Quando il gioco si fa duro, l'ufficio alle relazioni babbane inizia a giocare

di udeis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Harry Potter ***
Capitolo 2: *** Magia involontaria ***
Capitolo 3: *** Divinazione ***
Capitolo 4: *** Margaret ***
Capitolo 5: *** Reduci ***
Capitolo 6: *** Reverendi e gatti mannari ***



Capitolo 1
*** Harry Potter ***


L’ufficio alle relazioni babbane al completo mi aveva raggiunto al Paiolo Magico in cui io mi ero rifugiato da circa un’ora. L’atmosfera non era delle più allegre.
“John, finalmente! Abbiamo dovuto chiedere a Davis di usare uno dei suoi trucchi per rintracciarti!” Disse Bill accomodandosi al mio tavolo.
“Non credevo che qualcuno sapesse davvero usare le sfere di cristallo.” Commentò Sean sedendosi accanto a me.
“È perché sei appena uscito da Hogwarts, piccolo.” Rispose Bill. “La vecchia pipistrella non è uno degli esempi migliori di veggente a quanto ne so…”
“Per poco non chiamavo tua sorella, John!” Intervenne Astoria.
La fissai spaventato. Interrompere Arabella durante i suoi esperimenti serali voleva dire morte certa.
“Eravamo preoccupati, John, sparisci senza dire niente nell’unico giorno che passi al Ministero! Pensavamo ti fossi sentito male.” Spiegò Lionel.
“Non l’abbiamo fatto.” Mi rassicurò Astoria, quando vide che il mio sguardo di terrore non era ancora sparito.
“Certo che non l’abbiamo fatto! Non ce n’era più bisogno. Avevamo saputo la notizia.” Disse Arthur, cupo come il rintocco di una campana funebre.
Io non dissi niente e mi ostinai a guardare il mio bicchiere. In quel momento lo vedevo inesorabilmente mezzo vuoto.
“Non è un nato babbano John, lo sai bene.“ Iniziò a consolarmi Astoria battendo con gentilezza una mano sulla mia spalla.
“Ma è come se lo fosse, Astoria, lo sanno tutti che ha vissuto con alcuni di loro fino ad adesso.” Intervenne Arthur a mio favore. “è la notizia del momento!”
“Erano i suoi zii materni, Arthur e qualcosa gli avranno raccontato per forza. Lily Evans, dopotutto, era una strega.” Specificò Astoria.
“Sì, ma sono babbani, Astoria, per quanto le due sorelle potessero essere legate, c’è un limite a quello che avrà saputo sulla guerra e sul mondo magico.” Le rispose Lionel.
“È vero! Pensa ai maghi che hanno qualche parente babbano, non per questo sanno di più sul quel mondo.” Lo appoggiò Sean, poi, arrossendo, aggiunse. “Io ho dovuto studiare un sacco.”
“Perfino i nati babbani, dopo sette anni ad Hogwarts, fanno fatica a comprendere il loro mondo d’origine! Prendi mia moglie: non credo si ricordi come si lavano i piatti senza una bacchetta magica.” Gli diede manforte Bill.
“Siete tutti contro di me, vedo.” Disse Astoria stringendo le labbra. “Comunque la situazione non cambia: non è un nato babbano e anche se non conosce il mondo magico a menadito, è sicuramente in possesso delle informazioni principali. Non ha bisogno di noi.” Sentenziò con decisione.
“Era un compito del nostro ufficio, invece!” Dissi rompendo il mio silenzio alcolico.
“Diciamo che volevi farlo tu.” Insinuò Bill con un sorriso.
“Certo che volevo farlo io, sono quello con maggiore esperienza nel nostro ufficio, ma mi sarebbe andato bene se fosse stato uno di voi.”
“Non sottovalutare i tuoi colleghi, ti dispiace, John? Non è carino.” Mi rimproverò Astoria, indispettita.
“Non vi sto sottoval…. Sottovalutando! Stavo solo dicendo che…” Provai a spiegarle, ma Lionell mi interruppe con una domanda decisamente retorica: “Non l’hai presa per niente bene, eh?” Distribuì le bevande e si sedette accanto a me, attorno a noi ci fu un generale stringersi nelle spalle. Nessuno di noi l’aveva presa bene.
“Ha ragione: avrebbero dovuto lasciarci fare anche questo annuncio, visto che i suoi zii non rispondono alle lettere. È il nostro lavoro! Chi, meglio di noi?“ Esclamò Arthur irato.
Gli feci un ampio gesto d’assenso e mi tuffai in silenzio sul mio nuovo bicchiere.
“Tutta colpa di Silente.” Sospirò Lionel aggredendo il suo primo bicchiere di Wisky incendiario. “Se non si fosse messo in mezzo, ci scommetto che sarebbe toccato a noi. E a quest’ora staremmo festeggiando.”
“Maledetto Caramell! Sei un vigliacco!” Imprecai io con veemenza.
“Caramell non saprebbe nemmeno trovare il bagno senza Silente, lo sanno tutti. Figuriamoci se questa volta prendeva una posizione chiara.” Disse Bill con rabbia appropriandosi del suo bicchiere.
“Ma Silente avrà avuto le sue buone ragioni, non credete?” Chiese timidamente Sean, il traditore.
“Di sicuro è un modo per proteggere il bambino.” Annuì Astoria.
“Proteggerlo da chi? Da cosa?” Scattai io.” Se tutti quanti non vedono l’ora che vada ad Hogwarts per sapere se è un nuovo Signore Oscuro o un nuovo…. Un nuovo Silente!”
“Magari Silente pensa che qualcuno degli ex-Mangiamorte  abbia già un’opinione in merito e possa decidere di agire di conseguenza” Mi rispose Astoria accalorandosi.
“I Mangiamorte sono ad Azkabam, Astoria.” Le risposi.
“Non tutti.”
“Già, gli altri non sono così stupidi.” Sputai con cinismo e continuai la mia inoppugnabile argomentazione: “se fosse stato preoccupato della sua sicurezza avrebbe mandato degli Auror. Invece ha mandato quello stupido…ibr..mezzo-gigante che non può neanche usare la magia. Persino io avrei potuto gestire un paio di Mangiamorte meglio di quell’ idiota!”
“John!” Esclamò Astoria indignata.
“Non mi diventerai un razzista proprio adesso? Hai resistito così tanto…” Mi reguardì Bill, che non rinunciava mai all’occasione di fare del buon sarcasmo, se poteva, soprattutto se l’argomento erano le mie supposte inclinazioni per le arti oscure e la purezza di sangue.
“Il suo lato oscuro è finalmente uscito fuori! Dovresti esserne felice anche tu, Astoria, ce l’abbiamo fatta!” Rise Arthur. “È un vero Serpeverde, finalmente!”
Li ignorai: sapevo di aver ragione.
“Però, è stata una scelta strana” Ponderò Sean.
“Strana? Nessuno sano di mente affiderebbe il proprio figlio a uno sconosciuto alto due metri, con il cervello di un topo e la barba da Magiafuoco. Non puoi pretendere che un ibrido ignorante si presenti da dei babbani senza che niente vada storto! Aggredirà quei babbani e loro chiameranno la polizia, già lo so, e manderà al diavolo le norme di segretezza! È stata una scelta insensata! E folle! Solo che nessuno ha il coraggio di dirglielo, perché lui è un fottuto eroe e gran cervellone!”
“È il nipote, John, non il figlio.” Precisò Astoria, piccata, interrompendo la mia filippica. “È un figlio.” Le risposi io, testardo, mentre sostenevo il suo sguardo infuriato con pari ardore. “L’hanno cresciuto loro, Astoria.” Aggiunsi.
“E Silente è un grande mago e il migliore preside che Hogwars abbia mai avuto.” Continuò lei pericolosamente vicina a perdere del tutto le staffe.
“Questo non lo rende infal... infallibile! E poi è vecchio.”
“E questo che significa?” Si inalberò lei, che era, effettivamente, la più anziana del gruppo.
“Comunque è sempre stato un tipo strano, Silente, non lo si può negare…” Intervenne Sean con la cautela di chi cammina su un campo minato e vuole evitare di saltare in aria.
“Oh sì, ricordo che quando ero ad Hogwars ha avuto un paio di trovate davvero strane. Come quel musical che aveva proposto per Natale…” Gli diede manforte Bill, allegramente.
Astoria ed io storcemmo le labbra in un’identica smorfia di disgusto: quel musical era la cosa peggiore che ci fosse capitata ad Hogwarts. Bill e Arthur scoppiarono a ridere di gusto. Arthur divenne nostalgico: “sì era stato molto divertente: soprattutto quando erano esplosi i fuochi d’artificio: mi ricordo che si erano bruciati i costumi di scena e poi…”
“Secondo me, non rispondono alle lettere perchè hanno paura di perdere un altro familiare.” Intervenne Lionel precipitosamente, prima che io o Astoria potessimo sotterrare l’ascia di guerra e lanciare un duplice incantesimo contro i nostri supposti amici. Certe faccende non vanno mai rinvangate e loro lo sapevano bene. “Insomma, prima Lily e James, morti in un modo così insensato, poi questa storia di Harry… Immagino che sarebbe terribile pensare di poter perdere anche il loro nipotino…” Continuò Lionell meditabondo.
“Effettivamente tutta la faccenda di Tu-Sai-Chi non è mai facile da spiegare…” Fu d’accordo Sean.
“Giusto, Giusto! Come può un ritardato del genere anche solo provare a spiegare cos’è Hog… Hogwa, la scuola di magia?” Intervenni io alterato.
“Hogwarts.” Mi corresse Arthur.
“E cos’ho detto?”
“Guarda che Hagrid ci ha passato la vita ad Hogwarts.” Precisò Astoria, nuovamente irritata.
“Ma non sa niente di magia. Io sì!” Poi aggiunsi magnanimo. “Noi sì!”
“Secondo me è meglio se smetti di urlare, John. Ci stanno fissando tutti e mi fai venire mal di testa.” Si intromise Lionel, serafico, al suo terzo bicchiere.
“Altrimenti dovremmo presenziare al tuo processo.” Aggiunse Bill, triste.
“Che processo?” chiese Sean, l’ingenuo.
“Quello per disturbo alla quiete pubblica.” Continuò Bill.
“È solo ubriaco. Nessuno ha mai denunciato un ubriaco.” Disse Arthur.
“Perché nessuno si ricordava cosa aveva fatto: erano tutti nelle stesse condizioni.” Lo azzittì Astoria, stizzita. “Ma questo non vuol dire che io me lo scorderò, mio caro John.” Aggiunse vendicativa.
“Parli per esperienza personale?” Si interessò Bill.
“Può darsi.” sorrise lei.
Li ignorai tutti: ero troppo concentrato sul mio dolore. E avevo capito la metà di quello che avevano detto.
“Dopo anni di onorato servizio.” Iniziai.
“Per noi sarai sempre il migliore, John!” Disse serenamente Sean. Quel ragazzino si stava prendendo decisamente troppe libertà nel ultimo periodo.
“L’ha proprio presa sul personale, non c’è niente da fare.” Disse Lionel scuotendo la testa.
“Lascialo sfogare, domani starà meglio. È un duro colpo per lui. Lo è per tutti noi.” Disse Arthur arrabbiato almeno quanto me.
“Non è un buon motivo per comportarsi così. Ci sono anche i miei di anni di onorato servizio che vengono gettati alle ortiche!” Gli rispose Astoria irritata.
“E i miei no?” Si aggiunse Bill.
“E Minerva non si è neanche degnata di dirmelo di persona.” Continuai io, ignorando il loro fastidioso battibecco.
“È un periodo pieno per tutti questo. Lei è la vice preside, sarà impegnata.” Disse Astoria con il tono di chi non crede a una singola parola di quello che ha appena finito di dire.
Minerva era anche una sua cara amica e nemmeno lei aveva ricevuto spiegazioni.
“Magari non lo sapeva.” Si intromise Sean
“O non aveva il coraggio di affrontarci.” Aggiunse Arthur.
“L’ho dovuto sapere da Malfoy!” Mi disperai.
“Utili, certe vecchie conoscenze!” esclamò Bill
“Ted ti sembra meglio?” Disse Arthur mesto. “Scommetto che lo sa che sono stato io a farlo trasferire.”
“Io invece l’ho saputo dalla Umbridge,” mormorò Astoria depressa e aggiunse “Quella vacca.”
“Se non me l’aveste detto voi, invece, io non avrei saputo niente.” Si intromise Sean interrompendo la nostra personale fiera del patetico.
“E perché sei nuovo: nessuno ti odia ancora abbastanza per farti sapere cose del genere.” Gli spiegò Bill, caustico.
“Tu da chi l’hai saputo?” Gli chiese Sean.
“Non vuoi veramente saperlo.” Gli disse Bill.
“Io ho sentito un gruppetto di maghi che ne parlava in ascensore.” Disse Lionel fuori tempo massimo, tornando per un attimo tra noi e interrompendo Bill appena prima di una delle sue fulminanti battute.
“Era la mia grande occasione.”
Sospirammo: avrebbe potuto esserlo per ognuno di noi.
“Sarei passato alla storia.”
Passammo il resto della serata in vari stadi di ubriachezza ad insultare il mondo magico, il Ministero, Caramell, Silente e Tu Sai Chi. Cercammo, cioè, di farci passare l’irritazione, riuscendo solo ad ubriacarci sempre di più e lanciandoci in conversazioni assurde come la seguente. (L’unica che effettivamente mi ricordi).
 
“Oh adesso basta!” Urlai sbattendo il boccale sul tavolo
“Che c’è John? da quando sei diventato amico di Caramell?” Mi aggredì Bill.
“Io non sono suo amico! È… è un coso, sì, di quelli che strisciano!” Gli risposi, cercando di spiegargli il mio punto di vista.
“Un basilisco?” Chiese Lionel
“Cosa?”
“I basilischi lo fanno, strisciano! Li ho visti io!”
“Se ne avessi visto uno saresti morto Lionel.” Gli rispose Bill appoggiando una mano sul suo braccio con circospezione.
“Caramell non è assolutamente uno di quei cosi. Quei cosi hanno i denti.” Intervenni cercando di mantenere il filo logico del discorso. Perché continuavano tutti ad interrompermi?
“Perché, Caramell non li ha?” Chiese Arthur.
“Sì, ma lui li usa per mangiare il pollo, non... tutti gli altri.”
“è un verme.” Disse Sean, trionfante.
“Chi? Il basilisco?” Domandò Arthur.
“Al limite è un serpente, Sean, è troppo grosso per essere un verme, sai secondo il terzo principio di Adalbert Incant…” Intervenne Lionell, didascalico.
“No, John voleva dire che lui è un verme.” Specificò il ragazzino.
“È ubriaco, ma non è mai stato il tipo con una bassa autostima, Sean. John non si darebbe mai del verme.” Lo corresse Astoria, mentre Lionell e Arthur annuivano solennemente.
“No, Caramell è un verme!”
“Bravo, ragazzo! Fai bene a prendere posizione, non come John che lo difende.” Disse Bill.
“Io non volevo difenderlo. Io volevo solo dire… Dire che non è colpa sua.”
“Vedi che lo stai difendendo?” Mi attaccò Bill.
“Non vorrai dare la colpa a Silente, eh!? Tu Brutto idiota! Pezzente figlio di una strega malata di spruzzolosi…”
Era impressionante come Astoria riuscisse a dire la parola “spruzzolosi” anche da ubriaca.
“È tutta colpa di Tu sai Chi!” Urlai per cercare di zittirla.
Cadde il silenzio. Un silenzio molto pesante e decisamente confuso. E io ne approfittai per continuare in pace il mio discorso, piuttosto soddisfatto dell’effetto delle mie parole.
”Se lui non avesse iniziato la sua stupida guerra tutto questo non sarebbe successo.”
La mia dichiarazione fu accolta da sguardi vacui e incomprensione.
“Pensateci: non ci sarebbe nessun ragazzo che è sopravvissuto e noi non avremmo potuto avere l’onore di parlargli”
“Eh?”
“Per colpa sua noi facciamo la figura degli idioti davanti a tutto il Ministero.” Semplificai.
La mia dichiarazione fu seguita da un coro di: “giusto!”, “Che stronzo! Non gli bastava tutto quello che aveva fatto.”, “Ma che muoia!”
Purtroppo circa cinque minuti dopo eravamo passati da una giusta e irrazionale ira verso Tu-Sai-Chi, Caramell, il Ministero e i basilischi a un momento di profonda depressione seguito al pensiero: “Colui che non deve essere nominato ha ucciso i miei famigliari, i miei amici e mi ha terrorizzato per anni.” Fu un momento penoso.
Poi Bill ruppe il silenzio affermando che Caramell avesse una cotta segreta per Silente. Badate bene, non usò proprio queste esatte parole, ma il concetto fu ugualmente chiaro.
“Come lo sai?” Chiedemmo, sconvolti.
“Bè, ci sono tutti i segni no?” Ci rispose.
“Intendi dire i succhiotti?” Indagò Lionell.
“Cosa?” Chiesi io scandalizzato.
“Ma che shifo!” Si indignò Astoria.
“Albus Silente non è così sciocco da lasciare indizi così evidenti.” Ci spiegò Bill, seccato dalla nostra mancanza di intelligenza, ma grato di essere al centro dell’attenzione.
“Ma voi avevate detto che lo era!” Si difese Lionell, sperduto.
“Certo che no, ma come ti permetti!” Astoria si lanciò subito in difesa del suo eroe.
“Lo avete detto voi, lo abbiamo detto tutti per tutta la sera, perfino John!” Continuò Lionell sempre più confuso.
“Io non ho mai detto niente del genere, certo ho affermato che ormai avesse una certa età, ma non avrei certo mai detto che…” Mi difesi.
“Una certa età? Non è molto più vecchio di te!” Sogghignò Arthur.
“Come ti permetti io sono molto più giovane! Lui era il mio professore!” Protestai.
“Caramell era un professore?” Chiese Sean, riemergendo dalle complicate e serissime riflessioni che a quanto pareva riguardavano il suo tovagliolo e il modo corretto di usarlo.
“Certo che no! Non sa neanche dove ha la bacchetta quell’idiota!” Proruppe Astoria ancora sul piede di guerra.
“Perché non ce l’ha in tasca?” Chiese Lionel.
“Ma allora chi…?” Chiese Sean sconcertato.
“Insomma lui continua ad inviargli lettere vuole sempre parlare con lui, fa sempre quegli incontri per discutere di politica…” Continuò a spiegare Bill come se non avesse subito nessuna interruzione.
“Figurati se Silente si mette con un idiota come Caramell. Lui ha bisogno di una persona alla sua altezza!” Lo difese ancora Astoria, la paladina.
“Per questo non è sposato!” Conclusi io, soddisfatto.
“Non ci sono tante persone così alte, effettivamente” Ammise Arthur, dandomi ragione.
“Magari preferisce le donne.” Disse timidamente Sean.
“La Umbridge, di sicuro, ha una cotta per lui!” Rivelò Bill.
“Si può sapere come lo sai?” chiese Arthur.
“L’amore non è bello se non è litigarello.” Commentò Lionel allegramente, rigirando piano il contenuto del suo bicchiere.
“Ma se Silente la ignora!” Intervenne Astoria.
“Non ha detto che è ricambiata!” Ribattei io.
“Però chi disprezza compra.” Rispose Lionell, rispolverando l’ennesimo proverbio.
“Oppure scommetto che la Umbridge è gelosa di Silente perché ama Caramell!” Disse Bill. “Gli sguardi di fuoco, l’insistenza con cui lo vuole vedere da solo: questi sono indizi chiarissimi!”
“Davvero?” Chiese Sean.
“Non ci credo.” Disse Lionel.
“Che schifo!” Esclamai io.
“Poverino ci credo che è stressato. Quei due non sono facili da gestire.” Commentò Astoria comprensiva.
“Certo che con un paio di pozioni di bellezza, la Umbridge non sarebbe così male.” Meditò Arthur.
“Un paio? Ma quanto hai bevuto!? Quella donna sembra un rospo, gli ci vuole un intero paiolo….” Disse Bill, sconvolto e scandalizzato.
“E ancora non basterebbe!” Aggiunsi io. Quella di Arthur era una seria offesa al buon gusto che non poteva essere tollerata.
“Potrebbe provare con una pozione lisciante.” Suggerì Astoria.
“Perché?” Chiesi, proprio non capivo come quel genere di pozione potesse essere di qualche aiuto. Astoria lanciò uno sguardo d’intesa a Bill e fece una smorfia disgustata.
“Per i capelli, John, sono così… Orrendi…”
“Si potrebbe chiedere a Lucius Malfoy.” Propose Lionel.
“Per i capelli? O per la pozione?” Chiese Sean.
“Entrambi! Non hai visto quanto sono perfetti?”
“Dici che usa una pozione?”
“ Sicuro.”
“No, non è vero.” Li interruppi io. Non ricordavo di aver mai visto girare Malfoy con nessuna pozione quando eravamo ancora ad Hogwarts, ma i suoi capelli erano perfetti anche allora.
“Però devi ammetterlo, John, quei capelli sono sospetti.” S’inserì Arthur. “Così lisci, così brillanti, sempre in perfetto ordine. Non è umano!”
“Magari è magia oscura.” Meditò Astoria.
“Un’incantesimo tramandato di generazione, in generazione nella sua famiglia.” Continuò Bill. “Anche il figlio, in effetti,  ha gli stessi capelli…”
“Quella si chiama ereditarietà, Sean. Comunque non ricordo niente del genere.”
“Perché sei ubriaco!” Esclamò Lionel, suscitando le risate dell’intera tavolata.
“Chissà su Hagrid, che effetto farebbe la pozione…” Si chiese Bill.
“Probabilmente lo scambierebbero per cugino It” Gli risposi.
“Chi?”
“Quello della famiglia Addams, avete presente?”
“Sono tuoi parenti?” domandò Sean.
“No, cioè… loro sono… Lasciate perdere.” Mi arresi, a volte dimenticavo che non tutti avevano la mia cultura babbana, nel mondo magico.
“Si potrebbe provare con un filtro d’amore.” Disse Astoria con il tono di chi, dopo averci pensato a lungo è arrivata a una soluzione geniale.
“Vuoi provarlo su Hagrid?” Mi informai io.
“Vuoi fare innamorare Hagrid di Malfoy?” Chiese Bill improvvisamente molto interessato.
“Cosa? No, per la faccenda dei capelli e tutto il resto.” Spiegò Astoria confusamente.
“Hagrid ama i capelli di Malfoy?” Domandò Lionell.
“No, no, no. Ragazzi Intedeva dire che in realtà Hagrid ama Umbridge.” Fece chiarezza Sean con una strana autorità.
“Ma lei odia gli ibridi!” Esclamai. “E dai Astoria non mi guardare così, è vero!” Aggiunsi vedendo che la mia collega si stava di nuovo irritando.
 “Questo non significa che tu debba usare il suo stesso linguaggio!” obbiettò lei.
“Una storia tormentata, ottimo! Sono le più romantiche!” Disse Bill interrompendo l’inizio del nostro ennesimo litigio.
“Da quando ti piacciono le storie d’amore?” Si informo Sean.
“Dai tempi di Mirtilla Malcontenta.” Rispose.
“Amavi Mirtilla?”
“No, ma lei si era presa una cotta per Pix.”
“E comunque io volevo dire, la pozione insomma, per la Umbridge e coso! Dai, il ministro.” Disse Astoria riprendendo il discorso e rischiando di rovesciare tutti i bicchieri per l’enfasi.
“ Vuoi che Silente si innamori di entrambi?” Chiese Arthur.
“No voglio dire che…”
La discussione andò avanti ancora a lungo. So per certo che la concludemmo solo dopo una serie di ragionamenti oscuri e contorti, affermando che se non potevamo essere noi ad annunciare il suo futuro ad Harry Potter, tanto valeva che fosse Hagrid, o un Avvincino, -“Sono entrambe creature magiche no?” “Che cavolo dici gli avvincini non sanno parlare, John!” “Ma questo non vuol dire che non abbiano un’anima.”- e non qualcun altro del Ministero. Quello che non ricordo è se alla fine decidemmo di spedire davvero quella pozione lisciante alla Umbridge e consigliandole di puntare su Caramell, invece che su Silente, perché il Ministro era senza dubbio una preda più facile.
In qualche modo riuscimmo anche a tornare a casa senza grandi incidenti: a parte la secchiata d’acqua gelida che raggiunse me e Astoria mentre cantavamo “il vecchio mago Odd” lungo la strada per il ritorno e il fatto che Bill sbagliò camino e si risvegliò su un divano sconosciuto da qualche parte in Scozia.
 
Il giorno in cui Il Bambino Che Era Sopravvissuto venne a Diagon Alley, noi fummo tra quelli che gli stringemmo la mano.
 
 
                                     
                                     
 
                         
Ciao a tutti e innanzitutto grazie di aver letto. Questa raccolta come già detto parlerà di qui momenti in cui l’ufficio delle realazioni babbane entra in gioco con tutta la sua magnifica competenza, anche se, in questo caso, non si può proprio dire che abbia fatto molto. Questa raccolta appartiene alla serie “L’ufficio alle relazioni babbane e le sue disavventure.” che spero vi farà piacere leggere, se ancora non la conoscete. Le recensioni sono sempre ben gradite.
E ora passiamo alla storia.

Probabilmente i miei ubriachi non sono molto credibili, visto che dicono frasi per lo più compiute e sensate, ma non avevo voglia di soffermarmi più di tanto sull’aspetto linguistico della faccenda. Ogni tanto ho fatto qualche prova, ma per lo più mi sono limitata ad abbassare i freni inibitori dei miei personaggi e a fargli fare discorsi strani. (poi considerate che all’inizio della vicenda l’unico un po’ ubriaco è John Tokai, gli altri sono per lo più sobri.)
Ogni suggerimento su come rendere gli ubriachi e i loro discorsi è più che gradito.
Ah, lo so che Sean e Lionel parlano di meno, ma per come la vedo io gli altri quattro sono amici e colleghi da più tempo quindi, ovviamente sono più a loro agio. Se volete conoscere altro dei colleghi dell’ufficio alle relazioni babbane vi rimando a questa storia, dove affrontano un problema molto simile. Ovviamente spero che andrete a leggerle e che vi fermiate a commentare.

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Capitolo 2
*** Magia involontaria ***


Ore 7.30, 10 Giugno.
Un gufo dall’aria ufficiale planò in sala da pranzo e atterrò sulla tavola a poca distanza dalla mia colazione, arruffò le piume con aria d’importanza e mi tese una zampa. Gliela liberai e presi la lettera.
“È per me papà?” chiese eccitata e speranzosa, mia figlia Emily. “È la mia lettera per Hogwarts?”
“No, la tua lettera arriverà verso Luglio. Questa è la mia lista.”
“Puntuale come un orologio svizzero.” Commentò mia moglie Agata.
Era vero: la lettera del Ministero arrivava ogni anno alla stessa ora, dello stesso giorno e con lo stesso gufo. Avvisare le famiglie dei nati babbani era un lavoro molto serio e richiedeva precisione, competenza e una marea di tempo.
“Dai papà facci sentire!” Urlò eccitato Bill, il minore dei miei due figli.
Scorsi la lista con aria attenta sorseggiando il mio caffè.
“John Holmes, Sherlock Watson, Geraldine Julie…” iniziai a recitare io con aria seria, mentre i miei figli ridevano.
Leggere i nomi più strani della mia lista e incoraggiare i miei figli ad immaginare le avventure di questi futuri maghi faceva parte del mio personalissimo metodo per evitare le domande, i pianti e le suppliche tipici di qualsiasi giovane mago non ancora iscritto a Hogwarts. Funzionava abbastanza bene: forse non fermava del tutto la marea delle domande, ma almeno evitavamo i pianti e le suppliche. Bill ed Emily erano troppo impegnati ad immaginare le avventure dei miei nati babbani, per ricordarsi che loro sarebbero rimasti a casa.
Creavano sempre delle storie incredibili per quei giovani maghi ed io ed Agata ci divertivamo un mondo a sentire quelle assurdità: i giovani maghi della loro fantasia sfidavano le acromantule, entravano nella stamberga strillante, combattevano giganti e cavalcavano ippogrifi, ma tornavano ad Hogwarts sempre senza un graffio. E cosa ancora più strana, non venivano mai espulsi.
 
“Romualdo Pickwick, Blue Sad, Jacinta Flower…”  Continuai.
 
Il piccolo rise come un matto, mentre Emily tentava di restare seria. “Basta, basta! Non voglio più saperlo! Saranno i miei compagni di scuola! Ne stai dicendo troppi! Voglio che sia una sorpresa!” Protestò lei animatamente tra le risate di tutta la famiglia.
Poi lessi quel nome e non potei fare altro che sbiancare.
Agata intercettò la mia smorfia e, sedando la guerra fratricida che nel frattempo era sorta tra Emily e Bill, intervenne con un secco e lapidario: “la scuola non è ancora finita, muovetevi andate a lavarvi subito!”
“E non litigate!” aggiunse per buona misura, visto che Bill aveva iniziato a canticchiare “Romualdo e Emily si sposano!” tra le accorate proteste della diretta interessata. Sarebbe stato davvero divertente se fosse successo davvero.
Poi, appena i nostri figli furono fuori portata, Agata prese una tazza di caffè, si sedette davanti a me e mi chiese: “che succede?”
“Abbiamo un grosso problema.” Articolai con la gola secca. Poi lasciai che il silenzio invadesse lentamente la cucina.
In lontananza mia figlia accusò suo fratello di essere un grosso verme bianco puzzolente.
“Lucy Pond è una strega.” Dissi e fu come una condanna.
 
Avevo accennato alle mie amicizie babbane, vero? Con il lavoro che faccio è quasi inevitabile.
I Pond rientrano in questa categoria: io e Luke lavoriamo insieme alle poste, i nostri figli vanno a scuola insieme e anche Marta e Agata sono diventate amiche.
Luke e sua moglie, Marta, vengono spesso a cena da noi e noi siamo ospiti graditissimi a casa loro. Ovviamente, non sanno che i loro amici sono un mago e una strega e non lo sospettano minimante. E questa è una vera magia, considerando quanto poco mia moglie si curi della sicurezza anti-babbana.
Ora, non solo avrei dovuto svelargli le nostre vere identità, ma avrei dovuto anche spiegare loro che loro figlia era una strega, proprio come la mia.
“Come mai non ce ne siamo mai accorti?” Chiesi disperato ad Agata. Oltre ad essere un mio smacco personale, questa rivelazione introduceva un sacco di nuovi problemi nella nostra vita quotidiana.
Agata strinse forte la mia mano e mi rispose piano: “probabilmente abbiamo attribuito la sua magia involontaria a nostra figlia. Stanno sempre insieme quelle due.” Neanche lei era entusiasta all’idea: avere degli amici babbani, alle volte, è molto rilassante. Tanto per cominciare non vogliono sapere a tutti i costi la tua opinione sull’ultimo articolo di Rita Skeeter.
“Emily sarà contentissima.” Dissi ed era vero: Emily e Lucy erano migliori amiche e compagne di classe dal primo giorno delle elementari, la notizia che avrebbero continuato a fare la stessa scuola non poteva che rendere euforica mia figlia.
“Non avrai intenzione di dirglielo ora?” Chiese mia moglie.
“Che dovrei fare? E poi vorrà la lista, lo scoprirà da sola!”
“Puoi sempre contraffarla.”
La guardai scandalizzato.
Agata è la prova vivente che i pregiudizi sulle case sono tutti idiozie: questa slealtà non è degna di un Grifondoro.
“Non mi guardare così! Abbiamo bisogno di tempo. Dobbiamo assolutamente parlare a Luke e Marta! E lo sai che non possiamo riuscirci prima della prossima settimana. Non credi che se Lucy annunciasse a sua madre che andrà ad una scuola di magia insieme alla sua amica Emily renderebbe il tuo lavoro molto più difficile?”
“Senza dubbio, ma, insomma, mi dispiace contraffare la lista. È poco professionale.”
“Non devi per forza inventarti un nuovo nome,” mi venne incontro lei, “basta che cancelli quello di Lucy. E poi si tratterebbe solo di una settimana: Emily scoprirebbe lo stesso la verità, solo un po’ più tardi.” Disse conciliante.
“Lo so. Hai ragione.” Sospirai.
“Bene oggi pomeriggio chiamo Marta. Tieniti pronto. Domenica andremo a chiarire questa faccenda. O preferivi farlo Sabato prossimo?”
“No, Domenica è perfetto, ma… Andremo?” Chiesi io debolmente.
“Sì, io vengo con te.”
“Non puoi venire con me!”
“Perché no? Marta e Luke sono anche i miei di amici.”
“È il mio lavoro. Lo devo fare per conto del Ministero.”
“E allora?”
“Beh io non ti chiedo di certo di venire con te ogni volta che affronti una chimera!”
“Io ti lascerei venire. Non te la caveresti male come esca.”
“Sarebbe illegale! Le assicurazioni non coprirebbero i danni. E comunque cosa vuol dire che sarei perfetto come esca?”
“Vuol dire che non conosci gli incantesimi giusti per intrappolare quel genere di mostri. Ma se vuoi te li posso insegnare. Devi fare un po’ di pratica, ma non sono difficili.”
“Un po’ di pratica con le chimere?”
“Sì, senza non avrebbe senso, non credi?”
Dopo aver fissato per un attimo la mia faccia sconvolta si decise ad aggiungere: “è per questo  che ti ho proposto di iniziare come esca. È più facile.”
“Senti, lasciamo perdere le chimere per un momento. Quello che volevo dire è che non devi venire perché pensi che la situazione sia complicata e sei preoccupata per me. Il mio è un lavoro, che, come il tuo, necessita di competenze ben precise e se non le hai rischi di scatenare un disastro.”
“John non fare questo discorso con me: io conosco benissimo il mondo babbano, ci sono nata. Devo ricordarti chi ti ha insegnato a usare la lavastoviglie nel modo corretto?”
Rabbrividii al ricordo di quello che io avevo fatto a quella lavastoviglie, e di quello che lei aveva fato a me, la prima volta che l’avevo usata, ma non mi diedi per vinto.
”Tu sottovaluti la questione: non serve soltanto conoscere il mondo babbano.”
“Conosco anche il mondo magico se è quello che ti preoccupa. Sono una strega, sai? C’ero anch’io ad Hogwarts.” Disse. “Grifondoro!” Aggiunse compiaciuta.
Ignorai la provocazione e continuai.
“Il problema non è solo la conoscenza, ma la mediazione. Bisogna presentare ai babbani un mondo nuovo, mostrare loro quanto può essere magnifico e rassicurarli. Soprattutto questo, non immagini quanto sia difficile calmare le ansie dei genitori babbani, quando scoprono che i loro figli passeranno i prossimi sette anni in un castello incantato.”
“Credo di immaginarlo molto bene, invece, sai? Io sono anche madre, fino a prova contraria. Se poi vogliamo parlare di preoccupazioni ed ansie per l’ignoto mi ricordo perfettamente quella dei miei genitori: è la stessa che cercano di nascondermi, adesso, quando gli racconto di aver domato un drago. O di aver viaggiato via camino.”
Soprassedendo il fatto che anch’io, mago purosangue, mi preoccupavo a morte quando andava a domare i draghi e che suo padre odiava i camini solo perché la prima e unica volta che li aveva provati aveva vomitato, cercai ancora di trovare una via d’uscita.
“D’accordo, d’accordo, conosci tutto ciò che c’è da sapere, in teoria, ma non sai cosa dire, quando dirlo e come dirlo. Queste sono conoscenze che si acquisiscono solo dopo anni di esperienza.”
“Ho sentito talmente tante volte i tuoi racconti che un’idea me la sono fatta. E poi sii sincero quanti nati babbani ci sono nel tuo ufficio?”
Nessuno, effettivamente.
“Che cosa c’entra? Io sono il migliore e sono nato da una famiglia di maghi purosangue. E poi aver ascoltato delle storie non vuol dire essere in grado di gestire una situazione reale. È come se tu sapessi volare solo perché hai visto una partita di Quidditch dagli spalti!”
“John non sto dicendo di essere brava o cos’altro, sto semplicemente dicendo che voglio essere lì quando glielo dirai.”
“Non è necessario che tu…”
“La loro vita cambierà, la nostra vita anche. Entreranno a far parte del mondo magico! Il nostro mondo, John. Quello con le scope volanti, la posta via gufo e la smaterializzazione, ha presente? Se non ci fossi me ne pentirei per tutta la vita, ma soprattutto non voglio mancargli di rispetto.”
“Ma i bambini…”                                    
“Cosa c’entriamo noi?” Chiese allegramente la mia inopportuna figlia undicenne tornando in cucina e tirandosi dietro anche il fratellino.
“Niente tesoro, stavo dicendo a papà che a voi piacerebbe tanto passare un pomeriggio con i vostri amici Jonhattan e Lucy la prossima settimana.”
“Sì! Che bello li invitiamo a casa nostra e poi facciamo una festa?” Chiese Bill eccitato.
“No, caro, quello lo facciamo solo per i compleanni, diciamo che noi adulti prenderemo un tè insieme, mentre voi bambini giocate fuori.”
“Ok allora lo dico a Lucy, oggi.” Disse mia figlia tutta allegra.
“Certo, ma ricorda che prima dobbiamo parlare con i suoi genitori.” Provai a mediare io.
“Sono sicura che saranno contentissimi di averci come ospiti.” Sorrise mia moglie. I miei figli iniziarono a urlare eccitati all’idea progettando già i giochi che avrebbero potuto fare, mia moglie mi salutò con sguardo furbo e se ne andò.
Ero stato incastrato, ma non me ne sarei andato senza lottare: la prossima settimana Agata avrebbe seguito un corso molto dettagliato sul miglior comportamento da tenere nelle relazioni magico/babbane. E questa volta avrebbe dovuto ascoltarmi senza protestare.
 
 
 
Non esiste un modo ottimale per cominciare una discussione del genere questo è vero, ma io e mia moglie sedevamo nel loro salotto, in silenzioso disagio da troppo tempo ormai e iniziavamo ad attirarci occhiate perplesse.
I nostri bambini, invece, giocavano spensierati in giardino approfittando delle prime vere giornate di sole, ignari della tragedia che si stava per consumare a pochi metri da loro.
La situazione era ideale: entrambi i genitori nella stessa stanza, relativamente rilassati e disposti ad ascoltarti, il tè, già servito, non poteva fornire un diversivo per allontanarsi, ma ne poteva essere versata almeno un’altra tazza e mezzo di conforto.
Peccato solo che non riuscissi a spiccicare parola per l’imbarazzo e mia moglie non fosse affatto d’aiuto: continuava a muoversi sulla sedia e a lanciarmi sguardi eloquenti. Non avrebbe iniziato lei quella discussione per nulla al mondo: era il momento del professionista.
Mi schiarii la voce: “avreste qualcosa da bere?” Dissi, dimenticandomi di avere già in mano la mia tazza di tè.
“Ne vorrei un altro po’, se possibile.” Aggiunsi cercando di salvare la faccia.
Per fortuna nessuno dei miei collegi poteva vedermi: avrebbero riso per più di sei mesi alla vista dell’infallibile John Tokai imbarazzato come un mago alle prime armi.
 
Anche Ted se la sarebbe cavata meglio. E Ted era stato aggredito da un babbano.
 
Ma come è possibile spiegare in poche e semplici parole agli amici babbani più stretti che hai, che tu e tua moglie non siete quello che sembrate? Che gli avete raccontato un mucchio di frottole? Che tua moglie lotta giornalmente con draghi e manticore, che discute con globin e centauri e che, a tempo perso si occupa dell’intricata legislazione di ibridazione interspecie? Che tu invece ti occupi di loro, i babbani? Che avete entrambi studiato in un castello pieno di fantasmi, torri altissime e sotterranei inquietanti? Che siete sfuggiti per puro miracolo alla più grande guerra del mondo magico, guidata da un folle sanguinario che voleva far fuori tutti quelli come loro? E che tutto quello che state dicendo non è uno scherzo, ma la pura e semplice verità?
“Signori Pond, c’è una cosa che dovremmo comunicarvi.” Esordii io solennemente.
La signora Pond, Marta, alzò un sopracciglio, mentre il signor Pond, Luke, scoppiò a ridere rovinando l’atmosfera solenne e interrompendo il mio misero tentativo.
“Signori Pond? Da quanti anni ci conosciamo John? Cosa sono tutte queste formalità?”
Mia moglie mi tirò una gomitata e mi lanciò uno sguardo che significava qualcosa come: “non eri tu lo straordinario professionista che risolveva tutti i problemi in un attimo? Cos’è quest’aria imbarazzata?”
Ero nervoso, non potevo farci niente: il tono aulico, la formalità e la ricercatezza dei termini erano automatici. Cercai di calmarmi. ”Ecco..” Andava molto meglio: un ecco è tutto tranne che formale.
“Io e mia moglie siamo un mago e una strega e anche vostra figlia lo è. Una strega intendo.”
I Pond mi guardarono allibiti.
Luke scoppiò di nuovo a ridere. “È lo scherzo più stupido che abbia mai sentito, John, ma sei in ritardo, non è il primo d’Aprile!”
Mia moglie cercò di venirmi in aiuto: “Luke, Marta, non è uno scherzo. Noi siamo maghi e il nostro Ministero ci ha avvertito che anche vostra figlia lo è. Frequenterà Hoghwars, la migliore scuola di magia esistente.”
“Sì certo, un Ministero! E questo è il benvenuto del comitato di quartiere?”
“Non esiste un comitato di quartiere, se ne occupa un ufficio. Io, in sua rappresentanza…” Provai a spiegare.
“E avrà una bacchetta e un cappello a punta e farà lievitare le cose?” Mi interruppe lui tra il divertito e il sarcastico. Iniziava a preoccuparsi, però, lo vedevo bene.
“Col tempo, Luke, col tempo.” Rispose mia moglie.
“Siete proprio spassosi! Dove l’avevate tenuto nascosto il vostro senso dell’umorismo in tutto questo tempo?”
“Agata, sii seria, la magia non esiste, lo sai anche tu.” Intervenne Marta prima che l’argomento Senso dell’Umorismo potesse essere approfondito con conseguenze a dir poco fatali. “Il vostro scherzo inizia ad essere di cattivo gusto.” Aggiunse, accorgendosi che non accennavamo affatto a ridere, ma anzi, tentavamo, con scarso successo, di approfondire l’argomento.
Stavo assistendo a un fenomeno che avevo già incontrato migliaia e migliaia di volte: la negazione ad oltranza di qualsiasi cosa sia fuori dall’ordinario, la paura che potessi fare del male ai loro figli, l’insorgere di dubbi sulla mia salute mentale e la mancanza totale di senso dell’umorismo, ovviamente.
Mi trovavo in una situazione familiare.
Ripresi il controllo.
Guardai Agata.
“Fuori le bacchette.” Ordinai.
Uno sciame di farfalle dorate svolazzò scintillando intorno a mia moglie mentre una delicata pioggia multicolore scendeva su di noi senza bagnarci.
 
D’accordo, d’accordo, io, che ordino a tutti i neoassunti di non far piovere per nessun motivo al mondo in casa di babbani, lo avevo appena fatto.
Ma ci terrei a sottolineare che, in primo luogo, la mia pioggia non bagnava e cadeva soltanto sopra il tavolino, evitando accuratamente qualsiasi altro apparecchio elettronico. In secondo luogo, mia moglie aveva appena evocato uno sciame di meravigliose farfalle dorate. Limitarsi a cambiare colore al divano a quel punto sarebbe stato poco significativo.
“Dimmi che ci state mostrando un trucco del tuo cugino folle.” Ci supplicò Luke senza riuscire a distogliere gli occhi da quel vortice multicolore.
“Non è così” gli risposi dolcemente.
“Volete dire che anche mia figlia è in grado di farlo?” chiese Marta con voce sognante.
“Non ancora, ma lo sarà dopo sette anni ad Hogwarts.” Rispose Agata con la mia stessa dolcezza e una buona dose di ottimismo. Noi eravamo bravi.
“Sette anni, mio Dio!”
“È la durata dell’istruzione magica.”
“Non potrà frequentare nessun’altra scuola!” Era angosciata ora.
“Marta,” le dissi “ tua figlia è una strega ed fondamentale che riceva un adeguata istruzione in questo campo. Quando finirà Hogwarts non avrà bisogno di nessun’altra scuola perché il mondo magico sarà pronto ad accoglierla.”
“Mondo magico… è così assurdo!” Marta non si dava pace. “Ma tu lavori alle poste e tu Agata sei una biologa! Bisogna aver studiato per avere dei posti così, non si ottengono solo con la licenza elementare!”
“Sì Marta, sono una biologa, ma non ho una laurea: mi occupo di draghi e chimere, non di tigri e leoni…” Le spiegò Agata.
“Quanto a me” intervenni io “Io mi… Oh è così difficile da spiegare! Per lo più intercetto la posta destinata al mondo magico, ma inviata per posta babbana.”
Mi sembrava di avergli dato il colpo di grazia.
“Babbana?” chiese Luke imbambolato.
Questo era prevedibile.
“È la nostra parola per non magico.”
Marta, affascinata dal vortice di colori che io e mia moglie avevamo evocato, ci guardava alternativamente cercando di nascondere la sua ansia, mentre Luke si dibatteva ancora in una silenziosa incredulità.
“Ma non potrebbe esserci un errore? Noi non sappiamo fare quelle cose. Noi non siamo…Maghi. Nessuno nella nostra famiglia lo è o lo sapremmo!” disse Luke, quando finalmente riuscì ad articolare qualcosa d’intellegibile.
“Magari è vostra figlia la strega e voi vi siete sbagliati e l’avete confusa con la mia piccola Lucy.” Continuò con il tono disperato di chi cerca di uscire dalle sabbie mobili.
Agata sorrise e prese la mano di Marta che annuiva alle parole del marito senza fermarsi, spaventata.
“Marta, Marta, guardami. Sei sconvolta. Noi non ci siamo sbagliati il ministero ha mandato una lettera a John con l’elenco dei nati-babbani da avvertire e lì c’era anche il nome di vostra figlia. A volte capita che nelle famiglie ba..normali nascano un mago o una strega, per me è stato così, anch’io vengo da una famiglia come la vostra. All’inizio è un po’ difficile, ma andare ad Hogwarts è stata la cosa più bella che mi potesse capitare. I miei genitori sono fieri di me.”
“Per te forse, ma Lucy…”
“Marta, non ti mentirei mai su una cosa del genere. Tu sei mia amica.”
Agata le strinse forte la mano pronunciando le parole con decisione: fu molto convincente e Marta finalmente si calmò un pochino.
“La mia bambina, la nostra piccolina andrà lontano, sarà sola e noi non potremo aiutarla…” disse poi sull’orlo delle lacrime.
“A Hogwarts tutti i principianti sono uguali.” Aggiunsi io, giusto per non farmi rubare del tutto la scena. Agata si stava rivelando davvero brava. Molti dei miei colleghi avrebbero dovuto prenderla d’esempio: sapeva mantenere il giusto equlibrio tra rassicurazioni e informazioni.
“E poi” disse Agata improvvisamente sfoggiando un sorriso smagliante “ Non sarà sola, ci sarà Emily.”
“Vostra figlia?” Chiese Marta.
“Ovviamente è una strega anche lei, crediamo che sia per questo che non ci siamo mai accorti prima che Lucy…”
Azzitti mia moglie con uno sguardo. Luke si era in parte ripreso dallo stato catatonico in cui versava e ora era decisamente furioso. “Allora quel tuo cugino pazzo con la strana scuola di teatro…” sillabò.
Fu con grande dispiacere e imbarazzo che dovetti rispondergli: ”il cugino era il Ministero, la scuola Hogwarts, mi dispiace.”
Contattare i nati babbani e le loro famiglie, accompagnarli a Diagon Alley a comprare il necessario e stare dietro a tutte le loro esigenze richiedeva che io facessi un sacco un di assenze dal mio lavoro babbano. Non potendo raccontare la verità e siccome non volevo usare la magia, avevo inventato la storia di mio cugino e la sua scuola.
Il mio fantomatico cugino, Dave, gestiva un’assurda e fallimentare scuola di teatro/danza/canto/circo insieme ad altri suoi amici folli quanto lui. Dave era convinto di poter riconoscere il talento delle persone solo leggendone il nome su un elenco telefonico, perciò ogni estate mi chiedeva di contattare le famiglie di quelli che lui definiva i suoi futuri studenti. Io ero la persona più presentabile che conoscesse ed ero bravo a parlare con la gente, per questo, continuava a ripetermi, dovevo assolutamente aiutarlo.
Ogni estate io lo facevo, perché, era vero, mi piaceva parlare con la gente e mio cugino, in fondo, era un’ottima persona e un bravo artista, anche se costantemente al verde. Più allievi avesse avuto, meno soldi avrei dovuto passargli io durante l’anno.
Era una buona storia: mi permetteva di parlare del mio secondo lavoro anche con i miei colleghi babbani delle poste ed era abbastanza vicina al vero da permettermi di aggiungere dettagli verosimili al racconto. Fin ora, almeno, si era rivelata una copertura perfetta.
Anche ai miei colleghi del Ministero piaceva abbastanza l’idea che Hogwarts potesse essere una scuola di teatro e nei discorsi di molti il Ministero era diventato Dave.
Certo, c’era stato qualcuno che aveva avuto la brillante idea di presentarsi in posta spacciandosi per mio cugino: aveva rivolto ai babbani domande imbarazzanti e si era messo a saltare sui tavoli informando tutti dell’esistenza del mondo magico. Ma erano fatti accaduti molto tempo fa: essere costretti a inseguire la propria scrivania per tutto il Ministero è un deterrente che tende a fare effetto.
“Dovevo darvi qualche spiegazione per le mie assenze, ma non potevo violare lo statuto di segretezza.” Continuai io, professionale.
“Statuto di segretezza..?” Chiese Luke.
“Sì, grazie al quale nessuno sa della comunità magica.”
“Allora perché lo stai dicendo a noi?” Si intromise Marta.
“Perché siete i genitori di una strega minorenne, siete tra i babbani con una giurisdizione speciale, insieme ai coniugi dei maghi e ai fratelli dei nati babbani.” E ai Maghinò aggiunsi tra me e me.
“Noi abbiamo una giurisdizione speciale?” Luke era attonito.
“Esattamente.”
Il silenzio che seguì, fu rotto dalla voce offesa di Luke: “perché non ci avete mai detto niente, prima? Pensavo fossimo amici!”
Tipico: non potendo ancora accettare del tutto di aver dato alla luce una strega, tentava di cambiare argomento. Ma sapevo che saremmo arrivati a questo punto: loro non erano semplici babbani, ma nostri amici e l’amicizia, si sa, pretende sincerità. Noi, invece, ci eravamo comportati semplicemente come maghi e avevamo mantenuto il segreto con la scioltezza di chi è abituato a mentire da tutta una vita. Certo, ogni tanto ci capitava di pensare a quanto assurda fosse questa situazione, ma non ci soffermavamo più di tanto sui dettagli: non erano importanti.
 
 “Te l’ho detto: lo statuto di segretezza lo vieta esplicitamente. E poi ti sembra un argomento facile da affrontare?” Dissi. “È quasi più facile pronunciare il nome di Tu-Sai-Chi!”
“Chi?” Chiesero Marta e Luke in coro.
“John!” Mi rimproverò Agata.
Era arrabbiata, ovviamente, come a molti maghi e streghe ad Agata non piaceva parlare di Colui Che Non Deve Essere Nominato e nemmeno accettava che fosse nominato con leggerezza nelle conversazioni.
“Un assassino con manie di grandezza e idee folli.” Rispose lei ancora arrabbiata.
”Ma ora è morto, tranquilli.” Li tranquillizzai io, vago.
“Non esagero affatto, Agata: lo sai quanto è difficile parlare del mondo magico con i babbani se non vuoi infrangere la legge o essere preso per pazzo. Maghi e un castello incantato! Andiamo! Chi mai ci potrebbe credere ai giorni nostri?”
“Tu sei perfettamente in grado di convincere chiunque anche senza infrangere la legge o fare incantesimi, John. È solo perchè la tua doppia vita ti diverte da impazzire che non gli abbiamo mai detto niente, perciò non tirare in ballo Tu-Sai-Chi a sproposito.” Ribatté lei, gelida.
“Doppia vita? Così mi fai sembrare James Bond!”
“Sei un agente segreto? Combattevi contro quel tizio?” Mi chiese Luke, che dopo la faccenda della magia sembrava disposto a credere a qualsiasi cosa.
“Chi? Tu Sai Chi? Certo che no!”
“Assolutamente impossibile. Solo Silente, forse…” Rimarcò Agata.
“Sono un impiegato delle poste come te, Luke, solo non di quelle babbane.” Chiarii, poi mi rivolsi nuovamente ad Agata, troppo concentrato sul nostro battibecco per desiderare affrontare un argomento così scomodo.
“E comunque non mi sembra che tu ti sia comportata in maniera diversa.”
Agata agitò le mani, vagamente in imbarazzo, ma riuscì a mantenere un tono neutro. ”Non sono io quella che parla tutti i giorni del dovere che i maghi hanno, e cito testualmente, al rispetto e alla correttezza nei confronti dei babbani. Io uccido mostri e tratto con Goblin e sono una strega nata babbana: questi non sono il mio genere di problemi. Io appartengo ad entrambi i mondi.”
“Uccidi cosa?”
“Tratti con chi?” Dissero in contemporanea i coniugi Pond.
“Goblin e mostri.” Risposi automaticamente io.
“ Essere una nata-babbana non cambia il fatto che tu non gliel’abbia mai detto.”
“Mi piace tenere riservata la questione.”
“Infatti, si vede: se continui ad essere così riservata prima o poi, finirai davanti al Comitato di Scuse ai Babbani. E questo solo nel migliore dei casi. Dovresti davvero iniziare a fare attenzione a quello che fai, quando sei in giro nel mondo babbano. Non ho voglia di partecipare a un processo.”
“Prima di me dovrebbero processare più o meno tutti i maghi d’Inghilterra, compreso te, se scoprono cosa hai fatto alla lavastoviglie.”
“I maghi hanno la lavastoviglie?” Chiese Marta guardando sia me che Agata come se il mondo non avesse più alcun senso. “Non lavano i piatti per magia?”
Sospirai e, non potendo ribattere alle accuse di Agata, - gli obliviatori erano i maghi più stressati di tutto il Ministero- cercai di riportare la conversazione sul giusto binario.
“Luke, Marta, noi non volevamo assolutamente mancarvi di rispetto, ma per noi sarebbe stato davvero impossibile parlarvene prima e a dire il vero ogni tanto ci piace cambiare argomenti di conversazione e frequentare gente di un altro contesto.” Poi cercai di sdrammatizzare: “nel mondo magico non riuscirebbero mai a capire la magia del cinema e questo limita di molto le conversazioni.”
”Possiamo tornare alla faccenda dell’assassino con manie di grandezza e idee folli, per favore?” Tuonò Luke, indignato.
Lo ignorammo.
“Comunque non vedo cosa ci sia di difficile nel cinema. Se tu l’hai capito perché non dovrebbero riuscirci anche gli altri?” Insinuò Agata polemica.
“Perché non sono babbanofili innamorati di una cinefila, ecco perché!” E non hanno mesi a disposizione.
“Sciocchezze, potrebbe occuparsene il tuo dipartimento. Sarebbe divertente.”
“Sarebbe un disastro, fidati, lancerebbero incantesimi contro lo schermo e romperebbero tutto alla prima proiezione!”
Agata si strinse nelle spalle. “Secondo me no.”
“Senza contare che i Purosangue non accetterebbero mai l’idea si servirsi di un aggeggio babbano e, prima che tu possa dire qualunque cosa, ti ricordo che i Purosangue nella maggior parte dei casi sono ricchi e influenti.”
“Basterebbe non dirgli che è babbano. E comunque sono sicura che apprezzerebbero molto l’a possibilità di fare un film su i loro celebri antenati.”
La approvai con un gesto vago. Su questo aveva ragione: alcuni purosangue sono parecchio vanitosi.
“Chi sono i purosangue? E perché odiano gli aggeggi babbani?” Chiese Luke.
“Maghi che lo sono da generazioni. Non è che li odiano, è che non li capiscono e sono molto legati alle tradizioni magiche.” Risposi io. “Un po’ troppo fissati con la faccenda delle case, forse, ma chi non lo è, in fondo?”
 “Case? Quali case?” Chiese Marta stordita.
“Le case non contano dopo Hogwarts, sei tu ad essere troppo permaloso.” Mi rispose immediatamente mia moglie, rispolverando uno dei nostri battibecchi preferiti e ignorando la sua povera e confusa amica.
”La faccenda delle case non finisce con Hogwarts, quante volte devo dirtelo?” Le risposi ignorandola anch’io. ”Sai benissimo cosa pensa la maggior parte dei maghi della mia e dei maghi che ne hanno fatto parte.”
“Non puoi biasimarli. Qualche pregiudizio è scontato dopo quello che è successo!“
“Che cosa è successo? Qualcosa di grave?” Ci chiese Marta allarmata.
“Una guerra.” Le risposi.
Mi concentrai su Agata. “No, non posso biasimarli, ma ho con tutta quell’atmosfera da caccia alle streghe che c’era subito dopo, aver fatto parte della mia casa era diventato all’improvviso qualcosa da nascondere o di cui sentirsi in colpa. A parte per quelli come Malfoy, ovviamente, loro cadono sempre in piedi. Tutti gli altri era già tanto se trovavano un posto di lavoro…”
“Una guerra!?” Luke strinse a sé la moglie e ci lanciò lo sguardo più minaccioso che può scoccare un uomo spaventato a morte.
“Sì, ma poi è terminata.” Li zittì mia moglie.
”Ti ricordi quanti Mangiamorte c’erano in giro? E non puoi negare che molti erano della tua casa. Che dovevano fare?” Mi rispose Agata.
“Non basarci interi processi, non accusare la gente sulla base di illazioni, permettere alle persone di fare il proprio lavoro, per esempio!”
“Fissazioni. A nessun colloquio di lavoro ti chiedono in che casa sei stato smistato quando avevi undici anni e comunque non hanno mai basato interi processi sulla storia delle case.”
“Ci hanno basato abbastanza per rovinare la vita di molti.” Poi aggiunsi, cercando di appellarmi alla sua professionalità: “proprio tu che fai la biologa vuoi dirmi che, nella crescita, l’ambiente non conta niente? Ci passi sette anni, Agata, non sette mesi, ci cresci là dentro! I pregiudizi ti si attaccano addosso! Me lo dicevi giusto ieri: gli ippogrifi cresciuti in cattività sviluppano sempre un certo tipo di comportamento che quelli liberi non hanno.”
“Che diavolo sono gli ippogrifi?” Sbottò Luke esasperato dal nostro infinito litigio coniugale. Non gli piaceva molto essere ignorato.
“Gli ippogrifi sono un incrocio tra un’aquila e un cavallo e John sta rovinando una mia teoria: gli esseri umani sono dotati di più flessibilità mentale di quegli splendidi animali. Tu, ad esempio, non eri un Mangiamorte ed io non sono stata un eroe.”
Sbuffai. “ Non è quello che pensano tutti.”
“Nessuno crede che tu sia stato un Mangiamorte!”
“Ma tutti rimangono sorpresi quando sanno in che casa sono stato!” Sbottai esasperato.
Lei si limitò ad alzare gli occhi al cielo e a mormorare qualcosa molto simile a: “Stupide manie da maghi”.
Poi, mentre finalmente riprendevamo fiato, per la prima volta dall’inizio del nostro battibecco ci fermammo ad osservare con più attenzione i nostri amici: erano il ritratto della confusione e della paura.
Forse avremmo dovuto dosare meglio le parole.
Agata, mi guardò e colta dallo stesso sospetto mi disse: “forse la storia contemporanea sarebbe stato meglio evitarla.”
“No. Prima o poi verrebbero a saperlo lo stesso. Meglio prima.”
 
Mentii con sicurezza e Agata non fece obbiezioni, anche se non era d’accordo con me: aveva promesso di lasciare i punti più difficili nelle mani del professionista.
Aveva ragione lei, comunque, è sempre meglio rimandare il discorso su Tu Sai Chi al secondo o al terzo incontro. Questa, infatti, è quel genere di conversazione molto simile a una pozione corroborante: se non dosi bene tempi e ingredienti esplode e ti ritrovi a dover raccogliere i pezzi del tuo calderone sparsi per tutta la stanza cercando nel contempo di non bruciarti le scarpe.
La strategia ideale sarebbe stata quella di parlane con calma davanti a un bicchiere di Burrobirra o un gelato dopo una lunga giornata trascorsa a Diagon Alley a mostrare alla famiglia babbana le meraviglie del mondo magico. Assicurarsi che fosse presente il giovane mago, poi, evitava le domande indiscrete: per il bene stesso del bambino i genitori preferivano non approfondire e tu non dovevi rinvangare ricordi sgradevoli costringendoti a un penoso slalom tra verità, eufemismi e orrore.
Altrimenti, se li terrorizzavi, eri costretto a convincerli ancora una volta che il mondo magico e Hogwarts erano un posto sicuro per i loro figli. Oppure ti toccava ricorrere a un incantesimo di memoria e ricominciare tutto da capo.
 
Nonostante ciò, la storia di Colui Che Non Deve Essere Nominato fu spiegata lo stesso, sottolineando con la dovuta enfasi il ruolo fondamentale che Silente, preside della scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, aveva giocato durante la guerra.
 
“Non posso ancora credere che nostra figlia sia una strega e che sia esistito quel mago quel Volder” Iniziò a dire Luke.
“COLUI CHE NON DEVE ESSERE NOMINATO!” Lo interrompemmo in coro.
“Ok, ok, lui. È troppo strano.”
Agata si strinse nelle spalle a disagio, Marta stringeva la mano di suo marito come se fosse un ancora di salvezza.
“Non è facile per nessuno accettarlo, Luke.” Filosofeggiai io per alleggerire la tensione. “Pensa che qualche tempo fa un uomo ha aggredito un mio collega con una mazza da baseball. Non riusciva ad accettare la verità.”
“Davvero? E il tuo collega?”
“Si è fatto colpire. Io invece ho trasfigurato il tavolo in una tigre. L’uomo è tornato a sedersi immediatamente.” Luke rise un po’ sollevato: l’episodio della tigre, in effetti, era stato divertente.
“E quindi voi fate incantesimi..” Riprese Luke vago.
“Rende la vita molto comoda.”
“Ma quando siamo venuti da voi non abbiamo mai visto…”
“Certo che no, i maghi sono abituati a mantenere il segreto!” Dissi con un pizzico di arroganza
“Ma perché? Insomma non è stupido? Potreste fare cose magnifiche!” Chiese Marta ancora incantata dal vortice di colori sopra di noi.
“È una legge antica, del ‘700 più o meno, ma io la trovo ancora molto attuale. Rivelare ai babbani l’esistenza della magia creerebbe solo problemi. Probabilmente scoppierebbe qualche guerra: i maghi si sentirebbero superiori, i babbani sarebbero spaventati. Magari inizierebbero a studiarci in laboratorio o a chiederci rimedi per qualunque cosa. Insomma, è meglio così. Senza contare tutta la faccenda di Tu Sai Chi.” Non sembrarono molto convinti, ma non importava: col tempo avrebbero capito.
“Questa scuola, Hogwarts, dov’è?” Chiese Luke, guardai Agata.
“È un castello, in Scozia.” Rispose lei.
“Gli studenti tornano a casa per le vacanze di Natale, di Pasqua e per le vacanze estive, naturalmente.” Continuai io.
“Quindi avrà bisogno di vestiti pesanti, di cambi, soldi…” iniziò Marta. “ Oh Agata sei proprio sicura che debba andarci quest’anno? Non potrebbe iniziare tra due anni o l’anno prossimo? È così piccola è ancora una bambina…”
Agata la strinse a sé. “Dovrà iniziare quest’anno, ma ti prometto che starà bene. Lei ed Emily staranno benissimo.”
“Oh anche Emily è vero…! Agata come fai a sopportarlo?” Agata rafforzò la stretta. “Andrà tutto bene.” Disse e poi aggiunse: ”per i vestiti e tutto il resto del materiale andremo insieme a Diagon Alley.”
“Cos’è il supermercato dei maghi?” Marta era esterrefatta.
“No, è più come il centro città.” La rassicurò mia moglie.
Poi, prima che potesse lanciarsi in una dettagliata descrizione del suo negozio preferito: un posto lugubre che vendeva quelli che sembravano sofisticatissimi attrezzi di tortura, mentre in realtà erano l’ultimo grido della tecnologia cattura-drago, la interruppi e aggiunsi.
”Un’altra cosa: nel mondo magico la posta viene recapitata via gufo quindi vi converrà acquistarne uno se volete scrivere a vostra figlia molto spesso. Ci sono quelli della scuola, certo, e il nostro gufo è sempre a disposizione, ma essere autonomi è la cosa migliore.”
“Non ho mai visto un gufo in casa vostra.” Disse Luke.
“È in solaio” gli risposi.
“Non è antigienico?” Chiese Marta.
Agata si strinse nelle spalle. “Non direi.”
Marta non sembrava molto d’accordo, ma preferì cambiare argomento.
“Quando inizierà la scuola?”
“Il primo di Settembre l’espresso per Hogwarst partirà da King Cross.” Risposi
“Un treno? Non un tappeto volante o una scopa magica?” Luke era ancora sarcastico. Segno che ancora non aveva ancora digerito la faccenda fino in fondo.
“I tappeti volanti sono illegali” Puntualizzai io.
“E far arrivare in volo migliaia di studenti darebbe troppo nell’occhio. Soprattutto se alcuni non sono mai saliti su una scopa.” Aggiunse mia moglie.
“Non dirmi che le scope volanti esistono sul serio?” Chiese Luke.
“Certo che sì! Ci si gioca lo sport migliore del mondo.” Gli dissi.
“Uno sport?”
“Sì, il Quindditch, ci sono sette giocatori che…” Agata interruppe maleducatamente l’inizio della mia conferenza sportiva.
“In questa lettera c’è tutto l’occorrente per la scuola.” Disse. “Ora forse è il caso di dirlo ai bambini.” Martà annuì e richiamò tutti in casa. Agata fece sparire pioggia e farfalle con un gesto deciso.
“Lucy,” iniziò “dobbiamo dirti una cosa.”
Gli occhi dei quattro bambini si fissarono tutti su di lei.
“Oggi è arrivata una lettera per te.” Continuò lei solenne.
“Davvero? Fammela vedere!” La interruppe sua figlia rovinando l’atmosfera.
“C’è scritto che sei una strega e che andrai a una scuola di magia.” Disse Marta passandole la lettera. E brava Marta! Via il dente, via il dolore.
Mia figlia lanciò un urlo e si lanciò in un ballo sfrenato: “evviva! Lo sapevo! Lo sapevo! Andremo a scuola insieme, Lucy! Te l’avevo detto!” Poi continuò con un tono altissimo ed eccitato: “a me la lettera arriverà presto, ma anch’io sono una strega, me la detto papà! Lui è un mago, mamma invece è una strega come noi. Vedrai, ci divertiremo un mondo a Hogwarts!”
Il volto di Lucy si illuminò e, senza degnare noi adulti di un solo sguardo, prese l’amica per mano e la trascinò via. “Vieni, devi raccontarmi tutto!” Le disse.
“E voi non potete venire!” ordinò ai due fratelli minori. “Siete troppo stupidi per capirci qualcosa.”
 
 
 
Questo non è un capitolo nuovo: originariamente questa storia l’avevo pubblicata a parte, ma ho deciso di ripubblicarla in questa raccolta dopo averla rivista, corretta e aggiunto delle nuove parti. Nonostante tutto ancora non mi convince, perciò, se trovate degli errori segnalatemeli, perché io non ho più la forza di rileggerla. Ormai le parole quasi smesso di avere significato. Mi scuso comunque per tutti gli utenti che l’avessero già letta, per averla spostata all’improvviso.
Quello che è successo con la tigre e l’uomo con la mazza da baseball l’ho raccontato qui. Vi ringrazio per aver letto la mia storia spero che vi siate divertiti a leggerla almeno quanto mi sono divertita io a scriverla.
Grazie ancora a tutti.
 
 

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Capitolo 3
*** Divinazione ***


“Sua figlia è una strega.” Annunciai dopo aver superato i primi momenti di quella difficile conversazione.
La donna s’illuminò tutto d'un colpo: “Ha un notevole spirito d’osservazione, vedo!”
“Mi scusi?” Domandai, attonito. 
Il mio spirito d’osservazione era senza dubbio sopraffino, ma non capitava molto spesso di trovare una famiglia babbana così bendisposta alla magia di un giovane mago. Generalmente, se i genitori avevano avuto il coraggio di ammettere a sè stessi che, quelle che accadevano attorno al loro figlio, non erano solo fortunate e bizzarre coincidenze, erano ancora più sospettosi e spaventati del solito. Mi rilassai impercettibilmente, quindi, soddisfatto di aver avuto una simile fortuna; per una volta non avrei dovuto rassicurare genitori scettici e impauriti, ma avrei potuto semplicemente godermi la sorpresa e la gioia, che la famiglia avrebbe provato nello scoprire un mondo nuovo.
“Sì, devo ammettere che ora può sembrare un undicenne qualunque, ma so che è portata.” Cinguettò entusiasta, “Le sto già insegnando tutti i trucchi del mestiere. Porterà avanti l’impresa di famiglia.” aggiunse orgogliosa, distruggendo in un attimo qualsiasi speranza potessi avere di finire in fretta quel colloquio.
“Mi scusi?” ripetei.
“Mio caro, so che è poco romantico parlare d’impresa, ma la mia piccola ha il dono e la nostra alta missione va portata avanti ad ogni costo, di generazione in generazione.” 
“Cosa intenderebbe con la vostra alta missione?”
“Fin dalla notte dei tempi la nostra famiglia è in contatto con forze di arcano potere: il nostro compito è incanalarne le energie e servirci del loro aiuto per soccorrere gli esseri umani in difficoltà, esattamente come facevano le pizie, mie antenate.”

Siccome il Ministero era sicuro che la bambina fosse una nata-babbana, la frase della madre apriva nuove preoccupanti prospettive: potevo trovarmi davanti a un caso di sfruttamento di magia minorile? Di recente erano sempre più rari, vista la tendenza dei babbani di questo secolo a considerare la magia una favola per bambini, ma non potevo escludere a priori questa possibilità. Oltretutto, vendere rimedi magici ai babbani era strettamente vietato dalla legge: quindi la signora Pelopidas avrebbe potuto trovarsi vittima di una doppia imputazione, con l’aggravante di non essere un mago e, quindi di complicare le pratiche all’intero dipartimento di Giustizia del Ministero. Non ci tenevo ad irritare i maghi che ci lavoravano -avevo pur sempre incantato illegalmente la mia lavastoviglie-, quindi mi sarebbe toccato approfondire.

“E questi suoi aiuti consisterebbero...?”
“Suvvia John, non faccia lo sciocco! Se è venuto qui, sa sicuramente di cosa sto parlando. Non s’imbarazzi, non sarò di certo io a giudicarla: a tutti capitano i momenti difficili. Ma io posso aiutarla: ad esempio, ci sono oggetti che hanno un notevole influsso benefico sulla nostra psiche, basta trovare la combinazione di forme e colori più adatta alla nostra anima. Essi agiscono da stabilizzatori e ci permettono di liberare tutte le energie che stavamo ancora trattenendo: la gente comune li chiama portafortuna, ma, detto fra noi, John, io preferisco chiamarli integratori mistici. Perché ognuno di noi possiede all’interno del suo cuore le risorse necessarie ad affrontare le difficoltà, ma, a volte, si ha bisogno di una piccola spinta per rimettersi in carreggiata. Sento, ad esempio, che questo fermacravatte sta emettendo un forte richiamo da quando è entrato. Ecco, lo prenda.”

Non afferrai il fermacravatte, ma fissai intensamente la babbana: la magia tende a rendere piuttosto scettici coloro che ne fanno uso e solo i maghi di terz’ordine credono nei porta fortuna. La bizzarra accozzaglia di oggetti esoterici e stoffe viola presenti nella stanza, mi si rivelarono, in un attimo, per quello che erano realmente: uno specchietto per le allodole, esattamente come il mio completo babbano.
Se avessi incontrato la signora Pelopidas qualche anno prima, avrei immediatamente capito di trovarmi al cospetto di quel genere di indovina, ma riabituarsi al mondo magico, dopo la mia forzata permanenza in quello babbano, mi aveva fatto perdere l’occhio per le stranezze. Quella babbana era più strega di Narcissa Malfoy: certo, in un modo appariscente, che la suddetta purosangue avrebbe definito volgare, ma abbastanza credibile da confonderti.

“Signora tutto ciò è davvero interessante, ma mi duole informarla che il tipo di magia che pratica sua figlia è molto diverso dalla sua messa in scena.” Spiegai.
“Malaca ! Ma come si permette?!” mi aggredì, posando con furia le mani sui suoi fianchi, “Innanzitutto, mia figlia è ancora un’apprendista, quindi non osi metterle strani grilli per la testa, in secondo luogo, certo che faccio vera magia, non l’ha letta il volantino?” Disse schiaffandomi in mano un volantino sgargiante. “Indovina Moira: lettura della mano, tarocchi, portafortuna e pozioni d’amore solo su richiesta.” Recitò, “quindi adesso non si metta a dire assurdità io mantengo quello che prometto, lo chieda a chiunque, e non faccia tanto il superiore con quel vestito elegante: lei non ha la minima idea di cosa io possa fare!” Terminò con tono offeso incrociando platealmente le braccia e mettendo su un broncio da manuale. “Potrei maledirla seriamente, sa?” Mi minacciò “Se solo la mia intera vita non fosse votata al bene.” aggiunse, melodrammatica.
Trattenni un sorriso sarcastico e un sospiro rassegnato e cercai di spiegarmi, ancora una volta, con calma.
“Signora, non volevo dubitare della sua professionalità, ma il tipo di magia che intendo io è molto diverso.”
“Sta parlando del Vodoo? Niente di male per chi ci crede, ma a me non piace. Io sono credente. In ogni caso, non permetterò alla mia piccola Morgana di imparare quelle tecniche, almeno finchè non sarà maggiorenne.” Disse “Potrebbero avere una cattiva influenza su di lei.” “Comunque le assicuro che anche il mio tipo di magia funziona. Anzi per un tipo come lei va anche meglio! La riconosco, sa? Lei è il classico inglese tutto d’un pezzo: di seconda generazione, sì, ma non di seconda classe. Si fidi che le mie arti sono quello che fa per lei: insieme risolveremo qualsiasi tipo di problema lei possa avere.” Disse conciliante “E ora mi dia la mano.” Ordinò. “Incominciamo la seduta.”
Per un attimo lottai contro l’istinto di tenderle la mano destra, ma poi mi controllai e insistetti: “lei non ha capito. Io sono un mago, faccio incantesimi e…”
“Ah ma sei un collega! Potevi dirlo subito allora! Non c’era davvero bisogno di inventare quella stupida storia della borsa di studio. Sei venuto a controllare la concorrenza, eh? Trovo davvero ammirevole che un uomo si dedichi alla professione: noi donne siamo molto più avvantaggiate è vero, ma gli uomini hanno sempre quel nonosochè in più che affascina le clienti. E mi dica come vanno gli affari? Riesce a cavarsela? La crisi è dura, ma, paradossalmente, i clienti da me sono aumentati.”
Sospirai, portando una mano al volto: con quella babbana non riuscivo a dire più di due parole di seguito, ma, a mio malgrado, ero ammirato dalla tenacia con cui difendeva la sua messa in scena. Persino adesso che pensava fossi un collega, non aveva assolutamente negato che la sua fosse magia vera.
Purtroppo per lei, questa pantomima non poteva andare avanti ancora per molto: “Guardi attentamente”, dissi, e, dopo aver tirato fuori la bacchetta con un gesto ostentato, feci lievitare le tazzine di un servizio dorato che una bambina con grandi occhi verdi aveva appena posato sul piccolo tavolino di fronte a noi. La donna non si mostrò affatto sorpresa, così, indispettito, le trasformai in tanti cinguettanti canarini.
“Lei mi ha mentito, signor Tokai.” Disse, seria. “È più un prestigiatore che un indovino. Beh, immagino che tutto faccia brodo nel nostro mestiere. Bel trucco. Mi piacerebbe davvero sapere come ha fatto. Senza neanche aver preparato il campo. È impressionante.”
Feci sparire i canarini con un gesto secco, irritato: era la prima volta che una plateale dimostrazione di magia non sortiva alcun effetto particolare.
“Non c’è nessun trucco, signora.” Dissi, la sua testardaggine iniziava a diventare ridicola: era forse così abituata a fingere di essere una strega da non riuscire a riconoscere la vera magia  quando se la trovava davanti?
“Andiamo non vorrai farmi credere che è tutto nella mia mente? Per caso hai drogato il tè?“
 “No signora.”
La mia etica lavorativa e il mio orgoglio personale me lo impedivano, senza contare il trascurabile dettaglio che avrei infranto almeno un paio di leggi magiche.
“glielo ripeto, io sono un mago: il mondo della magia esiste. Io ne faccio parte ed anche sua figlia.”
“Ah ho capito lei è un truffatore.”
“Signora, la prego, smetta di attribuirmi una professione diversa ad ogni frase che dico, io sono sempre stato solo un mago!” Esclamai, ma la donna mi rivolse uno sguardo scettico.
“Non ha notato che intorno a sua figlia capitano degli strani fenomeni soprattutto quando è spaventata o emozionata?” Chiesi
“Non ci provi nemmeno a mettere in mezzo mia figlia. Non mi faccio commuovere, io. Tutto quello che so di lei è che è un’ottima allieva.”
“Non crede che lo sia un po’ troppo?”
“Mia figlia è intelligente.”
“Bè ma forse fa delle cose che non potrebbe fare.”
“Ogni ragazzino lo fa a quell’età, ha undici anni, non trenta. E se le dovessi raccontare quante stupidate fanno gli uomini di quell’età non finiremmo più.”
“Ascolti il Ministero della Magia…”
“Uh si è creato proprio una bella storia elaborata, eh? Addirittura un Ministero! Ma caschi male, amico, io non ho molti soldi.”
“Signora, io non voglio il suo denaro.” D’altronde non me ne sarei fatto nulla, “Voglio solo che mi ascolti: sua figlia ha la possibilità di entrare in delle scuole di magia migliori del mondo. Magia vera, non i suoi trucchi babbani.”
“Ce la caviamo anche da autodidatte, grazie, mia figlia non va da nessuna parte. E poi trucchi da babbani lo vada a dire qualcun altro! La mia arte viene tramandata nella mia famiglia da generazioni ed ha sempre funzionato.”
“Signora Pelopidas, babbano non è un insulto: significa senza magia. Magia vera, intendo. Il mondo di sua figlia non è il suo, signora, sua figlia appartiene al mondo magico.”
“Una setta eh? E magari vai a fare questa offerta solo ai figli di indovini, come la mia piccola Morgana. Interessante, ma non siamo mica nati ieri. Dentro le sette non c’è molta libertà ed io sono sempre stata una libera pensatrice.” Poi si sporse verso di me, abbassò la voce e aggiunse, confidenziale: “signor Tokai non so se l’ha notato, ma io spenno polli, per mestiere: dovrà impegnarsi molto più di così se vuole fregarmi.”
La signora Pelopidas sembrava aver preso la mia presenza e le mie rivelazioni come una sfida personale e si stava pure divertendo parecchio: non mi tirai indietro e diedi inizio al secondo round di questa improbabile sfida tra professionisti. Dopotutto, neanch’io avevo intenzione di perdere.
“Se non crede a me posso farle confermare la mia storia da qualcun altro.”
“Ed ecco che entra in scena il complice.”
In effetti non era stata una pensata particolarmente felice.
“Posso mostrarle uno dei nostri giornali”
“Creato ad arte da lei precedentemente.”
“Sì, ma le foto si muovono.”
“Un trucchetto da quattro soldi, lo facevo quando andavo all’asilo.”
“Se vi lasciassi la mia bacchetta potrebbe rendersi conto di quello che sa fare sua figlia.”
“Sciocchezze, sarebbe comunque lei ad eseguire il trucco a comando.”
“E se le raccontassi un po’ della storia del mondo magico?”
“Mi piacerebbe sapere quanto è stato accurato nell’inventarsi questa balla, in effetti.”
“Posso mostrarle degli oggetti magici.”
“Magici? Io direi meccanici.”
”Signora Pelopidas,” capitolai. “cosa devo fare per convincerla che la magia esiste e che quelli che ha visto prima erano veri incantesimi e non trucchetti da baraccone?”
“Posso chiedere qualsiasi cosa?”
“Ci sono dei limiti alla magia che posso fare. Ad esempio,” Continuai, ignorando l’espressione da: qui ti volevo imbroglione, che era apparsa sul volto della babbana, “non mi chieda di riportare in vita un morto, perché quello è impossibile per chiunque. Per il resto mi chieda pure quello che vuole.”
La signora parve rifletterci attentamente allettata dalla sfida e dal desiderio di poter smascherare un truffatore che si era dimostrato molto, molto abile. Quasi più di lei.
“Mi porti sul Big Ben.” Disse infine, incrociando soddisfatta le braccia.
Mi trattenni dall’imprecare solo perché Morgana mi stava guardando con aria scettica.
Big Ben… Bastava atterrare in un punto riparato e non l’avrebbe mai notato nessuno. D’altra parte se avessi esitato non sarei più riuscito a convincerla e avrei dovuto confonderla, distruggendo per sempre il mio record personale di persone convinte al primo colpo.
Certo, neppure cercare di spiegare a quelli del Ministero perché avessi materializzato me stesso, un babbano e una neo-strega sul Big Ben, era una cosa che morivo dalla voglia di fare, ma la mia priorità adesso era solo convincere la signora Pelopidas e sua figlia, quindi non potevo esitare.
“D’accordo. Si aggrappi alle mie spalle e non mi lasci per nessun motivo.” Dissi. Un babbano spaccato era l’ultima cosa che volevo mentre violavo lo Statuto di Segretezza.
“Scusi?”
“I suoi trucchi funzionano in un certo modo e anche la mia magia ha delle regole.”
“Lo vede, cerca di fregarmi? i maghi possono fare di tutto senza nessun contatto fisico! Se la tocco di sicuro lei mi mette K.O e ruba la cassa.”
“Signora le assicuro che dei suoi soldi non me ne faccio assolutamente nulla, visto che non valgono nel modo magico.”
“Prendi nota Morgana: prima fingere disinteresse, poi spostare la conversazione e, infine, portare a termine il proprio obbiettivo; oltretutto la vittima guarderà automaticamente dove ha nascosto i soldi. Il nostro amico è abile.”
Alzai gli occhi al cielo.
“Ha presente Gandalf?” Chiesi “Non può fare le sue magie senza il suo bastone e questa è la stessa cosa, deve toccarmi se vuole che funzioni.”
“Sciocchezze, le basterebbe utilizzare la sua bacchetta per farmi sparire e ricomparire. Non me l’ha mostrata poco fa?”
“Se questo la rende più tranquilla la posso tenere in mano, ma lei deve aggrapparsi alla mia spalla o non se ne fa nulla. Mettiamola così: questo metodo sarà molto più confortevole che utilizzare la bacchetta.”
“Lei però tiene le mani dove posso vederle e io non mi aggrappo di certo alla sua spalla a mani nude.” Disse indossando dei guanti violetti. “Chissà che droga ci ha messo lì sopra. Ah e Morgana, prendi la telecamera e tienila accesa.”
“Sì, mamma, certo.”
Disse la bambina, recuperando senza battere ciglio una telecamera nascosta nella bocca di un drago cinese.
Sospirai rassegnato mentre la donna mi poggiava una mano sulla spalla e presi per mano la bambina che mi puntava la telecamera in faccia con un’aria ancora più scettica di quella della madre. “Andiamo.“ Dissi. Vorticai su me stesso e fui accolto nella spiacevole compressione della smaterializzazione.
Un attimo dopo eravamo in cima Big Ben e la pioggia ci colpiva in pieno volto. Sorrisi dell’incredulità delle mie due passeggere, mentre, sotto di noi il grosso orologio cominciava a battere l’ora.

La signora Pelopidas rifiutò con forza di tornare a casa nella stessa maniera e si fece trasportare a livello della strada solo perché non aveva altra scelta; poi, chiese scrupolosamente giorno, ora e nome della regina ad almeno dieci passanti, per essere sicura che non l’avessi imbrogliata in nessun modo e mantenne un silenzio pensieroso per tutto il tragitto in taxi.
Azzittì con un gesto il marito che stava per chiederle qualcosa, sorpreso di vederci entrare dalla porta del suo ristorante, mentre ci pensava, di sopra, nello studio, costrinse il pover’uomo a vedere il video della telecamera per confermare che fosse tutto accaduto davvero e, infine, mi ricondusse al punto di partenza.
“Ora mi crede, signora Pelopidas? ”Chiesi, una volta che fummo tornati a sederci sulle comode poltroncine viola.
“la videocamera non ha funzionato durante il trasporto.”
“La magia interferisce con la tecnologia.”
“D’altra parte, i tempi sono stati troppo stretti perché lei abbia potuto drogarmi, caricarmi su un camion e trasportarmi in cima al Big Ben, di questo ne sono più sicura.”
“Signora, nessuno farebbe ma una cosa del genere per convincerla che la magia esista. Troppo costoso, piuttosto cambierebbe vittima.”
La signora Pelopidas annuì abbattuta.
“Ha ragione.”
Poi riprese un po’ di colore e aggiunse: ”per essere un mago, però, lei non ha proprio stile.” 
“Mi scusi?”
“Sì, insomma, si veste come un impiegato delle poste. Un vero mago dovrebbe indossare dei cappelli a punta. E lunghe vesti nere o verdi, come minimo.”
“Sì, signora, infatti, lo facciamo.”
“Non mi sembra.”
“Sono vestito così per non spaventarla e per farmi prendere sul serio da lei.”
“Bah ridicolo! Come faccio a prendere sul serio un mago che si mette la cravatta e prende i taxi invece di usare una scopa magica o un tappeto volante?”
“I tappeti volanti sono illegali. E comunque abbiamo delle regole che…”
“Lei poi è proprio un tipo poco appariscente. Ma almeno è sposato?”
“Signora, non credo che siano affari suoi.”
“Ma certo che lo è, non ha l’aria da scapolo.”
“Ma questo cosa c’entra?”
“Sa non capisco il suo interesse per quelli che non praticano la magia. Mmh sì, la sorpresa che provoca il suo annuncio…” Rifletté ”Già forse dopotutto la capisco, certo che fa un mestiere strano.”, disse quella che faceva la finta indovina, “Potrebbe mostrarmi la scuola?” aggiunse.
“Mi spiace, ma solo i maghi possono vederla, per gli altri è invisibile.” Risposi.
“Questa sì che come scusa è originale e come faccio ad andare a parlare con gli insegnanti?”
“Se vuole può spedirgli una lettera via gufo.”
“Gufo? Perché non un corvo? E comunque dove lo trovo un gufo? E poi mi scusi a chi dovrei indirizzarla la lettera? E come faccio a sapere se quello stupido volatile l’ha portata alla persona giusta?”
“Il gufo lo può comprare a Diagon Alley e i nostri gufi sono… incantati, sì diciamo così, per portare la posta al giusto destinatario.”
“Ma non sono troppo lenti? Non fareste prima a fare una telefonata?”
“I maghi non hanno il telefono.”
“Davvero? È una strana scelta di vita, serve a non pagare le bollette? Puoi stregare il contatore per pagare meno tasse?”
“Noi maghi non abbiamo l’elettricità: ci sono diversi incantesimi che ci rendono la vita altrettanto facile. Inoltre, come le ho già detto, la magia interferisce con la tecnologia.” Spiegai e sorrisi compiaciuto, sorvolando magnanimamente sulla questione del contatore stregato, ma prendendo mentalmente nota di fare due parole con dell’Ufficio dell’Uso Improprio dei Manufatti dei Babbani. Se la figlia assomigliava minimante alla madre avrebbero avuto parecchie grane nei prossimi anni.
“Allora perché lei mi ha appena consegnato un numero di telefono e mi ha detto di chiamarla se dovessi avere qualche difficoltà?”
Era vero, approfittando di un raro momento di silenzio, mentre viaggiavamo in taxi, le avevo dato il mio numero di emergenza: quello che tenevo solo per comunicare con genitori isterici, impauriti e confusi.
“Io sono uno dei pochi maghi che ne è dotato.” Dissi, e che lo sa usare, pensai. “Mi piace tenermi al passo con i tempi.”
La signora Pelopidas sbuffò e mi guardo storto. “Siamo sicuri che funzioni davvero?”
“Provi a chiamarlo se vuole, ma l’avverto, a quest’ora suonerà a vuoto.”
“Allora lo farò quando sarò sicura di trovarla.”
“Se proprio ci tiene a conoscere gli insegnanti di suo figlia le lascio questa” Dissi, porgendole una figurina delle Cioccorane. “lui è il preside di Hogwarts.” Un Albus Silente completo di cappello, veste nera e lunga barba bianca salutò allegramente la signora Pelopidas, che sorrise compiaciuta.
“Questo sì che sembra un mago, signor Tokai! Dovrebbe proprio prendere esempio da lui!”

Alzai gli occhi al cielo e ringraziai Merlino che non lo avesse visto indossare il suo vestito color prugna e il cappello con il trifoglio: il mondo non aveva bisogno di un’altra fan sfegatata dello stile di Silente.
“A quella scuola mi rovineranno la bambina...” Si crucciò, poi, la signora Pelopidas,”una volta che saprà fare la sua magia, non vorrà più fare la mia e chi la manda avanti la tradizione di famiglia?”
“Magari sua figlia preferirà intraprendere un altro tipo di carriera una volta finita la scuola.”
“Sciocchezze! Noi questo mestiere ce l’abbiamo nel sangue! Semplicemente allargheremo il giro d’affari.” Si riprese immediatamente la babbana, fulminandomi con gli occhi per aver osato dire una simile eresia.
“Signora, devo avvertirla che è proibito dalla nostra legge usare la magia sui babbani e ciò include anche filtri e pozioni: sua figlia verrebbe processata per questo.”
“Come possono provare che io abbia, non so, usato una pozione d’amore, e che i due non si siano semplicemente innamorati?”
“Le pozioni d’amore, come quasi tutti gli altri filtri e incantesimi, lasciano una traccia che il Ministero è in grado di riconoscere facilmente.”
“Ah quindi le pozioni d’amore esistono davvero! Buono a sapersi! Sentito Morgana?” Disse afferrando il braccio della figlia con entusiasmo, “Devi imparare a farle alla perfezione! Un paio di quelle potrebbero esserci davvero utili! Poi se esistessero anche quelle afrodisiache… Beh se esistessero, potrei permettermi di ritirarmi su una bella isoletta greca per il resto dei miei giorni.”
“Signora Pelopidas le ho appena detto che è illegale!”
“Ah ma noi le useremmo solo un cliente ogni dieci! Solo per i casi disperati, vede, gli insicuri patologici. Un cliente felice è un cliente che ritorna, ma un cliente troppo felice, non ritorna affatto.”
“Signora lei non può…”
“Oh ma quanto è rigido signor Tokai! L’amore è il motore immobile del mondo! Non sarà certo un po’ di magia a mandarlo fuori fase. E la divinazione esiste?”
“È una branca molto misteriosa della magia che in pochi sono in grado di praticare.”
“Quella almeno la mia bambina la potrebbe usare per i miei clienti?”
“Non saprei, non ci sono molti precedenti in proposito.”
“Bene, perché una predizione esatta ogni tanto, cioè, la certezza di aver fatto una predizione esatta, sì, insomma, qualcosa di sicuro al cento per cento e non solo all’ottanta, sarebbe una manna dal cielo per gli affari. Comunque, ora che ci penso, a mia figlia serviranno delle cose nuove per la scuola, una bacchetta, un calderone, una sfera di cristallo… Ci accompagnerà lei a comprare l’occorrente.” Decise la signora Pelopidas.
“Certamente, nei prossimi giorni l’accompagnerò di persona a Diagon Alley.”
“Però mi deve promettere una cosa, signor Tokai, lì deve venirci vestito da mago vero, niente scuse: non voglio mai più vederla con questo orribile completo babbano. È un insulto alla categoria.”
“Ai suoi ordini, signora.” Acconsentii stancamente. Figurarsi! Non mi ero mai presentato a Diagon Alley con niente di diverso di una veste da mago e mai lo avrei fatto. Non ci tenevo a farmi ridere dietro.

A settembre Morgana fu smistata a Corvonero non appena il cappello le sfiorò la fronte: era una discreta pozionista e si rivelò una vera indovina.
Madre e figlia svilupparono un sentimento d’antipatia e rispetto per la professoressa Cooman: la ammiravano per essere riuscita a sopravvivere per tanti anni in un ambiente competitivo come il mondo magico, ma la disprezzavano perché non aveva il coraggio di ammettere a sè stessa di essere un imbrogliona fatta e finita (e neanche tanto brava).
Dopo i suoi sette anni ad Hogwarts Morgana portò avanti l’attività materna e l’ampliò, iniziando a servire anche i maghi e ottenendo un sorprendente successo anche tra la nostra gente: nessuno seppe mai a quali clienti fornisse vere profezie e vere pozioni e a chi soltanto un placebo. Come diceva sempre la signora Pelopidas, un cliente troppo felice è un cliente che non torna e Morgana aveva perfettamente fatto sua questa filosofia.
L’unico a cui sembrava importare qualcosa delle supposte attività illecite della strega era l’Ufficio dell’Uso Improprio dei Manufatti dei babbani che, però, non riuscì mai a dimostrare l’effettività dei suoi sospetti; probabilmente perché l’indovina prevedeva sempre per tempo l’arrivo degli uomini del Ministero. 






Ciao a tutti, dopo un’enormità eccomi di ritorno con una storia di John Tokai, avrei voluto aggiornare prima, ma la revisione mi ha portato via un sacco di tempo, senza contare l’altra raccolta che avevo iniziato nel frattempo.
Quando parlo di “sfruttamento di magia minorile” intendo qualcosa del tipo: un parente babbano si rende conto della magia del figlio e la usa per truffare altri babbani suoi pari o vedergli oggetti incantati dal suo pargoletto. Mi sembrava una cosa possibile, ma fatemi sapere che ne pensate. John Tokai che non riconosce un’indovina è come una persona che parla due lingue a volte non si rende subito conto in che lingua sta leggendo, semplicemente capisce (e sì, capita, almeno a me è successo). Ah e per la cronaca la signora Pelopidas si è davvero ritirata sulla tanto agognata isoletta greca.
Al solito, se trovate qualche errore o svista fatemela notare.
QUI trovate l'avventura di John Tokai nel mondo babbano. Malaca, invece, è un'imprecazione greca. Questa raccolta procederà molto lentamente data l’immensa mole di pagine da scrivere, io sono abituata a cose molto più brevi, ma procederà, non vi preoccupate. Grazie a tutti.

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Capitolo 4
*** Margaret ***


Margaret, -Maggy per gli amici, amici, non colleghi, mi sono spiegata?- arrivava sempre in anticipo e preparava il tè. Diceva che senza di lei noi ragazzi ci saremmo dimenticati pure la testa e che la prima colazione era il pasto più importante della giornata: “E dite pure a quel giapponese di Tokai, che non m’interessa se al suo paese mangiano riso, in inghilterra si beve il tè e le tradizioni vanno rispettate, che inizi ad abituarsi anche lui”.
Si occupava per lo più della parte burocratica del nostro lavoro con una precisione leggendaria e non ammetteva deroghe: ogni documento doveva essere pulito, ordinato, in bella scrittura, chiaro e conciso e guai a consegnarle qualunque cosa fosse meno che perfetta. Scriveva, però, i rapporti di Stipwell, il nostro superiore, personalmente: lasciato a sé stesso, il caro George, sarebbe stato in grado di far chiudere l’ufficio in un solo giorno, scrivendo sui quei maledetti documenti anche ciò che avrebbe fatto meglio a tenere per sé.
 
Margaret era lì anche quella mattina, ma la teiera non fischiava, le tazze erano ancora nel loro stipetto e nessun odore di tè nero permaneva l’ufficio: la confortante abitudine sembrava svanita nella posa rigida e nelle dita contratte della collega.
John, Arthur e Ernest si guardarono senza osare violare quella soglia, invasi da un orribile presentimento: poi come un solo uomo fecero un passo, gettandosi senza esitare in soccorso della collega e, mentre il primo faceva partire il bollitore con un colpo di bacchetta e il secondo recuperava le tazze, il terzo evocò dal nulla qualcosa di più forte.
Margaret, che da quel giorno sarebbe stata Maggy, porse loro il giornale senza emettere un suono: un trafiletto, subito a destra dell’articolo centrale, avvertiva che un mago dell’ufficio Babbane, George Stipwell, era stato aggredito da un gruppo di Mangiamorte. Il mago aveva dato battaglia, resistendo fino all’arrivo degli Auror: il loro sopraggiungere aveva fatto cessare ogni scontro e messo in fuga gli aggressori, ma la loro tempestività non era bastata. Stipwell si era spento poco dopo per le ferite riportate.
 
Da quel giorno molte cose cambiarono.
 
Maggy fu messa a capo dell’ufficio e smise di occuparsi di ogni tipo di lavoro di ufficio, demandando il compito a Ernest, l’unico altro mago che sembrava condividere la sua passione per la precisione e gli incartamenti. Aveva per il lavoro sul campo la stessa cura che dedicava alle sue amate scartoffie, ma sebbene cercasse di mantenere le apparenze per incoraggiare la truppa, era evidente a tutto l’ufficio che la sua vita si fosse fermata quel mattino, davanti a un necrologio. Arrivava ancora in anticipo, ma mai prima di Tokai, che le faceva trovare il tè già pronto sulla scrivania, e andava via tardi, ma mai dopo Ernest, che trovava sempre un po’ di tempo per accompagnarla a casa.
Lo spirito indomito che aveva caratterizzato Stipwell- “Sergente, chiamatemi sergente, la conoscete l’ironia, ragazzi?”- sembrava essersene andato con lui e condividevano tutti la sensazione di rassegnazione che segue sempre la fine di un’epoca d’oro. La sua morte sembrava aver spezzato un incantesimo e tutti, improvvisamente, si rendevano conto di essere in guerra e di quanto folli fossero stati fino ad allora le loro scelte, le loro azioni, le loro entusiaste discussioni pro babbani.
Nessuno osava chiederlo a voce alta ma tutti si domandavano chi sarebbe stato il prossimo a diventare lo sfogo per Mangiamorte annoiati o in cerca di vendetta.
 
La risposta non si fece attendere: John Tokai svanì nel nulla dopo uno scontro con i Mangiamorte e, se ci fu chi si disse convinto si fosse unito a loro, e portò rancore, ci fu anche chi non osò nemmeno indagare sul perché non si fosse mai ritrovato alcun cadavere.
Maggy appese l’articolo di giornale in bacheca vicino a quello di Stipwell ed esortò le sue esigue truppe a non arrendersi: “Non gliela daremo vinta”, disse e triplicò i suoi sforzi; la strega non avrebbe sopportato- né si sarebbe permessa- di perdere un altro dei ragazzi dell’ultima truppa del sergente Stipwell.
 
Fu forse per questo che Margaret morì -il suo corpo spezzato fu ritrovato nella campagna inglese- e furono tre i necrologi attaccati in bacheca, uno dietro l’altro come i rintocchi di una campana funebre. L’ufficio restò in mano ai due tirocinanti, ma a nessuno parve importare: i rapporti con i babbani passavano in secondo piano quando metà della comunità magica britannica tentava di sterminare l’altra metà.
Ernest si ritrasse giorno per giorno: le sue ambizioni inaridire, la sua efficienza diventata una posa, il suo sguardo sempre più spento. Arthur finse la vecchia spensieratezza, ma aveva smesso da tempo di essere ottimista e una smorfia acida di terrore non abbandonava mai il suo volto.
Nonostante ciò, i due maghi continuarono a lavorare senza tregua, tenendo alto il nome del loro sergente: trovare i nati babbani, garantire la loro sopravvivenza e metterli in salvo ad Hogwarts, sotto la protezione di Silente, fu ciò a cui si dedicarono notte e giorno malgrado la certezza che non sarebbero vissuti molto a lungo. Il resto furono solo pratiche inevase e sguardi vuoti, come nella maggior parte dei piccoli uffici periferici del grande Ministero della Magia durante quel oscuro periodo.
 
Poi la guerra finì e Tokai tornò, spaventato, euforico, diverso, ma non Margaret, non Stipwell; una parte di Ernest andò persa per sempre e il sorriso di Arthur non fu mai più così aperto come lo era stato nel tempo in cui Maggy era soltanto Margeret.




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Note: ciao a tutti, dopo tutto questo tempo sono finalmente riuscita a pubblicare qualcosa di molto breve. Mi rendo conto che questa storia è poco in linea con lo spirito della raccolta, ma questa storia ha letteralmente preso il sopravvento e ha pretesto di essere scritta. Nei miei piani la presentazione di Stipwell e Maggy avrebbe dovuto avvenire in modo più leggero e divertente, raccontandovi di come Tokai ha evocato un gatto sputafiamme che ha incenerito un salotto babbano e tre cassette della posta, ma proprio non ce l'ho fatta. Scrivendo l'altra mia raccolta, war poems, mi è venuta l'ispirazione per questa storia e il successivo capitolo di questa raccolta, che non sono proprio allegre, essendo anch'esse, a tema guerra/dopoguerra. Siccome però non pubblicavo da tempo un nuovo capitolo mi è sembrato il caso di partire almeno da qui, per non fare sembrare ancora più lunghe le pauese bibliche di questa raccolta. (il prossimo capitolo è in revisione quindi non dovrebbe mancare troppo)-

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Capitolo 5
*** Reduci ***


Reduci.
 
Quando ritornai finalmente a casa, la prima guerra magica era appena finita e, anche se ancora non lo sapevo, aveva appena avuto inizio il breve periodo in cui la giustizia sarebbe stata riportata a forza di prepotenze, discriminazioni e processi sommari; Barty Crouch ne fu il maggiore artefice, almeno fino a quando anche la sua famiglia venne travolta dallo scandalo. Solo allora l’intero circo mediatico si diede la calmata definitiva e le disparità poterono continuare nel silenzio.
 
Al nostro ritorno dall’esilio nel mondo non-magico, mia moglie Agata fu accolta con gioia e celebrata dai più come l’eroica Grifondoro che aveva protetto i genitori babbani, io, in quanto ex Serpeverde e purosangue, subii un destino diverso.
All’epoca, come dicevo, i processi erano sommari e quasi tutti i Serpeverde furono sottoposti ad indagini preventive, con un inutile spreco di risorse giudiziarie, a mio parere. Evidentemente, per lavare la colpa di essere stati smistati nella casata verde e argento, non bastava essere nato-babbano e sfuggito per miracolo ai mangiamorte, come non bastò, per me, essermi nascosto tra loro per anni, senza ucciderne nemmeno uno per sbaglio.
Venivo, dunque, sospettato di collaborazionismo con i Mangiamorte: per qualche, assurdo burocrate del Ministero, infatti, avevo sempre simpatizzato con gli ideali di Voi sapete Chi e, anzi, avevo studiato i babbani proprio per capire come ritorcere la loro tecnoclogia contro di loro.
 
Sorvolando sul fatto che non sapessero neanche come si scrivesse tecnologia e, molto probabilmente, non sapessero nemmeno cosa fosse, i dipendenti in questione si dimostrarono ben poco astuti. In primo luogo perché i mangiamorte, non avevano certo bisogno di fare ricerche, visto che gli uomini morivano tutti allo stesso modo, e, in secondo luogo, non si sarebbero mai abbassati a studiare qualcosa di inferiore come la tecnologia babbana, anche perché -ed è quasi ironico- molto probabilmente non l’avrebbero compresa.
Insomma ci erano voluti mesi a me, per comprendere come usare una televisione, figuriamoci quanto tempo sarebbe servito a loro che non avevano seguito neppure una lezione di babbanologia.
Inoltre, sebbene mio fratello maggiore fosse uscito pulito da tutta questa orribile storia, mia sorella era sotto processo e cercava disperatamente di dimostrare la sua innocenza. Fu per questo unico motivo che rivelai la mia storia e mi sottomisi agli estenuanti interrogatori che seguirono, invece che raccontare, ad esempio, di essere immigrato clandestinamente in Giappone come i miei genitori: speravo che la mia testimonianza potesse pesare positivamente sulla decisione della corte.
Insomma, se pure il suo fratellino Serpeverde era un babbanofilo, come poteva lei, Corvonero e medimago, essere qualcosa di diverso da una delle tante vittime delle circostanze?
 
In quanto figura autorevole del mondo della medimagia, fu una delle poche che riuscì ad evitare il rito abbreviato e a non essere condannata per direttissima.
Fu un processo difficile: Arabella aveva collaborato con i mangiamorte, era vero, e di sua spontanea volontà, ma solo perché non farlo, avrebbe portato a una morte prematura lei e la sua bambina. Però, in quell’epoca in cui la vendetta era stata legalizzata e il caos imperversava, era difficile farsi perdonare anche una cosa simile: molti pensavano che se lei non avesse curato i mangiamorte feriti, i loro parenti sarebbero stati ancora vivi. Arabella, affermava che, se non l’avesse fatto, sarebbe venuta meno al suo dovere di medico ed essere umano, ma non c’era molto spazio per gli ideali e l’orgoglio in quel triste dopoguerra: ex-magiamorte confessavano, altri si proclamavano vittime di incantesimi, altri ancora facevano le valige in tutta fretta; pochi rimasero fedeli ai loro principi e furono, di fatto, quelli che andarono incontro al destino peggiore di tutti e furono rinchiusi ad Azkaban.
Malgrado tutto, non fui abbastanza coraggioso da affrontare uno di quei spaventosi processi e chiesi aiuto a Moody e Minerva per evitare che quelle indagini divenissero qualcosa di più. Al di là della ovvia paura di essere giudicato in fretta e furia da una corte assetata di sangue e vendetta, pronta a sparare sentenze, ma nel senso meno tecnico e lusinghiero dell’espressione, essere citato in giudizio non avrebbe aiutato neppure mia sorella.
 
In qualche modo riottenni il mio vecchio posto, ma il mio nuovo capo era in realtà agli ordini degli auror con il compito di sorvegliarmi 24 ore al giorno: non si impegnarono molto a nascondere la realtà dei fatti, anzi, ne approfittarono per lanciarmi velate minacce e farmi pressioni affinchè io potessi commettere un qualche passo falso.
Silente, su intercessione di Minerva, che mi doveva un favore, mi offrì un posto a Hogwarts, ma non accettai: volevo solo indietro la mia vecchia vita e, francamente, insegnare non era mai stata una delle mie ambizioni. Fu allora che il preside mi ricordò con gentilezza i rischi che correvo nel non acconsentire alla sua proposta e sottolineò quanto onorato sarebbe stato ad avere un mago del mio calibro tra i suoi insegnanti. Siccome le sue parole non sortirono l’effetto desiderato, Minerva, stizzita, aveva scommesso che avrei mollato il Ministero nel giro di poche settimane, per via delle pressioni a cui sarei stato sottoposto o per amor di mia sorella. Io, però, per quanto fossi grato a Silente per il suo intervento e per l’onore che mi faceva volendomi ad Hogwarts, dopo tutto lo sforzo fatto per restare il più neutrale possibile, non volevo certo schierarmi proprio alla fine della guerra, saltando sul carro del vincitore. Minerva ancora detesta di aver perso la scommessa, ma capisco che essere costretta a portare un cappello con un appariscente vischio rosso e blu per l’intera vigilia di Natale debba essere stata piuttosto fastidioso per una strega come lei.
 
 
La nostra sezione, come molte altre, era nel caos: certo, nessuno dei nostri dipendenti si era risvegliato -o fingeva di averlo fatto- da una maledizione imperius, ma il sergente Stipwell era morto vendendo cara la pelle e Margaret scomparsa a metà della guerra.
A quel punto il morale dell’intero ufficio era crollato, nessuno si era più occupato delle scartoffie: -se Tu Sai Chi avesse vinto non sarebbero più servite-, pensavamo, -anzi avrebbero potuto aiutarlo ad individuare tutti i nati babbani che avevamo messo in salvo ad Hogwarts.
In quel difficile dopoguerra, però, il Ministero sembrava aver deciso che una documentazione linda e precisa dovesse essere la priorità di qualunque conglomerato di maghi che osasse definirsi ufficio, non importava quanto miserevole e secondario esso fosse. Sempre che, ovviamente, volesse continuare ad esistere.
Lavoravamo senza sosta, facendo ore di straordinari: oltre ai casi nuovi, c’era da occuparsi anche del recupero dei dati dei precedenti lavori, il che implicava un lungo lavoro di ricerca dal momento che le liste di nati babbani erano state accuratamente bruciate, la posta mandata per errore alle poste babbane completamente ignorata e tutti i rapporti scritti in modo sintetico e approssimativo. Bisognava avere la certezza assoluta di nomi, luoghi ed eventi e riscriverli accuratamente rispettando il nuovo formato e archiviare in ordine alfabetico, prima che fosse vagliato con attenzione maniacale dal nostro sorvegliante. Il nostro reparto, infatti, per quanto generalmente considerato periferico e poco importante era stato inserito nella lista di settori ad alto rischio, per via dello smodato interesse di Colui Che Non Deve Essere Nominato per le stragi di babbani. Ci erano grati per aver cercato di proteggere i nati babbani con l’ausilio di una incartamenti imprecisi e incomprensibili, ma ora quei tempi erano passati questo atteggiamento poteva rivelarsi una pericolosa arma a doppio taglio, perciò tutto doveva tornare nelle capienti braccia del Ministero. Ora che la caccia a Tu Sai Chi era terminata i nati babbani avrebbero potuto essere protetti in modo attivo dagli auror stessi, che però necessitava di una documentazione precisa.
 
Tutto il lavoro d’ufficio era generalmente di mia competenza, ma le indagini sul campo, necessarie per aggiornare i fascicoli, toccavano ai miei colleghi, che dovevano sommarle al loro lavoro normale. Il nostro nuovo capo, in quanto mio cane da guardia personale, aveva, infatti, decretato che io non potessi allontanarmi per nessuna ragione dal Ministero, né entrare in contatto con nessun babbano.
Ufficialmente ciò avveniva per motivi organizzativi: gli interrogatori e gli accertamenti sulla mia posizione durante la guerra e sulla veridicità della mia storia erano episodici e discontinui e prevedevano che consegnassi un numero infinito di pratiche e autocertificazioni negli uffici più disparati. Tutto ciò, ovviamente, rendeva la mia disponibilità lavorativa piuttosto limitata e intermittente, incompatibilecon un lavoro sul campo che necessitava di agire al momento opportuno, senza indugio. Aggiungevano, poi, che dopo un così lungo periodo passato nel mondo babbano, sarebbe stato meglio per le mie doti da mago, di cui il Ministero aveva assoluto bisogno, che passassi un periodo riabilitativo strettamente a contatto con la magia che altrimenti rischiavo di dimenticare.
Ufficiosamente, la motivazione riguardava il fatto che io, secondo l’opinione comune, il mio vecchio posto ero riuscito a riottenerlo perché ero un altro di quei viscidi Serpeverde pieno di contatti, senza contare il fatto che l’ufficio del personale riteneva non ancora fugati i sospetti sulla mia collaborazione con Voi Sapete Chi. Fare loro notare che, se non avevo aggredito nessun babbbano dopo anni passati nel loro mondo (e c’erano stati momenti in cui un bello stupeficium mi sarebbe stato quantomeno di conforto), sicuramente non avrei iniziato a farlo adesso, non aveva sortito alcun effetto. All'opposto, Ernest, che già mi detestava, aveva rincarato la dose raccontando la storia del gatto sputafuoco, violando così il codice non scritto del nostro ufficio -“quello che facciamo per convincere i babbani resta tra noi, stronzetti”- che il defunto sergente Stipwell aveva sempre fatto rispettare.
Inoltre, era vero che avevo usato alcuni dei miei contatti per scampare al processo e farmi nel contempo riassumere al Ministero, ma se fossi stato davvero un doppiogiochista, come di fatto lo era Malfoy -ne ero sicuro- li avrei usati per farmi assegnare un posto in un ufficio più rinomato e non sarei di certo tornato alle “relazioni babbane” o quanto meno non ci sarei rimasto a lungo.
 
A rimpolpare lo scarso organico del nostro ufficio c’erano due nuove reclute: Astoria e Bill che più che un aiuto erano un’ulteriore incombenza.
In primo luogo perchè quelli che oggi si trovavano ad essere i veterani dell’ufficio, erano poco più che apprendisti quando avevano perso le loro guide, quindi si trovavano impreparati ad insegnare a loro volta i trucchi del mestiere che maneggiavano ancora un po’ a fatica. In secondo luogo perché nessuno dei due nuovi assunti si trovava nella giusta disposizione d’animo: Astoria era apatica e lontana, Bill impaziente e rabbioso,.
La prima era stata spostata a fine guerra nel nostro ufficio: la strega versava in stato di shock permanente e passava le giornate a guardare nel vuoto. Era una storia comune, la sua, ma non per questo meno tragica: tornata da lavoro più tardi del solito, aveva trovato il marchio nero su casa sua e la sua intera famiglia trucidata all’interno, compresi i figli che si godevano le meritate vacanze estive, lontani, per la prima volta da mesi, da Hogwarts. Nessuno aveva avuto tempo di occuparsi di lei durante la guerra, così era rimasta ad occupare la sua vecchia scrivania, nel dipartimento di giustizia del Ministero, ma con il volgere del nuovo corso e la scomparsa di Colui Che Non Deve Essere Nominato, era stata gentilmente messa da parte e trasferita per far posto agli arrivisti, ai tecnici e agli affamati di vendetta. Non che la cosa l’avesse colpita in particolarmente: era passata dal guardare il vuoto e compilare stancamente qualche pratica nell’ufficio della Giustizia a farlo nel nostro più defilato ufficetto.
Quello di Bill, invece, era stato un trasferimento volontario un gesto di ribellione e rabbia per essere stato sottoposto per mesi alla maledizione imperius e costretto a passare informazioni ai suoi aguzzini: diceva di voler fare qualcosa di concreto per ripagare il male che aveva fatto. “Voi non sapete com’è,” Ci disse una volta: “Ho passato mesi in un limbo felice, ma quando mi sono svegliato e ho ricordato, sapevo che era stata colpa mia perché non avevo saputo impedirlo”. Nessuno si era sentito in grado di replicare a quel punto.
Non potevo, però, aiutare i miei vecchi colleghi neppure con l’addestramento, non ufficialmente, almeno. Il mio cane da guardia non vedeva di buon occhio che avessi rapporti con i due nuovi assunti, che erano in una condizione di fragilità estrema: secondo lui avrei in qualche modo potuto traviarli o minacciarli, approfittando del mio ruolo d’istruttore.
 
Trovavo estremamente difficile riabituarmi al mondo magico: nessuna penna autoinchiostrante poteva eguagliare una biro e dopo tutta la fatica fatta per imparare a usare una macchina da scrivere, sembrava un peccato doverne fare a meno. Mi accorgevo dell’utilità delle macchinette per il caffè, della comodità delle lavatrici e mi mancavano perfino le chiacchiere sul calcio.  Rimpiangevo l’anonimato del mondo babbano: al Ministero le occhiate e i sussurri che mi seguivano non dipendevano dalla mia incompetenza o goffaggine, ma dalla scelta di un cappello e dalle azioni dei Mangiamorte.
Dopo anni di esilio ora mi sentivo a disagio e lo detestavo, perché in quei lunghi anni passati tra i babbani non avevo altro desiderio che tornare a casa.
Senza contare che, dopo aver passato gli ultimi anni a vendere enciclopedie porta a porta, il lavoro d’ufficio mi sembrava limitante e noioso e ne ero insofferente: mi recavo ogni giorno nell’ufficio del nostro supervisore per chiedergli di poter partecipare alle azioni sul campo, ma senza nessun risultato, a parte quello di irritarlo, certo.
Arthur mi diceva di pazientare: io non c’ero durante la guerra non sapevo come era stata.
I maghi avevano smesso di fare nuove amicizie, il sospetto e la paura si erano insinuati tra marito e moglie, tra amici d’infanzia, tra fratelli, tra figli e genitori. Erano scomparsi in molti e quelli che erano stati ritrovati… No, non volevo proprio sapere come erano stati ritrovati. Ogni volta che uscivi di casa, ogni volta che vedevi una persona a te cara poteva essere l’ultima. Era normale che mi tenessero ancora d’occhio, perché il mondo magico non era più quello di un tempo.
Gli rispondevo che ero stanco di sentirmelo dire perché per me non era stata una villeggiatura. Arthur non replicava mai, si limitava a stringersi nelle spalle, ma vedevo che non capiva: dopotutto, neanch’io riuscivo a spiegargli al meglio l’amarezza dell’esilio.
“John, molte persone sono morte per mano di Serpeverde” scuoteva la testa il mio collega.
“No,” rispondevo ogni volta, “molte persone sono morte per causa di assassini e io non lo sono e come me molti altri”.
Non ero davvero arrabbiato con Arthur, lui cercava disperatamente di tenere in piedi il gruppo e per questo aveva tutta la mia stima e il mio rispetto: ultimo erede dello spirito del sergente, aveva deciso di preservarlo ad ogni costo, in sua memoria, ma era difficile. Ernest, ambizioso com’era, coglieva ogni occasione per mettersi in mostra con il sorvegliante a scapito nostro, avendo capito che bisognava approfittare il più possibile di quel periodo di incertezza se si voleva fare carriera e quello della carriera era stato un suo pallino fin dall’inizio.
“Stipwell non c’è più, Arthur,” lo sentii dire una volta ”dobbiamo modernizzarci”
Mi faceva ridere che, proprio lui che riteneva le penne autoinchiostranti il massimo della novità, parlava di rinnovare l’ufficio: avesse visto cosa combinavano i babbani, si sarebbe sentito un uomo delle caverne.
All’insaputa del sorvegliante e tenendomi ben lontano dal radar di Ernest, cercavo di aiutare Arthur con i lavori più difficili: una visita fortuita a Diagon Alley, un consiglio pronunciato a mezza voce, un aneddoto ben piazzato, una spiegazione sussurrata, un’indagine contrabbandata per passeggiata romantica o visita ai parenti di mia moglie. C’erano poi le volte in cui ci incontravamo direttamente fuori dal lavoro, in una delle nostre due case, per organizzare un piano d’azione valido per l’intera settimana o discutere dei modi migliori per addestrare le nostre reclute. Ernest era lasciato fuori anche da questi conciliaboli: la sua ambizione solitaria disturbava noi e impediva a lui di lavorare bene in squadra e chiudere un occhio sulle mie piccole collaborazioni clandestine. Il nostro collega sembrava deciso ad ignorare la realtà che aveva sotto il naso- avevo davvero passato anni a nascondermi nel mondo babbano e ne portavo ancora addosso i segni- e attenersi alla versione ministeriale della faccenda- mi ero probabilmente unito ai mangiamorte-. Odiava il fatto che fossi tornato ed era invidioso delle mie capacità: fossi morto davvero durante la guerra, probabilmente, mi avrebbe ricordato come un eroe.
Bisognava essere molto prudenti nell’agire sotto il naso del sorvegliante perché in ballo non c’era solo la mia carriera o libertà, ma anche quella della mia testarda sorella, oltre al buon nome del nostro ufficio che fin ora contava un numero pari a zero di mangiamorte o simpantizzanti di Tu Sai Chi. Forse penserete che non sia un record notevole, ma così sottovalutereste, e di molto, il terrore che era stato in grado di spargere Colui Che Non Deve Essere Nominato e quanto sia facile considerare i babbani dei completi idioti quando ci si ha a che fare con loro molto, ma non abbastanza.
 
Insomma tutto andava più o meno male, fino a quando ad Astoria non fu assegnata la sua prima famiglia babbana.
 
Era un piovosissimo martedì e, come spesso accadeva, in ufficio c’eravamo solo io e lei: il supervisore l’aveva chiamata assegnandole il compito di avvertire la famiglia Smith, rimarcando il fatto che, se almeno questa volta non avesse concluso qualcosa, sindrome da stress post-traumatico o meno, avrebbe trovato il modo per sbatterla fuori dal Ministero. Perché lui era stanco del suo modo di fare. E dicesse qualcosa aveva capito si o no?
 
Astoria aspettò la pausa pranzo, poi raggiunse la mia scrivania: l’ufficio ormai si era svuotato del tutto. Il supervisore, infatti, dopo un breve calcolo aveva ritenuto che l’apatia di Astoria avrebbe potuto fermare i miei tentativi di lavaggio del cervello almeno per il tempo del suo pranzo.
“Mi ricordo di te prima che sparissi: eri maledettamente entusiasta. Pensavo ti avessero ucciso.“ mi disse.
“Mi sono nascosto tra i babbani.” Risposi senza pensare, stupendomi, in ordine, del fatto che avesse scelto proprio me per rivolgere le sue prime parole del mese e che, nel farlo, avesse avuto un tempismo perfetto.
“È stata dura?”
“Sì.”
“Ma ti sei salvato. Aiutami con gli Smith”
“Io non posso lavorare sul campo”
“E io non posso andarci da sola”
“No, non puoi.”
Astoria mi fissò, in attesa.
“Fammi vedere quel fascicolo, ti dirò cosa devi fare” cedetti.
“Devi venire con me. Non riesco a parlare con le persone”
“Ora lo stai facendo, però” Il che fu ingiusto da parte mia, visto che quello era il discorso più lungo che le avessi mai sentito fare: di solito si limitava a piantare i suoi occhi vacui su di te e ad annuire. Ernest, non a torto, la trovava inquietante: non eri mai sicuro che avesse capito davvero.
“È diverso”
Capitolai solo per il buon nome del nostro ufficio e in memoria del Sergente Stipwell, che non si sarebbe di certo fatto scoraggiare da un paio di regole nel dare una lezione di vita e di lavoro alle sue reclute. Astoria, dopotutto, era diventata parte del nostro ufficio ed in quanto tale una nostra responsabilità.
 
Arrivammo dagli Smith durante un temporale, riparandoci sotto grosso ombrello viola ed indossando completi babbani, da me personalmente approvati. La casa era lontana dal paese, persa nella brughiera, ed era poco più di un fienile umido: le assi del tetto stavano marcendo e le pietre dei muri sembravano lasciar passare più di uno spiffero. Ad aprirci la porta, dopo un tramestio di chiavistelli, furono due gemelli malnutriti dallo sguardo da lupi.
 
“Che volete?” domandarono aprendo solo dello spazio necessario a mettere fuori le teste e radiografarci dalla testa ai piedi.
“Noi vorremmo parlare con la signora Smith” Presi l’iniziativa.
“Mamma lavora.”
“Cosa volete dirle?” Il tono era secco, ostile, ma non mi lasciai scoraggiare: Merlino sapeva quanto ero felice di ricominciare a fare finalmente il mio lavoro, anche se in via clandestina e suppletiva.
“Vogliamo parlare con la mamma di una cosa importante, la aspetteremo, potreste farci accomodare nel frattempo?”
“Non facciamo entrare gli sconosciuti.”
Lanciai un’occhiata ad Astoria che dopo il breve exploit in ufficio, sembrava di nuovo essersi spenta: non sembrava particolarmente turbata dall’idea di restare ad attendere sotto la pioggia. Io, però, non mi potevo definire altrettanto entusiasta.
“Quando finisce di lavorare vostra madre?”
“Torna per le 8, andate a farvi un giro. Noi non facciamo accomodare nessuno sconosciuto.”
“Noi non siamo sconosciuti, siamo i rappresentati di una scuola privata.”
Lo sguardo si affilò, incupendosi per un istante.
“Certo come no. Tornate alle 8.” Dissero e ci chiusero la porta in faccia.
 
“Che razza di testardi. Ci smaterializziamo al Paiolo e torniamo dopo?”
Astoria si strinse appena nelle spalle.
“Prima lanciamo un bell’incantesimo che ci avvisi dei loro movimenti”. Dissi, agitando la bacchetta con gesti precisi, poi cercai di mantenere viva la conversazione: “Comunque è probabile che la loro madre sia in casa per quell’ora. In ogni caso, io non ho la minima intenzione di aspettarli sotto la pioggia. Andiamo?”
Astoria restò immobile per un lungo momento, guardando il vuoto e poi esalò: “Preferisco un bar babbano. Se proprio non vuoi restare sotto la pioggia andiamo in un bar babbano.”
Riservai ad Astoria una lunga occhiata meditabonda: era la prima strega che mi avesse mai fatto una simile richiesta, ma acconsentii. I locali babbani non mi mancavano particolarmente, ma di sicuro, così facendo, avrei ridotto le chance di essere beccato in flagrante da qualcuno del Ministero, mentre chiacchieravo con Astoria proprio nel giorno in cui lei doveva parlare con la sua prima famiglia babbana. Le voci sarebbero, senza dubbio, arrivate al mio carceriere in un batter d’occhio e lui avrebbe, molto probabilmente, tratto le dovute conclusioni e di certo queste non sarebbero state a mio favore. A quel punto avrei potuto salvarmi solo spergiurando di avere un’infuocata storia d’amore con la mia collega, o qualcosa del genere, anche se a quell’epoca sarebbe comunque stato difficile da sostenere data la sua completa apatia.
Camminammo fino al villaggio là vicino visto che smaterializzarsi in pieno giorno in un villaggio babbano sconosciuto era troppo rischioso. Astoria sembrava apprezzare passeggiata e silenzio e io non la disturbai: come dicevo, era la prima volta da quando era venuta a lavorare nel nostro ufficio che mostrava un interesse, seppur discontinuo, per qualcosa.
Il pub del villaggio era essenzialmente una grossa sala buia con bancone, spillatori e un paio di tavoli. Qualcuno degli uomini al bancone ci lanciò la strana occhiata che nel gergo universale dei bar significa “stranieri”, mentre ci ritiravamo sul fondo del locale.
“Cosa prendi?”
“Fai tu.”
Andai al bancone e ordinai due birre chiare e pagai.
“Quanto è in falci?”
Disse estraendo un sacco di monete da una tasca del suo vestito.
“Non preoccuparti di questo, facciamo i conti dopo, se ci tieni.”
“Mi sto facendo notare troppo?”
Lanciai uno sguardo a baristi e clienti che non ci perdevano d’occhio pur senza guardarci.
“I sacchetti di monete danno nell’occhio, anche quando sono finte.”
“Capisco.”
 
Bevemmo in silenzio le nostre birre, tranquillizzanti dalla momentanea invisibilità che ci dava il mondo babbano e confortati dal rumore della pioggia.
“Perché hai suggerito di recarci in un pub babbano?”
Le chiesi, a disagio. Come ho detto, non mi dispiaceva, anzi era probabilmente la scelta più sensata, ma nessun mago sano di mente avrebbe mai proposto una cosa del genere e non soltanto perché io ero un Serpeverde sospettato di aver collaborato con un pazzo assassino. Semplicemente, la maggior parte dei maghi non provava abbastanza curiosità: il mondo babbano era come uno sfondo a cui non facevano più caso.
“Qui non sono nessuno.“
Bevvi un sorso di birra, cercando di nascondere l’imbarazzo crescente: l’intera comunità magica ama il pettegolezzo tanto da averlo eletto sport nazionale molto più del Quidditch e tutti conoscevano la storia di Astoria, perfino io che ci ero tornato da poco. Sapere vita, morte e miracoli di quasi ogni singolo mago, non è poi così difficile, data la ridotta grandezza della nostra comunità: dopo la guerra si poteva dire che le cose erano solo peggiorate.
“Hai ragione. Questo manca anche a me.”
In un certo senso la capivo: non avevo certo un disordine da stress post-traumatico, ma di sicuro non mi piacevano le occhiate che si lanciavano tutti quando pensavano che non li vedessi, senza contare le voci che giravano sul conto di mia sorella e dalla mia intera famiglia.
L’incantesimo che avevo lanciato sulla casa fece vibrare dolcemente la mia bacchetta, interrompendo il silenzio che era calato dopo la mia ultima dichiarazione. Come sospettavo, i gemelli ci avevano mentito sull’orario di ritorno della loro madre, sperando, forse, che ci scoraggiassimo. Lanciai uno sguardo d’intesa ad Astoria e ci avviammo lungo le strade deserte di quel paesino irlandese, dopo aver debitamente finito le nostre birre. Non volevo di certo avere da ridire, di nuovo, con un barista babbano.
 
Eravamo riusciti ad introdurci in casa grazie all’aiuto di un tono di voce particolarmente squillante e un piede infilato in mezzo alla porta che i due gemelli volevano sbatterci di nuovo in faccia. A quel punto un’angelica giovanissima donna era apparsa sulla soglia, scacciando i due piccoli lupi senza fatica alcuna. Ci aveva soppesato per un attimo senza sapere come inquadrarci e nel dubbio facendo vincere l’educazione: “Piove” aveva detto, infatti, “Facciamo entrare i signori in casa” e ci aveva fatto accomodare su un paio di sedie spaiate e traballanti di fronte al camino acceso. La donna era rimasta in piedi di fianco al focolare, sorridendo e asciugandosi le mani sul grembiule e si era scusata perché non aveva del tè da offrirci, ma se, forse, avessimo gratido lo stesso un po’ d’acqua e zucchero, l’ avrebbe preparata con piacere. Fu a quel punto, per salvarla dalla disagio in cui si trovava- a nessuno piace ammettere, o far intuire, di essere così povero da non potersi neppure permettere del tè- che iniziai a spiegare chi fossimo e perché fossimo venuti da tanto lontano nella sua umile dimora.
Come da copione, non mi credettero, come nessuno, neppure il sergente Stipwell, avrebbe mai potuto prevedere, uno dei due gemelli afferrò il ferro del camino e me lo punto contro.
 
“Stronzate!” Urlò, dunque, minacciandoci. “Mamma come fai a credergli, sono solo stronzate!”
L’altro fratello dietro di noi brandiva minaccioso un coltello che aveva recuperato da chissà dove: “Mamma è stato di nuovo quel figlio di puttana del nonno! Questi sono dei servizi sociali.”
“Quello stronzo gli ha detto che sei matta da rinchiudere e quindi questi ti raccontano stronzate per tenerti buona, ma con noi non attacca”.
Sobbalzai e mi preparai ad impugnare la bacchetta nascosta nella manica nel caso la situazione fosse degenerata. La loro reazione mi aveva sorpreso e non solo per le armi improvvisate: malgrado quell’aria da piccoli adulti che finiscono per assumere tutti i bambini costretti a vivere in condizioni di povertà e quella feroce furbizia che si porta dietro chi è costretto a vivere in situazioni complesse e sgradevoli, i due neo maghi stavano dimostrando tutta la loro ingenuità. Insomma, se fossimo stati davvero dei servizi sociali, dopo quel bel teatrino li avremmo portati in un istituto- orfanatrofio o riformatorio che fosse- senza esitare un secondo. La cosa, però, mi rallegrava: dopotutto significava che c’era ancora speranza per la loro infanzia.
“Noi non lasceremo mai nostra madre.” Rincarò il gemello con il ferro.
La donna si portò una mano al petto e sembrò afflosciarsi leggermente, come se le gambe non potessero reggere un istante di più: “No… mio padre non lo farebbe mai…” balbettò.
“Non verremo con voi siamo stati chiari?”
“Mamma come fai ad essere così stupida? Possiede l’intera collina e non si è fatto scrupoli a sbatterci in questa casupola di merda solo perché siamo dei bastardi.”
“Sì, è chiaro, eh, stronzi? Siamo bastardi e non ce ne vergogniamo. Scrivete anche questo sul vostro fascicolo!”
“Nostra madre ci ha cresciuti nonostante tutto.”
Ci guardavano, palleggiandosi la discussione con un perfetto tempismo, sfidandoci con lo sguardo a dire qualcosa di male su loro madre. Come se noi avessimo mai avuto l’interesse o l’ardire di giudicare le sventure altrui. Ne avevamo abbastanza delle nostre di cui preoccuparci. La madre li guardava incredula e ferita senza sapere cosa fare: fu a quel punto che Astoria si alzò in piedi.
“Se tenete a vostra madre, ascoltate cosa ha da dirvi Tokai.”
Guardai la madre negli occhi e mi lanciai: “Signora Smith, i suoi figli hanno davvero dei poteri magici e sono stati ammessi a una scuola di magia molto prestigiosa. Potranno studiare per sette anni lontano da casa, in un castello, avranno cibo a sufficienza e un futuro migliore.”
“Sì e tu sei la fatina buona del cazzo? Non veniamo nel tuo istituto di merda.”
“E siamo abbastanza grandi per credere alle favole.”
“Mamma non ti preoccupare non ti lasceremo e l’anno prossimo andremo con Max e ci faremo qualche soldo, così la sera potrai riposarti andrà tutto bene.”
Fu a quel punto che Astoria tirò fuori la bacchetta e, dimostrando più spirito d’iniziativa che in tutti gli ultimi sei mesi, disarmò i due mocciosi, facendo lievitare minacciosamente sopra le loro teste le loro armi improvvisate.
“Questa è magia, bambocci, magia vera. La sapete fare anche voi e scommetto che ve ne siete accorti. Siete svegli per la vostra età. Quella che vi stiamo offrendo è la migliore possibilità della vostra vita, quindi smettetela di fare i grandi uomini e lasciate parlare gli adulti”
e fece fiorire dal terreno tralci di edera che intrappolarono le gambe dei due piccoli lupi ringhianti. “Niente spese di vitto e alloggio a carico di vostra madre, la scuola è gratuita, quindi niente tasse, una buona istruzione e uscirete da lì maggiorenni. Cosa credete che voglia dire questo, eh? Vostra madre non sarà costretta a patire la fame e potrà mettere i soldi da parte per una vita migliore. E voi? Volete essere sempre ricordati come dei bastardi oppure volete avere l’opportunità di comprare quella collina?”
La madre emise un verso di sorpresa e fece per correre in loro soccorso, ma io la trattenni. “Venga con me”, dissi. “Andiamo a farci un tè, i suoi bambini staranno bene. Si fidi, la mia collega sa quello che fa“. O almeno era quello che speravo. Ci mancava solo, in quel clima politico, dover rispondere per violenze su babbani, soprattutto se era un Serpeverde sospetto ad esservi più o meno implicato.
Feci apparire teiera e dolci con un colpo di bacchetta e mi servii del focolare per riscaldare l’occorrente, mentre la madre sedeva su una delle sedie senza guardarmi.
“Lo sapevo, sa, della magia” Ammise a mezza voce, “Il tetto riparato, le mele in più, le scarpe nuove. Pensavo le avessero rubate, ma loro avevano negato con così tanta forza, che alla fine non avevo avuto la forza di punirli”.
Si aggrappò forte alla tazza di tè: ”Dice che miglioreranno alla sua scuola? Dice che avranno davvero un futuro?”
“Sì, ogni mago undicenne parte da zero, ma ad Hogwarts può imparare tutto il necessario. A nessuno importerà di chi fosse loro padre.”
Perché il mondo si divideva già in nati babbani e purosangue, ma ovviamente non lo dissi. Che senso avrebbe avuto aumentare le preoccupazioni di quella povera donna?
“Potranno studiare, avranno un’infanzia vera.” Sembrava sollevata, aveva le lacrime agli occhi. Forse per via della sua giovane età, aveva creduto immediatamente che la dimostrazione di Astoria fosse effettivamente magia vera e quindi aveva deciso che fosse più che sensato anche tutto il resto del contesto, ossia che due maghi adulti venissero a reclutare i suoi bambini per offrire loro un mondo migliore. Sebbene tutto ciò mi rendesse il lavoro più semplice mi trovai per un istante a simpatizzare con i due fratelli: la loro madre era davvero troppo ingenua per questo mondo.
“Sì, è così” continuai, scrollandomi di dosso quelle sensazioni, “E ha visto cosa ha fatto la mia collega: le assicuro, signora, che non sono trucchi da baraccone.”
“Qui in paese hanno sempre vissuto male: la gente è crudele. Li chiama bastardi e dà della troia a me per essermi trovata in questa situazione. Sa”, aggiunse rossa di vergogna, “Io sono cattolica, ma non ho un marito”.
Versai premurosamente altro tè per farla riprendere dal suo apparente disagio e mi esibii nella faccia più comprensiva che fossi in grado di fare.
“Sono cose che capitano” accennai.
“È stata una mia scelta” mi rispose in un guizzo di determinazione “Non lo rimpiango. I miei piccoli sono un dono di Dio e ne sono felice, malgrado tutto”.
Fu il mio turno di annaspare nell’imbarazzo e, per non sbagliare, mi versai anch’io una generosa tazza di tè. “Capisco.” Dissi “io ho due figli che mi aspettano a casa”. La signora Smith sembrò stranamente confortata da queste mie parole: “Avevo paura che la loro vita sarebbe stata costellata dal disprezzo, per colpa mia, ma se lei mi dice che hanno un’altra opportunità, io voglio che la colgano” si confidò. “Vogliono che siano felici. Signor Tokai, glielo giuro troverò i soldi per comprare tutto l’occorrente e per pagare le tasse. Torni a Settembre e la prego non faccia caso alle loro parole. Sono arrabbiati, si sentono in colpa perché io vivo così, mentre prima vivevo nella casa sulla collina. Ma quella casa era senza amore, ora lo so” La donna mi guardò con aria risoluta e strinse le mani in grembo e sussurò, come se non volesse farsi sentire neppure da sé stessa: “La prego signor Tokai, si prenda cura dei miei ragazzi.”
 
Poco distante da me e dalla signora Smith si stava svolgendo la seconda- e fondamentale, visto il tipo di neo maghi con cui avevamo a che fare - conversazione sussurrata della serata. Ero costretto a gettarci occhiate periodiche, dedicandovi metà della mia attenzione perché non ero affatto sicuro che Astoria riuscisse a gestire una situazione del genere da sola.
 
“Come hai fatto.” Chiese il gemello che aveva impugnato il coltello, guardando con sospetto i tralci d’edera che lo avvolgevano.
“Magia. Con la bacchetta.”
“Non ci credo.” Ribatté categorico.
“Allora qual è la spiegazione?”
“Non lo so.”
“Sei sicura di non essere dei servizi sociali? Magari quelli magici.” Chiese il fratello che aveva impugnato il ferro del camino.
“Non lo sono. Lo sembro?”
“Non tanto. Non credo che quelle dei servizi sociali facciano queste cose.”
“Non quando i bambini sono ancora a casa.” Gli diede manforte l’altro.
“Però il tuo amico lo sembra.” Aggiunse il primo, meditabondo.
“Il mio amico è strano.”
La risposta era riduttiva e inesatta, ma si rivelò efficace. I due lupi misero da parte momentaneamente l’ostilità e si fecero travolgere da una più sana curiosità infantile, ipnotizzati, forse, dall’impassibile freddezza della mia collega.
“Lo impareremo anche noi?”
“Se studierete.”
“Che ti serve saperlo fare se tanto poi fai questo lavoro di merda?”
“Oggi mi è tornato utile, ad esempio. Che lavoro pensi debba fare un mago?”
“Non so qualcosa di figo.”
“Qualcosa che faccia guadagnare tanti soldi.”
“A me questo lavoro piace e mi fa guadagnare soldi.”
“Ma non tanti.”
“Abbastanza.”
Dopo il breve duello retorico cadde il silenzio: gli avversari recuperavano le forze e si studiavano a vicenda per trovare il punto migliore in cui colpire.
“Se state raccontando balle troveremo il modo di farvela pagare e torneremo qui.”
“Bella pensata così vi ritroveremmo subito.”
“Prederemmo nostra madre e andremmo subito via.”
“Non vi stiamo raccontando balle.”
“Nostra madre è ingenua, ma a noi non ci giocate, ricordatelo.”
“Lo terrò a mente.”
Astoria lanciò uno sguardo nella mia direzione e inquadrò la faccia preoccupata della madre.
“Spero abbiate capito” disse ai due bambini. “Fate i bravi che ci vediamo ad Agosto. Mettete da parte dei soldi: compriamo le cose per la scuola” concluse e sciolse banalmente l’incantesimo: i tralci d’edera svanirono e il coltello e il ferro caddero con clangore vicino i piedi dei due gemelli.
I due piccoli lupi la guardarono con un misto di sospetto e ammirazione e non accennarono neanche per un istante a riprendere in mano le loro armi. Io mi accomiatai dalla signora Smith, dandole appuntamento per la fine dell’estate.
 
Una volta usciti da quella casa buia, Astoria sembrò tornare immediatamente alla sua solita apatia, ma mentre camminavamo verso il villaggio, su quel sentiero sconnesso e fradicio in mezzo alla brughiera, mi sorprese ancora una volta: “Questo lavoro, io…” Iniziò, poi prese un enorme respiro e guardò il cielo, ad ovest dove il sole stava tramontando dietro le nuvole:” Nessuno riporterà i miei figli da me, ma io posso donare a questi neo-maghi una nuova opportunità e lo voglio fare”.
Questo fu, credo di poterlo affermare con certezza, l’ultimo miracolo del comandante Stipwell, l’inizio della guarigione di Astoria e della nostra amicizia.
Sorrisi: “Ti darò una mano”.
 
 
 
Quell’agosto fui io la comparsa silenziosa a Diagon Alley, (ovviamente ero lì per puro caso): le due donne, dopo un primo imbarazzo, s’intesero bene e Astoria la aiutò a procurarsi tutto il necessario con i pochi soldi a disposizione (quelli li tenga per la bacchetta. La bacchetta è la cosa più importante per un mago. Per il calderone e alcuni libri di testo, se per lei va bene, vorrei donarle questi: erano dei miei figli, a loro non servono più, preferisco che non restino a prendere polvere, sono ancora in condizioni così buone…).
Astoria lasciò abilmente la madre in mia compagnia così che potessi presentarla a un folletto di fiducia e spiegarle le insidie burocratiche e il sistema di cambio della valuta babbano-magica e prese da parte i due neo maghi a cui spiegò in modo breve e succinto la prima guerra magica e le sue implicazioni. Forse, come avevo già fatto io a suo tempo, aveva valutato che l’ingenua e dolce signora Smith andasse protetta il più possibile o forse pensava che sapere cosa aspettarsi e dove colpire avrebbe reso la vita molto più facile ai due piccoli lupi.
 
I gemelli furono assegnati entrambi a Grifondoro, Arthur urlò la notizia a tutto l’ufficio, facendo i complimenti ad Astoria a gran voce perché la prima casa non si scorda mai.
Lei si voltò e mi ringraziò di sottecchi: nessuno, ufficialmente, sapeva della nostra collaborazione.
 
I due fratelli diventarono due ottimi spezzincantesimi- si dice che essere gemelli aiuti in un quel tipo di magia- e fecero effettivamente molti soldi: non comprarono mai la casa sulla collina, ma una villa più moderna e confortevole, lontana dal paese, in cui loro madre poté vivere agiatamente senza sentirsi giudicata per un amore di gioventù. Astoria e i gemelli ancora si scrivono e si proteggono a vicenda dalle ombre dei rispettivi passati.
 
 
Note: Potete conoscere dettagliatamente il passato di John Tokai durante la guerra, ossia del suo esilio babbano, leggendo “A nessuno piace parlare della prima guerra magica” là potrete capire anche perché il mago non vuole più avere a che fare con i baristi babbani.

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Capitolo 6
*** Reverendi e gatti mannari ***


Era il nostro primo incarico e io e Arthur esitavamo davanti al campanello lanciandoci sguardi significativi e in parte ostili: all’epoca andavamo d’accordo come una casa in fiamme. Sebbene i nostri rapporti a Hogwarts fossero stati tra la simpatia e l’indifferenza reciproca, eravamo pur sempre un Serpeverde e un Grifondoro che collaboravano insieme per la prima volta. A neanche un anno dalla fine della scuola, i pregiudizi erano ben lontani dall’essere superati, soprattutto visto che Ernest li alimentava alla prima occasione utile.

Però il sergente Stipwell, come amava farsi chiamare il nostro burbero capoufficio, aveva detto che le nostre due teste di legno non erano la cosa peggiore che avesse mai visto sulla faccia della terra e quindi che poteva provare ad affidarci quell’incarico. Forse ce l’avremmo fatta anche senza che lui ci facesse da balia e ci cambiasse il pannolino. Margaret aveva detto che era evidente che ci saremmo bilanciati alla perfezione, perciò non vedeva che cosa potesse andare storto, mentre Ernest, come suo solito, aveva malignato che sperava proprio tanto che non andassimo nel panico. “È per quello che li mando insieme” Era intervenuto il sergente “almeno non faranno la figura dei pesci lessi.”

Anche se le parole non erano delle più incoraggianti, non potevamo tirarci indietro dopo la più grande (e finora unica) dimostrazione di fiducia che il nostro nuovo ufficio ci aveva tributato. Perciò ci eravamo smaterializzati a poca distanza dalla casa assegnataci, cercando di mantenere le apparenze.

 

Restammo a fissare il campanello un tempo che ci sembrò infinito, poi, prima che l’attesa diventasse eccessiva Arthur suonò, facendosi immediatamente indietro. Mi ritrovai così faccia a faccia con un austero reverendo che mi guardava con aria poco amichevole. L’uomo indugiò a lungo sui miei tratti orientali e sul discutibile abbinamento di vestiti di Arthur: un maglione a Rombi rosa e arancioni, da donna, pantaloni a zampa di elefante e infradito e un cappello da notte.

Il mio completo perfettamente curato color carta da zucchero acquisiva ancora più punti al solo confronto.

Poi ci chiese chi eravamo e in qualche modo ci fece entrare. La scusa di essere i rappresentanti di una scuola privata aveva funzionato ancora una volta, come per magia. Non smetterò mai di ringraziare lo basso livello dell’istruzione pubblica del Regno Unito per questo.

Il reverendo ci fece accomodare in salotto, su un divano di un colore scuro e prese posto sulla poltrona là di fianco. “Allora, mi potreste dire che scuola privata si tratta?” Chiese il babbano, scrutandoci severo e sospettoso. La parte difficile iniziava in quel momento: io e Arthur ci lanciammo uno sguardo complice e poi lui rispose “Di Hogwarts, naturalmente!”

“Non ne ho mai sentito parlare”

Era una risposta da manuale e mi sentii incoraggiato a continuare.

“Si tratta di una scuola privata dall’altissimo profilo internazionale che offre la migliore istruzione che si possa desiderare”

“Senza parlare delle strutture a disposizione degli studenti!” Mi diede manforte il mio collega: “Sale comuni spaziose, un laboratorio specializzato, la biblioteca più fornita d’Inghilterra e un campo da Quidditch che tutto il mondo ci invida!”

“Campo da Quidditch?” Chiese. Se io mi accorsi immediatamente di avere appena complicato le cose, il pensiero non parve sfiorare Arthur in nessun modo: “Come non conosce il Quidditch? Certo, lei è un babbano, ma non conoscere il Quidditch… è proprio assurdo!”

Un silenzio imbarazzante dopo, mi affrettai a spiegare dell’esistenza della magia, del Ministero britannico della stessa e di cosa fosse realmente Hogwarts. I dubbi sulla nostra sanità mentale non solo aumenteranno, ma vidi chiaramente che stavano per essere sostituiti da un accesso d’ira.

 

“Le darò ben volentieri una dimostrazione di ciò di cui le ho parlato e della sua innocuità”

Dissi, estraendo la bacchetta con un gesto che io cercai di rendere pomposo, ma che fu solo nevrotico.

Detto fatto puntai la bacchetta verso il gatto di casa che se ne stava pigramente appollaiato su un bracciolo del divano dal taglio severo. L’idea era semplicemente far passare il pelo del gatto dal grigio al bianco, ma sarà stato lo sguardo scettico ed esasperato di Arthur ai miei toni formali, quello inflessibile e quasi arrabbiato del reverendo o la coda del gatto che, quando gli puntai addosso la bacchetta, ebbe un guizzo improvviso, ma qualcosa non andò come previsto.

Il gatto divenne di un verde squillante una protuberanza iniziò a gonfiarsi trasformandosi rapidamente in una seconda testa e quando sembrava che niente potesse andare storto di così il gatto aprì le fauci e sputò una vampata di scintille che diede fuoco al tappeto.

Edgar urlò, il reverendo strabuzzò gli occhi, il gatto saltò in aria pelo dritto e coda alzata, io cercai di minimizzare “Non è grave, non è grave, un piccolo incidente, niente che non si possa aggiustare”

“Che diavolo hai fatto Tokai?” Urlò Arthur, facendo scaturire un getto d’acqua dalla bacchetta. Da buon Grifondoro, faticava a mantenere il sangue freddo e, infatti, impegnato ad imprecarmi contro com’era, invece del tappeto colpì il gatto, scagliandolo contro lo schienale del divano con un certa violenza.

“E poi l’idiota sarei io” masticai tra i denti muovendomi verso il principio di incendio e iniziando a pestarlo, per soffocare il fuoco, mentre il mio collega aggiustava la mira e mi aiutava a limitare i danni con un getto d’acqua meglio indirizzato.

Il felino, soffiando e sputacchiando, si rimise in piedi e quasi piroettando su sé stesso si voltò nella nostra direzione: ci rivolse quattro malevoli occhi gialli e fece fuoco con entrambe le teste. Come un sol uomo io ed Arthur lanciammo un incantesimo scudo che deviò le fiamme in direzione dei nostri ospiti. Il reverendo si gettò a terra, bianco di terrore, con quella che riconobbi, con mia sorpresa, come una colorita bestemmia, suo figlio Edgar si lanciò dentro al camino spento, togliendosi dalla traiettoria delle fiamme per un soffio.

Il gatto saltò sulla poltrona di raso nera, soddisfatto.

“Dobbiamo immobilizzarlo, dammi una mano” dissi ad Arthur, ma il gatto parve sentici perché con un balzo fu sullo schienale della poltrona per lanciarci una nuova fiammata.

“Evanesco!” Gridammo in contemporanea: il suo incantesimo mancò il bersaglio e fece sparire la poltrona, il mio annullò le fiamme. Il gatto rimasto inaspettatamente senza appoggio crollò per terra con un miagolio di protesta.

“Voi e la vostra bestia satanica fuori da questa santa casa! Non trascinerete la mia progenie nella perdizione!” Urlò il reverendo, che alzatosi ci agitava contro una grossa croce istoriata, recuperata chissà dove.

“Reverendo Green, non tragga conclusioni affrettate, la prego!” chiesi con tono isterico, cercando di non perdere di vista quel gatto malefico che nel giro di un attimo si era ripreso dallo spavento ed era elegantemente saltato sul davanzale della finestra. “Attento!” gridai, spostando il reverendo dalla traiettoria della nuova fiammata: “Evanesco!” urlò Arthur contemporaneamente. Il suo incantesimo saettò in mezzo noi facendo inaspettatamente svanire la croce dalle mani di un reverendo sempre più sbigottito. Le fiamme, invece, ci mancarono di un pelo.

“Tu come osi dissacrare il simbolo del Signore…!” Infuriò il reverendo, gonfiando il petto e preparandosi allo scontro, ma non finì mai la frase: “Papà la biblioteca!” urlò Edgar, accoccolato dentro al camino, indicando il principio di incendio che stava iniziando a consumare la libreria.

“Le mie Bibbie istoriate!” ululò il reverendo “La sacra parola del Signore!” E si precipitò sulla libreria a pronto a salvare i suoi libri dalle fiamme a mani nude.

“Ci penso io, Reverendo, ci penso io. Arthur il gatto!” Ordinai, la testa rivolta al mio collega e la bacchetta puntata verso la libreria: un grave errore, riflettendoci adesso, perché sbagliai mira e investii il reverendo con un getto d’acqua della forza di un idrante.

“Reverendo! Lasci che l’aiuti” Dissi e corsi a a soccorrerlo “Le Bibbie!” ululò lui sputacchiando acqua ovunque e spingendomi via con violenza: “Le mie Bibbie! La sacra parola del Signore!” urlò lottando con gli abiti bagnati per rimettersi in piedi. “Ci penso io, ci penso, io non si preoccupi!” dissi continuando a lanciare getti d’acqua discontinui e troppo potenti sulla libreria facendo cadere libri e inzuppando anche quelli che non stavano bruciando per niente.

“Dissacratori! Figli del diavolo! Demoni con le corna!”

Crash! La finestra andò in frantumi all’ennesimo incantesimo sbagliato di Arthur e il gatto se la filò via in un lampo, alla ricerca di un posto più tranquillo.

“Ci pensiamo noi!” dissi e in un attimo fui fuori dalla finestra seguito a ruota dal mio collega che non voleva certo restare a dare spiegazioni.

Il gatto filava via a passo sostenuto percorrendo con disinvoltura i muri a secco delle villette a schiera.

 

“Tokai, i babbani lo vedranno!” strepitò, isterico, il mio collega mentre mi raggiungeva. “Non possiamo di certo disilluderlo o non lo troveremo più!”, risposi io di rimando, guardandomi freneticamente intorno, preoccupato almeno quanto lui delle conseguenze.

Il gatto nel frattempo aveva trovato i suo primo ostacolo- una cassetta della posta- e si era fermato agitando la coda. “Approfittiamone: un Incarceramus, dovrebbe bastare, è solo un gatto” disse, Arthur, speranzoso. Il gatto aprì entrambe le bocche e fece fuoco: una rombante sfera di fiamme investi la prima cassetta e la successiva, bruciacchiando il prato di tre ville più in là.

“Per le mutande di Merlino!”

Iniziavo a pensare che avremmo dovuto utilizzare gli incantesimi antidrago, se volevamo cavarci un ragno dal buco e io non ero ma stato bravo a cura delle creature magiche.

“Per fortuna che la gente è a lavoro a quest’ora” mormorò Arthur, sconvolto.

“Vediamo di fare in fretta: io lo appello e tu lo blocchi d’accordo? Non ha senso che continuiamo ad inseguirlo” Dissi. “Pronto?” Arthur annuì.

“Accio gatto!”

Il gatto fu strattonato indietro dalla magia nel bel mezzo di un salto e volò verso di noi a tutta velocità: il felino non dovette gradire il trattamento perché miagolò e si divincolò con tutte le sue forze. “Incarcer…” iniziò a dire Arthur, ma il gatto sputò una palla di fuoco nella nostra direzione. Il mio collega si gettò a terra tentando disperatamente di evitarla e io, dalla sorpresa persi il controllo sull’incantesimo. Il gatto atterrò elegantemente sul marciapiede, trotterellò via e si infilò in una siepe: la palla di fuoco si schiantò contro una macchina e ne fece partire l’antifurto.

“Non questa volta!” Urlò Arhur sovrastando il frastuono di quella diavoleria babbana e balzando in piedi con un gesto degno dei migliori giocatori di Quindditch: la siepe ebbe un fremito e si contrasse su se stessa regalandoci un secondo dopo un involto di gatto ed arbusti.

Le bocche erano bloccate da due forti tralci, ma per non sbagliare lanciai un incantesimo che rendesse ignifuga la nostra catena improvvisata. “Maledetto gatto”, imprecai, “non mi stupirei se fosse davvero la progenie di Satana, qualunque cosa voglia dire”.

Arthur annuì, guardandosi intorno nervosamente: “Torniamo al Ministero. Mi sa che siamo nei guai.”

 

Purtroppo, le previsioni del mio collega si rivelarono esatte: quando entrammo in ufficio ansiosi e tesi, Margaret rivolse uno sguardo d’intesa a Ernest che rapido come un fulmine chiuse la porta del nostro ufficetto. Il sergente Stipwell seduto a una scrivania sul lato corto della stanza, appose la sua firma incomprensibile su un documento e poi, lentamente, alzò gli occhi e ci fissò.

“Cosa è successo?” chiese, freddo come il polo.

Spiegammo approssimativamente i fatti, tirando fuori da sotto il mantello il grosso involto verde del gatto sputafuoco. La calma glaciale del nostro collerico sergente non durò a lungo: “La prossima volta avvertite! Mandate un gufo, un Patronus, una fottuta srtrillettera. Come vi è passato per la testa di lasciare lì la famiglia e andare a rincorrere quel gatto?”

“Ma sputava fiamme ed era verde! Tutti i babbani l'avrebbero visto…“ Tentò Arthur, eroicamente.

“Al diavolo i babbani!”

“Ma il gatto…”

“Si avrebbero visto un gatto molto strano e avrebbero pensato di aver sognato o di aver bevuto troppo. Se quegli allocchi del Ministero avesse ricevuto una qualche segnalazione, cosa molto improbabile, fidatevi, avrebbe attribuito la magia al minorenne e non ci sarebbero stati problemi. Il vostro compito, però, era un altro!”

”Ma…”

Dovevo ammetterlo il coraggio e la testardaggine dei Grifondoro era davvero qualcosa di incredibile: io non avrei mai osato ribattere al nostro capoufficio: ci tenevo davvero a quel lavoro. Inoltre, io mi rendevo perfettamente conto di quanto fosse inutile polemizzare. Avevamo fatto un fiasco senza precedenti e anche piuttosto vistoso.

“Niente ma! Il vostro preciso compito, quello per cui il Ministero vi paga, è annunciare ai nati babbani la loro vera natura e rassicurare i loro genitori, nient’altro. Quindi, -e non fatemelo ripetere teste di legno che non siete altro- qualunque cosa esca dalle vostre bacchette voi non abbandonate la famiglia in preda a una crisi di panico. Voi rappresentate il mondo della magia dovete essere professionali, per Merlino!”

Chinammo il capo, contriti. “Avevamo pensato che…”

“Avevano pensato, li senti Maggy? Non ci sono più le reclute di una volta! Vi ho mai detto di lasciare le famiglie da sole? Vi ho mai detto di fare incantesimi complicati? E dimmi un po’ Tokai, non eri tu quello che si vantava di conoscere i babbani?”

Tacqui, imbarazzato. Nei primi giorni avevo addirittura preso entusiasticamente appunti sul taccuino, eppure avevo miseramente fallito. Anche se, bisogna pur dirlo, l’incapacità di Arthur a lanciare un incantesimo dritto aveva giocato un ruolo fondamentale in tutta quella faccenda, non lo si poteva negare.

“E comunque non sei un po’ troppo cresciuto per la magia involontaria?” Malignò Ernest.

“La cosa ti diverte?” Scattai, immediatamente, voltandomi inviperito verso il collega. Non era da me scaldarmi per così poco, ma Ernest ed io ci detestavamo cordialmente fin dal primo secondo di convivenza in quell’ufficio e non avrei lasciato che mi mettesse in una luce ancora peggiore solo per ripicca.

“Divertirmi? Affatto, ho solo la conferma di quanto i Serpeverde non siano altro che palloni gonfiati.“

“Chi sarebbe il pallone gonfiato?”

“Ricapitoliamo.” Ci interruppe il sergente portandosi una mano a sostenere la fronte, “tu” disse e mi

indicò, “hai fatto apparire un gatto sputafuoco davanti a un reverendo e ora ti crede un emissario di Satana in persona. Entrambi” disse, abbracciando con lo sguardo anche il mio compagno di sventura “avete abbandonato la famiglia inseguendo il gatto per tutto il quartiere”.

“Potrebbe essere una faccenda da obliviatori e comitato di scuse ai babbani, George.” Si intromise Margaret, scartabellando tra alcune pergamene.

“Quei rospi secchi degli obliviatori possono baciarmi le chiappe” rispose il sergente “dove entrano gli obliviatori entrano i tagli del personale, Maggy, e non mi farò portare via le mie reclute per così poco. Abbiamo spazio di manovra?”

Margaret controllò ancora una volta le pergamene che aveva davanti e poi disse: “Rispolvera la tua tonaca George andiamo in missione per conto di Dio.”

“Ah la numero 42” Annuì il sergente Stipwell con un ghigno che non faceva presagire nulla di buono: “John, Arthur, voi due venite con me e portate quel gatto e la faccia più contrita che avete. Ernest a te spetta il giro lungo dei testimoni, so di poter contare su di te: mi raccomando coerente serio e noioso. Trenta minuti e siamo pronti a partire: tempo di chiedere a quelli delle creature magiche come far tornare questo gatto normale. Maggy?”

“Ci penso io, George, ho il solito buon contatto”.

 

Mezz’ora dopo precisi e puntuali eravamo di nuovo davanti a quella maledetta porta. Il gatto era tornato di un accettabile grigio perla e anche se aveva perso la facoltà di lanciare perfette e letali palle di fuoco, non sembrava affatto meno pericoloso e continuava ad attentare alla mia salute fisica con morsi e graffi. Il sergente Stipwell indossava un lungo vestito nero con un colletto bianco e aveva in mano una Bibbia consunta, io e Arthur avevamo indosso i vestiti babbani della mattina. Anche se il mio completo, bisogna ammetterlo, era parecchio spiegazzato e il maglione di Arthur aveva una grossa macchia d’erba sul davanti mentre i suoi capelli erano ancora bruciacchiati sulle punte. Stipwell non aveva permesso che ci rimettessimo in ordine, anzi, aveva personalmente strappato un bottone del mio completo, arruffato i capelli di Arthur e sporcato la faccia di entrambi di fuliggine.

Ad aprirci venne il reverendo che, alla nostra vista strabbuzzò gli occhi e gonfiò le guance come una vecchia rana: la sua carnagione divenne rossa fiammante, mentre una vena pulsava pericolosamente sul lato del suo collo. “Voi!” disse riuscendo a mantenere il tono miracolosamente calmo e fece per chiuderci la porta in faccia, tentativo che fu sventato prontamente da un incantesimo non-verbale.

Mentre la porta diventava all’improvviso più difficile che mai da spostare, il sergente si fece avanti, alzò la Bibbia sopra il suo capo, piazzandola all’altezza degli occhi del reverendo e recitò una lunga frase in latino. Il reverendo smise di cercare di chiudere la porta stupito, “Oh padre perdona loro perchè non sanno quello che fanno! Possa tu avere pietà di questi peccatori” declamò Stipwell, baritonale, lo sguardo al cielo, la Bibbia nuovamente stretta al petto.

“Padre, la prego di perdonare questi ragazzi che la giovane età rende irruenti e arroganti. Essi sono ancora all’inizio del loro percorso ecumenico, tuttavia il loro cuore è puro e la loro fede salda! Non veniamo qui con le più sincere intenzioni e l’animo soffuso di contrizione, datemi la possibilità di rimediare all’operato dei miei goffi confratelli e fateci la grazia del perdono, così come nostro padre celeste ci ha insegnato.” Affermò con la foga del vero credente, stringendolo in abbraccio fraterno. “Ma lasciate che io veda con i miei occhi” aggiunse poi, in un tono molto più mondano introducendosi in casa. Lo seguimmo a ruota, sperando di risultare completamente invisibili. Stipwell riuscì a controllare l’entità dei danni causati dal nostro maldestro intervento per due minuti buoni, prima che il reverendo si riprendesse dallo shock, chiudesse la porta e lo affrontasse di petto.

 

 

Due ore di intense professioni di fede e parecchie citazioni bibliche dopo, ci trovammo a camminare per il vialetto tutti e tre affiancati, ognuno immerso nei propri pensieri: il sole era ormai al tramonto e le nostre ombre si allungavano davanti a noi, precedendoci. Mi feci coraggio e interruppi il silenzio, dando voce ai miei dubbi: “Non lo abbiamo preso troppo in giro? Insomma tutte quelle storie sui maghi che sono la progenie degli angeli non sono molto credibili”

“Se non aveste mandato tutto in vacca, non ce ne sarebbe stato bisogno.” Rispose il sergente. Poi tacque un attimo, guardando un punto lontano e mi diede una pacca sulla spalla sereno: “Ma poi ragazzo che ne vuoi sapere tu? Nessuno sa perché solo parte degli esseri umani ha questi poteri, la mia spiegazione vale quanto le altre.”

“Sì, ma” si intromise Arthur: “rischiano di andare incontro a una grave disillusione: non ci sono maghi preti e nemmeno teorie ufficiali del genere tra i purosangue e il ragazzino sarà il primo ad accorgersene”

“Magia e scienza sono una cosa, la fede è tutt’altra. Se crede come dice, non avrà bisogno di fatti.” Sentenziò Stipwell. “In ogni caso, non lo scoprirà così presto, scriverò a Silente e gli dirò di parlarci, vedrete andrà tutto bene, non è certo la prima volta che uso la numero 42…”

 

 

Edgar Green fu assegnato a Corvonero non appena il Cappello Parlante gli sfiorò la testa e dimostrò immediatamente un eccezionale talento per la trasfigurazione animale.

Finita la scuola approfondì i suoi studi e ne divenne in poco tempo un esperto rispettato in tutto il mondo magico: fu ospite dei congressi più prestigiosi e divenne una presenza fissa a quelli tenuti in Europa, riempendo di gloria il Regno Unito con le sue scoperte. Sapeva come affascinare il suo pubblico, dandosi l’aria del vecchio saggio ben prima che fosse anche solo lontanamente vecchio e così, ben presto, il suo parere iniziò a venire richiesto anche su argomenti che esulavano del tutto le sue competenze.

Quando uno di queste opinioni riguardò la stirpe magica, si premurò di insinuare come considerasse i maghi ben più che un gradino sopra ai babbani. Non sostenne mai apertamente Tu Sai Chi, ma aizzò subdolamente l’opinione pubblica a suo favore e non disdegnò mai di donare le sue conoscenze a servizio di ricchi finanziatori dalla dubbia fedina penale.

Non fu mai coinvolto in qualche scandalo, non fu neanche mai associato a personaggi indesiderabili o sospetti e tantomeno perseguito come sostenitore di Tu Sai Chi: era furbo famoso utile e sopravvisse a guerra e dopoguerra senza un graffio e senza doversi mai nascondere.

Noi dell’ufficio lo consideriamo tutt’oggi uno dei nostri più grandi fallimenti: evidentemente la trafila di bugie che avevamo rifilato al padre e la sua rigida educazione religiosa lo avevano in qualche modo portato sulla cattiva strada.

 

Anni dopo, durante il mio esilio babbano mi capitò di incontrare il reverendo: l’uomo fiero di un

tempo aveva lasciato il posto a un vecchio alcolizzato che vestiva di stracci e viveva alla giornata.

Cercai di aiutarlo come potevo e mi offrii di farlo vivere nella mia casa babbana, ma rifiutò: disse che meritava quella condizione, era il giusto castigo per uno come lui che, sebbene saldo nei suoi principi e di fede incrollabile non aveva saputo riconoscere e scacciare il diavolo che albergava nel cuore del suo stesso figlio.

Mi spiegò, tra le lacrime, che il figlio aveva abbandonato casa a diciassette anni, dichiarandosi ateo e urlando che la Bibbia non era altro che una stupida storia per bambini. Edgar aveva urlato che avrebbe continuato a compiere trasfigurazioni animali che ne avrebbe fatto il vanto proprio perché andava contro i dettami di quel cielo che suo padre tanto stupidamente adorava. Scommetteva che non sarebbe andato incontro a nessuna punizione divina, aveva detto. Da quel giorno lui, il reverendo, non era più riuscito ad esercitare il suo sacerdozio e piano piano era scivolato nel vizio: dopo la madre aveva perso anche il figlio e proprio non riusciva a sopportarlo.

“Come mai non è diventato un bravo ragazzo come te, Tokai?” Mi ripeteva spesso il reverendo tra i fumi dell’alcol e, io, tutte le volte non sapevo proprio cosa avrei potuto rispondere e mi limitavo a porgergli il pasto d’asporto che avevo portato per lui.

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