Black and White

di Lost on Mars
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sorpresa ***
Capitolo 2: *** Il pericolo si avvicina ***
Capitolo 3: *** Veritá ***
Capitolo 4: *** On the road ***
Capitolo 5: *** Perdita ***
Capitolo 6: *** Sangue del mio sangue ***
Capitolo 7: *** Rabbia ***
Capitolo 8: *** Resisti ***
Capitolo 9: *** Small bump ***
Capitolo 10: *** Uccidere ***
Capitolo 11: *** Passato ***
Capitolo 12: *** Mai abbastanza ***
Capitolo 13: *** Il suono del silenzio ***
Capitolo 14: *** Innocente ***
Capitolo 15: *** L'unica ragione ***
Capitolo 16: *** Perdonami ***
Capitolo 17: *** Per tutta la vita ***
Capitolo 18: *** Senza uscita ***
Capitolo 19: *** Futuro ***
Capitolo 20: *** La prima luce ***
Capitolo 21: *** Caos ***
Capitolo 22: *** La resa dei conti ***
Capitolo 23: *** Coraggio ***
Capitolo 24: *** Il posto a cui appartieni ***



Capitolo 1
*** Sorpresa ***




Black and White

1 – SORPRESA

 
Di domenica sera Nedlands sembrava deserta, soprattutto in quel periodo dell’anno in cui le giornate erano corte e faceva buio verso le sei del pomeriggio. Era passata una settimana esatta da quando tutte le televisioni su scala nazionale avevano annunciato l’evasione di Luke Hemmings da uno dei carceri più sicuri di Sydney. Nessuno l’aveva ancora visto e nessuno aveva ancora capito come avesse fatto: la polizia continuava a brancolare nel buio. I quattro ragazzi sfuggiti alla sua follia un mese prima avevano superato la paura iniziale dopo qualche ora, dicendosi che tutta l’Australia lo stava cercando e che se qualcuno l’avesse visto, i telegiornali l’avrebbero subito comunicato. Ora come ora, per quanto ne sapevano, Luke doveva trovarsi ancora a Sydney, e loro non correvano nessun rischio. Dopotutto, si trovavano dall’altra parte del Paese.
Continuavano ad ignorare l’inevitabile e a fingere che andasse tutto bene. Erano a Nedlands, nessuno usciva mai di lì, nessuno se non gli abitanti di quell’anonima cittadina sapevano di loro. Per certi versi, vivere in una grande città come Perth o addirittura Adelaide o Melbourne, sarebbe stato più sicuro, ma Ashton aveva subito fatto presente che in metropoli come quelle c’era più probabilità che ci fossero persone a servizio di Luke o suo padre. A Nedlands non c’era nessuno, ne era più che sicuro. Avrebbe saputo all’istante se un potenziale assassino vivesse lì, ma era un piccolo paese di campagna, i suoi abitanti si conoscevano da generazioni. Ogni cosa lì era passata di padre in figlio, e così via per moltissimi anni.
Era domenica. Michael e Valerie erano venuti a pranzo e poi, verso le quattro, erano ritornati nella vecchia casa della prozia di Amelia, entrambi avevano cominciato a lavorare e Michael aveva quasi costretto il signor Hogan ad accettare i soldi dell’affitto. Ashton viveva ancora a casa di Amelia, ma nessun membro della famiglia si era mai lamentato di questo: anche lui dava una mano, aiutando il signor Hogan in redazione. Amelia aveva cominciato ad aiutare Travis al bar, per cinque giorni alla settimana, poi a volte stava con Caroline, la figlia diciassettenne di Travis, l’aiutava a studiare e l’accompagnava al Ned’s Mail, l’unica struttura che potesse essere definita come una sorta di centro commerciale. Era solamente un edificio a due piani con una decina di negozi diversi al suo interno, tra cui un supermercato, una profumeria e un negozio d’abbigliamento.
Era domenica. Amelia chiamò Travis per avvertirlo che stava male che non sarebbe venuta a lavoro il giorno seguente. Lui le disse di prendersi tutto il tempo che le serviva. Era da un po’ di tempo – più o meno da due settimane – che sentiva sempre il bisogno di vomitare. Ultimamente i conati la svegliavano la notte e la costringevano a correre in bagno sempre più spesso.
Il giorno dopo, la libreria del signor Hood era chiusa e Valerie si era ritrovata con un giorno libero. Amelia approfittò della situazione e decise di chiederle una cosa molto importante. Una cosa che non avrebbe potuto fare né con suo fratello, né con Michael, né con Ashton. La chiamò e le chiese di venire immediatamente a casa sua. Valerie si allarmò, ma dieci minuti dopo aveva già suonato il campanello. Non c’era nessuno in casa se non Amelia e sua madre, che aprì la porta alla ragazza e le disse che Amelia l’aspettava di sopra.
Quando Valerie aprì la porta, ritrovò la sua amica seduta sul letto.
«Che succede? Stai male?» le chiese preoccupata, gettando la borsa sul pavimento, in un angolo della stanza. Amelia alzò la testa e Valerie notò che era molto pallida.
«Vomito da giorni. E... sospetto di una cosa, ma devi accompagnarmi tu in farmacia» rispose Amelia, alzandosi di scatto. Raggiunse Valerie e la guardò negli occhi. La mora si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Non sarai mica... insomma...» iniziò Valerie, cauta.
«Non lo so. Ho dato la colpa del ritardo allo stress, ma non ne sono poi così sicura. È passato più di un mese e... ti prego, sarebbe imbarazzante andare a comprare un test da sola» continuò Amelia, sospirando.
«Va bene, va bene» disse Valerie. «Lo hai detto ad Ashton?»
«Non posso dirgli una cosa che non so nemmeno io» esclamò l’altra. Superò Valerie e prese la giacca dall’armadio. Poi recuperò telefono e portafogli; Valerie prese la sua borsa e insieme scesero le scale. Salutarono la signora Hogan e uscirono di casa, dirette verso la farmacia.
Amelia era visibilmente inquieta. La farmacista, la dottoressa Costance Fell, esperta in ginecologia, era la cognata di Travis. Cosa avrebbero pensato tutti di lei se fosse andata a comprare un test di gravidanza? Aveva diciannove anni! Ma non era l’età a preoccupare Amelia, bensì la mentalità dei suoi concittadini: in una comunità dove si ritenevano sacri il matrimonio e tutte le chiacchiere sulla verginità, una ragazza non sposata che andava a comprare un test avrebbe suscitato scalpore. Alla fine, Amelia fece quello che le riusciva meglio da qualche mese a quella parte: mentì.
Peccato che nemmeno quello sembrò funzionare.
«Ciao Amelia! Posso aiutarti?» le chiese la dottoressa, quando Amelia arrivò al bancone. Valerie era rimasta leggermente in disparte.
«Sì. In realtà non me, sono venuta qui per una mia amica. Sta male, ha una continua nausea... e si vergogna un po’, perciò mi ha chiesto se potevo comprarle un test di gravidanza» disse a bassa voce.
Costance Fell sospirò divertita, gettando un’occhiata a Valerie.
«La storia dell’amica è una cosa vecchia, cara. Non sono una all’antica come mio marito. Se vieni di là ti faccio subito un’ecografia» rispose la dottoressa, sorridendo. Amelia rimase interdetta. «E può venire anche la tua amica.»
Amelia si girò, avvicinandosi a Valerie. «Mi ha scoperta. Vieni, ho paura ad andarci da sola» le disse. La prese per mano e la trascinò nella saletta ben illuminata dietro il bancone. C’era un lettino e una sorta di schermo accanto. Valerie si mise accanto allo schermo, di fronte alla dottoressa, mentre Amelia fu invitata a sdraiarsi, dopo essersi tolta la giacca.
Si tirò su la maglietta, scoprendo la pancia piatta. Non sapeva ancora nulla di concreto, ma il suo primo pensiero fu: non lo sarà ancora per molto. Non riusciva quasi a spiegarselo, era solamente una sensazione. Una sensazione fortissima, che si ritrovava a confondere con una certezza. La dottoressa Fell le cosparse il ventre con del gel, sussultò perché era freddo; in seguito, la donna le sorrise per dirle che andava tutto bene, poi accese lo schermo e cominciò a spalmare il gel passandoci sopra con un apparecchio elettronico. Amelia non sapeva se guardare lo schermo o la mano della dottoressa.
Dopo un po’, optò per la prima ipotesi.
Era strano, all’inizio era tutto grigio e uniforme. La dottoressa continuò a passare la sonda sulla pelle di Amelia, non togliendo gli occhi dallo schermo. Improvvisamente, la dottoressa si fermò, lo schermo rimase immobile. Non volò una mosca, sia Amelia che Valerie tennero il fiato sospeso. Sullo schermo aveva fatto la propria comparsa una macchiolina nera, contrastante con tutto quel grigio. Al suo interno, un punto grigio chiaro. Era piccolo, difficilmente indistinguibile. L’unico rumore fu la voce della dottoressa Fell. «Eccolo lì.»
Valerie emise un gridolino di gioia, accanto a lei, mentre Amelia non riusciva a staccare gli occhi dallo schermo. «È... sono incinta?»
«Sì, e quello lì è il bambino... o bambina, adesso è troppo presto per scoprilo. Già al quarto mese se ne potrebbe riparlare, e―»
«Quanto ha?» chiese Amelia.
«Circa un mese, è ancora piccolo» rispose lei.
«Sembra un... un fagiolo» disse Amelia, tutte e tre scoppiarono a ridere. «È così carino.»
La dottoressa dopo un po’ staccò la sonda e lo schermo divenne nero. Ne seguì un sospiro deluso. Le sua sensazione era vera, lì dentro c’era suo figlio. Non sapeva come sentirsi, ma voleva vederlo ancora. Aveva paura, forse era l’unica cosa che sapeva distinguere: la sua vita era appesa ad un filo, aveva diciannove anni, un uomo che amava con tutta se stessa. Non credeva di essere pronta per un figlio, eppure non riusciva a non sentirsi felice.
Per la prima volta, si sentì veramente soddisfatta di se stessa. Era lei a custodire la vita di quel bambino, era lei a portarlo dentro di sé, lei e soltanto lei sarebbe stata capace di dar vita ad un’opera d’arte. C’era un milione di lati negativi, di effetti collaterali, di pericoli, di paure, ma Amelia non riusciva a vederle né a sentirle. Riusciva a pensare solo a come non farsi scoppiare il cuore nel petto.
Era troppo giovane per diventare madre, ne aveva la consapevolezza, eppure non riusciva a non amare già quella piccola macchia che aveva visto prima sullo schermo. Era una cosa tutta sua, sua e di Ashton, era il loro piccolo capolavoro.
La dottoressa diede ad Amelia una salvietta per pulirsi la pancia, dopo essersi rivestita, esitò un momento prima di uscire.
«La prego di non dire nulla a nessuno. So com’è fatto questo posto e... voglio avere il mio tempo» disse poi Amelia, rivolta alla dottoressa.
«Non preoccuparti. Ho già avuto a che fare con situazioni del genere, è segreto professionale» scherzò la dottoressa.
«Grazie» sospirò Amelia. «Arrivederci!»
«Per qualsiasi cosa tu avessi bisogno non esitare a venire qui.»
Non aveva dovuto comprare nessun test, aveva visto il suo piccolo bambino direttamente su uno schermo in bianco e nero. Valerie non fece altro che ripeterle di quanto fosse felice per lei lungo la strada, Amelia non faceva altro che sorridere e pensare che la parte peggiore – o migliore, dipendeva da come avrebbe reagito lui – doveva ancora arrivare.
Doveva dirlo ad Ashton.

 
***
 
Ashton era tornato a casa per pranzo, assieme al signor Hogan. Mentre mangiavano, parlarono delle solite cose: come era andata a lavoro, come era andata la giornata, del tempo, del freddo. Quando finirono, Amelia prese Ashton da parte.
«Devo dirti una cosa» gli disse. «Andiamo di sopra?»
Lui annuì, nervoso, e la seguì nella sua stanza. Era ordinata e pulita, profumava di detersivo per pavimenti e i raggi del sole filtravano tra le tende rosate. Amelia si mise seduta sul letto e Ashton fece lo stesso. Puntò gli occhi azzurri in quelli verdi di lui e sospirò.
Ashton era la persona di cui si fidava di più al mondo. Non sarebbe stato troppo difficile dirgli tutto. Ma all’improvviso fu presa dal panico, da mille domande diverse. Non ci aveva pensato per tutta la mattina, ma adesso eccole lì, a picchiare duramente contro la sua testa: e se lui non ne fosse stato felice? Se lui non avesse voluto un figlio? Se la vita che aveva sempre vissuto non lo gliel’avesse fatto accettare?
Fece un grande respiro, posandosi una mano sulla pancia, coperta dal maglione. Non preoccuparti, piccolo mio, pensò, anche il papà ti vorrà bene.
«Amelia, va tutto bene?» le chiese Ashton, riportandola alla realtà. Lei lo guardò ancora negli occhi e si tranquillizzò.
Annuì. Non c’era ragione di girarci intorno, alla fine avrebbe dovuto comunque dirglielo. «Sono incinta» mormorò, senza alcune traccia d’esitazione. L’aveva detto. Ora sarebbe potuto succedere di tutto.
Ashton non disse niente per un paio di minuti. Incinta. La sua Amelia aspettava un bambino. Ma sembrava così piccola e fragile, come avrebbe potuto sopportare tutto? Un figlio era l’ultima cosa che si era aspettato di avere dalla vita, l’ultimo dei suoi piani. Fu una notizia inaspettata, strana, ma in qualche modo bella. Lo rendeva... felice. No, non era l’aggettivo giusto. Non sapeva come si sentisse, ma non poté fare a meno di sorridere. Amelia buttò fuori l’aria che tratteneva, fu colpito da quel gesto: era preoccupata che lui non l’avrebbe accettato? Tipico di Amelia, paure irrazionali e infondate.
«È meraviglioso» riuscì a dire Ashton, le accarezzò il viso con la mano. La vide sorridere e posò la fronte contro la sua.
«Avevo paura che... no, lascia stare. Non me lo aspettavo, ecco perché stavo male in questi giorni, ma ora... Ash, ci pensi? Un figlio tutto nostro» disse ancora lei, a bassa voce.
«Non avrei mai pensato di avere un figlio» mormorò Ashton, sinceramente. Amelia lo abbracciò con slancio.
«Nemmeno io.»
«Ma va bene così, » disse ancora Ashton, staccandosi da lei. Abbassò lo sguardo. «È lì? Posso... posso toccarlo?»
Amelia annuì e sorrise. Ashton sembrava un bambino di fronte ai regali di Natale, o davanti ad un bastoncino di zucchero filato, sembrava un bambino che vedeva i fuochi d’artificio per la prima volta. Lui si mise seduto per terra e avvicinò prima la mano, poi la testa alla pancia di Amelia, mentre lei gli toccava delicatamente i capelli.
«Secondo te può sentirci mentre parliamo?» domandò.
«Non lo so, Ash. Ha un mese soltanto» disse Amelia, ridendo. Rimasero così per tanto tempo, entrambi si sentirono felici per davvero: non riuscivano a pensare ad altro se non al bambino. Dimenticarono Sydney, la fuga, Luke... dimenticarono tutto. In quel momento esisteva solo la famiglia che sarebbero stati.
«Quindi tra otto mesi saremo in tre?» chiese Ashton, rimettendosi seduto accanto ad Amelia.
«Siamo già in tre, scemo!» esclamò lei, alzandosi. Ashton rise, e nessuno dei due si rese conto della cosa più bella: erano già una famiglia. Lo erano già da tempo.

 
Marianne's corner:
Pensavate vi avessi mollati, eh? Sbagliato! Sono di nuovo qui a rompere. Sì, lo so che avevo detto che sarebbero passate un paio di settimane e alla fine mi sono allungata decisamente troppo dato che è passato ben un mese, ma l'importante è che sono arrivata (?) Allora, voi ve lo aspettavate che Amelia fosse incinta? Nelle recensioni all'ultimo capitolo di Indaco c'era già qualcuno che lo sospettava :D
Anyway, vi devo fare una premessa importante: non so se mi riuscirà bene descrivere questa gravidanza, semplicemente perché - ovviamente, lol - non ne ho fatto mai esperienza (dubito che lo farò mai, ma vabbè) quindi, per quanto io possa cercare su internet e cancellare la cronologia di volta in volta, no verrà mai fuori qualcosa di perfetto, ma uno ci prova :D (es. non credo si eseguano ecografie trans-addominali al primo mese, ma passatemela, ok? AHAHAHA)
E niente, Luke è tornato, ma sembra ancora una minaccia lontana, tutti loro sembrano felici, ma questo idillio non durerà ancora per molto, sigh. Appena ho un  briciolo di tempo, cioè mai, proverò a fare una mezza specie di trailer, anche se non vi prometto nulla :)
Spero che questo primo capitolo di questa nuova avventura vi sia piaciuto, scusate l'attesa e fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione o anche un commentino ahahaha :3
Bacioni,
Marianne

 

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Capitolo 2
*** Il pericolo si avvicina ***





2 – IL PERICOLO SI AVVICINA
 

 
Valerie tornò a casa con un grande sorriso sulle labbra. Come da routine, appoggiò le chiavi sul mobile accanto all’ingresso, si tolse il cappotto e lo sistemò sull’appendiabiti, fissato al muro di fronte alle scale. Era solo l’ora di pranzo, Michael sarebbe ritornato a momenti. In quel mese aveva riscoperto l’amore per i motori e in particolare per le motociclette. Da giorni non faceva altro che parlare della moto che avrebbe comprato non appena avesse avuto i soldi. Vederlo felice la rendeva felice automaticamente. Stavano insieme da quando Amelia aveva avuto l’incidente a Sydney, e non avevano mai specificato altro.
Vivevano insieme, mangiavano insieme, dormivano nello stesso letto e parlavano di tutto. Non si annoiavano mai, nonostante a Nedlands non ci fosse molto da fare.
Entrò in cucina e aprì il frigo, alla ricerca di qualcosa da cucinare per pranzo. Optò per dei petti di pollo da friggere in padella e dell’insalata fresca. Mentre faceva scaldare l’olio pensò che tutto quello che stava vivendo fosse incredibile. Non si era mai vista in un posto simile, in una casa così vuota ma così accogliente allo stesso tempo, a cucinare per lei e per il suo ragazzo. Sarebbe stato bellissimo se un pazzo criminale non li stesse cercando per tutto il paese. Sarebbe stato bellissimo se quel pazzo non fosse stato Luke.
Si era costretta a non pensare più a lui. Aveva finto per anni di essere il suo migliore amico, una persona fidata, gli parlava di tutto. Piangeva tra le sue braccia quand’era triste e rideva assieme a lui quando era felice. E lui? Lui la rassicurava e le raccontava barzellette con la stessa facilità con cui l’aveva sempre presa in giro e pugnalata alle spalle. Faceva male pensare a quelle cose, perciò si era detta di non farlo mai più.
Ora, c’era solamente il futuro, o almeno dei cocci da rimettere in piedi e con cui ricostruire una vita.
C’era la gravidanza di Amelia. Si era emozionata tantissimo nello studio della dottoressa, forse più di lei. Aveva visto una nuova, piccola vita da vicino e non poteva che sentirsi immensamente felice per la sua amica. Si sentiva quasi onorata a custodire un segreto del genere: finché Amelia non fosse stata pronta, non l’avrebbe detto a nessuno. Nemmeno a Michael.
Aveva appena tolto la carne dalla padella quando suonò il campanello. Andò ad aprire e, come pensava, si ritrovò davanti Michael. Lui l’abbracciò e poi si chiuse la porta dietro le spalle. Odorava di benzina e aveva le mani un po’ sporche, ma Valerie non poté fare a meno di pensare che fosse la cosa più bella del mondo.
«È pronto da mangiare, vai a lavarti le mani» gli disse, scherzando.
«Sì, mamma» rispose lui, dirigendosi verso il bagno.
Tre minuti dopo, Michael la raggiunse in cucina. Adesso indossava solo la felpa nera e aveva le maniche tirate su. In tavola era tutto pronto, e quelle piccole cose gli facevano sempre pensare a come fosse immensamente fortunato ad avere qualcuno che si prendesse cura di lui in ogni momento. Quella che stava vivendo non era la vita movimentata che aveva sognato e che si era trasformata lentamente in un incubo, era tutto così normale e tranquillo che gli piaceva da morire. Valerie cucinava per lui e lo accoglieva a casa con uno dei suoi meravigliosi sorrisi, di notte non sentiva mai freddo, non si sentiva mai solo.
Sembravano una di quelle coppie modello dei vecchi film americani, ma a detta sua, erano di gran lunga migliori. Avevano una storia alle spalle, una storia non bellissima, non perfetta, ma era proprio quello a renderli fantastici.
Michael credeva di amarla, ma non era mai stato abbastanza coraggioso da ripeterglielo molte volte. Temeva di consumare quelle parole e quel sentimento, gli bastava sperare che lei lo sapesse e che lo ricambiasse.
Finito il pranzo, Michael andò a prendere il giornale che aveva distrattamente lasciato nella cassetta della posta. Il padre di Amelia gli aveva assicurato un abbonamento quotidiano al Ned’s Daily, il giornale della città, così ogni mattina ne ricevevano una copia.
Valerie ci scherzava sempre su, quel giorno non fu da meno.
«Qual è la notizia in prima pagina oggi? Un matrimonio o un funerale? Oh no, lo saprei già altrimenti. Aspetta, una mostra di quadri a Perth. Ho indovinato?»
Ma quel giorno, Michael non rise. Quasi non l’ascoltò. Era troppo concentrato a leggere mille volte il titolo dell’articolo in prima pagina, a guardare la foto stampata eccezionalmente a colori. Lesse l’articolo una volta. Non ci credette. Lo rilesse, eppure tutte quelle parole dovevano essere vere. La foto riportata era stata scattata a Perth, secondo quando diceva l’articolo: era pieno giorno, sullo sfondo c’era una vetrina di un negozio d’abbigliamento, la zona era piuttosto isolata, lontano dal centro e dagli altri punti più importanti della città. Ritraeva un uomo incappucciato con le mani in tasca, vestito completamente di nero. Era sfocata, ma era impossibile non notare i capelli biondi che uscivano dal cappuccio e i lineamenti del viso. Solo gli occhi erano coperti dagli occhiali da sole, ma non c’erano dubbi su chi fosse.
«Mike? » disse Valerie, sedendosi accanto a lui. Aveva uno sguardo troppo serio, non aveva sorriso, non aveva risposto ironicamente alla sua battuta. «C’è qualcosa che non va?»
«È a Perth. È a un’ora da noi» mormorò il ragazzo, passandosi una mano tra i capelli. Il suo tono di voce era sconfitto, preoccupato. Terrorizzato.
«Chi è a Perth?» domandò lei, mettendogli una mano sulla spalla. Michael le passò il giornale e lei lesse il titolo: “Boss ricercato avvistato a Perth”. Il giornale le scivolò dalle mani.
«Non è possibile.» Valerie sospirò, lo sguardo perso nel vuoto. Poi si voltò verso di lui. «Non può essere qui.»
«Infatti non è qui, ma quando scoprirà che ci siamo noi non esiterà a venire e a radere al suolo questa città, se sarà necessario» rispose Michael. Si alzò di scatto dal divano e andò a prendere il telefono nella tasca della giacca.
«Cosa stai facendo?» chiese Valerie, seguendolo.
«Chiamo Ashton e Amelia. Dobbiamo andarcene.»
«E dove andremo? Nedlands era il nostro porto sicuro. Siamo scappati da Sydney per venire qui, non sappiamo dove altro andare. Non abbiamo una casa da nessuna parte. Michael! Mi stai ascoltando?»
Lui non aveva ancora composto nessun numero. «Li chiamo, poi capiremo cosa fare.»
La telefonata fu breve. Durò un minuto e mezzo. Valerie era ritornata a sedersi sul divano. Andava tutto bene, finalmente, tutto stava andando per il verso giusto: lei e Michael erano felici, Amelia e Ashton sarebbero diventati genitori, e adesso? Adesso non avevano un futuro. Nessuno di loro ce l’aveva, a meno che non fossero scappati di nuovo. Ma dove? Sydney era pericolosa, non avevano abbastanza soldi per iniziare a vivere in un’altra città, anzi, se Luke era arrivato a Perth la meta più sicura sarebbe stata addirittura un’altra nazione.  Cosa avrebbe detto alla sua famiglia? Tutti loro ne avevano una da qualche parte, tutti loro avevano qualcuno a cui volere bene. Non potevano andarsene di punto in bianco. E poi, accedere alla loro partenza da qualsiasi aeroporto sarebbe stato troppo facile per Luke.
Michael ritornò indossando la giacca. Non ci fu bisogno di dire niente. Valerie sospirò e si alzò dal divano. Si avvicinò a Michael, poi lo baciò sulle labbra, mentre cercava di trattenere le lacrime. «Vado a fare le valige. Ti prego, torna presto.»
Lui le accarezzò il viso e uscì di casa. Sarebbe ritornato entro sera, doveva assolutamente parlarne con Ashton. Intanto, Amelia avrebbe dovuto trovare una scusa per allontanarsi dalla sua famiglia dopo un solo mese dal suo ritorno. Gli dispiaceva da morire per lei, era quella che era stata messa alla prova più di tutti loro, eppure non era scappata, era rimasta al fianco di Ashton nei momenti più critici. Michael guardava ed era spettatore di tutto quello che li legava e rimaneva meravigliato: non aveva mai conosciuto qualcuno forte e determinato come lo erano loro.
Lui e Ashton si incontrarono al bar di Travis. Il primo e probabilmente l’ultimo posto che avrebbero visto di quella città. Ashton era serio, la telefonata di Michael l’aveva allarmato. Era insieme ad Amelia quando l’aveva ricevuta, lei aveva voluto sapere tutto e lui non gliel’aveva nascosto. Aveva visto la paura dilagare negli occhi di lei non appena disse che Luke era a Perth. Ma fu solo un momento, si riprese velocemente e disse di avere un’idea. Lui dovette uscire prima che lei gliela potesse spiegare.
Si misero seduti ad un tavolo abbastanza lontano dagli altri. Ordinarono due caffè e smisero di parlare non appena qualcuno si avvicinava al loro tavolo.
«Cosa pensi di fare?» gli chiese Michael.
«Non ci sono molte cose da fare. Dobbiamo andarcene il più lontano possibile da Perth» fece una pausa e sospirò. «Sappiamo entrambi che il posto più lontano che possiamo permetterci è Sydney, lì ho una casa, ma Luke sa dov’è. È il primo posto dove andrebbe a cercarci.»
«Non possiamo lasciare l’Australia. Non abbiamo i soldi» ribatté Michael.
«Lo so, cazzo, lo so!» esclamò Ashton. Fece per parlare quando ricevette un messaggio da Amelia. Lo aprì in tutta fretta.
«Chi è?» domandò Michael.
«Amelia. Josh le ha appena detto che hanno trasferito di nuovo Calum» disse Ashton, inizialmente non diede peso alla notizia. Anzi, non capiva proprio perché Amelia gliel’avesse detto in un momento tanto critico. Poi ricordò: la casa editrice dove lavorava Calum aveva tre sedi: a Perth, a Melbourne e... a Sydney.
«E quindi?» domandò l’altro.
«Dobbiamo avere fortuna. Tanta. Chiamo un attimo Amelia» disse Ashton. Michael attese trepidante. Non capì perché Ashton le stesse chiedendo dove l’avessero trasferito, ma comprese tutto quando lo sguardo di lui s’illuminò. «Abita a Sydney, Michael. Andiamo tutti da lui.»
«Senza offesa, Ash» iniziò Michael. «Gli hai praticamente rubato la ragazza da sotto il naso e non sa nemmeno chi siamo io e Valerie, non penso vorrà ospitarci a casa sua.»
«Se non lo fa moriamo tutti. Compresa Amelia. So che non gli importa nulla di noi, ma gli importa di lei. Non permetterà che venga uccisa da Luke. Specialmente ora che...» disse, ma poi si bloccò all’improvviso. Non voleva nemmeno pensare al bambino. Se tutto fosse andato male, sarebbe morto col rimpianto di non aver mai visto suo figlio negli occhi e di non averlo protetto come doveva. Dovevano resistere altri otto mesi. Dovevano sopravvivere per otto mesi, poi Amelia sarebbe scappata e lui... Dio, gli scoppiava la testa!
«Travis» esclamò Ashton. L’uomo si avvicinò con un sorriso sul volto. «Puoi portarmi un po’ di brandy per favore?»
«Ashton» lo riprese Michael.
«È stata una giornata meravigliosa fino a che non mi hai chiamato, Mike, adesso è una giornata di merda. Non voglio pensare. Domani mattina starò meglio» rispose Ashton, guardandolo torvo.
Michael aspettò che Travis si allontanasse. «Non so se abbiamo tempo fino a domani mattina»
«Non guiderò io, allora» disse ancora Ashton, irritato e nervoso. «Lasciami bere in pace.»
Il telefono di Ashton squillò, lui non vide nemmeno chi era. Un minuto dopo, Michael sentì la tasca vibrare: fu sorpreso di vedere il nome di Amelia sul display. Rispose. «Dimmi.»
«Ashton è con te?» gli chiese lei, esasperata, dall’altra parte del telefono. «Bene, digli di tornare a casa. Adesso. Valerie mi ha spiegato a linee generali che dobbiamo levare le tende. Con un po’ di fortuna partiamo stasera, ma mi serve che lui torni a casa» disse ancora.
«Ci penso io» disse Michael. Attaccò e poi «Travis, il brandy non ci serve più!»
Michael lasciò in cassa i soldi del caffè e trascinò Ashton fuori dal bar. Nonostante le sue proteste, riuscì a farlo salire in macchina. Bastò dirgli che Amelia aveva bisogno di lui per farlo partire a velocità della luce.
 
          

 
Marianne's corner:
Credo che dire che mi stavo dimenticando di aggiornare non è una buona mossa, quindi non lo dirò apertamente. Ecco il primo di una serie di capitoli relativamente noiosi, eccetto qualche sprazzo di luce vi preannuncio che non ci saranno molti colpi di scena per i prossimi due/tre capitoli. Non è stata una mossa intelligente nemmeno questa, I know. Maaa non posso farci nulla, ai nostri poveri personaggi serve il tempo che serve, dal momento che questa storia è in terza persona, ci saranno le storie di tutti. Qui ho voluto spiegare in modo molto easy peasy  cosa hanno combinato i  nostri Malerie a Nedlands, cioè non molto, ma l'importante è che ci sia l'ammmmore.
E scusate se mischio inglese-italiano-scleri: sono stata malata per quasi una settimana, il che ha significato molti giornate all'insegna delle serie tv rigorosamente in lingua con i sottotitoli e adesso penso esclusivamente in inglese, con un accento decisamente americano e, ugh, ho dei problemi. >_<
Smetti di farneticare e passo a ringraziare chi ha recensito lo scorso capitolo: genesisandapocalypse, Hazel_, tatanata, Chakey, jale90 e Letizia25, so sweet :3
Spero che anche questo vi sia piaciuto e non esistate a farmelo sapere, 
Besos
Marianne

PS: Per un possibile pseudo-trailer temo dovreste aspettare almeno le vacanze di Pasqua, sono mancata decisamente troppo a scuola e avrò un sacco di roba da fare, sorry. ç_ç

 

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Capitolo 3
*** Veritá ***





3 – VERITÀ
 


Ashton tornò a casa guidando con una certa fretta. Non aveva sentito la voce di Amelia al telefono, ma Michael era stato un ottimo tramite della sua inquietudine e urgenza. Lentamente, incrocio dopo incrocio, chilometro dopo chilometro, Ashton aveva capito che c’era bisogno di lui e che doveva fare il più in fretta possibile.
Parcheggiò, prestando scarsa attenzione, e uscì dall’auto, per poi sbattere la portiera alle sue spalle. Era già buio e il vialetto e la veranda erano graziosamente illuminati. Quando suonò il campanello, ad aprirgli su la madre di Amelia.
«Buonasera» la salutò lui gentilmente, come faceva sempre. La signora Hogan lo fece entrare. Gli occhi di lui cercarono immediatamente Amelia e la trovarono di fianco il camino, mentre percorreva nervosamente, avanti e indietro, gli stessi due metri che dividevano il muro dal divano.
Ashton le si avvicinò lentamente, e quasi senza far caso al signor Hogan che leggeva seduto sulla poltrona, sentì il bisogno di posarle le mani sui fianchi, sfiorarle piano il ventre con le dita e infine baciarla. Era un bisogno che nasceva dal profondo, un bisogno che gli aveva creato un nodo nello stomaco e al contempo lo aveva fatto sentire così bene che tutto il mondo circostante era stato facilmente dimenticato. La trovò stranamente fredda e preoccupata, ansiosa. Non gliene fece una colpa.
Amelia dopo un po’ si allontanò piano e dolcemente, lanciando uno sguardo dietro le spalle di lui, poi lo prese per mano e insieme andarono in un’altra stanza, al piano di sopra: avevano bisogno di un posto in cui non essere ascoltati e dove non sentire i finti colpi di tosse di suo padre.
«Mi spieghi cosa hai intenzione di fare?» le chiese, a bassa voce. Riuscì a percepire l’ansia nel suo sguardo.
«Dire alla mia famiglia la verità» sospirò la ragazza. La sua voce tremava, proprio come le tremavano le mani. Le sarebbe piaciuto poter dire di avere freddo. «Cioè che sono incinta e che me ne voglio andare via da qui.»
«Li ferirai» le vece notare Ashton, posò le dita sotto il suo mento e lo sollevò leggermente, perdendosi nel blu dei suoi occhi.
«Lo so.»
«Sei davvero pronta a tagliare i ponti con la tua famiglia in questo modo?»
«Non ho altra scelta. La mia vita e quella di mio figlio contro la felicità della mia famiglia, so benissimo che li farò soffrire, ma se fossi io a morire sarebbe peggio, non credi?»
«Se non fermiamo Luke passeremo la vita a fuggire da lui. Anche se riuscissimo a cavarcela per i prossimi mesi, spostarsi con un bambino sarebbe impossibile» disse Ashton.
«Fermarlo? Ci abbiamo provato e lui è fuggito dal carcere. Non possiamo fermarlo, è inarrestabile.» esclamò lei.
«Ma non è immortale.»
Amelia boccheggiò e trattenne il fiato per un momento. Luke era umano, per quanto riprovevole potesse essere, e come tale poteva morire.
«No» asserì la ragazza. «Non puoi ucciderlo.»
«No? Finirebbe tutto» disse Ashton.
«Non credo sia così facile... è il padre di Luke quello importante, se il figlio muore non ci darà pace, questo è sicuro.»
«Vuoi andare a Sydney?» sospirò Ashton dopo un momento di silenzio, cambiando discorso.
«Hai letto il messaggio? Josh ha saputo dalla madre di Calum che l’hanno trasferito di nuovo lì, possiamo stare da lui, e poi c’è il tuo vecchio appartamento. E non si tratta di volere, Ash, dobbiamo andarci. Se rimaniamo qui è finita. Così possiamo prendere tempo» spiegò Amelia.
«E quando hai intenzione di attuare il tuo piano?» domandò Ashton.
«Stasera a cena. Ho parlato con Valerie e mi sono permessa di farti le valige, se tutto va come previsto, partiamo stanotte » rispose Amelia, sembrava avere il pieno potere su quello che stava facendo. «E non ci ho messo le sigarette.»
***
 
La cena fu servita in tavola verso le sette e trenta, quando Josh rientrò a casa. Inizialmente, si svolse tutto nella calma più assoluta, come ogni giorno. Ad Amelia aveva fatto bene quel ritorno al passato, il calore di casa e l’amore della sua famiglia; tutto quello si stava trasformando nella sua tomba. Ashton, nato e cresciuto in un ambiente cittadino, aveva trovato in quel piccolo paese in mezzo a delle campagne infinite un luogo calmo e felice, abbandonarlo sarebbe difficile anche per lui.
Stavano per iniziare il secondo, quando Amelia decise di sganciare la bomba. Si alzò lentamente in piedi.
«Ti senti bene, Amy?» le chiede il padre.
«Devo... devo dire una cosa molto importante» disse piano la ragazza. Per un attimo, pensò di inventare una qualsiasi bugia, per un attimo perse ogni briciolo di coraggio. Poi li raccolse uno ad uno e continuò: «Aspetto un bambino.»
Il silenziò calò e inghiottì ogni cosa, come quando cala la notte e avvolge tutto con il suo manto d’oscurità.
Il primo a parlare fu Josh: «Davvero?»
«Non avrei motivo di inventare una cosa del genere.»
Ashton non era il protagonista della situazione, cercava di non dare troppo nell’occhio perché Amelia non gli aveva esattamente spiegato cosa dovesse fare o come comportarsi, eppure si sentiva fastidiosamente giudicato e osservato.
«Amelia,» iniziò il signor Hogan. «di che sciocchezze vai dicendo?»
«Non è una sciocchezza, papà, è mio figlio» rispose lei. «Non dire mai più che è una sciocchezza, perché non lo è.»
«Tesoro, sei davvero giovane. Io avevo ventitré anni quando è nato Josh e... devi ancora sposarti!» intervenne la madre.
«E allora?» esordì Ashton, attirando tutta l’attenzione su di sé. Non era riuscito a tenere la bocca chiusa, era un suo grande difetto: avere sempre qualcosa da ridire. «Non bisogna essere sposati per avere un figlio, è un’assurdità, una tradizione tanto vecchia quanto stupida.»
Intanto, Josh non aveva detto una parola.
«Tu!» esclamò il signor Hogan. «Tu sei il padre di quel bambino.»
«Fortunatamente sì, signore»
«Via, non rimarrai in questa casa un minuto di più! E tu, Amelia―» iniziò l’uomo.
Amelia avanzò, bloccando il padre nel bel mezzo della sua frase. «Nemmeno io, allora» disse con voce ferma. «Vado via, ci avevo già pensato. Non voglio che mio figlio nasca qui, non voglio che cresca qui, in questo paese, con le sue regole assurde e la sua gente. Non voglio che venga giudicato se a diciannove anni avrà un figlio, né se deciderà di avere un futuro diverso da quello che gli altri hanno programmato per lui. Io vi voglio bene, ma mi manca il respiro e non permetterò che Nedlands soffochi anche lui.»
Le parole di Amelia misero a tacere il padre. Lei, mentre parlava, si era trasformata in una maschera di durezza e inespressività, ma quando finì, abbassò il capo e cercò di trattenere le lacrime. Si allontanò piano dal tavolo, il cibo in tavola non era stato nemmeno toccato. Josh cercò di prenderle la mano, ma Amelia corse via, su per le scale. Era stato più difficile del previsto, e la cosa più brutta era stato rendersi conto che tutte le crudeltà che aveva pronunciato contro di loro erano terribilmente vere.
Fece per chiudere la porta della sua stanza, quando Ashton entrò. Il suo sguardo si posò immediatamente sul piccolo trolley e i due borsoni poggiati sul letto di Amelia. Lei prese subito la valigia e la diede ad Ashton.
«Il piano ha funzionato, vai» mormorò semplicemente.
«Stai bene, amore?» le chiese lui, mettendole le mani sulle spalle. La guardò negli occhi, cercando di capire tutti i vorticosi sentimento che danzavano in quell’oceano scuro.
«Non credo, ma non abbiamo tempo da perdere. Prendi questa e caricala in macchina, poi aspettami. Dobbiamo andare a prendere Valerie e Michael, e poi―»
«Ehi, fermati un secondo. Soffocare tutto col pensare ad altro non funziona. Ci ho provato per anni e l’unico modo era annullare tutto. E ti assicuro che non è una bella cosa» disse Ashton.
«Se non soffoco tutto rischio di andare a piangere tra le braccia di mia madre, mentre mio padre va a fumare per calmarsi e ti guarda andare via. E poi non abbiamo tempo per le emozioni, adesso, abbiamo quasi tre giorni di viaggio da affrontare» rispose Amelia.
«Hai bisogno di dormire. Troppe cose in un giorno solo» commentò Ashton.
«Ho scoperto di essere incinta, poi scopro che Luke ci sta cercando e adesso sto abbandonando la mia famiglia...» sospirò. «Decisamente troppo, sì.»
Ashton le prese le mani e poi afferrò il manico della valigia. «Fai presto» le sussurrò, lei annuì e Ashton uscì dalla stanza.
Quando fu sola, Amelia pianse mentre controllava di aver messo tutto nei borsoni. Fu costretta a fermarsi, dopo un po’, perché aveva la vista troppo offuscata per fare qualsiasi cosa. Fu un pianto silenzioso, fatto di singhiozzi muti e strozzati, eppure così rumoroso che non sentì Ashton e suo padre discutere, al piano di sotto, non sentì la porta che sbatteva, ma vide quella della sua stanza aprirsi. Alzò lo sguardo, ancora velato di lacrime.
Josh e i suoi occhi azzurri, i suoi capelli castani e il viso rotondo di bambino. Josh che sorrideva sempre, anche se quella sera era troppo serio.
«Vuoi andartene sul serio, Amy?» La voce di Josh era pacata e forse un po’ delusa, non c’era traccia di rancore e lui non sembrava arrabbiato. Sembrava solo triste.
«Mi dispiace» mormorò lei. Lasciare Josh le aveva fatto male anche la prima volta, quando Sydney rappresentava ugualmente una speranza, ma la posta in gioco era molto più bassa. Lo abbracciò stresso, attaccando la testa al suo petto, il cuore le batteva forte e cercò di non pensare che quella avrebbe potuto essere l’ultima volta che le braccia del fratello la stringevano con così tanto affetto.
«Papà non è davvero arrabbiato, mamma ti aiuterà se rimani qui e io sono felicissimo per te. Un bambino è una cosa meravigliosa» le disse Josh. Lui aveva sempre avuto la capacità di svelare i lati positivi di ogni cosa e riusciva ad essere pericolosamente convincente. Per un momento molto, forse troppo lungo, Amelia si lasciò quasi cullare dalle parole di Josh. Chiuse gli occhi e s’immagino a Nedlands, con suo figlio tra le braccia, sua madre che le sorrideva e suo padre che guardava il bambino con amore, vide Ashton inginocchiarsi a terra, pensò a come dovesse essere camminare verso l’uomo che si ama vestita come una regina, e poi promettergli di amarlo in eterno. Ma poi gli occhi freddi di Luke congelarono tutto, quei momenti divennero immobili e dolci pensieri nella sua anima, e alla fine, Luke congelò anche quella. Amelia voleva bene a Josh e aveva apprezzato il suo tentativo, ma non poteva lasciarsi convincere così facilmente, rischiava la vita.
«Forse tornerò, e quel giorno ti spiegherò ogni cosa» sospirò lei.
«Amelia» mormorò il fratello, prendendole la mano. Lei spalancò gli occhi, lui non la chiamava mai in quel modo.
«Joshua» replicò. «non posso rimanere qui, non è solo per il bambino, io... è una cosa complicata, ma sento che la mia vita è a Sydney. Lì ci sono i miei amici, c’è Ashton e c’è anche Calum adesso. Non posso mobilitare tutti per me. Devo andare.»
«Non puoi rimanere fino a domani mattina, almeno? Intendi viaggiare di notte?» chiese Josh, preoccupato.
«Ashton mi sta aspettando» rispose Amelia.
«Lo ami davvero così tanto?»
Quella domanda la spiazzò. Avrebbe risposto di sì, senza nemmeno pensarci, ma credeva che “così tanto”, in qualche modo, non avrebbe potuto esprimere quello che provava per lui. All’inizio sembravano essere impossibili, sbagliati, poi avevano aperto gli occhi e in loro si era fatta strada la consapevolezza di poter sfidare il mondo, e per un attimo, avevano anche avuto la speranza di poter vincere.
«Lo amo molto di più» disse, si caricò un borsone sulla spalla e prese l’altro per il manico.
«Non dovresti affaticarti così» le fece notare suo fratello.
«Sono incinta, mica malata.» Amelia sorrise. «Ti voglio bene, dì a mamma e papà che non hanno colpe e che voglio bene anche a loro.»
Non lasciò a Josh il tempo di rispondere e se ne andò.
 

 
 

 
        

Marianne's corner:
Buon pomeriggio, miei prodi! Sto essendo molto puntuale con gli aggiornamenti e mi sento fiera di me, ecco un altro capitolo ansioso in cui sembra succeda un sacco di roma, ma in cui in realtà non succede nulla di che. Vi giuro che le cose andranno avanti così fino al prossimo, i swearrr. Dunque, avreste mai immaginato che la partenza (che non è ancora successa, lol) sarebbe accaduta subito? Forse sì, insomma, non avevano moltissimo tempo a disposizione. 
Sarà uno spazio autrice molto flash perché non ho molto da dire su questo capitolo, il prossimo verterà sul viaggio, ecco perché lo considero ancora tra i "capitoli noiosi" (non mi faccio esattamente una bella pubblicità, ma who cares?)
E niente, ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo :D ovvero, tatanata, sweetmelodies, Hazel_, McPaola, genesisandapocalypse, Chakey, nancyirwin e jale90. Grazie mille!
Dalla prossima settimana comincerò a raccogliere materiale per questo benedetto trailer e spero di realizzarlo, come ho già detto, durante le vacanze (computer permettendo, sperando che non esploda)
Detto questo, vi saluto!
Baci,
Marianne

 

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Capitolo 4
*** On the road ***





4 – ON THE ROAD

 


 
Il portabagagli della macchina si chiuse con un suono sordo e Amelia, seduta sul sedile anteriore, sussultò. Michael prese posto sui sedili di dietro, accanto a Valerie. Alla fine, entrò anche Ashton, che si mise al posto di guida. Nessuno disse niente per un po’: le mani di Ashton stringevano il volante, quelle di Valerie torturavano un lembo del maglione blu che indossava, Amelia fissava il vuoto e Michael programmava il navigatore, dopo aver impostato la meta, lo passò ad Ashton che lo sistemò davanti a sé. Ingranò la mancia e uscì dal vialetto buio di casa di Michael e Valerie. Nell’oscurità della notte, fuggirono da Nedlands come dei ladri pieni di vergogna.
A sentirsi così era Amelia, in particolare. Non riusciva ad alzare lo sguardo e osservare tutti i luoghi tra cui, nonostante tutto, era cresciuta e aveva costruito il suo passato. Li abbandonava per una seconda volta, senza avere la certezza di rivederli ancora. Si posò le mani sulla pancia, un po’ perché sentiva un nodo pesante all’altezza dello stomaco, una sensazione che le toglieva quasi il respiro, un po’ perché lì dentro c’era il suo bambino, il suo piccolo tesoro. L’aveva visto sullo schermo, nello studio della dottoressa Fell: non era più grande di uno spillo, ma lei lo amava già così tanto. Avrebbe dato la vita per lui, e nemmeno se ne rendeva conto.
Nonostante questi piccoli scorci di felicità e di luce, l’atmosfera era cupa e tesa. I sospiri nervosi dei suoi amici le facevano abbassare lo sguardo e chiudere le palpebre: dormendo, sarebbe fuggita da quelle ore di agonia che li aspettavano, e magari avrebbe sognato di un mondo in cui lei ed Ashton, insieme al loro bambino, diventavano una famiglia vera, in cui non c’erano assassini, in cui sulla vita splendeva sempre il sole, in cui c’era un cielo perennemente terso e luminoso.
Non riuscì a prendere sonno.
Quando si fermarono, dopo circa tre ore di guida, era mezzanotte e si trovavano nel bel mezzo del nulla, circondati solo da steppa, erba e qualche occasionale albero. Fortunatamente, i lampioni ai lati della strada fornivano un’illuminazione abbastanza buona. Amelia non si mosse di un centimetro: il viso premuto contro il finestrino freddo, lo sguardo perso nel buio della terra immensa che si estendeva per troppi chilometri ancora, le mani a sfiorare l’addome. Le portiere dell’automobile sbatterono, qualcuno scese e cominciò a camminare su e giù per la strada. Fuori faceva freddo e Amelia preferì rimanere avvolta nel suo cappotto e nella sua sciarpa di lana. Pochi minuti dopo, davanti ai suoi occhi fece capolino il viso di Valerie, che bussò al suo finestrino. Amelia aprì di poco la portiera
«Non esci a fare due passi?» le chiese la ragazza, con un tono di voce dolce e un sorriso forzato sulle labbra.
«No.» Amelia scosse la testa. «Sto bene qui.»
Valerie annuì. «Michael guiderà per altre tre ore. Poi tocca a me, intanto tu ed Ashton potete stare dietro e riposarvi un po’, che ne dici?»
«Non so se riuscirò a dormire...» sospirò Amelia.
«Ma devi, è un viaggio lunghissimo. Ci vorranno almeno tre giorni, non contando tutte le soste» esclamò Valerie. «Dio, siamo pazzi!»
«No, siamo solo intelligenti» la corresse l’altra. «Secondo te quanto ci avrebbe messo a far dirottare un aereo? O avrebbe potuto aspettarci all’aeroporto di Sydney, o scovarci molto prima a Perth...»
«Amy, non pensare a lui adesso, va bene?» le disse Valerie, mettendole una mano sulla spalla. «Finché siamo nel cuore dell’Australia in queste stradine dimenticate dal mondo, non ci troverà. Dai, vieni a sederti dietro.»
Amelia sospirò e scese dalla macchina, si disse che tanto valeva camminare un po’ per sgranchirsi le gambe, allora raggiunse Ashton, seduto sul ciglio della strada. Michael era appoggiato al cofano e fumava una sigaretta.
«Ehi» mormorò, mettendosi accanto a lui.
«Come stai?» le chiese Ashton.
«Sto realizzando che abbiamo appena intrapreso un viaggio infinito e che non vedremo altro che steppe per la prossima settimana» rispose Amelia. «Ma per il resto, bene, credo.»
«Mi dispiace» sospirò lui.
«E di cosa?»
«Di averti messo in mezzo a questo casino. Sai, a volte mi capita di pensare... se quella sera tu non avessi dovuto fare il pieno di benzina, se avessi trovato un’altra stazione di servizio, o se non avessi mai vinto quel concorso... se io e te non ci fossimo mai conosciuti, adesso sarebbe tutto diverso.»
«Non dirlo» boccheggiò Amelia, spalancando gli occhi. Cominciò a scuotere la testa. «Non dirlo nemmeno per scherzo. È vero, ora non avremmo un pazzo alle calcagna, ma non avremmo nemmeno lui – prese la mano di Ashton e la portò ad appoggiarsi sul suo ventre – e... Ash, non ho mai provato per nessuno quello che provo per te.»
Lui non seppe come rispondere. Si limitò a guardarla con gli occhi stanchi, pieni di emozioni, scuri nel buio della notte e sotto la luce aranciata dei lampioni; non riuscì nemmeno a fare niente, rimase immobile, a guardarla mentre sospirava e abbassava lo sguardo sull’asfalto. Aveva il viso distrutto, i capelli spettinati ed era infagottata in un pesante cappotto, ma non poté fare a meno di pensare che fosse bellissima.
Alla fine, lui si alzò e le tese la mano, lei la prese e si lasciò condurre dolcemente di nuovo verso l’automobile. Ashton le aprì la portiera per farla entrare, poi si mise seduto accanto a lei e le lasciò posare la testa sulla sua spalla. Tutti rientrarono, Michael si mise al volante.
La pausa era finita, il viaggio continuava.
 
***
Erano le undici del mattino, la strada era deserta. Amelia frenò bruscamente e si appoggiò al volante, tutti sobbalzarono e si voltarono rapidamente verso di lei, che aprì lo sportello ed uscì immediatamente in strada.
«Amelia!» esclamò Valerie, seduta davanti. Scese anche lei e la raggiunse. «Che ti succede?»
«Mi viene da vomitare» si limitò a dire la ragazza, appoggiandosi al parapetto. Nessuno riuscì a dire niente che aveva già rigettato la frugale colazione sull’asfalto. Valerie le si avvicinò e le tenne i capelli all’indietro. Quando ebbe finito, Michael le passò un fazzoletto per pulirsi il viso.
«È la gravidanza» disse semplicemente.
«Aspettate... cosa?» esclamò Michael. Tutti si girarono verso di lui.
«Ops...» mormorò Valerie.
«Amelia è incinta e nessuno me l’ha detto?» continuò il ragazzo. «Dio, Ash… perché non me l’hai detto? Da quanto lo sapete? Perché io non so mai niente?»
«Lo sappiamo da ieri» gli spiego Valerie. «Ieri mattina, per la precisione. E poi... sono successe troppe cose tutte insieme. Luke, fare i bagagli, la partenza, il viaggio di notte. Non ci è passato per la testa. Scusaci, Mikey.»
Lui sorrise e alzò gli occhi al cielo. «Santo cielo... be’, dobbiamo arrivare a Sydney al più presto. Ora più che mai» disse. La voce era stranamente piena d’eccitazione e quella notizia abbastanza inaspettata gli aveva riempito gli occhi. «Oh, e se è maschio, chiamatelo come me.»
«Ma non pensarci nemmeno!» esclamò Ashton.
«Esatto, Mike, perché sarà una femmina» ribatté prontamente Valerie, facendo un sorrisetto.
Anche il viso di Amelia si sciolse in un sorriso e nell’aria si disperse il suono dolce della sua risata. Il cielo era sereno e i raggi del sole riscaldavano leggermente l’ambiente invernale e freddo, non tirava vento, ma l’aria era frizzante. Si appoggiò con la schiena al parapetto e si legò i capelli in una coda, poi sospirò.
«Dai, ripartiamo» disse Amelia.
«Possiamo stare ancora un po’, se non ti senti bene» intervenne Ashton.
«No, io...» iniziò lei. «Ho visto sulla cartina che c’è una stazione di servizio tra quaranta chilometri. Arriviamoci e fermiamoci a pranzare lì, poi ripartiamo e cambiamo il turno.»
Nessuno osò obiettare. Risalirono tutti in macchina e ripartirono. Viaggiare di giorno era molto più piacevole e meno stancante. Dalle casse della radio usciva della buona musica, talvolta Ashton canticchiava le canzoni che conosceva, Amelia sorrideva, Michael raccontava barzellette scontante che riuscivano sempre a spezzare il clima di tensione quando si creava, mentre Valerie raccontava loro aneddoti sugli anni del liceo, escludendo volutamente tutti gli episodi in cui era presente anche Luke.
Guidarono per tutto il giorno. Quando si fermarono alla stazione di servizio, oltre a pranzare, fecero scorta di cibo a lunga scadenza e vi cenarono durante una delle soste della sera. Continuarono ad alternarsi al posto di guida. Verso le due di notte, nessuno di loro era in grado di guidare: la giornata era stata estenuante. Per un attimo ebbero la tentazione di dormire in macchina, poi la cartina fece fare loro una mirabolante scoperta: Kimba.
Era una cittadella minuscola. Municipio, scuola e clinica si trovavano tutte sulla stessa strada. In una traversa vi erano un supermercato non molto rinomato. La città dava sul mare, più precisamente sul Golfo di Spencer. Le case erano modeste e anonime, all’entrata della città, vicino ad un cartello malconcio con su scritto “Benvenuti a Kimba”, si erigeva un edificio a quattro piani: un motel a tre stelle. Si dissero che la città era talmente piccola e isolata, che sostare una notte lì non sarebbe stato pericoloso.
Così, entrarono nel parcheggio completamente vuoto e lì spensero la macchina. Non si preoccuparono nemmeno di scaricare le valigie, tirarono fuori solo dei vestiti per dormire e tutti i propri beni personali. Michael parlò con la donna dietro il bancone della reception, mentre Amelia si accasciava su una delle sedie accanto all’ingresso. Ashton era rimasto con lei, mentre Valerie aveva raggiunto Michael.
Presero una quadrupla perché era più economica di due singole. Presero poi l’ascensore e, una volta in camera, non fecero altro che spendere qualche minuto a cambiarsi e lavarsi per poi coricarsi sui letti.
Al contrario della notte precedente, per nessuno di loro fu difficile prendere sonno.
 
***
 
Michael e Valerie erano andati in città a prendere qualcosa da mangiare, prima di rimettersi in viaggio. Quello sarebbe stato l’ultimo estenuante giorno di guida e di autostrada. Contavano di arrivare a Sydney verso le otto di sera. Amelia stava rimettendo i pigiami in uno zaino.
«Hai già chiamato Calum?» le chiese Ashton, appena uscito dal bagno.
«Sì, cinque minuti fa. Ha detto che non sa ancora se entreremo tutti in casa sua, ma che per questa notte può andare. Poi domani ci pensiamo meglio» rispose meccanicamente.
«Cosa ti succede?» continuò lui, le mise una mano sulla spalla e poi la strinse del tutto, mentre lei cercava di diventare minuscola nel calore del suo corpo.
«Niente, è solo stress.»
«Non ti fa bene lo stress.»
«Lo so. Ma non possiamo farci niente.»
«So che quando una donna è incinta è tutto amplificato. Perché in te sembra il contrario?» sospirò Ashton all’improvviso.
Amelia rifletté, prima di rispondere. Aveva capito benissimo le sue parole e doveva ammettere che erano vere, lui l’aveva notato, non poteva nasconderlo.
«Non lo so. Non sono mai stata come tutti gli altri, non ho mai funzionato come avrei dovuto. Ho sempre pensato a modo mio e... sono strana anche questo» rispose piano, abbassando lo sguardo.
«Lo sai che con me e Michael e Valerie puoi parlare di qualsiasi cosa e sfogarti ogni volta che vuoi, vero?» mormorò Ashton, accarezzandole il viso.
«Sì, lo so» disse Amelia. «È solo che... se mi convinco di non provare niente, magari avvertirei di meno il peso di tutti gli eventi.»
«Non funziona così» disse Ashton.
Amelia annuì e rimase in silenzio per qualche secondo. «Puoi portare questo in macchina? Vado in bagno e ti raggiunto subito.» Gli porse lo zaino e si alzò sulle punte per dargli un bacio veloce sulle labbra, come un soffio. Ashton uscì dalla stanza e chiuse la porta nello stesso momento in cui Amelia chiudeva quella del bagno.
Mentre Ashton scendeva le scale, pensava a come sarebbero usciti da quella situazione, mentre desiderava ardentemente un presente non così duro e difficile, mentre stringeva i denti e poneva tutte le sue speranze in un domani più luminoso; mentre Amelia chiudeva la tavoletta del water e ci si sedeva sopra, fissando le mattonelle bianche sul muro, si mordeva le labbra per reprimere quel grido di frustrazione e tristezza che da troppi giorni gli moriva costantemente nella gola, respirava profondamente e cercava di scacciare via ogni pensiero negativo, vedeva solo Sydney e i suoi grattacieli, le sue luci, l’appartamento accogliente di Calum e un’apparente tranquillità.
Forse era solo la stanchezza del viaggio, forse era solo perché in quarantotto ore aveva vissuto più di quanto potesse realmente sopportare, ma per la prima volta in tutta la sua vita, pensò che la via più semplice per porre fine a tutto quello fosse proprio la cosa da cui stava scappando. Pensò che sarebbe stato infinitamente più facile smettere di esistere, per mano propria o per quella di altri non faceva differenza; sarebbe stato molto più semplice smettere di vedere, sentire, percepire. Smettere di vivere.
Morire sarebbe stato meno complicato. Era arrivata a pensare che abbandonare la vita le stava bene, aveva riconosciuto di non aver paura di esalare l’ultimo respiro.
Ma Amelia ormai non decideva più solamente per se stessa, adesso, la sua vita era indissolubilmente collegata a quella di qualcun altro. Le decisioni che prendeva ricadevano anche su di lui, ogni singola azione andava pensata attentamente prima di essere compiuta. Pensò che non aveva il diritto di togliere qualcosa di così prezioso come la vita a chi non aveva la facoltà di decidere da solo, non aveva alcun diritto di privarlo di qualcosa che non aveva ancora avuto.
Non aveva il diritto di privare se stessa e Ashton della sensazione che si provava a tenere il proprio figlio tra le braccia. E fu proprio lui a convincerla che vivere, per quanto fosse difficile, complicato, e a volte insopportabile, era la cosa che avrebbe rimpianto di più se fosse morta.


 
        

Marianne's corner:
Hola! Come va? Spero bene, perché sono ufficialmente iniziate le vacanze e voi non sapete davvero da quanto tempo non dormivo fino a tardi (le domeniche non contano, shh).
Vi annuncia che questo è l'ultimo della sfilza dei capitoli noiosi, come li chiamo io. Nel prossimo, infatti, ricominceranno le cose belle e e indovinate un po' chi ritornerà? CALUUUM. *me felice* *stappa lo champagne*
Lo so che molte non vedono l'ora che ritorni il nostro moretto (?)
EEE niente, come tali, vado a godermi le mie vacanza pasquali facendo incetta di episodi di Pretty Little Liars e a leggere (ho cominciato 1984 di Orwell questa mattina e ne sono OSSESSIONATA).
Sparisco, scusate il mini-ritardo, spero vi sia piaciuto e non esistate a farmelo sapere! ♥
Bacioni
Marianne

 

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Capitolo 5
*** Perdita ***





5 – PERDITA

 


 
 
Il cartellone stradale recitava, a caratteri cubitali, la parola “Sydney” seguita da una freccia bianca orientata verso sinistra. Un’anonima macchina nera, immersa in un mare di traffico, virò e imbeccò l’uscita dell’autostrada. Ai quattro ragazzi che vi erano seduti dentro, pareva quasi un miraggio, ma più si avvicinavano, più tutto sembrava reale e tangibile: le luci si facevano più luminose, gli edifici si facevano più grandi e le strade si riempivano di pedoni.
Traffico, rumore, insegne luminose, semafori, persone. Tutto quello era mancato terribilmente ad Amelia. Era fantastico ritornare sull’asfalto sempre fresco, tra le persone che parlavano a voce troppo alta e la frenesia senza cui era impossibile vivere.
Al volante, Amelia esercitò più pressione del dovuto sul pedale dell’acceleratore, non appena il semaforo a cui erano fermi da un paio di minuti diventò verde. Istintivamente, guidata dalla forza dell’abitudine, prese la strada che conduceva al campus. Ashton se ne accorse e la guardò furtivamente, ma lei aveva gli occhi fissi sulla strada, dopo un po’ capì d’aver sbagliato, così fece inversione e riprese la via principale, dirigendosi verso il quartiere dove abitava Calum.
Parcheggiò quasi subito, accanto al marciapiede. Michael svegliò Valerie, che si era addormentata sulla sua spalla. Non scaricarono immediatamente tutti i bagagli, prima avevano concordato che li avrebbero portati su una volta che si fossero sistemati. Amelia corse al portone e citofonò, Calum aprì senza nemmeno chiedere chi fosse. Presero l’ascensore e arrivarono subito al terzo piano, dove Cal li stava aspettando, appoggiato allo stipite della porta.
Amelia corse ad abbracciarlo, fu una delle prime cose davvero belle da quando erano partiti, in quei giorni di ansie e paure. Si alzò sulle punte, gli cinse il collo con le braccia a appoggiò il mento sulla sua spalla; dal canto suo, Calum le strofinò gentilmente la schiena.
«Stai bene» disse lui. Suonò come una constatazione e non una domanda, la sua voce era leggermente spezzata dalla preoccupazione.
«Sì» replicò Amelia.
«Sciolsero l’abbraccio, e solo allora Calum sembrò rendersi conto della presenza di tutti gli altri, per cui si ricompose e si schiarì la voce con un colpo di tosse.
«Entrate» disse, facendo strada.
L’appartamento non era molto diverso dall’ultima volta che Amelia l’aveva visto: era solamente un po’ più ordinato e pulito e c’era qualche mobile in più rispetto a prima. Quando tutti furono entrati, Calum chiuse la porta.
«Ho provato a sistemare alcune cose: il divano si apre e ci stanno due persone, poi c’è un altro letto nella mia stanza ad una piazza e mezza, se ci si stringe può andare... lo possiamo mettere qui in salotto...» iniziò, gesticolando nervosamente.
«Io e Valerie pensavamo di andare nel vecchio appartamento di Ashton» disse piano Michael.
«No!» esclamò Amelia. «Non potete, sarà uno dei primi posti in cui...»
«Ho vissuto due anni in quel posto. La conosco come il palmo della mia mano, sicuramente meglio di Luke» ribatté Michael.
«È vero. Ci sono un paio di nascondigli» confermò Ashton.
«A proposito di questo... mi spieghereste meglio la questione? Non ho ancora capito da chi state scappando e per quale motivo» s’intromise Calum.
«Amelia si voltò verso di lui e si ritrovò ad annuire. Ashton tossì e prese Michael per un braccio.
«Vado a prendere le valige, voi venite con me?» chiese.
«Sì, così poi andiamo a casa tua» concluse Valerie. Michael non aveva ancora capito cosa stesse succedendo, ma non disse nulla e si limitò a seguirli.
Quando la porta si chiuse, Amelia e Calum rimasero da soli. Lui le offrì una tazza di tè, lei accetto e lo guardò negli occhi: era pronta a raccontargli ogni cosa.
 
***
 
La tazza ormai vuota era ancora tiepida e tremolava leggermente tra le mani calde di Amelia. Non sapeva quanto tempo ci avesse messo a raccontare tutto, dall’inizio alla fine.
Gli aveva detto ogni singola cosa. Il concorso, il benzinaio che veniva ucciso sotto i suoi occhi, Ashton che compariva spaventosamente nella sua vita, Calum stesso che arrivava a Sydney, Ashton che gli sparava, lei che mentiva, la volta in cui avevano fatto pace e poi l’avevano rapita, Ashton che la salvava, che le prometteva che tutto sarebbe andato bene, il dolore dopo la partenza di Calum, le due settimane in ospedale, e infine, l’aver scoperto che alla radice di tutti i problemi c’era Luke, e ancora, la fuga, il mese a Nedlands. Qui si era fermata. Mancava ancora un grande, importante dettaglio.
Il bambino.
Per il momento, però, non credeva che Calum fosse pronto ad assimilare anche quello. Prima, gli avrebbe lasciato fare tutte le domande che voleva.  Si guardarono a lungo, ma Calum aveva uno sguardo assente, puntato verso il nulla: pensava.
La prima cosa che gli venne in mente fu che Amelia, ovvero una delle persone a cui teneva di più al mondo, non aveva fatto altro che mentirgli, sin da quando si erano rivisti a Sydney. Allora provò una rabbia terribile e difficilmente contenibile, che lo portò a stringersi i pugni e a mordersi dolorosamente le labbra; poi, però, pensò che se fosse venuto a sapere anche una minima parte di tutto quello, qualche mese prima, ora quel Luke malvagio e mostruoso di cui Amelia gli aveva appena parlato starebbe perseguitando anche lui. Capì che tutte le sue dolorose bugie avevano solo il fine di proteggerlo.
Calum si arrabbiò e la perdonò nel giro di un minuto, in silenzio, creando immagini e supposizioni solo nella sua testa.
Istintivamente, con molta delicatezza, le tolse la tazza dalle mani e l’appoggiò sul tavolo di fronte e a loro, poi le accarezzò il dorso della mano destra e la prese tra le sue, puntò lo sguardo nel suo: ci vide solo verità e paura.
I suoi occhi blu come il mare, bellissimi e spenti, stavano perdendo ogni speranza e luminosità, e questo lo ferì in modo indescrivibile.
Prima di parlare, Calum si disse che lei lo aveva effettivamente lasciato per Ashton, che ora si era rivelato un sicario pentito e vendicativo nei confronti di chi, per anni, l’aveva manipolato, ma quello era il male minore, l’ultimo dei suoi problemi.
«Certo che ne hai passate tante, eh?» commentò Calum. Si rese conto che non riusciva nemmeno a trovare le parole giuste da dire.
«Sì...» sospirò Amelia, sorridendo amaramente. Stare da sola con Calum e raccontargli tutto l’aveva fatta  sentire meglio, indubbiamente più leggera, meno colpevole. Aveva apprezzato il gesto di Ashton: l’averla lasciata a parlare discretamente con Calum.
«C’è... insomma, ci sarebbe anche un’altra cosa» iniziò Amelia, raccogliendo tutto il coraggio che aveva. Temeva che non avrebbe avuto un’altra simile occasione. «È l’unica cosa bella in mezzo a tutte queste tragedie, anche se mi fa paura. Voglio che tu lo sappia, Cal, anche perché tra qualche tempo non lo potrò nemmeno più nascondere.»
Calum corrugò la fronte e si fece improvvisamente serio in volto.
«Cosa?» le chiese.
«Aspetto un bambino.»
Aveva sganciato la bomba. Ora, restava solo da vedere se fosse esplosa o se qualcuno l’avesse miracolosamente disattivata.
Calum si prese qualche momento per riflettere su quello che Amelia gli aveva appena detto: era incinta, aspettava un bambino. Il che, se sommato e collegato con un tutto il resto, sembrava quasi una tragedia. Avevano un assassino alle calcagna e la responsabilità di un figlio ancora in grembo, era matematicamente impensabile che ne sarebbero usciti tutti vivi.
Amelia alzò lo sguardo sui suoi occhi, sperando di trovarvi gioia e sicurezza, incoraggiamento, l’appoggio essenziale di un amico; si aspetto una pacca sulla spalla, un abbraccio, il calore rassicurante delle sue braccia.
Non ci fu niente di tutto questo. La bomba era esplosa.
Calum la guardava in modo freddo e distaccato, con la testa da tutt’altra parte; non le si avvicinò, bensì afferrò la tazza che Amelia aveva poggiato sul tavolino e si alzò di scatto, quasi spaventandola, per poi dirigersi in cucina. Buttò con noncuranza la tazza nel lavandino e cominciò a far scorrere l’acqua.
Incinta. Amelia era incinta. E il padre era Ashton. Quelle poche parole gli vorticavano nel cervello e lo facevano impazzire.
Era passato molto tempo dall’ultima volta che Calum aveva immaginato il suo futuro, erano ancora i tempi della scuola, quando Amelia gli stringeva la mano sotto il banco e per i corridoi, quando lei era ancora a casa, quando si amavano, quando avevano dei sogni adolescenziali e pensavano al matrimonio, ad avere dei bambini, ad essere felici.
I tempi della felicità erano finiti all’improvviso e con la stessa tempestività di un temporale estivo: Amelia era partita e senza il suono della sua risata Nedlands sembrava vuota, quando lui l’aveva raggiunta, c’era stato un momento di pura, illusoria bellezza, perché il cuore di Amelia era già tra le mani di qualcun altro, anche se lei non se ne rendeva conto.
Avrebbe mentito se avesse detto di non essere arrabbiato o geloso, nonostante non fosse più innamorato di lei. A volte, però, immaginava la vita che avrebbero potuto avere e gli appariva immensamente migliore di quella attuale, anche se era a Nedlands, anche con mille altri divieti e giudizi, anche con tutti i suoi lati negativi. Si chiese se anche Amelia la potesse preferire, in quel momento.
«Calum?» bisbigliò Amelia, ancora seduta sul divano. Non aveva osato voltarsi verso di lui perché l’avrebbe solo fatta stare peggio: non si aspettava che le avrebbe voltato le spalle in quel modo. Perché Calum non le aveva sorriso e non le aveva detto che era felice per lei?
«Tu credi davvero che sia una bella cosa?» chiese lui, sospirando sonoramente.
Amelia chiuse gli occhi e, istintivamente, si posò una mano sulla pancia. Quella frase le aveva lacerato il cuore in mille pezzi: Calum stava insinuando che il suo bambino fosse qualcosa di cattivo e sbagliato e lei non avrebbe permesso che quelle parole arrivassero anche a lui. Niente doveva ferirlo.
«Sì» rispose Amelia, con voce flebile. «È la miglior cosa che mi è capitata ultimamente.»
«E lo dirai ancora quando passeranno i mesi, quando crescerà e ti renderà la vita sempre più difficile. Quando anche salire le scale sarà quasi impossibile?»
Calum era ritornato in salotto e si era rimesso seduto. Era inquieto, incontrollabile. Amelia si trovava di fronte ad una cosa che non aveva minimamente previsto e non sapeva come reagire, però, conosceva le risposte a tutte le domande che lui le stava facendo.
«Sì!» disse con più enfasi. «Non so come spiegartelo, Calum. Non so nemmeno se puoi capirmi, o se qualcun altro possa farlo. Io... già gli voglio bene ed è importantissimo, è più importante della mia stessa vita: se stessi morendo e mi dicessero che possono salvare me o lui... io lo farei vivere.»
«Se potessi salvare te o lui, io salverei te» replicò Calum.
Amelia alzò gli occhi al cielo. «Non è tuo figlio, non puoi capire.»
«Anche Ashton salverebbe te.»
«No...» mormorò lei.
«Invece sì. Se dovesse scegliere tra quel bambino e la persona che ama, sceglierebbe la seconda. Anche tu lo faresti, lo faremmo tutti.»
Amelia non seppe cosa rispondere, non conosceva più le risposte. Non aveva più parole da dire. Sentiva solo una forte delusione e una grigia, malinconica tristezza. Le sue certezza si erano sgretolate, Calum l’aveva strappata da quel dolce sogno e come ogni buon amico le aveva fatto aprire gli occhi, avvertendola su tutti i rischi che stava correndo. Le aveva detto la verità: che tutto, presto o tardi, sarebbe diventato pressappoco ingestibile.
Ma come era possibile che una cosa tanto bella e buona come il suo bambino potesse causarle una tale rovina? Come era possibile che potesse farle perdere tutto ciò che aveva? No. Amelia non ci volle credere, poi sentì ancora lo sguardo preoccupato su di lei e capì.
Lui non faceva parte del sogno, era un osservatore esterno, pensava in modo più lucido e razionale; non era attaccato affettivamente al bambino, non lo percepiva ad ogni singolo respiro. Calum aveva ragione, sarebbe diventato tutto insostenibile.
Ma lei era più forte.
«Io sono più forte di Luke Hemmings» fece eco ai suoi stessi pensieri. Lo guardò negli occhi, carica di una determinazione che aveva facilmente sconfitto lo sgomento e la paura di poco prima. «Noi siamo più forti di lui. Non mi fa paura.»
E lo disse con una tale rabbia e fuoco negli occhi che Calum non seppe cosa dire. Si limitò a prenderle la mano e a sospirare: «Lo so. Ma a volte la forza non basta.»
La forza non bastava, ma l’amore, la determinazione, la combattività e tutto ciò che intercorreva tra tutti loro... quelli bastavano eccome. Ma questo Amelia non lo disse mai.
 

Marianne's corner:
Heeeey! Salve. Uhm, sarò molto flash, perché ho un marea di cose da studiare. Qui è tornato il nostro Calum! Vi era mancato? A me sì u.u anche se non è stato il più felice degli incontri... il titolo si riferisce a questo: è la perdita del primissimo affetto che Calum ha provato per Amelia. Non è innamorato di lei, non stanno insieme, sono cambiati entrambi e tutto si è mutato.
Vi aspettavate questa reazione da parte sua? Io sì (certo, genia, l'hai scritto tu), insomma, non tutti possono essere contenti!
Ultima cosa: so che avevo detto che dopo le vacanze avrei fatto il trailer, ma non l'ho fatto. :D e non so quando avrò tempo per farlo, ssooo... chi vivrà, vedrà.
Io mi eclisso a studiare, spero che vi sia piaciuto e vi ringrazio per le recensioni al capitolo precedente! :3
Bacioni.
Marianne

 

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Capitolo 6
*** Sangue del mio sangue ***





6– SANGUE DEL MIO SANGUE

 


  
Nell’appartamento regnò il silenzio finché l’aria non fu spezzata dal suono del campanello. Calum corse ad aprire, mentre Amelia rimaneva seduta sul divano a pensare e a fissare il nulla, come se parlare con lui l’avesse del tutto prosciugata.
Era Ashton, con le valige in mano. Calum sospirò e lo fece entrare, però, non richiuse la porta: gli mise una mano sulla spalla, prima di farlo entrare in salotto.
«Puoi... puoi rimanere con lei? Esco a fare due passi» disse, tenendo lo sguardo fisso da un’altra parte.
«È successo qualcosa?» chiese Ashton, inarcando un sopracciglio. Calum era schivo, inquieto. Se avevano parlato, di certo gli argomenti non erano stati molto felici.
«Abbiamo solo... discusso. Succede quando due persone hanno idee diverse. Congratulazioni, comunque... per il bambino» rispose frettolosamente l’altro. Poi afferrò la giacca dall’appendiabiti e si fiondò fuori dalla porta, richiudendola piano dietro di sé.
S’infilò le mani in tasca, per proteggerle dall’aria fredda, e scese velocemente gli scalini. In strada, il suo respiro si condensava in nuvolette di vapore a causa della bassa temperatura. I suoi piedi si muovevano veloci sull’asfalto del marciapiede, verso il nulla. Calum non aveva una meta o un posto ben preciso dove andare a rifugiarsi, non sapeva dove stava andando, ma camminare e respirare aria fresca era l’unico modo per non perdere la calma. Parlare con Amelia l’aveva accecato, rivederla aveva riacceso lo spirito di una fiamma nuova, che non aveva però nulla a che fare con i teneri sentimenti che un tempo aveva provato per lei: era semplicemente arrabbiato. Con lei, per avergli tenuto nascoste tante, troppe cose, per non essersi mai fidata di lui; e con se stesso, per averla pensata troppo, per aver distrutto la luce nei suoi occhi quando lei gli aveva confidato del bambino, per essersene andato e per essere scappato invece di affrontare la situazione.
La mattina seguente avrebbero chiarito, era tipico di loro quell’atteggiamento, ma al momento aveva solo bisogno di togliersela dalla testa, di tornare a mente lucida e scacciare via dalla mente tutti i pensieri negativi.
Camminò tantissimo. Cinquecento metri, ottocento, un chilometro, un chilometro e mezzo. Ad un certo punto, decise che era meglio fare dietrofront e ritornare a casa. Non voleva allontanarsi troppo, sapendo che quella non era una zona della città esattamente pacifica, e poi non voleva far preoccupare Amelia. La conosceva: dopo una discussione del genere, se qualcuno se ne andava di casa senza un motivo, lei rimaneva in pena finché non ritornava. Calum avrebbe potuto stare fuori fino a tarda notte e ritornare a casa solo verso le tre del mattino, ma sapeva che Amelia sarebbe stata lì, sul divano, seduta ad aspettarlo.
Trovò un contrattempo.
Stava tornando indietro, aveva percorso circa metà della strada fatta all’andata e non sapeva quanto tempo fosse passato da quando era uscito, anche se non gli importava sul serio. Aveva appena svoltato un angolo quando sentì una voce gridare, come disperata, e poi dei singhiozzi. Provenivano da un vicolo alla sua destra: man mano che si avvicinava, i singhiozzi e le richieste d’aiuto di facevano più forti.
«Aiutatemi!» diceva la voce, indubbiamente femminile. «Qualcuno mi aiuti.»
Calum affrettò il passo e si ritrovò perfino a correre. Entrò nel vicolo senza pensare più a niente: la sua mente era vuota. Era buio, ma notò immediatamente una figura accasciata a terra, con la schiena contro il muro e le ginocchia raccolte al petto. Si chinò subito su di essa e la osservò meglio: una ragazza, gli occhi spaventati, la pelle così chiara da sembrare bianca, anche nel buio della notte.
«Cosa ti è successo?» le chiese, la voce roca per lo spavento e la preoccupazione. Le tese un mano e lei l’afferrò quasi subito: la sua pelle era fredda, gelata. Se Calum non l’avesse vista muoversi e non l’avesse sentita gridare, poco prima, avrebbe giurato che fosse morta.
«Aiutami» mormorò ancora lei, col respiro affannato.
«Sì, ti aiuto.» Le strinse la mano e poi l’aiutò ad alzarsi in piedi. La ragazza si appoggiò completamente al suo corpo con tutte le forze che aveva, non avendo più il muro a farle da sostegno. Calum riuscì a trascinarla fuori dal vicolo, sotto la luce leggermente più forte del lampioni.
La guardò meglio: le labbra erano bluastre, non aveva una giacca e lui provvide subito a darle la sua, poiché lei ne aveva ovviamente più bisogno. Gli occhi azzurri erano socchiusi e facevano fatica a rimanere aperti. Solo in quel momento notò che i suoi capelli biondi, chiarissimi, erano sporchi di un qualcosa di rosso scuro.
«Ma questo è sangue. Oddio, devo chiamare un’ambulanza!» esclamò, preso dal panico. Lei rantolò.
«No!» esclamò, affaticata. Calum non riusciva a capire dove stesse trovando tutta quella forza. «No, non l’ospedale. Ti prego, posso farcela, devo solo... andare via, o loro mi troveranno. Andiamo via e basta. Non l’ospedale.»
Calum non le diede ascolto, inizialmente, e stava per tirare fuori il telefono dalla tasca, ma lei continuava a farfugliare e a ripetere con decisione che non voleva andare in ospedale per nessuna ragione al mondo, che dovevano andare via. Subito.
Non seppe perché, ma assecondò le sue richieste.
«Va bene, andiamo a casa adesso» disse Calum piano. Portò il braccio destro di lei sulle sue spalle e la fece appoggiare su di lui, per un po’ camminarono. «Come ti chiami?»
«N-Nola» rispose piano lei, alzò di poco la testa e Calum poté guardarla negli occhi. Fu l’ultima cosa che disse prima di perdere i sensi e svenire tra le sue braccia.
 
***
 
Erano le undici e ventuno quando Calum aprì urgentemente la porta di casa. Amelia e Ashton erano ancora svegli, parlavano fittamente seduti sul divano e si allarmarono entrambi quando videro Calum che portava in braccio una ragazza priva di sensi, con del sangue incrostato nei capelli e sui vestiti. Si alzarono immediatamente e lasciarono che Calum la mettesse sul divano. Era pericolosamente pallida, ora le sue labbra avevano raggiunto una tonalità più rosea e naturale, ma ora che era in casa, al chiuso e con la giusta illuminazione, Calum ebbe l’occasione di osservare le mani screpolate dal freddo, il corpo sottile e forse troppo magro, i jeans che portava avevano uno squarcio lungo il fianco della gamba destra, che lasciava un lembo di pelle scoperto: anche lì c’era del sangue.
Chiunque avesse lasciato Nola in quelle condizioni in un vicolo freddo e buio era un malvivente, qualcuno senza troppi rimpianti o rimorsi, qualcuno che a stento sarebbe stato potuto essere chiamato umano ed era la stessa persona da cui Nola stava scappando, da cui si stava forse nascondendo. Aveva paura che, andando in ospedale, l’avrebbero rintracciata più facilmente? Forse, ma non poteva lasciarla lì, lui non era capace di curare ferite del genere.
«Mio Dio, Calum, cosa...» iniziò Amelia, portandosi una mano di fronte alla bocca. Calum aveva ancora il respiro affannato per il passo veloce e le scale. Si passò nervosamente una mano tra i capelli, mentre scuoteva la testa.
«Non lo so. L’ho trovata per strada... lei gridava aiuto e diceva che doveva scappare o l’avrebbero trovata, e... poi è svenuta e io non sapevo dove portarla» disse, boccheggiando tra una frase e l’altra.
«Magari in ospedale?» ribatté Ashton, avvicinandosi rapidamente al divano.
«Ha detto di no. Qualunque posto tranne l’ospedale» disse prontamente Calum, sospirando.
«Ma da chi stava scappando?» domandò Amelia, raggiungendo il ragazzo ai piedi del divano, osservando con minuziosa attenzione la ragazza che vi era stesa sopra.
«Non lo so, non l’ha detto» esclamò Calum, nervoso.
Amelia le sfiorò delicatamente i capelli biondi e vide che non aveva nessuna ferita alla testa e poi con le dita seguì il contorno del viso, soffermandosi al graffio rosso che aveva poco più sotto della tempia destra, poi le toccò il collo e osservò che, fortunatamente, la temperatura del corpo non era così bassa, passò ad esaminare il taglio che aveva sulla gamba, non era molto profondo, ma la ferita era aperta e doveva essere subito disinfettata, per prevenire intenzioni.
«Aiutatemi a portarla di là, ci penso io» disse, con voce ferma.
I due ragazzi non replicarono. Con molta facilità la sollevarono e la portarono nella stanza accanto, dove la posizionarono delicatamente sul letto ad una piazza e mezzo. Successivamente, Ashton e Calum rimasero imperterriti sulla porta, mentre Amelia tornava di là e prendeva la sua valigia, quella che conteneva anche il kit di pronto soccorso che aveva gentilmente preso in prestito dalla macchina di Michael prima di fuggire a Nedlands.
«Cosa fate lì? Per medicarle le devo togliere i vestiti. Fuori» ordinò. Ashton sorrise in modo quasi irreale, in quella situazione piena di tensione e inquietudine. Prese Calum per un braccio e lo portò in salotto, infine, chiuse la porta della stanza.
Amelia sospirò e si legò i capelli in una coda. Ringraziava il fatto che la ragazza fosse ancora incosciente: disinfettare e medicare le ferite non era un’esperienza piacevole per nessuna delle due parti.
***
 
La mattina dopo, Nola si svegliò in una stanzetta accogliente, dalle pareti anonime. Indossava dei vestiti leggeri e comodi, che profumavano di pulito e non erano appiccicosi come quelli che aveva portato per giorni. Per un momento, ebbe il terrore che l’avessero catturata, poi cercò di calmarsi e le vennero in mente le immagini sfocate della notte prima: un ragazzo di cui non ricordava il volto, delle braccia forti, e poi il niente. Forse, era solo stata salvata.
La porta si aprì di scatto, inondando la stanza di luce, strinse gli occhi e vide una ragazza abbastanza alta, dai lunghi capelli neri. Il suo volto si accese di sorpresa e quando la vide, posò le bende che aveva tra le mani ai piedi del letto.
«Ehi, ti sei svegliata» disse Amelia.
Nola si appiattì contro la testiera, anche se non voleva farlo. Aveva solo paura.
«Non... non fare così. Come ti senti?» le chiese ancora lei, sorridendole in modo gentile.
«Mi fa male la gamba destra e il torace» rispose piano la bionda, abbassando lo sguardo. «E ho fame.»
«Ti porto subito qualcosa. Appena starai meglio, vorremmo parlarti» disse Amelia.
«A proposito di cosa?» chiese Nola.
«Ieri sera il mio amico Calum ti ha trovata per la strada e hai perso i sensi mentre ti accompagnava qui. Voleva portarti in ospedale, ma tu hai detto di no. Ho seguito un corso di pronto intervento alle superiori e per fortuna stai bene» rispose Amelia.
«Oh. Certo, va bene, parlerò con voi» replicò la ragazza. «Grazie.»
Amelia le sorrise e chiuse piano la porta. Nola la sentì parlare a bassa voce con qualcun altro, due ragazzi a giudicare dalle voci, nell’altra stanza. Si ributtò sul cuscino, pendendosene, perché le facevano male tutte le costole. Poco dopo, Amelia ritornò con un vassoio su cui c’era un bicchiere di latte, una merendina e una mela tagliata a pezzetti.
«È il meglio che sono riuscita a trovare. Calum non fa molta... spesa» disse, poggiandolo sul comodino.
«Va benissimo. Grazie» disse semplicemente Nola.
Spazzolò tutto in meno di cinque minuti, segno che doveva essere davvero affamata. Amelia se ne andò un’altra volta. Passarono le ore e Nola decise di alzarsi dal letto per aprire le tende, così che nella stanza potesse entrare un po’ di luce. Provò a riposare un po’, ma non riuscì a prendere sonno. Ad un certo punto, quando non sapeva più cosa fare, decise di uscire dalla stanza.
Aprì la porta silenziosamente, non avendo la minima idea di cosa o chi vi avrebbe trovato. Svoltò a destra e incappò in un salotto essenziale, poco ordinato, in cui vi erano tre persone. La ragazza di prima e due ragazzi che non conosceva. Fece un colpo di tosse e tutti si voltarono verso di lei.
«Nola, vieni pure.» Amelia la invitò a sedersi accanto a lei sul divano. La bionda si avvicinò tremante, i piedi nudi contro le mattonelle fredde. «Loro sono Ashton e Calum, lui ti ha portata qui ieri.»
Nola cercò di sorridere, ma non vi riuscì.
«Come ti senti?» iniziò Ashton, accovacciandosi a terra.
«Più o meno bene» rispose Nola.
«Puoi spiegarci cosa è successo?» chiese ancora Ashton.
Nola annuì e fece un respiro profondo. Non sapeva perché, ma quelle persone l’avevano salvata, così pensava di potersi fidare almeno di loro. «Scappavo da... alcune persone, incaricate di trovarmi. Loro non volevano uccidermi, dovevano solo prendermi e consegnarmi a qualcuno» disse, per iniziare.
«E il sangue? Se non volevano farti del male perché eri ferita?» s’intromise Calum, non era riuscito a contenere la curiosità.
«E quegli uomini erano sicari?» chiese ancora Ashton.
«Sì, lavorano per mio padre. Ed ero ferita perché ho opposto resistenza. Ero riuscita ad atterrarli, ma mi hanno regalato un taglio alla gamba, per questo non sono andata molto lontano e mi sono rifugiata nel vicolo in cui... in cui mi hai trovata» rispose Nola, alzando lo sguardo su Calum. «Loro volevano portarmi da... mio padre, ma io non voglio averci nulla a che fare. È un uomo cattivo, subdolo, e gli importa solo dei soldi. Vuole che lo appoggi nei suoi affari loschi, che diventi in qualche modo il suo secondo braccio destro.»
«Secondo?» chiese Amelia.
«Sì, l’altro è... è mio fratello. In realtà, è da lui che scappo, non da mio padre. Mio padre non mi farebbe mai del male, ma lui...» disse Nola.
«Aspetta, tuo padre vuole che tu lo affianchi e che collabori insieme a tuo fratello?» chiese Ashton.
«Sì. Più precisamente, è il mio fratellastro, e non credo sappia della mia esistenza. Non voglio che venga a saperlo: se scopre il grado di parentela che ci lega e il fatto che nostro padre vuole affidare ad entrambi tutto il suo patrimonio... se lo viene a sapere, non avrà esitazioni a farmi fuori. Per questo scappo.»
«Sembra gente importante e piena di soldi...» borbottò Calum.
Nola spostò lo sguardo su di lui e si rabbuiò. «In effetti, lo sono. La mia vita sarebbe più facile se mio padre non mi volesse con sé e se... se Luke Hemmings non fosse mio fratello.»
 


 
 
Marianne's corner:
Scusate il ritardo! Ho avuto da studiare tantissimo questa settimana e riesco ad aggiornare solo adesso che è sabato e sono appena tornata a casa. La situazione degenererà ulteriormente, quindi non vi assicuro molto sulla puntualità dei prossimi aggiornamenti, almeno fino al 15/20 Maggio, mi dispiace. Anywaaaay, passiamo alle cose interessanti. So che sono in ritardo, ma almeno mi sono fatta perdonare, vero? Ebbene, ecco la prima NEW ENTRY di questa nuova storia: Nola. Come avete letto, Nola è la sorellastra di Luke. Zaan zaan, Ovviamente, la cosa non si ferma qui, ci sarà qualche capitolo dedicato alla sua storia e al rapporto che i due avranno in futuro. Secondo voi Luke scoprirà che sono fratellastri o no? u.u Oh, e vi anticipo, in caso sabato non mi dovessi far vedere - e ho appena deciso che l'aggiornamento si sposta al sabato - che il prossimo capitolo sarà sul nostro Lucas. Are u happy?
E nulla, vi ringrazio di cuore per le recensioni allo scorso capitolo e in quelli precedenti, scusate se appaio un po' a flash, ma questo periodo a scuola è destabilizzante. D:
Bacioni e alla prossima settimana, almeno si spera!
Marianne

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Capitolo 7
*** Rabbia ***





7– RABBIA

 


 
 
La sigaretta consumata venne accartocciata contro il cristallo di un posacenere e si andò a sommare ad altre due cicche. Luke Hemmings era seduto sul suo letto, gli occhi fissi verso la finestra, con solo dei pantaloni addosso. Fumava perché non riusciva a prendere sonno. Era l’una di notte e la casa in cui alloggiava temporaneamente era immersa nel silenzio. Qualche ora prima sue spie disseminate per Sydney gli avevano riferito che Michael e Ashton erano tornati in città. I due traditori erano tornati nel suo territorio e Luke aveva già contattato il pilota a servizio suo e di suo padre, concordando che la mattina seguente sarebbero rientrati a Sydney. A Perth non era riuscito a scovarli e si chiedeva ancora dove potessero essere nascosti.
Era tentato di iniziare una quarta sigaretta, ma la suoneria del cellulare, accompagnata da una fastidiosa vibrazione, lo fece sobbalzare. Sul display, lampeggiava il nome di suo padre, allora si chiese cosa fosse successo di tanto grave da tenerlo sveglio a quell’ora e da spingerlo a chiamarlo.
«Pronto?» disse il ragazzo, rispondendo al telefono.
«Si può sapere dove cazzo sei?» domandò suo padre, a denti stretti. Era arrabbiato.
«A Perth. Domani mattina torno» disse Luke prontamente.
«Sei sparito per una settimana per inseguire due coglioni. Scommetto che non li hai nemmeno trovati» sputò l’uomo dall’altra parte del telefono. «Domani devo partire per Singapore per degli affari importanti, mi servi per una cosa qui a Sydney.»
«Sarebbe?» chiese Luke.
«Stiamo inseguendo una ragazza, ma ci è sfuggita più volte» disse il padre. «Ti spiego tutto quando torni, quindi muoviti, appena arrivi ti voglio nel mio ufficio.»
«Va bene. A domani» disse Luke, con voce piatta. Chiuse la telefonata e posò il cellulare sul comodino. Spense la luce e si buttò all’indietro sul letto. Si strofinò gli occhi con le mani e sospirò.
Odiava quando suo padre gli affibbiava dei compiti, ma almeno, così facendo avrebbe avuto l’occasione di pensare con più calma alla questione di Ashton e gli altri. Non c’era il desiderio di ucciderli e basta perché l’avevano già fatto finire al fresco una volta, Luke cercava vendetta: loro due l’avevano tradito e avevano messo un vile sentimento come l’amore di fronte al proprio lavoro. Lui gli aveva dato i soldi di cui avevano bisogno e gli aveva garantito sicurezza per anni, in cambio, chiedeva solamente obbedienza e fedeltà, e loro avevano brutalmente spezzato il patto. Certo era che li avrebbe rovinati, e assieme a loro, anche chi aveva corrotto la loro vita. Meritavano tutti di morire.
Tuttavia, per essere dolce, la vendetta doveva essere accuratamente studiata e premeditata; l’impulsività doveva essere domata e la strategia giusta era quella di tramare in silenzio, fargli credere e sperare nella salvezza, e alla fine, dare il colpo di grazia.
Il mattino dopo, però, quando varcò la soglia  dell’ufficio del padre, nella villa a Sydney, capì che non avrebbe mai avuto pace e tranquillità per pensare: i traditori e la vicenda di suo padre andavano di pari passo.
«Dimmi tutto» esordì Luke, si accomodò poi su una delle sedie di pelle e appoggiò i piedi sopra la scrivania, pur sapendo quanto quel gesto desse fastidio a suo padre.
«Ecco a te.» Lui gli porse il computer, sullo schermo c’era la foto di una ragazza bionda e dai luminosi occhi azzurri, il viso ovale e la bocca aggraziata e sottile.
«Si chiama Nola, usa un cognome falso: Wilson. La stiamo cercando da giorni, ieri sera Tristan e Carl l’avevano quasi presa, ma lei è scappata e loro due sono rientrati con le labbra spaccate e il naso sanguinante» gli disse suo padre.
«Perché la stiamo cercando?» chiese Luke.
«Questioni personali» rispose l’uomo. «Ti sarà dato saperle quando me la porterai qui.»
Luke sbuffò, non poteva sottrarsi agli ordini di suo padre.
«Dove l’hanno persa di vista?» chiese Luke.
«Nel quartiere dell’East Sherwood, hai presente?»
«Conosco bene quella zona, e ho già una mezza idea in testa» borbottò Luke, ritornò con la mente a quando il vecchio ragazzo di Amelia era arrivato a Sydney: aveva il sospetto che ci fosse rimasto. «Lascia fare a me.»
Luke si tolse il computer dalle ginocchia e la rimise al suo posto, sulla scrivania. Poi si alzò in piedi e sorrise soddisfatto.
«Vai pure a Singapore, papà, al tuo ritorno lei sarà qui, proprio come desideri, e io sarò lieto di ascoltare le tue... questioni personali» disse ancora. Uscì dall’ufficio a grandi passi, e una volta in corridoio, chiamò i suoi subordinati più fidati, gli unici che erano a conoscenza della sua vera identità-
«Vediamoci all’East Sherwood tra mezz’ora. Abbiamo un lavoretto da fare.»
Non attese nemmeno una risposta dall’altra parte, si mise subito il telefono nella tasca della giacca. Avrebbe trovato Nola Wilson – ammesso che quello fosse il suo vero nome – e allo stesso tempo avrebbe avuto l’occasione di tenere sotto controllo i suoi nemici.
Tornare a Sydney non era mai stato così bello.
***

«Cazzo, Sean, sei un idiota!»
Julia aveva una voce davvero troppo acuta, osservò Luke, ma doveva ammettere che non gli era mai dispiaciuto ascoltarla di notte, nell’oscurità della sua grande stanza, quando si sentiva particolarmente triste o annoiato.
«Sei tu che non controlli mai la carica della pistola e non ti porti le munizioni» borbottò Sean, appiattendosi contro il muro.
«Ti avevo chiesto di portarmi i proiettili» ribatté Julia.
«Non sono il tuo schiavo» esclamò Sean.
«Per la miseria, ce la fate a stare zitti per due minuti?» brontolò Luke, il cappuccio tirato su e le mani in tasca.
«Scusa, Luke, ma perché hai portato proprio Sean con noi?» Sentì il respiro di lei sul collo e storse il naso: non in quel momento. «Ad esempio, secondo me George ci sarebbe stato più utile.»
«Solo perché te lo sbatti non significa che sarebbe stato più utile» disse Sean a bassa voce.
«Non sono affari tuoi!» lo riprese Julia.
«Se ci venivo da solo era meglio» sbuffò Luke. «Potrete allentare la vostra tensione sessuale più tardi, adesso dobbiamo aspettare che esca, la prendiamo e torniamo alla villa.»
«Sei davvero sicuro che sia lì?» chiese Sean.
«Al cento per cento.»
«E se è davvero con Ashton e Michael, credi che la faranno uscire da sola così facilmente? Ti hanno voltato le spalle, ma non sono stupidi» osservò Julia.
«Allora, sarà solo una questione di fortuna, io non torno a casa a mani vuote» rispose Luke. Non voleva deludere suo padre, che sarebbe stato via tre giorni. Al suo ritorno, Nola doveva essere alla villa.
Julia gli si avvicinò, sfiorandogli l’orecchio con le labbra. «Ricorda di non perdere la pazienza, Lukey...» mormorò. «Oppure non avrai la tua vendetta.»
Luke serrò le labbra in una smorfia e si allontanò in modo brusco. Tutta la sua cerchia ristretta – formata appunto da Julia, Sean e George – sapeva della rabbia che nutriva nei confronti di quelle quattro persone in particolare. Julia glielo aveva detto un’ennesima volta: non perdere la pazienza. Se avesse visto qualcuno di loro uscire per la strada, non avrebbe dovuto scattare ed attaccare, altrimenti era sicuro che non ne avrebbe ricavato alcuna soddisfazione.
«So controllare bene i miei impulsi» le assicurò lui, con un sorrisetto.»
«Mica tutti.» Julia rise divertita, guardandolo negli occhi. Si morse le labbra.
«Hai seriamente bisogno di scopare, te lo dico da amico.»
«Anche tu, le due settimane di prigione e tutto questo stress non ti hanno fatto bene.»
«C’è davvero qualcosa tra te e George?»
«Perché, sei geloso?»
«No, ma non rubo le ragazze agli amici, va contro i miei principi.»
Julia gli sfiorò il viso con una mano. «Quanta nobiltà si cela dietro i tuoi occhi gelidi, Luke?»
Lui non le rispose mai, perché fu interrotto da Sean che si era alzato di scatto in piedi e aveva esclamato: «Ragazzi, sta uscendo qualcuno. Presto! Venite a vedere!»
Julia e Luke si voltarono contemporaneamente verso la strada e corsero fino ad appostarsi dietro l’angolo, al fianco di Sean.
Il portone si aprì, rivelando la figura di Ashton. Intanto, al marciapiede si era accostata un’automobile nera e abbastanza anonima, alla guida c’era Valerie. I due si salutarono, entrambi sorrisero. Poi, Valeri aprì il portabagagli della macchina e Ashton l’aiutò a tirar fuori una scatola abbastanza pesante, la posò accanto al portone e si riavvicinò alla ragazza.
Luke strinse i pugni e poi portò la mano destra alla cintura del pantaloni: la sua pistola era lì, quando tempo ci sarebbe voluto per tirarla fuori, sparare due colpi e completare metà della sua vendetta?
«Io li ammazzo» grugnì. E lo avrebbe fatto davvero se Julia e Sean non lo avessero costretto prontamente contro il muro.
«Calmati, Luke, il piano non è questo, non sono loro l’obiettivo» gli disse Sean, continuando a tenerlo con la schiena ben aderita al muro. «È la ragazza bionda, chiaro?»
«Levatevi di mezzo, nessuno mi vieta di sparargli» continuò a dimenarsi, ma non vi riuscì: Sean lo teneva ben fermo e Julia era più forte di quanto si potesse immaginare.
«Sean ha ragione» disse lei. «Dobbiamo prendere la ragazza, non uccidere loro.»
«Io li voglio morti» continuò Luke.
«E li avrai, okay? Solo che non è questo il giorno, avrai tempo per pensare al modo migliore per vendicarti. Adesso dobbiamo prendere quella ragazzina!» esclamò Sean.
Luke abbassò la testa e sospirò, Sean allentò la presa e lui si divincolò senza troppi problemi. Cercò di scappare, di raggiungere Ashton e Valerie, ma nemmeno un secondo dopo si sentì prendere per la spalle. Julia correva verso di lui,
«Scusa Luke» sospirò lei, con il pugno stretto. Sentì un dolore acutissimo alla mascella e poi diventò tutto nero.
Quando si svegliò, erano di nuovo tutti e tre nella villa, non avevano preso la ragazza ed era tardo pomeriggio. Luke non ci vide più dalla rabbia: cacciò via Julia e Sean, chiedendo espressamente di rimanere da solo. Quando i due si chiusero la porta alla stanza, Luke cominciò a dare calci ai mobili, a battere pugni sulle pareti e a gridare come fosse pazzo.
Era la furia che nasceva dentro di lui e veniva finalmente esternata. Era la rabbia incontenibile di Luke Hemmings che, per un attimo, gli fece valutare l’idea di uscire, tornare a casa di Calum e irrompere nell’appartamento con un M240 e fare tutti fuori, eppure, c’era qualcosa che glielo impediva, a livello sia fisico che psicologico.
Prima di tutto, si sentiva incredibilmente stanco. Gli dolevano i muscoli delle gambe e delle braccia, gli faceva male la schiena; in secondo luogo, cercò di tornare con la mente lucida per un attimo e ricordò quello che si era detto il giorno prima a Perth: doveva pianificare in silenzio e agire quando meno se lo fossero aspettato, doveva concentrarsi sui suoi obiettivi prossimi e tracciare le linee generali della sua grande vendetta.
Non era stupido, e se voleva essere invincibile doveva imparare a domare l’ira. A costo di vedere i suoi piani realizzarsi, Luke era pronto a fare di tutto, e avrebbe cominciato cercando in qualsiasi modo di portare Nola Wilson a suo padre.

 
 
Marianne's corner:
Se vi dicessi che ho studiato storia fino a sabato scorso e che poi ho studiato scienze per l'interrogazione di oggi e che il primo buco libero che ho è oggi in questo momento voi mi uccidereste lo stesso per il ritardo? Spero di no, quindi ho la faccia tosta di presentarmi dopo dieci (o undici?) giorni dall'ultim capitolo u.u
Questo è il primo dei capitoli su Luke, ce ne saranno altri più avanti. So che è corto, so che è passato tanto tempo, ma non sono riuscita a fare di meglio. Quindi chiedo perdono. Sean e Julia sono comparse, non molto importanti nella storia. Vi basti sapere che li incontreremo più avanti, ma solo perché loro, insieme all'altro tipo di nome George, sono gli unici a conoscenza dell'identità di Luke, ergo gli unici di cui si fida, diciamo.
E nulla, spero vi sia piaciuto nonostante sia breve, spero non ce l'abbiate troppo con me ahahahah e spero non mi abbiate abbandonato! Vi dico solo che a scuola abbiamo fatto il punto della situazione in fatti di compiti e interrogazioni e siamo talmente pieni che siamo stati costretti a mettere un compito il QUATTRO GIUGNO, siamo abbastanza disperati.
Adesso scappo, GIURO che più tardi  verso l'ora di cena rispondo a tutte le recensioni dello scorso capitolo.
Bacioni,
Marianne

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Capitolo 8
*** Resisti ***





8– RESISTI

 

Quando Ashton non c’era e Nola dormiva, l’appartamento di Calum cominciava a diventare troppo piccolo e troppo silenzioso. Amelia non voleva uscire di casa, non lo faceva da giorni, così si teneva impegnata in ordinari lavori domestici, come pulire la cucina e il pavimento, rifare i letti, lavare i vetri, mettere in ordine, passare l’aspirapolvere ogni volta che vedeva qualche impurità a terra. Si stancava anche se non avrebbe dovuto farlo. Aveva fissato un appuntamento con una dottoressa privata a Sydney e, nonostante tutto, sapeva che l’affaticamento e lo stress non facevano bene né a lei, né al bambino. Eppure, non riusciva semplicemente a sedersi e guardare la televisione, o leggere un libro. Non riusciva nemmeno ad intavolare una conversazione con Calum da quando avevano litigato, la sera prima del ritrovamento di Nola.
Ad Amelia sarebbe piaciuto poter parlare con lei, ma la ragazza era schiva, taciturna e passava le giornate chiusa in camera, ad evitare tutti e a non cercare nessuno. Era spaventata, questo l’avrebbe capito chiunque. Forse, Nola pensava che anche loro fossero cattivi, pur essendolo in maniera minore di suo fratello, ed era per quel motivo che Amelia avrebbe voluto scambiare due parole con lei, rassicurarla, magari, sul fatto che avevano un nemico in comune e che non doveva aver affatto paura di loro.
D’altra parte, Calum non si preoccupava mai troppo di rivolgerle la parola: la credeva ancora una sciocca. Quanto tempo sarebbe passato prima che si rendesse conto dell’errore che stava commettendo? Lui ci aveva provato, gliel’aveva detto che se avesse deciso di tenere il bambino solo uno dei due sarebbe sopravvissuto, le aveva anche detto che era stupido essere disposti a morire, era stupido pensare che tutti gli altri avrebbero accettato la sua morte in cambio di una giovane vita. Amelia non l’aveva ascoltato.
Si conoscevano entrambi abbastanza bene da sapere che un loro grande difetto era sempre stato l’orgoglio, che nessuno dei due avrebbe mai fatto il primo passo, nessuno avrebbe chiesto scusa per primo, semplicemente perché credevano di essere nel giusto. Ogni volta che litigavano non c’era mai una parte sbagliata, non c’era mai qualcuno ad essere in torto. Avevano entrambi ragione in egual misura, ma con significati diversi. Calum non voleva perdere Amelia e la sua amicizia, non dopo tutto quello che li aveva messi a dura prova, non voleva lasciarla andare in un momento così importante perché si rendeva conto, anche se solo parzialmente, di tutto quello che doveva star passando: non poteva essere facile vivere in un mondo del genere e non crollare almeno una volta al giorno. Da una parte, le diede ragione. Amelia era forte, questo non poteva metterlo in dubbio, ma non lo era abbastanza da contrastare Luke Hemmings.
Erano le sette di sera, Calum era tornato a casa da mezz’ora e, con grande sorpresa, aveva visto Amelia seduta su una poltrona, le mani sul ventre, osservava la finestra con lo sguardo perso. Non aveva voluto disturbarla, perciò, facendo il minimo rumore, si era tolto la giacca e l’aveva sistemata sull’appendiabiti, poi aveva cercato di andare in camera sua – che ormai era diventata camera di Nola. Il tutto, fu molto controproducente.
«Calum?» lo richiamò subito Amelia, accortasi della sua presenza anche senza averlo visto davvero. L’aveva sentito entrare, e ciò bastava.
«Sì?» disse lui in risposta, ancora in piedi in mezzo al corridoio, con le mani in tasca, mentre cercava di scappare e mettere a tacere ogni singola, fastidiosa voce nella sua testa.
«Posso parlarti?» chiese la ragazza, alzando lo sguardo su di lui. Calum si ritrovò ad annuire non appena i suoi occhi incontrarono quelli di Amelia. Lentamente, si avvicinò al divano e si mise seduto accanto a lei.
«Dimmi» mormorò, con la voce che gli tremava. All’improvviso, non sapeva di cosa avesse paura. Amelia non sembrava essere arrabbiata, sembrava solo tanto triste e spenta, consumata dall’interno, da tanti aggravanti che, sommandosi, non le avevano reso le cose facili. Si rese conto di essere proprio uno di quelli, ma cercò di non pensarci.
«Mi dispiace aver discusso con te, l’altro giorno» iniziò Amelia. «Non volevo la prendessi così.»
«C’erano altri modi in cui avrei potuto reagire?» ribatté prontamente Calum, facendo emergere l’ovvio. Non aveva mai pensato ad una reazione positiva anche in minima parte, non riusciva ad immaginarsi contento per lei. Non riusciva a capire come lei lo fosse, non capiva perché ad Ashton andasse bene, o perché Michael o Valerie non fossero minimamente preoccupati. A volte, gli sembrava che considerassero tutto quello un gioco.
«Sì» rispose lei. «C’erano un’infinità di altri modi.»
«Ad esempio?»
«Avresti potuto dirmi che eri contento. O forse solo dirmi che era una bella cosa, o augurarmi buona fortuna. Avresti potuto avvertirmi e farmi presente che sarebbe stato difficile. L’avrei apprezzato comunque. Tutto, avresti potuto dire qualsiasi cosa, e invece hai scelto di... di prendertela con lui, che in tutto questo non c’entra niente.»
«Non me la sono presa con il bambino, Amelia» precisò Calum. «Non me la sono presa con nessuno. È solo strano, okay? È strano che tu sia incinta, che tu lo sia adesso e in questa situazione. Sarà perché l’ultima volta che ho anche minimamente pensato che tu potessi avere un figlio sarebbe stato a Nedlands e con me.»
Amelia si morse le labbra e sospirò. Capiva il risentimento di Calum e sarebbe stata disposta a chiedergli dieci, cento, mille volte scusa. Si sarebbe scusata all’infinito, perché sapeva di aver sbagliato tutto con lui: dal nascondergli quello che era diventata la sua vita all’innamorarsi di qualcun altro mentre era convinta di poterlo amare ancora una volta.
«Sei ancora innamorato di me?» chiese. Fu semplice e diretta, ma non riuscì a guardarlo negli occhi in nessun modo.
«No, non più» rispose Calum, senza nemmeno pensarci sopra. «Quando sono andato a Perth, dopo aver scoperto che stavi con Ashton, lo ero ancora. Pensavo che la nuova città mi avrebbe aiutato, ma adesso sono sicuro di non amarti più.»
«Mi dispiace» disse Amelia.
«E di cosa?»
«Di essere qui, di essere incinta, di averti portato tutti i miei problemi.»
«Sai che non mi va molto a genio la seconda cosa» iniziò Calum. «Ma, cazzo, non potete permettergli di portarvi via tutto. Tu ami Ashton, lo so, vi vedo. Sai, quando entra nella stanza guardi solo lui, anche se fai qualcos’altro, i tuoi occhi lo cercano sempre. Forse tu non te ne accorgi, ma da osservatore esterno, posso dire che anche lui non riesce a non guardarti.»
La ragazza rimase in silenzio per un po’, rimase a riflettere. Poteva sospirare di sollievo, adesso era molto più tranquilla. Non avrebbe sopportato anche che uno dei suoi amici le andasse contro, sarebbe stato troppo per tutti. Perfino per lei. Allora gli prese la mano e gliela strinse.
«Grazie, Cal.»
Calum abbozzò un sorriso e le accarezzò il dorso della mano con il pollice. «È questo che fanno gli amici, no?»
Amelia annuì. «Sì» mormorò. «Suppongo di sì.»
«Vedrai, andrà tutto bene.»
«Vado a... chiedo a Nola se sta bene e se ha bisogno di qualcosa» disse Amelia, ma Calum la trattenne.
«Può uscire e dircelo, se c’è qualcosa che non va» disse lui, stringendole la mano. «Per favore, rimani ancora un po’.»
Non si alzarono dal divano e non si lasciarono andare fino al ritorno di Ashton.
***

Quando Michael era tornato a casa, fuori era buio e persino il pavimento sembrava comodo. Erano a Sydney da pochissimo, nemmeno una settimana, e tutto era già diventato di nuovo stressante e difficile. Prima di partire, riusciva benissimo a stare tutta la notte in piedi in giro per la città insieme ad Ashton, a svolgere le varie missioni che gli venivano affidate, ma il mese passato a Nedlands aveva cambiato le sue abitudini: adesso si sentiva sempre stanco, non voleva uscire di casa, voleva solo una vita normale.
C’erano momenti in cui la parte peggiore di sé – l’egoismo – saltava fuori e gli faceva venir voglia di fare le valige, prendere Valerie e andarsene per sempre. Andarsene da Sydney, dall’Australia; di ricominciare dall’altra parte del mondo, i soldi non importavano. Avrebbero fatto sacrifici, tenuto duro per un po’, ma avrebbero avuto la libertà e la pace di una vita ordinaria.
C’erano momenti in cui guardava Valerie e si chiedeva se anche lei volesse lo stesso. Poi, però, pensava che lasciare lì i loro amici sarebbe stata una cosa crudele: loro non gliel’avrebbero perdonato, e nemmeno lui l’avrebbe fatto. Sapeva che, facendo una cosa simile, avrebbe vissuto con i rimorsi per sempre, e mai gli incubi lo avrebbero abbandonato.
L’appartamento era immerso nel buio. Era modesta, come abitazione, e gli ricordava tantissime cose: era casa sua e di Ashton anni prima, quando doveva finire il liceo, quando era innamorato di Valerie, ma aveva dovuto mentirle e ferirla per proteggerla. Era il posto in cui tornava senza un briciolo di lucidità, dopo le notti in cui sperava di poter trovare riparo dal dolore negli alcolici, dove spillava sigarette ad Ashton e dove avrebbe fatto tutto pur di non dormire e permettere ai ricordi di spaventarlo. Adesso era diverso, quel piccolo appartamento in periferia era diventato una soluzione quasi miracolosa, dal momento che troppe persone non potevano stare a casa di Calum. Inoltre, loro due lo conoscevano a malapena e Valerie gli aveva più volte ripetuto che sarebbe stato molto imbarazzante, e Michael aveva trovato curioso come, anche in situazioni critiche come quella, lei non avesse rinunciato alla dignità.
Chiuse la porta d’ingresso senza fare il benché minimo rumore. Conosceva la casa così bene che sapeva orientarsi alla perfezione anche al buio: si tolse la giacca dopo aver fatto circa tre passi e poi la buttò verso destra, sentendola atterrare sul divano, poi percorse il corridoio e la sua mano trovò facilmente il pomello della porta, per poi aprirla. Anche la camera da letto sarebbe stata completamente buia, se non fosse stato per la leggera luce dei lampioni che proveniva dalla strada ed entrava dalla finestra che Valerie aveva dimenticato di chiudere.
Riusciva a vedere la sua sagoma esile nel letto, con le coperte tirate su fino al collo perché faceva freddo. Posò il telefono sul comodino, senza vedere che ore fossero. Si tolse velocemente il maglione e i pantaloni, e s’infilò nel letto accanto alla ragazza.
Sentiva il suo respiro regolare e capì che stava dormendo. Non voleva svegliarla: sapeva che Valerie non aveva motivo di temere i suoi sogni, tantomeno i suoi incubi. Se poteva riposarsi senza svegliarsi in preda al panico, era meglio che lo facesse. Si limitò solamente a circondarle la vita con il braccio e a sentire il suo corpo caldo aderire pian piano al suo, riscaldarlo, tranquillizzarlo.
I respiri profondi si interruppero.
«Mike?»
«Mh?»
«Che ore sono?»
«Tardi, ma adesso dormiamo.»
Valerie si rigirò nel letto e cercò di distinguere la sagoma del viso di lui, aiutandosi con le dita. Gli sfiorò delicatamente prima la fronte, poi le tempie, gli zigomi, il mento e infine, con il pollice gli toccò le labbra. Teneva gli occhi aperti e riusciva a vedere quelli chiari di Michael brillare perfino nell’oscurità, anche lui la stava guardando e avrebbe voluto dirle tantissime cose, tuttavia, era come se rimanessero a metà strada tra il cuore e la voce, come se non venissero mai a galla del tutto.
Michael le spostò i capelli all’indietro e le avvicinò il volto al suo. La baciò. La baciò piano e senza far rumore, in modo dolce, quasi come fosse triste; lentamente, cercando di non pensare ad altro e cercando di annullarsi del tutto.
Quanto avrebbe desiderato non esistere, oppure avere un’altra vita, o l’opportunità di ricominciare da capo. Non avrebbe mai fatto tutte le scelte sbagliate, avrebbe continuato ad amare Valerie e lei non avrebbe mai sofferto. Sarebbero stati una coppia normale, sarebbero stati felici, e in quel momento, invece di scambiarsi un bacio che faceva quasi male al cuore – perché ogni bacio poteva essere l’ultimo – avrebbero potuto star facendo l’amore, sorridendo.
«Dove sei stato?» soffiò piano Valerie, quando si separarono.
«Con Ash, noi... cercavamo di capire qualcosa» rispose Michael.
«Su Luke?» chiese lei.
«Sì» disse ancora Michael. «Ma posso spiegartelo domani mattina, adesso voglio solo chiudere gli occhi e dormire.»
Valerie sorrise, ma così piano e così poco che nemmeno la poca luce presente nella stanza poteva far sì che Michael la vedesse. Gli si strinse ancor di più, lo abbracciò come meglio poteva e stette ben attenta che tra i loro corpi non vi fosse alcuno spazio vuoto. Si sentì al sicuro quando sentì la mano sinistra di Michael sulla schiena e quella destra intrecciata alla sua, proprio vicino ai loro visi, le cui fronti si toccavano dolcemente tra di loro.
«Buonanotte, amore» mormorò, ma Michael già dormiva.
Si trovava in un sonno profondo e ancora sprovvisto di sogni veri e propri, un’unica grande distesa nera, una falla nella memoria di una notte. Forse, una delle tante notti in cui era abbastanza fortunato da non sognare nulla.



 
Marianne's corner:
Dovevo aggiornare l'altro ieri. Lo so. E dovevo anche rispondere alle recensioni  del capitolo sei. So anche questo. E non ho fatto nessuna delle due cose, avete dunque tutto il diritto di odiarmi.
MA, come diceva il buon vecchio Pascal, viviamo nella memoria del passato e in attesa del futuro, senza pensare mai al presente. Quindi pensiamoci, a questo presente, e pensiamo che finalmente ho aggiornato. (Non si vede che sto studiando filosofia come una matta, pff. Che Zeus mi aiuti).
Non ci posso far nulla, davvero, mi avete beccata nel periodo peggiore di tutta la mia esistenza scolastica, ma mi sono rovinata con le mie stesse mani quando, in terza media, da ingenua bambina qual ero, dissi che volevo fare il classico *torna indietro nel tempo e si prende a pesci in faccia*
Evito di essere ancora più demente e passo al capitolo. ALLOOOOORA. Come potete notare, i nostri Camelia (?) fanno pace! *w* Sono così contenta per loro, sono così contenta che Cal abbia capito di non amarla più e sono così contenta di tutto! Mi sta piacendo troppo anche il rapporto tra Mike e Val, e lo so, sembro stupida a dire che mi piacciono le dinamiche della mia stessa storia, ma non è egocentrismo, lo giuro! - okay, forse un pochino - è solo che ashjgfjh, sono belli.
Ora, l'azi0ne come l'abbiamo vista negli scorsi capitoli (con pistole e tutto il resto) non ci sarà nel prossimo capitolo, questo perché il capitolo nove (oh mamma) sarà dedicato prima a Nola e poi ai nostri Ashelia! 
Bene, adesso GIURO che rispondo alle recensioni dello scorso capitolo e vi ringrazio se ancora seguite una povera pazza ritardataria come me. ♥
Baci,
Marianne

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Capitolo 9
*** Small bump ***





9 – SMALL BUMP

 

«Lascia le finestre aperte fino alle undici, se non torniamo prima dell’una, in frigo c’è della carne da riscaldare per te e Nola. Se uscite, chiudi tutte le persiane e gira almeno due volte la serratura. E poi―»
«Amelia, calmati.»
Ashton, seduto sul bracciolo destro del divano, sbuffò per l’ennesima volta. Amelia camminava avanti e indietro per il salotto, andando prima in cucina e poi tornando in indietro, con la borsa sotto braccio e l’ansia alle stelle.
«Come faccio a stare calma?» strillò. «Sto uscendo dopo... settimane! Potrebbero ammazzarmi.»
«Nessuno ti ammazzerà, va bene?» Ashton si alzò in piedi e la raggiunse. «Ci sono io con te.»
Amelia sospirò e abbassò lo sguardo a terra. «Lo so, ma...»
«Ma niente» intervenne Calum. «Stai andando a fare un’ecografia, quello nervoso dovrebbe essere lui, non tu.»
La piccola battuta causò l’ilarità generale per un paio di secondi, spezzò il nervosismo e la tensione che si erano creati.
«Va bene, però promettimi che farai quello che ti ho detto» disse lei. Calum annuì.
«Adesso andiamo, altrimenti arriviamo tardi» disse Ashton.
Amelia gli strinse la mano e poi, insieme, si avviarono giù per l’ingresso e varcarono la porta, chiudendosela alle spalle.
Rimasto solo – o quasi, ma Nola non usciva mai dalla stanza, e ormai era passato quasi un mese da quando l’avevano salvata – Calum si ritrovò ad accendere il computer e si mise a fare quello che di solito faceva quando era nervoso o particolarmente annoiato: si mise a lavorare.
Aveva due articoli da scrivere per il settimanale in cui lavorava, e negli ultimi tempo era stato sempre più difficile, tant’è che per portare a termine tutti gli incarichi aveva spesso fatto le ore piccole.
Dopo mezz’ora, però, la pagina di fronte a  lui era ancora quasi completamente bianca. Aveva scritto sì e no quattro righe e non lo convincevano nemmeno poi così tanto: cancellò tutto e sospirò.
Un momento dopo, la sua attenzione fu attirata da un rumore proveniente dalla sua stanza: la porta si era leggermente aperta, con uno scricchiolio, e presto Calum aveva scorto l’esile figura di Nola. Tempo prima, Ashton era andato a comprarle del vestiti, sotto consiglio di Amelia, e adesso, la magliettina nera che indossava si era appena sollevata e le lasciava scoperto un lembo di pelle candida all’altezza del fianchi; aveva i capelli biondi spettinati e gli occhi grandi e sempre spalancati, come se dopo tutto quel tempo, avesse ancora paura.
«Hey» mormorò Calum. «Hai bisogno di qualcosa?»
«Parlare» disse piano Nola. Calum assunse un’espressione confusa.
«Parlare?» le chiese di rimando.
«Sì, volevo dirti grazie.» disse ancora la bionda, passandosi delicatamente la mano sul braccio. Teneva lo sguardo fisso a terra
«E per cosa?»
«Volevo ringraziarti per avermi permesso di restare. Non avrei mai potuto tornare a... casa. Quindi grazie.»
Calum sorrise e avanzò piano verso di lei, in modo cauto. Nola sembrava completamente indifesa e Cal aveva quasi paura di farla scappare via, di lasciarla sfuggire un’altra volta. Eppure, nonostante tutto questo, Nola gli sembrava una persona infinitamente forte, con tanti misteri da custodire e nessun mezzo per lasciarli andare e liberarsi, anche solo per un attimo, di quel peso che le gravava sulle spalle.
«Non c’è di che. Non devi ringraziarmi per questo» disse Calum. «L’avrebbe fatto chiunque.»
«Non chiunque» disse piano Nola. «Lì fuori ci sono molte persone menefreghiste... Calum, vero? – il ragazzo annuì – ecco, sono davvero pochi quelli come te e i tuoi amici.»
«Io ho... sempre conosciuto persone buone» disse Calum.
«Allora sei una persona fortunata» ribatté Nola.
«Ti va... di parlarne?»
«Se hai del tempo da perdere, sì.»
«Non credo che parlare con te sarà mai tempo perso.»
Nola sorrise, spostandosi una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio.
 
2004, Sydney, Australia.
Il pavimento non veniva lavato da giorni, nell’appartamento c’era odore di chiuso e puzza di fumo. Era la mattina di un qualunque giovedì, Nola si era alzata e aveva riempito lo zainetto colorato di penne e quaderni, poi era andata in cucina e vi aveva trovato la madre, che un momento dopo le mise la colazione in tavola. Nola aveva sempre pensato che la sua fosse la mamma migliore di tutte: era la più giovane, la più carina e sorrideva tanto, anche se da giorni di comportava in modo strano. A volte non tornava a casa, soprattutto di sera, ma Nola sapeva che stava lavorando e non gliene aveva mai fatto una colpa.
Quel giovedì, però, fu diverso da tutti gli altri. Dopo la scuola, l’autobus l’aveva lasciata vicino casa e lei già immaginava di trovare la sua mamma pronta a chiederle come fosse andata quella giornata, ma quando suonò il campanello, nessuno venne ad aprirle, aspettò un’ora, poi decise di chiedere ai vicini se poteva stare un po’ da loro, almeno finché sua madre non fosse tornata. Le aprì il vecchio signor Peel, che aveva sempre avuto Nola in simpatia. Dopo un po’, il figlio del signor Peel, un certo Stefan, che aveva circa trent’anni, le disse di provare a chiamare sua madre e le diede il suo telefono. Dopo aver composto il numero, Nola sentì chiaramente il telefono di usa madre squillare dall’altra parte del muro.
Alla fine, uscirono tutti sul pianerottolo e Stefan provò a forzare la serratura, che non era mai stata chiusa davvero, ed aprì la porta con molta facilità.
«Mamma! Mamma!» esclamò Nola. La chiamava e lei non rispondeva. Andò a cercarla e la trovò sdraiata sul letto, come se fosse addormentata. Le si avvicinò e la scosse per svegliarla. Si accorse del giovane signor Peel un secondo dopo essersi resa conto della siringa attaccata al braccio di sua madre.
«Tieni, Nola» Le diede di nuovo il telefono. «Chiama il pronto soccorso.»
«Cos’ha la mamma?» domandò, sull’orlo delle lacrime.
Lui deglutì. «Nulla, ma ci vuole un dottore. Vai di là e chiama l’ambulanza.»
La bambina fece come le era stato detto, mentre Stefan toglieva con cautela la siringa e prendeva la donna tra le braccia. Mentre comunicava ad uno sconosciuto l’indirizzo a cui si trovava, Nola non sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe visto sua madre.
                                      
2012, Sydney, Australia.
Era la terza famiglia che Nola cambiava in sette anni. La prima era quella con cui era stata più a lungo, ve l’avevano affidata a otto anni e c’era rimasta fino ai tredici, poi l’avevano di nuovo trasferita in una seconda famiglia in cui era rimasta per sette mesi: lei non sopportava loro e loro avevano troppi figli per sopportare lei. Così aveva nuovamente cambiato e credeva d’aver finalmente trovato la famiglia perfetta. Stava con loro ormai da due anni e si trovava benissimo: nessuno le faceva mai mancare nulla, si interessavano di quello che le piaceva fare e la trattavano come fosse veramente figlia loro. Per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva amava, sentiva che qualcuno le voleva bene. C’erano alcune volte in cui credeva di essere un peso, ma Patrick e Jonathan le ripetevano sempre di non pensarlo. Erano i genitori migliori che Nola potesse desiderare ed erano decisamente molto meglio della prima famiglia in cui era stata, dove nessuno si prendeva cura di lei; sicuramente migliori della seconda, dove tutti si maltrattavano a vicenda e non c’era mai spazio per nessuno.
Dopotutto, due padri erano meglio che nessuno da tornare dopo la scuola, a cui raccontare ogni singola sciocchezza. Nola li amava e loro amavano lei.
 
«A diciotto anni me ne sono andata. Wilson è il cognome di mia madre e ho deciso di prenderlo quando mi hanno detto che era morta... avevo quattordici anni e mi stavano trasferendo di nuovo, in quell’occasione ho veramente capito chi fosse mia madre, una drogata. Ho scoperto di essere la figlia di Andrew Hemmings a diciassette anni: a scuola ci avevano dato un compito, dovevamo ricostruire l’albero genealogico della nostra famiglia, e tutti sapevano che ero stata data in affido svariate volte. Allora, una volta, andando a trovare mia madre, ho scoperto che un tizio veniva regolarmente a portare fiori alla sua tomba. Una volta l’ho fermato ed è andato via, la seconda volte mi ha detto il suo nome, la terza volte che aveva una figlia della mia età, più o meno, ma che non l’aveva mai conosciuta, la quarta volta mi ha detto che sapeva una sola cosa su di lei, il suo nome. Nola.»
«E poi?»
«E poi ha scoperto chi ero.»
 
***
 
Amelia tamburellava le dita sulla plastica della sedia da cinque minuti buoni. Nella sala d’attesa della ginecologa c’era uno strano profumo, l’aria era calda, le pareti erano dipinte di un verde chiaro rilassante e c’erano diverse riviste a portata di mano. Nonostante tutto, Amelia non riusciva a calmarsi: sapeva di non essere stata esattamente a riposo, ma non poteva farci nulla, sperava solo di non avere problemi.
«Amy» iniziò Ashton, seduto sulla sedia accanto a le. «C’è qualcosa che non va?»
Amelia scosse la testa, tenendo lo sguardo ben fermo sul pavimento di fronte a lei, con la mente persa in una risposta che non riusciva a dare pienamente.
«No, è solo che... ho paura Nelle ultime settimi mane siamo fuggiti da Nedlands e ci siamo sistemati alla bell’e meglio a casa di Calum, tu uscivi con Michael e io avevo ansia e... non sta andando serenamente come deve andare» gli spiegò lei.
Ashton non fece in tempo a replicare che la giovane segretaria li chiamò e li invitò ad accomodarsi nell’ufficio della dottoressa con un sorriso che avrebbe dovuto essere, almeno in origine, rassicurante, ma che di rassicurante aveva poco e niente. Amelia non smise si stringergli la mano nemmeno per un secondo.
«Signorina Hogan?» esordì la dottoressa, da dietro la scrivania.
«Sì, buongiorno.» Amelia le tese la mano e lei gliela strinse, sorridendole affabilmente.
«Io sono la dottoressa Bell, piacere» disse, poi si rivolse ad Ashton. «Lei deve essere il futuro padre del bambino.»
«Sì, Ashton Irwin, piacere» disse piano lui, mantenendosi piuttosto distaccato nei suoi confronti: odiava dare alle persone il suo nome e il suo cognome, ma in quell’occasione di permise di farlo, dicendosi che non avrebbe potuto nuocergli in nessun modo.
«Benissimo, Amelia, puoi accomodarti sul lettino.»
La ragazza annuì e si sistemò, sdraiandosi. Cominciò a respirare lentamente e giocherellò con i lembi del maglioncino rosso che indossava. La visita non fu molto diversa da quella che aveva fatto a Nedlands, solo che durò molto di più e dopo un po’ non avvertì nemmeno il gel freddo sulla pelle.
Tutti i suoi pensieri erano rivolti di nuovo allo schermo e a quello che vi era riprodotto sopra. Adesso quella macchiolina che un mese prima l’aveva quasi fatta piangere dall’emozione era diventata più grande. Si doveva allenare l’occhio per capirlo, ma la dottoressa l’aiutò, indicandole gli occhi, il cuore, i piccoli arti in formazione del bambino. Era passato così poco tempo... aveva solo due mesi ed era già così grande.
L’unico momento in cui distolse gli occhi dallo schermo, fu per incrociare quelli di Ashton. Indescrivibili. Amelia non riuscì a capire la metà delle cose che quegli occhi ambrati riflettevano, ma le andava bene così, perché in quel momento Ashton provava così tante cose diverse che sarebbe stata un’impresa titanica provare ad estrapolarle e scinderle, così da poterle studiare singolarmente.
Ashton stesso non riusciva a capire niente. La stanza era sparita, lo spazio girava, l’unico punto fisso era quell’immagine impressa sullo schermo e lo sguardo luminoso di Amelia, i suoi occhi sull’orlo della felicità. Non sapeva se lasciarsi sopraffare dal miscuglio di emozioni che al momento scalpitavano per uscirgli dal cuore o se limitarsi a guardare, guardare e a non capire niente.
Era prima volta in assoluto che sentiva qualcosa del genere, che vedeva qualcosa di buono nascere da lui. Faticò a rendersene conto, quasi non credeva di essere stato in grado di contribuire a produrre qualcosa che, pur così piccolo e fragile, era meraviglioso.
«Ehi, vieni qui» mormorò Amelia, tendendogli la mano. Non appena si toccarono, lei tornò con gli occhi sullo schermo e lui fece lo stesso. Non riusciva a parlare, non riusciva a pensare, persino respirare stava passando in secondo piano.
In quel momento c’erano solo due cose importanti, che lo legavano al mondo e lo facevano sentire vivo: la donna che amava, che gli stringeva forte la mano, che rideva ed era bella, felice, radiosa, e poi suo figlio. Non più grande di tre o quattro centimetri, ma che già occupava un larghissimo spazio nel suo cuore.
E non poteva chiedere di meglio.
 

 
Marianne's corner:
SONO VIVA.
Strano ma vero, filosofia è andata e adesso rimangono solo greco, latino, matematica ed arte e poi.. e poi finirà la scuola, credo, perché l'ultimo compito in classe ce l'ho tipo il 4 Giugno, LOL.
Ma non parliamo di ciò. So che dovevo aggiornare  venerdì, ma è stato un week-end all'insegna di Kant ed Hegel (per non parlare di tutti i filosofi meno "difficili" che sono venuti prima), ma sono stranamente sopravvissuta ed eccomi ad aggiornare. Duunque, ve l'avevo detto che il capitolo sarebbe stato incentrato su Nola e il suo passato è davvero molto turbolento, poverina. Riuscirà ad uscirne? E vi avevo anche detto che ci sarebbero stati i nostri Asheliaa ** Allora, come al solito, mi scuso se ci sono cose strano o incongruenze (?) ogni volta che si parlerà di gravidanza, visite mediche e così via: non sono un dottore, non ho intenzione di diventarlo e la mia unica fonte di informazione è internet LOL.
E niente, io spero che vi sia piaciuto e vi ringrazio per aver recensito lo scorso capitolo! :3
Indizio per il prossimo capitolo: Valerie e Michael + mente diabolica di Luke. Ce la faranno i nostri eroi?
Giuro che sarò puntualissima stavolta! AHAHAHA
A lunedì (cambio giorno di aggiornamento ogni due per te, lo so).
Bacioni,
Marianne

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Capitolo 10
*** Uccidere ***





10 – UCCIDERE

 

Erano passate tre settimane da quando Luke era tornato a Sydney. Ne erano passate due dal ritorno del padre e una dall’ultimatum che gli aveva dato per quanto riguardava Nola Wilson: non era ancora riuscito a trovarla e se non gliel’avesse portata entro due settimane avrebbe affidato il compito a qualcun altro. Luke si sentì ferito nell’orgoglio perché suo padre affidava sempre a lui le cose più importanti.
Non sapeva cosa rappresentasse Nola per lui, ma doveva essere qualcuno di estremamente importante o non ne avrebbe fatto una tragedia del genere. Il fatto che non volesse dirglielo, però, lo lasciava ancora interdetto, nonostante i patti fossero chiari: avrebbe saputo la sua vera identità solo quando l’avrebbe avuta in pugno, ma Luke non aveva ancora niente. Per un momento, aveva avuto la tentazione di lasciar perdere e liquidare la cosa, scrollandola addosso ad uno dei sicari, così avrebbe sicuramente scoperto chi era Nola, poi però si era detto che non poteva mollare così, ne sarebbe andato della sua reputazione.
Dopotutto, era il figlio del Capo, colui che si occupava di Sydney. Cosa avrebbero pensato tutti i suoi sicari se si fosse tirato indietro? Per questo, era da più o meno sei giorni che cercava di pianificare e trovare un modo impeccabile per riuscire nella sua missione. Julia gli dava una mano a volte, ma finivano quasi sempre sul ciglio di qualche letto o divano, e Julia se ne rendeva conto, e gli diceva di smettere, e poi se ne andava a prendere un caffè, ma non ritornava mai.
Nonostante tutto, non era ancora riuscito a mettere a punto un pieno perfetto, senza falle o intoppi. Aveva avuto grandi idee, ma si erano sempre rivelate una gradino al di sotto della perfezione. Era di nuovo appostato nel vicolo accanto al palazzo in cui viveva Calum, dava per certo che ci vivessero anche Amelia e Ashton e che ci nascondessero Nola Wilson, mentre non sapeva che fine avessero fatto Valerie e Michael.
Con sé, aveva portato Sean. Julia aveva la testa tra le nuvole e sospettava che fosse colpa di George. Era così strano... le persone accanto a Luke si innamoravano nonostante tutto, e vedendo di non riuscire in quello che gli altri facevano con fon troppa facilità lo faceva pensare: doveva considerarsi privilegiato o penalizzato da una cosa simile? Non essere capace di amare qualcuno in qualsiasi modo, che fosse un parente, un amico o un’amante, lo rendeva diverso da tutti gli altri a tal punto da renderlo speciale? Avrebbe ricevuto pena o ammirazione?
Improvvisamente un rumore proveniente dalla sua sinistra lo destò dai suoi pensieri e da tutte le sue domande che, probabilmente, non avrebbero mai trovato una risposta.
Il portone si aprì e Luke non faticò a riconoscere Michael che usciva mentre teneva per mano una ragazza. Una ragazza che Luke conosceva molto bene, che un tempo si fidava ciecamente di lui e che aveva promesso che sarebbero stati amici per sempre: un tempo Valerie avrebbe tenuto alto l'onore di quelle promesse, ma poi aveva scoperto la verità, aveva scoperto che Luke non aveva fatto altro che mentirle, e aveva deciso che nessuna di quelle parole aveva più un valore. Sembravano essere felici insieme, nonostante le espressioni preoccupate che solcavano i volti di entrambi. Chissà come avevano fatto a ritrovarsi e a dimenticare tutto. Anche Michael le aveva mentito, ma Valerie lo aveva perdonato. Gli aveva perdonato tutto e adesso lo amava e si comportava come se nulla fosse. Si chiese come mai Michael Clifford meritasse il perdono di qualcuno più di lui. Perché nessuno lo aveva perdonato? Non si era comportato diversamente da Ashton o da Michael, loro erano semplicemente cambiati, avevano annullato il loro vero essere per abbracciarne un altro che, lo sapevano entrambi, forse non gli sarebbe mai andato bene abbastanza.
Nella tasca dei pantaloni, la pistola bruciava. Era ardente contro la sua pelle e gli urlava di venir sfoderata, di essere tirata fuori, di fare fuoco così da smettere di emanare tutto quel calore. Luke resistette. Non ora, non era quello, il momento giusto. Non doveva dimenticare che il suo obiettivo principale era Nola Wilson, anche se...
«Sean, seguili» sibilò, riferendosi al suo compagno, senza distogliere lo sguardo dai due ragazzi che adesso camminavano silenziosamente sul marciapiede.
«Cosa? Non siamo qui per la bionda?» replicò l'uomo, al suo fianco.
«Sì, ma loro sanno dov'è. Voglio solo conferme. Spaventali, fattelo dire, poi torna qui e irrompiamo in casa» spiegò ancora Luke.
«Va bene.»
Sean uscì dal nascondiglio e si avvicinò con passo felpato a Michael e Valerie. Quest'ultimi, parlavano a bassa voce tra di loro, ma Sean era troppo distante per riuscire a captare qualche parola. Si guardò attorno e studiò un modo per precederli e mettersi davanti a loro. Spaventarli? E come? Non erano due semplici passanti, o almeno, non lo era Michael. Non si sarebbe fatto intimidire troppo con una pistola puntata alla testa, anche perché dubitava che con qualcuno come Luke alle calcagna avrebbe girato per la città disarmato. A meno che non lo credesse ancora a Perth, ma Sean non pensava che Michael potesse essere così negligente.
Tuttavia, le conseguenze del non obbedire a Luke sarebbero state ben peggiori di quelle che ci sarebbero state che se avesse semplicemente fallito. Prese dunque una rincorsa e qualche momento dopo si piazzò di fronte ai due ragazzi, bloccandogli il passo e impedendogli di continuare a camminare.
Michael ebbe dei riflessi prontissimi, parò con un braccio Valerie e portò una mano alla tasca della giaccia.
«Se tiri fuori la pistola ti sparo, Michael» disse Sean con voce ferma, teneva l'arma ben puntata contro Michael e Valerie. «È passato un bel po' dall'ultima volta che ci siamo visti, vero? Dove sei stato di bello?»
«Sean, non voglio farti del male» replicò Michael, con molta calma, quasi eccessiva.
«Io nemmeno, ma gli ordini sono ordini» rispose Sean.
«Luke ti ha ordinato di uccidermi? Carino da parte sua, dopo quello che abbiamo passato pensavo avrebbe avuto abbastanza palle da farlo di persona» disse il ragazzo, sarcastico. La sua mano non si fermò ed entrò nella tasca della giacca.
«Ho detto: non tirare fuori la pistola!» esclamò Sean.
«Luke ti punirebbe se venisse a sapere che mi hai sparato, è un privilegio che spetta solo a lui.»
«Vero, ma Luke non mi ha proibito di sparare a lei» disse Sean, puntato la pistola su Valerie. La ragazza non si scompose, ebbe solo un leggero sussulto e strinse le dita attorno al braccio di Michael, tenuto ben fermo di fronte a lei.
Il ragazzo si allarmò. Quanto poteva importare a Luke di Valerie? Era troppo rischioso pensare che fosse una questione che avrebbe risolto da solo.
«Che vuoi, Sean?» chiese alla fine Michael.
«Un'informazione» rispose l'altro. «Nola Wilson, dove si trova?»
Michael si prese qualche secondo per rispondere alla domanda. Nola era la ragazza che Calum aveva trovato qualche tempo fa, ferita e per strada. Valerie gli aveva raccontato tutto, che scappava dal padre di Luke, che non voleva aver niente a che fare né con lui né con il figlio, specialmente con quest'ultimo, perché se l'avesse scoperto, probabilmente l'avrebbe uccisa senza rifletterci sopra. Non poteva rivelare a Sean – uno dei sicari più vicini a Luke – dove si trovasse, ma non riusciva a farsi venire in mente un posto che avrebbe potuto fungere da potenziale nascondiglio. Guardò Valerie per un breve istante e poi si mise davanti a lei, coprendola con il suo corpo. Sean poteva minacciare di spararle, ma non l'avrebbe fatto se Michael avesse sparato prima a lui.
Con un gesto velocissimo tirò fuori la pistola dalla giacca, mirò al polso della mano con cui l'altro impugnava l'arma e poi il rumore dello sparo invase l'aria, costringendo la ragazza a tapparsi le orecchie. Sean lanciò un urlo di dolore.
«Scusa, amico, non posso dirtelo» disse alla fine Michael. «Ma posso ancora spararti in posti più delicati di una mano, quindi sparisci.»
L'uomo si alzò da terra, raccogliendo la pistola con la mano illesa, mentre l'altra sanguinava copiosamente. Lo guardò negli occhi con uno sguardo che preannunciava vendetta e scappò via.
Solo quando fu impossibile per entrambi vederlo, Michael raggiunse Valerie e le mise le mani sulle spalle.
«Va tutto bene?» le chiese piano, accarezzandola delicatamente.
Valerie annuì e continuò a farlo per qualche secondo, poi esplose. «No, non è vero. Io... oh Dio, Mike, ho creduto di poter morire!»
«Ehi, Val, guardami» mormorò dolcemente, prendendole il viso tra le mani. I loro occhi erano così vicini che Michael si prese qualche istante per ammirare quelli di lei, in ogni sfumatura. «Non sarai mai in pericolo finché ci sono io con te. Quando Sean ti ha puntato la pistola addosso sono andato nel panico, non potevo attaccarlo sapendo che ti avrebbe fatto del male. Allora ho pensato, o almeno, mi sono affidato al fatto che gli fosse stato proibito di spararmi. Mi sono messo di fronte a te e ho tirato fuori la pistola. Non aver paura, non averla mai più, lo sai che morirei pur di proteggerti.»
Valerie non disse nulla, si limitò solamente a cingergli il collo con entrambe le braccia e stringerlo a sé. Sentì immediatamente le mani grandi e delicate di lui accarezzarla e stringerla come mai nessuno aveva fatto in tutta la sua vita. Non credeva d'aver mai provato quello che provava in quell'istante per Michael. Avrebbe voluto ringraziarlo, amarlo, guardarlo i quei suoi occhi acquosi e dirgli che la vita non avrebbe mai potuto farle un dono migliore, ma tutto quello che riusciva a fare era sentirlo tra le sue braccia.
Accostò piano le labbra al suo orecchio e poi gli disse: «Ti amo così tanto, Michael. Così tanto...»
«D-davvero?» chiese lui. Non si staccò, continuò a stringerla, ma la sua voce tremava ed era strozzata, così come tremava il suo respiro, lo stesso respiro che per un momento lungo quanto l’eternità si era fermato, si era congelato ed era rimasto immobile, a cullarsi tra il dolce suono di quelle parole che non aveva mai sentito prima, che non aveva mai pronunciato prima.
Non credeva di meritarle, eppure le aveva sentite, forti e chiare. Ed era stata proprio Valerie a pronunciarle.
Da quanto tempo lui le teneva dentro di sé, quelle parole? Da quanto tempo era innamorato di lei? Difficile stabilirlo con esattezza e precisione, ma l’aveva amata ai tempi del liceo e quando l’aveva lasciata uscire dalla sua vita; l’aveva amata nemmeno un anno prima, quando tutto quello che faceva era spaventarla; e l’amava adesso... era un sacco di tempo, e allora perché non gliel’aveva mai detto?
«Sì, perché dovrei mentirti?» replicò Valerie, accarezzandogli il viso. Le sue mani erano fredde, ma bruciavano. Avevano sciolto l’abbraccio adesso, si guardavano negli occhi, si parlavano in silenzio. Michael sorrise della propria ingenuità e stupidità.
«Ti amo anche io... da... da sempre!» esclamò Michael. «E scusa se non te l’ho mai detto o se ho particolari difficoltà a dimostrarlo, io―»
«Me lo dimostri sempre» lo interruppe Valerie. «Non dovresti svalutarti così. Sei la persona migliore che esista, mi dimostri tutto ogni giorno e non voglio che niente cambi. Mi vi bene così, anche con... con dei pazzi assassini che vogliono farci fuori, a me basta che ci sia tu.»
«Non posso prometterti che arriveremo vivi a domani, ma l’unica cosa che so per certo è che non mi perderai mai» le disse, prese la sua mano destra e la condusse sul suo cuore. «Qualsiasi cosa succeda.»
«Questo è il punto in cui ti bacio appassionatamente, vero?»
«Io credo sia il punto in cui andiamo a casa e facciamo qualcosa di più appropriato.»
Valerie scoppiò a ridere: «Mi piace di più la tua idea.»
«Lo so, le mie idee sono sempre fantastiche.»
E alla fine, Valerie lo baciò ugualmente, nell’aria frizzante e nel vento freddo, sul marciapiede, in mezzo a tutta la vita che girava intorno a loro. E forse il bello fu proprio quello, sapere che c’era vita, che c’era speranza.
 

 
 

 
Marianne's corner:
E dopo secoli, sono finalmente in orario. Oddio, sto aggiornando alle dieci e un quarto di sera, ma è ancora lunedì! 
Allooooora,  qui non c'era molto Luke, lo ammetto. E' un capitolo abbastanza corto, ma ci sono i nostri Maleeeeerie *-* che concorrono con gli Ashelia u.u s Ashton ed Amy vincono solo perché sono la coppia principale u.u
Dunque, Michael è diventato il mio nuovo eroe, e io lo amo sempre di più, e la mia Val è così tenera e razionale e sta riuscendo a gestire tutto così "bene", oddio, sono fiera di lei *lacrimuccia*
In questa settimana (?) dato che la mia mole di compiti si è notevolmente abbassata dato che mi macano solo due materie (SOLO DUE!) ho iniziato il trailer! E' dalla vacanze di Pasqua che ve lo prometto, adesso l'ho iniziato davvero e spero vi potervi mettere il link nel capitolo della prossima settimana. Poi, seconda cosa, sto definendo la scaletta dei capitoli e pian piano siamo giunti ad un finale ehehehe. Prima di tutto, nel prossimo capitolo avremo solo ed esclusivamente il nostro pazzoide biondo preferito (?), sarà un capitolo dedicato solo a lui. Eeee, sto per fare uno spoiler che non è propriamente uno spoiler, sono giunta alla conclusione che alla fine di questa storia avremo: un bambino/a (ovviamente, le scommesse sul pargolo degli Ashelia sono ancora aperta u.u), un morto e un matrimonio. Ma non dico nulla di più.
Adesso, vi lascio e vi ringrazio di cuore perché siamo arrivati alle 50 recensioni totali! **
Baci,
Marianne

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Capitolo 11
*** Passato ***





11 – PASSATO

 

Il tempo era scaduto. Mancavano pochi minuti ormai, Luke se lo sentiva: suo padre gli avrebbe chiesto di parlare e lui avrebbe chinato il capo, pieno di vergogna, dicendo che non era riuscito a trovare la ragazza e a portare a termine il suo compito. Non era solo una questione d’orgoglio, di dovere verso suo padre, ma anche una curiosità personale: ora era certo che non avrebbe mai saputo cosa significasse Nola Wilson per suo padre. Ed era strano, perché mai, prima di allora, gli era stata affidata una simile missione e mai ne aveva discusso. Nella sua mente aveva ancora ben chiara l’immagine di quella ragazza. Viso morbido, occhi azzurri e capelli biondissimi, aveva dei tratti quasi famigliari. Non riusciva a credere di non essere riuscito a prenderla.
Sean era tornato da lui con un braccio insanguinato e di conseguenza non aveva avuto tempo per irrompere in casa di Calum da solo e senza la possibilità di uscirne vittorioso. Era fuggito e aveva portato Sean al sicuro, all’ospedale se l’era cavata con una notte ancorato a letto e un polso ingessato.
Aveva deluso suo padre, lo sapeva, e ne ebbe la conferma quando questi entrò nell’ufficio, dove Luke lo aspettava.
Entrambi rimasero in silenzio per un po’: Andrew Hemmings si mise seduto sulla sua poltrona nera in pelle, dietro la scrivania, e Luke era dall’altra parte a fissarlo, seduto su una delle due sedie imbottite.
«Non sei riuscito a prendere la ragazza» constatò.
«È più difficile di quanto pensi» si giustificò Luke, con lo sguardo basso. «È costantemente controllata.»
«Da chi? Quanti ti ci vorrà mai per fare irruzione in un appartamento e prenderla? Non molte persone obietterebbero con una pistola puntata addosso» continuò il signor Hemmings.
«Persone normali. Si trova in casa di... ex membri della nostra società» continuò Luke.
«E così qualcuno ti ha voltato le spalle, eh? Era anche ora che succedesse, così ti rendi conto di non essere invincibile.»
«Smettila di parlarmi così! Non so nemmeno perché sto facendo tutto questo. Non so nemmeno chi sia, Nola Wilson, sono demotivato a catturare una ragazzina senza sapere nemmeno a che ti serve. Personalmente, non me ne frega un cazzo di lei e vivevo benissimo anche senza sapere della sua esistenza. Mi sto focalizzando su questa cosa invece di dedicarmi a piani di gran lunga più importanti per un tuo capriccio, se ci tieni tanto, affida la missione a qualcun altro e lasciami in pace!»
Un momento dopo, arrivò lo schiaffo. Suo padre non lo picchiava mai. L’ultima volta che l’aveva fatto aveva cinque anni ed era solo un ragazzino che faceva troppi capricci, l’ultima volta sua madre era ancora viva, l’ultima volta era ancora un innocente.
«Impara a portare rispetto a tuo padre» gli intimò, con tono serio e distaccato. «Davvero vuoi sapere chi è Nola Wilson? Eccoti accontentato, cominciamo dal fatto che quello non è il suo vero cognome, ma quello della madre. Nola è la tua sorellastra, e mi serve perché voglio che la famiglia sia riunita.»
Luke lo guardò con gli occhi spalancati, la guancia destra era rossa e pizzicava ancora, eppure non sentiva dolore. La sua attenzione, adesso, era focalizzata su quello che gli aveva detto suo padre. Lui aveva una... una sorella. Sorellastra, si corresse. E chi era sua madre? Perché suo padre aveva avuto una relazione con un’altra donna? E perché stava cercando quella ragazza solo adesso, dopo chissà quanti anni? Come l’aveva rintracciata? Cosa le avrebbe detto una volta che si fossero incontrati? Lei sapeva di essere sua figlia? Sapeva di avere un fratello?
Troppe domande che Luke avrebbe voluto porre, ma sapeva che non avrebbero mai ricevuto una risposta concreta, tanto valeva tenerle per sé. Non riusciva ancora a rendersene conto, ma una cosa era certa: l’effetto ottenuto era opposto a quello a cui suo padre aspirava.
Adesso, Luke non aveva la minima intenzione di andare a cercare Nola e portarla in casa sua. Il suo interesse era sceso ai minimi storici. Lui non la voleva, una sorella. Non voleva nessuno. Stava bene così, non aveva bisogno di niente e, di certo, non aveva bisogno di qualcuno con il suo stesso sangue che solo per quel motivo si sentisse in dovere di fargli cambiare idea sul mondo. Se Nola era scappata dai sicari di suo padre, probabilmente sapeva di essere importante, e sicuramente non condivideva quel tipo di vita.
Non sarebbe stato un legame di parentela ad impedire a Luke di odiarla.
«Voglio sapere solo una cosa» disse, forse sovrappensiero, fatto sta che non riuscì a pensarlo e basta. Suo padre lo guardò con attenzione. «Hai tradito mia madre prima o dopo che morisse?»
«Non l’ho tradita, Luke, non esattamente. Io...» iniziò l’uomo, dietro la scrivania.
«Allora riformulo la domanda. Sei andato a letto con un’altra prima o dopo che la mamma morisse?»
«Prima... poco prima che nascessi tu.»
«Okay. Non ho altro da dirti, buona fortuna con... Nola. Io non voglio averci niente a che fare, anzi, quando la prendi, non presentarmela.»
«È mia figlia, sai benissimo che avrà un ruolo in questa famiglia.»
«Sì, e so anche che hai tradito tua moglie e adesso ritieni il frutto di un tradimento importante quanto me» sputò Luke. Nel frattempo, si era alzato e si era avvicinato alla porta dello studio. «Sai una cosa, papà? Ti credevo migliore di così.»
La porta si chiuse, sbattendo.
 
Durante le sere invernali, a Sydney il freddo era pungente. L’aria gelida proveniente dall’oceano si infilava sotto i cappotti e passava attraverso le sciarpe, arrivava ai vestiti e alla pelle, s’impregnava nella ossa e faceva venire i brividi.
Luke camminava da ore ed era certo di non sentire niente. Non più.
Il buio era calato presto e velocemente, sulla città e sull’anima di Luke. In testa aveva troppe idee, troppe domande, ma le aveva messe tutte e a tacere, passo dopo passo, sigaretta dopo sigaretta. Non sapeva dove si trovasse: aveva camminato così a lungo che avrebbe potuto essere dovunque. Dai palazzi che lo circondavano e da qualche negozio che stava ormai chiudendo i battenti, riconobbe Eastwood, una zona molto periferica di Sydney. Qualche metro dopo, scorse le luminarie giallastre di un pub che conosceva abbastanza bene. Senza nemmeno pensarci si fiondò a capofitto verso la porta d’ingresso.
Non era molto tardi, perciò c’erano ancora poche persone, tra i tavoli e il bancone. Luke si diresse verso quest’ultimo e si sistemò su uno sgabello, appoggiò entrambi i gomiti sulla superficie liscia e pulita.
«Ehilà, amico» lo salutò la barista, pur non conoscendolo minimamente. «Cosa ti porto?»
«Il tuo nome?» ironizzò Luke. Il suo sorrisetto si spense immediatamente. «Whiskey, un’intera bottiglia, grazie.»
«Brutta serata?» domandò la ragazza, mentre si piegava a prendere l’alcolico dal mini-frigo.
«Orribile» rispose Luke. La guardò meglio mentre lei apriva la bottiglia. Sembrava abbastanza alta, non aveva forme molto pronunciate, ma il suo viso, truccato in modo semplice, era luminoso e sembrava quasi brillare di luce propria grazie agli occhi grigi e alla cornice di folti capelli castani.
«La ragazza ti ha mollato?» gli chiese. Luke, intanto, si era attaccato direttamente alla bottiglia e aveva preso qualche sorso.
«Ho scoperto che la mia famiglia è una merda. E non ho tempo per le ragazze» rispose lui.
«Io sono Hayley, comunque» avanzò la barista.
«Lucas.»
«Ti serve altro? Qualcosa da mangiare, magari?» chiese, dopo qualche secondo.
«È assurdo.» Luke ignorò la domanda. «Mi sono ritrovato una sorella e non la voglio. Dopo diciannove anni a mio padre importa di lei, mi chiedo se almeno sapesse della sua esistenza fino a due settimane fa!»
«Okay, ehm, se ne vuoi parlare, io-» tentò ancora Hayley.
«Chi diamine si crede di essere? Mio padre si è fatto una puttana e quella è rimasta incinta. È la figlia di un tradimento e non ce la voglio in casa mia.»
Altri sorsi, il livello della bottiglia si abbassava in modo pericolosamente veloce. Senza sosta.
«Allora, dovresti prendertela con lui, non con tua sorella. Giusto?» osservò Hayley.
 «Non ce l’ho con mia sorella, nemmeno la conosco» ribatté Luke.
«L’hai chiamata figlia di un tradimento. Come se fosse un oggetto. E non hai minimamente considerato il suo punto di vista» aggiunse la ragazza. «Sei sicuro che lei voglia te come fratello?»
«Oddio, ma perché te l’ho raccontato? Non mi serve una psicanalista» si lamentò Luke, seccato. «Mi dai un’altra bottiglia?»
«Il tuo conto sale a venuto dollari» lo avvertì Hayley.
«Per cinquanta mi dai anche il tuo numero?» continuò Luke, sogghignando.
«Tieniti il tuo Whiskey, Lucas» ribatté lei, poggiando la bottiglia sul bancone.
«Preferisco Luke, mi sono affezionato a chi mi chiamava Lucas. Oppure è successo il contrario. In entrambi i casi, non hanno fatto una bella fine» borbottò il ragazzo. «Stare accanto a me è tossico, pericoloso... Fa male e ti uccide lentamente.»
«Credo dovresti smettere di bere» disse Hayley.
«Invece, io credo di dover ordinare altro Whiskey. Anzi no, adesso dammi un po’ di Rum, ma al bicchiere.» La seconda bottiglia era appena scesa poco sotto la metà.
Hayley sospirò e aggiunse il Rum al conto, gli servì un bicchiere e lui lo bevve. Poi tornò ad attaccarsi alla bottiglia.
Cominciava a girargli terribilmente la testa. Sperava di stare talmente male da dimenticare Nola e suo padre. Ashton e Michael. I traditori. Voleva dimenticare tutti.
Per pochissimo tempo, la durata di un istante, forse meno, credette che lavare via ogni cosa brutta che aveva commesso o che gli era capitata sarebbe stato magnifico, gli sarebbe stato d’aiuto per costruirsi una vita, una vita vera, stavolta. Poi ritornò a pensare, invece, che non poteva passare sopra simili avvenimenti.
Non poteva lasciarsi alle spalle suo padre che tradiva sua madre, che aveva una figlia, che l’aveva tenuta nascosta per diciannove anni e che solo adesso la tirava fuori; non poteva dimenticare due degli uomini in cui aveva riposto la sua fiducia e non poteva dimenticare il fatto che gli avessero voltato le spalle. Erano tutti traditori. Suo padre, Ashton, Michael, Valerie, persino la sua misteriosa sorella, pur non avendola mai conosciuta. Erano tutti falsi, tutti pronti a dimenticare. Tutti tranne lui.
Luke non poteva dimenticare e perdonare i traditori. Era un affronto troppo grave per poter essere riposto in un cassetto, andavano puniti.
Ma dove colpire? Tutti loro avevano dei punti deboli, era impossibile non averne. Pensò che suo padre amasse la sua ricchezza e che la sua più grande paura fosse quella di vederla morire, disperdersi, finire nelle mani di qualche estraneo, si disse che era quello il motivo per cui era talmente attaccato all’unica, misera famiglia che gli era rimasta: i suoi figli. Era quello il motivo per cui voleva Nola, per cui voleva portarla a casa, voleva avere un’altra persona a cui affidare il suo impero.
Pensò a Michael e ad Ashton. Così amanti della vita, così attaccati alla sopravvivenza. Sempre alla ricerca di un appiglio, sempre nel vano tentativo di afferrare quell’alito di vita e speranza che gli mostrava un’esistenza priva di imprevisti e colma di tranquillità.
Aprì gli occhi e si ritrovò nuovamente nel pub. La bottiglia era finita. Tirò fuori una banconota da cinquanta dollari e la lasciò sul bancone, Hayley non fece in tempo a dargli il resto e lui non si curò nemmeno di dirle di tenersi la mancia.
Si diresse a grandi passi verso l’uscita e poi l’aria gelida lo investì in pieno, snebbiandogli la mente per qualche secondo.
E ad un tratto, seppe esattamente cosa fare.

 


 
Marianne's corner
Tredici giorni... Ehm, salve, come va? Personalmente una merda (io mi chiedo, a quale razza di persona normale viene la febbre il SETTE GIUGNO, IN PIENA ESTATE? evidentemente a me). Tralasciando i miei drammi... anzi no, perché mi servono per giustificare il ritardo. Tredici giorni sono tanti, lo so e mi dispiace, è un periodo stranissimo. E non in senso buono.
Comuuunque, la bella notizia è che il trailer ha appena finito di caricarsi ed ecco a voi il link! https://www.youtube.com/watch?v=o-rMbbdytk0&feature=youtu.be basta che clicchiate e vi si apre il video. Dunque, niente. Il trailer c'è, il capitolo c'è.. e voi ci siete? Spero di sì, nonostante il mio imperdonabile ritardo.
Spero vi sia piaciuto questo capitolo su Luke e vi giuro che sarò super-mega-puntualissima (?) la prossima volta!
Baci,
Marianne

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Capitolo 12
*** Mai abbastanza ***





12 – MAI ABBASTANZA

 

Agosto aveva fatto breccia nel cuore dell’inverno australiano, Ashton aveva compiuto ventidue anni e cominciavano ad esserci i primi accenni di primavera: prati che fiorivano con splendide margherite, sole e pioggia che si rincorrevano, passerotti che cantavano ad annunciare l’alba di ogni nuovo giorno.
Insieme ai fiori, arrivò anche il giorno in cui Amelia si alzò e si sentì diversa. Il gonfiore alla pancia c’era già da un po’, ormai erano passati quattro mesi, ma fu solo allora che lei lo notò veramente. Adesso, il suo bambino non era più solo un’immagine in bianco e nero su uno schermo, adesso si vedeva. Era reale, tangibile, ora più che mai. C’era davvero. Se tutto fosse andato bene, come previsto, sarebbe nato attorno a Febbraio, alla fine dell’estate, e allora avrebbe congelato il tempo per sempre, nelle loro vite ci sarebbe stata solo estate, solo gli sgoccioli di sole cocente e di mare brillante. Quel breve periodo di serenità prima dell’autunno, l’avrebbero vissuto per sempre.
Eccetto Nola, la casa era vuota. Si chiese perché Calum, quasi estraneo a tutta quella tragica realtà, avesse accettato di ospitarli a casa sua. Nola dormiva nella sua stanza e Amelia ed Ashton sul divano letto, in salotto. Non riusciva ad immaginare che tipo di legame legasse Calum e Nola. Li vedeva parlarsi a malapena, anche dopo mesi di convivenza. Credé che il fatto che fosse stato lui a trovarla, a salvarla e a portarla a casa, influisse molto sul loro rapporto silenzioso.
In realtà, Amelia era ben lungi dal sapere molte cose.
Non sapeva che Nola di notte, a volte, non riusciva a dormire, che Calum si svegliava, accendeva la luce e le portava qualcosa da bere; non sapeva che parlavano fino ad addormentarsi, piano, per non svegliare nessuno. Si conoscevamo più di quanto tutti gli altri potessero anche solo pensare.
A Calum piaceva parlare con Nola e a lei piaceva ascoltare.
Si era fidata di qualcuno che conosceva a malapena, ma che le dava l’impressione di essere buono, così gli aveva raccontato la sua storia, la sua vita triste e frastagliata: la madre morta di overdose perché scappare dalla vita e trovare rifugio nella droga era più facile che lavorare di notte e crescere una bambina, le famiglie che non le volevano bene, il padre che era comparso all’improvviso, all’alba dei suoi diciassette anni, ancora perdutamente innamorato di una donna con cui aveva passato solo due notti della sua vita, lo stesso padre che non avrebbe mai accettato un rifiuto.
Lei aveva parlato abbastanza, fino a quel momento. Adesso ascoltava. Ascoltava Calum parlare della sua infanzia. Aveva avuto una vita talmente normale e tranquilla che Nola si ritrovò a sognare di poter tornare bambina e poi di rinascere una seconda volta, per vivere la stessa vita che Calum aveva avuto l’immensa fortuna di avere.
Ritornando nel salotto, nella mente di Amelia, tutti i suoi pensieri furono interrotti da un rumore proveniente dalla porta. Fu presa dal panico, pensò che potesse essere Luke, che fosse venuto a prenderla, a farle del male. Si rivelò essere solo Ashton.
La ragazza si permise di tirare un sospiro di sollievo, più il tempo passava, più le paure crescevano a dismisura. Volle lanciarsi tra le sue braccia, ma rimase ferma a guardarlo mentre si toglieva la felpa, si ravvivava i capelli e, infine, puntava lo sguardo su di lei. Amelia aveva odiato e amato quello sguardo. A tratti inquisitorio, forse troppo attento, inizialmente era stato uno sguardo freddo, che non lasciava trasparire alcuna emozione. Poi, con il tempo, si era un poco addolcito: non c’era più freddezza, non costituiva più una gelida barriera a chiudere e trattenere i suoi sentimenti. Erano gli occhi di un uomo che aveva conosciuto la più profonda sofferenza e che non era riuscito a riemergere per tanto tempo; erano gli occhi di un uomo che era stato perdonato, dagli altri e da se stesso, che aveva pian piano ricominciato a vivere; ed erano gli occhi ambrati di un uomo amato e che amava a sua volta, che aveva imparato a farlo troppo in fretta.
In un istante, fu Ashton ad essere tra le braccia di Amelia. Nonostante lei fosse più bassa di qualche centimetro, lui sembrava così piccolo e indifeso. Non era più la persona che per mesi e mesi aveva tentato in ogni modo di proteggerla, di essere forte, di non dare a vedere alcun segno di cedimento. Adesso era crollato.
La testa poggiata contro il petto di lei, che ritmicamente si alzava e si abbassava, il viso soffocato contro il suo cuore, le gambe piegate leggermente e le braccia che si avvolgevano attorno alla sua piccola vita, le mani che non erano mai state timide e caute adesso tremavano e avevano perso ogni tipo di fermezza e coraggio. E intanto, Amelia teneva gli occhi chiusi, aveva avvolto le braccia attorno al collo di Ashton con delicatezza e le dita scorrevano piano tra i capelli color del grano, che erano cresciuti, perché in nessun pensiero c’era spazio per un appuntamento dal barbiere. Ashton si sgretolava all’interno dell’abbraccio e Amelia sentiva che, invece, era solo il suo cuore a sgretolarsi. Piano e dolorosamente.
Non fare così, amore.
Se lui cadeva, lei sarebbe precipitata assieme a lui. Dopo tutto quello, erano indissolubilmente legati l’uno all’altra. Ashton era sull’orlo del burrone e Amelia si sentiva morire, temeva di non farcela. Il corpo di lui fu scosso da quello che sembrava un brivido. No, più forte e violento. Un singhiozzo.
Non piangere, amore.
Amelia non aveva mai visto Ashton piangere. Non lo aveva mai visto così esposto, così vulnerabile, dal momento che era sempre stato lui a pensare lucidamente, ad affrontare il mondo a sangue freddo. Forse, aveva tenuto tutto dentro e adesso non ce la faceva più.
«Non lasciarmi.» Fu appena un sussurro, due parole che avevano avuto abbastanza coraggio ad uscire fuori. Due parole erano sopravvissute e celavano la sopravvivenza stessa.
«No, non ti lascio. Non lo farei mai» rispose Amelia. Nessuno dei due si spostò di un centimetro per diversi minuti. Riscoprirono che era dolorosamente bello stare racchiusi in quel momento, nonostante tutte le paure taciute.
«Davvero?» chiese lui, la voce che tanto gli tremava.
«Davvero.»
Seguì ancora del silenzio. Ancora strappi al cuore.
«Ho paura, Amelia. Io provo ad essere intoccabile, provo ad essere menefreghista, provo a fingere che nulla mi spaventi, ma il problema è... che non ci riesco.»
«Ashton, non devi essere forte se non ce la fai» disse Amelia.
«Mi sento in colpa» disse piano.
«Non ne hai» lo rassicurò lei.
«Sì, invece» esclamò. «Merito tutte le accuse di questo mondo. È colpa mia, lo so. È colpa mia se ti ho trascinato fin qui... è colpa mia per tutto quello che è successo. A tutti noi.» Ashton vaneggiava, aveva eliminato qualsiasi tipo di freno, non si sarebbe più fermato.
«Non dire così, non è vero!» replicò Amelia, sciolse l’abbraccio e lo guardò negli occhi.
Era distrutto.
«Sì, invece. Non avrei dovuto mai trascinarti nella mia vita» disse Ashton.
«Ascolta, è colpa di Luke, non tua. Essere trascinata nella tua vita è una cosa che ho scelto, che adoro... non devi incolparti di nulla» ribatté lei. Gli accarezzò il viso, gli baciò la guancia, la bocca, il mento.
«Mi dispiace tanto. Ti ho ferita» disse Ashton. «Non lo meritavi.»
Amelia lo guardò di nuovo, ma all’improvviso, non lo riconobbe più. Dov’era l’uomo che amava? L’uomo coraggioso, l’uomo che ne aveva ucciso un altro per salvarle la vita, quello che l’aveva amata e le aveva giurato di proteggerla. Dov’era? In qualche angolo della persona distrutta che le era di fronte si era nascosto?
«Cosa cazzo di prende, Ashton?» Amelia esplose. Imprecava raramente e quello significava che era ormai giunta al limite. Lui si incolpava, lei gli diceva che non aveva fatto nulla di male, lui non ci credeva, lei esplodeva. «Arrivi a casa e ti lasci prendere dal panico senza nemmeno un motivo apparente. Se volevi aver paura di Luke hai avuto tre mesi di tempo.»
«Be’, io ho paura adesso!» esclamò Ashton. «Non posso capire cosa provare a comando, quando lo provi tu o quando lo provano gli altri.»
«Ah, davvero? Perché mi sembra che tu non abbia fatto altro. Quando c’era bisogno di stare calmi, eri calmo. Ma adesso non sai nemmeno tu come sentirti, e allora lasci uscire tutto fuori. Sei stato il primo a dirmi che le emozioni non vanno soffocate, e allora, perché ci sei caduto un’altra volta?» continuò Amelia.
«Non lo so» disse lui.
«Non mi hai mai fatto del male, non hai mai ferito i miei sentimenti. Niente di tutta questa faccenda l’ha mai fatto, eccetto qualche minuto fa, quando hai pensato che se non fossi mai entrata nella tua vita, sarebbe stato meglio» sospirò lei. «Io sarei stata una persona vuota. Immaginami adesso, Ashton. Cosa sarei? Un’ennesima studentessa nella grande Sydney, agli albori del suo secondo anno di università, prossima ai vent’anni, in una relazione a distanza con un ragazzo che si era solo illusa di amare. Avresti preferito che finisse così?»
«Saresti viva. E sì, avrei preferito che finisse così invece che avere paura di tornare a casa e non trovarti, o peggio, di sapere che qualcuno ti ha fatto del male» esclamò lui.
«Sono ancora viva.»
«Non lo vedi, Amelia? È nelle tue stesse parole: se avessimo una vita normale, non avresti bisogno di usare quell’”ancora”» sospirò Ashton, deglutendo rumorosamente. «Dimmi cosa vuoi che faccia. Lo so che, quando mi hai conosciuto, ti sembravo a stento umano. So che mi hai odiato e so che ho lasciato cadere ogni tipo muro per lasciarti entrare e capire chi ero veramente. Ho smesso di essere un mostro per te, ma non so più come comportarmi.»
«Tu sei perfetto così come sei. Non voglio nulla di più che tu non abbia già.»
Ashton rise. E quella risata fu peggio di dieci silenzi, cento singhiozzi e mille lacrime. Fu peggio di qualsiasi altra cosa.
«È evidente che non è così. Negli ultimi giorni, ho la sensazione di non essere mai abbastanza.»
«Cosa dici?»
«Per te, per nostro figlio, per questa vita» rispose Ashton. «Non ti biasimerei se, all’improvviso, non fossi ciò di cui hai bisogno.»
«Sei completamente pazzo, Ash. Non chiedo nulla dalla mia vita, se non te e questo bambino. Cosa ti salta in mente? Per favore» continuò la ragazza.
«Mi salta in mente,» disse lui, interrompendola. «che ho bisogno di una pausa.»
Tutto d’un tratto, ogni cosa che li circondasse si congelò, le prime crepe cominciarono a correre sul ghiaccio e, alla fine, tutto crollò in mille pezzi. L’intero mondo di Amelia crollò sulle sue spalle, trascinando giù anche lei, che aveva cominciato a scuotere violentemente la testa, ma che non si lasciava tradire da alcuna espressione.
«Non puoi dire sul serio» asserì, era una maschera di indifferenza.
«Invece lo sono. Non sarà per molto, io... devo solo capire» disse Ashton.
«Capire cosa? Che stai utilizzando il termine “pausa” come espediente? Quanto ci vorrà prima che mi chiamerai e mi dirai che la tua pausa si prolungherà? Ancora e ancora, finché non te ne sarai andato per sempre» esclamò Amelia.
Lui si avvicinò, fece per accarezzarle il volto, ma lei lo respinse.
«Non ti lascerei mai, Amelia, soprattutto adesso. Stenterai a crederci, ma sono umano anche io, commetto errori, arrivo ad essere provato in tutti i sensi e a sentire il bisogno di staccare la spina.»
«Bene. Allora vai, esci e prenditi questa maledetta pausa!»
«Amy...»
«Sai dov’è la porta.»
Detto questo, gli voltò le spalle e sparì in cucina. Non disse niente quando lui la salutò e, in un primo momento, dopo il rumore della porta che si chiudeva deliacamente, rimase in piedi, davanti al piano della cucina, a pelare le patate che avrebbe cucinato per pranzo. Ma alla fine, il coltello le cadde dalle mani e si riscoprì troppo scossa per fare alcunché.
 
 
 


 


 
Marianne's corner
HOLA. Sono in ritardo? Sì, a di poco. Quindi who cares? AHHHHHH, salve. Io ero così felice che fosse arrivata l'estate ma piove da tre giorni. Guardiamo come la Natura mi stia prendendo per il culo: a Maggio, piena di compiti e interrogazioni, sole a 40 gradi. Giugno, finalmente libera, diluvio universale. Mi sembra giusto.
Ma non parliamo del meteo ahahaha parliamo del capitolo. Ebbene sì, è successo. Gli Ashelia hanno discusso/litigato. Prima o poi doveva succedere, ma vi assicuro che non è nulla di grave di per sé, dopo qualche guaio torneranno e saranno più forti di prima! :D Fossi in voi, io mi preoccuperei di quel "qualche guaio", ma per ora taccio u.u
Mh, so che il discorso di Ashton può apparire a tratti contraddittorio, ma vi pregherei di capire la sua precaria stabilità pschica in questo momento, così come quella di tutti i personaggi. Il prossimo sarà un capitolo un pochino di passaggio, scusatemi, ma è di fondamentale importanza in quanto entreremo nella testa di Amelia. (non letteralmente, mica mi chiamo Luke Hemmings)
Okay, ora vorrei ringraziare chi continua ancora a seguirmi nonostante i ritardi e gli aggiornamenti sgangherati (?) davvero, grazie di tutto! ♥
Bacioni,
Marianne

 

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Capitolo 13
*** Il suono del silenzio ***





13 – IL SUONO DEL SILENZIO

 

Il tempo si era congelato. Amelia era rimasta con la mente ferma agli istanti che seguirono la scomparsa di Ashton dietro la porta di casa, quelli in cui i suoi passi giù per le scale erano più assordanti di una bomba che esplodeva. I minuti, o forse le ore, ripresero a scorrere solo quando, nel salotto, si aggiunse un’altra presenza: Nola.
Amelia aveva quasi dimenticato che la ragazza, durante il litigio, si trovava nella stanza accanto. Non si chiese se avesse sentito tutto, perché era ovvio che l’avesse fatto, e non se ne curò nemmeno poi così tanto. Non le importava, o almeno questo era ciò su cui cercava di convincersi. Le rivolse uno sguardo fugace, prima di ritornare a puntarlo da qualche altra parte. Rimase molto sorpresa, però, quando la bionda si sedette al suo fianco. Rimase ancor più sorpresa, quando le chiese se andasse tutto bene. Nola era una di poche parole, tranne che con Calum, per questo Amelia la osservò a lungo, prima di risponderle. Da una parte, avrebbe voluto esternare tutti i suoi sentimenti, piangere, non mettere alcun freno inibitore e sfogarsi, raccontando a quella povera ragazza tutte le cose sbagliate della sua vita, tutte le situazioni che potevano essere evitate, tutte le scelte che avrebbe potuto fare invece di scappare.
«Va tutto bene?» le chiese una seconda volta.
«No.» La risposta di Amelia fu secca e tagliente, quasi dura. Si pentì subito d’aver usato quel tono: Nola non c’entrava nulla in tutta quella storia, aveva solo ascoltato tutte le cose cattive che si erano detti. Ripercorrendo gli attimi cruciali della discussione, Amelia si diede della stupida. Per aver provato a contraddire Ashton e per avergli permesso di andar via, anzi, per averglielo imposto.
«Scusa» si affrettò a dire, immediatamente. «Sono solo un po’ scossa. Mi passerà.»
«So di non dovermi intromettermi, ma se vuoi possiamo parlarne. So anche se non mi conosci benissimo e io non conosco te, ma puoi fidarti di me. Io l’ho fatto con tutti voi» continuò Nola. «E poi, abbiamo un problema in comune, noi due.»
Amelia si lasciò scappare un sorriso. «Già… Luke Hemmings, la nostra rovina.»
Nessuna delle due disse niente, alla fine. Amelia non ne parò con Nola e Nola non insistette con Amelia. Rimasero sedute sul divano, vicine, consapevoli che, qualsiasi cosa avessero detto, ci sarebbe stato qualcuno ad ascoltarle.
Amelia sapeva benissimo che avrebbe passato ore d’agonia, seduta lì. Ore ad aspettare Ashton. Perché era convinta che sarebbe tornato, prima o poi. Aveva bisogno di una passeggiata, di una boccata d’aria, non se n’era mica andato. Ne era sicura.
Nola dopo un po’ le chiese se avesse fame. Amelia scosse la testa e la bionda andò a preparare qualcosa per la cena.
Arrivò Calum, dopo il lavoro, e vedendo Amelia in quello stato di trance, chiese a Nola cosa fosse successo. La mora avrebbe voluto che Calum non ne sapesse niente, ma alla fine, era inevitabile che Nola gli raccontasse del litigio che era avvenuto prima.
Amelia lo capì dal guizzo negli occhi di Nola: lei non riusciva a mentirgli, così come lui non riusciva a farlo con lei. Erano strani, si comportavano in modo strano. Che il mondo intero stesse cambiando e lei non se ne fosse nemmeno accorta?
Non fece però in tempo a formulare altri pensieri, che Calum fu davanti a lei e si ritrovarono entrambi in piedi, l’uno di fronte all’altro.
Amelia si svegliò.
«Amy… dì qualcosa. Cosa è successo con Ashton?» Nella voce di Calum c’era un’urgenza quasi disperata, che Amelia aveva sentito raramente. Era sorpresa di sentirla in quel momento.
«Se ne è andato.» E al contrario, Amelia parlava con una tale piattezza da lasciare Calum interdetto. Lo vide, lo sentì e lo percepì: le parole di lei erano tutte vuote.
«Voleva andarsene, io gli ho detto di farlo. Non so dov’è, ma adesso voglio che ritorni. È uscito ore fa.»
Calum sospirò. «Come, se ne è andato?»
«Andato, Calum. Ne conosci il significato? Ha aperto la porta, ha sceso le scale e non è tornato. Io… non so dove sia» disse ancora Amelia, il cuore che le batteva all’impazzata. «So solo che lo voglio qui. Non riesco a stare tranquilla, sapendolo chissà dove a fare chissà cosa.»
«Prima di tutto, credo che tu debba calmarti» osservò Calum, mettendole una mano sulla spalla. Amelia cominciò a scuotere la testa.
Calmarsi? Come poteva essere calma se Ashton era in giro per le strade di Sydney, da solo, al freddo, con la testa piena di pensieri, piena delle parole che si erano rivolti? Con il cuore vuoto, a cui mancava la sua metà, indifeso. Come?
«No, non mi calmo affatto»
«Vuoi mangiare qualcosa? Nola ha detto che non hai mangiato nulla da quando hai litigato con Ashton. Devi mangiare-»
Amelia scosse ancora la testa. No. Non ce la faceva, non poteva. Ogni cosa passava in secondo piano: mangiare, riposarsi, dormire… Ashton non c’era, e niente era più importante. Si sentiva incompleta, aveva paura di non vederlo tornare mai più, aveva paura di vivere per sempre con il rimpianto di non averlo baciato un’ultima volta. Fu colta dal panico: come avrebbe vissuto senza di lui? Come avrebbe cresciuto suo figlio senza di lui? No, era assurdo, assurdo! Ashton doveva tornare. Lei doveva cercarlo. Doveva portarlo a casa.
«Devo uscire di qui» disse ancora, ma Calum la fermò. «No, ti prego. Fermati, lasciami andare. Io devo uscire, devo cercare Ashton, devo riportarlo da me.»
«Stai vaneggiando, Amelia. Calmati. Siediti, mangia qualcosa, Ashton tornerà.»
«No, tu non capisci. Non tornerà se non lo cerco!» esclamò, piena di rabbia, vuota di ragione. La rabbia si trasformò in qualcosa che non seppe definire, ma che la fece piangere. Era arrivata al culmine: aveva fuggito quel momento per tutto il pomeriggio, l’aveva evitato, dicendosi che non avrebbe permesso di finire così, ma alla fine non ce l’aveva fatto.
Dopo un tempo che nemmeno ricordava, dopo mesi e mesi, si era ritrovata di nuovo a piangere tra le braccia di Calum.
Era inarrestabile, lui, istintivamente, l’aveva circondata, le accarezzava la schiena, dolcemente, cercava di parlarle, di dirle che sarebbe andato bene. La sentiva infinitamente piccola, in quell’abbraccio, pur sapendo che quel corpo fragile, che singhiozzava rumorosamente, apparteneva ad una donna forte. Vederla in quello stato, sentirla piangere contro il suo petto lo fece stare male.
Ashton era l’unica cosa che l’avrebbe fatta smettere, e sapendo questo, Calum non riusciva a pensare ad altri modi per rincuorarla. Avrebbe potuto portarle la luna, ma non sarebbe basta, perché non era la cosa giusta.
«Lasciami uscire, Calum» disse ancora, con difficoltà, perché annaspava e soffocava nelle sue stesse lacrime, che scendevano ancora e ancora e le rigavano il viso.
«Non posso. Non puoi uscire in questo stato. Sei a pezzi.»
«Continuerò ad esserlo se non lo trovo.»
Si guardarono negli occhi, Calum sentì il proprio cuore che si spezzava, Amelia voleva era accecata dal desiderio di avere di nuovo Ashton con sé.
Nola s’intromise: «Potresti accompagnarla, io starò bene qui.»
«Va.. va bene» sospirò Calum, alla fine. Lasciò andare Amelia.
Il tempo di andare in camera a prendere le chiavi dell’auto e la giacca, e Amelia era sparita dal salotto. La porta s’ingresso non aveva sbattuto: era ancora aperta.
 
 
***
 
Aveva dimenticato la sciarpa a casa di Calum, ma il freddo non sembrava quasi scalfirla. Fuori era buio e le strade erano vuote, i suoi passi facevano rumore nella sua testa, ma lei non li sentiva. Aveva fatto una pazzia, ma non poteva permettere a Calum di accompagnarla, non voleva che se ne andasse anche lui. Troppe persone era uscite per andare chissà dove, quel giorno, non avrebbe permesso che anche lui soffrisse a causa sua. Sapeva che Calum fosse comunque uscito, magari per cercarla, ma confidava nel fatto che avesse preferito rimanere a casa con Nola. Quest’ultima era la più improbabile delle ipotesi, ma era l’unica in cui voleva credere.
Con le mani in tasca e il passo deciso, Amelia aveva camminato così tanto da non capire più dove si trovasse. Le strade a Sydney erano tutte uguali, forse si era persa, ma non ebbe paura: non importava perdersi finché Ashton era perso assieme a lei. L’avrebbe trovato e lui l’avrebbe riportata a casa. E sarebbe rimasto, si sarebbero chiesti scusa. Tutto sarebbe andato bene.
Non sapeva cosa sentiva, ma era orribile. Era come se si sentisse in colpa, ma allo stesso tempo sapesse che non c’era nulla per cui dispiacersi. Gli aveva detto di andarsene, vero. Ma era stato lui a tirare fuori il discorso. Si chiese se non avesse dovuto, in qualche modo, assecondarlo, lasciarlo parlare e lasciarlo sfogare. Lasciare che le raccontasse tutte le sue paure, che piangesse, che parlasse che si aprisse. E invece, testarda come al solito, gli era andata contro, credendo di fare del bene.
Aveva cercato di aprirgli gli occhi per l’ennesima volta, dicendogli che lui era fantastico, che non aveva colpe, che non doveva angosciarsi così tanto. Ma come era possibile che parole del genere ferissero più di un freddo silenzio?
Amelia non capiva. Non ci capiva più niente. Arrivò a domandarsi se non avessero sbagliato tutto. Tutto quanto. Mentre camminava, quella sera – o quella notte, non sapeva che ore fossero – credé che Ashton, tempo prima, avesse avuto ragione.
E se non si fossero mai incontrati? Amelia avrebbe sentito tutta quella sofferenza, avrebbe pianto abbracciata a Calum e avrebbe pianto mentre l’aria fredda le spazzava via le lacrime e le pungeva il viso?
Lo credé, ma non riuscì a pentirsi di nulla.
Avrebbe superato anche quello, come aveva superato ogni singola cosa che le era capitata negli ultimi mesi. Evitò di pensare che, in tutte le occasioni precedenti, aveva avuto Ashton al suo fianco, mentre in quel momento era da sola.
Sola contro il mondo, alla ricerca di chi avrebbe riempito il vuoto. Lo cercava negli angoli delle strade con gli occhi, nelle voci delle persone con le orecchie. Lo cercava col cuore, ma quello non funzionava. Non riusciva a portarla da lui.
Dov’era Ashton? Perché non era tornato a casa?
E se gli fosse successo qualcosa? Non se lo sarebbe mai perdonato. Il solo pensiero che gli avessero fatto del male dopo essere uscito a… causa sua, la faceva sentire male. Cercò di scacciare via quell’orribile immagine dalla sua testa, perché si sentì mancare l’aria. Non poteva permettersi di arrendersi, doveva pensare positivo.
Avrebbe trovato Ashton, sarebbe andato tutto bene.
Ma era difficile pensarlo, date le circostanze.
Volle tornare a casa, arrendendosi di fronte al suo fallimento. Fece dei respiri profondi e spense le emozioni per un attimo. Pensando a mente lucida, capì il percorso da fare per tornare indietro e realizzò che, alla fine, non si era allontanata nemmeno così tanto.
La sua unica speranza risiedeva nell’illusione che Ashton sarebbe tornato anche senza di lei che lo andava a prendere.

 
 
 
Marianne's corner
Saaaaaalve a tutti. Giuro che ho una giustificazione valida per il ritardo. Avete presente quando vi svegliate all'una del pomeriggio, pranzate e vi gettate sul letto/divano a leggere o guardare la tv perché non avete voglia di fare niente? Ecco, dopo due feste (di merda) sono troppo stanca per fare alcunché. Ragion per cui questa mattina sono andata a correre (e sono morta), ma almeno sono sveglia, quindi aggiorno.
Anyway, torniamo a noi. Eccoci al capitolo molto di passaggio che, lo so, è molto confuso, frettoloso... ma io voglio arrivare al punto! Preparatevi ai prossimi capitoli, sono tutti una corsa ehehehe.
Okay, ora taccio e torno a sentire a ripetizione l'album dei The 1975 (mi sono innamorataaa *-*), chissà, magari divento ispirata (?)
Ringrazio cihunque segua/legga/recensisca questa storia. Grazie! ♥♥♥
Marianne


 

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Capitolo 14
*** Innocente ***





14 – INNOCENTE

 

 
Amelia sapeva con certezza che, a lungo andare, tutto si sarebbe risolto, ma mentre camminava, nel buio della notte con la testa piena di dubbi e gli occhi che non vedevano davvero, non fu più tanto sicura di quello che sarebbe successo in un futuro prossimo.
I suoi passi erano silenziosissimi sull’asfalto duro e grigio dei marciapiedi, ogni edificio era uguale e tutte le vie che prendeva per andare a casa erano vuote. Uscire era stata una pazzia, lo sapeva bene, ma non avrebbe mai potuto perdonare se stessa se non avesse almeno provato a cercare Ashton. Non l’aveva trovato, e forse questo aveva fatto male, ma sapeva di aver posto rimedio al suo sbaglio, almeno in parte.
Inutile nascondere che non sapeva più cosa aspettarsi della vita, inutile nascondere che avesse paura. Nelle ultime settimane tutto era cambiato così repentinamente, così profondamente. I suoi pensieri la portavano ogni notte in posti sconosciuti, posti che svanivano non appena realizzava che Ashton era lì al suo fianco, allora le bastava ascoltare il ritmo dei suoi respiri per tranquillizzarsi. Sapere che quella notte il letto sarebbe rimasto parzialmente vuoto faceva male da morire.
Camminare sembrava non bastarle mai, più metteva un piede dietro l’altro, più perdeva la voglia ti tornare a casa ed infilarsi sotto le coperte, consapevole che la mattina seguente si sarebbe svegliata solamente tra le braccia della tristezza.
Ma ad un tratto, riconobbe un suono estraneo a quello dei propri passi e a quello del proprio respiro, sospettava di non essere più sola tra le strade del quartiere. Ignorò quel presentimento, che andava ad aggiungersi alla lista di catastrofi successe in sole ventiquattro ore, ma man mano che camminava, il sospetto si faceva reale.
Faceva bene a sospettare. Si fermò all’improvviso ed ogni rumore cessò. L’aria era immobile, non si udì niente.
All’improvviso, il mondo sembrò capovolgersi, ma non lo fece davvero. La visuale di Amelia cambiò, non vedeva più la strada di fronte a sé, non vedeva niente, perché l’impatto contro il muro le aveva fatto chiudere gli occhi dalla paura.
Quando ebbe il coraggio di riaprirli, due iridi azzurre, che nell’oscurità della notte sembravano nere come la morte, la fissavano come avessero voluto spogliarla di ogni dignità. Amelia sentì il bisogno di urlare, come quella notte di un anno prima, quando a farla tremare di paura c’era Michael. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di avere lui, in quel momento, pur di tornare in quel momento, perché realizzò solo qualche secondo dopo che si trovava faccia a faccia nientemeno con l’uomo che nutriva un profondo odio per lei e per tutto loro, i loro visi vicinissimi, il suo respiro era asfissiante. Amelia non sapeva cosa fare, si ritrovò a pensare al peggio e si rese conto dell’indiscutibile e cruda verità: quella notte, in quel momento, Luke Hemmings, con lo sguardo pieno di puri e ciechi odio e ribrezzo, aveva il potere di porre fine al battito del suo cuore.
Quale motivo avrebbe avuto per lasciarla andare? Nessuno. Era tra le sue mani, in balia della sua follia. Lui l’avrebbe uccisa, l’avrebbe uccisa… ma Amelia non poteva permettersi di morire, non poteva permettere a Luke di fare del male a suo figlio.
Ricordava le parole che aveva detto a Calum, ricordava di aver detto di essere più forte di Luke Hemmings, ma improvvisamente, si rese cono che non era vero. Non era forte, nemmeno un po’. Era un ramoscello secco tra le mani di un bambino annoiato, si sarebbe spezzata da un momento all’altro e non c’era modo per impedirlo.
Non voleva morire, non poteva morire! Il bambino aveva bisogno di lei, anche Ashton aveva bisogno di lei, nonostante tutti i litigi del mondo, nonostante le lacrime, il dolore, la paura, nonostante le avversità e il fatto che se ne fosse andato… anche lui aveva bisogno di lei. Si sentì male al solo pensiero di Ashton che piangeva la sua morte, si sentì venir meno quando capì che la sua scomparsa gli avrebbe fatto male, gli avrebbe inflitto delle ferite che lei e soltanto lei sarebbe mai stata capace di curare. Ma lei non ci sarebbe stata.
Amelia non voleva morire e non sarebbe morta, doveva solo trovare un modo per attuare la sua volontà.
«Cosa ci fa una signorina in un posto del genere a quest’ora?» sibilò Luke. Aveva una voce agghiacciante, aveva congelato l’aria e mozzato il respiro di lei per un paio di secondi.
Amelia non rispose. Avrebbe voluto, ma non ci riuscì. Qualcosa le impediva di muovere le labbra, strettamente serrate.
«Ti ho fatto una domanda» disse ancora il ragazzo, indurendo il tono di voce. «Gradirei una risposta.»
Ma la risposta non arrivò, al suo posto, un flebile lamento, una supplica, parole piene di paura: «Voglio andare a casa.»
«Ma certo… potevi essere diretta solo a casa. Una casa che non è nemmeno tua» ribatté Luke.
«Lasciami» disse Amelia. «Per favore.»
«Nelle ultime settimane ho escogitato mille piani per annientarvi tutti quanti, ma ognuno di essi si è rivelato imperfetto. Ho bisogno di un piano senza falle e senza intoppi, da concludere nel giro di una notte. Ma se adesso tu dovessi accidentalmente scomparire dalla scena, nulla mi vieterebbe di tendere una trappola a tutti i tuoi amici e averli in pugno, non credi?» disse il ragazzo, la sua voce adesso era piena di calma, non c’era aggressività o durezza. Il che, se possibile, terrorizzò la povera ragazza ancora di più. «Effettivamente, non ho alcuna scusa per non ucciderti adesso.»
«Non puoi farlo, ti prego. Lasciami andare, ti prometto quello che vuoi» piagnucolò Amelia. Era vicina alla fine, forse, nemmeno le suppliche e i patteggiamenti l’avrebbero salvata.
«Adesso le cose si fanno più ragionevoli, ma so che non potrai mai esaudire il desiderio che sto per esprimere» continuò il ragazzo.
«Quale?» domandò Amelia.
«Voglio la ragazza. Nola. Lo so che la nascondete» rispose Luke. «Non dovrai fare nulla di complicato. Fai amicizia con lei, anzi no, immagino che siate già amiche per la pelle! Invitala a fare due passi con te, portala da me e allora avrai salva la vita.»
«Lei non vuole avere nulla a che fare con te.» Amelia scosse la testa, non poteva consegnargli Nola.
«Vedi? Te l’ho detto che avresti detto di no» disse ancora lui, sorridendo.
«Io…»
Lei. Amelia aveva milioni di cose da dire, ma improvvisamente non ne uscì nemmeno una. Ecco come finiva. Di notte, in una strada buia e senza testimoni, dopo Ashton. Le ultime parole che gli aveva rivolto ancora brutalmente stampate nella mente.
Sai dov’è la porta.
«Ciao, ciao, Amy.»
«No! Non puoi. Io… sono incinta!» gridò la ragazza. Sapeva che non sarebbe servito a fermare Luke, che una notizia del genere non gli avrebbe fatto in alcun modo cambiare idea, ma tanto valeva provare, nelle migliori delle ipotesi, avrebbe vissuto un altro giorno. Attese, ma la morte non sopraggiunse mai e le parole continuavano a scorrere, dettate solamente dal terrore e dall’istinto di sopravvivenza. «Se hai un cuore dietro la tua pistola e i tuoi coltelli, se non è completamente impietrito, se una piccola parte di te ancora vive e ancora possiede dei sentimenti, Luke, non uccidermi. Stai condannando un innocente, se non fosse stato per lui, avrei accettato la mia morte, avrei accettato tutto, non ti avrei pregato. Ma sto solo proteggendo mio figlio… abbi pietà per una volta, almeno per lui, la cui unica colpa è essere figlio mio.»
E fu strano a dirsi, ma si udì il rumore di una lama che urtava il suolo. Un tintinnio che fece tirare ad Amelia un sospiro di sollievo e che non fu sufficiente per risvegliare Luke. Quelle parole l’aveva mandato indietro nel tempo, l’avevano paralizzato. Le aveva già udite una volta, come dimenticarle? Come dimenticare quel sorriso, spento poi dalla delusione che lui stesso aveva causato? No, non poteva lasciarsi andare, non in quel momento.
Amelia non riuscì a contare i minuti in cui nessuno dei due si mosse. Lei, ancora ferma e immobile, contro il muro; lui, poco distante dal corpo della ragazza, con il palmo della mano sinistra premuto sui mattoni gelidi, vicinissimo alla testa di lei, e l’altra mano che penzolava nel vuoto, aperta, che si era appena lasciata sfuggire l’arma con cui i respiri di Amelia avrebbero cessato, scomparendo nell’oblio, soffocati dal sangue.
E con il capo chino su quello di Amelia, Luke pensò. Voleva ucciderla, rientrava nei suoi piani, ma che diritto aveva di uccidere anche un innocente, come lei stessa l’aveva chiamato? Che diritto aveva di privare un figlio della madre, quando il destino stesso aveva privato lui dell’unica donna che gli aveva mai mostrato un po’ d’amore?
Dopo un momento interminabile, alzò finalmente la testa e puntò di nuovo i suoi occhi in quelli della ragazza. La guardò, ma questa volta non c’era disprezzo o rabbia. Le lesse nello sguardo paura, terrore, tristezza, ma soprattutto, speranza. Ecco cos’era quel barlume, quella fiammella che in fondo alla sua anima, cercava di farsi strada. Speranza.
Che sentimento bizzarro, la speranza. Immortale, anche se debole; perennemente in bilico, perennemente vincitrice, perennemente ingannatrice. Bruciava, ma non abbastanza da riscaldare. A volte gelava, ma mai abbastanza da spegnersi del tutto.
«Vattene via, immediatamente» disse. Lo disse lentamente, la sua voce sprezzante non rifletteva i suoi pensieri. «Prima che cambi nuovamente idea.»
Luke chiuse gli occhi, quando li riaprì, persino il suono dei passi di Amelia sembrava lontano anni luce. Appoggiò la testa al muro e strinse i pugni, fino a conficcarsi le unghia nei palmi delle mani.
Maledetta Amelia e maledette le sue parole! Maledetti i ricordi, l’argine si era rotto e il fiume delle sue memorie aveva ricominciato a scorrere, più inesorabile che mai. Era riuscito a bloccarlo, tanto tempo fa. Cominciò a fare dei respiri profondi, quanto tempo era passato da quando quelle parole erano suonate così strane? Due anni e mezzo, forse di più. Ricordava solo che andava ancora a scuola, aveva sedici anni. No, ne aveva diciassette, compiuti da soli tre giorni.
Respirò ancora. Non l’aveva più vista, dopo quel momento. Aveva commesso un’azione imperdonabile. E si odiava!
Si passò le mani tra i capelli, come avrebbe potuto vivere, adesso che la sua mente aveva ricominciato a subire i tormenti del suo passato? Avrebbe voluto gridare, urlare, gettarsi a terra e infine punirsi, ma sapeva che da tempo ormai si precludeva questi sentimenti così vili.
Si limitò a chinarsi per raccogliere il coltello, se lo rinfilò in tasca. Tornò a casa, ma sapeva già che non era quello, il posto di cui aveva veramente bisogno.
Casa era da un’altra parte, ma dove fosse, questo Luke lo ignorava.
E mentre camminava, improvvisamente capì. Capì qual era il posto che lo stava attendendo in quel momento, capì che non poteva più aspettare e non gli importava che fosse tardi, che fosse notte. Le sue azioni erano guidate dal solo bisogno di sentirsi vivo e innocente, anche solo per un attimo, di ritornare ad avere diciassette anni ed essere solamente un ragazzo con già troppi errori sulle spalle.
Ma Luke lo sapeva, di tutti quegli sbagli che lo avevano oppresso all’epoca, lui ne aveva commesso solo uno.
 

 
 

 
Marianne's corner
Ehm... sono passati tipo dieci giorni dall'ultimo aggiornamento. E non ho scusanti. Se non il fatto che per una settimana ho quasi avuto una vita sociale, che tornavo a casa e non avevo la forza di fare niente. Tipo scrivere. O aggiornare. Pensate che una volta ho chiesto a mia sorella di mettermi a caricare PLL perché non volevo accendere il computer... ma che vogliamo farci? Uscire è faticoso ouo.
Comunque, da circa due giorni mi sono fidanzata con il condizionatore, quindi non lo mollo più (e tuttavia, non trovo ancora il tempo di fare nulla) ed eccomi qui a postare :D Spero possiate perdonarmi.
Dicevamo... Lukey trova Amelia a girovagare per strada e... TRAGEDIA: cerca di ucciderla. Lei prova a smuovere il suo cuore di non-pietra dicendogli che è incinta e miracolo della settimana: Lucas si ferma e le dice di filarsela. Ovviamente la nostra eroina non se lo fa ripetere due volte, maaaa cos'è il ricordo che Amy ha scatenato esattamente?
Cos'è successo al nostro Luke quando aveva diciassette anni da segnarlo così profondamente? Lo scoprirete nel prossimo capitolo (che, ve lo giuro, riuscirò a postarlo entro sabato!).
Detto questo, mi odio per non riuscire a rispondere alle recensioni dello scorso capitolo, ma davvero non so quando farlo çç quindi, lo dicò qui e faccio prima.
Vi ringrazio con tutto il mio cuore, soprattutto McPaola, Hazel_, DarkAngel1 e genesisandapocalypse che recensiscono SEMPRE. Grazie di tutto, seriously! ♥
(C'è anche un dizionario di greco che mi ricorda che ho avuto 7 per un pelo, che l'anno prossimo ho un esame di stato e che la seconda prova sarà quasi sicuramente greco e che devo esercitarmi perché quando inizierà la scuola non avrò tempo per fare versioni! E vado al classico, sì... T____T pregate per me).
Un bacio grande grande,
Marianne


 

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Capitolo 15
*** L'unica ragione ***





15 – L'UNICA RAGIONE

 

 
L’indirizzo lo conosceva a memoria.
L’aveva appreso un anno prima, quando aveva saputo che si era trasferita, e da quel momento, anche se non era mai andato a trovarla, non l’aveva più rimosso dalla mente.
Erano quasi le dieci di sera e Luke si trovava davanti ad una modesta villetta, in un quartiere residenziale. L’aria, seppur fredda, non si muoveva, tutto sembrava essere immobile e perfetto. Le luci al piano terra erano accese, quelle del piano superiore no; un’automobile modesta era parcheggiata nel vialetto, e tutto intorno un recinto in ferro con graziosi motivi floreali; le piante e i fiori non riusciva a vederli, perché le luci esterne erano spente, ma immaginò che fossero perfettamente curate, rigogliose anche nel bel mezzo del rigido inverno.
Con passi lenti e incerti, silenziosi ma pesanti allo stesso tempo, si trascinò fino alle scale che portavano alla piccola veranda, le salì e si ritrovò davanti alla porta d’ingresso. Guardò il campanello per un manciata di secondi e solo dopo aver smesso di pensare, fu in grado di pigiare il dito sul bottoncino dorato. Il trillo fu fastidioso, Luke udì una voce femminile provenire dall’interno della casa e sospirò, l’avrebbe riconosciuta tra milioni. Non riuscì però a capire quello che aveva detto, si domandò se fosse con qualcuno, si disse che forse, era ancora in tempo per scappare via e presentarsi un altro giorno.
Ma no. Si costrinse a rimanere lì, con i piedi ben piantati a terra: sapeva che, se fosse scappato, avrebbe rimandato quel momento all’infinito e non si sarebbe mai più ripresentato a casa sua.
Un attimo dopo, la porta si aprì. Luke non riuscì a decifrare l’espressione sul volto di Hanna.
Non la vedeva da anni, ma non era cambiato nulla di lei. I folti capelli ricci e scuri erano lasciati sciolti, e i suoi occhi castani lo scrutavano curiosi, ma allo stesso tempo spaventati e forse anche confusi. Dopotutto, non si sorprendeva di non riuscire a capire cosa dicesse il suo sguardo, non ci era mai riuscito davvero. Hanna era stata l’unica possibilità che Luke avesse mai avuto di salvarsi e lasciarla andare era stato l’unico errore che aveva gravato sulle sue spalle e che continuava a farlo. L’unico errore di cui era davvero colpevole, l’unico errore che di notte lo soffocava e gli impediva di dormire. Più volte aveva immaginato la sua vita senza quell’errore.
Si era detto che, rimanendo con Hanna, adesso avrebbe potuto essere una brava persona, un ragazzo normale, capace di voler bene e di amare, imbranato con qualsiasi tipo d’arma, un bravo studente all’università o un bravo dipendente a lavoro. Quante cose sarebbero cambiate se Hanna fosse stata al suo fianco…
Gli sembrava impossibile essere arrivato a tanto, a presentarsi a casa sua, eppure c’era riuscito e adesso lei era lì, di fronte a lui. Era reale e bella, ma sembrava ancora un sogno. L’armonia che aleggiava nell’aria fu bruscamente spezzata dalla voce di lei.
«Che ci fai qui?» disse. Lo disse in modo sprezzante, cattivo, ma allo stesso tempo, Luke avvertì una sensazione di terrore, in fondo alla sua voce.
«Posso entrare?» chiese semplicemente lui, abbassando il capo. Fissava il pavimento della veranda.
Hanna ci mise un po’ a rispondere, prima sospirò, poi lo osservò attentamente. Fu tentata di dirgli di no, di chiedergli perché si fosse presentato solo adesso, con quasi tre anni di ritardo, ma non lo fece. Si limitò a dirgli: «Vieni…»
Luke rialzò lo sguardo, incredulo. Gli sembrava impossibile che gli avesse permesso di entrare, non rientrava tra le sue aspettative. E allora, mosse un passo incerto, e poi ne mosse un altro, fino a ritrovarsi nell’ingresso accogliente. Si richiuse la porta alle spalle, mentre Hanna percorreva il corridoio e poi svoltava a destra, entrando in un’altra stanza. Luke la seguì.
Si ritrovò in salotto. Non era molto grande, ma era ben arredato e rispecchiava esattamente il gusto di Hanna: le pareti erano di un colore avorio, la mobilia chiara, così come il parquet; le finestre erano tutte chiuse, così come le tende che le coprivano, di un tenue verde chiaro. Il tappeto era invece di un verde muschio, e ben presto Luke notò ogni sfumatura di quel colore, dai cuscini sul divano ai vasi in vetro sui mobili.
Ma quella che attirò più di tutto l’attenzione di Luke, che gli mozzò il respirò e che lo trasportò totalmente in un’altra dimensione, fu una bambina.
Era appollaiata sul bracciolo del divano, aveva qualche ricciolo scuro che le copriva la fronte, ma quando alzò lo sguardo su Hanna, Luke poté notare i suoi occhi, di un azzurro profondissimo.
«Stavo per mettere Maya a letto, quando sei arrivato» sospirò Hanna, prendendo in braccio la bambina.
«Maya…» ripeté Luke. Quindi era quello il nome che aveva deciso di darle. Non smettendo di guardare la piccola Maya, Luke ricordò ogni cosa, e seppe di non aver mai dimenticato niente, nonostante si ostinasse ad esserne convinto.
Ricordò il penultimo anno di scuola, ricordò di aver compiuto diciassette anni da pochissimi giorni, ricordò Hanna che gli prendeva la mano, lo portava in cortile, in un angolo solitario, e all’insaputa di tutti gli confidava il segreto più grande, pronunciava le parole che avrebbero creato in Luke un profondo spavento, le stesse parole che, quella stessa sera, gli avevano fatto ritrovare la ragione.
Sono incinta.
In quel momento di tre anni prima, Luke aveva visto il proprio futuro crollare di fronte a lui. Come poteva essere accaduto? Hanna era incinta, Hanna aspettava un bambino, un bambino suo. E allora, aveva fatto la cosa più sbagliata che si potesse fare, l’errore che aveva condannato il suo futuro invece di salvarlo: l’aveva lasciata. Sola e abbandonata al suo destino, a portare il figlio di qualcuno che aveva preferito scappare, anziché aiutarla.
Solo adesso, Luke realizzava che Hanna era stata, ed era rimasta, l’unica ragione per cui non riusciva a perdonarsi e continuare a vivere la propria vita come se niente fosse. Credeva di essere riuscito ad eliminarla dalla sua testa, credeva di aver spento ogni emozione, ma Amelia glielo aveva fatto ricordare, Amelia gli aveva detto che era disposta a tutto pur di proteggere il figlio che portava in grembo. Così, non appena Luke aveva visto Maya e aveva incontrato i suoi piccoli occhi dello stesso colore del cielo, aveva compreso alla perfezione la determinazione di Amelia, che non si arrendeva mai, nemmeno ad un passo dalla morte; così come aveva compreso la determinazione di Hanna, che non si era arresa, nemmeno di fronte alla solitudine.
«È una bambina bellissima» mormorò. «Posso… posso tenerla in braccio? Un momento solo.»
Hanna annuì lentamente. Non seppe come, né seppe perché, ma Luke sembrava così… se stesso, in quel momento. Sembrava privo di ogni armatura e dignità, privo di rabbia e odio.
Era infinitamente umano.
Così, senza temere nulla, affidò delicatamente Maya alle braccia forti di Luke. Lui la prese e la guardò, sorrideva senza nemmeno accorgersene.
«Ha i tuoi occhi» disse Hanna, ma Luke non l’ascoltò davvero, l’aveva già capito da solo.
«Mamma?» disse all’improvviso la bambina, attirando l’attenzione di entrambi. «Ma lui chi è?»
Hanna si affrettò a riprendere Maya tra le braccia. «È Lucas, un amico di mamma, è venuto a salutarci. Ma adesso noi andiamo a fare la nanna» rispose Hanna, accarezzando i capelli di Maya. Poi si rivolse a Luke. «Puoi aspettare qui, se vuoi. È stanca, ci metterà poco ad addormentarsi.»
Luke annuì e aspettò che Hanna scomparisse su per le scale per potersi sedere sul divano di pelle bianco. Si guardò attorno, la casa non doveva essere molto grande di per sé, ma lo era sicuramente per una donna e una bambina. Si chiese come avesse fatto Hanna a trasferirsi, a vivere da sola nonostante avesse perso un anno di scuola. Sapeva che la sua famiglia era benestante, quindi avrebbe potuto aver ricevuto degli aiuti dai genitori, ma c’era un martellante quesito che non voleva abbandonare la sua testa. Un quesito che aveva quasi paura di risolvere.
Quando la ragazza ritornò, Luke si svegliò dallo stato di trance, riemerse dai suoi pensieri. Hanna si mise seduta accanto a lui, e Luke non riuscì a frenare la lingua.
«Vivi con qualcun altro? Oltre a Maya…» le chiese, diretto e senza troppo preamboli. Hanna, inizialmente, restò colpita da quella domanda, tant’è che ebbe bisogno di qualche secondo per elaborarla.
«Lucas... dopo che è nata Maya, ho dovuto vivere sommersa dai pregiudizi. Anche dopo il liceo, ovunque andassi c’era gente pronta a giudicarmi. Ovunque, persino al supermercato. Ma d’altra parte, cosa potevo aspettarmi? Portare una bambina al parco e avere diciotto anni causerebbe lo sdegno di chiunque. Ho fatto fatica a ignorare tutti quei pregiudizi e ho fatto pace col fatto di essere una ragazza madre e che niente poteva cambiarlo. Amo Maya, è la cosa migliore che mi sia capitata e se potessi, non cambierei mai quello che è successo, anche se mi ha fatto perdere te» iniziò. Luke la seguiva attentamente, aspettando di ricevere una risposta. «Poi ho incontrato qualcuno a cui non importava. Lui… si chiama Gale. Non gli importava che non potessi uscire la sera perché dovevo badare a Maya, anzi, a volte rimaneva qui con me. Non gli importava che avessi poco tempo libero, lui mi ha accettata così com’ero. Ha un lavoro stabile e io lo amo. Come sai, non è lui il padre di Maya, ma l’adora come se lo fosse. Robert ama mia figlia e lei lo considera come un papà. Quando sarà grande forse gli diremo la verità, per adesso è meglio così. Io sono riuscita a sopravvivere e sono felice.»
«Mi chiami ancora Lucas» osservò lui, sorridendo. «Allora non devi odiarmi così tanto.»
«Sei stato il mio primo amore, non posso odiarti, né dimenticarti. Di sicuro non perderò l’abitudine di chiamarti Lucas» rispose Hanna. «E tu? Tu sei felice?»
Luke rimase come paralizzato.
Non si era mai fatto quella domanda, nessuno gliel’aveva mai posta. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che Luke aveva pensato alla felicità…
Lui era felice? Per saperlo, avrebbe dovuto prima capire in cosa consistesse esattamente l’essere felici. Realizzare le proprie ambizioni, forse, ma quello si configurava più con la soddisfazione  e l’orgoglio che con la felicità. La felicità poteva forse consistere nel raggiungere la propria pace interiore, ma  per riuscirci Luke avrebbe dovuto porre fine alla vita di chi lo ostacolava, e poteva la felicità risiedere nella morte di qualcuno, per quanto lo si odiasse?
No. La felicità doveva essere qualcos’altro, qualcosa che Luke non ricordava abbastanza per capire cosa fosse. Pensò cha l’ultima felicità provata potesse risalire a tempi della scuola, quando era ancora un ragazzo innocente, ma l’innocenza non c’entrava nulla con la felicità. Allora andò ancor più indietro nel tempo.
Ricordò quando sua madre era ancora viva, quando lo prendeva in braccio, lo ricopriva di baci e carezze, gli diceva che era il suo cavaliere. Ricordò il calore dei suoi abbracci e alla luminosità dei suoi sorrisi.
Sì, quella era la felicità.
E Luke si rese tristemente conto che non provava una cosa del genere da tanto tempo, forse troppo, forse non provare felicità per anni poteva essere disumano, ma lui cosa poteva farci?
Tuttavia, mentì. «Sì, credo di sì» rispose. «Vedere Maya mi ha… reso felice.»
«C’è una cosa che devo chiederti» disse Hanna.
«Sì, dimmi.»
«Promettimi che questa è una delle ultime volte, se non l’ultima in assoluto, che vieni qui. Promettimi che non cercherai di entrare di nuovo nella mia vita o in quella di Maya. Io ti ho amato, ti ho voluto bene, ma ho conosciuto anche le parti peggiori di te e non voglio che le conosca anche nostra figlia. Per il suo bene, ti chiedo di starci lontano.»
Lontano. Hanna era stata nuovamente la sua rovina e la sua salvezza. Stare lontano dall’unico barlume di speranza sarebbe stato doloroso, ma avrebbe facilitato il pieno possesso di se stesso. Hanna gli aveva aperto gli occhi: la parte peggiore di lui non poteva coincidere con l’avere una famiglia.
E Luke sapeva benissimo che la sua parte migliore era morta tanto tempo fa.
«Te lo prometto.»
 

 
Marianne's corner
Dovevo aggiornare ieri, ma ho letteralmente perso la cognizione del tempo. Sorry.
Ora, da brava bambina mi sono fatta forza e coraggio e ho risposto anche alle recensioni del capitolo tredici u.u Direi che mi merito un premio.
Poi, passiamo alle cose importanti. Tra una settimana vado via e starò in mezzo alle Alpi senza internt (e probabilmente nemmeno campo telefonico, lol) fino a fine Luglio. Ergo, GIURO SOLENNEMENTE di aggiornare prima di allora. Col prossimo aggiornamente si risolveranno un paio di cose, quindi non vi lascio sulle spine e non sarò tanto tanto cattiva.. u.u
Cos'abbiamo qui? La figlia segreta di Luke! EHEHEH, lo sapevate che aveva un lato umano anche lui, no? Peccato che non durerà a lungo, o forse sì... chi può dirlo. Sappiate solo che tutti questi nuovi personaggi non saranno molto importante. Hanna lo è stata prima di tutto ciò e comparirà ancora un paio di volte, verso la fine. Per il resto, nada.
Ok, adesso vi lascio e spero che vi sia piaciuto! Fatemelo sapere, che le recensioni non mordono mica u.u ♥
Bacioni,
Marianne
 

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Capitolo 16
*** Perdonami ***



 
16 – PERDONAMI
 
 
L’avevano trovata a notte fonda, seduta sul ciglio della strada, mentre sorseggiava una birra scadente, comprata con pochi spiccioli ad un distributore automatico. Aveva i capelli scompigliati dal vento e lo sguardo vacuo, perso nel nulla. Calum era uscito per cercarla e, ingenuamente, aveva pensato che si trovasse in qualche posto al chiuso. Invece di trovare Amelia, aveva trovato Ashton, che se ne stava appollaiato sullo sgabello di un bar a fissare il suo bicchiere, ormai vuoto. Dunque, in breve, Calum gli aveva raccontato cosa era successo a casa: le lacrime, le urla, lei che aveva cominciato a vaneggiare ed era scappata in fretta e furia. Ashton aveva dimenticato qualsiasi cosa che l’avesse spinto a rifugiarsi in un bar di periferia, a nascondersi come un ladro e a scappare da tutti i suoi sbagli. Aveva pagato, senza nemmeno badare al resto, e si era fiondato fuori. Le parole di Calum erano suonate come un pericolosissimo campanello d’allarme.
I minuti passati in macchina erano stati un’agonia per Ashton, quelli passati a camminare e a cercare Amelia in ogni angolo erano stati addirittura peggiori. Non riusciva a credere che avesse fatto davvero una cosa del genere, ma dopotutto, non poteva aspettarsi diversamente da una persona come lei, da una persona che aveva sempre lottato per quello che voleva. Amelia era stata quella persona che per amarlo era stata rapita, che per assicurarsi che stesse bene era stata ferita da un’arma da fuoco, ed era la stessa persona che, dopo aver litigato, era comunque uscita a cercarlo, preoccupata che gli fosse successo qualcosa di grave.
Era mezzanotte passata, quando finalmente la trovarono. Lei se ne stava lì, sul marciapiede, seduta a fare niente, come se volesse annullarsi, oppure estraniarsi totalmente da quello che la circondava.
Ashton si lanciò immediatamente al suo fianco, non sentì l’impatto delle ginocchia contro l’asfalto, non sentì l’aria fredda che sferzava sulla pelle, sentiva solo un dolore lancinante nel petto, causato dal fatto che lui era lì e lei non reagiva.
«Amelia, Amelia!»
La richiamarono decine di volte, ma non succedeva niente. Alla fine, decisero che era meglio tornare a casa: lì fuori era troppo buio e faceva troppo freddo. La ragazza non si oppose quando Calum le porse la mano per tirarsi su, non fece alcuna resistenza quando Ashton la fece sedere in macchina, sui sedili posteriori, tuttavia, rimase comunque impassibile ogni qualvolta che lui la toccava o provava a dirle qualcosa. Tornarono a casa, salirono le scale lentamente.
Non appena aprirono la porta, Nola scattò sull’attenti. «Ma dove eravate? È tardissimo, ho pensato che vi fosse successo qualcosa!»
«No, noi stiamo bene» la rassicurò immediatamente Calum, sorridendole. «È solo Amelia… ha deciso di non parlarci.»
Poi lanciò uno sguardo alle sua spalle, sul divano. Ashton era seduto accanto ad Amelia, che indossava ancora il cappotto. Le teneva le mani, le parlava, cercava di ottenere una qualsiasi risposta, un qualsiasi suono, una reazione, un qualcosa.
«Forse dovrebbero andare di là» osservò Nola.
«Sì, hai ragione» rispose Calum, per poi rivolgersi ad Ashton. «Credo che sia meglio se rimaniate soli… se volete andare nell’altra stanza…»
Ashton annuì. Di nuovo, Amelia non disse nulla, né controbatté, quando  Ashton le chiese di seguirlo.
Furono soli, nella penombra della stanza, illuminata solamente da un’abat-jour sul comodino. In silenzio e nella calma più assoluta, si misero seduti sul letto, poi, le si tolse il cappotto perché iniziava a sentire caldo. Passarono alcuni momenti, prima che Ashton decise di parlarle nuovamente, di riprovare a capire cosa le fosse successo e perché sembrasse così persa in se stessa.
«Amy, ti prego, dimmi qualcosa. Qualsiasi cosa» la supplicò ancora una volta. Amelia non disse niente, dapprima. Ashton sospirò, non sapeva più come fare, credeva che non sarebbero mai riusciti a risolvere la questione, credeva di aver mandato tutto all’aria. Ma proprio quando le speranze sembravano perdute, ecco che Amelia pronunciò le prime parole di quella notte piena d’agonie e angosce.
«Ho avuto tanta paura» disse semplicemente, guardandolo negli occhi.
Ashton la strinse a sé, le circondò la schiena con le braccia e le baciò la testa innumerevoli volte, le accarezzò il volto fino a consumarlo e fu incapace di dire qualsiasi cosa  finché lei continuò a guardarlo.
Poi, si disse che doveva essere coraggioso. «Paura di cosa, amore mio? Da cosa non ho potuto proteggerti?»
«Da Luke» rispose Amelia. «Dalla sua sete di vendetta.»
«Cosa ti ha fatto?» chiese Ashton.
Amelia provò a rispondere, ma scoppiò inevitabilmente in lacrime. Passò un bel po’, prima che si calmasse. Passò così tanto tempo che, nell’altra stanza, Nola aveva aiutato Calum ad aprire il divano letto e avevano deciso che avrebbero dormito lì, dal momento che Ashton e Amelia avevano tanto di cui parlare e che non ci avrebbero impiegato poco a chiarire tutto.
Alla fine, dopo che ogni lacrima versata si trasformava in un pezzo di vetro, pronto a ferire qualsiasi cosa trovasse nel suo cammino, pronto a ferirli entrambi, a farli sanguinare copiosamente, Amelia smise di singhiozzare, si asciugò il viso, intrecciò la mano con quella di Ashton e cominciò a respirare profondamente.
«Io non lo so come è successo. Camminavo, volevo trovarti, perché ancora non ci credevo che te ne eri andato. E poi è spuntato all’improvviso, l’ho visto e adesso mi rendo conto che avrei potuto fare migliaia di cose, scappare, per esempio, rifugiarmi in qualche locale e chiamarti, chiamare Calum, Valerie, chiunque! E invece cosa ho fatto, Ash? Sono rimasta lì, immobile, come se fossi paralizzata. È stata la sensazione più orribile che io abbia mai provato in tutta la mia vita» iniziò. «E ho avuto tanta paura. Ha iniziato a parlare in modo strano, diceva di volerci tutti morti, ma che non aveva ancora capito come fare. Poi ha detto che non aveva motivi per non uccidere me, in quel momento. E lì ho pensato che fosse davvero la fine, e che fine orribile. Sarei morta dopo averti guardando andare via, sapevo che non me lo sarei mai perdonato.»
«E poi?» chiese Ashton, con un filo di voce. Aveva la gola secca.
«Allora, non so cosa ho fatto. Io gli ho semplicemente parlato di lui… di nostro figlio e Luke… si è fermato. Semplicemente questo. Mi ha guardo con gli occhi spalancati, mentre pensava a chissà cosa. Poi mi ha detto di andarmene, e allora ho corso. Volevo ancora te, ma non riuscivo a fare niente. Ho comprato qualcosa da bere e poi… poi ricordo solo di aver desiderato di non esistere.»
«È tutta colpa mia» soffiò piano Ashton, posandole una mano sulla guancia. La mano di lei andò subito a raggiungerla. Le sue dita delicate accarezzavano lentamente quelle di Ashton, mentre si guardavano negli occhi.
«No, come potrebbe esserlo? Mi sono trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato» replicò Amelia.
«Se io non me ne fossi mai andato, tu non saresti venuta a cercarmi. Luke non ti avrebbe mai trovato. Saremmo rimasti a casa, al sicuro» continuò lui. Non riusciva più a sostenere il suo sguardo, il senso di colpa era enorme, gigantesco. Lo affliggeva.
«Non importa adesso. L’importante è che io sia qui, e che tu sia con me. Che siamo entrambi vivi, che nonostante tutto, Luke non è riuscito a sconfiggerci nemmeno questa volta» disse Amelia. Fu lei a circondare il volto di Ashton le mani, stavolta.
«Sai che non me lo perdonerò mai» disse Ashton.
«Tu sei troppo duro con te stesso. E lo so, forse non te lo perdonerai mai. Ma io sì. Io ti ho perdonato molto tempo fa per tutto quello che avevi fatto, che stavi facendo e per tutto ciò che avresti eventualmente fatto in futuro» gli disse. «Non potrei mai negarti qualcosa come il perdono, sarebbe come negarti il mio stesso amore.»
«Guardiamo in faccia la realtà, te ne prego. Non so come o per quale motivo Luke abbia cambiato idea, ma questa notte… sappiamo entrambi cosa sarebbe successo e sappiamo entrambi di chi sarebbe stata la colpa» continuò lui, ostinato.
«Ma non è successo!» esclamò Amelia.
«Sei consapevole che non possiamo continuare a vivere giorno per giorno? Prima di metterci a dormire, la sera, non possiamo guardarci e dire:  “Oh, hai visto? Non siamo morti nemmeno oggi”. Io non ce la faccio a vivere così, è semplicemente troppo.»
«È difficile, lo so, ma non abbiamo altra scelta. Ne abbiamo discusso prima e non voglio farlo un’altra volta, io…» disse Amelia. «Questa notte voglio dimenticare e basta.»
Bastò una frazione di secondo perché Ashton potesse baciarla. In quel preciso istante, aveva solo bisogno di quello. Di sentirla vicino a sé, di sentire il sapore delle sue labbra, di provare a scusarsi e a non incolparsi con un bacio. Ma i baci non bastavano, improvvisamente, i loro respiri si affannarono sempre di più, le braccia si intrecciarono, si tiravano per i capelli. Nella stanza cominciava a fare troppo caldo, Ashton si tolse la felpa, Amelia il maglione.
Continuarono a baciarsi, mordersi, senza mai prendersi un momento di respiro, almeno finché non risultava necessario. Si sdraiarono sul letto, i loro movimenti erano a tratti goffi e impacciati.
«Fai l’amore con me» sussurrò Amelia nell’orecchio di lui. Lo guardò negli occhi, ma Ashton non ebbe bisogno di rispondere. Si conosceva abbastanza bene da sapere che, quella notte, avrebbe fatto qualsiasi cosa Amelia gli avesse chiesto. Qualsiasi cosa. Avrebbe ceduto ad ogni sussurro.
E allora, tutto il resto perse importanza. Calum e Nola erano nella stanza accanto, ma non se ne curarono, entrambi volevano dimenticare quello che era successo, ed entrambi sapevano che per farlo avevano bisogno di sentirsi, di appartenersi, di entrare in un’altra dimensione, insieme, con i cuori che battevano all’unisono che sembravano in procinto di scoppiare ad ogni minuto che passava.
Fecero l’amore come se fosse ancora tutto facile, come se Luke non li stesse cercando. Lo fecero delicatamente, dolcemente, lentamente, come in una danza. I baci che si susseguivano incessantemente, uno dopo l’altro, le mani che si andavano sempre a cercare e che non erano mai né troppo rudi né troppo delicate. Fu perfetto, e dimenticarono davvero tutto quello che stava succedendo in quel periodo. Riuscirono solo a pensare al fatto che si amavano, che avrebbero avuto un figlio, che in un’altra vita avrebbero potuto essere felici come una coppia normale, ma che la vita che avevano era quella che dovevano accettare, per quanto difficile fosse, per quante complicazioni presentasse ogni giorno.
La stanza rimase silenziosa, perché non c’era bisogno di alcun suono a dimostrare il loro amore, l’aria veniva infranta solo da qualche sporadico sospiro.
Dopo, alla fine, non riuscirono ad addormentarsi subito, nonostante la stanchezza. Si guardarono, Amelia si beò del tocco di Ashton sull’ancora leggera curvatura del suo ventre, pensò ad Ashton che accarezzava il bambino e sentì una tranquillità e ed una serenità dilagare nel cuore e nella mente, come non le sentiva da tanto tempo. Quando riuscirono entrambi a chiudere gli occhi, il cielo albeggiava, tingendosi di rosa e arancione. La notte era finita e la mattina aveva portato con sé la pace e il perdono.
 
 

Marianne's corner
Hola!
Angolo "autrice" molto flash perché ho una MAREA DI COSE DA FARE. Tra dodici ore (quindi sì, alle quattro di domani mattina) devo svegliarmi e affrontare un viaggio infinito. (9 ORE DI MACCHINA, IO NON SO SE CI RENDIAMO CONTO). E sapete la cosa buffa? I miei vestiti sono tutti sul letto, le valigie sono vuote, dobbiamo ancora comprarci il pranzo (più vari snack eheheh) e in tutto ciò c'è anche il mio cane che deve fare i suoi bisogni. Aiuto.
Quindi, in breve, ve l'avevo detto che il capitolo avrebbe risolto un paio di cose aka la situazione tra Amelia e Ashton. HANNO FATTO PACEE I MIEI AMORI *sclera*
E ora sono di nuovo tutti felici e contenti! Amen. Spero davvero che vi sia piaciuto perché ogni volta che scrivo dei miei Ashelia sclero come una scema perché sono carini carini *---*
Nada, ora devo davvero scappare, appena torno a casa rispondo alle recensioni del capitolo precedente! :D
Un bacione a tutti/e ♥
Marianne
PS: Dato che parto e non sarò reperibile fino al 28 luglio, il prossimo aggiornamento, male male che vada, arriverà ai primi d'Agosto, ma se riesco a scrivere in mezzo alle Alpi, provo appena torno :3

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Capitolo 17
*** Per tutta la vita ***



 
17 – PER TUTTA LA VITA
 
 Era una mattina di Ottobre, una delle tante. La temperatura si era un po’ innalzata, i fiori si svegliavano dal loro sonno, sbocciando colorati e profumati. A casa di Calum, le finestre erano spalancate e l’aria portava con sé grandi cambiamenti. In fondo al corridoio erano accatastate un paio di valige e un borsone. Non mancava molto, ormai, tre mesi e avrebbero avuto una vita in più da proteggere, per questo Amelia ed Ashton avevano deciso di sistemarsi altrove. Negli ultimi due mesi, erano riusciti a trovare un appartamento. Era il secondo piano di una villetta, messo in affitto da un anziano signore che occupava solo il primo. Si trovava in un quartiere residenziale, tranquillo e lontano dal centro di Sydney, lontano da Eastwood, lontano da casa di Calum e lontano dalla vecchia di casa di Ashton, dove adesso vivevano Valerie e Michael. Non si era illusi, tuttavia: scappando non avrebbero risolto i loro problemi, ma li avrebbero solamente accantonati, il che era ancor più  pericoloso. Non avrebbero mai abbassato la guardia: Luke vedeva e sentiva ovunque, era pieno di informatori e loro avrebbero cercato di essere il più discreti possibile
Ashton era certo che avrebbe ricominciato a dormire con una pistola sul comodino e svariate armi disseminate per l’appartamento, ma non gli importava, erano solo misure di sicurezza.
«Allora, ve ne andate sul serio» disse Nola. In quei mesi aveva imparato a fidarsi di tutti loro, erano diventati amici, erano stati i suoi protettori. Si chiese se sarebbe mai riuscita a ripagarli a dovere.
«Sì, Cal è stato fin troppo gentile ad ospitarci per tutto questo tempo» rispose Amelia.
Il diretto interessato si permise di contraddirla. «Era una cosa seria, non vi avrei mai lasciato lì fuori.»
«Ti dobbiamo molto» disse Ashton, a quel punto. Amelia lo guardò: sapeva che tra i due non era mai scorso buon sangue, ma capì che avevano imparato a dimenticare il passato e a guardare solamente i fatti. Calum aveva perdonato Ashton per tutto ciò che gli aveva causato prima che tutto cambiasse, ed Ashton aveva smesso di vedere in lui una minaccia, un rivale. Adesso, vedeva solo una persona buona. Forse troppo, per essere coinvolto in quella storia.
«Non mi dovete niente. L’avrebbe fatto chiunque, no?» replicò Calum.
«Grazie lo stesso, Cal» Amelia sorrise e corse ad abbracciarlo. Se solo ripensava a quanto il loro rapporto fosse cambiato, stentava a crederci. Era incredibile come le persone potessero cambiare, come potessero evolversi e riuscire a mutare quasi completamente. Pensò che quella capacità, la capacità di cambiare e adattarsi, fosse presente in tutte le persone, solo in differente quantità. Calum ne aveva tanta, più di tutti loro.
«Spero riusciate a trovare un po’ di tranquillità, sul serio. Ve la meritate» disse.
«Finché Luke sarà sulle nostre tracce, non ci sarà nessuna tranquillità» sospirò Ashton.
Nola cominciò ad annuire. «Ha ragione…»
«Be’, adesso pensiamo a caricare tutta questa roba in macchina!» esclamò Amelia, prendendo Ashton sottobraccio. «E voi due venite a trovarci, qualche volta.»
Calum sorrise. «Certo!»
Ashton abbozzò un sorrisetto, mentre Amelia lo trascinava letteralmente fuori dalla porta. Si stavano dimenticando una valigia, tornarono indietro a riprendersela, salutarono un’altra volta, e poi la porta si chiuse. E Calum si permise di sospirare, consapevole che non avrebbe più rivisto Amelia varcarla, o almeno, non così spesso a come era abituato.
In qualche strano modo, Nola lo notò. Guardò Calum a lungo, che a sua volta fissava la porta d’ingresso. Qualche momento dopo, gli toccò il braccio, riportandolo con la mente alla realtà e i piedi sulla terra.
«Cal» iniziò. «Mi hai detto tante cose, ma c’è una storia che non mi hai mai raccontato, in questi mesi.»
«Impossibile» ridacchiò Calum.
«Invece sì, ne manca una sola» replicò la ragazza. Il suo sguardo di ghiaccio non sembrava poi così freddo.
«E sarebbe?» domandò lui, aggrottando la sopracciglia.
«La storia di come ti sei innamorato di lei. Di Amelia.»
Calum abbassò lo sguardo e si ritrasse istintivamente. Camminò fino a raggiungere la finestra, si appoggiò al davanzale. Nola non si era mossa, aveva solamente ruotato il busto e la testa, e aveva seguito Calum con lo sguardo. Non aveva detto niente, perché non ce n’era bisogno. Sapeva che, se avesse voluto farlo, Calum avrebbe parlato, altrimenti le sarebbe vento vicino, le avrebbe carezzato il viso in quel modo enigmatico ed indecifrabile e avrebbe solamente sospirato, dicendo che non c’era nessuna storia da raccontare.
Dopo un po’, lui le si avvicinò, le carezzò il viso e sospirò. Eppure, cominciò a raccontare una storia.
«Mi innamorai di Amelia solo dopo aver imparato ad amarla. Ed è strano, ma eravamo dei ragazzini, non avevamo preoccupazioni, eravamo un po’ incoscienti e siamo sempre stati accomunati da una cosa: voler scappare via» iniziò. «Quando avevamo sedici anni, immaginavamo la nostra vita se fossimo rimasti lì. Avremmo vissuto insieme, ci saremmo sposati e avremmo avuto una famiglia. Saremmo stati felici, ma… dopo tutto questo tempo, so che non sarebbe stata davvero felicità. A diciotto anni, capimmo che stare insieme a qualcuno non era un gioco, eppure noi ce la facevamo, ce l’avevamo sempre fatta.
Quando lei scappò, io la persi, ma la cosa mi andava ancora bene, perché se lei era felice, allora lo ero anche io. Mi convinsi di non essere più innamorato di lei, ma mi ero dimenticato un particolare fondamentale: io l’amavo ancora.»
Vide Nola sorridere tristemente, e sentì la fragile mano di lei stringere con forza la sua.
«Scappai anche io, dopo un po’. La ritrovai, me ne innamorai  una seconda volta. Lei mi diceva lo stesso, ma in cuor mio sapevo che mentiva. Non lo faceva appositamente, non lo sapeva nemmeno. Tempo dopo, le mie sensazioni tramutarono in realtà. Amelia si era innamorata di nuovo, ma non di me.
Quando ci lasciammo definitivamente, giurai a me stesso che non l’avrei mai più perdonata. Non le avrei mai concesso un’altra possibilità, ma cinque mesi fa, ho capito di essere un bugiardo. Perché lei si è ripresentata alla mia porta, con l’uomo di cui si è innamorata, con quello che l’ha inconsapevolmente portata via da me, con un figlio che deve ancora arrivare e con mille guai alle spalle.
L’ho perdonata e le ho dato la possibilità di fare pace. E nonostante il dolore e la sofferenza, non riesco a pentirmene.»
Nola sospirò. «Posso farti una domanda?»
«Certo» rispose Calum.
«Sei ancora innamorato di lei?»
«No.»
«Ma l’ami ancora? Come l’ultima volta?»
«No. Stavolta no» rispose Calum. «Stavolta credo di essermi innamorato di qualcun altro.»
Nola lo guardò e, per la prima volta, gli regalò un sorriso davvero sincero. In esso non albergava alcuna finzione, alcuna forzatura. Sorrise perché le parole di lui gliel’avevano fatto fare, e non fece nemmeno in tempo a guardarlo negli occhi, perché prima decise che doveva assolutamente baciarlo.
 
Aveva scelto un ristorante molto anonimo, ma comunque gradevole e dalla buona cucina. Il tavolo che aveva prenotato era appartato, lontano dal chiasso e dal viavai dei camerieri. Avevano mangiato un risotto ai funghi e delle ottime scaloppine al vino. Michael si era perso nella risata di Valerie già mentre aspettavano che gli venisse servita la prima portata.
Non vivevano una simile tranquillità da tempo, quindi si era detto che una serata del genere non avrebbe potuto guastare. Difatti, quando le aveva detto che l’avrebbe portata a cena fuori, Valerie aveva cambiato completamente umore. Il suo sguardo si era illuminato, la sua voce si era fatta più dolce.
Ed era bellissima, truccata con luce e armonia, vestita di sole e luna. Ad ogni sguardo, ad ogni parola, Michael sentiva che ogni momento avrebbe potuto essere quello giusto. Nella tasca dei pantaloni, c’era quella minuscola scatolina che sembrava pesare più del previsto.
Quando erano usciti di casa, quasi non l’avvertiva. Ora, al ristorante, mentre chiedeva alla cameriera di portargli il conto, pesava un quintale, ma si disse di dover assolutamente resistere, di aspettare almeno un po’, aspettare di uscire dal ristorante.
Avevano preso la macchina e Michael aveva guidato per qualche chilometro, poi si erano fermati, nei pressi del porto e avevano deciso di fare una passeggiata a ridosso dell’oceano.
Michael deglutì. Adesso quella scatolina pesava quanto il mondo intero, o forse anche di più. Non lo sapeva dire con esattezza, ma era certo di non potersi tener dentro tutto quello ancora per molto.
«E quindi, Amelia e Ashton si sono trasferiti momentaneamente nella vecchia casa dei genitori di lui. Dato quel che è successo, secondo me ha avuto un gran coraggio, non trovi?» stava dicendo Valerie, mentre camminavano, mano nella mano.
«Già. Se fossi stato in lui… non so se avrei mai affrontato una cosa del genere» rispose Michael.
Valerie sospirò. «Mi chiedo se tutto questo finirà, un giorno.»
«Finirà. Quello che non so dirti è se noi sopravvivremo o meno…»
Lei si fermò sull’asfalto. Michael si girò e la guardò negli occhi, confuso.
«Non dirlo, Mike. In qualche modo ce la faremo, anche se non so ancora come» asserì la ragazza, seria in volto.
Lui le si avvicinò e l’abbracciò, per poi accarezzarle il volto con entrambe le mani. «In fondo, ce la siamo sempre cavata, vero?» scherzò Michael.
«Più o meno, sì. Siamo qui a Sydney da cinque mesi e hanno cercato di ucciderci solo una volta» continuò Valerie, sempre ridendo.
Sdrammatizzare era l’unica arma che avevano contro il terrore. La paura di camminare per strada e morire per colpa di una pallottola o di un agguato c’era costantemente, e le risate erano l’unico modo per sconfiggerla.
«Sinceramente, pensavo che ci avrebbero provato molto di più» continuò lui.
Il sorriso di Val si spense pian piano, passo dopo passo. Camminarono ancora, ma stavolta in silenzio, almeno finché lei non si voltò a guardare verso la spiaggia. Pensò che se avessero potuto fuggire dalla vita stessa solo salendo su un aereo, o un traghetto, lei non ci avrebbe pensato due volte. Purtroppo, sapeva che, paradossalmente, era più sicuro rimanere lì e continuare a vivere come due ombre, in fuga da una luce troppo forte e violenta, che poteva spazzarli via entrambi con il minimo sforzo.
«Sai che ti dico, Mike? Che noi due sopravviviamo sempre, e a qualsiasi cosa. Quindi, sopravvivremo anche a questo» disse. «Ne sono sicura.»
Michael sorrise e dopo un po’ indicò una panchina, accanto a qualche cespuglio ben curato. «Siediti.»
«Cosa?» domandò lei, aggrottando le sopracciglia.
«Siediti, devo dirti una cosa» continuò lui.
Valerie non replicò e si andò ad accomodare sulla panchina, Michael rimase in piedi di fronte a lei. Ad un certo punto, mise una mano nella tasca destra dei pantaloni, afferrando quel peso che adesso equivaleva a tutte le stelle messe insieme. Strinse la scatoletta tra le dita e poi, compiendo quello che gli sembrò uno sforzo sovraumano, la tirò fuori.
Si mise in ginocchio sull’asfalto, incurante del fatto che si sarebbe sporcato i pantaloni più costosi che avesse. Valerie, poco più avanti, si sentì mancare l’aria. Dov’era finito l’ossigeno? Perché i suoi polmoni e tutto il suo corpo sembravano essersi paralizzati all’istante?
Michael sollevò il coperchio della scatoletta rossa. Il diamante incastonato sopra l’anello era minuscolo, ma brillava più della luna e più del sole, ma mai quanto i sorrisi di lei.
«Val… lo so che non è esattamente il momento più adatto per chiederti una cosa del genere, ma più ci penso, più ho paura che non avrò molto tempo per farlo. Sono giorni che sto cercando di formulare un discorso che abbia senso, ieri l’ho ripetuto a memoria nella doccia, ma adesso non mi ricordo più niente, quindi improvviserò» disse Michael. Sentiva la gola secca, sudava freddo, guardava Valerie negli occhi e temeva di scoppiare a piangere come un ragazzino. «Ci siamo conosciuti anni fa, e da subito sei entrata nella mia vita, come un uragano. E io… io mi sono ritrovato nell’occhio del ciclone. Sono successe cose  non molto piacevoli, cose che ci perseguitano ancora adesso, ma io ti amavo troppo quindi ho deciso di mentirti, di lasciarti andare via. Ho pensato che un cuore spezzato fosse meglio di due, così ho scelto di spezzare il mio. Sembra assurdo, se ci penso, ma tu mi hai ritrovato, mi hai perdonato e con amore e pazienza, hai rimesso in ordine ogni pezzetto, mi hai praticamente riparato e non saprò mai ringraziarti a dovere per questo.
Ho realizzato di non volere nessun altra donna nella mia vita, tu sei quella che tiene in piedi ogni pezzo di me: se te ne vai, io crollo, mi distruggo.
È per questa ragione che ti sto chiedendo se vuoi sposarmi. Possiamo farlo quando vuoi. Che sia domani, tra un mese o dieci anni a me non importa, davvero. Dimmi che sarai il mio unico amore, da qui fino al giorno della mia morte. Dimmi che sarai mia per tutta la vita.»
E Valerie, dopo quel momento, ancora oggi non sa bene cosa sia successo, o in quale ordine sia successo. Sa solo che aveva ripreso a respirare a pieni polmoni, che le bruciavano gli occhi, ma si impedì di piangere, che il “sì” uscito dalle sue labbra fu talmente sussurrato che dovette ripeterlo altre due volte, perché Michael potesse sentirlo; sa solo che si era alzata e lo aveva abbracciato, lo aveva baciato e aveva continuato a dirgli che lo voleva sposare, che non voleva altro che lui per tutta la vita.
E fu in quel momento che realizzò che c’era ancora un’altra arma contro la paura. Oltre alle risate, ai sogni e alla speranza.
Adesso era certa che lei e Michael avrebbero superato tutto, c’era una cosa che li rendeva invincibili: si appartenevano. Si appartenevano nel profondo, sin dentro l’anima, erano così strettamente legati che nemmeno la morte li avrebbe mai separati. Figuriamoci la paura.
 

 
 

Marianne's corner
I'm back, bitches!
Allora, io dovevo aggiornare ieri, ma quando ho aperto il sito è OVVIAMENTE andato in blocco, è crashato, insomma, si è impallato e io non ho più aggiornato. 
Quindi eccomi qui. Alloooora, capitolo speciale perché è stato iniziato in una regione e finito in un'altra, ma anche perché I MALERIE SI SPOSERANNO. *balla la macarena*
Okay, era prevedibile che fossero loro ed è prevedibile anche che io lo scriva, questo matrimonio. Il big question mark adesso è solo: in che capitolo? E questo non ve lo dico.
MA abbiamo anche un minuscolo momento Nalum *---* ahhhh, lo so che è poco, ma è qualcosa.
E prima che mi dimentichi... tempo fa non ricordo se avevo detto quanti capitoli avrebbe avuto questa storia... comunque, ho fatto una modifica alla scaletta (perché c'erano diversi capitolo che erano davvero MORTI in cui non succedeva nulla) e adesso in tutto ci saranno 24 capitoli anziché 28.
E niente, io corro a rispondere alle recensioni e vi ringrazio!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto :3 e anche se non fosse così... be', fatemelo sapere comunque xD
Baci,
Marianne

PS: Oh, ovviamente, dato che la scaletta è mutata. Chi moriva potrebbe non morire più, o potrebbe morire comunque, o potrebbe morire qualcun altro al posto suo... INSOMMA, c'è stato un cambio di trama importante u.u  

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Capitolo 18
*** Senza uscita ***



 
18– SENZA USCITA
 
Negli ultimi due mesi erano successe davvero tantissime cose, non riusciva quasi a crederci.
Prima Amelia e Ashton che litigavano, lui che se ne andava di casa e lei che usciva disperatamente a cercarlo. E poi Amelia che incontrava Luke e lui che l’aggrediva, che stava quasi per ucciderla, se non fosse stato per un qualcosa di impercettibile, che gli aveva improvvisamente fatto cambiare idea.
E Michael. Michael che l’aveva portata fuori a cena, facendo finta che fosse tutto normale, che niente di tutto quello esistesse per davvero. Michael che, per una sera, l’aveva fatta sentire normale. Michael che le aveva chiesto di sposarlo.
Valerie guardava l’anello argentato al dito per assicurarsi che non fosse stato solo un sogno. Si sarebbero sposati, e ancora le sembrava incredibile.
Per un attimo, era stata tentata di farlo subito. Di entrare al municipio e di venir sposati in meno di cinque minuti, con i jeans e le scarpe da ginnastica.
Poi aveva deciso di aspettare, aveva deciso di avere speranza e di immaginare che, un domani, quando tutto fosse finalmente finito, avrebbero organizzato una cerimonia meravigliosa, così sfarzosa che tutta la città ne sarebbe venuta a conoscenza, senza doversi nascondere mai più.
Non era molto ottimista, nonostante si sforzasse di esserlo per Michael. Sapeva che se non ci fosse stata lei a dirgli che ce l’avrebbero fatta, lui non sarebbe andato avanti, ma Michael sapeva accorgersi quando Valerie mentiva, di conseguenza non avrebbe potuto andare avanti ancora a lungo.
Si chiese come avrebbero fatto a fermare Luke. Lui non sarebbe mai cambiato. Non si sarebbe mai alzato, una mattina, e deciso di lasciarli in pace.
Improvvisamente, immaginò cosa sarebbe successo se Luke non avesse mai cambiato idea: sarebbero forse scappati per sempre?
Eppure, le sembrava strano, davvero strano. Luke era lì a Sydney, probabilmente sapeva già dove si trovavano, probabilmente gli sarebbe bastato schioccare le dita per farli uccidere. Ma non l’aveva ancora fatto.
Fu proprio quello strano ragionamento che fece pensare a Valerie che, forse, per Luke e per tutti loro ci fosse ancora un piccolo barlume di speranza. Forse, con un po’ d’aiuto, Luke avrebbe potuto trovare un piccolo lume di lucidità. Forse, sarebbe finito tutto bene.
Forse.
Quell’incertezza la uccideva. Era stressante ai massimi livelli vivere sul filo del rasoio. Ogni giorno che si poteva definire normale non cambiava mai, era sempre grigio e si stava sempre sull’attenti. Valerie poteva percepire i nervi di Michael a fior di pelle ogni volta che lo sfiorava. D’altronde, non poteva biasimarlo: lei prendeva la pistola che lui le aveva dato ogni volta che sentiva un rumore provenire dalla porta o da una delle finestre del piccolo appartamento in cui vivevano.
Ashton e Amelia si erano da poco trasferiti in un appartamento in affitto, in una zona abbastanza tranquilla, non molto lontano dal centro. Una volta aveva deciso di andare da loro da sola, così aveva nascosto a pistola nella borsa, che si era tenuta stretta al fianco destro per tutto il tragitto. Fortunatamente era andato tutto bene.
I suoi due amici abitavano nello stesso quartiere in cui viveva la zia di Ashton, la stessa che, dopo la morte dei genitori di quest’ultimo, aveva la custodia dei suoi fratelli più piccoli.
Valerie non ne sapeva molto, ma Amelia le aveva confidato che lui non si sentiva ancora pronto a richiedere legalmente la loro custodia, anche per via dei suoi piccoli precedenti: pur non essendo mai stato colto in flagrante durante le sue missioni, non erano poche le volte che aveva passato una notte in un commissariato per via di piccoli reati.
Se visto dall’esterno, poteva sembrare che andasse tutto bene, che tutto fosse normale.
La storia ordinariamente tranquilla e felice di due coppie, tutti amici tra di loro; una aspettava un bambino e aveva deciso di trasferirsi in una zona tranquilla per poter essere una famiglia; l’altra conviveva serenamente in un’abitazione modesta, senza navigare nell’oro, ma essendo comunque felici, perché arricchiti dall’amore che provavano l’uno per l’altra.
Ma se vissuta, quella era tutta un’altra storia.
Era la storia di quattro fuggitivi, con tanti problemi a gravare sulle spalle e tante complicazioni, con l’unico, grande terrore di fondo che era quello di incontrare fatalmente l’uomo che voleva rovinargli la vita, se non fermarla definitivamente.
E così, Valerie si trovava a pensare, con lo sguardo perso nel vuoto, verso il muro spoglio della loro camera. Aveva appena rifatto il letto, Michael era in cucina a fare colazione. Si domandò se fosse pronta ad affrontare un’altra giornata di costante ansia e paura.
Qualche minuto dopo giunse alla conclusione che non era pronta affatto. Sarebbe sicuramente impazzita, se fosse rimasta ancora tra quelle quattro mura.
Le venne un’idea assurda e pericolosa, un’idea che Michael non avrebbe mai approvato, ma era un’idea che non lo riguardava comunque.
Prese il cellulare e cercò in rubrica quel numero, quel nome che si era promessa di dimenticare, o almeno, di sciogliere da ogni legame affettivo che aveva con esso.
E nonostante tutto, lei lo aveva sempre saputo che era impossibile eliminare ogni traccia di affetto per qualcuno dal proprio cuore.
Anche se quel qualcuno non desiderava altro che la sua morte e quella delle persone che amava.
Anche se quel qualcuno era Luke Hemmings.
Eppure, era li. Con il dito sollevato a pochi centimetri dallo schermo, in direzione perpendicolare a quel nome.
Luke.
Esitò, si fece mille quesiti e non trovò nemmeno mezza risposta.
Alla fine arrivò a pensare che quel gesto non avrebbe potuto fare altro che migliorare la loro situazione. Peggiorare era impossibile, perché il fondo lo avevano già toccato da un pezzo e nessuno li stava aiutando a risalire.
Ma c’era una cosa che Valerie ignorava e che avrebbe invece dovuto tenere in considerazione: ci poteva essere qualcosa oltre il fondo.
Ignara di quel possibile e drastico risvolto, decise di chiamarlo.
 
Era un totale follia, lo sapeva bene.
Prima di uscire aveva detto a Michael che andava a fare un po’ di spesa per il pranzo, lui l’aveva lasciata fare  le aveva sempre raccomandato di portare con sé la pistola.
Valerie l’aveva già messa nella borsa.
Si sentiva quasi sporca, colpevole. Mentire in quel modo alla persona che amava di più al mondo la distruggeva, sapere che gli stava nascondendo qualcosa che avrebbe potuto metterla in pericolo era ancora peggio, ma non poteva farci nulla: quella era una cosa che non lo riguardava. Erano conti in sospeso con qualcun altro.
Aveva scelto con cura il posto dove incontrare Luke. Era stata cauta, aveva evitato zone isolate o particolarmente pericolose, ma anche quelle eccessivamente affollate, dove una persona che spariva non sarebbe stata facilmente notata.
Così, aveva scelto un piccolo bar in una via secondaria del centro della città. Non era trafficata come i corsi principali, ma non mancavano i costanti gruppetti di persone che passeggiavano tranquille.
Il posto era tranquillo e abbastanza frequentato. C’erano dei tavolini fuori, sul marciapiede, e altri all’interno. Scelse di stare dentro.
Luke era stato ad ascoltarla, al telefono. Non che avesse detto molto. Gli aveva solo sussurrato che doveva vederlo per parlargli, gli aveva dato orario e posto e poi l’aveva salutato.
Erano appena le dieci e trenta del mattino di una tenera giornata primaverile. Il sole era mite e tirava una piacevole brezza.
Si era seduta in un posto non troppo appartato, vicino alla finestra e di fronte al bancone, aveva controllato l’orario svariate volte, in preda al nervosismo e poi l’aveva visto varcare la soglia del locale.
Luke era diverso da come lo ricordava.
Il viso luminoso e sorridente era stato sostituito da una maschera grigia e scavata, da occhiaie leggermente evidenti e occhi che avevano perso la luce e il colore di una volta. Sembrava che non sorridesse da molto tempo, e a quel punto si chiese se non fosse più felice mentre fingeva di essere qualcuno che non era. Adesso che era completamente assorbito dal vero se stesso, dalla sua vera vita, sembrava distrutto.
Si accomodò di fronte a lei, rimanendo in silenzio. Proferì parola solo quando un giovane ragazzo si avvicinò a prendere le ordinazioni, lui disse che due caffè andavano bene.
Valerie aveva tantissime cose da dire dentro di sé, ma in quel momento non riuscì a ricordarne nemmeno una. Aveva sentimenti troppo contrastanti, parole che si annullavano a vicenda.
Avrebbe voluto dirgli che le mancava tanto, che rivoleva indietro l’amico del liceo, dell’università, quello che l’aveva sempre sostenuta; dall’altra parte, avrebbe voluto solamente insultarlo, dirgli che non riusciva a credere che le avesse sempre mentito, che era una persona malvagia, che voleva rovinarli solamente perché era invidioso di tutto ciò che lui non aveva e che, forse, non aveva mai avuto in vita sua.
Alla fine, fu Luke a spezzare il silenzio.
«Avevo intenzione di non presentarmi» disse. «Ho creduto che fosse una trappola fino all’ultimo momento.»
«È comprensibile» rispose lei.
«Di cosa volevi parlarmi?» chiese. Andò dritto al punto. Conoscendo Valerie, avrebbe provato con tutte le sue forze a farlo ragionare sulle sue azioni, a dirgli che non ne valeva la pena, che avrebbe dovuto smetterla. Lei lo faceva sempre, cercava di vedere il buono in tutti.
«In realtà, ora come ora non so da dove cominciare. Ti direi che vorrei tornare ad un anno fa, ma allo stesso tempo non sono sicura che sia una buona idea» rispose Valerie.
«Ti piacevo di più quando ero un semplice studente imbranato, non è così?» Luke sogghignò.
«Non capisco perché ci stai facendo questo.»
«Mi avete rovinato la vita. Sbaglio, o sei stata tu a denunciarmi?»
«Speravo potessi cambiare!» esclamò Valerie. «Loro… avevano paura di te, volevano tenerti fuori gioco e salvarsi. Ma io, Luke, in te ho sempre visto qualcosa… io credevo che avresti riflettuto e avresti scelto di vivere un’altra vita.»
«Io vivo di vendette. È così che funziona nel mio mondo. Se fai qualcosa di sbagliato, se danneggi qualcuno, ne paghi le conseguenze» asserì Luke.
«Forse saremo anche colpevoli di qualcosa, ma non credi di averci fatto pagare abbastanza?» domandò la ragazza. «Amelia aspetta un bambino e se non fosse per lui avrebbe già fatto qualche cavolata, Ashton è sull’orlo di un esaurimento nervoso, Michael è paranoico, io sto rischiando la mia vita in questo momento. Noi non stiamo bene, c’è il costante pensiero di te che puoi farci del male, fuggiamo sempre, evitiamo tutto e tutti. Ci riesce persino difficile uscire per strada, perché abbiamo che tu possa saltare fuori da un momento all’altro e ammazzarci. Tu non la vorresti una vita così.»
«Questo perché tu non sai com’è la mia vita!» esclamò Luke, forse a voce un po’ troppo alta, perché un paio di persone si girarono, ma poi tutto tornò alla normalità. «È meglio uscire da qui.»
«No.» Valerie lo trattenne con una mano, facendolo rimanere seduto. «Non so com’è la tua vita, hai ragione. Ma perché devi rendere la mia un inferno? Ti sto chiedendo civilmente di ragionare. Pensaci, se morissimo le cose cambierebbero? Forse per un momento, per un effimero momento, saresti soddisfatto e orgoglioso di te stesso. Sarai riuscito a raggiungere il tuo obiettivo, ma dopo? Dopo tornerà tutto come prima.»
Luke non disse nulla, a quel punto, ma Valerie colse uno scintilla d’esitazione nel suo sguardo. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma era rimasto immobile. Forse avrebbe voluto dire qualcosa, ma non aveva aperto bocca.
«Val, io…» sospirò il ragazzo. E quelle due parole la fecero sobbalzare dalla sorpresa, l’ultima volta che le si era rivolto in quel modo, erano ancora amici. «In questo momento, la mia unica scelta è questa. Non posso vivere una vita onesta, non posso viverne una peggiore.»
«Perché?» chiese lei.
«Non posso dirtelo.»
«Non puoi dirmelo o non sai dirmelo?»
«Sapevo che non dovevo venire. Tu lo fai sempre, cerchi sempre di incasinare il cervello delle persone, è la stessa cosa che hai fatto con Mike, non è vero?»
«Stai vaneggiando, Luke. Ti prego, pensa a quello che ti ho detto. Pensaci e dimmi se non ho ragione.»
«No, non hai ragione» disse lui, guardandola negli occhi con uno sguardo gelido, ma allo stesso tempo pieno di umanità. «Non posso lasciarvi in pace. Voi siete l’unico obiettivo che mi tiene legato a questo mondo e a questa vita.»
Valerie rimase pietrificata. Spalancò gli occhi verdi, continuò a guardare quelli di Luke finché non si alzò di scatto, lasciando una banconota da cinque dollari sul tavolino di plastica. Lei non ebbe il coraggio di seguirlo con lo sguardo mentre usciva dal locale e chiudeva con forza la porta.
Rimase seduta sulla sedia nera di plastica, con le pupille intente a fissare il nulla, mentre le parole di quello che una volta era il suo migliore amico echeggiavano violentemente tra le pareti della sua mente.
Era possibile che una persona arrivasse a distruggersi a tal punto che la morte di altri rappresentasse la sua unica ragione di vita?
Era possibile che Luke non avesse altri scopi, che fosse la sua vita l’avesse prosciugato così tanto?

 

Marianne's corner
Lo so che non aggiorno tipo da sempre. E lo so che me lo merito se mi avete abbandonata, MA c'è una ragione a tutto u.u sono appena tornata da una "vacanza" un po' inaspettata ^^ una mia amica ha casa al mare e mi ha invitato da lei, in quattro e quattro otto ho fatto i bagagli e sono partita. Lì non avevo il pc, ma anche se lo avessi avuto non avrei scritto lol. E niente. Spero davvero di riuscire a concludere questa storia prima dell'inizio della scuola, anche se con questi miei ritmi da bradipo la vedo una cosa molto difficile. Dovendo affrontare la maturità, l'anno prossimo, non voglio fare stronzate e cominciare ad andare bene sin dal primo quadrimestre, quindi vorrei finire Black and White e dedicare più tempo alla scuola che ad altro D: Ora a ferragosto vado un paio di giorni fuori, ma per il 18 dovrei stare a casa u.u
Grazie mille a chi continua a leggere o a recensire! Ricordate che se volete lasciarmi anche un piccolo parere, io non mordo ^^
Un bacione,
Marianne


PS: LA 6X10 DI PLL. SO CHE VOI MI CAPITE. SO CHE VOI COMPRENDETE IL MIO SHOCK. E so anche che ci avevo preso, ma poi mi sono detta che sembrava una cosa assurda e ho lasciato perdere le mie convinzioni. VI PREGO DITEMI CHE SIETE SCONVOLTE QUANTO ME!  

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Capitolo 19
*** Futuro ***



 
19– FUTURO
 
L’appartamento si trovava al primo piano di un’elegante palazzina, il quartiere era tranquillo e i vicini di casa e proprietari dell’appartamento erano un’amabile coppia di anziani molto ospitali, che il giorno di Natale avevano portato una deliziosa torta fatta in casa ad Amelia e Ashton, che abitavano lì da nemmeno un paio di mesi e che erano intenti a festeggiare spensieratamente – almeno per quel giorno – con i loro amici.
Ormai non mancava molto alla nascita del bambino, ora la data si era fatta più precisa e oscillava tra il cinque e il tredici di Febbraio. Nonostante ciò, era tutto pronto.
I soldi erano sempre meno, ma questo non aveva impedito ad Amelia e Ashton di comprare tutto l’occorrente per il loro futuro figlio. Nessuno dei due aveva voluto sapere se fosse un maschio o una femmina, optavano per l’effetto sorpresa, così non avevano acquistato nulla che fosse esclusivamente rosa o blu, come spesso facevano molte altre coppie, ma avevano semplicemente scelto oggetti e vestitini di qualsiasi colore catturasse la loro attenzione: verde, giallo, azzurro o rosso che fosse.
Avevano poi arredato la sua cameretta con il lettino, peluche, giocattoli e tante altre cose; avevano ripiegato i vestitini in un piccolo armadio e, per quasi tutto il tempo, avevano giocato a vivere felicemente, in completa funzione del bambino. Tutto ciò che facevano quotidianamente era finalizzato a lui, tutti i loro pensieri erano destinati a lui, gran parte dei loro discorsi lo vedevano protagonista.
Cercavano di scappare dai problemi veri semplicemente tenendoli fuori da tutto, pur sapendo che fosse sbagliato, perché non era in quel modo che i problemi sarebbero scomparsi definitivamente. Bisognava affrontarli, e Ashton lo sapeva bene.
Lui non lo diceva mai, a volte non lo pensava nemmeno, ma solamente uno dei due avrebbe vinto. In quella sfida mortale non potevano sopravvivere tutti. O loro, o Luke. La scelta non era possibile, e lo scontro era inevitabile. Tuttavia, provava a non dargli importanza e a rimandarlo quanto più tardi possibile.
Sarebbe stato perfetto riuscire a ritardare quel momento fino a parecchi mesi dopo la nascita di suo figlio: in quel lasso di tempo, Amelia avrebbe potuto portare il bambino al sicuro e lui si sarebbe occupato di Luke, sperando di avere abbastanza fortuna da mettere fine per sempre a quella fuga.
Eppure, in quel momento, l’unico futuro a cui riusciva a pensare era quello in cui lui, Amelia e il bambino erano felici, ma poi gli veniva sempre in mente che, per quel futuro, avrebbe dovuto lottare.
Era la prima settimana di gennaio e, chissà per quale motivo, mentre erano a pranzo era saltato fuori un episodio di non molto tempo prima, quando Valerie e Michael erano venuti a trovarli e gli avevano comunicato la grande novità. Amelia era ovviamente felicissima per i suoi amici, ma nascondeva dentro di sé una leggera invidia. Il gesto di Michael era stato senza ombra di dubbio meraviglioso e lei non poteva far altro che chiedersi come sarebbe stato se avesse ricevuto la stessa proposta da Ashton. Un anno prima, appena arrivata all’università, avrebbe risposto che non era pronta per il matrimonio, che legarsi a qualcuno per il resto della vita non era una cosa da prendere alla leggera, né da fare quando si era così giovani, ma questo l’avrebbe detto prima che tutto accadesse. In quel giorno estivo, confessò a se stessa che non avrebbe avuto alcun dubbio nell’accettare mille e mille volte. Spesso si era chiesta, in quel lasso di tempo, se Ashton fosse davvero l’uomo giusto. Se fosse possibile incontrare l’amore della propria vita a soli diciannove anni, se fosse giusto aspettare un bambino a vent’anni, se fosse normale dare un futuro pieno di fama e gloria in cambio di una famiglia. Non aveva mai esitato a rispondersi che stava facendo la cosa giusta, ma aveva sempre sentito che c’era qualcosa di incompleto. Non ci aveva dato troppo peso, all’inizio, ma sentendo Valerie dire che si sarebbe sposata aveva avuto delle strane idee.
Si trattava principalmente di suggestione. Credere che il matrimonio fosse il pezzo del puzzle che mancava alla loro storia era una cosa che non le era mai passata di mente, prima d’allora, perciò aveva smesso di cercare difetti e aveva continuato a comportarsi normalmente.
Ma poi l’argomento era uscito nuovamente fuori, e Amelia provvide a prenderlo con le pinze per evitare discussioni come quella di qualche mese prima: non voleva che Ashton se ne andasse di nuovo, anche perché lei non avrebbe avuto il coraggio di riportarlo indietro. Non voleva nemmeno che lui si sentisse in qualche modo inferiore alle aspettative che aveva lei.
«Sarebbe bello sposarsi davvero, un giorno» esordì, spostando gli occhi verso la finestra aperta. Sentì Ashton ridacchiare.
«Un anno fa ignoravo completamente l’esistenza dei matrimoni» rispose Ashton. «E adesso il mio migliore amico sta scegliendo le fedi.»
«A chi lo dici. Però sarebbe bello» continuò Amelia, mordendosi nervosamente le labbra.
«Quando sarà tutto finito, chissà…» mormorò lui.
«Ash, ti posso fare una domanda?» La ragazza alzò gli occhi sul suo fidanzato, guardandolo con la massima serietà. Lui si limitò ad annuire.
«Da quando i tuoi genitori sono… sono morti, sei mai andato dai tuoi fratelli? Gli hai mai detto che sei innocente e che non devono aver paura di te?» chiese Amelia. «Voglio dire, lo so che per la polizia non sei stato tu, ma loro lo sanno?»
Ashton sospirò e posò delicatamente la forchetta sul tovagliolo.
«Non ne ho idea» disse piano, guardando Amelia negli occhi. «Non so cosa gli abbia detto mia zia, spero che non mi considerino un assassino. Anche se in parte avrebbero ragione, spero che non pensino che sia stato io ad uccidere i nostri genitori.»
«Non vuoi toglierti questi dubbio?» domandò ancora la ragazza.
«Non so se sono pronto a farlo» rispose meccanicamente Ashton.
Amelia gli prese la mano, da sotto il tavolo e gliela strinse. «Non è un passo che devi fare da solo.»
«Purtroppo sì. Non è per te, Amy, se fosse necessario ti affiderei la mia stessa vita e lo sai. Il problema è che tutta questa storia è iniziata prima di te» disse lui. «Apprezzo che tu voglia aiutarmi e starmi vicino, ma non potrai mai aiutare loro, anche con tutta la buona volontà.»
Quelle parole la fecero riflettere e forse la ferirono un po’. Gli era grata per essere stato sincero, tra loro non c’erano segreti o parole non dette, e dovette ammettere che aveva anche ragione. Lei non conosceva i suoi fratelli, non conosceva Ashton quando era successo quel disastro – anche se lui glielo aveva raccontato – e la sua presenza avrebbe aiutato solamente lui, non gli altri due ragazzi. E fu strano, da una parte, realizzare che ad Ashton non importava realmente di se stesso, di stare bene. Gli importava essenzialmente di far stare bene i suoi fratelli. Lo ammirava per questo, e capì ogni cosa, non si arrabbiò, anzi, gli sorrise.
«Credo che tu abbia ragione. Ma se hai bisogno, io ci sono» gli disse, infine.
Lui le accarezzò il dorso della mano. «Lo so.»
«E se vorrai prenderli con te, un giorno, io…» iniziò Amelia.
«Un giorno lo farò. Prima voglio vedere mio figlio, voglio eliminare Luke dalla mia vita e perdonare a me stesso questi ultimi anni» la bloccò Ashton.
«D’accordo» rispose lei. «Anche se non vuoi il mio aiuto, ho un’idea.»
Amelia si alzò da tavola e si avvicinò ad Ashton. Lui, sorridendo, si spostò un poco più indietro con la sedia e la fece sedere sulle sue gambe.
«Sentiamo» le disse.
«So di essere totalmente estranea alla faccenda, ma proprio per questo, nulla mi vieta di comportarmi come un’estranea, vero?» disse.
«Non ti seguo più» rispose Ashton.
«Prima di compiere questo passo, ci vado io a casa di tua zia. E ci vado da sola» spiegò Amelia.
Ashton aggrottò le sopracciglia. «Le persone normali non fanno entrare gli sconosciuti in casa.»
«Non sei stato tu a dirmi che tua zia è un’ostetrica?»
«Sì, e quindi?»
«Io sono incinta, amore.»
 
Era stato incredibilmente facile.
Amelia non credeva che nel giro di cinque minuti sarebbe passata dal salire le scale della veranda della zia di Ashton al prendere un succo di frutta nel suo salotto. Eppure, le era bastato nominare l’ospedale, un’amica fittizia mamma da qualche mese che le aveva fatto il nome della donna e poi mostrare il pancione, ormai visibilmente cresciuto. Doris Irwin, cinquantadue anni, divorziata e tutrice dei fratelli di Ashton. Era una donna di bassa statura, leggermente in carne, aveva gli occhi di un azzurro luminoso e i capelli biondo cenere.
Recitando la parte di una persona che non aveva mai sentito parlare di lei o della sua vita, non appena vide un ragazzo sui tredici anni avvicinarsi al frigorifero, le venne quasi spontaneo chiedere a Doris se fosse suo figlio. Sapeva che, dopo quella domanda, con un po’ di fortuna avrebbe sentito per intero la storia una seconda volta.
«Oh no, Harry è mio nipote» rispose la donna.
«E vive qui con lei?» chiese ancora Amelia.
«Purtroppo sì, insieme a sua sorella Lauren.»
«Purtroppo?»
«Qualche anno fa è successo un tragico incidente.» Doris aveva notevolmente abbassato il tono di voce. «I genitori… entrambi morti. Hanno anche un fratello più grande, ma di lui non si hanno notizie da quella notte.»
Amelia annuì. «Crede sia scappato? Oppure è… morto anche lui?»
«Non è morto, è stato il primo sospettato dell’accaduto, ma sul corpo dei genitori non c’erano le sue impronte digitali, bensì quelle di qualcun altro» le spiegò la donna.
«Mi dispiace molto per la sua perdita, signora Irwin» disse Amelia. «Ho un fratello anche io, se lo perdessi ne morirei.»
«Io e mio fratello non ci sentivamo da molto tempo» continuò Doris. «Ma quando sono venuti a parlarmi dell’adozione dei bambini… come avrei potuto rifiutare?»
«Lei ha figli?» le chiese la ragazza.
«Uno solo, ma è grande ormai, si è trasferito ad Adelaide con la moglie» le rispose.
«Questi ragazzi sono la mia gioia.»
Amelia sorrise e in quel preciso istante udirono una porta aprirsi. In salotto giunse una ragazza sui sedici anni, alta e magra. I capelli di un nero corvino e del trucco abbastanza pesante sul viso, quella doveva essere Lauren.
«Chi è questa, zia?» domandò sprezzante.
Doris la riprese, dicendole di non usare quel tono maleducato. «È una paziente, Lauren. Sii gentile.»
«Sicura che non è della polizia?»
«Anche se lo fossi, non potrei essere in servizio, al momento» s’intromise la giovane. «Mi chiamo Amelia, piacere.»
Lauren non le rispose.
«Talvolta gli agenti ritornano ad interrogarci sul caso. L’inchiesta non è ancora chiusa e Lauren ne soffre molto, la prego di scusarla» disse Doris.
«No, no. Sono io che mi scuso, non possono nemmeno immaginare come si senta» rispose Amelia. «Le dispiace se scambio due parole con lei?»
«No, affatto» rispose la donna. Amelia si alzò e raggiunse la ragazza in cucina.
La trovò seduta al tavolo, mentre teneva gli occhi incollati allo schermo del suo cellulare.
«Lauren, giusto?» tentò, cauta.
La diretta interessata si voltò bruscamente e non mutò espressione. Guardò Amelia a lungo, prima di risponderle.
«Mi sembri sempre di più una poliziotta» le disse.
«Giuro che non lo sono» rispose.
«Dovrei crederti?»
«Sì.»
Lauren fece un sorrisetto. «Cazzate. Su, fammi questa domanda sulla morte dei miei e facciamola finita.»
«In realtà, vorrei chiederti di tuo fratello. Non Harry. L’altro fratello. Tua zia non mi ha detto il nome… magari puoi farlo tu?»
«Se non conosci mio fratello non sei della polizia…» sibilò Lauren.
«Te l’avevo detto» ribatté Amelia.
«Ashton è sempre stato un po’strano. Aveva cominciato a fumare un sacco di sigarette al giorno, aveva strane amicizie, e poi è scomparso come se volesse essere dimenticato» iniziò Lauren. «A volte mi manca, ma poi penso che se avesse tenuto veramente a noi sarebbe tornato indietro. Per quanto mi riguarda, sono quasi cinque anni che non si fa vivo.»
«Credi che lui possa c’entrare qualcosa?» le domandò Amelia. Era la prova del nove, sperava con tutto il suo cuore che Lauren rispondesse di no, così Ashton avrebbe avuto un motivo in più per ricongiungersi con quella poca famiglia che gli era rimasta.
Lauren rimase in silenzio per un paio di minuti, forse stava riflettendo, poi rispose: «Potrebbe. Ma se fosse stato davvero lui, a quest’ora l’avrebbero già preso. All’epoca aveva diciassette anni, non poteva essere talmente ingegnoso da uccidere i nostri genitori e farla franca. Per quale motivo, poi? Non aveva un movente serio. Era un classico adolescente che a volte litigava con loro, come io litigo con mia zia adesso.»
«Vorresti mai che tornasse?»
«Perché mi fai queste domande?»
«Ho un fratello anche io, ma al contrario, sono stata io ad andarmene e ad abbandonarlo. Non avevo molta scelta, ma nonostante ciò, gli voglio molto bene. Scambierei la mia vita con la sua, se fosse necessario, non potrei mai lasciare che gli accadesse qualcosa. Ma per il suo bene, ho dovuto lasciarlo andare.»
«Tu credi che mio fratello ci voglia ancora bene?»
Amelia sorrise tristemente. «Io credo di sì. E credo anche che se potesse, vi raggiungerebbe all’istante.»
Lauren le concesse finalmente un sorriso tirato.
«Mia zia farà nascere tuo figlio» cambiò completamente discorso. «Spero che tu e il tuo ragazzo siate felici.»
«Lo spero anche io» rispose Amelia. «Spero anche che questo bambino possa essere per lui la famiglia che ha perso tanto tempo fa.»

 
 
 
 
 

Marianne's corner
E dopo una settimana passata fuori - di cui avrei fatto volentieri a meno, ma vabbè - eccomi puntuale a postare. Che raro evento!
Ora, ho una buona notizia per voi! Dato che io sono un essere umano composto per il 50% di asocialità, il 30% di ansia e il restante 20% di nerdaggine e cose varie, ho passato una settimana a casa dei miei parenti, ma sarebbe meglio dire che l'ho passata tra la camera da letto e le panchine del parco. Why? Li odio tutti.
Ed è per questo che, anche in assenza di internet, il mio fedele computer mi ha accompagnato anche in questa spiacevole avventura. Fatto sta che in una settimana ho praticamente finito di scrivere la storia. EVVIVA! Se avessi avuto connesione, avrei aggiornato prima, ma i miei zii sono talmente paleolitici che a casa non hanno il wi-fi e io sono talmente sfigata che in quel paesino non prendeva nemmeno il 3G del cellulare.
E niente, ora che rimane meno di un mese di vacanze (paura!!!) e a noi rimangono circa cinque capitoli, cercherò di aggiornare ogni quattro giorni (questo perché anche se sono asociale ho degli amici asociali come me ed è meglio fare gli asociali insieme da qualche parte, e anche perchè ho qualcosa come settordici mila versioni di greco e latino da fare: normalmente non le farei, ma l'anno prossimo ho un esame e io sono ai livelli di una del quinto ginnasio).
Nulla, smetto di annoiarvi e ringrazio infinitamente genesisandapocalypse, Hazel_ e McPaola che ormai sono le uniche dolcezze che mi danno ancora retta in questa storia pazza. Voialtri sentitevi liberi di imitarle e ricevereti il grande dono della menzione in grassetto (?) a fine capitolo u.u
Un bacione e alla prossima!
Marianne

 

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Capitolo 20
*** La prima luce ***



 
20 - LA PRIMA LUCE
 
Successe tutto al sorgere della prima stella nel cielo.
Calum non era ancora rientrato in casa, aveva delle cose da sbrigare e stava facendo gli straordinari a lavoro. Successivamente, si sarebbe fermato in uno dei pochi negozi ancora aperti per comprare un piccolo pensiero per Nola, qualche ora dopo, avrebbe capito che quei minuti erano stati solamente uno sbaglio. Ma in quel momento, durante il tramonto, Calum non poteva ancora immaginarlo.
Nola si trovava a casa, erano rare le occasioni in cui usciva, e quando lo faceva era sempre accompagnata da qualcuno. D’altronde, a volte temeva addirittura stare a casa da sola, ma dopo che Ashton e Amelia si erano trasferiti in un’altra zona della città aveva dovuto farci l’abitudine, anche perché Calum aveva un lavoro e non poteva mollarlo.
Quella sera, dopo aver preparato qualcosa da mangiare e averlo lasciato a raffreddarsi, Nola aveva deciso di dare un’occhiata a tutti quei libri che Calum teneva sulla sua scrivania e sulle mensole fissate al muro. I libri l’avevano sempre affascinata, ma per qualche motivo, non aveva mai avuto occasione di leggerne molti. Per leggere ci voleva silenzio e concentrazione, la mente doveva essere completamente dedicata a ciò che si stava leggendo. Nola non aveva mai avuto la testa per mettersi a leggere seriamente. La sua infanzia e la sua adolescenza erano state segnate principalmente dalla mancanza di tempo, anche se, ripensandoci, leggere avrebbe potuto renderle le cose paradossalmente più semplici.
Ne prese uno, senza curarsi del titolo, e cominciò a sfogliarlo solo per il gusto di sentire l’odore della carta, vecchia o nuova che fosse. Poi lo ripose e ne prese un altro. Calum aveva così tanti libri che Nola si chiese dove avesse trovato tutto il tempo di leggerli. Arrivò a sfogliare un volume intitolato “Il rumore dei tuoi passi”, riconobbe subito qualcosa di strano, perché tra tutti i libri sfogliati fino a quel momento, quello che teneva in mano era il primo romanzo che parlasse solo ed esclusivamente di una storia d’amore. Lesse velocemente la trama sul retro della copertina: due ragazzi che prendono la stessa metropolitana ogni giorno e la storia del loro amore, nato, cresciuto e finito unicamente sotto terra, sotto i passi degli altri. Quando lo aprì, notò immediatamente qualche riga scritta a matita sulla prima pagina bianca e capì che si trattava di un regalo, non di un libro che Calum aveva comprato da sé. La dedica diceva: “Nedlands e le metropolitane di New York non sono poi così diverse, con la differenza che noi sotto terra non ci rimaniamo. Buon compleanno, ti amo.”
Non fu difficile immaginare chi avesse scritto quelle parole. Nola ripensò a quello che le aveva detto Calum tempo prima, ripensò alla sincerità nei suoi occhi e all’assenza di dubbio e esitazione nella sua voce. Ma adesso, a leggere quelle cose, scritte non molti anni prima, avvertiva una strana sensazione al petto. Tuttavia, aveva deciso di fidarsi di lui, perché era una delle prime persone che le mostravano ciò che tutti meriterebbero di avere: affetto. E forse qualcosa di più.
In tutta la sua vita, non aveva conosciuto molte persone del genere, eccetto sua madre e i suoi secondi genitori adottivi. Nessuno di loro, però, le aveva mai dato quello che aveva Calum. Per la prima volta, qualcuno aveva deciso di proteggerla e amarla in un modo diverso.
Improvvisamente, tra le pareti del salone echeggiò il suono acuto del campanello. Nola ripose accuratamente il libro sulla mensola e, ancora con la testa tra le nuvole, corse ad aprire. Stava ancora pensando alla dedica scritta da Amelia ed era convinta che fosse Calum alla porta, avrebbe dovuto essere a casa da un’ora, ormai.
L’unico problema era che chi aveva suonato alla porta non era Calum.
 
Aveva dovuto trattenersi a lavoro per ben quaranta minuti oltre l’orario. Doveva finire di sistemare alcuni documenti importanti e revisionare alcuni articoli che doveva far trovare sulla scrivania del suo capo la mattina seguente. Quando era finalmente uscito, per strada aveva notato un piccolo negozio di bigiotteria e aveva visto un braccialetto che a suo giudizio era molto grazioso, poi aveva chiesto anche il parere della commessa che, intenerita, gli aveva consigliato l’acquisto.
Infine si era incamminato verso casa. Non appena giunse davanti al portone, notò subito che quest’ultimo era stato lasciato aperto, allora si innervosì un poco. Non molto tempo prima aveva affisso un foglio alla base delle scale con scritto di chiudere bene il portone ogni volta che si usciva.
Insomma, nascondere una ragazza ricercata da un’organizzazione criminale e lasciare il portone della palazzina aperto non era esattamente una mossa che si dice astuta. Dimenticandosi presto di quel particolare, prese l’ascensore e salì fino al terzo piano.
Davanti alla porta, perse qualche secondo a cercare le chiavi nelle tasche dei pantaloni e poi le infilò nella toppa della serratura, fece girare una volta sola, sapendo che Nola era in casa, e poi aprì.
Non appena varcò la soglia e alzò lo sguardo, rimase paralizzato.
In casa sua c’erano due completi estranei, incappucciati. Uno di loro teneva Nola per le braccia.
«Calum, vattene!» gridò lei, in preda al panico. Gli occhi azzurri erano spalancati ed era completamente rossa in viso.
L’altro l’uomo, con fare spazientito, le mise un pezzo di stoffa attorno alla bocca, per farla stare zitta, poi disse: «Non muoverti, o uccidiamo la ragazza.»
Calum cominciò a respirare profondamente. Razionalmente, sapeva che non avrebbero mai ucciso davvero Nola: erano lì per portarla via, per portarla dal padre. Una vocina, però, cominciò a dirgli che potevano essere lì anche per conto di Luke, che aveva tentato già di eliminarla una volta, per evitare che venisse a far parte della sua famiglia. Non poteva sapere con sicurezza scientifica per chi lavorassero quei due uomini. Se l’avesse saputo, avrebbe agito di conseguenza, ma in quel momento non riusciva a muovere un muscolo. Si sentiva impotente e incredibilmente in colpa.
«Sono disarmato» provò a dire.
«Fai due passi in avanti. Lentamente.»
Calum fece come gli avevano detto. Avanzò di due passi e cercò di mantenere la calma. Guardò Nola negli occhi. Avrebbe voluto prometterle che sarebbe andato bene, ma non voleva mentirle. Guardando la situazione da un punto di vista realistico, non c’erano molte probabilità di uscirne vincitori. Eppure, un modo c’era.
«Cosa volete? Soldi?» chiese Calum.
«Vogliamo la ragazza» rispose quello più alto, che tratteneva Nola. «Stai fermo, non chiamare aiuto. Lei viene con noi e tu continuerai a vivere tranquillamente.»
«Non credo di potervelo permettere» ribatté Calum. Cercò nella sua mente un modo per distrarli. Sapeva che Nola era molto abile nel corpo a corpo, ma intrappolata in quel modo non poteva fare nulla per difendersi. Una buona distrazione avrebbe permetto a lei di liberarsi e a Calum di colpire almeno uno dei due aggressori.
Studiò ciò che aveva davanti: il più alto tratteneva Nola per le spalle ed era dietro di lei, che aveva il corpo girato in direzione del più basso, che si trovava esattamente di fronte a lei. Con un calcio ben piazzato avrebbe potuto metterlo fuori gioco per un minuto o due, il tempo necessario a far sì che l’altro uomo si distraesse e che Calum potesse dunque attaccarlo, mentre Nola si liberava e si occupava di quell’altro.
Sembrava un piano perfetto, ma come si poteva attuare. Doveva far capire a Nola che doveva essere lei a fare la prima mossa.
«Avvicinati piano» disse ancora uno dei due.
Perfetto. Mentre camminava, Calum guardò Nola, poi spostò lo sguardo sull’uomo che le stava di fronte e poi mimò un piccolo calcio, che nessuno dei due aggressori notò, tanto erano impegnati a scrutare il suo volto e le sue mani, per vedere se fosse in possesso di qualche possibile arma.
Nola capì che doveva scalciare. La sua mente, che sembrava essere sulla stessa lunghezza d’onda di Calum, seppe anche dove colpire. Slanciò la gamba destra con tutta la potenza che aveva, andando a colpire l’uomo proprio in mezzo alle gambe. Quest’ultimo lanciò un urlo assordante e si piegò sulle ginocchia. Il suo compagno si voltò immediatamente verso di lui, allentando la presa su Nola; lei si liberò velocemente si buttò sull’uomo accasciatosi a terra. Calum, senza perdere nemmeno un secondo, piazzò un pugno sulla mascella dell’altro.
Nola si rialzò da terra qualche dopo qualche minuto, e dopo aver regalato graffi e pugni al secondo aggressore, che adesso sanguinava copiosamente dal naso. Vedendo che Calum era ancora impegnato con il primo, corse verso il ripiano della cucina e afferrò il coltello che aveva utilizzato per cucinare.
«Prendi il tuo amico e vattene» sibilò, facendo voltare sia Calum che l’uomo col cappuccio nero.
«Non è l’ultima volta, ragazzina» disse quello, arrancando di qualche passo.
Calum le si parò di fronte e, insieme, attesero che i due sparissero dall’appartamento. Solo quando la porta sbatté e Calum chiuse persiane e finestre, Nola lasciò cadere il coltello per terra, insieme al suo sguardo, che divenne vuoto e perso.
«Ehi, va tutto bene adesso» le sussurrò Calum. Poi l’abbracciò e la strinse forte a sé. «Scusa, non avrei dovuto fare così tardi.»
«No, stai tranquillo. Non è colpa tua» rispose lei.
«Non ho saputo proteggerti davvero» disse lui.
«Ma cosa dici?» esclamò Nola. «Se non fossi arrivato mi avrebbero portata chissà dove…»
«Pensavo che non ti avrebbero uccisa davvero, ma poi mi sono detto che avrebbero potuto lavorare per Luke, non per tuo padre» disse Calum. «E ho avuto davvero paura.»
«Non pretendo mica che tu non abbia paura, Cal. Tutti ce l’abbiamo» rispose Nola, passandogli la mano tra i capelli. «Anzi, ti ringrazio per aver steso l’altro. Se fossi stata da sola, anche liberandomi, non li avrei mai battuti.»
«Sei eccezionale, piccola» sospirò, baciandole le fronte, senza mai togliere le braccia dalla sua schiena.
«Tu sei eccezionale. Perché mi trovi sempre quando ne ho bisogno, e allora mi salvi la vita. Il bello è che credi di non esserlo» gli rispose lei.
E poi lo guardò negli occhi e capì. Calum era la prima luce del mattino. La prima dopo tanto tempo passato nelle oscurità della notte.
 
Amelia non era pronta. Ashton nemmeno.
Era solo l’undici gennaio, era troppo presto, era troppo inaspettato.
Eppure era successo.
Era l’alba, dovevano essere le cinque di mattina. Amelia si era svegliata si soprassalto, con un forte dolore alla pancia e solo pochi minuti dopo aveva notato il materasso completamente bagnato. Dovevano essersi rotte le acque. Nel trambusto, Ashton si era svegliato e, in preda al panico, si era infilato una maglietta a caso sopra i pantaloni del pigiama, aveva messo le scarpe e aveva aiutato Amelia a mettere le sue, lei non aveva voluto togliersi nemmeno il pigiama: il bambino tava per nascere, non avevano tempo.
Avevano fatto tutto di corsa. Ashton aveva deciso di portarla in braccio per le scale, per paura che cadesse. Cinquanta chili più dieci presi durante quegli otto mesi di gravidanza.
Non appena arrivarono in ospedale, Amelia cominciò a chiedere di Doris ovunque. Quando era andata a casa sua, non molti giorni prima, le aveva chiesto se fosse disposta ad assisterla durante il parto. Inizialmente, l’idea era nata come una scusa, ma parlando con la zia di Ashton, Amelia aveva maturato una sorta di fiducia nei suoi confronti, e non voleva nessun altro ad aiutarla se non lei. Fortunatamente, Doris era di turno. Aveva appena attaccato, quando avevano messo Amelia sul lettino e l'avevano portata in sala parto. Ad un certo punto, lei e Ashton si erano divisi: le infermiere l’avevano portato in una stanza adiacente alla sala parto per fargli indossare un camice blu e una specie di cuffietta del medesimo colore. Poi, travestito dalla testa ai piedi, l’aveva raggiunta e per qualche istante Amelia aveva riso, perché lo trovava buffo, dimenticandosi delle dolorose contrazioni.
La zia di Ashton entrò in sala parto in fretta e furia, affiancata da un dottore. Ashton la riconobbe a stento, tanto era impegnato e guardare Amelia, ma quando alzò lo sguardo, quasi non credé ai suoi occhi. Doris, d’altra parte, sembrava scioccata per aver visto suo nipote dopo così tanto tempo, ma decise di mettere la professionalità al primo posto e si rivolse esclusivamente ad Amelia.
«Mi ascolti, adesso inizi a respirare profondamente e lentamente. Inspiri ogni volta che sente una contrazione ed espiri quando è rilassata. Tutto chiaro?»
Amelia annuì e cominciò a fare come le aveva detto. Inizialmente, si rivelò una pratica che serviva a rilassarla, ma dopo qualche minuto cominciò a perdere la sua efficacia.
Amelia strinse la mano di Ashton con una forza tale che sarebbe stata capace di spezzargli le ossa, se loro l’avesse voluto.
«È entrata in travaglio da più o meno mezz’ora. Ci vorrà ancora un po’» disse il dottore. «Siamo ancora a due centimetri e mezzo.»
«E a quanto dobbiamo arrivare?» domandò Amelia, con una smorfia di dolore sul volto.
«Dieci, signorina.»
«Oddio, morirò qui.»
 
Il travaglio durò più o meno nove ore. Verso le due del pomeriggio, dopo che Amelia ebbe rifiutato ogni tipo di cibo che Ashton le offriva, ricominciò a sentire il dolore, ma era un dolore diverso, più forte e più localizzato. Sentiva un’impellente bisogno di far uscire il bambino dal proprio corpo, come se le desse fastidio e dovesse per forza toglierlo. Un’infermiera chiamò in fretta e furia il medico e Doris.
Stava succedendo.
«Ci siamo. Nove e otto millimetri!» esclamò Doris.
«Ash, non ce la posso fare»
«Sì, amore. Ce la puoi fare.»
«No, invece!»
«Signorina, mi ascolti» iniziò il medico. «È molto importante che lei spinga quando glielo diciamo noi. So che sente l’impulso di farlo ora, ma dobbiamo aspettare la dilatazione completa.»
Amelia cominciò a respirare profondamente, solo che il ritmo era molto più veloce della prima volta.
Ashton non aveva mai avuto così tanta paura in vita sua. Era stato capace di uccidere uomini, sparare, scappare e aveva persino rischiato la vita un paio di volte, ma mai aveva sentito quel terrore nascere nel petto. E se qualcosa fosse andato storto? Non riusciva a sopportare l’idea che ad Amelia o al bambino succedesse qualcosa. E mentre la guardava, in preda al dolore, il viso perennemente contratto in qualche smorfia, non sapeva nemmeno come sentirsi.
E quando, dieci minuti dopo, il dottore e Doris le dissero all’unisono di iniziare a spingere e Amelia iniziò a gridare, non ci capì più niente.
Si sentì un tonfo.
«Padre svenuto, qualcuno lo porti di là» esclamò una delle infermiere.
«Oddio, io lo odio!» gridò Amelia, stringendo forte il lenzuolo sotto di sé.
 
Mezz’ora dopo, si intravide la testa. Un quarto d’ora dopo ancora il bambino era maschio, pesava due chili e otto etti  ed era tra le braccia di Amelia, con gli occhi semichiusi ad ammirare la prima luce della sua vita. Ashton era ancora privo di sensi e lei non ricordava più il nome che avevano deciso insieme, tanto era emozionata.
In quel momento, non capì cosa provasse davvero. Le sembrava qualcosa di indefinibile, le veniva da piangere e forse lo fece anche, senza nemmeno accorgersene. Doris rimase accanto a lei finché non dovette prenderlo per lavarlo.
Controvoglia, Amelia affidò suo figlio alle abili e fidate mani dell’ostetrica e poco prima di lasciarlo andare, si sentì come se anche lei stesse vedendo la luce per la prima volta.


 
 

Marianne's corner
Ah, che bella cosa la puntualità. E che bella cosa il capitolo 20! *-*
Posso fare due precisazioni? Sì, che posso, sono l'autrice u.u
Allora, il libro che Nola prende all'inizio, non esiste davvero. O almeno, io non ho mai letto un romanzo intitolato così e forse esiterà anche (confermo, Google dice che esiste), ma non è a quello che fato riferimento. Ho inventato totalmente tutto, sia il titolo sia la trama.
Poi, lo so che la scena del parto è stata molto affrettata e tutto, ma davvero, non avrei saputo descriverla nei dettagli dall'inizio alla fine. Nonostante le numerose ricerche su internet, io non so come si partorisce (Né probabilmente lo saprò mai) e questo è il risultato quindi se fa schifo perdonatemi ç_ç
Oh, finalmente è svelato il sesso del bambino. IT'S A BOY, ma per il nome vi faccio penare ancora un po'. Indizio: non è un nome strano, anzi, è davvero molto, molto comune nei paesi anglofoni, però a me piace da morire (sappiate che è il nome di ben due dei miei personaggi preferiti in due saghe in particolare).
Ok, ho ufficialmente finito. Se avete letto fin qui, vi ringrazio e vi invito a lasciare una recensione, anche piccina piccina, vi giuro che ogni considerazione è ben accetta, positiva o negativa che sia :D
Adesso vi lascio e vi do appuntamento a giovedì 27! ♥
Baci,
Marianne

 

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Capitolo 21
*** Caos ***



 
21 - CAOS
 
Erano indecisi su come chiamare il bambino.
Se fosse stata una femmina non avrebbero avuto alcun dubbio, l’avrebbero chiamata Anne Marie, ma era un maschio e in quel caso avevano in mente ben due nomi, James e Daniel. Quando l’infermiera aveva chiesto ad Amelia il nome, lei aveva esitato per un attimo, poi aveva risposto che il bambino si chiamava James, quasi senza avere dubbi o ripensamenti. James era un nome che si addiceva a suo figlio, lo trovava perfetto.
In tutto ciò, Ashton si era finalmente svegliato e non aveva creduto a nessuno quando gli dissero di essere svenuto. In seguito, ebbe occasione di parlare con sua zia in un momento decisamente più calmo.
Amelia si era addormentata da pochi minuti. Dopo averla lavata e dopo che le ebbero cambiato i vestiti, l’avevano spostata in una stanza per farla riposare. Ashton si trovava dietro un vetro ad osservare suo figlio: anche lui dormiva tranquillamente in una piccola culla, in mezzo a tanti altri neonati.
Fu in quel momento che Doris lo raggiunse.
«Non avevo idea che tu e quella ragazza poteste essere legati, in qualche modo» esordì la donna, puntando anche lei lo sguardo sul piccolo James.
«È difficile da intuire» rispose Ashton. «Lei è perfetta, io no.»
Doris fece un piccolo sorriso. «Comincio anche a credere che non abbia nessuna amica che le ha fatto il mio nome, vero?» chiese.
«Sono stato io a parlarle di te» rispose lui. «Ma l’idea di venire da te… di conoscere i ragazzi è venuta unicamente da lei.»
«Ai ragazzi manchi molto» disse Doris. «Soprattutto a Lauren.»
«Amelia me l’ha detto» disse Ashton. «Avevo paura che mi odiassero.»
A quel punto, la donna si voltò finalmente verso suo nipote e lui fece lo stesso. Rivedeva molte cose di suo padre in lei, come ad esempio la forma della bocca, lunga e sottile, oppure i gli zigomi pronunciati.
«Vorrei tornare da loro, ma ho delle questioni da risolvere prima» le confessò.
«Cosa hai combinato dopo la morte dei tuoi genitori, Ashton?» chiese Doris.
«Cose di cui mi pento» rispose il ragazzo, cercando di evitare gli occhi della zia. «Ma sto risolvendo tutto.»
«È stata lei a farti mettere la testa a posto, vero?»
Ashton sorrise. «Si capisce così tanto?»
«Sì.»
«Sei nei guai con la polizia?» chiese Doris, all’improvviso.
Lui sospirò, chiedendosi se avesse dovuto dirle la verità o meno. Avrebbe potuto sviare completamente il discorso, ma quello sarebbe stato un comportamento da codardi e irresponsabili. Era appena diventato padre, non poteva permettersi di essere nessuna delle due cose.
«Sono nei guai e basta, non con la polizia» rispose alla fine. Non era una bugia, ma non era sceso troppo nei dettagli.
Doris chiuse gli occhi per un attimo. Aveva un sospetto per la testa da quando Ashton era scappato, anni prima. Aveva quasi paura a chiederglielo, ma doveva farlo.
«Sei nei guai con qualche spacciatore, allora?» gli chiese. «Ho sempre pensato che ti fossi allontanato per…»
«Non ho niente a che fare con la droga» puntualizzò Ashton, dentro di sé pensava che la famiglia Hemmings fosse di gran lunga peggiore di qualsiasi spacciatore. «Dammi qualche mese. Il tempo di stare un po’ con mio figlio e permettergli di andare via con Amelia. Quando loro saranno al sicuro, io sistemerò i miei problemi, poi torneranno e saremo finalmente una famiglia.»
«Sono seriamente preoccupata per te, Ashton. Se hai dei problemi così grossi da far scappare la sua fidanzata e tuo figlio dal paese, deve essere qualcosa di serio.»
Ashton si morse le labbra. «C’è… della criminalità, qui a Sydney. Criminalità organizzata.»
«Oh, buon cielo, Ashton! Non dirai sul serio!» esclamò la donna, strabuzzando gli occhi.
«Me ne tirerò fuori, va bene? Sono ad un passo così da chiudere per sempre questo capitolo della mia vita» disse lui. «Non dirlo ai ragazzi. Non dirlo a nessuno, meglio che tutti voi ne siate fuori.»
«Amelia lo sa?»
«Avrei preferito che restasse fuori anche lei. Ma questa è una storia troppo lunga da raccontare.»
 
Nella grande villa degli Hemmings, quella notte, c’era talmente silenzio che sembrava ormai una casa disabitata. Se non fosse stato per qualche luce accesa e antifurti e telecamere piazzati in ogni dove, lo sarebbe stata davvero.
Luke era chiuso nella sua stanza. Julia dormiva tra le lenzuola del grande letto matrimoniale. Alla fine, nessuno dei due aveva resistito. A nessuno dei due importava che entrambi fossero in realtà innamorati di qualcun altro, perché in quel momento, Luke aveva bisogno di annullarsi e dimenticare chi era. Alla ragazza non era dispiaciuto aiutarlo in quell’impresa.
Lui non riusciva a dormire, così si era rivestito velocemente e aveva acceso una sigaretta, era uscito a fumare sulla terrazza, godendosi un leggero venticello che tirava sempre durante la notte.
Non molto tempo prima aveva cercato di nuovo di rapire Nola Wilson, che non si chiamava veramente Wilson, ma portava il suo stesso cognome, e di nuovo non c’era riuscito. Quella volta, però, gli esiti non sarebbero stati gli stessi. Non rientrava più nei suoi interessi portarla da suo padre, aveva intenzione di portarla alla villa e spaventarla, metterla in guardia. Le avrebbe detto che, se in futuro suo padre avesse deciso di mettersi in contatto con lei, l’avrebbe di sicuro trovata, a quel punto, le avrebbe anticipato l’offerta che avrebbe ricevuto e in seguito le avrebbe suggerito di rifiutare, se non voleva ritrovarsi tre metri sotto terra. I due sicari – incompetenti, tra l’altro, se erano riusciti a farsi stendere da una diciottenne e un ragazzo non molto più grande – gli avevano riferito che Nola Wilson sarebbe morta piuttosto che avere a che fare con la sua vera famiglia, e questo al momento bastava per far tranquillizzare Luke.
Un peso era stato tolto, adesso rimaneva solo un unico, grande problema. I traditori.
Aveva saputo recentemente e da fonti molto attendibili, che Amelia aveva dato alla luce un bambino. E per un momento, il pensiero di eliminarli si affievolì un po’, perché ripensò a sua figlia, a Maya, che un padre vero e proprio non l’aveva mai avuto, e si disse che sarebbe stato troppo persino per lui privare un bambino dei propri genitori.
Ma era durato solamente un attimo, l’istante dopo, Luke aveva appena messo appunto il piano perfetto. Non avrebbe toccato né Amelia né il bambino, ragionando sul fatto che lei era stata solamente una fastidiosissima comparsa nella sua vita e che suo figlio non poteva perdere entrambi i genitori (nella sua mente c’era sempre Maya, sola con sua madre).
Le persone che l’avevano tradito erano solamente tre.
Allora, si sarebbe assicurato che loro fossero altrove, al momento dell’attacco, avrebbe spento la sua sete di vendetta e poi avrebbe finalmente trovato la pace.
 
Ashton, Valerie e Michael erano appena usciti dall’ospedale.
Amelia e James sarebbero rimasti ancora un paio di giorni per fare vari accertamenti e analisi, in quanto James era nato con ben un mese di anticipo. Ashton era convinto di poter rimanere lì con lei per tutto quel tempo, ma i suoi amici l’avevano convinto ad andare a casa a riposarsi un po’ e lui, leggermente controvoglia, aveva accettato. Mike e Valerie avevano deciso di fargli compagnia.
Dall’ospedale a casa non era molto, così avevano deciso di farla a piedi. Inoltre, attraversare il ponte di notte era spettacolare: le luci dei lampioni si riflettevano sull’acqua scura e creavano un gioco di luci davvero meraviglioso e suggestivo. Per tutto il tragitto, Michael di dichiarò offeso per il fatto che il bambino non portava il suo stesso nome, ma allo stesso tempo era orgoglioso di sé per l’esatta previsione. Valerie aveva sperato fino alla fine che fosse una femmina, e in tutto ciò Ashton rideva, rallegrato dai suoi amici e dalla loro spensieratezza e felicità. E intrappolati in quella bolla di serenità, ignoravano qualsiasi tipo di pericolo.
Era pur vero che nelle ultime ore ogni cosa che importava davvero sembrava totalmente fuori dal mondo. La nascita prematura del bambino aveva colto tutti di sorpresa, facendogli dimenticare di tutti i pericoli che in realtà correvano incessantemente.
Quella sera, erano ignari del pericolo più grande di tutti, che li attendeva proprio sul ponte, con le mani in tasca e lo sguardo privo di ogni emozione.
La prima ad accorgersene fu Valerie. L’aveva visto di recente e aveva riconosciuto immediatamente quell’espressione grigia e consumata, che aveva ormai perso ogni motivazione per mutare ed esternare qualsiasi emozione. La ragazza si bloccò all’improvviso, lasciando di scatto la mano di Michael, lui se ne accorse e si voltò a guardarla, mentre Ashton aveva continuato per qualche metro da solo e poi aveva notato che mancava il suono dei passi dei suoi amici.
Mentre i due ragazzi erano intenti a guardare Valerie, lei aveva lo sguardo e la mente completamente rivolti verso Luke che stava fermo a circa venti metri di distanza.
«Finalmente ci rincontriamo tutti insieme!» esclamò il biondo, spalancando le braccia. L’inespressività fu sostituita da un paio di occhi spalancati e un enorme sorriso che rasentavano la follia.
Michael non esitò a farsi avanti. «Ce ne è voluto di tempo!» gridò in risposta.
Ashton lo prese per un braccio. «Non provocarlo» sibilò, riservandogli uno sguardo severo. Michael parve ignorare l’intimazione dell’amico, infatti, qualche momento dopo continuò.
«Stiamo giocando a nascondino, Luke? Ti aspettiamo da più di sei mesi!» esclamò ancora.
Luke non replicò stavolta. Si limitò solo a raggiungerlo, camminando molto lentamente, il suo passo aveva un ritmo esasperante.
Quando fu abbastanza vicino a tutti e tre per poterli guardare attentamente negli occhi e scrutarli.
«Ho semplicemente pianificato. Vi ho osservato e ho studiato le situazioni. Questo momento capita a pennello, oserei dire.» Dopodiché posò lo sguardo su Valerie. «Ho capito che né io né voi possiamo più aspettare per questo momento. Seppur in modi diversi, quest’attesa ci sta logorando tutti.»
«Noi siamo in tre, e tu sei da solo. Non mi sembra il frutto di un’attenta pianificazione» disse Ashton.
Luke sorrise. «Vorrei farti le mie congratulazioni per essere diventato padre, Ashton. Mi dispiace solo che il piccolo non potrà mai conoscerti» gli disse, assottigliando gli occhi a due fessure. «E prima che vi passino strane idee per la testa, non potete battermi. Considerando che siete solamente in due a poter competere con me, io vi ucciderò comunque. Se non vi opporrete, accadrà semplicemente più in fretta.»
Valerie strinse silenziosamente i pugni e decise che non poteva più rimanere nell’ombra. Aveva provato a farlo ragionare una volta, e avrebbe tentato ancora e ancora, finché non ci fosse stato qualcosa a fermarla.
Si fece avanti, cogliendo di sorpresa sia Ashton che Michael e si piazzò esattamente di fronte a Luke, occhi negli occhi, lo incatenò al suo sguardo senza la possibilità di scappare.
«Tutto questo non risolverà assolutamente niente!» esclamò.
Per tutta risposta, Luke rise crudelmente, ma non fu questo ad impedirle di continuare. «Ci ucciderai, e dopo probabilmente getterai i nostri corpi nel fiume, ma qualcuno ci troverà e sempre quel qualcuno troverà te. Non puoi sfuggire al carcere, Luke, e tre omicidi non si risolvono con una decina d’anni. Potrebbero darti l’ergastolo, se non peggio. Hai vent’anni, proprio come me e vorrei sapere qual è lo scopo di una vita passata dietro le sbarre di una prigione. Puoi ancora cambiare idea, uscire da tutto questo, rifiutare tutto questo, proprio come ha fatto tua sorella. So che non la conosci, ma io ho conosciuto lei. Non vuole avere niente a che fare con tutto ciò, non le interessano i soldi. Devi capire che non è mai troppo tardi per nessuno, non lo è nemmeno per te. Puoi ricominciare, sei giovane, hai tutta la vita davanti, non sprecarla in questo modo. Perdona noi e perdona te stesso. So che puoi farcela…»
A Luke faceva sempre uno strano effetto vedere Valerie in quelle condizioni. La parte razionale di sé gli suggeriva che era solo uno stratagemma, che lei non usava la sua forza fisica come arma, bensì cercava una contorta via psicologica. Eppure, l’altra parte di sé, quella che credeva fosse morta da tanto tempo, ricordò che quella era la ragazza che, ancor prima di Hanna, lo aveva fatto sentire normale, offrendogli la sua amicizia. Valerie era semplicemente così vera e umana, che riusciva a rendere vero e umano anche lui. Non sapeva esattamente come risponderle, ma ecco che, di nuovo, la parte razionale e diabolica, ebbe il sopravvento e gli fornì le parole esatte da dire.
«Non mi interessano le conseguenze. Non potrò mai vivere tutta la mia vita serenamente se prima non elimino voi» disse, freddo e glaciale. «La polizia, l’ergastolo… addirittura la pena di morte non mi spaventano affatto. Non ho intenzione di vivere abbastanza per farmi catturare.»
Valerie spalancò occhi e bocca, colta dall’orribile sorpresa. Luke la guardava ancora con un ghigno stampato sulle labbra.
«Esatto, Val. Dopo avervi uccisi avrò finalmente messo tutto in pari e vivere non avrà più alcuno scopo. Mi getterò in questo fiume insieme a voi.»

 

 

Marianne's corner
So che dovevo aggiornare ieri, ma sono stata fuori casa tutto il giorno e quando sono tornata avevo un mal di testa allucinante!
Volevo postare ieri sera, ma era tardi e ho deciso che era meglio aspettare oggi u.u
Dunque, il bambino si chiama JAAAAAMES *-* in onore del mio amatissimo, fantastico, mio grandissimo amore James Potter e della perfezione fatta persona aka James Castairs (che, se ve lo state chiedendo, è un personaggio del prequel di Shadowhunters e io non capisco perché la gente ami di più Will).
Okay, dopo questo momento cross-over, direi che potete essere preoccupati per la mia sanità mentale. Allora, nel disegno originario, Luke non voleva esattamente ammazzarsi, prima doveva irrompere in casa di Ashton, Amy doveva scappare con il bambino e poi ci sarebbe stata una lotta all'ultimo sangue, ma poi molte cose hanno preso il sopravvento e ho cambiato idea. Comunque, sappiate che non vi darò risposte certe fino all'ultimo capitolo perché sono una persona estremamente cattiva ♥
Detto ciò, se avete letto fin qui vi ringrazio e vi invito a lasciare una recensione.
Infine, volevo segnalarvi la nuova storia della mia Anna (lukesvoice), che dopo la maturità e del meritato riposo si è rimessa in carreggiata u.u è una Muke e si chiama Flowers
Un bacio,
Marianne


 

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Capitolo 22
*** La resa dei conti ***



 
22 - LA RESA DEI CONTI
 
 
Michael tirò fuori la pistola senza nemmeno rifletterci. Certo era che se dovevano morire, non l’avrebbero fatto senza prima aver combattuto e opposto la dovuta resistenza. Luke poteva essere il Capo, poteva essere chi voleva, ma la realtà dei fatti non mentiva. Lui era uno e loro erano in tre, due dei quali sapevano come difendersi e attaccare abbastanza bene. E tre era più forte di uno.
Ashton cercò a tastoni la sua, ma non riuscì a trovarla da nessuna parte. Poi ricordò che nella fretta di portare Amelia all’ospedale, la notte prima, l’aveva lasciata a casa, nel cassetto del comodino. Si maledisse mentalmente per quell’inconveniente e fece capire a Michael di essere disarmato. Nessuno dei due si disperò, tuttavia, esisteva ancora il corpo a corpo. Valerie, dopo che Luke aveva esplicitato il fatto che si sarebbe suicidato dopo aver ucciso loro, continuava a star ferma dov’era, come se fosse pietrificata.
Non lo riconosceva più. L’amico a cui voleva bene e di cui, tanto tempo prima, si era fidata, era totalmente scomparso, al suo posto, c’era un mostro deforme a cui non importava nulla della vita degli altri, né della propria.
Come era diventato così? Cosa gli era successo?
Credeva che fosse pazzo, e quel costante sorriso cattivo sul suo volto, insieme alla luce sinistra e cupa nei suoi occhi, continuavano a confermarglielo. Un modo per fargli ritrovare la ragione doveva esserci, ma Valerie non credeva di saperlo trovare, in quel momento. Oppure credeva che per Luke non ci fosse più tempo.
Si sentiva troppo scossa per fare altro.
Come un eco lontano, sentì Michael gridarle qualcosa. Le diceva di spostarsi e di mettersi dietro di loro, di lasciargli la situazione tra le mani. Ancora le disse di scappare, di andarsene. Lei lo sentiva chiaramente, ma era come se la sua voce provenisse da un’altra parte, da un’altra dimensione che non poteva in alcun modo interferire con la realtà che stava vivendo.
Ben presto, non riuscì più a sentire Michael che gridava. Aveva probabilmente attivato lo stesso meccanismo che aveva azionato Luke per spegnere in quel modo le sue emozioni e la sua umanità.
In un momento, aveva capito come dimenticare l’affetto che provava per lui e come cancellare ogni bel ricordo passato in sua compagnia. Per un momento, fu come se Luke non fosse mai stato tale nella sua vita. Per un breve momento, di fronte a lei c’era solamente un corpo senz’anima.
Con uno scatto veloce, lo raggiunse e gli piazzò un potente schiaffo sul viso. Ci mise tutta la forza che aveva e Luke, colto di sorpresa, arrivò a barcollare. Valerie si avventò di nuovo su di lui, ci lottò contro. Lui aveva subito ripreso il controllo e le aveva afferrato il polso destro. La mano sinistra di lei continuò ad aggredirlo, lasciandogli dei graffi sulla guancia. Voleva picchiarlo, voleva fargli del male, desiderava vederlo soffrire e sentirlo gridare di dolore sotto il suo tocco.
Ma non era abbastanza forte.
Ben presto, Luke le bloccò anche l’altra mano, afferrandole il polso con forza, e con una possente spinta la buttò a terra, sull’asfalto. Valerie alzò lo sguardo ed ebbe paura. Luke la guardava come se l’avesse vista per la prima volta e fosse, in qualche modo, riuscito a dimenticare tutti gli anni che avevano passato insieme.
«Stupida!» le gridò contro. Lei ebbe l’impressione che di lì a poco l’avrebbe colpita, ma stavolta più forte, eppure il colpo non arrivò mai. Chiuse gli occhi.
Sentì qualcuno afferrarla sotto le braccia e aiutarla a rialzarsi in piedi. Aprì gli occhi.
Ashton era dietro di lei.
«Stai bene?»
Lei annuì semplicemente, mentre cercava il suo Michael con gli occhi. Lo trovò accanto a Luke, erano entrambi a terra. Valerie non riusciva a capire chi stesse avendo la meglio, seppe solo che ad un certo punto, vide Michael puntargli la pistola alla tempia destra.
La fragorosa risata di Luke decretò il silenzio più totale. Ashton li fissava impietrito, una parte di sé constatò con un certo orrore che Michael non sarebbe riuscito a premere quel grilletto. Se lo sentiva.
D’altra parte, Luke sembrava non avere nemmeno paura di lui e della pallottola. Come biasimarlo? Sarebbe morto comunque, l’unica differenza stava col tormento che si sarebbe portato fin dentro la tomba.
«Avanti, Mike. Uccidimi, mostrerai alla tua ragazza che non sei molto meglio di me. Lei vuole salvarmi, non l’hai sentita?»
Michael aumentò la pressione della canna d’acciaio contro la pelle di Luke.
«Lei crede che diventerò una brava persona!» esclamò, a voce più alta, in modo che anche lei potesse sentirlo.
E poi, successe tutto troppo in fretta. Luke strattonò il braccio di Michael, ribaltò la situazione e scaraventò la sua pistola lontano da loro, sfruttando il breve momento di distrazione del suo avversario.
Valerie si allontanò da Ashton e cominciò a correre verso l’arma, Luke se ne accorse e, repentinamente, si voltò nella sua direzione, tolse la sicura alla sua pistola e sparò un colpo.
Valerie cadde a terre lanciò un grido di dolore, solo dopo notò il sangue uscire da una ferita pochi centimetri al di sopra del ginocchio sinistro.
«Valerie!» urlò Michael. Luke lasciò che si divincolasse e lo fece correre da lei. Da quel momento in poi, non avrebbero rappresentato un problema. La sua intenzione non era quella di ferirla mortalmente, anche se avrebbe personalmente preferito che la pallottola si piazzasse in mezzo a qualche organo vitale che nella gamba, ma in quel caso, avrebbe subito il triplo della furia che Michael gli aveva mostrato. Se Valerie era viva, ma ferita, Michael era debole.
E difatti, era così.
Non appena Mike aveva visto Valerie a terra, la pelle sporca di rosso scarlatto, era impallidito. Gettandosi al suo fianco, avrebbe voluto scomparire. La sua unica missione era proteggerla, ma aveva miseramente fallito. Lei lo guardava: non sembrava esserci risentimento o delusione nel suo sguardo, c’era solo paura e sofferenza. La ferita faceva incredibilmente male.
A qualche metro di distanza, Luke si voltò invece verso Ashton, che stava avanzando velocemente verso di lui. Ricevette un pugno, che non provò nemmeno a schivare.
«Mike, portava Valerie in ospedale. A lui ci penso io» disse Ashton impassibile. Luke sorrise di nuovo in modo folle: il pensiero di uno scontro con Ashton lo allettava talmente tanto da pensare che avrebbe potuto addirittura risparmiare gli altri due, o ritardare la loro morte di qualche giorno.
Li lasciò andar via, ma non permise ad Ashton di recuperare la pistola di Michael. Con il sangue che gli usciva dal naso, lo strattonò e lo fece voltare verso di lui, gli tirò un pugno e poi un altro, quasi non gli dava il tempo di respirare e rimettersi in sesto.
Ashton raccolse tre preziosi secondi, durante i quali Luke aveva nuovamente impugnato la pisola. L’avrebbe fatta finita lì. Utilizzò quel tempo per tirargli un calcio alla mano destra, facendo volare la pistola a parecchi metri di distanza, a pochi centimetri da quella che giaceva già a terra.
«Ora siamo pari, stronzo» gli sibilò.
«Sono capace di ammazzarti anche senza pistola» ribatté Luke in risposta.
Ashton imitò il suo ghigno. «Anche io.»
Pugni, schiaffi e graffi continuavano a susseguirsi. Entrambi colpivano e venivano colpiti.
«È solo colpa tua» diceva Ashton. «I miei genitori, Amelia, tutti noi…»
E continuava a picchiarlo. Luke era forte, tant’è che utilizzò la rabbia di Ashton per divincolarsi dalla sua presa: se si era troppo concentrati sui colpi e sulla forza, non si era scaltri abbastanza.
«Il caso dei tuoi genitori è stato il primo a cui ho preso parte, lo sapevi?» gli disse Luke, per provocarlo.
«Mio padre mi ha insegnato come si faceva» continuò. «Mi ha spiegato. Tuo padre era in debito con lui. Ti sei mai chiesto come sia diventato un brillante avvocato?»
«Cazzate!» esclamò Ashton, cercando di colpirlo. Era accecato dalla rabbia, Luke evitò facilmente il pugno.
«Una volta, in tribunale, gli fece perdere una causa importante» disse Luke. «In quel momento, ha firmato la condanna a morte della sua famiglia.»
«Stai zitto!» Quella volta, il pugno lo prese proprio sotto l’occhio. Luke barcollò, ma non smise di parlare.
«E sai come è successo? Prima, il sicario ha ammazzato tua madre. Le ha tagliato la gola sotto gli occhi di tuo padre» continuò. «E poi ha ucciso lui!»
«E Amelia! Se solo avessi voluto avrei potuto farle qualsiasi cosa, l’anno scorso» riprese Luke, mentre lui e Ashton non smettevano di picchiarsi. «Era costantemente sotto il mio controllo, io e te condividevamo la stessa stanza e lei non esitava ad entrare, con la copia di Valerie. Ci hai mai pensato, Ashton? Tuo figlio potrebbe addirittura non essere tuo!»
Ashton smise di pensare. Gli saltò letteralmente addosso, lo buttò a terra e gli si mise sopra, posizionò le mani sul suo collo. Era deciso ad ucciderlo.
Aveva mille moventi per farlo.
Luke era il responsabile della morte dei suoi genitori, Luke l’aveva voluto con sé dopo quel terribile evento, Luke l’aveva fatto diventare un mostro come lui, Luke l’aveva usato e aveva giocato con lui come un burattinaio fa con i propri burattini, Luke poi l’aveva inseguito, perseguitato, Luke voleva ucciderlo, Luke aveva reso la sua vita un inferno e aveva intenzione di ferire quelli che amava, Luke aveva aggredito Amelia, Luke era capace di qualsiasi cattiveria si potesse immaginare nel mondo.
Chi lo avrebbe biasimato?
«E poi, chissà come, hai trovato l’assassino dei tuoi genitori e ti sei vendicato. Complimenti. L’hai soffocato, vero? Proprio come stai facendo con me» boccheggiò Luke, riprendendo il discorso precedente. Cominciò a diventare rosso in viso. «Ma lì sei stato più accurato. Guanti in lattice. Adesso troveranno le impronte. E sono tanti anni da passare in prigione. Pensa, Ashton, quando sarai un uomo libero tuo figlio sarà nel bel mezzo dell’adolescenza, e non ti avrà mai conosciuto davvero.»
Il cervello cominciò a riattivarsi. Ashton allentò la presa sul collo di Luke.
«Vedo che cominci a ragionare» gli disse Luke.
Ma Ashton ebbe un’altra idea: non l’avrebbe lasciato vivere per niente al mondo. La pistola di Luke e quella di Michael giacevano vicine a terra. Ashton cominciò a correre, Luke appena realizzò il tutto lo imitò, ma arrivò per secondo.
Ashton aveva raccolto entrambe le pistole e adesso le puntava verso Luke.
«Fai qualcosa di avventato e giuro che ti sparo» disse Ashton, guardando Luke negli occhi. «Due volte, giusto per accertarmi che muori.»
Luke cominciò ad indietreggiare, veramente impaurito, finché qualcosa non lo bloccò. La balaustra del ponte.
Si riprese la propria calma.
Aveva ovviamente considerato una situazione del genere, in cui si ritrovava con le spalle contro il muro. Luke era al capolinea, stava perdendo e proprio per questo, aveva pensato ad ideare un piano di riserva, il cosiddetto piano B, l’alternativa catastrofica.
Si era augurato di non doverlo mai usare, poiché richiedeva un vero sacrificio mentale. Doveva abbandonare la sua vendetta per sempre, doveva sparire dalla circolazione senza aver soddisfatto i propri desideri. Eppure, in quel momento, non aveva molta altra scelta.
Non avrebbe mai dato ad Ashton la soddisfazione di ucciderlo.
Lentamente, si arrampicò sulla balaustra, le pistole erano ancora puntate contro di lui. Entrambe contro il suo viso.
Con cautela, si alzò in piedi.
Un solo passo e sarebbe stato inghiottito dall’acqua. Il fiume era l’unica occasione che gli era rimasta, la via per uscire di scena.
Avrebbe dovuto sacrificare molte cose, tra cui la possibilità di vendicarsi, di uccidere i traditori, di avere la pace, di sentirsi finalmente completo.
Disse una cosa soltanto.
«Greatcape street, numero 68 – fece una breve pausa – se la trovi, dille che avrei voluto essere migliore di così.»
Luke saltò all'indietro; una frazione di secondo dopo, Ashton sparò due colpi.
 


 

Marianne's corner
Hola! La vostra autrice è ufficialmente depressa perché oggi è il primo settembre, la storia sta per finire, la scuola sta per cominciare e perché, poverina, lei deve fare ancora tutti i compiti (ma ieri ho fatto una versione di greco, olè).
Ho avuto un problema tecnico con l'HTML perché non mi prendeva più il Georgia dimensione 16, per cui ho dovuto aumentarlo a 18. Non so perché, appena mettevo 16 il testo scompariva e diventava tutto bianco OuO. Spero non vi crei problemi ç__ç
Ma passiamo alle cose serie. Ragazze, ci rendiamo conto che il prossimo sarà il penultimo capitolo? D: Da una parte sono molto entusiasta di portare a termine questa storia, perché nonostante tutto, nonostante io sia rimasta ferma per un po', lei è una delle cose che sono riuscita invece a portare avanti. E quindi boh, ha un valore affettivo per me. Ma farò il discorso lungo e triste alla fine, non temete.
Allora, so quello a cui state pensando: ASHTON HA UCCISO LUKE. Bene, fermatevi e resettate, perché non lo sapete con certezza u.u
Luke è saltato leggermente prima che Ashton sparasse, quindi pur rimanendo nelle leggi della fisica, c'è la possibilità che non sia stato colpito dalla pallottola. La vera domanda è: LUKE E' VIVO? A questo vi risponderò solo nell'ultimo capitolo, muahaha.
Okay, come al solito ringrazio chiunque continui a seguire questa storia disparata e ormai alla deriva e come sempre vi invito a non essere timidi. Mi farebbe davvero piacere sapere che ne pensate, giuro che sono un animale pacifico ed innocuo! :D
Noi ci ribecchiamo il 5 settembre, mentre il gran finale è datato 9/09 (LOL).
Un bacione,
Marianne


 

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Capitolo 23
*** Coraggio ***



 
23 - CORAGGIO
 
 
James dormiva serenamente nella sua culla da più di un’ora. Nella stanza accanto, i quattro ragazzi stavano prendendo un caffè. Valerie e Michael erano seduti su due seggiole, mentre Amelia e Ashton si trovavano sul divano. Lui, in particolare, non proferiva parola da circa due giorni, dopo aver raccontato per filo e per segno, e per l’ennesima volta, quello che era successo con Luke quella notte, sul ponte.
«Non so cosa sia successo, di preciso» aveva detto a tutti. «So solo che ad un certo punto lui è salito sulla balaustra, io avevo due pistole in mano. Mi ha detto un indirizzo e poi ho sparato. Ma non so dire con certezza se lui fosse già saltato giù.»
Il racconto era sempre lo stesso. Ogni volta che glielo diceva, la storia non cambiava. Le parole potevano farlo, ma il succo del discorso rimaneva quello.
Era il ventuno gennaio. Erano passati dieci giorni dalla nascita di James, nove dalla misteriosa morte di Luke e sette giorni dal ritorno di Amelia a casa.
Il fatto di non sapere con certezza di aver ucciso qualcuno o meno stava logorando Ashton in un modo che tutti gli altri faticavano addirittura ad immaginare. Tuttavia, cercava solo di focalizzarsi su unico pensiero: era tutto finito. Che l’avesse ucciso lui oppure no, non avevano dubbi che Luke fosse morto.
Erano passati nove giorni e nessuno aveva denunciato la sua scomparsa, il che sembrava a tutti decisamente strano: dopotutto, il padre di Luke si trovava a capo di un’importante – per quanto quest’aggettivo possa definirsi adatto – organizzazione criminale, che aveva reti di controllo su svariate zone del globo. Anche se, pensarono, non doveva essere molto usuale per lui rivolgersi alla polizia. Probabilmente, il padre di Luke si era già accorto della scomparsa del figlio e probabilmente stava già provvedendo a modo suo: inviando alcuni “mercenari” a cercarlo. Ma il vero problema avrebbe potuto presentarsi quando nessuno sarebbe riuscito a trovarlo e a contattarlo, a quando avrebbero trovato il suo corpo nel fiume.
E poi, se sul suo corpo c’era il segno di un’arma da fuoco, sarebbe stata sicuramente la fine.
Ma a tutto questo, Ashton cercava di non pensarci.
Ora come ora, aveva deciso di dedicare tutto il suo tempo ad Amelia e a James. Aveva anche parlato con sua zia Doris che l’aveva accolto a braccia aperte in casa sua, facendogli rivedere i suoi due fratelli. I tre avevano passato un’intera giornata assieme, erano venuti a casa sua, avevano visto il piccolo mentre se ne stava tra le braccia della mamma.
E quando Ashton li aveva riportati a casa, Doris gli aveva detto che, non appena si fosse sentito pronto, avrebbero contattato un avvocato per l’affidamento. La cosa l’aveva, ovviamente, riempito di gioia, ma aveva deciso che avrebbe aspettato alcuni mesi, per assicurarsi di essere totalmente fuori dai guai.
Nonostante ciò, era da due giorni che non riusciva a fare discorsi sensati con qualcuno e che aveva una sola cosa per la testa.
Greatcape street, numero 68.
Cosa significasse quell’indirizzo per Luke, non lo sapeva, anche se moriva letteralmente di curiosità. Delle volte, avrebbe voluto uscire di casa all’improvviso e raggiungere quella casa, quell’indirizzo, quel punto della città che Luke aveva considerato forse più importante della propria vita.
E poi avrebbe voluto incontrare chiunque fosse quella “lei” a cui Luke voleva chiedere scusa.
Avrebbe davvero voluto, ma c’era sempre qualcosa che lo tratteneva dal farlo. Come il fatto di non averlo detto a nessuno. Da una parte, sentiva che era una cosa che doveva sbrigare da solo: prendere la macchina, impostare il navigatore e andare lì. Dall’altra, però, sentiva di doverlo dire anche ai suoi amici e soprattutto ad Amelia, perché avrebbe voluto lei al suo fianco, quando avrebbe incontrato quella persona e avrebbe recapitato il messaggio di Luke.
Anche quello gli era sembrato strano.
Dille che avrei voluto essere migliore di così.
Sembrava che Luke si fosse pentito proprio in punto di morte, che avesse avuto un qualche tipo di rimorso, che avesse deciso di scaricare quel peso che si portava dentro.
Ashton si chiese se per tutto quel tempo Luke avesse avuto un cuore, vivo e pulsante. Che non fosse fatto solo ed esclusivamente di materia morta, che avesse un’anima e una coscienza, che possedesse dei sentimenti e delle emozioni, accompagnate da un’umanità che cercava disperatamente di tenere nascosta.
Chissà se credeva che tutto quello l’avrebbe solo indebolito.
Considerando ciò, Ashton notò di aver appena dipinto in tutte le sfumature il se stesso di un anno prima. Il se stesso prima di Amelia.
Quel ragazzo metà blu e metà viola. Quel ragazzo a metà tra la tristezza e la morte, tra la rabbia e la salvezza. E pensò che, alla fine, lui e Luke non erano poi così diversi.
Solo che Ashton era riuscito ad emergere dal mare di indaco in cui stava affogando.
Sarebbe stato buffo se solo avesse saputo che anche Luke aveva trovato il modo per riemergere.
 
 
Alla fine, aveva deciso di rivelare a tutti quello che Luke aveva detto prima di morire. Nessuno di loro rimase molto sorpreso, o forse tutti erano rimasti troppo sconvolti da mostrare qualsiasi tipo di reazione.
Fatto sta che, non molti giorni dopo, decise di chiedere ad Amelia di accompagnarlo a Greatcape street, ovunque essa si trovasse, e comunicare il messaggio di Luke a chi di dovere.
La verità era che Ashton continuava a credere di essere stato lui ad ucciderlo prima che saltasse, e andare in quel posto, assecondare il suo ultimo desiderio, rappresentava quasi un modo per eliminare i sensi di colpa e, in qualche modo, espiare per ciò che aveva fatto.
Un giorno, dunque, invitarono Calum e Nola a casa, chiedendogli di badare a James. Nola era entusiasta, aveva sempre desiderato avere a che fare con i bambini, e aveva deciso che, dopo aver ripreso gli studi per il diploma, si sarebbe data da fare per ottenere un posto di lavoro che le permettesse di aiutare tutti i bambini che erano in difficoltà, proprio come lo era stata lei.
Ashton non sapeva dove si trovasse la via, ma grazie al navigatore la trovarono in poco tempo. Si trovava in un quartiere abbastanza ricco e il numero 68 era occupato da una piccola villetta a due piani, parte di una schiera di villette tutte uguali tra di loro. Mura bianche, tetto color rame, infissi neri. Solamente i fiori nel giardino erano diversi gli uni dagli altri.
Il numero 68, ad esempio, offriva la visione di azalee e tulipani colorati, che però sembravano non venir curati da alcuni giorni.
Amelia e Ashton si fecero coraggio e, tenendosi per mano, si avviarono verso la porta di casa. Aprirono il cancelletto nero, salirono le scale della veranda e suonarono al campanello.
Una, due volte, ma nessuno venne mai a rispondergli.
Dopodiché, notarono che tutte le finestre erano chiuse e così le persiane. Evidentemente, non c’era nessuno in casa.
Così tornarono il giorno dopo, ma il risultato fu lo stesso. Ad ogni ora del giorno, la casa era vuota, le finestre chiuse, sembrava che non vi abitasse più nessuno. Ma il giardino non era trascurato, qualcuno c’era stato non molto tempo prima.
Un giorno, ad Amelia venne l’idea di controllare nella cassetta delle lettere e nonostante i continui dubbi di Ashton sul fatto che non sembrava esattamente una cosa carina da fare, fu proprio lì che trovarono la risposta al perché della casa vuota.
All’interno c’era un biglietto, aperto e stropicciato, che evidentemente era stato letto da chi di dovere e poi quel qualcuno l’aveva lasciato lì, probabilmente in preda alla rabbia.
Il biglietto diceva:
 
“Ciao Rob. Quando tornerai da Perth non ci troverai a casa, né il giorno dopo o quello dopo ancora. Non fraintendermi, non avevo alcuna intenzione di scappare via così fino a qualche ora fa. Sono le tre di notte e sto facendo i bagagli. Io e Maya andiamo via per sempre. Non so ancora dove, ma dopo tanto tempo ho capito che non potevo continuar a vivere in una falsa felicità assieme a te. Tu sei fantastico, l’uomo perfetto, quello che sognavo quando ero una ragazzina. Il principe azzurro che vogliono tutte. Ma ci sono cose di me e del mio passato che non potrai mai capire appieno, nonostante ci abbia provato e nonostante tutto l’amore che provi per me.
Anche io ti amo, Rob, e tanto, ma ho capito che c’è qualcuno che amo più di te. Se penserai che in tutto questo tempo io ti abbia solo usato per provare a rifarmi una vita, lo capisco, ma sappi che non è la verità. Sappi anche che non siamo sole, che c’è qualcuno che ci protegge e che staremo bene. Dovrò cambiare il numero di telefono, perciò non cercarmi. Grazie di tutto, non dimenticherò mai te e tutto ciò che mi hai dato.
Hanna.”

 
Dopo averlo letto, Amelia aggrottò le sopracciglia e sospirò.
«Secondo te, questa Hanna era la persona con cui Luke voleva scusarsi?» chiese ad Ashton, mostrandogli il foglio stropicciato.
Lui se lo rigirò tra le mani. «Credo di sì.»
«Ma ora è scappata, ed è introvabile. Non sappiamo nemmeno chi sia questo Rob a cui ha inviato il biglietto» disse la ragazza.
«So solo che questo Rob deve averla presa davvero male per aver addirittura lasciato la casa» sospirò Ashton.
«Che legame avevano Luke e Hanna?» chiese Amelia.
«Credo che… credo che Luke ne fosse innamorato. Oppure qualcos’altro, non saprei, forse Hanna è solo una persona che lo credeva diverso da come era realmente e per questo voleva dirle che se avesse potuto, sarebbe stato migliore di ciò che era» rispose Ashton. «Il fatto che lei se ne sia andata, potrebbe c’entrare qualcosa con la morte di lui, forse?»
«Forse l’ha saputo. Ha saputo che è morto» disse Amelia.
«Il corpo non è stato ritrovato. Nessuno tranne noi lo sa» borbottò Ashton, rimettendo il biglietto nella cassetta delle lettere.
«In ogni caso, questa Hanna non mi convince. È tutto collegato, capisci? Luke vuole suicidarsi, prima di sparire per sempre ti da l’indirizzo di questa ragazza e ti dice di dirle che avrebbe voluto essere migliore; veniamo qui, ma Hanna è scappata via con questa Maya, che potrebbe essere una sorella o un’altra parente, e tutto dopo la morte di Luke. Non ti sembra strano?»
Ashton la guardò. «Da morire – poi sospirò – ci rimane solo una cosa da fare: chiedere informazioni al vicinato.»
 
L’unica persona della schiera di villette a Greatcape street che accettò di parlare con loro fu un anziano, che abitava al numero 72. Un certo Greg.
«Hanna, dite? Ah, sì. Mi ricordo di lei, una bravissima ragazza. E poi la sua bambina è una tesoro» esordì il vecchio.
«Bambina?» chiese Amelia.
«Sì, sua figlia. Non ricordo bene il suo nome, ma è adorabile» rispose Greg.
«Da qualche giorno Hanna è partita» disse Ashton. «Sa niente? Sono un suo vecchio amico, ma non mi ha avvertito che lasciava la città.»
Greg sospirò, pensieroso. «Onestamente, non so dirvi molto. Anche se ora che ci penso, l’ho vista davvero andar via ad un’ora insolita. È stato nel bel mezzo della notte, hanno fatto un tale trambusto che la mia piccola Lolly – intendeva la sua cagnolina – ha cominciato ad abbaiare. Così mi sono svegliato e sono uscito in cortile e allora li ho visti.»
«Intende dire che Hanna non era sola, eccetto la piccola?» chiese allora Amelia.
«Esatto. Nel vialetto era parcheggiata una costosa automobile scura, ma non era quella del suo fidanzato, quella la conosco. C’era un uomo che l’ha aiutata a caricare tutto in macchina. Purtroppo indossava una felpa o un cappotto, nonostante il caldo che faceva, e non so dirvi come fosse fatto.
Ma parlavano entrambi in modo concitato, erano molto di fretta, Hanna sembrava quasi colta alla sprovvista, come se non sapesse di dover partire. Ho portato Lolly in casa e sono tornato a dormire, in genere non mi metto in mezzo ai fatti altrui.»
«Certo, certo» disse Amelia. «La ringraziamo. È solo che il mio ragazzo si è preoccupato.»
Ashton annuì. «Non vedo Hanna da un po’, ma non era mai successa una cosa simile, prima.»
Amelia lo guardò e dentro di sé era molto agitata: il fatto che Ashton avesse imparato a mentire così facilmente la turbò un pochino. Decise di non darvi molto peso, dopotutto, in certe situazioni era pressappoco che indispensabile.
Ringraziarono Greg per la chiacchierata e il caffè e tornarono a casa, con meno risposte di quante ne volessero davvero.
Ma erano passate più di due settimane, il corpo di Luke giaceva sul fondale del fiume, non avevano ricevuto minacce di alcun tipo e nel giro di pochi giorni, anche la misteriosa fuga di Hanna smise di albergare nel loro pensieri.
Per la prima volta, sembrava andare tutto bene.



 

Marianne's corner
Bonsoir! 
Eccomi puntuale con il nuovo capitolo! Allora, è un capitolo di passaggio ma fondamentale. Può sembrare frettoloso, ma in questo momento non sono i dettagli che ci ineressano. Luke muore. Hanna scappa. Il vecchietto non ci è di nessuna utilità perché la figura misteriosa è comunque misteriosa. Comunque, i nostri eroi sono felici e contenti e, per citare l'ultima frase, sono tranquilli e possono tirare un sospiro di sollievo per la prima volta dopo da tanto tempo.
Il nove ci sarò il gran finale, siete pronti? AHHH, io non vedo l'ora, anche perché (SPOILER ALERT) rivedremo Hanna e la priccola Maya. Ora, pretendo che voi mi diciate tutte le vostre supposizioni sull'ultimo capitolo. Ma proprio tutto tutto, ditemi cosa pensate che possa succedere. Non avete paura di influenzarmi, il capitolo è già scritto! :D
Come sempre, ringrazio chi ha letto fin qui e chi ha recensito lo scorso capitolo, ma anche chi è ancora a metà strada e (spero) presto ci raggiungerà :3
Detto ciò, vi saluto e vi do appuntamento per l'ultimo capitolo (omg, non ci credo ancora lol)
Baci,
Marianne


 

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Capitolo 24
*** Il posto a cui appartieni ***



 
24 - IL POSTO A CUI APPARTIENI
 
 
La navata centrale della chiesa era adornata con decine e decine di fiori, con colori che andavano dall’arancione al violetto. Tra questi spiccavano le rose e le ortensie. I banchi di legno non erano tutti occupati: nonostante la chiesa fosse piuttosto grande, si trattava di una cerimonia intima. Eccetto i parenti degli sposi e gli amici più stretti, non vi era nessun altro. Erano tutti seduti, tranne Michael che stava in piedi di fronte all’altare. Era il mese di settembre e si respirava primavera in ogni dove, per l’occasione, lo sposo aveva deciso di tornare ad un più “consono” biondo platino, anziché presentarsi in chiesa con i capelli violetti, anche in memoria dei tempi in cui era ricominciato tutto. Seduti ai banchi davanti, vi erano i testimoni più un bambino di quasi due anni, con i capelli biondo cenere e gli occhi blu mare.
Mancava pochissimo ormai. Tra gli ospiti si levava un chiacchiericcio trepidante, aspettavamo tutti l’arrivo della sposa e intanto le signore di tutte le età facevano supposizioni sull’abito, il trucco e l’acconciatura. Valerie, infatti, aveva deciso che sarebbe stata una sorpresa per tutti.
Quando l’organo iniziò a suonare la classica marcia nuziale, decine di teste si voltarono verso l’entrata, molti di loro rimasero stupefatti.
Valerie era una bellissima ragazza, ma quel giorno sembrava essere quasi eterea, come se fosse di una bellezza troppo grande per appartenere a quel mondo.
Accompagnata dal padre, un uomo di alta statura dal fisico gracile, non smetteva di sorridere. Il vestito era lungo fino a terra, privo di strascico, aveva una gonna abbastanza ampia che si restringeva in vita. Da quel punto, la parte superiore era rivestita di un leggero strato di merletto floreale, per poi terminare con uno scollo a barchetta che lasciava le spalle scoperte. Le maniche erano lunghe e semitrasparenti, anch’esse presentavano lo stesso merletto che rivestiva il busto. Tra le mani, teneva un bouquet con rose bianche e ortensie lilla, che non stonava con il resto delle decorazioni, ma che si distingueva notevolmente da esse.
I lunghi capelli castani scuri erano raccolti in un semplicissimo chignon basso e sulla parte superiore fermati con un cerchietto ricoperto di perle e pietre luccicanti. Infine, il trucco era stato realizzato in modo semplice, con toni caldi che variavano dallo champagne al ramato, abbinati ad un rossetto rosa antico che si notava appena.
Quando l’organo smise di suonare, Valerie era giunta di fronte all’altare e affianco a Michael e per un attimo si erano tenuti per mano. La cerimonia durò poco più di un’ora, le madri degli sposi si commossero, Nola pianse, ma fuori dalla chiesa, al lancio del bouquet, questo andò a finire inaspettatamente nelle sue mani.
Lei insistette per cederlo ad Amelia, sostenendo che il passo successivo per lei e Ashton era indubbiamente quello, ma non ci fu verso.
Era trascorso un anno e sette mesi da quando tutto era finito e nel frattempo si erano festeggiati diversi compleanni.
Calum per primo era arrivato a ventidue, Amelia aveva raggiunto la stessa cifra il 16 maggio. Ashton ne aveva compiuti ventiquattro a luglio. Nola aveva ne aveva fatti venti ad agosto, mentre Valerie e Michael dovevano ancora festeggiare rispettivamente ventidue e ventitré anni.
Erano tutti estremamente giovani, eppure, avevano già affrontato più di quanto la vita richiedesse in circostanze normali. Dopo sette mesi dalla nascita del piccolo James, tuttavia, le cose sembravano essersi stabilizzate. Non ebbero più alcuna notizia di Luke o di suo padre. Sembrava che quella notte d’estate e le acque scure del fiume avessero definitivamente lavato via ogni problema.
Eppure, c’erano molte cose che non tornavano, parecchie incongruenze. Se ne erano preoccupati per i primi tempi, poi avevano lasciato stare tutto, imparando a lasciarsi alle spalle ciò che non poteva più toccarli.
Il ricevimento, dopo il matrimonio, si svolse a casa dei genitori di Valerie, poiché disponevano di un giardino molto grande e, fortunatamente, quella era una giornata piena di sole.
«James, non la torta!» esclamò Amelia, una volta finito il pranzo. Era riuscita a tirar via il piccolo prima che potesse combinare un pasticcio con la panna della torta nuziale, portata fuori in giardino da pochissimi minuti.
«Totta!» disse in risposta il bambino, mentre veniva preso in braccio.
«La torta dopo, tesoro» gli disse Amelia. «Dobbiamo aspettare.»
Ashton osservava la scena divertito, quando la sua attenzione fu richiamata da Michael che, al centro della tavola, si era appena alzato in piedi.
«Ash, da bravo amico e testimone, vieni a fare un bel discorso, hic!, che io non sono capace.»
«Tu sei troppo brillo» commentò Valerie, alzando gli occhi al cielo. «È diverso.»
Ma l’idea di Michael fu incoraggiata sempre da più persone dopo che Calum diede vita ad una sorta di coretto. «Ashton! Ashton!»
Vi si unirono Nola e Amelia, che batteva le mani insieme a James. «Ashton Ashton!» continuavano a dire tutti, persino i Harry e Lauren, che ormai avevano quindici e diciotto anni.
«Va bene, va bene, arrivo!» esclamò Ashton. «Ma non aspettatevi niente di che.»
Si alzò in piedi e raggiunse i neo sposi, mettendosi esattamente tra loro. Anche Valerie, malgrado le scomodità dovute al vestito, si alzò in piedi e prese la mano destra di Ashton, mentre quella sinistra era stretta a quella di Michael.
«Oggi, due dei miei più grandi amici si sono sposati e, cavolo, hanno avuto proprio un bel coraggio» esordì, suscitando qualche risatina. «Un paio di anni fa, se me l’avessero detto, io sarei probabilmente scoppiato a ridere. Dovete sapere, infatti, che questi due non si trovavano proprio in bellissimi rapporti. Frequentavano la stessa università, ma non si potevano vedere. Il motivo? Memorie di una brusca rottura ai tempi del liceo. Ma il destino, in qualche modo, ha voluto che si rivalutassero a vicenda e che capissero che quello che era successo a diciassette anni non era poi così importante, che aprissero gli occhi e si accorgessero che per tutto quel tempo, il loro astio si reggeva sulle basi di un grande malinteso. E come di dice? Tutto è bene quel che finisce bene. E signori miei, questo è davvero un lieto fine. Adesso voglio un bell’applauso per la principessa e l’ubriacone!»
Valerie sorrise imbarazzata, mentre tutti gli invitati cominciavano ad applaudire e a ridere contemporaneamente.
«Ah, e vorrei aggiungere che non dovete aver fretta per i bambini. Mio figlio basta e avanza per tutti. Vero, Amy?»
«Temo che tuo figlio debba fare il sonnellino pomeridiano!»
Il resto della giornata trascorse così.
Un Michael a cui ad un certo punto versarono solo acqua, dicendogli una bugia sul fatto che il vino bianco era finito; una Valerie radiosa e assolutamente fuori di sé; un Ashton che aveva cantato la ninna nanna a James nella stanza degli ospiti; un’Amelia che aveva finalmente accettato il bouquet da Nola; un Calum che si era finto non molto entusiasta della cosa e una Nola che non si sentiva così amata da tanto tempo.
E quel giorno, nel giardino dei Marshall, tutti loro trovarono finalmente il posto a cui appartenevano.

 
Long live all the mountains we moved
I had the time of my life
 fighting dragons with you.
 
Londra era meravigliosa.
Vivevano lì da un anno e mezzo, ormai, dopo un lungo mese passato in sosta sulle spiagge della Florida. Maya aveva compiuto quattro anni, amava disegnare, giocare a palla sulla sabbia e cantare. Recentemente, Hanna l’aveva iscritta ad un corso di pianoforte per bambini, dove Maya si divertiva da morire e quando tornava a casa, non esitava a raccontare quello che aveva imparato.
Cambiare vita era stato totalmente folle, soprattutto con una bambina così piccola, ma quella notte di gennaio di tanto tempo prima, Hanna non era riuscita a dire di no, a convincersi che andava bene così.
Aveva capito di aver mentito a se stessa per troppo tempo. Per quasi tre anni.
Mandare via Luke la prima volta, quando pieno di un sentimento sconosciuto, era venuto a cercarla, era stato molto difficile. In quell’occasione, aveva pensato a Robert e alla famiglia che stavano costruendo, alla felicità che, mattone dopo mattone, stavano tirando su.
Ma quando era successo la seconda volta, il muro era crollato e al di là di esso c’era solamente Luke, con i suoi occhi azzurri e pieni di qualcosa che Hanna non aveva esitato a riconoscere: scuse. Portava una felpa nera con il cappuccio tirato su, nonostante fuori ci fossero ventinove gradi. Era bastato un flebile «Scappa via con me», accompagnato da quello sguardo e il tono di voce totalmente innocuo per farle preparare tutte le valigie.
Sul volo per Jacksonville, Luke le aveva raccontato ogni cosa e li aveva ascoltato in silenzio, senza dire nulla, quasi non aveva pensato nulla.
Era stato parecchio da digerire, ma in qualche modo era riuscita a perdonarlo, perché Luke era stato il primo amore della sua vita, e nonostante il dolore e la delusione, lei non poteva dimenticarlo, e di certo, non poteva smettere di provare qualcosa per lui.
Aveva provato angoscia a tristezza, miste a paura, quando lui le aveva confidato che, un paio di giorni prima di venirla a prendere, aveva cercato di uccidersi.
Era saltato giù da un ponte prima che ben due pallottole potessero raggiungerlo. L’impatto con l’acqua era stato doloroso e lui aveva passato una decina di secondi avvolto tra le braccia del fiume, rintronato, deciso a chiudere gli occhi e a smettere di respirare per sempre. Poi qualcosa gli aveva fatto cambiare idea e l’aveva riportato in superficie. Lì, aveva deciso che la vita non poteva essere buttata via in quel modo, e che lui non poteva decisamente fare una fine così miserabile. Dunque, si era trascinato miracolosamente verso la riva, dove era rimasto per tutta la notte. Al sorgere del sole, aveva deciso che non sarebbe più tornato a casa. Eccetto la visita a casa di lei, aveva fatto perdere le sue tracce a chiunque lo conoscesse.
Aveva condannato suo padre a veder disperse le sue ricchezze, dato che Nola Wilson non avrebbe mai accettato di collaborare con lui; aveva fatto credere ad Ashton di essere morto, e forse aveva fatto di peggio, gli aveva fatto credere che era stato proprio lui ad ucciderlo. E poi era convinto che l’avesse detto tutti gli altri.
Per tutti loro, Luke Hemmings non esisteva più, o era semplicemente irreperibile. Ed era sulle basi di questo che stava ricostruendo la propria vita.
Aveva passato il mese successivo alla fuga in un piccolo villaggio della Florida, vicino Jacksonville, in una casetta a due piani costruita in riva al mare. Una volta lì, aveva disattivato tutte le carte di credito con cui sarebbe stato rintracciabile, si era procurato una falsa identità, aveva prelevato tutti i soldi di cui disponevano – sia dai suoi conti che da quelli di Hanna – e li aveva versati su un conto totalmente nuovo, a nome di un certo Tom Drake, che sulla carta d’identità aveva la sua stessa età, la stessa altezza, e le stesse caratteristiche fisiche.
Dall’America erano arrivati in Inghilterra, avevano comprato un appartamento a Londra. Vivevano lì da un anno e mezzo. Maya andava a scuola e suonava il pianoforte. Hanna insegnava matematica in una scuola elementare privata. Per Luke era stato più difficile. Non aveva mai imparato cosa voleva dire sapersela cavare da soli, e aveva provato quindi un’infinità di lavori diversi. Solo da qualche mese, aveva colto al volto l’occasione di diventare un ghost-writer, credendo che un lavoro come quello, dove il suo nome non doveva comparire da nessuna parte, fosse perfetto per lui.
Luke si sentiva pronto a correre, forse lo stava già facendo da un po’, ma era una cosa che gli serviva decisamente, dopo tutto quel tempo in cui era rimasto bloccato nel suo mondo di rabbia e vendetta.
Si era sbagliato a credere che la parte migliore di lui fosse morta, in realtà si era semplicemente arresa, ma non era mai scomparsa del tutto. Con Hanna, quella parte si era rialzata in piedi e, dotata di una forza inarrestabile, aveva sconfitto quella che lo aveva costretto a diventare una macchina da guerra senza ambizioni o rimpianti.
Hanna era stata la sua salvezza una volta, niente le vietava di salvarlo ancora e ancora, fin quando ne avesse avuto bisogno, anche se Luke non aveva alcuna intenzione di scivolare di nuovo nel nero della notte.
This time I’m ready to run
Wherever you are is the place I belong.

 

Marianne's corner
E questo era l'ultimo capitolo. E come avete visto, Lucas è vivo, abita a Londra con le donne della sua vita e fa il ghost-writer. Figo, no? u.u E i Malerie si sono sposati, e James e Ashton sono tenerelli e io non concepisco che è tutto finito. La vita felice di Luke la dovete alla mia cara Annina (che leggerà tra sette ere geologiche, ma a cui ho spoilerato praticamente tutto), che mi ha convinto a non uccidere il poverino e a farlo ricongiungere con l'amore della sua vita. Quindi ringraziate Anna.
Le canzoni sono, con la sorpresa di nessuno, di Taylor Swift e dei One Direction. Che li ascoltassi penso sia ormai una cosa ripetuta ahaha la prima è Long Live della mia TayTay e la seconda è Ready To Run degli 1D. Che poi, ho avuto un'idea pazza: vi immaginate James e Maya che, una volta cresciuti, si incontrano??? E l'inferto che prenderà ai poveri genitori. OMG, se ci scrivo una OS ve lo faccio sapere, anche se è più un'idea campata per aria che una certezza.
Comunque, adesso che è finita, posso fare il discorso serio e commovente.
Allora, ho iniziato questa storia a Marzo, sono sei mesi che un po' a fatica si trascina avanti. E' stata scritta tra alti e bassi, e a volte più tra bassi che tra alti. Non sto qui a sproloquiare, ma verso maggio non è stato un bellissimo periodo, vuoi lo stress per scuola e altre questioni, e quindi la mia voglia di fare qualsiasi cosa stava praticamente a zero. Però mi sono detta che nonostante tutto Black and White doveva continuare, che non era una qualunque storia, era il sequel di qualcosa che ha ricevuto un successo inaspettatissimo per me. E anche se apparentamente, al di fuori di questa storia, tutto stava fermo, lei andava avanti e, non chiedetemelo, ma ha aiutato. E quindi niente, anche se so che potrà non essere la miglior storia di tutte, potrà non avere miriadi di recensioni e potrà non essere "famosa" come lo sono altre, per me è importante, ci sono affezionata, e quindi non riesco a credere di averla portata a termine. Vuol dire che qualcosa di buono so farlo anche io xD E questo è anche merito vostro, delle vostre recensioni che mi spronavano sempre, e di tutti i complimenti immeritati che mi avete fatto. Vorrei ringraziare tutti voi, in particolar modo Hazel, Judith, Paola che non mi hanno mai abbandonato e soprattutto Letizia che mantiene sempre le sue promesse e ha avuto la forza di lasciare una recensione ad ogni singolo capitolo, e tutte insieme!
E niente, l'angolo autrice è più lungo del capitolo. Adesso vi lascio e vi mando un bacione grande grande ♥
Marzia

PS: Tra poco cambierò il nome di efp, da Marianne_13 passerò a Mars_13. Storia lunga da spiegare, ma volevo avvertirvi!

 

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