Romanzo Popolare

di velvetmouth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Atto I - Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Atto I - Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


agosto 1900

Luglio 1900, Emilia Romagna

Il calore sprigionato dalla terra rendeva l'aria compatta e irrespirabile, quasi viscida mischiata agli umori del corpo; nei campi si continuava a lavorare instancabilmente anche col solleone, ci si fermava solamente quel tanto che bastava per scacciare un nugolo di mosche, asciugare la fronte dal sudore, affilare le falci. I campi erano completamente pieni di lavoratori, intenti nella mietitura finale del grano ormai di un giallo vivo, splendente. Covoni incredibilmente ordinati iniziavano ad ammassarsi vicino al torrente. Il gracidare delle rane richiamava stuoli di ragazzini scalzi e seminudi che si gettavano fino alla vita nel pantano, nel tentativo di arraffarne qualcuna per cena.
Una donna col pancione prominente si tolse il fazzoletto di testa, ci si asciugò il petto e continuò ad infilzare con la forca, la gonna legata sopra le cosce inumidite; il suo uomo le passò affianco, le colpì la nuca con un buffetto affettuoso, un mezzo sorriso abbozzato e gli occhi chiusi dal sole.
Sputò a terra tre volte prima di addentrarsi nel cortile di proprietà dei padroni, i Catellani. Quel posto lo aveva amato e odiato per tutta la vita.
Fernando Grossi non era un tipo da abbassar la testa alla prima sferzata, ma, come suo padre prima di lui e suo nonno ancor prima, aveva nei riguardi dei padroni una sorta di incondizionato istinto di obbedienza; che poi lontano da occhi ed orecchie ci si mettesse a parlar male dell'operato del fattore o della vita misera che conducevano era tutt'altro paio di maniche, ma di fronte al padrone il rispetto era qualcosa di quasi scontato, un dovere, una regola d'oro inviolabile. I pochi che si opponevano erano destinati alla cacciata, ad una vita da vagabondi, senza onore.
Ricordava ancora suo nonno mentre masticava tabacco e bofonchiava insulti e raccomandazioni a mezza bocca.
- Il padrone è il padrone e tu sei tu. Se lui è il padrone e tu sei tu un motivo ci deve essere. Ricorda chi sei, figlio di paesani, umili, onesti, gente per bene. Imparerai ad ubbidire e a portar rispetto, ad avere quel minimo di educazione che ti serve per essere benvoluto, lavorerai sodo e senza lamentarti, non disonorare mai la famiglia, sposati una brava figliola, metti al mondo più marmocchi che puoi e vattene in pace da questo mondo. Il padrone ti ha dato il lavoro, sei fortunato. Ma non schiacciare mai la tua dignità, Fernandin... Quella vale più di ogni altra cosa al mondo!-
Quelle parole continuavano a ronzargli nelle orecchie anche a distanza di anni ed anni. Il nonno ormai era morto, così come suo padre, ma ciò che era diventato, lo doveva anche e sopratutto a quegli insegnamenti, all'esempio, alle regole che aveva messo in pratica ed assimilato. La vita non era facile, forse non era neppure giusta, ma finchè le mani erano impegnate nel lavorare c'era poco spazio per i pensieri e con la stanchezza a fine giornata, ancor meno.
Era questa la differenza principale tra loro, i paesani e gli altri, i padroni: quando un uomo non fa niente per tutta la vita ha troppo tempo per pensare e a forza di pensare... Diventa un rimbambito.
La corte della fattoria era stranamente vuota, isolata, quasi fosse tutto abbandonato, disabitato. Ma altro che disabitato! Quel posto era pieno di persone, servi, camerieri, maggiordomi... Per non parlar di loro, al di là della proprietà, nei campi, nella cascina che di notte il padrone veniva a chiudere col catenaccio. Non vi era poi così differenza tra loro e le vacche da mungere, chiuse nella stalla. Bestie. A volte qualcuno li chiamava con quell'appellativo, ma non si sapeva mai se prenderlo come un insulto o no.
Fernando proprio non capiva perchè in quel momento si sentisse così in soggezione, così... Inerme ed esposto. Sentiva il sangue che gli ribolliva nelle vene, non solo per il caldo; l'ansia si mescolava al sudore forte e acre della fronte, i vestiti ne erano impregnati ed era come se avesse la sensazione che chiunque avrebbe potuto capir che aveva paura.
Ma questo non intendeva darlo a vedere; tutti lo ritenevano un tipo forte, duro, gran lavoratore, senza grilli per la testa ne' strane idee politiche.
Era una grossa bestia da soma, con spalle larghe e muscolose, torace ampio e possente, alto più di chiunque altro nella proprietà e con una sopportazione della fatica quasi senza euguali, rispettato fra i braccianti e anche dai padroni: non era raro che mandassero loro qualcosa di avanzato per Natale o altre feste comandate.
Comunque li vedeva gli sguardi delle ragazze quando portava i cavalli del padrone, o seminava con l'aratro...Specie nelle giornate di calura estiva, quando per forza di cose doveva togliersi la camicia e rimanere a torso nudo. Era sempre stato un bel toso, anche da bambino, già bello robusto, virile e forte, con una massa di riccioli rossi indomabili e lo sguardo vigile e indomito, i buchetti alle guance quando sorrideva.
Ma fra tutte quella che gli aveva rubato il cuore era stata lei, quella che ora portava dentro il suo frutto, quella che quando lavorava, faticando sotto il carico pesante di sacchi pieni di sementi lo ignorava testardamente; lei con quel profilo ricercato, delicato e così raro per una nata lì in mezzo, dalla mente acuta e sveglia e la lingua troppo lunga.
Fernando sorrise sghembo, mentre un raggio di sole gli trafiggeva lo sguardo. Sarebbe stato un maschio o una femmina? Di certo il primo di una lunga serie.
Si tolse il cappello prima di arrivare al portone principale. Bussò piano, quasi a non voler disturbare.

Non era nemmeno la prima volta che veniva chiamato, ma... Era come se sapesse che questa volta era speciale, nel bene o nel male.
Venne ad aprirgli la graziosa cameriera dai capelli scuri e le lentiggini, che gli sorrise. Lui fece lo stesso, pentendosene quasi subito pensando all'Olga incinta.
- Il padrone m'è venuto a chiamare-
Disse, torcendosi il cappello fra le mani. La ragazza si fece da parte per farlo entrare, gli disse di aspettare e poi sparì dietro una porta.
La casa era qualcosa di spettacolare agli occhi del contadino, del povero bracciante mezzo di sudore che era. Si sentiva come un insetto a camminar su quel pavimento lindo e pinto, a respirar la stessa aria della famiglia del padrone, quasi potesse contaminarla, quasi si potesse venir a sapere che aveva portato in casa una qualche malattia; Fosse mai! Anche la moglie del padrone era incinta e se avesse avuto qualcosa di sicuro la colpa sarebbe stata sua. Improvvisamente si sentì così in colpa e fuori luogo che la tentazione di scappare lo attanagliò, fece due passi indietro, cercò di pulirsi le scarpe infangate sullo scalino di ingresso.
Una voce che lo chiamava lo gelò mentre tentava di togliersi la polvere dalla giacca.
-Fernando! Cosa fai? Entra, non preoccuparti!-
Il padrone lo guardava dalle scale che portavano al piano di sopra, sorrideva sornione. Fernando si sentì ancor più insignificante di prima, quasi come se quel sorriso fosse messo lì a mo' di scherno. Di nuovo ebbe l'istinto di voltarsi e tornare a mietere per tutto il giorno. Ma non lo fece.
-Cosa fai ancora lì sulla porta? Forza entra! Ti va un goccio? Come sta l'Olga? Ci siamo quasi, mh?-
Sotto i baffi biondi e ben curati, faceva capolino una fila di denti bianchissimi, sembravan quasi perle. Fernando rimase a viso basso, incassando le spalle mentre passava di nuovo sotto la porta. Il padrone non aveva che qualche anno più di lui e molti centimetri in altezza in meno, eppure, riusciva comunque ad incutergli quel vago timore che lo faceva apparire un mollaccione senza spina dorsale.
Enrico Catellani scese le scale, fermandosi al secondo scalino, poi esortò il suo contadino a raggiungerlo. Fernando si avvicinò, rimanendo ai piedi delle scale. Anche da lì superava di un braccio il padrone; ma quello non smise mai di sorridere, anzi, pose un braccio attorno alle sue spalle massicce e lo condusse al piano di sopra, nel suo studio.
- Fumi, Fernando?-
Le dita lunghe e affusolate, quasi femminee di Enrico Catellani fecero scivolare sulla scrivania una scatola di latta piena di sigari.
- Non ne ho tempo, signor padrone-
Il padrone sembrò non cogliere la sottile ironia, la sferzata cinica della battuta o comunque non lo diede a vedere. Si limitò a chiudere la scatola con un colpo secco e ad accendersi il suo sigaro, boccheggiando tra un sorriso e l'altro.
Fernando rimase qualche minuto ad osservare la stanza, piena di foto della fattoria, volumi rilegati posti in mobili dal legno pregiatissimo. Avrebbe voluto chiedere direttamente il motivo della sua presenza lì, ma aveva già a malapena tenuto a freno la lingua, non era il caso di esagerare. L'Olga aveva una pessima influenza su di lui, pessima.
Posò lo sguardo sul viso disteso del padrone, non lo osservò con sfida, ne' aperta ostilità, solo una genuina e innocente curiosità.
Enrico boccheggiò ancora a lungo in silenzio.
Entrò in quel momento la morettina di prima, sempre sorridendo. Fernando finse di non vedere la mano del padrone che si insinuava sotto il suo senalino quando ella portò il vassoio con i liquori.
- Ti va un po' di rosolio fatto in casa, eh Fernando?-
I capelli a spaghetto, lasciati lunghi sulla fronte sfioravano le ciglia lunghe del Catellani, dando l'illusione che si trovasse dietro ad un biondissimo ventaglio.
- Signore sì, ma devo tornar a lavorare...-
I denti di perla fecero di nuovo capolino sotto i baffi, un suono gutturale esplose dalla gola del padrone.
- Quale lavoro, Fernando! Per oggi tu hai finito! Ah, Gilda, puoi andare...Senti se la signora ha bisogno di qualcosa...-
La porta fu richiusa, il liquore versato.
- Alla salute dei nostri figlioli! E delle nostre famiglie, che da anni coesistono e vivono l'una grazie all'altra!-
Fernando si ritrovò a pensare che quella grazie alla quale tutto l'intero sistema andava avanti fosse quella sua di famiglia, dei Grossi, ormai figliati in quantità tale da fornire alla fattoria la forza lavoro principale, ma lasciò che il rosolio gli bruciasse in gola, così come quei pensieri.
Lo sguardo del signor Enrico era liquido e lasciava trasparire altro, apparte l'ilarità di quelle labbra sottili, ma Fernando non chiese, ed egli non spiegò.
Sembrava in tutto e per tutto una visita ad un amico, sebbene egli fosse vestito di un abito di cotone giallo limone e portasse un dopobarba profumato e non avesse terra sotto le unghie. Parlarono dei campi, della semina in autunno, della salute dei lavoratori e del bestiame, discorsi futili e al contempo di vitale importanza, ma di cui Fernando non riuscì a capire il nesso.
Fu congedato con una stretta di mano poderosa, una pacca sulla spalla e in regalo una bottiglia di quel rosolio e saluti carissimi alla consorte.
Mentre scendeva dalle scale Fernando avvertì la pesante sensazione di essere stato preso in giro, di esser stato gabbato in qualche modo, ma come quando aveva messo piede lì dentro ormai ore prima, non riuscì a comprendere dove fosse l'inghippo. Si ritrovò a camminare come un automa, stranito e confuso, come in un sogno.
Credere che quello del padrone fosse un semplice interessamento lo fece sorridere amaramente. Da quando in qua i padroni si prendevan la briga di curarsi di loro a quel modo? Scrollò le spalle e stette attento alla testa mentre oltrepassava la porta, tenuta aperta da una ancor sorridente Gilda, che lo salutò con la mano.

Orso Grossi nacque nei campi, tra un covone di fieno ed il letame di vacca, il primo vagito a pieni polmoni d'aria aperta, nei grandi spazi della pianura.
Bianca Catellani nacque in villa, tra l'odore degli iris, il fiore preferito della signora, e l'angoscia del padre, il primo vagito a pieni polmoni nell'aria odorata di talco della camera da letto padronale.


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Capitolo 2
*** Atto I - Capitolo 1 ***


1900 1

La mano di lei gli sfiorò il petto, stringendo con le unghie e lasciandogli piccoli segni a mezzaluna.
Mentre dormiva aveva un'aria distesa da ragazzina, che da sveglia lasciava spazio a quella ruga di ostinata spavalderia che non l'abbandonava mai. Solo con gli occhi chiusi e la bocca semi aperta sembrava docile.
Anche dopo le gravidanze rimaneva la donna più bella che avesse mai visto. La scostò con delicatezza, tenendo la sua mano minuscola nella sua, tremendamente in contrasto: enorme, rozza, piena di calli.
Anche se Olga lavorava nei campi aveva la pelle liscia e vellutata di quando era nata e nessuno riusciva a spiegarsi il segreto, quando gli veniva chiesto lei si limitava a tirare indietro la testa e scoppiare in una di quelle sue fragorose risate a bocca spalancata.
Si alzò in piedi, tirandosi su i calzoni e allacciando le bretelle, rimase ad osservarla, seminuda, la pelle imperlata dalla calura estiva.
Si ritrovò a sorridere, poi camminò fino alla culla e si sporse per controllare che il piccino dormisse, poi con qualche altro passo raggiunse anche il minuscolo giaciglio sul quale dormivano Orso, Demetrio e Tina. Il sole stava per sorgere e, nel giro di una manciata di minuti sarebbe arrivato il fattore per aprire i cancelli e permettere loro di andare nei campi. Si passò il dorso della mano su tutta la faccia, rimanendo a occhi chiusi.
Il vibrare caldo di un corpicino contro il suo lo fece sussultare.
- Ehi, piccinin, che ci fai già in piedi?-
Orso aveva 4 anni, ma lo sguardo sveglio della madre, i capelli lisci e scuri scompigliati sulla fronte già ustionata dal sole.
Il piccolo si limitò a sbadigliare, rimanendo ancorato al petto del padre.
Nella cascina dormivano ammassate tutte le famiglie che lavoravano le terre dei Catellani e il caldo già alle prime luci del giorno era insopportabile mescolato agli odori, rumori di centinaia di persone costrette assieme.
-Vai accanto alla mamma, papà deve andare...-
Il piccolo tirò su col naso e si trascinò sulle sue gambe rinseccolite accanto alla mamma, ancora addormentata, poi salutò il padre con la manina.
Fernando agguantò la camicia sdrucita e se la abbottonò frettolosamente addosso. Uscendo nella corte trovò gli altri parenti e amici già con gli attrezzi di lavoro in mano.
- La siora non si è mica più vista da quando è successo...quello che è successo...-
Il sole stava spuntando dietro le colline, ma già la fresca brezza della notte lasciava spazio alla calura e l'afa. Fernando si stropicciò di nuovo la faccia mentre afferrava la sua zappa e la falce arrossata dalla ruggine.
- Oh Fernandin! Buongiorno-
Guardò in direzione della voce, strizzando gli occhi, poi senza risposta, arraffò una pietra e iniziò a passarla sulla superficie erosa.
- Non è stato facile nemmeno per il Catellani, questo è poco ma sicuro -
Aveva preso a limare il piatto della falce, lentamente, con un movimento quasi esasperato, a testa bassa e senza fiatare. Gli altri continuavano a parlare, in cerchio appena dentro i cancelli che di lì a qualche minuto sarebbero stati spalancati.
L'aria era pesante, si percepiva e non era certo per il caldo imminente.
- E' un peccato che l'abbia presa così, la signora dico... Ci saranno altre possibilità, è ancora giovane...-
- Son passati 4 anni, è stato un colpo troppo duro-
- Non è la prima ne' l'ultima a cui capita una cosa del genere. E' brutto ma è così...-
Ancora la pietra raschiava il ferro. Fsss Fsss Fssss. Quasi sovrastava le voci. Le cicale iniziavano il loro canto infinito.
- Una tragedia altrochè, una tragedia bella e buona!-
-Ma quale tragedia, si vede che questo è il Signore che si rifà di qualche cattiveria!-
La pietra si fermò e così anche le voci. I visi cotti al sole guardarono tutti dalla stessa parte. Ferdinando sollevò la mano, fece scivolare il sasso e poi si alzò, ergendosi in tutta la sua mastodontica stazza. Gli altri ammutolirono.
Fece qualche passo, arrivò nel centro del semicerchio e rimase lì fisso, osservando negli occhi Pasqualino, il figlio di uno dei suoi cugini.
- Non ti vergogni di quello che dici?-
Quasi si potè sentir deglutire il giovane.
- Ti auguro di non provare mai un dolore simile a quello provato dai padroni. Sei solo un caprone imbecille.-
Proprio in quel momento il catenaccio fu fatto cadere e i contadini si avviarono in marcia verso i campi.

Fernando la conosceva bene la sensazione di perdere un figlio, di tenere quel corpicino minuscolo e inerte tra le braccia, ancora sanguinante.
La speranza cieca e ingenua che il petto così piccino prenda di colpo ad alzarsi ed abbassarsi, le manine ad agitarsi e stringere.
Era successo subito prima della nascita di Orso, appena un anno. Nell'aspettare Olga era raggiante di felicità, non vedeva l'ora di stringere fra le braccia il frutto del loro amore.
Fernando stava lavorando nei campi, era quasi sera e il pensiero della moglie in travaglio lo stava facendo uscire di senno. Lo vennero a chiamare mentre portava l'acqua alle stalle, aveva mollato tutto, rovesciando i secchi colmi ed era corso verso la cascina.
Le donne erano tutte nella stessa stanza, il vociare dei bambini appena fuori la porta. Olga stesa su un letto di paglia e stracci che urlava come un ossesso. Gli fu vietato di entrare finchè non si sentì un urlo disumano, disperato.
- Fate entrare il mio uomo!!!!-
Lui aveva spalancato la porta, il sudore acre ancora gli gocciolava dalla fronte, gli incollava i vestiti. Le aveva preso la testa fra le mani, baciando dolcemente le lacrime salate sulle ciglia. Poi si era voltato, smarrito, solo anche se la stanza era piena. Sua moglie, la sua bellissima e forte moglie stava per dargli il suo primo figlio. Aveva paura. Sentiva un peso sopra al cuore, un misto tra terrore e un'esplosione di felicità, il battito che sembrava volergli squarciare le vene. Anche lei era terrorizzata, gli occhi blu sgarrati e la bocca martoriata dalle strette contro i denti.
- Rimani qui con me, ti prego...-
Olga aveva sussurrato, bianca in faccia, distrutta e abbattuta.
-Andrà tutto bene, piccinin, tutto bene-
Aveva continuato a ripeterlo ad ogni spinta, ad ogni urlo soffocato contro il suo avambraccio, ogni volta che una donna correva a prendere altra acqua bollente. L'aveva ripetuto anche quando si era iniziato ad intravedersi la testolina e anche quando era completamente uscita, senza il minimo rumore, senza turbare il moto perpetuo del mondo al di fuori di quella stanza.
Il sangue era dappertutto, inzuppava le coperte, la paglia, il pavimento di assi. Anche la piccola ne era ricoperta, sembrava un involucro intoccabile, fragile, che al primo scossone avrebbe potuto distruggersi in mille pezzi.
La donna che l'aveva fatta uscire scosse la testa impercettibilmente, evitando di incontrare gli occhi di Fernando, che già gli pizzicavano di lacrime.
Olga era rimasta inerme, gli occhi chiusi, le labbra serrate, senza emettere suono. Lei lo sapeva, una madre lo sente.
Fernando l'aveva presa delicatamente tra le sue immense braccia, tenendola come si tiene una reliquia santa, tenne la testolina nel palmo della mano, la piccola schiena contro il braccio. Pianse in silenzio mentre lavava via gli ultimi lembi di legame materno, la asciugò con cura con un pannetto pulito e poi tornò a stringerla come se fosse viva. Era minuscolo quel corpicino appena nato e mai vissuto, che non aveva conosciuto le gioie e le disgrazie della vita, che mai avrebbe compreso la differenza tra giusto e sbagliato, tra ricco e povero, morte e vita. O forse sì, nella sua seppur breve esistenza ovattata la piccola aveva capito molto più di tutti loro cosa significasse morire e cosa invece vivere e lo aveva insegnato proprio quel giorno.
La morte li aveva guardati in faccia uno ad uno e aveva strappato nel modo più terribile una creatura alla madre, una futura donna, futura madre.
Il padrone si presentò di persona appena seppe della notizia e dette loro le sue personali condoglianze, anche a nome della moglie. Sembrava addolorato quanto loro. Non era raro che i bambini morissero, specie durante il parto, ma nella fattoria quel giorno aleggiava lo stesso una malinconia generale, come se la perdita fosse stata di tutti e non solo di quei due giovani genitori.
Ma la vita continuava, lo dicevano tutti, lo avevano detto anche alla Olga, ancora a letto, qualche giorno dopo. Lei era rimasta in silenzio per settimane e Fernando era stato ad un passo dalla follia.
La colpa non era di nessuno, dicevano. Le cose dovevano andare così... Il Signore vi ha tolto questa creatura perchè possiate averne molte più in futuro. Parole comunque troppo vuote per colmare una disgrazia così profonda.
Ma anche quella sconfitta, come tante altre, col tempo sarebbe stata superata.
L'avevano chiamata Maria, come la defunta madre di Olga ed entrambi si erano separati dal suo corpicino promettendosi l'un l'altro che mai l'avrebbero dimenticata, anche se aveva appena appena fatto in tempo a far parte delle loro vite.

La signora Catellani era diventata un fantasma, un'essenza, una presenza, o meglio un'assenza, con la quale spaventare i bambini e riempire le gelide serate invernali. Da quattro anni a questa parte era diventata l'argomento principale di discussioni e speculazioni del circondario. Era sempre bella come una volta? Tutti avevano più o meno fantasticato su quel corpo perfetto, da attrice del cinema, la pelle diafana e i capelli setosi.
Appena sposata, quando era venuta ad abitare nel casale le donne avevano malignato, schioccando le lingue come fruste: una donna del genere non avrebbe resistito a lungo in un posto come quello, così altolocata, delicata e schifosamente ricca di famiglia. No, doveva esserci qualcosa sotto. E il bell'aspetto di Enrico Catellani era soltanto un surplus.
Alcuni dicevano che era diventata una strega, invecchiata e incattivita dal dolore.
Sembra un angelo, dicevano altri, la sofferenza non ha fatto altro che preservare quel suo candido splendore.
Ma nessuno l'aveva più vista da quando era successo il fatto.
Quella mattina di luglio la signorina Bianca non era stata la sola ad uscire dal ventre della madre.
La signora aveva dato alla luce due gemellini, quello nato morto, un maschio. A niente erano valsi gli urli strepitanti della piccola, i vagiti, i primi passi, qualcosa nel cuore della donna si era rotto per sempre.
Per Enrico Catellani forse era stato anche peggio; oltre che un figlio quel giorno aveva perso anche una moglie, una compagna per la vita.
La signora si aggirava leggiadra e totalmente distante, come uno spirito, per le stanze della villa, senza mai parlare con anima viva, un vuoto profondo negli occhi, pozzi scuri su quella pelle di luna.
Il signor Catellani aveva interpellato i migliori medici del Paese e eminenti luminari stranieri, ma a nulla erano servite le cure, le visite, le sedute; la signora continuava a respirare, il suo diaframma si alzava ed abbassava, il sangue le scorreva nelle vene sì, ma... Era come se fosse già morta.
Fu durante un pomeriggio d'autunno di quello stesso anno,il 1904, che Fernando Grossi la vide.
La villa pareva deserta, lui era entrato per consegnare alcune casse da sistemare nello scantinato. Nessuno gli rispose, vagò per qualche tempo alla ricerca di una cameriera.
Non seppe nemmeno lui perchè aveva iniziato a salire le scale, gradino dopo gradino si era sentito sempre più in colpa, come se stesse deflorando un paradiso vergine, il cui accesso era vietato a tutti. Lei era lì in cima alle scale, eterea, quasi irreale, leggiadra in un vestito svolazzante candido. Fernando era rimasto con la bocca spalancata e, lesto come una lepre aveva fatto per andarsene se non che quella lo aveva chiamato.
Lei, che non parlava se non a monosillabi, i cui occhi spenti sembravano vedere tutto e nulla, senza coglierne il significato.
Fernando si arrestò a metà scala, dove era già arrivato nella sua fuga. La signora ripetè il suo nome, dolcemente.
Ricordò i primi tempi, quando i signori erano appena sposati e lei era tanto gentile e affabile con tutti, quel sorriso aperto sempre sul viso. Era diversa, lo era sempre stata. Non c'era superiorità nei suoi modi, ne' spocchiosità, anzi...
- Signora...-
- Fernando tu, mi trovi brutta?-
I suoi occhi verdi lo avevano ancorato e lui non potè fare altro che boccheggiare come un pesce appena pescato, la mano che stringeva il corrimano così tanto da imbiancargli le nocche. Lei iniziò a scendere, aveva i piedi nudi e sembrava quasi non toccare terra. Fernando si sentiva impotente, stranito. Non voleva trovarsi lì, gli sembrò sbagliato e ingiusto che lei si comportasse a quel modo, anche se dopotutto non stava per niente bene. Non doveva stare lì con la padrona nella condizione in cui essa si trovava, senza nessuno intorno. Qualcuno poteva vedere e interpretare male.
- Perchè mi fate questa domanda, signora?-
Abbassò lo sguardo, indietreggiando di qualche scalino, mentre lei avanzava sempre di più, gli occhi illuminati da uno strano bagliore. Sembrava sotto un incantesimo che la rendeva insensibile a tutto, estranea ma al contempo incredibilmente audace. Una mano affusolata e bianchissima risalì dal basso ventre, con una lentezza disarmante. Fernando si morse la lingua, gli occhi che quasi uscivano dalle orbite. Le dita fecero scivolare un bottone dentro l'asola, uno dopo l'altro, lasciando scoperto la pelle liscia del petto.
- Signora, dovrei tornare a lavorare... Vi prego-
Lei finse di non udirlo o forse non lo sentì veramente, era come se fosse in trance, completamente assuefatta. Scostò la veste, mostrando i seni piccoli e turgidi, immacolati come il resto del suo incarnato, l'ombelico faceva capolino dall'ultimo bottone aperto.
- Sono brutta?-
Fernando scosse la testa meccanicamente, non riuscendo ad alzare lo sguardo per incontrare quello di lei, sempre più vicina. Li separava ormai meno di qualche spanna.
- Mio marito non mi vuole più...-
Cantilenò lei, con voce mesta e infantile. Il vestito le scivolò dalle spalle, finendole tra i piedi.
- Devo essere tremendamente brutta se mio marito non mi vuole più toccare... Ma sono brutta, Fernando, guardami, lo sono?-
Gli occhi si posarono inevitabilmente su quel corpo pallido, dal chiarore lunare, le forme leggere dei fianchi, le gambe affusolate e lisce. Un tremore viscerale si prese possesso dell'uomo che sentiva dentro, ma ad avere la meglio fu il contadino.
La cinse con le sue braccia possenti, quasi poteva farle due giri attorno al corpo da quanto era esile, con una mano arraffò il vestito e lo calò sulle sue spalle.
- Prenderete freddo così, dovete andarvi a riposare...-
La signora annuì, assente, mentre gli si aggrappava al collo, la testa appoggiata contro il petto. La sollevò senza alcuna difficoltà arrivando fino in cima alla rampa.
Stette attento quando la poggiò a terra. Sembrava una bambola di cartapesta che da un momento all'altro sarebbe potuta volare via, rimanere accartocciata e stropicciata da qualcosa di più grande di lei. Gli fece pena, una tenerezza incredibile stretta miseramenta in quel vestito troppo leggero, la pelle d'oca che gli percorreva tutto il corpo, gli occhi enormi come smeraldi spauriti. Poi iniziò a piangere, lacrime dense, spesse, corpose. Il viso le rimase impassibile, ma fradicio di tristezza.
Fernando non sapeva cosa fare, avrebbe voluto stringerla a se', scuoterla, ripetere che non vi era niente per cui stare a quel modo, che lei era la padrona.... Che cosa avrebbe voluto più dalla vita? Che il marito l'amava, sebbene non fosse proprio uno stinco di santo, che la piccola Bianca aveva bisogno di una madre e che sì, era tremendamente bella, splendida, algida e sensuale. Ma non lo fece. Non lo fece perchè ricordava il suo posto, quale erano i loro rispettivi ruoli, cosa avrebbe rischiato a toccarla di nuovo, a trovarsi in quel posto ancora a lungo.
Ma fu lei ad avvicinarsi, piano, quasi temesse di infrangere un momento prezioso. Rimase sospesa, quasi sollevata da terra, per una manciata di secondi che parvero infiniti.
Si accostò a lui, si poggiò al suo petto. I seni appena coperti dalla veste che gli sfioravano la pelle. Lui chiuse gli occhi, dolorosamente cosciente. Lei invece li aprì, dischiuse la bocca e gli donò un bacio umido, sincero, salato di lacrime. Fernando non oppose resistenza, ma frenò le mani che già la stringevano forte alla vita.
Poi d'improvviso si separò da lui con uno scatto, arrivando al muro, appiattendosi contro. Lo guardò come se lo vedesse per la prima volta, la fronte corrucciata, disorientata.
- Vattene!-
Urlò rabbiosa, con la voce gutturale, quasi un abbaio.
- Ho detto vattene!!!! Esci fuori! Vattene!!! VATTENE!!!!-
Fernando si precipitò giù per le scale, seguito dalle urla convulse della signora. Uscì dalla villa come un forsennato, sparendo poi tra i campi. Solo quando fu abbastanza lontano, quasi arrivato alla cascina decise di riprendere fiato, accasciandosi a terra.
- Ehi Fernandin, cos'hai visto un fantasma, ne'?-

Fu quella l'ultima volta che qualcuno vide la signora. Attorno alla sua figura negli anni a venire si erano addensati misteri sempre più fitti, storie rocambolesche e incredibili che la vedevano protagonista di una fuga con un gruppo di acrobati del circo di Vienna, oppure come fredda assassina, che vagava per la pianura uccidendo capi di bestiame, bevendone il sangue. Fernando comunque non raccontò a nessuno di quell'incontro e presto si convinse che si fosse trattato solamente di un sogno, di una strana fantasia provocata dal caldo.

Faceva caldo nella cascina, un caldo tremendo. L'aria si era fatta densa di odori del pasto, le donne mescolavano la polenta in un grosso pentolone ammaccato mentre i bambini giocavano a rincorrersi sotto le arcate, i piedi scalzi e graffiati dagli sterpi.
Gli uomini avevano già preso posto lungo le tavolate di legno, i cappelli calati sugli occhi, il fumo dei sigari ad offuscare l'aria.
- Non siete certo voialtri che siete andati al comisio della Lega. Voialtri pensate solo a tirar avanti come muli.... Volete questo, volete? Che ci trattino come bestie da soma ancora a lungo?-
Vittorio Grossi, detto Labriola, come il capo della corrente rivoluzionaria del partito socialista, si alzò in piedi indicando uno ad uno i parenti, a suo dire troppo moderati e passivi.
In tutta risposta il cugino Ettore gli sputò sul muso, lasciando che il suo fervore politico si estinguesse in una risata generale.
- Sempre a discorrer di politica tu... Cosa ne vuoi sapere? A me non sembra che ce la stiam passando troppo male. Ci son stati momenti peggiori... -
Labriola sbuffò col naso, un mezzo sorriso strafottente sulla faccia sporca di terra.
- Siete solo delle bestie.... Delle bestie assuefatte dalle false promesse del padrone. Non vi rendete conto che ci sfrutta come fossimo animali? I buoi giù nella stalla hanno più diritti di noi! In quelle zucche vuote non avete nemmeno un grammo di cervello per capirlo? La rovina di questo Paese siete voi e la gente come voialtri! Turati! E' lui la rovina! Con la sua apertura liberale! ALLA ROVINA! ANDREMO ALLA ROVINA!-
Sputò a terra tre volte e poi uscì come una furia, lasciando che gli altri lo guardassero come si guarda un pazzo.
Fernando non capiva niente di politica, ma una cosa la sapeva... Sentiva che stavan per accadere grossi cambiamenti, si avvertivano fermenti sotterranei, sconvolgimenti latenti.
La gente iniziava sempre più ad interessarsi di cose politiche, di affari che esulavano dal piccolo mondo fatto di fatiche nel quale sembravano tirare avanti giorno dopo giorno. Il Partito Socialista, la Lega dei Lavoratori, le sommosse popolari contro i padroni, i primi scioperi. Qualcosa stava mutando davvero.
- Quel toso lì è passo, come fa a dir che il padrone ci sfrutta se ha appena comprato uno di quegli arnesi che trebbia in automatico? Basta una bestia che traina e riesce a far il lavoro di 5 uomini in meno di metà del tempo. Si fatica meno e io sto apposto così-
Un grugnito di approvazione serpeggiò tra le tavole. Ma molti altri non si trovavano d'accordo.
- A me pare solo un arnese diabolico. Fra un po' non ci sarà nemmen più lavoro da fare... Sarà pieno di quegli affari e di noi? Di noi chi avrà più bisogno?-
- Ci saran sempre dei poveracci di cui aver bisogno e sta pur certo che saremo sempre noialtri...-
I discorsi si interruppero all'arrivo dei piatti di polenta fumante e per un po' si rimase in silenzio, le mosche che serpeggiavano indisturbate sulla tavola.
Fu proprio in quei giorni che il Paese fu attraversato da un'ondata rivoluzionaria di sommossa.

Nelle giornate tra il 15 e il 20 settembre 1904 infatti, fu proclamato dalla Camera del Lavoro di Milano il primo sciopero generale della storia d'Italia, promosso proprio dai sindacalisti rivoluzionari di Arturo Labriola, scaturito dal clima di terribile tensione sfociata a seguito delle mattanze avvenute in Sicilia e Sardegna dagli scontri con le forze dell'ordine.
Le giornate di sciopero furono una vera follia, un pericolo crescente e concreto per la borghesia, che richiese o meglio quasi supplicò Giolitti di intervenire in maniera armata. Ma il capo del governo lasciò che l'ondata di proteste e sommosse si sedasse da sola, evitando altri spargimenti di sangue che avrebbero senza dubbio alimentato il malcontento, invece di stroncarlo una volta per tutte.
La mossa di Giolitti fu quella di sciogliere la Camera ed indurre nuove elezioni i cui risultati sancirono l'evidente sconfitta dei socialisti, i cui seggi in Parlamento diminuirono notevolmente, facendo emergere tra l'altro la vittoria schiacciante del riformista Turati.
Ciò che risultò chiaro a seguito del sommovimento proletario fu la fine del sodalizio fra socialismo e giolittismo, ques'ultimo inevitabilmente avvicinatosi alle masse cattoliche conservatrici.
Il primo sciopero d'Italia fu comunque il primo passo verso una nuova impronta, fino ad allora mai sperimentata nel Bel Paese: la lotta sociale come violenza necessaria, contrapposta al dogmatismo utopistico di Marx.
La tesi che il sindacato, non il partito, dovesse essere la massima organizzazione di lotta della classe operaia e che lo sciopero generale dovesse diventare un' arma insurrezionale per rovesciare il regime borghese stava progressivamente affermandosi tra gruppi di operai e di intellettuali che capivano l'insufficienza del riformismo.
Molti si avvicinarono al pensiero socialista, la promessa di un mondo in cui l'uguaglianza tra pari sembrava possibile alimentava le speranze di chiunque si trovasse in una condizione difficile e ciò non fu diverso nemmeno nella cascina dei Catellani. L'interesse politico, l'inasprimento nei confronti dei cosidetti ''padroni'' andò a rafforzarsi nei mesi di quell'anno pregno di stravolgimenti.
Da parte sua Enrico Catellani non si preoccupava ancora di quel grosso problema, finchè i suoi lavoratori erano chini sulle sue terre, niente poteva sfuggire dal suo controllo. O almeno questo era quello di cui sembrava profondamente convinto.

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Capitolo 3
*** Atto I - Capitolo 2 ***



 

La città  aveva sempre rappresentato un mistero per quelli come lui; uno di quei misteri affascinanti proprio perchè se ne aveva la piena coscienza del pericolo, il gusto ricco e eccitante del proibito.
Quando ci si recava percepiva addosso la pesante sensazione di sentirsi fuori luogo
, un estraneo in quel mondo di luci ed ombre dove nulla è come appare. Eppure, proprio come le emozioni più eccitanti e ambivalenti, Fernando non poteva fare a meno di immaginarsi camminare tra i viali acciottolati, bere un amaro nel caffè degli Artisti in piazza del Duomo, discorrendo di libri che non avrebbe mai letto, di donne che non avrebbe mai avuto.
Lo affascinava la vita scandita dai ritmi della città: nessun cigolare di catene all'alba, nè sudore acre sulla pelle fino a sera, ne' l'indolenzimento doloroso provocato dalla fatica.
Ma dopotutto quelli erano solamente sogni e l'unico piacere che avesse era quello di poter contemplare il profilo evanescente e fumoso della città, lontana, quasi un miraggio tra la nebbia della Bassa.
Quando era poco più che un bambino era solito venir innalzato al ruolo di mascotte dai cugini e parenti più grandi che, appena era loro consentito, fuggivano in città nella spasmodica ricerca dei suoi piaceri.
Era un susseguirsi di taverne, bettole e osterie di infimo ordine; le serate scandite dalle risse, gli insulti, le bravate in mezzo alla strada e ovviamente le visite ai bordelli. C'erano giovani che risparmiavano da mesi per poter usufruire del servizio che offrivano le case del piacere, malamente celate in vecchi palazzi scalcinati. La mercanzia che vi era esposta all'interno poteva assecondare i gusti di tutti: magre, in carne, bionde o brune, innocenti o sensuali fanciulle che per poche lire soddisfavano ogni desiderio maschile (tranne i baci, quelli erano esclusi).
Fernando ricordava con una vena di agrodolce quelle visite alla casa della Siora Flora, tappa affezionata e ormai inevitabile di ogni viaggio in città.
La signora Flora era una donna che aveva passato i sessanta, con lo sguardo furbesco e le labbra costantemente pitturate di rosso. Quando lui e i suoi cugini entravano dalla porta d'ingresso, anonima e scheggiata come tutte le altre, lei gli andava incontro stampandogli sulla fronte un grosso bacio scarlatto. Così marchiato Fernandino prendeva posto su una poltrona sfondata, unico mobilio del minuscolo ingresso male illuminato, mentre i ragazzi più grandi oltrepassavano un corridoio strettissimo, per poi ritrovarsi nella stanza della scelta. In linea di massima c'erano sempre le solite ragazze, apparte qualche raro caso in cui una nuova prendeva il posto di una qualche d'un altra che era riuscita a maritarsi o a trovare fortuna in qualche altro paese.
Suo cugino Maurizio sceglieva sempre una ragazza minuta, dai tratti gentili e innocenti, con grandi occhi azzurri e il nasino delicato all'insù, ne era probabilmente innamorato perchè, quando lei se ne andò dal bordello per sposare un carabiniere, lui pianse ogni giorno e non volle mai più tornare in quel posto.
Mentre i ragazzi si davano da fare con le loro rispettive scelte, Fernando se ne stava comodamente seduto, le scarpe che nemmeno gli toccavano terra e almeno una o due ragazze in pausa attorno. Lo coccolavano come fosse un figlio o un fratellino più piccolo, gli accarezzavano i capelli e gli davano da mangiare un sacco di cioccolata.
Una volta arrivarono persino a scommettere su quale di loro avrebbe preso la sua verginità, una volta che fosse cresciuto. Fernando le osservava come fossero creature extraterrene, che vivevano in quel mondo parallelo, dove la realtà sembrava non tangerle minimamente, quasi come se le loro esistenze iniziassero e terminassero nello spazio di quelle due stanze, come se, una volta oltrepassata la soglia non esistessero più, come in un sogno.
Dal canto suo Fernando aveva preso una grossa cotta per Gilda, una straordinaria bellezza meridionale con la pelle liscia e scura, gli occhi penetranti e il sorriso sensuale. Si ripromise che un giorno l'avrebbe avuta, ma lei smise di lavorare proprio quando lui aveva racimolato abbastanza denaro per poterle far visita. Fu anche per questo che nella sua mente di adolescente la bella Gilda dai capelli corvini rimase per sempre una fantasia con cui, ogni tanto, gli piaceva stuzzicare la sua mente.
Era probabilmente in quel preciso momento che Fernando capì cosa volesse dire provare qualcosa per una donna e fu senza dubbio in quella stanza che sperimentò le prime imbarazzanti e acerbe erezioni.

Ma la visita di quel giorno, come ebbe modo di scoprire più tardi Fernando, non era una visita di piacere.
Iniziava a pentirsi di aver accettato l'invito insistente di Labriola, vestito e improfumato di tutto punto nel suo abito migliore, quello della domenica, i baffetti lisciati e i capelli impomatati.
- Dì, Labriola, che siam venuti a fare in città?-
Gli camminava davanti, nervosamente, con un fare circospetto che a Fernando sembrò solo buffo e... Ancora più sospetto.
Il piccoletto lo zittì con un cenno della mano, per poi continuare a camminare, calpestando la strada acciottolata sotto i portici, che correvano attorno a tutto il centro storico.
Fernando osservava la gente che gli passava accanto, i vestiti che indossavano, il loro modo di parlare, gli atteggiamenti e i gesti; le cose che vedeva erano per lui quasi sempre una novità. Persino le foglie staccate dagli alberi sembravan diverse da quelle che c'erano in campagna, l'acqua doveva avere un sapore diverso e anche l'aria, la stessa aria che respirava gli sembrava in qualche modo unica, speciale.
Non era difficile star dietro al passo di Vittorio Grossi, detto Labriola, anche perchè Fernando aveva due gambe che forse eran più del doppio di quelle del cugino, ma iniziava a spazientirsi di quella marcia forzata diretti chissà dove.
Non gli piaceva non sapere cosa stesse facendo e dove stesse andando. Rimanere all'oscuro lo faceva stare a disagio.
Camminarono ancora un po', illuminati dal fioco chiarore del tramonto. Il cielo aveva preso un colore sanguigno, quasi di presagio e Ferdinando non riusciva a stare tranquillo. I suoi piedi enormi continuavano a pestare il suolo passo dopo passo verso una direzione a lui ignota.
Labriola col suo passo nervoso procedeva di gran carriera, di tanto in tanto continuando ad osservarsi attorno circospetto.
Stanco di tutto quel trottare, senza nemmeno una spiegazione, Ferdinando colmò la distanza con un balzo e agguantò per il colletto il cugino.
- Che accidenti fai, eh?-
Strillò quello, la voce acuta e strozzata di chi ha i nervi a fior di pelle.
- Stammi ben a sentire... Io mi son rotto di correrti dietro per mezza città, intesi? Ora tu me disi dove si sta andando o te faso passar la voglia di zampettare...-
Con una mano che teneva il colletto della camicia, sollevò l'altra proprio davanti al viso di Labriola, pugno serrato. Lo sentì deglutire con gli occhi sbarrati e la bocca semi aperta.
Fu lesto nell'alzare le mani, i palmi ben visibili.
- Ehi, Fernandin mica scherzerai? Sta calmo devi fidarti di me!-
Il sudore gli scendeva ancor più copioso dalla fronte, se possibile. No, Fernando non avrebbe mai menato le mani contro un parente, a patto che non fosse stato necessario, però confidava sempre nel terrore che incutevano la sua stazza e quelle mani, simili a pale, che si ritrovava.
Decise di mollare la presa, riservando al cugino uno sguardo truce come per dire ''Se non arrivi subito al succo, vedrai che questo pugno lo assaggi''.
Vittorio gli sorrise tirato, assicurando il cugino che stavano quasi per arrivare. Fernando sbuffò, sentendo aria di politica, di discussioni e di argomenti a lui totalmente oscuri.
Aveva acconsentito ad accompagnarlo in città perchè anche se ormai un abituè, il cugino rappresentava comunque una categoria di uomo che tutti consideravano un debole, almeno nell'ambiente di campagna.
Era smilzo, bassino e aveva l'aria nervosa e schiva, sempre sul punto di scattare come una molla. Aveva sempre preferito i libri al lavoro manuale, ma quello che aveva imparato lo aveva fatto da solo; non erano certo signori che potevano permettersi un maestro o addirittura una scuola. Più che per un moto d'animo suo personale, Fernando aveva voluto quietare le ansie della zia, madre di Vittorio, ogni volta in apprensione sulle visite del figlio in città.
Una sorta di guardia del corpo, insomma. Le paure della donna non erano del tutto irragionevoli. Il fermento delle riunioni socialiste e comuniste stava iniziando a preoccupare seriamente le forze dell'ordine, nonchè quei proprietari terrieri a cui le sommosse e l'ideologica Rivoluzione (ormai tutt'altro che utopistica) miravano.
Non era raro che le manifestazioni organizzate pubblicamente o in luoghi debitamente nascosti finissero in malo modo.
Ma Labriola, da piccolo così preso in giro e maltrattato per la sua codardia, sembrava aver trovato uno slancio di coraggio indomabile. Non c'era comizio che si perdesse o riunione a cui evitasse di partecipare. Era diventata una missione vitale, un obiettivo primario.
Fernando non capiva appieno i motivi che spingessero a questo cambiamento, ma a volte si fermava a riflettere su quanto un'idea potesse cambiare la natura umana, su quanto quel fervore politico sembrava impossessarsi della mente e delle membra di coloro che ci credevano fermamente.
Sbuffò di nuovo, il rumore delle suole delle loro scarpe sul selciato.
Oltrepassarono il ponte sul fiume, per poi addentrarsi in un labirinto di viuzze strette, dentro le quali Labriola sembrava orientarsi agile e veloce come un topolino. C'era una puzza incredibile e una sensazione di oppressione che non aveva mai provato in aperta campagna.
Svoltarono un angolo, ritrovandosi in una piazza chiusa da alti muri che la costeggiavano. Sembrava più un cortiletto interno o una corte a dire il vero. Nemmeno una luce che rendesse chiari i loro movimenti, ma questo sembrò non importare a Labriola che camminava sicuro come se fosse pieno giorno.
Dalla parte opposta dalla quale erano giunti, se ne stava un gruppo di 5 o 6 persone, totalmente immerse nell'ombra e le cui sagome erano appena visibili.
Al rumore di passi si voltarono tutti a guardarli.
Non aveva propriamente paura, ma un grosso nodo iniziò a stringere la gola di Fernando. Non avrebbe avuto problemi a riempirli di botte, anche così nella semi oscurità, se le cose si fossero messe male, ma avrebbe comunque preferito che non ci fosse bisogno. Avvicinandosi ulteriormente notò che erano tutti vestiti in maniera elegante, con giacca di panno e scarpe pulite. Molti indossavano un cappello e quasi tutti portavano i baffi lunghi, come Labriola.
- Te sei degnato di venir, allora...-
Una voce parlò, ma non apparteneva a quelli che se ne stavano in semicerchio.
Sia Fernando che Vittorio si voltarono. Alla loro sinistra avanzava un tipo magro, con le spalle larghe e la mascella ben pronunciata, sebbene in armonia col resto del volto spigoloso.
Un uomo accanto a lui, più tarchiato, portava un lume, così che almeno mezza figura fosse visibile.
Fernando corrugò la fronte, interrogativo.
Per tutta risposta l'uomo sorrise, un sorriso furbesco e aperto, che sembrava appartenere a chi conosce i segreti dell'universo e non è poi così propenso a svelarli.
Arrivò a pochi metri da loro, per poi fermarsi ad osservarli di nuovo, con quel sorriso che non accennava a scomparire.
Fernando si fece ancor più vicino a Labriola.
- E questo chi s'è, lo conosci?-
Gli chiese, senza temere di essere sentito dall'altro.
- Semmai dovrei chiederti chi sei tu...-
Ribattè il tipo con un tono saccente di superiorità, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni.
Un altro sguardo interrogativo di Fernando, che iniziava a spazientirsi per quella situazione paradossale. Odiava i giochi di parole e le situazioni che si protraevano all'infinito come brodo annacquato.
- S'è mio cugino, un tipo apposto, si può star tranquilli!-
Labriola aveva parlato, la voce più flebile di uno squittìo da topolino.
- Questo lo decido io...-
L'uomo sorrise di nuovo, un angolo della bocca leggermente sollevato. Fernando sentiva bollire il sangue, ma cercò di mantenere la calma. Poi, l'uomo si accostò alla parete, spostò quella che sembrava una cassa per consegne da fattorino, scoprendo un passaggio nella muratura. Fece segno ai due di entrare, poi, sempre con l'uomo con il lume dietro di sè, li seguì.

All'Olga non era mai importato delle visite di Fernando in città.
Gli uomini lo facevano, tutti. E non era una novità. E poi lei si fidava del suo uomo, anche se l'idea che visitasse quelle case non le andava giù del tutto, ma comunque... Lo facevano tutti.
Era un modo per evadere dalle fatiche quotidiane, dai figli, le mogli, la dura vita del contadino.
Lui le assicurava ogni volta che tutto quello che faceva era stordirsi in qualche taverna e che non visitava ''quei posti'' da quando l'aveva conosciuta.
Lei si limitava a sollevare le spalle, mimando un'ostinata indifferenza che, apparte un leggero velo di fastidio e gelosia, era autentica.
Fernando la amava, anzi... Amare sarebbe troppo poco per definire ciò che quell'uomo grande e grosso provava per la sua donna. Non aveva occhi che per lei, quando la osservava dormiente accanto a se', ancora stentava a credere di possederla.
Ma la sua non era una possessione animalesca, no, lui la desiderava e la rispettava, spaziando quasi nell'idolatria, ma senza stucchevolezze. Olga lo amava, di rimando, proprio per questo. Il suo gigante buono non era il suo padrone, ne' il suo zerbino... Era il compagno ideale di una donna forte, cocciuta e tremendamente attraente. Una donna che in mezzo a quelle campagne stonava come un fiore esotico tra anonime piante di campo. Una donna che teneva testa ad un uomo un po' fumino, ma dal cuore grande come un bue e che era riuscita a cambiarlo in meglio, già con la sua sola presenza.
Olga era arrivata nelle terre dei Catellani con una manciata di parenti, gran parte cugini e zii, sola e orfana, i genitori spazzati via dal colera appena un anno addietro. Aveva 14 anni, i capelli lunghi corvini le arrivavano fino a metà schiena, aveva un paio d'occhi come tizzoni, vigili, scuri come pozzi e tristi, tremendamente tristi. Ma dentro a quelle due voragini ardenti, fiammeggiava uno sguardo fiero, forte... Non era una ragazzina come tutte le altre.
Era schiva, ma tremendamente ostinata.
I ragazzi ne erano attratti, ma era un'attrazione spaventosa, potente e inquietante... Quella creatura era difficile, impossibile da avvicinare. Se gli uomini la guardavano con desiderio, le donne ne avevano timore.
D'estate, quando era tempo di mietitura e il caldo sembrava serpeggiare e pulsare nei campi, Olga sembrava una visione: una dea bellissima e madida di sudore, la pelle cotta sotto i raggi che splendeva di rugiada salata. Tirava su il vestito, scoprendo le gambe magre e toniche, il muscolo che pulsava ad ogni passo. Era impossibile non ammirarla, era come se rilucesse di un'aura tutta sua. Era una creatura unica, magnetica e pericolosa.
Molti avevano cercato di avvicinarla, senza alcun successo. Lei si limitava a sorridere di veleno, prendendoli in giro con la sua acuta intelligenza, rideva di loro e dei loro approcci, non lasciava avvicinarsi.
Sarebbe stato riduttivo  ritenere che quel suo comportamento scostante, da selvaggia fosse dovuto unicamente alla perdita dei genitori, all'essersi trovata spiantata in un luogo nuovo, abbandonata dagli affetti più cari, e i giovanotti insistenti preferivano credere che si comportasse in quel modo proprio per questa serie di motivi.
Col passare del tempo e collezionati una serie infinita di insuccessi, l'Olga venne lasciata da parte e additata come una puledra impazzita, una con non tutte le rotelle al posto giusto, una pazza imprevedibile insomma.
C'era stato un ragazzo, qualche mese dopo il suo arrivo al podere, che si era messo in testa di volerla sposare.
Era un bel toso: alto, muscoloso, con una gran massa di capelli di pece e, come tanti altri, era caduto nella rete fascinosa di quella bellezza sfuggente.
Tutti avevano cercato di metterlo in guardia sulla malìa distruttiva dell'Olga, ma Pietro non si era lasciato abbattere e insistente come quando caricava sacchi e sacchi di granaglie, aveva cominciato a corteggiare la giovane.
Le ronzava intorno giorno e notte, si offriva di aiutarla quando la vedeva in difficoltà, le faceva regali (per quanto potesse), insomma... Le tentò tutte.
Ma lei niente. Rimaneva algida e austera, apparte qualche sorriso cattivo, qualche sguardo di fuoco, che il poveretto nella sua cieca ostinazione, scambiava per segni di cedimento.
La situazione durò per parecchio tempo, fin quando, ormai accecato dalla passione, il ragazzo non tentò di baciarla. Il giorno dopo, nei campi, tra le risate e gli sghignazzi degli altri, Pietro portava sul collo quattro profondi segni purpurei, ancora pulsanti di sangue. Era finita lì ed anche quell'occasione non fece altro che accrescere la ''fama'' dell'Olga.
Le contadine sputavano quando la vedevano, sussurrando insulti a bassa voce. Eran tutte calunnie, perchè si sa, l'invidia corrode dentro e il rimedio più efficace si rivela essere l'infamia.
Olga dal canto suo non ci faceva caso, le bastava lavorare (e in questo era instancabile, a dispetto del suo aspetto che rimaneva unico e raro quanto il suo carattere), avere un tetto sopra la testa e sostentamento per vivere.
Fu durante una calda sera di fine estate, che il destino di quella puledra indomabile subì un' inaspettata svolta.
La terra sprigionava ancora tutto il bollore che l'aveva ingravidata durante il giorno. Ogni cosa pareva immobile, sospesa nell'afa incredibile che si sprigionava da ogni cosa, eppure, la vita era lì a ricordare propotentemente della propria presenza.
Le cicale frinivano senza sosta, sprigionando nell'aria una nenia monocorde, che intorpidiva le membra. Il disco incendiato del sole scompariva sempre più dietro l'orizzonte piatto e liscio della Pianura; le lucciole si accendevano a intermittenza giocando a nascondino con i bambini, che correvano scalzi per l'aia.
Era uno degli ultimi giorni di mietitura, poi i campi, mutilati dai loro steli dorati, sarebbero stati fatti riposare fino alla prossima semina; gli uomini e le donne, stracchi di lavoro e di fatica, se ne stavano in cerchio, bevendo, parlando e amandosi.
Una musica allegra e corale sferzava l'aria: erano canti popolari emiliani, caldi e a tratti malinconici.
Era un momento magico, di stallo... Come se per un attimo il duro lavoro dei campi potesse essere dimenticato, la mente immersa soltanto in quel canto cadenzato, la musica avvolgente e ritmata, la gioia nel cuore.
I più giovani ballavano attorno ai musicisti improvvisati, cercando quel casto contatto fisico che li univa in un saltarello indemoniato. Il tutto ovviamente sotto gli occhi scrutatori dei padri.
Dal canto suo Olga se ne stava sul bordo della finestra più alta della cascina, dove si trovava una sorta di enorme mansarda, nella quale venivano ammassati vecchi attrezzi e ogni genere di strumento contadino.
Era il suo posto, la sua piccola evasione quotidiana. Amava passare il tempo là sopra, osservare dalla grande finestra aperta la città in lontananza, rimanere sola con i suoi pensieri.
Ed era così anche quella sera. Nulla importava se più in basso tutti si stessero divertendo, ballando, bevendo fino a tarda notte. Le sembrava che quella gioia fosse esagerata, esasperata e fasulla... Come potevano zampettare, ridere a squarciagola, fino a farsi venire gli occhi lucidi, quando a pochi metri campeggiava la pesante inferriata con i cigolanti lucchetti che scintillavano ai primi raggi di luna. Dopotutto erano in trappola, come animali. Un circo coloratissimo e ingabbiato.
Non riusciva a non pensarci, certo, non odiava la sua condizione perchè se non avesse avuto quella possibilità, dopo la morte dei genitori sarebbe sicuramente finita peggio; ma d'altro canto non si sentiva nemmeno in grado di poter dimenticare che eran tutti una proprietà, così come lo erano le bestie chiuse nelle stalle, i campi, nè più nè meno del legno tarlato su cui stava seduta.
Strizzò gli occhi, rimanendo sdraiata e reggendosi il mento con i palmi delle mani. C'era un fuoco scoppiettante, poco lontano al divertimento generale. Le lingue di fuoco cercavano di raggiungere il nero profondo della notte, senza riuscirci, ma il gioco di luci ed ombre che avviluppavano le figure in movimento era meraviglioso. Olga osservava i suoi coetanei ballare, saltare, ridere alla luna, mentre la musica si faceva sempre più forsennata ed esagitata.
Non sentiva l'esigenza di scendere dabbasso e partecipare a quella danza scalmanata, le bastava osservare la felicità altrui, forse perchè non si sentiva del tutto partecipe o forse perchè le piaceva convincersi di questo.
I suoi occhi si fermarono su ognuna di quelle facce, colorate d'arancio per via del fuoco. C'erano una fila di ragazze sedute, che ciarlavano e chiocciavano a voce alta; tra loro c'era anche Lina, una ragazza bruttina e scialba che la odiava dal primo momento in cui aveva varcato il cancello. Non aveva mai voluto sapere il motivo, non le interessava, ma in fondo sapeva che non sarebbe mai stata benvoluta in quel posto, come non lo era mai stata da nessuna parte. Le sembrava di allontanarsi ogni giorno di più dalla realtà, di sentirsi sempre più scollata dal resto del mondo. Si sentiva diversa, era diversa, ma non ne soffriva, solo era abbastanza intelligente da rendersene conto. Non era orgoglio il suo, ma semplicemente riconosceva di essere migliore di tutta quella gente, sotto certi versi, speciale. Poteva essere un bene, come no.
Sapeva già che se fosse scesa una quantità indescrivibile di quegli uomini avrebbero tentato di ballare con lei, di fare due passi nel buio, appena poco lontano dal fuoco. Non le interessava neanche questo, ma col tempo sapeva che avrebbero smesso. Già molti voltavano la faccia quando incontravano il suo sguardo. Molti di quelli che avevano provato a conquistarla adesso erano sposati, con qualche figlio, con un ripiego per moglie. E loro lo sapevano bene, per questo il tacito odio che serpeggiava era ancora più velenoso.
Olga osservava di nuovo le stelle, la musica stavolta un po' più mesta e delicata. I ragazzi si tenevano stretti, muovendosi lentamente di fianco, i padri che non staccavano di dosso gli occhi dalle loro figlie ancora nubili.
L'aria era ancora pesante, sapeva di polvere e solleone, entrava nelle narici di prepotenza e non voleva uscire.
Chiuse gli occhi e sorrise, felice di quel momento di pace.
Mentre se ne stava ancora con le palpebre abbassate, sentì lo scricchiolare delle scale.
Si voltò di scatto, cercando di abituare gli occhi al buio pesto. Non vedeva la fine dello stanzone, aver guardato troppo fisso il fuoco l'aveva resa cieca.
- C'è qualcuno?-
Chiese, rimanendo in posizione prona, il volto girato.
Scrollò le spalle, tornando a osservare in basso e a dondolare i piedi, tirati su a mezz'aria, a tempo di musica.
Percepì dei passi dietro le spalle, stavolta si girò completamente, portandosi a sedere.
C'era qualcuno veramente.
Non avrebbe avuto paura di solito, era impossibile avere più di un attimo di solitudine in un posto dove le persone erano ammassate molto più di quanto lo spazio potesse permettere. Ma sentiva che c'era qualcosa di diverso: l'aria era diventata elettrica e pesante, non era ancora venuto il momento di avere paura, ma si sentiva a disagio.
- Chi s'è là??-
Chiese di nuovo, stavolta mettendosi in piedi.
Ancora passi e poi, il fascio di luce della finestra illuminò un paio di piedi scalzi e dei calzoni sdruciti.
A torso nudo di fronte a lei c'era Carlo.
Era un Grossi, la famiglia che lavorava per i Catellani da sempre, generazioni e generazioni di contadini instancabili e dalle spalle larghe. Lo chiamavano Carletto, anche se di piccolo non aveva niente, a partire da quel naso tuberoso e sproporzionato che gli campeggiava in una faccia larga e cotta dal sole.
L'Olga non si sentì del tutto tranquilla, anche se con Carlo non aveva mai avuto niente a che fare. Era un personaggio come altri, un colosso che serviva bene da bestia da soma con poca materia cerebrale.
Dire che lo disprezzava era esagerato, ma di certo non voleva averci niente a che fare.
- Carlo, m'hai spaventato...-
Gli disse, senza però concedere alla voce quel brivido che sentiva alla bocca dello stomaco.
- Che se fai qui, tutta sola?-
Chiese lui, la bocca come un grosso taglio lasciato lì per errore. Il tono di voce in cui aveva parlato era basso e grave, poco più di un sussurro vibrante.
- Fatti miei, no te sono certo tuoi...-
Ribattè lei, voltandogli le spalle e rimettendosi seduta.
- Vedo che 'sto caratterino non ge te sei decisa ancora a domarlo, ne?-
Il sibilo che gli era uscito dalla bocca era cattivo.
Olga si voltò di nuovo e scoprì sulla faccia, di solito inespressiva e tonta come quella di un bue, una linea brutta e inspiegabile.
- Son fatti miei anche quelli...-
Fece per alzarsi, ma Carlo le si parò davanti, a poche spanne dal corpo. Il respiro le si mozzò per un attimo, ma si riprese subito.
Svirgolò verso destra, agile, ma non abbastanza, perchè lui la agguantò per un braccio, facendole male.
- Ma lassameeee! Che diavolo vuoi da me?-
Gli urlò, incattivita, con le sopracciglia che si toccavano e la bocca distorta in una smorfia di sorpresa e dolore.
Non voleva essere toccata da nessuno, voleva solamente andare via da lì. Avrebbe pure ballato, forse, ma adesso voleva andare via; non voleva quella manona stretta attorno al suo polso sottile, non voleva sentire il peso di quel corpo gravoso sopra il suo, quel fiato alcolico che le premeva contro l'orecchio.
Lui la tenne ferma, approfittando della differenza di stazza, lei si divincolò, scalciando.
- Ora te fazo veder quello che voglio fare...-
Il ghigno di Carlo non era umano. Lo aveva visto qualche volta sulla faccia dei bambini quando torturano gli animaletti, come le ranocchie vicino al rigagnolo che passava dentro la proprietà. Era pura cattiveria e anche piacere. Adesso aveva paura.
- Lasame! Brutto stronzo!-
Cercò di morderlo, ma quello che gli lasciò sulla spalla non gli aveva fatto effetto più che un pizzico di zanzara.
- Te convien star ferma, brutta puttana!-
Una delle grosse mani gli teneva ferme entrambe le mani, mentre l'altra percorreva tutto il suo corpo, appena coperto da un vestito fino. Lo sentì strappare con un gesto, lasciandola nuda ed esposta.
Non voleva piangere, ma più scalciava, più si sentiva spossata e senza speranza. Gli assestò un calcio allo stinco, ma finì per farsi più male lei che altro.
Cercò di urlare, ma la musica era alta e nessuno avrebbe sentito.
Carlo intanto cercava di baciarla, con quella pelle ruvida e la lingua che le percorreva tutto il viso. Olga si scansava, dimenava senza sosta, ma lui era più forte.
Sentì la sua mano che la cercava in mezzo alle gambe, con insistenza. Cercò di stringersi, svincolarsi come poteva, ma sentiva che non aveva più forza di stare in piedi, tutti i muscoli in tensione e le lacrime che iniziavano a rigarle le guance; le inzuppavano i capelli nerissimi come quella notte.
La musica gioiosa era così dolorosa da sentire adesso che il pianto le aveva annebbiato gli occhi e il cervello. Non aveva più forze, si accasciò come una marionetta usata e sentì lui che si calava sopra di lei, i pantaloni abbassati fino alle caviglie.
Chiuse gli occhi, con forza, mordendosi a sangue la lingua. Ma non successe nulla. Aveva paura di aprire gli occhi e rivedere quegli occhi iniettati. Rimase con le mani sulla faccia per quello che le sembrò un'eternità prima di riaprirli.
Sentì uno schiocco potente, quasi come un colpo di pistola. Poi lo vide.
Carlo era accasciato a qualche metro da lei, si teneva tra le mani quel nasone tritato come carne macinata. Perdeva sangue come un fiume e si lamentava, mugulando come le bestie al macello.
Non si era accorta di tremare fino a quando non aveva visto l'altra figura, nell'ombra, grossa quasi quanto Carlo.
Indietreggiò verso la parete quasi senza accorgersene.
- Te convien scender subito...-
La voce era tagliente, non lasciava molto spazio al dubbio.
Carlo, le mani ancora piene di sangue si tirò su i calzoni alla bell'e meglio e sparì nell'oscurità, facendo le scale di corsa e facendo ondeggiare e scricchiolare tutto il legno.
- Chi-Chi sei?-
Olga non sapeva come riuscire a parlare, le parole le erano uscite così, come se il corpo non fosse suo e lei stesse guardando tutto da sopra la luna.
Quello non parlò, si limitò ad avanzare verso la luce bianca.
La musica non era terminata, anzi, si faceva sempre più incalzante e tutti sembravano divertirsi un mondo.
Il viso che le si parò davanti era quello di Fernando Grossi. Carlo era uno dei suoi cugini.
Olga rimase a guardarlo negli occhi e lui fece lo stesso, ma per poco, perchè poi lo abbassò.
Era bello, Olga lo sapeva, ma che fosse anche buono non ne aveva la riprova. Di certo l'aveva aiutata e di questo poteva esserle solo che riconoscente.
Lo vide avvicinarsi, ma stavolta non indietreggiò. Rimase semplicemente ferma, non provò neppure a coprirsi dal suo sguardo, perchè lui non la stava guardando con malizia.
Lo vide sbottonarsi la camicia che portava, gliela mise sulle spalle e non parlò. Anche lui doveva sapere quello che dicevano su di lei.
Ormai erano due anni che viveva lì eppure Fernando era uno dei pochi che non aveva cercato di avvicinarla. Le sembrava un tipo solitario anche lui, a modo suo.
Non parlò mai, neppure quando fece per andarsene e lei si tirò su di scatto, cercando il suo polso.
Fernando si era girato di scatto, tra il sorpreso e l'interrogativo.
- Puoi restare se ti va...-
Gli disse l'Olga, rimettendosi a sedere di fronte al finestrone. Se ne stettero l'uno vicino all'altro, le gambe nude di lei che sfioravano quelle di lui, inconsapevoli del fatto che quella luna li stava facendo innamorare.

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