I Signori del Terremoto di Piperilla (/viewuser.php?uid=167897)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il salto ***
Capitolo 2: *** I Signori del Terremoto ***
Capitolo 3: *** I pericoli dei pregiudizi ***
Capitolo 4: *** La forza degli ideali ***
Capitolo 5: *** Il Dio degli Alberi ***
Capitolo 6: *** Le rivelazioni in un addio ***
Capitolo 7: *** Il Dio della Guerra ***
Capitolo 8: *** La Voce ***
Capitolo 9: *** Oltre le mura ***
Capitolo 1 *** Il salto ***
Quell’anno il clima si stava dimostrando clemente, con gli
abitanti di Rocca Arsa. A dispetto del nome, infatti, era capitato
spesso che in quel paesino della Marsica le temperature non salissero
mai granché, neanche d’estate. Niente di strano, a
ben vedere, visto che quel minuscolo agglomerato di case era inerpicato
sugli Appennini abruzzesi a milletrecentoventisette metri
d’altitudine e ombreggiato, da un lato, da un picco ancora
più alto.
Gli abitanti – perlopiù
discendenti di chi vi aveva risieduto stabilmente e che tornavano
lì nei fine settimana e durante le vacanze – erano
quindi stati presi alla sprovvista dai quasi trenta gradi che ogni
giorno riscaldavano quell’aria secca e pura, rendendo il
paese una piacevole oasi confronto alla canicola estiva tipica delle
grandi città che si erano lasciati alle spalle.
Federica e Antonia, nonostante avessero compiuto
ventidue anni, avevano conservato il gusto tutto infantile per le
arrampicate sulle rocce appuntite che spuntavano un po’
ovunque nel paese. Rocca Arsa, infatti, nonostante le dimensioni
ridottissime poteva vantare un’antica fortificazione
medievale parzialmente scavata nella roccia oltre a una chiesetta
costruita nel Rinascimento: una piccola perla nascosta tra i boschi
dell’Abruzzo e sconosciuta ai più.
Le due ragazze amavano quel posto: erano cresciute
trascorrendo lì tutte le vacanze, passando il tempo con i
vecchi giochi di una volta, e quando erano alla Rocca – come
il paesino veniva chiamato con semplicità dai nativi
– smettevano in parte i panni tipici del ventunesimo secolo
per tornare ad attività come la morra e la ruzzica insieme a
tutti gli altri. Dunque non era inusuale vederle in jeans e scarpe da
ginnastica mentre passeggiavano per la Rocca o, come in quel momento,
attaccavano la ripida salita che portava al punto più alto
del paese, dove si trovava la chiesa.
Da lassù, la vista era mozzafiato: da
un lato svettava Ombrosa, la montagna che sorgeva a una manciata di
chilometri da Rocca Arsa e dove tutti si recavano per fare passeggiate
nei boschi, andare a cavallo o organizzare falò e picnic;
dall’altro si stendeva una piccola vallata di campi arati
punteggiata da tanti altri paesi più o meno piccoli, che di
notte brillavano come le stelle nel cielo terso sopra di loro. In
quell’angolino sperduto di mondo c’era la pace, e
nessuno di quelli che vi si recava regolarmente rimpiangeva il tempo
passato là: potendo scegliere tra Rocca Arsa e i viaggi in
altri luoghi del mondo, molti avrebbero scelto sempre la Rocca.
In effetti, valeva la pena affrontare quella
salita – breve ma tutt’altro che semplice
– solo per quella vista spettacolare. Antonia ne era
particolarmente convinta: difatti quello era il suo posto preferito,
dove andava almeno una volta al giorno e di cui sentiva la mancanza
quando tornava alla vita di tutti i giorni, lontana
dall’Abruzzo. Anche Federica la apprezzava, ma
c’erano giorni in cui la fatica di quella salita
l’avrebbe scoraggiata, se non ci fosse stata la sua amica a
trascinarla.
Quel dieci di Agosto era proprio uno di quei
giorni.
«Tonia, perché stiamo
salendo?» si lagnò Federica.
«Lo sai perché»
rispose placida l’altra.
«Ma dovremo tornarci stasera per vedere
le stelle cadenti, e io sono già stanca!»
ansimò Federica. «Vedi? Mi manca già il
fiato!»
«Non si direbbe, Fede, visto il vigore
con cui ti lamenti!» la prese in giro Antonia.
«Zitta e sali: siamo quasi arrivate».
Cinque minuti più tardi le due ragazze
ansimanti osservavano il paesaggio dalla porta sbarrata della
chiesetta, rabbrividendo appena al venticello fresco che soffiava
lassù.
«Non mi stanco mai di questo
posto» mormorò Antonia.
«Neanch’io» rispose
Federica, «ma della salita per arrivare,
sì!».
La sua amica sorrise. «Andiamo sul
promontorio» propose, accennando con la testa a un punto
dietro di loro. Attaccata alla chiesa, su uno sperone di roccia alto
qualche metro, c’era una piccola costruzione abbandonata che
nelle intenzioni di chi l’aveva costruita avrebbe dovuto
fungere da sagrestia: una parte della roccia era rimasta libera, e
capitava spesso che qualcuno si arrampicasse fin lì,
specialmente di notte, quando la totale assenza di luci artificiali
permetteva di osservare perfettamente le stelle.
Le ragazze si fecero strada attraverso le rocce
disseminate sul ripido e dissestato viottolo che costeggiava lo sperone
e si arrampicarono sull’ultimo tratto, aggrappandosi con le
mani alle sporgenze e mettendo con sicurezza i piedi nelle fessure
naturali.
Adesso che erano davvero nel punto più
alto del paese e non potevano salire più di così,
entrambe sorrisero: ogni volta che si inerpicavano fin lassù
si sentivano come se avessero espugnato e conquistato una cittadella
fortificata. Eppure, Federica se ne accorse quasi con orrore, Antonia
non era ancora del tutto soddisfatta.
Quella sorta di promontorio in miniatura era,
nella sua porzione non occupata dalla sagrestia, lungo circa sei metri
e largo otto; una fascia larga tre metri e mezzo e coperta da un
cortissimo strato d’erba precedeva un avvallamento profondo
più di due metri e largo uno e mezzo, oltre il quale,
sull’ultima porzione di pietra, crescevano piccole macchie di
fiori variopinti. Antonia amava quei fiori, e spesso si calava
giù per quella depressione del terreno per poi risalire
scavalcando massi e rocce; ma quel giorno sembrava avere altri piani, a
giudicare da come soppesava quel piccolo dirupo con lo sguardo.
«Vuoi andare di là, vero,
Tonia?» le chiese scoraggiata Federica.
«Sì e no» rispose
Antonia, continuando a osservare con aria meditabonda la sponda
opposta. «Non ho voglia di scendere e arrampicarmi, e poi
rifarlo per tornare indietro»
«E allora?» insisté
l’altra, non capendo dove la sua amica volesse andare a
parare.
«Allora voglio provare a
saltarlo» fu la replica di Antonia.
«Vuoi saltare? Ma sei
impazzita?» protestò Federica. «Se non
ci arrivi, se cadi lì sotto, rischi come minimo di romperti
una gamba, se non peggio!».
Antonia si strinse nelle spalle. «Dai,
Fede, da quando sei diventata così fifona?
C’è spazio sufficiente per la rincorsa e per
l’atterraggio da tutte e due le parti. Che ci
vuole?»
«L’incoscienza»
brontolò la sua amica. «O la totale assenza di
spirito di sopravvivenza. O entrambi!».
L’altra ragazza indietreggiò
fin dove poteva, incurante delle parole di Federica. «Dai,
vieni qui: salteremo insieme».
«Certo» disse sarcastica
l’altra. «Morire insieme o restare entrambe ferite
e bloccate in quell’avvallamento è proprio in cima
alla mia lista delle cose da fare!». Antonia la
guardò con occhi imploranti e Federica sbuffò.
«Va bene, d’accordo, vengo» cedette.
«Ma sappi che se moriamo, ti ammazzo!».
«Non essere così tragica: non
moriremo» la blandì Antonia mentre Federica la
affiancava. «Vedrai che dopo mi ringrazierai: quel pezzetto
di terra al di là della voragine è un mondo
diverso».
Federica alzò gli occhi al cielo.
«Saltiamo, prima che io cambi idea»
grugnì.
Le due ragazze si scambiarono uno sguardo
prendendo un respiro profondo, corsero verso la buca e arrivate sul
bordo si tuffarono nell’aria con tutta la forza che avevano.
*
Nel momento del salto, Antonia e Federica avevano istintivamente chiuso
gli occhi; per un attimo avevano temuto di non farcela, di cadere e
sentire l’impatto con le rocce appuntite del fondo della
depressione, invece erano atterrate sul terreno duro ma privo di
asperità. Nonostante l’assenza di pietre,
però, l’atterraggio non era stato indolore: le due
rimasero sdraiate a terra, gli occhi serrati mentre mugugnavano e si
tastavano le parti del corpo indolenzite dal colpo.
Quando finalmente si decisero a riaprire gli
occhi, impiegarono qualche istante per registrare un dettaglio bizzarro
e tutt’altro che trascurabile: sopra di loro, invece del
cielo sereno d’agosto, si stendeva una cupola di rami e
foglie attraverso cui la luce del sole filtrava in sottili lame dorate.
Ancora stordite, si rialzarono. Si trovavano in un
bosco, e ovunque volgessero lo sguardo vedevano file infinite alberi
altissimi che si innalzavano verso il cielo per metri e metri,
intervallati da cespugli e piccoli arbusti: l’insieme era
così armonico e regolare, anche da un punto di vista
geometrico, da far pensare che fosse tutta opera dell’uomo e
che qualcuno avesse preso le misure prima di mettere a dimora tutte
quelle piante. Il terreno era secco e polveroso; l’erba
cresceva a chiazze, stentando a sopravvivere in quel caldo secco ma non
per questo meno spietato, e l’intera scena sembrava dipinta
nei toni del marrone.
«Oh Dio, Tonia, che…che
succede?» balbettò Federica, guardandosi intorno.
«Questa non è Rocca Arsa, non è il
picco accanto alla chiesa…noi…che è
successo?»
«Non lo so» rispose piano
Antonia, guardandosi intorno a sua volta: non c’era niente di
familiare, in quel luogo. Si voltò: alle loro spalle
l’unico elemento estraneo in quel bosco altrimenti perfetto e
privo di punti di riferimento erano le rovine di un vecchio arco di
pietra, piazzato esattamente tra due alberi. Sembrava un rudere: un
tempo doveva essere stato spesso almeno tre metri, ma parecchi massi
erano rotolati giù e ora giacevano inutili alla base della
costruzione, mentre nel punto più alto pareva che
l’arco stesse per crollare del tutto. La ragazza
richiamò l’attenzione dell’amica con un
leggero colpetto alla spalla. «Fede, che ne pensi?».
L’altra si voltò e socchiuse
gli occhi. «È…è un
arco» rispose. Scrutò con aria dapprima confusa e
poi meravigliata i segni sul terreno che le separavano
dall’arco: foglie smosse, rametti spezzati, impronte. Si
avvicinò all’ammasso di rocce, incredula.
«Credo…credo che…»
«…siamo sbucate da
qui» concluse Antonia per lei, raggiungendola e sfiorando
l’arco.
«Questo significa che possiamo tornare
indietro» considerò Federica. Rivolse uno sguardo
eloquente all’altra. «Questo posto…non
mi piace. C’è qualcosa di tremendamente sbagliato
in tutto questo. Tonia, ti prego, torniamo indietro».
Antonia annuì. Anche lei era turbata da
quella situazione – non riusciva a spiegarsela, niente di
quello che conosceva poteva aiutarla a comprenderla – e prese
la mano dell’amica. «Al mio tre» disse.
Indietreggiarono di qualche passo, per sicurezza.
«Uno…due…tre!».
Le due ragazze corsero in avanti e saltarono
nell’arco. Stavolta, però, dall’altra
parte c’era ancora il bosco.
«Perché siamo ancora
qui?» mormorò Federica, preoccupata.
«Non lo so» disse Antonia:
anche lei era nervosa. «Forse dovremmo…».
Il resto della sua frase fu inghiottito da un
boato assordante; la terra tremò così
violentemente da farle cadere, mentre il boato veniva sovrastato da
quello che sembrava il ruggito di un animale feroce.
«Che diavolo era?»
ansimò Antonia, sconvolta, rimettendosi in piedi.
«Non ne ho idea» rispose
Federica, accettando la mano che l’altra le offriva e
facendosi tirare su.
Le ragazze si scambiarono uno sguardo inquieto,
interrogandosi silenziosamente sul da farsi.
«Non credo sia saggio restare
qui» disse Antonia. Lanciò uno sguardo triste
all’arco. «Vorrei riprovare ad attraversarlo,
ma…».
Nuovo boato, nuovo terremoto; per la terza volta
in poco tempo le due giovani donne si ritrovarono sdraiate sulla terra
secca, ma stavolta il suono che seguì il sisma
risuonò più chiaro e vicino: più che
un ruggito, si resero conto Federica e Antonia, somigliava al grido
dapprima profondo e poi stridulo di una creatura enorme. Se possibile,
ne furono ancora più spaventate.
«Federica, andiamo via»
esclamò con urgenza Antonia, alzandosi di scatto seguita
dall’amica. «Quella specie di urlo non mi piace
affatto: dobbiamo trovare un posto in cui nasconderci».
«Sì, ma dove?»
chiese Federica, scoraggiata e intimorita.
«Ovunque» rispose sbrigativa
l’altra. «Dovrà pur esserci qualcuno, in
questa foresta, a cui possiamo chiedere aiuto!».
Un coro di urla stridule e assordanti si fece
strada fino a loro, seguito dal rumore pesante – troppo,
troppo pesante – di passi.
Le due amiche si bloccarono, agghiacciate.
«Sembra che vengano da questa parte, di
qualunque cosa si tratti» mormorò Federica,
terrorizzata. «Come faremo a difenderci?».
Antonia scrutò rapidamente il terreno
circostante con lo sguardo. «Là!» disse
brusca, indicando due grossi rami secchi e nodosi. «Useremo
quelli!».
Insieme si slanciarono in avanti; afferrarono un
ramo ciascuna, e non appena vi ebbero stretto intorno il pugno, il
legno si trasformò in metallo lucente proprio sotto il loro
sguardo attonito.
«Ma che
accidenti…?» balbettò Antonia,
lasciando cadere quello che fino a un attimo prima era stato un ramo
inutile e che si era appena tramutato in una massiccia spada.
«Tonia, non ci capisco più
niente!» disse disperata l’altra, facendo per
lasciare la propria spada: sembrava in procinto di crollare.
«Ce ne preoccuperemo più
tardi» decise Antonia, di nuovo padrona di sé,
mentre recuperava l’arma. La terra tremò ancora
tre, quattro, cinque volte in una successione talmente rapida da
sembrare un’unica scossa. «Corri, Fede,
corri!».
Le due ragazze scattarono più veloci
che potevano nella direzione opposta a quella da cui provenivano i
versi e i passi, le spade strette convulsamente nei pugni, inciampando
e cadendo ogni volta che un nuovo terremoto faceva tremolare la terra
sotto i loro piedi. Eppure, più correvano e più
erano spaventate: non sapevano dov’erano né da
cosa fossero minacciate, non avevano idea di dove andare e se avrebbero
trovato aiuto. Macinarono chilometri e chilometri, senza osare fermarsi
nonostante fossero senza fiato e le loro gambe bruciassero per lo
sforzo; ma quando un lupo grigio grosso quanto un cavallo
sbucò dal nulla di fronte a loro, le due si bloccarono tanto
repentinamente da cadere a terra, urlando.
«Fermi, in nome del principe!»
disse una voce.
Antonia e Federica aprirono gli occhi: erano
circondate da una dozzina di quei lupi e da altrettanti uomini armati
fino ai denti. Uno di loro, con ricche rifiniture dorate
sull’armatura, si avvicinò impugnando una spada
affilatissima.
«Tiratele su»
ordinò secco; quattro uomini si avvicinarono solerti e
trascinarono in piedi le ragazze afferrandole per le braccia. Il
capitano le guardò con sospetto e nessuna pietà.
«Gettate immediatamente le armi, se ci tenete alla
vita!».
Le due, incredule e terrorizzate, obbedirono:
lasciarono le spade, e nel momento in cui toccarono terra, le lame
tornarono ad essere inutili pezzi di legno.
In perfetta sincronia, tutti gli uomini fecero un
passo indietro.
«Stregoneria!»
tuonò il comandante, gli occhi che mandavano lampi.
«Nemici stranieri nelle nostre terre!».
«Stregoneria? Nemici? Noi siamo
soltanto…» cercò di dire Antonia,
allargando le braccia.
La spada del capitano mulinò a due
centimetri da lei. «Resta immobile, o ti ritroverai senza
mani!». Antonia si bloccò, trattenendo persino il
respiro; Federica scoppiò a piangere, spaventatissima.
«Ammanettatele: le portiamo al castello» decise il
comandante, la spada sempre puntata contro Antonia. Le guardie si
affrettarono a obbedire, allacciando ai polsi delle ragazze delle
spesse manette così pesanti da impedire loro anche di
sollevare le braccia. Con due lunghe catene, il capitano
assicurò le manette delle prigioniere alla sella del proprio
lupo prima di rimontare, imitato dagli altri, e lanciò la
bestia al galoppo.
Federica e Antonia furono costrette a correre come
non mai per tenere il passo. Per quasi mezz’ora resistettero,
poi la seconda crollò: restò attaccata alla
catena, mentre il lupo la trascinava sul terreno come
un’inerme bambola di pezza.
«Fermati, bastardo!»
urlò Federica col poco fiato che le restava; prese la catena
tra le mani come meglio poteva e iniziò a strattonarla pur
continuando a correre. Lanciò uno sguardo alla sua amica, e
vide con orrore la pelle delle sue braccia lacerarsi ovunque al
contatto con il suolo e la testa rimbalzare sulla terra dura.
«FERMATI, MALEDETTO!».
Il capitano arrestò la corsa del lupo e
si voltò: Federica lo fissava con odio, il volto
congestionato, mentre Antonia era rimasta semisvenuta a terra.
L’uomo afferrò la catena della seconda e la
strattonò con cattiveria. «In piedi!»
ordinò. «In piedi, o non saranno un mio problema
le condizioni in cui arriverai a palazzo!».
Con uno sforzo immenso Antonia si
rialzò, le gambe malferme e le braccia e la testa
sanguinanti. Federica fece per avvicinarsi e sostenerla, ma un nuovo
strattone alle catene le separò. «Vi conviene
tenere il passo, o sarà peggio per voi» disse il
comandante. Un colpetto delle redini e il lupo ripartì,
stavolta al trotto; a fatica le due ragazze rimasero in piedi, ormai
svuotate di qualsiasi cosa – paura, rabbia, dolore, niente
esisteva più – fino a quando, dopo quelle che a
loro parvero ore, il gruppo si fermò di fronte a
un’altissima, massiccia murata di pietra che sembrava
racchiudere una porzione di bosco più fitta delle altre.
«Chi va là?»
gridò un uomo invisibile ai loro occhi.
«Capitano Grant e ronda»
urlò in risposta l’uomo con l’armatura
decorata.
L’enorme portone di legno si schiuse
lentamente quel tanto che bastava a permettere il passaggio del piccolo
contingente; una volta all’interno delle mura, il capitano
scese dalla propria cavalcatura e avanzò a passi decisi
attraverso il giardino, tenendo con fermezza le catene delle
prigioniere tra le mani.
Le ragazze, stordite dagli avvenimenti e da quel
trattamento brutale, non riuscirono neanche a guardarsi intorno. Tutto
quello che riuscirono a notare fu che anche lì,
all’interno di quella cittadella fortificata, tutto sembrava
essere stato invaso dagli alberi.
Ben presto non furono più
all’aperto, ma immersi nelle viscere del palazzo; trascinate
e strattonate dal loro carceriere, circondate dai soldati, Federica e
Antonia percorsero lunghi corridoi in cui le chiazze di luce solare che
filtravano dalle finestre protette da spesse inferriate si alternavano
a zone d’ombra. Senza quasi rendersene conto, si trovarono al
centro di un’ampia sala rettangolare rivestita di legni e
marmi pregiati: una serie di nicchie nei muri erano chiuse da tende
cremisi e all’estremità opposta alla porta, su una
piattaforma, faceva bella mostra di sé un grande, strano
trono che sembrava scavato nelle radici e nel tronco di un albero
enorme.
«Cosa volete?» chiese un uomo
vestito di nero sbucando da dietro una delle tante tende.
«Chiedo udienza urgente e straordinaria
a Sua Maestà, Mastro Devall» rispose formale il
capitano Grant. Diede un lieve strattone alle catene.
«Insieme al resto della ronda ho catturato due straniere:
potrebbero rappresentare una grave minaccia per il regno, e credo che
la questione vada sottoposta a Sua Altezza il prima
possibile».
Il Mastro annuì una sola volta.
«Informerò immediatamente Sua Maestà.
Aspettateci qui: sono certo che anche lui vorrà affrontare
subito il problema».
Devall si allontanò con passo rapido,
sparendo di nuovo dietro la tenda da cui era emerso. Dopo qualche
istante di silenzio, Antonia si schiarì la voce e
guardò Grant.
«Chiunque tu sia, dopo tutto quello che
ci hai fatto…vuoi almeno dirci che diavolo
succede?» disse.
Il capitano strinse le labbra. «Succede
che voi sapete usare la Magia e potreste essere una minaccia per le
nostre terre. Ora il principe del regno verrà qui: vi
osserverà, interrogherà, e se vi
riterrà pericolose…», Grant le
guardò senza pietà, «sarete giustiziate
all’alba». |
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Capitolo 2 *** I Signori del Terremoto ***
Le parole dure e impietose del capitano erano state il colpo di grazia,
per le due sventurate ragazze. Né Federica né
Antonia avevano osato ribattere: si erano limitate a scambiarsi uno
sguardo – distrutto quello della prima, desolato quello della
seconda – per poi abbassare gli occhi al pavimento,
concentrandosi soltanto sulla necessità di restare in piedi.
Antonia era particolarmente abbattuta: l’idea di saltare
quella piccola voragine era stata sua, e se tutta quella situazione
incredibile era reale, allora non solo si era messa nei guai da sola,
ma aveva anche trascinato con sé l’amica.
Pochi minuti dopo il loro arrivo una mezza dozzina
di persone, tra cui la figura in nero che Grant aveva chiamato Mastro
Devall, rientrarono nella sala, parlottando a bassa voce, e si
disposero intorno al trono. Appena un istante più tardi un
altro uomo fece il suo ingresso, avanzando a grandi passi: arrivato
alla piattaforma, salì con un unico balzo i tre gradini e
sedé sullo scranno.
I soldati si inchinarono; Grant, con un colpo
secco in mezzo alle scapole delle due donne, le costrinse a cadere
sulle ginocchia prima di piegare il capo in gesto di rispetto.
«Capitano Grant, Maestro Devall sostiene
che hai una questione urgente da sottopormi»
esclamò una voce maschile alta e chiara.
Grant si raddrizzò.
«È così» confermò.
«Ebbene, capitano, parla» lo
esortò il principe.
Il capitano si schiarì la voce.
«Circa tre ore fa, durante la ronda nel quadrante a sud-ovest
della Torre della Quercia, ci siamo imbattuti in queste due donne.
Erano armate e correvano; le abbiamo fermate e intimato loro di gettare
le armi. Quando l’hanno fatto, abbiamo scoperto che sono due
fattucchiere, e secondo quanto dispone il regolamento, le abbiamo
incatenate e condotte al Suo cospetto».
Uno dei presenti, un uomo vestito di porpora
chiamato Illyrio, storse il naso. «Capitano, quante volte
dovrò ripeterti che “fattucchiera”
è un termine improprio?».
Tutti lo ignorarono.
«Sei sicuro di quello che dici,
capitano?» chiese il principe, dubbioso. «Se
davvero queste donne sapessero usare la Magia, dubito che sarebbero
ancora in ceppi».
Grant tolse le manette ad Antonia e prese uno dei
bastoni che aveva fatto recuperare nel bosco dai suoi uomini.
«Osservi bene, Maestà» disse, lanciando
il pezzo di legno alla ragazza; lei lo afferrò, ma non
accadde nulla.
«Vedo, Grant»
commentò ironico l’uomo seduto sul trono.
«Maestà, le assicuro che la
Magia compiuta era evidente» rispose il capitano, confuso. Si
voltò verso gli altri uomini della ronda. «Il
resto della guardia potrà confermarglielo».
«Cionondimeno, capitano, ho bisogno di
vederlo con i miei occhi: se mi conducessi diversamente, non sarei
equo» disse con gravità il principe.
«Permette, Maestà?»
intervenne Illyrio. L’altro acconsentì con un
gesto della mano e il primo uomo si mosse verso le prigioniere: era
alto, magro, quasi emaciato, e il suo volto imperturbabile intimoriva
più d’uno, a palazzo. Mentre camminava, Illyrio
recuperò una penna di corvo che portava dietro
l’orecchio destro, nascosta tra i lunghi capelli neri, e la
mosse noncurante nell’aria; quella si trasformò in
un pesante spadone a due mani e con un balzo l’uomo si
slanciò verso Antonia, abbattendo la lama su di lei.
Antonia, pur sapendo che un misero ramo secco
poteva ben poco contro una spada, d’istinto aveva sollevato
la sua unica arma nel tentativo di difendersi: si aspettava uno
schianto secco e la lama che sprofondava nella sua carne, invece tutto
quello che sentì fu il rintocco acuto generato da metallo
contro metallo. Riaperti gli occhi – che non si era resa
conto di aver serrato – vide che il ramo era tornato a essere
una spada.
Illyrio fece sparire la propria e si
appuntò di nuovo la piuma dietro l’orecchio.
«La loro è Magia istintiva,
Maestà» decretò. «Nulla che
siano in grado di controllare».
«Liberate anche
l’altra» ordinò il principe.
Quando anche Federica fu libera, entrambe alzarono
lo sguardo sul gruppo che avevano di fronte. Illyrio era senza dubbio
il più inquietante, con il suo aspetto e quegli occhi di un
azzurro spento, sbiadito; Mastro Devall, il più anziano,
pareva una statua di marmo tanto era serio e concentrato; una coppia di
uomini sui trent’anni, castani e identici fino
all’ultima virgola, parlavano tra loro senza mai perderle
d’occhio e per ultima, una donna con i capelli chiarissimi
striati di grigio tormentava con le dita la tunica azzurro pallido che
indossava.
Dopo aver studiato il gruppo intorno
all’immenso ciocco di legno che dominava la sala, le ragazze
passarono a osservare l’occupante del trono. Interamente
vestito di verde scuro, dimostrava meno di trent’anni
nonostante i lineamenti decisi, l’espressione grave e le
piccole rughe intorno agli occhi verdi. L’unica cosa a
lasciare interdetti erano i suoi capelli: lunghi fino alle spalle,
nella metà destra della testa erano castani, mentre in
quella sinistra erano completamente bianchi, come divisi da una linea
netta.
Intanto, anche il principe le stava studiando con
grande attenzione: specialmente Antonia, che sobbalzò quando
lui le rivolse la parola.
«Non siete in buone condizioni,
signorina» disse senza alcun preavviso, guardandola
intensamente. «Cosa vi è accaduto?».
Federica scoccò
un’occhiataccia a Grant, che non batté ciglio.
Antonia prese un respiro profondo.
«Sono caduta» rispose. Notando
lo sguardo tutt’altro che persuaso del principe, ritenne
opportuno spiegarsi meglio. «Mentre ero incatenata al lupo.
Non riuscivo più a correre e…sono caduta. Mi ha
trascinata per un po’…».
Lo sguardo del principe si indurì nel
rivolgersi a Grant, poi divenne rassegnato. «Per tutti gli
Dèi, Jonas, era davvero necessario?» chiese con
una punta di esasperazione.
Il capitano mise su un’espressione
arcigna. «Fattucchiere sconosciute nelle nostre terre, e mi
chiedi se era necessario trattarle con rigore? Di questo passo, mi
manderai dagli Orchi con un invito per il tè!»
«Jonas
Grant!» tuonò la donna con la tunica
azzurra, severissima. L’uomo si strinse nelle spalle, e per
un attimo sembrò a disagio; il principe, invece, dopo aver
preso un respiro profondo, recuperò la calma.
«Siete imparentate?» chiese
ancora, notando le somiglianze tra le due straniere: entrambe sul metro
e sessanta – anche se Antonia era di qualche centimetro
più bassa di Federica – con lisci capelli castani,
occhi scuri e il fisico asciutto, potevano facilmente essere scambiate
per sorelle.
«No» rispose Federica,
massaggiandosi i polsi martoriati con una smorfia di fastidio.
«Solo buone amiche».
Il principe si appoggiò allo scranno.
«Voi non siete di queste terre» disse con estrema
sicurezza. «Devo dunque chiedervi come siete arrivate
qui».
Le ragazze si scambiarono un lungo sguardo.
«Non ne siamo certe»
esordì Antonia nervosamente.
«Noi…eravamo nel punto più alto del
nostro paese, in pratica un quadrato di roccia diviso a metà
da una depressione del terreno: di solito per superarla ci caliamo
giù e risaliamo dalla parte opposta, ma stavolta abbiamo
pensato…», occhiataccia da parte di Federica;
Antonia sbuffò, «be’, io ho pensato che
avremmo potuto provare a saltarla: abbiamo preso la rincorsa e quando
siamo atterrate, non eravamo più lì
ma…nel bosco. Il vostro
bosco, direi».
«Vicino a qualcosa di
insolito?» chiese il principe, sporgendosi in avanti.
«C’era un arco di pietra in
rovina, alle nostre spalle» rispose Antonia.
Un moto di stupore percorse i presenti; il
principe si batté un pugno su una coscia.
«Incredibile» disse Illyrio,
lasciando trasparire una vaghissima sorpresa. «Abbiamo due
Viaggiatrici! Da quanto non se ne vedevano?»
«Almeno trecento anni» rispose
Mastro Devall, altrettanto stupito. «Nessuno era
più riuscito a superare i Varchi dai tempi di
Gowan». Si rivolse direttamente alle due ragazze, che erano
sempre più confuse. «Come ormai avrete capito, vi
trovate in uno dei mondi paralleli al vostro. Abbiamo tanti nomi per
definire coloro che riescono a superare i Varchi tra mondi: Viaggiatori
è il più comune, nonostante l’apparente
banalità. Ora vi trovate nel nostro mondo: lo chiamiamo
Staudeheim».
«E io» aggiunse
l’occupante del trono, scendendo dalla piattaforma e
inchinandosi, «sono il principe Baumann, sovrano di questo
regno. Al vostro servizio».
«La Magia fa parte del tessuto del
nostro mondo. È ovunque, permea e fluisce da ogni cosa: non
tutti riescono ad afferrarla e governarla» intervenne
Illyrio. «Voi due sì. A giudicare dal fatto che
non sapete come padroneggiarla, ne deduco che nel vostro mondo la Magia
non è presente, o lo è molto meno che da noi. In
ogni caso, qui voi siete quelle che chiamiamo Magistrae Fascinationum:
con un po’ di addestramento, imparerete a controllare la
Magia e piegarla a vostro piacimento».
«Un momento, un momento!»
intervenne il capitano Grant, furioso. «Vorreste addestrarle
nelle arti magiche? E perché non anche nell’uso
delle armi?» aggiunse in tono di scherno.
«Una buona idea» convenne
serio il principe. «Di questi tempi più che mai
è necessario che chi vive in queste terre sia in grado di
difendersi»
«E se fossero delle spie al soldo dei
nostri nemici? Se fossero qui per conto degli Orchi, per ucciderci
tutti?» esplose Grant.
Baumann chiuse gli occhi per un istante.
«Non lo credo, Jonas, ma so bene che le tue obiezioni non
cesseranno se non di fronte a prove certe» disse. Si
alzò e andò con sicurezza verso una tenda
indistinguibile dalle altre prima di voltarsi verso le ragazze,
accigliato. «Temo di non essere stato all’altezza
dell’educazione che mia madre mi ha impartito» si
scusò. «Posso sapere i vostri nomi?».
Le ragazze si presentarono rapidamente.
«Molto bene: Federica, Antonia, vi prego
di venire davanti a questa tenda» riprese Baumann. Non appena
le due giovani furono a trenta centimetri dalla cortina di velluto,
l’uomo tirò un cordino, scostando il drappo: le
ragazze balzarono indietro tanto in fretta da cadere sul pavimento, e
Antonia non riuscì a trattenere un grido di paura mentre
Federica strisciava il più lontano possibile. Di fronte ai
loro occhi, infatti, era comparsa una figura spaventosa: un gigante
alto quattro metri, glabro, con la pelle grigio-marrone, le labbra
ritratte su due file di zanne giallastre e acuminate e un grosso,
elaborato martello stretto nel pugno grande quanto la loro testa.
«Le mie scuse»
mormorò il principe; lasciò che la tenda tornasse
a coprire la creatura immobile e aiutò personalmente le due
ragazze a rialzarsi, soffermandosi più a lungo su Antonia.
«Quella creatura è impagliata: non può
farvi alcun male». Si voltò verso Grant, le
sopracciglia sollevate. «Soddisfatto, Jonas?».
L’interpellato rispose con un grugnito
tanto incomprensibile da fare invidia a un Troll.
«C-che…che diavolo
è quello?»
balbettò Federica, ancora terrorizzata.
«Un Orco» rispose Baumann con
espressione grave. «I nostri più acerrimi nemici
ormai da alcuni secoli. Vivono in cunicoli scavati molti metri sotto la
superficie, e usano i loro martelli per incanalare una Magia tipica
della loro specie e causare scosse sismiche in grado di radere al suolo
interi villaggi, a volte addirittura nei mondi confinanti: per questo
li chiamiamo Signori del Terremoto».
«Be’, sono orribili»
commentò Federica, «e spero di non trovarmene mai
uno vivo davanti».
Il principe le rivolse un sorriso amaro.
«Vivendo qui, dubito che ti riuscirà: gli Orchi
sanno che non possiamo sconfiggerli, e sono ovunque».
«Un motivo in più per tornare
di corsa da dove veniamo» brontolò la ragazza,
guardando di sottecchi Antonia. «Se solo ci fossimo riuscite
quando siamo saltate dentro quel dannato arco!».
«Non sempre i Varchi
funzionano» spiegò Baumann.
«Probabilmente eravate troppo concentrate su cose diverse dal
Salto, dunque non ha funzionato»
«Vorrà dire che la prossima
volta lo faremo come si deve» rispose Federica senza battere
ciglio. «Anzi, se poteste riaccompagnarci subito al Varco o
come accidenti si chiama, ve ne saremmo davvero grate».
Baumann guardò Grant, che scosse la
testa. «Sono settimane che gli Orchi si aggirano in quella
zona: andarci ora sarebbe un suicidio. È già un
miracolo che queste due non si siano fatte uccidere quando sono
arrivate».
«Sembra che sarete nostre ospiti per un
po’» disse il principe alle due donne.
«Avete la mia parola che non appena sarà sicuro
tentare, vi riaccompagneremo al Varco perché possiate
tornare nel vostro mondo. Mentre siete qui, se lo desiderate, sarete
istruite sull’uso delle armi e della Magia».
Antonia guardò Federica e le sorrise;
l’altra si strinse nelle spalle. «Visto che siamo
bloccate qui, tanto vale!».
Baumann batté le mani, un gran sorriso
sul volto. «Eccellente!» esclamò. Si
voltò verso la donna dai capelli chiari. «Isdrid,
cara mamma, affido a te le nostre ospiti: guariscile e dà
loro cibo, abiti adatti e qualsiasi cosa desiderino. Voi tutti,
ritroviamoci stasera per la cena!».
Gli uomini sciamarono fuori dalla stanza sparendo
dietro tende e arazzi; la donna chiamata Isdrid affiancò le
due ragazze e sorrise loro con fare materno mentre le invitava a
seguirla.
«Dovete scusare Jonas» disse
mentre le conduceva in un corridoio dopo l’altro.
«Prende molto sul serio il suo compito di difendere il
palazzo».
«Lei…lei è la
regina?» chiese Antonia, in imbarazzo.
La donna scoppiò a ridere.
«Io? Santo cielo, no! Sono solo stata la balia del principe e
di tutti quei ragazzacci scalmanati, incluso Jonas…peccato
che non lui non dia retta neanche a me!» Tornò
seria. «Inoltre, sono la Magistra
Sanationis del castello: è una Magia diversa
dalla vostra, si esprime totalmente nell’aiutare i processi
risanativi del corpo. Anche per questo il principe vi ha affidate a
me».
«È tutta un’enorme
allucinazione, vero?» chiese speranzosa Federica.
«Temo di no» rispose
gentilmente Isdrid. «Vedrai però che vivere nello
Staudeheim non è poi tanto male!».
*
Guarite le ferite delle ragazze, Isdrid le aveva affidate a due
servitrici del castello: senza alcuna esitazione le donne le avevano
spinte in un bagno caldo e le avevano strofinate con delle grosse
spugne e una gran quantità di sapone per eliminare dalla
loro pelle ogni traccia di polvere e sudore. Terminata questa
operazione, entrambe si erano trovate infilate contro la loro
volontà in due tuniche a cui non erano affatto abituate.
«Oh Dio, ma fanno sul serio?»
mormorò Federica, sconvolta, scuotendo la gonna morbida che
le arrivava fino ai piedi. «Così ci si vestivano
le donne…ma nel Medioevo!»
«Questi aggeggi sono
fastidiosi» brontolò a sua volta Antonia, agitando
le ampie maniche svasate.
«E questa cintura mi sta strizzando i
fianchi» si lagnò Federica.
«Troppa stoffa sulle braccia e troppo
poca sulla scollatura» decretò l’altra.
«Avete finito di lamentarvi?»
intervenne seccata una terza voce, facendole sobbalzare per lo
spavento: il capitano Grant era sbucato alle loro spalle senza che se
ne accorgessero.
Le giovani donne gli scoccarono due identici
sguardi infastiditi.
«Che ci fai tu qui?»
chiese Federica in tono aggressivo.
Grant mise su un grugno da fare spavento e la
fissò dall’alto in basso. «La Magistra Sanationis
mi ha affidato l’incarico di scortarvi a cena»
rispose arcigno.
«Nello stesso modo in cui ci hai
"scortate" a palazzo, magari?» disse sarcastica Antonia,
toccandosi la testa quasi automaticamente: anche se ogni ferita era
sparita, poteva sentire ancora i tagli aperti sulla propria pelle e il
sangue impastarsi con la polvere.
«Vedo che hai recuperato tutta la tua
presenza di spirito» sputò Grant con disprezzo.
«È più facile
averne quando un bastardo non prova a ucciderti legandoti a un lupo
lanciato al galoppo» ribatté la ragazza.
L’uomo arrossì e si erse in
tutta la propria altezza. «Come osi…»
ringhiò.
«Cosa? Darti del bastardo?».
Anche Antonia si stava infuriando. «Semplice: dico soltanto
quello che vedo!».
Il capitano avanzò con due rapide
falcate e si chinò su di lei, gli occhi socchiusi in
un’espressione furiosa e i denti scoperti. «Sono
ancora dell’idea di ucciderti, sudicia straniera»
Antonia gli rise in faccia, sprezzante.
«Provaci!».
La mano di Grant scattò verso la sua
gola, ma Antonia fu più veloce: tirò su la gonna
e con un gesto fulmineo lo colpì al bassoventre con una
ginocchiata.
L’uomo crollò a terra gemendo
e premendosi una mano sul punto colpito sotto lo sguardo incredulo di
Federica e quello compiaciuto di Antonia.
«Se vuole scusarci, capitano»
disse quest’ultima, mettendo tutto il proprio disprezzo
nell’usare il grado dell’uomo, «siamo
attese a cena» concluse, scavalcandolo con noncuranza e
avviandosi lungo il corridoio seguita dall’amica. |
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Capitolo 3 *** I pericoli dei pregiudizi ***
Quel primo risveglio in un nuovo mondo non era stato privo di
nervosismo, per le due ragazze. Non che avessero potuto nutrire
chissà quale illusione sul trovarsi nelle proprie case:
aprire gli occhi e vedersi un baldacchino di rami, fiori e foglie
sospeso sopra la testa aveva spazzato via ogni speranza che si fosse
trattato di uno strano sogno.
Rinfilarsi in quei vestiti che proprio non
digerivano era stato il colpo di grazia: solo in un incubo avrebbero
potuto immaginarsi con abiti tanto scomodi, e purtroppo
l’intera situazione non era abbastanza spaventosa
perché potessero illudersi in tal senso.
Orientarsi lungo i corridoi era stato ancora
peggio: la sera precedente si erano perse in quell’intrico
per loro indistinguibile per oltre un’ora, ed erano state
salvate da Mastro Devall, passato di lì per caso, come aveva
detto – o più probabilmente mandato dal principe
Baumann, che aveva accolto la loro comparsa a tavola con un sorriso
divertito malamente mascherato – e quel mattino le cose non
stavano andando meglio: ormai da mezz’ora vagavano in un
corridoio all’apparenza infinito e, peggio ancora, deserto.
Federica e Antonia stavano perdendo la speranza di
incontrare altri esseri umani quando dal nulla sbucò Illyrio.
«Via, non sono così
brutto» disse accigliato in risposta alle esclamazioni
allarmate delle due.
«È brutto il tuo modo di
sbucare fuori dal nulla senza preavviso» bofonchiò
Federica, massaggiandosi il petto. «Di questo passo
avrò un infarto entro la fine della
settimana…».
Illyrio la ignorò. «Vi siete
perse di nuovo?»
«Chi? Noi? Ma no!» rispose
ironica Antonia. «Stavamo ammirando gli splendidi arazzi che
ricoprono le pareti di questo lunghissimo, infinito corridoio a senso
unico, privo di biforcazioni, porte o…». La
ragazza s’interruppe, guardandosi intorno. «A
proposito, messer Illyrio, da dov’è
sbucato?».
Illyrio allungò la mano e
scostò l’arazzo più vicino, rivelando
un passaggio.
«Quindi è così che
funziona?» sbottò Federica, ficcando la testa nel
passaggio appena rivelato. «E non potevate dircelo ieri, che
dovevamo cercare sotto
gli arazzi?»
L’uomo si strinse nelle spalle.
«Noi ormai conosciamo a memoria i passaggi e gli arazzi
dietro cui sono celati, ed è talmente raro avere degli
ospiti a palazzo…»
«Sì, sì, abbiamo
capito» lo interruppe Federica, sbuffando. «Adesso
perché non ci fa strada verso una qualsiasi zona abitata del
castello?».
Illyrio annuì una sola volta e
tornò nel passaggio da cui era spuntato, tenendo sollevato
l’arazzo per permettere alle ragazze di seguirlo;
dopodiché percorse con sicurezza un corridoio dopo
l’altro a lunghi passi, tallonato da vicino da Antonia e
Federica.
Circa dieci minuti più tardi il
gruppetto sbucò in un’ampia sala dominata da un
enorme tavolo rotondo e già affollata di persone. Lo stesso
gruppo che la sera precedente aveva accolto le due ragazze era
presente: oltre a loro un’altra dozzina abbondante di persone
occupava le sedie e vagava per la stanza, e all’ingresso
delle straniere tutti si voltarono a guardarle.
«Signorine, buongiorno» le
accolse Baumann, alzandosi dal posto d’onore e andando verso
di loro. «Spero che abbiate passato una notte
tranquilla»
«Lo è stata, per
fortuna» rispose Antonia. «Noi…non
interrompiamo nulla, spero»
«No, affatto» disse subito il
principe. Indicò con un gesto della mano i posti ancora
liberi. «Sedete, vi prego».
Le ragazze non si fecero pregare e presero posto
tra i due gemelli, che le guardavano sorridendo incoraggianti.
«Ieri sera non ci siamo
presentati» disse quello che sedeva alla sinistra di
Federica. «Io sono Alec…»
«E io Zane» aggiunse
l’altro, stravaccato sulla sedia a destra di Antonia.
«Ed esiste un modo per
distinguervi?» chiese quest’ultima.
Zane le fece l’occhiolino.
«Forse, ma dovrete scoprirlo da sole…altrimenti
dov’è il divertimento?».
Le due alzarono gli occhi al cielo per un breve
istante. «Che ruolo avete a palazzo?»
domandò ancora Antonia: sembrava sinceramente incuriosita da
quel mondo così diverso dal suo.
«Siamo i comandanti
dell’esercito del principe» rispose allegro Zane
mentre suo fratello e Federica chiacchieravano tra loro.
«Allora, che ve ne sembra dello Staudeheim?».
Incerta su cosa rispondere, Antonia tacque per
qualche istante e si strinse nelle spalle. «Non è
che ne abbiamo visto granché, no?» disse vaga.
«A parte il bosco, intendo, e quelli li abbiamo anche noi.
Certo, non così…precisi, se capisci che intendo:
la vegetazione cresce a intervalli così regolari, qui da
voi…nel mio mondo non è così»
«E perché? Non sapete forse
prendere le misure?» le domandò Zane, perplesso.
«In…in che senso?»
replicò Antonia, più confusa di lui.
«Le misure. Sai, nel calcolare
l’intervallo tra una pianta e
l’altra…» disse l’uomo.
«Mica si prendono le misure!».
Antonia si mise a ridere. «I boschi crescono per conto loro,
da soli, no? In modo del tutto spontaneo…». Si
zittì e rifletté per un attimo.
«Be’, a parte quando si procede alla
riforestazione…in quel caso credo che le misure le prendano,
ma non ne sono certa…». La ragazza si accorse
della confusione crescente sul volto del suo interlocutore.
«È una cosa complicata, magari te la spiego
un’altra volta. Diciamo che dai noi i boschi sono un
po’ più…selvaggi».
«Quindi non create le
foreste?» chiese Zane, con l’aria di chi non ci
capisce nulla.
«Certo che no»
confermò Antonia. Aggrottò la fronte.
«Perché, voi…voi piantate ogni singolo
arbusto?»
«Ovviamente» rispose lui con
l’aria di chi dice qualcosa di risaputo.
«Più è regolare la messa a dimora delle
piante, meno possibilità ci sono che restino parti del
sottosuolo prive di radici» spiegò. «E
le radici sono importanti» aggiunse serio.
Antonia stava per chiedergli
qualcos’altro, ma il suo interlocutore si accorse che un uomo
all’altro capo della stanza lo stava richiamando con dei
gesti discreti.
«Perdonami, Antonia» si
scusò Zane, alzandosi e raggiungendo l’altro uomo.
Antonia si afflosciò contro lo
schienale della sedia, chiudendo gli occhi per riposarsi, ma quella
parentesi di solitudine non durò a lungo: appena pochi
secondi più tardi la ragazza sentì la sedia
lasciata da Zane strusciare lieve sul pavimento di pietra mentre
qualcuno la occupava.
Preso un respiro profondo e voltatasi verso
destra, Antonia si lasciò sfuggire un debole gemito di
frustrazione e incredulità: i suoi occhi avevano appena
incontrato quelli di Jonas Grant.
«Capitano» mormorò
tra i denti, tutt’altro che lieta.
«Fattucchiera» rispose lui in
tono acido.
«Ho un nome, sai?» gli fece
notare la ragazza, sentendosi stranamente ferita dalle cattiverie
gratuite di Grant. «Sarebbe carino se lo usassi, invece di
chiamarmi con un termine che chiaramente intendi come
dispregiativo»
«Non m’interessa esserti
simpatico, quindi stare attento a non ferire i tuoi sentimenti non
figura nella mia lista delle cose da fare» ribatté
Grant.
Antonia strinse le labbra e batté le
palpebre per scacciare una lacrima traditrice. «Cerca di
comportarti quantomeno in modo civile o ti aizzerò contro la
signora Isdrid e il vostro principe, visto che almeno loro sembrano
conoscere le regole dell’ospitalità e
dell’educazione» minacciò.
«Baumann e Isdrid possono dire quello
che vogliono, ma al di fuori del mio ruolo di capitano, non prendo
ordini da nessuno» dichiarò sdegnoso
l’uomo.
«Un vero peccato»
mormorò inferocita Antonia. Tra i due calò un
silenzio teso, e lei ne approfittò per osservarlo di
sottecchi: Grant aveva un volto dai lineamenti mascolini, a tratti
spigolosi, e neanche i corti capelli mossi riuscivano ad addolcire la
sua espressione arcigna. Gli occhi color cioccolato avrebbero potuto
trasmettere un po’ di calore se non fossero stati
perennemente atteggiati in uno sguardo di dura riprovazione, e il
fisico asciutto e scattante che lo faceva svettare su tutti gli altri
insieme alla sua notevole altezza trasmetteva soltanto nervosismo in
chi gli stava vicino, visto il temperamento irrequieto e combattivo
dell’uomo. In generale Antonia trovava che fosse bello
– straordinariamente bello, persino più di Baumann
e dei gemelli – anche se il suo fascino da duro era al
contempo ciò che lo rendeva tanto attraente e assolutamente
insopportabile.
«Spiegami perché sei venuto a
sederti accanto a me nonostante ci siano tanti posti ancora vuoti,
capitano Grant» disse con voce gelida Antonia, schiacciando
in fondo allo stomaco il proprio malessere e recuperando la padronanza
di sé. «Soltanto per litigare? Davvero non puoi
fare a meno di scontrarti con qualcuno e ferire gli altri?».
Grant le scoccò uno sguardo di puro
disgusto. «Come osi pensare di potermi giudicare? Non mi
conosci affatto»
«Neanche tu mi conosci, eppure questo
non ti impedisce di maltrattarmi non appena ne hai
l’occasione» mormorò rabbiosa lei.
«Secondo quale stupida logica tu puoi essere libero di
comportarti male nei miei confronti mentre io devo per forza
rispettarti? Il rispetto va guadagnato, sai, e tu di sicuro non stai
conquistando il mio»
«Non m’importa niente del tuo
rispetto. Non mi serve e non lo voglio!» sussurrò
furibondo Grant, spostando la sedia con tanta veemenza da rischiare di
rovesciarla e andandosene con passo rigido.
Antonia lo guardò allontanarsi con un
misto di rimpianto e senso di colpa. Volse lo sguardo verso Baumann, e
lui accennò a Grant prima scuotere la testa come a dirle di
non dar peso al suo malumore. Lei annuì; il principe le
sorrise incoraggiante, e Antonia ebbe la sensazione che quel peso che
Grant le aveva lasciato sullo stomaco si fosse alleggerito.
*
Trascorse qualche altro giorno; Federica e Antonia continuavano a
litigare con quegli abiti che stavano imparando a detestare sempre
più – a nulla erano valse le loro suppliche di
avere degli indumenti maschili: Isdrid si era dimostrata irremovibile,
su quel punto – e la seconda faceva del proprio meglio per
stare alla larga da Grant, che aveva il potere di farle saltare i nervi
in cinque minuti. Stranamente, per quanto lei s’impegnasse,
finiva per ritrovarsi continuamente il capitano tra i piedi: si
incrociavano nei corridoi, le sbucava alle spalle quando era distratta
e se c’erano altre persone presenti, nulla lo fermava dal
lanciarle talvolta frecciatine irritanti, talaltra veri e propri
insulti.
Quel giorno non fece eccezione: per tutta la
mattina Antonia era rimasta in quella che ormai era la sua stanza con
il pretesto di non sentirsi molto bene ed era riuscita anche a farsi
portare là qualcosa da mangiare, ma ormai era pomeriggio
inoltrato e non poteva più nascondersi. Prima o poi sarebbe
dovuta uscire di lì: senza contare che aveva delle domande
da porre a Illyrio sulla Magia e sul suo funzionamento e che il suo
orgoglio protestava vibratamente per quell’isolamento
autoimposto a tutto vantaggio di Jonas Grant.
Così Antonia si avventurò da
sola per i corridoi. Oramai conosceva piuttosto bene i percorsi per
arrivare nei luoghi più utilizzati del castello –
negli ultimi due giorni non si era persa nemmeno una volta –
e la luce del giorno rischiarava ancora alla perfezione i corridoi,
aiutandola a non confondere gli arazzi.
Per i primi cinque minuti la ragazza aveva
imboccato un passaggio dopo l’altro con sospetto, scrutandosi
guardinga alle spalle ogni tre passi per il timore che Grant spuntasse
dal nulla come era solito fare: ma dopo un po’, non essendoci
anima viva nei dintorni, si rilassò tanto da smorzare la
propria marcia in una tranquilla passeggiata per prendersi il tempo di
guardare il paesaggio fuori dalle finestre.
Era appunto assorta nella contemplazione del parco
del castello quando sentì qualcuno incombere su di lei e,
voltandosi di scatto, si ritrovò naso a naso con il petto
del capitano.
«Grant, maledizione!» esplose,
indietreggiando rapidamente e andando a sbattere contro la soglia della
finestra. Reclinò indietro la testa e gli rivolse uno
sguardo fiammeggiante. «Smettila di strisciarmi alle spalle
come una dannata ombra!»
«Come mai tanto nervosismo? Hai forse
qualcosa da nascondere?» rispose arcigno lui.
Antonia digrignò i denti.
«Quando la smetterai di diffidare di me?»
«Mai» replicò Grant
all’istante.
La ragazza strinse i pugni, cercando di arginare
la rabbia che sentiva crescere nel proprio petto. «Allora
perché non mi lasci in pace e basta? Il castello
è grande, possiamo evitarci senza sforzo»
«E lasciarti libera di ficcare il naso
in giro, magari preparando il terreno per i nemici?». Grant
rise sprezzante. «Sei pazza!».
«Proprio non riesci a ficcarti in quella
testaccia dura che sono finita qui per caso e che se potessi me ne
andrei senza pensarci due volte, vero?» replicò
lei, furente. «L’hai detto tu che non possiamo
andare al Varco!»
«Per quanto mi piacerebbe liberarmi di
te e della tua amica, non ho intenzione di rischiare la vita dei miei
uomini solo per questo» disse Grant. «E prima che
ve ne andiate, voglio essere certo di avervi fatto comprendere un
semplice concetto». L’uomo si chinò su
Antonia, abbassando la voce fino a ridurla a un sibilo minaccioso.
«Se provate a sabotare le nostre difese, se anche solo per un
momento vi attraverserà la mente il pensiero di nuocere a
qualche abitante del castello o dello Staudeheim, vi
scuoierò vive personalmente prima di darvi in pasto agli
Orchi, e lo farò con immenso piacere».
Antonia rimase immobile, pallidissima, gli occhi
fissi in quelli feroci di Grant e sulla sua espressione piena
d’odio, trattenendo il respiro.
«Stammi lontano, Jonas Grant»
disse con voce tremante, dandogli una spinta in pieno petto e
spostandolo; imboccò il corridoio correndo, e si
voltò indietro solo per un istante. «Stammi
lontano!».
*
Federica percorreva i corridoi a passo di marcia, gli occhi che
mandavano lampi. Spostando gli arazzi con gesti bruschi e saltando a
tre a tre i gradini delle rampe di scale, giunse ben presto nella sala
in cui lei e Antonia si erano presentate ai gemelli, che quel giorno
vedeva solo una mezza dozzina di persone tra le sue mura.
La ragazza si diresse senza esitazioni verso Grant
e allungandosi più che poteva gli rifilò un
manrovescio tale da farlo barcollare.
«Piccola pazza…!»
ruggì lui, furioso, riavendosi subito dallo stupore.
«Immenso bastardo!»
replicò lei, decisamente più arrabbiata di lui.
Gli diede un pugno in mezzo al petto. «Si può
sapere che problema hai? Eh? Spiegamelo, perché io proprio
non lo capisco!» aggiunse, prendendolo a calci negli stinchi.
Jonas saltellò sul posto, cercando di
evitare i colpi. «Sei completamente fuori di testa! Arrivi
qui come una furia, mi aggredisci, e sarei io quello che ha
dei problemi?» tuonò.
Federica gli mostrò i denti ringhiando
come un animale feroce. «Sì» disse,
trattenendosi a stento dall’urlare. «Sei
decisamente tu quello che ha dei problemi, signor capitano bastardo Grant. Hai
tormentato Antonia senza motivo, l’hai perseguitata per
giorni e l’hai esasperata e terrorizzata. Volevi che
sparisse? Be’, eccoti accontentato!»
ululò furibonda, brandendo un pezzo di carta.
«Grazie a te se n’è andata, pezzo di
deficiente!».
Baumann, che come gli altri aveva assistito in un
silenzio incredulo e a tratti divertito la scena, la raggiunse con due
passi e le strappò di mano la lettera.
«Bravo, leggila!» disse
Federica, quasi isterica, prima di ricominciare a prendere a pugni
Grant, che la lasciò fare senza neanche tentare di
difendersi. «Grazie a questo imbecille la mia amica
è andata a buttarsi in mezzo agli Orchi, pur di
sfuggirgli!». Ringhiò di nuovo
all’indirizzo del capitano. «Che si prova a essere
considerato peggiore di un branco di Orchi, Grant?» aggiunse,
rabbiosa e sarcastica: gli diede una spinta in mezzo al petto come
aveva fatto Antonia solo due ore prima e Grant sussultò,
attraversato da una scarica elettrica.
«EHI!» tuonò
Illyrio; mosse le mani con un gesto elegante e una bolla traslucida
avvolse la ragazza.
«Fammi uscire da questo coso! Illyrio, fammi uscire!»
urlò lei, arrabbiatissima.
«No» rispose secco
l’uomo. «Sei fuori controllo e stai facendo Magia
involontaria: finché non ti calmerai, non
revocherò la bolla».
Federica sibilò una serie di contumelie
all’indirizzo di Illyrio e di Grant. Baumann, che intanto
aveva riletto due volte la lettera lasciata da Antonia
all’amica, fece un passo verso il capitano e gli
sferrò un pugno in pieno volto.
«Baumann!»
lo richiamò Isdrid con voce assordante.
Grant si raddrizzò senza neanche
toccare il punto colpito e fissò Baumann con gli occhi
socchiusi in un’espressione orgogliosa.
«Dimmi, Jonas: angariare una ragazza
spaesata, finita senza sapere come in un mondo di cui non sospettava
nemmeno l’esistenza e impossibilitata a tornare alla propria
casa e ai propri affetti ti sembra un comportamento da uomo
onorevole?» sibilò il principe, furioso come
raramente l’avevano visto. «Spingerla a mettersi in
pericolo mortale pur di non subire più un simile trattamento
è forse il comportamento adatto al capitano delle guardie
del palazzo reale dello Staudeheim?». Baumann si
raddrizzò: anche se era quindici centimetri abbondanti
più basso di Jonas, in quel momento emanava una rabbia tale
da sovrastarlo. «Non è questo che mi aspettavo da
te!».
«Per l’amore del cielo,
Baumann, vi state davvero facendo sconvolgere tanto dalle lagne di una
ragazzina che per noi non conta nulla?» rispose sprezzante
Grant, massaggiandosi la mascella. «Sarà andata a
nascondersi in qualche angolo del castello: entro l’ora di
cena o al più tardi domattina i morsi della fame la
ricondurranno alla ragione».
«Entro l’ora di cena
sarà già stata fatta a pezzi dagli
Orchi» rispose Baumann con furia, lanciandogli in faccia la
lettera. «Ha deciso di sfidare la sorte. Vuole raggiungere il
Varco e tornare al proprio mondo perché non ne
può più dei tuoi agguati: è
terrorizzata da te». Grant prese il foglio e
iniziò a scorrerlo con gli occhi. «Leggi, Jonas,
leggila pure, e guarda il sangue innocente di cui con ogni
probabilità entro domattina le tue mani saranno
macchiate» concluse gelido Baumann, chiamando a sé
Alec e Zane e non degnando di uno sguardo Grant, che dopo aver lanciato
la lettera a Federica, uscì a passo di marcia dalla sala.
*
Antonia scavalcò un ramo secco sollevando la gonna e
proseguì con gli occhi fissi davanti a sé. Ormai
da qualche ora camminava con passo rapido ma silenzioso verso il Varco:
in una manica aveva infilato un rametto raccolto appena fuori dal
castello, sperando che in caso di necessità la sua Magia si
risvegliasse com’era successo il giorno del suo arrivo, e
questo pensiero bastava a darle quel pizzico di sicurezza che le
serviva per andare avanti.
Fino a quel momento era riuscita a evitare le zone
in cui di solito bivaccavano gli Orchi, che sembravano essere
insolitamente tranquilli: per aumentare le sue possibilità
di arrivare indenne al Varco aveva persino rinunciato alle scarpe,
intuendo che sul suolo della foresta i suoi piedi nudi avrebbero
prodotto meno rumore che se fossero stati coperti. Stava andando tutto
bene.
Ma non ancora per molto.
La ragazza aveva appena formulato quel pensiero
che il suono sordo di passi veloci la raggiunse. Stringendo la gonna in
una mano Antonia spiccò una corsa in punta di piedi, mentre
i suoi occhi cercavano frenetici un riparo e la mano libera andava a
sfilare il ramo dalla manica.
Il suono, sebbene attutito dal suolo, divenne
più forte: il fruscio di foglie secche calpestate senza
alcun riguardo si aggiunse ai tonfi ritmici e Antonia si
voltò a fronteggiare il suo assalitore, il ramo ormai
trasfigurato in una solida spada.
A due centimetri dal taglio della lama stava il
muso di un lupo: la ragazza sollevò lo sguardo e riconobbe
con disgusto, terrore e rabbia il cavaliere.
Voltatasi di scatto, Antonia mollò la
spada, raccolse la gonna perché non le fosse
d’intralcio e si mise a correre sul serio; Grant
smontò dal lupo e la rincorse, e con le sue lunghe gambe gli
fu ridicolmente facile raggiungerla e tagliarle la strada.
«Vattene!» sibilò
Antonia, cercando con gli occhi qualcosa da trasformare in
un’arma. In quel momento rimpianse di essere a piedi nudi: se
avesse avuto le scarpe, avrebbe potuto sfilarsene una e tramutarla in
una spada. Non aveva dubbi che ci sarebbe riuscita: si sentiva
minacciata da Grant molto più che da un intero clan di Orchi.
«Si può sapere come ti
è venuto in mente di avventurarti non solo fuori dal
castello, ma addirittura in questo quadrante?»
sussurrò lui arrabbiato. «Sei più
stupida di quanto pensassi!»
«Credevo ti avrebbe fatto piacere: con
ogni probabilità entro un’ora un Orco mi
vedrà e mi ridurrà in briciole» rispose
sarcastica lei. «Non è quello che vuoi?»
Grant si accigliò. «Sei
isterica» decretò.
«Solo stanca di averti tra i piedi ed
essere minacciata da te» replicò Antonia.
«Adesso sparisci e lasciami proseguire: se tutto va bene,
riuscirò ad arrivare al Varco e a tornarmene a casa
mia»
«Non puoi sperare di superare tutti gli
Orchi che infestano la zona» disse Grant, incrociando le
braccia al petto.
«Preferisco morire tentando, piuttosto
che avere ancora a che fare con te» dichiarò secca
la ragazza.
«Al castello mi stanno già
assillando perché mi ritengono colpevole di averti fatto
intraprendere quest’impresa folle»
sbuffò il capitano.
«Chissà come mai!»
disse ironicamente Antonia.
«Non è certo colpa mia se sei
pazza» rispose in tono di sdegno Grant.
«No, ma è colpa tua se sono
esasperata e non riesco più a chiudere occhio né
di giorno né di notte!» gli ritorse contro lei.
«In ogni caso, se muori non mi daranno
più pace» concluse l’uomo, abbrancandola
alla vita e mettendosela sottobraccio come fosse stata una bambola di
pezza. «Quindi adesso torniamo al castello».
Antonia era tutt’altro che pronta a
cedere. Gli rifilò un pugno ben piazzato al fianco; il
dolore e la sorpresa fecero mollare a Grant la presa e la ragazza si
raddrizzò più veloce di un fulmine, correndo
nella direzione che aveva seguito fino a quel momento.
«Oh no, non credo proprio!»
disse lui, rialzandosi un po’ dolorante e correndole dietro:
le saltò addosso, inchiodandola al suolo e bloccando senza
sforzo ogni suo tentativo di divincolarsi. «Smettila un
po’!» sbottò esasperato, rialzandosi:
l’acchiappò di nuovo per i fianchi e se la tenne
stretta al petto con un braccio, mentre con la mano libera bloccava
quelle di lei e si avviava verso il lupo docilmente in attesa.
«È inutile che ti ribelli: tanto non ti
mollo» l’avvertì.
«Tentar non nuoce»
sibilò Antonia, scontrandosi con la presa ferrea di Grant.
«E lasciami!» ululò.
Guardandosi attorno circospetto, Grant le
lasciò i polsi solo per schiaffare la propria manona sulla
sua bocca e zittirla. «Ma sei veramente così
stupida?» sussurrò furibondo. «Urlare in
un bosco pieno di Orchi, proprio una bella idea. Vuoi farci ammazzare
entrambi?».
Lo sguardo fosco di Antonia diceva chiaramente che
considerava la propria morte un ben misero prezzo da pagare, se questo
significava mandare all’altro mondo Grant.
Intanto avevano raggiunto il lupo del capitano.
«Per cavalcare devo tenere le redini
almeno con una mano» disse l’uomo, «ma se
urli, giuro che ti strozzo!»
«Considerate le minacce che mi fai di
solito, strozzarmi sarebbe quasi un gesto d’amore»
rispose sarcastica Antonia mentre Grant la schiaffava sulla sella senza
troppi complimenti e la seguiva con un balzo per non darle il tempo di
scappare, sistemandosi dietro di lei.
«Sarà meglio non parlare: il
viaggio di ritorno sarà abbastanza lungo e io potrei sempre
cedere alla tentazione di ucciderti e dare la colpa agli
Orchi» disse altero Grant, tenendola così stretta
da farle male. Antonia trattenne un gemito di frustrazione: quel
viaggio sarebbe stato davvero molto, molto lungo. |
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Capitolo 4 *** La forza degli ideali ***
Dopo la tentata fuga di Antonia, Grant era diventato poco meno di un
fantasma. Non lo si vedeva mai: passava la maggior parte del suo tempo
in qualche angolo remoto del castello che nessuno era stato in grado di
individuare e ne usciva soltanto per svolgere i propri compiti di
capitano. Neanche ai pasti si faceva vivo, e inutilmente Baumann si era
appostato in cucina per tre notti di seguito nel tentativo di coglierlo
sul fatto: a quanto pareva, Jonas era più bravo di quanto
immaginasse, a nascondere le tracce del suo passaggio.
Antonia, che all’inizio era stata
indicibilmente sollevata dal nuovo atteggiamento del capitano, ora si
sentiva in colpa. Grant viveva lì da quando era nato, e
adesso per causa sua – seppure indirettamente – si
ritrovava a nascondersi nella sua stessa casa. Provò a farne
parola con Federica.
«Non capisco perché te ne
preoccupi» disse quest’ultima quando
l’amica le rivelò i propri pensieri.
«Non hai fatto niente di male: semmai è stato quel
cretino di un capitano a comportarsi in modo pessimo nei tuoi
confronti, e se non è abbastanza maturo o intelligente da
riuscire a comportarsi civilmente, tanto peggio per lui. Che rimanga
pure nel buco in cui s’è nascosto!».
Così Antonia aveva rinunciato a
ricevere un consiglio degno di tale nome dall’amica. Per un
po’ si era chiesta con chi potesse parlarne, ma nessuno
sembrava adatto: Isdrid, l’unica altra donna con cui avesse
contatti regolari a palazzo, ancora non le ispirava una completa
fiducia; Illyrio non invogliava alle confidenze; Mastro Devall era
troppo preso dal suo ruolo e i gemelli erano…be’,
erano i gemelli: troppo fanciulleschi nonostante fossero i comandanti
dell’esercito. Antonia dubitava fortemente che Alec o Zane
potessero aiutarla a sbrogliare la matassa confusa dei propri pensieri.
Mentre rimuginava su quei pensieri si accorse che
i suoi passi distratti l’avevano portata ai piedi della Torre
del Larice: la chioma dell’albero che dava il nome a quella
torre svettava nel cielo, oscurando parzialmente i raggi del sole.
Antonia si avvicinò al tronco e ne sfiorò la
corteccia con un gesto delicato, come avrebbe potuto fare con la pelle
di un amante; e quando una mano maschile si unì alla sua,
accarezzando l’albero e quasi toccando le sue dita con le
proprie, lei non sobbalzò né si voltò.
Se quella mano avesse mostrato piccole cicatrici o i segni delle
intemperie, dell’aria aperta, di una vita avventurosa e piena
di pericoli, avrebbe riconosciuto in Grant il suo possessore e con ogni
probabilità sarebbe scappata a gambe levate come faceva
sempre quando il capitano era nei paraggi: ma quella mano aveva una
pelle liscia e morbida anche se lievemente scurita dal sole, con le
dita affusolate e le unghie rosee, e a palazzo un solo uomo aveva mani
del genere.
«Spero di non disturbare la sua
passeggiata, Antonia» disse Baumann con un sorriso.
La ragazza ricambiò il sorriso.
«Niente affatto, Maestà».
Il principe portò le mani dietro la
schiena e la guardò con aria pensosa.
«Perché formalizzarsi tanto sui titoli ed essere
schiavi delle rigide regole del galateo? Ormai viviamo sotto lo stesso
tetto, e non negherò che insieme a Federica siete delle
ospiti più che gradite». Baumann rise.
«Raramente ne abbiamo, qui, visto
quant’è pericoloso viaggiare da una contea
all’altra!».
Antonia trattenne un secondo sorriso e gli porse
la mano. «E noi non potevamo sperare in
un’ospitalità più calorosa,
Baumann» dichiarò.
Lui le afferrò la mano e la strinse tra
le proprie. «Noi saremo buoni amici, vero, Antonia?»
«Lo spero» rispose la ragazza.
«Lo spero molto. Ora più che mai ne ho
bisogno».
Baumann la invitò con un gesto del capo
a passeggiare lungo la corte interna.
«Devo ammettere che il vostro arrivo ha
portato una ventata d’aria fresca al castello, e anche un
po’ di scompiglio» disse, mentre percorrevano con
passi lenti il perimetro del giardino. «Con voi qui, la vita
è molto più divertente e imprevedibile».
Antonia, intuendo che Baumann si riferiva al suo
travagliato rapporto – se di rapporto si poteva parlare
– con Grant, preferì tacere.
Il principe la osservò con discrezione,
attento al suo mutare d’espressione. «Ho
l’impressione che qualcosa ti turbi» si risolse a
dire. «Mi rendo conto che poco più di una
settimana di conoscenza non è granché per essere
eletto confidente di qualcuno, ma mi chiedevo se ti andasse di
parlarne» aggiunse con delicatezza.
Antonia rimuginò sulle sue parole tanto
a lungo da fargli credere di non voler rispondere.
«Be’, io…io mi
sento un po’ in colpa» confessò infine,
stupendo Baumann. «Per quanto il capitano si sia
comportato…non bene, diciamo, nei miei confronti, mi sembra
di averlo reso un reietto nella sua stessa casa».
L’uomo annuì una sola volta.
«Capisco come tu debba sentirti, ma vorrei cercare di
rassicurarti su questo punto» disse. «Nessuno ha
isolato Jonas, tanto meno per quello che è successo tra di
voi: certo, mamma Isdrid l’ha rimproverato fin quasi a fargli
sanguinare le orecchie, ma lo fa sempre con ognuno di noi quando
sbagliamo…figurati che nemmeno Illyrio sfugge alle sue
prediche!» rise. Rendendosi conto che Antonia non sembrava
ancora convinta, tornò serio. «Antonia, non hai
colpe per quanto è successo…anche
perché di fatto per Jonas non è cambiato nulla:
è lui
che vuole nascondersi ed evitare gli altri. Lo fa sempre quando
qualcosa non va come vorrebbe lui: pensa che a tredici anni aveva
deciso di voler già combattere, e quando glielo impedirono,
fece la stessa cosa per oltre tre mesi»
«E alla fine la
spuntò?» chiese Antonia, incuriosita.
«Nemmeno per sogno!» rispose
Baumann, sghignazzando. «Solo che a un certo punto si
stancò della solitudine e tornò quello di sempre.
Jonas è fatto così: un po’ rude e
decisamente più solitario della media, ma in fondo non
è cattivo. Spero che ti darà modo di ricrederti,
su di lui. Fino a quel momento lascialo fare, ha i suoi tempi, come
tutti noi, e soprattutto non dargli ascolto se si comporta
da…be’, da stronzo! Lui sa bene che non sei una
minaccia, ma il suo attaccamento alla famiglia e il suo senso del
dovere a volte lo fanno sragionare. In ogni caso con te abbaia
parecchio, fin troppo senza dubbio, ma non ti morderebbe mai».
Antonia, sentendosi finalmente sollevata, sorrise.
«Sei una persona dotata di grande tatto oltre che di
buonsenso» disse. «Raramente ho incontrato qualcuno
come te»
Baumann le fece l’occhiolino.
«Mi piacerebbe poter dire che nel nostro mondo siamo molto
più civili e beneducati che negli altri, ma
l’esistenza stessa di Jonas confuterebbe una tale
affermazione».
La ragazza soffocò malamente una risata
mentre Mastro Devall li raggiungeva.
«Maestà, vi attendono nella
Sala delle Conferenze» disse ossequioso.
Il principe non trattenne un gemito di disappunto.
«Me n’ero completamente dimenticato»
borbottò. «Il dovere non cessa mai di chiamarmi.
Antonia, ci rivediamo a cena» si congedò facendole
il baciamano.
«Divertiti»
sghignazzò lei senza ritegno. Baumann le rivolse una smorfia
buffa mentre se ne andava insieme a Mastro Devall e spariva nei meandri
del castello.
Di nuovo sola, Antonia seguì i passi
dei due uomini e tornò a vagare per i corridoi: trovava
affascinante quel luogo così bizzarro, e non si stancava mai
di esplorarne le profondità e gli anfratti più
reconditi. Un’ora più tardi il suo vagare la
condusse a un’altra delle tante porte che davano sul parco
del castello. La targa consunta e resa opaca dal tempo recitava in
grandi caratteri “Torre
del Cipresso”.
La ragazza spinse con cautela la porta e mosse
qualche passo esitante all’esterno. Il giardino di quella
torre era molto diverso da quelli che aveva visto fino a quel momento:
polveroso e in più punti invaso dalle erbacce, dava
l’impressione di non vedere spesso anima viva. Antonia si
avventurò con passo leggero sotto il massiccio colonnato che
cingeva il perimetro, scrutando tutt’intorno con aria
guardinga.
All’improvviso un pugnale
sibilò vicinissimo al suo naso e si conficcò per
dieci centimetri buoni nella parete, vibrando minaccioso.
Antonia, che si era immobilizzata sudando freddo,
si girò nella direzione da cui era arrivato il pugnale e
vide un Grant cereo correrle incontro.
«Io…non l’ho
lanciato contro di te» furono le prime parole
dell’uomo. «Mi stavo allenando. Non avevo idea che
fossi qui, non ti avevo vista».
La ragazza prese un respiro profondo, riconoscendo
la verità nelle parole di Grant: in fondo era colpa sua, era
stata lei a infilarsi di soppiatto in quel giardino e a decidere di
spostarsi in silenzio e nell’ombra, nascondendosi dietro le
colonne. Lui non avrebbe potuto vederla, non senza sapere che fosse
lì.
«Lo so» rispose calma dopo
aver preso un altro paio di respiri profondi. Strinse forte la mano
intorno all’elsa del pugnale e con un gesto deciso lo
estrasse dal muro per poi porgerlo al proprietario. «Quindi
è qui che ti nascondi» disse. Colse lo sguardo
preoccupato e indispettito di Grant. «Tranquillo, capitano,
non lo dirò a nessuno» aggiunse.
Grant si rilassò visibilmente e si
riprese il pugnale. I due si guardarono in silenzio per un
po’; Antonia, sentendosi sulle spine, alla fine si
schiarì la voce.
«Mi…mi dispiace di averti
disturbato» si forzò a dire, tenendo gli occhi
bassi. «Stavo girando per i giardini del castello
e…». La ragazza s’interruppe,
improvvisamente nervosa: le erano appena tornate in mente le minacce di
Grant, quelle che le aveva fatto il famoso giorno in cui lei, poi,
s’era avventurata tra gli Orchi. Tacque.
«Non potevi sapere che ero
qui» concluse Grant per lei, a disagio, intuendo i suoi
pensieri. «Non fa niente».
Antonia si costrinse a sollevare lo sguardo.
«Io…volevo anche scusarmi
per…», esitò, incerta su come
proseguire: lo sguardo fisso e impenetrabile del capitano non
l’aiutava di certo, «per…». La
sua voce sfumò e si spense.
Grant si massaggiò il collo: sembrava
imbarazzato. «Quindi stavi esplorando i giardini del
castello» disse.
«Io…sì»
rispose Antonia, quasi temendo la reazione dell’uomo.
«Sì».
«Be’, sono tanti»
commentò lui laconico.
«Lo so. È per questo che sono
entrata» disse la ragazza. «Cioè,
uscita. Voglio dire…»
«Ho capito». Il capitano
giocherellò con il pugnale, evitando lo sguardo di Antonia
come lei evitava il suo. «Questa zona del castello e la Torre
del Cipresso sono disabitate da un pezzo, praticamente abbandonate: non
c’è niente da vedere».
Antonia, interpretando le sue parole come un
invito ad andarsene, incassò la testa tra le spalle.
«Ho capito» pigolò.
«Allora io…io vado» annunciò,
voltandogli le spalle e andando dritta verso la porta da cui era
entrata.
Grant la fissò per qualche istante, poi
la inseguì con due rapide falcate.
«Se…» disse;
Antonia, sorpresa che lui le stesse parlando, si fermò e si
voltò di nuovo verso di lui. Grant si schiarì la
voce, imbarazzato dall’espressione sconcertata di Antonia,
«se ti va però puoi…dare
un’occhiata. Ci sono delle piante
interessanti…». La voce del capitano divenne un
mormorio indistinto. «Se vuoi te le mostro»
aggiunse, in evidente difficoltà.
Gli angoli della bocca di Antonia si piegarono
impercettibilmente all’insù.
«Sì» disse soltanto, affiancandolo e
lasciando che le facesse strada.
*
Le due ragazze si erano adattate rapidamente alla
vita in quel palazzo fatto, come ogni altra cosa nel regno, di arbusti
e cespugli: come aveva spiegato loro Mastro Devall, le piante erano le
uniche a non risentire dei continui terremoti grazie alla particolare
struttura delle loro radici che, legandosi le une alle altre, creava un
naturale reticolato antisismico; motivo per cui la maggior parte delle
mura erano in realtà costituite dai tronchi e dai rami degli
alberi stessi.
L’idea di abitare in un palazzo quasi
dotato di vita propria aveva reso loro più facile accettare
il fatto di essere capaci di usare la Magia: sotto la guida di Illyrio,
il Magister
Fascinationum di palazzo, entrambe compivano grandi
progressi ogni giorno che passava. E neanche l’addestramento
nell’uso delle armi veniva trascurato: Alec e Zane si erano
assunti l’incombenza di istruire Antonia e Federica con un
entusiasmo quasi contagioso, tanto che ormai i quattro si tendevano
agguati l’un l’altro a qualsiasi ora del giorno e
della notte, talvolta spaventando a morte gli altri abitanti del
castello.
Sebbene le settimane scorressero tranquille e
piacevoli, le ragazze non potevano fare a meno di sentire la mancanza
delle rispettive famiglie: immaginavano quanto dovessero essere
preoccupati dalla loro improvvisa sparizione, e desideravano poterli
rassicurare al più presto. Gli Orchi, però,
sembravano non volerne sapere di spostarsi dalla zona del Varco: come
Antonia aveva appurato di persona dalla cima della Torre della Quercia
grazie a un potente binocolo, i Signori del Terremoto continuavano a
imperversare in quel quadrante, rendendo impossibile per loro
avventurarvisi senza pericolo. E così continuavano a essere
bloccate a palazzo, senza altro da fare che riempire le proprie
giornate come meglio potevano.
Fu due mesi dopo il loro arrivo nello Staudeheim
che trovarono uno scopo alla loro permanenza lì.
Era una giornata ancora calda nonostante fosse
già autunno inoltrato; gruppi di soldati guidati dal
capitano Grant erano usciti come ogni giorno per controllare il
perimetro del castello e le zone circostanti quando erano stati
attirati in un’imboscata degli Orchi. Ne erano usciti per
miracolo, e prima di riuscirci tre degli uomini erano comunque morti
sotto i colpi dei nemici.
Il principe aveva subito convocato il Consiglio.
«Dobbiamo dare loro una
lezione!» tuonò Grant; nonostante la ferita
sanguinante sulla fronte, aveva l’aria battagliera e sembrava
impaziente di tornare fuori.
«È un suicidio,
Jonas» tentò di farlo ragionare Devall.
«E cosa dovremmo fare? Restare a
guardare?» s’intromise Isdrid, lo sguardo fosco.
«No, ma non possiamo prendere decisioni
simili sull’onda dei sentimenti!»
«Dobbiamo agire, questo è
chiaro» decretò Baumann, il volto tirato.
«Vogliono tenderci delle imboscate? Ebbene, noi faremo lo
stesso con loro!».
Federica e Antonia, che avevano ottenuto di
assistere alla discussione, dopo aver parlottato sottovoce per un
po’ si scambiarono uno sguardo d’intesa, e la
seconda si alzò.
«Maestà, io e Federica
avremmo un’idea» disse, rivolgendosi a Baumann in
modo formale come ancora si ostinava a fare in pubblico, nonostante lui
l’avesse esortata a non farsi simili problemi.
Il principe aggrottò le sopracciglia.
«Vi ascoltiamo»
«Abbiamo notato che il vostro esercito
è composto soltanto da uomini, quindi, non appena ne vedono
uno, gli Orchi sanno che è imminente un attacco»
iniziò la ragazza. «Dalle donne, invece, non si
aspettano nessuna minaccia»
«Ci stai suggerendo di mandare le nostre
donne a farsi ammazzare dagli Orchi?» sputò Grant.
«Vi sto suggerendo di lasciar andare
noi» replicò lei, accennando a se stessa e a
Federica.
«È escluso» disse
subito Baumann. «Siete sotto la mia protezione, non posso
permettervi di rischiare la vita in questo modo».
«Insistiamo»
replicò Antonia con decisione. «Maestà,
sa che sarebbe perfetto: ormai sappiamo gestire la nostra Magia
piuttosto bene, il che ci permette di crearci le armi dal nulla, e gli
Orchi non sospetteranno nulla fino a quando non sarà troppo
tardi»
«Diventerete dei bersagli» le
fece notare il principe.
«Lo siamo già»
disse Antonia. «L’unica distinzione che fanno gli
Orchi è tra loro stessi e tutti gli altri: tanto vale
renderci utili».
«L’ho sempre detto che sei
pazza» intervenne Grant, scoccandole uno sguardo di fuoco a
cui Antonia rispose con uno battagliero.
«Grant, non cominciare» lo
avvertì.
Il capitano la guardò malissimo, poi
incrociò le braccia dietro la testa fingendo indifferenza e
si dondolò sulle gambe posteriori della massiccia sedia.
«Sai cosa, straniera? Hai ragione. Non sei mia sorella, non
sei mia amica, non sei una donna dello Staudeheim. Vuoi ammazzarti?
Fa’ pure. Io però non verrò a
salvarti!»
«Sei sempre il solito stronzo»
replicò Antonia. Gli rivolse uno sguardo beffardo.
«Non è che per caso ti preoccupi per me, capitano?».
Jonas arrossì. «Come ho
detto, per me non sei nessuno. Se vivi o se muori, a me non cambia
nulla»
Antonia inarcò un sopracciglio.
«Attento, Grant: un giorno potresti rimangiarti queste
parole!» lo provocò, facendo di tutto per essere
indisponente.
«Avete finito, piccioncini?»
chiese Alec in tono di sopportazione.
Entrambi lo guardarono sgranando gli occhi.
«Piccioncini? Noi? Meglio la
castità!» dichiarò Grant, guardando
schifato Antonia.
«Con questo qui? Neanche se fosse
l’ultimo uomo in tutti i mondi e da noi dipendesse la
sopravvivenza della razza umana!» disse Antonia con aria di
superiorità.
Alec alzò gli occhi al cielo e scosse
la testa, imitato da Zane; Baumann nascose un sorriso dietro la mano,
esilarato dal siparietto tra Jonas e Antonia.
«In ogni caso, non vi permetto di
andare» decise quest’ultimo, tornando serio.
«Non è solo pericoloso, è un suicidio.
Sareste soltanto in due, e anche se ammetto che avete compiuto
progressi incredibili in un tempo ridottissimo, il vostro addestramento
non è ancora sufficiente a sfidare dei combattenti umani,
figuriamoci degli Orchi!»
«Non abbiamo in mente un corpo a corpo
con gli Orchi» ribatté Antonia. «Non
siamo stupide né avventate. Abbiamo un piano, un buon piano
con ottime possibilità di riuscita: conosciamo i rischi e
siamo pronte ad affrontarli»
«Ma…» insorse il
principe, sconcertato e preoccupato alla sola idea di saperle
all’esterno, sole e prive di protezione.
«Lasciale tentare, Baumann»
intervenne Isdrid. «Sanno quello che fanno».
L’uomo si afflosciò nel
trono. «E sia» cedette.
Le due ragazze si inchinarono. «Non ve
ne pentirete, Maestà: è una promessa».
*
Antonia e Federica vagavano a circa dodici miglia dal palazzo, in una
zona apparentemente deserta, ben celate da mantelli e cappucci. Sotto
le cappe nascondevano vari oggetti leggeri e poco ingombranti da
trasformare, al momento giusto, in armi.
«Non dovrebbe mancare molto»
mormorò Federica, tesa ma determinata. «Tra poco
saremo in vista»
«Sono pronta»
replicò Antonia.
«Credi che ce la faremo?»
«Lo credo».
Federica prese fiato: erano quasi arrivate
all’accampamento degli Orchi. «E se ci
uccidessero?»
«Allora moriremo facendo la cosa
giusta» rispose calma l’altra, «per
aiutare la nostra nuova famiglia». |
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Capitolo 5 *** Il Dio degli Alberi ***
Dopo quel primo, coraggioso attacco – terminato con lo
sterminio quasi totale di quel contingente di Orchi – Antonia
e Federica erano state inserite di diritto nella squadra
d’assalto del palazzo: ormai da quattro mesi, ogni giorno
uscivano dalle mura sicure del palazzo per respingere e decimare gli
Orchi, impreparati ad affrontare nuovamente simili offensive.
Il tempo passato al castello era altrettanto
produttivo: seguendo gli insegnamenti di botanica di Mastro Devall,
Antonia aveva scoperto che a rendere le piante dello Staudeheim
resistenti ai terremoti era la linfa di un piccolo cespuglio dalle
bacche giallo pallido che cresceva avvinghiato a ogni altro esemplare
vegetale e che, se estratta e bollita, diventava una gomma facilmente
modellabile. Appurato che era proprio quella linfa ad assorbire e
annullare le vibrazioni, e seguendo l’intuito e conoscenze a
cui non aveva mai dato grande peso, la ragazza aveva convinto gli
artigiani dei vari villaggi a creare dei reticolati con questa gomma e
impiantarli pochi centimetri sottoterra: questa trovata aveva fatto
sì che la stragrande maggioranza dei sismi non arrivasse
più in superficie. L’altra astuta mossa era stata
quella di creare con la stessa gomma le suole delle scarpe,
dimodoché, durante gli scontri con gli Orchi nei territori
ancora non “bonificati”, i soldati non soffrirono
più lo svantaggio della perdita d’equilibrio
causata delle incessanti martellate dei nemici sul terreno.
In breve, Antonia divenne indispensabile. Il suo
parere era sempre richiesto, la sue idee subito messe in pratica; il
principe la cercava spesso, per discutere del regno e non solo, e la
ragazza si era scoperta avida del tempo passato con lui, desiderosa di
ottenere i suoi sguardi, i suoi sorrisi, la sua approvazione.
Il coraggio con cui lei e Federica si gettavano
nella mischia era un ulteriore motivo di fiducia per chi combatteva al
loro fianco. Persino Grant si era ricreduto: adesso discuteva spesso di
strategia con le ragazze, e pianificava con loro ogni assalto.
Entrambe avevano scoperto di possedere un innato
talento nel tiro con l’arco: era diventata la loro arma
preferita, e permetteva loro di abbattere gli Orchi anche da grandi
distanze. Antonia aveva anche scoperto il piacere del cavalcare a dorso
di lupo: trovata un’affinità inaspettata con un
lupo non del tutto domato che nessuno osava cavalcare, e conquistata la
fiducia dell’animale, aveva imparato cosa significasse
sentirsi un tutt’uno con la propria cavalcatura. Nebbia
– così l’aveva chiamato, a causa del
mantello di un grigio chiarissimo e del passo leggero e felpato
– era diventato il suo fidato compagno: insieme avevano
attaccato alle spalle decine di Orchi, insieme e separatamente. I lupi
giganti dello Staudeheim, infatti, essendo gli unici animali in grado
di sbranare gli Orchi, erano i loro nemici naturali: dunque capitava
spesso che, raggiunto il campo di battaglia, Antonia liberasse Nebbia
dei finimenti, permettendogli così di sbranare i nemici
mentre lei li bersagliava con le proprie frecce.
In quattro mesi, Antonia era diventata una
leggenda vivente.
*
Quella giornata si prospettava essere una delle
peggiori in assoluto: arrivati al punto stabilito, i soldati di Baumann
avevano scoperto che gli Orchi erano molto più numerosi di
quanto credessero; ed essendo già stati visti dai nemici,
non potevano ritirarsi e riorganizzarsi.
Smontata di sella, Antonia aveva ridotto i
finimenti a un semplice collare e lasciato Nebbia libero di saltare
alla gola dell’Orco più vicino; affiancata
Federica, aveva toccato le due fasce di stoffa che portava a tracolla,
trasformandole in uno splendido arco d’argento e in una
faretra dello stesso materiale colma di frecce scintillanti.
«Pronta, Fede?» chiese,
scoccando la prima freccia dritto nell’occhio di un Orco.
«Sempre» rispose
l’altra, piantando a sua volta una freccia nella fronte di un
nemico. «E mai» grugnì, colpendone un
secondo che si avvicinava minaccioso ad Alec.
«Abbattiamone più che
possiamo e ritiriamoci!» urlò Grant: erano in
venti contro almeno cento Orchi, e non voleva perdere nessun uomo.
«Pensi davvero che ce lo lasceranno
fare, Jonas?» gridò Antonia in risposta.
Grant non rispose, troppo occupato a infilzare
ripetutamente un Orco allo stomaco. A Jonas il coraggio non mancava, ma
era finito troppe volte in scontri impari e sapeva che, a meno di
andarsene alla svelta, qualcuno di loro sarebbe caduto sul campo. Le
due ragazze – che mai avevano assistito all’orrendo
spettacolo del martello di un Orco che si abbatte su una persona
– non riuscivano a percepire come tangibile un simile
rischio: fino ad allora l’avevano sempre spuntata, ed erano
certe che ce l’avrebbero fatta anche quella volta.
Sterminato un buon terzo degli Orchi presenti
Grant ordinò la ritirata solo per vedersi sbarrare la
strada. I suoi peggiori timori si stavano avverando: rischiavano di
essere sopraffatti.
«Antonia, Federica, dobbiamo
andarcene!» urlò Jonas.
«Nebbia!» gridò
Antonia, richiamando il lupo; anche gli altri richiamarono i propri, e
li aizzarono contro gli Orchi mentre loro stessi continuavano a
combattere. Ma i nemici non cedevano: nonostante i morsi, le frecce e i
colpi di spada, a poco a poco stavano stringendo il cerchio intorno a
Grant e i suoi compagni.
Antonia si rese conto per la prima volta in quel
momento di cosa fosse una vera battaglia contro i Signori del
Terremoto: i martelli mulinavano da tutte le parti sibilando
nell’aria, i boati dei continui sismi la stavano assordando e
il sangue verdastro e vischioso degli Orchi schizzava dalle ferite che
lei e i suoi compagni gli infliggevano, inzuppandola.
«Avanti, Nebbia, sbranali
tutti!» urlò la ragazza. Il lupo ululò
la propria risposta e si scagliò con maggiore ferocia contro
i nemici. Lei si voltò, e le si gelò il sangue
nelle vene: un martello enorme stava calando proprio dove si trovava
Grant, alle prese con un altro Orco.
«Jonas!»
gridò disperata; il martello si abbatté con tanta
forza da creare una lunga, profonda fenditura nel terreno.
E di Jonas Grant non c’era traccia.
«JONAS!» urlò di
nuovo Antonia; scoccò tre frecce con rapidità e
precisione, uccidendo altrettanti Orchi, e corse lì dove il
martello era rimasto al suolo. «JONAS!».
Antonia era terrorizzata all’idea di
avvicinarsi troppo; temeva di vedere il corpo di Grant mutilato e
distrutto da quel colpo poderoso. Vide sbucare un piede, e per un
istante si bloccò: non era certa di avere la forza di
avanzare ancora, di scoprire che ormai di quello che era il suo
migliore amico non restava più nulla.
Ma Grant era salvo: al grido di Antonia aveva
visto l’enorme martello calare su di sé e si era
gettato di lato appena in tempo. Nell’impatto con il terreno
aveva sbattuto la testa ed era rimasto stordito, momentaneamente
incapace di rispondere ai richiami della ragazza.
«Antonia» borbottò.
La giovane donna si gettò su di lui e
lo strinse tanto forte da levargli il fiato. «Dèi,
Grant, sei vivo!».
«Ancora per poco, se non ci
alziamo» replicò lui.
Antonia si alzò, lo prese per le
braccia e lo rimise in piedi. «Dobbiamo andarcene, di
corsa» disse.
Jonas sbuffò esasperato. «E
dovevo quasi rimetterci la pelle perché tu lo
capissi?»
«Sta’ zitto o ti lascio
qui!» minacciò lei.
«Uomini, RITIRATA!»
urlò Grant.
Con agili balzi, tutti rimontarono a dorso di
lupo: le intelligente bestie, ululando e facendo scattare le mascelle,
si aprirono un varco tra gli Orchi. Antonia, Federica e quattro uomini
coprirono la ritirata facendo cadere sui nemici che li braccavano una
pioggia di frecce: il gruppo degli inseguitori si
assottigliò fino a quando non si arresero, fermandosi fuori
dalla portata degli arcieri, roteando i martelli in aria e urlando la
loro rabbia sotto i rami spogli degli alberi.
*
Il rientro a palazzo era avvenuto nel totale silenzio. Nonostante
fossero tutti vivi, parecchi erano feriti: alcuni dei soldati, pur non
essendo stati schiacciati, erano comunque stati colpiti dai martelli,
riportando varie fratture, e al loro arrivo si erano visti rinchiudere
da Isdrid nell’ala del castello adibita a infermeria.
Antonia, che aveva solo qualche graffio, si
eclissò prima che Isdrid potesse decidere di trattenere
anche lei. In verità la Magistra
Sanationis non solo l’aveva vista, ma
l’avrebbe anche trascinata in infermeria con gli altri feriti
se Grant non fosse intervenuto.
«Lasciala stare, mamma Isdrid»
mormorò Jonas. Alla donna questo bastò per capire
quanto fosse delicata la situazione: era raro che il capitano si
rivolgesse a lei chiamandola “mamma”. «Ha
avuto una brutta giornata».
Lei lo fissò. «È
quasi morta?».
Grant scosse la testa. «Sono quasi morto
io».
Isdrid aggrottò le sopracciglia.
«Per colpa sua?».
«La sua unica colpa è
di avermi avvertito un attimo prima che un martello mi
schiacciasse».
La donna sospirò. «Ho
capito».
Intanto Antonia, ignara della conversazione tra
Isdrid e Jonas, aveva lasciato che i piedi la conducessero dove
volevano, senza preoccuparsi di sapere dove stava andando. Si
ritrovò senza quasi rendersene conto vicino alla Torre del
Faggio: era intenta a osservare l’imponente costruzione
quando qualcuno la chiamò.
«Antonia?» disse Baumann,
sorpreso. La ragazza alzò lo sguardo: la testa del principe
faceva capolino da un intrico compatto di rami, a quattro metri da
terra, e i suoi occhi la osservavano con perplessità e un
pizzico di preoccupazione. «C’è una
fessura tra gli alberi, proprio davanti a te. Sali».
Andando dove l’uomo le aveva detto,
Antonia si rese conto che quello che aveva scambiato per un singolo
albero era in realtà un intrico di più alberi,
cresciuti talmente vicini e avvinghiati da sembrare una cosa sola.
All’interno c’era uno spazio vuoto e una scala
rudimentale: la donna salì fino a sbucare in una sorta di
casa sull’albero chiusa da ogni lato dai rami strettamente
intrecciati e sormontata da una cupola di foglie. Soltanto il pavimento
sembrava essere stato creato dalla mano umana con delle assi ben
posizionate che sparivano sotto un mare di coperte e cuscini. Baumann
era l’unico di cui desiderasse la compagnia, in quel momento:
con il passare dei mesi tra di loro era nata una grande
complicità, e trascorrevano molto tempo in compagnia
l’uno dell’altra.
«Baumann, che ci fai
quassù?» chiese senza un vero interesse.
L’espressione dell’uomo
divenne furiosa. «Ero salito sulla Torre per controllare come
ve la stavate cavando: quando ho visto che eravate in
inferiorità ho cercato di raggiungervi, ma Illyrio mi ha
bloccato in quest’ala del castello con i suoi stupidi
incantesimi» spiegò tra i denti.
«Ha fatto bene» disse a
sorpresa Antonia. «Ci sono tanti soldati, ma un solo
principe»
«Che razza di principe sono, se non
posso nemmeno scendere in battaglia con i miei uomini?»
esplose Baumann.
«Uno cauto, che sa che Staudeheim ha
bisogno di un governante» replicò la ragazza.
«Che farebbe il regno senza di te? Chi prenderebbe il tuo
posto?».
A sorpresa, Baumann scoppiò in una
risata amara. «Mi sembra di risentire mia madre»
disse. «Governò il regno per due anni, e non
appena raggiunsi l’età giusta per regnare, si
lasciò morire. La pregai di non farlo, e lei mi disse:
“Non
c’è più bisogno di me: sei pronto per
il trono. Staudeheim ha il suo principe”».
Antonia si strinse le ginocchia al petto, turbata
da tanta amarezza. «Perché lo fece?»
chiese piano.
Lui gettò indietro la testa e chiuse
gli occhi. «È una storia lunga: comincia con un
sogno, prosegue con la mia stupidità, e si conclude con una
morte». Riaprì gli occhi. «Vuoi
ascoltarla?».
La ragazza annuì.
«Devi sapere che è stata mia
madre a scegliere il nome che porto» esordì
Baumann. «Nel nostro mondo crediamo in molte
divinità, ma la principale, quella da cui prende il nome
anche il regno – Staudeheim significa “casa degli
arbusti” – è Baumann,
l’Uomo-Albero. Quando era gravida, mia madre fece un sogno
profetico: sognò che il bambino che stava per nascere
sarebbe stato saldo come un albero nel terremoto. Due mesi
più tardi, quando nacqui, mi impose il nome della nostra
divinità più importante: un azzardo, e un immenso
fardello.
«Crescendo, mia madre mi
narrò più volte di quel sogno. Intanto mio padre,
il principe reggente, combatteva contro gli Orchi come dovrei fare io:
in groppa a un lupo e con la spada in pugno, al fianco dei soldati.
Compiuti sedici anni, decisi che anch’io volevo combattere:
ero giovane, ero stupido, ed ero certo che quello fosse il mio destino,
l’adempimento del sogno profetico di mia madre.
«Mio padre si oppose a lungo: non ero
pronto, diceva, e aveva ragione. Io però non volevo vedere
le verità che mi metteva davanti agli occhi: insistetti
ancora, e ancora, e ancora, fino a quando un giorno non mi
portò con sé in battaglia».
Baumann serrò gli occhi per un istante.
«Quel giorno, gli Orchi erano
più violenti e determinati del solito. Ci tesero
un’imboscata: ci difendemmo come potemmo ma erano troppi, gli
uomini intorno a me morivano e io riuscivo a stento a evitare le
martellate. Vedendo combattenti molto più esperti di me
perire sotto i colpi dei nemici, fui preso dal panico. Non vidi il
martello che calava su di me, ma mio padre sì: mi spinse
via, e…prese il mio posto». L’uomo
deglutì. «Quando rialzai la testa, di mio padre
non c’era più nulla: solo un ammasso
irriconoscibile di carne sanguinolenta e ossa frantumante, non
c’era più un braccio, una gamba, o…il
suo volto…non c’era niente di intero su cui mia
madre potesse piangere…».
Baumann tacque e si voltò; Antonia ebbe
l’impressione che volesse nascondere le lacrime. Strisciando
sui cuscini gli si avvicinò e accarezzò la parte
sinistra della sua testa. «Fu quel giorno che i tuoi capelli
diventarono bianchi?» chiese.
Lui annuì. «Mia madre ne
fu…distrutta. Distrutta. Si fece forza perché il
regno doveva essere governato, ma non fu mai più la stessa:
era il senso del dovere a tenerla in vita. E quando ritenne che non ci
fosse più bisogno di lei…si lasciò
morire. Così, semplicemente, come un giardino abbandonato a
se stesso viene invaso dalle erbacce».
Antonia chinò la testa. «Non
riesco a immaginare come ti sia sentito…e come devi sentirti
tuttora. Oggi, per un attimo, ho creduto che Grant fosse stato
schiacciato da uno di quei maledetti martelli, ed è
stato…orribile».
Il principe rialzò lo sguardo.
«Quindi è per questo che te ne andavi in giro con
quell’aria persa».
La ragazza annuì bruscamente, e Baumann
le strofinò una mano sulla schiena.
«State facendo un ottimo lavoro: tra non
molto, potrete recarvi al Varco e tornare nel vostro mondo»
disse, cercando di rincuorarla.
«Non sono certa che sia quello che
voglio» mormorò lei, sorprendendolo.
«No?
Ma…perché?» domandò Baumann.
«Credevo volessi tornare dai tuoi genitori, dai tuoi
amici…a una vita in cui non bisogna lottare ogni giorno per
la propria vita e quella degli altri…».
Antonia si strinse nelle spalle. «Ho
nostalgia dei miei genitori, certo; vorrei tanto poter comunicare con
loro, rivederli e dirgli che sto bene, ma la verità
è che…», la ragazza esitò,
«che non voglio andare via: ormai sento che è
questa la mia casa».
Baumann tacque, poi intrecciò le
proprie dita a quelle di lei. «Posso sperare di essere uno
dei motivi che ti spinge a restare?».
La ragazza abbassò lo sguardo.
«Tu sei ciò che mi tiene incatenata qui».
Baumann non poteva credere alle proprie orecchie.
Ormai da settimane si era reso conto che l’ammirazione per
Antonia non poteva spiegare il suo costante desiderio di vederla, di
averla sempre accanto, di sentirla ridere e saperla al sicuro. Si era
scoperto innamorato di quella straniera coraggiosa e intelligente, ma
non aveva osato fare nulla per essere ricambiato: sapere che veniva da
un altro mondo, un mondo in cui c’erano una famiglia e una
vita intera ad aspettarla, lo aveva frenato, convincendolo che non
aveva il diritto di sottrarla a chi l’amava da ben prima di
lui.
Antonia, da parte sua, era stata attratta dal
principe sin dal primo momento in cui l’aveva visto. Quel
pizzico di tristezza che si portava sempre dietro, nelle rughe intorno
agli occhi, l’aveva incuriosita; la sua gentilezza
l’aveva portata a fidarsi di lui; il carisma e la decisione
con cui governava e si preoccupava dei propri sudditi
l’avevano conquistata. Senza rendersene conto aveva iniziato
a gravitargli intorno, a voler sconfiggere i Signori del Terremoto non
per poter tornare a casa, ma per veder sparire la preoccupazione che
riempiva costantemente gli occhi di Baumann: e quando aveva capito di
essersene innamorata aveva compreso anche di non poter avere pretese su
di lui, che era nato per governare e riportare la pace in quel regno.
«Voglio restare» disse Antonia
con maggiore sicurezza. Si sporse verso l’uomo e gli
sfiorò le labbra con le proprie. «Con te, se lo
vorrai».
Baumann la strinse tra le braccia e la
baciò. La spinse sui cuscini, infilando le mani sotto la
tunica di foggia maschile sporca e lacera che la ragazza aveva
indossato durante la battaglia e ignorando il terriccio e il sudore
impastati sulla sua pelle ancora calda per l’adrenalina e la
lotta.
Antonia, che non sperava più che quel
momento arrivasse, strattonò la tunica rossa che
l’uomo indossava, quasi strappandola per la fretta di
toglierla di mezzo; Baumann rise e se la sfilò per poi
adagiarsi su di lei.
«Sei sicura di volere questo?»
le domandò in un sussurro.
La ragazza gli rivolse lo stesso sguardo
determinato che aveva quando andava in battaglia.
«Sì» rispose semplicemente.
E Baumann non fece più domande,
lasciando che fossero i gesti a parlare per lui. |
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Capitolo 6 *** Le rivelazioni in un addio ***
Altri due mesi erano trascorsi, fitti di battaglie, di pianificazioni e
di baci rubati: il rapporto tra Antonia e Baumann si era rafforzato di
pari passo con le vittorie riportate sul campo, che avevano costretto
gli Orchi a cedere terreno importante, liberando intere zone del regno.
Il Varco era di nuovo accessibile.
Federica era risoluta nella sua decisione di
tornare a casa; e Antonia, che sentiva il momento dell’addio
avvicinarsi, aveva preso l’abitudine di trascorrere almeno
un’ora al giorno con Isdrid. La Magistra Sanationis
era divenuta, per la ragazza, una seconda madre; e unendo a questo
nuovo legame una spiccata sensibilità, era ben presto stata
capace non solo di intuire i pensieri della giovane donna, ma anche di
essere eletta sua confidente.
Grant e Antonia avevano appena finito di rivedere
il piano per raggiungere il Varco e permettere a Federica di tornare a
casa; l’uomo se n’era andato e il suo posto era
stato subito occupato da Isdrid, a cui non era occorso molto per
accorgersi del turbamento della ragazza.
«Ti senti bene?» chiese piano,
poggiando una mano su quella di Antonia.
Antonia scosse la testa. «Non ne sono
sicura. Pensare di lasciar andare Federica
è…». Si interruppe. «Lei
è l’unico legame con il mio mondo, con la mia
famiglia…separarci per me significa tagliare
l’ultimo ponte con la mia vecchia vita. Mi fa
paura».
Isdrid le sorrise incoraggiante. «Non
è un addio, sai. Il Varco sarà sempre
lì, e tu potrai tornare a casa quando vorrai»
«E come tornare indietro?»
rispose sconsolata Antonia. «Con gli Orchi ovunque, sempre
pronti a ucciderci…senza sapere se me ne troverò
davanti uno nello sbucare fuori dal Varco…».
Sospirò. «Lo sai che sono già stata
fortunata la prima volta: Grant dice che è un miracolo che
non ci abbiano viste, considerato che imperversavano in quella zona
già da tempo».
La Magistra
la scrutò con aria attenta. «E quello che dice
Grant è parola sacra» disse con una punta
d’ironia, facendo accigliare l’altra.
«Se si tratta di questione pratiche,
sì» affermò con grande sicurezza. La
sua espressione divenne colpevole. «Baumann
è…meraviglioso, è dolce, premuroso, e
al contempo sa governare il regno con fermezza e grande senso di
giustizia: dà certezze, e quando c’è
lui mi sembra di essere circondata da un alone di
tranquillità. Grant invece…oh, Dèi,
Grant è così burbero e scostante, a tratti
malfidato e addirittura tanto ipercritico da farmi impazzire di rabbia;
e tuttavia…mamma Isdrid, Jonas è
l’unico che mi faccia sentire protetta, al sicuro da
qualsiasi pericolo e allo stesso tempo libera come un’aquila
nel cielo».
Isdrid assunse un’espressione grave.
«Ti sei innamorata di entrambi» decretò.
Antonia si coprì la bocca con le mani.
«No!» negò. «Sono innamorata
di Baumann: Grant è solo un amico. Il mio migliore amico:
non potrei amarlo come amo Baumann…»
«Eppure, Antonia, è
esattamente quello che è accaduto» la contraddisse
la più anziana. «E quel che è peggio,
li ami in eguale misura proprio perché sono opposti come il
giorno e la notte. Altrimenti come spiegheresti quel giorno di due mesi
fa, quando sei tornata al castello talmente fuori di senno da non
sapere dove andavi, quando avevi creduto che Jonas fosse stato ucciso
davanti ai tuoi occhi?».
«Te l’ho detto, mamma Isdrid:
Grant è il mio migliore amico. Tutto qui»
insisté la ragazza.
Ma Isdrid scosse la testa. «Ho visto il
modo in cui lo cerchi con lo sguardo; segui ogni suo spostamento, ti
assicuri che sia sempre presente, anche quando sei accanto a Baumann.
Non te ne rendi nemmeno conto».
«Io…io…»
balbettò Antonia, sconvolta. «Io
non…»
«Bambina mia, non è detto che
sia un male» la consolò con dolcezza la Magistra.
«In una certa misura, anzi, è comprensibile: sei
innamorata di due fratelli che sono le due facce di una stessa
medaglia».
«Due…due fratelli?».
Isdrid annuì. «Fratellastri:
Jonas è figlio illegittimo del re. L’ebbe con una
contessa che frequentava assiduamente la corte: il bambino fu concepito
nel giorno consacrato al nostro Dio delle Rocce e nacque in quello in
cui festeggiamo il Dio della Guerra. Jonas è nato, a tutti
gli effetti, per essere un combattente: rocce e alberi sono del pari
saldi nel terremoto, ma l’uno offre ben poca gioia allo
sguardo rispetto all’altro; la roccia appare arida,
l’albero fecondo; e così tutto ciò che
di prezioso è sepolto nella pietra non viene scoperto se non
da chi alla roccia si accosta e la osserva, rilevandone la bellezza,
così diversa da quella dell’albero ma altrettanto
indispensabile».
«Oh, mamma Isdrid, sono una persona
orribile!» pianse Antonia. «Come lo dirò
a Baumann? Si sentirà tradito. E per quanta stima abbia di
lui, ho paura che potrebbe prendersela con Jonas. Quei due sono
così uniti…non voglio essere la causa di un
allontanamento tra due amici, due fratelli!».
«Non credo che
accadrà». Isdrid scorse l’espressione
della ragazza e rise. «Cara bambina, nel nostro mondo ogni
cosa nasce dall’unione tra vari Dèi: abbiamo la
convinzione che spesso due persone non bastino a completarsi, ma che
per arrivare a tale risultato ce ne possa volere una terza, una quarta
o addirittura una quinta!».
«Quindi
voi…voi…» farfugliò Antonia.
«Noi non costruiamo la nostra vita in
funzione di un’unica altra persona: ci si può
innamorare di qualcuno per un aspetto del suo carattere, e di qualcun
altro per una sfaccettatura ancora diversa» spiegò
Isdrid. «Certo, Baumann tende ad attaccarsi molto alle
persone che ama e Jonas, da vero guerriero, è un tantino
possessivo…ma sono sicura che troverete un equilibrio, se
vorrai tentare».
La ragazza rimase in silenzio, a capo chino. Poi
si alzò.
«Credo che andrò da Federica:
domani riattraverserà il Varco e voglio passare un
po’ di tempo con lei» disse.
L’altra donna annuì in
silenzio e la osservò uscire dalla stanza: non si aspettava
che Antonia venisse a patti tanto facilmente con il loro modo di vivere
l’amore.
*
Per quanto si sentisse in colpa ad assillarla con le proprie
preoccupazioni proprio alla vigilia della separazione, Antonia non
poté fare a meno di riferire a Federica la conversazione
appena avuta con Isdrid, quando l’amica le chiese il
perché della sua espressione sconvolta. In cinque minuti le
raccontò tutto, e non fu più l’unica a
essere sconvolta: Federica infatti la stava fissando ormai da un
po’ con la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite,
incapace di dire alcunché.
«Non…non…tu
non…dimmi che…» farfugliò
quest’ultima, sbigottita. «Dimmi che non ti sei innamorata
di Grant!» ululò.
«Shhht!»
l’ammonì Antonia, guardandosi intorno circospetta
come se Grant potesse essere nascosto nella stanza. «Non
urlare!»
«Non
urlare?» ripeté Federica.
«Come faccio a non urlare se pensi di esserti innamorata di
Grant?».
«Non lo penso io, lo pensa
Isdrid» la corresse l’altra.
Federica, decisa a non lasciarle sviare il
discorso, la guardò male e incrociò le braccia al
petto. «E tu che ne pensi? E intendo che ne pensi davvero, non cosa
speri o cosa vorresti convincerti di pensare solo perché
è la cosa più giusta o più
facile».
Antonia si lasciò cadere su una
poltrona con espressione desolata. «Io penso che non lo
so» ammise.
«Oddio! Lo sapevo!». Federica
prese a fare su e già per la stanza con le mani nei capelli.
«Innamorata! Tu! Di Grant!». Le scoccò
un’occhiata per metà furiosa e per metà
incredula. «No dico, Grant,
lo stesso che ti ha quasi uccisa legandoti a un lupo e mandandolo al
galoppo!»
«Lo so!» gnaulò
disperata Antonia, che col passare dei minuti si convinceva sempre di
più che Isdrid avesse visto giusto. Per un attimo una
scintilla bruciò nei suoi occhi, e rivolse uno sguardo
indispettito alla sua amica. «Smettila di guardarmi
così. Non l’ho mica fatto apposta, sai!»
«Ma l’hai fatto, ed
è tutto quello che conta!» replicò
l’altra, agitando le braccia in aria. «Ma dico, che
ci sarà mai in questo posto per farti saltare tutte le
rotelle così, di punto in bianco!». Al pari
dell’amica, Federica si lasciò cadere in una
poltrona. «Basta, è ufficiale: sei una donna
finita!»
«Grazie per il sostegno morale,
eh!» disse Antonia, irritata.
«Non c’è modo di
darti sostegno morale: se fossi ferita gravemente, affetta da una
malattia letale o condannata a morte senza speranza di appello potrei
fare qualcosa, ma tu sei innamorata del capitano Grant»
rispose Federica, lasciando intendere come la ritenesse la peggiore
delle condizioni possibili. Si raddrizzò, fulminata da
un’idea. «C’è solo una cosa
che puoi fare» dichiarò solennemente.
Speranzosa, Antonia si sporse verso
l’amica. «Cosa?»
«Alzati e vai da Baumann. Da
sola» disse Federica. Le lanciò uno sguardo
significativo. «Dove nessuno può vedervi o
sentirvi. Ci penserà lui a toglierti questa stupida idea di
Grant dalla testa!».
L’altra rimase in silenzio per qualche
istante.
«Sai che ti dico? Hai ragione.
Vado!» rispose alla fine, alzandosi e correndo fuori dalla
stanza come se ne andasse della sua vita.
*
Mastro Devall stava girando per i corridoi quando si imbatté
in una trafelata Antonia.
«Mas-Mastro
Devall…io…io…»
ansimò la ragazza, tentando inutilmente di riprendere fiato,
«io sta-stavo cercando…Baumann. Cioè,
Sua Altezza il Principe. Sa dov’è?»
«Proprio dietro di te» rispose
l’interessato, sbucato da chissà quale arazzo.
Rilevò con un pizzico di preoccupazione lo stato di Antonia.
«Siamo sotto attacco?» chiese.
«No» rispose lei.
«Qualcuno è morto?»
insisté Baumann.
«No» sbuffò Antonia.
«Qualcuno sta per morire?»
tentò di nuovo il principe.
«No-o!» cantilenò
la ragazza, ancora senza fiato e in più esasperata.
Baumann si strinse nelle spalle. «Allora
mi spiegherai con calma perché sei in mezzo a un corridoio,
sconvolta e senza fiato» decise.
Mastro Devall si schiarì la voce.
«Se non avete bisogno di me, io andrei»
«Prego, prego, mio buon
Devall» concesse Baumann; l’altro uomo
chinò appena il capo in un gesto di congedo e si
allontanò rapido.
«Allora, Antonia»
esordì pacato il principe, passando un braccio intorno alla
vita di lei e sorreggendola, «vuoi dirmi cosa
succede?».
«S-sì»
farfugliò la ragazza. «In privato,
però»
«Siamo soli, qui» rispose
Baumann, sorpreso.
Antonia sbuffò di nuovo. «Non
ho detto da soli: ho detto in
privato» ripeté, sottolineando con
cura le ultime parole.
Gli occhi dell’uomo si sgranarono.
«Oh» disse soltanto, preso alla sprovvista: poi un
sorriso insolitamente spensierato e malizioso gli si dipinse sul volto
mentre serrava la presa su Antonia. «Allora sarà
meglio sbrigarci» dichiarò, prendendola per mano e
trascinandola di corsa lungo i corridoi.
La ragazza si mise a ridere, e Baumann la
imitò: correvano talmente veloci che cinque minuti dopo
avevano attraversato un’intera ala del castello ed erano
arrivati alla porta degli appartamenti di lui. L’uomo la
intrappolò tra il proprio corpo e il battente mentre
infilava la chiave nella serratura.
«Dopo di te» le
sussurrò sul viso, aprendo la porta e scivolando
all’interno insieme a lei.
Erano a malapena entrati che Baumann
già lottava con i vestiti di Antonia, deciso a levarglieli.
Quel giorno però, complice una giornata trascorsa senza mai
mettere piede fuori dal castello, la ragazza si era di nuovo trovata
infilata in una delle lunghe, morbide tuniche tanto amate da Isdrid.
Rise nell’osservare gli sforzi vani di Baumann contro
l’elaborato nodo della cintura che le stringeva il vestito in
vita.
«Io odio
questi affari» borbottò contrariato, strattonando
inutilmente la cintura e facendo traballare Antonia. «Dimmi
che nel vostro mondo non le usate!».
Antonia si mise a ridere. «Le usiamo, ma
sono molto più semplici da togliere».
«Confido che spiegherai ai sarti di
palazzo come realizzare delle nuove cinture»
brontolò lui, continuando a litigare con il nodo.
Deglutì a vuoto quando Antonia, con un gesto lento, si
sfilò le maniche della tunica, che rimase a penzolare
inutile trattenuta soltanto dalla cintura che ancora la intrappolava,
restando coperta dalla vita in su soltanto da una camiciola leggera,
quasi impalpabile.
«Visto? Possiamo anche girarci
intorno» sussurrò maliziosa.
«Oppure possiamo usare la forza
bruta» replicò lui. Afferrò un pugnale
nascosto tra le proprie vesti. «Spero solo che mamma Isdrid
non venga a saperlo: lei adora le cinture».
La lama del pugnale scivolò cauta tra
la tunica e la cintura; poi, con un gesto secco, Baumann
tagliò quella striscia di stoffa che l’aveva fatto
tanto penare. I resti della cintura caddero a terra insieme alla
tunica, non più trattenuta da nulla, e Baumann
afferrò Antonia, stringendola a sé con forza.
«Lasciati guardare»
mormorò, fissandola negli occhi. Afferrò la
scollatura dell’indumento sottile che ancora copriva il corpo
della ragazza, lo strinse tra le dita sottili e tirò,
strappandolo con un gesto deciso. Continuò a tirare
finché non arrivò all’orlo,
finché non poté liberarsi anche di quella stoffa
semplicemente spingendola giù dalle spalle di Antonia. Poi
le prese le mani. «Spogliami. E toccami»
ordinò.
Antonia non se lo fece ripetere. Lo
liberò dei vestiti con la stessa frenesia con cui
l’aveva fatto Baumann con lei: tirò e
strappò le stoffe pregiate che lo coprivano, lanciandole sul
pavimento di pietra senza alcun riguardo. Quando entrambi furono
completamente nudi, l’uomo le passò le mani sotto
le natiche e la sollevò; Antonia fu veloce a stringergli le
gambe intorno ai fianchi, poi gli circondò le braccia con il
collo e aderì a lui più che poteva.
«Dèi, Antonia»
sussurrò, baciandole la gola. «Se potessi tenerti
stretta a me in questo modo ogni minuto di ogni
giorno…allora la vita sarebbe perfetta».
La ragazza chiuse gli occhi, e li
riaprì soltanto quando Baumann la depose sulle coltri
morbide del letto e si sdraiò sopra di lei, ancora
intrappolato tra le sue gambe. Scrutò le iridi verdi e
brillanti di Baumann, e per un attimo rimpianse che non fossero color
cioccolato. Si sollevò appena e lo baciò.
«Adesso sono qui»
mormorò staccandosi dalle sue labbra. «Sono
qui».
Lui sorrise; le loro bocche si incontrarono a
metà strada e Antonia si concentrò soltanto su di
lui.
*
Federica aveva aspettato con una certa impazienza il ritorno di
Antonia. Stava giusto ricontrollando i bagagli con le cose che avrebbe
portato via con sé quando vide l’amica entrare
nella sua stanza, scarmigliata e con la tunica sgualcita. La
guardò sollevando un sopracciglio.
«Vedo che hai preso il mio consiglio
alla lettera» commentò.
Antonia non rispose. Si trascinò fino
al letto dell’amica e ci si buttò sopra a peso
morto, nascondendo la faccia in un cuscino.
Sospettosa, Federica abbandonò ogni
altra occupazione. «Tonia» chiamò.
«Tonia!» ripeté con più
energia quando l’altra non accennò a risponderle.
«Allora? Com’è andata?».
Antonia rotolò sulla schiena e
sbuffò. «Bene» rispose in tono piatto.
«Dalla tua faccia e
dall’entusiasmo non si direbbe» replicò
l’amica, ironica. «Allora? Stare con Baumann ti ha
tolto Grant dalla testa?»
L’altra sbuffò di nuovo.
«Sì» disse con voce sepolcrale.
«Sento che c’è un
“ma” in arrivo» la incalzò
Federica.
La sua amica agitò braccia e gambe come
in preda a un attacco epilettico. «È durato
soltanto finché sono stata con Baumann»
piagnucolò. «Appena ho messo piede fuori dalle sue
stanze, ho ricominciato a pensarci!»
«Sei senza speranza. Assolutamente,
irrevocabilmente senza speranza» dichiarò Federica.
«Così non mi
aiuti!» si lagnò Antonia.
«Oh, io purtroppo non posso fare niente.
Neanche se restassi potrei fare niente» replicò
l’altra. «Speriamo solo che con il tempo tu
rinsavisca…»
«Proprio un bel consiglio, non
c’è che dire. Aspettare e sperare di tornare in
me, come se essere…attratta da Grant fosse un disturbo
mentale!» brontolò Antonia.
«Per me lo è»
rispose impassibile Federica. Assunse un’aria grave.
«So che ne abbiamo già parlato ma…forse
dovresti tornare a casa, con me»
L’altra ragazza si mise a sedere.
«Oh, Fede» disse sconsolata. «Non posso
tornare, sai che non posso».
«Perché no?»
insisté Federica. La sua espressione divenne preoccupata.
«Che dirò ai tuoi genitori?»
«Dai, abbiamo già parlato
anche di questo» sbuffò Antonia.
«Passeggiata nel bosco. Poi il buio. Amnesia, vuoto totale,
blackout, nada, niente, nisba. Ricordi?»
«Ricordo fin troppo bene»
bofonchiò l’altra. «È che non
so se mi piace, mentire per lasciarti in questa situazione incasinata.
Finché si trattava solo di Baumann okay, i pericoli fuori
c’erano lo stesso ma almeno sapevo che eri tranquilla, che
lui ti avrebbe protetta. Adesso invece…».
Sospirò. «Grant ha scombinato le carte»
Antonia si alzò e
l’abbracciò. «Non aver paura, Fede. Io
starò bene» promise. «Non
sarà qualche stupido dubbio su quello che provo, a mettermi
in pericolo»
Federica alzò gli occhi al cielo.
«Continua a ripetermelo e forse a un certo punto me ne
convincerò!»
L’altra rise e la prese sottobraccio.
«Dai, togliamoci di dosso questi scomodissimi vestiti e
usciamo di qui: è la tua ultima sera nello Staudeheim, e
dobbiamo festeggiare degnamente la tua partenza!»
«Certo. Magari anche per dimenticare che
rischieremo la pelle in ogni secondo del viaggio!» rispose
sarcastica Federica. Antonia scoppiò a ridere, e lei la
seguì a ruota: era la loro ultima sera insieme per
chissà quanto tempo a venire, e doveva essere memorabile. |
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Capitolo 7 *** Il Dio della Guerra ***
L’alba era giunta rapidissima, prendendo tutti alla
sprovvista.
«Siete pronti?» chiese Grant
con un pizzico di nervosismo. Erano radunati nel piazzale del castello,
a poca distanza dalle massicce porte ancora chiuse: i lupi erano stati
sellati e il gruppo di circa venticinque uomini non aspettava che il
suo comando, per mettersi in marcia.
«Sì» risposero in
coro i presenti.
Antonia balzò in sella a Nebbia e tese
la mano a Federica, che montò dietro di lei. Intanto Grant
assicurò alla sella di Folgore, il proprio lupo, due
ingombranti sacche che Federica avrebbe riportato con sé nel
suo mondo d’origine. Pochi minuti più tardi le
imponenti cancellate vennero aperte e il gruppo si avventurò
all’esterno. Baumann, che aveva insistito per andare con
loro, cavalcava attorniato dalle due ragazze, da Grant e da Illyrio,
mentre le altre guardie li circondavano da ogni lato. Alec comandava il
gruppo, e Zane controllava le retrovie.
Il piccolo contingente attraversò il
quadrante in direzione del Varco mantenendo le cavalcature a
un’andatura rapida ma controllata: sebbene fossero riusciti a
sottrarre ampie parti del territorio agli Orchi, era fondamentale
muoversi con cautela.
«Credi che starai bene qui, da
sola?» sussurrò Federica all’orecchio
dell’amica.
«Non sarò sola»
bisbigliò di rimando Antonia.
«Sai che intendo» si
spazientì l’altra sottovoce.
Antonia rimase in silenzio così a lungo
che Federica perse ogni speranza di ricevere una risposta.
«Io non starò bene,
Fede» disse infine, tenendo saldamente le redini di Nebbia.
«Non starò bene perché ho trovato il
mio scopo qui, in un mondo devastato da una guerra che sto combattendo
in prima linea. Non starò bene perché varcare
ogni giorno le mura sicure del castello per scontrarmi con gli Orchi
presto o tardi mi porterà a essere uccisa; ecco
perché non starò bene. Perché
morirò, a un certo punto, e quasi sicuramente di morte
violenta; ma tutto quello che mi separerà da quel giorno
varrà la pena di essere vissuto, e farà
sì che sia valsa la pena di combattere e morire».
Stavolta fu Federica a tacere per un
po’. «Non tornerai, vero?» chiese infine.
«Non tornerai mai a casa»
«No, temo di no»
mormorò Antonia. «Questo è un
addio».
Grant, che aveva l’udito fine ed era
riuscito a seguire il discorso delle due ragazze, le
affiancò. «Non siate così drastiche. Io
sono certo che vi rivedrete ancora» disse sottovoce in tono
gentile.
Antonia gli sorrise con tristezza e un pizzico di
gratitudine, e persino Federica non poté impedirsi di
rivolgergli un brevissimo sorriso.
Alec alzò una mano, richiamando
l’attenzione di tutti.
«Cautela» mormorò.
«Mi sembra di vedere movimenti sospetti, più
avanti».
Jonas si irrigidì sulla sella e
riguadagnò subito il proprio posto, mentre Illyrio si
accostava ancora di più a Baumann.
L’intero gruppo rallentò
l’andatura, controllando scrupolosamente ogni palmo di
foresta a mano a mano che avanzavano. Il Magister Fascinationum
cavalcava ad appena un passo dal proprio principe, e i due discutevano
con voce inudibile. Antonia, dal canto suo, non poteva fare a meno di
cercare con lo sguardo Grant a intervalli regolari:
l’espressione seria e concentrata del capitano calmava un
po’ quel nervosismo che le parole di Alec avevano fatto
nascere in lei, e quando i loro occhi si incrociavano, Jonas le
rivolgeva un impercettibile cenno con la testa, come a raccomandarle di
stare calma.
Anche se mancava quasi un miglio al punto
d’arrivo, il Varco cominciava a essere visibile: le prime
pietre del vetusto arco si scorgevano tra un tronco e l’altro
a seconda della direzione seguita dal convoglio.
Federica si strinse un po’ di
più ad Antonia.
«Ho una brutta sensazione»
bisbigliò.
«Siamo quasi arrivati»
replicò Antonia in un sussurro.
L’altra si agitò, a disagio.
«Dovrete tornare indietro»
«Siamo in tanti. Non avremo
problemi» la rabbonì l’amica.
Ormai erano a poco più di duecento
metri dal Varco: tutto era immobile in quell’aria rarefatta
in cui non spirava neanche un soffio di vento, non c’erano
rumori a coprire la loro avanzata, né a turbarli. Eppure,
quel silenzio così innaturale non faceva che aumentare il
nervosismo generale.
A un segnale di Alec, il gruppo
rallentò ancora l’andatura. Le zampe dei lupi si
posavano sul terreno inumidito dalle piogge primaverili con tonfi
soffocati, lievissimi, quasi impercettibili.
Mancavano oltre cento metri al Varco quando
quell’ostentata calma andò in frantumi.
«UOMINI, ALLE ARMI!»
tuonò Grant nell’esatto istante in cui un
contingente di Orchi sbucò da una serie di cunicoli
sotterranei.
Illyrio non lasciò a Baumann neanche il
tempo di respirare. Smontò di sella con un balzo fulmineo,
trascinò a terra il principe e con un fremito delle spalle,
il suo mantello si lacerò: le due metà si
tramutarono in enormi ali di corvo e il Magister Fascinationum
spiccò il volo, portando Baumann al sicuro.
Antonia, che era scesa di sella a sua volta, prese
le sacche dalla groppa di Folgore mentre Federica si metteva a tracolla
le armi donatele dal principe, e trascinò l’amica
verso il Varco.
«Andiamo Fede, muoviti!»
urlò.
«Non posso lasciarvi qui a
combattere!» gridò l’altra in risposta.
Antonia la trascinò verso
l’arco con più decisione. «Siamo venuti
fin qui perché tu potessi tornare a casa! Devi
attraversare!». Fece roteare le sacche con gli occhi
socchiusi per la concentrazione e le lanciò attraverso
l’arco: i due oggetti svanirono nel nulla. «Avanti,
va’!».
Le due ragazze si guardarono intensamente negli
occhi, poi si abbracciarono strette per alcuni istanti.
«Tornerò» promise
Federica, staccandosi. «Un giorno
tornerò»
Antonia annuì.
«Terrò il Varco in sicurezza aspettando quel
giorno».
Federica fissò il Varco, prese la
rincorsa e spiccò un salto attraverso la costruzione
diroccata, svanendo nel nulla come avevano fatto poco prima i suoi
bagagli.
«È andata!»
gridò Antonia. «Federica ha
attraversato!»
«Allora puoi anche darci una mano,
Antonia cara!» ululò in risposta Grant, stringendo
i denti e mulinando la propria arma mentre affrontava un Orco: spada e
martello si scontrarono più volte, generando scintille.
Antonia neanche provò a toccare
l’arco che portava a tracolla. I Signori del Terremoto erano
troppo vicini, e con Alec e Zane che galoppavano in cerchio agitando le
spade per tenerli a distanza, scagliare le proprie frecce sarebbe stata
una follia: rischiava di colpire i propri compagni. Così,
per quanto poco le facesse piacere, estrasse la spada che portava
appesa al fianco e si diresse verso l’Orco più
vicino.
«Come diavolo sapevano che saremmo
venuti qui?» grugnì contrariata parando una
martellata del suo avversario.
«Non lo sapevano» rispose
Zane, che passava al galoppo in quel momento. «Visto che
abbiamo cercato di respingerli…»
«…da questa zona»
proseguì Alec, passando dopo che suo fratello si fu
allontanato, «hanno deciso di nascondersi e aspettare. Gli
Orchi lo fanno…»
«…spesso» concluse
Zane, ripassando di lì. «Non si può
dire che non siano pazienti»
«Non si può dire che non si
siano fastidiosi» lo corresse Grant brontolando.
«Perlomeno Baumann è al sicuro. Che Illyrio sia
benedetto!».
Nonostante la situazione fosse critica Alec rise,
tanto era strano sentire Jonas parlar bene di Illyrio – non
che non andassero d’accordo, ma il carattere riservato di
entrambi e la puntigliosità del Magister rendevano
difficili i rapporti tra i due – mentre gli altri, troppo
occupati a fronteggiare i nemici, a malapena lo sentirono.
Un colpo di martello evitò la testa di
Alec per un soffio.
«Maledizione, Alec,
concentrati!» tuonò suo fratello.
«Grant» chiamò
Antonia, in difficoltà: stava combattendo contro tre Orchi e
non poteva fare molto più che saltellare come un folletto
impazzito per evitare i colpi. «GRANT!»
urlò di nuovo, infliggendo una profonda ferita al braccio
armato dell’Orco più vicino.
«Che
c’è?» rispose lui a denti stretti,
troppo occupato a deviare le martellare del proprio avversario.
«Ce ne dobbiamo andare!»
gridò la ragazza.
«Come se fosse facile!»
scattò Jonas, colpendo con forza inaudita un Orco per la
stizza.
Antonia non replicò. Riuscì
a liberarsi con grande fatica di un secondo Orco, e ne stava
fronteggiando un terzo quando un ruggito collettivo eruppe dalle gole
dei nemici. Grant e gli altri furono immobilizzati per la sorpresa
soltanto per un secondo, poi ripresero a combattere con maggiore
energia. Antonia, sentendo una nuova ombra incombere su di
sé, alzò gli occhi e rimase paralizzata: di
fronte a lei c’era un Orco, ma il suo aspetto era
più spaventoso di quello di tutti gli altri. Forse dipendeva
dalle placche metalliche che gli coprivano il petto e il collo,
infilzate direttamente nella carne; o forse era a causa della lunga
cicatrice che gli percorreva verticalmente la fronte per poi scendere
tra gli occhi e spaccargli a metà il naso.
Grant sbiancò.
«Caliban!»
urlò con tutta la voce che aveva. «Uomini,
ardimento! Il Signore del Terremoto è qui!».
Antonia continuò a fissare la faccia
spaventosa dell’Orco, che a sua volta la osservava. Si
sarebbe detto che stesse decidendo come colpirla per procurarle il
maggior dolore possibile senza ucciderla.
«Avanti, uomini! L’assassino
di re Maximillian è qui! Vendichiamo il nostro
sovrano!» gridò ancora Grant.
Gli uomini si riscossero. Ma gli Orchi erano
determinati a tenerli lontani dal loro signore quanto i soldati di
Baumann erano decisi a raggiungerlo: gli scontri divennero
più duri, gli assalti più decisi, le difese meno
caute: entrambi gli schieramenti si battevano al massimo delle loro
possibilità.
Caliban puntò il martello contro
Antonia come fosse stato un prolungamento della propria mano.
«La futura regina dello
Staudeheim» disse in tono roco, sepolcrale: somigliava alla
eco bassa e cupa di una voce che rimbalzi all’infinito contro
dure pareti di roccia. Una voce sotterranea, proprio come la natura
più profonda del suo possessore. L’Orco si
indicò il naso. «Il tuo predecessore mi ha fatto
questo. Glielo riconosco: grande spirito anche nella morte. Il mio
martello già calava sulla sua testa, e riuscì
comunque a scagliarmi contro la propria spada, colpendomi in viso con
tanta forza da deturparmi». Sorrise: la ragazza
notò i punti ormai cicatrizzati in cui le labbra si erano
ricongiunte dopo essere state tagliate in due dall’ultimo
colpo del padre di Baumann. «La sua sconfitta impressa nel
mio volto: non c’è niente che ami di
più di questo taglio di lama».
Antonia strinse più saldamente la
spada; ma la sua mano tremava.
«Antonia!»
urlò Grant, tentando invano di farsi strada fino a lei.
«Antonia! Scappa!».
Il primo e più potente Signore del
Terremoto si voltò per un brevissimo istante verso Grant,
poi socchiuse gli occhi e reclinò indietro la testa,
respirando attraverso il naso tagliato a metà.
«Antonia» ripeté
lentamente, quasi stesse analizzando che sapore avesse il nome di lei
sulla lingua. «Antonia, colei che è salda;
Baumann, l’Albero saldo nel terremoto; Grant, la salda Roccia
che non vacilla mai». Riaprì gli occhi e le
puntò di nuovo contro il martello. «Che rovina,
che sciagura, lasciar vivere la terza parte di ciò che
può rendere questa terra insensibile al potere della mia
genia!».
Caliban sollevò il martello sopra la
testa di una Antonia ipnotizzata.
«CALIBAN!» tuonò
Grant. Con tre rapidissimi colpi di spada rese inoffensivo il proprio
avversario: quello, sorpreso, si ritrovò con il petto
squarciato e il proprio fegato spappolato tra le mani prima di poter
capire cosa fosse successo. Il capitano lo superò senza
perdere un istante: corse verso la roccia più vicina, vi
salì con un balzo leggero e si diede la spinta, spiccando un
salto altissimo, la spada stretta tra le mani e sospesa sopra la
propria testa, pronta a colpire.
Jonas abbatté la propria spada sulla
testa del Signore del Terremoto con tutta la forza che aveva: si
udì un forte scricchiolio, e la lama si spezzò.
Il capitano, finito a terra per lo slancio, si
rialzò. Caliban non era morto; il suo cranio aveva vinto la
sfida col metallo; ma la profonda ferita che Grant gli aveva appena
inferto era abbastanza dolorosa, insieme alla copiosa perdita di
sangue, da stordirlo.
L’Orco cadde in ginocchio tenendosi la
testa. Grant corse da Antonia.
«Antonia, vieni, andiamo via!»
disse con urgenza, scuotendola forte per farla riprendere dallo shock.
Fischiò, e Folgore apparve al suo fianco saltando gli Orchi
con grandi balzi. Jonas salì in sella trascinandola con
sé mentre gli altri Orchi, stupiti dal colpo ricevuto dal
loro signore, si guardavano l’un l’altro con
stordita incredulità. «Uomini,
ritirata!».
Uomini e lupi si insinuarono negli varchi lasciati
dagli Orchi e galopparono a tutta velocità verso il castello.
Il viaggio di ritorno, Antonia l’aveva fatto nel
più completo silenzio. Seduta davanti a Jonas e stretta
dalle sue braccia che le evitavano di cadere di sella, si era rinchiusa
in un mutismo che aveva preoccupato Grant. In passato –
soprattutto nei primi tempi che aveva trascorso al castello –
era accaduto spesso che Antonia si rifiutasse di rivolgergli la parola
e si chiudesse in un ostinato silenzio; ma se in quei casi si era
trattato di rabbia, fastidio, ripicche, ora Jonas aveva la sensazione
che Antonia non parlasse semplicemente perché non aveva
niente da dire. Lo intuiva dal modo in cui stava in sella –
non fiero, non concentrato, ma afflosciata come una marionetta priva di
vita, che solo la sua presa salvava dallo scivolare giù.
Appena furono al riparo tra le mura amiche, Jonas
scese dalla groppa di Folgore e mise a terra Antonia con grande
delicatezza, come se temesse di vederla andare in pezzi.
«Aspettami qui» le disse
concitato. «Torno subito. Tu non muoverti».
Grant scappò via. Alcuni uomini erano
un po’ ammaccati, ma fortunatamente ne erano usciti tutti
vivi: non avevano che qualche graffio, perfettamente in grado di
guarire anche senza l’intervento della Magistra Sanationis.
Era per Antonia che Grant era corso a cercare Isdrid: sperava che
almeno lei riuscisse a superare quel muro di silenzio dietro cui si era
trincerata la ragazza. Ma quando tornò indietro tallonato
dalla sua vecchia balia, Jonas non trovò più
Antonia accanto a Folgore.
«Dov’è?»
chiese agitato a nessuno in particolare, guardandosi intorno.
«Ehi» chiamò, attirando
l’attenzione della guardia di vedetta.
«Dov’è Antonia?». Quello si
strinse nelle spalle, come a dire che non ne aveva la minima idea, e
Grant digrignò i denti con rabbia sotto lo sguardo inquieto
di Isdrid. «Vado a cercarla, mamma Isdrid» disse
secco, allontanandosi subito.
Non aveva idea di dove si fosse cacciata Antonia,
e per la prima volta dopo tanto tempo, era arrabbiato con lei:
arrabbiato per com’era rimasta inerte di fronte a Caliban,
arrabbiato per la paura che gli aveva fatto provare, arrabbiato per
essere sparita chissà dove sebbene lui le avesse detto di
non muoversi.
Immerso nelle viscere del castello il capitano
percorreva i corridoi con rapidità, spostando con gesti
decisi gli arazzi che nascondevano i passaggi. Intuito subito che
Antonia non si sarebbe rifugiata nella propria stanza, aveva optato per
il parco del castello: fino a quel momento aveva controllato con lo
scrupolo tipico del suo incarico le corti della Quercia, del Larice,
del Faggio, del Tasso, del Tiglio e dell’Acero, ma senza
risultati. Cominciava a non poterne più di tutte quelle
torri e tutti quei giardini: nessuno aveva mai capito con precisione
quanti fossero, e non voleva certo essere lui a svelare il segreto
controllandoli uno a uno fino all’ultimo.
La porta che conduceva alla Torre del Cipresso e
al relativo giardino chiuso gli fece tornare in mente il giorno in cui
lui e Antonia avevano finalmente imparato a parlarsi mettendo da parte
rancore e sospetti. Certo, però, non poteva dimenticare che
quella zona del castello era disabitata e il giardino incolto: lui
stesso, quando vi si era rifugiato per non dover vedere nessuno, aveva
dovuto lottare contro l’intrico quasi indistruttibile di
piante e arbusti che aveva invaso ogni cosa. Nessuno sano di mente si
sarebbe nascosto lì dentro.
Grant aprì la porta.
Sembrava che in quei mesi la vegetazione che
invadeva il giardino fosse raddoppiata: in alcuni punti il groviglio di
rovi superava di due palmi abbondanti la cima della testa del capitano,
e trovare lo spazio per inoltrarsi in quella giungla pareva
impossibile.
Jonas prese il moncone della spada che aveva
rinfilato nel fodero e lo usò a mo’ di coltello
per aprirsi un varco tra le piante. In realtà gli sembrava
una cosa stupida, una perdita di tempo: se lui doveva faticare tanto
per avanzare, come poteva esserci riuscita Antonia, nello stato
catatonico in cui si trovava?
Ciononostante, l’uomo
continuò la sua avanzata. Per un qualche motivo sconosciuto,
sentiva che Antonia gli era simile. Non importava che lei fosse
innamorata di Baumann e che tutti ormai fossero a conoscenza della
cosa: Jonas sapeva
che lei somigliava più a lui stesso che non a suo fratello
come era certo che quel cipresso secolare piantato da Gowan in persona,
che ora svettava in quella giungla incolta a testimonianza del dolore
provato dall’antico sovrano, sarebbe rimasto lì
fino alla fine dello Staudeheim.
Non aveva mai pensato che sarebbe successo, ma per
la prima volta da quando era bambino e gli era stata insegnata la
storia del suo regno, Jonas capiva Gowan. Lui era la Roccia, la Guerra;
erano al tempo stesso la sua natura più profonda e il suo
destino, così come era stato per il suo antenato. Erano nati
per combattere, per essere guerrieri; non per innamorarsi. La Roccia,
così gli era stato insegnato, è troppo solida per
essere intaccata da qualcosa di così etereo; la Guerra,
così gli avevano detto, non ha tempo per nulla che non sia
acciaio e sangue.
E lui ne era stato convinto. Come Gowan.
Quello dei Viaggiatori al tempo del Re Guerriero
gli era parso sempre un avvenimento così lontano e
indefinito da sembrare una favoletta da raccontare ai bambini
all’ora di dormire; non gli aveva dato grande peso, e di
sicuro non aveva mai compreso come una donna – una
sconosciuta, una straniera, ignara dei loro usi, delle loro credenze,
delle loro tradizioni – avesse potuto tramutare il
più grande guerriero dell’intera stirpe reale in
un uomo, né come avesse potuto renderlo capace di mettere da
parte il ferro della spada senza rimpianti. Si era sempre chiesto,
insomma, come una straniera avesse potuto rendere Gowan un uomo privo
di spina dorsale.
O almeno, se l’era chiesto fino
all’arrivo di Antonia.
A ripensarci, si sentiva il peggiore degli
stupidi. Lui sapeva bene cosa gli stava accadendo, l’aveva
sempre saputo; solo che non aveva voluto ammetterlo. Aveva creduto che
arroccarsi sulle proprie posizioni – lui era la Roccia, il
Guerriero; il capitano delle guardie di palazzo, il responsabile della
sicurezza degli abitanti di quel luogo – gli avrebbe
permesso, se non di dimenticare, di tenere a bada quello che non
avrebbe dovuto provare abbastanza da fingere che non esistesse. Poi si
era illuso che essere crudele con quella sconosciuta insicura e
sperduta avrebbe prosciugato quella piccola, impalpabile goccia che
stava scavando dentro di lui – la Roccia, vinta da una misera
goccia d’acqua! Inconcepibile! – salvando
così ciò che era sempre stato.
Non era servito. Dopo essere corso a recuperare
Antonia dal suo folle tentativo di fuga verso il Varco si era reso
conto dell’inutilità dei propri sforzi. Aveva
rinunciato a buona parte del proprio astio verso di lei –
ingiustificato e immeritato, aveva ammesso con vergogna a se stesso
– e a tutta la crudeltà di cui l’aveva
fatta oggetto. Aveva messo il broncio, finto di averla riportata
indietro solo per recuperare l’armonia con suo fratello,
trovato un nascondiglio ideale e impenetrabile proprio in quel Giardino
del Cipresso in cui si stava facendo strada con tanta fatica. Ma
Antonia era arrivata anche lì: per caso, certo, ma non per
questo Jonas aveva capito con minore consapevolezza di non poterle
sfuggire. Lei ormai era lì: e che gli Dèi
l’avessero mandata per metterlo alla prova o per
chissà quale altro motivo, Jonas non lo sapeva. Sapeva solo
che era privo di senso combattere ancora: doveva abituarsi alla
presenza di quella straniera che lo stava sfaldando pezzo a pezzo
– ebbene sì, lui, la Roccia, disgregato da una
piccola, apparentemente insignificante goccia d’acqua pura
– e ammettere che forse Gowan non era stato il sovrano debole
che lui s’era figurato sentendo i racconti di ciò
che era divenuto dopo la partenza della Viaggiatrice. Era stato solo un
uomo; un uomo innamorato.
E Jonas iniziava a capirlo.
Aveva capito molto altro, in quel mattino di
battaglia simile a tanti altri che aveva vissuto. C’era stato
l’agguato – come tante altre volte; c’era
stato lo scontro – come ogni volta che mettevano piede fuori
dalle mura sicure del palazzo; c’era stata Antonia in prima
linea, tra gli Orchi – come si era abituato ad accettare con
una fatica che nessuno avrebbe potuto immaginare dalla sua espressione
sempre imperturbabile e dalle battute sarcastiche che le faceva. Quello
che c’era stato quel giorno – e che prima mai
c’era stato – era Antonia inerte, incapace di
difendersi; quello che non c’era stato per anni era Caliban
sul campo di battaglia – e quando Caliban pretendeva una
vita, l’otteneva sempre: soltanto Baumann faceva eccezione,
con re Maximillian che aveva preso il suo posto di forza.
Quello che c’era stato quel giorno
– che mai c’era stato prima, che Jonas credeva non
ci sarebbe stato mai – era lui stesso che uccideva un Orco
con tre soli, fulminei colpi, di una brutalità che non
credeva sarebbe mai potuta uscire da lui; quello che c’era
stato quel giorno e mai c’era stato prima era la forza che
aveva impresso a quell’unico colpo che aveva diretto al
cranio di Caliban, un concentrato di furore, rabbia, e terrore
incanalati in una spada – sì, terrore:
perché la vista di Antonia inerme al cospetto del martello
sollevato del Signore del Terremoto aveva fatto nascere in lui un
terrore che mai aveva provato, neanche quando mesi prima aveva visto
uno di quei martelli calare sulla sua stessa testa.
Era stato mettendo fuori combattimento Caliban
– in quell’istante in cui la sua spada aveva
provocato all’Orco una cicatrice gemella a quella regalatagli
da re Maximillian – che Jonas aveva capito, totalmente e per
la prima volta, che Antonia non l’aveva ridotto in pezzi; che
quella goccia che lui credeva lo stesse sfaldando in realtà
era filtrata dentro di lui rendendolo più solido di quanto
non fosse mai stato.
Antonia l’aveva reso davvero una Roccia;
aveva tirato fuori da lui pepite preziose che non credeva fossero
sepolte dentro di sé, e l’aveva messo in
condizione di fare quello che nessuno aveva mai fatto riuscendo a
restare in vita. Eccetto Gowan.
Jonas si chiese come si sarebbe sentito se Antonia
fosse ripartita insieme a Federica, lasciando per sempre lo Staudeheim
e i suoi abitanti, Baumann, Isdrid e tutti gli altri.
Lasciando lui.
Il capitano prese un respiro profondo, come a
voler recuperare quello che i suoi polmoni si erano rifiutati di
prendere un attimo prima: non riusciva a immaginare la propria
esistenza com’era stata prima dell’arrivo delle due
straniere.
Non riusciva a immaginare la propria esistenza
senza Antonia.
Finalmente capiva appieno Gowan e la decisione con
cui si era isolato dopo che la sua
straniera – l’ultima Viaggiatrice ad aver messo
piede nel loro reame fino a quelle due giovani donne che lui stesso
aveva trovato nel bosco – se n’era andata, tornando
al proprio mondo e ai propri doveri.
Senza rendersene conto, Jonas si trovò
faccia a faccia col massiccio tronco del cipresso che dava il nome alla
torre costruita alle sue spalle. Nelle sue riflessioni aveva tranciato
rovi e scostati rami fino ad arrivare proprio in quel punto, di fronte
a quella pianta maestosa in cui, si sussurrava, si fosse rifugiata
l’anima del Re Guerriero dopo la sua morte. Si
sentì rasserenato: guardare quell’albero era come
guardare Gowan, e riceverne conforto.
Il capitano appoggiò la mano aperta sul
tronco del cipresso.
«Ora capisco» disse serio.
«Jonas?».
Una vocina sottile uscì
all’improvviso dalla vegetazione, facendo sobbalzare
l’uomo. Aguzzando lo sguardo, Grant vide un volto pallido e
scarmigliato spuntare fuori proprio da dietro il cipresso: Antonia.
Alla fine aveva avuto ragione, il capitano: contro
ogni logica, Antonia si era rifugiata nel luogo più
inospitale del castello, quello in cui nessuno si sarebbe mai
avventurato.
Tranne lui.
Jonas non sapeva cos’era successo: la
sua razionalità, il suo autocontrollo, la sua freddezza,
tutto era sparito di fronte agli occhi smarriti della ragazza.
L’unica cosa di cui era consapevole era di essere in
ginocchio, e di essersi aggrappato a lei come se fosse stata
l’unico punto saldo nel bel mezzo di un terremoto.
Antonia rimase immobile per un istante,
sconcertata da quello che era successo: quando aveva sentito la voce di
Jonas non aveva potuto fare a meno di rivelarsi. Si erano guardati
negli occhi per un istante; poi, senza alcun preavviso, Grant era
crollato in ginocchio e l’aveva abbracciata alla vita,
nascondendo il volto contro il suo stomaco. Il moncone della sua spada
giaceva abbandonato in mezzo a un cespuglio di rovi accanto a loro,
dove il capitano l’aveva fatto cadere senza neanche
rendersene conto, e ascoltando con attenzione, la ragazza si accorse
che Jonas stava mormorando qualcosa con quella che sembrava
disperazione.
Antonia si chinò un po’ di
più verso la sua testa e tese le orecchie.
«Antonia» ripeteva
l’uomo in un gemito continuo, sordo.
«Antonia…Antonia…Antonia…».
La ragazza continuò a fissare la testa
scura di Grant, incredula. Ebbe un fremito involontario, quasi
impercettibile, ma tanto bastò a far tornare il capitano in
sé: scattò in piedi, evitando lo sguardo di lei,
e si allontanò di un passo.
«Io…»
borbottò rauco; si schiarì la voce.
«Credevo d’averti detto di restare
dov’eri».
«Grant» disse calma Antonia,
ma lui la ignorò.
«Ti ho cercata dappertutto»
proseguì, tentando di suonare infastidito. «Ho
controllato non so più quanti giardini e
corridoi…»
«Grant» ripeté con
dolcezza la ragazza.
«Quando sarai stanca di stare qui,
va’ da mamma Isdrid» concluse lui, voltandosi come
per andarsene. «Ti aspetta».
«Jonas».
Grant s’immobilizzò.
Lentamente si voltò di nuovo verso Antonia, che si
avvicinò: stando così vicini non riusciva a
guardarlo negli occhi neanche mettendosi in punta di piedi e reclinando
la testa indietro, tanta era la differenza d’altezza tra
loro. Lei si aggrappò alla tunica di Grant: lui
s’inginocchiò di nuovo, imitato dalla ragazza.
«Che cos’hai?» gli
chiese pianissimo Antonia. L’uomo scosse la testa.
«Jonas, guardami. Cosa c’è che non
va?».
Jonas chiuse gli occhi, quasi a non volerle
lasciare nessuno spiraglio aperto sui propri pensieri; ma dopo pochi
istanti li riaprì, puntandole addosso uno sguardo fiero, di
sfida.
«Non volevo dirtelo, ma visto che sei
tanto ostinata, lo farò: e al diavolo le
conseguenze» disse brusco. «Vuoi sapere cosa
c’è che non va?» sputò
arrabbiato. Esitò per un istante. «Il tuo
comportamento di oggi, non va: non ti sei difesa, non ha cercato di
combattere né di scappare. Non hai fatto nulla per
salvarti!».
Antonia sospirò. «Lo so.
È stupido, ma…quell’Orco mi faceva una
tale paura che riuscivo a malapena a respirare»
«Non è stata stupida la tua
paura» sbottò Grant. «È stata
stupida la tua assoluta mancanza di reazioni!». Tacque per
qualche istante mentre la sua espressione cambiava di continuo: da
arrabbiata divenne angosciata, poi di nuovo furiosa e infine sconfitta.
«Ma in realtà è comprensibile. Caliban
è il primo Signore del Terremoto, il più crudele,
il più scaltro, il più potente: in
realtà quello che mi ha fatto
arrabbiare…». S’interruppe.
«No, non era rabbia: era paura, e
disperazione…». Jonas si strofinò il
volto. «Ero certo che ti avrebbe uccisa, e che io non sarei
riuscito a fermarlo. E non potevo accettarlo
perché…perché…».
Ebbe un moto di stizza. «Al diavolo!» esplose,
cercando di rialzarsi.
Antonia lo trattenne. «Non te ne andare.
Resta. Parla» lo supplicò.
Jonas sbuffò, arrabbiato con se stesso,
ma restò dov’era, inginocchiato insieme a lei, i
loro occhi quasi alla stessa altezza. «Non voglio parlare con
te» disse petulante. «Rovinerà tutto.
Lasciami stare. Lascia le cose come stanno!».
Lei quasi sorrise: il broncio e il tono di Jonas
per un attimo l’avevano fatto somigliare a un bambino
ostinato. «Parla, Jonas, o chiamerò mamma
Isdrid» lo stuzzicò.
Jonas impallidì. «No! Tutto,
ma non mamma Isdrid!». Si accigliò vedendo Antonia
trattenere le risate. «Oh molto bene» disse altero,
capendo che la ragazza lo stava solo prendendo in giro. «Te
lo dirò, ma poi non venire a lamentarti da me: ricorda che
sei stata tu a insistere!»
«Lo terrò a mente»
lo punzecchiò lei, guadagnando un’altra
occhiataccia dall’uomo.
«Be’
io…io…». Jonas incrociò le
braccia al petto e le rivolse di nuovo quello sguardo di sfida che
ormai Antonia conosceva tanto bene. «Io sono innamorato di
te» brontolò sottovoce.
«Scusa, Grant? Temo di non aver
capito» lo provocò Antonia.
«Cos’era quel grugnito?»
Grant digrignò i denti e
mugugnò qualcosa di poco carino. «Ho detto che
sono innamorato di te!» ripeté con voce alta e
chiara. «Ecco. Sei contenta, adesso? Dovevi proprio farmelo
dire, vero? Complicherà tutto! Tu non riuscirai
più a guardarmi come facevi prima e non potremo
più combattere fianco a fianco: niente più
allenamenti insieme, niente più pianificazioni contro gli
Orchi…non saremo più amici, mi
eviterai…»
«Anch’io» disse
tranquilla Antonia.
«…e tutto perché
tu…». Grant s’interruppe, confuso.
«Eh?»
«Anch’io ti amo»
precisò Antonia.
«No. Tu…tu ami
Baumann» balbettò il capitano.
«Amo anche te»
replicò allegra la ragazza. «Qualcosa in
contrario?»
«Io…io…»
farfugliò Grant, ancora più incredulo.
«No».
Antonia gli rivolse un gran sorriso e si
avvicinò ancora: Grant si sdraiò sulle foglie
soffici e la ragazza si spostò fino a essere sopra di lui,
il sole nascosto dalla sua testa e dai suoi capelli arruffati,
attraverso cui filtrava solo qualche raggio di luce.
Jonas sollevò le mani: le
accarezzò i capelli, il collo; le sue dita scesero lungo le
braccia coperte dalla stoffa, poi sui fianchi nascosti dalla tunica. La
toccava con una delicatezza e un timore che Antonia non avrebbe mai
pensato di vedere in lui: nessuno l’aveva mai accarezzata in
quel modo, e di sicuro non si aspettava che sarebbe stato proprio Jonas
a farlo.
La ragazza si chinò verso le labbra di
Grant, ma lui la fermò.
«No» sussurrò.
«Non farlo, non ancora. Voglio guardarti». Si
accorse dello sguardo confuso, quasi deluso, di lei.
«È da tanto che aspetto questo momento: io e te,
da soli, e tu sopra di me che mi guardi così. Voglio che
duri il più possibile, questo istante».
Antonia sorrise, accarezzandogli la fronte; e
rimasero così fino a quando il sole non tramontò. |
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Capitolo 8 *** La Voce ***
Quando Grant e Antonia riemersero dalla Torre del Cipresso era notte
inoltrata.
Alla ricerca di un po’ di
intimità tra le mura del castello, i due percorsero i
corridoi con passo felpato, diretti alle stanze che fino a quel mattino
erano state di Federica, ma giunti a destinazione ebbero una sorpresa.
«Hai la chiave?» le
sussurrò Jonas, chinandosi per avvicinarsi il più
possibile al suo orecchio.
Antonia annuì. Stava frugando nelle
tasche della tunica e dei pantaloni quando una sagoma emerse
dall’ombra, gli occhi scintillanti alla fievolissima luce che
filtrava da una finestra.
«Ho già aperto io la
porta» disse una voce laconica.
Sia Jonas che Antonia sussultarono, e
quest’ultima divenne cerea. «Baumann»
balbettò, imbarazzata e mortificata.
Baumann si spostò nel cono di flebile
luce che rischiarava a fatica un pezzetto di corridoio.
Presa alla sprovvista, Antonia fece saettare lo
sguardo da Baumann a Grant e viceversa. «Baumann,
io… noi…» farfugliò. Per un
attimo sembrò volersi avvicinare al principe, ma poi rimase
dov’era. «Noi…»
Grant si fece avanti con espressione fiera.
«Sono innamorato di lei, fratello. E anche lei mi ama, almeno
quanto ama te» disse secco. «Qualcosa in
contrario?»
Con profondo sconcerto, Antonia vide il volto di
Baumann aprirsi in un ampio sorriso. «Era pure
ora!» disse allegro. «Ci chiedevamo tutti quanto ci
avreste messo, voi due zucconi, a capire di essere
innamorati!»
«Quindi tu non…
non… non ce l’hai con noi?»
balbettò debolmente Antonia.
«E perché dovrei?»
chiese Baumann, perplesso. «Nel nostro mondo è
normale amare una sola persona così come è
normale amarne più di una. Mamma Isdrid non te
l’ha spiegato?»
«Sì, l’ha fatto,
ma… ma…» rispose lei.
«Credevo che ti saresti arrabbiato. Che ti saresti
sentito… tradito» concluse in un sussurro.
«Be’, l’unica cosa
che mi ha dato fastidio è che non me l’abbiate
detto subito» precisò il principe.
Grant, tornato del tutto se stesso,
sbuffò infastidito. «Darci il tempo di capirlo e
ammetterlo prima di tutto a noi stessi no, eh? Non è stato
facile, sai: se non fosse stato per quello che è successo
oggi al Varco…»
Baumann gli rivolse uno sguardo improvvisamente
tagliente. «Cos’è successo al
Varco?» chiese con voce di ghiaccio.
Jonas esitò per qualche istante
– sapeva che nominare Caliban significava riaprire vecchie
ferite in suo fratello – ma poi si decise, e in pochi minuti
gli raccontò tutto: dell’arrivo
dell’assassino del loro padre sul campo di battaglia, di come
si fosse interessato ad Antonia, di come avesse cercato di uccidere
anche lei e fosse stato fermato, all’ultimo istante, da Jonas
stesso.
Terminato il racconto, gli occhi di Jonas erano
umidi; quelli di Baumann, invece, ardevano, e quando si
voltò verso Antonia, quegli occhi le sembrarono due torce.
«Cosa ti ha detto Caliban?»
chiese a denti stretti.
La ragazza chiuse gli occhi e si
concentrò, cercando di rievocare soltanto le parole
dell’Orco e di mettere da parte l’orrore e la paura
che aveva provato in quei momenti. Si sfiorò le tempie con
le dita.
«Mi ha chiamata “Futura regina dello Staudeheim”»
mormorò, sempre tenendo gli occhi chiusi. Cercò
di ricordare il resto, ma la sensazione di soffocante terrore che
l’aveva colta quel mattino si ripresentò di nuovo,
prepotente, e le mancò il fiato. Quando schiuse le palpebre
trovò entrambi gli uomini immobili a fissarla:
l’espressione di Baumann era cupa, quella di Jonas tesissima.
I due fratelli si scambiarono uno sguardo.
«Portiamola dalla Voce»
decisero insieme.
Il corridoio in cui Baumann e Jonas condussero Antonia era situato in
una zona del palazzo ben tenuta, ma in cui era assente qualsiasi
rumore: sembrava disabitata quanto la Torre del Cipresso.
Baumann si fermò davanti a una porta
magnificamente intagliata. La sua mano esitò sulla maniglia,
e si voltò a guardare suo fratello.
«Credi davvero che sia la cosa giusta da
fare?» chiese a Jonas. L’altro annuì.
«Lo è, e lo sai anche
tu» rispose grave.
Baumann aprì la porta.
La stanza in cui entrarono era immensa: sembrava
che quell’intera ala del palazzo fosse costituita da un unico
spazio sconfinato, racchiuso tra mura così distanti tra loro
da sparire in lontananza e sovrastato da un soffitto così
alto da perdersi nel buio. La luce che riempiva quel salone di cui non
si vedeva la fine era azzurrina, smorta, crepuscolare: sembrava
affievolirsi e intensificarsi senza alcun criterio logico, ma senza mai
divenire troppo intensa. Il pavimento di marmo candido era disseminato
di fiori di ogni tipo, bellissimi e freschi come fossero stati appena
colti.
Antonia si chinò e tese le dita verso
un’orchidea violetta, ma Jonas la fermò prima che
potesse toccarla.
«No, Antonia»
sussurrò. «Nessuno può cogliere questi
fiori senza il permesso della Dea del Vento».
«La Dea del Vento?»
ripeté Antonia in un bisbiglio.
In quel momento una brezza gentile
spirò per la sala, tramutandosi in pochi istanti in un vento
impetuoso: i fiori furono sollevati dal pavimento e vennero trascinati
lungo tutto il salone dalle correnti d’aria, dando vita a una
danza ipnotica.
Dal buio apparve una figura sconosciuta: una
giovane donna pressappoco dell’età di Antonia,
vestita di veli leggerissimi e candidi che le svolazzavano intorno
sotto la spinta del vento, si accodò alla scia di fiori,
danzando con passi leggeri quanto l’aria stessa. La
sconosciuta volteggiò per la sala, proseguendo la propria
danza a occhi chiusi e passando più volte di fronte al trio
in attesa.
Finalmente il vento si placò: non
restò che un venticello delicato, forte quel tanto che
bastava a far fluttuare i fiori a un metro o due dal pavimento, e la
donna si fermò proprio di fronte ai due fratelli e ad
Antonia.
«Dea del Vento»
mormorò Baumann. «Il Signore del Terremoto ha
profetizzato qualcosa che Antonia non riesce a rammentare: dobbiamo
sapere cosa le ha detto».
«Dea del Vento»
sussurrò Jonas. «Abbiamo bisogno di sentire la tua
Voce».
Quella che Baumann e Jonas avevano chiamato Dea del Vento
lasciò calare le palpebre sulle proprie iridi del colore dei
nontiscordardime. «Antonia» cantilenò.
«Antonia, la Viaggiatrice giunta per caso; Antonia, al
cospetto di Caliban; Antonia, la futura regina dello
Staudeheim».
La sconosciuta tese le mani verso
l’altra donna presente, e le infilò le dita tra i
capelli: rivoli argentei scorsero, filtrando nella testa di Antonia per
poi tornare indietro lungo le braccia della ragazza
dall’aspetto etereo e insinuarsi nei suoi occhi.
«Antonia» disse ancora,
proseguendo il proprio salmodiare. «“Antonia. Antonia, colei che
è salda; Baumann, l’Albero saldo nel terremoto;
Grant, la salda Roccia che non vacilla mai”»
disse con voce totalmente trasfigurata. «Antonia, la terza
parte di ciò che può rendere la nostra terra
immune al potere dei Signori del Terremoto». La giovane donna
aprì gli occhi, incontrando quelli sbalorditi e confusi di
Antonia. «Questa è la profezia di
Caliban». Fece cadere le braccia lungo i fianchi prima di
sollevarle di nuovo. «Dopo così tanto tempo,
finalmente uniti e alla mia presenza. Oh, quanto solitari sono stati
questi anni, passati nel crepuscolo infinito tra una visione profetica
e l’altra! Oh, quanto triste è stata questa vita,
aspettando di essere riunita a voi – io, che sono stata
destinata a essere soltanto colei che può riconoscere la
Terza Speranza dello Staudeheim, e non a esserlo. Eppure eccola, la
libertà. Sta di fronte a me, ancora divisa, ancora per
poco!»
La sconosciuta fece un passo verso i due uomini,
che si slanciarono tra le sue braccia e la strinsero: per un breve
istante Antonia si sentì dolorosamente fuori posto, e
terribilmente sola.
Ma poi Jonas si staccò e le tese una
mano, sorridendole con una dolcezza tale da commuoverla.
«Vieni, Antonia»
mormorò. «Vieni a conoscere la Voce della Dea del
Vento: Margaerys, nostra sorella».
Lei si avvicinò; Baumann prese la sua
mano e la premette su quella di Margaerys prima di fare un passo
indietro.
Le due donne si guardarono in silenzio per un
lungo istante; poi, Margaerys sorrise.
«Per lungo tempo»
esordì la profetessa, «ho provato invidia verso
colui o colei che il Fato aveva scelto al posto mio per essere la Terza
Speranza del nostro mondo. Per tutta la vita – per tutta la
mia vita trascorsa come strumento con cui la Dea potesse far sentire la
Sua voce – mi sono sottomessa al mio destino, e ho ricoperto
il ruolo per cui ero nata pur desiderandone un altro: ero certa, avendo
riconosciuto nei miei fratelli le prime due Speranze profetizzate ai
tempi di Gowan, che la cosa più logica fosse essere io
stessa la Terza Speranza. Credevo che il legame di sangue fosse
l’unico che potesse tenere insieme le tre parti di cui
parlava l’antica profezia».
«E… e non è
così?» chiese incerta Antonia.
«No» rispose Margaerys con
voce limpida. «Sbagliavo. Un terzo legame di sangue non
avrebbe cambiato nulla; non avrebbe conferito alla Mano degli
Dèi la potenza necessaria a sconfiggere i nostri nemici; non
avrebbe catalizzato le qualità dei miei fratelli in modo da
farle confluire in un tutto in cui la somma delle parti è
molto maggiore del loro valore individuale. C’era bisogno di
qualcuno che abbracciasse il fardello di questa guerra non per nascita,
ma per scelta: c’era bisogno di un Viaggiatore,
così come c’era bisogno di qualcuno che unisse in
un secondo vincolo, indissolubile quanto quello di sangue, Baumann e
Jonas: c’era bisogno di qualcuno per cui entrambi volessero
lottare e riportare la pace nel nostro mondo».
«Perché io?» chiese
scettica Antonia.
Margaerys divenne seria. «Saresti potuta
non essere tu» rivelò. «Questa guerra
sarebbe potuta finire secoli fa» aggiunse, incurante dello
sgomento dei suoi fratelli. «La Dea mi ha rivelato che la
profezia – più incerta, meno definita –
esisteva già da oltre mezzo millennio. Ai tempi di Gowan si
sarebbe potuta realizzare: il nostro Re Guerriero era abbastanza forte
da essere la Prima Speranza, e l’arrivo della Viaggiatrice lo
rese ancor più saldo». Lo sguardo della giovane
divenne triste. «Ma lei non lo amava, non al punto da amare
anche questa terra e sentire la nostra guerra come propria; scelse di
andarsene, e Gowan si spezzò». A dispetto di
tutto, sorrise. «Quello di cui avevamo bisogno era una nuova
Viaggiatrice, che unisse i capisaldi del regno e decidesse di
combattere per un mondo che non era il suo. E ora l’abbiamo:
le Tre Speranze sono riunite e pronte a lottare».
Jonas e Baumann si guardarono.
«Credo che dovremmo tornare, convocare
tutti e annunciare loro che le Tre Speranze sono insieme»
mormorò il principe.
Il capitano sbuffò. «Un altro
po’ di pressione» commentò.
«Proprio quello che ci serviva!»
Margaerys sorrise serena. «Credo di
dover essere io a dare la notizia» intervenne.
I suoi fratelli la fissarono, confusi.
«Ma, Margaerys, tu non puoi uscire da
qui» disse piano Jonas. «Il voto alla Dea non te lo
consente».
«Questo giorno segna la fine del mio
voto» rispose la ragazza. «Io ero nata per essere
la Voce della Dea e comunicare al regno il momento in cui le Tre
Speranze fossero state riunite: oggi è finalmente accaduto.
Rivelare a tutti che la Mano degli Dèi è pronta
ad agire, e ciò che accadrà da ora in poi,
è l’ultimo atto che devo alla Dea, e per
adempiervi, devo uscire di qui».
Baumann le prese le mani. «Per non
tornarci più?» chiese speranzoso.
«Mai più»
confermò sua sorella.
I due si abbracciarono stretti.
«Margaerys è chiusa qui dal
compimento del suo settimo anno d’età»
mormorò Jonas ad Antonia. «Ora ne ha ventidue. Per
Baumann fu molto difficile lasciarla all’isolamento che le
imponeva il voto alla Dea; e lo fu ancora di più dopo la
morte dei loro genitori». Sospirò.
«Essere gli Strumenti degli Dèi è un
onore, ma anche una schiavitù».
«Adesso però è
libera: l’ha detto lei stessa» gli
sussurrò Antonia in tono incoraggiante.
Jonas sorrise appena. «Vogliano gli
Dèi che la fine del suo voto sia un presagio di buona sorte
per il resto del nostro mondo, e che la sua libertà preceda
di poco quella di tutti gli altri abitanti dello Staudeheim».
Baumann si staccò da sua sorella e la
prese per mano. «Andiamo, e lasciamo di nuovo queste stanze
alla loro antica solitudine» disse con fermezza.
«È ora di programmare la grande
battaglia».
Nei corridoi del palazzo, servitori e appartenenti alla corte si erano
bloccati, sorpresi nel vedere la Voce fuori dal proprio eremo; i
bisbigli si erano moltiplicati fino a diventare assordanti quanto
incomprensibili, e per il momento in cui il quartetto raggiunse la Sala
del Consiglio, tutti i più importanti abitanti del castello
erano riuniti intorno all’ampio tavolo.
Quando Margaerys fece il proprio ingresso, la mano
ancora stretta in quella di Baumann, tutti balzarono in piedi,
increduli e sgomenti.
«Voce della Dea»
balbettò Mastro Devall, «voi non dovreste essere
qui!».
«Invece è proprio il luogo in
cui devo essere» replicò la ragazza; le sue labbra
si schiusero sui denti candidi in un sorriso lieto. «Proprio
qui, proprio oggi».
«Ma… ma…
profetessa…» tentò di nuovo Devall,
«voi siete votata alla Dea! L’isolamento
è il vostro solo compagno, il silenzio l’unico
suono a voi concesso: questo prescrive il vostro voto! Le vostre
orecchie devono restare pure per poter udire la Dea, e solo agli
interroganti che chiedono risposte alla Dea è concesso di
vedervi e parlarvi!».
«E questo è ciò
che è accaduto, Mastro Devall» rispose Margaerys
con fermezza. «È stata fatta una domanda; la Dea
ha risposto; e ci ha dato proprio quell’unica risposta che
segna la fine del mio voto».
«Ma…»
farfugliò ancora l’uomo. «Voi potrete
essere libera dal voto… solo… solo
quando…»
«Solo quando la profezia sarà
in procinto di compiersi» terminò per lui Illyrio,
gli occhi fissi su Margaerys. Il Magister
Fascinationum era persino più pallido del
solito: sembrava aver visto un fantasma. «E cioè
quando le Tre Speranze saranno riunite».
Gli occhi di Mastro Devall volarono da Margaerys
ad Antonia, le mani intrecciate a quelle di Baumann e Jonas, e poi di
nuovo alla profetessa.
«Volete dire che quella donna
è… è… una delle Tre
Speranze?» balbettò Devall, indicando Antonia.
«Questa donna non è solo la
Terza Speranza, ma anche la futura regina della nostra terra»
rispose Margaerys. Tutti la fissarono in silenzio, folgorati.
Illyrio si voltò verso Baumann e gli
scoccò uno sguardo bruciante.
«C’è qualcosa che devi dirci,
Maestà?» chiese a denti stretti. «Forse
ricordo male, ma le nostri leggi prevedono che un consorte per il re o
la regina regnante debba prima essere sottoposto al Consiglio, e da
esso approvato».
«Placa la tua rabbia, Magister»
intervenne sferzante Margaerys. La giovane si erse in tutta la propria
altezza, gli splendidi occhi velati da una furia a stento trattenuta.
«Antonia non necessita di alcuna approvazione… a
meno che tu non voglia contestare la voce di ben due dei nostri
Dèi!»
Illyrio la fissò, e lei parve leggere
nei suoi occhi la domanda inespressa. Il suo cipiglio si
addolcì impercettibilmente.
«Prima che Antonia comparisse al mio
cospetto e la Dea mi parlasse, un altro ha sentito pronunciare la
profezia» aggiunse Margaerys. «Caliban
l’ha riconosciuta come Terza Speranza e futura regina prima
di me».
Il Magister
Fascinationum indietreggiò quasi
inconsapevolmente. «Caliban?» ripeté
sgomento. «Ma come… quando…»
«Al Varco» intervenne cupo
Jonas. «Dopo che avevi portato via Baumann».
«E tu sai, Illyrio, come chiunque altro
nel regno» disse Baumann stesso, «che Caliban
è un profeta del nostro Dio della Terra; l’unico
vivente a udirne la voce. Questo significa…»
«…che Antonia è
stata riconosciuta come Terza Speranza e futura regina tanto dalla Dea
del Vento quanto dal Dio della Terra» concluse Isdrid con
voce soffocata tra lo sconcerto generale.
Illyrio chinò il capo.
«Se è così, allora
non ho obiezioni da porre» dichiarò il Magister.
Lanciò un altro sguardo a Margaerys, che lo scrutava con
curiosità. «È solo che la principessa
Margaerys ha diritto di regnare quanto te, Baumann».
«Mia sorella diventerà uno
dei primi tre consiglieri, insieme a te e a Mastro Devall»
rispose il principe. «Il fatto che il suo voto sia terminato
non esclude che in futuro la Dea possa parlarle ancora, e tutto
ciò che udito da Lei in questi anni sarà prezioso
per condurre il regno».
Isdrid, incapace di trattenersi più a
lungo, andò da Margaerys e la strinse tra le braccia un
attimo prima di scoppiare in lacrime. Baumann sorrise, e anche un
angolo della bocca di Jonas si arricciò appena
all’insù.
Mastro Devall scosse la testa, ancora stordito da
tutte quelle rivelazioni. «Dunque Antonia sarà la
tua sposa, principe?»
«Non solo la mia» rispose
l’interpellato con una scrollata di spalle. «A
proposito, c’è una qualche antica legge che
consente a un triumvirato di governare il regno, o dobbiamo scriverne
una apposta?»
«Un triumvirato?». Il povero
Devall era sull’orlo delle lacrime: mai avrebbe creduto di
sentire qualcosa del genere. «Nello Staudeheim non si
è mai visto un triumvirato al potere…»
«Allora è il momento di
cambiare» tagliò corto Baumann. «In
fondo non avrebbe senso, che ad avere il potere fosse solo una delle
Tre Speranze, no?»
Il maestro di corte boccheggiò il suo
poco convinto assenso e si allontanò per mettere subito al
lavoro gli scrivani di palazzo.
Jonas guardò Baumann.
«Quindi che ci rimane da fare, in attesa
che la profezia degli Dèi si compia?» chiese il
capitano.
Baumann guardò Antonia con la coda
dell’occhio e il suo sorriso si allargò ancora di
più.
«Preparare le truppe e organizzare un
matrimonio, direi». Lanciò uno sguardo ridente
all’espressione sconvolta di suo fratello. «O non
ti senti ancora pronto?»
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Capitolo 9 *** Oltre le mura ***
Il sole d’Agosto splendeva su Rocca Arsa.
Federica attraversò ciondolando la
piazza, ignorando gli sguardi curiosi e i bisbigli delle persone che
già affollavano il posto. Proprio un anno prima, lei e
Antonia erano sparite nel nulla; per mesi il paese e i dintorni erano
stati setacciati senza successo, e proprio quando le ricerche erano
state abbandonate, Federica aveva fatto il suo ritorno a casa.
La ragazza sapeva il perché dei
sussurri e delle occhiate furtive: quando era ricomparsa, da sola e
professando a gran voce di non sapere dove fosse Antonia e di non
ricordare nulla, le chiacchiere dei paesani si erano scatenate: avevano
sospettato tutti – e giustamente, peraltro – che
stesse mentendo; quello che non le andava giù era la
direzione che aveva preso l’immaginazione di quelli che aveva
sempre considerato amici. Alcuni erano addirittura arrivati a insinuare
che avesse ucciso Antonia e ne avesse occultato il corpo; e per
Federica, che non solo non avrebbe mai fatto niente del genere ma che
aveva combattuto e rischiato di morire, al fianco dell’amica,
quelle malignità erano quasi insopportabili.
Mentre sedeva in un angolino solitario, lontano da
tutti, si chiese per l’ennesima volta per quale motivo fosse
tornata a Rocca Arsa: avrebbe fatto meglio a restarsene a Roma, o ad
andare in un qualsiasi altro luogo, dove le chiacchiere perfide della
gente non l’avrebbero raggiunta. In fondo, stare
lì ormai era soltanto una tortura.
In realtà, Federica sapeva benissimo
per quale motivo aveva scelto di tornare: percorrere di nuovo i
viottoli familiari del paesino abruzzese le dava
l’impressione di essere più vicina ad Antonia, e
una piccolissima parte di lei continuava a sperare di vederla comparire
da un momento all’altro.
La ragazza era immersa in questi pensieri quando
d’improvviso la terra tremò e un ruggito che non
sentiva da mesi squarciò l’aria.
Antonia era esasperata.
Sposarsi non era mai stata in cima alla lista
delle sue priorità, ma organizzare quel matrimonio
– il suo
matrimonio, prima o poi avrebbe dovuto cominciare ad ammetterlo almeno
nella propria testa – la stava davvero facendo impazzire.
Già solo la cosa in sé era sufficiente a farle
dare di matto, e se si aggiungeva il fatto che avrebbe sposato due
fratelli contemporaneamente, che loro tre erano la Mano degli
Dèi il cui arrivo era stato profetizzato mezzo millennio
prima, e che in occasione della cerimonia sarebbero stati dichiarati
governanti, allora si poteva capire come la pressione su di lei
aumentasse in modo esponenziale rispetto a un qualsiasi matrimonio.
La ragazza si nascose il volto tra le mani.
«Porta pazienza, Antonia»
esalò Jonas: era provato quanto lei dalla situazione, ma
voleva comunque cercare di confortarla un po’. «Tra
un paio di mesi sarà tutto finito».
«Un paio di mesi!»
ripeté Antonia, inorridita. Si premette con più
forza le mani sul viso. «Non è riuscita a farmi
scappare la guerra, ma questo matrimonio forse ce la
farà!» si lamentò.
Baumann arrivò alle loro spalle,
silenzioso come un gatto. «Non dovresti essere felice di
sposarci?» la stuzzicò.
«Lo sarei, se non fosse tutto
così… così…
imponente!» borbottò lei.
«È il duro destino dei
governanti, essere sempre sotto l’occhio vigile del
popolo» scherzò il principe. «Non ti
conforta sapere che dopo sarai regina?»
«No» brontolò
Antonia. «Forse, sterminare qualche
Orco…» aggiunse speranzosa.
«Non si può»
rispose Baumann, serio, distruggendo all’istante
l’entusiasmo della sua promessa sposa. «Gli Orchi
sanno che io, te e Jonas siamo la Mano degli Dèi: di sicuro
sono all’erta, pronti per quando metteremo il naso fuori dal
castello».
«Ma prima o poi dovremo
uscire» obiettò lei. «Altrimenti non
metteremo mai fine a questa guerra…»
«Prima dobbiamo essere uniti in modo
indissolubile» le spiegò paziente Baumann per
l’ennesima volta. «Oltre a renderci più
coesi, solleva il morale dei cittadini e delle truppe».
Scosse la testa di fronte all’identica espressione poco
convinta di Antonia e Jonas. «Dovete capire che anche queste
cose sono importanti…»
«Quando regneremo insieme, della
politica te ne occuperai tu» bofonchiò Jonas.
«Quello che non capisco è che
bisogno ci sia di questa pompa magna» insisté
Antonia, disperata.
Baumann lasciò vagare lo sguardo nella
sala. Accanto a Isdrid, Margaerys discuteva di infiniti dettagli della
cerimonia nuziale con i capi dei servitori: sul volto di sua sorella
c’era tanto felice entusiasmo da strappargli un sorriso.
«So che non ti piace» ammise
infine, «e un po’ disturba anche me,
ma…». Gettò un’altra occhiata
a sua sorella. «Margaerys è così felice
di essere libera di occuparsi di cose del genere che… che mi
dispiacerebbe frenarla» confessò.
Lo sguardo di Antonia si addolcì mentre
a sua volta osservava la futura cognata. Quello che aveva detto Baumann
era vero: Margaerys sembrava risplendere mentre si occupava di tutti
quei dettagli che lei trovava noiosi da morire.
«Posso capire il tuo punto di
vista» rispose infine. «E va bene, falle fare
quello che preferisce, riguardo la cerimonia» cedette.
Baumann le scoccò un sonoro bacio sulla
guancia; anche Jonas le sorrise, ma un urlo improvviso
spezzò quel momento di quiete.
Margaerys si afferrò la testa, urlando,
e barcollò vistosamente prima di perdere
l’equilibrio. Tutti scattarono verso di lei, ma Illyrio fu il
più veloce: la circondò con le braccia prima che
potesse cadere, e con una mano le scostò i capelli dal volto
e le accarezzò la fronte.
«Che succede, Margaerys?» le
sussurrò con dolcezza sorprendente il Magister Fascinationum.
«Che cos’hai?»
La principessa si aggrappò alle braccia
di Illyrio, tremante.
«La Dea ha parlato»
esordì con voce flebile. «Il momento della
battaglia è giunto».
Gli occhi di Baumann si sgranarono. «Ma
è troppo presto!» protestò.
«La Dea ha parlato»
ripeté sua sorella. «Non possiamo sottrarci: i
nemici hanno già attaccato».
«Margaerys, questo non è
possibile» intervenne Jonas in tono ragionevole.
«Le sentinelle sono all’erta: se gli Orchi avessero
attaccato in un qualsiasi punto del regno, saremmo già stati
avvertiti».
«La Dea ha parlato»
insisté Margaerys, ostinata. «Il momento di
combattere è arrivato, i nemici hanno attaccato: la
battaglia oltre le mura è cominciata».
Baumann e Antonia si scambiarono uno sguardo
confuso.
«Non si sente nulla» disse
Baumann. «Fuori dalle mura è tutto
tranquillo».
Illyrio distolse gli occhi da Margaerys per
fissare quelli di Baumann. «Ha detto che la battaglia
è oltre le mura, non fuori le mura»
sibilò.
«E qual è la
differenza?» chiese impaziente il principe.
Jonas digrignò i denti. «Te
lo ricordi cosa sono i Varchi?» domandò brusco.
«Sono brecce nel muro che ci divide dagli altri mondi.
Quindi, quando la Dea dice che la battaglia è oltre le mura…»
«…vuol dire che è
in un altro mondo». Antonia trattenne fiato. «Non
nel mio!»
«Nel tuo» confermò
Margaerys.
«Ha senso» commentò
Illyrio, cupo. «Qui siamo preparati ai loro attacchi, negli
altri mondi no; quale modo migliore per attirare la futura regina fuori
dalla protezione del castello – e con lei Baumann e Jonas,
perché sanno che non la lascerebbero mai sola – di
attaccare il suo mondo d’origine?»
«Non posso lasciare che lo
facciano!». Antonia scattò verso la porta, ma
Baumann fu rapido ad afferrarla.
Jonas corse alla porta più vicina e mise fuori la
testa. «Alec! Zane!» chiamò con tutta la
voce che aveva. «Radunate subito l’esercito!
Dobbiamo raggiungere il Varco!»
«È una trappola! Non potete
andarci!» protestò Mastro Devall.
«Invece è esattamente quello
che faremo» ringhiò Baumann. Scoccò uno
sguardo di fuoco a Illyrio. «Prova a fermarmi, Illyrio, e
prometto che ti staccherò la testa con la spada di mio
padre».
«Come se fosse possibile»
sbuffò il Magister,
raddrizzandosi. «Fermare uno di voi è difficile,
ma provare a bloccare tutti e tre è impossibile».
Scrollò le spalle. «Vorrà dire che
combatteremo. Antonia, avremo bisogno di armi, nel tuo mondo la Magia
non ci assisterà…»
Margaerys gli si aggrappò a un braccio,
i begli occhi spalancati e pieni di paura. «Non potete andare
tutti! E se moriste? Chi governerebbe il regno?»
Baumann le sorrise, e con dolcezza
liberò Illyrio dalla sua presa.
«Tu, Margaerys» disse con
fermezza. «Tu devi restare, perché il nostro regno
abbia qualcuno su cui contare in caso ci succedesse qualcosa. Torneremo
vincitori, o pronti per essere seppelliti».
«Non puoi chiedermi questo»
sussurrò lei.
«Non ho bisogno di chiedertelo:
è il tuo dovere, come il nostro è
combattere» replicò Baumann. «A suo
tempo mi sono piegato all’onta di non combattere
perché il regno avesse un re; adesso tocca a te».
Le baciò la fronte, subito imitato da Jonas.
«Attendi il nostro ritorno, e in ogni caso, sii fiera di
noi».
«Lo sono già»
rispose affranta Margaerys.
Antonia le si parò di fronte: la
fissò con determinazione, poi
l’abbracciò.
«Abbi fede negli Dèi,
Margaerys» disse. «E abbi fede in noi».
«Dobbiamo andare, Antonia,
subito» intervenne Jonas.
La ragazza lasciò andare la sua
coetanea e prese le armi che il capitano le porgeva, poi tutti i
presenti, eccetto la principessa, Mastro Devall e Isdrid, si mossero
per raggiungere l’esercito.
Antonia si fermò sulla porta per
guardare un’ultima volta sua cognata.
«Invoca la protezione degli
Dèi su di noi, sorella» disse prima di sparire.
Le urla erano assordanti.
Gli Orchi si erano riversati in massa fuori dal
Varco presente a Rocca Arsa e avevano invaso il paesino con brutale
rapidità, menando martellate feroci sul terreno e rendendo
instabile ogni centimetro nel raggio di centinaia di metri. Gli
abitanti erano stati a dir poco colti di sorpresa, ma lo shock di
trovarsi di fronte delle creature leggendarie era durato poco: ben
presto il panico aveva preso il sopravvento, e i vacanzieri avevano
cercato riparo nelle case più vicine, trascinando via vecchi
e bambini.
Federica era l’unica ad aver mantenuto
il sangue freddo.
Nonostante l’incredulità di
trovarsi di fronte gli Orchi in un mondo in cui non sarebbero dovuti
mai arrivare, la ragazza aveva reagito con incredibile
rapidità: era corsa a casa per uscirne subito dopo con
l’arco e la faretra a tracolla, la spada al fianco e un
grosso sacco di tela in ogni mano.
Arrivata alla piazza, si rese conto che la
situazione era già critica: le martellate dei Signori del
Terremoto avevano aperto profonde crepe nel selciato e sui muri dei
palazzi circostanti. Ancora un po’, e di Rocca Arsa non
sarebbe rimasto che un cumulo di macerie.
Con gesti veloci Federica aprì le due
sacche e ne lanciò il contenuto tutt’intorno:
migliaia di piccole sfere gommose, ricavate dalla linfa delle piante
dello Staudeheim, rotolarono nelle spaccature del terreno e tra i
sampietrini, incuneandosi nelle fessure. La gomma fece il suo dovere,
assorbendo ogni vibrazione, e di colpo il mondo fu di nuovo stabile.
Per un minuto buono gli Orchi si bloccarono,
fissando interdetti i propri martelli e abbattendoli a più
riprese al suolo, tentando inutilmente di scatenare altri terremoti.
Federica approfittò del momento.
Scoccò varie frecce in rapidissima successione, uccidendo
una buona decina di nemici; poi sguainò la spada e si
gettò su quelli ancora in piedi.
Gli Orchi si ripresero in fretta dallo stupore, e
altrettanto in fretta individuarono in Federica l’unica
minaccia presente. La accerchiarono subito, mulinando i martelli nel
tentativo di schiacciarla, ed era chiaro che presto o tardi almeno uno
di loro l’avrebbe colpita.
Federica non provò paura. Quando si era
gettata a testa bassa tra gli Orchi, era consapevole che la sua era una
battaglia vana: i nemici erano decine, forse centinaia, e lei era sola.
Non aveva sperato neanche per un momento di farcela: sapeva che era
impossibile… ma se proprio doveva morire quel giorno, aveva
intenzione di portare con sé più Orchi che poteva.
Gli Orchi serrarono i ranghi; Federica vide il
cerchio stringersi intorno a sé e i martelli vorticare
sempre più vicini, e seppe che era arrivata la fine.
Poi gli ululati esplosero nella piazza e gli Orchi
si voltarono in perfetta sincronia verso un unico punto.
La galoppata di Antonia, Baumann e Jonas verso il Varco era stata
rapidissima; la ragazza aveva effettuato il Salto per prima, in modo
che a tutti gli altri fosse sufficiente concentrarsi sul desiderio di
raggiungerla per arrivare a destinazione.
Non appena aveva rimesso piede nel proprio mondo
d’origine, Antonia aveva sentito chiaramente i ruggiti degli
Orchi e le grida di terrore dei suoi compaesani; aveva compreso
all’istante che il frastuono era concentrato nella piazza del
paese e aveva lanciato Nebbia al galoppo giù per la ripida
discesa su un terreno miracolosamente saldo, seguita dai suoi promessi
sposi e da tutto l’esercito.
Quando sbucarono nella piazza di Rocca Arsa, la
scena che si presentò ai loro occhi era di devastazione: gli
Orchi inseguivano le persone inermi, cercando di colpirle, e un gruppo
più folto si era stretto intorno a una piccola porzione di
terreno.
Nonostante il rumore assordante, Antonia
sentì le urla di sfida di Federica.
«Arcieri, pronti!»
ordinò a gran voce, incoccando una freccia
nell’arco; i soldati obbedirono, e un secondo più
tardi una pioggia di frecce cadde sul manipolo di Orchi più
lontani, che si dispersero gridando.
Federica sbucò correndo dal gruppo di
nemici.
«Siete qui!» urlò
sollevata. Lei e Antonia si scambiarono un rapido sguardo determinato,
poi un secco ululato la distrasse: il lupo che era stato suo fedele
compagno nei mesi trascorsi nello Staudeheim era lì, a un
passo da lei.
La ragazza saltò in sella e
afferrò le redini con la mano libera.
«Fanteria,
all’attacco!» urlò Jonas.
I soldati scattarono in avanti, spade e lance in
pugno, e si scagliarono sugli Orchi; Jonas e Baumann, Antonia e
Federica, Illyrio, Alec e Zane spronarono i lupi e si sparpagliarono
tra i nemici, subito seguiti dalla cavalleria.
Gli Orchi, impreparati a trovare resistenza
così presto, non si opposero efficacemente a quella brutale
e inaspettata carica: parecchi caddero sotto i colpi dei soldati, altri
vibrarono delle martellate poco convinte, facili da schivare.
Antonia, sempre in sella a Nebbia,
spronò il lupo contro l’Orco più
vicino; l’animale obbedì entusiasticamente,
saltando alla gola del nemico e squarciandola con i lunghi denti.
Intorno a lei, gli altri soldati a dorso di lupo facevano lo stesso,
decimando gli Orchi.
E poi arrivò quello che, Antonia lo
sapeva, era l’unico davvero importante: Caliban si erse in
tutta la propria statura al centro del campo di battaglia,
gonfiò il petto enorme e urlò un incitamento ai
propri simili, il martello teso verso il cielo.
Baumann, Jonas e Antonia si voltarono verso di lui
nello stesso istante; gli occhi del primo s’incendiarono
d’odio.
«CALIBAN!» tuonò
mentre spronava il proprio lupo alla carica, la spada che era stata di
suo padre tesa verso il Signore del Terremoto.
Caliban si voltò a guardare il punto da
cui era partito il grido e sorrise, feroce e soddisfatto.
«Baumann, principe dello
Staudeheim» chiamò con la sua voce possente.
«Qui si compie il tuo destino. Come ho ucciso il padre,
ucciderò il figlio!»
Baumann non diede peso alle sue parole:
incitò il lupo ad andare più veloce, e lo stesso
fecero Jonas e Antonia. Caliban vide i tre convergere su di lui e
serrò la presa sul martello.
Una nuova pioggia di frecce cadde con precisione
sugli Orchi; fanti e cavaliere partirono con una nuova carica sotto la
guida dei gemelli e di Illyrio, impegnando i nemici e lasciando campo
libero ai tre che dovevano affrontare il Signore del Terremoto.
Caliban non sembrò impensierito nel
ritrovarsi di fronte le Tre Speranze finalmente unite: anzi, sorrise,
come se non avesse desiderato altro. Lui e Baumann si fissarono con
ferocia, di nuovo uno di fronte all’altro dopo oltre dieci
anni.
Fu il principe a spezzare il silenzio.
«Io ti ucciderò»
sibilò. «L’ho giurato il giorno in cui
hai ucciso mio padre, che l’avrei vendicato, e finalmente il
momento è arrivato».
La bocca dell’Orco si stirò
in un sorriso cattivo.
«Pensi davvero di potermi uccidere,
piccolo Baumann?» lo schernì. «Uccidere me, il primo e vero
Signore del Terremoto; me,
un combattente con quasi mille anni d’esperienza, al
contrario di te, che non sei quasi mai sceso in campo; me, Caliban, a cui
soltanto Gowan è sfuggito?». Rise sprezzante.
«Tu non sei Gowan, Baumann, e se io dovessi scegliere di
temere qualcuno, questo qualcuno sarebbe il capitano Grant,
l’unico ad aver emulato l’impresa di
Gowan!»
Baumann non si lasciò incantare dalle
parole dell’Orco: sebbene fosse arrossito di rabbia agli
insulti che gli erano appena stati rivolti, non distolse lo sguardo dal
nemico e non abbassò la guardia.
«Non riuscirai a metterci uno contro
l’altro, Caliban» intervenne Jonas con voce ferma:
anche lui teneva la spada puntata contro l’Orco.
«Tutti e tre abbiamo un conto aperto con te; è il
momento di saldarlo».
«Tutti e tre?» gli fece eco
Caliban, divertito e scettico. «Posso capire te e Baumann;
volete vendicare vostro padre; ma la straniera? Lei non
c’entra con questa guerra». Guardò
Antonia, che lo teneva sotto tiro con l’arco sollevato.
«Tu non sei obbligata a combattere; questa guerra non ti
riguarda. Puoi tornare nel tuo mondo, il tuo vero mondo, e
lasciarti tutto alle spalle. Fingere che sia stato soltanto un sogno, e
nulla di più» disse tentatore.
Antonia sorrise perfida.
«Ho deciso di combattere questa guerra
prima che tu attaccassi il mio mondo d’origine: oggi, ho due
volte un buon motivo per combatterti» replicò. Con
un gesto repentino scoccò la freccia, centrando Caliban
dritto nell’occhio.
Il Signore del Terremoto gettò la testa
indietro e ruggì di rabbia e dolore. Quello fu il segnale:
l’esercito dello Staudeheim si riversò come un sol
uomo sui nemici, tenendoli impegnati, mentre Baumann, Jonas e Antonia
scattavano verso Caliban con le spade sollevate.
Fu un attimo. La spada di Baumann
trapassò il collo dell’Orco da parte a parte;
Jonas abbatté la propria tra la quarta e la quinta costola,
centrandogli il cuore; Antonia gli conficcò la sua nello
stomaco.
L’intero corpo di Caliban
tremò. Antonia e Jonas estrassero le spade dalle carni
dell’Orco e indietreggiarono; Baumann sfilò la sua
soltanto per impugnarla con entrambe le mani e decapitare Caliban con
un gesto secco.
Cadavere e testa caddero a terra. Nello stesso
istante, gli Orchi deposero i martelli e si arresero uno dopo
l’altro, inchinandosi e riconoscendo la sconfitta.
Le operazioni di sgombero di Rocca Arsa procedevano senza problemi.
Subito dopo che gli Orchi erano arresi, dallo
Staudeheim erano arrivati altri soldati portando con sé
manette e catene: i nemici in ceppi erano stati ricondotti oltre il
Varco, e la lunga serpentina di soldati e Orchi continuava a snodarsi
attraverso il paese.
La piazza era di nuovo affollatissima: i paesani
vi si erano riversati non appena avevano capito che il pericolo era
cessato e, nonostante il comprensibile timore suscitato in loro dai
lupi giganti, parecchi si erano avvicinati ad Antonia, increduli e
sorpresi da quell’improvvisa e straordinaria ricomparsa.
La ragazza stava giusto cercando di non farsi
sommergere dalle domande dei suoi compaesani quando le grida di due
voci familiari si fecero strada fino a lei.
Antonia scostò le persone che aveva
intorno con gesti bruschi fino a quando non incontrò i due
volti che più di tutti le erano mancati in
quell’anno.
«Papà!
Mamma!»
I suoi genitori l’abbracciarono stretta,
piangendo di sollievo. Quando alla fine si staccarono, arrivarono le
inevitabili domande.
«Antonia, si può sapere dove
sei stata per tutta questo tempo? Eravamo così
spaventati… non credevamo ti avremmo mai più
rivista!» disse sua madre.
«È una storia
lunga» rispose Antonia. Cercò con gli occhi
Baumann e Jonas, impegnati a dirigere il trasferimento degli Orchi.
«E ci sono un paio di persone che vi devo
presentare». |
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