a little piece of heaven.

di GERARD_GAY_IS_WAY
(/viewuser.php?uid=751680)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


A LITTLE PIECE OF HEAVEN

Prologo


Continuavo a guardare quel bambino che, ormai sul punto di piangere, chiedeva al padre di comprare quello stupido gelato a forma di Spongebob, tra l’altro non era neanche buono, erano solo soldi buttati al vento e si, è vero, erano pochi soldi ma se tutti voi foste nella mia situazione non la pensereste così. Alla fine di quella piccola ‘litigata’, che, avanti, hanno tutti i genitori con i propri figli, il padre accettò e dopo pochi minuti dal bar, in fondo alla strada, uscirono un bambino felice e un genitore leggermente scocciato e.. intenerito? Non avevo mai visto mio padre guardarmi in quel modo e mai lo vedrò. Guardavo quella scena con invidia, consapevole, che a me, non sarebbe mai capitata una cosa del genere. Forse solo due o tre volte, quando ancora ero troppo piccola e ingenua per capire, quando ancora la mamma era viva e.. normale. Normale si, perché dopo i miei quindici o sedici anni perse completamente il controllo su stessa e l’unica cosa ad vere potere su di lei era l’alcol e la depressione. Mio padre l’aveva portata a tutto questo, diceva di non amarla più da tempo e di aver trovato un’altra donna, ma disse che poteva comunque rimanere in casa con lui e con la sua nuova ‘famiglia’. E io? Io in tutto questo che ruolo avevo? Un peso per mio padre e mia madre, invece, beh lei era come se si fosse dimenticata di me. Forse era l’alcol che la stava distruggendo e divorando dentro, pensavo, credevo. E intanto, continuavo a non capire. Perché ci teneva ancora con lui se aveva trovato un’altra famiglia? Disprezzava mia madre e di conseguenza anche me, forse perché le somigliavo o per il modo in cui stavo crescendo? Forse perché non volevo entrare a far parte della sua famigliola felice, perché non diventavo come i suoi figli perfetti? Avevo troppe domande e nessuno che poteva rispondermi. Poi capì, noi eravamo ancora in quella casa solo per il semplice fatto che mia madre era malata, il suo fegato stava per scoppiare per tutto quell’alcool, per tutta quella droga, qui farmaci per la depressione, per tutto quello schifo e aveva bisogno di cure, di un posto pulito e spazioso dove stare. Mio padre non faceva niente, guardava e basta, la guardava, ogni giorno, morire lentamente. Io non potevo fare niente, ero solo troppo spaventata, troppo giovane per controllare tutto quello schifo. Troppo delusa. Passavano i giorni e la mamma peggiorava, finché circa un mese fa, tutto il dolore scomparve e lei andò via, per sempre. Sparì, in un battito di ciglia. E piansi fino alla sfinimento. I sensi di colpa mi divoravano, la malinconia, la rabbia. Iniziai a distruggermi, come aveva iniziato mia madre. Fino a qualche ora fa, ricordo ancora le parole di mio padre. Il suo sguardo falso e il disprezzo nei suoi occhi e in quelli della sua famiglia. Un’intrusa, uno scarto, ecco cos’ero per loro.

Il palmo della mia mano si graffiò a contatto con le pietruzze del vialetto di casa mia e le calze, già bucate, si bucarono ancora di più. Sentii qualcuno ridere alle mie spalle. Frank, il mio migliore amico, strafatto alle due del mattino, era in piedi dietro di me e rideva a crepapelle. E la sua risata era così bella, così cristallina, pura. Tutto il contrario di lui, un teppista, uno spirito completamente libero, forse troppo. Migliori amici fin dalla nascita, l’unica persona che mi capisce, che mi ha voluto veramente bene. La persona sbagliata da frequentare per gli altri, ma era così giusta per me. E tutti si chiedevano, perché Ariel Hale così timida, dolce e pura dovrebbe frequentare un ragazzo come Frank Witterson e la sua compagnia di teppisti? È vero eravamo così diversi, ma così vicini e nessuno può contare tutto il bene e l’amore che ho dato a queste persone. Ma in quest’ultimo periodo non ero così tanto pura, mi ero lasciata trasportare dalla tristezza e stavo ricadendo nello stesso buco di mia madre e non ne sarei uscita facilmente. Quella notte, anzi mattina, stava per succedere qualcosa e io avevo una strana sensazione nel petto.     
Mi guardai le mani, sui palmi c’erano dei piccoli graffietti che, con il vento tagliente, bruciavano ancora di più. Cercai di rialzarmi, barcollante, con l’aiuto di Frank che, ormai, aveva smesso di ridere. La vista offuscata, per il troppo alcol bevuto prima, insieme ai miei amici. Ero stanca di questa vita, non volevo essere questo. Volevo solo disintossicarmi da tutto questo schifo, da tutti, da questa cittadina, dal mondo. Guardai Frank e di slancio, lo abbracciai forte.
«Ti voglio così bene, Frankie.» affondai il viso nell’incavo del  suo collo e lui mi strinse a se, sussurrando un ‘Anche io, Ariel’. Mi lasciò un bacio sulla fronte e staccandosi, mi saluto con un piccolo movimento della mano. Prima che potesse andarsene definitivamente, gridai il suo nome.
«Cosa?» mi guardò interrogativo, avvicinandosi di nuovo.
«Qualunque cosa succeda non dimenticarti mai di me, ti prego. Ricordati che ti vorrò sempre bene e grazie per tutto e ch-» mi interruppe prima che potessi continuare la frase.
«Ariel, io- io ti amo.» e quella frase fece frantumare qualcosa dentro di me. E io lo sapevo, me lo diceva ogni sera quando era completamente andato per capire qualcosa e io lo sapevo, lo sapevo che questa era una bomba pronta a scoppiare. Era successo tutto in fretta. Lui mi guardava e io avevo gli occhi spalancati, dalle mie labbra uscivano solo monosillabi.
«Ariel, lo so che non mi ami e capisco che hai altro a cui pensare adesso e fa niente, io sarò sempre qui. Non mi importa, non mi aspettavo di certo un ‘anche io’, no,» fece un sorriso amaro «volevo solo dirtelo, volevo solo liberarmi. Siamo sempre noi, non è cambiato niente, vero? Dimentica tutto e ritorniamo come quelli di pochi minuti fa, ti prego.» mi prese per le spalle e mi guardò preoccupato, fisso negli occhi. Sussurrai un flebile si, prima di alzare leggermente gli angoli della mia bocca, sorridendo.
«È tutto okay, Frankie, tranquillo.» lui mi sorrise e io feci lo stesso.
«Bene, allora, ci vediamo domani Ariel.» e io lo abbracciai e lo salutai.  Per me quello era un addio, per lui un semplice saluto. E lo sapevo che domani non ci sarebbe stato nessun Frank, nessuna compagnia, niente. Lo sapevo che non avrei più rivisto questa città, me lo sentivo.
Mi girai, pronta ad entrare. Pensai ‘E se mi vedessero in queste condizioni?’; decisi così di entrare dalla porta sul retro, dove c’era la cucina. Avrei potuto bere un po’ di acqua e sciacquarmi il viso. E così feci. Mi appoggia al lavello e pensavo a cosa ne stavo facendo della mia vita. Perché ero ancora qui? Avevo messo da parte molti soldi proprio per partire e andare via da tutto questo schifo e invece, ero ancora bloccata qui.
Dopo aver bevuto un altro bicchiere di acqua, uscì dalla cucina, camminando in punta di piedi, nel buio più totale, in salotto. Sentii gli occhi bruciarmi, quando la luce si accese, rivelando mio padre seduto sul divano, mi guardava con disprezzo e rabbia.
«Ti sembra l’ora di tornare?» mi urlò contro, raggiungendomi. Sua moglie e i suoi due figli guardavano la scena seduti, sui primi gradini delle scale.
Io non fiatavo, se avessi parlato, le cose sarebbero solo peggiorate.
«Guardati, sei uguale a tua madre. Un fallimento, entrambe,» rise di me «Ho visto tutto dalla finestra, ma come ti sei ridotta? Non riesci neanche a stare in piedi per il troppo alcol e ti fai aiutare sempre dal tuo fidanzatino del cazzo, che fa ancora più schifo di te.» le lacrime erano pronte ad uscire, ma le ricacciai dentro. Dovevo essere forte.
«Non puoi parlare dei miei amici così! E io faccio quello che voglio, tu non sei nessuno per me e mai lo sarai, non hai nessun controllo su di me.» urlai più forte.
«Dio, ho cercato in tutti i modi di farti entrare in questa famiglia, di farti diventare come loro e guarda come mi ripaghi. Guarda come cazzo sei vestita, mi vergogno di te. Sembri una cazzo di barbona, anzi una puttana come tua madre e droga-»
«La mamma non era una puttana! Sei tu, brutto pezzo di merda, ad averla portata alla morte, l’hai distrutta. Sei solo un codardo che scappa dai problemi della sua vera famiglie e se ne ricrea una nuova, cazzo, mi fa-» venni interrotta dal suo schiaffo, la pelle bruciava e lacrime scendevano. Un ‘ragazzi andate a letto, forza’ si sentì dalle scale e girai lo sguardo solo per vedere quelle tre figure sparire al piano di sopra.
«Ti odio, cazzo. Tu mi hai rovinata, tu e la mamma. Odio la mamma per essere stata così egoista, per avermi lasciata da sola, con te. E, cristo,» tirai su con il naso, asciugandomi le guance «non dire che hai fatto tutto per me. Non inventare cazzate. Sono sempre stata un peso per te, non ti è mai importato niente di me e la mamma. Cazzo, quando stava per morire, tu pensavi alla tua nuova famiglia del cazzo e non alla tua vera famiglia. Dove cazzo ero io? Non- non mi hai ancora cacciata solo perché ti faccio troppa pena, vero? Ti odio così tanto. E sai che ti dico? Vaffanculo, io me ne vado da questo schifo, non ci voglio stare più con te e con la tua stupida famiglia felice, sono solo un’intrusa qui.» e guardandolo con odio ancora una volta, salì al piano di sopra. Liberai tutti i cassetti e presi le cose più importanti per me, le mie foto con i miei amici, la ‘Scatola di Frankie e Ariel’, una scatola che racchiudeva tutti i nostri momenti. Presi tutto, riempiendo una valigia e un borsone. Quando chiusi il borsone, il mio sguardò si posò sul secondo cassetto del mio comodino, lì c’era la mia libertà. Lo aprii e presi la busta con dentro tutti i soldi che avevo guadagnato in quegli anni. Avevo quindici anni quando iniziai a lavorare e adesso ne avevo diciassette, quei soldi bastavano e avanzavano. Sotto la busta trovai una foto. Eravamo io e mia madre, lei rideva e io la abbracciavo, avevo solo cinque anni, ero così felice. E lei era così bella. Misi la foto nella mia borsa e presi la valigia e il borsone, scendendo le scale, pronta ad uscire e a non entrare più in quella casa. Le luci erano spente, mio padre si era già dimenticato di tutto, di me. Non aspettava altro, quel bastardo. Aprii la porta e guardando un’ultima volta la mia vecchia casa, mi richiusi la porta alle spalle, avviandomi verso il centro, per cercare qualche taxi o pullman.

 
Chiusi gli occhi, provando a dimenticare quello che era successo poche ore fa. Sentii un colpo d’aria gelida attraversarmi le ossa e poco lontano da me, vidi un pullman, pronto a ripartire.
«Merda, si fermi, per favore!» urlai, provando a raggiungerlo e la cosa era alquanto difficile, per via della valigia e del borsone. Per fortuna l’autista mi vide e si fermò, aprendo le porte. Mi guardò male, per aver interrotto la sua guida e io impacciata, chiesi dove portava il pullman.
«All’aeroporto e ora per favore, si sieda oppure scenda da pullman, io devo lavorare!» un’idea mi balenò in testa. L’aeroporto. Avrei potuto prendere un aereo e andare chissà dove, avevo i soldi, i documenti, tutto. Potevo andare lontana, ricominciare da capo. E allora mi sedetti e appoggiai il viso sul finestrino.

 
‘L’AEREO PER ROMA FARÀ DIECI MINUTI DI RITARDO’
Roma, Milano, Inghilterra, Germania, Spagna, leggevo tutti i nomi dei voli sul tabellone.
‘AUSTRALIA SIDNEY VOLO ALLE 7.00am’ e senza pensarci due volte, mi diressi verso la biglietteria.
«Buongiorno, un biglietto di sola andata per Sidney, è il volo delle sette del mattino.» pagai tutto e mi allontanai, pronta per un nuovo inizio.

 
 
oh mai gAHD I MIEI OCCHI CHIedono pietà, è da tutto il giorno che sto davanti al computer a scrivere
allUR Salve salvino io sono irene e uhm questa è la prima volta che prenDO SUL SERIO UNA SToria
dato che sono una persona poco paziente ho deCISO DI PUBBLICARE SUbito il proloGO DI QUESTA SCHIFEZZ, avevo intenzione di scrivere un po’ di capitoli prima di pubblicarla per vedere come andava MA VABB
e niente, questa tipa ariel è una sfigata si vero però va in australia e CIAone che poi si chIAMA ARIEL HALE
HAAALE
H A L E
si, sono fissata con teen wolf, ho finito quattro stagIONI IN TIPO POCo più di due settimane rydo
tra l’altro io nel ruoLO DI ARIEL MI IMMAGINO MALIa hale e si è tipo bellissima, come del resto tutto il cast di teen wolf ;___;
se non l’avete mai vista, andate a cercarla!! si chiama shelley hennig
è un po’ triste la sua storia, porella e suo padre è uno stronzo e poI IL SUo amik si chiama FRANK ammetto che stavo pensando a frank iero e quindi si l’ho chiamato così ma il personaggio non è fRANK cioè lui è occupato con la diVAH GERARDA                                   
e vabb si, sono una persona molto pigra quindi non aspettatevi tipo ogni giorno un aggiornamento perchè si sono molto pigra e passeranno tipo una o due settimane per il prossimo aggiornamento anche perchè c’è la scuola e VORREI EVITARE LA BOCCIATURA grz      anyway domain inizio a scrivere il primo capitolo  e naAaAaAaaAaAaAda notte, vado a vedermi shameless CWC
 

 
 
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1. ***


CAPITOLO 1
Quando decisi di prendere l’aereo per Sydney, non avevo di certo pensato alle conseguenze. Una volta arrivata, uscì da quel caldo aeroporto e mi fermai sul marciapiede. La gente usciva ed entrava dall’aeroporto, in lacrime, sorridenti. Alcuni correvano, pur di riuscire a vedere al più presto gli amici, la famiglia. Altri partivano. La gente si abbracciava, si salutava, piangeva, rideva.
«Thomas, hai preso tutto? Dai, dobbiamo andare a casa, oddio!» una signora, piuttosto giovane, uscì dall’aeroporto, trascinando delle valigie, aiutata da un uomo.
«Tesoro, ti prego, calmati. Non devi agitarti e per, favore dammi queste valigie. Sai che non puoi fare tanti sforzi, ti ricordo che hai mio figlio nella tua bellissima pancia. E-» l’uomo si fermò, cercando con la sguardo qualcosa o qualcuno e quel qualcuno stava venendo proprio da.. me? L’uomo si girò completamente dalla mia parte, guardando infuriato il bambino che continuava a saltellare felice verso di me e iniziò a chiamarlo.
«Thomas, torna subito qui, dobbiamo andare a casa. La mamma ha bisogno di riposarsi!» non vedendo alcun cambiamento, gridò più forte il nome del piccolo.
«Ehi, ciao! Io sono Thomas, tu chi sei? Una principessa?» mi sentì tirare, verso il basso, l’enorme maglietta che indossavo e quando abbassai lo sguardo, vidi un bambino dai lineamenti dolci. Il mio sguardo si addolcì al sentire quella frase e gli sorrisi, intenerita.
«O-oh ciao Thomas, sai che hai un nome davvero bello? Quanti anni hai? Sembri davvero grande! Io sono Ariel, piacere!» mi presentai, sorridendo leggermente e abbassandomi completamente alla sua altezza. Thomas, alle mie parole, gonfiò il petto, orgoglioso di se stesso. Al sentire il mio nome, vidi i suoi occhi illuminarsi e la sua bocca si spalancò, come se fosse sorpreso.
«Ma allora è vero! Sei una principessa, ti chiami Ariel, come quella del cartone animato che piace alla mia fidanzata!» una piccola risata uscì dalle mie labbra. Però, veloce il ragazzino!, pensai. «Eh, si! Sono già grande, ho sei anni e vado già a scuola! Visto, ho anche la fidanzata.» disse, mentre sistemava gli occhiali sul suo naso. Era davvero un bambino dolce. Sorrisi e alzai lo sguardo, trovando i genitori a pochi metri da noi, mentre ci raggiungevano.
«Woah, devi essere, sicuramente, molto bravo a scuola!» dissi con un sorriso sulle labbra, mentre lui annuiva, incerto.
«Io sono molto bravo ma le maestre dicono che sono troppo agitato e questo non è per niente vero!» disse, mentre il suo tono cambiò, diventando più basso e sul suo viso si formò un broncio.
Stavo per ribattere, quando la voce del padre mi fermò, facendomi distogliere lo sguardo dal bambino dai capelli rossi. Quando puntai lo sguardo verso il padre, notai una coppia di due giovani adulti. Il padre, come il figlio, aveva dei capelli rossi e sul mento c’era un sottile strato di barba, anch’essa rossa. Gli occhi azzurri, grandi, che mi guardavano incuriositi, spiccavano sul viso, chiaro, molto chiaro. Le labbra erano rosse e sottili e sul suo viso si poteva notare un leggero sorriso. Girai, poi, lo sguardo sulla madre e il pancione crescente si poteva già notare. La madre era tutto il contrario del bambino che, a mio parere, era la fotocopia del padre. Solo gli occhi aveva preso da lei, verdi, di un verde acceso e a dir poco bellissimo. Al contrario dei miei, di uno stupido e noioso marrone. Ritornando alla madre, quest’ultima aveva un sorriso stampato in faccia, un sorriso gentile. I capelli erano neri e lisci, come la seta. Il viso dolce e rotondo, le guance piene e rosse risaltavano sulla pelle bianca come il latte. Erano davvero una coppia bellissima, anzi una famiglia bellissima.
La donna, scostò un ciuffo di capelli dal suo viso e «Ciao, scusa per Thomas, gli piace fare amicizia con tutti, cioè solo con quelli che gli vanno a genio» rise e continuò «E tu sei tra questi. Comunque, piacere io sono Camille e questo è mio marito Brad» disse presentandosi e nel mentre si portò una mano sul pancione, continuando «E oh, come dimenticare! Questa piccoletta nel mio pancione è Diana, la nuova arrivata, beh è in arrivo, sono già al sesto mese e oh mio dio» si mise le mani in faccia dall’emozione «Scusa per questa piccola scenetta...» concluse, con un sorriso imbarazzato per l’accaduto, mentre il marito l’abbracciava da dietro, guardandola come se fosse la cosa più bella, preziosa e fragile del mondo. Mi intenerì quella scena e le sorrisi dolce.
«Oh, non si preoccupi» risi, portandomi una mano dietro la testa con fare imbarazzato «Piacere, comunque, io sono Ariel e oh, sono nuova di qui, arrivo da Chicago.» dissi, abbassando lo sguardo per i ricordi, per poi rialzarlo dopo qualche secondo «E, ehm, complimenti, cioè sono felice per voi e per il nuovo arrivo. Uh, siete proprio una bella famiglia!» dissi con un sorriso sincero sulle labbra, dondolandomi sui talloni, imbarazzata.
«Oh, grazie Ariel, sei davvero un tesoro. Ma, come mai da Chicago all’Australia? È davvero un bel cambiamento! E dove devi andare? Stai aspettando qualcuno?» mi chiese Camille con tono incuriosito, spostando poi lo sguardo su suo marito che stava prendendo il cellulare dalla tasca del suo giaccone.
«Io, uhm-» fui interrotta dalla suoneria di un cellulare, quello di suo marito Brad, che si allontanò di poco per non interromperci. Come facevo a dire a Camille che, in un momento di pura follia e rabbia, avevo preso un volo a caso? Ma in qualche modo io mi sentivo legata a questa città. Mi toccava dirle la verità, magari mi avrebbero aiutata; anche se, l’idea di piombare così nella loro vita e chiedere aiuto non mi piaceva per niente. Non volevo essere, di nuovo, un peso per qualcuno.
«Continua Ariel, puoi dirmi qualunque cosa. Io- io non lo so ma c’è qualcosa in te che mi porta a fidarmi. Inoltre mi ricordi una persona davvero molto importante per me.» disse, guardandomi attentamente.
«Io ho, uhm, ho avuto casini con mio padre e sono scappata e ho preso un volo a caso, solo per stare il più lontano possibile da lui. Io sono qui per caso, non so niente di questa città, non ho un posto dove stare, non so dove andare o cosa fare.» dissi, guardando la strada, per non incontrare il suo sguardo, per non vedere la sua reazione. E poi successe. Mi aspettavo di tutto ma non un abbraccio e un ‘Stai tranquilla, ti aiuteremo noi’. All’inizio rimasi ferma, rigida ma poi ricambia, con una stretta leggera.
Fummo interrotte dall’arrivo di suo marito che ancora guardava il cellulare.
«Tesoro, ho-» si fermò, guardandoci stranito e con un sorriso divertito «Ehi, cosa sta succedendo? Thomas, tu ne sai qualcosa?» chiese Brad, confuso. Il piccoletto in risposta alzò le spalle.
«Lo prendo come un no, allora.», rise, scompigliando i capelli di Thomas e continuò «Volete spiegarmi?»
«Mi stava raccontando che non sa dove andare e non ha un posto dove poter stare, potremmo ospitarla noi? Solo-» disse, cercando di convincere il marito ma fu interrotta proprio da quest’ultimo che, sul viso, aveva un’espressione contrariata.
«Cosa? No! Non sappiamo niente di lei, non se ne parla. Potrebbe essere chiunque.» poi si girò verso di me «Scusa ma credo che anche tu, se fossi nella mia stessa situazione, avresti reagito così. Senti non sappiamo niente di te, di dove sei, la tua famiglia, quanti anni hai, il tuo cognome, il motivo per cui sei qui, a Sydney. Non posso fidarmi subito, al primo momento. Abbiamo bisogno di conoscerti prima, poi potremmo anche aiutarti. Verrai a casa nostra, adesso e durante il viaggio ci spiegherai un po’ la tua situazione. Poi ti troveremo un posto dove stare, magari un hotel vicino a noi, così se hai bisogno di qualcosa, ci raggiungi.» concluse, rivolgendomi un piccolo sorriso. Aveva ragione, anche io avrei fatto così e ad ogni modo, mi stavano già aiutando molto. Annui, mormorando un ‘grazie, davvero.’ e loro mi sorrisero. Brad, poi si girò verso Camille e continuò «Senti, Alec sta per arrivare, ha detto che si ferma in fondo alla strada, qui c’è troppo casino e poi non riusciremo più ad uscire. Andiamo dai, vieni Thomas, anche tu Ariel.» disse, prendendo le valigie e i borsoni e iniziando a camminare.
Camille mi affiancò, mentre teneva per mano il piccolo Thomas. «Alec è un nostro caro amico, è sposato e ha tre figli. Penso che abbiano la tua età, a parte la piccola Sophie, l’amichetta di questa piccola peste.» disse, rivolgendo il suo sguardo a Thomas che continuava a saltellare e faceva finta di combattere contro qualsiasi cosa. I bambini sono strani, pensai, ridendo per la scenetta.
«Oh, uhm, così la sua fidanzata si chiama Sophie; prima mi ha parlato di lei. Io, comunque, ho diciassette anni. Gli altri due figli come si chiamano, invece?» chiesi, con curiosità, sistemano la borsa sulla mia spalla.
«Hanno la tua stessa età, bene! Magari potrei farteli conoscere, sono davvero dei bravi ragazzi. La ragazza si chiama Mandy e il ragazzo Tyler. Oh, Tyler è davvero un bel ragazzo ma beh, sai, è gay ed è anche felicemente fidanzato.» disse, portandosi una mano alla bocca, per nascondere una piccola risata. Risi anche io. Avevo intenzione di conoscerli, almeno avevo qualche amico qui a Sydney.
«Oh, spero davvero di riuscire a conoscerli!» dissi, abbassando lo sguardo «Da dove arrivate tu e la tua famiglia?» chiesi, lei mi guardò confusa, non capendo. Mi schiarii la voce «Cioè, eravate all’aeroporto, avete fatto un viaggio, beh, cioè, dove siete andati?» chiesi, facendo un piccolo sorriso.
«Siamo andati a trovare i miei genitori a Londra, sai adesso ci sono le vacanze estive e abbiamo pensato di andare a trovarli.» disse, io annuii soltanto, non sapendo più cosa dire. «Uh, tu vai ancora scuola? Ti iscriverai in una scuola qui a Sydney, no?» mi chiese. Mi irrigidì. Non avevo di certo pensato all’argomento ‘scuola’. Come facevo adesso? Per fortuna, avevo tutta l’estate davanti e potevo pensare a cosa fare, se andare avanti o no.
«Io- io non lo so, in realtà. Non ho proprio pensato alla scuola e non saprei neanche dove iscrivermi o come fare. Non voglio abbandonare, però. Per fortuna, ho tutta l’estate davanti..» dissi, passandomi una mano tra i capelli, frustrata.
«Capisco. Per qualunque cosa, chiedi a noi.» sorrise, guardandomi e girando poi lo sguardo sul marito, che stava salutando con un abbraccio un uomo. «Quello è Alec Baker, il nostro caro amico. Ah, comunque, noi siamo la famiglia Ryan.» concluse, prima di raggiungere suo marito.
«Vieni, Ariel. Ti presento Alec, questa ragazza è Ariel, verrà a casa nostra oggi e poi per questa sera le troveremo un posto dove stare.» disse Brad, presentandomi al suo amico.
«Ciao Ariel, è un piacere conoscerti. Benvenuta a Sydeny!» disse con un sorriso, invitandomi a salire sulla macchina insieme agli altri tre. In risposta, sorrisi e mormorai un ‘grazie’, salendo e sedendomi sui posti dietro, insieme a Thomas e a Camille.
Aggiustai la valigia ai miei piedi e misi il borsone e la borsa sulle mie gambe.
«Allora, Ariel, hai voglia di raccontarci il motivo per cui sei qui?» mi chiese Brad, guardandomi dallo specchietto e io con un sospiro, iniziai a raccontare, a malincuore, tutto: dai miei primi giorni fino alla litigata con mio padre e alla mia partenza.
Loro mi guardarono con dispiacere e dissero che mi avrebbero aiutata, in qualunque modo.
«Qual è il tuo cognome, cara?» mi chiese Camille, mentre accarezzava la testa del piccolo Thomas che, durante il viaggio, si era addormentato sulle sue gambe.
«Io mi chiamo Ariel.. Hale.» dissi, abbassando lo sguardo sulla mia borsa di tela. Per un momento, tutti si fermarono. La tensione all’interno di quell’auto si poteva percepire benissimo, anche da lontano.
«Ma Hale non è-» iniziò a dire Brad, ma la moglie lo fermò subito.
«Come si chiamava tua madre, Ariel?» mi chiese Camille, guardandomi intensamente.
Cosa stava succedendo? Per caso, conoscevano la mia famiglia?
«Si chiamava Ambra», sorrisi, al ricordo di mia madre ma poi mi accorsi dello sguardo assente di Camille e continuai «Ambra Johnson. La conosci? Conosci la mia famiglia?» chiesi, ansiosa.
«Lei era la mia migliore amica.»
 
 
SAAALVEH
oh mio dio sono viva e scusatee, davvero, sono una cacca
comunque, ho abbastanza problemi a casa e si, non avevo voglia di scrivere
in questo caapitolo Ariel conosce la famiglia Ryan RICORDATEVI DI QUESTA FAMIGLIA, sono molto importanti
Poi si scopre che sua madre, Ambra, era la migliore amica di Camille uhm but buuut sua mamma era di Chicago oPS e niente, w i ragazzi con i capelli rossi
la mia crush infatti ha i capelli rossi LOL
e vabb, non so più che scrivere e addio
vi dico solo che ho già scritto il capitolo DUE UEHUEHUEHEH quindi lo pubblicherò presto
vabb,  vadOOO CIAO BELA CIENTAH

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2. ***


CAPITOLO 2


«Era la mia migliore amica.» disse, con sguardo perso. Cosa? Ma come facevano a conoscersi? Mia madre era di Chicago e lei era australiana. Camille parve cogliere il mio stato di confusione e continuò a parlare. «Io lo sapevo che c’era qualcosa in te, non so. Mi ricordavi troppo lei. Comunque, tua madre è australiana, è nata qui ed era la mia migliore amica, poi un estate incontrò tuo padre e si innamorò di lui, di uno stupido americano. Io sapevo che lui non era per niente giusto per lei e ora mi hai raccontato com’è andata a finire..» disse, con voce rotta, mentre delle lacrime le scendevano dagli occhi. «Ad ogni modo, tua madre scappò a Chicago con lui e da quell’estate non la vidi più. Mai più. I suoi genitori sono morti da molto ormai ma sua sorella vive ancora qui, ma non so che fine abbia fatto. Non ho più nessun legame con la famiglia Johnson ma adesso ci sei tu e ti prometto che, ti aiuterò Ariel, non ti lascerò da sola. Sei, pur sempre, la figlia della mia più grande amica.» concluse, stringendo la mia mano e sorridendomi. Ricambiai la stretta, ringraziandola con lo sguardo e fino alla fine del viaggio nessuno parlò.
Mia madre era australiana, aveva una famiglia qui. C’era sua sorella, non ero sola. Sarei potuta andare da lei, conoscerla e magari sarei stata lì.
Appoggiai la testa sul finestrino e guardando fuori, notai che stavamo attraversando un quartiere pieno di villette. Pian piano, la macchina iniziò a rallentare e ci fermammo davanti ad una villetta, di un color crema, circondata da un giardino ben curato.
«Eccoci qua, siamo arrivati. Scendi pure, Ariel.» mi disse Camille, mentre apriva lo sportello. Poi si girò verso Alec. «Grazie Alec, salutami Taylor e i ragazzi, ci vediamo!» disse, per poi dare il bambino a Brad, scendendo così dall’auto. Salutai Alec con un piccolo gesto della mano e scesi, avviandomi verso la villetta.
Brad, che era entrato in casa per portare il bambino in camera, uscì di nuovo per prendere le valigie e salutare con una pacca sulla spalla il suo amico. «Ci vediamo Alec, saluta tutti!»
«Certo, ciao ragazzi!» disse, facendo partire l’auto.
«Entra, Ariel.» mi disse Brad, mentre appoggiava le valigie nell’entrata principale. Io annuì e con passo incerto, entrai.
«Benvenuta nella nostra piccola dimora!» mi sorrise Camille, mentre, stanca, si sedeva sul divano.
«Allora, volete qualcosa da mangiare?» ci chiese Brad, avviandosi verso la cucina. Noi in risposta annuimmo. «Va bene, preparo della pasta al pesto.»
Mi guardai intorno e notai che molte foto erano appese al muro, altre erano sui mobili. Girai, poi, lo sguardo su Camille e lei mi sorrise.
«Ariel, per questa sera puoi sistemarti qui, nella camera degli ospiti. Domani cercheremo informazioni sulla famiglia di tua madre e ti aiuteremo a trovarla.» mi disse Camille, mentre mi invitava a sedermi sul divano, di fianco a lei.
«Grazie, davvero. State facendo molto per me, mi state aiutando molto e davvero, grazie.» dissi con voce debole, abbracciandola di scatto. Lei ricambiò subito.
«Vieni, ti mostro la stanza dove dormirai, così sistemi le tue cose.» mi prese la mano, conducendomi al piano superiore. C’erano molte porte, una era socchiusa e si poteva intravedere Thomas che dormiva, tranquillo, sul suo lettino. Intanto, Camille, mi mostrò tutte le camere e infine, arrivammo nella camera dove avrei dormito.
«Okay, allora, questa è la tua camera. Tu sistema le tue cose, io, intanto, scendo al piano di sotto. Ti chiamo quando è pronto.» mi disse sorridendo, avviandosi verso la porta, poi si girò di nuovo, «Ah, prima di scendere chiama anche Thomas.» io annuii e le sorrisi.
Iniziai a preparare un pigiama per la notte, un cambio per domani e li sistemai su una poltrona, vicino alla finestra. Poi mi affacciai e osservai il quartiere, era carino, tranquillo.
Mi avviai, poi, verso il letto, dove c’era la borsa. Cercai il mio cellulare all’interno ma, subito, trovai la foto che ritraeva me e mia madre. Continuai ad osservarla e nel mentre, mi tolsi le scarpe, sdraiandomi sul morbido letto.
Mi misi su un fianco e appoggiai la foto sul cuscino, vicino al mio viso, mentre un’ondata di ricordi passava per la mia testa. Presi, poi, il cellulare e notai tante, forse troppe, chiamate perse da parte di Frank e pensai subito ai miei amici. Li avevo lasciati, senza dire niente. La nostra era una compagnia unita, eravamo come una famiglia e la perdita di uno solo di noi, avrebbe cambiato molte cose all’interno del gruppo, avrebbe portato dolore. Il nostro era un  rapporto unito e solido e, ne ero sicura, avrebbero fatto di tutto per ritrovarmi o almeno, per riuscire a rintracciarmi. Siamo in sei e certo, non era la compagnia adatta da frequentare e tutti, infatti, si chiedevano come una ragazza come me, potesse farne parte. Ma erano troppo importanti, erano le uniche persone che tenevano a me e a cui io tenevo più di ogni altra cosa.
C’era Frank, il mio migliore amico; lui è la persona più squilibrata che si possa mai incontrare ma è, forse, una delle più buone. Un vero amico. E ogni volta che passavo del tempo con lui, mi trovavo sempre più d’accordo con il detto ‘Chi trova un amico, trova un tesoro.’, ed era vero, lui era il mio tesoro. Con tutti i suoi difetti, per me era, sempre e comunque, una delle persone più belle.
Frank Reynolds però era difettoso, beveva troppo e fumava troppo, e non solo sigarette, ma, mai e poi mai, avrebbe trascinato Ariel nell’oblio in cui era finito. Forse, nell’ultimo periodo si era lasciato andare con lei, facendole provare quello schifo e ogni giorno si pentiva di quei momenti. Ariel Hale era troppo pura per quella ‘merda’.
Poi c’era Rachel Reynolds, sorella di Frank e mia grande amica, la ragazza più estroversa dell’intero pianeta, un peperino, non stava un attimo ferma e questo lo sapeva bene Mark, il suo ragazzo. Anche lui faceva parte della compagnia, era calmo, il contrario della sua ragazza ed era di poche parole, ma era davvero un’ottima persona. Aveva una sorella, Sarah, anche lei mia grande amica. Lei era la migliore amica di Rachel, il loro era un rapporto da invidiare, come il mio con Frank, con un solo sguardo si capivano. E infine, c’era Ian, il migliore amico di Frank, con cui, quest’ultimo, passava la maggior parte del tempo e di conseguenza anche io. Eravamo davvero una bella compagnia e il pensiero di averli lasciati, senza avvisare, mi fece sentire in colpa. Così, con le mani tremanti, presi il cellulare e, dopo aver letto tutti i messaggi, chiamai Frank.
-Pronto? Ariel? Stai bene? Dove cazzo sei? Perché sei andata via? Mi hai lasciato, ci hai lasciato senza avvisarci, senza neanche un saluto.- sentii, la sua voce tremare e avvertii un peso allo stomaco, mentre delle lacrime scorrevano sulle mie guance.
-Frankie, mi dispiace così tanto, mi sento così in colpa, così male. Io-io avrei dovuto avvisarvi ma.. era troppo io non-
-Sh, non preoccuparti, stai tranquilla; non piangere, ti prego. Dimmi solo come stai? Dove sei? Hai, almeno, un posto dove stare?-
mi chiese, provando a tranquillizzarmi.
-Io.. Si, sto bene, sono lontana Frankie, molto. Ho trovato una vecchia amica di mia madre e lei mi sta ospitando a casa sua, poi ti spiegherò meglio ma ora, non- presi un respiro e continuai –Scusa, i-io avevo bisogno di  andare via; è che l’altra sera, quando sono tornata a casa mio padre, lui..- dissi, con voce tremante. Sentii un sospiro dall’altra parte della chiamata e immaginai il viso preoccupato e arrabbiato di Frank.
-Che cosa  cazzo è successo l’altra sera? Dio, quel verme.. Ti ha fatto qualcosa, Ariel?- mi chiese con voce calma, anche se, conoscendolo, era tutto l’opposto di calmo.
-Uhm.. lui- tentennai un po’, incerta su cosa dirgli e poi iniziai a parlare, raccontandogli la verità, tutto quello che era successo, fino al punto in cui uscii di casa con le valigie.
-Dio, quello stronzo! Ariel, m-mi dispiace così tanto, vorrei essere lì con te, dimmi almeno dove sei.-
-Io.. uhm-
fui interrotta dalla voce di Camille. La cena era pronta.
-Frankie, devo andare, è pronta la cena e io uhm..-
-Vai. Ti prego, stai attenta e chiamami.-
-Lo farò Frankie, sempre. Ti voglio bene, ciao, ci sentiamo.-
-Anche io Ariel, ciao piccola.-
sentii la chiamata chiudersi e lentamente, dopo aver poggiato il cellulare sul comodino, mi avviai nella camera di Thomas, per svegliarlo.
Quando entrai nella stanza, trovai solo il letto vuoto e sentii la sua voce al piano di sotto; si era già svegliato.
Scesi, allora, al piano di sotto, trovandoli seduti, con i piatti pieni, mentre aspettavano il mio arrivo.
«Siediti, Ariel, non sentirti a disagio.» mi disse Camille, mentre indicava il posto vicino a Thomas. Sorrisi, mormorando un ‘grazie’ e mi sedetti, iniziando a mangiare, come gli altri tre.
«Spero che la cena sia di tuo gradimento, Ariel.» Brad alzò lo sguardo dal suo piatto, sorridendomi calorosamente, aspettando una mia risposta.
«Oh, si, grazie, è davvero tutto molto buono.» gli risposi, sorridendo.
«Beh, sapevo che avresti risposto così!» mi guardò Camille, «Brad, ha un suo ristorante nel centro, abbastanza noto. E in casa nostra, le ottime portate non mancano mai.» rise, Camille e io la seguii.
«Uhm, tu..» mi pulii le labbra con il tovagliolo di stoffa e poi continuai, «Tu, invece, cosa fai? Se posso chiedere..» dissi, guardando Camille.
«Io, uhm, insegno all’università, insegno letteratura. Sai, sono affascinata da quella materia e sono affascinata anche dal modo in cui i miei alunni partecipano alle mie lezioni, sono davvero interessati. Davvero, trovo che insegnare la materia che amo, sia una cosa fantastica, condividere con loro, tutto quello che so. Imparare ogni giorno cose nuove, è davvero bello.» mi disse, mntre puliva il viso di Thomas, poi mi guardò sorridendo, «Ma ora raccontaci un po’ di te.» mi chiese, con sguardo incuriosito. La cena continuò così, io chiedevo a loro della loro vita e loro chiedevano della mia di vita. Continuammo a conoscerci per tutta la sera.
 
 
***
 
 
La mattina, mi svegliai con un senso di ansia. Oggi c­­'era la possibilità di riuscire a trovare l’altra parte della mia famiglia. Avrei conosciuto la famiglia di mia madre. Ero eccitata all’idea ma avevo paura di trovare quello che non mi aspettavo. Mi sarei dovuta accontentare in tutti i casi, non potevo, certo, stare in casa di Brad e Camille per sempre.
Mi alzai e mi avviai nel bagno della camera. Era la prima volta che avevo un bagno tutto mio e sarebbe stata, forse, anche l’ultima volta.
Presi il cambio pulito che, il giorno prima, avevo appoggiato sulla poltrona e mi chiusi in bagno.
Mi feci una doccia e mi vestii, lentamente, per allungare il tempo. Avevo troppa paura, sapevo che Camille stava già facendo ricerche e l’idea che li abbia trovati subito, mi spaventava ancora di più.
Scesi al piano di sotto, trovando Camille, seduta davanti al computer, mentre segnava un indirizzo su un foglio. Li aveva trovati. Volevo andare, subito; volevo vedere chi era la mia famiglia, che persone erano. Mi aspettavo di tutto.
Camille si accorse di me e mi sorrise, invitandomi a prendere posto vicino a lei.
«Buongiorno Ariel, hai dormito bene?» mi chiese, mentre, dopo aver segnato un numero di telefono su un foglietto, spegneva il computer.
«Oh, io.. si certo, sono solo un po' in ansia per oggi, ho paura di quello che mi aspetta..» dissi, abbassando lo sguardo. Lei mi guardò, annuendo e passandomi una mano sulla schiena, per tranquillizzarmi.
«Allora..» iniziò a parlare, schiarendosi la gola, «Ho trovato tua zia, ho tutto. Il suo indirizzo, il quartiere, il suo numero. Ho anche delle informazioni sulla sua famiglia che, alla fine, è anche la tua.» si aggiustò gli occhiali sul naso e poi continuò, «Sono in tre, lei, si chiama Emily e, te lo assicuro Ariel, puoi fidarti, la conosco, è davvero una brava persona. Poi c’è suo marito, Adam Samuels, non lo conosco, mai sentito questo nome e poi, hanno anche un figlio, penso sia poco più grande di te e si chiama Andrew.» io annuii in risposta, aspettando che continuasse, «Uhm adesso la chiamo, sul suo cellulare, ho trovato solo il suo numero e vediamo cosa si può fare; magari, riesci a vederli direttamente oggi, poi se non ti senti pronta, puoi rimanere da noi per tutto il tempo che vuoi. Sei sempre la benvenuta, lo sai?» mi disse, prendendomi le mani.
«Grazie, Camille, non ti ringrazierò mai abbastanza per quello che stai facendo, anzi, che state facendo. A proposito dove sono Brad e Thomas?» chiesi, infine, guardandomi intorno, cercando le due teste rosse.
«Oh sono andati a fare la spesa, tra poco è ora di pranzo e non avevamo, praticamente, niente in casa.» mi disse, mentre componeva il numero di mia zia Emily sul suo cellulare. Non mi ero neanche resa conto di che ore erano, avevo dormito così tanto? Camille, intanto, mise il vivavoce e partirono degli squilli che cessarono, non appena si sentì una voce sottile dall’altra parte della chiamata.
-Pronto?-
-Uhm, ciao Emily..-
-Chi parla, scusi?-
-Emily, sono io, Camille, ti ricordi di me? Io e tua sorella eravamo grandi amiche..-
-Oh, Camille! Quanto tempo.. oh mio dio! Come stai? Che fine hai fatto?-
fece una pausa e si sentì un sospiro, poi continuò, -Hai chiamato per.. Beh, immagino tu abbia saputo di mia sorella, Ambra. Ben, il suo vecchio marito, mi ha chiamata e mi ha detto tutto.. mi dispiace solo per mia nipote, dovrà stare da sola con quel verme..-
-Uhm, si lo so e mi dispiace molto, non mi sarei mai immaginata una cosa del genere. Comunque, sto bene, adesso ho una famiglia bellissima e non potevo chiedere di meglio..-
disse, con gli occhi lucidi, -Senti, per quanto riguarda tua nipote.. Ariel, lei è scappata e uhm, si perché non parli direttamente con lei?- concluse Camille, guardandomi con sguardo incoraggiante.
-Cosa? Mia nipote è da te? Che sta succedendo?- sentii la confusione nella sua voce e così, mi decisi a parlare.
-Uhm ciao zia, sono io Ariel.. io ho, um, avuto una brutta discussione con mio padre e i-io sono scappata e ho preso il primo aereo e quando sono arrivata a Sydney ho incontrato Camille e lei mi ha parlato di te e di mamma, prima che partisse per Chicago..-
-Oh mio dio, Ariel! Voglio vederti.. Mi dispiace così tanto, non ti meriti tutto questo, piccola mia..-
disse, con voce tremante. Sentii gli occhi pizzicarmi.
-Senti, Emily, uhm, sono io, Camille.. Io ti ho chiamata per.. per chiederti una cosa.- disse, prendendo un respiro, -Ariel.. Cioè tu sei la sua unica famiglia qui e non sa dove andare e si, ci sei solo tu.. Non uhm, potres- fu interrotta dalla voce tremante di mia zia.
-Si, Ariel, puoi venire qui, io ti voglio vedere, voglio starti accanto, sei rimasta solo tu nella mia famiglia.. Puoi venire anche oggi, nel pomeriggio, la stanza di mio figlio è per due persone e tanto lui non c’è quasi mai..Vieni, ti prego..- concluse infine. Mi si riempì il cuore di gioia, avevo trovato la mia vera famiglia. Avevo trovato qualcuno che teneva a me. Accettai subito. Ci saremmo viste dopo pranzo, dovevo solo preparare tutte le mie cose e l’avrei vista.
 
 
***
 
 
Mi trovavo in questo quartiere, non molto lontano da quello di Camille e Brad. La macchina era parcheggiata davanti a questa palazzina. C’era solo Camille, Brad era rimasto a casa con un Thomas addormentato. Il quartiere non sembrava molto sicuro e nuovo, rispetto a quello in cui mi trovavo dieci o quindici minuti fa. Camille mi guardava, in attesa di un mio movimento.
«Sei pronta?» mi chiese, guardandomi, per poi spostare lo sguardo sul quartiere, guardandosi intorno.
«Sono pronta, si. Ho solo un po' di ansia, sto per vedere una parte della mia famiglie che.. beh, non ho mai incontrato.» dissi, guardando il portone della vecchia palazzina, dove sarei andata a vivere.
«È normale che tu sia in ansia, lo sarei anche io se fossi nella tua stessa situazione... Bene, prima di andare, volevo solo dirti che.. uhm tra due settimane, circa, faremo una festa a casa mia per dare il benvenuto.. alla piccola, sai mancano solo tre mesi e comunque, tu sei inviatata.. Ci saranno anche i figli di Alec, così ti farai degli amici!» mi disse, giocando con i braccialetti che aveva al polso.
«Oh, grazie Camille, ci sarò, di sicuro.. Uhm, allora, io vado..» dissi aprendo lo sportello, prima di scendere, però, abbracciai Camille ringraziandola.
«Oh, Ariel, sei sempre la benvenuta, per qualunque cosa chiamami, tieni..» disse, prendendo  un foglietto dalla borsa e porgendomelo, «Questo è il mio numero, fatti sentire, ti prego..» concluse, sorridendomi. Annuii in risposta e presi le mie valigie, poggiate nei sedili posteriori.
Mi girai e mi avviai verso la palazzina, trovandomi davanti al grande portone. Cercai ‘Johnson’ sul campanello e suonai. Camille era ancora ferma, mentre aspettava che entrassi nella palazzina.
Sentii un ‘Chi è? Sei tu, Ariel?', io risposi con un si e sentii la serratura del portone scattare. Lentamente entrai e aspettai nell’atrio, l’arrivo di mia zia. Quando mi girai per vedere la macchina di Camille, trovai solo il marciapiede rovinato. Era andata via. I miei pensieri furono interrotti da una voce sottile, la stessa che avevo sentito durante la mattina, al cellulare.
«Ariel.. oh mio dio, sei uguale a lei, a mia sorella..» disse mia zia, raggiungendomi e abbracciandomi. Ricambiai subito, stringendola più forte.
«Vieni, andiamo, prendi le tua valigie..» mi disse, avviandosi verso l’ascensore. Arrivammo al terzo piano e ci fermammo davanti ad una porta rovinata, sul campanello la scritta ‘Samuels-Johnson’ era poco visibile, anch’essa rovinata con  il passare del tempo.
Mia zia mi guardò, aprendo la porta e disse un ‘Benvenuta, Ariel.’
 
 
 
 
 
 
SAAALVE SALVINOOoOoOooOo
con prsto intendevo, dieici minuti circa dopo si LOL
Non so cosa scrivere um
Ariel ha incontrato, finalmente, sua zia e si è trasferita da lei e si niente non so davvero cosa scrivere.. … …
. . .
. . ….
AH SI
si tipo che dovrete aspettare uno o due capitoli per i 5 esse o esse xd
bc non so se farli apparire magicamente nel prossimo capitolo come delle fatine con il tutù o dopo rydo
eh si
scherzavo sul fatto delle fatine LOL
dobbiamo ancora aspettare ueueueue
e comunque
nel prossimo capitolo succederanno tante belle coOOoOooOse
ora vadoOOo addio
[adoro scrivere la oOOoOoO così e si niente ciao siete bllxm mi dileguo evaporo puff addio]
 

 
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3144495