Scotswood's Murders

di Alfred il sanguinario
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Era un pomeriggio estivo qualunque.
La brezza serale tardava ad arrivare, quel 16 Luglio, ma il momento più caldo della giornata era già passato.
All’epoca vivevo ancora nello Scotswood. Era un area molto povera, e per questo violenta, che attorniava la capitale inglese.
La popolazione era composta perlopiù da irlandesi immigrati disperatamente per cercare lavoro. E il flusso di migranti continuava, imperterrito.
Nello Scotswood era pieno di alcolizzati. Ma correva l’anno 1968 e non c’erano terapie di gruppo per rinunciare forzosamente a tale vizio. Non esistevano gli alcolisti anonimi.
Nello Scotswood era pieno anche di prostitute. Affollavano i cigli delle strade, sventolandosi nervosamente per attenuare la sensazione d’afa, e spesso restavano incinte. Ma da brave irlandesi cattoliche, non abortivano. Per cui non c’era da stupirsi se, a poco più di vent’anni, una donna aveva già cinque o più figli.
Nello Scotswood i bambini girovagano da soli per le strade. Ogni tanto capitava anche che bambini di sei o sette anni si trovassero a dormir per strada, cacciati di casa perché costituivano un costo che ben pochi potevano mantenere, o perché rimasti vittima di un vile scherzo da parte dei fratelli maggiori.
Lo Scotswood era un quartiere che ormai si può solo vedere nei paesi in via di sviluppo. Eppure era lì, a poco più di mezz’ora di macchina dal centro di Londra, dove i più fortunati organizzavano ricevimenti, facevano spese, dove i fotografi vendevano scatti del Big Ben illuminato dalle luci serali.
Nessuno voleva andare nello Scotswood. Nascerci era una condanna, viverci un obbligo e morirci era piuttosto semplice.
Mia cugina, per esempio, venne scambiata per una prostituta che aveva preteso un po’ troppi soldi da un noto spacciatore della zona. Un colpo dritto in fronte bastò a ucciderla. Aveva solo quindici anni.
Il 16 Luglio 1968 è una data che sono condannato a ricordare in eterno.
Mi sventolavo accaldato su un marciapiede qualunque. Accanto a me sedeva Martha, una ragazzetta piuttosto bassa, figlia di alcuni immigrati italiani che a stento riuscivano a parlare inglese. Grazie a non so quale magico prodotto era riuscita ad ottenere un effetto sui capelli che doveva essere una tinta.
“Oggi fa veramente troppo caldo.” si lamentò.
Mi limitai ad annuire.
“Conosco un rimedio.” mi disse lei, e, soffocando una risata, estrasse dalla tasca dei jeans rattoppati una bustina contenente una polvere di colore giallastro.
“Chi ti ha dato questa roba?” chiesi.
“Quello che sta davanti alla chiesa. Dice che è roba buona.”
Afferrai la bustina e osservai accuratamente la polvere. Non sapevo assolutamente cosa fosse davvero, né che effetti avesse su di me, sapevo solamente che tutti nel quartiere la usavano. E io mi adeguavo semplicemente. Molte persone asseriscono che la droga crea una sorta di dipendenza, che trasmette una sensazioni di immotivato piacere. A me restava indifferente.
Quindi, incuranti, dividemmo la razione a metà e annusai quella polvere.
“Mi sa che è una stronzata. Io ho ancora caldo.” le dissi.
Martha scoppiò in una fragorosa risata.
Poi, non contenta della sostanza appena assunta, estrasse una sigaretta, la accese e spirò tutto il fumo che poteva. Sembrava le trasmettesse davvero una sensazione di piacere.
Onestamente non so perché Martha fosse la mia fidanzata. Avevamo entrambi appena dodici anni, e le uniche cose che ci accomunavano erano l’abuso di sostanze dannose e l’avere delle madri depresse.
Mia madre in effetti, dopo il terzo figlio, aveva deciso che non avrebbe mai più fatto nulla nella sua vita. Così si era gettata sul letto, aveva fatto scorta di costosi psicofarmaci, e aveva trascorso così gli ultimi trent’anni della sua vita. Io ero stato il primo figlio. Mi aveva chiamato Patrick come il nonno, e in effetti c’era una certa somiglianza.
“Allora vogliamo comprare questa ciambella?” mi disse Martha, dopo cinque minuti impiegati a fissare il vuoto con gli occhi vacui di chi abusa di sostanze stupefacenti.
Annuii e mi alzai. Le avevo promesso che avremmo comprato una ciambella allo zucchero, con i soldi raccimulati vendendo un po’ della droga fornitaci da una compagna di classe.
Ci dirigemmo a passo svelto verso l’unico negozio di dolciumi dello Scotswood, il Michael’s, dove da un po’ di giorni avevano esposto delle deliziose ciambelle ripiene di crema pasticcera che tanto stuzzicavano lo stomaco di Martha.
Sulla strada notammo ad un tratto un ammasso di vestiti gettato su una panchina. Martha si avvicinò a passo felpato, facendomi segno di seguirla. Soffocava le risate, convinta di tendere un’imboscata al barbone iracondo solito inveire ad alta voce per le strade.
Con una mossa rapida strappò il cappotto che copriva la figura.
Ricordo un urlo di spavento che non udii mai più.
Sotto quel cappotto c’era un bambino. I suoi occhi erano sbarrati e fissi nel vuoto, la sua bocca spalancata.
Fu l’inizio di un incubo. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Rimanemmo per diversi e interminabili attimi attoniti, a fissarci vicendevolmente con sgomento.
Riconoscemmo quasi subito quel bambino. I riccioli biondi, la pelle diafana, gli occhi azzurri, in quel momento fissi nel vuoto e glaciali.
“E’ il figlio di June Fynch, la moglie del tabaccaio!” mi disse Martha.
Non le risposi.
Prese a camminare nervosamente intorno alla panchina, trattenendo con difficoltà la voglia di urlare, di correre. Forse tutto quell’entusiasmo incontenibile era dovuto anche alla cocaina appena consumata. Non ci pensai.
Non pensai a niente, in realtà.
Martha tirò fuori un’altra sigaretta, impugnandola con la mano tremante, la accese fremente e se la ficcò in bocca, inalando tutto il fumo che poteva.
Sembrò calmarsi.
Con quella poca lucidità apparentemente acquisita mi disse: “Dobbiamo fare qualcosa!”
Annuii.
Guardai il cielo. Vedevo delle nere e minacciose nubi temporalesche che incombevano minacciose. Avevamo poco tempo per avvisare i Fynch.
Corremmo a perdifiato dal tabaccaio, che distava poche miglia. Il cielo cominciava a farsi grigio e scuro.
Non appena giungemmo davanti al tabacchino, Martha mi precedette e si fiondò nell’angusto antro odorante di fumo che era il negozio del signor Fynch.
Lo trovammo in piedi, dietro al bancone, rinchiuso dentro una canottiera sudata di due o tre taglie più piccole della sua notevole massa corporea.
“Hai già finito le sigarette?” scherzò lui, non appena la vide entrare, sudata e ansimante.
Martha contorse il viso in un nervoso sorriso.
“Mike” dissi io “c’è un bambino steso una panchina… ci sembra tuo figlio Tom, sai dov’è?”
Il suo sorriso si spense immediatamente, lasciando spazio ad un viso vagamente preoccupato. Come se avesse già il peggiore dei presentimenti.
Lo conducemmo alla panchina. L’afa persisteva, ma si mescolava all’umidità del temporale imminente, creando una strana sensazione sulla pelle, che da allora ho sempre associato a questo macabro avvenimento.
Giunto lì, riconobbe immediatamente il figlio. Si gettò su di lui, in preda ad un primordiale istinto paterno, tentando di risvegliarlo.
Quando cominciarono le grida e le lacrime, accorsero altre persone. Io e Martha ci defilammo.
Sgomitando senza dare troppo nell’occhio, corremmo via.
Prese a piovere. Dapprima si trattava di goccioline di pioggia quasi impercettibili, ma in poco tempo si tramuto in una pioggia torrenziale.
Ci rifugiammo dentro una vecchia fabbrica abbandonata, in attesa che il temporale cessasse, o quantomeno si attenuasse.
Non spiccicammo una parola. Le nostre menti brulicavano di informazioni diverse, i nostri sguardi colmi di incredulità e immotivata stanchezza.
Osservavamo la pioggia che cadeva, la grandine che si mescolava ad essa, ticchettando ritmicamente.
“Credi che sia morto?” mi chiese.
“Non sarebbe il primo.” Risposi. Le nostre voci rimbombavano lungo le spoglie pareti della squallida struttura.
Mi osservò con i suoi occhi corvini, sembravano inumiditi da lacrime.
Nei giorni successivi Scotswood vide solo cieli sereni. Le temperature si alzarono ulteriormente, le giornate si fecero sempre più afose, sino a diventare insopportabili.
Per le strade c’era un’atmosfera surreale.
Cominciarono a girare strane voci, che mi venivano riferite da altri ragazzi del luogo. Si diceva che i signori Fynch arrogavano la colpa dell’omicidio allo spacciatore più importante della zona, Tyler Smith.
Io non mi feci un’idea precisa.
Tre giorni dopo era una mattina qualunque. Stavo in piedi appoggiato ad un muretto, quando mi si avvicinò un’undicenne del luogo, Mary, la figlia di una prostituta. Aveva un caschetto di capelli rossi, il viso diafano punteggiato da qualche lentiggine sulle guance e gli occhi azzurri.
“Oggi pomeriggio ci vediamo dalla scuola. C’è anche Martha.” Mi disse.
Sollevò la giacchetta di pelle mostrandomi una bomboletta spray colorata e sorrise.
“Okay. Ci vediamo là.” Le risposi, impassibile.
Poi mi si avvicinò, e, quasi bisbigliando, aggiunse: “Comunque forse so chi ha ucciso Tom.”
Poi se ne andò, senza proferire altre parole.
Rimasi fisso a guardarla allontanarsi. 



 

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