Romanzo Popolare di velvetmouth (/viewuser.php?uid=80658)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Atto I - Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Atto I - Capitolo 2 ***
Capitolo 1 *** Introduzione ***
agosto 1900
Luglio 1900, Emilia Romagna
Il calore sprigionato dalla terra rendeva
l'aria compatta e
irrespirabile, quasi viscida mischiata agli umori del corpo;
nei
campi si continuava a lavorare instancabilmente anche col
solleone, ci si fermava solamente quel tanto che bastava per scacciare
un nugolo di mosche, asciugare la fronte dal sudore, affilare le falci.
I campi erano completamente pieni di lavoratori, intenti nella
mietitura finale del grano ormai di un giallo vivo, splendente. Covoni
incredibilmente ordinati iniziavano ad ammassarsi vicino al torrente.
Il gracidare delle rane richiamava stuoli di ragazzini scalzi e
seminudi che si gettavano fino alla vita nel pantano, nel tentativo di
arraffarne qualcuna per cena.
Una donna col pancione prominente si tolse il fazzoletto di testa, ci
si asciugò il petto e continuò ad infilzare con
la forca,
la gonna legata sopra le cosce inumidite; il suo uomo le
passò
affianco, le colpì la nuca con un buffetto affettuoso, un
mezzo
sorriso abbozzato e gli occhi chiusi dal sole.
Sputò a terra tre volte prima di addentrarsi nel cortile di
proprietà dei padroni, i Catellani. Quel posto lo aveva
amato e
odiato per tutta la vita.
Fernando Grossi non era un tipo da abbassar la testa alla prima
sferzata, ma, come suo padre prima di lui e suo nonno ancor prima,
aveva nei riguardi dei padroni una sorta di incondizionato istinto di
obbedienza; che poi lontano da occhi ed orecchie ci si mettesse a
parlar male dell'operato del fattore o della vita misera che
conducevano era tutt'altro paio di maniche, ma di fronte al padrone il
rispetto era qualcosa di quasi scontato, un dovere, una regola d'oro
inviolabile. I pochi che si opponevano erano destinati alla cacciata,
ad una vita da vagabondi, senza onore.
Ricordava ancora suo nonno mentre masticava tabacco e bofonchiava
insulti e raccomandazioni a mezza bocca.
- Il padrone è il padrone e tu sei tu. Se lui è
il
padrone e tu sei tu un motivo ci deve essere. Ricorda chi sei, figlio
di paesani, umili, onesti, gente per bene. Imparerai ad ubbidire e a
portar rispetto, ad avere quel minimo di educazione che ti serve per
essere benvoluto, lavorerai sodo e senza lamentarti, non disonorare mai
la famiglia, sposati una brava figliola, metti al mondo
più
marmocchi che puoi e vattene in pace da questo mondo. Il padrone ti ha
dato il lavoro, sei fortunato. Ma non schiacciare mai la tua
dignità, Fernandin... Quella vale più di ogni
altra cosa
al mondo!-
Quelle parole continuavano a ronzargli nelle orecchie anche a distanza
di anni ed anni. Il nonno ormai era morto, così come suo
padre,
ma ciò che era diventato, lo doveva anche e sopratutto a
quegli
insegnamenti, all'esempio, alle regole che aveva messo in pratica ed
assimilato. La vita non era facile, forse non era neppure giusta, ma
finchè le mani erano impegnate nel lavorare c'era poco
spazio
per i pensieri e con la stanchezza a fine giornata, ancor meno.
Era questa la differenza principale tra loro, i paesani e gli altri, i
padroni: quando un uomo non fa niente per tutta la vita ha troppo tempo
per pensare e a forza di pensare... Diventa un rimbambito.
La corte della fattoria era stranamente vuota, isolata, quasi fosse
tutto abbandonato, disabitato. Ma altro che disabitato! Quel posto era
pieno di persone, servi, camerieri, maggiordomi... Per non parlar di
loro, al di là della proprietà, nei campi, nella
cascina
che di notte il padrone veniva a chiudere col catenaccio. Non vi era
poi così differenza tra loro e le vacche da mungere, chiuse
nella stalla. Bestie. A volte qualcuno li chiamava con
quell'appellativo, ma non si sapeva mai se prenderlo come un insulto o
no.
Fernando proprio non capiva perchè in quel momento si
sentisse
così in soggezione, così... Inerme ed esposto.
Sentiva il
sangue che gli ribolliva nelle vene, non solo per il caldo; l'ansia si
mescolava al sudore forte e acre della fronte, i vestiti ne erano
impregnati ed era come se avesse la sensazione che chiunque avrebbe
potuto capir che aveva paura.
Ma questo non intendeva darlo a vedere; tutti lo
ritenevano un tipo forte, duro, gran lavoratore, senza grilli
per
la testa ne' strane idee politiche.
Era una grossa bestia da soma, con spalle larghe e muscolose, torace
ampio e possente, alto più di chiunque altro nella
proprietà e con una sopportazione della fatica quasi senza
euguali, rispettato fra i braccianti e anche dai padroni: non era raro
che mandassero loro qualcosa di avanzato per Natale o altre feste
comandate.
Comunque li vedeva gli sguardi delle ragazze quando portava i cavalli
del padrone, o seminava con l'aratro...Specie nelle giornate di calura
estiva, quando per forza di cose doveva togliersi la camicia e rimanere
a torso nudo. Era sempre stato un bel toso, anche da bambino,
già bello robusto, virile e forte, con una massa di riccioli
rossi indomabili e lo sguardo vigile e indomito, i buchetti alle guance
quando sorrideva.
Ma fra tutte quella che gli aveva rubato il cuore era stata lei, quella
che ora portava dentro il suo frutto, quella che quando lavorava,
faticando sotto il carico pesante di sacchi pieni di sementi lo
ignorava testardamente; lei con quel profilo ricercato, delicato e
così raro per una nata lì in mezzo, dalla mente
acuta e
sveglia e la lingua troppo lunga.
Fernando sorrise sghembo, mentre un raggio di sole gli trafiggeva lo
sguardo. Sarebbe stato un maschio o una femmina? Di certo il primo di
una lunga serie.
Si tolse il cappello prima di arrivare al portone principale.
Bussò piano, quasi a non voler disturbare.
Non era nemmeno la prima volta che veniva chiamato, ma...
Era come
se sapesse che questa volta era speciale, nel bene o nel male.
Venne ad aprirgli la graziosa cameriera dai capelli scuri e le
lentiggini, che gli sorrise. Lui fece lo stesso, pentendosene quasi
subito pensando all'Olga incinta.
- Il padrone m'è venuto a chiamare-
Disse, torcendosi il cappello fra le mani. La ragazza si fece da parte
per farlo entrare, gli disse di aspettare e poi sparì dietro
una
porta.
La casa era qualcosa di spettacolare agli occhi del contadino, del
povero bracciante mezzo di sudore che era. Si sentiva come un insetto a
camminar su quel pavimento lindo e pinto, a respirar la stessa aria
della famiglia del padrone, quasi potesse contaminarla, quasi si
potesse venir a sapere che aveva portato in casa una qualche malattia;
Fosse mai! Anche la moglie del padrone era incinta e se avesse avuto
qualcosa di sicuro la colpa sarebbe stata sua. Improvvisamente si
sentì così in colpa e fuori luogo che la
tentazione di
scappare lo attanagliò, fece due passi indietro,
cercò di
pulirsi le scarpe infangate sullo scalino di ingresso.
Una voce che lo chiamava lo gelò mentre tentava di togliersi
la polvere dalla giacca.
-Fernando! Cosa fai? Entra, non preoccuparti!-
Il padrone lo guardava dalle scale che portavano al piano di sopra,
sorrideva sornione. Fernando si sentì ancor più
insignificante di prima, quasi come se quel sorriso fosse messo
lì a mo' di scherno. Di nuovo ebbe l'istinto di
voltarsi e
tornare a mietere per tutto il giorno. Ma non lo fece.
-Cosa fai ancora lì sulla porta? Forza entra! Ti va un
goccio? Come sta l'Olga? Ci siamo quasi, mh?-
Sotto i baffi biondi e ben curati, faceva capolino una fila di denti
bianchissimi, sembravan quasi perle. Fernando rimase a viso basso,
incassando le spalle mentre passava di nuovo sotto la porta. Il padrone
non aveva che qualche anno più di lui e molti centimetri in
altezza in meno, eppure, riusciva comunque ad incutergli quel vago
timore che lo faceva apparire un mollaccione senza spina dorsale.
Enrico Catellani scese le scale, fermandosi al secondo scalino, poi
esortò il suo contadino a raggiungerlo. Fernando si
avvicinò, rimanendo ai piedi delle scale. Anche da
lì
superava di un braccio il padrone; ma quello non smise mai di
sorridere, anzi, pose un braccio attorno alle sue spalle massicce e lo
condusse al piano di sopra, nel suo studio.
- Fumi, Fernando?-
Le dita lunghe e affusolate, quasi femminee di Enrico Catellani fecero
scivolare sulla scrivania una scatola di latta piena di sigari.
- Non ne ho tempo, signor padrone-
Il padrone sembrò non cogliere la sottile ironia, la
sferzata
cinica della battuta o comunque non lo diede a vedere. Si
limitò
a chiudere la scatola con un colpo secco e ad accendersi il suo sigaro,
boccheggiando tra un sorriso e l'altro.
Fernando rimase qualche minuto ad osservare la stanza, piena di foto
della fattoria, volumi rilegati posti in mobili dal legno
pregiatissimo. Avrebbe voluto chiedere direttamente il motivo della sua
presenza lì, ma aveva già a malapena tenuto a
freno la
lingua, non era il caso di esagerare. L'Olga aveva una pessima
influenza su di lui, pessima.
Posò lo sguardo sul viso disteso del padrone, non lo
osservò con sfida, ne' aperta ostilità, solo una
genuina
e innocente curiosità.
Enrico boccheggiò ancora a lungo in silenzio.
Entrò in quel momento la morettina di prima, sempre
sorridendo.
Fernando finse di non vedere la mano del padrone che si insinuava sotto
il suo senalino quando ella portò il vassoio con i liquori.
- Ti va un po' di rosolio fatto in casa, eh Fernando?-
I capelli a spaghetto, lasciati lunghi sulla fronte sfioravano le
ciglia lunghe del Catellani, dando l'illusione che si trovasse dietro
ad un biondissimo ventaglio.
- Signore sì, ma devo tornar a lavorare...-
I denti di perla fecero di nuovo capolino sotto i baffi, un suono
gutturale esplose dalla gola del padrone.
- Quale lavoro, Fernando! Per oggi tu hai finito! Ah, Gilda, puoi
andare...Senti se la signora ha bisogno di qualcosa...-
La porta fu richiusa, il liquore versato.
- Alla salute dei nostri figlioli! E delle nostre famiglie, che da anni
coesistono e vivono l'una grazie all'altra!-
Fernando si ritrovò a pensare che quella grazie alla quale
tutto
l'intero sistema andava avanti fosse quella sua di famiglia, dei
Grossi, ormai figliati in quantità tale da fornire alla
fattoria
la forza lavoro principale, ma lasciò che il rosolio gli
bruciasse in gola, così come quei pensieri.
Lo sguardo del signor Enrico era liquido e lasciava trasparire altro,
apparte l'ilarità di quelle labbra sottili, ma Fernando non
chiese, ed egli non spiegò.
Sembrava in tutto e per tutto una visita ad un amico, sebbene egli
fosse vestito di un abito di cotone giallo limone e portasse un
dopobarba profumato e non avesse terra sotto le unghie. Parlarono dei
campi, della semina in autunno, della salute dei lavoratori e del
bestiame, discorsi futili e al contempo di vitale importanza, ma di cui
Fernando non riuscì a capire il nesso.
Fu congedato con una stretta di mano poderosa, una pacca sulla spalla e
in regalo una bottiglia di quel rosolio e saluti carissimi alla
consorte.
Mentre scendeva dalle scale Fernando avvertì la pesante
sensazione di essere stato preso in giro, di esser stato gabbato in
qualche modo, ma come quando aveva messo piede lì dentro
ormai
ore prima, non riuscì a comprendere dove fosse l'inghippo.
Si
ritrovò a camminare come un automa, stranito e confuso, come
in
un sogno.
Credere che quello del padrone fosse un semplice interessamento lo fece
sorridere amaramente. Da quando in qua i padroni si prendevan la briga
di curarsi di loro a quel modo? Scrollò le spalle e stette
attento alla testa mentre oltrepassava la porta, tenuta aperta da una
ancor sorridente Gilda, che lo salutò con la mano.
Orso Grossi nacque nei campi, tra un covone di fieno ed il letame di
vacca, il primo vagito a pieni polmoni d'aria aperta, nei grandi spazi
della pianura.
Bianca Catellani nacque in villa, tra l'odore degli iris, il
fiore preferito della signora, e l'angoscia del padre, il primo vagito
a pieni polmoni nell'aria odorata di talco della camera da letto
padronale.
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Capitolo 2 *** Atto I - Capitolo 1 ***
1900 1
La
mano di lei gli sfiorò il petto, stringendo con le unghie e
lasciandogli piccoli segni a mezzaluna.
Mentre dormiva aveva
un'aria distesa da ragazzina, che da sveglia
lasciava spazio a quella ruga di ostinata spavalderia che non
l'abbandonava mai. Solo con gli occhi chiusi e la bocca semi aperta
sembrava docile.
Anche dopo le
gravidanze rimaneva la donna più bella che avesse
mai visto. La scostò con delicatezza, tenendo la sua mano
minuscola nella sua, tremendamente in contrasto: enorme, rozza, piena
di calli.
Anche se Olga lavorava
nei campi aveva la pelle liscia e vellutata di
quando era nata e nessuno riusciva a spiegarsi il segreto, quando gli
veniva chiesto lei si limitava a tirare indietro la testa e scoppiare
in una di quelle sue fragorose risate a bocca spalancata.
Si alzò in
piedi, tirandosi su i calzoni e allacciando le
bretelle, rimase ad osservarla, seminuda, la pelle imperlata dalla
calura estiva.
Si ritrovò
a sorridere, poi camminò fino alla culla e si
sporse per controllare che il piccino dormisse, poi con qualche altro
passo raggiunse anche il minuscolo giaciglio sul quale dormivano Orso,
Demetrio e Tina. Il sole stava per sorgere e, nel giro di una manciata
di minuti sarebbe arrivato il fattore per aprire i cancelli e
permettere loro di andare nei campi. Si passò il dorso della
mano su tutta la faccia, rimanendo a occhi chiusi.
Il vibrare caldo di
un corpicino contro il suo lo fece sussultare.
- Ehi, piccinin, che
ci fai già in piedi?-
Orso aveva 4 anni, ma
lo sguardo sveglio della madre, i capelli lisci e
scuri scompigliati sulla fronte già ustionata dal sole.
Il piccolo si
limitò a sbadigliare, rimanendo ancorato al petto del padre.
Nella cascina
dormivano ammassate tutte le famiglie che lavoravano le
terre dei Catellani e il caldo già alle prime luci del
giorno
era insopportabile mescolato agli odori, rumori di centinaia di persone
costrette assieme.
-Vai accanto alla
mamma, papà deve andare...-
Il piccolo
tirò su col naso e si trascinò sulle sue gambe
rinseccolite accanto alla mamma, ancora addormentata, poi
salutò
il padre con la manina.
Fernando
agguantò la camicia sdrucita e se la abbottonò
frettolosamente addosso. Uscendo nella corte trovò gli altri
parenti e amici già con gli attrezzi di lavoro in mano.
- La siora non si
è mica più vista da quando è
successo...quello che è successo...-
Il sole stava
spuntando dietro le colline, ma già la fresca
brezza della notte lasciava spazio alla calura e l'afa. Fernando si
stropicciò di nuovo la faccia mentre afferrava la sua zappa
e la
falce arrossata dalla ruggine.
- Oh Fernandin!
Buongiorno-
Guardò in
direzione della voce, strizzando gli occhi, poi senza
risposta, arraffò una pietra e iniziò a passarla
sulla
superficie erosa.
- Non è
stato facile nemmeno per il Catellani, questo è poco ma
sicuro -
Aveva preso a limare
il piatto della falce, lentamente, con un
movimento quasi esasperato, a testa bassa e senza fiatare. Gli altri
continuavano a parlare, in cerchio appena dentro i cancelli che di
lì a qualche minuto sarebbero stati spalancati.
L'aria era pesante,
si percepiva e non era certo per il caldo imminente.
- E' un peccato che
l'abbia presa così, la signora dico... Ci
saranno altre possibilità, è ancora giovane...-
- Son passati 4 anni,
è stato un colpo troppo duro-
- Non è la
prima ne' l'ultima a cui capita una cosa del genere. E' brutto ma
è così...-
Ancora la pietra
raschiava il ferro. Fsss Fsss Fssss. Quasi sovrastava le voci. Le
cicale iniziavano il loro canto infinito.
- Una tragedia
altrochè, una tragedia bella e buona!-
-Ma quale tragedia,
si vede che questo è il Signore che si rifà di
qualche cattiveria!-
La pietra si
fermò e così anche le voci. I visi cotti al
sole guardarono tutti dalla stessa parte. Ferdinando sollevò
la
mano, fece scivolare il sasso e poi si alzò, ergendosi in
tutta
la sua mastodontica stazza. Gli altri ammutolirono.
Fece qualche passo,
arrivò nel centro del semicerchio e rimase
lì fisso, osservando negli occhi Pasqualino, il figlio di
uno
dei suoi cugini.
- Non ti vergogni di
quello che dici?-
Quasi si
potè sentir deglutire il giovane.
- Ti auguro di non
provare mai un dolore simile a quello provato dai padroni. Sei solo un
caprone imbecille.-
Proprio in quel
momento il catenaccio fu fatto cadere e i contadini si avviarono in
marcia verso i campi.
Fernando la conosceva
bene la sensazione di perdere un figlio, di
tenere quel corpicino minuscolo e inerte tra le braccia, ancora
sanguinante.
La speranza cieca e
ingenua che il petto così piccino prenda di
colpo ad alzarsi ed abbassarsi, le manine ad agitarsi e stringere.
Era successo subito
prima della nascita di Orso, appena un anno. Nell'aspettare Olga era raggiante di felicità, non vedeva
l'ora di
stringere fra le braccia il frutto del loro amore.
Fernando stava
lavorando nei campi, era quasi sera e il pensiero della
moglie in travaglio lo stava facendo uscire di senno. Lo vennero a
chiamare mentre portava l'acqua alle stalle, aveva mollato tutto,
rovesciando i secchi colmi ed era corso verso la cascina.
Le donne erano tutte
nella stessa stanza, il vociare dei bambini appena
fuori la porta. Olga stesa su un letto di paglia e stracci che urlava
come un ossesso. Gli fu vietato di entrare finchè non si
sentì un urlo disumano, disperato.
- Fate entrare il mio
uomo!!!!-
Lui aveva spalancato
la porta, il sudore acre ancora gli gocciolava
dalla fronte, gli incollava i vestiti. Le aveva preso la testa fra le
mani, baciando dolcemente le lacrime salate sulle ciglia. Poi si era
voltato, smarrito, solo anche se la stanza era piena. Sua moglie, la
sua bellissima e forte moglie stava per dargli il suo primo figlio.
Aveva paura. Sentiva un peso sopra al cuore, un misto tra terrore e
un'esplosione di felicità, il battito che sembrava volergli
squarciare le vene. Anche lei era terrorizzata, gli occhi blu sgarrati
e la bocca martoriata dalle strette contro i denti.
- Rimani qui con me,
ti prego...-
Olga aveva
sussurrato, bianca in faccia, distrutta e abbattuta.
-Andrà
tutto bene, piccinin, tutto bene-
Aveva continuato a
ripeterlo ad ogni spinta, ad ogni urlo soffocato
contro il suo avambraccio, ogni volta che una donna correva a prendere
altra acqua bollente. L'aveva ripetuto anche quando si era iniziato ad
intravedersi la testolina e anche quando era completamente uscita,
senza il minimo rumore, senza turbare il moto perpetuo del mondo al di
fuori di quella stanza.
Il sangue era
dappertutto, inzuppava le coperte, la paglia, il
pavimento di assi. Anche la piccola ne era ricoperta, sembrava un
involucro intoccabile, fragile, che al primo scossone avrebbe potuto
distruggersi in mille pezzi.
La donna che l'aveva
fatta uscire scosse la testa impercettibilmente,
evitando di incontrare gli occhi di Fernando, che già gli
pizzicavano di lacrime.
Olga era rimasta
inerme, gli occhi chiusi, le labbra serrate, senza emettere suono. Lei
lo sapeva, una madre lo sente.
Fernando l'aveva presa
delicatamente tra le sue immense braccia,
tenendola come si tiene una reliquia santa, tenne la testolina nel
palmo della mano, la piccola schiena contro il braccio. Pianse in
silenzio mentre lavava via gli ultimi lembi di legame materno, la
asciugò con cura con un pannetto pulito e poi
tornò a
stringerla come se fosse viva. Era minuscolo quel corpicino appena nato
e mai vissuto, che non aveva conosciuto le gioie e le disgrazie della
vita, che mai avrebbe compreso la differenza tra giusto e sbagliato,
tra ricco e povero, morte e vita. O forse sì, nella sua
seppur
breve esistenza ovattata la piccola aveva capito molto più
di
tutti loro cosa significasse morire e cosa invece vivere e lo aveva
insegnato proprio quel giorno.
La morte li aveva
guardati in faccia uno ad uno e aveva strappato nel
modo più terribile una creatura alla madre, una futura
donna,
futura madre.
Il padrone si
presentò di persona appena seppe della notizia e
dette loro le sue personali condoglianze, anche a nome della moglie.
Sembrava addolorato quanto loro. Non era raro che i bambini morissero,
specie durante il parto, ma nella fattoria quel giorno aleggiava lo
stesso una malinconia generale, come se la perdita fosse stata di tutti
e non solo di quei due giovani genitori.
Ma la vita continuava,
lo dicevano tutti, lo avevano detto anche alla
Olga, ancora a letto, qualche giorno dopo. Lei era rimasta in silenzio
per settimane e Fernando era stato ad un passo dalla follia.
La colpa non era di
nessuno, dicevano. Le cose dovevano andare
così... Il Signore vi ha tolto questa creatura
perchè
possiate averne molte più in futuro. Parole comunque troppo
vuote per colmare una disgrazia così profonda.
Ma anche quella
sconfitta, come tante altre, col tempo sarebbe stata superata.
L'avevano chiamata
Maria, come la defunta madre di Olga ed entrambi si
erano separati dal suo corpicino promettendosi l'un l'altro che mai
l'avrebbero dimenticata, anche se aveva appena appena fatto in tempo a
far parte delle loro vite.
La signora Catellani
era diventata un fantasma, un'essenza, una
presenza, o meglio un'assenza, con la quale spaventare i bambini e
riempire le gelide serate invernali. Da quattro anni a questa parte era
diventata l'argomento principale di discussioni e speculazioni del
circondario. Era sempre bella come una volta? Tutti avevano
più
o meno fantasticato su quel corpo perfetto, da attrice del cinema, la
pelle diafana e i capelli setosi.
Appena sposata, quando
era venuta ad abitare nel casale le donne
avevano malignato, schioccando le lingue come fruste: una donna del
genere non avrebbe resistito a lungo in un posto come quello,
così altolocata, delicata e schifosamente ricca di famiglia.
No,
doveva esserci qualcosa sotto. E il bell'aspetto di Enrico Catellani
era soltanto un surplus.
Alcuni dicevano che
era diventata una strega, invecchiata e incattivita dal dolore.
Sembra un angelo,
dicevano altri, la sofferenza non ha fatto altro che preservare quel
suo candido splendore.
Ma nessuno l'aveva
più vista da quando era successo il fatto.
Quella mattina di
luglio la signorina Bianca non era stata la sola ad uscire dal ventre
della madre.
La signora aveva dato
alla luce due gemellini, quello nato morto, un
maschio. A niente erano valsi gli urli strepitanti della piccola, i
vagiti, i primi passi, qualcosa nel cuore della donna si era rotto per
sempre.
Per Enrico Catellani
forse era stato anche peggio; oltre che un figlio
quel giorno aveva perso anche una moglie, una compagna per la vita.
La signora si aggirava
leggiadra e totalmente distante, come uno
spirito, per le stanze della villa, senza mai parlare con anima viva,
un vuoto profondo negli occhi, pozzi scuri su quella pelle di
luna.
Il signor Catellani
aveva interpellato i migliori medici del Paese e
eminenti luminari stranieri, ma a nulla erano servite le cure, le
visite, le sedute; la signora continuava a respirare, il suo diaframma
si alzava ed abbassava, il sangue le scorreva nelle vene sì,
ma... Era come se fosse già morta.
Fu durante un
pomeriggio d'autunno di quello stesso anno,il 1904, che Fernando Grossi
la vide.
La villa pareva
deserta, lui era entrato per consegnare alcune casse da
sistemare nello scantinato. Nessuno gli rispose, vagò per
qualche tempo alla ricerca di una cameriera.
Non seppe nemmeno lui
perchè aveva iniziato a salire le scale,
gradino dopo gradino si era sentito sempre più in colpa,
come se
stesse deflorando un paradiso vergine, il cui accesso era vietato a
tutti. Lei era lì in cima alle scale, eterea, quasi irreale,
leggiadra in un vestito svolazzante candido. Fernando era rimasto con
la bocca spalancata e, lesto come una lepre aveva fatto per andarsene
se non che quella lo aveva chiamato.
Lei, che non parlava
se non a monosillabi, i cui occhi spenti sembravano vedere tutto e
nulla, senza coglierne il significato.
Fernando si
arrestò a metà scala, dove era già
arrivato nella sua fuga. La signora ripetè il suo nome,
dolcemente.
Ricordò i
primi tempi, quando i signori erano appena sposati e
lei era tanto gentile e affabile con tutti, quel sorriso aperto sempre
sul viso. Era diversa, lo era sempre stata. Non c'era
superiorità nei suoi modi, ne' spocchiosità,
anzi...
- Signora...-
- Fernando tu, mi
trovi brutta?-
I suoi occhi verdi lo
avevano ancorato e lui non potè fare altro
che boccheggiare come un pesce appena pescato, la mano che stringeva il
corrimano così tanto da imbiancargli le nocche. Lei
iniziò a scendere, aveva i piedi nudi e sembrava quasi non
toccare terra. Fernando si sentiva impotente, stranito. Non voleva
trovarsi lì, gli sembrò sbagliato e ingiusto che
lei si
comportasse a quel modo, anche se dopotutto non stava per niente bene.
Non doveva stare lì con la padrona nella condizione in
cui essa si trovava, senza nessuno intorno. Qualcuno poteva vedere e
interpretare male.
- Perchè mi
fate questa domanda, signora?-
Abbassò lo
sguardo, indietreggiando di qualche scalino, mentre
lei avanzava sempre di più, gli occhi illuminati da uno
strano
bagliore. Sembrava sotto un incantesimo che la rendeva insensibile a
tutto, estranea ma al contempo incredibilmente audace. Una mano
affusolata e bianchissima risalì dal basso ventre, con una
lentezza disarmante. Fernando si morse la lingua, gli occhi che quasi
uscivano dalle orbite. Le dita fecero scivolare un bottone dentro
l'asola, uno dopo l'altro, lasciando scoperto la pelle liscia del petto.
- Signora, dovrei
tornare a lavorare... Vi prego-
Lei finse di non
udirlo o forse non lo sentì veramente, era come
se fosse in trance, completamente assuefatta. Scostò la
veste,
mostrando i seni piccoli e turgidi, immacolati come il resto del suo
incarnato, l'ombelico faceva capolino dall'ultimo bottone aperto.
- Sono brutta?-
Fernando scosse la
testa meccanicamente, non riuscendo ad alzare lo
sguardo per incontrare quello di lei, sempre più vicina. Li
separava ormai meno di qualche spanna.
- Mio marito non mi
vuole più...-
Cantilenò
lei, con voce mesta e infantile. Il vestito le scivolò dalle
spalle, finendole tra i piedi.
- Devo essere
tremendamente brutta se mio marito non mi vuole
più toccare... Ma sono brutta, Fernando, guardami, lo sono?-
Gli occhi si posarono
inevitabilmente su quel corpo pallido, dal
chiarore lunare, le forme leggere dei fianchi, le gambe affusolate e
lisce. Un tremore viscerale si prese possesso dell'uomo che sentiva
dentro, ma ad avere la meglio fu il contadino.
La cinse con le sue
braccia possenti, quasi poteva farle due giri
attorno al corpo da quanto era esile, con una mano arraffò
il
vestito e lo calò sulle sue spalle.
- Prenderete freddo
così, dovete andarvi a riposare...-
La signora
annuì, assente, mentre gli si aggrappava al collo, la
testa appoggiata contro il petto. La sollevò senza alcuna
difficoltà arrivando fino in cima alla rampa.
Stette attento quando
la poggiò a terra. Sembrava una bambola di
cartapesta che da un momento all'altro sarebbe potuta volare via,
rimanere accartocciata e stropicciata da qualcosa di più
grande
di lei. Gli fece pena, una tenerezza incredibile stretta miseramenta in
quel vestito troppo leggero, la pelle d'oca che gli percorreva tutto il
corpo, gli occhi enormi come smeraldi spauriti. Poi iniziò a
piangere, lacrime dense, spesse, corpose. Il viso le rimase
impassibile, ma fradicio di tristezza.
Fernando non sapeva
cosa fare, avrebbe voluto stringerla a se',
scuoterla, ripetere che non vi era niente per cui stare a quel modo,
che lei era la padrona.... Che cosa avrebbe voluto più dalla
vita? Che il marito l'amava, sebbene non fosse proprio uno stinco di
santo, che la piccola Bianca aveva bisogno di una madre e che
sì, era tremendamente bella, splendida, algida e sensuale.
Ma
non lo fece. Non lo fece perchè ricordava il suo posto,
quale
erano i loro rispettivi ruoli, cosa avrebbe rischiato a toccarla di
nuovo, a trovarsi in quel posto ancora a lungo.
Ma fu lei ad
avvicinarsi, piano, quasi temesse di infrangere un momento
prezioso. Rimase sospesa, quasi sollevata da terra, per una manciata di
secondi che parvero infiniti.
Si accostò
a lui, si poggiò al suo petto. I seni appena
coperti dalla veste che gli sfioravano la pelle. Lui chiuse gli occhi,
dolorosamente cosciente. Lei invece li aprì, dischiuse la
bocca
e gli donò un bacio umido, sincero, salato di lacrime.
Fernando
non oppose resistenza, ma frenò le mani che già
la
stringevano forte alla vita.
Poi d'improvviso si
separò da lui con uno scatto, arrivando al
muro, appiattendosi contro. Lo guardò come se lo vedesse per
la
prima volta, la fronte corrucciata, disorientata.
- Vattene!-
Urlò
rabbiosa, con la voce gutturale, quasi un abbaio.
- Ho detto vattene!!!!
Esci fuori! Vattene!!! VATTENE!!!!-
Fernando si
precipitò giù per le scale, seguito dalle
urla convulse della signora. Uscì dalla villa come un
forsennato, sparendo poi tra i campi. Solo quando fu abbastanza
lontano, quasi arrivato alla cascina decise di riprendere fiato,
accasciandosi a terra.
- Ehi Fernandin,
cos'hai visto un fantasma, ne'?-
Fu quella l'ultima
volta che qualcuno vide la signora. Attorno alla sua
figura negli anni a venire si erano addensati misteri sempre
più
fitti, storie rocambolesche e incredibili che la vedevano protagonista
di una fuga con un gruppo di acrobati del circo di Vienna, oppure come
fredda assassina, che vagava per la pianura uccidendo capi di bestiame,
bevendone il sangue. Fernando comunque non raccontò a
nessuno di
quell'incontro e presto si convinse che si fosse trattato solamente di
un sogno, di una strana fantasia provocata dal caldo.
Faceva caldo nella
cascina, un caldo tremendo. L'aria si era fatta
densa di odori del pasto, le donne mescolavano la polenta in un grosso
pentolone ammaccato mentre i bambini giocavano a rincorrersi sotto le
arcate, i piedi scalzi e graffiati dagli sterpi.
Gli uomini avevano
già preso posto lungo le tavolate di legno, i
cappelli calati sugli occhi, il fumo dei sigari ad offuscare l'aria.
- Non siete certo
voialtri che siete andati al comisio della Lega.
Voialtri pensate solo a tirar avanti come muli.... Volete questo,
volete? Che ci trattino come bestie da soma ancora a lungo?-
Vittorio Grossi, detto
Labriola, come il capo della corrente
rivoluzionaria del partito socialista, si alzò in piedi
indicando uno ad uno i parenti, a suo dire troppo moderati e passivi.
In tutta risposta il
cugino Ettore gli sputò sul muso, lasciando
che il suo fervore politico si estinguesse in una risata generale.
- Sempre a discorrer
di politica tu... Cosa ne vuoi sapere? A me non
sembra che ce la stiam passando troppo male. Ci son stati momenti
peggiori... -
Labriola
sbuffò col naso, un mezzo sorriso strafottente sulla faccia
sporca di terra.
- Siete solo delle
bestie.... Delle bestie assuefatte dalle false
promesse del padrone. Non vi rendete conto che ci sfrutta come fossimo
animali? I buoi giù nella stalla hanno più
diritti di
noi! In quelle zucche vuote non avete nemmeno un grammo di cervello per
capirlo? La rovina di questo Paese siete voi e la gente come voialtri!
Turati! E' lui la rovina! Con la sua apertura liberale! ALLA ROVINA!
ANDREMO ALLA ROVINA!-
Sputò a
terra tre volte e poi uscì come una furia, lasciando che gli
altri lo guardassero come si guarda un pazzo.
Fernando non capiva
niente di politica, ma una cosa la sapeva...
Sentiva che stavan per accadere grossi cambiamenti, si avvertivano
fermenti sotterranei, sconvolgimenti latenti.
La gente iniziava
sempre più ad interessarsi di cose politiche,
di affari che esulavano dal piccolo mondo fatto di fatiche nel quale
sembravano tirare avanti giorno dopo giorno. Il Partito Socialista, la
Lega dei Lavoratori, le sommosse popolari contro i padroni, i primi
scioperi. Qualcosa stava mutando davvero.
- Quel toso
lì è passo, come fa a dir che il padrone ci
sfrutta se ha appena comprato uno di quegli arnesi che trebbia in
automatico? Basta una bestia che traina e riesce a far il lavoro di 5
uomini in meno di metà del tempo. Si fatica meno e io sto
apposto così-
Un grugnito di
approvazione serpeggiò tra le tavole. Ma molti altri non si
trovavano d'accordo.
- A me pare solo un
arnese diabolico. Fra un po' non ci sarà
nemmen più lavoro da fare... Sarà pieno di quegli
affari
e di noi? Di noi chi avrà più bisogno?-
- Ci saran sempre dei
poveracci di cui aver bisogno e sta pur certo che saremo sempre
noialtri...-
I discorsi si
interruppero all'arrivo dei piatti di polenta fumante e
per un po' si rimase in silenzio, le mosche che serpeggiavano
indisturbate sulla tavola.
Fu proprio in quei
giorni che il Paese fu attraversato da un'ondata rivoluzionaria di
sommossa.
Nelle giornate tra il
15 e il 20 settembre 1904 infatti, fu proclamato
dalla Camera del Lavoro di Milano il primo sciopero generale della
storia d'Italia, promosso proprio dai sindacalisti rivoluzionari di
Arturo Labriola, scaturito dal clima di terribile tensione sfociata a
seguito delle mattanze avvenute in Sicilia e Sardegna dagli scontri con
le forze dell'ordine.
Le giornate di
sciopero furono una vera follia, un pericolo crescente e
concreto per la borghesia, che richiese o meglio quasi
supplicò
Giolitti di intervenire in maniera armata. Ma il capo del governo
lasciò che l'ondata di proteste e sommosse si sedasse da
sola,
evitando altri spargimenti di sangue che avrebbero senza dubbio
alimentato il malcontento, invece di stroncarlo una volta per tutte.
La mossa di Giolitti
fu quella di sciogliere la Camera ed indurre nuove
elezioni i cui risultati sancirono l'evidente sconfitta dei socialisti,
i cui seggi in Parlamento diminuirono notevolmente, facendo emergere
tra l'altro la vittoria schiacciante del riformista Turati.
Ciò che
risultò chiaro a seguito del sommovimento
proletario fu la fine del sodalizio fra socialismo e giolittismo,
ques'ultimo inevitabilmente avvicinatosi alle masse cattoliche
conservatrici.
Il primo sciopero
d'Italia fu comunque il primo passo verso una nuova
impronta, fino ad allora mai sperimentata nel Bel Paese: la lotta
sociale come violenza necessaria, contrapposta al dogmatismo utopistico
di Marx.
La tesi che il sindacato, non il partito, dovesse essere la massima organizzazione di lotta della classe operaia e che lo sciopero generale dovesse diventare un' arma insurrezionale per rovesciare il regime borghese stava progressivamente affermandosi tra gruppi di operai e di intellettuali che capivano l'insufficienza del riformismo.
Molti si avvicinarono
al pensiero socialista, la promessa di un mondo
in cui l'uguaglianza tra pari sembrava possibile alimentava le speranze
di chiunque si trovasse in una condizione difficile e ciò
non fu
diverso nemmeno nella cascina dei Catellani. L'interesse politico,
l'inasprimento nei confronti dei cosidetti ''padroni'' andò
a
rafforzarsi nei mesi di quell'anno pregno di stravolgimenti.
Da parte sua Enrico
Catellani non si preoccupava ancora di quel grosso
problema, finchè i suoi lavoratori erano chini sulle sue
terre,
niente poteva sfuggire dal suo controllo. O almeno questo era quello di
cui sembrava profondamente convinto.
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Capitolo 3 *** Atto I - Capitolo 2 ***
La città
aveva sempre rappresentato un mistero per quelli come lui; uno di quei
misteri affascinanti proprio perchè se ne aveva la piena
coscienza del pericolo,
il gusto ricco e eccitante del proibito.
Quando ci si recava percepiva addosso la pesante sensazione di sentirsi
fuori luogo,
un estraneo in quel mondo di luci ed ombre dove nulla è come
appare. Eppure, proprio come le emozioni più eccitanti e
ambivalenti, Fernando non poteva fare a meno di immaginarsi camminare
tra i viali acciottolati, bere un amaro nel caffè degli
Artisti
in piazza del Duomo, discorrendo di libri che non avrebbe mai letto, di
donne che non avrebbe mai avuto.
Lo affascinava la vita scandita dai ritmi della città:
nessun
cigolare di catene all'alba, nè sudore acre sulla pelle fino
a
sera, ne' l'indolenzimento doloroso provocato dalla fatica.
Ma dopotutto quelli erano solamente sogni e l'unico piacere che avesse
era quello di poter contemplare il profilo evanescente e fumoso della
città, lontana, quasi un miraggio tra la nebbia della Bassa.
Quando era poco più che un bambino era solito venir
innalzato al
ruolo di mascotte dai cugini e parenti più grandi che,
appena
era loro consentito, fuggivano in città nella spasmodica
ricerca
dei suoi piaceri.
Era un susseguirsi di taverne, bettole e osterie di infimo ordine; le
serate scandite dalle risse, gli insulti, le bravate in mezzo alla
strada e ovviamente le visite ai bordelli. C'erano giovani che
risparmiavano da mesi per poter usufruire del servizio che offrivano le
case del piacere, malamente celate in vecchi palazzi scalcinati. La
mercanzia che vi era esposta all'interno poteva assecondare i gusti di
tutti: magre, in carne, bionde o brune, innocenti o sensuali fanciulle
che per poche lire soddisfavano ogni desiderio maschile (tranne i baci,
quelli erano esclusi).
Fernando ricordava con una vena di agrodolce quelle visite alla casa
della Siora Flora, tappa affezionata e ormai inevitabile di ogni
viaggio in città.
La signora Flora era una donna che aveva passato i sessanta, con lo
sguardo furbesco e le labbra costantemente pitturate di rosso. Quando
lui e i suoi cugini entravano dalla porta d'ingresso, anonima e
scheggiata come tutte le altre, lei gli andava incontro stampandogli
sulla fronte un grosso bacio scarlatto. Così marchiato
Fernandino prendeva posto su una poltrona sfondata, unico mobilio del
minuscolo ingresso male illuminato, mentre i ragazzi più
grandi
oltrepassavano un corridoio strettissimo, per poi ritrovarsi nella
stanza della scelta. In linea di massima c'erano sempre le solite
ragazze, apparte qualche raro caso in cui una nuova prendeva il posto
di una qualche d'un altra che era riuscita a maritarsi o a trovare
fortuna in qualche altro paese.
Suo cugino Maurizio sceglieva sempre
una ragazza minuta, dai tratti gentili e innocenti, con grandi occhi
azzurri e il nasino delicato all'insù, ne era probabilmente
innamorato perchè, quando lei se ne andò dal
bordello per
sposare un carabiniere, lui pianse ogni giorno e non volle mai
più tornare in quel posto.
Mentre i ragazzi si davano da fare con le loro rispettive scelte,
Fernando se ne stava comodamente seduto, le scarpe che nemmeno gli
toccavano terra e almeno una o due ragazze in pausa attorno. Lo
coccolavano come fosse un figlio o un fratellino più
piccolo,
gli accarezzavano i capelli e gli davano da mangiare un sacco di
cioccolata.
Una volta arrivarono persino a scommettere su quale di loro avrebbe
preso la sua verginità, una volta che fosse cresciuto.
Fernando
le osservava come fossero creature extraterrene, che vivevano in quel
mondo parallelo, dove la realtà sembrava non tangerle
minimamente, quasi come se le loro esistenze iniziassero e terminassero
nello spazio di quelle due stanze, come se, una volta oltrepassata la
soglia non esistessero più, come in un sogno.
Dal canto suo Fernando aveva preso una grossa cotta per Gilda, una
straordinaria bellezza meridionale con la pelle liscia e scura, gli
occhi penetranti e il sorriso sensuale. Si ripromise che un giorno
l'avrebbe avuta, ma lei smise di lavorare proprio quando lui aveva
racimolato abbastanza denaro per poterle far visita. Fu anche per
questo che nella sua mente di adolescente la bella Gilda dai capelli
corvini rimase per sempre una fantasia con cui, ogni tanto, gli piaceva
stuzzicare la sua mente.
Era probabilmente in quel preciso momento che Fernando capì
cosa
volesse dire provare qualcosa per una donna e fu senza dubbio in quella
stanza che sperimentò le prime imbarazzanti e acerbe
erezioni.
Ma la visita di quel giorno, come ebbe modo di scoprire più
tardi Fernando, non era una visita di piacere.
Iniziava a pentirsi di aver accettato l'invito insistente di Labriola,
vestito e improfumato di tutto punto nel suo abito migliore, quello
della domenica, i baffetti lisciati e i capelli impomatati.
- Dì, Labriola, che siam venuti a fare in città?-
Gli camminava davanti, nervosamente, con un fare circospetto che a
Fernando sembrò solo buffo e... Ancora più
sospetto.
Il piccoletto lo zittì con un cenno della mano, per poi
continuare a camminare, calpestando la strada acciottolata sotto i
portici, che correvano attorno a tutto il centro storico.
Fernando osservava la gente che gli passava accanto, i vestiti che
indossavano, il loro modo di parlare, gli atteggiamenti e i gesti; le
cose che vedeva erano per lui quasi sempre una novità.
Persino
le foglie staccate dagli alberi sembravan diverse da quelle che c'erano
in campagna, l'acqua doveva avere un sapore diverso e anche l'aria, la
stessa aria che respirava gli sembrava in qualche modo unica, speciale.
Non era difficile star dietro al passo di Vittorio Grossi, detto
Labriola, anche perchè Fernando aveva due gambe che forse
eran
più del doppio di quelle del cugino, ma iniziava a
spazientirsi
di quella marcia forzata diretti chissà dove.
Non gli piaceva
non sapere cosa stesse facendo e dove stesse andando. Rimanere
all'oscuro lo faceva stare a disagio.
Camminarono ancora un po', illuminati dal fioco chiarore del tramonto.
Il cielo aveva preso un colore sanguigno, quasi di presagio e
Ferdinando non riusciva a stare tranquillo. I suoi piedi enormi
continuavano a pestare il suolo passo dopo passo verso una direzione a
lui ignota.
Labriola col suo passo nervoso procedeva di gran carriera, di tanto in
tanto continuando ad osservarsi attorno circospetto.
Stanco di tutto quel trottare, senza nemmeno una spiegazione,
Ferdinando colmò la distanza con un balzo e
agguantò per
il colletto il cugino.
- Che accidenti fai, eh?-
Strillò quello, la voce acuta e strozzata di chi ha i nervi
a fior di pelle.
- Stammi ben a sentire... Io mi son rotto di correrti dietro per mezza
città, intesi? Ora tu me disi dove si sta andando o te faso
passar la voglia di zampettare...-
Con una mano che teneva il colletto della camicia, sollevò
l'altra proprio davanti al viso di Labriola, pugno serrato. Lo
sentì deglutire con gli occhi sbarrati e la bocca semi
aperta.
Fu lesto nell'alzare le mani, i palmi ben visibili.
- Ehi, Fernandin mica scherzerai? Sta calmo devi fidarti di me!-
Il sudore gli scendeva ancor più copioso dalla fronte, se
possibile. No, Fernando non avrebbe mai menato le mani contro un
parente, a patto che non fosse stato necessario, però
confidava sempre
nel terrore che incutevano la sua stazza e quelle mani, simili a pale,
che si ritrovava.
Decise di mollare la presa, riservando al cugino uno sguardo truce come
per dire ''Se non arrivi subito al succo, vedrai che questo pugno lo
assaggi''.
Vittorio gli sorrise tirato, assicurando il cugino che stavano quasi
per arrivare. Fernando sbuffò, sentendo aria di politica, di
discussioni e di argomenti a lui totalmente oscuri.
Aveva acconsentito ad accompagnarlo in città
perchè anche
se ormai un abituè, il cugino rappresentava comunque una
categoria di uomo che tutti consideravano un debole, almeno
nell'ambiente di campagna.
Era smilzo, bassino e aveva l'aria nervosa e schiva, sempre sul punto
di scattare come una molla. Aveva sempre preferito i libri al lavoro
manuale, ma quello che aveva imparato lo aveva fatto da solo; non erano
certo signori che potevano permettersi un maestro o addirittura una
scuola. Più che per un moto d'animo suo personale, Fernando
aveva voluto quietare le ansie della zia, madre di Vittorio, ogni volta
in apprensione sulle visite del figlio in città.
Una sorta di guardia del corpo, insomma. Le paure della donna non erano
del tutto irragionevoli. Il fermento delle riunioni socialiste e
comuniste stava iniziando a preoccupare seriamente le forze
dell'ordine, nonchè quei proprietari terrieri a cui le
sommosse
e l'ideologica Rivoluzione (ormai tutt'altro che utopistica) miravano.
Non era raro che le manifestazioni organizzate pubblicamente o in
luoghi debitamente nascosti finissero in malo modo.
Ma Labriola, da piccolo così preso in giro e maltrattato per
la
sua codardia, sembrava aver trovato uno slancio di coraggio indomabile.
Non c'era comizio che si perdesse o riunione a cui evitasse di
partecipare. Era diventata una missione vitale, un obiettivo primario.
Fernando non capiva appieno i motivi che spingessero a questo
cambiamento, ma a volte si fermava a riflettere su quanto un'idea
potesse cambiare la natura umana, su quanto quel fervore politico
sembrava impossessarsi della mente e delle membra di coloro che ci
credevano fermamente.
Sbuffò di nuovo, il rumore delle suole delle loro scarpe sul
selciato.
Oltrepassarono il ponte sul fiume, per poi addentrarsi in un labirinto
di viuzze strette, dentro le quali Labriola sembrava orientarsi agile e
veloce come un topolino. C'era una puzza incredibile e una
sensazione di oppressione che non aveva mai provato in aperta campagna.
Svoltarono un angolo, ritrovandosi in una piazza chiusa da alti muri
che la costeggiavano. Sembrava più un cortiletto interno o
una
corte a dire il vero. Nemmeno una luce che rendesse chiari i loro
movimenti, ma questo sembrò non importare a Labriola che
camminava sicuro come se fosse pieno giorno.
Dalla parte opposta dalla quale erano giunti, se ne stava un gruppo di
5 o 6 persone, totalmente immerse nell'ombra e le cui sagome erano
appena visibili.
Al rumore di passi si voltarono tutti a guardarli.
Non aveva propriamente paura, ma un grosso nodo iniziò a
stringere la gola di Fernando. Non avrebbe avuto problemi a riempirli
di botte, anche così nella semi oscurità, se le
cose si
fossero messe male, ma avrebbe comunque preferito che non ci fosse
bisogno. Avvicinandosi ulteriormente notò che erano tutti
vestiti in maniera elegante, con giacca di panno e scarpe pulite. Molti
indossavano un cappello e quasi tutti portavano i baffi lunghi, come
Labriola.
- Te sei degnato di venir, allora...-
Una voce parlò, ma non apparteneva a quelli che se ne
stavano in semicerchio.
Sia Fernando che Vittorio si voltarono. Alla loro sinistra avanzava un
tipo magro, con le spalle larghe e la mascella ben pronunciata, sebbene
in armonia col resto del volto spigoloso.
Un uomo accanto a lui, più tarchiato, portava un lume,
così che almeno mezza figura fosse visibile.
Fernando corrugò la fronte, interrogativo.
Per tutta risposta l'uomo sorrise, un sorriso furbesco e aperto, che
sembrava appartenere a chi conosce i segreti dell'universo e non
è poi così propenso a svelarli.
Arrivò a pochi metri da loro, per poi fermarsi ad osservarli
di nuovo, con quel sorriso che non accennava a scomparire.
Fernando si fece ancor più vicino a Labriola.
- E questo chi s'è, lo conosci?-
Gli chiese, senza temere di essere sentito dall'altro.
- Semmai dovrei chiederti chi sei tu...-
Ribattè il tipo con un tono saccente di
superiorità, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni.
Un altro sguardo interrogativo di Fernando, che iniziava a spazientirsi
per quella situazione paradossale. Odiava i giochi di parole e le
situazioni che si protraevano all'infinito come brodo annacquato.
- S'è mio cugino, un tipo apposto, si può star
tranquilli!-
Labriola aveva parlato, la voce più flebile di uno
squittìo da topolino.
- Questo lo decido io...-
L'uomo sorrise di nuovo, un angolo della bocca leggermente sollevato.
Fernando sentiva bollire il sangue, ma cercò di mantenere la
calma. Poi, l'uomo si accostò alla parete, spostò
quella
che sembrava una cassa per consegne da fattorino, scoprendo un
passaggio nella muratura. Fece segno ai due di entrare, poi, sempre con
l'uomo con il lume dietro di sè, li seguì.
All'Olga non era mai importato delle visite di Fernando in
città.
Gli uomini lo facevano, tutti. E non era una novità. E poi
lei si fidava del suo uomo, anche se l'idea che visitasse quelle case
non le andava giù del tutto, ma comunque... Lo facevano
tutti.
Era un modo per evadere dalle fatiche quotidiane, dai figli, le mogli,
la dura vita del contadino.
Lui le assicurava ogni volta che tutto quello che faceva era stordirsi
in qualche taverna e che non visitava ''quei posti'' da quando l'aveva
conosciuta.
Lei si limitava a sollevare le spalle, mimando un'ostinata indifferenza
che, apparte un leggero velo di fastidio e gelosia, era autentica.
Fernando la amava, anzi... Amare sarebbe troppo poco per definire
ciò che quell'uomo grande e grosso provava per la sua donna.
Non aveva occhi che per lei, quando la osservava dormiente accanto a
se', ancora stentava a credere di possederla.
Ma la sua non era una possessione animalesca, no, lui la desiderava e
la rispettava, spaziando quasi nell'idolatria, ma senza stucchevolezze.
Olga lo amava, di rimando, proprio per questo. Il suo gigante buono non
era il suo padrone, ne' il suo zerbino... Era il compagno ideale di una
donna forte, cocciuta e tremendamente attraente. Una donna che in mezzo
a quelle campagne stonava come un fiore esotico tra anonime piante di
campo. Una donna che teneva testa ad un uomo un po' fumino, ma dal
cuore grande come un bue e che era riuscita a cambiarlo in meglio,
già con la sua sola presenza.
Olga era arrivata nelle terre dei Catellani con una manciata di
parenti, gran parte cugini e zii, sola e orfana, i genitori spazzati
via dal colera appena un anno addietro. Aveva 14 anni, i capelli lunghi
corvini le arrivavano fino a metà schiena, aveva un paio
d'occhi come tizzoni, vigili, scuri come pozzi e tristi, tremendamente
tristi. Ma dentro a quelle due voragini ardenti, fiammeggiava uno
sguardo fiero, forte... Non era una ragazzina come tutte le altre.
Era schiva, ma tremendamente ostinata.
I ragazzi ne erano attratti, ma era un'attrazione spaventosa, potente e
inquietante... Quella creatura era difficile, impossibile da
avvicinare. Se gli uomini la guardavano con desiderio, le donne ne
avevano timore.
D'estate, quando era tempo di mietitura e il caldo sembrava serpeggiare
e pulsare nei campi, Olga sembrava una visione: una dea bellissima e
madida di sudore, la pelle cotta sotto i raggi che splendeva di rugiada
salata. Tirava su il vestito, scoprendo le gambe magre e toniche, il
muscolo che pulsava ad ogni passo. Era impossibile non ammirarla, era
come se rilucesse di un'aura tutta sua. Era una creatura unica,
magnetica e pericolosa.
Molti avevano cercato di avvicinarla, senza alcun successo. Lei si
limitava a sorridere di veleno, prendendoli in giro con la sua acuta
intelligenza, rideva di loro e dei loro approcci, non lasciava
avvicinarsi.
Sarebbe stato riduttivo ritenere che quel suo comportamento
scostante, da selvaggia fosse dovuto unicamente alla perdita dei
genitori, all'essersi trovata spiantata in un luogo nuovo, abbandonata
dagli affetti più cari, e i giovanotti insistenti
preferivano credere che si comportasse in quel modo proprio per questa
serie di motivi.
Col passare del tempo e collezionati una serie infinita di insuccessi,
l'Olga venne lasciata da parte e additata come una puledra impazzita,
una con non tutte le rotelle al posto giusto, una pazza imprevedibile
insomma.
C'era stato un ragazzo, qualche mese dopo il suo arrivo al podere, che
si era messo in testa di volerla sposare.
Era un bel toso: alto, muscoloso, con una gran massa di capelli di pece
e, come tanti altri, era caduto nella rete fascinosa di quella bellezza
sfuggente.
Tutti avevano cercato di metterlo in guardia sulla malìa
distruttiva dell'Olga, ma Pietro non si era lasciato abbattere e
insistente come quando caricava sacchi e sacchi di granaglie, aveva
cominciato a corteggiare la giovane.
Le ronzava intorno giorno e notte, si offriva di aiutarla quando la
vedeva in difficoltà, le faceva regali (per quanto potesse),
insomma... Le tentò tutte.
Ma lei niente. Rimaneva algida e austera, apparte qualche sorriso
cattivo, qualche sguardo di fuoco, che il poveretto nella sua cieca
ostinazione, scambiava per segni di cedimento.
La situazione durò per parecchio tempo, fin quando, ormai
accecato dalla passione, il ragazzo non tentò di baciarla.
Il giorno dopo, nei campi, tra le risate e gli sghignazzi degli altri,
Pietro portava sul collo quattro profondi segni purpurei, ancora
pulsanti di sangue. Era finita lì ed anche quell'occasione
non fece altro che accrescere la ''fama'' dell'Olga.
Le contadine sputavano quando la vedevano, sussurrando insulti a bassa
voce. Eran tutte calunnie, perchè si sa, l'invidia corrode
dentro e il rimedio più efficace si rivela essere l'infamia.
Olga dal canto suo non ci faceva caso, le bastava lavorare (e in questo
era instancabile, a dispetto del suo aspetto che rimaneva unico e raro
quanto il suo carattere), avere un tetto sopra la testa e sostentamento
per vivere.
Fu durante una calda sera di fine estate, che il destino di quella
puledra indomabile subì un' inaspettata svolta.
La terra sprigionava ancora tutto il bollore che l'aveva ingravidata
durante il giorno. Ogni cosa pareva immobile, sospesa nell'afa
incredibile che si sprigionava da ogni cosa, eppure, la vita era
lì a ricordare propotentemente della propria presenza.
Le cicale frinivano senza sosta, sprigionando nell'aria una nenia
monocorde, che intorpidiva le membra. Il disco incendiato del sole
scompariva sempre più dietro l'orizzonte piatto e liscio
della Pianura; le lucciole si accendevano a intermittenza giocando a
nascondino con i bambini, che correvano scalzi per l'aia.
Era uno degli ultimi giorni di mietitura, poi i campi, mutilati dai
loro steli dorati, sarebbero stati fatti riposare fino alla prossima
semina; gli uomini e le donne, stracchi di lavoro e di fatica, se ne
stavano in cerchio, bevendo, parlando e amandosi.
Una musica allegra e corale sferzava l'aria: erano canti popolari
emiliani, caldi e a tratti malinconici.
Era un momento magico, di stallo... Come se per un attimo il duro
lavoro dei campi potesse essere dimenticato, la mente immersa soltanto
in quel canto cadenzato, la musica avvolgente e ritmata, la gioia nel
cuore.
I più giovani ballavano attorno ai musicisti improvvisati,
cercando quel casto contatto fisico che li univa in un saltarello
indemoniato. Il tutto ovviamente sotto gli occhi scrutatori dei padri.
Dal canto suo Olga se ne stava sul bordo della finestra più
alta della cascina, dove si trovava una sorta di enorme mansarda, nella
quale venivano ammassati vecchi attrezzi e ogni genere di strumento
contadino.
Era il suo posto, la sua piccola evasione quotidiana. Amava passare il
tempo là sopra, osservare dalla grande finestra aperta la
città in lontananza, rimanere sola con i suoi pensieri.
Ed era così anche quella sera. Nulla importava se
più in basso tutti si stessero divertendo, ballando, bevendo
fino a tarda notte. Le sembrava che quella gioia fosse esagerata,
esasperata e fasulla... Come potevano zampettare, ridere a
squarciagola, fino a farsi venire gli occhi lucidi, quando a pochi
metri campeggiava la pesante inferriata con i cigolanti lucchetti che
scintillavano ai primi raggi di luna. Dopotutto erano in trappola, come
animali. Un circo coloratissimo e ingabbiato.
Non riusciva a non pensarci, certo, non odiava la sua condizione
perchè se non avesse avuto quella possibilità,
dopo la morte dei genitori sarebbe sicuramente finita peggio; ma
d'altro canto non si sentiva nemmeno in grado di poter dimenticare che
eran tutti una proprietà, così come lo erano le
bestie chiuse nelle stalle, i campi, nè più
nè meno del legno tarlato su cui stava seduta.
Strizzò gli occhi, rimanendo sdraiata e reggendosi il mento
con i palmi delle mani. C'era un fuoco scoppiettante, poco lontano al
divertimento generale. Le lingue di fuoco cercavano di raggiungere il
nero profondo della notte, senza riuscirci, ma il gioco di luci ed
ombre che avviluppavano le figure in movimento era meraviglioso. Olga
osservava i suoi coetanei ballare, saltare, ridere alla luna, mentre la
musica si faceva sempre più forsennata ed esagitata.
Non sentiva l'esigenza di scendere dabbasso e partecipare a quella
danza scalmanata, le bastava osservare la felicità altrui,
forse perchè non si sentiva del tutto partecipe o forse
perchè le piaceva convincersi di questo.
I suoi occhi si fermarono su ognuna di quelle facce, colorate d'arancio
per via del fuoco. C'erano una fila di ragazze sedute, che ciarlavano e
chiocciavano a voce alta; tra loro c'era anche Lina, una ragazza
bruttina e scialba che la odiava dal primo momento in cui aveva varcato
il cancello. Non aveva mai voluto sapere il motivo, non le interessava,
ma in fondo sapeva che non sarebbe mai stata benvoluta in quel posto,
come non lo era mai stata da nessuna parte. Le sembrava di allontanarsi
ogni giorno di più dalla realtà, di sentirsi
sempre più scollata dal resto del mondo. Si sentiva diversa,
era diversa, ma non ne soffriva, solo era abbastanza intelligente da
rendersene conto. Non era orgoglio il suo, ma semplicemente riconosceva
di essere migliore di tutta quella gente, sotto certi versi, speciale.
Poteva essere un bene, come no.
Sapeva già che se fosse scesa una quantità
indescrivibile di quegli uomini avrebbero tentato di ballare con lei,
di fare due passi nel buio, appena poco lontano dal fuoco. Non le
interessava neanche questo, ma col tempo sapeva che avrebbero smesso.
Già molti voltavano la faccia quando incontravano il suo
sguardo. Molti di quelli che avevano provato a conquistarla adesso
erano sposati, con qualche figlio, con un ripiego per moglie. E loro lo
sapevano bene, per questo il tacito odio che serpeggiava era ancora
più velenoso.
Olga osservava di nuovo le stelle, la musica stavolta un po'
più mesta e delicata. I ragazzi si tenevano stretti,
muovendosi lentamente di fianco, i padri che non staccavano di dosso
gli occhi dalle loro figlie ancora nubili.
L'aria era ancora pesante, sapeva di polvere e solleone, entrava nelle
narici di prepotenza e non voleva uscire.
Chiuse gli occhi e sorrise, felice di quel momento di pace.
Mentre se ne stava ancora con le palpebre abbassate, sentì
lo scricchiolare delle scale.
Si voltò di scatto, cercando di abituare gli occhi al buio
pesto. Non vedeva la fine dello stanzone, aver guardato troppo fisso il
fuoco l'aveva resa cieca.
- C'è qualcuno?-
Chiese, rimanendo in posizione prona, il volto girato.
Scrollò le spalle, tornando a osservare in basso e a
dondolare i piedi, tirati su a mezz'aria, a tempo di musica.
Percepì dei passi dietro le spalle, stavolta si
girò completamente, portandosi a sedere.
C'era qualcuno veramente.
Non avrebbe avuto paura di solito, era impossibile avere più
di un attimo di solitudine in un posto dove le persone erano ammassate
molto più di quanto lo spazio potesse permettere. Ma sentiva
che c'era qualcosa di diverso: l'aria era diventata elettrica e
pesante, non era ancora venuto il momento di avere paura, ma si sentiva
a disagio.
- Chi s'è là??-
Chiese di nuovo, stavolta mettendosi in piedi.
Ancora passi e poi, il fascio di luce della finestra
illuminò un paio di piedi scalzi e dei calzoni sdruciti.
A torso nudo di fronte a lei c'era Carlo.
Era un Grossi, la famiglia che lavorava per i Catellani da sempre,
generazioni e generazioni di contadini instancabili e dalle spalle
larghe. Lo chiamavano Carletto, anche se di piccolo non aveva niente, a
partire da quel naso tuberoso e sproporzionato che gli campeggiava in
una faccia larga e cotta dal sole.
L'Olga non si sentì del tutto tranquilla, anche se con Carlo
non aveva mai avuto niente a che fare. Era un personaggio come altri,
un colosso che serviva bene da bestia da soma con poca materia
cerebrale.
Dire che lo disprezzava era esagerato, ma di certo non voleva averci
niente a che fare.
- Carlo, m'hai spaventato...-
Gli disse, senza però concedere alla voce quel brivido che
sentiva alla bocca dello stomaco.
- Che se fai qui, tutta sola?-
Chiese lui, la bocca come un grosso taglio lasciato lì per
errore. Il tono di voce in cui aveva parlato era basso e grave, poco
più di un sussurro vibrante.
- Fatti miei, no te sono certo tuoi...-
Ribattè lei, voltandogli le spalle e rimettendosi seduta.
- Vedo che 'sto caratterino non ge te sei decisa ancora a domarlo, ne?-
Il sibilo che gli era uscito dalla bocca era cattivo.
Olga si voltò di nuovo e scoprì sulla faccia, di
solito inespressiva e tonta come quella di un bue, una linea brutta e
inspiegabile.
- Son fatti miei anche quelli...-
Fece per alzarsi, ma Carlo le si parò davanti, a poche
spanne dal corpo. Il respiro le si mozzò per un attimo, ma
si riprese subito.
Svirgolò verso destra, agile, ma non abbastanza,
perchè lui la agguantò per un braccio, facendole
male.
- Ma lassameeee! Che diavolo vuoi da me?-
Gli urlò, incattivita, con le sopracciglia che si toccavano
e la bocca distorta in una smorfia di sorpresa e dolore.
Non voleva essere toccata da nessuno, voleva solamente andare via da
lì. Avrebbe pure ballato, forse, ma adesso voleva andare
via; non voleva quella manona stretta attorno al suo polso sottile, non
voleva sentire il peso di quel corpo gravoso sopra il suo, quel fiato
alcolico che le premeva contro l'orecchio.
Lui la tenne ferma, approfittando della differenza di stazza, lei si
divincolò, scalciando.
- Ora te fazo veder quello che voglio fare...-
Il ghigno di Carlo non era umano. Lo aveva visto qualche volta sulla
faccia dei bambini quando torturano gli animaletti, come le ranocchie
vicino al rigagnolo che passava dentro la proprietà. Era
pura cattiveria e anche piacere. Adesso aveva paura.
- Lasame! Brutto stronzo!-
Cercò di morderlo, ma quello che gli lasciò sulla
spalla non gli aveva fatto effetto più che un pizzico di
zanzara.
- Te convien star ferma, brutta puttana!-
Una delle grosse mani gli teneva ferme entrambe le mani, mentre l'altra
percorreva tutto il suo corpo, appena coperto da un vestito fino. Lo
sentì strappare con un gesto, lasciandola nuda ed esposta.
Non voleva piangere, ma più scalciava, più si
sentiva spossata e senza speranza. Gli assestò un calcio
allo stinco, ma finì per farsi più male lei che
altro.
Cercò di urlare, ma la musica era alta e nessuno avrebbe
sentito.
Carlo intanto cercava di baciarla, con quella pelle ruvida e la lingua
che le percorreva tutto il viso. Olga si scansava, dimenava senza
sosta, ma lui era più forte.
Sentì la sua mano che la cercava in mezzo alle gambe, con
insistenza. Cercò di stringersi, svincolarsi come poteva, ma
sentiva che non aveva più forza di stare in piedi, tutti i
muscoli in tensione e le lacrime che iniziavano a rigarle le guance; le
inzuppavano i capelli nerissimi come quella notte.
La musica gioiosa era così dolorosa da sentire adesso che il
pianto le aveva annebbiato gli occhi e il cervello. Non aveva
più forze, si accasciò come una marionetta usata
e sentì lui che si calava sopra di lei, i pantaloni
abbassati fino alle caviglie.
Chiuse gli occhi, con forza, mordendosi a sangue la lingua. Ma non
successe nulla. Aveva paura di aprire gli occhi e rivedere quegli occhi
iniettati. Rimase con le mani sulla faccia per quello che le
sembrò un'eternità prima di riaprirli.
Sentì uno schiocco potente, quasi come un colpo di pistola.
Poi lo vide.
Carlo era accasciato a qualche metro da lei, si teneva tra le mani quel
nasone tritato come carne macinata. Perdeva sangue come un fiume e si
lamentava, mugulando come le bestie al macello.
Non si era accorta di tremare fino a quando non aveva visto l'altra
figura, nell'ombra, grossa quasi quanto Carlo.
Indietreggiò verso la parete quasi senza accorgersene.
- Te convien scender subito...-
La voce era tagliente, non lasciava molto spazio al dubbio.
Carlo, le mani ancora piene di sangue si tirò su i calzoni
alla bell'e meglio e sparì nell'oscurità, facendo
le scale di corsa e facendo ondeggiare e scricchiolare tutto il legno.
- Chi-Chi sei?-
Olga non sapeva come riuscire a parlare, le parole le erano uscite
così, come se il corpo non fosse suo e lei stesse guardando
tutto da sopra la luna.
Quello non parlò, si limitò ad avanzare verso la
luce bianca.
La musica non era terminata, anzi, si faceva sempre più
incalzante e tutti sembravano divertirsi un mondo.
Il viso che le si parò davanti era quello di Fernando
Grossi. Carlo era uno dei suoi cugini.
Olga rimase a guardarlo negli occhi e lui fece lo stesso, ma per poco,
perchè poi lo abbassò.
Era bello, Olga lo sapeva, ma che fosse anche buono non ne aveva la
riprova. Di certo l'aveva aiutata e di questo poteva esserle solo che
riconoscente.
Lo vide avvicinarsi, ma stavolta non indietreggiò. Rimase
semplicemente ferma, non provò neppure a coprirsi dal suo
sguardo, perchè lui non la stava guardando con malizia.
Lo vide sbottonarsi la camicia che portava, gliela mise sulle spalle e
non parlò. Anche lui doveva sapere quello che dicevano su di
lei.
Ormai erano due anni che viveva lì eppure Fernando era uno
dei pochi che non aveva cercato di avvicinarla. Le sembrava un tipo
solitario anche lui, a modo suo.
Non parlò mai, neppure quando fece per andarsene e lei si
tirò su di scatto, cercando il suo polso.
Fernando si era girato di scatto, tra il sorpreso e l'interrogativo.
- Puoi restare se ti va...-
Gli disse l'Olga, rimettendosi a sedere di fronte al finestrone. Se ne
stettero l'uno vicino all'altro, le gambe nude di lei che sfioravano
quelle di lui, inconsapevoli del fatto che quella luna li stava facendo
innamorare.
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