomi a fare altrettanto strattonandomi frettolosamente per un braccio.
«Grazie per averci aiutati, Radovan. Addio».
L’alchimista ci sorride un’ultima volta.
«So che Rouven ha donato un Golem a ciascuno di voi. Teneteveli stretti. Non si ha mai abbastanza fortuna».
Attraversiamo la navata centrale a grandi falcate. Mi sento un vigliacco per non aver neanche tentato di dare una risposta a Radek, per non averlo nemmeno guardato o salutato.
Fuori piove.

La valigia di Rodolphus è pronta vicino alla porta della nostra piccola camera d’albergo.
Lui mi osserva comodamente sdraiato sul suo letto, la sigaretta accesa in una mano, una bottiglia di whisky incendiario mezza vuota nell’altra.
«Perché non la fai con la magia?»
Il suo sguardo divertito mi segue attentamente mentre cerco di piegare con cura i miei vestiti, ottenendo scarsi risultati.
«Perché ho voglia di farla a mano».
Mi torna in mente il momento in cui la mia bacchetta è caduta ai miei piedi a casa Malfoy, il desiderio improvviso che ho sentito di non toccarla mai più per il resto della vita.
«Quando vuoi partire?» domando distrattamente a Rodolphus.
«Domani mattina. Presto»
«Va bene».
Mio fratello sbuffa l’ennesima nuvoletta di fumo nell’aria stantia dell’ambiente. Chiudo finalmente la valigia e vado a sedermi sul bordo del suo letto sfatto.
«Posso averne una?»
Rodolphus mi osserva vagamente stupito prima di posare la bottiglia di whisky sul comodino, accanto agli orecchini di Narcissa, e recuperare un pacchetto malandato di sigarette babbane dal cassetto.
«Credevo fumassi soltanto le sigarette al mentolo. Quelle da donna».
«Come facevi a saperlo?»
«Che fumi quelle schifezze al mentolo?»
«No, che Radek si chiamava anche Radovan? Come facevi a conoscere un altro dei suoi nomi?»
Rodolphus scrolla le spalle con aria indifferente.
«Ho tirato a indovinare. È il primo nome pseudo ceco che inizi con la erre che mi sia venuto in mente».
Annuisco, sbuffando un piccolo cerchio di fumo grigio nella sua direzione.
«Fottiti» replica Rodolphus, voltandosi sul fianco destro e dandomi la schiena. Intuisco però il sorriso nella sua voce, nel suo tono infantile fintamente offeso.
«Domani a quest’ora sarà tutto finito…»
«Vuoi davvero tornare a casa?» mi chiede, continuando a darmi le spalle.
«No» rispondo sicuro, spegnendo la sigaretta sul ripiano lucido del comodino, come gli ho visto fare infinite volte in queste settimane. Rimaniamo in silenzio per qualche minuto, ascoltando il rumore della pioggia che batte ancora incessantemente sull’unica finestra della stanza.
«Rodolphus, hai ancora il tuo Golem?»
Mio fratello torna a sdraiarsi sulla schiena. Vedo di nuovo i suoi occhi viola e stanchi, la pelle tirata sugli zigomi e le guance scavate.
Spegne anche lui la sigaretta sul comodino e riprende la bottiglia di whisky, portandola immediatamente alle labbra e finendone il contenuto in un unico sorso.
«L’ho rotto».






[1] Malá Strana
[2] Český Krumlov

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Capitolo 5
*** Epilogo - Český Krumlov ***


Nota: Epilogo dedicato alle mie polle che mi hanno sostenuta (?) nella sofferta stesura di questo capitolo finale, anche se a modo loro XD Ad Alektos, ladyhawke, Rowena, Erin, freddymercury e RobyLupin!



[ Epilogo - Český Krumlov ]


But if I crossed a million rivers
And I rode a million miles
Then I'd still be where I started

'Keep yourself alive', Queen

Rimaniamo immobili, lasciando che il vento freddo ci passi indisturbato tra i capelli, che giochi con le nostre vesti di tessuto pregiato e ci costringa a socchiudere gli occhi nella luce soffusa del primo mattino. Arroccato sulla cima di una collina, l'arco che dà sulla Città Vecchia di Český Krumlov è, finalmente, di fronte a noi. A separarci un piccolo ponte di pietra, una sottile linea di confine tra ciò che eravamo un tempo e l'ultima possibilità che ci rimane di redimerci, di pentirci, di cambiare e soccombere. Possiamo ancora voltarci indietro e andarcene, possiamo ancora decidere di ribellarci, possiamo ancora tendere alla salvezza. Non la sua, la nostra salvezza. La nostra egoistica, egocentrica, codarda salvezza. Eppure, anche se rimaniamo immobili uno di fianco all'altro senza guardarci, senza parlare, senza nemmeno intuire la sagoma scura dell'altro con la coda dell'occhio, sappiamo già che non lo faremo. Non ci salveremo, non grazieremo nessuno oggi, ma attraverseremo invece quel ponte, varcheremo quella porta e, ancora una volta, ubbidiremo.
«Sembra un bel posto» mormora appena Rodolphus, senza muovere un solo passo in direzione dell'arco.
«Per morire?»gli domando voltandomi a scrutarlo, vagamente infastidito.
Rodolphus replica semplicemente scrollando le spalle e si gira a sua volta a guardarmi, sorpreso dal mio tono inspiegabilmente stizzito. «Andiamo?» chiede a voce sempre bassa, quasi non volesse disturbare l'inquietante silenzio di questo luogo irreale. Lo dice continuando a stare fermo, immobile, una statua nel paesaggio spazzato dal vento. Ma almeno per questa volta non ho intenzione di dargliela vinta. Non sarò io a varcare quella soglia per primo, non sarò io a ripercorrere da solo quel corridoio sotto lo sguardo severo delle marionette, non sarò io a esporre il Marchio pulsante al tocco doloroso di un estraneo, non mi piegherò ancora al suo volere. Annuisco e gli faccio cenno con il capo di precedermi e quando Rodolphus muove i primi passi scuotendo lievemente la testa un pensiero improvviso mi colpisce: è un segno di coraggio il mio? Un segno di ribellione o di immaturità?
Quando mio fratello varca finalmente la porta della Città Vecchia, capisco che si tratta di vigliaccheria. Ho lasciato che scegliesse per me, che il compito di decidere delle nostre sorti fosse unicamente suo: ha scelto lui se proseguire o meno, se provare a cercare qualcosa che fosse ancora vagamente umano in noi o meno.
E Rodolphus, immancabilmente, ha scelto l'autodistruzione.

«Ho fame».
Mi appoggio stancamente al parapetto in legno del ponte. L’acqua scorre grigia sotto di noi, rapida e ignara. Alle mie spalle, Rodolphus tenta inutilmente di accendersi una sigaretta, impotente contro la forza costante del vento.
«Dannazione!»
Lo osservo con la coda dell’occhio mentre lascia scivolare l’accendino d’argento nella tasca della veste per poi estrarne la bacchetta per la punta, quanto basta per dar vita alla sigaretta babbana senza farsi notare da eventuali passanti, anche se sino ad ora, incredibilmente, non abbiamo ancora incontrato nessuno per le vie di Český Krumlov.
«Ho fame» ripete poi, dopo aver preso una prima, lunga boccata. «Andiamo, troviamo un pub».
«Come puoi voler mangiare adesso?!» sbotto voltandomi nella sua direzione, in modo che possa vedere tutto il disgusto dipinto sul mio volto. «Abbiamo appena ucciso un uomo!»
Rodolphus mi guarda impassibile, sbuffando una nuvoletta di fumo nell’aria e osservandola disperdersi immediatamente nel vento feroce.
«Forse è proprio per questo che voglio andare al pub. Forse non voglio solo mangiare».
Sorride beffardo e si avvia con passo misurato nella direzione opposta a quella da cui siamo venuti.
«Forse voglio anche bere».


«Sei sicuro che sia questa la via giusta?»
«C’è un’unica strada principale, Rabastan…» replica Rodolphus con tono sicuro, lanciando però una rapida occhiata alla cartina che stringe in mano. La pergamena immacolata che ci ha consegnato Radek a Malá Strana si è animata subito di nomi, vie e piazze al primo leggero tocco della bacchetta di mio fratello, quando ancora dovevamo raccogliere il coraggio di varcare l’arco d’ingresso del centro storico.
Český Krumlov ha una forma particolare e ostile. Si snoda tutta a partire da una ripida via di acciottolato grigio che percorre l’intero centro storico; dalla cima della collina, ai cui piedi si trova la città moderna, sino allo stretto impluvio in cui scorre il fiume e poi ancora in su verso una seconda collina. Deve aver piovuto di recente, perché ogni cosa è ricoperta da una sottile patina d’acqua rilucente.
«Come mai non c’è nessuno in questo posto?»
«Rabastan, rilassati per favore…» ma dal tono della sua voce capisco che anche lui è nervoso. Intorno a noi c’è un silenzio irreale, intaccato unicamente dal rumore soffocato del fiume che scorre in lontananza e dai nostri passi simultanei sull’acciottolato umido.
Camminiamo in silenzio per un po’, sino a raggiungere un ampio ponte interamente in legno che attraversa il fiume, sospeso a pochi metri dalla rapida corrente grigia dell’acqua. Mio fratello si ferma a metà per consultare ancora una volta la cartina.
«Siamo vicini, ormai» dice senza sollevare lo sguardo dalla pergamena «dovrebbe essere in cima a quella via». Finisce la sigaretta che sta fumando e la butta nel fiume in piena prima di tornare a camminare.
«Tieni» mi sussurra, tendendomi la mappa. «Per ricordo».
Risaliamo la collina per ritrovarci in una piccola piazzetta dalla forma irregolare, dominata alla nostra sinistra da un antico teatro dalla facciata elegante. La locandina dello spettacolo in cartellone è color verde acqua, a riprendere i toni dell’insegna del teatro stesso. Non ci sono immagini, solo un titolo a me incomprensibile e una data, quella di oggi. Provo a immaginare questa piazza alla sera, illuminata dai lampioni e dalle stelle, con la gente raggruppata in piccoli capannelli a chiacchierare animatamente prima dello spettacolo. È un’immagine allegra e serena, completamente in contrasto con la realtà silenziosa e immobile che mi circonda.
Quando finalmente distolgo lo sguardo dall’ingresso del teatro, Rodolphus non è più al mio fianco. È dall’altra parte della piazza, di fronte alla porta di una palazzina a due piani. Lo raggiungo e gli poso una mano sulla spalla, anche se non siamo abituati al contatto fisico, ai gesti fraterni. Lui attende un attimo prima di puntare la bacchetta contro il legno solido e scuro della porta.
«Alohomora».
Rodolphus fa per entrare, ma si volta prima a guardarmi, di tre quarti, senza dare completamente le spalle alla porta socchiusa.
«Rabastan…»
Mi sento come avvolto da uno strano torpore, come se una mano invisibile tenesse in pugno la mia mente, impedendomi di pensare con chiarezza.
«Rabastan?!»
La voce feroce di mio fratello mi riporta alla realtà.
«Sì?»
«La bacchetta! Tirala fuori, idiota!»
Ignorando l’insulto, obbedisco automaticamente. Estraggo la bacchetta dalla tasca della veste e seguo Rodolphus nel piccolo atrio semi oscuro della casa. Forse, in questo momento, non pensare è meglio. Forse, anche se solo per il momento, preferisco obbedire ciecamente.
A prima vista la casa sembra abbandonata; l’ingresso ed entrambe le stanze che vi si affacciano sono deserte, prive di mobili o di qualsiasi altro segno di vita. L’unica macchia di colore è un grande quadro alla nostra sinistra, dove un vecchio lord in vestaglia gioca una partita a scacchi da solo, contro se stesso. Vorrei avvicinarmi per osservarlo meglio quando Rodolphus, dopo aver controllato per sicurezza le altre stanze, mi supera puntandogli contro inspiegabilmente la sua bacchetta e portandosi un dito alle labbra.
«Rodolphus…» sussurro nella sua direzione.
«Potrebbe avvisare Karkaroff, potrebbe passare in un’altra cornice e…»
«Rodolphus, è un quadro babbano!»
Mio fratello si zittisce all’istante, stupito. Muove qualche altro passo verso il quadro sino a toccarne cautamente la tela con la punta della bacchetta. L’espressione del vecchio, colpito in pieno volto, non cambia, rimane impassibile, esprimendo la stessa identica concentrazione che assume invariabilmente da quando è stato dipinto chissà quanti anni, o decenni o secoli fa. Le dita della mano destra strette intorno ad un alfiere nero per il resto dell’eternità.
«Ehm, non lo avevo notato, è troppo buio qui…»
«Qualche incantesimo difensivo deve esserci sicuramente però, non può essere così semplice» commento, una tenue ombra di sorriso ad aleggiare sulle mie labbra alla vista della sua espressione imbarazzata. Nonostante l’ansia. Nonostante la paura e l’inquietudine.
Rodolphus volta le spalle al quadro ma, così come prima con la porta, non completamente, per osservare la ripida scalinata centrale in legno che porta al secondo piano.
«Lo scopriremo presto».

Le scale non emettono alcuno scricchiolio mentre le percorriamo circospetti, silenziose come qualsiasi altra cosa intorno a noi. Anche il gorgoglio continuo del fiume, ormai, è soltanto un ricordo.
Giunti in cima controlliamo una per una le stanze che si affacciano sul piccolo ballatoio, tutte immancabilmente vuote, ma in maniera diversa da come può essere vuota una casa abbandonata da tempo. Qui è molto difficile, impossibile quasi, immaginare che qualcuno possa mai aver vissuto tra queste mura.
«C’è qualcosa che non va Rodolphus, perché non c’è nulla? Nemmeno un banale incantesimo?»
«Igor non è mai stato particolarmente brillante…» commenta Rodolphus scrollando le spalle. Mi supera ancora una volta per dirigersi verso l’ultima stanza da controllare.
«Non dimenticare che è del Preside di Durmstrang che stiamo parlando…». Ho provato ad obbedire ciecamente, ma non riesco a non pensare a tutta la magia nera che deve conoscere Karkaroff.
Non riesco a non avere paura.
Ho appena pronunciato le ultime parole quando varchiamo la soglia dell’ultima, immensa stanza e lo vediamo. È bellissimo e indubbiamente molto prezioso. Alto, rettangolare, con una spessa cornice elaborata in oro massiccio. La superficie è liscia, perfetta, senza una sola macchia o un graffio, e riflette il resto della camera, vuota, e le nostre figure ammantate di nero, i nostri volti stupiti.
Ci muoviamo all’unisono verso lo specchio, poggiato precariamente a terra e contro il muro, nell’angolo più distante dalla porta.
Rodolphus osserva attentamente il proprio volto, come se lo vedesse per la prima volta da quando abbiamo lasciato Azkaban. Si avvicina sempre di più, toccandosi incredulo una delle guance tremendamente magre e scavate, gli occhi viola colmi di repulsione e disgusto.
«C’è qualcosa che non va, Rodolphus».
«Questo l’hai già detto, Rabastan» sbotta lui stizzito, ancora rapito dai suoi zigomi sporgenti, da come sembrano in procinto di bucare la sua pelle candida e fuoriuscire prepotentemente.
«Dico sul serio, Rodolphus!»
Mi guardo intorno e mi domando con stupore come ho fatto a non notare prima che, pur essendo totalmente privo di finestre, torce o marchingegni babbani, l’ambiente è illuminato a giorno.
La luce proviene direttamente dalla cornice dello specchio.
Mi volto nuovamente per farlo presente a mio fratello e nella frazione di secondo in cui tutto accade non posso far altro che osservare impotente. Rodolphus allunga la mano libera dalla bacchetta verso lo specchio e appena le sue dita ne sfiorano la superficie, inspira con ferocia una grande boccata d’aria, come un uomo che stia affogando in mare, in bilico sul filo della salvezza tra acqua e cielo. Il suo riflesso invece, assolutamente rilassato, sorride beffardo e in due soli passi è fuori dallo specchio, in carne ed ossa, faccia a faccia con mio fratello. Rodolphus emette un verso strozzato e alza automaticamente la bacchetta a toccare il petto della sua copia perfetta, che ancora imita in maniera eccezionale l’insopportabile ghigno che ho visto infinite volte sul suo volto.
Basta però un solo attimo di incredulità, un solo momento di esitazione da parte nostra e il nuovo Rodolphus tocca a sua volta lo specchio, facendone uscire un terzo, che tocca a sua volta lo specchio creando un quarto Rodolphus e così via, sino a che la stanza è invasa da decine di copie perfette di mio fratello, che si perde tra di essi senza che mi rimanga alcuna possibilità di riconoscerlo.
Esattamente come avevo pensato.
Igor Karkaroff è il preside di Durmstrang.

Abbiamo camminato a lungo per le strade di Český Krumlov in silenzio, senza alcuna meta. Più il pomeriggio scivola lentamente nella sera, più il vento si fa freddo, crudele, e la luce bassa insopportabile ai miei occhi.
La Città Vecchia è più grande di quanto pensassimo, gli stretti vicoli laterali più intricati di quanto non sembrassero questa mattina, quando eravamo guidati dalla mappa di Radek. Adesso che la pergamena ha preso fuoco, nel preciso istante in cui ho puntato la bacchetta contro Karkaroff e l’ho ucciso, assolvendo il nostro ed il suo compito, siamo liberi di percorrere queste vie senza dover seguire le sue indicazioni.
Siamo liberi e persi.
«Lo senti anche tu?» mi domanda Rodolphus, fermandosi d’improvviso ad annusare l’aria.
«Sì, lo sento».
«Luppolo. Pare che non abbiamo trovato solo un pub, fratellino, ma un’intera fabbrica» sorride soddisfatto, nascondendo le mani in tasca per ripararle dal freddo e proseguendo lungo la strada.
«Sei sicuro di volerlo fare, Rodolphus?»
«Non ho molta voglia di tornare subito a casa, Rabastan. E smettila di lamentarti per una volta, puoi farcela?!» sbotta stizzito, superandomi senza neanche guardarmi.
«Non sei stato tu a scagliare quella maledizione, Rodolphus!»
Immagino Igor Karkaroff quando raggiungerà la foce del fiume, o un altro corso d’acqua. Il suo cadavere gonfio, bluastro, gli occhi ancora sbarrati.
«No, infatti, sei stato tu, quindi? Ero abbastanza impegnato a uccidere me stesso, se ti ricordi!»
Per un attimo mi sento spiazzato, colpito a fondo dalle sue parole. Per la prima volta mi domando come deve essere stato per lui, combattere e veder polverizzarsi decine e decine di uomini con le sue stesse identiche fattezze, la sua stessa voce, i suoi stessi occhi, quando già per me è stato così orribile. Così innaturale.
Egocentricamente, non ci avevo ancora pensato.
Arriviamo in un largo spiazzo poco illuminato di fronte alla fabbrica di birra ed al pub che le sta affianco, ospitato da un fabbricato di pietra dall’aspetto severo.
Eggenberg , 1560.
«A proposito» prosegue Rodolphus, aprendo la porta del locale senza alcuna esitazione «dopo dobbiamo tornare a prenderlo».
«Cosa?» domando, abbandonando anche io i toni accesi della nostra breve discussione.
Mio fratello mi ignora e sale deciso una rampa di scale, attraversando poi un ampio corridoio che pare infinito. Alle pareti, a distanza regolare e incorniciate, sono appese delle pergamene. Attestazioni, sembrano, premi di qualità per la birra locale ed il pub pluricentenario.
«Cosa dobbiamo prendere?» domando ancora, temendo di conoscere già la risposta e stringendo con la mano la spalla ferita, quasi a volermi difendere dalle sue parole.
Rodolphus si dirige verso uno dei tavoli più distanti dall’ingresso e dal bancone e si siede, accavallando le gambe con aria rilassata prima di rispondere in tono piatto, casuale.
«Lo specchio».


In pochi secondi mi ritrovo a pensare mille cose: che dovrei provare a distruggere lo specchio, a riconoscere mio fratello, a trovare Karkaroff, ma bastano quei pochi secondi perché la battaglia abbia inizio e mi assorba, impedendomi di continuare a ragionare. Ogni Rodolphus nella stanza combatte animosamente contro le sue stesse copie, annullando anche le minime possibilità che avevo di individuare quello vero in mezzo al caos di urla e incantesimi che hanno rotto il silenzio irreale della casa, invadendo la stanza. Non mi resta che difendermi scagliando a mia volta raggi di luce rossa in ogni direzione, limitandomi agli Schiantesimi, attanagliato dalla paura di colpire il vero Rodolphus, una paura atavica, primaria, allo stato puro, che non avevo mai provato in vita mia.
Per ogni figura che cade a terra e si dissolve nell’aria con un piccolo sbuffo di fumo nero, un’altra esce dallo specchio, andando a prendere il suo posto in battaglia.
«Rodolphus!» grido con il poco fiato che ho in gola, sperando che possa sentirmi.
«Sono qui!» un coro di voci si alza all’unisono, senza smettere di combattere ogni suo sosia ripete contemporaneamente e insieme a lui le sue parole, facendole rimbombare sinistramente tra le pareti spoglie dell’ambiente.
Faccio per parlare ancora ma un fascio di luce improvviso mi fa cadere pesantemente a terra, lacerando la mia veste all’altezza della spalla destra. Continuo a scagliare incantesimi anche da terra, anche se sanguino, anche se non riesco a immaginare come potremmo mai salvarci da questa situazione assurda e lo vedo.
Karkaroff.
Il flusso di Rodolphus uscenti dallo specchio si è apparentemente arrestato e al suo posto è comparso lui. Igor Karkaroff. Metà del suo corpo invisibile, ancora al di là della superficie riflettente dello specchio e l’altra metà affacciata sulla stanza, le mani saldamente strette intorno alla cornice dorata dell’oggetto che, per il momento, gli sta salvando la vita. Si guarda intorno, aspettando l’attimo giusto per lanciarsi in mezzo ai maghi duellanti e scomparire ancora una volta, per chissà quanti altri mesi o anni.
«Rabastan!» si alza ancora una volta la voce orribilmente amplificata di Rodolphus, «Seguilo!»
Se non sarà un mostro con il volto di mio fratello a uccidermi, sarà l’Oscuro. È questo che mi spinge a fare come dice lui, abbandonandolo a combattere da solo come non mi sarei mai pensato capace di fare, non con così tanta semplicità almeno. Perché tanto anche per lui, se non morirà in questa stanza e se non giustizieremo Igor, sarà per mano dell’Oscuro.
Mi precipito verso la porta aprendomi la strada a spallate e scagliando maledizioni dietro la mia schiena. Continuo a lanciare Schiantesimi anche correndo giù per le scale, inseguito da una dozzina di sosia di mio fratello; ho appena raggiunto l’atrio quando un raggio di luce rossa mi sfiora una guancia e va ad infrangersi sul quadro. Ho giusto il tempo di notare il pezzo di tela mancante là dove l’incantesimo l’ha colpita, distruggendo l’alfiere e lasciando le dita del vecchio a stringere il vuoto, prima di ritrovarmi finalmente all’aria aperta. I Rodolphus mi raggiungono subito, costringendomi a continuare senza sosta la battaglia, e attraverso la porta aperta ne vedo altri accorrere giù per le scale.
«Stupeficium!»
Con la coda dell’occhio scorgo Karkaroff, è dall’altra parte della piazza, diretto alla ripida via che conduce a valle.
«Avada Kedavra!»
Ora che so che nessuno di loro può essere mio fratello, decido di essere più cattivo, semplicemente per sfogare meglio la rabbia, immagino, la mia paura e la mia frustrazione, stupito nel vederli ancora duellare tra di loro e sollevato invece nel notare che, finalmente, vanno diminuendo.
Oppure, non riesco a impedirmi di pensare, mi sto inconsciamente preparando al momento in cui dovrò tornare a scagliare la peggiore delle Maledizioni Senza Perdono contro un uomo realmente vivo, in carne ed ossa.
«Avada Kedavra! Avada Ke…»
«No!»
La loro voce si alza di nuovo, suonando incredibilmente diversa nell’aria fredda della piazzetta.
«Sono io!» urlano ancora all’unisono, a tratti sollevando le mani in segno di resa, a tratti ricominciando a combattere furiosamente, forzandomi a colpire ancora.
«Sono io!» ripetono, ma questa volta, mentre i duelli mortali proseguono intorno a me, mentre le loro mani destre si alzano verso il cielo come guidate da un unico burattinaio invisibile, questa volta lo riconosco.
Questa volta lo riconosco perché il vero Rodolphus, a differenza degli altri, stringe in pungo qualcosa.
All’inizio penso che sia l’accendino d’argento, che potrebbe essere proprio il mio regalo a salvargli la vita.
Ma non è così.
Il vero Rodolphus stringe in pungo il suo piccolo Golem.

Duelliamo ancora, lui sempre con la statuetta saldamente stretta in mano, e improvvisamente, con nostro stupore, la piazzetta rimane vuota, mentre l’ultima copia di mio fratello cade a terra e si dissolve.
Riusciamo appena a guardarci negli occhi, la sua espressione indecifrabile, prima che un rumore acuto proveniente dalla casa ci distragga.
«Ne arrivano ancora… Vai, Rabastan, vai!»
Gli volto le spalle e corro, corro senza pensare a niente, a Igor che si sarà già materializzato in qualche luogo sicuro, alla nauseante nuvoletta di fumo nero in cui svaniscono le sue creature, alla piccola statuina d’argilla. Nulla.
Arrivo in fondo alla discesa ansimando, completamente senza fiato. La spalla sanguinante pulsa dolorosamente sotto la stoffa lacera della veste. A pochi passi da me c’è il ponte e, in fondo al ponte, c’è Karkaroff, accasciato a terra con entrambe le mani a stringere il parapetto di legno.
Percorro la distanza che ci separa con estrema lentezza, guardingo, il rumore dei miei passi incerti annullato dallo scorrere deciso dell’acqua sotto di me. Sollevo la bacchetta puntandola contro la sua figura ricurva quando sono abbastanza vicino da poterlo colpire.
La prima cosa che noto è il candore assoluto delle sue nocche contratte, poi viene tutto il resto. Il volto incredibilmente più magro e scavato del mio, forse addirittura più di quello di Rodolphus. Gli occhi più grandi di quanto li ricordassi, iniettati di sangue, le pupille enormi. I capelli fradici di sudore. La pelle del volto chiazzata, a tratti giallognola, a tratti purpurea.
«Karkaroff».
E all’improvviso capisco perché non è ancora fuggito, perché rimane in ginocchio ai miei piedi tossendo sangue sul legno lucido d’acqua del ponte invece che svanire in un attimo di fronte ai miei occhi, smaterializzandosi. La latitanza lo ha consumato, prosciugandolo di ogni energia. La magia necessaria ad incantare lo specchio è stata il tocco finale.
Igor sta morendo.
Indipendentemente dalla mia bacchetta puntata contro di lui, dalle marionette di Rouven o dalle nostre settimane in questo Paese straniero.
Arti Oscure. Più è potente la magia, più è alto il prezzo da pagare, come illustrano alla perfezione le cicatrici di Radek, e nessuno tra noi Mangiamorte in questo ha mai avuto la resistenza fisica e mentale di Severus Piton, nemmeno, per mia fortuna, il preside di Durmstrang.
Karkaroff si porta una mano sul viso, a stringere tra le dita la radice del naso adunco, mantenendo però saldamente la presa sulla ringhiera con l’altra. Apre la bocca per dire qualcosa, ma la sua voce flebile è portata via dal vento.
«Come?» domando, senza mai abbassare lo sguardo.
«Ho detto che… sono felice che sia tu. E non lui…» accenna con il capo alla cima della piccola collina, dove immagino che Rodolphus stia ancora combattendo, ma non mi volto a guardare. La piazza del teatro, ad ogni modo, non è visibile da qui.
«Perché?»
Igor emette una breve risata strozzata, lasciando cadere a terra anche la seconda mano.
«Perché, nel caso non lo avessi ancora notato, tuo fratello è più crudele di te. Più vendicativo. Lui non mi avrebbe ucciso subito».
Attendo un istante prima di replicare, domandandomi silenziosamente di cosa dovrebbe mai vendicarsi Rodolphus con lui.
«Io non ti ho ancora ucciso».
«Lo farai presto».
Non aspetto altro. Non aspetto che mi guardi ancora negli occhi o che parli ancora a sproposito pensando di conoscere mio fratello meglio di me.
«Avada Kedavra!»
Il suo corpo scivola piano, silenzioso, il fianco sinistro poggiato contro il parapetto.
Gli occhi neri rimangono aperti, vuoti.
Lo osservo per un po’, la bacchetta ancora sospesa a mezz’aria, pronto per un attimo di realizzazione che non arriva, un momento di comprensione, della sua effettiva morte, del compimento finale del nostro compito, dell’ormai imminente ritorno a Londra, che però ancora mi sfugge.
Mi inginocchio di fronte a lui per iniziare a lavorare meccanicamente, come ai vecchi tempi. Cercherò la sua bacchetta tra le pieghe della veste troppo larga, per evitare che qualche babbano la trovi sul suo corpo e si domandi cosa sia. Poi farò comparire un coltello che userò per deturpare orribilmente il suo avambraccio sinistro, e il sangue, ancora per poco pulsante nelle vene, sgorgherà da quello che sino a poco fa era un Marchio Nero, cancellato adesso da una carne che, evidentemente, non era degna di indossarlo. Infine, farò levitare il suo cadavere caldo nelle acque gelide del fiume che lo porteranno via, lavando ogni traccia del nostro, mio, peccato.
Ma prima di fare tutto questo, mi viene in mente un’idea strana, bizzarra. Forse sciocca.
Infilo una mano in tasca e ne estraggo il mio Golem, il mio portafortuna. Lo infilo tra le sue dita sottili, chiudendovele intorno con un incantesimo perché non lo perdano una volta in acqua, il mio prezioso Golem. Inspiegabilmente, una mano a stringere la bacchetta, l’altra il pugno di Karkaroff, fatico a separarmene.
Non so quanto tempo sia passato, ma quando mi volto in direzione della collina Rodolphus è lì, dall’altra parte del ponte.
Non posso esserne certo, ma credo che mi stia osservando.

Il locale è ampio e poco illuminato, arredato in maniera spartana ma elegante con grandi tavoli e sedie in legno scuro e massiccio che contrastano con le pareti completamente bianche.
Se non fosse per due ragazzi seduti al bancone, saremmo ancora una volta soli. Hanno guardato incuriositi le nostre vesti quando siamo entrati, fissandoci più a lungo di quanto sarebbe opportuno.
«Bè, non c’è che dire, i premi sono proprio meritati» commenta Rodolphus, posando il boccale vuoto a metà strada tra i nostri piatti, entrambi a malapena toccati.
«Perché vuoi prendere quello specchio? Non può venirne nulla di buono…».
«Avevi mai visto una cosa simile prima d’ora, Rabastan? Lo porteremo all’Oscuro, e forse ci lascerà in pace per un po’…» replica lui, dando chiaramente poco credito alla sua stessa affermazione.
«Hai detto che le tue copie sono scomparse tutte insieme all’improvviso, Rodolphus. Sicuramente nel momento preciso in cui Igor…
è morto, come la mappa di Radek. È una prova che la magia nera veniva esclusivamente da lui, non dallo specchio. Scommetto che è pure babbano…».
«In ogni caso lo voglio» conclude lui in tono risolutivo, la fronte lievemente aggrottata a farmi intuire che non c’è alcuna possibilità che io riesca a fargli cambiare idea.
Lo osservo impugnare la forchetta e giocare distrattamente con il cibo che riempie ancora il suo piatto, così come nostra madre ci impediva di fare quando eravamo bambini. Il nostro tempo in questo Paese è praticamente finito, e quando torneremo a Londra non so di preciso cosa ci aspetti. Torneremo a nasconderci a Malfoy Manor, immagino, torneremo da sua moglie che detesto e che mi detesta. Sua moglie la cui pazzia è sotto gli occhi di tutti, il cui fanatismo in questi anni ad Azkaban non ha fatto che aumentare, mentre noi desideravamo semplicemente la morte.
Bellatrix che non parla e che non si fa toccare, mentre Narcissa si prende cura di suo marito.
«Mi hai mentito, Rodolphus» dico all’improvviso, senza una vera e propria ragione. Per rompere il silenzio.
Mio fratello distoglie lo sguardo dal piatto e mi fissa incredulo, chiaramente impreparato alle mie parole o al tono distaccato in cui le ho pronunciate.
«Che vuoi dire?»
«Avevi detto di aver rotto il tuo Golem. Non è così. Mi hai mentito».
Rodolphus aspetta qualche istante prima di lasciar cadere la forchetta che ancora stringeva in mano e scoppiare a ridere fragorosamente, facendo voltare per un istante i due ragazzi al bancone.
«E’ questo che ti turba, fratellino, dopo tutto quello che abbiamo passato in queste settimane, oggi, è questo che ti turba?»
«Perché lo hai fatto?»
«Non lo so. Mi andava semplicemente di dirlo».
Estrae una manciata di banconote babbane dalla tasca della veste, probabilmente troppe, e le posa sotto a uno degli innumerevoli boccali vuoti che costellano il nostro tavolo.
«Tu perché hai lasciato il tuo a Karkaroff?» domanda alzandosi e cominciando a camminare in direzione dell’uscita. Il cameriere che ci ha serviti non ci guarda nemmeno mentre scompariamo al di là della porta, inghiottiti dal corridoio e poi dalle scale e infine dalla sera che si è ormai fatta notte.
«Non lo so. Mi andava semplicemente di farlo» replico io, aspettandomi che da un momento all’altro lui si fermi alle mie spalle per accendersi una sigaretta, stringendo con forza l’accendino che gli ho regalato contro il vento che soffia ancora incessante. E infatti, immancabilmente, intuisco la piccola fiammella arancione con la coda dell’occhio.
Come possiamo essere così distanti quando, in realtà, ci conosciamo così bene in ogni gesto, in ogni espressione?
«Hai fatto bene, Rabastan. A lasciargli il Golem intendo» riprende a camminare passandosi una mano tra i capelli troppo lunghi, per toglierseli dagli occhi. «Ne avrà più bisogno lui di te, all’Inferno».
Sorrido. «Sei sempre così tragico, Rodolphus. Così teatrale».
«Lo so».
Svoltiamo un angolo e ci ritroviamo dove non ci saremmo mai aspettati: di fronte all’arco della Città Vecchia, a pochi passi da noi, liberi ma, forse, ancora persi.
Mio fratello guarda al di là dell’arco, verso i prati e le luci della città moderna, e poi alle nostre spalle, la via che riconduce al cuore antico di Český Krumlov, alla casa di Igor e allo specchio.
«Non sarebbe male, vero? Arredare un po’ la casa di Karkaroff e vivere qui. In mezzo a questa pace assoluta. Dimenticarci di Londra, della guerra, di tutto…»
«E Bellatrix?»
«Già, Bellatrix» sbuffa dopo una breve pausa. «Da quando ti preoccupi per lei?»
«Tu quando hai smesso, invece?» domando a bruciapelo,esattamente come quel giorno sulla Torre, un giorno che sembra lontano mille anni.
Rodolphus si volta a guardarmi di scatto, l’espressione furiosa del suo volto perfettamente distinguibile anche nella quasi totale oscurità. Sto per scusarmi con lui, forse per dirgli che riesco sempre a rovinare stupidamente ogni cosa, ma lui mi precede.
«Lascia perdere. Senti… vado io a prendere lo specchio, tu torna subito a Londra».
«Cosa? Perché? È pericoloso…».
«Non dire sciocchezze. L’hai detto tu stesso che ora che Karkaroff è morto è soltanto uno stupido specchio babbano. E poi l’Oscuro avrà sentito svanire il suo Marchio, si chiederà perché ci mettiamo tanto a tornare. Vai da lui a riferire».
«Ma…».
Rodolphus chiude gli occhi, portando una mano a massaggiarsi stancamente la fronte.
«Fallo e basta, Rabastan, per favore. Io ti raggiungerò subito dopo».
«D’accordo» mi arrendo,anche se restio ad accettare di separarci in questo modo, che possa finire tutto così. «Ma fai attenzione».
«Bene».
Butta a terra la sigaretta fumata a metà, spegnendola con il tacco della scarpa, e prima di andarsene e lasciarmi solo ai piedi dell’arco mi si avvicina per stringermi con forza la mano, posando l’altra sulla mia spalla dolorante e guardandomi intensamente negli occhi.
«Per te, fratellino. Per quando ci andrai tu all’Inferno».
Lo guardo allontanarsi nella notte e poi apro il palmo della mano.
È il suo Golem.

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