Per aspera ad astra {primavera} di EffieSamadhi (/viewuser.php?uid=98042)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 | Mi chiedi se ho conosciuto l'amore, e com'è cantare canzoni sotto la pioggia. Bene, ho visto l'amore arrivare, e l'ho visto cadere colpito, l'ho visto morire invano. ***
Capitolo 2: *** 2 | Non basta un raggio di sole in un cielo blu come il mare, perché mi porto un dolore che sale, che sale. ***
Capitolo 3: *** 3 | Alla fine, quando la vita ti ha buttato giù, qui hai qualcuno che puoi stringere tra le braccia. ***
Capitolo 4: *** 4 | Conosco le certezze dello specchio, e il fatto che da quelle non si scappa, ed ogni giorno mi è più chiaro che quelle rughe sono solo i tentativi che non ho mai fatto. ***
Capitolo 5: *** 5 | Sono innamorata, e lo sarò sempre. ***
Capitolo 6: *** 6 | Ti vedrò nella seconda parte, e riprenderemo da dove ci siamo interrotti quando ti ho persa, e ci innamoreremo di nuovo e cambieremo la fine della storia. Sì, torneremo insieme, nella seconda part ***
Capitolo 7: *** 7 | Arrendersi è più facile, quando entrambi lasciamo perdere. ***
Capitolo 8: *** 8 | «Da quanto manchi dalla tua casa?» «Due anni, duecentosessantaquattro giorni e questa mattina.» ***
Capitolo 9: *** 9 | Tra due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore. ***
Capitolo 10: *** 10 | Tutto muore, ma tu sei la cosa più cara che ho. ***
Capitolo 11: *** 11 | Io ti guardo negli occhi e vedo lontano il tempo che ho perso. ***
Capitolo 12: *** 12 | Lo sanno tutti che in caso di pericolo si salva solo chi sa volare bene: quindi se escludi gli aviatori, falchi, aerei, nuvole, aquile e angeli rimani te. ***
Capitolo 1 *** 1 | Mi chiedi se ho conosciuto l'amore, e com'è cantare canzoni sotto la pioggia. Bene, ho visto l'amore arrivare, e l'ho visto cadere colpito, l'ho visto morire invano. ***
La lunga strada verso casa - 1
Se già
il successo di “Portagioie di tristezza {autunno}” mi aveva
sorpresa, quello riscosso da “La lunga strada verso casa {inverno}”
mi ha definitivamente scioccata. Sarà che di solito i sequel non
sono mai amati quanto i primi capitoli, sarà che ho sempre creduto
poco nelle mie capacità narrative, sarà che non pensavo che le
tragiche avventure di Daria e Shannon potessero appassionarvi così
tanto, ma... grazie, davvero. Grazie a ciascuno di voi (uso il
maschile perché, anche se credo che in questo fandom si aggirino
soprattutto donne, non si può mai sapere XD), grazie per il
sostegno, il supporto e le belle parole. Grazie per le 123
recensioni, un vero record per una delle mie storie.
Grazie a
AdharaMars, Appetite for GunsnRoses, Beatricebp,
charlie997, clacampa, CutePoison83, dama
galadriel, Deija, EchelonDeathbat, Faith h20,
flysun91, Francesx, Fra BVB Echelon Punk, GB
Echelon, GiuEchelon3, hillarysueellen, JessyJoy,
Katherine39054, katvil, LittleDevil98, martizz,
MartyRudolf, melany987, miss nothing, MWoshi,
My planet is Mars, phoenix33, piratessa93,
Romancer9, Sayuri remenissions, shannonleto 95,
stefaniapisani, Titta91, TravellinJack, vale
mars, Whatsername freedom, Witness of the night,
_gabrysmile per l'inserimento tra le storie preferite.
Grazie a
Amyvitamia, Appetite for GunsnRoses, DadaOttantotto,
Heaven Tonight, jaytomshan, MWoshi, My planet
is Mars, shannonleto 95, _gabrysmile per
l'inserimento tra le storie da ricordare.
Grazie a
7taras, A Modern Witness, AdharaMars, alicie
heitiare, Andrelully, AuRock30, Butterfly Dream,
carly cec, clacampa, Closer to the edge, Faith
h20, FedeFede, Floki97, francy bf,
giofromheart, Kamira, kari87, katvil,
Lesia 90, LightCross, Love in London night,
LysergicAcid, Minelli, Miyu1976, Muty,
MWoshi, My planet is Mars, OhHowIWishThatWasMe,
opticalspring, Pirilla Echelon, saraechelon81,
Sayuri remenissions, Scccratch, SimihadathingforLeto,
so far away, sometimes, stefaniapisani, trixi86,
zetavengeance, _giumuddafuggaz, _Loki, _Savoir
per l'inserimento delle storie seguite.
E ora,
dopo la doverosa (e forse un po' noiosa) parte dedicata ai
ringraziamenti, ecco a voi il primo capitolo della terza parte della
tormentata storia di Daria e Shannon, che dopo essersi trovati, amati
e persi, ora dovranno affrontare una delle prove più grandi che due
innamorati possano incontrare sul loro cammino: il perdono.
Con la
speranza di avere ancora qualcuno da ringraziare per le belle parole,
mi eclisso, lasciandovi al primo capitolo di “Per aspera ad astra
{primavera}”.
Enjoy,
EffieSamadhi
P.S.: Per chi non fosse iscritto al gruppo "Direzioni ostinate e
contrarie" su Facebook, ecco il link del trailer della storia,
gentilmente offerto da DadaOttantotto: https://www.youtube.com/watch?v=RuY_VgECJKc .
Per aspera ad astra
Capitolo primo
Mi chiedi se ho
conosciuto l'amore,
e com'è cantare
canzoni sotto la pioggia.
Bene, ho visto l'amore
arrivare,
e l'ho visto cadere
colpito,
l'ho visto morire
invano.1
Los Angeles, 6 marzo 2014
L'intenso vibrare del
cellulare contro il legno del comodino sveglia di soprassalto Tomo,
che si mette a sedere con tutti i sensi all'erta. Una volta
constatato che Vicki è ancora stesa accanto a lui, sana e
profondamente addormentata, il cuore rallenta i battiti, e la mano si
allunga verso il telefono. È un numero che non conosce, ma l'istinto
gli suggerisce che farebbe meglio a rispondere, perciò si alza,
facendo attenzione a non calpestare Kasha, come sempre distesa sullo
scendiletto, e mentre esce dalla stanza, chiudendosi la porta alle
spalle, risponde alla chiamata. «Pronto?» sussurra, la voce ancora
impastata dal sonno.
«Tomo? Sono Shannon.»
Tomo guarda il grande
orologio appeso in cucina, sgranando gli occhi. «Shannon? Sono le
cinque del mattino, lo sai? Cos'è, inizi a dare i numeri come tuo
fratello?»
«Sono nei guai.»
Ci vogliono un paio di
secondi perché Tomo recepisca il concetto. «Come sarebbe a dire che
sei nei guai? Cos'è successo?» domanda, iniziando ad immaginare
scenari apocalittici, invasioni aliene, maremoti, il tanto temuto
terremoto che dovrebbe spaccare a metà la California. «Da dove
chiami?»
«Dal tredicesimo distretto
di polizia.»
«Cos'hai combinato?»
ribatte l'altro uomo con tono severo.
«Senti, Tomo, non mi serve
una paternale. Ho... ho fatto una cazzata, una cazzata enorme.
È solo che... non... non sapevo chi chiamare.»
Il primo istinto di Tomo è
rispondere che c'è sempre Jared, che c'è sempre stato e che sempre
ci sarà, ma qualcosa lo trattiene dal farglielo presente. «Cos'è
successo?»
«Mi sono fatto un
bicchiere di troppo prima di mettermi al volante. Una pattuglia mi ha
fermato e portato in centrale.»
«Cosa posso fare?» Jared
e Shannon sono come fratelli, per lui, e per aiutarli sarebbe
disposto a fare di tutto.
«Non voglio che tu faccia
nulla, volevo soltanto...»
«Hanno fissato una
cauzione?» lo interrompe l'altro in tono autoritario, facendogli
capire che nulla di ciò che potrebbe dire lo tratterebbe dal correre
in suo aiuto.
«Duemila dollari» sospira
Shannon, arrendendosi alle pressioni di Tomo.
«Arrivo subito, il tempo
di vestirmi» replica l'altro, chiudendo la chiamata. Si passa una
mano sul viso, chiedendosi quando mai avranno un po' di pace, poi
corre in camera per mettersi qualcosa addosso. Scarabocchia un
biglietto per Vicki, promettendole di tornare presto, e mentre si
mette in macchina per raggiungere il tredicesimo distretto prende in
mano il cellulare: il fatto che Shannon non voglia chiamare Jared non
significa che non debba essere coinvolto – anche perché se Jared
scoprisse di essere stato tenuto all'oscuro di qualcosa di così
importante andrebbe su tutte le furie, e Tomo non vuole rischiare la
fine dei Mars soltanto per una stupida incomprensione.
Rinchiuso in una cella di
due metri per tre insieme ad altri cinque uomini, tengo il viso
nascosto tra le mani, chiedendomi perché la fine tardi tanto ad
arrivare. Mi sento sfinito, stanco di tutto, come se nulla mi
importasse più. Non sono mai stato incline alle tragedie – non
tanto quanto Jared, almeno –, ma mai quanto in questi ultimi tempi
mi sono chiesto come sarebbe farla finita, togliermi di mezzo una
volta per tutte, smettendo di soffrire e di causare tante
preoccupazioni a quelli che mi amano. Se non ho ancora tentato un
atto estremo, è soltanto perché sono ancora abbastanza lucido da
rendermi conto che un gesto del genere distruggerebbe definitivamente
mio fratello, e soprattutto mia madre. Eppure, nonostante questa
consapevolezza, ogni mattina apro gli occhi chiedendomi che cosa mi
trattenga dal far smettere per sempre questo incredibile
dolore.
«Sei tu, vero?» mi
domanda uno dei compagni di cella, un ragazzetto scheletrico che avrà
sì e no l'età legale per bere. «Shannon Leto, il batterista dei 30
Seconds To Mars.»
Sospiro, facendomi
scivolare via le mani dal volto. «Se sei in cerca di autografi, mi
prendi nel momento sbagliato» replico. «Non ho la penna» aggiungo
in tono sarcastico, sperando che comprenda la mia scarsa propensione
al dialogo e si allontani.
«Oh, non voglio un
autografo» risponde lui. «Insomma, il tuo autografo ce l'ho già.
Anzi, ci siamo anche fatti una foto insieme, ma non ti ricorderai di
me. L'anno scorso, al meet&greet dopo il concerto di San Diego. È
stata una serata stupenda» aggiunge, rivolgendomi un grande sorriso.
«Perché sei dentro? Hai fatto a botte con qualcuno?»
Sospiro di nuovo,
appoggiando la testa contro la parete. Qualcosa mi dice che questo
ragazzetto non mi lascerà in pace finché non avrà le risposte che
vuole, quindi decido di mostrarmi il più accomodante possibile. «Mi
sono messo al volante dopo aver bevuto un bicchiere di troppo.»
«Guida in stato
d'ebbrezza, eh? Sembra sia una delle maggiori cause d'arresto tra le
celebrità.»
«Non ero sbronzo»
replico. «Insomma, per la legge lo ero, ma per i miei standard ero
ancora troppo lucido.» Mi volto per un istante a guardarlo, notando
che non sembra avere l'aria del criminale. Nonostante non abbia per
niente voglia di fare conversazione, sono anche estremamente curioso
di sapere che cosa abbia combinato. «Tu, invece? Perché sei qui?»
«Schiamazzi e disturbo
della quiete pubblica» ribatte, facendo spallucce. «La mia ragazza
ed io ci siamo presi una pausa, che è un modo elegante per dire che
ci siamo lasciati. Solo che non mi sono ancora rassegnato all'idea di
perderla, così sono andato sotto la sua finestra per cantarle Bright
lights. Visto che anche lei è una Echelon, mi sembrava un pezzo
adatto. Solo che è venuto fuori che non sono intonato quanto tuo
fratello, e... beh, questa parte mi imbarazza un po', ma... ho anche
sbagliato finestra» conclude con un sorriso.
«E per una cosa del genere
sei ancora dentro? Credevo che certe sciocchezze le liquidassero con
una multa, soprattutto se non ci sono precedenti.»
«Hanno fissato la cauzione
a cinquecento dollari, il che sarebbe in effetti una sciocchezza,
ma... avrei dovuto chiamare mio padre per farmi venire a prendere, e
l'idea non è allettante quanto farsi due notti dentro e beccarsi
qualche ora di servizio sociale.»
Mi sorprendo a ridere, cosa
che non faccio più da settimane: la filosofia di questo ragazzino è
inoppugnabile. «Non si preoccupanno per te, non vedendoti rientrare
per due giorni di seguito?»
Scrolla le spalle, senza
perdere il sorriso. «Vivo solo da un anno, ormai, e non sono uno di
quei figli che chiamano la mamma tutti i giorni. Intendiamoci, voglio
bene alla mia famiglia, ma... non lo so, a volte mi sento come se non
ne facessi veramente parte, come se...»
«...nessuno potesse
capirti?» suggerisco.
«Una cosa del genere, sì»
annuisce. «Ho tre fratelli più grandi, tutti uomini forti e sicuri
di sé che hanno saputo farsi strada nel mondo... io sono sempre
stato quello più fragile, quello che non era mai all'altezza degli
altri. O meglio, è così che sono sempre apparso agli occhi degli
altri. Io sono sempre stato contento di essere come sono, e non mi
cambierei per tutto l'oro del mondo. Sono felice.»
«E con la tua ragazza?
Perché è finita?»
«Ci conosciamo da quando
entrambi mangiavamo ancora le merendine» ridacchia. «Ci siamo messi
insieme a quindici anni. L'ho sempre amata alla follia e lei ha
sempre ricambiato, ma... non siamo più le persone che eravamo una
volta. Siamo cambiati, siamo... diversi. Lei studia
Biotecnologie a Palo Alto, ha sempre voluto cambiare il mondo, io
invece lavoro in un negozio di dischi. Il suo obiettivo è scoprire
il vaccino contro l'Ebola, debellare il virus dell'HIV, mentre io
punto solo ad arrivare sano e salvo a domani mattina.»
«Suppongo sia un bene che
abbiate scoperto ora di essere diversi, prima che le cose andassero
troppo oltre» ribatto. «Pensa a quanto sarebbe stato doloroso
svegliarsi, un mattino, e scoprire che non vi amate più come
prima.»
«Il punto è proprio
questo, sai? So che è destinata a finire, che un bel giorno ci
guarderemo e non ci riconosceremo più e soffriremo come cani, ma...
il punto è questo: che adesso, in questo momento, io la amo
così tanto che sarei disposto a tutto, pur di vederla sorridere
ancora. Dovesse durare anche soltanto una settimana, io... darei
tutto quello che ho per trascorrere quell'ultima settimana al suo
fianco.»
Abbasso lo sguardo,
sentendomi improvvisamente in colpa. Me ne sto seduto accanto ad un
ragazzo che ha chiara di fronte a sé la prospettiva di finire con il
cuore spezzato, ma che nonostante questo non perde la speranza: ciò
che ha appena detto è che nutre così tanta fiducia nell'amore da
essere disposto a cadere sul campo di battaglia, pur di avere anche
un solo istante di felicità. E io, invece, dall'alto dei
quarantaquattro anni che compirò a giorni, forte delle mille
esperienze che ho vissuto, ho semplicemente deciso di lasciarmi
andare, di arrendermi, di smettere di annaspare e lasciare che la
corrente mi trascini a fondo. Mi vergogno di me stesso, della mia
vigliaccheria, e tutto ciò che desidero in questo momento è essere
inghiottito dal pavimento, perché non merito di stare seduto accanto
ad un ragazzo così straordinario, uno che ha saputo fare della
propria debolezza la sua arma vincente e il suo punto di forza. A
salvarmi dal fornire una risposta arriva uno degli agenti di guardia,
che infila la chiave nella toppa e apre le sbarre: «Leto, sono
venuti a prenderti.»
Mi alzo, chiedendomi perché
Tomo non riesca mai a darmi retta. Poco prima di seguire l'agente, mi
volto verso il ragazzo: «Come ti chiami, a proposito?»
«Samuel. Ma gli amici mi
chiamano Sam» replica, senza smettere di sorridere. «Buona fortuna,
Shannon.»
Annuisco, lasciando la
cella. Seguo in silenzio il poliziotto fino all'atrio della centrale,
dove mi aspetta Tomo, che nel vedermi tira un sospiro di sollievo.
«Dio, per fortuna stai bene» sussurra, venendomi incontro per
abbracciarmi. «Dai, prendi le tue cose e andiamo via. Hai l'aria di
uno che ha bisogno di una doccia e di un caffè forte.»
Firmo il registro,
riprendendo gli effetti che mi sono stati sequestrati all'atto
dell'arresto, e mentre infilo l'orologio al polso getto un'occhiata
al corridoio dal quale sono arrivato, ripensando ancora
all'incredibile lezione di vita che quel ragazzetto pelle e ossa è
riuscito ad impartirmi in meno di dieci minuti. «Vorrei pagare la
cauzione di quel ragazzino che era con me in cella di sicurezza»
dico improvvisamente al poliziotto seduto dietro la scrivania. «Si
chiama Samuel, non conosco il cognome. È dentro per disturbo della
quiete pubblica, credo.»
«Ah, sì» ridacchia il
poliziotto. «Quello della serenata» aggiunge. «Vediamo... la sua
cauzione è fissata a cinquecento dollari. Può pagare in contanti o
con un assegno.»
Frugo il portafogli, ma non
ho con me il libretto degli assegni, e mettendo insieme tutti i
contanti arrivo soltanto a metà della cifra necessaria. È allora
che mi ricordo di Tomo, rimasto indietro mentre sbrigavo le pratiche.
«So che non mi merito niente, ma... me lo faresti ancora un favore?»
Lo vedo sbuffare, alzando gli occhi al cielo, e poi farsi avanti
mettendo mano al libretto degli assegni. «Grazie, Tomo. Da questo
momento puoi chiedermi tutto quello che vuoi.»
Una volta pagato, decido di
aspettare che lo stesso agente che ha accompagnato me vada a prendere
in custodia il ragazzo, che raggiunge l'atrio con aria confusa, senza
capire che cosa stia accadendo. «Arrivo subito, va bene?» dico a
Tomo, che capisce l'antifona e si sposta di un paio di metri.
«Hai pagato la mia
cauzione?» mi domanda Sam, sgranando gli occhi per la sorpresa.
«Santo cielo, non... dammi gli estremi del tuo conto, ti restituirò
tutto, fino all'ultimo dollaro» riprende, firmando il registro e
riprendendosi le sue cose.
«Lascia stare, non mi devi
niente. Anzi, se devo essere sincero sono io ad essere in debito con
te.»
«Shannon Leto in debito
con me? Dove siamo, su Candid Camera?»
«Dico sul serio» insisto.
«Mentre eravamo lì dentro hai detto un paio di cose che... beh, che
mi hanno aperto gli occhi. Sei saggio, per essere un ragazzino»
aggiungo, strizzando l'occhio. «Ripeti alla tua ragazza quello che
hai detto a me, e... beh, se non ti riprende subito, lasciala
perdere, che non è la donna per te.» Mi volto per raggiungere Tomo,
fermo accanto all'ingresso. «Grazie per avermi pagato la cauzione,
Tomo. Non avresti dovuto, ma grazie» sussurro mentre usciamo dalla
centrale.
«Risponderei che era mio
dovere, in quanto tuo amico, ma non posso, visto che non sono stato
io» replica. Non ho nemmeno il tempo di farmi domande, perché vedo
l'auto di mio fratello parcheggiata accanto al marciapiede, e Jared
appoggiato alla fiancata. «Beh, io vado. Vicki potrebbe aver bisogno
di me» aggiunge Tomo, saltando sulla sua auto, parcheggiata dietro
quella di Jared, e filando via prima che si scateni l'inferno –
perché deve per forza esplodere qualche bomba, conoscendo mio
fratello.
Invece, del tutto
inaspettatamente, Jared allarga le braccia e mi stringe forte. «Dio,
è così rassicurante vedere che stai bene» mi sussurra
all'orecchio, stringendomi come non faceva da tempo. Nonostante
questo, non riesco a ricambiare la stretta: me ne sto immobile, quasi
pietrificato, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, in attesa
che parta in quarta con la ramanzina. E invece, sorprendendomi
ancora, Jared si stacca da me con un sorriso. «Dai, sali in macchina
e andiamo via di qui.»
La luna sta lentamente
cedendo il posto al sole, e il cielo inizia ad assumere le sfumature
dell'alba. La superstrada è praticamente sgombra, silenziosa quanto
l'interno dell'auto. Shannon guarda fuori dal finestrino con aria
assente, continuando ad aspettare l'istante in cui Jared si scaglierà
contro di lui, sgridandolo per il suo comportamento assolutamente
irresponsabile. Si riprende soltanto quando vede il fratello mancare
l'uscita che li porterebbe verso casa, e continuare a guidare.
«Jared, hai mancato l'uscita» gli fa notare il batterista,
costringendosi a parlare nonostante il sacro terrore che ancora lo
attanaglia.
«Tu non preoccuparti, so
perfettamente cosa sto facendo» risponde il fratello, prendendo
l'uscita che conduce alle colline – e a questo punto Shannon inizia
quasi a tremare, sicuro che Jared intenda ucciderlo e seppellirlo da
qualche parte accanto alla scritta Hollywood. Meno di dieci
minuti più tardi arrivano in cima ad un'altura dalla quale è
possibile ammirare l'intera città, le cui luci si stanno a poco a
poco spegnendo. «Riconosci questo posto?» domanda Jared, spegnendo
il motore e rilassandosi contro il sedile.
«Dovrei?»
«Dodici anni fa, quando
trovammo una casa discografica disposta a produrci, venimmo qui per
riflettere sulla proposta che ci avevano fatto. Solo tu ed io, qui su
questa collina, a parlare per tutta la notte. Alle otto di mattina
decidemmo di andare allo studio per firmare...»
«...e ci chiesero di
tornare soltanto dopo esserci fatti una doccia» conclude Shannon con
una risata. «Santo cielo, ora me lo ricordo» aggiunge,
appoggiandosi contro il poggiatesta.
«È tanto che non parliamo
come quella notte» sussurra Jared, così piano che Shannon a
malapena riesce a sentirlo. «Che cosa ci è successo? Una volta
avresti chiamato me, se fossi finito nei guai.»
«Non volevo farti
preoccupare, suppongo.»
«Però sapevi che
Tomo mi avrebbe avvertito.»
«In verità, speravo che
non lo facesse.»
«Me lo avresti detto, se
non mi avesse chiamato? O avresti aspettato che lo leggessi sul
giornale?» Shannon abbassa la testa, sentendosi in colpa. «A
proposito, la notizia è già rimbalzata su decine di siti. Non
chiedermi come sia possibile, ma sembra che lo sappia già mezzo
mondo.»
«Mi dispiace» sussurra
Shannon, sentendo la voce spezzarsi. Ed è davvero dispiaciuto,
perché sa che questo è il genere di pubblicità che può soltanto
far male ad un artista o ad un gruppo, e anche perché ai Mars non è
mai accaduta una cosa del genere. «Sono disposto a pagarne le
conseguenze, qualunque esse siano.»
«Non ti ho portato qui per
parlare delle conseguenze del tuo arresto, Shannon» replica Jared,
scuotendo la testa. «In questo momento difendere la reputazione del
gruppo è l'ultima cosa di cui mi importi. La sola cosa che mi
interessi in questo momento sei tu.» Il batterista non tenta
nemmeno di replicare, sicuro com'è che l'altro lo interromperebbe
subito. «So che non eri veramente sbronzo quando ti hanno arrestato,
altrimenti non ti saresti ripreso tanto in fretta. Sei abbastanza
lucido da sostenere una conversazione seria, perciò presumo lo fossi
abbastanza anche per accorgerti che stavi facendo una cavolata,
mettendoti al volante.» Shannon annuisce, serrando le labbra come un
bambino sul punto di scoppiare in lacrime. «Quello che non riesco a
spiegarmi è perché tu abbia fatto una cosa tanto stupida.
Credevo stessi bene, credevo... credevo che andasse tutto bene»
ripete, incapace di trovare altre parole.
«Ho lasciato Christine»
confessa Shannon. «Il giorno dopo la cerimonia. L'ho chiamata, ci
siamo visti e... beh, è finita. In maniera molto civile, devo dire.
Non ci sono state grida, né insulti, né minacce di morte. Era
come... beh, era come se sapesse quello che stavo per dirle.»
«Forse perché lei ti ha
sempre conosciuto meglio di quanto ti conoscessi tu stesso» osserva
Jared. «Ma non è per questo che ti sei fatto beccare dalla polizia,
vero?»
Shannon scuote ancora la
testa, sentendosi sempre più colpevole. «Non riesco a smettere di
pensare a lei» sussurra. «Ci ho provato, credimi, ci ho provato con
tutte le mie forze» aggiunge, sull'orlo del pianto. «Ci ho provato,
ma Dio, non riesco a...» Solleva lo sguardo, puntando i lucidi occhi
scuri in quelli del fratello. «Hai mai amato qualcuno tanto da non
riuscire a smettere nemmeno quando capisci che ti farà soltanto
soffrire?»
«Credo di no» ammette
Jared, abbassando lo sguardo a sua volta. «Ma posso immaginare che
non sia una bella sensazione.»
«Fa schifo» replica
Shannon, asciugandosi gli occhi con i pollici. «La tua mente
continua a ripetere che devi smetterla, che devi darci un taglio, che
devi passare oltre e guardare al futuro, e intanto il tuo cuore batte
sempre più forte ogni volta che ripensi a quello che avevi, ogni
volta che il tuo sguardo si fissa su qualcosa che ti ricorda quanto
fossi felice. Il tuo cuore e il tuo cervello continuano a combattere,
e intanto tu resti lì, nel mezzo dello scontro, senza sapere quale
sia la cosa giusta da fare, senza sapere nemmeno dove guardare.
Ti senti solo, e perso, e sconfitto, e... e intanto il mondo va
avanti, e tu ti senti ancora più smarrito, e nessuno riesce a
capirti, e... e non c'è niente che possa alleviare il tuo dolore,
tranne ciò che lo causa.»
«Ti suonerà dannatamente
retorico, Shannon, ma tu non sei solo. Lo sai, per te io ci
sarò sempre. E c'è la mamma, c'è Tomo, c'è Wayne! Da quanto non
vi fate una bella chiacchierata, voi due?»
«Non c'è proprio nessuno,
Jared» ribatte l'altro uomo, scendendo dall'auto. Dopo un istante di
immobilità, Jared lo imita, chiudendo lo sportello con un colpo
secco. «Lo so, so che tu ci sarai sempre, e che mamma sarà sempre
pronta a darmi un consiglio, e che Tomo e Wayne mi vogliono bene e
tengono a me quasi quanto te, e infatti non è questo il problema. Il
problema sono io, Jay. Il problema sono soltanto io.»
«Shannon, io non...
aiutami, per favore, perché non riesco a capire.»
Il batterista infila le
mani in tasca, abbassando lo sguardo al terreno e poi volgendolo
lontano, verso le colline di Hollywood, quelle colline la cui vista
molte volte lo ha ispirato, e che forse saranno in grado, in questa
difficile alba, di sputare fuori quelle parole che forse potranno
aiutarlo a rinascere. «Sono un ex alcolista e un ex drogato»
scandisce lentamente, tornando a guardare il fratello.
A quelle parole è Jared a
distogliere lo sguardo. «Shannon, per favore, non...»
«No, per favore, lasciami
continuare» lo interrompe il batterista. «Sono un ex alcolista e un
ex drogato. Per tanto tempo ho pensato di aver superato i miei
problemi, ma ultimamente mi rendo conto che... che forse non sono
riuscito a risolverli del tutto. Fra tre giorni compirò
quarantaquattro anni, e mi sento impaurito come quando ne avevo
quattordici.» Prende un lungo respiro, ricacciando indietro le
lacrime. «Ho un problema con il bere, e se non prendo subito qualche
provvedimento per risolverlo ho paura che... ho paura che finirà
male. So che tu mi vuoi bene e che ti getteresti nel fuoco per me, ma
questa volta non mi puoi aiutare.»
«Shannon...»
«No, Jay. Non puoi
aiutarmi perché non ti sei mai sentito come mi sento io. Io credo...
io credo di aver bisogno d'aiuto, ma... ma non puoi essere tu ad
aiutarmi.»
Jared rimane in silenzio
per un paio di minuti, il tempo necessario per assorbire la
confessione del fratello e accettare il fatto che abbia ragione, e
che la sua naturale propensione all'empatia, in questo caso, non
serva a niente. «Intendi... intendi dire che...»
«Devo farmi aiutare da un
professionista. Ecco quello che intendo dire.»
«Intendi... tipo... una
clinica? Tu... Shannon, tu non sei così, tu... tu non sei un...»
«Cosa? Cosa non sono?»
«Possiamo superarla
insieme, Shannon, basta che restiamo uniti. L'ultima volta ce
l'abbiamo fatta, ti ricordi? Basterà... ti troverò un bravo
psicologo, un terapeuta, qualcuno che ti aiuti, ma non... non ti
posso mandare in una clinica. Non... non posso.»
Shannon solleva finalmente
gli occhi, e Jared capisce che non importa quante e quali possano
essere le sue obiezioni in proposito, perché la scelta è già stata
fatta – quando e come non si sa, ma è già stato tutto deciso.
«Non mi ci stai mandando, Jared. Sono io che ci vado.»
Si siedono entrambi ai
piedi di un enorme pioppo, fissando lo sguardo sull'alba che sorge
sopra Los Angeles. Shannon chiude gli occhi, assaporando il tepore
dei primi raggi del sole sulla pelle, mentre Jared fissa lo sguardo
su un punto lontano, chiedendosi che fine abbiano fatto gli angeli
che una volta popolavano quella valle. «Immagino che tu abbia già
pensato ad una destinazione precisa» sussurra dopo un lungo
silenzio, senza voltarsi.
«La clinica Safe
Heaven, giù a Cedar Creek. Sono specializzati nel trattare
pazienti con problemi d'alcolismo, hanno personale altamente
qualificato. E poi è a meno di dieci miglia di Los Angeles, quindi
non sarebbe troppo lontana, nel caso... nel caso volessi venirmi a
trovare.»
Jared si sente rabbrividire
all'idea di Shannon chiuso in una clinica, circondato da persone
sperdute che, lo sente, non hanno nulla a che fare con suo fratello,
ma sa che se Shannon ha deciso così, allora tutto ciò che resta da
fare è assencondarlo, pena la perdita totale del suo affetto. «Non
è lo stesso posto in cui hanno mandato Lindsay Lohan l'ultima
volta?»
«Sì, credo di sì. Non lo
so, sul sito non c'era una lista dei loro pazienti più celebri.»
«Beh, con lei non è che
abbiano proprio saputo fare miracoli.»
«Jared, io farò questa
cosa con o senza il tuo appoggio, solo che senza... beh, una cosa che
sicuramente direbbero tutti gli psicoterapeuti del mondo è che il
sostegno della famiglia è essenziale.»
Finalmente Jared si volta,
trovando di nuovo lo sguardo del fratello fisso su di sé,
incredibilmente fermo e deciso. «Avrai il mio pieno sostegno,
Shannon. Resto sempre tuo fratello.»
*
Torino, 7 marzo 2014
Alice
sta facendo colazione seduta davanti al computer, navigando senza
meta nel web alla ricerca di pettegolezzi che possano distrarla dalla
sua infelice condizione di laureanda. A prima vista, il titolo
Arrestato il batterista dei 30 Seconds To Mars
non suscita la sua curiosità, ma non appena i neuroni si degnano di
funzionare correttamente, sgrana gli occhi e quasi si strozza con lo
yogurt. Clicca sul link per leggere la notizia, impietrita sulla
sedia, le mani quasi tremanti per la sorpresa. «Ma ti sei
completamente ricoglionito!» esclama, alzandosi in piedi di scatto,
senza riuscire a credere a ciò che ha appena letto.
Dopo
un primo attimo di sconforto, durante il quale Marta si affaccia alla
porta della stanza per assicurarsi che sia tutto a posto, Alice si
rende conto di avere un mezzo più che affidabile per scoprire la
verità, perciò abbandona la colazione, che pure per lei è sacra, e
afferra il telefono, disposta a tutto pur di scoprire che cosa
diavolo sia successo. «Dimmi che quell'idiota totale
di tuo fratello non si è davvero fatto arrestare per guida in stato
d'ebbrezza» abbaia non appena dall'altra parte capta qualche segno
di vita. «Ti prego, dimmi che è soltanto un pettegolezzo senza
fondamento, ti prego, ti prego, ti prego. Non potrei sopportare una
delusione del genere. Non in un momento come questo.»
«Buonasera
anche a te, pasticcino» risponde Jared, riuscendo miracolosamente ad
inserirsi nel discorso approfittando di una pausa.
«Non
chiamarmi pasticcino. E comunque qui sono le otto di mattina. Allora,
mi spieghi che è successo oppure mi liquidi con uno dei tuoi tanto
temuti soon?»
«Beh,
prima di tutto qui è appena passata la mezzanotte, ergo per me è
sera. Secondo, mi piace chiamarti pasticcino. Ti si addice. Terzo...
beh, è una storia molto lunga e complicata.»
«Si
dà il caso che io non abbia molto tempo da perdere, perciò inizia
pure a raccontare.»
«Ti
avevo detto che Shannon aveva ricominciato ad uscire con una sua ex?»
Alice
riprende in mano lo yogurt, lasciandosi cadere sul letto. «No, e mi
chiedo perché non mi abbia informata prima. Credevo che tu e io ci
dicessimo tutto. A proposito dei nostri due idioti preferiti,
intendo.»
«Scusa,
pasticcino, ma non ho ritenuto importante informarti finché non
avessi scoperto che intenzioni avesse con lei. Comunque puoi anche
eliminarla dal diagramma, perché l'ha mollata.»
«L'ha
mollata? Quando? Perché?»
«Sì,
l'ha mollata un paio di giorni fa. Il motivo lo puoi capire da te.»
Alice
si prende un attimo per riflettere. «L'ha mollata perché è ancora
innamorato di Daria? Ma è perfetto! Oh, sì, è veramente una
notizia meravigliosa!»
«Per
niente, in verità. Sta male perché crede di averla persa per
sempre, perciò si è rimesso a bere. Non fraintendermi, non è che
passi ventiquattro ore al giorno attaccato alla bottiglia, però...
ci sta ricascando. Venendo alla notizia dell'arresto... beh, è vera.
L'altra sera una pattuglia l'ha fermato dopo l'uscita da un pub. Non
era completamente ubriaco, ma era molto al di sopra del livello
consentito.»
«E
che è successo poi?»
«Ho
pagato la cauzione e l'ho fatto uscire. Però c'è il rischio che ci
ricaschi, e questo lo sa anche lui. In realtà credo ne sia più
consapevole di me.»
«E
che cosa farete adesso?»
«Ha
deciso di entrare in un centro di riabilitazione. Un paio di
settimane, dice, tanto per cercare quel supporto che è convinto di
non poter trovare altrove. La mia convinzione è che stia scappando,
in realtà. Ha paura di se stesso, sa che se ricadesse nei vecchi
problemi questa volta non sarebbe più tanto semplice uscirne.»
«E
tu glielo permetti? Insomma, lasci che si faccia internare senza dire
nulla?»
«Cosa
dovrei fare, scusa? Sono suo fratello, non il suo tutore legale.
L'idea di vederlo chiuso in un centro in mezzo a gente che davvero
non ha altra via di scampo non entusiasma neanche me, ma è una sua
decisione, e io sono tenuto a rispettarla.»
«Accidenti,
questo è un guaio...» sussurra Alice, chiedendosi se questo non
pregiudicherà la riuscita del piano.
«Scusa,
non ti seguo. Perché dovrebbe essere un guaio? Tu che c'entri?»
Alice
prende un lungo respiro, sapendo che quanto sta per dire potrebbe
seriamente contrariare Jared. «Mercoledì mattina Daria ed io
abbiamo un aereo per Los Angeles» sputa fuori, chiudendo gli occhi
come per incassare meglio il colpo che, ne è certa, riceverà tra
poco.
«Cosa?»
La voce di Jared si fa acuta quasi quanto quella di una donna.
«Venite qui e non mi dici niente? Cos'è, aspettavi di atterrare per
farmelo sapere?»
«Più
o meno. Conoscendo Daria, mi aspetto ancora che martedì sera chiami
per dirmi che non se ne fa più nulla. La conosci, sai com'è fatta.»
«Beh,
sì, ho una vaga idea di come... ma accidenti, pensavo che mi avresti
chiamato subito per raccontarmi tutto!»
«Beh,
adesso lo sai.»
«Bella
consolazione» sbuffa Jared, provocando in Alice un sorriso
divertito. «Allora, qual è il programma? Almeno questo me lo
potresti concedere, no?»
La
ragazza lascia perdere di nuovo la colazione, presa da qualcosa di
molto più importante. «Beh, il piano è molto semplice, in sé: ci
imbarchiamo su un aereo e voliamo fino a Los Angeles. Sempre che lei
non si faccia venire una crisi di panico, visto che non ha mai
volato.»
«E
una volta atterrate?»
«Il
piano era di chiamare Emma per avvertire del nostro arrivo, farci
portare da Shannon e... beh, in qualche modo Daria avrebbe cercato di
chiedergli scusa e farsi perdonare. Non siamo grandi strateghe, a
dire il vero. Ci siamo concentrate molto sulla prima parte, ma per il
resto credo che ci affideremo molto al caso. Figurati che non ha
nemmeno voluto prenotare un albergo, convinta com'è che riceverà un
due di picche.»
«Davvero
ne è convinta?»
«Perché,
tu scommetteresti su una felice conclusione?» lo rimbecca lei con
una risata. «Se non conoscessi bene la situazione, potrei anche
azzardarmi a scommettere sul lieto fine, ma conoscendo i
precedenti...»
«A
proposito di precedenti... non hai ancora detto a Daria di quando
Shannon è venuto a Torino e l'ha vista con quell'altro?»
«No»
risponde Alice, abbassando lo sguardo. «E nemmeno dell'e-mail che ho
scritto ad Emma perorando la sua causa, e nemmeno che ho il tuo
numero di cellulare e parlo con te quasi più spesso di quanto faccia
con mia madre.»
«Non
pensi sarebbe il caso di informarla?»
«E
rischiare la morte? Ammetto che il mondo è un posto crudele e
tenebroso, ma ci terrei parecchio a restarci sopra ancora per qualche
anno.»
«Non
fare la drammatica, non ti ucciderebbe mai. Forse in uno scatto d'ira
potrebbe ferirti, o privarti di qualche arto, ma non ce la vedo ad
uccidere.»
«Mai
fidarsi delle acque chete, tua madre non te l'ha insegnato?»
«Mia
madre mi ha insegnato un mucchio di cose, piccola impertinente, tra
cui l'importanza di essere onesti. Glielo dovresti dire. So che
probabilmente la cosa ti fa paura, ma credo che dovresti essere
sincera e vuotare il sacco. Le dovresti raccontare tutto.»
Alice
giocherella con l'orlo dei pantaloni del pigiama, tenendosi il
cellulare premuto contro l'orecchio e il pensiero fisso su quello che
potrebbe farle Daria nello scoprire di essere stata tenuta all'oscuro
di così tanti avvenimenti importanti. «Fai presto a parlare. Tanto
non sarai tu quello che le starà di fronte in quel momento.»
«E
allora falla venire da te, chiamami e passale il telefono. Ci parlo
io con lei. Non conosco nessuno in grado di uccidere via telefono.»
«Sì,
probabilmente ti salveresti, ma io resterei comunque qui a prendermi
le botte anche per te.»
«Ho
sempre apprezzato le persone altruiste» ribatte lui, ridendo come un
bambino. «No, sul serio. Credo che le dovresti parlare prima di
arrivare qui. Anche perché verrò a prendervi in aeroporto, e
sarebbe un po' difficile spiegare la mia presenza. Diglielo in aereo,
no? A diecimila metri d'altezza non ti potrebbe uccidere. Con tutti
quei testimoni, poi...»
«Ci
penserò» ridacchia Alice, lasciando perdere il pigiama. «Scusa,
quando avresti deciso di venirci a prendere in aeroporto?»
«Appena
mi hai detto che martedì prenderete un aereo per venire qui.»
«Guarda
che partiamo mercoledì.»
«Oh,
è la stessa cosa. E poi ci tengo a venirvi a prendere. In fondo sarà
la vostra prima visita negli Stati Uniti, come cittadino americano è
mio preciso dovere accogliervi personalmente al vostro arrivo. E poi
sono ansioso di vedere se assomigli davvero a Gwen Stacy» scherza,
facendola ridere ancora.
«Credo
che somiglierò piuttosto ad un gatto finito in lavatrice, dopo un
volo di otto ore, con tutto quel fuso orario da smaltire... non sarò
un bello spettacolo.»
«Ancora
meglio. Adoro le donne che non esagerano con il trucco» replica lui
con un sorriso. «Senti, so che forse non sembro la persona più
adatta a dare consigli in materia di sentimenti e quelle cose lì,
ma... vedi, se c'è una cosa che ho imparato, è che bisogna sempre
dire la verità, anche se fa male, anche se corriamo un grosso
rischio. Anzi, forse è proprio quando c'è in gioco qualcosa di
importante che bisogna
essere sinceri, intendo ancor più del solito. Certo, forse Daria si
arrabbierà, magari non ti parlerà per un paio di giorni, ma sono
sicuro che in tutti questi anni avete superato cose ben più grandi.
Tu cerca di farla concentrare sul bene che la verità può portarle,
e vedrai che non presterà attenzione al male.»
Alice
riflette a lungo sulle parole di Jared, pensando che forse è vero,
forse dovrebbe essere finalmente sincera
con Daria, raccontarle ogni cosa, ogni piccolo dettaglio, e magari
lasciarle un paio di giorni per sbollire il tutto, per poi tornare ad
essere amiche come prima, o forse di più. «Probabilmente hai
ragione» risponde, badando di non far intuire a Jared quanto il suo
consiglio sia stato prezioso, sicura che lui tornerebbe a
pavoneggiarsi come se fosse il solo a conoscere l'unico, grande
segreto della vita. «Proverò a parlarle, e se la vedrai arrivare da
sola a Los Angeles saprai che mi ha uccisa e ha nascosto il cadavere,
e dovrai vivere per sempre con il rimorso di essere stato tu la causa
della mia dipartita.»
«Penso
che potrei sopportarlo.»
«Bene.
Adesso scusami, ma devo tornare alla mia colazione e alla mia tesi.
Ti scriverò, nel caso dovessimo avere qualche problema. Ah, a
proposito: potresti tenere per te la notizia dell'arrivo di Daria?
Vorrebbe che fosse una sorpresa. O meglio, voleva evitare che Shannon
lo scoprisse e si facesse vivo per dirle di non farsi vedere, o cose
del genere. Potresti farmi questo favore? In fondo, tu nemmeno
dovresti saperlo.»
«E
va bene, lo terrò per me. E bada che è un grande sacrificio per me,
perché di solito non riesco a tenere la bocca chiusa.»
«Perché,
credevi che non me ne fossi ancora accorta?» lo prende in giro lei,
alzandosi dal letto per tornare verso la scrivania. «Ciao, Jared. Ci
sentiamo presto.»
«Ciao,
Gwen Stacy.»
*
Los Angeles, 7 marzo 2014
La
valigia è pronta nell'ingresso, il cappotto appoggiato sul divano, e
sto camminando per casa controllando che sia tutto in ordine. Bruce
mi segue lentamente, il guinzaglio stretto tra i denti, guardandomi
come se temesse di non vedermi mai più. «Sei preoccupato,
campione?» gli domando, inginocchiandomi sul pavimento per essere al
suo livello. «Tranquillo, starai bene con la nonna» aggiungo,
accarezzandogli le orecchie. «Papà ha bisogno di farsi aiutare, lo
sai. Dio, quanto ti ho trascurato in questo ultimo periodo...» Bruce
uggiola piano, stendendosi sul pavimento con aria mesta. «Ma ti
prometto una cosa: appena mi sarà possibile tornerò, e allora tutto
andrà bene. Andrà tutto bene»
ripeto, forse cercando di convincere lui, forse cercando di
convincere me stesso. Il rumore di un'auto che si ferma alla fine del
vialetto e il suono del clacson mi avvertono che Jared e la mamma
sono arrivati, perciò infilo la giacca e prendo il borsone. «Forza,
campione, andiamo» gli dico, aspettando che si alzi ed esca dalla
porta. Prima di far scattare la serratura, getto un'ultima occhiata
all'ingresso e al salotto, sapendo che non passeranno meno di due
settimane prima che riveda queste mura che fino a poco tempo fa
chiamavo casa. Chiudo
gli occhi, sospiro e chiudo la porta, sapendo che con questo gesto
non sto soltanto lasciando un luogo che mi è familiare per
avventurarmi verso qualcosa che non conosco: sto chiudendo un
capitolo della mia vita cui non voglio pensare mai più, e finalmente
sto per voltare pagina. Apro lo sportello dell'auto per far salire
Bruce, e quasi mi viene un colpo: non ci sono soltanto Jared e la
mamma, ma anche Tomo e Vicki, che inizia a somigliare sempre più ad
un pallone. «E voi due che ci fate qui?»
«Pensavi
davvero che ti lasciassimo andare senza salutarti?» domanda lui,
sorridendomi.
«Siamo
tuoi amici, Shannon» gli fa eco lei, mettendo la sua mano sulla mia
spalla, mentre mi sistemo sul sedile anteriore, alla destra di Jared.
«Noi ci saremo sempre, qualunque cosa succeda.»
«Possiamo
andare?» domanda mio fratello, aspettando un mio cenno.
Prendo
un respiro profondo, riflettendo. «Sono pronto» rispondo, e per la
prima volta dopo tanto tempo mi sento veramente sincero con me
stesso.
1Mi
chiedi se ho conosciuto l'amore, e com'è cantare canzoni sotto la
pioggia. Bene, ho visto l'amore arrivare, e l'ho visto cadere
colpito, l'ho visto morire invano. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Blaze
of glory, composta e interpretata dal rocker statunitense Jon
Bon Jovi
come parte della colonna sonora del film Young
Guns II
(1990).
|
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Capitolo 2 *** 2 | Non basta un raggio di sole in un cielo blu come il mare, perché mi porto un dolore che sale, che sale. ***
La lunga strada verso casa - 1
Del
tutto inaspettatamente, già un paio d'ore dopo la pubblicazione
del primo capitolo il contatore delle visite è schizzato a
cento, per non parlare di tutti coloro che hanno inserito questa nuova
storia in una delle tre liste! Grazie per ogni cosa, davvero. Mi fate
sentire speciale, e non saprò mai come ringraziarvi a dovere.
Vi lascio al prossimo passo,
EffieSamadhi
Per aspera ad astra
Capitolo secondo
Non basta un raggio di
sole in un cielo blu come il mare,
perché mi porto un
dolore che sale, che sale.1
Cedar Creek, 7 marzo 2014
Quando varco la soglia del
centro, il primo pensiero che mi attraversa la mente è che non
somiglia per niente all'idea che mi ero fatto di posti del genere:
credevo che il bianco delle pareti mi avrebbe abbagliato, o che le
mie narici avrebbero subito percepito un odore simile a quello degli
ospedali, e che appena entrato mi sarei sentito soffocare dalla
tristezza dell'ambiente – invece l'atrio del Safe Heaven è
più simile all'ingresso di un centro estetico, con pareti colorate e
numerose piante in vaso. Mi avvicino timidamente al bancone, seguito
ad una certa distanza da Jared e mia madre, che tiene molto corto il
guinzaglio di Bruce, e più indietro da Vicki e Tomo, che si tengono
per mano. «Buongiorno» mi saluta l'infermiera seduta dietro la
scrivania, un'energica donna afroamericana dal viso cordiale, che per
certi versi mi ricorda la Mamie di Via col vento. «Cosa posso
fare per lei?»
«Salve, mi chiamo Shannon
Leto. Ho chiamato ieri mattina. Sono qui per...» La mia voce ha una
leggera incertezza: in fondo, per quanto sia una mia scelta, una
scelta molto ponderata, mi è ancora difficile pronunciare la parola
ricovero senza che mi tremi la voce.
«Oh, certo, ricordo. Ero
io al telefono» mi soccorre lei, e dal suo tono capisco che non
dev'essere la prima volta che le accade di trovarsi di fronte
qualcuno nelle mie condizioni. «Io sono Darlene» aggiunge,
tendendomi la mano al di sopra del bancone.
«Piacere di conoscerla,
Darlene» rispondo, ricambiando timidamente la stretta.
«Per prima cosa, dovrebbe
farmi il piacere di riempire questi moduli» prosegue, mettendomi
davanti agli occhi alcuni documenti e una penna a sfera blu. «Io
intanto chiamerò il dottor Connors.» Mi lascia solo di fronte
all'immenso spazio bianco dei moduli, e si rimette alla scrivania,
alzando il ricevitore e premendo un paio di tasti. Mi volto per un
istante verso il mio seguito, leggendo chiaramente negli occhi di
Jared la sofferenza causata dall'idea di abbandonarmi in un posto
simile, anche se soltanto per un paio di settimane. Torno a voltarmi
verso i moduli, che inizio a compilare con mano incredibilmente
ferma, quasi non avessi fatto altro per tutti i giorni della mia
vita.
Ho appena terminato, quando
da un corridoio alla mia sinistra appare un uomo in maniche di
camicia che non somiglia affatto all'idea che si ha in generale dei
medici. «Il signor Leto? Sono il dottor Connors» esordisce,
venendomi incontro con la mano tesa e un gran sorriso stampato in
faccia, quasi fossimo due persone normali che si incontrano per la
prima volta ad una festa. «Può chiamarmi Patrick, se la fa sentire
più a suo agio.»
«Shannon» rispondo,
ricambiando la stretta, notando che non può essere molto più
anziano di me. «Ah, questi sono mia madre, Constance, e Jared, mio
fratello» proseguo, voltandomi per presentargli tutto il resto del
circo. «Tomo e Vicki, due cari amici» aggiungo, mentre il dottore
stringe la mano a tutti. «E il mio cane, Bruce. Avrei evitato di
portarlo, non conoscendo la vostra politica in fatto di animali, ma
non potevo affidarlo ad altri» concludo, sentendo più che mai il
bisogno di giustificare le mie azioni.
«La nostra politica è che
tutto ciò che giova ai nostri ospiti è ben accetto» risponde lui,
inginocchiandosi per accarezzare Bruce, che si presta senza remore
alle coccole. «Splendido esemplare, splendido davvero. Un Border
Collie, dico bene? Della varietà Australian Red, direi.»
«Beh, io... io non...»
balbetto, sorpreso dall'assoluta eccentricità di questo medico,
apparentemente più interessato al mio cane che al mio ricovero nella
sua struttura.
«Mi perdoni» riprende,
rialzandosi. «Sono sempre stato un amante dei cani, ma i miei non mi
hanno mai permesso di tenerne uno, e ora che ne avrei la possibilità
non ho il tempo materiale per occuparmene, perciò mi distraggo
facilmente ogni volta che ne vedo uno. Ma torniamo a lei. In fondo è
per lei che siamo qui, giusto? Darlene le ha già consegnato la
documentazione necessaria?»
«Tutto in ordine, dottor
Connors» risponde lei, mostrandogli un fascicolo.
«Allora andiamo a dare
un'occhiata alla sua stanza. Potete venire tutti, se lo desiderate»
aggiunge, rivolgendosi all'intero gruppo.
«Io resterei qui, se per
te non è un problema» risponde Vicki. «Ho bisogno di riposare per
qualche minuto» aggiunge, sfiorandosi il ventre con una mano.
«Le consiglio di uscire
nel parco» replica il dottore. «Sulla panchina sotto il salice, in
particolare. A quest'ora dovrebbe trovarla sgombra.»
«L'accompagno» aggiunge
Tomo. «Vuoi che porti Bruce con noi? Così magari si sgranchisce le
zampe.» Annuisco, e mia madre gli consegna il guinzaglio. Mentre
loro escono, diretti verso il parco, la mamma mi prende per mano,
accompagnandomi verso la stanza, mentre Jared non riesce a camminare
al mio fianco, preferendo restare indietro di un paio di passi.
«Come sicuramente saprà,
signor Leto» inizia il dottore, camminando lentamente lungo il
corridoio, «questa struttura non è un ospedale, né una clinica, o
qualunque altra definizione possa venirle in mente. Non è nemmeno un
centro di riabilitazione» aggiunge, e a questo punto, anche senza
vederlo in faccia, so che Jared sta tremando, «ma un centro
d'ascolto e di supporto. Noi qui al Safe Heaven non curiamo le
persone, le aiutiamo a trovare una soluzione ai loro problemi. E
questo, mi creda, è molto più difficile di quanto si pensi. Non
dirò che non ci sono stati insuccessi, nel corso degli anni, ma le
assicuro che tali insuccessi non sono da imputare a noi, quanto ai
nostri ospiti. E badi, sto parlando di ospiti, non di
pazienti» aggiunge, voltandosi per un sorriso. «Tutte le
persone che conoscerà nel corso della sua permanenza sono entrate
qui di loro spontanea volontà, e di conseguenza possono decidere di
andarsene in qualunque momento. Nessuno è un prigioniero, qui.
L'unica condizione sulla quale non ci permettiamo di transigere è la
serietà: quando una persona decide di rivolgersi a noi per avere
quell'aiuto che non riesce a trovare altrove, pretendiamo che si fidi
completamente di noi, che abbandoni ogni pregiudizio o timore e non
si faccia scrupolo di parlarci di qualunque cosa. Mi rendo conto che
si tratta di un notevole sforzo, uno sforzo che io stesso non sarei
certo di poter compiere, ma è necessario. Per tutto il tempo che si
tratterrà qui, signor Leto, dovrà sforzarsi di vedermi come un
amico, e non come un dottore. Se può aiutare, può anche darmi del
tu. Avrà modo di imparare che non badiamo molto alle formalità.»
Finalmente, dopo aver svoltato in un secondo corridoio, il dottore si
ferma davanti ad una porta in legno chiaro, simile a molte altre,
riconoscibile soltanto grazie ad un numero, il nove. «Eccoci
arrivati» sussurra, ruotando la maniglia e aprendo il battente.
«Questa sarà la sua stanza. Mi rendo conto che non è il Ritz, ma
di sicuro apparirà meno impersonale quando avrà sistemato le sue
cose.» Mi lascia un attimo per guardarmi attorno, poi riprende:
«Sulla scrivania troverà una copia del regolamento e una piantina
dell'edificio, per aiutarla ad orientarsi meglio nei suoi primi
giorni qui. Per questa mattina non ha impegni, così avrà tempo di
sistemarsi per bene e dare un'occhiata in giro, se ne ha voglia. Si
pranzerà alle dodici e trenta, e per le quattordici verrà nel mio
studio, così potremo fare una chiacchierata.» Sorride ancora,
dandomi una pacca amichevole sulla spalla. «Ora vi lascio soli.
Signora» saluta mia madre, stringendole le mano e chinando appena il
capo, «signor Leto» aggiunge, porgendo la mano a mio fratello. Ha
già un piede fuori dalla stanza quando torna indietro, con l'aria di
chi abbia dimenticato di dire qualcosa di importante. «Spero che
questo non mini del tutto la mia posizione come figura autorevole, ma
non posso proprio trattenermi: adoro la vostra musica.» Detto
ciò scompare, chiudendosi la porta alle spalle.
«Un tipo decisamente fuori
dal comune» commenta mia madre con una risata, mentre muovo qualche
passo in avanti e appoggio il borsone sul letto rifatto.
«Sì, decisamente»
osserva Jared con un sospiro. «Siamo sicuri di poterci fidare?
Insomma, avete visto come si è messo a giocare con Bruce? Questo va
oltre ogni norma igienica» aggiunge, come sempre fissato con la
pulizia e i batteri.
«Ho controllato le sue
referenze, tranquillo» rispondo, appoggiando una mano sul materasso
per saggiarne la consistenza. «Sembra un tipo strano, ma ha studiato
nelle migliori università e conseguito un dottorato alla Johns
Hopkins.»
«Questo non toglie che sia
strano» replica lui, dando una rapida occhiata al regolamento
lasciato in bella vista sulla scrivania. «Che razza di centro è? Ti
lasciano il cellulare?»
«Non sono più in galera,
Jared» gli faccio notare, avvicinandomi per prendere la piantina,
cui do un'occhiata veloce e che ripongo subito in tasca.
«Vuoi che ti dia una mano
a disfare il bagaglio, tesoro?»
«Grazie,
mamma, ma mi arrangerò» le sorrido. «Tanto mi restano ancora un
paio d'ore prima di pranzo» aggiungo, controllando l'orologio.
«Andiamo fuori, voglio salutare gli altri.»
*
Torino, 7 marzo 2014
Sono
le nove di sera, e me ne sto distesa sul divano a rivedere per
l'ennesima volta Casablanca,
mentre Solo mi zampetta incerto sullo stomaco, incespicando e
restando impigliato nei fili della coperta ogni due per tre. Quando
suona il campanello penso subito che possa essere la signora
Lorenzoli, che stasera si è data alla cucina e poco fa mi ha
telefonato chiedendomi se mi facesse piacere una teglia di biscotti.
Invece, non appena sono riuscita a scollarmi di dosso il gatto e a
guadagnare l'ingresso, a reggere un enorme piatto ricolmo di biscotti
trovo Alice. «E tu che ci fai qui? E perché hai i miei biscotti?»
«Ho incontrato la tua
vicina mentre uscivo dall'ascensore, e mi ha chiesto se potevo
risparmiarle le scale. Ho accettato perché sono sempre cortese verso
le vecchiette, ma adesso pretendo di assaggiarne uno. Il profumo è
buono.»
«Ovvio che puoi averne
uno» rispondo, scostandomi per lasciarla entrare. «Però mi dici
che succede? Insomma, per venire fin qui a quest'ora...»
«Fin
qui,
esagerata. Non ho attraversato Torino. Sono dieci minuti a piedi,
lungo strade ben illuminate e molto frequentate. Non ho rischiato
scippi né stupri» replica, facendosi strada fino alla cucina.
«L'assideramento però sì, fa un freddo cane la sera.»
«Dev'essere successo
qualcosa di veramente grave, allora. Non affronteresti mai condizioni
tanto avverse per una stupidaggine. In quel caso useresti il
telefono.»
«E va bene, mi hai
scoperta» sbuffa, appoggiando i biscotti sul bancone e sfilandosi la
sciarpa. «Dov'è Solo?» aggiunge dopo un istante, guardandosi
attorno con aria preoccupata.
«Ho commesso l'errore di
fargli vedere un documentario a proposito del monte Everest. Ora si
crede Edmund Hillary, e sta provando a scalare il divano» rispondo,
facendo un cenno verso il salotto. «In quale modo ti avrei scoperta,
comunque?»
«C'è qualcosa di cui ti
devo parlare.»
«Ho capito, metto su
qualcosa da bere con i biscotti. Basta una tisana o serve la
cioccolata?»
*
Cedar Creek, 7 marzo 2014
Salutare tutti è stato
doloroso, ma nulla mi ha mai straziato tanto quanto stringere tra le
braccia Jared, che nonostante gli occhi lucidi e l'espressione di uno
che sta per mettersi a piangere è riuscito a mantenere la propria
integrità, sapendo che se si fosse abbandonato all'emozione lo avrei
fatto anch'io. Sono rimasto fermo all'ombra del salice, guardandoli
andare via con la consapevolezza che questa separazione è
necessaria, se voglio sperare di tornare in mezzo a loro come l'uomo
che ero un tempo, e non come il ragazzino spaventato che sono in
questo momento. Qualche minuto più tardi sono tornato dentro,
rivolgendo un sorriso a Darlene, e una volta al sicuro nella mia
nuova stanza ho tenuto impegnata la mente svuotando il borsone e
sistemando ogni cosa al proprio posto, replicando i gesti compiuti
anni fa, quando ho lasciato la casa della mamma per traslocare in un
posto tutto mio.
Ho trovato la mensa senza
difficoltà, scoprendo con una certa sorpresa che anche il cibo è di
ottima qualità, decisamente diverso da quello degli ospedali, e ho
pranzato da solo, in un angolo, consapevole di avere addosso gli
sguardi di tutti i presenti, non per la mia condizione di celebrità
– dubito che qualcuno mi abbia già identificato – quanto per la
mia estraneità all'ambiente, per la mia condizione di persona nuova
all'interno di un gruppo già coeso.
Pochi
minuti prima delle due sono seduto di fronte alla porta dello studio
del dottor Connors, in attesa di essere ricevuto. Durante la mia
breve attesa non perdo l'occasione di guardarmi attorno, incontrando
lo sguardo di almeno otto diversi dipendenti, che mi salutano con un
sorriso e passano oltre senza commiserarmi, senza provare pena per
me, come se fossi un semplice visitatore, e non un essere umano
profondamente tormentato che annaspa e lotta contro la corrente senza
trovare un appiglio. Alle due in punto la porta si apre, rivelando la
figura del dottore. «Buongiorno, Shannon. Prego, venga dentro.» Si
scosta per lasciarmi passare, e non appena varco la soglia richiude
la porta. «Va tutto bene, per ora? Ha sistemato le sue cose? Ha
pranzato?» aggiunge subito dopo, apprensivo come credevo potesse
essere soltanto una madre.
«Tutto a posto, grazie. So
che non dovrebbe essere la prima cosa a colpirmi, ma la qualità del
cibo è eccellente» rispondo, sedendomi sulla poltroncina che mi
viene indicata con gesto educato.
«Ne sono felice» replica.
«Ho scelto io stesso il personale delle cucine e il menù. Spesso
anch'io mangio qui, e mai e poi mai avrei accettato di mangiare la
stessa roba che servono negli ospedali.» Si siede per un istante
dietro la scrivania, finendo di compilare alcuni documenti:
osservandolo, mi accorgo che è mancino. Subito dopo si alza,
prendendo da un cassetto un mini-registratore dello stesso genere di
quelli che si vedono nei film. «Come specificato nei moduli che ha
firmato, e di cui provvederò a fornirle al più presto una copia,
ogni nostro colloquio sarà registrato. Spero che questo non le crei
problemi.»
«Sono già stato in una
sala d'incisione» riesco a scherzare, strappandogli una risata.
«Sono
contento di vederla così sereno, sa?» ribatte. «Bene, iniziamo.»
Preme un tasto e appoggia il registratore sulla scrivania. «Shannon
Leto, primo colloquio. Sette marzo 2014.» Fa il giro della scrivania
e si siede sulla poltrona accanto alla mia, assumendo un
atteggiamento rilassato, quasi non fosse un dottore, ma un amico
pronto ad ascoltare ogni dubbio o preoccupazione. «Shannon, ora
desidero che sia completamente sincero con me. Che cosa si aspetta
dalla sua permanenza qui a Safe
Heaven?»
Mi
prendo mezzo minuto per pensare ad una risposta sensata – la verità
è che non so di preciso a quale traguardo mi traghetterà
quest'esperienza, ma ho un bisogno spasmodico di credere che qualcosa
accadrà, e che tra due settimane sarò in grado di sopravvivere alla
vita. «Credo... mi aspetto di guarire,
in un certo senso.» Lo vedo cambiare posizione sulla sedia, e mi
affretto a correggermi. «So che probabilmente non è il termine più
adatto da usare, ma... guarire
è la sola parola che mi venga in mente per descrivere ciò che mi
aspetto dalla mia permanenza qui.»
Annuisce,
congiungendo le mani davanti al volto e sfiorandosi il labbro
inferiore con la punta degli indici. «E da
cosa si
aspetta di guarire, stando qui?»
«Da me stesso» replico
immediatamente, senza esitare.
«Risposta interessante.»
«Non
sono mai stato bravo con la psicologia, ma se c'è una cosa che sono
certo di aver capito è che il mio problema... sono
io.»
«Se
la cosa può esserle di conforto, qui non si parla di psicologia, ma
di onestà morale. Ammettendo di avere un problema dimostra una certa
consapevolezza della sua situazione, ma accettando di essere
parte
del problema dimostra di essere onesto verso se stesso, e mi creda se
le dico che questo è un grande passo avanti. Ma ora mi parli di lei.
In fondo siamo due estranei, non ci conosciamo. Mi racconti qualcosa
della sua vita.» Mi passo entrambe le mani sul volto, sospirando e
chiedendomi da dove cominciare. «Parta pure dall'inizio, se le va.
Mi piacciono le lunghe storie» aggiunge, forse comprendendo il mio
smarrimento.
«Beh, sono nato in
Louisiana, a Bossier City. È un piccolo centro del nord. Quando
venni al mondo, mia madre aveva soltanto diciassette anni.»
«Avevo l'impressione che
fosse molto giovane, in effetti» è il suo commento.
«Quando
i suoi genitori scoprirono che era incinta la cacciarono di casa»
aggiungo, abbassando lo sguardo al pensiero di quegli anni lontani.
«Si trasferì a casa del suo ragazzo... mio padre» mi correggo,
rendendomi conto che in fondo è questa la giusta definizione, per
quanto il suo contributo al mio sviluppo come essere umano non sia
andato oltre quel punto. «Era soltanto una roulotte ai bordi di una
palude, ma si amavano, e quando c'è l'amore tutto sembra migliore.
Si arrangiavano entrambi con dei lavoretti saltuari, tiravano avanti,
insomma. Non vivevano nel lusso, ma so che non mi hanno mai fatto
mancare nulla. Si sposarono un paio di mesi prima che nascessi.
L'anno seguente mia madre restò incinta di mio fratello, e poco dopo
la sua nascita le cose tra loro... non lo so, lei non ne ha mai
parlato apertamente. Non so per quale motivo sia finita, in realtà.»
«Deve essere stato molto
difficile per una ragazza così giovane tirare avanti con due bambini
piccoli da crescere» osserva lui, estremamente concentrato sul mio
racconto. «Cosa fece, tornò dai genitori?»
Scuoto la testa,
grattandomi distrattamente la guancia. «Per quanto ne so, dal
momento in cui li lasciò, quando era incinta di me, non tornò mai
indietro. È sempre stata una donna molto orgogliosa, non si sarebbe
mai abbassata a tornare indietro. Tornare indietro a chiedere aiuto
avrebbe significato inginocchiarsi ai loro piedi implorando perdono,
e lei non sarebbe mai riuscita a guardarsi di nuovo allo specchio, se
lo avesse fatto. Fece la scelta più coraggiosa che una donna possa
fare: si rimboccò le maniche, si cercò un lavoro e una casa e si
impegnò con tutta se stessa per darci la migliore vita possibile»
aggiungo con un sorriso, ripensando ai tempi felici della mia
infanzia, chiedendomi perché non si possa rimanere per sempre
bambini, per sempre immersi in quello stato di grazia proprio dei
primi anni di vita. «Alcuni suoi amici del liceo vivevano in una
specie di comunità hippie nella periferia sud della città, perciò
ci trasferimmo lì. Avevo soltanto due anni, non mi ricordo un
granché, ma quando ne parla lei ha sempre un gran sorriso sul volto,
il che mi fa pensare che ci trovassimo bene. Agli occhi del mondo
erano soltanto un gruppo di spiantati che si lavavano poco e
passavano le giornate fumando erba e suonando la chitarra attorno ad
un falò, ma per lei sono stati una vera ancora di salvezza. Sono
stati una famiglia, per lei, per me e per mio fratello. Almeno in
quel primo periodo.»
«Ci siete rimasti molto?»
«Poco più di sei mesi,
credo. Presto la mamma racimolò un po' di soldi facendo la cameriera
in un ristorante di lusso. Al campo c'erano altre donne con bambini
della nostra età. Ci affidava a loro e copriva quanti più turni
possibile per guadagnare di più. Comprò un'auto da uno
sfasciacarrozze, un vero rottame. Era una Gremlin rossa, con una
striscia bianca sulle fiancate. Dio, mi ricorderò di quell'auto
finché avrò vita. Apparteneva ad un tale che si era schiantato
contro un palo del telefono, era tutta piena di bozzi e d'nverno era
piena di spifferi, ma era carina. Un ragazzo del campo la rimise in
sesto, e appena fu pronta prendemmo le nostre cose e lasciammo la
città.»
«Per dirigervi...»
interviene, lasciando in sospeso la frase per consentirmi di
continuarla.
«Ovunque,
e allo stesso tempo da nessuna
parte.
Non aveva un programma, o una destinazione da raggiungere. Aveva
vent'anni» aggiungo, facendo spallucce, come se questo potesse
spiegare ogni cosa. «Forse voleva cercare il posto adatto per
costruirci una casa nostra, o forse aveva soltanto voglia di vedere
il mondo. Quel che è certo è che andammo in un sacco di posti. Non
ci fermavamo mai più di sei mesi, ma andava bene così. Era una gran
lavoratrice, riusciva sempre a scovare i posti in cui pagavano di
più.»
«E quando lei era al
lavoro, voi che cosa facevate?»
«Ogni
volta che arrivavamo in un posto nuovo, lei riusciva sempre a scovare
la comunità hippie del posto. Erano gli anni settanta, ai margini di
ogni città ce n'era un gruppo. Riusciva a fare amicizia facilmente,
ma soprattutto è sempre stata brava a capire le persone. Ancora
adesso è il tipo di donna che riesce a capire con una sola occhiata
la vera natura di una persona, o se di lei ci si possa fidare. So che
può sembrare che ci abbia esposto ad un sacco di pericoli, ma le
assicuro che non mi sono mai sentito più al sicuro di quanto mi
sentissi allora.»
«Quindi si può dire che
ha avuto un'infanzia felice.»
«In generale, direi di sì.
Beh, c'era il problema della scuola. Ogni volta che ci trasferivamo
cambiava tutto: i compagni di classe, gli amici... essere il nuovo
arrivato era sempre difficile, ma in qualche modo riuscivamo sempre a
farci accettare, mio fratello ed io. E anche quando non riuscivamo a
fare amicizia con gli altri bambini, avevamo sempre l'un l'altro.»
«Capisco cosa vuol dire.
Anch'io ho un fratello. So quanto sia importante avere accanto
qualcuno sempre pronto a sostenerti.»
«Jared è più giovane di
me di un anno e mezzo, ma... è sempre stato il più forte, in un
certo senso. Credo che ciò che gli difetta in età sia compensato
dalla personalità.»
Sorride, incrociando le
braccia davanti al petto. «Sono curioso: quando è arrivata la
musica?»
«Non lo so» ammetto,
scuotendo la testa. «Mia madre ha sempre detto che ero pieno
d'energia, fin da piccolissimo. Già a tre anni rincretinivo tutti
battendo sulle pentole con i mestoli e i cucchiai di legno che rubavo
dalla cucina. Avevo dieci anni quando mi comprò la prima batteria.
Era piccola, ma completa di tamburi e piatti. Ci battevo sopra giorno
e notte, come se ne andasse della mia vita. Ma avevo iniziato a
strimpellare la chitarra già da un paio d'anni. Gli amici di mia
madre gliel'avevano regalata prima che lasciasse Bossier City. Credo
che la conservi ancora. Non suona più come una volta, ma è comunque
un ricordo.»
«I ricordi sono una parte
importante della nostra vita. Ci aiutano a tenerci ancorati alla
realtà» asserisce, cambiando posizione sulla sedia. «E i primi
problemi, invece, quando sono arrivati? Insomma, non mi illudo che
sia stato un percorso privo di ostacoli.»
«Poco prima che
iniziassero le superiori» rispondo, sapendo che era soltanto
questione di tempo prima che si arrivasse a questo discorso. «Avevo
quasi quattordici anni, e avevamo trovato un posto in Mississippi.
Non ce la cavavamo male, ma non mi piaceva. Non ero riuscito a legare
con nessuno, Jared invece era riuscito a fare amicizia, si era
integrato bene.»
«Che cosa le ha impedito
di trovare qualcuno con cui legare?»
«Il fatto di avere quasi
quattordici anni, suppongo» replico. «O forse... l'anno prima uno
degli amici di mia madre l'aveva chiamata per dirle che mio padre era
morto.»
«Mi dispiace molto»
sussurra lui, mostrando un sincero cordoglio.
«Non ricordo nemmeno il
suo viso» rispondo, cercando di fargli capire quanto poco tenessi a
lui. «Credo che mia madre abbia qualche sua fotografia, ma... non è
stato un gran padre.»
«Come successe? Se le va
di parlarne, naturalmente.»
«Si infilò una pistola in
bocca» ribatto, sorprendendolo per la mia schiettezza. «Mi scusi se
non le indoro la pillola, ma è quello che è successo. Poco dopo il
divorzio da mia madre si era risposato, e aveva avuto altri figli.
Non li ho mai conosciuti, ma a mia discolpa posso dire che nemmeno
loro si sono mai fatti avanti. Per quanto ne so, non sanno nemmeno
della mia esistenza, o di quella di mio fratello.»
«Com'è possibile?
Insomma, considerando che siete diventati famosi, come... almeno il
cognome o la provenienza avrebbero dovuto suscitare qualche sospetto,
o una minima curiosità.»
«Leto non è il cognome di
mio padre. Dopo il divorzio la mamma cambiò legalmente il nostro
cognome, dandoci il suo. E qualche anno più tardi anche lei si
rifece una vita: conobbe un altro uomo, che decise di adottarci e
darci il suo cognome. Anche il secondo matrimonio finì con il
divorzio, ma restarono in buoni rapporti, e noi ci tenemmo il nome.»
«Complicato,
ma... adesso mi è tutto più chiaro. Dunque, siamo rimasti ai suoi
tredici anni, e alla notizia della morte di suo padre. In quale modo
questo evento influì su di lei?»
«In un primo momento, non
mi sconvolse più di tanto. In fondo, non lo conoscevo. Per me era
morto da tempo. Ma credo... non lo so, forse inconsciamente mi turbò
più di quanto osassi ammettere. Forse nel profondo avevo sperato che
si pentisse della propria decisione e che tornasse da noi, non lo so.
Quello di cui sono certo è che a quattordici anni il fatto di non
avere un padre iniziò a pesare. Tutti gli altri ragazzi avevano un
padre che li portasse a pesca o che andasse a vedere le loro partite
di calcio, mentre io non avevo nessuno. Mi sembrava che gli altri mi
guardassero in un modo strano, come se fossi un alieno.»
«Ma poco fa ha detto che
suo fratello non ebbe problemi a farsi amici, quando eravate nel
Mississippi. Questo come se lo spiega?»
«Differenti
personalità» replico. «Lui è sempre stato un tipo più
estroverso, più... espansivo.
Se è stato ad uno dei nostri concerti o ha visto qualche intervista,
dovrebbe esserci arrivato da solo» ammicco.
Soffoca una risatina. «Ero
a San Diego, l'anno scorso» ammette. «Credo di aver capito di che
cosa stiamo parlando.»
«Io ho sempre avuto
maggiori difficoltà ad aprirmi. Forse adesso risulterà difficile da
credere, ma trent'anni fa non ero così. Dicevo sì e no una trentina
di parole al giorno, e a quattordici anni, se non sai comunicare, non
ti puoi fare degli amici.»
«La capisco più di quanto
creda» sorride. «A quattordici anni anch'io ero un tipo silenzioso.
La lingua mi si è sciolta al college, ma credo che il merito sia da
attribuire alla birra, più che alla mia forza di volontà.»
Rimaniamo in silenzio per un secondo, poi riprende: «Che genere di
problemi ci furono?»
«Risse con i compagni di
scuola, soprattutto. Fui sospeso per aver picchiato un ragazzo più
grande che si faceva beffe della mia statura. E poi iniziai a non
andarci più, a scuola. Per un paio di settimane funzionò, anche
perché convinsi mio fratello a reggermi il gioco. Solo che poi la
preside chiamò mia madre, e ci restai fregato.»
«Che successe, a quel
punto?»
«Mi misi seduto con mia
madre a parlare di ciò che mi turbava. Credo sia stata il miglior
psicologo con cui abbia mai parlato» aggiungo con un sorriso. «Con
tutto il rispetto per lei, naturalmente.»
«Non si preoccupi,
sopporto bene le critiche» replica. «Trovaste una soluzione?»
«Optammo per la decisione
più semplice: caricammo tutte le nostre cose sulla Gremlin e
ripartimmo. Alla fine, si rivelò anche come la scelta più giusta.
Vagammo ancora per un po', e quando avevo diciassette anni arrivammo
un Virginia.»
«Un bel viaggio, dalla
Louisiana.»
«La Virginia è il posto
in cui siamo rimasti più a lungo, escludendo Los Angeles. Ci
sistemammo nei dintorni di Richmond, mamma trovò un lavoro in un
negozio di dischi e riuscì a farci iscrivere nella migliore scuola
della città.»
«Ma poi i problemi
tornarono, vero? Glielo leggo negli occhi.»
«Diciamo che le liti con i
compagni di scuola nel Mississippi non sono state il punto più basso
della mia vita. Ci sono state cose peggiori.» Faccio una breve
pausa, durante la quale il dottore sceglie di non interrompermi. «In
realtà andò bene, per un po'. Anzi, per molto, considerando
i miei precedenti. A diciotto anni conobbi una ragazza, Christine.
Era un anno indietro, studiava nella stessa classe di mio fratello.»
«Era la prima ragazza che
destava il suo interesse?»
«Era la prima che avessi
avuto abbastanza tempo per osservare. In tutti i posti in cui eravamo
stati prima ero stato troppo occupato a cacciarmi nei guai per darmi
il tempo di guardarmi intorno. Era carina. Non la ragazza più bella
del mondo, ma... carina. E poi aveva un'aria... non lo so,
normale. Viveva con i suoi genitori e una sorella più piccola
in una villetta in periferia. Suo padre era portoricano, quindi
sapeva che cosa vuol dire faticare per sentirsi accettati dalla
comunità. Era brava a scuola, cantava nel coro della chiesa, faceva
volontariato alla mensa dei poveri...»
«L'ultima brava ragazza,
quindi» osserva lui.
«Nella mia mente,
Christine rappresentava qualcosa che non avevo mai conosciuto, e che
fino a quel momento non avevo mai sospettato di volere. Mi piaceva
come avevamo vissuto fino a quel momento, il fatto di poter prendere
e andare via ogni volta che qualcosa non girava come dovuto, ma
quando incontrai Christine...»
«...iniziò a desiderare
qualcosa di diverso» conclude il dottore, dando voce a pensieri che
io non sarei mai stato in grado di esprimere così bene. «Come si
comportò con lei?»
«Come avrebbe fatto
qualunque altro ragazzo di diciotto anni» rispondo, facendo
spallucce. «Ci provai, e lei mi respinse. Ci provai ancora una
volta, e ancora una volta non funzionò. Forse chiunque altro si
sarebbe scoraggiato e avrebbe lasciato perdere, ma non io. Ero
determinato a strapparle un appuntamento, e non mi sarei arreso per
tutto l'oro del mondo.»
«Beh, dicono che la
fortuna aiuti gli audaci. Fu uno di quei casi?»
«Sì e no. Mi ci vollero
un paio di mesi e qualche buona parola da parte di mio fratello.
Vede, il fatto era che la scuola aveva ricevuto la documentazione
riguardante tutti i nostri soggiorni precedenti, e in qualche modo si
era sparsa la voce che fossi un cattivo soggetto. Le brave ragazze
non si avvicinavano a nessuno, meno che mai ad uno come me. E
Christine era una che puntava in alto. Il suo sogno più grande era
studiare legge a Yale, perciò...»
«...era una di quelle che
si tenevano alla larga.»
«Non per molto, comunque.
Scoprii di piacerle, ma che il timore e la timidezza la tenevano
lontana da me. Fortunamente, mio fratello è sempre stato un tipo
molto diplomatico, uno che avrebbe avuto una carriera assicurata come
ambasciatore. La convinse ad accettare di accompagnarmi ad una festa,
e lì... beh, per usare un'espressione poetica, fu lì che accadde
la magia. Scoprì che non ero il criminale che tutti credevano,
che sapevo anche essere simpatico, accomodante, forse addirittura
dolce. E poi avevamo un sacco di interessi in comune, come la
musica. Di certo non saremmo mai stati a corto di argomenti.»
«La classica storia
d'amore che molti ragazzi sognano» è il suo commento. «Ma ad un
certo punto Christine lasciò la scena. Come accadde? Successe
qualcosa?»
«Durò qualche mese,
dall'autunno fino alla tarda primavera. Per molto tempo considerai
quel periodo come il momento più bello della mia vita. In primavera
decisi di mollare la scuola, nonostante mancasse poco al diploma. Non
avevo buoni voti, sapevo che un pezzo di carta non mi avrebbe aiutato
a trovarmi un lavoro migliore di quelli che avrei potuto trovare
senza. Iniziai a lavorare presso un'officina meccanica, e fu allora
che mi venne la passione per le motociclette.» Faccio una pausa,
mentre lo osservo alzarsi per sgranchirsi le gambe. «Christine cercò
in ogni modo di farmi cambiare idea, convinta com'era che avrei
potuto fare grandi cose, se soltanto mi fossi impegnato. Iniziai a
detestare il suo atteggiamento, quelle sue continue insistenze... mi
sentivo come se stesse cercando di cambiarmi, di mutare la mia
personalità, e questo non mi stava bene. Insomma, sapevo che anche
mia madre e mio fratello non condividevano la mia scelta, ma mi
conoscevano abbastanza da sapere che ogni protesta avrebbe rischiato
di spezzare per sempre il nostro legame. Non condividevano la mia
scelta, ma mi hanno sempre sostenuto, perché sapevano che il loro
supporto era la sola cosa che davvero contasse per me.»
«Non le venne in mente che
forse Christine si comportava così soltanto perché teneva davvero a
lei, perché voleva per lei unicamente il meglio?» osserva il
dottore, tornando a sedersi.
«Adesso so che se
insisteva tanto era soltanto perché mi amava e non voleva che
buttassi la mia vita» replico, calcando l'accento sulla prima
parola. «Ma allora ero convinto che volesse cambiarmi, che stesse
cercando di manipolarmi per avvicinarmi all'ideale romantico di
ragazzo perfetto che aveva sempre sognato. In qualche modo ci
trascinammo avanti per l'intera estate, e poco prima che
ricominciasse la scuola mi piantò.»
«Sul serio? Fu lei a dire
basta? Non successe il contrario?»
«Io sono come gli
irlandesi. Non metterei mai fine ad una cosa sbagliata» sorrido.
«No, non fui io a lasciar perdere, ma lei. Per riuscire a scaricarmi
mi raccontò un sacco di bugie: disse che voleva concentrarsi sullo
studio, che doveva avere la mente libera per concentrarsi sui propri
obiettivi, e cose del genere.»
«Come sa che erano bugie?»
«Perché me lo ha detto
lei» replico. «L'ho rivista, dopo più di vent'anni, e mi ha
confessato ogni cosa. Abbiamo parlato a lungo, e mi ha spiegato che
non mi vedeva felice, e sapeva di essere la causa del mio disagio,
almeno in parte. Per questo mi aveva lasciato, per evitare che
diventassimo due estranei astiosi che si accusano a vicenda di
essersi rovinati la vita.» Mi fermo di nuovo per qualche istante,
mentre tutte le sgradevoli sensazioni di quei giorni lontani tornano
a galla, per molto tempo celate agli occhi, ma mai davvero
dimenticate. «Per qualche mese riuscii a cavarmela, a tirare avanti
nonostante il cuore spezzato, poi Richmond iniziò a starmi stretta.
In ogni angolo rivedevo qualcosa di noi, qualche misero dettaglio che
riportava alla mente il mio fallimento. Richmond iniziò a farmi star
male, così com'era già successo con il Mississippi. Dissi ai miei
che avevo bisogno di cambiare aria per qualche tempo, per schiarirmi
le idee e vederci più chiaro riguardo al mio futuro. Mamma sarebbe
stata disposta a prendere tutto e cambiare di nuovo città, ma la
pregai di restare. Si era sistemata bene, aveva accanto un uomo che
la amava e un lavoro che la rendeva felice... per la prima volta dopo
molto tempo la vedevo realizzata, davvero serena, e non mi sarei mai
perdonato se avesse dovuto rinunciare a tutto per seguire i miei
capricci. In fondo avevo diciotto anni, ero sulla strada per
diventare un adulto. E non potevo nemmeno costringere Jared a
partire: lui a Richmond si trovava bene, aveva ottimi voti e
splendide prospettive per il futuro. Per la prima volta nella vita
aveva iniziato a fare dei progetti seri per il futuro, aveva dei
grandi sogni da realizzare... se qualcuno doveva portargli via tutto,
quel qualcuno doveva essere la realtà, non suo fratello. Così,
caricai tutte le mie cose sulla Gremlin e partii. Come quando ero
bambino, andai ovunque e in nessun luogo. Trovavo lavoretti
che mi tenevano impegnato per qualche mese, e quando me ne stancavo
partivo e cambiavo città. Per tre o quattro anni andò tutto bene.
Mi sistemai in Tennessee, nei dintorni di Memphis, convinto di aver
seminato i miei vecchi guai» sospiro, passandomi una mano suglio
occhi come a cancellare la vergogna di quello che seguì.
«Ma come sempre, quando i
vecchi guai tolgono il disturbo ne arrivano di nuovi, vero?»
«Compresi quanto fossi
incapace di scegliermi gli amici, o anche solo di capire le persone»
rispondo. «In tutti i luoghi in cui sono stato, mai una volta mi è
capitato di fare amicizia con qualcuno che fosse meno incasinato di
me. Riuscivo sempre a scovare le persone più sbagliate con cui
legare. Mi vergogno di molte delle cose fatte in quel periodo.»
«Spero che la cosa non le
dispiaccia, ma ho fatto qualche ricerca su di lei, in previsione del
suo arrivo qui da noi» commenta, allungando un braccio verso la
scrivania per prendere alcuni documenti. «Si parla di un paio di
arresti e multe per rissa e guida in stato d'ebbrezza. E poi c'è un
fascicolo del Memphis Memorial Hospital, in cui si parla di un
ricovero per...» Si interrompe, quasi temesse di mettermi in
imbarazzo leggendo la diagnosi.
«Abuso di sostanze
stupefacenti» concludo. «Non si faccia problemi a dire le cose come
stanno, dottore. Cercava il punto più basso della mia vita? Lo ha
trovato» aggiungo, abbassando la testa. «Non saprei nemmeno dire
quante e quali schifezze avessi preso, se non mi avessero fatto un
esame tossicologico. Rimasi in coma per quattro giorni.»
«Ma poi si è rialzato»
mi fa notare lui. «Come può un ragazzo che si è completamente
perso risalire l'abisso e raggiungere la vetta?»
Ci scambiamo un lungo
sguardo, e quando finalmente trovo una risposta sento un sorriso
sincero illuminare il mio viso. «Jared.»
1Non
basta un raggio di sole in un cielo blu come il mare, perché mi
porto un dolore che sale, che sale. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone La
notte della cantante italiana Arisa,
contenuta nell'album Amami
(2012).
|
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Capitolo 3 *** 3 | Alla fine, quando la vita ti ha buttato giù, qui hai qualcuno che puoi stringere tra le braccia. ***
La lunga strada verso casa - 1
Il piano
originario prevedeva che pubblicassi nuovi capitoli ogni cinque
giorni, e in effetti il secondo capitolo è arrivato esattamente
cinque giorni dopo il primo. Solo che poi mi sono fatta due conti, e
ho notato che, pubblicando il terzo cinque giorni dopo il secondo,
avrei mancato di due giorni il compleanno del nostro batterista
preferito – ergo, ho deciso di posticipare la pubblicazione di due
giorni, rendendo questo terzo capitolo una sorta di “regalo di
compleanno” per Shannon. Ora, mi rendo conto che probabilmente
Shannon non finirà mai su EFP, nemmeno per sbaglio (su Jared non ci
conterei, per me è una fangirl nata XD), ma questo è il solo modo
che conosca per omaggiarlo (o offenderlo, viste le disgrazie che
invento sulla sua vita). Ergo, tutta questa pappardella serve
unicamente a spiegarvi i motivi della dedica speciale che ho aggiunto
più in basso.
Auguri
tardivi di una buona festa della donna, e come al solito in bocca al
lupo per la lettura!
Un
abbraccio,
EffieSamadhi
Per aspera ad astra
Dedico questo capitolo ad un
uomo che si è perso e ritrovato
sulle colline arse dal fuoco, in
una terra dalle mille luci.
Buon compleanno, Shannon.
Capitolo terzo
Alla fine, quando la
vita ti ha buttato giù,
qui hai qualcuno che
puoi stringere tra le braccia.1
Torino, 7 marzo 2014
«Sentiamo, allora. Cos'è
che dovresti dirmi?» Se per qualche minuto, distratta dallo scambio
di battute, era riuscita a distrarsi, adesso Alice si sente
ripiombare sulle spalle tutto il peso della sincerità che ha
finalmente deciso di dimostrare. Ha sempre condiviso l'ideale di
Jared, come lui ha sempre creduto che la verità vada condivisa,
svelata, gridata ai quattro venti... eppure, adesso che le
tocca davvero farlo, adesso che è la sua bocca a doversi
rendere tramite del vero, adesso che è il suo culo ad essere
in gioco, non si sente pronta ad affrontarne le conseguenze. E non è
tanto perché dovrà confessare di aver mentito, quanto perché con
Daria non si sa mai come andrà a finire: la ragione e l'esperienza
la portano facilmente a supporre che alla sua confessione seguirà
una sfuriata di proporzioni elefantiache, uno sfogo mai visto prima,
eppure allo stesso tempo qualcosa le dice che potrebbe anche non
andare così, che la verità potrebbe anche avvicinarle, renderle più
amiche di quanto già non siano, per quanto sembri impossibile che un
legame come il loro possa stringersi ancora di più – in fondo
entrambe sono cresciute in questi ultimi tempi, sono cambiate.
Questo Alice lo sa, lo vede ogni giorno di più: in fondo, Daria
avrebbe mai preso la decisione di partire, se qualcosa nel suo cuore
non fosse mutato? Questo Alice deve crederlo, altrimenti non
riuscirà a dire una sola delle mille parole che ha preparato in
attesa del proprio incerto destino.
*
Cedar Creek, 7 marzo 2014
«Jared saltò in auto e
corse a Memphis senza perdere tempo, quasi si fosse trattato della
sua vita, anziché della mia. Disse a mamma di restare a casa in
attesa di notizie e corse da me immediatamente» sussurro,
sfregandomi lentamente la fronte con il palmo della mano. «Lui è
sempre stato una persona buona, una di quelle persone pronte a
sacrificare ogni cosa per il bene di un amico o di una persona cara.
Io non sono mai stato così. Non so se sarei mai riuscito a
comportarmi come lui, a prendere una macchina e guidare per miglia e
miglia per... per un dannato drogato immobile in un letto d'ospedale»
concludo, rilassando la schiena contro lo schienale della poltrona,
quasi stremato da questa lunghissima mezz'ora di confessioni
personali e private.
«Probabilmente
suonerà azzardato da parte mia, ma... credo che Jared vedesse in lei
principalmente un fratello»
risponde il dottore, guardandomi ancora come se non riuscisse bene ad
inquadrare la mia personalità. «L'amore per un fratello riuscirebbe
a smuovere le montagne.»
«Non lo meritavo»
replico. «Avevo sbagliato, e ne stavo pagando le conseguenze. Non
meritavo di essere amato da Jared al punto di chiedergli un simile
sacrificio.»
«Beh, tecnicamente non è
stato lei a chiedere il suo aiuto. È stato Jared ad offrirglielo.»
«Mi perdoni, ma io non
riesco proprio a vederla in questo modo. Forse non sono stato io a
chiamarlo al telefono per dirgli di correre in Tennessee a recuperare
il fratello moribondo, ma è come se lo avessi fatto. Se io fossi
stato in grado di cavarmela da solo, non mi sarei ritrovato a
rischiare la pelle, e lui non avrebbe mai dovuto spingersi a tanto.»
«Ha usato la parola
'sacrificio'. Che cosa intende? Suo fratello dovette rinunciare a
qualcosa di importante?»
Mi passo distrattamente una
mano tra i capelli, sospirando. «A quei tempi frequentava una scuola
d'arte molto importante a New York. Voleva diventare un pittore,
all'epoca. I suoi insegnanti erano entusiasti di lui. Io non ci ho
mai capito molto, a dire il vero, ma che mio fratello fosse un
ragazzo pieno di talento era noto a tutti. Comunque, a quei tempi
stava per diplomarsi, ma rinunciò a sostenere l'esame finale per
correre da me, pur sapendo che non avrebbe potuto ripeterlo prima di
sei mesi. Ha letteralmente buttato nel cesso tre anni di lavoro per
correre a salvarmi, e di questo non l'ho mai ringraziato abbastanza.»
«Un gesto molto nobile,
c'è poco da dire. Se posso essere brutale... le chiese mai nulla in
cambio?»
«Nulla.
Sono passati vent'anni, e mai una volta mi ha rinfacciato quella
faccenda. Fu un gesto sincero, dettato dal cuore, così tipico
di lui... a costo di ripetermi, lui è una persona estremamente
buona. Non farebbe mai una buona azione per ottenerne qualcosa in
cambio.»
«La persona che ciascuno
di noi vorrebbe accanto» sorride il dottore. «Che cosa successe,
dopo? Quando uscì dal coma?»
«Rimasi in ospedale per un
paio di giorni, poi Jared insistette per riportarmi a Richmond.
Prendemmo le mie cose, le caricammo sulla sua auto e tornammo in
Virginia. Per tutto il viaggio di ritorno non disse una parola. Per
molti anni quello fu il momento più buio della mia vita. Temevo che
mi odiasse, e che non volesse mai più avere a che fare con me.
Credevo che mi avrebbe mollato a casa di nostra madre e che se ne
andasse via, lontano, per non tornare mai più.»
«Ma vent'anni dopo siete
ancora insieme.»
«Jared
è stato il miglior fratello del mondo, una di quelle persone che
bisognerebbe sempre avere accanto. Quando tornammo a Richmond ci
sistemammo a casa di mamma, ed ebbero inizio due settimane a dir poco
infernali.» Colgo la
sua espressione dubbiosa e comprendo di dover spiegare meglio.
«Quando ebbi il collasso e finii in ospedale, non era la prima volta
che mi facevo. Era una cosa che andava avanti già da qualche mese.
Soprattutto metanfetamine, più di rado cocaina. I medici erano
riusciti a tirarmi via dal sangue la maggior parte della merda che
avevo mandato giù, ma... insomma, lei lo saprà, con il lavoro che
fa, no? Non basta pulirti il sangue per liberarti il corpo.»
«La disintossicazione fu
difficile?»
«Non tanto quanto credevo.
Ma soltanto perché avevo con me mia madre e mio fratello, altrimenti
dubito che ci sarei riuscito. Mandarono a monte tutti i loro impegni
e le loro vite per aiutarmi a salvare la mia. Devo loro molto. Senza
il loro aiuto, non so proprio dove sarei. Probabilmente non sarei
arrivato ai trent'anni. Mi hanno salvato la vita.»
Lo vedo annuire, cambiando
posizione sulla sedia. «Molto bene. Sono felice che abbia
acconsentito a parlarmi di sé con tanta dovizia di particolari. Mi
fa pensare che lei si fidi di me, e che abbia davvero voglia di farsi
aiutare, il che, in un certo senso, dovrebbe rendere il mio lavoro
molto più semplice» aggiunge con un sorriso. «Se per lei va bene,
vorrei interrompere qui la seduta, e rivederla domani alla stessa
ora.»
Annuisco, rendendomi conto
di quanto sia in effetti stremato, dopo tutto ciò che ho
rivelato al dottore. Mai come in questo momento mi rendo conto che
persino un'attività semplice come parlare possa essere in
effetti la più grande fatica del mondo. «Per me va bene.»
«Perfetto» osserva,
alzandosi per spegnere il registratore, che avevo addirittura
dimenticato, preso com'ero dal racconto della mia vita. «Per questo
pomeriggio non le ho fissato alcuna attività. In fondo è il suo
primo giorno qui, e per quanto sia un fermo sostenitore del duro
lavoro, proprio non me la sento di metterla sotto pressione già da
subito. Vorrei che mi facesse un favore, però: usi il pomeriggio di
oggi e la mattina di domani per darsi un'occhiata in giro,
familiarizzare con l'ambiente. Se ci riesce, faccia amicizia con
qualcuno degli altri ospiti, o almeno provi a stabilire un contatto.
Che ci creda o no, qui al Safe Heaven ci sono persone con
problemi simili ai suoi, con una storia che ha molti punti di
contatto con il suo passato. So che può sembrare orribile, ma se ci
riesce, provi a parlare con un'altra persona nello stesso modo in cui
ha parlato con me. O se non vuole parlare, provi ad ascoltare.
Qui crediamo fermamente che la condivisione sia importante,
che l'ascolto sia fondamentale. Non le sto dicendo che risolverà
tutti i suoi problemi semplicemente ascoltando i guai altrui»
riprende dopo un attimo di silenzio, forse notando la mia espressione
poco convinta. «Sto dicendo che nei problemi degli altri potrebbe
trovare qualche suggerimento per risolvere i propri.»
«Ci proverò» annuisco,
alzandomi dalla poltroncina. «Grazie, dottor Connors» lo saluto,
stringendogli la mano.
«Grazie a lei, Shannon.»
*
Torino, 7 marzo 2014
«Allora, mi dici che è
successo o ti devo tirar fuori le parole con le pinze?» chiedo,
stupita dall'improvvisa reticenza di Alice, che di solito bisogna
pregare di tacere. «Sembra quasi che tu mi debba rivelare il terzo
segreto di Fatima» aggiungo, buttando un occhio verso il divano
soltanto per scoprire che, nel tentativo di scalarne la spalliera, il
gatto è rotolato sul pavimento.
«Più o meno» mormora
lei, aggiungendo un paio di cucchiaini di zucchero al contenuto della
tazza. «Circa un mese e mezzo fa ho fatto una cosa che... beh, che
forse non avrei dovuto fare.»
«Del tipo sbranarti
un'intera vaschetta di gelato da sola, o...»
«Tipo contattare una
persona che non avrei dovuto chiamare.» Aggrotto la fronte,
inzuppando un biscotto nella cioccolata, aspettando che Alice si
decida a continuare. «Un paio di giorni dopo essermi lasciata con
Federico, ho... ho rovistato nella tua scatola e ho trovato
l'indirizzo e-mail di Emma. L-la... la Emma dei... dei Mars,
insomma.» Rimango impietrita, un braccio bloccato a mezz'aria
nell'intento di mordere il biscotto. Apro e chiudo la bocca un paio
di volte, incapace di trovare parole adatte per esprimermi –
incapace, in realtà, di trovare un concetto da esprimere. «Lo
so, non avrei dovuto impicciarmi nei tuoi affari, ma... avevi appena
iniziato ad uscire con Marco, e io ero convintissima che non
avresti... le ho scritto che Shannon ti mancava, che lo amavi ancora
e che nel profondo del cuore ti stavi pentendo di averlo lasciato.»
Quasi senza accorgermene,
le dita si aprono e lasciano cadere il biscotto nella tazza. «Tu hai
scritto ad Emma Ludbrook per dirle che io sono ancora innamorata di
Shannon? Almeno dimmi che non ti ha risposto, ti prego. Ti prego, ti
prego, dimmi che...»
«Mi ha risposto» replica
lei, facendo spallucce. «Chiedendomi il numero di cellulare.»
Ringrazio il cielo di non
aver mangiato quel biscotto, altrimenti a questa ennesima confessione
mi starei sicuramente strozzando. «Emma ti ha chiamata al telefono?»
«Ma no, figurati, che vai
a pensare...» sorride lei, cercando di tranquillizzarmi. «Lo ha
fatto Jared.»
Il «Cosa?» che esce dalle
mie labbra è così potente da spaventare persino un tipetto indomito
come Solo, che attraversa di corsa il salotto e va a nascondersi
nella propria cuccetta accanto al termosifone. «Alice, per favore,
non prendermi in giro.»
«Non ti prendo in giro,
Daria. A voler essere sincera, ti ho già presa in giro a
sufficienza.»
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire che... che da
poco più di un mese scambio telefonate abbastanza regolari con...
beh, con Jared. Jared Leto, il tuo... ex cognato.»
Mi copro gli occhi con una
mano, indecisa su come sentirmi. Da un lato mi sento ferita dal fatto
che Alice abbia deciso di non coinvolgermi in questa storia, ma
dall'altro sento quasi di meritarmelo, visto quanto sono stata
rompiscatole e intrattabile in questi ultimi mesi. «Ma... ma di che
cavolo parlate, scusa?» domando all'improvviso, sorpresa quanto lei
che questo sia davvero il primo problema che mi sia venuto in mente
di esternare.
«Devo essere sincera? Di
te e Shannon, principalmente. Non abbiamo una conversazione molto
ricca. Più che altro, facciamo piani per provare a farvi rimettere
insieme.»
«Sembra di stare in una
commedia americana» sospiro. «La mia migliore amica e il fratello
dell'unico uomo che abbia mai veramente amato si alleano per
riportare la pace... sai come finisce di solito quel genere di film?»
la prendo in giro.
«A me non accadrà, non ti
preoccupare» replica lei. «Siamo troppo focalizzati su voi due per
lasciarci distrarre» aggiunge con un sorriso. «Ma c'è anche
un'altra cosa che è giusto farti sapere, anche se... beh, non sono
certa che la prenderai molto bene.»
«Beh, se le premesse sono
queste...»
Osservo Alice prendere
fiato e subito dopo cambiare idea, come se dire la verità non
sembrasse più un'idea così vincente. «So che probabilmente in
questo modo ti farò preoccupare ancora di più, ma... promettimi che
non ti arrabbierai con me.» Sospiro, chiudendo gli occhi per un
istante. «Lo so, non mi puoi perdonare a priori se non sai quello
che ho fatto, ma... andiamo, ci conosciamo da così tanto tempo
che... beh, un po' di fiducia sento di meritarmela. E poi in questo
caso non ho fatto nulla di male, sono solo una semplice e innocente
ambasciatrice.»
«E va bene, allora
sentiamo di che si tratta» mi arrendo, comprendendo quanto sia
importante per lei sentirsi al sicuro prima di procedere.
«Shannon è venuto a
Torino per riconquistarti» sputa fuori all'improvviso. «Alla fine
di gennaio. Jared gli aveva regalato un biglietto aperto per venire
qui in ogni momento, e lui... beh, ci è venuto. Solo che si è
appostato sotto casa tua e... beh, ha avuto la pessima idea di
scegliere una sera in cui tu eri a cena con Marco.»
«Io non... non sono certa
di aver afferrato. Vorresti gentilmente ripetere quello che hai
appena detto?» Le parole escono fuori lentamente, scandite sillaba
per sillaba, quasi fossi una bambina che sta imparando a parlare
soltanto ora.
Alice lascia perdere i
biscotti, alzando lo sguardo con aria incredibilmente seria, sapendo
che non sto fingendo lo smarrimento che vede nei miei occhi. «Alla
fine di gennaio, Shannon ha preso un aereo ed è corso da te. Secondo
Jared, lui... lui non ha smesso di amarti nemmeno per un secondo,
anche... anche se è rimasto ferito a morte.»
«Ha preso un aereo ed è
venuto qui?» ripeto, sull'orlo delle lacrime. Lei annuisce, senza
aggiungere altro. «Da quanto tempo lo sai, Alice?»
«Da quando è successo»
confessa. «Non sapevo come dirtelo. Quando è successo tu non... non
volevi nemmeno sentir parlare di Shannon, e poi c'era di mezzo
Marco, e... e tua madre, e tuo fratello. Se avessi aggiunto anche
questo, non... non so se saresti sopravvissuta.» Distolgo lo
sguardo, sentendo gli occhi farsi caldi e brucianti. Sono arrabbiata
e mi sento ferita, ma non a causa delle omissioni di Alice: a farmi
male è la consapevolezza che tutto questo dolore e questa solitudine
sarebbero potuti finire più di un mese fa, se soltanto non mi fossi
intestardita nel voler portare avanti la relazione con Marco. Se
quella sera fossi stata sola, invece di andarsene Shannon avrebbe
suonato il mio campanello, gli avrei chiesto scusa, ci saremmo
perdonati e sarebbe tornato tutto come prima. Ma è inutile, non
posso ignorare che quella sera Shannon mi abbia beccata con un altro,
e soprattutto non posso raccontarmi bugie: questo potrebbe rendere la
nostra riconciliazione molto difficile. «A che pensi? Non stai
pensando di uccidermi, vero?»
«No, non sto pensando di
ucciderti» replico con un breve sorriso. «Certo, mi avrebbe fatto
piacere sapere tutto questo prima, ma è inutile piangere sul
latte versato. E poi forse me lo merito, visti tutti i casini che
sono nati per colpa mia...» Prendo un respiro profondo e rimesto
nella tazza alla ricerca del biscotto affogato durante la confessione
di Alice. «Stavo solo pensando a... a come potrò presentarmi
davanti a lui chiedendo perdono. Insomma, con che faccia mi posso
presentare ad uno che per vedermi ha attraversato mezzo mondo e... e
mi ha trovata con un altro?»
«Se la cosa può farti
sentire meglio, anche Shannon ha avuto una storia, dopo essere stato
qui. Me ne ha parlato Jared. Ha detto che si conoscevano da tempo,
che erano già stati insieme, e che hanno voluto riprovarci.»
«Come si chiama lei?»
domando, i battiti accelerati in attesa di scoprire la verità.
«Christine, mi pare. Ma
non è durata molto, un paio di settimane e poi lui l'ha lasciata.
Stai bene? Come mai quella faccia?»
«Shannon è stato di nuovo
con Christine?» sussurro, quasi incredula. «Christine è... è la
sua ex storica, Alice. È la donna che ha dato il nome alla sua
batteria» spiego. «Ci credo che ha di nuovo voluto uscirci. È
stata la sua prima storia importante.»
«Sì... e dopo due
settimane l'ha mollata» puntualizza Alice, calcando su ogni parola
come se stesse cercando di farmi capire qualcosa. «Quello che
intendo è che l'ha mollata per te» aggiunge dopo un istante
di silenzio, forse comprendendo che non ci arriverei mai da sola.
«E tu come fai a dirlo,
scusa?»
«Quale parte di telefonate
regolari con Jared non ti è chiara?» mi rimbecca, allargando le
braccia. «Me l'ha detto lui, e per quanto possa sembrare strano, in
questo caso funge davvero da fonte autorevole» aggiunge,
mimando un paio di virgolette con le dita. «Jared lo conosce
abbastanza da saper interpretare certi suoi comportamenti o
decisioni... che poi non c'era molto da interpretare, in realtà.
Insomma, sembra che Shannon abbia detto chiaro e tondo che...»
«Che?»
«Che non riesce a
toglierti dalla mente, scema» ribatte lei. «Che non importa quanto
ci provi, continui a essere presente e a impedirgli di... andare
avanti.»
«Forse non dovremmo essere
così ottimiste» rispondo. «Insomma, potrebbe anche odiarmi per
questo.»
«Sì, è possibile... ma
io ci credo poco. Insomma, sarà che ho sempre avuto una visione
romantica delle cose, ma...»
«Tu non hai mai
avuto una visione romantica delle cose» la correggo.
«Beh, non quando
riguardano me. Ma se riguardano gli altri, sono molto più propensa a
credere nel lieto fine. Soprattutto in casi come questo. Se ve la
giocate bene, avete parecchie possibilità di vivere felici e
contenti.»
«Sarà, ma continuo a non
esserne convinta» sorrido, restando ferma a guardarla mentre si
ingozza di biscotti e tenta di rassicurarmi. «Continuo a pensare che
qualcosa andrà storto e tornerò a casa con la coda tra le gambe.»
«Certo, ammetto che gli
eventi non sono proprio favorevoli... ah, te l'ho detto che è stato
arrestato?»
Per la seconda volta, la
sorpresa mi fa perdere la presa sul biscotto. «Scusa?»
«Un paio di giorni fa
Shannon si è fatto un pio di birre di troppo e si è messo in
macchina. La polizia lo ha beccato e si è fatto una notte dentro. Il
giorno dopo Jared ha pagato la cauzione e la cosa è finita lì. Io
ho letto la notizia su internet, ma per i dettagli ho dovuto chiamare
lui.»
«Come diavolo è potuto
succedere?»
«Immagino che si sia
seduto al bancone di un bar e abbia scambiato verdi banconote
fruscianti con bevande alcoliche. Di solito funziona così, quando ti
vuoi ubriacare.» Le lancio un'occhiata decisamente obliqua, e lei fa
spallucce. «Se ti riferisci ai motivi che potrebbero averlo
spinto a comportarsi così... beh, anche se così dicendo potrei
ferirti, azzarderei che il motivo sei tu.» Nascondo il viso tra le
mani, indecisa tra il prendermi a schiaffi o il farmi prendere a
calci nel sedere. «Ma se sei in cerca di un vero motivo per
deprimerti, ho una notizia ancora più brutta. Beh, brutta è
relativo. Secondo Shannon è una grande idea.»
«Non sono in vena di
giocare agli indovinelli, Alice» sospiro, senza scoprirmi il volto.
«Si è chiuso in una
specie di clinica riabilitativa. Progetta di starci per un paio di
settimane.»
«Scusa?» esclamo,
tornando a guardarla, completamente sconvolta.
«Io cercherei di vederla
in maniera positiva» continua lei, senza badare a me. «Riconosce di
avere un problema e sta cercando di risolverlo.»
«Una... una clinica? Tipo
un centro di disintossicazione? Uno di quei posti in cui mandano
gente come... come...»
«Alcolisti e drogati?
Esattamente. Si è ricoverato stamattina.»
«No» sospiro, scuotendo
la testa e alzandomi. «No, no, no, non può fare una cosa del
genere. Shannon non è un... non è...»
«Daria, posso capire che
questa notizia ti sconvolga» mi interrompe lei, recuperando un
minimo di serietà. «Non mi stupirei nemmeno se dicessi che sei
spaventata. Nemmeno a me piace l'idea che si sia dovuto isolare dal
mondo per evitare di combinare un disastro, e se ti interessa nemmeno
Jared ne era entusiasta, ma devi cercare di vedere il lato positivo
della cosa.»
«L'uomo che amo si è
messo a bere per colpa mia, Alice!» sbotto, attraversando il salotto
per liberare Solo dal groviglio delle tende. «Quale dovrebbe essere
il lato positivo? Che non si sia ancora ammazzato?» La guardo
abbassare lo sguardo, e comprendo di aver esagerato, ma sono ancora
troppo sconvolta per pensare di chiederle scusa o abbassare i toni.
«Posso passare sopra il fatto che ti sia nominata paladina della
giustizia e abbia contattato Emma, posso sopportare che parli della
mia vita privata con Jared, ma non puoi venirmi a dire che una
persona a cui tengo soffre a causa mia e pretendere che la affronti
con un sorriso, perché non ci posso riuscire. Non adesso, non
stasera. Io non sono come te.»
«Né vorrei che lo fossi»
sussurra lei. «Scusa, forse ho sbagliato a pretendere che... che la
vedessi come la vedo io. Hai ragione, siamo diverse, ed è normale
che la pensiamo in modi diversi. È solo che... beh, speravo che per
una volta riuscissi a vedere il lato positivo. Perdona la franchezza,
ma è a causa del tuo eterno pessimismo che sei finita in questa
situazione.»
«Hai ragione, tutto questo
è soltanto colpa mia. Mi sono comportata da cretina, ho dato un
calcio a quella che probabilmente è l'unica occasione della mia vita
per essere completamente felice, ed è colpa mia se adesso Shannon è
nei guai. È colpa mia, quindi decido io come sentirmi
di fronte a tutto questo.» Non vorrei essere così dura, ma sono
così sconvolta e confusa da non riuscire a capire quale sia il modo
giusto di comportarmi o parlare. La osservo mettere giù la tazza,
sfregarsi le mani per far cadere le briciole e alzarsi, con uno
sguardo che non ho mai visto sul suo volto: è come se fosse stanca e
arrabbiata allo stesso tempo, come se avesse perso quella voglia di
combattere che l'ha sempre contraddistinta e resa diversa da me, e
come se contemporaneamente volesse saltarmi addosso e strozzarmi in
pieno stile Homer Simpson. È in questo momento che mi pento del mio
atteggiamento, delle mie parole e del mio tono, perché è adesso che
comprendo di non poterla perdere, in questo momento meno che mai.
«Scusa, Alice, non volevo essere così... così stronza. Ho parlato
senza riflettere.»
«No» replica subito, dura
come non mai. «No, hai ragione. È la tua vita, sono i tuoi
sentimenti, sono le tue decisioni» aggiunge, infilandosi sciarpa e
cappotto. «Sono stata una stupida a pensare di poter controllare le
tue emozioni. E non è nemmeno corretto da parte mia, visto che sono
le tue emozioni, e non le mie.»
«Alice, non te ne andare,
per favore. Ti chiedo scusa, non stavo ragionando» insisto, pur
sapendo di risultare la ragazzina lamentosa che non ho mai voluto
essere.
«Non me ne vado perché
sono arrabbiata, Daria» replica, rimettendosi a tracolla la borsa.
«Insomma, forse un po' sì... ma niente che non possa passarmi con
una notte di sonno. Me ne vado perché è tardi e domani devo alzarmi
presto.»
«Perché non riesco a
crederti?» sussurro, restando a distanza.
Lei fa spallucce,
infilandosi le mani in tasca, come fa sempre quelle poche volte che
le capita di non saper che dire. «Forse perché sei tu» risponde,
abbassando lo sguardo. «Grazie per la cioccolata e i biscotti. Ci
sentiamo.»
La lascio uscire senza dire
una parola di più, senza tentare nemmeno per un istante di fermarla,
e non appena resto sola inizio a darmi della stupida. Stupida,
stupida Daria, stupida idiota che non sono altro. Credo di aver
appena scoperto il mio vero talento: ferire le persone che mi stanno
accanto, e soprattutto quelle che sacrificano loro stesse per il mio
bene e la mia felicità. Se esistesse un Nobel per questa capacità,
nessuno lo meriterebbe più di me. Resto in piedi in mezzo al
salotto, sola e senza alcuna certezza, tranne quella di essere una
persona orrenda – persino Solo vuole starmi lontano, tanto che mi
conficca le unghie nel palmo pur di fuggire rapidamente dalla mia
presa e correre nel suo angolo, rintanandosi accanto al calduccio del
termosifone.
*
Cedar Creek, 7 marzo 2014
Sono quasi le cinque quando
esco nel parco, guardandomi attorno per bearmi, almeno per un
istante, della bellezza del mondo che mi circonda. Dopo la
chiacchierata con il dottor Connors mi sono chiuso in camera per
un'ora, così stanco da non avere nemmeno la forza di togliermi le
scarpe. Me ne sono stato disteso sul letto con gli occhi chiusi a
pensare a tutto ciò che è riuscito a tirarmi fuori in appena un'ora
di conversazione. Mi stupisco ancora di quanto sia riuscito ad
aprirmi nonostante mi trovassi in un ambiente sconosciuto insieme ad
un estraneo. Come Jared, non sono mai stato un tipo che ama parlare
di sé, certamente non con gente appena conosciuta, ma questo dottor
Connors sembra avere qualcosa di diverso, qualcosa in grado di
ammaliare al punto da conturbare anche l'anima più restia e
convincerla a parlare.
Dopo aver girovagato per
qualche minuto, riconoscendo i volti di molte delle persone che ho
già visto a pranzo, trovo una panchina vuota all'ombra di un grande
salice piangente, e dopo essermi assicurato di non avere nessuno
attorno mi ci distendo sopra, fissando lo sguardo sui sottili rami
carichi di foglie che si piegano quasi fino a toccare terra. Chiudo
gli occhi, chiedendomi quanto durerà questa pace, e già una decina
di secondi più tardi sento alcuni passi in avvicinamento. Persisto
nella mia posizione, sperando che il visitatore faccia dietro-front e
mi lasci solo, ma la mia idea non sembra dare i suoi frutti: sento il
rumore di qualcuno che si lascia cadere a terra con la stessa grazia
di un elefante, e quando apro gli occhi il mio sguardo incontra i
cristallini occhi verdi di una ragazzina che non sembra nemmeno
maggiorenne. «Ciao» esordisce con la stessa allegria di una vecchia
amica.
«Ciao» rispondo,
vagamente titubante. Non riesco a spiegarmi che cosa voglia questa
ragazza da me, e a dire il vero non so nemmeno se mi vada di
scoprirlo.
«Tu sei nuovo» aggiunge,
senza dare particolare inflessione alla frase.
«Sì, sono nuovo.»
«Non era una domanda»
ribatte. «Lo so già che sei nuovo. Non ti ho mai visto.»
«Questa struttura ospita
più di cento persone. Come fai ad essere certa di non avermi mai
visto?» replico, vagamente scocciato. Già non mi trovo in una
situazione piacevole, e l'idea di essere bollato come quello nuovo
non mi fa sentire meglio.
«Ho una memoria
fotografica, i volti mi si stampano in testa come istantanee. E
comunque non sei uno difficile da notare. Ti avrei già visto, se non
fossi arrivato qui da poco.»
«Stai cercando di dirmi
che sono un tipo diabolicamente affascinante?» la stuzzico, forse
sperando di riuscire ad irritarla e farla sloggiare.
«Direi particolare,
più che affascinante» replica lei, senza dar segno di volersene
andare. «E comunque almeno trenta persone si sono già accorte di
te. Sei un tipo famoso, Shannon» aggiunge con un altro sorriso.
«Robert Grady si vantava sempre di aver condiviso il ricovero con
Lindsay Lohan, ma adesso credo seriamente di poter vincere. Tra una
sciacquetta con le labbra di plastica e il batterista dei 30 Seconds
To Mars non c'è battaglia.»
«Non dirmi che sei una
nostra fan anche tu, non lo sopporterei» sospiro. «Scoprire che il
dottor Connors ascolta la nostra musica è stato un trauma abbastanza
grande.»
«Non mi definirei una
vostra fan. Ho sentito soltanto qualche canzone. Anche se quello che
ho sentito mi è piaciuto molto, non credo sarebbe corretto definirmi
così. Dei Muse sono una fan» aggiunge dopo un istante. «Per loro
sì, credo che potrei fare follie.»
Ora che sono certo non si
tratti di una pazza scatenata che vuole assediarmi per avere un
autografo o chissà che altro, decido che potrebbe non essere un male
provare a mostrarmi lievemente più accomodante, e magari tentare di
seguire il consiglio del dottore. «Tu sai chi sono io, ma tu chi
sei?» le domando, mettendomi a sedere.
«Mi chiamo Rosalita, e
prima che tu possa dire qualunque cosa... sì, sono stata chiamata
così in onore della canzone di Bruce Springsteen. Fu mio padre a
scegliere. Per fortuna mia madre ebbe la benevolenza di scegliere
Mary come secondo nome. Di solito è così che mi presento.»
«Potevi farlo anche con
me. Non avrei mai scoperto il tuo vero nome.»
«Hai una faccia che ispira
fiducia. Ero quasi sicura che non mi avresti preso in giro.»
«Parli con uno che è
stato preso in giro per una vita a causa del proprio nome. Non
riuscirei mai a fare lo stesso con qualcun altro. Perché Rosalita?
Tuo padre amava quella canzone?»
«Mio padre amava
Springsteen con ogni fibra del suo essere. Credo ne fosse innamorato,
in un certo senso. Lavorò per lui, sai? Fu uno dei suoi tecnici del
suono, per tre o quattro anni, quando era ancora all'inizio della
carriera.»
«Dev'essere stata
un'esperienza stupenda, se amava la sua musica. Perché smise?»
«Perché conobbe mia
madre, e il desiderio di stare accanto a lei fu più forte dell'amore
per il Boss» risponde con un sorriso. «Peccato che non durò molto.
Si separarono... nell'estate del 1986, credo. Io avevo soltanto sei
mesi.»
«Mi dispiace» replico,
sapendo quanto possa essere dolorosa una separazione. Poi mi rendo
pienamente conto di quanto ha appena detto, e sgrano gli occhi.
«Aspetta, quindi hai ventotto anni?»
«Perché, non si può?»
«No, è solo che tu...
beh, sembri molto...»
«...giovane?»
suggerisce lei. «Lo so, è uno dei miei difetti. Andare per locali è
sempre stata una tragedia. Agli ingressi mi fermavano sempre perché
pensavano usassi documenti falsi.» Si volta per qualche istante
verso di me, studiandomi con occhi curiosi. «Nemmeno tu dimostri
quarantaquattro anni, comunque. Potresti dichiararne una decina di
meno e ti crederebbero tutti. Certo, se non esistesse internet.»
«Ti assicuro che dentro di
me li sento tutti» replico, passandomi una mano tra i capelli. «Ci
sono giorni in cui ne sento anche di più.» Non risponde subito,
quindi mi prendo il tempo di osservarla meglio: quando, in un gesto
spontaneo, allarga le braccia per appoggiarsi alla panchina, noto le
cicatrici sui suoi polsi e piccoli segni circolari nell'incavo del
gomito. «Sei qui dentro perché hai cercato di ucciderti?» le
domando, senza preoccuparmi di risultare troppo aggressivo.
«Sei uno che non ha
bisogno di preliminari, eh?» ride, voltandosi di nuovo. «Una volta
le nascondevo, le cicatrici. E nascondevo anche i buchi. Poi ho
capito che non ha senso nascondere niente, perché quello che si vede
è quello che c'è, e quello che c'è è quello che siamo. Io sono
anche le mie cicatrici e i miei buchi, dunque perché nasconderli?»
«Non fa una piega»
sussurro, distogliendo lo sguardo.
«E poi ho capito che la
gente te lo legge in faccia, se sei stato un drogato o un aspirante
suicida. Che lo vogliamo o no, i nostri problemi ce li portiamo
scritti addosso.»
«Davvero? Allora ti sfido:
qual è il mio problema?»
Si volta e mi scruta con i
suoi grandi occhi verdi, e per la prima volta riesco a vedere ciò
che ad un primo sguardo mi era sfuggito: l'ombra delle occhiaie, la
pelle rovinata dagli abusi, le piccole rughe sulla fronte e attorno
alla bocca... e poi, all'improvviso, il suo sguardo diretto inizia ad
infastidirmi, come se non sopportassi di essere studiato a quel modo,
come se quegli occhi mi stessero bruciando. «Hai il cuore spezzato,
tutto qui» sentenzia infine. «Niente che non si possa risolvere.»
«Forse non sei infallibile
come credi. Non si entra in un centro di riabilitazione solo perché
si ha un problema sentimentale.»
«In parte hai ragione. Non
è una conseguenza diretta, ma il cuore spezzato è sicuramente la
causa principale. Sei qui perché bevi, o perché ti fai di qualcosa,
ma a qualunque cosa ti aggrappi, lo fai perché qualcuno ti ha ferito
a morte.» Nel mio silenzio, trova la risposta. «Ho ragione, hai il
cuore spezzato. Non credevo potesse capitare anche alle rockstar.»
«Questo dovrebbe
insegnarti che siamo persone esattamente uguali alle altre» sospiro,
passandomi una mano sugli occhi.
«Solo un po' più
conosciute e un po' più ricche» ribatte lei. «Non cercare di
fregarmi con la storia del siamo tutti uguali. Non sono una
ragazzina, a queste stronzate non ci credo. So come gira il mondo.»
*
Torino, 8 marzo 2014
Quando
entro in negozio, in ritardo di un generoso quarto d'ora, la prima
cosa che mi trovo davanti è un mazzolino di mimosa, e la mano che lo
regge è quella di Marco. «Auguri» sorride, porgendomi i fiori con
la stessa delicata goffaggine di un bambino di otto anni. «Festa
della donna» sottolinea, forse accorgendosi della mia espressione
dubbiosa.
«Fammi
capire: io arrivo in ritardo e tu mi regali dei fiori?» rispondo,
prendendo il mazzolino con un pizzico d'incertezza.
«Ti
posso anche perdonare, visto il giorno» replica lui. «E comunque è
la prima volta che fai tardi in cinque anni. Se non diventa
un'abitudine, posso anche passarci sopra.»
«Beh,
allora grazie» sorrido, appoggiando i fiori sul bancone accanto alla
cassa per dirigermi verso lo stanzino dove lascio di solito le mie
cose. «Anche se non ho tutta questa voglia di festeggiare, oggi.»
«Come
mai? È successo qualcosa?» mi domanda, tornando alle sue
occupazioni.
«Credo
di aver litigato con Alice» rispondo, raggiungendolo per aiutarlo a
sistemare i nuovi arrivi. «Insomma, non è stato un vero e proprio
litigio. Non è che ci siamo urlate contro o roba del genere... beh,
più o meno. Io ho alzato un po' la voce.»
«L'argomento
doveva starti molto a cuore, per farti arrivare a tanto. In cinque
anni che ti conosco, ti ho sentita alzare la voce soltanto una volta.
E quella volta, lo ammetto, mi hai davvero fatto paura.»
Sorrido,
ricordando l'episodio, ma è soltanto un istante: subito dopo abbasso
di nuovo lo sguardo, sentendomi in colpa come non mai. «Era un
argomento che stava a cuore ad entrambe, in un certo senso.»
«Ti
va di parlarne?»
«Non
credo sarebbe opportuno» rispondo. «Insomma, si parlava di uomini.»
«Di
uomini in generale, o di un uomo in particolare?» ammicca, facendomi
capire che non devo provare a mentirgli, perché sarebbe in grado di
smascherare ogni mia bugia.«Si parlava di quel poveretto a cui hai
spezzato il cuore a novembre?»
«Proprio
lui» mi arrendo, sapendo che l'unica alternativa valida è dire la
verità, per quanto possa risultare strano parlare d'amore con uno
che mi ha vista nuda. «Ho saputo che ultimamente ha qualche
problema, e sembra che la causa di tutti i suoi mali...»
«...sia
tu» conclude lui, trovando il coraggio di dire ciò di cui io fatico
ancora a convincermi.
«Già.
E questo, come puoi ben immaginare, mi fa stare da schifo.»
«Mi
sfugge come tu possa essere il problema, in realtà. Se vi siete
lasciati a novembre e i problemi sorgono ora, non...»
«Il
problema è che a fine gennaio lui è venuto a Torino per parlarmi, e
mi ha vista con te» sputo fuori, forse con troppa cattiveria.
«Dopodiché ha provato a rifarsi una vita, non ci è riuscito e ora
si è chiuso in una clinica per impedirsi di diventare un alcolista.»
Marco si blocca nell'atto di sistemare un libro sullo scaffale e
tiene lo sguardo fisso su di me, che dopo l'inutile esplosione di
pochi secondi fa mi sento incredibilmente stupida. «Scusa, non è
colpa tua. Non dovevo aggredirti così.»
«Beh, se si è attaccato
alla bottiglia perché ha creduto di averti persa dopo averti vista
con me, perdonami, ma è anche un po' colpa mia» ribatte. «Ma tutto
questo come ti ha portata a litigare con Alice, scusa?»
«Abbiamo
diversi punti di vista al riguardo. Lei insiste che dovrei vedere il
lato positivo, perché il fatto che sia entrato in clinica significa
che prende la questione molto sul serio, e che sta cercando di
risolverla in ogni modo possibile.»
«E
tu, invece? Come la vedi?»
«Io
non riesco a fare altro che sentirmi in colpa. Vedo tutto nero, come
al solito.»
«Beh,
siete sempre state diverse, tu e Alice. Ma questo non vi ha mai
impedito di continuare ad essere amiche. Essere amici comporta anche
questo, credo. Continuare a parlarsi nonostante le differenze di
opinioni. Sarebbe strano se foste sempre d'accordo su tutto. E anche
un po' noioso.»
«Lo
so, Marco, però... non lo so, stavolta penso di averle fatto del
male. Intendo... veramente.
L'ho trattata malissimo.»
«Avete
superato cose peggiori, e lo sai.»
«Sì,
lo so... ma non so davvero come potrà perdonarmi, questa volta. Sono
stata odiosa. Lo sono da mesi, in realtà. Non capisco come faccia
ancora a parlarmi. Sono mesi che le rovescio addosso le mie tragedie
e i miei sbagli, e lei continua a restare ferma a sopportare tutto. E
se questa fosse la goccia che fa traboccare il vaso?»
«Se
sei davvero così preoccupata di perdere la sua amicizia, io dico che
non dovresti perdere tempo. Dovresti correre subito da lei e dirle
tutto quello che stai dicendo a me. Non che non mi interessi quello
che stai dicendo, solo... non è a me che dovresti dirlo.»
«E
se non volesse starmi a sentire?»
«Daria»
replica in tono serio, lasciando perdere i libri e prendendomi il
volto tra le mani, «Alice è la tua migliore amica da quanto?
Quindici anni? Saresti davvero disposta a perdere un'amica preziosa
quanto lei per colpa di una stupida incomprensione che, tra
parentesi, è del tutto normale in un rapporto lungo quanto il
vostro? Saresti davvero disposta a lasciar perdere la tua unica,
vera amica soltanto
perché hai paura? La paura non porta da nessuna parte, Daria. La
paura non ti fa muovere un passo, e sicuramente la paura non ti aiuta
a rimettere a posto le cose.» Non riesco a rispondere, immobile tra
le sue mani e totalmente ipnotizzata dai suoi occhi celesti. «Quindi
fammi un favore: infilati il cappotto, prendi la borsa, corri da lei
e aggiusta le cose, adesso.»
«Ma
adesso devo...» tento di protestare.
«Adesso»
ripete, calcando il tono. «Te lo ordino in quanto tuo capo,
altrimenti ti licenzio. Adesso.»
*
Cedar Creek, 7 marzo 2014
«Allora,
lei chi è?» Alzo gli occhi al cielo, chiedendomi che cosa abbia
fatto di male nella mia vita precedente per meritarmi questo terzo
grado. «Oh, scusa, forse è un lui?» si corregge Rosalita, notando
la mia espressione.
«Non
hai sbagliato, è una lei. Ma non ho voglia di parlarne» taglio
corto, iniziando a maledirmi per aver stupidamente deciso di dar
corda a questa ragazza.
«Parlarne
ti farebbe bene. Il dialogo e la condivisione sono alla base di
tutto, secondo il dottor Connors. E il dottor Connors è uno di cui
ci si può fidare.»
«Ho
già parlato anche troppo, per oggi» sbuffo.
«Seduta
preliminare con il dottore, eh? Allora capisco che tu non abbia
voglia di parlare. Dopo il nostro primo colloquio sono tornata in
camera a pezzi, ho dormito fino all'ora di cena. Quell'uomo ha
qualcosa di strano, uno strano modo di fare che riesce a tirarti
fuori le parole come se fossero fumo, e prima che te ne possa rendere
conto gli hai spiattellato tutta la tua vita. È incredibile.»
«Ecco,
quindi lasciami in pace» ribatto piuttosto duramente. Se in un primo
momento interagire sembrava la giusta soluzione, adesso non mi sembra
più un'idea così geniale.
Rosalita
distende le gambe davanti a sé, e soltanto in questo momento noto
che è scalza. «Lo so che ci siamo appena conosciuti, ma vorrei
darti un consiglio da amica» riprende dopo qualche istante di
silenzio, voltando la testa verso di me, ma tenendo lo sguardo basso.
«So che prima ho detto quella cazzata sul fatto che non siamo tutti
uguali, ma qui dentro... beh, qui dentro credo che ci andiamo molto
vicino. Insomma, resto ferma sulla mia convinzione che siamo tutti
diversi, ma qui dentro abbiamo tutti una triste storia sulle spalle,
e questo ci rende simili, perciò non devi pensare di essere solo.
Insomma, per quanto la vita possa sembrarti inutile e schifosa, non
devi mai dimenticare che qui dentro c'è qualcuno che si sente
esattamente come te.»
*
Torino, 8 marzo 2014
Varco
la soglia dell'aula studio e individuo subito la massa bionda dei
capelli di Alice, china su un grosso tomo con un evidenziatore
stretto in mano e l'aria di chi non abbia ancora assunto abbastanza
caffeina. Mi avvicino lentamente, avanzando tra le file di banchi
semideserte, e al mio passaggio qualche testa si alza, ma non quella
della sola persona che mi interessi. Con la stessa lentezza prendo
posto davanti a lei, che continua a non muoversi, estremamente
concentrata. Faccio scivolare sul ripiano lucido del banco un
bigliettino, che non appena entra nel suo campo visivo fa scattare in
alto il suo sguardo. Quando i suoi occhi incontrano i miei una strana
smorfia si dipinge sul suo viso, come se fosse indecisa tra
l'ignorarmi o il prendermi a calci nel sedere. Poi guarda il
biglietto, lo prende con due dita e lo spiega lentamente, fissando lo
sguardo sulla carta stropicciata. Passano alcuni interminabili
istanti, poi abbassa il biglietto e torna a guardarmi, mentre la
strana smorfia muta in un sorriso. «Ma certo che ti perdono,
cretina» sussurra, allungando una mano per stringere la mia. «Sei
la mia scema di fiducia, no?»
1Alla
fine, quando la vita ti ha buttato giù, qui hai qualcuno che puoi
stringere tra le braccia. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Hold
on di Michael Bublé,
contenuta nell'album Crazy
Love
(2009).
|
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Capitolo 4 *** 4 | Conosco le certezze dello specchio, e il fatto che da quelle non si scappa, ed ogni giorno mi è più chiaro che quelle rughe sono solo i tentativi che non ho mai fatto. ***
La lunga strada verso casa - 1
Avrei
dovuto pubblicare questo capitolo già qualche giorno fa, ma questa
per me è stata una settimana molto difficile – non soltanto a
livello fisico, ma soprattutto a livello emotivo. Ho avuto una brutta
delusione, e nonostante avessi già il pezzo pronto non avevo proprio
voglia di mettermi al pc, sebbene voglia bene a tutti voi e ami
leggere i vostri commenti. Ora non sto meglio, anzi, credo mi ci
vorrà ancora molto tempo prima di riprendermi completamente, ma non
voglio che la mia tristezza ricada su di voi. Perciò, ecco a voi la
nuova puntata, sperando che vi trovi meglio di quanto stia io in
questo momento.
Buona
lettura,
EffieSamadhi
Per aspera ad astra
Capitolo quarto
Conosco le certezze
dello specchio, e il fatto che da quelle non si scappa,
e ogni giorno mi è
più chiaro che quelle rughe sono solo
i tentativi che non ho
mai fatto.1
Cedar Creek, 8 marzo 2014
«Se abbiamo tutti una
triste storia, qual è la tua?»
Rosalita tace, fissandosi i
piedi, e a vederla così sembra ancora più piccola di quanto non
sembrasse ad un primo sguardo, con la t-shirt che le sta troppo larga
sulle spalle e i capelli castani raccolti nella coda disordinata
tipica delle studentesse in crisi di nervi. «Vuoi la verità o vuoi
soltanto sentirti meglio?»
«Il dottor Connors ha
detto una cosa interessante, prima» rispondo, piegando le gambe per
abbracciarmi le ginocchia. «Ha detto che ascoltare i problemi degli
altri potrebbe aiutarmi a risolvere i miei. Quindi direi che voglio
la verità, assolutamente.»
«Allora avrai la verità»
replica, voltandosi ancora una volta per sorridermi. «La verità è
che i miei genitori non mi volevano. Sono stata uno sbaglio, un
errore, un incidente di percorso. Sono al mondo per colpa di un
preservativo difettoso, o di una serata fatta di troppa birra e
troppo fumo.»
«Come fai a dire una cosa
del genere?»
«Lo dico perché è
l'ultima cosa che mia madre mi ha urlato contro prima che uscissi di
casa sbattendo la porta» replica. «I miei si conobbero nel 1978,
durante una tappa di Springsteen a San Francisco. Mio padre era in
giro con la band da due anni, e mia madre era appena arrivata in
città dall'Oregon. Non so nemmeno come abbiano fatto ad innamorarsi.
Per quel che ne so, mio padre era uno che viveva di musica, e lei era
una ragazza cattolica appena sputata fuori da un collegio. Avrebbero
dovuto capire subito che non sarebbe finita bene, ma avevano
vent'anni, e a vent'anni uno pensa sempre di poter sconfiggere le
difficoltà.»
«So cosa vuoi dire»
sospiro, ricordando la mia storia con Christine, quel glorioso
periodo in cui ho creduto, almeno per un po', di aver trovato la mia
pace. E poi la memoria viaggia ancor più indietro, e ripenso a mia
madre, e al suo sogno infranto di costruire una famiglia insieme a
mio padre.
«Lui non l'ho mai
frequentato molto, ha fatto un paio di comparsate durante la mia
infanzia, ma niente di più» riprende, togliendosi una ciocca di
capelli dagli occhi. «E lei non mi ha mai parlato di lui, o della
loro storia. Tutto quello che so l'ho letto in uno dei suoi diari.
Passarono una settimana meravigliosa, poi lui dovette ripartire, e si
tennero in contatto come poterono. Ho letto alcune delle lettere che
lui le spedì. Parole meravigliose, dichiarazioni d'amore, promesse
di passare tutta la vita insieme... sembrava tutto così bello, sulla
carta.»
«Ma poi si ritrovarono,
giusto? Insomma, tu ne sei la prova.»
«Durante una pausa mio
padre tornò a San Francisco, e si misero insieme ufficialmente. Poi
lui dovette ripartire, e per un anno continuarono a vedersi di rado,
a telefonarsi, a scriversi. E poi lui capì di non poterle stare
lontano, lasciò la band e si stabilì in California. A volte vorrei
avere una macchina del tempo per poter tornare indietro e convincerlo
a non farlo. È stato il più grande errore della sua vita. Sono la
prova anche di questo» aggiunge con una strana smorfia. «Per
qualche anno andò alla grande. Da quanto ho letto, credo fossero due
hippie di prima categoria, sempre in giro a divertirsi con gli amici,
senza nessuna responsabilità, senza pensare alle conseguenze. Solo
che poi la vita iniziò a farsi difficile. Non puoi andare avanti per
sempre senza impegnarti seriamente in qualcosa.»
«Che cosa successe?»
«Dovettero trovarsi un
lavoro stabile, iniziare a mettere su casa. La società li voleva
inquadrati, seri, responsabili... ma essere persone responsabili non
era per loro. Finché non c'erano regole andavano alla grande, ma
quando la realtà iniziò a chiedere il suo tributo... non lo so,
credo che la magia si spezzò. Iniziarono a litigare sempre più
spesso, a rinfacciarsi ciò che non andava nel loro rapporto... mia
madre lo incolpava di non darle ciò che meritava, e lui incolpava
lei di avergli fatto lasciare la vita che sognava. Si mollarono e si
ripresero più volte, finché una delle loro rinconciliazioni non
portò... a me.»
«Quindi le cose non
andavano bene già da prima che tu nascessi?»
«Le cose non andavano bene
già dall'inizio, ma erano entrambi così accecati dall'idea di amare
qualcuno da non accorgersi di quanto fossero nocivi l'uno all'altra.
Quando mia madre scoprì di essere incinta di me provarono a
rimettersi insieme, ma non si può restare insieme soltanto perché
si aspetta un figlio. In un certo senso, è un bene che abbiano
deciso di troncare definitivamente quando ero così piccola. Mi hanno
risparmiato anni di litigi e scenate.»
«Ma non ti hanno
risparmiato i problemi» suggerisco.
«No, quelli no. Fin da
piccola, ho sempre avuto la sensazione che mia madre non fosse troppo
felice di avermi intorno. E non potevo neanche rifugiarmi da mio
padre, perché dopo la rottura era ripartito per cercare fortuna in
giro per il paese, e non avrei saputo da che parte iniziare a
cercarlo. Poi c'era tutto il resto del mondo» sospira.
«Che vuoi dire?»
«Ero una bambina senza
padre e vivevo in un quartiere popolare alla periferia della città.
Non ero esattamente il prototipo della bambina perfetta, per una
nazione ancora innamorata di Shirley Temple» spiega, guardandomi
come se questo avesse dovuto risultarmi ovvio fin dal principio. «I
bambini mi scansavano, e i genitori li incoraggiavano a starmi
lontani. Ero una reietta, mangiavo alla mensa dei poveri e non avevo
amici. A volte mi stupisco di non aver tentato il suicidio già a
otto anni» aggiunge, abbassando lo sguardo. «Poi arrivò
l'adolescenza, e le cose iniziarono ad andare ancora peggio. Anni e
anni di frustrazione e dolore iniziarono a venir fuori, e il più
delle volte li sputavo contro mia madre.»
«Non è così strano.
Quale adolescente non se la prende con i propri genitori, prima o
poi?»
«Nessun adolescente ha mai
avuto ragione quanto me, credimi. La maggior parte dei ragazzi si
scaglia contro i genitori senza motivo, soltanto perché cerca
qualcuno da incolpare per lo schifo che sente dentro, ma io avevo
tutte le ragioni per prendermela con lei. Non si curava per niente di
me, a malapena considerava la mia presenza. Non eravamo una madre e
una figlia che condividevano una casa, ma due prigionieri che
dividevano una cella. Lei mi odiava e io la detestavo. Finché, a
diciassette anni, le urlai contro così forte da spingerla a dirmi
che non mi aveva mai voluta. Come se non lo avessi capito da sola»
sorride. «Non me lo feci ripetere due volte. Presi le mie cose e me
ne andai senza voltarmi indietro. Presi un autobus per Los Angeles,
decisa a cambiar vita.»
«Mi crederesti se ti
dicessi che ho fatto più o meno la stessa cosa?»
Mi scruta a lungo, come se
stesse decidendo se valga la pena fidarsi o meno. «Ti credo» dice
infine. «Tutti quelli che vanno a Los Angeles lo fanno per cambiare
vita. Per cambiare vita, ci sono soltanto tre posti dove puoi andare:
Los Angeles, Parigi, oppure l'Italia.»
Abbasso lo sguardo nel
sentir nominare l'ultimo luogo, perché so che è vero, l'Italia ti
può cambiare, nel bene e nel male. «Una ragazza di diciassette anni
da sola a Los Angeles. Che cosa hai fatto della tua vita?»
«Mi sistemai in un
ostello, arrangiandomi come potevo, con qualche lavoretto qui e là.
Poi un agente mi notò, e disse che avrebbe fatto di me una modella.
Forse ora non si direbbe, ma a diciassette anni ero una ragazza
decisamente carina.»
«Sei ancora una
ragazza carina» replico, e per la prima volta nella mia vita non sto
facendo un complimento ad una donna per ottenere qualcosa in cambio.
«E che cosa successe, poi? Ti trasformò in una modella?»
Resta in silenzio per un
tempo che sembra lunghissimo, tanto che mi viene da chiedermi se sia
il caso di ripetere la domanda. «Tutti pensano che la cosa migliore
per essere una modella sia avere il fisico, ma la verità è che
l'unica cosa che serve davvero per fare carriera è dimenticarti chi
sei. Chiunque tu sia, qualunque sia il tuo passato, devi essere
disposta a dimenticare tutto e costruirti una nuova identità. Devi
essere pronta ad abbandonare la tua pelle e ad indossarne un'altra.
Devi lasciare quello che è stato, indossare una corazza e cambiare
totalmente vita, come se provenissi dal niente e il niente fosse
tutto ciò che conosci.»
«E per una ragazza dal
passato difficile come il tuo...»
«...fu una vera e propria
liberazione» conclude lei. «Non avrei mai sperato che qualcuno
piombasse nella mia vita chiedendomi di dimenticare tutto per
iniziare da capo. Era tutto ciò che chiedevo, niente di meno, niente
di più. Quindi iniziai a lavorare come modella, e in breve tempo
riuscii ad ottenere un sacco di contratti. Piacevo perché riuscivo
ad essere tutto ciò che mi chiedevano di essere, niente era mai
troppo difficile o strano per me. Ero una lavagna bianca da riempire
con qualunque tipo di scritta, senza mai un lamento o un capriccio.»
«E quando ricominciarono i
problemi?»
«Molto più tardi di
quanto mi aspettassi. Riuscii a cavarmela per quattro o cinque anni,
poi mi infilai in una relazione sbagliata, e persi quel... quella
scintilla che mi distingueva dalle altre.»
«Un fotografo, un manager
o un modello?» domando, convinto che la risposta si nasconda dietro
una di queste opzioni.
«Una modella, in verità»
mi corregge, spiazzandomi. «Anya, una splendida ragazza norvegese.
Alta, bionda, con due occhi color del cielo. Una di quelle visioni
che paralizzano il traffico, quando attraversano la strada. È stata
il mio primo amore.»
«Sei lesbica?» sputo
fuori all'improvviso, sorpreso per questa rivelazione. Come Jared,
non sono mai stato sensibile ai pregiudizi: mamma ha sempre avuto
amici omosessuali, sono sempre stato abituato all'idea che al mondo
ognuno ha il diritto di vivere come vuole, ma scoprire questo lato di
Rosalita in qualche modo mi sconvolge. Da quando ha iniziato a
raccontarmi la sua storia ho creduto che il suo più grande desiderio
fosse uniformarsi al resto del mondo, scomparire tra la folla per
raggiungere finalmente la pace, e ora invece scopro che...
«Bisessuale è il
termine più adatto» mi corregge. «In realtà non so nemmeno se sia
corretto definirmi così, visto che quella con Anya è stata l'unica
relazione omosessuale della mia vita. Prima e dopo di lei ci sono
stati soltanto uomini. Però non me la sento di ridurla ad una
parentesi. È stata una parte importante della mia vita. È anche per
lei che sono quello che sono.»
«Scusa per il mio tono.
Non vorrei che pensassi che sono un bigotto, perché non è vero.
Sono sempre stato convinto che ognuno debba vivere secondo i propri
istinti, qualunque essi siano.»
«Non ho pensato nemmeno
per un istante che fossi un bigotto, tranquillo. E non sono nemmeno
offesa, se è per questo. La gente reagisce sempre in strani modi,
quando tiro fuori questa storia. Persino il dottor Connors ha fatto
una faccia strana, quando gliene ho parlato. E penso tu abbia capito
che non è uno che si lascia sconvolgere facilmente.»
«Il sospetto mi era
venuto» sorrido. «Ma racconta, com'è andata a finire con questa
splendida modella norvegese?»
«Non bene. Io facevo la
modella perché mi piaceva l'idea di potermi svegliare ogni giorno
come una persona diversa, lei invece lo faceva perché le era stato
imposto dalla famiglia. Suo padre era una fotografo, sua madre una ex
cover girl. Con una figlia tanto bella, ad entrambi era parso
ovvio che dovesse seguire le loro orme, così a quattordici anni
l'avevano spinta su una passerella. Quando l'ho conosciuta aveva la
mia stessa età, ed era stata nel giro per un terzo della propria
vita. Praticamente un'eternità, quando hai appena vent'anni.
Conoscerla è stato meraviglioso, in un certo senso, perché sapeva
di quel mestiere più di tutte le altre messe insieme. Ma d'altro
canto, amarla è stata la mia rovina. Non era una bella persona, una
volta scesa dalla passerella. Era torbida, scura, cupa. Lei era tutto
quello da cui per tanto tempo ero riuscita a fuggire. Quando la
incontrai per la prima volta, compresi subito che avrei dovuto starle
lontana, che se non fossi stata attenta mi avrebbe trascinato a
fondo, ma non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Quando era
sulla passerella sembrava un angelo, così chiara, così pulita... mi
lasciai abbagliare, e quando mi accorsi che in lei non c'era altro
che male ormai era troppo tardi. Mi aveva presa.»
«Fu allora che cominciasti
a...» Indico i buchi sulle sue braccia, senza trovare il coraggio di
esprimere il termine adatto.
«Cominciai con la cocaina»
rispondo. «La prima volta fu quasi per gioco, per dimostrare a me
stessa che ero abbastanza forte da non cascarci.»
«Ma non si è mai più
forti di quello schifo, vero?»
Rosalita scuote la testa,
piegando le gambe per portarsi le ginocchia più vicine al petto,
quasi per proteggersi. «Il gioco si fece presto troppo difficile per
me. Non conoscevo le regole, e dalla cocaina passai all'eroina. Non
mi bucavo sulle braccia, le prime volte. Troppo difficile nascondere
i segni» spiega. «Anya mi mostrò come bucarmi in modo che non si
vedessero i segni quando eravamo al lavoro, ma presto i sintomi
iniziarono a vedersi comunque. Eravamo distratte, assenti, non
riuscivamo a concentrarci. Lei era molto più affermata di me,
nessuno avrebbe mai osato accusarla di essere un'eroinomane, ma io
ero una delle ultime arrivate. Ci misi poco a perdere tutti i
contratti, uno dopo l'altro. Entrai in un centro di
disintossicazione, e in qualche modo riuscii a ripulirmi, ma le
agenzie avevano sparso la voce che ero compromessa, e nessuno voleva
darmi un lavoro. E poi, a darmi il colpo di grazia arrivò la notizia
che Anya si era suicidata.»
«Cosa?»
«Quando mi cacciarono,
finì anche la nostra relazione. Io l'amavo, ma lei non ricambiava
completamente il sentimento. Stavamo insieme principalmente perché
facevamo lo stesso mestiere e avevamo entrambe la passione per le
siringhe. Quando persi i contratti ci lasciammo, e persi quasi ogni
contatto con lei. Pochi mesi dopo, quando l'agenzia minacciò di
mandare a casa anche lei, Anya si iniettò una dose mortale. Fu sua
madre a trovarla, con la siringa ancora infilata nel braccio.»
«Immagino che la notizia
ti abbia distrutta.»
«Ricominciai a bucarmi. Mi
sembrava la sola cosa sensata da fare. Me ne fregai di non mostrare i
segni, mi bucavo ogni volta che potevo, forse nella speranza che ogni
dose fosse quella fatale. Ogni volta scoppiavo in lacrime, ogni volta
speravo di chiudere gli occhi per sempre e ritrovarmi di nuovo con
lei. Adesso, quando ci ripenso mi dico che forse non ho mai
desiderato davvero morire, altrimenti sarei riuscita ad
ammazzarmi.»
«Come sei passata dal
desiderio di morire a questo posto?»
«Una volta sono andata
vicina a rimetterci la pelle. Ero arrivata in fondo all'abisso, più
giù di così non potevo andare. Per procurarmi i soldi necessari
facevo di tutto: rubavo, la davo in giro come se non fosse mia...
avevo trovato un gruppetto di gente con i miei stessi problemi, mi
ero trasferita a vivere in un capannone abbandonato, in mezzo allo
schifo di gente che come me non pensava di avere alternative. Un
giorno la polizia fece una retata, e pur di non farmi beccare mi feci
una dose più forte del solito. Solo che riuscirono a portarmi in
ospedale prima che crepassi.»
«E poi?»
«Ti sei mai
disintossicato?»
«Una volta» ammetto dopo
un breve silenzio. «Avevo vent'anni, vivevo a Memphis. Buttavo giù
metanfetamine come se fossero caramelle e ogni tanto mi facevo una
sniffata di coca. Quando collassai quelli che credevo miei amici mi
scaricarono davanti al pronto soccorso e se la diedero a gambe. Mio
fratello venne a prendermi e mi portò a casa, in Virginia. Ci misi
due settimane a ripulirmi. Lui e mia madre mi rimasero accanto per
tutto il tempo.»
«Disintossicarsi non è
solo una questione fisica» riprende lei. «Devi anche essere
circondato dalle persone giuste, devi sentire che qualcuno ti
è vicino, altrimenti è tutto inutile. La prima volta ero in un
centro, fu più facile. La seconda volta mi disintossicai in galera.
Un'esperienza orrenda. Mi avevano messa in isolamento, tutti i giorni
veniva un dottore a visitarmi. Mi buttava un paio di pastiglie sul
cuscino, ma se ne fregava se non le prendevo. Ero completamente da
sola.»
«Come sei riuscita a
sopravvivere?»
«Il mio corpo si rifiutava
di smettere di lottare, credo. Ogni volta che aprivo gli occhi
pregavo che fosse il mio ultimo giorno sulla terra, ma il mio cuore
non voleva smettere di battere.»
«E come sei finita qui?»
«Mi feci un paio di mesi
dentro, poi mi rilasciarono. Una detenuta che aveva avuto guai simili
ai miei mi diede il numero del dottor Connors. Disse che lui poteva
aiutarmi. Non ero convinta che potesse farcela, all'inizio. Credevo
che la mia vita fosse segnata, che sarebbe successo qualcosa e che
avrei ricominciato a bucarmi, e che alla fine sarei finita come Anya,
ma lei mi assicurò che se c'era una sola persona in grado di
aiutarmi, quella persona era il dottor Connors.» Sorride,
distendendo di nuovo le gambe, e anche se non mi sta guardando so che
il suo volto è di nuovo sereno, come se stesse preparandosi a
raccontare il lieto fine di una triste storia che fino a pochi minuti
fa non sembrava destinata a finire bene. «E in effetti incontrarlo
mi ha cambiato la vita. Senza di lui sarei finita male, questo è
poco ma sicuro.»
«Da quanto tempo sei qui?»
«Da quando il dottore ha
fondato il Safe Heaven. Saranno tre anni a maggio.»
«Tre anni?» ripeto, ancor
più sorpreso di quando mi ha raccontato della sua relazione con la
supermodella norvegese.
«Lo so, sembra un sacco di
tempo» sorride. «Ma questa non è una clinica come tutte le altre.
È più una comunità, una specie di... non lo so, una casa-famiglia.
Non sono l'unica a vivere stabilmente qui. Ci sono molte altre
persone che hanno scelto di fare del Safe Heaven la propria
casa. Persone che non possono o non vogliono tornare nel mondo,
perché hanno paura di ricadere nei loro errori e distruggere
quell'equilibrio che hanno impiegato tanto a recuperare.»
«Senza offesa, ma a me
sembra tanto un modo per evitare di affrontare la vita.»
«Nessuna offesa. So che
può suonare come... non lo so, come una soluzione facile, un modo
per rendersi la vita meno difficile. Ma tu non hai idea delle vite
spezzate che si sono trascinate fino a qui. Che tu ci creda o no, ci
sono persone ancora più disperate di me, persone con storie ancora
più tristi, persone che fuori da quei cancelli non sopravvivrebbero
un'ora. Persone che non sono in grado di affrontare il mondo, perché
il mondo intero è troppo grande, troppo buio, troppo complicato.
Persone che riescono ad affrontare un solo giorno alla volta, un po'
come me.»
«E come riesci a pagare la
retta?»
«Favori sessuali,
naturalmente» ribatte, ma dal suo sorriso capisco che scherza. «Al
dottor Connors piace farsi carico di qualche caso probono, di tanto
in tanto. Io sono uno dei pazienti gratuiti. Ma naturalmente mi
sentirei in colpa a starmene qui senza far niente, quindi gli do una
mano, per quanto posso. Aiuto in cucina, faccio qualche pulizia, a
volte mi chiede anche di dargli una mano con i pazienti nuovi,
soprattutto con le ragazze. Ci sono ragazze che faticano ad aprirsi,
che hanno attraversato momenti davvero difficili, e allora il dottore
mi chiede di provare a stabilire un legame, di parlare con loro. A
volte riescono a fidarsi di me e si confidano, altre volte invece
restano immobili ad ascoltare e non riescono a sbloccarsi, ma bisogna
pur fare un tentativo, no?»
«Quello che fai è molto
bello» rispondo, seriamente convinto di quanto sto dicendo. Sono
stato un uomo problematico per la maggior parte della mia vita, e so
quanto sia bello trovare qualcuno in grado di comprenderti sul serio,
qualcuno che abbia affrontato prove simili alle tue e capisca di che
si sta parlando. «Quante persone sei riuscita ad aiutare?»
«Non abbastanza,
purtroppo. So come funziona la mente delle persone che hanno un
problema. Ad alcune di loro non piace essere aiutate, preferiscono
continuare a sguazzare nell'autocommiserazione e vivere da
incomprese. Non è facile, provare ad aiutare la gente.»
Segue un lunghissimo minuto
di silenzio, durante il quale entrambi fissiamo lo sguardo su un
punto lontano, come a voler cercare una soluzione ai nostri guai
nell'ambiente che ci circonda. «Sei venuta a parlarmi perché te
l'ha chiesto il dottor Connors?» le domando ad un certo punto. «So
che può sembrare una domanda strana, ma visto quello che mi hai
appena raccontato mi sembra un dubbio legittimo.»
«Più che legittimo»
replica, voltandosi di nuovo verso di me. «Però no, non è stato il
dottore a chiedermi di farlo. È stata una mia decisione. Se può
esserti di conforto, ci ho pensato su parecchio prima di avvicinarmi.
Avevi l'aria di uno che vuole starsene per conto suo.»
«In effetti, non mi
sentivo molto in vena di fare conversazione. Che cosa ti ha spinto a
farti avanti?»
«La vita mi ha resa
spericolata. Non potevo tirarmi indietro dal fare un tentativo»
risponde, facendo spallucce. «E poi sei la prima celebrità che
incontro. Non potevo farmi sfuggire l'occasione di conoscerti.»
All'improvviso si alza, spolverandosi i pantaloni con entrambe le
mani. «Adesso devo andare, ho promesso a Melissa che l'avrei aiutata
a tingersi i capelli. Ci vediamo in giro, Shannon.»
La saluto con una semplice
alzata di mano e la osservo andare via, camminando con un passo
leggero che sembra non avere niente a che fare con la ragazza dal
passato problematico e triste che è. Sospiro, rendendomi conto che
il dottore aveva ragione: a volte ascoltare i problemi degli altri
può aiutare a far luce sui propri, e anche se la soluzione di tutti
i miei guai è ancora lontana, l'incontro con Rosalita è riuscito,
almeno per qualche minuto, a ricordarmi che al mondo esiste gente che
è caduta ancora più in basso di me.
*
Torino, 8 marzo 2014
Durante
la nostra riconciliazione mattutina, mentre prendevo le mie cose e mi
accingevo a tornare al lavoro, Alice mi ha promesso che stasera
sarebbe venuta a casa mia per aiutarmi a fare la valigia. La
aspettavo per le nove, ma conoscendo il suo cronico ritardo me la
sono presa comoda con la cena e i piatti, e quando alle nove meno
dieci sento suonare il campanello ho ancora le mani immerse
nell'acqua saponata, impegnata a scrostare i resti del disgustoso
risotto che ho tentato di prepararmi. «Sei in anticipo, mi devo
preoccupare?» la saluto, aprendo la porta mentre mi sto ancora
asciugando le mani.
«Mai
stata meglio» replica lei, facendosi avanti reggendo una scatola che
conosco molto bene. «Sto solo cercando di essere la migliore amica
ideale, così in futuro ti risulterà più difficile trattarmi male.»
«E
quella che ci fa qui?»
«Ho
pensato fosse ora di riammetterla in casa tua, visto che hai deciso
di riammettere Shannon nella tua vita. E poi a casa mia rischiava di
essere soffocata dagli appunti per la tesi» risponde, appoggiando la
scatola sul bancone per liberarsi le mani e spogliarsi del cappotto.
«Beh,
a dire il vero non è che abbia deciso di riammettere
Shannon nella mia vita» la correggo. «Più che altro spero che lui
decida di riammettere me
nella sua.»
«Questione
di semantica» ribatte lei, facendo spallucce e alzando gli occhi al
cielo. «Solo, tesoro!» aggiunge subito dopo, inginocchiandosi per
prendere tra le mani il gatto, che non appena l'ha vista ha iniziato
a zampettare verso di lei in cerca delle coccole che era certo di
trovare.
«Questo
ingrato sembra volere più bene a te che a me» osservo, riappendendo
lo strofinaccio umido al gancio.
«Ci
credo, con il nome orrendo che gli hai affibbiato» replica,
stringendosi al petto il gatto, che inizia a fare più fusa del
solito. «Allora, sei pronta a fare la valigia?»
«Non
c'è una domanda di riserva?» scherzo. «Non lo so, Alice, sai che
non ho mai fatto una valigia in vita mia.»
«Vero,
ma hai la fortuna di avere un'amica perfettamente organizzata che ti
aiuterà nell'arduo compito di preparare tutto il necessario.»
«Davvero?
Avvertimi, quando arriva.» Mi risponde con una smorfia divertente, e
dalla risata che subito dopo coinvolge entrambe capisco che quello di
ieri sera è stato soltanto un incidente, e che tra noi le cose sono
tornate quelle di prima – se non addirittura migliorate.
«Immagino che non avrai la pazienza di aspettare che finisca i
piatti, perciò direi di darci da fare» aggiungo, prendendo la
scatola e avviandomi verso il piano di sopra.
*
Los Angeles, 8 marzo 2014
«Pensavo
che domani potremmo andare a trovare Shannon. Che ne dici?» Jared
annuisce con aria mesta. È passato appena un giorno da quando lo
hanno lasciato a Cedar Creek, ma sembra trascorso almeno un anno. Per
quanto sia già successo di restare separati, questa volta l'assenza
di contatti ferisce il cantante più che mai. Constance si avvicina,
sorridendo divertita nel vedere il figlio minore disteso sul divano
con una mano tesa ad accarezzare le orecchie di Bruce. Da
ventiquattro ore i due sembrano essere diventati una sola entità,
entrambi tristi e preoccupati per il destino di Shannon. «So che ti
ferisce il fatto che non abbia ancora chiamato, ma sono certa che sta
bene. Avrà soltanto bisogno di un paio di giorni per ambientarsi.»
Tende una mano per accarezzargli i capelli, e Jared, che di solito
odia che gli si tocchi la testa, a quel contatto chiude gli occhi,
ricordando di quando era bambino e quel gesto era la sola cosa che lo
aiutasse ad addormentarsi. «Sta attraversando un momento difficile,
ma lo supererà.»
«So
che suonerà egoista da parte mia, ma nemmeno per noi è un gran
momento.»
«Non
suona affatto egoista, Jay. Anzi, sono d'accordo con te. Siamo una
famiglia, e una delle caratteristiche delle famiglie è proprio
questa: quando qualcuno soffre, anche gli altri soffrono.»
«Quello
che mi fa stare peggio è che non sono in grado di aiutarlo. Mi sono
sempre vantato di essere bravo ad aiutare le persone, e proprio
quando dovrei riuscirci meglio non... non so che fare.»
«Lo
stai già aiutando, Jared. Aiutare gli altri non sempre significa
fare qualcosa. Dargli
il tuo sostegno e accompagnarlo al Safe Heaven
è stata una grandissima prova di quello che sei disposto a fare per
aiutarlo a rimettersi in piedi.»
«Mamma,
ti devo dire una cosa» ribatte in fretta l'uomo, mettendosi a sedere
all'improvviso. «Ho promesso che avrei mantenuto il segreto, ma a te
lo devo dire.»
«Se
è un segreto, non credo che dovresti...»
«Daria
verrà a Los Angeles, la prossima settimana. Arriverà mercoledì
mattina, con il volo delle otto» la interrompe il cantante, incapace
di tenere oltre la bocca chiusa.
«Scusa?»
«Daria
verrà a Los Angeles, mercoledì prossimo. Ovvero tra quattro giorni.
Quattro giorni e mezzo» si corregge, facendo un rapido calcolo.
«Da
quando lo sai?»
«Un
paio di giorni. Shannon non lo sa, ed è importante che non lo
sappia.»
«Perché
non dovrebbe saperlo, scusa? E tu
come fai a saperlo? Ti ha chiamato?» domanda a raffica Constance,
sconvolta dalla notizia, aggirando il divano per sedersi accanto al
figlio.
«Da
un paio di mesi mi sento con la sua migliore amica, Alice» confessa
lui, guardandosi per un istante le punte dei piedi. «Sarebbe una
storia troppo lunga da raccontare» aggiunge subito dopo, incontrando
lo sguardo confuso della madre.
«Beh, io ho tempo e tu non
hai niente di importante da fare, perciò sputa il rospo.»
*
Cedar Creek, 8 marzo 2014
A cena mi guardo intorno
alla ricerca dello sguardo di Rosalita, senza trovarlo. È strano
come ascoltare il racconto di una sconosciuta sia riuscito a farmi
dimenticare, anche se soltanto per mezz'ora, il peso dei miei
problemi. Solo dopo essere rimasto solo ho compreso appieno il valore
del consiglio datomi dal dottor Connors nel primo pomeriggio: aprire
non soltanto le orecchie, ma anche il cuore e la mente, e impegnarsi
per dare il giusto peso alle questioni che ci affliggono. Mi rendo
conto solo adesso che il dottore voleva impartirmi una lezione, e che
è riuscito a farlo senza che riuscissi a scovare l'inghippo: voleva
che mi mettessi seduto a ripensare alla mia vita, a tutto ciò che è
stato, a tutte le persone che ho incontrato, ma soprattutto voleva
che mi impegnassi a rimettere tutto in discussione, suddividendo i
miei problemi in ordine di gravità, così da poterli affrontare con
più efficacia.
Ci è voluto un intero
pomeriggio, ma finalmente sono riuscito ad individuare quello che è
il mio problema più importante: la rottura con Daria. Non tanto per
il fatto di essere stato lasciato, cosa che non mi era mai successa
ma che avevo messo in conto, quanto perché per tutto il breve tempo
della storia con lei avevo iniziato ad immaginarmi come un uomo
diverso: dal giorno in cui l'ho incontrata, ogni mattina mi sono
svegliato domandandomi come sarebbe stato vivere accanto a lei,
o se sarei riuscito a limare i miei spigoli per adattarmi alle sue
esigenze. Siamo stati insieme per un mese soltanto, vedendoci poco,
forse non abbastanza per tenere in piedi una storia, ma per tutto il
tempo ho pensato che lei fosse la ragazza giusta, quell'unica donna
al mondo in grado di starmi accanto per il resto della vita, quella
persona che tutti passano la vita a cercare, spesso senza trovarla
mai.
Il mio più grande
problema, ora lo so, è questo: in poco meno di un mese ho reso Daria
la mia dea, la mia guida, la mia stella polare; e ora che lei non c'è
più, ora che lei ha detto basta ed è diventata la donna di un
altro, la mia mente non riesce a riprendersi dalla convinzione che
senza di lei sarò perduto.
*
Los Angeles, 8 marzo
2014
Quando finalmente Jared
tace, Constance non sa far altro che sospirare e strofinarsi gli
occhi con una mano, priva di parole. Uno dei suoi pregi è sempre
stato quello di riuscire a trovare le parole giuste per ogni momento,
ma la storia appena raccontata da suo figlio è troppo anche per una
donna forte quanto lei. «Quindi tu, un uomo che a malapena
riesce a tenere la bocca chiusa quando si tratta dei suoi
segreti, hai accettato di tacere riguardo ad una notizia del genere?»
riesce poi a dire dopo un paio di minuti di silenzio.
«Beh, per adesso me la sto
cavando abbastanza bene. Non l'ho ancora detto a nessuno» replica
lui, che pur trovandosi d'accordo con la madre circa la sua scarsa
riservatezza sa di aver superato se stesso, questa volta.
«Non l'hai detto a
nessuno? E io chi sono, un soprammobile?»
«Tu sei la mamma, e con la
mamma non si dovrebbero mai avere segreti» ribatte l'uomo con un
sorriso volutamente abbagliante e anche vagamente infantile.
«Ruffiano» lo rimprovera
scherzosamente lei, mettendogli una mano sulla spalla per fingere di
spingerlo lontano. «Allora, finisci di raccontare i dettagli: hai
consigliato loro un buon albergo? E con i biglietti sono a posto?
Hanno bisogno di una mano per qualcosa?»
«Biglietti e documenti
sono in ordine, non ti preoccupare. A meno che non nascondano fucili
da assalto nel bagaglio a mano, non dovrebbero avere problemi. Per
l'albergo, invece, la loro intenzione era di guardarsi attorno una
volta arrivate qui, ma io ho pensato di ospitarle a casa mia.»
«Accetti di ospitare due
estranee in casa tua?» si stupisce Constance, ben consapevole di
quanto Jared sia geloso dei propri spazi e delle proprie cose.
«Questo desicamente non è da te.»
«Non sono due estranee»
la corregge lui. «Insomma, Daria già la conosco. Non ci siamo
frequentati molto, ma posso dire di conoscerla abbastanza bene, ed è
una ragazza a posto. E Alice è la sua migliore amica, quindi nemmeno
lei dovrebbe essere tanto male, no?» Sorride ancora, e per un
istante Constance si chiede se non vi sia sotto dell'altro, qualche
oscura ragione che Jared intende tenerle nascosta, e che forse tiene
nascosta persino a se stesso. «E poi non mi va che stiano in un
albergo, con tutti i matti che ci sono in giro» aggiunge, alzandosi
per sgranchirsi le gambe. «E non avrebbe nemmeno senso lasciare che
buttino via soldi inutilmente, visto che ho un sacco di camere
libere.»
«Certo, in fondo hai
ragione» annuisce lei, mentre Bruce prende il posto del figlio sul
divano. «Quindi Shannon non sa niente del suo arrivo?»
«No, è completamente
all'oscuro. Daria non vuole dirglielo per non rischiare che lui la
chiami per dirle di non farsi vedere. Se deve essere cacciata via,
preferisce che Shannon lo faccia di persona.»
«Una ragazza coraggiosa...
tu pensi che funzionerà? Insomma, credi che solo guardandola negli
occhi Shannon starà meglio, si scoprirà felice e contento e tutto
si risolverà?»
«Direi che lo spero,
più che crederlo. Non so, è come se nella mia testa avessi
sviluppato uno scenario romantico contornato di cuoricini rosa in cui
gli basterà vederla per rinsavire e capire che lei è la donna della
sua vita, ma... in realtà non ho la minima idea di quello che
potrebbe succedere. Lui è ancora profondamente ferito, e come tutte
le persone profondamente ferite è anche totalmente imprevedibile.
Non so come potrebbe reagire. Per quanto ne so, potrebbe anche
mandarla a quel paese.»
«Cosa pensi che farebbe
lei, in quel caso?»
Jared scuote appena la
testa, abbassando lo sguardo. «Purtroppo la conosco abbastanza da
essere certo che farebbe le valigie e correrrebbe in aeroporto.»
«Però? Lo sento che c'è
un però, Jay. Con te c'è sempre un però.»
«Però credo che
non le permetterei di tornare a casa così, con la coda tra le
gambe.»
«Sai, non credo che
sarebbe una tua decisione.»
«No, probabilmente no.
Probabilmente in questa storia non ci avrei nemmeno dovuto mettere il
naso, vista la mia incapacità di gestire persino la mia vita
sentimentale, ma... Shannon è mio fratello, e Daria è una persona
alla quale sono affezionato, anche se la conosco poco. So abbastanza
di loro e li amo abbastanza da sapere che è il loro destino è
di stare insieme. E se non ci arrivano da soli a capirlo, allora
significa che qualcuno dovrà fare uno sforzo e aprir loro gli
occhi.»
Constance sorride ancora
una volta, guardando il suo bambino ormai adulto: sin da quando era
piccolo lei ha saputo che sarebbe diventato un uomo forte che non si
piega di fronte alle difficoltà, ma ora che riesce a vedere quella
trasformazione completarsi davanti ai suoi occhi quasi non le sembra
vero di essere riucita a crescere un uomo tanto straordinario, uno
che per amore di un fratello sarebbe disposto a qualsiasi sacrificio.
1Conosco
le certezze dello specchio, e il fatto che da quelle non si scappa, e
ogni giorno mi è più chiaro che quelle rughe sono solo i tentativi
che non ho mai fatto. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Siamo
chi siamo
di Luciano Ligabue,
contenuta nell'album Mondovisione
(2013).
|
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Capitolo 5 *** 5 | Sono innamorata, e lo sarò sempre. ***
La lunga strada verso casa - 1
Per
vostra (s)fortuna, oggi ho deciso di pubblicare il nuovo capitolo,
nonostante avessi deciso di aspettare almeno fino al week-end, solo
per il gusto di rovinarvi il divertimento del fine settimana. È un
altro capitolo inutile in cui non succede quasi niente, ma dal
prossimo vi prometto fuochi d'artificio, o almeno qualche mortaretto.
Sperando
di continuare a non deludervi, buona serata.
EffieSamadhi
Per aspera ad astra
Capitolo quinto
Sono innamorata,
e lo sarò sempre.1
Torino, 8 marzo 2014
«Prima che me ne
dimentichi, ti ho portato una cosa» dice all'improvviso Alice,
sparendo per qualche istante al piano di sotto e tornando con la
propria tracolla. «Questo lo devi portare con te assolutamente»
aggiunge, tirando fuori il vestito rosso che mi aveva infilato in
valigia a tradimento prima del viaggio a Parigi.
«Quello te lo puoi anche
portare via» replico decisa. «L'ho indossato soltanto una volta, e
soltanto perché non avevo alternative. È una delle cose più
scomode che abbia mai indossato, e non è nemmeno della mia taglia.»
«Soltanto perché hai più
seno di me» insiste lei. «Non dirmi che non ha avuto successo,
l'altra volta» aggiunge dopo un istante, ammiccando con aria
maliziosa.
«Mica tanto» rispondo,
ripensando alla romantica cena in battello in compagnia di Shannon.
«Si è addormentato come un bambino appena ha toccato il letto.»
«Beh, nella vita tutti
meritano una seconda occasione» replica, piegandolo per infilarlo
nella valigia aperta a terra. «E non provare a tirarlo fuori e
lasciarlo a casa, perché me ne accorgerò e non ti rivolgerò mai
più la parola. Quella cos'è?» aggiunge dopo un attimo, guardando
la maglietta bianca che mi rigiro tra le mani.
«La maglietta che Shannon
indossava al concerto di Assago, la sera che ci siamo conosciuti»
rispondo, passandogliela per permetterle di studiarla meglio. «Me
l'ha regalata quando è stato qui. O meglio, me l'ha lasciata su una
sedia quando se è andato via, dicendo che voleva che avessi qualcosa
di suo.»
«E intendi metterla in
valigia perché...»
«Perché intendo
restituirgliela, nell'eventualità che decida di cacciarmi via a
pedate nel sedere.»
«Lo sai che non si
restituiscono i regali? Non è fine.»
«Non sarà fine, ma non
sarebbe giusto tenerla per me, se decidesse di tagliare del tutto i
ponti.» Indugio per un istante, ripensando all'altro oggetto che mi
aveva affidato, e che ho provveduto a restituirgli già mesi fa. «La
prima volta che è stato qui, due giorni dopo esserci conosciuti, mi
ha lasciato un libro. Aspettando Godot, di Samuel Beckett.»
«Sbaglio o è una delle
tue opere preferite?»
«Lo è. Ed è anche una
delle sue opere preferite. Era un libro che si portava in giro
ad ogni viaggio, e se lo era portato in treno per passare il tempo.
Ma quando è partito, ha deciso di lasciarlo a me.»
«Per quale motivo?»
«Perché così avrei
dovuto restituirglielo, e avremmo avuto un'altra occasione per
vederci.»
«Romantico» è il suo
commento. «Sai, non avrei mai pensato che potesse essere capace di
gesti così carini. Mi ha sempre dato l'idea di essere un tipo più...
fisico. Insomma, uno di quelli che riescono a rivoltarti come
un calzino ma non sanno da che parte iniziare quando si parla di
sentimenti.»
«Lo pensavo anch'io, prima
di conoscerlo. Pensavo che tra i due Jared fosse l'uomo sensibile, e
lui l'animale» aggiungo, spostandomi verso il cassetto della
biancheria intima. «Ma poi l'ho conosciuto, e ho capito che c'è un
po' di entrambe le cose in lui. Solo, lui non... di solito non mostra
quel lato di sé.»
«Si conserva per le
persone importanti» commenta lei, avvicinandosi con un sorriso. «Il
fatto che con te sia riuscito a mostrare quella parte di sé dovrebbe
dirti qualcosa, non credi?»
«Credo di averlo capito
troppo tardi. Se ripenso a quello che gli ho fatto, io non... non
riesco nemmeno a guardarmi in faccia, a volte. Non avevo capito
quanto tenesse a me finché non me ne sono andata. Avrei voluto
essere meno stupida, ma... beh, piangere sul latte versato mi sembra
piuttosto inutile, a questo punto. Stare qui a piangermi addosso non
risolverà le cose» concludo, iniziando a scegliere le cose da
mettere in valigia.
*
Cedar Creek, 9 marzo 2014
Quando
Darlene bussa alla porta della mia stanza per annunciarmi delle
visite, stupidamente mi chiedo chi potrebbe essere. Non appena si
sposta vedo il sorriso gioioso della mamma e di Jared, e ho
improvvisamente voglia di piangere come un bambino. «Auguri, tesoro
mio» mi sussurra la mamma, abbracciandomi, e subito dopo è il turno
di Jared, che preferisce farmi gli auguri soltanto dopo avermi
stretto tra le braccia, rischiando di incrinarmi un paio di costole.
«Ci siamo procurati una copia del regolamento e abbiamo visto che
non è vietato portare cibo dall'esterno, perciò ti abbiamo portato
una bella torta al cioccolato e una scorta di biscotti» aggiunge
lei, mostrandomi l'enorme busta di carta che le penzola dal braccio.
«Gli anni non si compiono mica tutti i giorni, no?» dice ancora,
facendosi avanti per posare le scorte sulla scrivania.
«Non
avevo voglia di andare per negozi a sceglierti un regalo» dice Jared
dopo un istante, facendo spallucce. «Però non volevo venire a mani
vuote, perciò ho pensato di portarti una cosa da casa» aggiunge, e
soltanto ora noto che si è trascinato dietro una custodia per
chitarra. «Portare Christine sarebbe stato più complicato» spiega
con un breve sorriso. «Non è vietato suonare, vero?» aggiunge,
notando che il mio sguardo non è felice quanto dovrebbe.
«Sei
stato gentilissimo, fratellino» rispondo, cercando di sorridere nel
modo più naturale possibile mentre lo scarico del peso. La verità è
che io stesso avevo pensato di aggiungere la chitarra ai miei
bagagli, prima di trasferirmi qui, ma ho rinunciato dopo aver capito
che la musica mi fa inevitabilmente pensare al passato, a quel
passato che voglio superare, relegare in un angolo del cuore insieme
al dolore, per ricominciare a vivere senza drammi.
«Come
stai, tesoro?» riprende subito la mamma, tastandomi un braccio con
fare sospettoso. «Mangi abbastanza? Ti trattano bene?»
«Mamma,
sono qui da un giorno. Non mi dire che mi trovi già deperito!»
«La
buona salute di un figlio è la prima preoccupazione di ogni madre,
non lo sapevi?» sorride, e insieme a lei sorrido anch'io, ripensando
all'enorme stress cui Jared l'ha sottoposta l'anno scorso, quando si
è ridotto ad uno scheletro pur di riuscire ad interpretare al meglio
il personaggio di Rayon.
«Sto
bene, mamma» la rassicuro, sapendo che è soltanto una mezza verità:
fisicamente scoppio di salute, in effetti. È dentro che sono
devastato e ridotto a pezzi.
*
Torino, 8 marzo 2014
«Hai già pensato a quello
che gli dirai quando vi rivedrete?» domanda Alice, piegando
accuratamente le magliette che abbiamo scelto insieme. «Insomma, ti
sarai fatta un'idea di come potrebbero andare le cose, no?»
«Ho provato a mettere giù
un paio di idee» rispondo, facendo scorrere le stampelle per
scegliere quali jeans portare. «Ho persino preso degli appunti, sai,
come... per organizzare il discorso, ma... non lo so, una volta
scritte sembrano tutte pessime idee. Sembra che mi escano soltanto
parole banali.»
«A volte la semplicità è
la scelta migliore.»
«La semplicità può
esserlo, ma la banalità... beh, quella no. Probabilmente ha già
compilato una lunga lista delle cose di me che lo fanno arrabbiare.
Aggiungerci che sono una persona che non sa scusarsi non sarebbe
proprio il massimo.» Le porgo i pantaloni che ho scelto, e resto a
guardarla mentre li riduce ad un minuscolo rotolo di stoffa per
riuscire a riempire un angolo della valigia. «E poi sembrano tutti
discorsi scritti a tavolino, come se li avessi trovati già pronti su
internet, o roba del genere. Non voglio parlare come un manuale.»
«E se provassi a parlare
con il cuore?» mi domanda lei, ancora inginocchiata sul pavimento.
«Dicono che di solito funzioni.»
«Sarebbe infinitamente più
semplice, questo è poco ma sicuro» sospiro, lasciando perdere
l'armadio per avvicinarmi alla scrivania, sulla quale campeggia
ancora la mia scatola dei ricordi, rimasta mezza aperta da quando ho
tirato fuori la maglietta di Shannon.
«Posso farti una domanda?»
chiede dopo un lunghissimo minuto di silenzio.
«Da quando mi chiedi il
permesso per interrogarmi?» rido, fermandomi non appena mi accorgo
della serietà della sua espressione. «Certo che puoi farmi una
domanda. Che vuoi sapere?»
«Quanto lo ami?» Dopo
tanti anni, ormai sono assuefatta alla schiettezza di Alice, ma
questa domanda riesce comunque a spiazzarmi, facendomi quasi tremare
le gambe. È una bella domanda, in effetti: quanto lo amo? «Insomma»
riprende, alzandosi da terra per sedersi sul bordo del letto, «ormai
abbiamo appurato che la vostra storia è stata molto importante,
ma... beh, quanto soffriresti se lui decidesse di tagliarti
completamente fuori?»
Ci penso su per qualche
secondo, poi rispondo: «Indefinitamente» sussurro, sentendomi come
Julia Roberts nel finale di Notting Hill. «Non lo so, non ci
ho mai pensato. Non lo so» ripeto, sentendomi stupida come non mai.
«Non credo tenterei il suicidio, se è questo che temi. So di essere
una persona piuttosto fragile, ma non credo potrei mai arrivare a
tanto. Insomma, per quanto grande potrebbe essere il dolore,
riuscirei comunque a trovare abbastanza motivi per restare viva.
Credo.» Resto in silenzio per un altro po', sapendo che sta
continuando a fissarmi. «Ma non credo nemmeno che resterei
indifferente. Insomma, credo che ci starei male, questo sì. Solo che
non so dirti quanto male. Ma perché questa domanda?»
La guardo socchiudere la
bocca, come preparandosi ad una risposta, ma subito dopo la vedo
abbassare gli occhi e scuotere la testa, come se avesse pensato ad
una sciocchezza. «Non lo so nemmeno io» sorride. «Santo cielo, è
proprio vero che è difficile parlare di sentimenti, eh?»
«Decisamente» annuisco,
continuando a guardarla chiedendomi se non ci sia qualche altro
segreto da rivelarmi. «E sinceramente, non è nemmeno da te iniziare
discorsi del genere. C'è sotto qualcosa, per caso? Qualche altro
geniale piano concepito in comunione con quel matto di Jared, forse?»
«Nessun piano, tranquilla.
È solo che... non lo so, forse stare con te mi sta facendo diventare
sentimentale. Il romanticismo dev'essere contagioso. Ma lasciamo
perdere. Forza, passiamo ai completini sexy» aggiunge, avvicinandosi
ai cassetti dove tengo la biancheria intima speciale. «Non
dobbiamo dimenticarci che potrebbe andare bene, no?» Decido di non
rispondere, mentre mi avvicino per aiutarla nella cernita, ma
continuo a tenerle gli occhi addosso, certa che ci sia qualcosa che
non riesce a dirmi.
*
Cedar Creek, 9 marzo 2014
Mamma
e Jared se ne sono andati verso mezzogiorno, dopo avermi accompagnato
in una lunga passeggiata lungo il parco ed essersi assicurati che mi
trovi bene e che nessuno mi tratti male. Mentre li guardo salire in
macchina e andare via mi sento come un ragazzino mandato in collegio
visitato da due genitori particolarmente apprensivi, e la cosa mi fa
ridere non poco. Quando ormai sono spariti alla vista, percepisco una
presenza accanto a me. Voltandomi, trovo lo sguardo curioso di
Rosalita. «Sono venuti a controllare che tu sia ancora vivo?»
«Sono
venuti per assicurarsi che nessuno degli altri bambini faccia il
prepotente con me» scherzo, voltandomi per tornare verso l'interno.
«Credo siano rimasti un po' delusi dal fatto che mi trovi tanto a
mio agio. Mio fratello non vede l'ora di riportarmi a casa.»
«Evidentemente
ti vuole bene e vuole averti accanto.»
«Credo
lo infastidisca il fatto di non essere riuscito ad aiutarmi. Aiutare
la gente è la sua missione. Una delle tante, a dire il vero. È
sempre stato un buon samaritano.»
«Ho
sempre odiato le persone che insistono tanto per aiutarti. Di solito
hanno sempre un secondo fine.»
«Oh,
certamente non Jared. Lui è la persona più sincera che abbia mai
conosciuto. Non ha mai preteso nulla in cambio del suo aiuto. E non
lo dico soltanto perché è mio fratello.»
«Non
l'ho pensato nemmeno per un istante» ribatte prontamente con un
sorriso.
Entriamo
nella struttura, e guardando il grande orologio appeso alla parete mi
rendo conto che è quasi ora di pranzo. «Ti andrebbe di mangiare con
me? Non ho ancora fatto amicizia con nessuno, e sinceramente mangiare
da solo non mi è mai piaciuto» le propongo, sicuro che accetterà.
Invece
lei scuote la testa, senza staccarmi gli occhi di dosso. «Non posso,
mi dispiace. Nei giorni dispari pranzo con Georgia» risponde.
«Georgia è un'ex alcolista con problemi di depressione, non esce
quasi mai dalla propria camera. Non mangia mai con gli altri, non ama
stare in mezzo alla confusione.»
«Perciò
pranzi con lei perché...»
«Perché
stare sola non le fa bene, ma la troppa compagnia le è nociva. Io
sono una ragionevole alternativa.»
«Quindi
sei una buona samaritana anche tu»» replico, mentre molti degli
altri ospiti della clinica iniziano a passarci accanto, diretti verso
la mensa.
«Potrei
esserlo, se non fosse una definizione che odio» ribatte, spostandosi
una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Cerco soltanto di essere
una buona amica. È di questo che la maggior parte di queste persone
ha bisogno. A proposito, posso darti un consiglio?»
«Perché
no?»
«Ho
visto la faccia che hai fatto quando hai visto tuo fratello con
quella custodia per chitarra.»
«Come
diavolo hai fatto a...»
«Passavo
di lì» mi interrompe con un breve sorriso. «Non conosco ancora la
tua storia, non so che cosa ti abbia portato ad avere i problemi che
hai, né che cosa ti abbia fatto diventare quello che sei, ma... una
cosa che ho capito in tutti questi anni è che se vuoi trovare una
soluzione ai tuoi problemi, non puoi farlo chiudendoli a chiave in un
cassetto. Per trovare una soluzione devi tenere il problema davanti
agli occhi, altrimenti è tutto inutile. Ora devo andare» aggiunge
subito dopo, voltandosi per sparire di corsa lungo un corridoio.
Resto in piedi nell'atrio
per un paio di minuti, mentre la gente continua a passarmi accanto
sfiorandomi appena, e mi chiedo se riaffidarmi alle corde della mia
vecchia chitarra non potrebbe essere un modo per tornare l'uomo che
ero.
*
Torino, 8 marzo 2014
«Posso
fartela io una domanda, adesso?» le chiedo un paio di minuti più
tardi, incapace di tacere oltre. C'è una cosa che sono terribilmente
curiosa di scoprire, e se non gliela chiedo adesso non so se troverò
mai un altro momento adatto.
Alice
alza lo sguardo dai miei completini intimi con aria quasi spaventata,
nemmeno si fosse trovata improvvisamente nuda davanti alla
commissione d'esame nel giorno della laurea. «Che genere di
domanda?»
«Non
prenderla male, è soltanto una curiosità che ho voglia di
soddisfare» la rassicuro, continuando a rovistare. «Tu e Jared...
sì, insomma, davvero quando vi telefonate parlate soltanto di me e
Shannon?»
«Di
che altro dovremmo parlare?» risponde con il tono più naturale del
mondo, come se fossi soltanto una visionaria – ma dal modo in cui
abbassa lo sguardo e torna a rovistare tra le mie mutande, capisco di
aver toccato un nervo scoperto.
«Beh,
sai com'è, pensavo che discutere continuamente della telenovela tra
me e Shannon alla lunga potesse stancare» ribatto, facendo
spallucce. «Pensavo che magari aveste trovato qualche altro
argomento di cui discutere. Qualcosa di più interessante di due
idioti che continuano a rincorrersi senza incontrarsi mai. Jared
coltiva un sacco di passioni, non sarebbe difficile trovare un altro
argomento di conversazione.»
«Che
cosa mi stai chiedendo davvero,
Daria?» replica, smettendo di rovistare per puntarmi addosso lo
sguardo.
Sentendomi
smascherata, smetto di frugare anch'io. «Niente, volevo solo sapere
se vi sentite soltanto perché avete uno scopo in comune o se vi
trovate simpatici a vicenda. Sto solo provando a vederla in maniera
positiva» aggiungo con un grande sorriso. «Sei praticamente una
seconda sorella per me, e se le cose dovessero andare bene, tu e
Jared diventereste quasi cognati. Non sarebbe una bella situazione se
vi odiaste, no? Sarebbe tutto molto più semplice se andaste
d'accordo, non credi?»
Alice
scoppia a ridere. «Altro che migliore amica!» esclama, lanciandomi
addosso un paio di mutande. «Non riuscirai mai a farmi mettere con
Jared, stanne certa» ride ancora, dandomi una leggera spintarella.
«Quell'uomo è troppo pieno di sé per i miei gusti. Mi stupisco che
non gli serva un trolley per portare in giro tutto quell'ego che si
ritrova.»
Rido
anch'io, riabbinando le mutande che mi sono arrivate in faccia con il
giusto reggiseno e rimettendole a posto. «Era solo un'idea,
tranquilla. Pensavo che forse non sarebbe stato tanto male uscire in
quattro.»
«Come
le coppie dei film? Questo mai. Ho ancora una dignità da difendere.»
*
Cedar Creek, 9 marzo 2014
Seduto sul bordo del letto,
mi rigiro la chitarra tra le mani come se non ne avessi mai vista
una. È da molto tempo che non la suono, e in verità mi sembra quasi
di averne un po' paura. La chitarra è stata il mio primo strumento,
e per quanto sia la batteria a rispecchiare la mia vera natura, mi è
impossibile non provare una grande emozione quando sfioro una sei
corde. Se la batteria mi aiuta ad esprimermi al meglio, coprendo
tutto con il suo frastuono, la chitarra mi costringe invece a tirar
fuori il mio lato più intimo, quello che di solito riesco facilmente
a far tacere. Se così non fosse, non avrei mai scritto L490.
Ripensare al pezzo composto per mio fratello mi conduce
inevitabilmente a pensare al pezzo composto da mio fratello,
quello spartito stracciato in un momento di rabbia, e che ora mi
pento come non mai di aver fatto a pezzi, sicuro che sarebbe potuto
diventare una canzone straordinaria.
Sono ancora seduto a
pensare se Jared potrà mai perdonare il mio gesto, quando due colpi
alla porta aperta mi fanno alzare la testa. «Finalmente l'ho
trovata, Shannon» sorride il dottor Connors, appoggiato allo stipite
con la stesssa naturalezza di un qualunque visitatore abituale.
«Quando non l'ho vista davanti alla porta del mio studio ho pensato
che se la fosse data a gambe, ma vedo che ha semplicemente trovato un
modo più piacevole per passare il tempo.»
Guardo l'orologio,
accorgendomi che sono già le due e un quarto. «Le domando scusa, ho
perso la cognizione del tempo. Non mi ero accorto che fosse già così
tardi» mi scuso, appoggiando la chitarra sul letto, come a volerla
allontanare da me.
«Nessun problema, davvero»
replica lui con un sorriso e un vago cenno della mano, muovendo un
paio di passi avanti. «Mi fa piacere abbandonare il mio habitat, di
tanto in tanto. Possiamo parlare anche qui, se per lei va bene. Io ho
tutto quello che mi serve» aggiunge, sfilandosi dalla tasca il
registratore. Aspetta un mio cenno d'approvazione, poi preme un
pulsante, trascinando una sedia accanto al letto. «Shannon Leto,
secondo colloquio. Nove marzo 2014.»
«Vuole che continui
la mia storia da dove ci siamo interrotti l'altra volta?»
«Di norma sì, le
chiederei di riprendere da quel punto. Quando si inizia un racconto
bisogna portarlo a termine, ma oggi intendo fare uno strappo alle
regole. Sono estremamente curioso di conoscere la provenienza di
quella stupenda chitarra.»
«Stamattina mia madre e
mio fratello mi hanno fatto visita» spiego. «Oggi è il mio
compleanno, e Jared ha pensato bene di farmi un regalo.»
«Un pensiero molto dolce.
A proposito, molti auguri di buon compleanno.»
«In realtà non si tratta
di un vero e proprio regalo. È uno strumento che ho in casa da
secoli. Ma se è vero che quel che conta è il pensiero, allora è
davvero un buon regalo» ribatto. «E mille grazie per gli auguri,
anche se non c'è molto da festeggiare. In fondo, è soltanto tempo
che passa.»
«Il tempo non è sempre
una cosa tanto tremenda. Il tempo passa e ci rende più vecchi,
questo è vero, ma può anche farci diventare più saggi, più
maturi. E non dimentichiamoci che il tempo può anche guarire molte
delle ferite che la vita ci infligge.»
«Ma può anche infettarle
e farle bruciare fino a ucciderti.»
«Immagino che questo ci
riporti alla storia della sua vita» sospira, sfregandosi il mento
con aria dubbiosa. «L'altra volta abbiamo parlato della sua
disavventura in Tennessee, ma dubito che sia stata un'overdose
vecchia di più di vent'anni a portarla qui da noi.»
«In effetti no. È stato
un problema molto più recente a portarmi qui.»
«Le andrebbe di saltare la
parte in cui lei e suo fratello raggiungete l'apice del successo per
passare direttamente al motivo per cui ha deciso di cercare il nostro
aiuto?»
«Si è già stancato di
starsene lì seduto ad ascoltare la mia triste storia, eh?» sorrido,
prendendolo in giro.
«Al contrario. Uno di
questi giorni la costringerò a raccontarmi per filo e per segno la
storia del votro successo, e anche quel giorno avrà la mia completa
attenzione. Ma oggi vorrei che riuscissimo a definire insieme il
problema, così da poter iniziare il percorso che potrà portare alla
sua risoluzione. Quindi, Shannon, mi dica: qual è il motivo che l'ha
portata qui?»
Rimango in assoluto
silenzio per mezzo minuto, pensando al modo migliore per rispondere
alla domanda incredibilmente diretta del dottore. «Il motivo per cui
sono qui è forse uno dei motivi più stupidi per cui un uomo
potrebbe attaccarsi alla bottiglia» rispondo infine, evitando
accuratamente di incrociare il suo sguardo. «Una donna» aggiungo in
un sussurro, sentendomi più idiota che mai.
«Credo che resterebbe
meravigliato se le dicessi quante persone cadono nel baratro a causa
dell'amore. Non è affatto un motivo stupido. È una ragione come
un'altra. O forse una ragione ancor più plausibile di molte altre.»
«Non è una delle cose più
tremende che potrebbero capitare ad un uomo.»
«Questione di punti di
vista, temo. Per come la vedo io, perdere per sempre la sola persona
che davvero si ama può essere molto più grave di qualsiasi altro
evento drammatico.» Sento il suo sguardo su di me, e finalmente mi
convinco ad alzare gli occhi. «Perché non mi parla un po' di lei?
Le solite cose, quello che racconterebbe ad un amico: come vi siete
incontrati, che cosa l'ha colpita di lei, che cosa non le piace...
faccia in modo di farla conoscere anche a me.»
«L'ho conosciuta il due
novembre, in Italia. Avevamo appena finito un concerto in una
cittadina poco lontana da Milano. Sono uscito dal palasport per
fumarmi una sigaretta prima di ritornare in albergo. Mi sono trovato
un posto tranquillo, in un angolo nascosto, e lei era lì. Non... non
era nascosta per assaltarci, o roba del genere» preciso subito,
ansioso come non mai di proteggere la reputazione di Daria. «Con lei
c'era un'amica fidanzata con un ragazzo di Milano. Una relazione a
distanza, non riuscivano mai a trovare abbastanza occasioni per stare
insieme, così lei... aveva ceduto loro la sua macchina. Aspettava
che le dessero il via libera per tornare, e nell'attesa si era
trovata un angolo tranquillo. Avevo dimenticato l'accendino, ma per
fortuna lei ne aveva uno. Le ho offerto una sigaretta, e poi abbiamo
iniziato a parlare.»
«Così, dal niente?»
replica lui, stupito. «Insomma, Shannon, senza offesa, ma... che
cosa l'ha spinta ad attaccar bottone con una ragazza mai vista
prima?»
«Me lo chiedo ancora
adesso» sussurro. «Forse mi sembrava scortese non dire nulla, visto
che eravamo così vicini. O forse ero soltanto curioso di sapere
perché una ragazza se ne stesse tutta sola in un angolo buio. Forse
ero preoccupato che le potesse accadere qualcosa di brutto. Comunque
non era la prima volta che la vedevo» preciso. «L'avevo vista poco
prima, durante l'incontro con i fan. Era in fila con tante altre
persone per avere i nostri autografi, e lei... lei aveva detto una
cosa strana, una frase che mi aveva colpito. Qualcosa circa il fatto
che realizzare i nostri sogni dà uno strano senso di pace.» Abbasso
per un istante lo sguardo, ricordando quel momento come se non fosse
più vecchio di questa mattina. «Io avevo risposto che non mi sento
mai in pace, perché c'è sempre un sogno più grande dietro
l'angolo, e lei... lei disse una cosa magnifica. Disse che forse è
proprio questa convinzione a mantenerci vivi.»
«Una ragazza molto saggia.
Dovrei chiederle di venire a lavorare per me» scherza lui.
Sorrido, passandomi una
mano sul vivo. «Forse iniziare a chiacchierare con lei risultò più
semplice perché avevamo già parlato, non lo so. Quello di cui sono
sicuro è che aveva due occhi stupendi. Mi avevano colpito già
durante l'incontro, e quando mi resi conto che avevo la possibilità
di guardarli ancora... non so se si sia accorta di quanto mi avessero
colpito i suoi occhi. Che poi, successe una cosa strana. Durante
l'incontro non sembrava aver paura di guardarmi dritto negli occhi,
ma quando ci trovammo soli a parlare, lei... era incredibilmente
timida, ma non sembrava un atteggiamento costruito a tavolino. Non
sono mai stato bravo quanto mio fratello a capire le persone, ma so
che quella sera, mentre la accompagnavo verso il parcheggio, lei era
se stessa.»
«Forse in mezzo alla gente
si sentiva più sicura, più forte. L'ambiente circostante può
condizionare i nostri comportamenti. Forse l'intimità del vostro
secondo incontro la metteva a disagio. In fondo, restavate sempre due
persone molto diverse, la rockstar e la fan. Non credo che non
sentisse il peso di quella condizione.» Fa una pausa, forse
aspettando una mia risposta, ma non so trovar parole per sostenere o
abbattere quella teoria: tutto ciò che riesco a fare è continuare a
pensare alla mia prima sera con Daria, quando ancora non avevo idea
che sarei finito con il cuore spezzato. «Ha detto che stavate
camminando verso il parcheggio. Come siete passati a quella
situazione?»
«Disse che ormai i suoi
amici dovevano quasi aver finito, perciò voleva avvicinarsi al
parcheggio. Disse di poterci andare da sola, ma avevo troppa paura
che potesse accadere qualcosa. In fondo era sera tardi, era buio, e
io sono sempre stato un cavaliere» rispondo con un mezzo sorriso.
«Mentre camminavamo, le si sciolse la lingua. Io continuavo a farle
domande, e lei non aveva paura di rispondere. Mi raccontò un sacco
di cose della sua vita. Mi disse che faceva la commessa in una
libreria, che aveva un fratello e una sorella minori e che sua madre
li aveva abbandonati quando aveva soltanto otto anni. Non fu
difficile trovare delle affinità, o degli argomenti di cui parlare.
Avevamo storie simili. Nemmeno vagabondando cent'anni per il mondo
avrei potuto trovare un'anima più affine alla mia. Arrivati al
parcheggio, ci accorgemmo che i suoi amici non... beh, avevano ancora
bisogno di tempo. Perciò ci sedemmo su un cordolo e continuammo a
parlare, come due vecchi amici. Per lei non ero Shannon Leto, in quel
momento, ma una persona comune con cui stava facendo due chiacchiere.
Non mi sono mai sentito così normale come quando ero con lei.»
*
Torino, 9 marzo 2014
«Come ha reagito Jared
quando gli hai detto che saremmo andate a Los Angeles?»
«Era felice, credo. E
anche un po' scioccato, ma accidenti, non credo di poterlo biasimare.
Ma credo che la felicità superasse la sorpresa, se la cosa può
farti sentire meglio. È piuttosto giù per la decisione di Shannon
di chiudersi in quel centro. Si sente come se avesse fallito come
fratello, come se la sua proverbiale capacità di aiutare gli altri
fosse venuta meno.»
«Sì, lui è uno che adora
aiutare il prossimo. Soprattutto se si tratta di Shannon. Ti ho
raccontato della conversazione che abbiamo avuto a Parigi, no?»
«Parliamo di quando hai
deciso di abbandonare il talamo per andare a bussare alla sua porta?
Ovvio che me ne ricordo. Ti ho già detto che è stata la decisione
più stupida che tu abbia mai preso? Non si abbandona il letto che
condividi con Shannon Leto.»
Sorrido, mentre preparo una
busta con il necessario per la cura della persona. «Non si è
rivelata una decisione così tremenda. Quella conversazione con Jared
mi è servita molto. Sembra incredibile, ma ha la straordinaria
capacità di sapere sempre cosa dire, in ogni situazione. Vorrei
essere come lui.»
«A proposito di saper dire
la cosa giusta al momento giusto, probabilmente quello che sto per
dire c'entra come i cavoli a merenda, ma... che fine ha fatto la tua
collana? Quella con il bullone, intendo. Non l'hai mai tolta nemmeno
durante le ore di ginnastica, e ora che ci penso... non lo so, sarà
un secolo che non te la vedo addosso. Ricordo che avevi detto di
averla data a Shannon, o sbaglio?»
D'istinto mi porto la mano
al collo, che da novembre è rimasto sempre nudo, tranne nelle poche
occasioni in cui ho deciso di indossare la mia seconda catenina
preferita, quella con la medaglietta di san Giuda ricevuta per la
prima comunione. «Credo sia ancora a Los Angeles. O almeno, lo
spero. Non me l'ha restituita, quindi credo sia ancora tra le sue
cose» preciso subito dopo. «Quando è venuto a Torino la prima
volta, mi ha dato il suo libro, e io... non lo so, ho sentito il
bisogno di dargli qualcosa di mio.»
«E il tuo cuore non era
abbastanza, dico bene?» scherza lei, sollevando Solo dal pavimento
per lasciarlo zampettare libero sul copriletto. «Perché dici spero?
Temi che l'abbia buttata via?»
«In quel caso non lo
biasimerei, considerando il male che gli ho fatto. Una parte di me
capirebbe un gesto del genere, ma... c'è una parte di me che spera
che la porti ancora addosso. La stessa parte di me che spera che non
mi rispedisca a calci nel sedere a casa.»
«Perché gli hai regalato
una cosa tanto preziosa? Insomma, non mi hai mai voluto raccontare la
storia che c'era dietro, ma presumo fosse qualcosa di importante. Ti
conosco, e so bene che tu non sei una che fa le cose tanto per fare.
Quindi, ecco, mi chiedo... perché separarti da una cosa che per te
era tanto importante?»
Mi tormento a lungo le
dita, prima di rispondere. Conosco perfettamente i motivi che mi
hanno spinta ad un gesto simile – ad una follia simile,
forse –, ma non so se sono pronta a gridarli al mondo. Poi, in modo
del tutto spontaneo, le parole sembrano uscire da sole. «Forse
perché per me era più importante che la tenesse lui.» Alice non
risponde, ma conosco i suoi sguardi meglio dei miei, e so che mi sta
tacitamente chiedendo perché. «Perché sono innamorata di lui, e lo
sarò per sempre.»
*
Cedar Creek, 9 marzo
2014
«Mi perdoni se cambio per
un istante argomento» dice all'improvviso il dottor Connors, dopo
avermi fatto spiegare per filo e per segno i primi passi della mia
storia con Daria, dal giorno in cui l'ho accompagnata a vedere il suo
nuovo appartamento a quello in cui mi sono presentato alla sua porta
con il borsone in spalla. «Non è da me saltare di palo in frasca,
ma adoro soddisfare ogni curiosità. Ho notato la collana che porta,
e ne sono affascinata. È di una semplicità disarmante. È un
oggetto che ha un significato, oppure è soltanto un oggetto che le
piace portare?»
D'istinto mi porto una mano
al collo, ritrovando la forma familiare del cordoncino di cuoio che
Daria mi ha consegnato mesi fa, e che da allora non ho mai tolto,
nemmeno durante i concerti. Indosso questo strano gioiello da così
tanto che nemmeno ricordavo di averlo addosso, come se fosse
diventato parte della normalità, come uno dei miei tatuaggi. «Mi
ricorda lei» sussurro. «Era di Daria, la ragazza italiana. Quando
ci siamo salutati, dopo il primo pomeriggio passato insieme, io le ho
dato il libro che mi ero portato per il viaggio. Aspettando Godot,
di Samuel Beckett, una delle mie opere preferite. Me lo aveva
regalato mia madre, e da allora lo porto sempre con me in valigia.
L'ho dato a lei perché così credevo che avrei avuto una buona
ragione per rivederla. Nel caso il suo sorriso non fosse stato un
motivo sufficiente» aggiungo con un breve sorriso.
«Una sorta di pegno
d'amore, quindi.»
«Una specie. Certo, quel
giorno non sapevo ancora di essere innamorato di lei. Volevo soltanto
seminarmi dietro un motivo per rimanere. Un motivo per tornare
indietro bisognerebbe sempre crearlo, quando si parte.»
«Una buona filosofia. E la
collana?»
«Dopo averle dato il
libro, lei ha deciso di darmi la collana, dicendo che anche lei
voleva avere un motivo per rivedermi. Sapendo la storia che c'era
dietro, non... ho capito subito che per lei era importante quanto lo
era per me.»
«Qual è la storia? Se me
la vuole raccontare, naturalmente.»
Mi gratto distrattamente
dietro un orecchio, pensando che ormai sono in ballo, e tanto vale
continuare. «Quando la madre se ne andò di casa, lei aveva soltanto
otto anni. I suoi fratelli erano molto più piccoli, avevano bisogno
di essere sorvegliati a vista, perciò stavano quasi tutto il tempo
con la nonna. Per facilitare il compito, suo padre la portava spesso
con sé nel proprio laboratorio. È un falegname» preciso. «Lei
passava molto tempo con lui, e dopo aver finito i compiti, spesso lui
le permetteva di dargli una mano. Le affidava piccoli compiti come
riordinare le viti o i pennelli, mansioni adatte ad una bambina di
quell'età. Una volta, riordinando una scatola di bulloni, lei ne
trovò uno privo di dado. Il padre le spiegò che probabilmente il
commesso del negozio di ferramenta non li aveva avvitati bene, e che
forse il dado era andato perso. Lei rispose che probabilmente lui e
la madre si erano lasciati perché non erano abbastanza uniti, come
quel bullone e quel dado, e che forse tra loro era finita per questo
motivo. Per tranquillizzarla, il padre le rispose che ogni bullone
può essere compatibile con molti dadi, e che il fatto che fosse solo
non significava che non sarebbe mai potuto stare bene con un altro
dado.»
«Un modo semplice per
spiegare ad un bambino la natura delle relazioni umane» sorride il
dottore. «Forse non soltanto la ragazza, ma anche il padre dovrebbe
lavorare per me.»
Sorrido anch'io,
rigirandomi il bullone tra le dita. «Forse dovrei toglierla.
Insomma, sto cercando di dimenticare, no?»
«Non lo so. Sta cercando
di dimenticare o vuole soltanto risolvere un problema? Perché anche
se possono sembrare cose simili, in realtà sono lontanissime tra
loro. Dimenticare non significa risolvere il problema.»
«Io voglio soltanto
dimenticare tutta questa storia. Dimenticare e andare avanti con la
mia vita. Non voglio restare aggrappato al passato.»
«Ne è sicuro? A volte
ricordare il nostro passato può essere utile per affrontare il
futuro, e prima ancora il presente. Prenda Rosalita, ad esempio. So
che vi siete conosciuti. Le ha raccontato la sua storia, dico bene?»
Annuisco, abbassando lo sguardo. «Lei non ha dimenticato niente del
proprio passato, ma sarà d'accordo con me nel dire che ci sono un
mucchio di cose che la maggior parte della gente vorrebbe
dimenticare. Ma lei no. Lei non ha dimenticato nulla, non ha
rinnegato nulla. Lei ha capito che il suo passato l'ha aiutata
a diventare la donna che è.»
«Questo è vero, ma lei mi
ha dato l'impressione di essere una persona molto forte. Non so se io
potrei mai avere la stessa forza.»
Il dottor Connors si piega
lievemente in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, con le
mani giunte e gli indici che sfiorano le labbra, come se si stesse
preparando ad esprimere una grande verità. «Fino a questo momento
lei è stato molto sincero con me, Shannon, e vorrei che continuasse
su questo binario. Le farò una domanda precisa, e vorrei una
risposta altrettanto precisa. Lei ha mai tolto quella collana, da
quando Daria gliel'ha messa al collo?» Scuoto la testa, sentendo la
gola chiudersi, come se stessi per mettermi a piangere. Credo di aver
capito a quale conclusione vuole arrivare, e in tutta sincerità ne
sono spaventato a morte. «Ora le farò un'altra domanda precisa alla
quale vorrei una risposta sincera, e per metterla più a suo agio
spegnerò il registratore» continua, premendo un pulsante dello
stesso. «Perché non si è mai tolto la collana che Daria le ha
regalato?»
«Perché sono innamorato
di lei» rispondo, e per la prima volta in vita mia le parole che
escono dalla mia bocca sono davvero sincere. Quest'uomo ha un talento
del tutto unico nel mettere a proprio agio le persone, spingendole a
rivelare ogni loro minuscolo segreto. «Sono innamorato di lei, e lo
sarò per sempre.»
1Sono
innamorata, e lo sarò sempre. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone White
flag della cantautrice britannica Dido,
contenuto nell'album Life
for rent
(2003).
|
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Capitolo 6 *** 6 | Ti vedrò nella seconda parte, e riprenderemo da dove ci siamo interrotti quando ti ho persa, e ci innamoreremo di nuovo e cambieremo la fine della storia. Sì, torneremo insieme, nella seconda part ***
La lunga strada verso casa - 1
Nessun
pesce d'aprile, tranquille. Sto davvero pubblicando il capitolo sei,
che spero possa soddisfare le vostre aspettative. Non voglio
anticiparvi nulla, perché preferisco che vi prenda un infarto =)
Buona
lettura,
EffieSamadhi
P.S.:
Alcune di voi mi hanno chiesto, sia tramite recensioni sia tramite
messaggi privati, quale sia l'aspetto del dottor Connors, che molte
immaginano come un “bonazzo”. In effetti il dottore non è roba
da buttare via, in quanto ho scelto come prestavolto Michael
Vartan, uno dei protagonisti della celebre serie tv “Alias”.
Per aspera ad astra
Capitolo sesto
Ti vedrò nella
seconda parte,
e riprenderemo da dove
ci siamo interrotti
quando ti ho persa,
e ci innamoreremo di
nuovo
e cambieremo la fine
della storia
Sì, torneremo
insieme, nella seconda parte.1
Los Angeles, 12 marzo
2014
Apro gli occhi di scatto, e
subito dopo una luce abbagliante mi costringe a socchiudere le
palpebre. Mi guardo attorno spaventata, cercando di capire dove mi
trovi, quando incontro il sorriso di Alice. «Ah, ma allora sei
ancora nel mondo dei vivi! Temevo che il mio primo atto sul suolo
degli Stati Uniti sarebbe stato chiamare il 911. Il che, lo ammetto,
mi avrebbe esaltata da morire.»
«Dove diavolo siamo?»
borbotto, stropicciandomi gli occhi ancora doloranti.
«Stiamo sorvolando la
California da venti minuti. È meglio che riporti il sedile in
posizione eretta e allacci la cintura, perché penso che stiamo per
atterrare.»
«Ma quanto ho dormito?»
«Hai smesso di rispondere
alle mie domande più o meno dopo aver passato il confine con la
Francia, quindi sono all'incirca... sì, sette ore buone di
incoscienza. Meglio per te, sarà più facile smaltire il fuso
orario. Io ho dormito un'oretta sull'Atlantico, ma niente di più. Le
mie prime ventiquattro ore a Los Angeles le passerò sembrando uno
spaventapasseri.»
«Credevo non sarei
riuscita a dormire nemmeno un minuto, visto che era il mio primo
viaggio in aereo» osservo, avvicinando il viso al finestrino per
guardare il panorama, e ritraendomi una volta constatato che siamo
troppo in alto per i miei gusti. «Non mi hai mai parlato
dell'atterraggio. Che si prova?»
«Oh, è molto simile al
decollo, solo che si va nella direzione opposta» risponde lei,
continuando a sfogliare distrattamente la sua rivista. «Se sei
preoccupata che il pilota possa perdere il controllo e farci
schiantare sulle colline di Hollywood, non pensarci. Non è come un
incidente d'auto. Nei disastri aerei di solito si muore sul colpo,
oppure si viene intossicati in pochi minuti dal fumo del conseguente
incendio. Niente vita che ti passa davanti agli occhi, niente panico.
Una semplice, rapida, quasi istantanea morte.»
«Niente panico, dici? Oh,
sì, mi stai proprio rassicurando» ribatto in tono secco,
assicurandomi che la cintura sia ben stretta, così tanto da
togliermi quasi il fiato. «Come se non fossi già nervosa a
sufficienza.»
«Mi conosci, lo sai che
non sono una che alimenta false speranze.»
Nella sala d'attesa
dell'aeroporto internazionale di Los Angeles, Jared non riesce a
stare fermo. Non riesce nemmeno a mentire a se stesso: non è nervoso
soltanto al pensiero di rivedere Daria dopo tanto tempo, ma lo agita
anche il pensiero di vedere finalmente Alice, che in tutto questo
tempo ha solo potuto immaginare. Constance, che ha lottato con le
unghie e con i denti per guadagnarsi il diritto di accompagnarlo, se
ne sta seduta a guardarlo con una punta di divertimento, fingendosi
interessata ad una brochure sgraffignata al banco delle informazioni.
Negli ultimi giorni ha provato ad indagare sulle conversazioni del
figlio con l'amica di Daria, e anche se a parole non ne ha ricavato
un granche, ormai è convinta che non sia soltanto l'arrivo della ex
di Shannon ad agitarlo tanto: sarebbe un azzardo pensare che Jared
sia innamorato, soprattutto di una ragazza che non ha mai visto dal
vivo, ma di certo non si può dire che quella presenza gli sia del
tutto indifferente, visto il suo atteggiamento da gatto selvatico
gettato a tradimento in una vasca d'acqua gelida. «Scaverai un buco
nel pavimento, a furia di andare avanti e indietro a quel modo» gli
fa notare, e a quel punto Jared si ferma e torna a sedersi accanto a
lei.
«Dovrebbero già essere
qui. Il loro volo è atterrato da mezz'ora, ma nessuna delle due
risponde al telefono. E se non fossero partite e io stessi aspettando
due fantasmi?»
«Innanzitutto, credo che
se non si fossero imbarcate avrebbero avuto l'accortezza di fartelo
sapere. Secondo, prova a pensare in maniera razionale. Devono
scendere dall'aereo, prendere la navetta fino al terminal, aspettare
i bagagli, passare la dogana, sottoporsi ai controlli e attraversare
tutto il gate fino a qui. Trenta minuti sono un tempo ragionevole. Ci
passi la tua vita, in viaggio. Dovresti sapere quanto ci vuole per
sbrigare tutta la trafila.»
«Non mi sono mai accorto
che ci volesse così tanto.»
«Forse perché tu sei
sempre circondato da persone che fanno il lavoro sporco al posto
tuo.»
«Dovrebbe essere una
critica?»
«Dovrebbe essere una
visione razionale della cosa. E comunque non credo che il loro primo
pensiero una volta sbarcate sia stato accendere il cellulare. Magari
prima hanno sentito il bisogno di fare una cosa più umana come
andare in bagno a darsi una rinfrescata.»
«L'ultima volta che ho
controllato, gli aerei erano dotati di ottime toilette.»
«Se non vuoi che ti dia
subito un pugno su quel naso praticamente perfetto che ho avuto la
benevolenza di trasmetterti, ti prego, smettila di agitarti come se
avessi un istrice nei pantaloni. Arriveranno tra poco.»
«Alice, per favore,
andiamo. A furia di guardarti, consumerai lo specchio»
sospiro, sperando che la mia migliore amica la smetta di ritoccarsi i
capelli.
«Scusa se non voglio avere
l'aspetto di una profuga afgana» borbotta lei, passandosi per
un'ultima volta il pennello per la cipria sul naso.
«Mi chiedo se ti
importerebbe così tanto del tuo aspetto, se ad aspettarci non ci
fosse Jared» la stuzzico, sapendo quanto quel nervo sia scoperto.
«In fondo, è soltanto una persona come tante altre. Certo, si veste
in modo molto più bizzarro ed è... beh, in effetti è una persona
molto bizzarra e molto famosa, ma ti assicuro che sotto sotto è
esattamente come noi. Figurati che mi ha vista in pigiama!»
«Ma non la prima volta che
vi siete incontrati.»
«In effetti, la prima
volta che ci siamo visti da vicino avevo la faccia e la maglietta
imbrattate di rosso e di simboli. Comunque non ero certo un esempio
di eleganza e fascino.» Finisce di riporre tutto nella borsetta e
finalmente si stacca dallo specchio. «Se non credessi ciecamente
alle tue parole, direi che sei nervosa come ad un primo
appuntamento.»
«Ma smettila» ridacchia,
dandomi una leggera spintarella, e in quella risatina nervosa vedo
finalmente una crepa: Alice può tentare di mentirmi quanto vuole, ma
è innegabile che tenga a fare una buona impressione.
«Non le vedo» borbotta
Constance, allungando il collo per scrutare meglio i visi dei
passeggeri che stanno attraversando l'uscita del gate. «Daria più o
meno me la ricordo. Alice com'è?»
«Credo che somigli ad Emma
Stone, però bionda. Hai visto The Amazing Spiderman, no?»
«Veramente no. Oh,
aspetta, forse ci sono! Guarda là, sono loro?» Jared guarda nella
direzione indicata dalla madre, e il suo cuore salta un paio di
battiti. Daria è esattamente come la ricordava, capelli corti e
sorriso cordiale, ma la ragazza che le cammina di fianco, con i
lunghi capelli biondi e il cappotto blu elettrico... beh, lei è
davvero bella quanto l'attrice cui la paragonava il suo fidanzato.
Non notare i capelli lunghi
di Jared è impossibile, soprattutto perché sembrano agitarsi allo
stesso ritmo del braccio teso a salutarci. Vederlo mi rende
inspiegabilmente felice, come se la sua presenza rendesse più
plausibile una lieta conclusione della storia. Sto per correre in
avanti per abbracciarlo, quando il mio entusiasmo viene smorzato
dalla donna che sta in piedi accanto a lui: sto per conoscere la
madre dell'uomo cui ho spezzato il cuore. Sono terrorizzata.
«Santo cielo, iniziavo a
pensare che la polizia aeroportuale vi avesse arrestate per
rimpatriarvi!» esclama Jared, scattando in avanti per regalarmi
quell'abbraccio che non avrei mai avuto il coraggio di dargli davanti
a sua madre. «Avete viaggiato bene? Ci sono stati problemi? Santo
cielo, sembri così riposata...» aggiunge subito, mettendomi le mani
sulle spalle per allontanarmi e guardarmi bene, cercando un qualsiasi
segno che indichi malessere.
«Sto bene, tranquillo. Ho
dormito per quasi tutto il volo, non mi sarei svegliata nemmeno se
l'aereo fosse precipitato» scherzo, voltandomi verso Alice giusto in
tempo per cogliere il suo sorriso. «So che voi due praticamente già
vi conoscete, ma... lei è Alice» aggiungo, scansandomi per dare più
spazio alla mia amica.
Alice e Jared si studiano
in silenzio per qualche istante, quasi a volersi convincere di essere
davvero uno davanti all'altra. «Piacere di conoscerti di nuovo,
Jared» dice lei, porgendogli la mano destra.
«Un vero piacere anche per
me, Gwen Stacy» risponde lui, sorprendendosi di quanto sia forte la
stretta della ragazza. «Venite, anch'io devo farvi conoscere una
persona» aggiunge, mettendo una mano sulla schiena di entrambe per
accompagnarle verso Constance, rimasta indietro durante lo scambio
dei primi saluti. «Daria, Alice, vi presento Constance Leto, mia
madre. Mamma, queste sono Daria e Alice.»
«Per fortuna siete
arrivate! Se aveste tardato ancora un paio di minuti non so come
sarei riuscita ad impedirgli di sfondare il cordone di sicurezza. Non
l'ho mai visto così impaziente, nemmeno quando da bambino aspettava
l'arrivo di Babbo Natale.»
Daria tende la mano, pur
sapendo che sta tremando come una foglia. «Conoscerla è un vero
piacere, signora Leto. Mi hanno parlato moltissimo di lei.»
«Non dai miei figli,
spero. Tendono a parlare troppo bene di me» scherza la donna,
ignorando la mano tesa per stringere la ragazza in un formidabile
abbraccio, una di quelle strette tanto forti da togliere il fiato.
«Sono così contenta di vedervi» sussurra, senza mollare la presa.
«Quando Jared mi ha detto del vostro arrivo non vedevo l'ora di
potervi incontrare. Temo che l'impazienza sia un difetto di famiglia»
aggiunge, lasciando Daria per ripetere l'abbraccio tritabudella anche
su Alice, che rivolge all'uomo un'occhiata decisamente truce.
«So che avevo promesso di
mantenere il segreto, ma se non l'avessi detto a qualcuno sarei
esploso» si giustifica lui, allargando le braccia con aria
innocente. «Se ti può consolare, lei è l'unica a sapere che siete
qui.»
«Suppongo che ora potremmo
dirlo anche agli altri» risponde Daria. «Insomma, visto che siamo
riuscite ad arrivare qui senza incidenti...»
«Emma ne sarebbe
felicissima. E anche Tomo e Vicki, ne sono sicuro.»
«Come sta Vicki? Sta
andando tutto bene?»
«Non potrebbe andare
meglio. Inizia a somigliare ad una mongolfiera, ma dovresti vedere
quanto sono felici quando sono insieme. Magari potremmo invitarli per
cena, che ne pensate?»
«Potrebbe essere un'idea»
replica Alice. «Ho sempre desiderato conoscerli. Sembrano due
persone stupende.»
«Discuteremo i dettagli
mentre andiamo a casa» ribatte Jared, impossessandosi dei trolley
delle due ragazze. «Forza, andiamo, o mi scadrà il tagliando del
parcheggio e dovrò pagare una multa.»
Mentre attraversiamo
l'aeroporto, si formano due coppie: Alice cammina qualche passo
avanti a me accanto a Constance, scambiando informazioni come se
fossero due vecchie amiche che non si vedono da anni. Io cammino
accanto a Jared, lievemente rallentato dal peso delle valigie.
«Aspetta, dammene una. Non voglio che ti venga un'ernia» propongo,
allungando una mano per prendere uno dei bagagli.
«Non esiste che Jared Leto
faccia faticare una donna» replica lui, scansandosi appena.
«Piuttosto mi procuro un colpo della strega. Ma dimmi, che effetto
ti fa essere qui?»
«Strano è un
aggettivo poco originale?» replico. «Non lo so, non mi sembra
ancora vero di essere davvero a Los Angeles. Diamine, questa mattina
non riuscivo ancora a credere di aver davvero preso una decisione del
genere. Per un attimo ho pensato di non imbarcarmi. Venire qui mi
sembrava un'idea così stupida, così folle, così... non lo so,
priva di senso.»
«Non hai mai avuto un'idea
migliore, fidati» sorride lui, scuotendo la testa per togliersi una
ciocca di capelli dagli occhi. «Non sono uno sciocco, non mi illudo
che andrà tutto bene, ma a prescindere da come finirà questa
storia, sono contento che tu abbia deciso di prendere in mano la
situazione e venire qui per tentare di aggiustare le cose. È un
gesto molto coraggioso.»
«Sì, e non è
assolutamente da me. È la prima volta che prendo in mano la mia vita
in questo modo. Quasi non mi riconosco. Non mi sembra possibile di
aver fatto una cosa del genere.»
«Forse questo è un nuovo
capitolo della tua vita. Forse hai finalmente voltato pagina, anche
se ancora non riesci a rendertene conto.»
«In un certo senso, in
questi mesi sono cresciuta. Sono successe molte cose, non so se Alice
ti ha raccontato tutto.»
«Parli di tuo fratello?
Sì, me lo ha raccontato. Ha detto che hai affrontato la situazione
con una calma olimpionica. Era molto fiera di te.»
«Spero che quella calma
non mi abbandoni. Ho la sensazione che me ne servirà parecchia»
sbuffo, guardandomi attorno per un istante per imprimermi nella mente
quanti più dettagli possibile, o forse soltanto per allontanare
quella domanda che alla fine riesce comunque a trovare la strada
della libertà. «Shannon come sta?»
«Mamma e io siamo stati da
lui domenica, per il suo compleanno» risponde Jared, evitando
accuratamente di guardarmi. «Se devo essere sincero, non so dirti
come sta. Dovrei vederlo nel suo contesto, per riuscire a dirti
davvero come sta. In clinica sembra tutto diverso, come... non lo so,
ovattato, smorzato, come se fosse tutto sospeso in un limbo.»
«Sii sincero con me,
Jared. Per favore, sii sincero. Pensi che esista anche una sola
possibilità che Shannon mi perdoni per quello che gli ho fatto?»
Lo vedo abbassare gli occhi
in cerca di una risposta, e quando finalmente il suo sguardo torna su
di me, il suo bel volto è rovinato da un sorriso preoccupato. «Sarò
sincero, Daria. Non ti sei scelta una battaglia semplice. Per vincere
dovrai essere pronta a combattere come non hai mai fatto in vita
tua.»
*
Cedar Creek, 12 marzo
2014
Quando
apro gli occhi, il mio intero corpo è pervaso da una strana
sensazione, come se ogni senso fosse amplificato, il mio intero
essere pronto ad accogliere una novità. Mi sento come se qualcosa di
nuovo e potenzialmente pericoloso stesse per attraversare la mia
strada, e per la prima volta dopo tanto tempo provo di nuovo qualcosa
di incredibilmente simile alla paura.
Subito dopo colazione,
comprendo che questo senso di malessere non passerà da solo, a meno
di non provare a parlare con qualcuno. Siccome il dottor Connors non
c'è, assente da lunedì mattina per un breve giro di conferenze che
si concluderà venerdì sera, la scelta ricade ovviamente su
Rosalita, che dopo quattro giorni è ancora la sola persona con la
quale sia riuscito a stabilire un legame decente – non che non
abbia stretto qualche mano, da quando sono entrato qui, ma nessuna
persona sembra in grado di aiutarmi quanto lei.
Dopo
una breve ricerca, la trovo nel parco, seduta sulla panchina dove ho
passato l'intero pomeriggio di sabato, intenta ad intrecciare i
lunghi capelli biondi di una ragazza che non sembra avere più di
vent'anni. «Ciao, Rosalita. Avrei bisogno di parlarti.»
«Quando
avrò finito con Amy» ribatte lei, senza alzare lo sguardo e senza
smettere di lavorare. «Ci vorranno dieci minuti. Fatti un giro e poi
torna qui.»
Sorpreso
per la sua inaspettata freddezza, capisco che insistere non sarà di
nessun aiuto – e poi dieci minuti sono un tempo ragionevole. Ne
approfitto per fare un giro del parco e scambiare qualche parola con
George, una delle persone che ho conosciuto qui. George è davvero un
uomo a pezzi, uno che ha passato le pene dell'inferno: cinque anni fa
ha perso tutta la sua famiglia – moglie e tre figli adolescenti –
in uno spaventoso incidente d'auto le cui conseguenze si porta ancora
addosso. È stato proprio lui a raccontarmi la sua storia, appena
dieci minuti dopo avermi conosciuto: nonostante la voce ferma e il
tono deciso, il suo volto tradiva tutta l'emozione provata nel
ripensare al tesoro che ha perso. Il suo racconto mi è stato utile,
poiché mi ha aiutato, almeno in parte, a ridimensionare la mia
perdita e a guardarla con un maggior distacco, confrontandola ad
altri dolori, e aiutandomi a capire che la mia situazione non è una
trappola alla quale non si possa sfuggire.
Quando
torno da Rosalita, la trovo sola, ad occhi chiusi, intenta a godersi
il calore del sole sul viso. «Ciao» la saluto, sedendomi accanto a
lei.
«Scusa
se prima sono stata un po' dura con te» replica, senza aprire gli
occhi. «Amy è qui da due settimane, ma fino a questa mattina non
ero mai riuscita a stabilire una relazione. Mi sono sentita
disturbata.»
«Sembra
una ragazza così normale»
sospiro. «Qual è il suo problema?»
«Beh,
lei è una ragazza che viene da una famiglia disfunzionale. Un po'
come me» ribatte, aprendo gli occhi e sbattendo un paio di volte le
palpebre per abituarsi alla luce. «Aveva trovato la sua strada nella
ginnastica artistica. Era davvero brava, un talento raro e naturale»
aggiunge. «Poi ha subito un brutto infortunio, e per rimettersi in
piedi ha iniziato ad abusare di antidolorifici. Solo che ciò che ti
fa stare bene ha la brutta tendenza a prendersi qualcosa in cambio, e
quando ha subito il secondo incidente non è più riuscita a
riprendersi. È qui perché ha perso il suo sogno e non sa come
superare la perdita.» Si volta a guardarmi, fissandomi in un modo
davvero fastidioso. «Un po' come te, no?»
«Non
ho perso il mio sogno. Il mio sogno è il mio lavoro, e lo vivo ogni
giorno.»
«Sul
serio? Quindi hai suonato ogni giorno da quando sei qui dentro?» mi
stuzzica, piegando un angolo della bocca in un sorriso sarcastico.
«Allora, di che mi dovevi parlare? Sembrava così urgente, prima.»
«Non
so se sia ancora così importante» sospiro. «Quando mi sono
svegliato, stamattina, ho provato una strana sensazione. Ti è mai
capitato di aprire gli occhi e pensare che ti sia per succedere
qualcosa di grosso, qualcosa che non avevi previsto?»
«Sì,
direi che è capitato. Direi che capita a tutti» precisa. «E
siccome non c'è il dottor Connors con cui parlare, sei corso subito
da me.»
«Mi
sembrava la cosa più ragionevole da fare. Sei l'unica persona qui
dentro che sembra in grado di capirmi bene quanto lui.»
«Se
doveva essere un complimento, ti ringrazio.» Si ravvia i capelli con
una mano, distogliendo lo sguardo. «Non mi hai ancora detto che cosa
ti è successo.»
«Credevo
lo avessi capito da sola.»
«Fare
delle supposizioni non significa aver capito tutto. Ho capito che c'è
qualcosa che ti rode, ma non so di preciso che cosa sia. Siccome sei
un musicista famoso, opterei per un cliché: è colpa di una donna»
aggiunge con un sorriso, tornando a guardarmi. Notando che il mio
volto si è indurito, anche il suo perde l'ilarità. «Quindi ho
indovinato? È colpa di una ragazza?»
«Sono
stato lasciato da una ragazza che credevo avrebbe potuto cambiare la
mia vita, e che in un certo senso lo ha fatto. È stato un duro
colpo.»
«Perché
non eri mai stato lasciato, suppongo.»
«Al
contrario, sono stato lasciato. Il mio primo amore» aggiungo con un
breve sorriso. «Mi ha lasciato perché aveva capito che le nostre
strade non sarebbero mai riuscite a coincidere.»
«E
la seconda ragazza, invece? Perché ti ha lasciato?»
«Per
lo stesso motivo» sospiro. «Lei è una ragazza normale, una che
tutte le mattine si sveglia per andare al lavoro, una che lotta per
pagare le bollette e non annegare nei problemi quotidiani, mentre
io...»
«...vai
per locali ogni notte e guadagni milioni suonando sempre gli stessi
tre pezzi.»
«Mi
sembra che tu stia generalizzando un po' troppo, comunque... sì, più
o meno è così.»
«Ti
sembrerà un po' crudele da parte mia, ma... quando l'hai conosciuta
non avevi messo in conto che sarebbe potuta finire in questo modo?»
«All'inizio
ho avuto i miei dubbi. Mi sembrava troppo bello per essere vero. Solo
che poi ho imparato a conoscerla, e ho iniziato a vedere solo i lati
positivi. Insomma, mi sembrava che... che i lati positivi potessero
superare quelli negativi. Ho iniziato a credere che se avessimo
lottato avremmo potuto farcela.»
«Ma
lei non la pensava così, vero? Si è lasciata prendere dal panico e
ha preferito troncare prima che la storia si facesse troppo seria.
Quanto è durata?»
«Un
mese. Forse poco meno di un mese» ribatto. «Lo so, so che stai per
dire che un mese non è abbastanza per affezionarsi ad una persona al
punto di voler trascorrere con lei il resto della vita, ma...»
«Non
stavo per dire una simile assurdità» mi interrompe. «Mi sono messa
con Anya poco meno di due settimane dopo averla conosciuta, e ho
vissuto una grandiosa storia con lei, ma la mia felicità non è
durata più della tua. E comunque ne pago lo scotto ancora adesso.»
Guarda di nuovo lontano, come perdendosi per un istante nelle
memorie, e poi riprende: «Che cosa ti attirava di più di quella
ragazza?»
«Il
fatto che fosse così diversa da me, credo. Io rappresento tutto ciò
che di sfasato e anormale c'è al mondo, e lei era l'emblema della
normalità. Rappresentava tutto ciò che non ero mai riuscito ad
avere, nemmeno da bambino, e mi attirava come una falena è attirata
dalla luce. Pensavo che potesse aiutarmi a cambiare la mia vita. Non
che volessi lasciare quello che faccio, diventare un uomo comune in
mezzo a tanti altri uomini comuni. Mi piace quello che faccio, adoro
fare musica, le connessioni che si riescono a creare con le persone
attraverso le nostre canzoni, solo che...»
«...non
ti bastava» completa lei.
«Ho
vissuto una vita senza amore, da quando abbiamo iniziato a girare per
il mondo. Posso avere praticamente ogni donna che voglio, ma da
nessuna di loro posso avere ciò che desidero. Con Daria era diverso.
Lei poteva darmi ciò che volevo: la stabilità, la normalità, la
certezza che esistesse almeno una persona al mondo in grado di amare
me, non la mia fama o
i miei soldi. È stata la prima ragazza al mondo a farmi desiderare
una famiglia mia, dei
figli che ti saltano sul letto per svegliarti la mattina di Natale,
spazi comuni da condividere, notti insonni passate a chiedersi se le
persone che ami siano al sicuro...»
«Di'
pure che sono cinica, ma a me sembra che tu non fossi innamorato di
lei, ma di ciò che lei poteva offrirti.»
«Forse
può sembrare così, ma ti giuro che io amavo lei,
solo lei. E quando mi
ha lasciato il mondo mi è crollato addosso non perché le mie
possibilità di essere normale erano svanite, ma perché lei
non era più accanto a me.»
«Non
sembri un uomo che si arrende facilmente. Perché non hai lottato per
riprendertela?»
Sospiro, prendendomi la
testa tra le mani. In questo momento vorrei non aver ceduto
all'impulso di sfogarmi con Rosalita, perché ora che ho iniziato il
racconto dovrò andare fino in fondo, passando di nuovo per l'inferno
dei miei ricordi, riportando alla mente ogni singolo dolore, dalla
lettera di addio al rumore secco del mio cuore che si spezza nel
comprendere che la sola donna che abbia mai veramente amato mi ha già
dimenticato.
*
Los
Angeles, 12 marzo 2014
«Benvenute
nella mia umile dimora» esclama Jared, spalancando la porta
d'ingresso e trascinando i trolley fino in salotto.
«Porca
miseria» sospira Alice, guardandosi intorno. «Speriamo che la casa
non sia un modo per compensare altre mancanze...»
Le do una gomitata,
rivolgendole un'occhiataccia: è vero che ha parlato in italiano, il
che rende la sua frase incomprensibile sia per Jared che per
Constance, ma in qualche modo sono terrorizzata all'idea che qualcuno
possa capire quanto ha appena detto. Nel frattempo, Constance ha
chiuso la porta e ci ha raggiunte. «Se state pensando che sia un
megalomane, avete ragione» sorride. «E non fatevi scrupoli a
dirglielo, io non perdo alcuna occasione per ricordarglielo.»
«Venite,
vi faccio vedere subito le vostre camere» interviene Jared, fingendo
di non aver sentito il commento della madre. «Avrete anche un bagno
tutto per voi.»
Nel
sentire quelle parole rimango impietrita, quasi spaventata dalla sua
estrema gentilezza. Lo conosco abbastanza da sapere che per gli amici
farebbe questo ed altro, ma non riesco a credere che sia davvero
disposto a lasciarci invadere così la sua privacy. «No, Jared, non
possiamo approfittare di te in questo modo» inizio a dire, bloccata
da una gomitata di Alice, che sillaba in silenzio qualcosa tipo Certo
che possiamo. «Possiamo stare
in albergo» riprendo, per nulla intimorita dalla mia amica.
«Col
cavolo che starete in albergo» replica lui, senza voltarsi indietro.
«Qui c'è abbastanza posto per tutti, e sicuramente non vi farò
sprecare denaro. Tanto ci stareste poco, perché ho intenzione di
farvi vedere un sacco di posti, mentre sarete qui.»
«Ma...»
tento di replicare, pur sapendo che sarà inutile.
«Niente
ma. Siamo a casa mia,
nel mio Paese, ergo comando io.»
Constance
sorride, mettendoci una mano sulla schiena per convincerci a
proseguire lungo il corridoio che porta verso le camere da letto.
«Scusate, avevo dimenticato di avvertirvi delle sue piccole tendenze
dittatoriali.» Mi rassegno ad accettare la decisione di Jared e
inizio a muovermi, pur se poco convinta della cosa.
*
Torino, 12 marzo 2014
Danilo
si chiede quale strana ragione l'abbia spinto ad accettare di
prendersi cura del gatto di Daria, visto che è sempre stato
allergico al pelo dei cani e dei gatti. È proprio per questa ragione
che, nonostante le insistenze dei figli, non ha mai accettato di
prendere animali in casa. Forse ha accettato soltanto perché era la
sua bambina a chiederlo, e ad un figlio è sempre difficile negare
qualcosa. La sua unica speranza è che fosse Francesca a prendersi
cura del micio, tenendolo confinato in camera sua, in modo da
smorzare il fastidio. Solo che quella sciocca palla di pelo sembra
aver sviluppato un morboso affetto per lui e si ostina a seguirlo
ovunque, persino quando va in bagno. Ma il colmo arriva quando il
gatto cerca di arrampicarsi sul piumone per arrivare sul letto.
Danilo sbuffa, scosta le coperte, afferra con due mani l'animale,
pronto a sgridarlo come non ha mai fatto nemmeno con i suoi stessi
figli – ma a quel punto avviene l'impensabile: il gattino risponde
alla sua espressione truce con due occhi tristi, che sembrano quasi
colmi di lacrime, e Danilo capisce che a quel gatto, come a lui,
semplicemente manca Daria.
«Scommetto che quella sciocchina ti lascia dormire con lei, eh?»
sospira, ricacciandosi in gola le parole dure che era intenzionato a
dire. «E scommetto che ti manca da morire» aggiunge, ricacciando
indietro anche uno starnuto. «E va bene, ma solo per questa notte. E
guai a te se mi sporchi il piumone» si arrende, lasciandogli
appoggiare le zampe sulla coperta e guardandolo mentre muove qualche
passo qui e là cercando il punto più comodo nel quale
acciambellarsi. «Roba da matti» sospira, allungando una mano per
spegnere la lampada. «Roba da matti» ripete ancora, a voce più
bassa, coricandosi.
*
Cedar Creek, 12 marzo
2014
«Come
credi che reagiresti, se lei si presentasse alla tua porta... che ne
so, domani?»
«Non
ne ho idea» ammetto. «Una parte di me vorrebbe prenderla a
schiaffi, credo.»
«Dubito
che sarebbe una buona idea» replica. «Il punto è questo: in mezzo
a tutte le parti di te, ce ne sarebbe una disposta a perdonare, se
lei venisse qui per chiederti scusa?» Ci rimugino sopra a lungo, in
silenzio, cercando ogni scusa possibile per evitare lo sguardo
indagatore di Rosalita, e finendo con il fissarmi le scarpe. «Direi
che il tuo silenzio la dice lunga» prosegue lei. «Se hai bisogno di
tanto tempo per trovare una risposta, significa che hai dei dubbi. E
questo mi dice che quella parte di te esiste,
e che se lei si presentasse qui chiedendoti scusa non sapresti cosa
dire né che fare, perché una parte di te vorrebbe mandarla a quel
paese, ma un'altra parte vorrebbe stringerla forte e ricominciare da
capo.»
«Sono
proprio un gran casino, eh?»
«Non
ti esaltare. Al mondo c'è chi è messo peggio di te.»
*
Los Angeles, 12 marzo
2014
Nonostante
il lungo sonno fatto in aereo, ho passato il pomeriggio a dormire,
così come Alice, e quando riapro gli occhi sono già le sei di sera.
Mi sono appena alzata quando qualcuno bussa alla porta della mia
stanza. Vado ad aprire, ed è Jared. «Ciao» mi sorride. «Hai
riposato bene?»
«Ho
dormito come un ghiro» confesso. «Mi sento un po' in colpa, visto
che avevo già dormito in aereo» aggiungo, stiracchiandomi appena.
«Alice è sveglia?»
«Da
mezz'ora. Si è fatta una doccia e ora sta facendo amicizia con mia
madre» sorride ancora. «Volevo solo avvertirti che ho sentito Tomo
e Vicki e li ho invitati a cena. Saranno qui verso le sette e mezza.
Ho detto loro che avevo una sorpresa da mostrargli.»
«Sono
contenta di rivederli» rispondo, spostandomi per aprire la valigia e
cercare qualcosa di pulito da mettere dopo la doccia che ho un
disperato bisogno di fare. «Mi sono mancati.»
«E
tu sei mancata a loro, credo» replica. «Sei mancata anche a me. E a
Shannon, naturalmente. Non ci siamo visti molto, e probabilmente non
ci conosciamo nemmeno, ma... eravamo tutti abituati ad averti nelle
nostre vite, in un certo senso.»
«Se
stai cercando di farmi sentire in colpa, non hai bisogno di
impegnarti. Mi faccio orrore da sola.»
«Non
è mia intenzione farti sentire in colpa» risponde, ficcandosi le
mani in tasca. «Scusa se ti ho dato quest'impressione. Di solito
sono un bravo oratore.»
«Me
lo ricordo bene. Non sono ancora riuscita a dimenticare il discorso
di Parigi. Quello che hai tenuto durante il concerto» preciso. «Mi
vergogno immensamente del mio comportamento. Ti giuro che darei tutto
quello che ho per tornare indietro e rimanere in quella stanza
d'albergo.»
«Hai
soltanto avuto paura. È una reazione più che naturale.
Sinceramente, sarei rimasto stupito se non ne avessi avuta neanche un
po'. Non mi piacciono le persone che non hanno mai paura di niente.
Sono pronte a tutto, e questo non sempre è un bene.»
«Con
me allora si va sul sicuro» scherzo, appoggiando i vestiti che ho
scelto sul letto. «Ho avuto paura di un sacco di cose per la maggior
parte della mia vita.»
«Ma
non di salire su un aereo e andare dall'altra parte del mondo per
cercare di riparare ad un errore.»
«Ho
soltanto imparato a nascondere meglio i miei sentimenti, ma ti
assicuro che sono spaventata come non mai» replico. «Non so nemmeno
da che parte iniziare per chiedere scusa.»
Lo
osservo abbassare lo sguardo e mordicchiarsi appena un labbro, come
se stesse tentando di reprimere una domanda scomoda. «Ti andrebbe...
ti andrebbe di vedere Shannon... che ne so, domani?»
«Domani?»
«O
puoi aspettare ancora, se vuoi. Non voglio assolutamente obbligarti a
fare qualcosa che non vuoi.»
«Non
credo che aspettare un giorno cambierebbe le cose. Ho paura oggi, ne
avrò domani e ne avrò sicuramente anche tra due giorni. E poi non
posso restare qui per sempre. Ho soltanto una settimana per provare
ad aggiustare le cose. Se c'è una cosa che ho imparato in questi
mesi, è che non bisogna mai perdere tempo. Soprattutto quando si
tratta di...» mi blocco, incerta circa il termine da usare.
«Amore?»
suggerisce lui, sorridendo ancora una volta. Annuisco, incapace di
dire altro. «Allora va bene, è deciso. Domani mattina andremo a
trovare Shannon. Ti lascio finire di prepararti.» Si volta,
lasciandomi di nuovo sola, e al pensiero che tra poco più di dodici
ore rivedrò l'unico uomo al mondo di cui mi sia veramente importato
le mie ginocchia iniziano a tremare come quelle di una ragazza
interrogata in trigonometria.
*
Cedar Creek, 12 marzo
2014
«Ciò
che mi più infastidisce è che non riesco a levarmela dalla mente.
Vorrei riuscire a non pensare a lei, vorrei riuscire a dimenticarla,
ma non importa quanto ci provi. Lei continua a ritornare.»
«Continui
a credere che per superare un dolore sia necessario dimenticarlo.
Devi ficcarti in quella testa dura che le due cose non sono
collegate. Si può superare un dolore continuando a tenerlo nel tuo
cuore. Tutto ciò che devi fare è lavorarci su per trasformarlo da
dolore a ricordo.
Sono certa che non sia la prima volta che ti succede qualcosa di
brutto. Non dirmi che hai rimosso dalla memoria ogni esperienza
traumatica.»
«Beh,
no. Ma credo sia impossibile dimenticare ogni dolore.»
«Appunto.
Devi provare ad elaborare quello che ti è successo, prendere il male
che quella ragazza ti ha fatto e chiuderlo in un cassetto della
memoria insieme a tutte le altre esperienze brutte della tua vita.»
«E
come diavolo dovrei fare, sentiamo?»
«Questo
è l'unico punto sul quale nessuno può darti consigli, né io né il
dottor Connors. Ognuno ha un suo modo per elaborare il dolore. Devi
trovare il tuo, e impegnarti con tutte le tue forze per metterlo in
pratica. Ma ti devi impegnare davvero, altrimenti non servirà a
niente.» Guarda l'orologio, alzandosi. «Adesso, scusami, ma devo
andare. Ho promesso a Georgia che sarei passata a trovarla. «Shannon,
io credo che tu possa farcela. Sul serio, in credo in te. So che in
fondo non ti conosco, ma qualcosa mi dice che in qualche modo ne
uscirai.»
«Oh,
sicuramente ne uscirò. Frantumato in un milione di pezzi, magari, ma
ne verrò fuori.»
«Ne
uscirai intero, te lo assicuro. Ne uscirai più forte di prima. Me lo
sento.»
*
Los Angeles, 12 marzo
2014
Seduti attorno al tavolo
della sala pranzo, sembriamo un gruppo di vecchi amici: è come se
Alice ed io non fossimo le due straniere ospiti di Jared, ma parte
integrante di una bizzarra famiglia, e questo riesce in un certo
senso a cancellare un po' del mio senso di paura. Stare in mezzo a
gente che ride e scherza e si comporta con tanta naturalezza e
cortesia mi fa sentire sola e meno impaurita, riuscendo a far
sembrare la montagna che mi si staglia davanti una semplice
collinetta. Rido quando Constance racconta aneddoti imbarazzanti
sull'infanzia di Jared, sorrido quando si parla della gravidanza di
Vicki e la ascolto battibeccare con il marito circa il nome che
daranno ai loro figli, e nemmeno per un istante penso che domani a
quest'ora starò in piedi davanti al mio destino, sperando che questi
non decida di schiaffeggiarmi.
*
Cedar Creek, 12 marzo
2014
Dopo cena resto a lungo
sdraiato sul letto con lo sguardo fisso sul soffitto, ripensando alle
parole di Rosalita. Se ho ben interpretato le sue parole, il modo
migliore per superare la rottura con Daria è tenere costantemente
sotto gli occhi ciò che più me la ricorda, visto che di
dimenticarla proprio non se ne parla. Spingo i piedi giù dal letto e
recupero il borsone dal fondo dell'armadio. Ci frugo dentro, trovando
subito quegli oggetti che nemmeno volevo portare con me, ma che per
qualche motivo. Usando un vecchio rotolo di scortch pescato dal fondo
di un cassetto della scrivania, appicco ad una delle ante
dell'armadio la fotografia scattata dai turisti giapponesi durante il
nostro primo pomeriggio insieme e i fogli che compongono la sua
lettera d'addio. Una volta finito, mi siedo sul letto a contemplare
la prova della mia felicità e le parole che l'hanno distrutta,
chiedendomi se questo mi aiuterà davvero a superare i miei guai, o
se non farà altro che precipitarmi ancora di più nell'abisso.
Scuoto la testa, cercando di allontanare i dubbi, e per riuscirci
meglio imbraccio la chitarra, iniziando a suonare Bright lights,
quella che era la canzone preferita di Daria, e che per tanto tempo è
stata anche la mia.
1Ti
vedrò nella seconda parte, e riprenderemo da dove ci siamo
interrotti quando ti ho persa, e ci innamoreremo di nuovo e
cambieremo la fine della storia. Sì, torneremo insieme, nella
seconda parte. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Part
two di Brad Paisley,
contenuta nell'album Part
II
(2001).
|
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Capitolo 7 *** 7 | Arrendersi è più facile, quando entrambi lasciamo perdere. ***
La lunga strada verso casa - 1
Come
sempre, grazie per le meravigliose parole che lasciate nelle
recensioni e nei commenti su Facebook. Non merito tanta bontà da
parte vostra, ma non posso che essere felice di essere l'oggetto di
tanti complimenti. Per ringraziarvi a dovere avrei voluto postare al
più presto il settimo capitolo, ma per una serie di motivi non mi è
stato possibile (per chi di voi non mi segue/ha tra gli amici di
Facebook, la notte di Pasqua è venuto a mancare il mio bisnonno,
quindi ci sono stati un paio di giorni piuttosto difficili a livello
familiare). Comunque ciò che conta è che adesso sono qui, e sono
pronta a ricevere i vostri insulti.
Buona
lettura,
EffieSamadhi
Per aspera ad astra
Capitolo settimo
Arrendersi è più
facile,
quando entrambi
lasciamo perdere.1
Cedar Creek, 13 marzo
2014
«Nervosa?» domanda Jared,
e alla sua domanda non so davvero come rispondere. Improvvisamente
vorrei poter fare inversione, farmi riportare in aeroporto e
imbarcarmi sul primo volo per l'Italia, senza passare dal via.
Improvvisamente l'idea di rivedere Shannon non mi sembra più così
buona, e altrettanto improvvisamente mi sembra di aver solo finto
di avere il coraggio di rivederlo e parlargli. Le gambe mi tremano,
così come la mano che si tiene aggrappata al meccanismo di apertura
dello sportello dell'auto. «Sicura che non vuoi che veniamo con te?»
Scuoto la testa, mentre dal sedile anteriore anche Alice si volta a
guardarmi, cercando di capire il mio stato d'animo – ma nonostante
tutta la sua empatia, nemmeno lei può davvero capire come mi senta
in questo cruciale momento.
«No, ci devo andare da
sola» sussurro infine, guardando i cancelli della clinica come se si
trattasse di un alto muro in mattoni circondato da rovi e sormontato
da metri di filo spinato. «Se ti vedesse con me potrebbe sentirsi
costretto ad ascoltarmi, e non voglio che pensi di non avere scelta.
E poi è una trappola in cui mi sono infilata da sola, ed è così
che intendo uscirne.»
«Va bene» sospira lui,
tornando a guardare avanti. «Io porto Alice a fare un giro qui nei
dintorni. Quando vuoi che veniamo a prenderti, basta chiamare»
aggiunge, tornando a guardarmi con un sorriso.
«In bocca al lupo»
sussurra Alice con un filo di voce, voltandosi per sfiorarmi un
ginocchio con la mano. Sorrido, apro lo sportello e metto i piedi
fuori dall'auto, sperando che le ginocchia non mi tradiscano.
Darlene bussa alla porta
aperta annunciandomi una visita, e il mio pensiero corre subito a mia
madre e Jared, anche se domenica avevano detto che forse non
sarebbero riusciti a venire a trovarmi fino a sabato. Felice comunque
di poterli vedere, mi infilo le scarpe ed esco, diretto verso il
parco, là dove Darlene mi ha detto di dirigermi.
Sono a meno di dieci metri
dal grande salice sotto il quale mi siedo spesso per pensare quando
mi accorgo che a farmi visita non è né mia madre né mio fratello,
né Tomo, Vicki, o una qualunque delle persone che avrei mai pensato
di trovarmi di fronte. La persona che mi aspetta è in piedi e mi dà
la schiena, ma nemmeno in un milione di anni potrei dimenticare
quella figura, quei cortissimi capelli castano chiaro, o il modo in
cui tiene le spalle sempre contratte, come a voler occupare meno
spazio possibile nel mondo. Il primo istinto è quello di voltarmi,
tornare dentro e chiedere a Darlene di cacciarla via, ma i miei piedi
si rifiutano di obbedirmi, e quando Daria si volta, persino più
bella di quanto la ricordassi, ogni possibilità di sfuggire al
destino svanisce.
Shannon è in piedi a meno
di dieci metri da me e non riesco a capire che cosa significhi
l'espressione che ha dipinta sul volto, ma di certo non fatico ad
accorgermi che è diverso da novembre. Non è soltanto il nuovo
taglio di capelli, ma la sua intera figura, la sua postura, e più di
tutto il suo sguardo. Questa distanza, quattro mesi fa, l'avrebbe
annullata di corsa, e subito mi sarei ritrovata a non respirare più,
stretta tra le sue braccia, e sicuramente dalla mia bocca, impegnata
a baciare la sua, non sarebbe uscito un filo di fiato. Ma oggi è
tutto diverso, questo è chiaro – me lo aspettavo, questo è vero,
ma ho sempre saputo che non sarei mai stata pronta ad affrontare
questo momento. Chiudo gli occhi per un istante, prendendo fiato, pur
sapendo che potrebbe approfittare di questo istante di pausa per
voltarmi le spalle, lasciandomi sola e senza la possibilità di
spiegarmi. Quando li riapro, però, lui non è scomparso, anzi: si è
fatto più vicino, anche se dalla sua espressione comprendo che le
cose non si stanno mettendo meglio, per niente.
«Come sei arrivata qui?»
Vorrei tanto risultare meno irritato o sgarbato, ma la mia voce
sembra voler fare ciò che il mio corpo rifiuta: allontanare Daria,
spingerla via e relegarla al rango di semplice ricordo.
«Io ho... mi ha
accompagnata tuo fratello.»
«Sì, ma... che cosa
vuoi?» Ancora quel tono duro e astioso che avrei pensato di usare
con tutti, fuorché con lei.
«Volevo parlarti»
risponde, abbassando lo sguardo. «So che è passato tanto tempo e
che forse nemmeno vorrai ascoltarmi, ma... non potevo non tentare.
Dovevo tentare» aggiunge dopo una breve pausa. «Mi rendo
conto che probabilmente in questo momento stare ad ascoltarmi è
l'ultima delle cose che vorresti fare, ma... vorrei davvero che lo
facessi. Non mi servirà molto tempo.»
«Se vuoi che ti ascolti,
ti ascolterò» rispondo, e finalmente il mio tono si ammorbidisce,
sebbene sia ancora lontano anni luce dalla dolcezza di un tempo. La
verità è che, per quanto questi mesi mi abbiano condotto sull'orlo
dell'odio, c'è sempre una parte di me che non sarà capace di
rifiutarla, mai.
«Possiamo... possiamo
sederci?» domanda, spostandosi di qualche passo verso la panchina.
Senza dire una parola, mi avvicino e aspetto che si accomodi, facendo
attenzione a sedermi molto lontano da lei, così tanto che rischierei
di cadere, se non ci fosse il bracciolo a trattenermi. «Ormai è più
di un mese che Jared parla con la mia migliore amica, Alice» inizia,
e a quella notizia spalanco gli occhi per la sorpresa. «Non
chiedermi come sia cominciata, perché è una storia davvero molto
lunga e complicata» aggiunge, smettendo per un attimo di tormentarsi
le dita e appoggiando i palmi aperti sulle cosce coperte dai jeans.
«So che a gennaio Jared ti ha regalato un biglietto aereo per
Torino, e che verso la fine del mese l'hai usato» continua, mentre
la sua voce va acquistando sicurezza. «So che hai aspettato per ore
sotto casa mia, e che alla fine mi hai vista tornare insieme ad un
uomo. So che sei saltato di nuovo su un aereo e sei tornato qui, e
immagino che da quel momento tu abbia cominciato ad odiarmi. Saresti
uno stupido, se non lo avessi fatto. O forse vorrebbe dire che non
tenevi a me, e questo sarebbe ancora peggio, dal mio punto di vista.»
Fa un'altra pausa, durante la quale non riesco a fare altro che
fissarmi le scarpe. «So che hai avuto dei problemi, e che sei venuto
qui per risolverli. Solo che... beh, so di essere io il problema, o
almeno di esserne una parte, e ho pensato che fosse doveroso venire
qui per... beh, chiederti scusa per questo.» Alla parola scusa
alzo di scatto la testa, voltandomi verso di lei, che continua a
tenere lo sguardo fisso davanti a sé. «Quando me ne sono andata da
Parigi ti ho chiesto di non cercarmi, e anche se subito ero contenta
che avessi deciso di accontentarmi, dopo un po' ho... ho iniziato a
pensare che tutto ciò che avevamo vissuto non fosse così importante
per te. Una parte di me ha sempre creduto che saresti venuto a
cercarmi anche in capo al mondo, e accettare che tu non saresti
tornato indietro è stato orrendo.»
«Non venire a cercarti è
stata la cosa più difficile che mi sia mai costretto a fare» dico
finalmente, tornando a guardare il prato che si stende davanti ai
miei piedi. «Sapevo che se non avessi rispettato la tua decisione
probabilmente avrei finito con il perderti, ma rinunciando ad
assecondare i miei istinti alla fine ho quasi perso me stesso.»
«E io mi sento un mostro
per aver permesso che accadesse» ribatte, e in quel preciso istante
sento che il suo sguardo è fisso su di me. Mi costringo a non
voltarmi, perché so che se lo facessi, i suoi occhi compirebbero di
nuovo quella magia che a novembre mi ha legato a lei, e io non voglio
cadere di nuovo in quella trappola. «Quando ho capito che non
saresti venuto a riprendermi mi sono costretta ad andare avanti, ed è
stato... orribile. Dentro di me sapevo che era la cosa
sbagliata, che avrei dovuto chiamarti e provare ad aggiustare le cose
subito, ma non... non ci sono riuscita. Credevo fermamente in ogni
ragione che avevo espresso in quella maledetta lettera, e sentivo che
se fossi tornata sui miei passi tu avresti pensato che non ero
attendibile, che fossi una che cambia continuamente idea, e che ti
avrei perso. Così mi sono costretta ad andare avanti, e ho accettato
di uscire con Marco, il mio capo. È con lui che mi hai vista, quella
sera. Siamo usciti a cena insieme tante volte, sempre come amici, e
improvvisamente è saltato fuori che lui è sempre stato innamorato
di me. Non ho mai provato quel tipo di sentimento per lui, ma ho
accettato perché volevo disperatamente andare avanti, e lanciarmi in
una nuova storia con una persona che diceva di tenere a me sembrava
la scelta migliore. E invece, alla fine, la storia con lui non ha
fatto altro che ricordarmi che il mio cuore era da un'altra parte.»
Sento la mascella serrarsi, mentre con gli occhi della mente rivivo
quella dannata sera, quando la mia speranza è crollata a pezzi sul
marciapiede ghiacciato nel vedere la sua splendida bocca incontrare
le labbra di un altro. «Con lui è durata soltanto un paio di
settimane, poi ho capito che non stavo ferendo soltanto me stessa, ma
anche lui. Lo stavo prendendo in giro, e lui non meritava questo. È
una brava persona, e non meritava che gli spezzassi il cuore. Non
dopo che avevo già spezzato il tuo. Per la prima volta nella mia
vita sono stata davvero sincera con un'altra persona, e gli ho
parlato di te. Gli ho raccontato del modo ignobile in cui ti avevo
ferito, e di quanto avrei voluto poter tornare indietro per compiere
scelte diverse. Lui ha capito, mi ha perdonata, e per un momento mi
sono sentita meglio. Ancora molto lontana dalla serenità, ma
sicuramente mi sono sentita molto meglio, come se per la prima volta
stessi facendo la cosa giusta.»
«Perché mi stai parlando
di lui?» domando, e il mio tono torna a farsi sgradevole, tagliente,
come se le parole fossero la mia unica arma di difesa.
«Perché lui mi ha aiutata
a capire quello che dovevo fare, in un certo senso. Un'altra cosa che
mi ha aiutata a capire ciò che dovevo fare è stato scoprire che mia
madre vive a due quartieri di distanza da me, che si è risposata e
che ha avuto un altro figlio» aggiunge con un filo di fiato. Alzo lo
sguardo su di lei, e per un attimo incontro i suoi grandi occhi
chiari, quasi lucidi di lacrime. «Ho un fratello di undici anni del
quale non sapevo niente, e dopo quindici anni di niente mia madre mi
ha chiesto di conoscerlo e provare a costruire un rapporto con lui,
perché il padre è morto e lei desidera che abbia qualcuno su cui
fare affidamento nel caso accadesse qualcosa di brutto. Non è stata
una notizia semplice da accettare, ma poi ho capito che era ciò che
andava fatto, e così... beh, ci ho guadagnato un fratello, e sto
anche cercando di recuperare il rapporto con mia madre, nonostante
abbia passato gli ultimi quindici anni ad augurarle un pessimo
destino.» Serra per un istante le labbra, forse per reprimere le
lacrime. «Questo mi ha fatto capire che non importa quanto tempo sia
passato, o quante cose brutte siano successe: c'è sempre tempo per
fare un tentativo, anche quando ogni speranza sembra morta. Per
questo ho deciso di prendere un aereo e venire qui a chiederti
scusa.»
Quando Shannon parla, dopo
un lunghissimo minuto di silenzio, il suo tono è di nuovo più
dolce, come se nel profondo del cuore stesse valutando la possibilità
di perdonarmi per il male che gli ho fatto. «Che cosa ti aspettavi,
venendo qui? Che ti perdonassi e che tra noi le cose tornassero
quelle di prima?»
«In confronto a te sono
una ragazzina, me ne rendo conto, ma questo non fa di me un'ingenua.
Non mi sono illusa nemmeno per un istante che sarebbe bastato
guardarmi per decidere di perdonarmi, o che sarebbero bastate due
frasi di circostanza per convincerti a riprendermi nella tua vita.
Onestamente, non credevo nemmeno di riuscire a convincerti a sederti
qui con me per ascoltare ciò che avevo da dirti.»
«Onestamente, per un
momento ho pensato di tornare dentro e mandare la sicurezza a
cacciarti via.»
Sorrido, anche se soltanto
per un istante. «Le cose tra noi non sono mai state semplici,
Shannon. Entrambi abbiamo cercato di vedere soltanto il bello, ci
siamo raccontati un mucchio di bugie per convincerci che sarebbe
bastato amarci per abbattere le difficoltà, ma la verità è che
niente è mai stato semplice, nella nostra storia. Sarebbe da
sciocchi credere che possa esserlo questa fase.»
«Che cosa ti aspetti da
me?»
«Che vuoi dire?»
«Che cosa pensavi sarebbe
successo, mentre venivi qui?»
«Se fossi riuscita a non
farmi cacciare, intendo? Non lo so. Una parte di me sperava che
riuscissi a perdonarmi e tornasse tutto com'era prima, ma un'altra
parte di me credeva e crede ancora che non riuscirò mai ad avere il
tuo perdono. E poi c'è una piccolissima parte di me che spera di
essere mandata via a calci nel sedere, perché non merito nulla più
di questo.»
Daria si alza e muove un
paio di passi, allontanandosi appena da me. «Non so se posso
perdonarti» sussurro, e anche senza alzare la testa riesco ad
immaginare la tristezza del suo sguardo: in fondo, è sempre stata
una ragazza romantica che crede al lieto fine, e non posso credere
che quanto ho appena detto non la ferisca. «Onestamente, non credevo
avrei mai vissuto un momento simile. Non so come comportarmi. Non so
nemmeno come sentirmi, dannazione.»
«Non pretendo certo che tu
mi risponda subito» replica, voltandosi a guardarmi con le braccia
strette attorno al corpo come un'armatura. «Non pretendo nemmeno una
risposta, forse. Per me tutto ciò che importava era venire qui per
chiederti scusa di persona, perché questo lo meritavi.»
«Non è colpa tua se sono
qui» sento il bisogno di dire. «I problemi che voglio risolvere...
ecco, forse erano già presenti anche prima che mi lasciassi. Forse
erano presenti ancora prima che ci conoscessimo, e tu... forse tu li
hai soltanto scatenati. Ma non importa da quanto tempo li avessi, o
che cosa li abbia riportati a galla. Il fatto è che ora sono qui,
ora li vedo chiaramente davanti ai miei occhi, ed è ora che
li devo affrontare, altrimenti non... non riuscirò mai più ad
essere l'uomo che ero.»
«Lo capisco» sussurra,
abbassando lo sguardo sulle proprie scarpe. «Se i tuoi problemi sono
grandi la metà di quelli che ho dovuto affrontare io, è giusto
che...» Si interrompe quando sente una voce femminile chiamare il
mio nome. Alziamo entrambi lo sguardo verso la direzione da cui
proviene il suono: è Rosalita, che mi saluta agitando un braccio e
si sta avvicinando a passo deciso. «Sarò a Los Angeles ancora per
una settimana. Partirò con l'aereo di mercoledì sera. Jared ci
ospita a casa sua. C'è anche Alice con me» precisa. «Se avessi
voglia di parlarmi, sai come trovarmi. Ora me ne vado, Jared mi
aspetta» conclude, prendendo la borsa che aveva lasciato sulla
panchina per allontanarsi quasi di corsa, senza lasciarmi il tempo di
ribattere.
Appena uscita dai cancelli
ho iniziato a camminare lentamente nella direzione dalla quale siamo
arrivati, tirando fuori il cellulare per chiamare Jared e Alice. Ad
ogni passo l'istinto di piangere si fa più forte, e quando, cinque
minuti dopo, Jared accosta accanto a me, ormai il mio volto è
completamente rigato dalle lacrime. Jared e Alice sembrano capire che
non sono in vena di confidenze, perciò il viaggio di ritorno è
estremamente silenzioso. Una volta a casa mi rifugio in camera mia,
buttandomi sul letto senza nemmeno sfilarmi le scarpe, sentendomi
libera di dare libero sfogo a tutto ciò che per mesi ho tenuto
dentro a fatica.
Non appena Daria si è
allontanata sono scattato in piedi, animato dall'inaspettato impulso
di correrle dietro, afferrarla per un braccio e dirle di non
lasciarmi di nuovo, così come avrei voluto fare a novembre,
scoprendo di essere rimasto solo. Sono ancora immobile quando
Rosalita si ferma accanto a me, studiando con attenzione la mia
posizione. «Una fan che ha scoperto dove sei o un'amica
preoccupata?» domanda, puntando le mani sui fianchi. Oggi è di un
buonumore quasi irritante, e darei tutto ciò che possiedo per
vederla cancellarsi quel sorriso dalla faccia.
«Quella è Daria, la
ragazza di cui ti ho parlato ieri» replico, laconico, tornando a
sedermi sulla panchina.
«Però, carina. Non il mio
genere, ma se mi chiedesse di uscire probabilmente non rifiuterei.
Che voleva?» domanda ancora, sedendosi accanto a me. «Niente di
buono, a giudicare dalla tua faccia.»
«Mi ha chiesto scusa per
avermi spezzato il cuore. È venuta dall'Italia apposta per chiedermi
scusa, e io le ho detto che non so se riuscirò mai a perdonarla.»
Mi piego in avanti, prendendomi la testa tra le mani. «E quel che è
peggio, è che non è nemmeno tutta colpa sua se sono incasinato. Lei
è soltanto stata la causa scatenante, ma tutto questo... non è
tutta colpa sua.»
«Mi compiaccio che sia
arrivato a questa conclusione, ma non è a me che dovresti dirlo.»
«Beh, qui ci sei tu.»
«Non fino a due minuti
fa.»
«Stai cercando di dirmi
che dovrei correrle dietro e dirle che in tutti questi mesi non ho
fatto altro che pensare a lei?»
«Non mettermi in bocca
parole che non ho detto» replica. «Sto solo dicendo che...»
«Ma tu che ne sai?»
rispondo bruscamente. «Tu credi di sapere tutto, credi di essere
capace di capire tutto di una persona guardandola per cinque minuti
e... e... e credi di avere tutte le risposte ai grandi problemi della
vita, ma la verità è che non sai un bel niente di come mi sento.»
«Forse è vero, non ti
conosco abbastanza da poterti consigliare, ma che riesco a capire le
persone è vero. Forse è l'unica cosa in cui sono davvero brava, e
non... tu in questo momento ti stai arrendendo, Shannon. E arrendersi
è la cosa peggiore che una persona possa fare.»
«Non mi sto arrendendo.»
«Ma davvero? E come lo
chiami starsene qui seduto a lamentarsi quando avresti dovuto dire a
lei ciò che stai dicendo a me?» Si siede accanto a me, nel posto
lasciato vuoto da Daria, e per un istante vorrei che non fosse
arrivata, perché così saremmo ancora insieme, Daria ed io, anche se
probabilmente ce ne staremmo seduti senza nemmeno avere il coraggio
di guardarci in faccia. «Hai detto che non sai se riuscirai mai a
perdonarla, e questo lo capisco. Non è facile riammettere nella
nostra vita una persona che ci ha fatto del male. Ma il punto è che
se tu adesso la lasci andare via, non... non avrai mai
un'altra occasione per tornare indietro. Se la lascerai andare via,
questa volta sarà per sempre.»
«Nessuno mi hai mai
chiesto scusa per avermi ferito» sussurro dopo un po'. «Forse
nessuno mi ha mai veramente ferito, prima di lei. Non lo so. Il fatto
è che non mi è mai capitata una cosa del genere. È una sensazione
del tutto nuova per me.»
«Tu pensi che io non ti
capisca, ma la verità è che io sono perfettamente come ti senti»
sussurra. «I primi tempi in cui venni a stare qui ero come te. Non
molto loquace, e convinta che nessuno al mondo fosse in grado di
comprendere i miei problemi. Poi conobbi una persona che riuscì a
farmi aprire, facendomi capire che le cose mi sarebbero potute
sembrare meno nere , se avessi imparato a guardarle con occhi
diversi» aggiunge, senza pensare nemmeno per un momento che io
potrei anche non aver voglia di starmene qui zitto e buono ad
ascoltare i suoi aneddoti. «Si chiamava James. Era un ex professore
universitario di letteratura che si era dovuto licenziare a causa del
proprio alcolismo.»
Improvvisamente drizzo le
orecchie, come se sentir parlare di un uomo dedito alla bottiglia
avesse risvegliato qualcosa nella mia anima. «Come aveva iniziato a
bere?» domando, curioso di conoscere quella parte della storia.
«Un motivo già sentito
mille volte. Aveva perso sua moglie a causa della leucemia, e i loro
figli ormai grandi abitavano troppo lontani per dargli il sostegno di
cui aveva bisogno. La bottiglia era il rifugio più sicuro e più
vicino.»
«Perché continui a
parlare di lui al passato?»
«Perché è morto»
replica, senza dare alla propria voce una particolare inflessione.
«Ero qui da sei mesi, quando è successo. Per me è stato un vero
trauma, avevamo legato molto.» Tace per un istante, fissandosi le
mani. «Aveva un dono particolare. Riusciva sempre a trovare qualcosa
di buono nelle persone che lo circondavano. Anche nelle più deboli,
anche nelle più sole, lui... lui trovava sempre qualcosa di
positivo. Un po' come il gioco della contentezza di Pollyanna»
scherza. «I primi tempi qui non... non ero come adesso. Ero cupa, e
buia, e depressa, e... ogni volta che mi sentivo cadere, andavo da
lui per avere un consiglio, o anche solo uno dei suoi sguardi. Aveva
un modo di guardarti che... che sembrava attraversarti l'anima e...
che ti lasciava... non lo so, pulito. Ogni volta che credevo
di non farcela, andavo da lui, e lui mi ripeteva una cosa che non ho
mai scordato. Diceva sempre che la vita è una serie infinita di
prime volte.» Sorride ancora, forse ricordando un bel momento. «È
una filosofia straordinaria, se ci pensi. Affrontare ogni evento
della vita come se fosse un momento unico e forse irripetibile.»
«È un altro modo per
dirmi che avrei dovuto correrle dietro?»
«È un modo come un altro
per farti capire che lei è qui adesso, in questo momento,
e che è adesso che ti sta chiedendo scusa. Quindi, qualunque
cosa tu abbia in mente di fare, forse è adesso che dovresti
farla.» Si alza, allontanandosi di qualche passo. «Ah, a proposito.
Ero venuta a cercarti per dirti che il dottor Connors ha finito il
suo giro con un giorno di anticipo. È tornato questa mattina. Sai,
nel caso avessi bisogno di parlargli.»
*
Los Angeles, 13 marzo
2014
Daria è chiusa in camera
da due ore, e Jared inizia a non sopportare più l'idea di starsene
fermo senza poter fare niente. Già si sente da schifo per non essere
riuscito ad aiutare Shannon – se non riuscisse ad aiutare nemmeno
lei, di sicuro lo coglierebbe la depressione più nera. Dopo aver
trascorso le ultime due ore a parlare con Alice di che cosa comporti
passare la maggior parte del tempo in giro per il mondo, Jared decide
di non poter sopportare oltre quella situazione, perciò si alza per
prendere in mano le redini. «Dove stai andando?» domanda la
ragazza, quasi spaventata da un gesto così repentino.
«Vado a parlare con Daria.
È abbastanza chiaro che qualcosa con Shannon non è andato bene, e
io voglio saperne di più.»
«No, non andare!» esclama
lei, alzandosi per correre a sbarrargli la strada. «Conosco bene
Daria, so come funziona la sua testa. Se ha deciso di voler stare
sola non riuscirai a farla parlare.»
«Scommettiamo? Guarda che
ho ottime doti persuasive» ammicca lui.
«Non ti aprirà nemmeno»
lo sfida lei.
«Dimentichi che sono il
padrone di casa, ergo ho la doppia chiave di ogni porta» continua
lui, scartando di lato per riuscire ad aggirare la ragazza.
«Se avesse lasciato la sua
chiave nella toppa, il doppione sarebbe inutile» ribatte lei,
spostandosi verso lo stesso lato per fermare ancora la sua avanzata.
«Allora la tenterò con
dei dolcetti. Con voi ragazze funziona sempre» continua lui,
spostandosi di nuovo.
«Non è stupida, non la
fregherai» replica Alice, riuscendo ancora una volta a sbarrargli la
strada.
«Vuoi farmi passare o no?»
sbuffa lui, alzando gli occhi al cielo.
«Perché, non ci riesci?
Credevo fossi onnipotente» lo prende in giro lei.
Jared raccoglie la sfida,
scartando di nuovo di lato per trovare uno spiraglio. Ma Alice ancora
una volta è più veloce e riesce ad anticipare la sua mossa, e a
quel punto accade una cosa strana: si ritrovano incollati l'uno
all'altra, più vicini di quanto avessero mai pensato di potersi
trovare. Restano immobili per qualche secondo, aspettando con paura e
trepidazione il momento in cui uno dei due farà la mossa successiva.
Neanche a dirlo, è Jared a muovere la pedina: alza le mani per
stringere i fianchi di Alice e allo stesso tempo incurva le spalle e
abbassa la testa, sperando di arrivare alle sue labbra prima che lei
decida di respingerlo.
Ma Alice non ha pensato
nemmeno per un minuto di allontanarlo: la verità è che negli ultimi
due mesi si è chiesta spesso come sarebbe stato trovarsi a questa
distanza, così vicina da rendersi conto che le iridi di Jared hanno
davvero il colore del cielo, tanto vicina da sentire il suo cuore.
Quando si accorge che Jared sta per baciarla, persino il suo
inconscio si arrende: chiude gli occhi, sentendo la presa sui suoi
fianchi farsi appena più salda, e trattiene il respiro quando la
corta barba di lui le sfiora la guancia. Sembra passare un'eternità
prima che le loro labbra finalmente si sfiorino, ma quando accade
Alice sente che è un gesto speciale, una cosa che Jared non farebbe,
se davvero non lo volesse. Rimangono immobili per qualche
secondo, escludendo il resto del mondo, come se nulla al di fuori del
loro abbraccio esistesse. Le labbra di Jared si allontanano per un
istante, e quando ritornano ad incollarsi alle sue Alice gli stringe
le braccia attorno al collo, cercando di fargli capire che non ha
intenzione di andare da nessuna parte. La casa è silenziosa, quasi
immobile, fatta eccezione per i loro sospiri. E poi, a rompere il
silenzio, arriva il suono del campanello.
Si separano in fretta, come
due adolescenti beccati dai genitori, e Alice subito si passa una
mano sulle labbra, abbassando la testa con aria colpevole. Jared
corre ad aprire, trovandosi di fronte la madre. «Ciao, mamma! Che ci
fai qui?»
«Come sarebbe a dire?
Eravamo d'accordo che sarei passata a lasciarti Bruce» risponde
Constance, avanzando nel salotto con il cane ancora attaccato al
guinzaglio. «Te l'avevo detto, devo andare via per un paio di
giorni. E poi credevo volessi farlo conoscere anche alle ragazze. Non
siete allergiche, vero?» aggiunge, rivolgendosi ad Alice.
«Come? No, no,
assolutamente. Nessuna allergia» replica rapida la ragazza, provando
un profondo imbarazzo all'idea di parlare con la madre dell'uomo che
fino a pochi secondi fa stava appassionatamente baciando. «Non
sapevo che avesse un cane» aggiunge, cercando di recuperare la
propria compostezza.
«Oh, Bruce non è mio, ma
di Shannon» risponde l'altra donna, incurvandosi per sganciare il
guinzaglio dal collare. «Anche se in realtà il nome l'ho scelto io.
Sono una fan di Bruce Springsteen» si giustifica con un sorriso.
«Dov'è Daria?» chiede poi, accorgendosi soltanto in questo momento
della sua assenza.
«Stamattina si è fatta
accompagnare a Cedar Creek per parlare con Shannon» spiega Jared,
prendendo il guinzaglio dalle mani della madre.
«Ah. E com'è andata?»
«Non bene, credo. Poco più
di mezz'ora dopo ci ha chiamati per chiederci di andare a prenderla,
e l'abbiamo trovata in lacrime. Però non ha detto una parola, quindi
non so dirti di preciso che cosa sia successo. Adesso è chiusa in
camera sua da due ore. Stavo appunto andando a...» Jared si
interrompe, incrociando la figura di Alice. «Volevo andare a vedere
come sta, o se ha bisogno di qualcosa» riprende, cercando di
cancellarsi dalla mente l'immagine dell'abbraccio appena interrotto.
«Forse dovrei rimandare il
mio viaggio. Magari vi servirà aiuto.»
«No, mamma, figurati. Ce
la caveremo. Non puoi rimandare.»
«Come vuoi. Inutile
insistere, dico bene?» si arrende Constance, sorridendo
all'indirizzo di Alice. «A volte mi pento di aver cresciuto due
uomini tanto indipendenti. Ti rendono impossibile fare la mamma»
scherza, portando anche Alice a ridere. «Beh, adesso tolgo il
disturbo. Il mio aereo parte stasera, e ho ancora un sacco di cose da
sistemare. Mi raccomando, però, se succede qualcosa non esitate a
chiamarmi. Conto su di te, Alice. Se Jared non mi chiama, fallo tu.»
*
Cedar Creek, 13 marzo
2014
La
porta dello studio del dottore è aperta, ma prima di entrare decido
comunque di bussare. «Buongiorno, Shannon. Come va? Come mai non è
a pranzo?» aggiunge, guardando l'orologio.
«Ci
stavo andando, ma... non credo di avere poi tutto questo appetito.»
«Non
la prenda male, ma la sua faccia non mi piace nemmeno un po'. È
successo qualcosa?»
«In
realtà, sì. E mi chiedevo se... se avesse qualche minuto da
dedicarmi. Credo di aver bisogno di un consiglio.»
«Sono
qui per questo. Chiuda la porta e si sieda.» Raccolgo l'invito e mi
accomodo sulla poltrona che mi ha già accolto durante il nostro
primo colloquio, prendendo a torcermi le mani con fare ansioso. «Mi
dispiace di averla abbandonata per due giorni, ma avevo degli impegni
che non potevo proprio annullare.»
«No,
non importa. Ne ho approfittato per guardarmi attorno e... stringere
qualche mano» rispondo, tentando un mezzo sorriso. «Ho conosciuto
un uomo, un certo George, e... beh, credo di aver capito che al mondo
ci sono persone con drammi molto più gravi dei miei.»
«George
ha una storia davvero molto difficile alle spalle, sì... ma questo
non significa che i suoi problemi siano meno importanti, Shannon. Qui
ogni problema ha lo stesso peso. Ho visto che ha fatto amicizia con
Rosalita» aggiunge con un sorriso. «Qualcosa mi dice che non si è
trovato sprovvisto di guida, in questi due giorni.»
«Quella
ragazza sembra avere il potere di apparire dietro l'angolo ogni volta
che ho bisogno di parlare con qualcuno» replico. «E sembra sempre
avere le parole giuste per risolvere ogni situazione. Non credevo
esistessero persone del genere.»
«Sì,
lei è una persona molto particolare. Egoisticamente, credo sia il
mio miglior successo. Anche se non credo di potermi arrogare chissà
quali meriti. L'ho soltanto aiutata a tirar fuori la forza e la
saggezza che già aveva dentro di sé. Ma parliamo di lei, Shannon.
Che cos'è successo?»
Sospiro, trovando non so
dove la forza di alzare lo sguardo.
*
Los Angeles, 13 marzo
2014
«Ho
un'idea» dice Jared all'improvviso, battendo insieme le mani.
«Un'idea semplicemente geniale. A Daria piacciono gli animali?»
«Sì,
ma non riesco a capire perché tu me lo stia chiedendo. Vuoi portarla
allo zoo, per caso? Perché non sarebbe un'idea geniale. Nemmeno un
po'.»
«Ti
fidi di me?»
«Devo
davvero rispondere?» La fugace apparizione di Constance sembra aver
del tutto cancellato l'imbarazzo, e Alice non riesce a credere che,
nonostante il breve momento di intimità appena vissuto, lei e Jared
siano tornati così in fretta a scherzare insieme come facevano
prima, come due amici che si conoscono da una vita.
«Dai,
fidati di me. Se non funziona, al massimo avremo perso cinque minuti
del nostro tempo.» Jared cattura l'attenzione di Bruce e si fa
seguire fino alla camera di Daria, e non appena li vede partire Alice
inizia a tallonarli come un investigatore privato, curiosa di vedere
a quali abissi di demenza possa arrivare la mente del cantante. Dopo
aver bussato, Jared socchiude appena la porta. «Daria, va tutto
bene?» domanda a bassa voce. In piedi dietro di lui, Alice tende
l'orecchio, ma non arriva alcuna risposta, segno che forse l'amica
sta dormendo – o forse, più semplicemente, non ha alcuna voglia di
rispondere. A quel punto, Jared prende Bruce per il collare e lo
esorta ad entrare nella camera, richiudendo poi la porta con fare
cauto.
«Che
razza di idea sarebbe, scusa?» bisbiglia lei, senza capire le sue
ragioni.
«Daria
è la ex ragazza di Shannon, e Bruce è il suo cane» replica lui,
tornando in cucina a passo lento.
«Dovrei
vederci qualche connessione? Perché a me sembra che tu stia
farneticando.»
«Voglio
solo provare a vedere se vanno d'accordo. E poi magari lei si tirerà
un po' su di morale. I cani fanno sempre tenerezza. Sfido chiunque a
non sorridere vedendo un cane.»
«Va
bene, è ufficiale. Tu sei completamente pazzo.»
«Alla
gente piacciono i pazzi.»
«Alla
gente piace la gente normale.»
«Ah,
davvero? È per questo che mi hai baciato, dieci minuti fa?»
«Cosa?
Io avrei baciato te? Casomai è il contrario!»
«Beh,
non mi sembra che ti sia tirata indietro.»
«Non
è che avessi molta scelta. Mi stavi tenendo ferma con la forza»
replica lei, pur sapendo di dire una bugia grande come una casa.
«Davvero?
Perché a me sembra che avresti potuto prendermi a schiaffi, o
spingermi via, o darmi una ginocchiata, o...»
«Era
fisicamente impossibile che potessi farti qualcosa» lo interrompe
lei, iniziando ad irritarsi. Le sembra quasi che Jared abbia capito
che voleva quel bacio quanto lui, e che la stia punzecchiando in ogni
modo per costringerla ad ammettere l'attrazione che prova.
«Davvero?
Allora vieni qui, proviamo» insiste lui, muovendosi rapido in avanti
per afferrarle nuovamente i fianchi. «Eravamo così, giusto?»
«Ma
che cosa...» inizia a protestare lei, interrompendosi nell'istante
in cui sente il calore delle sue mani attraverso la stoffa. «Beh,
forse... più o meno sì. Forse eri... eri un po' più vicino»
aggiunge in un sussurro.
«Così?»
domanda lui, avvicinandosi di un altro mezzo passo.
«Credo...
credo di sì» bisbiglia ancora lei, sentendosi il viso andare a
fuoco.
«Direi
che c'è abbastanza spazio per prendermi a schiaffi» sussurra lui,
ricominciando ad abbassarsi verso il suo viso.
«Come
faccio, scusa? Sei troppo...»
«Troppo?»
«Troppo...
vicino. Sei decisamente troppo...» La frase muore sulle labbra di
Jared, che hanno appena raggiunto le sue, in una straordinaria
replica di quanto è già accaduto. Come in precedenza, Alice sente
il proprio corpo arrendersi, le braccia salire a cingergli il collo,
le guance irritarsi per la sua barba corta e ispida, i battiti
accelerati per la sua vicinanza. E poi le mani di Jared si spostano,
scivolano lente sulla sua schiena, fino a tenerla tanto stretta da
toglierle il fiato. Senza volerlo, Alice arretra fino al bancone
della cucina, e in quel modo il corpo di Jared aderisce completamente
al suo, stringendola in una trappola dalla quale non ha alcuna
intenzione di liberarsi.
«Sono
ancora troppo vicino?» domanda lui tra un bacio e l'altro, senza
quasi darle il tempo di respirare.
«Sì,
sei troppo vicino» risponde a fatica Alice, domandandosi se tutto
questo non sia un sogno, o forse un madornale errore. Dopotutto lei
ha preso quell'aereo per venire qui ad aiutare Daria nella sua
missione, non per pomiciare con Jared Leto nella cucina di casa sua.
«Mi
devo spostare?» domanda ancora lui. Alice scuote la testa, senza più
parole. In fondo è il sogno di quasi ogni Echelon ritrovarsi in una
situazione simile, anche se lei non si è mai definita una loro
grande fan. Tra le due, è sempre stata Daria quella più sfegatata
della loro musica. La bocca di Jared scivola lenta dalle sue labbra
al suo collo, e Alice riesce a stento a trattenere un gemito –
santo cielo, questo sì che è un uomo che sa quello che fa! «Credo
di aver desiderato baciarti dalla prima volta che abbiamo parlato al
telefono» sussurra contro il suo collo, provocandole un brivido
lungo la spina dorsale.
«Dalla
prima volta che abbiamo litigato
al telefono, vorrai dire.»
«Come
vuoi tu, Gwen Stacy» replica lui, facendo di nuovo scivolare le mani
sui suoi fianchi, e di lì sulle sue cosce. Alice non sa come sia
possibile, ma improvvisamente le sue gambe non sono più ben salde a
terra, ma strette attorno alla schiena di Jared, in una posa che
sarebbe riduttivo definire erotica.
E poi, a complicare le cose, Jared fa risalire una mano verso il suo
collo, mentre le loro labbra tornano ad incontrarsi. E dopo un
istante quella mano inizia a scendere, arrivando a sfiorarle il seno
in una lenta tortura. «Se vuoi che mi fermi, devi soltanto dirlo»
le sussurra, guardandola dritta negli occhi. Ed è questo a fregare
Alice, perché tutta la sua razionalità crolla come un castello di
carte, davanti ad un paio di occhi così aperti e sinceri. Stringe di
più le gambe attorno alla vita di Jared, incontrando un principio di
erezione. Lui chiude per un istante gli occhi, sentendola così
vicina. «Devo prenderlo come un invito a continuare?» sussurra,
chiudendo la mano attorno al suo seno.
Alice
sta per rispondere, quando dal corridoio arriva forte e chiara la
voce di Daria: «Che diavolo ci fa un cane in camera mia?»
*
Cedar
Creek, 13 marzo 2014
«Questa è indubbiamente
una sorpresa» sussurra il dottor Connors. «Quando ne abbiamo
parlato, la volta scorsa, non mi sembrava che lei avesse preso in
considerazione una simile eventualità.»
«Certo che non l'avevo
presa in considerazione» rispondo, cambiando posizione sulla
poltrona. «Di tutte le cose che ritenevo impossibile vedere, questa
è di gran lunga la più impensabile. Quando l'ho vista, per un
momento ho creduto di essere impazzito, o di essermi addormentato e
di aver iniziato a sognare.»
«Che cosa ha detto, a
parte che le dispiace per averle spezzato il cuore?»
«Nulla. Insomma, ha
soltanto ribadito le ragioni che aveva già espresso nella sua
lettera d'addio, e poi ha... mi ha chiesto scusa. Credo sia questo a
sconvolgermi di più. Nessuno nella vita mi aveva mai chiesto scusa
per avermi causato un dolore. A parte forse mia madre, o mio
fratello, o uno dei miei amici più cari. Ma sentirlo da una persona
che ho amato è stato... mi ha fatto sentire strano.»
«Strano in che
senso?»
«Strano nel senso
che... non lo so, per un momento mi sono sentito in colpa, perché...
beh, io sono arrivato sul punto di odiarla per quello che mi ha
fatto, e invece quello che ha detto... quello che ha detto mi ha
fatto capire che nemmeno per lei questi mesi sono stati una
passeggiata. Insomma, quando io credevo che mi avesse dimenticato e
fosse andata avanti con la sua vita, lei... lei soffriva quanto me.»
«Da cosa crede che derivi
questo senso di colpa? Insomma, di solito ci sentiamo in colpa quando
sentiamo qualcosa di davvero intenso per l'altra persona. Di rado
capita di sentirsi in colpa per una persona cui non teniamo molto.
L'altra volta lei ha detto di...»
«Di essere ancora
innamorato di lei» lo interrompo. «Dio, subito dopo averlo detto
credevo di essermi sbagliato, ma... poi l'ho rivista, oggi, e... e mi
sono accorto di non essere mai stato più sincero con me stesso. Ma
questo complica le cose.»
«In che senso complica le
cose?»
«Beh, considerando che
sono arrivato qui per trovare un modo per cambiare la mia vita e
andare avanti senza più pensare a lei... non so come la veda lei, ma
io lo considero un bel passo indietro.»
«Soltanto se è ancora
convinto di quanto ha detto di voler fare quando è arrivato qui.
Nessuno la biasimerebbe se avesse cambiato le sue convinzioni. Non
saremmo umani, se non cambiassimo mai idea.»
«Sono qui da cinque
giorni, dottore. Se avessi cambiato idea dopo soli cinque giorni non
mi riterebbe una persona lievemente incostante?»
«Affatto. E continua a
dimenticare che io non sono qui per giudicarla, Shannon, ma per
aiutarla.» Sento il suo sguardo su di me, e quando alzo la testa mi
accorgo che ha ancora una domanda da farmi. «Come vi siete lasciati?
Insomma, quando vi siete salutati, come... cosa vi siete detti?»
«Non molto. Stavamo ancora
parlando quando è spuntata fuori dal nulla Rosalita. Mi ha salutato,
e a quel punto Daria ha preso la sua borsa e mi ha salutato di corsa,
senza lasciarmi il tempo di rispondere. Non so che cosa abbia
pensato.»
«Può darsi che si sia
sentita di troppo. Forse se al posto di Rosalita ci fosse stato un
uomo, lei non avrebbe sentito il bisogno di correre via.»
«Senza offesa, ma lo trovo
un po' impossibile. È vero, Rosalita è una bella ragazza, ma
sarebbe da idioti credere che tra me e lei... non sto dando
dell'idiota a Daria, che sia chiaro» preciso, quasi sentendomi in
dovere di difendere la sua reputazione. «Forse sarebbe andata allo
stesso modo anche se al posto di Rosalita ci fosse stato George, o
lei. Forse sarebbe comunque corsa via.»
«Forse, è possibile. In
questo caso, quale sarebbe stata la causa, secondo lei?»
«In che senso?»
«Beh, io la vedo in
maniera molto semplice. Daria si stava confidando conn lei. Le stava
aprendo il suo cuore, le stava chiedendo scusa per il male che le
aveva fatto. Chiedere scusa è un gesto molto intimo, di solito
richiede una certa serenità, una certa... riservatezza, se
così vogliamo dire. Forse l'arrivo di una terza persona ha rotto
l'equilibrio che l'aveva spinta a confidarsi, e così ha preferito
andarsene.»
«Si è rotto l'incanto,
dice lei?»
«Qualcosa del genere»
ride lui. «Quindi non avete concluso la vostra conversazione.»
«Beh, non direi. Le ho
detto che non so se riuscirò mai a perdonarla. Quindi forse... beh,
forse lei ha pensato che io abbia definitivamente chiuso la porta.
Forse pensa che non ci siano altre occasioni per parlare.»
«Però? Lo sento che c'è
un però.»
«Però... non lo so. Il
fatto è che io ho pronunciato quelle parole con convinzione, ma
adesso che ci ripenso... non lo so, non sono più così sicuro che
non riuscirò mai a perdonarla. Non dico che torneremo insieme e ci
ameremo per tutta la vita, ma forse... ecco, quello che ho capito è
che lei non è l'unica causa dei miei problemi, quindi forse... non
lo so, potrei anche arrivare a perdonarla, un giorno.»
«Ma lei adesso crede che
sia finita.»
«Dovrei rivederla, credo.
Incontrarla di nuovo e dirle quello che penso davvero» rispondo.
«E allora la chiami. La
inviti a tornare, mettetevi seduti l'uno di fronte all'altra e le
parli come ha parlato con me.» Ci rifletto su per qualche istante,
arrivando alla conclusione che probabilmente Daria non mi
risponderebbe nemmeno al telefono, figuriamoci arrampicarsi di nuovo
fin quassù per ascoltare ciò che ho da dirle. «Shannon, a che sta
pensando?» mi domanda il dottore, cercando il mio sguardo per
cercare di capire i miei pensari. Quando rialzo la testa, ho
finalmente capito quale sia la cosa più giusta da fare.
1Arrendersi
è più facile, quando entrambi lasciamo perdere. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Raining
on Sunday di Keith
Urban,
contenuta nell'album Golden
Road
(2002).
|
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Capitolo 8 *** 8 | «Da quanto manchi dalla tua casa?» «Due anni, duecentosessantaquattro giorni e questa mattina.» ***
La lunga strada verso casa - 1
Eccomi
qui, finalmente, con il nuovo capitolo della storia. Non dico nulla,
tranne che spero che questo episodio riesca ad accontentare un po'
tutti.
Buona lettura,
EffieSamadhi
Per aspera ad astra
Capitolo ottavo
«Da
quanto manchi dalla tua casa?»
«Due
anni, duecentosessantaquattro giorni
e
questa mattina.»1
Cedar Creek, 13 marzo
2014
«Il recupero più veloce
della storia.» Non mi volto, riconoscendo la voce di Rosalita, che
immagino in piedi sulla porta con la solita espressione enigmatica
dipinta sul volto. «Cinque giorni... dev'essere una specie di
record. Non ricordo di qualcuno che si sia fermato di meno in questo
posto.»
«Beh, almeno mi sono
distinto per qualcosa, no?»
Muove qualche passo in
avanti, sedendosi sul mio letto a gambe incrociate. «Hai parlato con
il dottor Connors, vero?»
«Non avrei dovuto?»
«No, no, anzi. Sono
contenta che abbiate parlato. Un po' meno contenta che te ne vada, ma
ci farò l'abitudine.»
«Non dirmi che ti
mancherò.»
«Non ti esaltare» ribatte
con un sorriso. «Mi affeziono a tutti troppo facilmente. Il che è
un po' strano, se pensi a quante volte mi abbiano ferita le persone
che mi erano più care. Vorrei riuscire a vivere ogni rapporto con
maggior distacco, ma ogni volta mi accorgo di aver fallito. Soffro
sempre, quando qualcuno se ne va, che sia stato qui cinque giorni o
cinque mesi.»
«Non lo prenderei come un
addio, comunque. Per quanto ne so, potresti vedermi tornare già
questa sera» scherzo. «Dubito di riuscire a risolvere così
facilmente i miei problemi» aggiungo, infilandomi il giubbotto e
chiudendo la zip del borsone.
A quel punto lei si alza e
viene verso di me, sistemandomi il bavero del giubbotto. «Shannon,
la sola cosa che non devi mai dimenticare è che nascosta dentro di
te c'è la forza per superare qualunque ostacolo. Ogni volta che
pensi di non farcela ripensa alla tua vita, al tuo successo, ai
grandi obiettivi che sei riuscito a raggiungere. Non ce l'avresti mai
fatta, se non fossi un uomo forte.»
«Forse dovresti venire via
con me e ricordarmelo, di tanto in tanto.»
«Non sarebbe una buona
idea. Sì, è vero, forse qui ti posso essere d'aiuto, ma fuori di
qui... sono la tua vita e il tuo mondo, Shannon.
Credo... credo che quello che ti serve davvero per andare
avanti sia fuori di qui» aggiunge dopo una breve pausa di
riflessione. «Puoi farmi un favore, quando sarai fuori?»
«Se posso, perché no?»
«Per favore, quando sarai
fuori ricomincia a vivere. Trova quello che ti rende felice,
ciò che ti rende completo, seguilo e... vivi, semplicemente.
Non voglio più vederti tornare in questa stanza. Non è posto per
te.»
*
Los Angeles, 13 marzo
2014
Quando
svolto l'angolo, affacciandomi alla cucina, ho come la sensazione che
Jared e Alice abbiano qualcosa da nascondermi – ma non ho il tempo
di pensarci né di indagare, impegnata come sono a cercare di
seminare il cane che da più o meno cinque minuti continua a
zampettarmi attorno agitando le orecchie e la coda, quasi si fosse
preso una cotta per me. «Allora, mi spiegate perché c'era un cane
in camera mia?»
«Oh,
vedo che hai fatto la conoscenza di Bruce» replica Jared, mettendo
sul fuoco il bollitore per il tè. «Sapevo che vi sareste piaciuti.»
«Ammetto
che adoro i cani, ma svegliarmi con uno di loro che mi sbava su una
mano non rientra esattamente tra le mie dieci esperienze preferite.»
«Te
l'avevo detto che la tua idea geniale non avrebbe funzionato»
interviene Alice, rivolgendo a Jared un'occhiataccia. «Bruce è il
cane di Shannon, e questo genio qui sperava che avreste potuto fare
amicizia» aggiunge, tornando a voltarsi verso di me.
Guardo
il cane seduto ai miei piedi, e mi chiedo perché non mi abbia ancora
azzannato un polpaccio, visto il male che ho fatto al suo padrone.
Insomma, credevo che Shannon lo avesse come minimo addestrato ad
attaccarmi. «Va bene, adesso che abbiamo fatto le dovute
presentazioni, qualcuno vuole spiegarmi perché non mi perde di vista
nemmeno per un secondo?»
«Chi
lo sa, forse gli sei simpatica» suggerisce Jared, facendo spallucce
mentre sceglie tre tazze dallo stipetto. «I cani hanno un istinto
formidabile nello scegliere le persone delle quali vale la pena
fidarsi.»
«Se
lo dici tu» commento, sedendomi su uno sgabello. «Io lo trovo
vagamente inquietante.»
«A
proposito di cose inquietanti» riprende Alice, sedendosi ad un paio
di sgabelli di distanza, «che cos'è successo stamattina con
Shannon? Non hai detto niente, ma devi ammettere che lo stato in cui
ti abbiamo trovata quando siamo venuti a prenderti non era
esattamente quello in cui speravamo.»
«La
versione corta è che stranamente non ha deciso di prendermi a calci
nel sedere, ma si è seduto accanto a me e mi ha ascoltata in
silenzio mentre gli chiedevo scusa per tutto il male che gli ho
fatto. Ah, e una volta finito mi ha detto che non sa se riuscirà mai
a perdonarmi.»
«La
versione lunga contiene anche il motivo per cui te ne sei andata in
lacrime?» domanda lei, mentre Jared se ne sta in piedi in silenzio e
si limita ad osservarci.
«Ad
un certo punto qualcuno lo ha salutato, e ci siamo interrotti. Era
una ragazza, credo sia anche lei un'ospite della clinica» replico.
«Non so che cosa mi sia preso. Mi sono sentita come... non lo so, di
troppo, quindi l'ho salutato e
me ne sono andata via. Non so nemmeno perché mi sia messa a
piangere, a dire il vero.» Incontro lo sguardo di Alice, e mi
accorgo che ha captato la mia bugia. «Mi ha ferita il fatto che lui
abbia detto quelle cose» ammetto. «Insomma, sapevo che farmi
perdonare non sarebbe stato semplice, e che non sarebbe bastato
chiedere scusa per rimettere a posto le cose, ma... non lo so, in
fondo speravo che potesse andare così, che si potesse aggiustare
tutto in cinque minuti, e tornare a...»
«...ad
essere amici come prima?» suggerisce Jared con un mezzo sorriso.
«Forse
speravo nel lieto fine più di quanto credessi» rispondo, abbassando
lo sguardo. «Forse speravo che avrebbe dimenticato tutto il male che
gli ho fatto soltanto vedendomi lì, e... non lo so, forse avevo una
sola chance di aggiustare le cose e me la sono giocata male.»
In
cucina cala il silenzio, e per due minuti buoni ce ne stiamo tutti
immobili a fissare il vuoto con lo sguardo assente, come se davvero
avessimo perso ogni opportunità di raggiungere il nostro scopo. Poi,
all'improvviso, Jared si rianima e spegne il fornello. «Al diavolo
il tè. Sapete che facciamo adesso? Adesso voi due vi preparate e vi
porto a fare un giro in città. Non vorrete tornare a casa senza aver
visto altro che questa stupenda villa, no?»
*
Cedar Creek, 13 marzo
2014
Rosalita
mi accompagna fino al cancello, oltre il quale mi aspetta il taxi che
ho chiamato. «Verrò a trovarti, lo prometto» dico all'improvviso,
voltandomi verso di lei.
«Non
fare promesse che non intendi mantenere» replica con un sorriso.
«Sarai così occupato che non avrai tempo nemmeno per andare in
bagno, figurarsi per arrampicarti fin quassù ad ascoltare le mie
paternali.»
«Lo
farò, invece. Verrò a trovarti. Ci conosciamo da poco, ma sei stata
una vera amica.»
«Fingerò
di crederti. Forza, adesso vai. Non vorrai perdere tempo, no?»
Muovo
un passo in avanti, ma dopo un istante, contro ogni sua aspettativa,
torno indietro per stringerla in un abbraccio. La stringo così forte
che temo quasi di poter spezzare le sue fragili ossa, ma il dubbio
dura pochi istanti, certo come sono che questa donna sia fatta di una
fibra incredibilmente resistente. «Stammi bene, Rosalita» le
sussurro, lasciandola andare. «Ci vediamo.»
Salgo sul taxi, e quando
l'autista mi chiede la mia destinazione rispondo senza indugio
l'indirizzo di casa mia. È lì che devo andare, ne sono sicuro.
Anche se non ho alcuna idea di che cosa mi riservi il futuro, so che
per poter ripartire devo prima di tutto tornare a casa.
*
Los Angeles, 13 marzo
2014
Jared
ci ha fatte salire in auto e ha guidato così a lungo che per un
istante ho temuto che mi stesse riportando a Cedar Creek per
consentirmi di terminare il mio confronto con Shannon. Ad un certo
punto, però, invece di imboccare la strada per la clinica ha
svoltato a destra, prendendo l'uscita per le colline. «Benvenute nel
posto più bello di Los Angeles» annuncia infine, fermando la
macchina su una piccola altura dalla quale, una volta scese,
riusciamo a dominare l'intera valle. È ormai pomeriggio inoltrato, e
il sole sta iniziando a calare verso ovest. «Questo è sempre stato
un posto speciale, per me e Shannon» aggiunge, raggiungendoci.
«Quando ricevemmo la prima proposta per un contratto discografico
venimmo qui a discuterla. Tutta la notte qui, soltanto io e lui,
seduti su questa collina a parlare.
Gran parte delle cose importanti che ci sono successe è stata
ampiamente discussa qui. Ogni volta che c'è un dubbio da sciogliere,
ogni volta che uno di noi ha un problema... veniamo qui. Non so se
sia un posto magico, o se forse siamo stati noi a dargli questo
valore, ma... quello che conta è che qui riusciamo a risolvere molti
dei nostri problemi.»
«Se
è un posto vostro,
perché ci hai portate qui?» domanda Alice.
«Non
lo so» replica lui, alzando le spallucce. «Avevo soltanto bisogno
di mostrarvelo, credo. Il fatto è che... il fatto è che la mattina
che sono andato a prendere Shannon in carcere, poi siamo venuti qui.
È stato qui che mi ha detto di voler andare a Cedar Creek, ed è
stato qui che ho capito di non poterlo aiutare. È stato qui che ho
capito per la prima volta di non essere onnipotente, ma soltanto...
un uomo.»
Faccio girare la chiave
nella serratura, la sfilo e spingo lentamente la porta. Mi aspetto
che mi invadano polvere e odore di chiuso, ma ciò che vedo davanti
ai miei occhi è la stessa casa che ho lasciato cinque giorni fa.
Sorrido, pensando che probabilmente mia madre sta facendo incursioni
quotidiane per impedire che il mio rifugio cada a pezzi. Lascio il
borsone in camera e mi butto subito sotto la doccia, sperando di
trovare così l'energia necessaria per portare avanti il mio folle
piano.
Indosso un paio di jeans,
una maglietta pulita e il giubbotto, poi prendo chiavi, cellulare e
portafogli. Salgo in macchina e resto fermo per qualche istante a
riflettere con calma sul da farsi, e quando metto in moto sono
assolutamente sicuro di fare la cosa giusta.
Siamo
a meno di cento metri dalla casa di Jared, quando dal sedile accanto
al mio Bruce inizia ad abbaiare come un forsennato, puntando le zampe
contro il finestrino. «Mi sembrava strano che la tua vicinanza non
lo avesse ancora fatto impazzire» dice Alice, prendendo in giro
Jared. Dal sedile posteriore cerco di osservarli senza farmi notare,
cercando di capire se tra quei due stia succedendo qualcosa della
quale non mi sono ancora accorta.
«Guarda
che io non ho fatto proprio niente» si schernisce lui, parcheggiando
l'auto. «E comunque non faccio impazzire nessuno, a parte le fan»
aggiunge, facendole una smorfia.
Allungo
la mano per sbloccare la portiera, e non appena si sente libero Bruce
salta giù dalla macchina, iniziando a correre come un forsennato
verso il giardino. «Non so voi, ma io non mi sento molto tranquilla»
bisbiglio, un po' restia a lasciare quello che mi pare un rifugio
sicuro.
«Magari
ha solo visto un gatto» commenta Jared, scendendo. «Sono sicuro che
non è niente di preoccupante» aggiunge mentre Alice ed io ci
convinciamo a seguire il suo esempio.
Siamo
a metà del vialetto quando ci accorgiamo di una voce proveniente dal
giardino. Riconoscendone immediatamente il tono mi blocco, e subito
Alice si volta a guardarmi con aria interrogativa. «Shannon»
sussurro, così piano che nemmeno lei riesce a sentirmi. Sto per
ripeterlo, ma mi accorgo di non averne bisogno, perché Shannon ci
sta venendo incontro con un sorriso, mentre Bruce continua a
saltellargli attorno come ha fatto con me poche ore fa.
«Santo
cielo!» esclama Jared, correndogli incontro per abbracciarlo. «Santo
cielo, da quanto tempo sei qui?»
«Mezz'ora,
più o meno. Prima sono passato da casa a posare i bagagli e farmi
una doccia.»
«Potevi
chiamarmi, sarei venuto a prenderti» replica Jared, allontanandolo
da sé per guardarlo meglio. Persino un cieco potrebbe vedere che la
felicità di Jared nel riabbracciare suo fratello è reale, prova del
grande affetto che li lega. «Vorrei che mamma non fosse partita,
così anche lei avrebbe potuto vederti.»
«L'ho
già chiamata. Non sapevo che fare nell'attesa» risponde Shannon con
un sorriso, e anche a questa distanza, anche se non sta guardando
direttamente me, sento le gambe sciogliersi.
«Ha
davvero questa voce?» mi sussurra Alice, indietreggiata di un paio
di passi per lasciare spazio a loro e poter comunicare con me più
facilmente. «Cavolo, ora capisco perché ti piaccia tanto.»
«Aspetta,
ti devo presentare una persona» dice Jared all'improvviso, prendendo
Shannon per un braccio e trascinandolo verso di noi. «Lei è Alice,
la migliore amica di Daria. Alice, questo è mio fratello, Shannon.»
Li guardo stringersi la mano senza credere ai miei occhi, incapace di
credere che Shannon abbia davvero lasciato l'istituto e sia venuto
fino a qui per vedermi. Non è mancanza di modestia, ma una semplice
questione logica: questa mattina gli ho detto che se avesse avuto
voglia di parlarmi mi avrebbe trovata qui, e ora, meno di otto ore
dopo, lui è davvero qui.
Non può essere soltanto una coincidenza.
«Ciao,
Daria» dice infine, puntando gli occhi su di me, e a questo punto
capisco che non posso più tentare di confondermi con gli altri
arredi da giardino. Mi ha vista, mi ha parlato, e ora si suppone che
gli debba rispondere.
«Ciao,
Shannon» replico, senza riuscire a dare alla mia voce alcun tipo di
intonazione. «Hai uno splendido cane» aggiungo subito dopo, senza
riuscire a frenare la lingua. Subito dopo vorrei darmi uno schiaffo:
ho davvero detto una cosa così stupida?
«Sì,
è un ottimo amico» risponde lui, abbassando lo sguardo per
accarezzare le orecchie di Bruce. «E sembra che gli piaccia anche
tu» aggiunge subito dopo, quando Bruce lo lascia perdere per venire
a cercare le mie attenzioni. Mentre questo accade, vedo Jared e Alice
allontanarsi lentamente, un passo alla volta, cercando di lasciarci
soli, che in questo momento è l'ultima cosa che vorrei. «Io
vorrei... sono qui per finire il discorso che abbiamo lasciato a metà
questa mattina» continua, abbassando la voce, assicurandosi di non
essere a portata d'orecchio di altri. «Riconosco di essere stato
piuttosto categorico, ma... sei scappata via a metà, e io credo che
ci siano ancora molte cose da dire.» Non rispondo, perché dentro di
me sto di nuovo rivivendo quelle orribili sensazioni, e sento che se
aprissi bocca per dire qualcosa riuscirei soltanto ad emettere versi
inconsulti, o incontrollabili singhiozzi. «Se ti va, noi... insomma,
vorrei parlare con te in un posto tranquillo.»
Commetto
l'errore di alzare gli occhi e guardare oltre la sua spalla: dal
fondo del giardino Alice e Jared mi stanno mostrando i pollici
alzati, cercando di incitarmi a dire di sì, senza nemmeno sapere che
cosa Shannon mi stia proponendo. «Va bene» mi arrendo infine.
«Dammi solo cinque minuti, va bene?»
*
Torino, 13 marzo 2014
«Che
stai facendo, papà?»
Danilo,
colto in flagrante, non si disturba a nascondere il libro che tiene
aperto davanti al naso, e neppure il dizionario appoggiato sul
tavolino del salotto. «Mantengo attiva la mente.»
«Studiando
inglese?» replica Francesca, sollevando il dizionario per dargli
un'occhiata. «Ma non eri allergico ai gatti?» domanda ancora,
guardando Solo arrampicarsi su per la gamba del padre.
«Credo
che mi stia passando. Oggi ho starnutito meno di ieri.»
Francesca si allontana con
un sorriso, senza dire altro. Ha sempre saputo che suo padre tiene a
loro più che ad ogni altra cosa al mondo, ma non avrebbe mai pensato
che per amore di una figlia sarebbe arrivato a tenere in casa
qualcosa che gli nuoce alla salute, o ad imparare una lingua
straniera per poter comunicare con un eventuale futuro genero.
*
Los Angeles, 13 marzo
2014
Non
c'è traffico sulla superstrada, e di questo ringrazio. Almeno la
situazione del traffico non è difficile quanto il rapporto tra me e
Daria, che da almeno dieci minuti sediamo l'uno accanto all'altra nel
silenzio più totale, come due estranei che si sono stretti la mano e
ora non riescono a trovare un valido argomento di conversazione, e
quello che più mi distrugge è che tra noi non è mai stato così –
mai,
nemmeno la sera del nostro primo incontro. Più ci ripenso, più mi
chiedo come sia possibile che tutta la magia dei primi minuti sia
scomparsa, scivolata via nel tempo fino a non lasciare nemmeno una
scia, una flebile traccia di ciò che è stato. L'ho amata dal primo
istante, di questo ne sono certo: il suo profilo regolare stagliato
contro le luci artificiali dei lampioni, la sua voce morbida e
leggera, quell'incredibile modo di aprirsi con me nonostante fossi
per lei uno sconosciuto, la sensazione della sua pelle sotto le mie
dita mentre le annotavo sul palmo il mio indirizzo e-mail... non ho
dimenticato nulla di quei primi momenti, né di quelli che sono
seguiti. Ogni minuto trascorso al suo fianco lo porto nel cuore,
inciso sulla pelle come un tatuaggio. Vorrei potermi mentire meglio
di così, ma non riesco: la verità è che lei è ancora con me,
sempre, in ogni cosa che faccio, in ogni momento che vivo, in ogni
pensiero che mi attraversa la mente – Daria è sempre con me.
L'unico
suono all'interno dell'auto è prodotto da Bruce, che continua ad
agitarsi sul sedile posteriore. Shannon ed io siamo insieme da più
di dieci minuti, e in dieci minuti non siamo ancora riusciti a dirci
una sola parola – ed è terribilmente strano, perché nemmeno la
sera del nostro primo incontro siamo stati così in imbarazzo. Vorrei
dare la colpa di tutto alla paura, ma non sarebbe giusto: la sera in
cui ci siamo conosciuti ero intimorita più che mai, ma questo non mi
ha fermata dal confidargli tutti i drammi della mia vita – o forse
chissà, non riuscivo a smettere di parlare proprio perché ero
terrorizzata dalla sua presenza. Forse adesso non riesco a parlare
perché ho paura di dire la cosa sbagliata, e so che in questo
momento basterebbe una sola parola messa fuori posto a perderlo per
sempre, ad eliminare per sempre ogni possibilità di perdono. Poi,
d'improvviso, noto che sta prendendo la strada che conduce alle
colline. «Dove stiamo
andando?» chiedo, pur conoscendo già alla perfezione la risposta
alla mia domanda.
Seduti
sul divano, Alice e Jared stanno dividendo una pizza davanti ad un
vecchio film con Spencer Tracy. «Cosa pensi stia succedendo tra quei
due?» domanda all'improvviso la ragazza, cambiando posizione sul
divano.
«Se
conosco bene mio fratello, direi che a quest'ora sono sulle colline a
chiarire la situazione.»
«Tutto
qui?»
«Cos'è,
pensi che lui voglia ucciderla e occultare il cadavere sotto la
scritta Hollywood?»
«Non
mi stupirebbe affatto» replica lei, pulendosi le mani con un
tovagliolo. «Non trovi strano che Shannon abbia improvvisamente
deciso di tornare a casa e sia subito venuto qui a cercare Daria?»
«Sinceramente?
No, non lo trovo affatto strano. Conosco Shannon abbastanza da sapere
che se ha deciso di venire qui a risolvere le cose, significa che è
quello che vuole veramente. E anche se non me lo aspettavo, sono
contento che sia così.» Jared studia per un istante il profilo di
Alice, trovandolo estremamente dubbioso. «Se sei preoccupata,
possiamo sempre saltare in macchina e andare a cercarli. Ci sono un
sacco di cespugli dietro cui nascondersi, lassù.»
«Non
ho alcuna intenzione di spiare la mia migliore amica, Jared!»
protesta Alice. «E sicuramente non ho intenzione di ficcare il naso
nelle sue questioni personali. Non l'ho mai fatto, e di certo non ho
intenzione di cominciare ora.»
«Non
hai mai ficcato il naso? Ma se hai scritto una e-mail ed Emma per
dirle che Daria era ancora innamorata di Shannon e per chiederle di
aiutarti ad aggiustare le cose!»
«Beh,
quella è stata un'eccezione» ribatte svelta lei, sentendo il viso
farsi rosso per l'imbarazzo. «Non sapevo che fare, la vedevo
sbagliare e non riuscivo a...»
«Guarda
che a me puoi dire la verità, Gwen Stacy» la interrompe lui,
ammiccando.
«Sto
già dicendo la
verità» replica lei, pur sapendo di aver appena detto un'enorme
bugia.
«Niente
affatto, cara mia. La verità è che tu sei una maniaca del
controllo, esattamente come me, e quando le cose non vanno come le
avevi programmate dai di matto. Tu ed io siamo uguali.»
«Tu
ed io non siamo affatto uguali.
Io non nutro l'assurda
e quantomeno illogica convinzione di essere la padrona
dell'universo.»
«Però
scommetto che soffri il solletico, esattamente come me» ribatte lui,
artigliandole i fianchi per iniziare a torturare ogni punto sensibile
che gli capiti tra le mani. Nel tentativo di sfuggire alle sue
grinfie, Alice si ritrova ben presto distesa sul divano, sovrastata
dal peso di Jared, che in qualche modo è riuscito a bloccarle i
polsi al di sopra della testa, impedendole di ripararsi dai suoi
assalti. «A proposito di controllo...
ormai credo sia chiaro ad entrambi che non riesco a mantenerlo,
quando nei paraggi ci sei tu.»
«Questo
è un problema che dovrai risolvere» replica lei. «Questa mattina
abbiamo commesso un errore. Anzi, due.»
«Sbaglio,
o di solito dicono che non c'è due senza tre?»
«Sì,
e dicono anche che il quattro venga da sé, ma direi che non è il
caso di rischiare. In questo momento non voglio complicazioni.»
«Quindi
è così che mi vedi? Sono una complicazione?»
«Non
sei tu la
complicazione. È la situazione nel suo complesso: Daria, Shannon,
questo viaggio...»
«Niente
di tutto questo ha a che vedere con te, lo sai? È vero, tu e Daria
siete praticamente due sorelle, ma non vivete una vita in comune. Ciò
che succede a lei non capita di riflesso anche a te. Sii sincera, per
favore: che cosa ti trattiene davvero?»
Alice
ci riflette su per qualche istante. «Te lo dico se ti togli da
sopra di me. Sento che sta iniziando a mancarmi il fiato.»
«Scusa
se ti ho portata tanto lontano da casa di Jay» inizia Shannon,
fermando l'auto nello stesso punto in cui, poche ore fa, aveva
parcheggiato suo fratello. «Avevo bisogno di un posto tranquillo, e
questo mi è sembrato l'ideale. È uno dei miei posti preferiti da
quando vivo a Los Angeles.»
«Lo
so» mi lascio sfuggire. «Forse non dovrei dirtelo, ma Jared ci ha
portate qui, prima. In effetti, quando siamo tornati... beh, eravamo
appena stati qui.»
«Non
so perché, ma ero certo che vi ci avrebbe portate, prima o poi»
sorride lui. «Mi avrebbe stupito scoprire che non lo aveva ancora
fatto, in effetti. Ti dispiace se scendiamo? A Bruce piace moltissimo
venire qui» aggiunge.
«No,
va bene» annuisco, aprendo lo sportello per scendere dall'auto.
L'aria fresca della sera sulla pelle è un vero sollievo, dopo i
livelli di tensione raggiunti durante il tragitto. «Non so che darei
per vivere qui» sospiro, guardando la valle che si apre davanti ai
miei occhi.
«A
Los Angeles? Credimi, impazziresti. È una città completamente
diversa dalle altre.»
«No,
intendevo... vivere qui,
in questo punto. Avere una casa su questa collina, spalancare le
finestre ogni mattina e trovarsi di fronte... questo.
Dire che sarebbe meraviglioso è troppo banale?»
«Non
credo di poterlo definire banale»
risponde con un sorriso, e per un momento mi sembra di tornare
indietro a novembre, quando tutto ciò che vedevo all'orizzonte era
la più abbagliante felicità. «Non l'ho mai detto a nessuno,
nemmeno a mio fratello, ma... in effetti, più di una volta ho
pensato di vendere la mia attuale casa per costruirmene una quassù»
aggiunge, avvicinandosi di qualche passo. «Di notte c'è una pace
straordinaria, non sembra nemmeno di stare a Los Angeles. E il
panorama... oh, varrebbe la pena trasferirsi qui solo per quello. Le
colline, le luci, le auto che corrono lungo le strade... potresti
stare ore a guardare questa valle, e ad ogni minuto non faresti altro
che innamorartene di più. È uno degli spettacoli migliori che abbia
mai visto in vita mia.»
Mi
volto a studiare il suo profilo, e mai come in questo momento riesco
a vedere la straordinaria bellezza del suo viso, un perfetto
misucuglio di tenerezza fanciullesca e selvaggia mascolinità – e
ancora una volta la sua bellezza e la luce irradiata dai suoi occhi
compiono la magia che già mesi fa mi ha costretta ad arrendermi, ad
abbassare ogni difesa. «Ti sei davvero perso nella città degli
angeli, eh?» scherzo, riportando alla mente uno dei versi cardine di
City of angels.
Prima
di rispondere, si lascia andare ad un sorriso. «Mi sono perso in un
sacco di posti, in vita mia. I posti in cui mi sono ritrovato,
invece, sono decisamente meno. Questo è il secondo, credo.»
«ll
secondo? E il primo quale sarebbe?» domando, credendo di ottenere
come risposta il nome di un'isola tropicale, o qualcosa del genere.
«Il
primo sei tu» replica all'improvviso, tanto inaspettatamente che mi
occorrono almeno trenta secondi per recepire il messaggio. Quando
finalmente i miei neuroni decidono di funzionare e mi consentono di
capire ciò che ha appena detto, non riesco a voltarmi, impietrita da
quella che chiunque
recepirebbe come una dichiarazione d'amore, ma che per qualche motivo
non riesco a vedere in questo modo – non può essere, non dopo
tutto quello che è successo tra di noi, non dopo tutto il male che
gli ho fatto. «Con te mi sono sempre sentito al sicuro, fin da
quando ci siamo stretti la mano. Dal primo momento, io... io ho
creduto che non mi sarebbe potuto capitare nulla di male, finché al
mio fianco ci fossi stata tu.»
«Questo
dimostra che la prima impressione spesso può rivelarsi sbagliata»
replico con un sorriso, trovando finalmente la forza di voltarmi
verso di lui. Ma negli occhi che trovo fissi su di me non c'è
ilarità né tristezza: Shannon mi sta guardando allo stesso modo in
cui mi guardava lo scorso novembre, quando entrambi pensavamo di aver
finalmente trovato ciò che ogni persona al mondo cerca per tutta la
vita, e che raramente riesce a trovare o tenersi stretto. Sto per
chiedergli perché mi stia fissando a quel modo, ma non ne ho il
tempo: la distanza tra di noi si riduce a zero, le sue mani
racchiudono il mio viso e le sue labbra coprono le mie, e tutto
accade così repentinamente che a fatica riesco a rendermi conto di
che cosa stia succedendo.
«Sono
stata fidanzata con lo stesso ragazzo per più di sei anni» inizia
Alice, sedendosi di nuovo in maniera più o meno composta sul divano.
«Per la maggior parte del tempo è stata una relazione a distanza, e
mi sono impegnata anima e corpo per farla funzionare, perché ci
credevo davvero. Tenevo a Federico come non ho mai tenuto a nessuno.»
«Ma
poi è finita» commenta Jared.
«Sì,
e sono stata io a dire basta» replica lei. «Credo che lui sarà
sempre il mio primo grande amore, nonostante tutto. Insomma, anche
tra cinquant'anni io... penserò a lui, in un certo senso. Non lo
posso dimenticare. Non sarebbe nemmeno giusto, credo. Lui mi ha amata
per tutto il tempo, e per tutto il tempo io ho amato lui.» Fa una
piccola pausa, sfregandosi l'angolo dell'occhio con la punta
dell'indice. «Non posso fingere che non sia stata una storia
importante, e soprattutto non posso dimenticare che è finita
soltanto un mese fa.»
«Quindi...
cos'è, vuoi prenderti una pausa? Vuoi stare sola per un po', per
goderti il fatto di essere tornata single dopo tanto tempo?»
«Non
voglio andare a letto con qualcuno tanto per fare» sbotta Alice,
pentendosi dopo un istante del tono usato. «Daria ed io siamo
diverse sotto tanti punti di vista, ma... le nostre convinzioni in
fatto di sentimenti ci rendono dannatamente simili» riprende dopo un
istante, abbassando lo sguardo sui propri piedi. «Per quanto la
situazione sembri disperata, noi cerchiamo sempre un barlume di
speranza in fondo al buio, un motivo anche insignificante per
continuare a camminare. E così facciamo nelle relazioni. Se usciamo
con qualcuno, lo facciamo perché crediamo che ci possa essere un
futuro, per quanto breve o infelice.»
Anche
Jared abbassa lo sguardo, cercando di non mostrare quanto quelle
parole lo feriscano. «Quindi mi respingi perché... perché non vedi
un futuro tra noi?» sussurra, senza riuscire a credere alle proprie
parole. Sta davvero soffrendo perché una ragazza non gli si vuole
concedere?
«Il
problema è che non lo voglio vedere»
mormora Alice, portandosi le ginocchia al petto come a volersi
difendere dalla verità. «Mi è ancora troppo chiaro cosa significhi
avere una relazione con una persona, e... e non so se sono pronta a
ricominciare tutto da capo. E ammetterai che aver vissuto da vicino i
drammi di Daria non invoglia a provarci» aggiunge con un sorriso,
seppur flebile.
«Dimmi
una cosa» domanda Jared dopo un lungo silenzio. «Se io non fossi
chi sono, se fossi un ragazzo normale,
uno che frequenta i tuoi stessi corsi, un vicino di casa, o qualcosa
del genere, tu... tu ti lasceresti tentare?»
Alice
ci riflette su per qualche secondo, poi scuote la testa. «Non sei tu
ad essere sbagliato, Jared. È la situazione che è tutta sbagliata.»
«Quindi
se ci fossimo incontrati in un altro momento...»
«...probabilmente
sarei stata la prima a farmi avanti» conclude lei, sorridendo
ancora. «Apri bene le orecchie, perché sto per dire una cosa che
non sentirai ripetere mai più» aggiunge dopo un istante. «Non nego
di essere attratta da te» sussurra, sistemandosi nervosamente una
ciocca di capelli dietro l'orecchio. «E non solo perché sei bello e
famoso. Sei un tipo simpatico, e parlare con te mi diverte come poche
altre cose al mondo. E sono convinta che venire a letto con te
sarebbe stupendo, anche soltanto per una notte, solo che... non basta
la prospettiva di qualche ora di divertimento per farmi dimenticare
che tra una settimana dovrò tornare a casa, e che tu non sarai con
me.»
Le
labbra di Shannon si staccano appena dalle mie, ma le sue mani
continuano a racchiudere il mio viso come se temesse di vedermi
scivolare via da un momento all'altro. Poi, d'improvviso, i suoi
occhi si aprono, le sue dita mollano la presa e il suo corpo si
allontana. «Dio, cosa sto facendo?» lo sento sussurrare, mentre le
mani che finora hanno accarezzato il mio viso salgono a coprire il
suo. «Scusa, non... non avrei dovuto» aggiunge subito dopo,
tornando a guardarmi. «Non avrei proprio dovuto farlo.» Resto
immobile a fissarlo di rimando, priva di pensieri da trasformare in
parole, mentre Bruce smette per un istante di rotolarsi a terra e
resta a guardarci entrambi, forse cercando di decidere chi dei due
sembri più stupido in questo momento.
«Tranquillo»
riesco a dire infine, distogliendo lo sguardo dalla sua figura per
puntarlo di nuovo sulle colline. «Non ho pensato che fosse un modo
per dirmi che mi perdoni, se è questo che ti preoccupa. Siamo nella
vita reale, non in un film, e lo so che nella vita reale non basta un
bacio al tramonto per aggiustare le cose.»
Shannon
resta lontano e in silenzio per qualche secondo, poi lo sento
avvicinarsi di qualche passo. «A proposito di questo, io...
stamattina credo di aver mentito.» Sollevo lo sguardo, senza capire
dove voglia arrivare. «Sì, perché questa mattina ho detto che non
so se riuscirò mai a perdonarti, ma... la verità è che so che ci
riuscirò, un giorno. Solo... non so quando.
Mi dispiace» aggiunge subito dopo.
«Sul
serio? Stai chiedendo scusa perché non sai quando
riuscirai a perdonare una persona che ti ha fatto del male?»
«Anche
se messa così sembra una cosa piuttosto stupida, credo... sì, è
così» replica. «Il fatto è che non mi sono mai trovato in questa
posizione. Nessuno mi ha mai ferito tanto quanto te. E sicuramente
nessuno ha mai avuto il coraggio di tornare indietro a chiedere
scusa. Sono un po' confuso, non so come comportarmi.» Non riesco a
trovare una risposta: in fondo, è più o meno la stessa situazione
che sto vivendo con mia madre – una parte di me continua ad odiarla
per il male che ha fatto a tutti noi, mentre l'altra metà di me
vorrebbe soltanto dimenticare e riaverla indietro, anche se mai più
come prima. «Potrà sembrare folle, detto così, ma so che un giorno
riuscirò di nuovo a guardarti come ti guardavo un tempo.» In questo
momento vorrei tanto avere metà della faccia tosta di Alice, così
da fargli notare che è esattamente quello che stava facendo fino a
due minuti fa. Ma ormai è chiaro che io non sarò mai Alice, e che
non sarei mai in grado di far notare a qualcuno la sua incoerenza –
come sempre, preferisco starmene in un angolo a chiedermi che cosa
significasse quello sguardo, che per un brevissimo istante mi ha
fatto sentire di nuovo felice.
Poco più di un'ora dopo il
confronto con Alice, Jared si accorge che la ragazza si è
addormentata con la testa appoggiata sulla sua spalla, e d'istinto
gli viene da sorridere, pensando che nonostante le apparenze
probabilmente gli effetti del cambiamento di fuso orario non sono
ancora stati smaltiti del tutto. Subito dopo il sorriso si spegne e
la sua espressione si fa triste: vorrebbe poter tornare indietro a
poche ore prima e reprimere l'impulso di baciarla, perché è da quel
primo bacio che è cambiato tutto, è da quel momento che ha scoperto
le proprie carte, rivelando di provare un'attrazione che, in tutta
sincerità, sperava potesse essere ricambiata appieno, senza remore e
senza limitazioni. Ma forse è questo il suo destino: amare senza
poter essere amato a sua volta, consacrare il proprio cuore a
qualcuno tanto speciale da non poter essere afferrato. Sospira,
guardando ancora la ragazza bionda che riposa sulla sua spalla: forse
dovrebbe scuoterla, svegliarla e suggerirle di spostarsi in camera da
letto, ma per qualche ragione non ci riesce – questo potrebbe
essere il massimo della loro intimità, e non ha alcuna voglia di
rinunciarvi.
Ci
siamo seduti per terra, tenendo lo sguardo fisso sulle colline,
mentre da qualche parte dietro di noi Bruce continua a correre in
giro e a rotolarsi sull'erba, ignorando le nostre tragedie. Daria non
ha risposto alla mia ultima affermazione, e sinceramente non me la
sono sentita di sollecitarla, convinto che avrebbe potuto finire col
dirmi qualcosa che mi avrebbe ferito ancora di più, nonostante il
tempo mi abbia insegnato che il silenzio può ferire più di ogni
altra cosa. Daria resta zitta e immobile e io con lei, cercando di
dimenticare quel tempo ormai lontano in cui anche stare seduti in
silenzio sembrava grandioso. Chiudo per un istante gli occhi,
inspirando lentamente con il naso: tutto ciò che voglio è
dimenticare che un tempo lei era tutto ciò di cui avevo bisogno,
tutto ciò che volevo – dimenticare che lei un tempo era la
mia casa.
1«Da
quanto manchi dalla tua casa?» «Due anni, duecentosessantaquattro
giorni e questa mattina.»
| Il titolo del capitolo è
ispirato ad una battuta pronunciata da Massimo
Decimo Meridio
(interpretato da Russell
Crowe)
nel film Il
gladiatore (2000).
|
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Capitolo 9 *** 9 | Tra due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore. ***
La lunga strada verso casa - 1
Salve a
tutte!
Vi
chiedo scusa per aver tardato un po' con la pubblicazione di questo
capitolo: avevo tutto pronto, ma non sono riuscita a trovare i dieci
minuti necessari per litigare con il wi-fi e postare l'aggiornamento
=) Comunque adesso li ho trovati, ed eccomi qui con la nuova puntata
delle (dis)avventure di Shannon, Daria, Alice e Jared – sì, perché
da questo momento abbiamo un'altra coppia di allegri svitati pronti a
deliziarci con le loro paranoie =)
Come
sempre, vi auguro buona lettura – e ancora una volta ringrazio
katvil, Pirilla_Echelon e melany987, sempre
pronte a dire la loro, con mia somma gioia.
EffieSamadhi
Per aspera ad astra
Capitolo nono
Tra due minuti è
quasi giorno,
è quasi casa,
è quasi amore.1
Los Angeles, 13 marzo
2014
«Sono stato tante volte
sul punto di prendere un aereo per venire da te» dico infine,
incapace di tacere oltre. Subito dopo vorrei prendermi a cazzotti, ma
tutta la mia sicurezza e tutto il mio autocontrollo sembrano venir
meno, quando mi trovo accanto a Daria. È come se la sua sola
presenza mi spingesse a dire tutto ciò che mi passa per la testa,
anche quando il buonsenso mi suggerisce di tenere la bocca chiusa,
anche quando la situazione non invoglia in alcun modo a confidarsi.
«Una volta mi sono anche ritrovato ad un passo dal prenotare un
biglietto online» aggiungo, contravvenendo ancora una volta a quanto
mi dice la testa. «Anche se mi avevi detto di non farlo, anche se
sapevo che in questo modo avrei potuto perderti, io... io ho pensato
di mandare tutto al diavolo e correre da te.»
Recepisco la notizia in
silenzio, pensando a quanto dolore ci saremmo potuti risparmiare
entrambi se Shannon avesse seguito il proprio impulso – perché
nonostante tutto quello che gli ho scritto nella lettera con cui l'ho
lasciato, ormai mi è chiaro che non sarei mai riuscita a mandarlo
via, se davvero l'avessi visto davanti alla mia porta. «Perché non
l'hai fatto?» sussurro, senza trovare il coraggio di alzare lo
sguardo su di lui.
«Forse perché non sono
quel grande uomo coraggioso che ho sempre pensato di essere»
risponde, strappando un ciuffetto d'erba con le dita. «Ogni volta
che mi trovavo ad un passo dal farlo, provavo... non lo so, il
terrore che mi avresti cacciato via. Pensavo che se fosse successo mi
sarei sentito peggio di quanto già stavo, e... non ci sono
riuscito.» Volto di poco la testa e lo vedo stringere i fili d'erba
nel pugno, come se persino adesso gli mancasse il coraggio. «Quando
poi Jared si è presentato con quei biglietti e ho deciso di venire
da te...»
«...mi hai vista con un
altro» concludo, sapendo che lui non avrebbe mai il coraggio di
dirlo ad alta voce.
«Mi sono sentito morire»
sussurra, aprendo la mano per lasciare che l'erba voli via nella
leggera brezza che si è alzata sulle colline. «Non mi era mai
successo di sentirmi così, e... in quel momento ho capito di aver
commesso un enorme errore, non venendo a cercarti subito dopo la tua
partenza. Quando ti ho vista con lui, ho capito che... ho capito di
averti persa per sempre. Peggio, mi sono convinto che probabilmente
non eri mai stata mia.»
Non udendo alcuna risposta,
mi volto verso Daria, e anche se non mi sta guardando direttamente
capisco che i suoi occhi sono lucidi di lacrime. «Se solo avessi
alzato lo sguardo, quella sera...» sussurra, la voce incrinata da un
accenno di pianto. «Se ti avessi visto, io... io non...»
«Non pensarci» la
interrompo, poggiandole una mano sul ginocchio. «Non si può
cambiare il passato. Quel che è stato è stato, ormai.» Fisso lo
sguardo sulle mie dita che le accarezzano i jeans, e uno strano
sentimento sembra prendere il posto dell'odio: nonostante tutto,
sembra che io non sia fisicamente in grado di detestare questa donna
– per quanto ci provi, per quanto lo desideri, ogni volta che la
guardo tutto ciò che ricordo sono i bei momenti, i sentimenti che
provavo per lei, e tutto ciò che di buio e cupo ho nel cuore si
scioglie come neve al sole. Ritraggo la mano, sicuro che l'assenza di
contatto mi impedirà di lasciarmi vincere dai sentimentalismi.
«Visto che abbiamo deciso
di essere sinceri, immagino di dover confessare che anch'io ho
pensato di cercarti» confesso, passandomi entrambe le mani sul volto
per asciugare le poche lacrime che non sono riuscita a trattenere.
Nel farlo, mi rendo conto di essere arrossita, e persino un'idiota
capirebbe che è stata la carezza di Shannon a farmi questo effetto.
«Quando?» sento
domandare, e subito vorrei essere rimasta in silenzio, perché ora mi
toccherà mettere sul piatto tutta la verità, nient'altro che la
verità, e so che quello che dirò potrebbe condannarmi a perdere
Shannon di nuovo, e questa volta davvero per sempre.
«Intorno a Natale»
rispondo. «Per fortuna avevo dato tutte le cose che mi ricordavano
te ad Alice, compreso il tuo numero.»
«Sul serio?» sorride.
«Avevi paura di fare qualche telefonata imbarazzante?» Mi volto,
sfoderando lo sguardo più serio del mio repertorio, e vedo ogni
traccia di ilarità lasciare i suoi occhi. «Che cosa mi avresti
detto, Daria?» domanda, comprendendo che il mio tono nasconde
qualcosa di davvero importante.
«Che pensavo di essere
incinta» sputo fuori. Subito dopo sento il bisogno di alzarmi e
iniziare a camminare, forse pensando che il movimento mi aiuterà a
calmarmi. Un grandissimo errore, perché subito dopo mi sento come un
maratoneta pronto alla gara.
«Cosa?» esclama, balzando
in piedi a sua volta. «Daria, per favore, fermati» aggiunge,
prendendomi per le spalle e obbligandomi a guardarlo. «Potresti
ripetere, per favore?»
«Ho avuto un ritardo»
riprende, ostentando una calma che sono certo stia soltanto fingendo.
«Siccome non mi era mai successo, ho pensato che... era l'ipotesi
più logica» conclude, mentre i suoi occhi si velano di nuovo di
lacrime. «Ho passato delle settimane orribili» riprende, e la sua
voce rotta dal pianto sarebbe capace di commuovere il più duro dei
cuori. «Una parte di me cercava di convincersi che non fosse vero, e
l'altra... ti avrei voluto con me in quel momento, ma ti avevo
mandato via e non...» Le parole successive si confondono tra i
singhiozzi, e a questo punto decido di seguire appieno il cuore,
fregandomene della ragione e della decisione di tenermi lontano da
lei: la stringo forte tra le braccia, lasciando che le sue lacrime mi
inzuppino la maglietta e i suoi singhiozzi si infrangano contro il
mio petto. Ci sono un milione di cose che vorrei dire, milioni di
pensieri che schizzano da una parte all'altra della mia mente, ma
dire qualunque cosa, in questo momento, non servirebbe a niente:
tutto ciò di cui Daria ha bisogno è qualcuno che la stringa forte e
la sostenga nel suo dolore, e per qualche motivo sento che la persona
giusta, adesso e in ogni momento, sono io.
Alice si sveglia di
soprassalto, mettendosi a sedere con una rapidità che ha in sé
dell'olimpionico. «Che ore sono?» borbotta, portandosi una mano tra
i capelli scompigliati per riportarli in ordine.
«Quasi le nove di sera»
risponde Jared, distogliendo lo sguardo dal cellulare. «Di Daria
ancora nessuna traccia, quindi o Shannon l'ha uccisa e sta
seppellendo il suo corpo sulle colline, oppure...»
«Devo chiamarla, sono
preoccupata» lo interrompe lei, alzandosi per andare alla ricerca
del telefono, che non riesce assolutamente a ricordare dove abbia
riposto.
«Io dico che dovremmo dar
loro ancora un po' di tempo» replica lui, senza alzarsi dal divano.
«Non trovo il telefono»
ribatte lei, senza dar segno di averlo sentito. «Lo fai squillare,
per favore?»
A quel punto Jared si alza,
sperando di raggiungerla prima che lei gli demolisca la casa. «Se
stanno arrivando ad un chiarimento, io dico che dovremmo lasciarli
fare» osserva senza perdere la calma.
«Ma io sono preoccupata,
perciò voglio chiamarla» lo rimbrotta lei. «Quando hai avuto
quell'idea cretina di metterle in camera un cane non mi sono opposta,
perciò adesso vorrei che ricambiassi il favore e mi lasciassi fare.
Dai, dammi il telefono» aggiunge, allungando un braccio per prendere
l'apparecchio.
«Oh, quindi mi avresti
fatto un favore?» scoppia a ridere lui, alzando la mano per portare
il cellulare al di fuori della sua portata. «E io che credevo ti
fossi arresa soltanto perché non potevi competere con il suo genio»
aggiunge, ridendo ancor più sonoramente di fronte ai tentativi senza
speranza di Alice di mettere le mani sul telefono.
«E dai, adesso non fare il
bambino!» protesta lei, continuando a saltellargli attorno cercando
di arrivare alla preda designata.
«Perché smettere? Mi sto
divertendo un mondo!» ride ancora lui, finché, nel tentativo di
vincere la sfida, la ragazza gli mette una mano sul petto, proprio
all'altezza del cuore. In quel preciso istante Jared smette di
ridere, sempre tenendo il braccio alzato, accorgendosi dell'assoluta
bellezza e perfezione di quel momento. Gli occhi ridenti e il sorriso
di Alice sono così vicini da oscurare tutto il resto, e il calore di
quella mano affusolata premuta contro il suo petto gli fa desiderare
di morire subito, in quel preciso istante, perché mai potrà
esistere per lui un momento più perfetto. «Se non ti allontani da
me in questo istante, non rispondo più delle mie azioni»
sussurra, e a quelle parole Alice si blocca, senza però prendere le
distanze. «Sul serio, Alice, se non ti sposti immediatamente, corri
il rischio che...» Ma le parole successive non trovano la libertà
agognata, perché la ragazza si solleva sulle punte per appoggiare le
proprie labbra sulle sue, e per un istante Jared si sente davvero
morire, perché l'emozione è così grande da rischiare di fermargli
davvero il cuore.
La brezza della sera ci ha
convinti a risalire in macchina, anche se abbiamo deciso di rimanere
ancora sulle colline, di nuovo in silenzio come all'inizio, quando
l'imbarazzo era un muro che ci impediva persino di guardarci in
faccia. «Inizio ad avere un po' di fame» dico infine, quando il
silenzio inizia a diventare davvero insopportabile. «Non ho
pranzato» specifico quando lo sguardo di Daria si posa confuso su di
me. «A casa dovrei avere della pizza. So che offrire pizza ad
un'italiana è una specie di insulto, ma se ti va...» Il lieve cenno
che fa con la testa è facilmente fraintendibile, ma decido di
prenderlo come una risposta positiva, perciò metto in moto e inizio
a guidare verso casa.
Il cellulare di Jared giace
abbandonato sul ripiano della cucina, la casa è immersa in un
silenzio rotto soltanto da qualche sospiro. Jared non riesce a fare a
meno di stringere Alice tra le braccia con tutta la forza di cui è
capace, sicuro che se allentasse la presa lei si allontanerebbe di
nuovo. Fa risalire lentamente una mano dalla schiena della ragazza al
collo, e di lì fino ai capelli, tra i quali le dita scivolano senza
difficoltà. A quel contatto Alice reclina la testa all'indietro,
come un gatto impegnato a fare le fusa. Jared apre gli occhi, la
guarda, e nel suo collo così esposto vede un inconscio invito ad
osare di più. Alice trema nel sentire quelle labbra sottili e calde
posarsi nell'incavo tra il collo e la spalla, e mentre si chiede come
facesse Jared a sapere che è proprio quello il suo punto più
sensibile si rende conto che questa volta non lo respingerà –
dovesse cascare il mondo, questa volta andranno fino in fondo.
Una volta fermata la
macchina mi volto verso Daria, trovandola profondamente addormentata.
Allungo una mano per svegliarla, fermandomi dopo un istante:
vedendola così mi è impossibile non ricordare tutti i nostri
precedenti, su tutti la mattina in cui me ne sono andato da Torino
dopo lo straordinario finesettimana trascorso in sua compagnia.
Allora mi era parsa bellissima, con la faccia schiacciata contro lil
cuscino e i capelli scarmgliati, e tenendo lo sguardo fisso sui suoi
occhi chiusi mi rendo tristemente conto che quattro mesi non sono
riusciti a cambiare le cose: per quanto possa mentirmi, per quanto
possa tentare di imbrogliarmi, nulla mi distoglierà mai dal pensare
che sia lei la ragazza più bella del mondo. «Va bene, Bruce, adesso
dovremo fare molto, molto piano» sussurro all'indirizzo del mio
cane, che subito abbassa le orecchie, quasi avesse capito le mie
parole.
Le carezze di Jared si
fanno più audaci, e la sua bocca scende fino a lambire la scollatura
della canotta di Alice, che a quel dolce e dannatamente sensuale
contatto trema ancora, quasi fosse la prima volta che si lascia
toccare da un uomo. Eppure non è la prima volta, non dovrebbe essere
così – in fondo, Jared non è che un uomo, uno come tanti altri.
Ma quando per un istante i loro sguardi si incrociano, Alice si rende
conto che Jared non è tutti gli altri, che non lo è mai
stato e mai lo sarà. Mentre lascia che le sue lunghe dita da
musicista si infilino sotto la maglietta, risalendo lente fino al
seno, Alice trattiene il respiro: c'è qualcosa che lo rende diverso
da qualunque altro ragazzo che abbia mai conosciuto, e sicuramente
diverso dal solo ragazzo che abbia mai amato – Alice non sa che
cosa sia, non sa nemmeno se riuscirà mai a capirlo, ma è certa che
quel certo non so che riesce letteralmente a farla impazzire.
Non senza difficoltà ho
tirato Daria fuori dalla macchina, ho aperto e richiuso la porta di
casa e ho attraversato il salotto. Mi fermo sulla porta della camera
degli ospiti, sempre tallonato dal fedele silenzio di Bruce, e qui ho
un'esitazione: per qualche strana ragione che non riesco a
comprendere né a far tacere, sento che metterla a dormire in una
stanza così anonima sarebbe un enorme errore. Perciò faccio
dietrofront e raggiungo la mia stanza, pulita e ordinata come mai
prima d'ora. La adagio facendo attenzione a non svegliarla, e non
appena si ritrova a contatto con il materasso la osservo cambiare
posizione e voltarsi sul fianco destro, come tante volte le ho visto
fare. Mi risveglio dallo stato quasi di trance in cui sono caduto,
recupero una coperta dall'armadio e svelto la copro, sistemando ogni
grinza come se non stessi mettendo a letto una donna adulta, ma una
figlia. Resto a guardarla nella penombra ancora per qualche secondo,
poi scuoto la testa, tornando in corridoio badando di chiudermi la
porta alle spalle. Una volta fuori sospiro, sempre sotto lo sguardo
vigile di Bruce, che mi osserva come se stesse cercando di chiedermi
che diavolo sto facendo.
Jared adagia Alice sul
materasso, stendendosi delicatamente sopra di lei. Con le magliette
dimenticate in cucina, ad ogni respiro il suo torace nudo sfiora il
petto della ragazza, ancora seminascosto dalla biancheria, arrossato
dal contatto con la sua barba. Guidato da una forza invisibile sulla
quale non può e non vuole prendere il sopravvento, Jared inizia un
lento percorso di caldi e appassionati baci, che dalla bocca scendono
al collo, passando per l'incavo tra i suoi seni minuti, e senza alcun
controllo giungono all'ombelico, sul quale si ferma per qualche
secondo. Anche le sue mani scendono, scivolando sulla pelle morbida
senza incontrare ostacoli, fino al bordo dei leggings. Sollevandosi
da lei inizia a spogliarla anche di quell'indumento, mantenendo un
incredibile contatto visivo che non fa altro che eccitarlo di più.
Ma non è soltanto sesso, ne è sicuro: per il sesso ci sono tutte le
altre ragazze del mondo. Quello che sta succedendo con Alice su quel
letto è diverso, forse migliore: Jared non può dire che sia
amore – sarebbe azzardato, insensato, prematuro. Ma non è soltanto
sesso.
Dopo essermi assicurato che
anche Bruce prenda la strada verso il regno di Morfeo esco in
giardino, portandomi dietro il cellulare. Wayne sembra impiegare una
vita per rispondere, ma quando finalmente sento la sua voce all'altro
capo del filo tiro un sospiro di sollievo, felice che il mio migliore
amico conservi, nella sua frenetica vita di uomo normale,
qualche minuto per me. «Ehi, fratello, che succede? Sappi che sono
molto incazzato con te» aggiunge un istante dopo il saluto. «Sono
il tuo migliore amico e l'ho dovuto sapere da Jared che ti hanno
arrestato e che ti sei chiuso in un centro di recupero.»
«Scusa, ti avrei dovuto
avvertire, ma è successo tutto così in fretta che proprio non mi è
passato per la testa di chiamarti. Comunque non era un centro di
recupero, ma una clinica.»
«Quale vuoi che sia la
differenza?» Sto per dire che di differenze ce ne sono giusto un
paio di decine, quando lui mi anticipa: «Perché dici era?
Sei già uscito?»
«Questo pomeriggio, sul
presto. Adesso sono a casa. Avevo un po' di cose da risolvere, e non
potevo farlo stando a Cedar Creek.»
«Sei a casa e me lo dici
soltanto adesso? Dammi mezz'ora, metto a letto Ryder, ti vengo a
prendere e ci facciamo una birra. Non abbiamo ancora festeggiato il
tuo compleanno!»
Mi prendo per un istante la
testa fra le mani: finora ero quasi riuscito a scordare di essere
diventato a tutti gli effetti un quarantaquattrenne, ma come sempre
Wayne ha la straordinaria capacità di riportare a galla ogni tipo di
verità nascosta. «No, amico, non posso. C'è... c'è una persona
qui con me.»
«Fuori da mezza giornata e
già hai rimorchiato? Non ci credo, questo batte ogni record.»
«Non è una ragazza
qualunque» ribatto. «Insomma, è... c'è Daria, qui.»
Ci vuole qualche secondo
affinché recepisca il messaggio, ma quando finalmente torna a
parlare non fa nulla per celare il proprio stato d'animo. «Daria?
Intendi la ragazza italiana che ti ha spezzato il cuore? La stupenda
ragazza italiana che ti ha spezzato il cuore? No, tesoro, ti sbagli:
ho detto orrenda ragazza italiana» lo sento aggiungere subito
dopo all'indirizzo di una certamente gelosa Ashley, e la prospettiva
di riuscire a scatenare una delle loro solite baruffe senza nemmeno
essere nello stesso quartiere mi diverte immensamente. «Come sarebbe
a dire che è a casa tua? No, aspetta: come sarebbe a dire che è in
questo Paese?»
«Sarebbe a dire che ha
preso un aereo e ha attraversato mezzo mondo, e ora... beh, è qui.»
«Parliamo della stessa che
hai sorpreso a pomiciare con un altro dopo esserti sorbito otto ore
di volo in classe economica per colpa della tirchieria di tuo
fratello?»
«Proprio lei.»
«E... perché è qui?»
«Perché è venuta a
chiedermi scusa» rispondo, abbassando la voce sulle ultime
due parole. «Questa mattina si è fatta accompagnare a Cedar Creek
da Jared e mi ha chiesto scusa per il suo comportamento.»
«Nessuna donna è mai
tornata a chiedermi scusa per avermi lasciato.»
«Beh, se è per questo è
una novità anche per me. Non avevo idea di come comportarmi, perciò
ho fatto la cosa più sensata che mi sia venuta in mente.»
«L'hai presa a calci in
culo?»
«L'ho ascoltata»
lo correggo. «Mi ha spiegato le sue ragioni, i motivi per cui mi ha
lasciato, e mi ha anche raccontato di quel tipo con cui stava uscendo
quando sono andata da lei. Cosa che, tra parentesi, ha scoperto da
mio fratello. Ha detto che con quel tipo, che poi è anche il suo
capo, è durata poco, e che ha troncato quando ha... quando ha capito
che stava facendo del male a lui e anche a se stessa, e... beh,
quando ha capito che probabilmente ne aveva fatto anche a me.»
«Mi sfugge un punto,
credo: come sei passato ad odiarla al portarla a casa tua?»
Completamente nuda e alla
mercè di Jared, per un istante Alice prova qualcosa di simile alla
vergogna: stringe le gambe, nasconde il seno con un braccio e
distoglie lo sguardo, sentendosi troppo imbarazzata per continuare
quella cosa, di qualsiasi cosa si tratti. «Va tutto bene?» le
domanda a bassa voce lui, accarezzandole una guancia con una dolcezza
che non avrebbe mai creduto di poter dimostrare a qualcuno che
conosce da così poco. «Se hai cambiato idea, io non... non voglio
obbligarti a fare niente che tu non voglia» sussurra, e di nuovo non
si riconosce in quel comportamento: non è mai stato così premuroso
nei confronti di qualcuno, nemmeno nei rari casi in cui ha pensato di
trovarsi di fronte ad una donna per cui valesse la pena spogliarsi,
oltre che dei vestiti, di ogni maschera.
«No, io non... non ho
cambiato idea» sussurra lei, continuando a non guardarlo. «Non so
che cosa mi prenda, scusa.»
«Non ti devi scusare con
me. Mai, va bene?» tenta di rassicurarla, continuando a
sfiorarle il viso. «Hai gli occhi tristi» osserva subito dopo, più
per rendersene conto egli stesso che per farlo notare a lei. Ogni
volta che hanno parlato al telefono l'ha sentita felice, e Daria
gliene ha sempre parlato come una ragazza estremamente solare:
vederla così dimessa gli fa stringere il cuore, soprattutto se pensa
che potrebbe essere lui la causa di quell'insolito stato d'animo.
«Non sono triste»
risponde lei, tornando a guardarlo con sguardo fiero, quasi volesse
fargli capire che lei non è tipo da lasciarsi vincere dalla
negatività. «Solo che non... non riesco a smettere di pensare. Mi
sembro quasi Daria, accidenti» sorride, e Jared non riesce a non
imitarla. «Sto solo... sto provando a capire che cosa stiamo
facendo, e non... non riesco a darmi una risposta, e questo mi manda
ai pazzi, perché praticamente ho sempre una risposta a tutto.»
«So come ti senti, Alice»
risponde, cercando di ignorare i propri istinti più turpi per
stendersi al suo fianco. Si puntella la testa con un braccio,
appoggiando il gomito sul cuscino, e quando i loro sguardi si
incontrano di nuovo, nota che lei lo sta guardando con aria confusa.
«Perché mi stai guardando così?»
«Non mi chiami mai Alice»
sussurra lei. «Non una sola volta da quando abbiamo iniziato a
parlare mi hai chiamata Alice. Soltanto quando mi hai presentata a
tua madre e a tuo fratello.»
«Non posso chiamarti Gwen
Stacy per sempre, no? E poi hai un bel nome, sarebbe un peccato
non usarlo.» Tenta di sorriderle per allentare la tensione, ma dopo
un istante desiste – ora è lui quello con gli occhi tristi, lo sa.
«Se la cosa può esserti di conforto, nemmeno io so di preciso che
cosa stiamo facendo. Beh, dal punto di vista tecnico penso di
essere piuttosto erudito, ma... beh, se stai parlando di sentimenti,
credo di essere confuso quanto te.»
«Forse allora non dovremmo
andare avanti.»
«Forse no.»
«O forse continuare è il
solo modo per capire che cosa stiamo facendo.»
«Non farò niente che non
voglia fare anche tu» dice ancora lui, smettendo di sorreggersi la
testa per accarezzarle i capelli. «Riconosco di essere un vero
stronzo quando si parla di queste cose, ma con te... non posso.
Pensavo che non sarei mai arrivato a dire una cosa del genere ad una
ragazza, ma... con te è tutto diverso. Tu mi fai sentire
diverso.»
Alice sorride, distogliendo
di nuovo lo sguardo. «Non credo di sentirmela, Jared» sussurra dopo
un istante, tornando a puntare gli occhi chiari nei suoi. «Non sono
ancora pronta per questo.»
«E allora ci fermiamo qui.
Comunque ti ho vista nuda, è già un bel successo» scherza,
strappandole finalmente una risata. Vederla ridere gli gonfia il
cuore di felicità, perché è questa la ragazza che ha imparato a
conoscere: una bellissima ragazza dal viso sorridente che ride di
cuore, con tutta la forza che possiede. La guarda mettersi a sedere e
indossare la biancheria, provando una briciola di dispiacere per ogni
centimetro di pelle che viene coperta. Quando lei si volta a
guardarlo con un altro sorriso, sputa fuori le parole che gli
vorticano in testa senza pensarci troppo su. «Dormiresti con me?»
«Quindi non è successo
niente? Insomma, si è addormentata in macchina e allora l'hai
portata nel tuo letto?» Il tono di Wayne è sospeso tra l'incredulo
e il fiero, come se fosse orgoglioso del mio comportamento
cavalleresco e allo stesso tempo si stesse chiedendo se sia davvero
al telefono con l'uomo che fino ad un anno fa non avrebbe permesso ad
una donna di arrivare al suo letto con le mutande ancora addosso.
«Beh, a parte il bacio che
le ho dato quando eravamo ancora sulle colline» rispondo, pentendomi
una volta di più dell'accaduto. «Ma è stato un errore. Un enorme,
madornale errore.»
«Errore o meno, comunque è
successo. E non puoi nemmeno raccontare che eri ubriaco, o roba del
genere. Lo hai fatto e basta.»
«Lo so, lo so. So che non
posso cancellare quel bacio con un colpo di spugna e sperare che
tutto torni come prima.»
«Credi che lei si sia
fatta qualche strana idea in proposito? Insomma, che... abbia
ricominciato a nutrire qualche speranza, o roba del genere?»
«No, o almeno non credo.
Te l'ho detto, è stata lei la prima a dire che sa che le cose tra di
noi non si possono aggiustare così facilmente.»
«Beh, se la mia opinione
vale ancora qualcosa, io dico che ti ha detto una cazzata. So che
inizierai ad odiarmi non appena avrò finito di parlare, ma...
Shannon, le cose tra di voi si possono aggiustare in qualsiasi
momento. Tu la ami ancora, e adesso credo sia abbastanza chiaro che
anche lei ti ama ancora. Stabilito questo, non c'è altro da dire.
Però per aggiustare qualcosa bisogna volerlo, e a questo punto
bisogna soltanto capire se tu vuoi aggiustare le cose. Perché
direi che prendendo quell'aereo lei le sue carte le ha messe in
tavola.» In sottofondo sento la vocina di Ryder che chiama a gran
voce il papà. «Oh, aspetta, qui c'è un ometto che ti vuole
salutare. Vieni, tesoro. È lo zio Shannon. Salutalo, dai. Digli
ciao.»
«Bu-u-us! Bu-u-us!»
esclama più volte il bambino, strappandomi una risata di cuore, la
prima rista veramente sincera che mi sia concesso da tempo.
«No, tesoro, non è Bruce»
lo corregge suo padre. «Non è Bruce, è zio Shannon. Bruce sta
facendo la nanna, come tutti i bravi cuccioletti. Il che significa
che adesso andiamo a mettere a letto anche te. Scusa, fratello»
riprende subito dopo, tornando a rivolgersi a me. «Adesso purtroppo
devo andare a metterlo a dormire. Siamo un po' in subbuglio, qui.
Dopodomani arrivano i genitori di Ashley da Seattle, e...»
«Ma no, figurati, ho
abusato anche troppo del tuo tempo. È solo che avevo bisogno di
parlare con qualcuno che mi fosse amico.»
«E hai trovato un'altra
persona pronta a farti la paternale» scherza, regalandomi un altro
sorriso. «Scusa, ma sai che sono naturalmente portato a dire quello
che penso.»
«Non ti scusare» lo
rassicuro. «Perché pensi che ti abbia scelto come amico?»
La casa di Jared è di
nuovo immersa nel silenzio. Nel buio della camera da letto, Jared e
Alice si sono addormentati abbracciati sotto le coperte, stretti e
quieti come una coppia ormai rodata. Nonostante il sonnellino sul
divano, la ragazza è scivolata immediatamente nel sonno, mentre per
Jared è stato più difficile: non è mai stato tipo da passare la
notte con una donna dormendo, ed è così tanto che gli capita
di stendersi in letti vuoti che all'inizio ha davvero faticato a
chiudere gli occhi, sentendo una presenza accanto a sé. Ma quando
Alice si è accoccolata contro di lui, strusciandogli i capelli
contro il collo, qualcosa è cambiato, facendo sembrare quella
situazione così inaspettata quasi normale.
Chiuso nello studio passo
un'eternità seduto sul seggiolino, scrutando ogni singolo tamburo
come se non riuscissi più a riconoscermi in questo ambiente. Nel
tentativo di distrarmi provo a rimettere in ordine alcuni scaffali,
fermandomi quando, sfogliando un plico di spartiti, trovo i frammenti
della canzone scritta da Jared, quella che non ho esistato a fare in
pezzi. Mi chiedo come sia arrivata qui, ma è soltanto un momento:
una volta recuperato un rotolo di scotch inizio a darmi da fare per
rimetterla insieme, trovandolo facile come se non avessi fatto altro
per il resto della vita. Una volta incollato l'ultimo pezzo mi lascio
scivolare a terra con i fogli tra le mani, leggendo ogni parola come
se la vedessi per la prima volta, eppure ho già visto queste note,
ho già letto questi versi – ma la prima volta ero ancora troppo
ferito e troppo adirato per capire davvero la bellezza di questo
pezzo. Fisso lo sguardo sullo spazio in alto, di solito riservato al
titolo, che in questo caso recita la dicitura Undefined.
«Undefined» sussurro, lasciandomi scivolare ogni lettera
sulla lingua come un sorso di caffè bollente. Undefined, che
significa indefinito, che sta ad indicare qualcosa che non si
riesce a descrivere a parole. Sorrido, pensando che nessuna parola
meglio di questa sembra definire questa situazione. Forse è
questo l'unico titolo possibile per questa canzone. Senza pensarci
troppo, prendo una penna e ricalco con attenzione ogni tratto, fino a
fissare quella parola sulla carta porosa come un tatuaggio sulla
pelle. Poi leggo il primo verso, e il cuore manca un battito. «Jumped
in unexpected and drove me off to paradise unknown2»
leggo a bassa voce, e per la prima volta mi rendo conto che Jared è
un vero poeta. Leggo il resto della canzone in silenzio, lasciando
che ogni singolo verso mi entri sotto la pelle, lasciando che i miei
occhi vedano, finalmente, ciò che mio fratello ha visto già mesi
fa.
Mezzanotte è passata da
pochi minuti quando mi decido a staccare gli occhi da questo stupido
pezzo di carta, che ormai ho quasi impresso a fuoco nella mia mente.
Lo ripongo insieme agli altri spartiti, facendo attenzione a non
sgualcirlo ulteriormente. Uscendo dallo studio spengo la luce, deciso
a passare la notte sul divano o nella camera degli ospiti, ma proprio
mentre me ne sto fermo al centro del corridoio cercando di prendere
una decisione le gambe iniziano a muoversi da sole, conducendomi
sulla soglia della mia camera da letto. Spingo lentamente la porta e
guardo dentro, distinguendo chiaramente la figura addormentata di
Daria nella poca luce che filtra dalle grandi vetrate. Non impiego
molto a decidere il da farsi: mi sfilo lentamente le scarpe,
chiudendo la porta, e sempre con estrema lentezza mi avvicino al
letto, pronto ad allontanarmi al primo segno che possa indicare il
risveglio di Daria. Ma lei continua a dormire con la serenità di una
bambina, e non si muove nemmeno quando il materasso cede sotto il mio
peso, nemmeno quando tiro un po' la coperta verso di me. Resto a
guardarla a lungo, incapace di chiudere gli occhi e cedere alla
stanchezza. La verità si fa sempre più chiara ad ogni minuto che
passa: potrei sprecare una vita intera a cercare di convincermi che
tra noi sia finita per sempre, ma un solo dei suoi sguardi sarà per
sempre sufficiente a farmi innamorare di nuovo. Daria è e sarà
sempre la mia debolezza, una malattia dalla quale non ho voglia di
guarire, la sola dipendenza dalla quale non ho e non avrò mai
intenzione di liberarmi.
*
Los Angeles, 14 marzo
2014
Apro
gli occhi, e la prima cosa che mi trovo davanti è lo sguardo limpido
di Daria, ancora distesa accanto a me. «Buongiorno» sorrido, la
voce ancora vagamente impastata dal sonno. «Hai dormito bene?»
«Molto,
grazie» replica, e dalla prontezza del suo tono mi chiedo da quanto
tempo se ne stia sveglia a fissarmi. «Siamo a casa tua, vero?»
«Precisamente.
Quando siamo arrivati mi sono accorto che dormivi, ma eri così
tranquilla che svegliarti mi sembrava un vero peccato.»
«Quindi...
siamo in camera tua?»
«Sì.»
«Nel
tuo letto?
«Sì.»
«Perché?»
«Beh,
perché è la stanza più comoda. Volevo che dormissi bene.»
«Non
prenderla male, ma... perché ci sei anche tu?»
«Perché
volevo esserti vicino in caso avessi bisogno di qualcosa» mento,
pentendomene dopo un istante. «No, è una bugia. La verità è che
volevo starti vicino e basta.»
«Perché?»
«Perché non riesco a
starti lontano» ammetto. «Ho provato in ogni modo a staccarmi da
te, ad odiarti, a dimenticarmi come mi facevi sentire, ma per quanto
mi sforzi è come... mi basta guardarti per un minuto, ed è come se
dimenticassi tutto il dolore.» Contravvenendo agli avvertimenti
della mente, alzo una mano per accarezzarle i capelli. «Quando ho
detto che sei il primo posto in cui sia riuscito a ritrovarmi... era
vero. È vero. Anche tra cinquant'anni, sarai sempre una delle
persone più importanti della mia vita.» Restiamo a guardarci in
silenzio per qualche secondo, poi la mia mano inizia a scendere lenta
verso il suo collo, accarezzando la sua pelle con una delicatezza che
non avrei più pensato di poter dimostrare. La osservo chiudere le
palpebre, forse trattenendo una lacrima, e improvvisamente mi è
chiaro che quel bacio sulle colline non è stato uno sbaglio: l'unico
vero sbaglio è stato non correre da lei subito, lasciarla
allontanare fino a convincermi che restare separati fosse l'unico
futuro possibile. Respingendo ancora una volta le obiezioni della
ragione, scivolo in avanti e la bacio ancora. Forse è un tremendo
errore, forse è il modo più sbagliato per trovare una soluzione, ma
non mi importa: il cuore mi dice che è la cosa più naturale, e in
questo momento il cuore è la sola ragione che sia disposto ad
ascoltare.
«Daria non è tornata»
esordisce Alice, strattonando Jared per costringerlo a svegliarsi.
Lui apre gli occhi a fatica, sbuffando, incapace persino di capire
dove si trovi, figurarsi recepire le parole della ragazza. «Hai
capito quello che ho detto? Daria non è ancora tornata.»
«Sono sicuro che sta bene»
biascica lui, voltandosi dall'altra parte.
«Jared, svegliati!»
insiste ancora lei, strattonandolo così forte da farlo quasi
rotolare giù dal letto. «Voglio andare a cercarla.»
Ormai completamente
sveglio, Jared si passa una mano sugli occhi. «Hai provato a
chiamarla?»
«Il cellulare è spento.»
«Magari si è scaricato.
Pensi che sia successo qualcosa?»
«Penso che voglio sapere
dov'è, e voglio sapere come sta.»
«E non ti calmerai finché
non avrai visto con i tuoi occhi che è viva e in salute?»
«Esattamente.»
«E va bene» sospira lui,
calciando via le coperte. «Dammi dieci minuti. Faccio una doccia e
andiamo a cercarla.»
Nell'istante in cui le
labbra di Shannon toccano le mie mi sfugge una lacrima, certa come
sono che finirà come sulle colline, quando si è allontanato da me
dicendo di aver commesso un errore. A fatica mi costringo a spingerlo
via. «Me ne devo andare» sussurro, alzandomi subito dal letto.
«Devo andare via» ripeto, più per convincere me stessa che per
altro.
«Daria, aspetta...»
«No!» replico subito,
alzando la voce senza volerlo. «No, Shannon, non ho alcuna
intenzione di aspettare che ti allontani di nuovo» aggiungo,
prendendo coraggio parola dopo parola. «Non ho intenzione di
lasciarmi illudere un'altra volta, non ho intenzione di guardarti di
nuovo andare via dicendo che è stato un errore. Hai tutto il diritto
di avercela con me, ma non puoi farmela pagare prendendomi in giro.
Questo non te lo permetto.»
Lascio la camera a passo
veloce, rischiando di inciampare in Bruce, che sentendomi alzare la
voce è corso a presidiare la porta. Dal rumore che sento dietro di
me capisco che Shannon si è alzato per corrermi dietro, ma non ho
alcuna intenzione di fermarmi. Mi sento ferita, mi sento frustrata, e
la sola cosa che voglio fare è tornare a casa di Jared, dovessi fare
tutta la strada a piedi. «Non ti sto prendendo in giro, Daria!» lo
sento dire. «Tutto quello che ho detto è vero!»
«Non trattarmi da stupida,
Shannon!» urlo, interrompendo la mia fuga. «Meno di ventiquattro
ore fa hai detto che non sai se riuscirai mai a perdonarmi per il
male che ti ho fatto, e ora vorresti farmi credere di aver cambiato
idea? Questo è un insulto alla mia intelligenza, e non ho alcuna
intenzione di accettarlo. Se vuoi passare il resto della vita
odiandomi, va bene. Se vuoi ignorarmi finché entrambi avremo vita,
va bene. Ma non prenderti gioco di me, per favore. Ho sbagliato, ti
ho ferito, ti ho fatto del male, ma questo non lo merito. Non
merito questo» ripeto, costringendomi a voltarmi verso la porta
prima che le lacrime rendano meno efficace la mia rabbia.
Riesco ad arrivarle alle
spalle un istante prima che apra la porta, e il primo istinto è
quello di cingerla con le braccia per impedirle di uscire. «Non te
ne andare di nuovo» sussurro, trattenendola contro di me.
«Lasciami andare, Shannon»
protesta debolmente, cercando di divincolarsi senza troppa
convinzione dalla mia stretta.
«Concedimi soltanto due
minuti, ti prego» sussurro ancora. «Soltanto due minuti, per
favore.»
«Cos'è, non mi hai ancora
umiliata abbastanza?»
Sfrutto il vantaggio fisico
per farla voltare verso di me, deciso a catturare la sua attenzione e
a farmi ascoltare. «C'è una cosa che ti voglio mostrare, ma devi
darmi ancora due minuti. Soltanto due minuti» ripeto,
abbassando la voce. «Due minuti, poi ti lascerò andare.»
1Tra
due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore.
| Il titolo del capitolo è
ispirato ad un verso della canzone Generale
del cantautore romano Francesco
De Gregori,
contenuta nell'album De
Gregori
(1978).
2Jumped
in unexpected and drove me off to paradise unknown.
| Si tratta di un verso di mia invenzione tratto da una canzone
altrettanto fasulla, buttata giù appositamente per questa
fanfiction, dunque di mia esclusiva proprietà. La traduzione è
pressappoco questa: “Sei saltata a bordo inaspettatamente e mi hai
dirottato verso un paradiso sconosciuto”. Mi rendo conto che è una
cosa scema, ma in La
lunga strada verso casa
ho parlato talmente tanto di questa canzone che proprio non potevo
evitare di tirarla di nuovo in ballo.
|
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Capitolo 10 *** 10 | Tutto muore, ma tu sei la cosa più cara che ho. ***
La lunga strada verso casa - 1
Non
tenterò nemmeno di chiedervi scusa per l'immenso ritardo con cui
posto questo capitolo, perché qualsiasi parola sarebbe superflua e
inutile. Il fatto è che ho avuto qualche guaio in famiglia, nelle
ultime settimane, e mi sono mancati sia il tempo sia (soprattutto) la
serenità per mettermi seduta a scrivere. Tutto ciò che posso dire è
che spero di ritrovarvi ancora tutte qui, anche soltanto per
insultarmi.
Buona
lettura,
EffieSamadhi
Per aspera ad astra
Capitolo decimo
Tutto muore, ma tu
sei la cosa più cara
che ho.1
Los Angeles, 13 marzo
2014
Non so da che cosa dipenda
la mia decisione di restare e concedergli quei due minuti che tanto
disperatamente va cercando: non so se dipenda dalla dolcezza della
sua voce o dal calore delle sue mani posate sulle mie spalle, o se,
più semplicemente, sia unicamente colpa della mia debolezza, stupida
forza che mi ha convinta a sperare anche quando le circostanze
facevano presagire il peggio. Ma non importa quali siano i motivi
della mia scelta: la sola cosa che abbia un certo rilievo in questo
momento è che Shannon mi sta facendo attraversare la sua casa
tenendomi per mano come una bambina. Mi lascia andare soltanto quando
arriviamo sulla soglia del suo studio, dove mi fermo, in attesa. Lo
guardo avvicinarsi ad uno scaffale disordinato e rovistare tra alcune
cartelle fino ad estrarne quello che sembra un foglio di carta fatto
a pezzi e rimesso insieme con il nastro adesivo. «Che cos'è?»
domando, sebbene l'intuito mi dica che si tratta della base di una
canzone.
«Quando sei scappata da
Parigi» inizia lui, tenendo lo sguardo basso, «non sono stato
l'unico a dover trovare un modo per esorcizzare il dolore. Io ho
provato a dimenticarti, a fingere di non averti mai conosciuta.
Jared, invece, ha deciso di fissare i ricordi nel modo in cui gli
riesce meglio.»
Prendo
il foglio che mi sta porgendo, e dopo qualche secondo di incertezza
riesco a convincermi ad abbassare gli occhi sulla carta. Già dalle
prime righe riesco a comprendere meglio le parole di Shannon. «Jared
ha scritto una canzone su di me?» chiedo infine, incapace di credere
in una risposta affermativa.
«Sarebbe più corretto
dire che ha scritto una canzone su di noi» replica lui con un
vago sorriso. «Ha iniziato a Parigi la sera che ti ha conosciuta, ma
io non ne ho saputo niente fino a che non l'ha finita. Eravamo in
Brasile per una serie di concerti, e io... io ero piuttosto giù di
morale. Credendo di riuscire a scuotermi mi ha mostrato lo spartito.
Solo che ho dato di matto e l'ho fatto a pezzi, e poi mi sono
rintanato in un locale a bere e...» Si interrompe bruscamente, forse
temendo di essersi spinto troppo oltre con il resoconto.
«...e rimorchiare belle
ragazze?» completo io in tono scherzoso, cercando di fargli capire
che non mi deve alcuna spiegazione, né tantomeno deve sentirsi in
colpa per quello che ha fatto in questi ultimi mesi, anche se l'idea
che sia stato con altre donne mi irrita, e non poco. «So che c'è
sei uscito con un'altra, in questi mesi» mi convinco infine a dire.
«Tuo fratello lo ha detto ad Alice, e Alice lo ha detto a me. Anche
se forse definirla semplicemente un'altra è riduttivo.»
«Christine» sussurra,
senza dare alla propria voce una particolare intonazione. «Non avrei
mai pensato di rivederla e riprendere da dove ci eravamo lasciati,
ma... è capitato. Ci siamo rivisti e abbiamo pensato di poterci
riprovare, ma... non è andata come speravamo. Con lei le cose non
sono mai state semplici... un po' come con te.» Sentirmi paragonata
al suo primo grande amore mi confonde: da un lato mi sento lusingata
per essere stata messa sullo stesso piano della prima persona cui
abbia mai concesso il suo cuore e la sua fiducia, ma allo stesso
tempo vorrei prenderlo a schiaffi e urlargli contro che io non sono
Christine. In qualche modo, però, riesco a reprimere ogni istinto
distruttivo, restando in silenzio con gli occhi fissi sullo spartito.
«Riesci a... capisci tutto quello che dice?» mi domanda Shannon,
forse notando il mio interessamento al testo.
Annuisco, alzando la testa.
«Più o meno sì, riesco a... capisco» rispondo a fatica, sentendo
il cuore salire in gola. La verità è che riesco a capire più di
quanto vorrei: ancora una volta Jared ha dimostrato di essere un
grande poeta, un uomo capace di dire tutto ciò che gli passa per la
mente usando pochissime semplici parole. «Perché hai voluto che la
vedessi?»
«Non lo so» ribatte,
facendo spallucce. «E stavolta non sto mentendo. Non lo so davvero.»
Guardo ancora una volta la
pagina fitta di parole e note, chiedendomi quale suono ne potrebbe
venir fuori. Sono sempre stata un'appassionata di musica, ma non
avendo mai avuto occasione di studiarla non ho alcuna idea di quale
sia il significato di tutti i segni che vedo. Quando incontro di
nuovo lo sguardo di Shannon, dopo quella che sembra un'eternità, le
parole escono fuori quasi da sole. «Potresti suonarla per me?»
Lui rimane interdetto per
qualche secondo, aprendo e chiudendo la bocca senza emettere suono.
«Sì, beh, è... è soltanto un abbozzo, ma penso di poterlo fare»
replica infine, voltandosi per prendere la chitarra poggiata poco più
in là. «Puoi... potresti mettere qui lo spartito?» mi domanda,
indicando il leggio di fronte a sé. Obbedisco, osservandolo mentre
si sgranchisce le dita e prova qualche accordo. «Non ti prometto
niente, certo. È una bozza molto ben elaborata, ma resta sempre una
bozza» aggiunge, quasi a volersi giustificare per un'eventuale
cattiva esecuzione.
«Non importa» ribatto,
fingendomi interessata alla conformazione dei piatti montati sulla
batteria. «Non pretendo un concerto, vorrei solo... sentire come
suona.»
Con un sorriso come unica
risposta, Shannon dà una veloce occhiata alla copia e inizia a
suonare. Già dal primo accordo sembra entrare in un mondo che è
solo suo, un regno del quale è sovrano e unico abitante, un universo
privato al quale soltanto lui può dare il permesso di accedere.
Seguo con particolare attenzione il movimento delle sue dita, ma
quasi subito è il suo viso a distrarmi: dietro le sue palpebre
chiuse, lo so, c'è lo sguardo che ho imparato ad amare, gli occhi di
cui non sono mai riuscita ad indovinare il colore, gli unici occhi
che avrei voluto addosso per il resto della vita. Sto per rassegnarmi
all'idea di aver perso per sempre il nostro amore quando Shannon,
ancora una volta, mi sorprende.
Alla terza battuta, dopo la
delicata introduzione tracciata da Jared, iniziare a cantare mi
sembra la cosa più naturale del mondo. So di non avere la potenza
vocale di mio fratello né il suo talento interpretativo, ma per
qualche motivo seguire anche le parole mi sembra una buona cosa –
in fondo, Daria voleva farsi un'idea generale di come suonasse la
canzone, e quale modo migliore di accontentarla se non farle sentire
tutto?
Quando riapro gli occhi, al
termine della prima strofa, trovo fisso su di me il suo sguardo, e
all'improvviso mi accorgo di non aver bisogno di seguire lo spartito:
ormai conosco questa canzone a memoria, nemmeno fossi stato io a
scriverla – e se anche dimenticassi un solo accordo o una parola,
sarebbe sufficiente studiare il volto di Daria per ritrovare la
strada. I suoi occhi, soprattutto – sono i suoi occhi a tracciare
il sentiero per la serenità, così chiari e brillanti da riuscire ad
illuminare anche l'anima più oscura.
Ormai lascio che le mie
dita vaghino da sole tra corde e tasti, sicure del percorso da
seguire, così allenate da non aver bisogno di indicazioni. Tutto ciò
cui presto attenzione è lo sguardo di Daria fisso nel mio, così
aperto da far trasparire tutta l'emozione scatenata dalla musica. Più
la guardo, più mi rendo conto che la sfuriata di poco fa non ha
valore: le sue parole esprimevano astio e il suo tono era duro come
non mai, ma i suoi occhi raccontano una storia tutta diversa – i
suoi occhi dicono che la speranza non è morta, e che possiamo
tornare ad amare ancora.
A fatica Jared è riuscito
a convincere Alice ad aspettarlo in macchina, certo che avrebbe fatto
irruzione in casa di Shannon con la forza di un carroarmato, facendo
precipitare irrimediabilmente la situazione – qualunque essa sia.
Mentre fa girare la chiave nella toppa il più silenziosamente
possibile, lo coglie una leggera preoccupazione: sebbene si sia
mostrato calmo per riuscire a tranquillizzare Alice, ora che è solo
non riesce a mentirsi più a lungo – quel lungo silenzio da parte
del fratello e di Daria è strano, e per uno come lui, abituato a
sapere sempre tutto, è una cosa semplicemente inaccettabile. Per
essere certo di non fare rumore si sfila le scarpe, che abbandona
sullo zerbino, e muove qualche incerto passo nel grande ingresso
luminoso, sperando che Bruce non rovini tutto intercettando la sua
presenza. Eppure, se ne rende conto subito, del cane non c'è
traccia. Getta una rapida occhiata fuori: la macchina di Shannon è
parcheggiata nel vialetto, dunque lui deve essere in casa, e la
logica suppone che da qualche parte ci sia anche Daria. Poi, quasi
all'improvviso, si accorge della musica che arriva dallo studio di
Shannon, la cui porta riesce a vedere bene dalla propria posizione.
Non riesce a nascondere un sorriso quando riconosce le note che egli
stesso ha scritto, e anche senza proseguire sa di poter
tornare indietro, chiudere la porta, sedersi di nuovo in auto e
assicurare ad Alice che va tutto bene. Certo, è vero che non ha
visto né Shannon né Daria, ma sentire suo fratello suonare quella
canzone può voler dire soltanto una cosa: i miracoli possono
accadere. Non può sapere con certezza che cosa accadrà, perché
nessuno può conoscere il futuro, ma su una cosa si sente protno a
giurare: se Shannon sta suonando quella canzone, è sicuramente per
Daria – e questo significa che suo fratello è ancora vivo,
che il suo cuore non è spezzato come credeva, e che forse le cose,
con molto impegno e molta fatica, si possono aggiustare.
«...praying to see
these Eden's eyes that saved me, praying to reach again your
paradise2» concludo, eseguendo gli accordi finali
della canzone. Non appena torna a regnare il silenzio mi sento
strano, quasi imbarazzato, come se mi fossi appena risvegliato nudo
sul palco del Kodak Theatre durante la notte degli Oscar. Persino una
cosa semplice come alzare la testa per cercare lo sguardo di Daria mi
sembra una fatica immensa, un gesto eroico che non mi sento degno di
compiere. Ma subito dopo succede una cosa strana, una cosa che non
avrei mai immaginato potesse accadere ancora: la mano di Daria si
posa sulla mia guancia per una carezza delicata, incurante della
barba ispida che le punge la pelle. È a quel punto che trovo la
forza di alzare gli occhi, come se un semplice contatto della sua
mano fosse in grado di rimettermi in sesto e far andare a posto ogni
pezzo di questo puzzle così complicato. Ci guardiamo a lungo, in
silenzio, e più di una volta ho la sensazione che stia per dire
qualcosa, ma che, al pari di me, non riesca a trovare il coraggio. E
poi, all'improvviso, sorprendendomi ancora una volta, Daria si china
verso di me, e in quello che sembra un gesto al rallentatore degno di
un grande film romantico, le sue labbra tornano a toccare le mie.
«Se non li hai nemmeno
visti, come fai a sapere che Daria sta bene?» Jared apre la porta di
casa con uno sbuffo, alzando gli occhi al cielo. Da quando è
risalito in auto per tornare indietro, Alice non ha mollato il tiro
per un solo minuto, continuando ad insistere che dovrebbero invadere
la casa di Shannon per salvare la sua amica, nemmeno fosse finita nel
covo di un serial killer. «Solo perché l'hai sentito suonare la
chitarra non significa che sia tutto a posto! Come fai a...»
«Conosco mio fratello, va
bene?» sbotta lui all'improvviso, incapace di trattenersi oltre. Si
volta verso Alice di scatto, sorprendola al punto di farle fare un
passo indietro. «Sono sicuro che va tutto bene perché
conosco Shannon, e so che stava suonando quella canzone per lei
perché quella canzone parla di lei, e non si sarebbe mai
messo a suonarla se non per farla sentire a lei!»
Dopo un attimo di
smarrimento, Alice riprende coraggio. «Non alzare la voce con me,
Jared! Non ti permetto di trattarmi così!» reagisce, avanzando fino
a puntargli un dito contro il petto.
«E allora tu non trattarmi
come un deficiente!»
«Non ti tratto come un
deficiente! Sono solo preoccupata per Daria!»
«Beh, puoi smettere di
preoccuparti, perché Daria sta bene!»
«Lascia che sia io a
decidere se sta bene o meno! Sono la sua migliore amica!»
«Essere la sua migliore
amica non ti dà il diritto di controllarla a vista! È adulta, sa
fare le sue...»
«Non mi dire come devo
comportarmi con lei! È la mia amica, e se...»
«Forse dovresti smettere
di pensare soltanto a lei e...»
«Sei un egocentrico
arrogante che pensa solo...»
«Lasciati andare, una
buona volta, e cerca di...»
«Mi hai veramente rotto
con il tuo...»
«Un giorno aprirai gli
occhi e...»
«Non ti sopporto
quando...»
Jared e Alice sono sempre
più vicini, ma nessuno dei due riesce a comprendere le frasi
dell'altro, troppo impegnato ad alzare di più la voce per avere la
meglio, finché lui pronuncia le parole che cristallizzano
l'atmosfera, riportando il silenzio nella casa. «Perché io amavo
la ragazza con cui parlavo al telefono!» Alice si blocca a metà
della frase, chiedendosi se non abbia capito male – in fondo le
parole si accavallavano, i toni erano acuti e aspri, e non è
impossibile che abbia frainteso. Ma poi Jared, abbassando la voce,
fissa gli occhi nei suoi, prendendole una mano. «Dov'è finita la
ragazza con cui ho parlato per tutti questi mesi? Quella che amava
ridere e non aveva paura di mostrarsi per quello che era? Perché io
quella ragazza l'amavo davvero. Non passava giorno senza che pensassi
a lei, anche solo per un secondo.»
Nel volgere di un istante,
Alice si rende conto che raggiungere l'altra parte del mondo l'ha
cambiata, anche se fino a questo momento non ne aveva avuto il minimo
sentore. Abbassa lo sguardo, rendendosi conto suo malgrado che Jared
ha ragione: per qualche strana ragione che non riesce a comprendere,
cambiare continente l'ha resa diversa – e per una come lei, da
sempre abituata ad essere onesta e chiara, questo è inaccettabile.
Sfila la mano da quella di Jared, lottando contro se stessa per non
sfogare le lacrime di rabbia che sente nascere dentro. «Ho
bisogno... devo stare sola per qualche minuto, scusa» balbetta,
superandolo per raggiungere la propria stanza, nella quale si barrica
per dare finalmente sfogo a tutta la propria frustrazione.
Doveva essere un bacio
veloce, un semplice gesto atto a ringraziare Shannon per aver
accontentato la mia richiesta, ma adesso che le mie labbra sono sulle
sue non riesco più ad allontanarmi, come se qualcuno avesse
sostituito il mio lucidalabbra con la supercolla. Quando finalmente
riesco a ritrarmi, riaprendo gli occhi mi trovo davanti lo sguardo
confuso di Shannon, che evidentemente non riesce a spiegarsi il mio
comportamento – poco più di un quarto d'ora l'ho respinto e stavo
scappando, e adesso... questo. Spero soltanto che non mi
chieda perché, perché davvero non saprei trovare parole per
spiegare la situazione. «E questo per che cos'era?» sussurra. Lo
sapevo, sarebbe stato troppo bello potermene andare in silenzio.
Scrollo appena le spalle,
incerta su come rispondere. «Se devo essere sincera, non lo so.
Forse l'ho fatto perché non riesco a dimenticare quanto ti ho amato»
sussurro, accorgendomi che la mia mano riposa ancora sulla sua
guancia ispida. Faccio per ritrarla, ma dimostrando ancora una volta
dei riflessi sbalorditivi lui mi blocca, intrappolando le mie dita
sotto le sue. Con la mano libera mette via la chitarra, poi si alza,
arrivandomi così vicino che basterebbe allungarsi di pochi
centimetri per baciarlo ancora.
«Nemmeno io riesco a
dimenticare quanto ti ho amato» sussurra, così vicino che riesco a
sentire il suo respiro caldo sul viso. «Eppure ci ho provato, lo
sai. Ci ho provato fin quasi a morirne.»
«Ho perso il conto di
quante notti mi sono messa a letto sperando di svegliarmi e scoprire
che è stato tutto un sogno, sperando di... di non averti mai
incontrato» mormoro, così nervosa e confusa da non avere più
alcuna idea di che cosa stia dicendo. «Solo che poi mi sveglio, ogni
mattina, e una parte di me spera di vedere il tuo viso sul cuscino
accanto, ed è...»
«Terribile?» completo,
comprendendo perfettamente il suo stato d'animo.
«A volte mi sembra di aver
sbagliato tutto, con te. E non parlo soltanto di come ti ho lasciato,
ma... a volte mi chiedo se sia stata una buona idea scriverti
quell'e-mail, mi chiedo se forse non avrei dovuto...»
«Il tempo che ho passato
con te è stato il miglior tempo della mia vita» la interrompo,
facendo risalire le mani verso il suo viso per stringerlo e
costringerla a guardarmi. «Non rimpiango niente di quello che c'è
stato tra di noi.» Siamo così vicini che basterebbe un minimo
movimento per baciarsi ancora, ma nessuno dei due muove un muscolo,
inconsciamente terrorizzato da quanto potrebbe succedere dopo.
«Mandami via, Shannon. Per
favore, mandami via» sussurra, e i suoi si velano ancora una
volta di lacrime. Vederla in questo stato mi spezza il cuore, ma
sarebbe una bugia tremenda dire che il pianto non renda i suoi occhi
ancora più belli.
«Non posso mandarti via,
Daria» sussurro. «Non posso mandarti via» ripeto ancora,
chiudendo gli occhi e poggiando la mia fronte alla sua. Spero che
riesca a cogliere tutta la sincerità delle mie parole, perché mai
come in questo momento mi sono aperto così di fronte ad una persona
estranea alla mia famiglia. Soltanto lei riesce a spogliarmi di ogni
difesa e di ogni maschera, soltanto con lei riesco ad esprimere
davvero quello che sento. «Se ti mandassi via, so che ne morirei.
Dal momento in cui te ne sei andata ho pensato di essere abbastanza
forte, ho pensato di poter sopravvivere, ma la verità è che... è
che tu sei diventata la sola cosa in grado di dare un senso alla mia
vita.»
Alice è chiusa in camera
da poco più di un'ora, ma nonostante si sia ripromesso di aspettare
che sia lei a cercarlo, Jared non riesce ad attendere oltre. Dopo
aver camminato su e giù per il corridoio come un'anima in pena per
almeno cinque minuti, si decide a bussare alla porta della camera
della ragazza, restando in attesa di un qualsiasi segno di vita. Dopo
un'attesa di mezzo minuto, decide di sfidare la sorte e aprire la
porta, trovando Alice stesa sul letto immobile, con il viso rivolto
verso la finestra. Il solo segno vitale riscontrabile è il flebile
movimento delle sue spalle, che, Jared lo sa, indica una serie di
controllati singhiozzi. Senza aspettare inviti avanza piano fino al
letto, sul bordo del quale si siede cauto, pronto ad andarsene al
primo segno di ostilità. Ma Alice non sembra nemmeno essersi accorta
della sua presenza, perciò lui si sente autorizzato a procedere. «Mi
dispiace di aver urlato» esordisce, guardandosi le mani. Le dà la
schiena, eppure riesce senza sforzo ad immaginare i lunghi capelli
biondi sparsi sul cuscino e i suoi tratti deformati dalle lacrime.
«Non avrei dovuto alzare la voce. Non mi piace nemmeno chi lo fa.»
«E a me dispiace di averti
dato dell'egocentrico arrogante che pensa soltanto a se stesso»
sussurra lei, senza muoversi.
«Ah, ma allora sei viva!»
la prende in giro, voltando la testa verso di lei. Non arriva alcuna
risposta, ma un lieve gemito soffocato lo avverte che è riuscito a
farla ridere – e questa, lo sa, è già una grande conquista, visti
i toni usati in precedenza. «Non avevi tutti i torti, comunque. Che
sono un po' prepotente è vero.»
«Sì, ma non avrei dovuto
urlartelo in faccia.»
«Ti dirò, ripensandoci
non mi dispiace così tanto. Nel mio ambiente è raro trovare
qualcuno che dica sinceramente quello che pensa.»
«Comunque su una cosa hai
ragione» riprende lei dopo un breve silenzio. «La ragazza con cui
parlavi al telefono non è la stessa ragazza a cui hai stretto la
mano in aeroporto.» Jared si volta completamente verso di lei,
pronto a concederle la massima attenzione possibile. «Il fatto è
che... non lo so, conoscerti di persona è stato... strano.
Finché ti conoscevo soltanto per telefono potevo cullarmi
nell'illusione che fossi un ragazzo come tanti altri. Solo che poi
sono arrivata qui, ti ho visto e... mi sono resa conto che eri
tu.»
«Dicendo eri tu
intendi...»
«Mi sono resa conto che
eri davvero Jared Leto, musicista di fama mondiale, attore,
idolo delle ragazzine e signore e padrone di tutte le terre emerse.»
«Non proprio di tutte. Mi
manca la Groenlandia» scherza lui, strappandole un'altra risatina.
«Io non fingo di essere ciò che non sono, Alice» riprende in tono
più serio. «Se mi conoscessi bene, vedresti che sono esattamente
come appaio. Quello che vedi è quello che c'è.»
«Il problema non sei tu,
Jared. Il problema sono io.»
«Credo di aver di nuovo
perso il filo.»
Finalmente Alice si volta
verso di lui, rivelando due occhi arrossati che mal si sposano con il
tono serio che cerca di adottare. «Il fatto è che quando parlavamo
e basta io ero me stessa, ma adesso che siamo insieme... non so se ci
riesco ancora. Non che mi comporti in maniera completamente diversa,
è solo che... non lo so, è solo che mi sembra di essere diversa,
quando sono con te.»
«Se è per quello che ho
detto prima, non...»
«Non è per questo» lo
interrompe lei, mettendosi a sedere. «Ho soltanto paura che tu possa
farti di me un'idea diversa dalla realtà, e che...»
«Nonostante quello che ho
detto prima, finora non ho visto nulla di diverso, in te» la
interrompe a sua volta lui, alzando una mano per accarezzarle i
capelli. «Sì, è vero, abbiamo passato insieme poco tempo e
sicuramente non posso dire di conoscerti, ma... quando ti guardo, io
sono sicuro di vedere quello che sei. Niente di più, niente di meno.
Solo quello che sei.»
«Ti farò ancora del male,
Shannon. Ne sono sicura. Ti farò ancora del male» mormora ancora
Daria, senza tuttavia allontanarsi da me.
«Adesso so come
comportarmi» rispondo, staccando la fronte dalla sua e stringendo
appena le mani sul suo viso per farle sentire la mia vicinanza.
«Shannon, per favore»
insiste ancora, aprendo finalmente gli occhi.
«Io non ti lascio andare
da nessuna parte, Daria» replico, risoluto come non mai. «Santo
cielo, ma come devo dirtelo che ti amo?» I suoi occhi si chiudono di
nuovo, mentre la mente tenta di recepire la notizia. Un attimo di
silenzio, poi si alza in punta di piedi, cercando di nuovo la mia
bocca, che questa volta riesce a rispondere subito, facendosi avida,
stanca di potersi affidare soltanto alla memoria. Le mani scivolano
lente sulla sua schiena, stringendola tanto da toglierle il fiato.
Continuo a ripetermi che dovrei essere delicato, ma non riesco ad
impedirmi di stringerla con tutte le mie forze: dal momento in cui
l'ho conosciuta ho saputo che il solo posto in cui Daria debba stare
sono le mie braccia.
Non ho idea di come
succeda, ma so per certo che non voglio smettere di baciarlo, e non
soltanto perché mi ha detto che mi ama. Lo bacio perché baciarlo è
la cosa giusta da fare, la sola cosa che abbia importanza. Ho passato
gran parte della mia vita commettendo errori, e ora che ne ho
finalmente l'occasione voglio iniziare a rimediare. E se rimediare
significa finire di nuovo offrirgli il mio cuore, i miei difetti e le
mie debolezze su un piatto d'argento, allora è questo che farò.
Lente e piene di dolcezze,
le sue mani si muovono sulla mia schiena: sento il loro calore
scendere lungo la mia spina dorsale, fermandosi appena sopra il
fondoschiena, ma nulla al mondo potrebbe convincermi ad allontanarmi
– posso raccontarmi tutte le bugie del mondo, ma tutto questo mi è
mancato come l'aria, in questi mesi di niente. Non soltanto il
contatto fisico, non soltanto il sesso, ma la consapevolezza di avere
accanto qualcuno che mi ama per quella che sono, qualcuno che
apprezza ogni mia piccola imperfezione, e che è disposto a tenermi
nella sua vita nonostante i miei errori, nonostante le ferite e il
male che gli ho fatto.
«Non vado da nessuna
parte» sussurro nell'istante in cui le sue mani si infilano
subdolamente sotto la mia maglietta, iniziando a sollevarla a partire
dai fianchi. «Non vado da nessuna parte senza di te.» La stoffa
continua a risalire, e con essa le dita di Shannon, che percorrono
ogni centimetro con una lentezza estenuante. Tremo dalla testa ai
piedi, esattamente come la prima volta che mi sono spogliata davanti
a lui – è incredibile come la consapevolezza di quanto stia per
accadere non riesca a cancellare i miei timore, il mio imbarazzo,
quell'assurda e inconscia convinzione di non essere abbastanza per
lui.
«Mi sei mancata» sussurro
a mia volta, staccandomi da lei per il tempo necessario a sfilarle la
maglietta. Resto fermo a guardarla per un momento, mentre lascio
cadere l'indumento lontano e torno ad abbracciarla. «Non avere
paura» sussurro ancora, posando le labbra sul suo collo.
«Non ho paura» risponde
con un lieve gemito, aggrappandosi alle mie spalle con tutta la forza
di cui è capace.
«Non mentire» replico,
continuando a baciarla. Se non la conoscessi potrei anche cascare
nella sua maldestra trappola, ma conosco troppo bene il suo
carattere, e sarei uno stupido se pensassi che non sta morendo di
paura. «Lo sai, puoi dire basta in ogni momento.»
Le sue mani risalgono tra i
miei capelli, e a quel contatto mi fermo per un istante, respirando
lento contro la sua pelle. Prima di lei, raramente sopportavo che mi
si toccassero i capelli, ma la sua delicatezza riesce a rendere
amabile anche quel gesto, al punto da riuscire ad eccitarmi quasi più
di ogni altra carezza. «Mi conosci troppo bene» sussurra, lasciando
che le mie mani raggiungano il suo sedere senza protestare. La
stringo contro di me, prendendomi un secondo per imparare di nuovo ad
apprezzare la sensazione del suo seno premuto contro il mio petto,
poi, con un minimo sforzo, la sollevo tra le mie braccia.
Durante il percorso tra lo
studio e la camera da letto rischiamo più volte di cadere e sbattere
contro i muri, impegnati come siamo a baciarci come adolescenti
innamorati. Quando Shannon mi adagia sul suo letto e rimane in piedi
a guardarmi vorrei protestare, perché ora che ricordo cosa significa
stare con lui non vorrei che mi stesse lontano nemmeno un secondo. Lo
guardo sfilarsi lesto la maglietta per lasciarla cadere a terra, e
poi il suo sguardo si fissa di nuovo su di me, quasi volesse essere
certo di avere di fronte la ragazza giusta. Quando decide di
raggiungermi, non ho più molto tempo per pensare: la sua bocca torna
a prendersi la mia, avida e irruente, e senza sforzo riesce a
convincermi ad allargare le gambe per fargli spazio. Non so come le
sue mani arrivino ai miei jeans, ma in men che non si dica mi ritrovo
in mutande di fronte a lui, ed è in questo momento che mi rendo
conto che davvero non andrò da nessuna parte. Le sue labbra
scendono sensuali lungo il mio corpo, intervallando baci e sospiri, e
quando la sua mano ruvida e piena di calli si chiude sul mio seno
prego che questa tortura finisca presto, perché non so quanto potrò
resistere. Nel momento in cui mi convince ad inarcare la schiena per
sfilarmi il reggiseno mi convinco a partecipare all'azione, e per
questo cerco alla cieca la cintura dei suoi jeans, decisa a
spogliarlo prima che la razionalità torni a prendere il sopravvento.
Sentire la sua eccitazione fa crescere anche la mia, e non appena mi
è possibile torno a stringerlo contro di me, desiderosa più che mai
che torni a farmi sua ancora una volta.
Nel groviglio di gambe,
braccia e mani che siamo diventati, la sua mano si fa strada tra di
noi, scostando le mie mutandine, e prima che me ne renda conto le sue
dita scivolano dentro di me, strappandomi un lieve gemito. «Mi sei
mancata da morire» sussurra ancora, muovendosi dentro di me con una
lentezza che mi avvicina sempre di più al limite. Non tento nemmeno
di resistere, consapevole che non servirebbe a nulla, e poco dopo mi
lascio andare al piacere, reclinando la testa all'indietro. Quando
sento arrivare l'orgasmo non mi preoccupo di trattenermi, e mentre
lascio che mi baci ancora il collo stringo forte le sue spalle,
affondando le unghie fino a fargli male. «Dio, quanto mi sei
mancata» respira contro di me, facendomi scivolare via la biancheria
e seguendone il percorso, marcando ogni piccola tappa con un bacio
delicato. Il suo respiro caldo solletica la mia intimità, e di nuovo
mi sembra di perdere la testa: è incredibile come ogni minimo gesto
riesca a farmi sentire una regina, ed è ancora più incredibile che
io abbia rinunciato a tutto questo soltanto per paura.
Il secondo orgasmo di Daria
mi fa temere, per la prima volta nella vita, di non riuscire a
resistere abbastanza a lungo: guardare il suo volto sconvolto dal
piacere è più eccitante di quanto ricordassi, e il silenzio rotto
dai suoi sospiri e dai suoi gemiti è il solo suono che abbia voglia
di ascoltare per il resto della vita. Mi sollevo da lei per un
istante, per darle un attimo di respiro e per concedere anche a me
stesso un attimo di tregua, e approfitto di questo momento per
allungarmi verso il cassetto del comodino e prendere un profilattico.
Le sue mani iniziano ad abbassare la biancheria, e mi stendo
sull'altro lato del letto per completare l'operazione e indossare la
protezione. Quando mi volto verso di lei, la sua mano sale a
carezzare la mia guancia, e l'improvvisa sicurezza del suo sguardo mi
costringe a rimangiarmi la domanda che stavo pensando di farle.
Abbasso per un istante gli occhi, facendoli correre lungo il
meraviglioso corpo steso accanto al mio, e in un gesto delicato e
naturale le accarezzo la coscia, convincendola a voltarsi
completamente verso di me e a stringere la sua gamba attorno a me. Le
nostre intimità si scontrano, e per un tempo infinito ce ne stiamo
l'uno accanto all'altra, quasi immobili, godendoci un meraviglioso
attimo di pace, una straordinaria sensazione che da troppo tempo
mancava dalle vite di entrambi. «Dicevi sul serio, prima?»
sussurra, senza smettere di accarezzare la mia guancia irta di barba.
«Quando hai detto che mi ami, dicevi sul serio?»
«Ho iniziato ad amarti
quando mi hai spinto in quel negozio di abbigliamento per evitare il
tuo ex ragazzo» risponde a voce bassa, senza smettere di far correre
la sua mano lungo la mia coscia. «E in tutta sincerità, credo che
non riuscirò mai a farla finita, con te.» Come risposta è più che
sufficiente, anche per una ragazza insicura e piena di paure come me.
Mi allungo verso di lui per baciarlo, mentre lui scivola dentro di me
con delicatezza, aiutandosi con una mano. Resto senza fiato per un
istante, mentre Shannon si spinge lentamente dentro di me, facendomi
capire che non sono bastati né il tempo né la lontananza né il
dolore per dividerci.
Approfitto della sua
guardia abbassata per prendere il sopravvento ed ergermi sopra di
lui, poggiandogli una mano sul petto per mantenere l'equilibrio.
Chiudo gli occhi e lascio che sia lui a dettare il ritmo, a decidere
i movimenti. Lascio che sia lui a comandare, a fare di me ciò che
preferisce, perché dal momento in cui ha posato gli occhi su di me
sono stata sua, e nulla di ciò che potrei dire o fare cambierà mai
questa condizione.
Alice e Jared se ne stanno
distesi immobili l'uno accanto all'altra, fissando il soffitto.
«Quella cosa che hai detto prima» dice all'improvviso lei,
spezzando il lungo silenzio che si è creato nella stanza. «Era vero
o lo hai detto soltanto per irritarmi di più?»
«Quale cosa? Ne ho dette
tante.»
«Sai perfettamente a cosa
mi riferisco. Parlo di quando hai detto che amavi la ragazza con cui
parlavi al telefono. Lo hai detto perché ci credi davvero o era
soltanto un modo per farmi incazzare di più?»
«Lo pensavo davvero»
risponde Jared dopo un breve silenzio. «Quelle chiacchierate sono
diventate una parte importante della mia vita, e di conseguenza lo è
diventata anche la persona con cui chiacchieravo.»
«Quindi sei innamorato di
me?»
«Credo di sì.»
«Quindi adesso che
succede?»
«Che intendi?»
«Beh, io non so se ti amo.
Mi piaci molto, questo è vero, ma dire che...»
«Non voglio che tu dica
che mi ami solo perché io ho detto che ti amo.»
«Ma come fai ad essere
sicuro di amarmi? Nemmeno mi avevi mai vista, fino a tre giorni fa.»
«Non lo so» sospira lui,
senza muoversi. «Tutto quello che so è che quello che provo quando
sono con te non somiglia a niente di quello che ho mai provato in
vita mia.»
Il silenzio cala di nuovo
sulla stanza e la fa da padrone per un lunghissimo minuto. «Non
voglio finire come Daria e Shannon» dice lei all'improvviso. «Non
voglio starmene chiusa in casa a chiedermi in quale parte del mondo
sei e a struggermi pensando ai milioni di ragazze che ti si
strusciano addosso quando vai alle feste. Non è roba per me. Ho
passato gli ultimi cinque anni della mia vita così. Non voglio
ripartire da zero proprio adesso che ho deciso di voltare pagina.»
«E io non ti sto chiedendo
di farlo.»
«Quindi restiamo amici?»
«Non potrò mai essere tuo
amico, Alice.»
«Quindi adesso che
succede?» ripete lei, vagamente spaventata di fronte all'incerto
destino che vede di fronte a sé. È sempre stata una ragazza
abituata ad avere un piano, e ritrovarsi all'improvviso piena di
dubbi e incertezze non le piace nemmeno un po'.
«Non lo so, Alice. Non ne
ho la minima idea.»
Daria si è addormentata e
pochi istanti dopo si è voltata sul fianco destro, come fa spesso.
Di nuovo felice e sereno come non mi capitava di essere da secoli,
sollevo una mano per accarezzare il suo tatuaggio. Percorro ogni
simbolo con la punta dell'indice, cercando di non svegliarla.
Arrivato in fondo non riesco ad impedirmi di sorridere, certo che da
adesso in poi tutto andrà per il meglio. La circondo con le braccia,
e prima di chiudere gli occhi poso un bacio leggero sui glyphics
che spiccano nitidi contro la sua pelle chiara: ho di nuovo con me la
cosa più preziosa che abbia mai posseduto, e non mi sentirò mai più
sperduto.
1Tutto
muore, ma tu sei la cosa più cara che ho.
| Il titolo del capitolo è
ispirato ad un verso della canzone E...
di Vasco Rossi,
contenuta nell'album Buoni
O Cattivi
(2005).
2Praying
to see these Eden's eyes that saved me, praying to reach again your
paradise.
|
Si tratta di un altro verso della canzone da me inventata (che, per
rispondere alle domande di alcune di voi, sì, più o meno esiste, ma
vive, per vostra fortuna, soltanto tra la mia mente e i miei
appunti). La traduzione è più o meno questa: “Pregando di vedere
quei divini occhi che mi hanno salvato, pregando di raggiungere
ancora il tuo paradiso”.
|
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Capitolo 11 *** 11 | Io ti guardo negli occhi e vedo lontano il tempo che ho perso. ***
La lunga strada verso casa - 1
Non so
più che fare per chiedervi scusa, ma se ad ogni pubblicazione c'è
qualcuno che continua a recensire significa che in fondo questa
storia non vi dispiace, e che val la pena aspettare anche due
settimane per un capitolo. Vi chiedo scusa, davvero, immensamente, ma
sono stati giorni difficili, e come spesso accade è stata la
scrittura a farne le spese... ma vi giuro che siete sempre nei miei
pensieri, così come Daria, Shannon, Jared, Alice e tutto il teatrino
– non potrei mai abbandonare nessuno di quegli adorabili
squinternati, e sinceramente spero di suscitare le stesse sensazioni
in voi.
Buona
lettura,
EffieSamadhi
Per aspera ad astra
Capitolo undicesimo
Io ti guardo negli
occhi e vedo lontano
il tempo che ho
perso.1
Los Angeles, 13 marzo
2014
Apro gli occhi, ritrovando
su di me lo sguardo di Shannon, che si sostiene la testa con il
gomito, puntellandosi al cuscino con il sorriso di un tempo ad
illuminare ancora di più il suo volto rilassato. «Perché tutte le
volte che mi sveglio ti trovo così? E non dirmi che sono un bello
spettacolo da guardare.»
«Buongiorno anche a te»
sussurra, senza smettere di sorridere, abbassandosi per darmi un
bacio a fior di labbra. Si trattiene contro la mia bocca per qualche
istante, poi si ritrae, facendo salire una mano al mio volto per una
carezza. «Anche se mezzogiorno è passato da un pezzo, quindi forse
sarebbe più appropriato dire buon pomeriggio. E anche se non ti va
di sentirlo sì, sei uno spettacolo stupendo da guardare.»
«Bugiardo» replico,
tirandomi il lenzuolo sopra la faccia.
«Questo mai» ribatte,
tirando via la stoffa. «Non con te. Mai, se si tratta di te.»
Restiamo a guardarci in silenzio per quello che credo sia un minuto
buono, entrambi consapevoli che questo momento è così perfetto da
non aver bisogno di parole. Di sicuro questa parte del nostro
rapporto mi è mancata: per una come me, che ama le parole ma teme di
non saper mai trovare quelle più adatte, potersene stare zitta e
muta in compagnia dell'uomo che ama è la più grande conquista del
mondo. Anche se, già lo so, prima o dopo il silenzio inizierà ad
irritarmi, e a quel punto dovrò per forza trovare qualcosa da dire.
Quel momento arriva prima di quanto mi sarei mai aspettata. «Che
cosa succederà adesso?»
«Dubito che dicendo adesso
tu intenda i prossimi cinque minuti.»
«Mi conosci troppo bene.»
Sospira, tornando a
stendersi accanto a me e cercando la mia mano sotto le lenzuola, per
stringerla con quel misto di forza e dolcezza che ha contribuito a
farmi innamorare di lui. «Ormai credo sia chiaro che per stare bene
abbiamo bisogno di stare insieme» sussurra. «Ma per stare insieme,
devi smettere di avere paura. Devi essere disposta a lasciarti
andare, altrimenti non impiegheremo molto a tornare al punto di
partenza. Con questo non sto dicendo che quello che è successo sia
stata tutta colpa tua» aggiunge in fretta, voltandosi verso di me.
«Non potrei mai scaricare addosso a te tutta la colpa, perché anche
io ho sbagliato.»
«So che sono passati
soltanto quattro mesi da Parigi, ma in questo periodo sono successe
tante cose, e... non credo di essere la stessa persona che ero
allora. Credo... credo di essere più forte, in un certo senso.»
«Jared mi ha raccontato di
tua madre. Mi ha detto che è tornata nella tua vita.»
«Sì, e cinque minuti dopo
essersi rifatta viva mi ha detto che ho un fratello di quasi dodici
anni» aggiungo, chiedendomi per un istante come stia Luca. Non lo
sento dal giorno prima della mia partenza, e da quando ho accettato
di costruire un rapporto con lui non ho mai lasciato passare un
giorno senza chiamarlo o mandargli un sms. «Mi ha chiesto di
conoscerlo, perché insieme ad Emanuele e Francesca sono la sola
famiglia che gli resti. Lo scorso anno ha perso suo padre.»
«Non deve essere stata una
passeggiata, per lui. Insomma, so cosa significa crescere senza un
genitore. E certo, anche tu lo sai.»
«All'inizio volevo
mandarla al diavolo. Mi ci sono voluti anni di analisi per arrivare a
capire che l'assenza di mia madre è stata la causa di quasi tutti i
miei problemi, e quando l'ho vista tornare così all'improvviso avrei
voluto...» Mi fermo, indecisa sui termini da usare, ma subito decido
di lasciar perdere la ricerca. «Solo che poi ho incontrato lui, e mi
è sembrato così identico ad Emanuele che... non sono proprio
riuscita a rifiutarmi di conoscerlo. È un ragazzino straordinario.»
«Condivide con te metà
del proprio DNA. Mi sembra piuttosto ovvio che sia un ragazzino
speciale» replica lui, strofinando il naso contro il mio collo come
un gatto impegnato a fare le fusa – il che mi fa pensare a Solo,
rimasto a casa con mio padre.
«E poi ho preso un gatto.»
«Hai preso un gatto?»
«I miei padroni di casa
hanno trovato una cucciolata orfana nel cortile del palazzo, e mi
hanno chiesto se ne volessi uno. Non so che cosa mi sia preso, ma ho
accettato. L'ho chiamato Solo.»
«Solo come Han Solo? Non
ti facevo una fan di Guerre Stellari.»
«No, Solo nel senso di...
beh, di qualcuno che non ha nessuno. L'ho chiamato così perché i
fratelli lo escludevano dal gruppo. Mi ha fatto pena, mi sembrava un
nome perfetto per lui. Fa un sacco di fusa a tutti quelli che entrano
in casa. Alice dice che secondo lei è un modo per punirmi perché
odia il nome che gli ho dato.»
Shannon si lascia andare ad
una risata, e nonostante per qualche secondo tenti di fingere il
broncio, dopo un po' mi è impossibile non lasciarmi andare
all'ilarità. «Beh, per tua fortuna Bruce è molto tollerante nei
confronti del mondo felino» sorride, passandosi una mano sugli occhi
per asciugarli dalle lacrime.
«Che c'entra Bruce con il
mio gatto, scusa?» domando, seriamente confusa dalla sua
affermazione.
Il suo viso torna a farsi
serio, mentre si volta di nuovo per guardarmi negli occhi. «Beh,
forse dirai che corro troppo, ma non riesco a non pensare sulla lunga
distanza. Sai, nel caso che noi due...»
«Intendi... pensi che un
giorno tu ed io potremmo andare a vivere insieme?»
«Ti sembra un'idea così
strana?» mi domanda, posando una mano sul mio fianco.
«Non lo so» sussurro,
abbassando lo sguardo. «Fino a sei mesi non pensavo nemmeno che ti
avrei mai visto nudo. Non ho mai pensato che... ma perché siamo
finiti a fare questo discorso?»
«Non lo so» mormora,
carezzandomi il fianco con aria indifferente. «Forse... è solo che
stavo ripensando a quello che mi hai detto ieri sera, quando eravamo
sulle colline.» Capendo immediatamente a che cosa si sta riferendo,
non oso nemmeno pensare di alzare gli occhi. «Che cosa avresti fatto
se quel dubbio fosse diventato realtà? Mi avresti mai detto di
essere incinta?»
«Devo essere sincera?»
«Dicono che quando si è
ubriachi o nudi si tende sempre ad essere sinceri, perciò... sì,
vorrei che fossi sincera. Anche se la verità dovesse essere brutta.»
«Non credo che te lo avrei
detto» sputo fuori, consapevole che qualunque giro di parole non
renderebbe la mia affermazione meno repellente. «La mia famiglia è
sempre stata piuttosto aperta da quel punto di vista, e credo che per
loro non sarebbe stato un problema accettare un bambino senza un
padre.»
«E per te lo sarebbe
stato?»
«Non sarebbe stata una
passeggiata, questo è sicuro. Insomma, avrei vissuto per sempre
insieme ad un bambino che mi avrebbe ricordato per sempre la storia
con te. Un bambino che probabilmente sarebbe stato una copia perfetta
di te» aggiungo con un breve sorriso, alzando una mano per
accarezzargli i capelli.
Adesso è lui ad abbassare
lo sguardo, in silenzio, e per un momento temo di aver di nuovo
rovinato le cose tra di noi. Ma poi lo vedo rialzare gli occhi e
puntarli nei miei, e in qualche modo capisco che non è né
arrabbiato né deluso da quanto ho appena detto – e subito dopo mi
fa una domanda che mi sorprende. «Quindi lo avresti tenuto? Insomma,
se fossi stata davvero incinta non...»
«Non credo di essere
troppo giovane per avere un bambino. Mia madre aveva soltanto due
anni più di me quando sono nata. E poi non ho mai creduto che esista
un'età giusta per avere un bambino. L'istinto materno non ha nulla a
che fare con l'età anagrafica. Una donna è pronta quando si sente
pronta.»
«Lo avresti tenuto anche
sapendo che ti avrebbe ricordato per sempre la storia con me?»
Ci penso su per qualche
istante, cercando le parole giuste per esprimere quello che penso.
«Mi avrebbe ricordato te, e quanto ti avevo amato» sussurro
infine. «Non avrei mai potuto non amarlo.»
Sorride, poi le sue labbra
tornano sulle mie, e in pochi istanti mi ritrovo stesa sotto di lui,
impegnata a baciarlo come se da ogni breve contatto dipendesse la mia
sopravvivenza. Sento le sue mani scivolare sulla mia schiena,
cercando la mia pelle sotto le lenzuola calde, e anche attraverso la
stoffa sento la sua eccitazione riprendere vigore. «L'ho sognato,
sai?» sussurra tra un bacio e l'altro, ricominciando a torturare il
mio collo. «Ho sognato che un giorno avresti bussato alla mia porta
con un enorme pancione, e che avremmo ricominciato tutto da capo,
solo noi tre.»
«Ti dispiace che siamo
solo noi due, invece?» lo stuzzico, mentre le sue attenzioni
scendono verso il mio seno.
«Abbiamo tutto il tempo»
mormora, tornando a riprendersi la mia bocca. «Abbiamo tutto il
tempo del mondo.»
«Hai detto che Shannon
stava suonando la canzone che hai scritto su di loro?»
Jared annuisce, continuando
a fissare il soffitto. «Per come la vedo io, se sono arrivati a quel
punto le cose tra loro si stanno mettendo a posto. Insomma, non dico
che le mie canzoni abbiano poteri taumaturgici, però...»
«Se davvero si rimettono
insieme, le cose si faranno complicate. Insomma, se vogliono evitare
di finire come l'altra volta dovranno impegnarsi non poco per non
rifare gli stessi errori.»
«Shannon è un uomo forte,
quando è con lei.»
«Anche Daria è una donna
forte, quando è accanto a lui.»
«E allora non credo ci sia
molto di cui preoccuparsi. Possono farcela.»
«Sì, lo credo anch'io.»
Il silenzio cala di nuovo
sulla stanza e sui due corpi stesi immobili sul letto rifatto, ma non
dura molto, interrotto all'improvviso da Jared. «Andiamo a fare
colazione?»
Stringo le dita di Daria
tra le mie, mentre mi spingo in lei con delicatezza, cercando di non
gravare troppo su di lei con il mio peso. Le sue ginocchia stringono
i miei fianchi, domandandomi di più, mentre ogni sospiro si perde
tra i miei baci. Sta andando tutto alla perfezione, finché Bruce non
fa irruzione nella stanza per prendere le lenzuola tra i denti e
tirarle via, lasciandoci completamente scoperti. «Bruce, no!»
esclamo, smettendo per un istante di muovermi. «Bruce, smettila!»
ripeto, sperando che non decida di saltare sul letto. Mi sento
piuttosto idiota, e la sensazione non fa che peggiorare quando Daria
inizia a ridere. «Non è divertente, sai?»
«Scusa, ma io mi diverto
da morire» ridacchia lei, coprendosi la bocca con la mano libera.
«Sono felice per te, ma io
non mi diverto per niente. Bruce, seduto!»
«Avrà fame, poverino. Da
quanto non mangia?»
«Questo non lo autorizza a
comportarsi da maleducato, non ti sembra?»
«E dai, vai da lui» mi
esorta lei, puntandomi le mani contro il petto per spingermi via.
«Ma io sto bene qui con
te» ribatto, cercando di rubarle un altro bacio.
«Noi abbiamo tutto il
tempo del mondo, no?» sorride, schivando le mie labbra. «Forza, vai
da lui.»
«Se insisti...» sospiro,
riuscendo finalmente a vincere le sue resistenze per un bacio e
scostandomi con estrema fatica da lei. Scendo dal letto, cercando le
mutande, e mentre le infilo esorto Bruce ad uscire, vagamente
irritato dal fatto che se ne stia seduto immobile a fissare la mia
ragazza. «Forza, mascalzone, in cucina!» Un minuto più tardi Daria
ci raggiunge di là, indossando soltanto la biancheria e la mia
maglietta. La guardo abbassarsi per carezzare le orecchie di Bruce,
mentre io frugo ogni stipetto alla ricerca di un po' di cibo per
nutrire il pessimo tempismo del mio cane. «Fantastico, ho finito
tutte le scorte» sbuffo, richiudendo di scatto l'ennesima antina.
«Mi tocca pure uscire per colpa tua, contento?»
«E dai, non trattarlo così
male» sorride Daria, abbracciandomi alle spalle e posandomi un bacio
sulla schiena. «Quanto ci vorrà, una ventina di minuti? Possiamo
sopportare la tua assenza per un po'.»
«Sarai ancora qui quando
tornerò?» le domando, voltandomi per poterla guardare negli occhi.
«Sono senza macchina e non
credo di avere abbastanza soldi per un taxi, senza contare che non
conosco l'indirizzo di tuo fratello. Mi sembra abbastanza ovvio che
sarò ancora qui quando tornerai.»
«Allora va bene. Mi vesto,
vado e torno» sussurro, baciandola ancora.
«Posso fare una doccia,
nel frattempo?»
«Sei a casa, qui»
sussurro ancora, accarezzandole una guancia. «Fruga pure negli
armadi, mettiti quello che vuoi. Il bagno è in fondo a sinistra,
proprio accanto alla camera da letto. Fai come se fossi a casa tua»
ripeto, baciandola di nuovo. È straordinario poter finalmente usare
le parole casa e tua nella stessa frase senza aver
paura di vederla fuggire – senza troppa paura, almeno. «Ma
chiuditi a chiave, non vorrei che questo mascalzone ne
approfittasse.»
*
Torino, 13 marzo 2014
Per
quanto gli costi ammetterlo, alla fine dei conti Emanuele sa che
Daria aveva ragione quando, poche sere prima di partire per gli Stati
Uniti, gli ha consigliato di non perdere tempo e di non guastarsi
l'anima con l'odio. All'inizio gli sembrava strano e ipocrita, detto
da una che ha passato due terzi della vita ad odiare la madre con
ogni fibra del proprio essere, ma ripensandoci, a mente fredda,
Emanuele si rende conto che per stabilire un rapporto con Luca non
deve per forza far pace anche con Elisa. Gli riesce difficile
chiamarla mamma,
considerando che non la vede dall'età di quattro anni, e qualcosa
gli dice che la chiamerà per nome ancora per molto tempo. Ma Luca...
con lui è tutto un altro paio di maniche. Ha passato così tante
sere appostato davanti a casa sua e allo studio della madre da aver
capito che Daria aveva ragione, dicendo che si somigliano in maniera
incredibile. Emanuele non riesce a guardarlo e a non rivedere se
stesso a quasi dodici anni, chino sotto il peso di un'anima troppo
matura per la sua età e piegato dalle continue prese in giro dei
compagni di classe. Perché che lo prendano in giro è sicuro: un
paio di volte ha saltato qualche lezione per guardarlo uscire da
scuola, e ciò che ha visto non gli è piaciuto per niente – lo ha
visto tante volte scendere gli scalini dell'ingresso con un libro
stretto al petto o con la custodia del violino issata su una spalla,
e troppe volte ha visto capannelli di bulletti in erba guardarlo
male, scansandolo, additandolo come quello strambo,
il secchione, il cocco
della prof. Emanuele sa che è
un'età difficile quella delle medie, lo ha provato sulla propria
pelle, e sempre per esperienza personale sa che è ancora peggio se
ti manca uno dei tuoi genitori.
È
per questo che una sera, vincendo ogni resistenza e istinto di
conservazione, suona al campanello di casa Maresca, trovandosi di
fronte i tratti di una donna che somiglia disgustosamente
alla sua sorella maggiore.
*
Los Angeles, 13 marzo
2014
Dopo
una lunga doccia calda, infilo un paio di boxer e una maglietta
pescati dall'armadio di Shannon, e in attesa del suo ritorno vago
senza meta per casa sua, infilando il naso in ogni camera e
chiedendomi come sarebbe vivere insieme a lui, riempire i suoi
cassetti dei miei indumenti e incasinargli l'armadietto del bagno con
flaconcini di smalto e confezioni di assorbenti. Presto però smetto
di pensarci, perché il mio stomaco, vuoto ormai da quasi
ventiquattro ore, inizia a farsi sentire in maniera imbarazzante.
Torno in cucina, sempre tallonata da Bruce, e frugo discretamente in
alcuni stipetti, trovando una confezione aperta di biscotti al
cioccolato. Masticando furiosamente, e con un secondo biscotto
stretto tra le dita, riprendo la mia esplorazione, ritrovandomi di
nuovo nello studio. Dopo un attimo di indecisione prendo posto sul
seggiolino dietro la batteria, rievocando le sensazioni provate prima
del concerto di Parigi, quando Shannon mi ha presa per mano e mi ha
fatto sedere insieme a lui dietro i grandi tamburi di Christine,
confessandomi per la prima volta quanto la mia presenza nella sua
vita fosse importante per lui. Per un brevissimo istante mi sento una
vera e propria stronza, perché meno di dodici ore dopo quella
confessione così importante ho avuto il coraggio di fare i bagagli e
lasciarlo, spezzandogli il cuore e rischiando di rovinargli la vita
per sempre. Per fortuna, come in un film, arriva il campanello a
distrarmi. Mi infilo il biscotto in bocca e do un paio di masticate
decise, mentre corro verso l'ingresso, convinta che sia Shannon.
Quando apro la porta, però, mi trovo di fronte un uomo adulto che
tiene in braccio un bambino di non più di due anni. Nel vedermi,
l'uomo fa un passo indietro e si guarda attorno, forse accertandosi
di aver suonato alla porta giusta. «Salve» dice poi, guardandomi
con aria confusa, mentre io inizio a pentirmi di aver mangiato quel
dannato biscotto. «Sto cercando... Shannon dov'è?» conclude dopo
un attimo di incertezza, riservandomi uno sguardo a dir poco
sospettoso. «Spero che tu non sia una ladra o una di quelle fan
schizzate che entrano nelle case delle star per...»
«Fono
Faria» biascico, spargendo
briciole tutto intorno nonostante la mano premuta sulla bocca.
«Bu-u-us!»
interviene il bambino, protendendosi in avanti alla vista del cane –
il che mi fa capire che si tratta di conoscenti, o più probabilmente
di amici.
Mi
batto il pugno sullo sterno per agevolare la discesa del biscotto,
pulendomi l'altra mano sui boxer. «Sono Daria» ripeto, recuperando
un briciolo di dignità. «Sono la...» Mi blocco, non sapendo come
qualificarmi: fidanzata
è troppo, ma anche ragazza
sembra eccessivo. Dire la stronza che lo ha mandato in
clinica sembra troppo brutto?
Decido di sviare il discorso da me per riportarlo su Shannon.
«Shannon è uscito per una...»
«Aspetta,
sei Daria?» mi interrompe lui, mettendo giù il bambino e
lasciandolo finalmente libero di correre incontro a Bruce, che si
accuccia a terra per lasciarsi accarezzare. «Sei la Daria di
Shannon?»
«Sì,
sono Daria» ripeto, un po' confusa, chiedendomi se sia il mio
inglese ad essere pessimo o se sia lui ad avere qualche problema di
comprendonio. «Ad ogni modo, Shannon dovrebbe tornare tra...»
«Io
sono Wayne!» esclama lui, interrompendomi di nuovo. Mi porge la mano
con fare entusiasta. «Sono un amico di Shannon» spiega, mentre mi
arrischio a ricambiare la stretta. «Probabilmente lui non ti ha
parlato di me, ma io di te so tutto!»
Non
so se questo sia un bene o un male, ma decido di tentare un sorriso.
«Shannon è uscito per una commissione, ma dovrebbe tornare a
momenti» riesco finalmente a dire, mentre il bambino continua a
rotolarsi sul pavimento insieme al cane, continuando a biascicare
«Bu-u-us» con aria
felice.
«Ah,
lui è mio figlio, Ryder» aggiunge Wayne, indicando il bambino.
«Shannon è il suo padrino» è l'informazione che decide di
aggiungere, forse credendo che Shannon mi abbia parlato almeno di
lui. «Accidenti, non pensavo che avrei mai avuto l'occasione di
conoscerti di persona. Se me lo concedi, sei anche più carina che in
fotografia.»
«Hai
visto una mia fotografia?» domando, sempre più confusa da questa
strana visita.
«Sì,
quando Shannon mi ha raccontato di te. Insomma, non dico che non
fossi carina anche in foto, ma dal vivo... wow!» esclama ancora,
allargando le braccia come a voler abbracciare la stanza. «Oh,
tranquilla, non è che ci sto provando, o roba del genere. Sono un
uomo sposato e amo follemente mia moglie. E poi sei la ragazza di
Shannon, quindi non potrei mai provarci con te. Sarebbe un gesto
sleale, e...»
«Non
pensavo che ci stessi provando con me, tranquillo» lo fermo, prima
che dica altro. Da quel poco che ho capito, questo Wayne è uno che
si lascia prendere dall'ansia e inizia a dire tutto quello che gli
passa per la testa, e per quanto questo un po' mi imbarazzi, non
posso che prenderlo in simpatia, visto che io ho più o meno lo
stesso problema. «Volete aspettarlo dentro? Dovrebbe tornare tra
pochi minuti.»
«Oh,
non importa. Ero passato per vedere se stava bene, visto che non ci
vediamo da un po', ma non abbiamo molto tempo. Devo portare Ryder dal
pediatra e poi tornare subito a casa. Sai, stanno per arrivare i miei
suoceri da Seattle, e siamo tutti un po'...»
Una
voce profonda e roca che conosco bene si intromette tra di noi,
bloccando l'ennesimo attacco di logorrea di Wayne. «Che diavolo sta
succedendo qui?»
«Io!
Io!» replica con un gridolino
Ryder, sollevando a fatica dal pavimento il sederino avvolto nel
pannolino per correre incontro a Shannon, che posa immediatamente a
terra i due sacchi di cibo per cani che portava sotto le braccia per
sollevare in aria il bambino, evidentemente felice di vederlo. «Io!
Io!»
«Io
è la nuova parola della settimana» spiega Wayne, voltandosi verso
Shannon. «Starebbe per zio,
o almeno così crede Ashley. Ashley è mia moglie» aggiunge,
rivolgendosi di nuovo a me. Ma io sono troppo distratta dalla
felicità dipinta sul volto di Shannon per prestare attenzione al suo
amico: sto iniziando a pensare che se il dubbio di Natale si
manifestasse ora, niente mi impedirebbe di correre subito da lui a
dargli la notizia, perché i suoi occhi la dicono lunga – per
quanto lo conosca ancora poco, per quanto non posso essere certa che
tra noi durerà per sempre, so per certo che quando arriverà il
momento, se mai arriverà, Shannon saprà essere un padre
meraviglioso.
«Non
mi hai detto che saresti passato. Mi sarei fatto trovare in casa.»
«Oh,
nessun problema» replica Wayne con una scrollata di spalle. «Mi ha
aperto la tua dolce metà» aggiunge, e io vorrei soltanto che il
pavimento mi inghiottisse.
«Almeno
ti sei presentato, razza di troglodita che non sei altro?» lo
rimbecca Shannon, rimettendogli tra le braccia un riluttante Ryder.
«Scusalo se si è comportato male, ma è un maleducato di prima
categoria» aggiunge, guardandomi.
«Si
è comportato benissimo, tranquillo.»
«Entrate,
vi offro qualcosa» riprende Shannon, tirando su i sacchi attorno ai
quali Bruce ha iniziato a saltellare con aria famelica.
«Grazie,
ma dobbiamo proprio andare. Devo portare questo pigrone dal pediatra
e tornare subito a casa per aiutare Ashley. Domani arrivano i suoi, è
completamente fusa. Siamo soltanto passati a fare un saluto, e ora ce
ne andiamo. Vero, Ryder? Andiamo dal dottore e poi torniamo a casa a
farci sgridare dalla mamma» aggiunge, rivolgendosi al bambino con un
tono dolcissimo.
«Mamma!
Mamma!» ripete il piccolo,
battendo le mani con gioia.
«Comunque
casomai ci sentiamo più tardi» riprende Wayne, e per quanto provi
ad essere discreto, non riesco a non accorgermi dell'occhiata
decisamente eloquente lanciata a Shannon. «Scusate ancora per il
disturbo. Forza, campione, saluta lo zio Shannon e Bruce. E anche
Daria, naturalmente.»
«Ciao,
io! Ciao, Bu-u-us! Ciao... Daia!»
aggiunge dopo un momento di incertezza, agitando verso di me la
manina paffuta.
«Ciao,
Ryder» rispondo, aspettando che siano a metà del vialetto prima di
richiudere la porta. «Hai un amico decisamente...»
«Fuori
di testa? Puoi dirlo tranquillamente, non mi offendo. Tanto normale
non è» mi interrompe, aprendo uno dei due sacchi e versando qualche
crocchetta nella ciotola di Bruce, che si fionda sul cibo come se non
mangiasse da secoli.
«Stavo
per dire particolare»
concludo in un sorriso, ripensando al fiume di parole che mi sono
vista riversare addosso. «Ha detto che gli hai parlato di me. E che
gli hai mostrato una mia fotografia. Spero almeno che fosse una foto
decente, altrimenti ti uccido.»
Lo
guardo perdersi in una risata, mentre sistema gli acquisti in un
angolo della dispensa. «Gli ho parlato di te perché è uno dei miei
migliori amici. Lui è per me quello che Alice è per te. E la foto
che gli ho mostrato è quella che ci siamo fatti scattare dai
giapponesi la prima volta che sono venuto a trovarti a Torino»
aggiunge, avvicinandosi a passo lento.
«Quella
foto è orrenda!» protesto, puntandogli un indice contro il petto
prima che sia troppo vicino.
«Sul
serio? Io la trovo meravigliosa» replica, senza lasciarsi
intimidire.
«Beh,
allora hai bisogno di un buon oculista.»
«No,
tutto quello di cui ho bisogno è qui» sussurra, riuscendo
finalmente ad abbracciarmi per stamparmi un bacio sulle labbra. «Hai
mangiato i miei biscotti?» domanda subito dopo, accorgendosi delle
briciole sul mio viso e sulla maglietta.
«Un
paio» confesso. «Avevo fame.»
«Buon
per te, perché mentre ero fuori ho pensato anche al tuo
stomaco, non soltanto a quello di Bruce» ribatte, lasciandomi
andare. «Ho lasciato le buste in macchina, vado e torno.»
«Allora,
la tua tesi come sta andando?» domanda Jared, rigirando due
hamburger di soia sulla piastra rovente.
«Malissimo»
replica Alice, affettando i pomodorini da aggiungere alla ricca
insalata che è stata incaricata di preparare. «Inizio a credere di
aver scelto un argomento troppo vasto. Sono sommersa di informazioni
e non riesco a scegliere quelle davvero importanti.»
«Dev'essere
frustrante.»
«Frustrante
è un termine riduttivo. La mia stanza inizia a somigliare alla
biblioteca di Alessandria, ci sono fogli e libri ovunque. Ci sono
giorni in cui vorrei soltanto dare un calcio a tutto, trasferirmi in
Brasile e aprire un bar sulla spiaggia.»
«In
Brasile con una pelle come la tua? Ti scotteresti dopo un giorno
soltanto» la prende in giro lui, girando ancora una volta gli
hamburger. «Io qui sono quasi pronto. Tu a che punto sei?»
«Ci
sono quasi» risponde lei, rovistando sulle mensole alla ricerca di
alcune spezie. «Mi sfugge il motivo per cui tieni i premi che
ricevete sulle mensole della cucina. Non esiste un posto più
appropriato?»
«Non
lo so, non mi sono mai preoccupato di cercargli un'altra
sistemazione, e alla fine mi sono abituato alla loro presenza. Anzi,
direi che adesso sono piuttosto affezionato alla mia cucina piena di
inutili trofei.»
«Sono
felice per te, ma io dove lo cerco il pepe? In bagno o in garage?»
«No,
quello lo conservo in camera da letto» scherza ancora lui,
rivolgendole un sorriso malizioso.
«Molto
divertente, ma dubito stessimo parlando della stessa cosa» replica
lei, smontando ogni tentativo di flirt. Se vuole tener fede al
proprio proposito di non lasciarsi coinvolgere da Jared, deve evitare
ad ogni costo qualsiasi situazione ambigua, per quanto le costi
rinunciare talvolta a ridere con lui.
«Sapevo
che doveva esserci una fregatura, da qualche parte» borbotta Daria,
agitando la padella per far rosolare al punto giusto la pancetta
tagliata a cubetti.
«Non
è colpa mia se sai cucinare meglio di me» rispondo, finendo di
apparecchiare. «E poi dobbiamo tener fede allo stereotipo, no? Sei
italiana, dunque una chef nata» aggiungo, abbassando la voce e
avvicinandomi per abbracciarla da dietro.
«E
dai, non fare così!» esclama con una risatina nell'istante in cui
sente le mie labbra sfiorarle il collo.
«Perché,
ti sto forse distraendo?» le domando, senza cedere di un solo
millimetro.
«E
non poco» risponde lei, aggiungendo qualche spezia nella padella.
«Se continui di questo passo, rischio seriamente di bruciare il
pranzo» aggiunge, mentre le mie mani scendono lentamente sul suo
ventre, tenendola stretta al mio corpo.
«Poco
male. Potremmo sempre ordinare una pizza e farcela consegnare a casa.
Non sarebbe la prima volta, no?»
«No,
ma le altre volte non ero affamata come adesso. Se non mangio subito
qualcosa rischio di azzannare Bruce, e non mi sembra il caso»
replica, tirando su dalla pentola un maccherone per testarne la
cottura. «Va bene, ci siamo!» annuncia con entusiasmo, spegnendo la
fiamma. La lascio andare a malincuore, allontanandomi per lasciarla
libera di muoversi senza impedimenti. La guardo muoversi con una
naturalezza estrema, neanche avesse passato la vita in questa cucina.
La guardo e sorrido, sperando che non decida mai più di andarsene,
perché mai come in questo momento ho avuto la certezza che Daria sia
fatta per vivere accanto a me. «Perché mi guardi così?» mi
domanda all'improvviso, accorgendosi di avere addosso il mio sguardo.
Scuoto
appena la testa, senza riuscire a nascondere il sorriso. «Niente, è
solo che... sembra che tu abbia vissuto in questa casa per tutta la
vita.»
«E
questo è un male?»
«Secondo
te lo è?»
Abbassa lo sguardo,
fingendosi impegnata a far saltare la pasta, ma so che dietro la sua
apparente indifferenza si cela un cervello che gira alla velocità
della luce, cercando di darsi una risposta. «Non lo so»
replica infine, senza preoccuparsi di celare la propria mestizia.
«Credo di non aver ancora avuto il tempo di realizzare che cosa stia
succedendo. Fino a ieri mattina ero convinta che mi avresti rispedita
nel mio Paese a calci nel sedere, e invece sono qui, ventiquattro ore
dopo, a prepararti il pranzo. Ammetto di essere un po' confusa.»
«Essere confusi è
naturale. Sarei preoccupato se non lo fossi.»
«Non mi piace essere
confusa. La gente finisce sempre col fare cose idiote, quando è
confusa.»
«Cose idiote tipo...
abbandonare l'amore della propria vita in una stanza di hotel con una
lettera infilata in un libro?»
Sul suo volto compare
finalmente un sorriso. «Sì, esattamente quel genere di cose idiote.
Non voglio più arrivare a quel punto. Non voglio più far soffrire
le persone che amo. E nemmeno io voglio soffrire ancora.»
«Nessuno soffrirà più.
Te lo prometto» le sussurro,
avvicinandomi di nuovo per darle un bacio sulla guancia. «Però
adesso sbrigati, ho una fame che non ci vedo!»
*
Torino,
13 marzo 2014
«Ciao,
Emanuele»
si sente apostrofare, e l'istinto più naturale è quello di voltarsi
per capire da dove provenga quella voce. Davanti ai suoi occhi
compare l'immagine di un ragazzino che gli arriva sì e no al petto,
un affarino dall'aria curiosa che gli ricorda molto – forse troppo
– l'immagine che lo specchio restituiva all'incirca dieci anni fa.
«Come
sai chi sono?»
domanda con aria sospettosa, confuso dalla sicurezza del tono che lo
ha spinto a voltarsi. Si è presentato alla porta di Elisa convinto
di poter contare sull'effetto sorpresa, ma l'assenza di incertezza
nella voce di Luca gli ha fatto capire che ogni sua strategia è
destinata a fallire.
«Daria
mi ha fatto vedere una tua foto. Ero curioso di vedere come fossi
fatto. Lei continuava a dire che ti somiglio tanto.»
E non ha tutti i torti,
pensa Emanuele, senza riuscire a staccare gli occhi dagli occhiali
dalla forma squadrata, le lunghe dita da violinista, lo sguardo
tipico di chi è abituato a cercare sempre il significato di tutto
ciò che gli succede intorno. «Aveva ragione?»
incalza Luca, tradendo la propria curiosità.
Emanuele
non riesce a smettere di fissare quel fratello appena trovato,
scoprendo ad ogni secondo che passa una nuova somiglianza – lo
guarda negli occhi, e in quegli occhi rivede se stesso, il proprio
passato, il ragazzino solitario e schivo che è stato, e il giovane
uomo complicato che spera di riuscire a non essere mai più. Sono
anni che cerca di cambiare, Emanuele, che combatte contro se stesso
per uccidere i demoni che lo tormentano ed essere l'uomo sereno che
ha sempre sperato di diventare, ma trovarsi di fronte Luca lo rimanda
indietro nel tempo, indietro fino alla propria adolescenza, e lo
rimette davanti ad un riflesso che credeva di aver dimenticato.
«Qualche tratto in comune c'è»
risponde, cercando di mostrarsi evasivo per evitare di scoprire
subito tutte le proprie carte. «Speravo che potessimo fare due
chiacchiere. Se ti va, naturalmente.»
«Certo
che mi va»
risponde Luca, e nonostante cerchi di trattenere l'emozione Emanuele
sa che è felice di
quel risvolto – lo sa, perché prova lo stesso strano senso di
soddisfazione. «Vieni in camera mia, è da questa parte.»
Emanuele china il capo e lo segue, stringendosi addosso la cinghia
della borsa e ignorando sua madre: le ha rivolto appena due frasi, e
si sente come se avesse detto due frasi di troppo. Segue Luca lungo
il corridoio, e chiudendosi la porta alle spalle tira un sospiro di
sollievo. Poi si volta, trovando di nuovo gli occhi del fratello
fissi nei propri, e la paura torna a conquistare il suo giovane cuore
martoriato.
1Io
ti guardo negli occhi e vedo lontano il tempo che ho perso.
| Il titolo del capitolo è
ispirato ad un verso della canzone La
neve se ne frega di Luciano
Ligabue,
contenuta nell'album Mondovisione
(2013).
|
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Capitolo 12 *** 12 | Lo sanno tutti che in caso di pericolo si salva solo chi sa volare bene: quindi se escludi gli aviatori, falchi, aerei, nuvole, aquile e angeli rimani te. ***
La lunga strada verso casa - 1
Non ho
scuse per questo ritardo – davvero, nessuna scusa.
Avrei un
sacco di parole da usare per giustificare il fatto che mi ci sia
voluto così tanto per partorire questo capitolo, ma ho la sensazione
che qualunque spiegazione sarebbe inutile e superflua, per cui
rinuncio in favore della storia – che immagino sia il motivo per
cui adesso siete qui.
Grazie
per il vostro sostegno e la vostra pazienza,
EffieSamadhi
Per aspera ad astra
Capitolo dodicesimo
Lo sanno tutti che in
caso di pericolo si salva solo
chi sa volare bene:
quindi se escludi
gli aviatori, falchi,
aerei, nuvole, aquile e angeli,
rimani te.1
Torino, 13 marzo 2014
Emanuele si guarda intorno
con una punta d'imbarazzo, lo stesso che si prova restando in piedi
ai margini di una festa in cui non si conosce nessuno. Gli sembra di
essere di troppo, di essersi invitato in un luogo in cui proprio non
dovrebbe stare, e a nulla vale raccontarsi che è proprio così che
Daria deve essersi sentita quando ha varcato per la prima volta la
soglia di quella bella casa del centro. Vorrebbe riuscire a
convincersi che è soltanto una sensazione passeggera, che basteranno
pochi minuti per tornare a sentirsi a proprio agio, ma la verità è
che sono ormai vent'anni che prova quel fastidio, quella strana
convinzione di essere sempre di troppo, in qualsiasi situazione si
trovi. Si costringe a fissare lo sguardo su Luca, che libera il letto
dai libri sparpagliati in una specie di invito a prendere posto ed
immergersi nella sua vita, quasi che un gesto semplice come
accomodarsi potesse bastare a risolvere le cose. «Ti piacciono i
romanzi d'avventura, eh?» osserva, indicando uno scaffale colmo di
titoli che conosce bene. «Qual è il tuo autore preferito?»
«Mi piace tanto Jules
Verne» risponde Luca, spingendosi indietro gli occhiali. «Mi piace
perché tutte le cose che ha scritto sono state realizzate. A parte
il viaggio al centro della terra.»
«Io ho sempre adorato Il
giro del mondo in ottanta giorni» replica Emanuele, sfilando il
romanzo giusto dalla fila dedicata all'autore francese. «Non sai
quante volte ho sognato di partire anch'io per un viaggio simile.
Solo io, una mongolfiera e la tappa successiva.»
«Io invece ho sempre
sognato di andare sulla luna. Lassù non ci sarebbe nessuno pronto a
prendermi in giro.» Nel concludere la frase Luca abbassa gli occhi,
quasi imbarazzato dalla rivelazione appena concessa a quel fratello
che ancora non conosce, e che forse mai riuscirà a conquistare.
«Prendevano in giro anche
me, quando avevo la tua età» confessa Emanuele, rigirandosi ancora
tra le mani il libro. «Hanno continuato fino alla fine delle
superiori, in realtà. Probabilmente dovrei dirti di ignorarli e di
andare avanti per la tua strada, ma sarebbe un consiglio stupido. Non
smetteranno di prenderti in giro soltanto perché non rispondi alle
provocazioni. Anche se... beh, consigliarti di reagire e prenderli
tutti a pugni sarebbe altrettanto stupido» conclude, rimettendo a
posto il libro.
«Parli per esperienza
personale?»
Emanuele sorride, indicando
una piccola cicatrice bianca appena sopra il sopracciglio sinistro.
«Parlo come uno che è finito in pronto soccorso a farsi mettere
cinque punti per essersi ribellato e aver fatto a pugni con cinque
tizi più robusti di lui. È stata la prima ed unica volta che ho
reagito.»
«Come hai fatto a farli
smettere?»
Emanuele attraversa la
stanza a passo lento, andando a sedersi accanto a lui sul letto
rifatto. «Ho aspettato che le nostre strade si dividessero. Io sono
andato avanti per la mia, e loro... non lo so, sono scomparsi.»
«E hai trovato degli
amici?»
«Non molti. Ma quei pochi
vanno bene. Se non altro, posso dire di averli scelti da me.» Si
guarda a lungo le mani, cercando il coraggio di alzare gli occhi su
quel fratello che sente minuto dopo minuto più vicino. «So che
adesso ti sembra impossibile credere che un giorno tutto questo possa
finire, ma ti assicuro che tutto ciò che ti occorre è un po' di
pazienza. Non ti voglio mentire, la strada è ancora lunga e sarà
tutta in salita, ma ti garantisco che una volta arrivato in cima ti
accorgerai che è valsa la pena aspettare, perché dalla vetta il
panorama sarà meraviglioso.»
*
Los Angeles, 13 marzo
2014
A piedi nudi mi avvicino al
lavandino, immergendo le stoviglie sporche nell'acqua calda. Ho
appena iniziato a strofinare la spugna contro un piatto quando sento
Shannon avvicinarmisi alle spalle, poggiando delicatamente il suo
corpo contro il mio. «Sai che hanno inventato un meraviglioso
elettrodomestico chiamato lavastoviglie?» sussurra al mio orecchio,
immergendo le mani nell'acqua per cercare le mie e stringerle.
«Certo che lo so. Figurati
che ne possiedo anche una» rispondo, evitando di raccogliere la sua
provocazione. «Ma lavare i piatti è una cosa che ho sempre adorato.
E poi a casa sono abituata così. Sono una povera commessa
squattrinata, devo risparmiare.»
«Ma io sono un musicista
ricco e famoso che non sa più che inventare per spendere i soldi che
guadagna, perciò non ho bisogno di risparmiare.»
«Male.
Dovresti metterl da parte per far fronte ai tempi difficili. Può
capitare a chiunque di crollare.»
«Per questa vita credo di
aver già dato. E se anche crollassi ancora, non sarebbero i soldi a
salvarmi» replica, accarezzandomi il collo con le labbra. «Dai,
lascia stare. Ci resta poco tempo da passare insieme, non voglio
certo sprecarlo guardandoti lavare i piatti» insiste, stringendo le
mie dita tra le sue per tirarle fuori dall'acqua.
«E che vorresti fare,
sentiamo?» rispondo con un sorriso, voltandomi tra le sue braccia
per trovarmi faccia a faccia con lui. «Vuoi passare tutto il giorno
a letto con me per rifarti del tempo perduto?» lo prendo in giro,
sapendo quanto gli dia fastidio essere accostato allo stereotipo
della rockstar ossessionata dal sesso.
«Non sono così banale»
risponde con una risata. «Voglio portarti in giro per la città.
Voglio che tu veda il mio mondo.» Per un lunghissimo istante ci
guardiamo negli occhi senza parole, e potrei giurare su quanto ho di
più caro al mondo che questa è una delle cose più romantiche che
mi siano mai state dette, anche se una mente preparata potrebbe
obiettare sul numero delle mie esperienze romantiche. «Che c'è, ho
detto qualcosa di sbagliato?»
Scuoto la testa, abbassando
appena lo sguardo. «Lascia perdere, stavo solo pensando» sorrido,
rialzando gli occhi. «Va bene, Shannon. Fammi vedere il tuo mondo.
Però prima portami a casa di Jared, per favore. Devo fare una doccia
e cambiarmi i vestiti.»
Alice chiude la
lavastoviglie e la mette in funzione, asciugandosi poi le mani,
mentre Jared pulisce con una spugnetta umida il bancone sul quale
hanno pranzato. «Che ne diresti di uscire?» le domanda. «Tanto a
questo punto mi sembra chiaro che Daria sta bene. Possiamo anche
smettere di preoccuparci per la sua incolumità.»
«E se dovesse tornare
mentre siamo fuori? Non ha le chiavi di casa» si preoccupa Alice,
come sempre pragmatica fino all'estremo.
«Beh, sono abbastanza
portato a presumere che si farebbe accompagnare da Shannon, e lui ha
un doppione delle chiavi, per cui sicuramente non resterebbe chiusa
fuori. Smetti di preoccuparti per lei» aggiunge, avvicinandosi per
metterle le mani sulle spalle. «Capisco che è la tua migliore amica
e non vuoi che soffra, ma io sono sicuro che stia andando tutto
bene.»
«Da quando ti hanno eletto
dio onniscente?» lo prende in giro lei.
«Quando ho vinto l'Oscar.
Santità, onniscenza, onnipotenza e onnipresenza erano comprese nel
prezzo» replica lui, come sempre pronto a rispondere ad ogni assalto
verbale della ragazza. «Dai, mettiti qualcosa di carino e fatti
bella. Ti porto a vedere gli angeli che popolano questa città»
conclude ammiccando, mentre la lascia andare.
Senz'altra risposta che un
sorriso, Alice si allontana verso la camera da letto, mentre Jared
resta fermo al centro della cucina per quasi un minuto, chiedendosi
perché il destino sia sempre così beffardo, e per quale strana
ragione Dio, Buddha o qualunque divinità governi il mondo abbia
deciso di mettere sul percorso suo e di Shannon due ragazze
assolutamente perfette, solo troppo lontane dalla loro strada.
Ripensa all'istante in cui lui e Alice si sono trovati così vicini
da aver bisogno di fare soltanto un piccolo passo per unirsi, e
scuote la testa ricordando come lei lo abbia fermato, sicura che
stare insieme non avrebbe fatto altro che complicare le cose. Sì, è
vero, gli eventi avrebbero preso una piega completamente diversa,
questo lo sa anche lui, ma qualcosa gli dice che comunque potrebbero
farcela, che insieme potrebbero piegare le leggi del destino e
costruirsi un futuro perfetto, un universo parallelo in cui essere
soltanto Jared e Alice, senza complicazioni e senza guai – un
meraviglioso mondo ideale nel quale due fratelli disgraziati quanto
lui e Shannon possono finalmente essere felici ed esserlo insieme,
all'unisono, senz'altra preoccupazione se non quella di trascorrere
la vita sorridendo in compagnia delle donne che amano.
*
Torino, 13 marzo 2014
Dopo due ore trascorse
ininterrottamente a chiacchierare con Luca di libri, scuola, computer
e musica, Emanuele esce dal palazzo profondamente cambiato. Sa che
non è un cambiamento fisico, che il suo aspetto è sempre lo stesso,
eppure sa che due ore sono bastate a farlo crescere, a farlo
maturare, a farlo diventare quell'uomo che ha sempre sperato di poter
diventare. Due ore sono bastate a renderlo più forte di quanto
avrebbe mai creduto di poter essere, e improvvisamente capisce che
cosa intendeva dire Daria quando gli ha consigliato di dare una
possibilità a quel nuovo fratello, a quel ragazzino che in un primo
momento riusciva a vedere soltanto come un potenziale ostacolo alla
propria serenità. Forse non riuscirà mai a perdonare sua madre,
forse non riuscirà mai a guardarla negli occhi, meno che mai a
volerle di nuovo bene come da bambino, ma di una cosa è certa: per
Luca lui sarà sempre pronto a farsi avanti, perché sa cosa vuol
dire cercare di diventare adulti senza una guida, e non può
permettere che Luca debba affrontare le prove della vita senza
l'aiuto di qualcuno che ci è già passato.
*
Los Angeles, 13 marzo
2014
«Devono essere usciti»
commenta Daria quando si rende conto che attaccarsi al campanello è
inutile, perché la casa è deserta. «E ho anche il cellulare
scarico, perciò non posso nemmeno chiamare Alice.»
«Aspetta, Jared mi ha dato
un doppione della chiave» rispondo, frugandomi le tasche. «Per le
emergenze» ammicco, facendo scattare la serratura e spalancando la
porta per consentirle di entrare. Daria si fa avanti nell'ingresso a
passo incerto, quasi si sentisse a disagio. Mentre sfilo le chiavi e
chiudo il portone osservo il modo in cui Bruce continua a seguirla
come è solito fare con mia madre, e istintivamente mi viene da
sorridere, perché la cosa, oltre a divertirmi come non mai, mi
appare come un ulteriore segno che sia Daria la donna giusta per me.
«Jared è stato gentile ad ospitarvi» commento. «Mi stupisce un
po', in realtà, perché è dannatamente geloso della sua privacy.
Almeno spero vi abbia dato delle stanze decenti.»
«C'è una sola stanza in
questa casa che non sia decente?» mi prende in giro lei, mentre
Bruce devia dal proprio percorso per andare ad accucciarsi in un
angolo del salotto baciato dal sole del primo pomeriggio. «Non ho
una grande esperienza di viaggi, ma credo che questa casa sia
migliore della maggior parte degli alberghi» aggiunge mentre la
seguo lungo il corridoio. Mi fermo sulla porta mentre lei entra nella
propria stanza e appoggia la borsa sul letto perfettamente rifatto.
La guardo sfilarsi le scarpe e avvicinarsi all'armadio per mettersi
alla ricerca di abiti puliti da indossare per il nostro pomeriggio
fuori, e meno di un istante più tardi fa capolino nella mia mente il
ricordo di un pomeriggio simile, quando durante la mia seconda visita
a Torino l'ho guardata tirare fuori la sua vita da un mucchio di
scatoloni, esponendola davanti ai miei occhi come una serie di quadri
da ammirare e dai quali imparare tutto su di lei. «Che c'è?» mi
domanda dopo un istante, sentendo addosso il mio sguardo.
«Ti sto soltanto
guardando» sussurro con un mezzo sorriso, sapendo che a chiunque
potrebbe apparire una frase senza significato – a chiunque, tranne
a lei.
«E che cosa vedi?»
sorride di rimando lei, sfilando una camicia dalla stampella.
«Qualcosa che ho rischiato
di perdere, ma che ora mi terrò ben stretto.» Senza smettere di
sorridere si volta di nuovo verso l'armadio, e a quel punto inizio a
muovermi in avanti a passi lenti, fino ad arrivarle alle spalle. Alzo
una mano e le sfioro il collo, percependo un lieve mutamento nel suo
respiro. Faccio scivolare la mano più avanti, cingendola anche con
l'altro braccio, fino ad arrivare a stringerla contro di me come se
avessi paura che ogni istante insieme possa essere l'ultimo. «Mi ero
già perso molto prima che mi lasciassi» sussurro al suo orecchio,
sentendomi improvvisamente libero di dire tutto ciò che mi passa per
la testa senza timore di essere respinto o preso per pazzo. «Non
sono mai stato una persona buona, ma quando ti ho conosciuta ho
capito che forse, con un po' di impegno e di fortuna, avrei potuto
diventarlo. Conoscerti mi ha fatto capire che potevo diventare
migliore.» Quasi avesse capito che ogni interruzione potrebbe essere
fatale Daria tace, lasciandomi continuare. «Starti vicino mi fa
sperare di poter diventare la persona che ho sempre voluto essere.
Credo sia questo il motivo per cui ti amo. Perché grazie a te io
sono me stesso.» Abbasso la testa fino a sfiorarle la nuca con le
labbra, ma senza cercare di andare oltre. Restiamo fermi in quella
posizione a lungo, circondati dal silenzio e dalla pace, e per un
istante mi ritrovo a pensare che il solo modo di salvarmi da me
stesso sia restare sempre con lei.
«Smettila di guardare il
cellulare» la ammonisce Jared, trattenendosi a stento dallo
strapparle di mano l'apparecchio per gettarlo tra le onde. «Sono
sicuro che Daria sta bene.»
«Scusa, ma delle tue
sensazioni non so che farmene» replica Alice, troppo nervosa per
riuscire a rilassarsi. «Per quel che ne so Shannon può averla
uccisa, fatta a pezzi e nascosta nello scantinato.»
«Questo è impossibile.»
«Oh, davvero? E cosa te lo
fa pensare, scusa?»
«Il fatto che Shannon non
abbia uno scantinato, tanto per cominciare» risponde Jared in tono
ovvio. «E poi il fatto che mi abbia mandato un sms per dirmi che il
cellulare di Daria è scarico, ma che stanno tutti e due benissimo,
tanto per finire.»
Alice rimane di sasso per
un paio di secondi, ma non appena riesce a riaversi dallo stupore
niente le impedisce di assestare una forte pacca sulla spalla
dell'uomo. «Shannon ti ha scritto e tu non mi hai detto niente? Ma
che razza di stronzo sei?»
«Uno stronzo cui verrà un
bel livido, immagino» risponde lui, massaggiandosi la parte offesa
con gesto teatrale. «Ma sei sempre così manesca?»
«Non fare la vergine
offesa, adesso. Ci sono andata leggerissima, praticamente era una
carezza.»
«Non faccio la vergine
offesa, mi hai fatto male sul serio» piagnucola Jared, consapevole
che qualsiasi altra ragazza si lascerebbe muovere a pietà dal suo
sguardo – qualunque ragazza, ma non la caparbia Alice. «Ti farò
scrivere dai miei avvocati.»
«Sono una studentessa
squattrinata, non posso permettermi di pagare un avvocato che mi
difenda dalle false accuse di una patetica rockstar.»
«Chi sarebbe la patetica
rockstar, scusa?» reagisce lui sbarrandole la strada. «Adesso
pagherai per questo affronto!» Comprendendo che Jared sta per
attaccarla a colpi di solletico, Alice si volta in fretta e inizia a
correre nella direzione dalla quale provengono, scansando con agilità
le poche persone a spasso sul lungomare. Non appena le è possibile
scarta verso la spiaggia, iniziando a correre sulla sabbia senza più
pensare – per la prima volta da quando le cose tra lei e Jared si
sono complicate si sente di nuovo libera e senza pensieri, tanto che
bastano pochi metri per farle dimenticare perché stia correndo tanto
rapidamente. E proprio quando è appena riuscita a spegnere del tutto
il cervello le gambe lunghe di Jared recuperano il vantaggio, le sue
mani le afferrano la vita e il suo peso la vince, facendola cadere
sulla sabbia fine. Per la prima volta in tutta la giornata Alice
scoppia a ridere di gusto, come non faceva da tempo, finalmente
libera da qualsiasi vincolo o costrizione. Per la prima volta non le
importa di apparire al meglio, non le importa della sabbia che si
infila sotto i vestiti o dei capelli scarmigliati – per la prima
volta dopo tanto tempo si sente solo Alice, ed è la
sensazione più bella del mondo. Da qualche parte sopra di sé
ritrova il viso di Jared, che nella corsa ha perso il bizzarro
cappello che indossava e ora si ritrova a fissarla a capo scoperto,
con gli occhi ancora seminascosti dagli occhiali da sole. Alice
solleva una mano per sfilargli le lenti, e a quel gesto Jared chiude
per un istante le palpebre, prendendosi un attimo per prendere
coraggio con un profondo respiro, quasi che Alice lo stesse
spogliando di ogni difesa. Dal canto suo, quando Jared riapre gli
occhi Alice trattiene il fiato, come sempre incapace di credere che
quello sguardo così luminoso possa essere reale. Gli occhi di
Jared hanno lo stesso colore dell'oceano che sente sciabordare in
lontananza, a tratti sembrano quasi aver rubato l'azzurro del cielo.
Alice non riesce a smettere di guardare quegli occhi turchesi, e non
è soltanto perché il peso di Jared la trattiene a terra – c'è
qualcosa, in quegli occhi, in grado di ammansire la bestia più
feroce, qualcosa in grado di prendere la sua integrità, ridurla a
brandelli e costringerla persino a ringraziare. «Che c'è?» si
sente domandare, senza riuscire a smettere di guardare quegli occhi
così magnetici e in apparenza sinceri.
Scuote appena la testa,
Alice, senza reprimere un sorriso, e con una mano gli scosta dal viso
una ciocca di capelli sfuggita alla coda. «Non lo so» sussurra,
senza nemmeno essere certa che lui riesca a sentirla. «È solo che
non riesco a smettere di guardarti.»
Jared sorride, restituendo
lo sguardo e specchiandosi a lungo negli occhi verdi della ragazza
stesa sotto di lui. Ha passato una vita intera ripetendosi di essere
un uomo forte, uno capace di non cedere alle tentazioni del cuore, ma
in questo momento sa che tutte le sue certezze stanno venendo meno,
perché sono bastati un paio di occhi buoni e sinceri ad inchiodarlo
al muro, a spogliarlo di tutte le sue corazze e a metterlo di fronte
alla realtà – sono bastati gli occhi di Alice a fargli capire che
nemmeno uno come lui può sfuggire all'amore. Per questo, prima che
la magia del momento passi ed entrambi inizino a provare imbarazzo,
per questo fa la cosa più logica, ciò che qualunque uomo farebbe:
senza altre parole abbassa la testa e cerca le labbra di Alice,
pronto a catturarle in quello che gli sembra il primo vero bacio
della sua vita. Superata l'iniziale paura del rifiuto, Jared si rende
conto che Alice non ha intenzione di tirarsi indietro: sente le sue
braccia circondargli il collo per attrarlo verso di sé, e nonostante
non abbia mai amato le scommesse sa che è questo il momento,
che è ora che lui e Alice diventeranno una cosa sola, fosse anche
per un pomeriggio soltanto.
Mentre Daria è sotto la
doccia io vago per il soggiorno di Jared, ficcanasando qui e là come
faccio ogni volta che mi trovo da solo in casa sua. Bruce sonnecchia
ancora in un angolo, e mentre aspetto che Daria si prepari mi diverto
a curiosare tra gli scaffali di mio fratello, chiedendomi come sia
possibile che un maniaco del controllo come lui abbia una casa tanto
incasinata. All'improvviso mi ritrovo tra le mani un vecchio album di
fotografie, e senza nemmeno rendermene conto sono eduto sul divano,
intento a sfogliare le istantanee del nostro passato.
«Che cosa stai guardando?»
mi sento domandare poco dopo. Alzo lo sguardo e trovo Daria in piedi
dietro di me, con la testa lievemente piegata verso destra, intenta a
cercare di capire che cosa attragga tanto la mia attenzione.
«Ho trovato un vecchio
album di fotografie. Gli stavo dando un'occhiata» rispondo. «Sei
pronta per andare?» le domando subito dopo, chiudendo la raccolta.
«No, fammi vedere»
replica lei, facendo il giro del divano per venire a sedersi accanto
a me. «Mi sono sempre piaciute le fotografie.»
«Perché? Sono solo...
beh, ricordi.»
A questo punto Daria fa una
cosa strana, una cosa che ancora una volta mi ricorda perché io la
ami così tanto: solleva lo sguardo su di me, con un sorriso, e in un
gesto tanto dolce da levare il fiato mi accarezza la guancia con un
dito. «Sono un modo per conoscere il tuo mondo.»
Sorrido, riaprendo l'album
sulle mie ginocchia. «Allora mettiti comoda, perché qui dentro ci
sono quarant'anni di storia da mostrarti.»
«Aspetta, Jared» sospira
Alice, puntandogli le mani sulle spalle per convincerlo a sollevarsi.
«Siamo in spiaggia» gli fa notare. «E siamo in pieno giorno.»
Soltanto in quel momento,
guardandosi attorno, Jared si rende conto che se vogliono andare
avanti devono trovarsi un posto più appartato – perché nonostante
in giro non ci sia un cane, è sicuro come la morte che se
continuassero a darsi da fare lì verrebbero sicuramente beccati e
denunciati per atti osceni in luogo pubblico, e per quanto se ne sia
sempre fregato delle regole, l'ultimo dei suoi pensieri è quello di
far passare dei guai ad Alice. «Hai ragione. Vieni con me» replica,
sollevandosi e porgendole la mano per aiutarla ad alzarsi. Subito
dopo la prende per mano e inizia a correre verso l'auto, sicuro che
esista soltanto un luogo in cui nessuno li distuberà.
«Santo cielo, eri così
carino da piccolo!» esclamo, puntando il dito contro una fotografia
che lo ritrae insieme a Jared all'età di circa tre anni.
«Vorresti dire che ora non
sono più carino?» replica Shannon, fingendosi lievemente risentito.
«Ora sei un uomo
incredibilmente sexy» ribatto con un sorriso. «Il che è
decisamente molto meglio» aggiungo prima di stampargli un bacio
sulla guancia. Torno ad accoccolarmi contro di lui mentre continua a
sfogliare le pagine della raccolta, raccontando ogni scatto come se
non fosse passata una vita intera dal momento raffigurato, ma una
manciata di minuti. Ascolto i suoi racconti con attenzione, beandomi
del suono della sua voce roca e chiedendomi come mi sia potuta
passare per la mente l'idea di rinunciare a lui – perché più
andiamo avanti più mi rendo conto che è esattamente il tipo d'uomo
che ho sempre immaginato accanto a me.
«Dove siamo?» chiede
Alice quando Jared finalmente parcheggia, spegnendo il motore. Guarda
davanti a sé e capisce che sono saliti sulle colline che proteggono
la città, ma non riesce a capire perché Jared abbia deciso di
portarla proprio lì.
«Scendi» risponde lui,
aprendo lo sportello. Anche se dubbiosa, Alice lo segue. Dubita della
sua sanità mentale quando lo guarda chiudere gli occhi, prendere un
respiro profondo e allargare le braccia, come a voler cingere tutta
la città in un abbraccio. «Vieni qui» dice poi, prendendola per
mano e convincendola a mettersi davanti a lui, esattamente di fronte
alla città. «Chiudi gli occhi e prendi un respiro profondo» le
sussurra, mentre Alice sente il vento scompigliarle i capelli.
«Adesso riaprili» le ordina dopo qualche secondo. Alice obbedisce e
resta senza fiato: si sente come Rose in Titanic, quando in
bilico sulla prua della nave si convince di poter volare. La città è
lì, davanti a lei, come un meraviglioso quadro dipinto da un pittore
di enorme talento. «Questo è l'unico posto in cui la città degli
angeli può essere completamente tua» sussurra ancora Jared,
baciandole il collo, e per un istante Alice sa che potrebbe fare di
lei ciò che vuole, perché le ha appena dato ciò che lei ha sempre
desiderato da un uomo – Jared le ha dato il mondo, e questo basta a
decidere di dargli tutta se stessa.
«Baciami, Jared» sussurra
a sua volta, voltando la testa per riuscire a guardarlo negli occhi.
Jared fa di più: la fa voltare tra le sue braccia, la stringe contro
di sé e poggia la fronte contro la sua, restando immobile a lungo
prima di sfiorare le sue labbra. Alice si aggrappa al suo collo con
una forza che non credeva possibile, sicura soltanto di volerlo
accanto a sé con ogni fibra del proprio essere. Non sa in quale
momento, non sa come succeda, ma d'improvviso si ritrova stesa a
terra, nascosta dai cespugli, dolcemente sovrastata da Jared. Solleva
le braccia per aiutarlo a sfilarle la maglietta e si ritrova a
sospirare quando le labbra dell'uomo sfiorano i suoi seni, già
sicure di quale sia il modo giusto per convincerla ad abbassare ogni
difesa. Si lascia spogliare come una bambina e cerca di aiutarlo a
fare lo stesso, senza smettere di cercare la sua pelle, senza
permettergli di abbandonarla nemmeno per un istante. Trattengono
entrambi il fiato quando i loro corpi si uniscono per la prima volta,
ma dopo un primo attimo di immobilità iniziano a muoversi in
perfetta sincronia, come se si conoscessero da sempre, come se per
anni non avessero fatto altro che perdersi l'uno nell'altra.
«Credo saresti un buon
padre» sussurra Daria dopo un lungo silenzio, cogliendomi un po' di
sorpresa. Si accorge del mio sguardo e si affretta a correggere il
tiro: «Non sto dicendo che dovremmo avere dei figli. Insomma, non è
che adesso che ci siamo ritrovati dobbiamo... era solo per dire
che... era solo per dire che secondo me i tuoi figli saranno
fortunati. Insomma, se avrai dei figli saranno fortunati ad avere te
come padre.»
«Non ho mai pensato che un
giorno avrei avuto dei figli» confesso. «Insomma, quando stavo con
Christine mi piaceva pensare che un giorno avremmo avuto una famiglia
nostra, ma erano soltanto le fantasie di un ragazzino innamorato. Non
erano veri progetti. E quando sono cresciuto... beh, lo sai. Ci sono
stati momenti in cui non pensavo nemmeno di poter sopravvivere fino
al giorno successivo, figurarsi mettere su famiglia.»
«Io non credo che i figli
vadano programmati» replica, facendosi più tranquilla. «Dovrebbero
essere una di quelle cose che ti capitano e basta, come vincere alla
lotteria. Credo che la sola cosa cui si debba fare attenzione sia la
persona con cui li si fa.»
Volto la testa per
guardarla, cercando disperatamente il coraggio di porle la domanda
che mi sta frullando in testa da quando abbiamo iniziato questo
discorso. «Tu lo faresti un figlio con me?» Daria solleva lo
sguardo, confusa. «Non c'è una risposta sbagliata, tranquilla»
aggiungo, cogliendo il suo imbarazzo. «La mia è soltanto
curiosità.»
Solo a questo punto, sicura
di non rischiare nulla, Daria rilassa il volto, tornando a sorridere
e a respirare in maniera regolare. «Ci sono almeno un milione di
cose che farei con te, Shannon» sussurra, spostando di nuovo lo
sguardo sulle fotografie. «Può darsi che avere un figlio insieme
rientri tra queste.»
Non so come sia accaduto di
preciso, come questa nostra strana storia si sia evoluta tanto in
fretta da portarci ad ipotizzare già di diventare genitori, ma non
me ne preoccupo più di tanto. Non sono tanto stupido da credere che
dopo il dolore degli scorsi mesi non ci saranno più ostacoli, perché
in fondo non ci siamo incontrati che sei mesi fa e siamo ancora ben
lontani dal conoscerci davvero, eppure in qualche modo sento che le
cose tra Daria e me andranno bene, perché ora siamo certi che nessun
ostacolo può essere così insormontabile da
separarci – almeno non per sempre.
Quando
Alice e Jared si rivestono, il sole sta già iniziando a calare sulla
valle degli angeli, tingendo il cielo di una particolare sfumatura
rossastra. «Potrei usare milioni di parole per descrivere
questo pomeriggio, ma temo che finirei con l'esagerare» sussurra
lui, mettendosi a sedere.
«Credo ci siano momenti in
cui non servono parole» risponde lei, appoggiandosi alla sua spalla.
«A volte troppe parole possono portare più danno che benefici»
aggiunge, mentre Jared le passa un braccio attorno alle spalle per
tenerla più vicina.
«Allora non dirò niente»
replica lui, baciandole teneramente la fronte. «Non voglio
commettere errori con te.» Se la tiene stretta, respirando il suo
profumo, tentando di mandare a memoria ogni singolo dettaglio che la
riguarda, perché sa che presto lei andrà via insieme a Daria,
lasciandolo solo, e a quel punto non avrà altro che i propri
ricordi. Si chiede come Shannon sia riuscito a sopravvivere senza il
conforto di avere Daria accanto a sé, ma è solo un istante: quasi
subito gli tornano in mente i mesi passati in bilico sull'orlo
dell'abisso, e d'istinto pensa di stringere Alice a sé pregandola di
non andarsene. «Mi amerai ancora domani mattina?» sussurra dopo un
lungo silenzio. Alice alza lo sguardo, senza capire il perché di
quella strana domanda. È più che sicura che non si sia mai parlato
d'amore, quindi non riesce a comprendere perché Jared lo stia
tirando in ballo proprio in questo istante. Avvertendo lo sguardo
confuso della ragazza, lui si lascia andare ad una risatina.
«Tranquilla, non era una domanda per te. Stavo solo pensando al
testo di una vecchia canzone.»
«Meno male» sussurra
Alice, sorridendo a sua volta. «Non ho nemmeno idea di che cosa
succederà tra due ore, figuriamoci se so cosa penserò domani
mattina.» Jared si sforza di sorridere con lei, ma in cuor suo sa
che vorrebbe fosse diverso – sa che vorrebbe soltanto essere amato,
ed essere amato soltanto da lei.
«Ti sei mai trovata ad
osservare la tua vita e a sognare di poterla cambiare completamente?»
le domanda all'improvviso, cogliendola di sorpresa. «Insomma, ti sei
mai fermata a chiederti che cosa sarebbe successo se ad un certo
punto della tua vita avessi fatto delle scelte diverse?»
«Per la mia salute
mentale, cerco di non farlo mai» risponde lei. «Credo che nessuno
dovrebbe farlo, a dire il vero. Perché, tu lo fai?»
«Qualche
volta» chiosa lui, continuando a guardare lontano. «Non dico
di non essere contento della mia vita. Mi piace la mia vita, e
soprattutto mi piace il mio lavoro. Credo di essere uno dei pochi
uomini al mondo che riescono ad essere felici facendo qualcosa che
davvero amano.»
«Però?»
Jared sorride, sapendo che
soltanto Alice sarebbe riuscita a cogliere la particolare sfumatura
nella sua voce. «Però a volte mi chiedo come sarebbero andate le
cose se non avessi mollato la scuola d'arte. Avevo tutte le carte in
regola per diventare un ottimo pittore, sai?»
«Probabilmente saresti
diventato uno snob che sorseggia Chardonnay e passa il tempo
criticando il resto del mondo. Non credo mi saresti piaciuto.» Alice
volta appena la testa, studiando il suo profilo. «E poi se avessi
fatto il pittore non ci saremmo conosciuti. Non è mia abitudine
frequentare le gallerie d'arte.»
«Va bene, allora sono
contento di essere diventato un musicista» risponde lui con un
sorriso. «Davvero non c'è nulla che cambieresti nella tua vita?»
aggiunge dopo un istante, sorpreso che una ragazza come lei possa
essere davvero soddisfatta di ciò che la circonda.
«No, per adesso no. Credo
di aver fatto tutte le migliori scelte possibili, e sono contenta di
quello che ho. Non ho mai avuto manie di grandezza. Sono una persona
normale, e questo per adesso mi basta.»
«Che cosa c'è di tanto
speciale nell'essere normali?» le domanda lui, curioso di sapere che
cosa l'abbia portata a pensare una cosa del genere.
«Viviamo in un mondo in
cui tutti sognano di essere speciali» risponde lei, fissando lo
sguardo su un punto lontano. «Per quanto mi riguarda, accontentarsi
di essere normali è la conquista più grande.»
«Tu sei una ragazza molto
strana, lo sai?»
«Perché mi piace la mia
vita così com'è?»
«Non una sola delle
persone che conosco è perfettamente felice della propria condizione.
C'è sempre almeno una cosa che vorrebbe cambiare. Credo faccia parte
della natura di ogni essere umano.»
«Forse allora io sono
l'eccezione che conferma la regola» è il commento di Alice, che
continua a guardare lontano. Poi sente lo sguardo di Jared su di sé,
quindi si volta verso di lui. «Che c'è?»
«Niente» risponde lui.
«Sto solo cercando di capire come può una persona che crede nella
normalità essere la sua perfetta antitesi.»
Alice ride, sistemandosi
meglio contro di lui. «Stai continuando a cercare significati
nascosti nell'unico posto in cui non ne troverai mai. Io non nascondo
segreti.»
E invece nascondi il più
grande, vorrebbe rispondere Jared. Più la guarda, più tempo
trascorre in sua compagnia, più si fa strada in lui la convinzione
che Alice abbia scoperto il segreto della felicità.
«E questo è tutto»
dichiaro, chiudendo l'album con un colpo secco. «Hai appena visto
tutta la mia vita. Se ti è venuta voglia di lasciarmi di nuovo, lo
capisco» scherzo, accarezzando la testa di Daria. «Non sono un uomo
semplice» aggiungo, tornando a farmi serio. «Ho dovuto affrontare
molte prove, e... non nego che in certi casi vorrei aver trovato
soluzioni diverse. Sono sempre stato uno di quei tipi che cercano la
via più facile, anche se spesso vuol dire fare la cosa sbagliata.»
«Io non credo» risponde
lei, mettendosi a sedere composta. «Non sempre hai scelto la vita
più facile. Pensa a quando sei venuto a Torino per vedermi. Non
credo che quella sia stata una scelta semplice.»
«Quella non è stata
proprio una mia scelta. È stata più una scelta di Jared.»
«Forse è stato Jared a
darti l'imbeccata, ma resta il fatto che tu avresti potuto
ignorarlo.»
«Ma quando ti ho vista me
ne sono andato. Non dirmi che non è stata una scelta facile.»
«Per come la vedo io, e
per come ti conosco, la scelta più facile sarebbe stata fare a pugni
con Marco lì in mezzo alla strada. Invece hai avuto il fegato di
andartene e tornare a casa senza nemmeno tentare di parlare con me.
So che la gente di solito pensa che andarsene sia la scelta più
semplice, ma io... io credo che andarsene sia la scelta peggiore.»
«Parli di Parigi?»
azzardo dopo un attimo di silenzio, temendo che ricordare quel
momento potrebbe risvegliare le sue paure e convincerla ad andarsene
di nuovo.
«Parlo di Parigi» replica
lei a bassa voce, «e parlo anche di mia madre. Da quando l'ho
ritrovata... beh, stiamo cercando di ricostruire un rapporto. Il che
significa che parliamo un sacco» aggiunge con una risatina. «Mi ha
fatto capire che quella di lasciare mio padre è stata la scelta più
difficile che abbia mai dovuto affrontare. Per tutti questi anni ho
pensato che per lei fosse stato semplice, che se ne fosse andata
perché non ci voleva bene, che... che non contassimo così tanto per
lei. Ma adesso che sono stata dall'altra parte, credo di aver capito
che andarsene e lasciare qualcuno non è mai una scelta semplice.
Forse lo sembra all'inizio, ma poi... poi ti rendi conto che non è
una soluzione definitiva, e che il pensiero di chi hai lasciato non
smette mai di tormentarti. A quel punto ti rendi conto che non è
facile per niente.» Studio in silenzio il suo profilo, chiedendomi
se sia questo quello che ha provato nei lunghi mesi in cui siamo
stati separati. Sto per domandarglielo quando alza di nuovo la testa.
«So che il fatto di essere tornata non implica per forza che tu mi
abbia perdonata, Shannon. Così come il fatto di essere di nuovo
insieme non significa che saremo felici per sempre. Non sono così
ingenua, so che il mio ritorno non può risolvere tutto.»
Alzo una mano e le sfioro
una guancia, guardandola chiudere gli occhi al contatto tra la sua
pelle e la mia. «Per quanto mi riguarda, credo di averti perdonata
quando ti ho vista in clinica» sussurro. «E per quanto riguarda il
per sempre, sono abbastanza grande da sapere che promettersi
eterna felicità è una cosa piuttosto stupida, perché per sempre
non esiste. Quindi, per quanto mi riguarda, mi accontenterò di
essere felice il più a lungo possibile.»
Sorride, mentre gli occhi
si velano di nuovo di lacrime, e per nascondere la commozione torna
ad accoccolarsi contro di me, appoggiando la testa sul mio petto.
Fedele alle mie parole, la tengo stretta a me, chiudendo gli occhi
per godermi la sensazione di peso e calore data dal suo corpo,
cercando di imprimere nella mia testa ognuno di questi brevi istanti
di felicità.
Alice e Jared rientrano a
casa verso le sei di sera, trovando il vialetto parzialmente
ingombrato dall'auto di Shannon. «Adesso sei più tranquilla?» le
domanda lui.
«Diciamo che per il
momento non ti ucciderò» risponde lei, raccattando la borsa dal
tappetino. «Ma per essere veramente tranquilla dovrò prima vedere
Daria e assicurarmi che stia bene.»
«Ma tu non ti rilassi
proprio mai?»
«Lo faccio di rado, in
effetti. Ma quando lo faccio, cerco di farlo per bene» risponde lei
nel tono malizioso che contraddistingue il suo rapporto con Jared già
dalle loro prime conversazioni. «A questo proposito» riprende,
tornando a farsi seria, «credo sarebbe meglio tenere la cosa per
noi. Mi riferisco a quello che è successo sulle colline» aggiunge,
forse pensando che Jared possa già aver dimenticato quella breve
parentesi di intimità.
«Hai paura che Daria inizi
ad immaginare un futuro perfetto in cui viviamo in due case vicine e
facciamo crescere insieme i nostri figli?»
«Non è così idiota»
taglia corto Alice. «Ammetto che è una ragazza romantica che a
volte si lascia trasportare, ma non è così estrema. No, voglio
soltanto evitare di caricarle un altro peso sulle spalle. Sta
attraversando una fase difficile della propria vita, e non vorrei
essere io a spezzare il suo equilibrio.»
«Soprattutto per qualcosa
che probabilmente non si ripeterà, dico bene?» commenta lui,
fissando lo sguardo sulla propria casa.
«Non riguarda soltanto me
e te, Jared» continua paziente lei. «Riguarda anche Daria e
Shannon. Non voglio rischiare che sprechino energie preziose per
gestire anche noi due. In questo momento devono pensare soltanto a
loro stessi.»
«Se la metti così, mi sta
bene» risponde lui, tornando a guardarla. «Non dirò una parola.»
Entrano in casa a passo
tranquillo, fingendosi di ritorno da una passeggiata in città, e ad
entrambi riesce difficile trattenere un sorriso quando trovano Daria
e Shannon seduti vicini sul divano, impegnati a coccolarsi come una
coppia di adolescenti. È così bello rivederli insieme – e,
soprattutto, rivederli in pace – che davvero sembra
impossibile pensare che abbiano avuto il coraggio di separarsi. Alice
incontra lo sguardo di Jared e alza gli occhi al cielo quando lui le
fa l'occhiolino, come per dirle Te l'avevo detto che sarebbe
andato tutto bene.
«Dove eravate finiti?»
domanda Shannon, alzandosi dal divano per voltarsi verso il fratello.
«Ho portato Alice a fare
un giro in città» replica Jared, abbandonando il cappello sul
tavolino del salotto. «Era una giornata così bella che sembrava un
peccato sprecarla.»
«Spero non ti abbia
portata in uno dei tanti posti equivoci che gli piace frequentare»
sorride Shannon, sapendo quanto poco i gusti di Jared abbiano in
comune con il resto del mondo.
«Mi ha portata a vedere il
Sunset Boulevard» risponde Alice, sforzandosi di sembrare il più
naturale possibile. «Vedere tutte quelle ville mi ha fatto venir
voglia di rapinare una banca per poterne comprare una.» Daria, che
all'arrivo della coppia si è voltata, non fatica a capire che quella
dell'amica è una bugia – la conosce troppo bene, sa che nessuna
delle due è mai stata brava a mentire. Comunque decide di non dire
niente e di conservare le proprie domande per un altro momento,
quando saranno entrambe sole e lontane dalle orecchie indiscrete dei
fratelli Leto.
«Avete programmi per
cena?» interviene Jared all'improvviso.
Ancor prima di sentirlo
continuare, Shannon alza gli occhi al cielo. «Che diavolo hai in
mente?»
«Beh, stavo pensando che
potremmo chiamare Vicki e Tomo e passare la serata tutti insieme»
replica l'altro, alzando le spalle con aria innocente. «Sarebbero
felici di vederti. E di rivedere Daria e Alice» aggiunge dopo un
istante.
«Conoscono Alice?»
domanda Shannon con espressione confusa.
«Sì, abbiamo cenato
insieme già l'altra sera» risponde l'interessata. «Li ho trovati
molto simpatici.»
«Per me non ci sono
problemi» risponde Daria. «Anche a me farebbe piacere rivederli.
Quindi il tuo parere è quello decisivo, Shan» aggiunge,
rivolgendogli un sorriso.
«Chi sono io per oppormi?»
sospira lui, sorridendo a sua volta. «Però ci toccherà cenare a
casa, perché con la mamma via non so a chi lasciare Bruce.»
«Tu non ti preoccupare,
penso a tutto io» replica Jared, alzando le mani davanti al petto
come a voler comunicare di aver già trovato una soluzione. «Vado a
telefonare» aggiunge, sparendo rapido in cucina.
«E io a fare una doccia»
gli fa eco Alice, quasi correndo in direzione della camera da letto.
Shannon e Daria, rimasti
soli, si guardano dubbiosi, quasi che entrambi abbiano avuto lo
stesso pensiero. «Vieni con me, facciamo due passi in giardino» le
sussurra lui, prendendola per mano per guidarla fuori di corsa.
«Non trovi che quei due
siano strani?» mi domanda subito dopo aver chiuso la porta
scorrevole che dal salotto conduce al giardino sul retro.
«Più del solito?»
rispondo divertita. «Ammetto che Alice di solito è una persona
piuttosto normale, ma di tuo fratello non dovresti stupirti»
aggiungo mentre ci sediamo sui gradini della veranda.
«Forse non sono mai stato
un asso nel capire le persone, ma Jared lo conosco quasi meglio di me
stesso» risponde lui, fissando lo sguardo su un punto lontano. «Ci
nascondono qualcosa. So che la pensi anche tu così, Daria. Te lo
leggo negli occhi» aggiunge tornando a voltarsi verso di me.
Cerco in ogni modo di
resistere alla tentazione di dar voce ai miei dubbi, ma l'occasione è
troppo ghiotta per tacere. «E va bene, ammetto che lei mi è
sembrata un po' strana, ma di qui a dire che ci nascondono
qualcosa...» Ripenso al mese in cui la mia migliore amica mi ha
nascosto di essere in costante contatto con il fratello del mio ex,
rendendomi conto che l'idea che lei e Jared ci stiano tenendo
all'oscuro di qualcosa non è poi così campata per aria. «Jared ti
ha detto dell'e-mail che Alice ha scritto ad Emma?»
«Cosa?»
«Ti ricordi quando ti ho
detto di aver chiuso tutto quello che riguardava te in una scatola e
di aver dato quella scatola ad Alice?» Lui annuisce, dimostrando di
ricordare. «Un bel giorno lei ha deciso di scrivere un'e-mail ad
Emma per dirle che secondo lei ero ancora innamorata di te e che ogni
giorno mi pentivo di averti lasciato.»
«Beh, in fondo non aveva
tutti i torti» sorride lui, stringendomi la mano un po' più forte.
«No, in effetti no.
Comunque il succo è che Emma ha fatto leggere il messaggio a Jared,
che ha preso il numero di Alice e l'ha chiamata per dirle che lui era
convinto che tu fossi nella stessa situazione.»
«Non sbagliava nemmeno
lui.»
«Già... solo che da quel
momento hanno iniziato a sentirsi in maniera più o meno regolare.
Stando a quanto mi ha confidato lei, non hanno fatto altro che
parlare di noi e di come avrebbero potuto farci rimettere insieme,
ma...»
«...ma nulla ci impedisce
di credere che non ci sia stato spazio anche per altro» conclude lui
con un sospiro. «Beh, se la cosa può esserti di conforto, lui è
fisicamente incapace di far soffrire la gente. Il massimo che
potrebbe fare è portarla all'esasperazione e costringerla a
soffocarlo nel sonno. Jared non è un cattivo ragazzo.»
«Questo lo so. Lo conosco
poco, ma si capisce subito che non farebbe mai del male a qualcuno
intenzionalmente. In questo ti assomiglia.»
«E allora quali sono i
tuoi dubbi?»
«Ho paura che potrebbe
essere lei a ferire lui. Non intenzionalmente, ma potrebbe. È appena
uscita da una storia di sei anni, non è pronta per ricominciare
tutto dal principio. Non con Jared, almeno.»
«Credi che lui non sarebbe
in grado di reggere una storia seria?»
«Credo che finirebbero
come te e me» rispondo, incrociando il suo sguardo. «Forse non
cadrebbero in basso quanto noi, ma... non puoi credere che sarebbe
una storia semplice.» Shannon distoglie lo sguardo e si passa la
lingua sulle labbra, come se si fosse appena reso conto di non avere
argomenti con cui ribattere. «So che non dovrei preoccuparmi, perché
sono due adulti perfettamente in grado di badare a loro stessi,
ma...»
«...ma siccome vuoi loro
bene preferiresti che non soffrissero» sussurra, trovando ancora una
volta la naturale conclusione ad una mia affermazione.
«Per me Alice è
praticamente una sorella» aggiungo, stringendo la sua mano tra le
mie. «Mi è stata accanto nei miei momenti più bui e per questo non
la ringrazierò mai abbastanza, ma... ho paura che potrei non
riuscire a fare lo stesso, se fosse lei a soffrire. Non credo
riuscirei ad affrontare tutto come ha fatto lei.»
«Magari stiamo volando
troppo con la fantasia, che dici? Può darsi che siano solo usciti
per fare un giro» dice all'improvviso lui, passandomi un braccio
intorno alle spalle. «Non è detto che debba per forza esserci
qualcosa, tra loro. Magari stanno solo provando a fare amicizia.
Visto che pare che io e te resteremo insieme per un po'...» aggiunge
con una risatina.
«Non lo so, non riesco a
convincermene. Non credo all'amicizia tra uomo e donna.»
«Quindi per te ci deve
sempre essere di mezzo qualcosa di sessuale?»
«Quanti dei tuoi amici
hanno un paio di tette?» lo prendo in giro. L'ho preso alla
sprovvista, lo capisco dal mondo in cui aggrotta la fronte cercando
una risposta. «Appunto. E se consideriamo te come prototipo
dell'uomo medio, ecco la risposta.»
«Quindi secondo te ci
nascondono qualcosa?»
«Secondo te no? In fondo
stiamo sempre parlando di tuo fratello.»
«Mi hai convinto»
risponde lui con un deciso cenno del capo. «Non resta che vedere
come si comporteranno. Non so Alice, ma Jared non è mai stato capace
di nascondere un segreto.»
«Sapevo che affidare
l'organizzazione a te sarebbe stata una pessima idea» sbuffa Shannon
dal sedile del passeggero, mentre Jared si infila nel parcheggio del
ristorante con un paio di manovre. «Dovevi proprio scegliere un
ristorante in centro?»
«Scusa, ma ho dato per
scontato che sia tu che io avessimo la dispensa vuota, e mi sembrava
un tantino scortese chiedere ad una donna in avanzato stato di
gravidanza di cucinare per sei persone» replica Jared, spegnendo il
motore e sfilando le chiavi. «E poi qui accettano anche i cani, così
abbiamo anche risolto il problema di Bruce» aggiunge, voltandosi
verso il sedile posteriore per guardare il cane, compostamente seduto
tra Daria e Alice.
«Ma non sarà un po'...
pericoloso?» continua Shannon, e anche senza fare domande
Daria capisce che ciò che lo preoccupa è la possibilità che lui,
Jared e Tomo vengano riconosciuti e importunati per tutta la serata.
«Non siamo in Afghanistan,
Shan. È un ristorante in piena Los Angeles.»
«Appunto.»
«Tranquillo, mi sono fatto
dare un tavolo ben nascosto. Non ci saranno paparazzi o fan urlanti
pronti a saltare sul nostro tavolo non appena avremo ordinato.»
Shannon alza gli occhi al
cielo e si rassegna a scendere, sapendo che con Jared non riuscirà
mai a spuntarla. Apre lo sportello e aiuta Daria a scendere, come
farebbe un vero gentiluomo. Lei ricambia con un sorriso,
stringendogli un po' di più la mano. Mentre si avviano verso
l'ingresso del ristorante Daria non riesce a smettere di guardare il
suo uomo, chiedendosi se i problemi siano davvero finiti, o se ancora
dovranno imparare a salvarsi.
1Lo
sanno tutti che in caso di pericolo si salva solo chi sa volare bene:
quindi se escludi gli aviatori, falchi, aerei, nuvole, aquile e
angeli, rimani te.
| Il titolo del capitolo è
ispirato ad un verso della canzone Alla
mia età
di Tiziano Ferro,
contenuta nell'album Alla
Mia Età
(2009).
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