Una storia di Pioggia Pesante di zenzero (/viewuser.php?uid=61068)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un sabato come gli altri ***
Capitolo 2: *** Due anni dopo ***
Capitolo 1 *** Un sabato come gli altri ***
heavy rain cap 1
Storia e personaggi appartengono a David Cage e alla Quantic Dream, ho
solo reso gli avvenimenti della trama come un racconto (una pratica che
si chiama Novelisation) in modo da far conoscere questa trama anche a
chi magari interessa, ma non ha voglia o modo di giocare al videogame!
heavy rain cap 1
Il centro commerciale
sembrava tanto gonfio di persone da poterne vomitare.
Chissà
perché tutta questa gente ha avuto la nostra stessa idea, Diamine, è sabato
pomeriggio e fuori non piove! Non hanno di meglio da fare?
Si chiese Ethan tenendo il piccolo Jason sulle sue spalle, che cominciava a pesare nonostante fosse un fuscello.
Grace sembrava non essere della stessa opinione. A vederla, in
realtà, pareva entusiasta di passare ore a cercare
vestiti per il compleanno del primogenito. In mezzo a loro, Shaun si divertiva a saltare da una mattonella nera all'altra del lucidissimo pavimento.
“Devo comprare delle scarpe per Shaun, tu intanto bada a
Jason, d’accordo?” chiese Grace, prendendo il
figlioletto per mano.
Ethan annuì, anche se compativa il piccolo Shaun.
Sicuramente lui e il fratello Jason avrebbero preferito fare ben altro
piuttosto che comprare scarpe. In effetti anche lui avrebbe
voluto per lo meno distrarsi in un qualche altro negozio.
Fece scendere il bambino dalle sue spalle e poi, con gesto automatico, controllò qualche nuovo messaggio
sul cellulare. Il suo capo chiedeva quando avrebbe consegnato quel
progetto sull’appartamento in ristrutturazione.
Impiegò quello che credeva fosse un minuto per rispondere,
ma non appena sollevò la testa non trovò
più Jason accanto a lui.
“Eh, no, cavolo!” Gli scappò di bocca, e
sospirando prese a camminare, guardandosi attorno. Non era la prima
volta che capitava e immaginava non sarebbe stata l'ultima.
Lo trovò solo nell’angosciante minuto seguente,
accanto ad un variopinto clown dall’impressionante parrucca
gialla che vendeva palloncini vicino alle scale mobili a cento metri di
distanza. Lo salutava come se fosse stato normale sparire in mezzo alla
folla e fargli prendere un colpo.
“ Non dovresti allontanarti troppo, lo sai?
C’è troppa gente” lo
rimproverò l’uomo. Quante volte ti ho detto che
devi avvertimi, cacchio?, era quello che avrebbe voluto
dirgli, invece.
“Ti prego papà, me ne compri uno? Dai
papà!” chiese il bambino per nulla pentito,
nell’innocenza dei suoi otto anni.
Davanti allo sguardo del figlio, ogni altro pensiero di rimprovero
scomparve. Jason sapeva come farsi perdonare. E poi, era il suo
compleanno …
“D’accordo” cedette Ethan.
Forse lo stava viziando troppo.
“Voglio quello rosso!” scelse il ragazzino.
“Sono due dollari” lo informò il clown
mentre il bambino si godeva il suo palloncino. Fino al mese prima lo
implorava di comprargli Dei
del Male 5, quel videogame su cui campeggiava quel pelato
coperto di sangue in copertina, (un gioco completamente inadatto a lui
come al fratello di sei anni) e ora si appassionava ad un semplice
palloncino! Roba da non credere.
Mentre Ethan cercava le due banconote da un dollaro, spiegazzate in un
angolo della sua tasca, lo raggiunse Grace con Shaun.
“Sembra impossibile trovare un paio di scarpe giuste per
Shaun, con questa ressa!” esclamò la moglie, a
mani vuote. “ Ma... dov’è
Jason?” chiese, cambiando completamente tono.
Ethan stava per dirle che era proprio lì, accanto a lui, ma
si accorse di essere in errore. Di nuovo.
“Era qui un secondo fa, gli ho preso un palloncino ma adesso
c’è più!”
“Che significa che non c’è
più?” chiese la donna cominciando ad agitarsi. Ora
avrebbe dato di matto. Shaun la guardava senza capire.
“Resta qui. Lo troverò subito.” disse
Ethan.
Si aggirò per il lungo corridoio e il suo sguardo
vagò ovunque. Non era nel negozio di fumetti, niente neanche
nel reparto giocattoli. Nella libreria non tentò neanche.
Cominciava a pensare che non lo avrebbe ritrovato in pochi minuti come
prima. Diamine, gli aveva tolto gli occhi di dosso solamente un attimo!
Anche chiamandolo non ottenne risposta. Scese senza aspettare il lento
avanzare delle scale mobili, urtando persone che nemmeno
guardò in faccia. Ma al piano terra, la ressa peggiorava
rispetto al piano terra, come se tutti a Philadelphia si fossero dati
appuntamento in quel dannato centro commerciale. Era un gorgo
assordante, quasi impenetrabile.
Ethan urlava il nome del figlio, spintonando persone che lo colpivano
con le loro borse, ma le sue parole si disperdevano, risucchiate nella
calca. Poi si ricordò del palloncino rosso appena acquistato
al bambino, e diresse il suo sguardo sopra la folla, ma non ce
n’era nessuno di quel colore.
Eppure, il ragazzino doveva essere per forza sceso al piano
terra. Alla fine, spintonando, boccheggiando per la mancanza
d’aria, raggiunse l’uscita del centro commerciale.
E finalmente lo trovò.
Jason era distratto dalle vetrine di un negozio all’esterno,
dall’altra parte di una strada molto trafficata. Un manifesto
all’esterno mostrava un uomo pelato e coperto di sangue.
“JASON!” lo chiamò, con tale foga che lo
fece subito voltare.
“ Ehi papà!” lo salutò Jason
con calma. “Arrivo subito!”
Impulsivamente, attraversò la strada, come dimenticandosi
quanto fosse trafficata nel sabato pomeriggio.
Una macchina sfrecciò mancando il ragazzino per un soffio.
Un’altra stava arrivando velocissima, nella carreggiata
opposta. Ma il bambino non se ne curava, troppo intento a correre verso
il padre. O forse, l’aveva vista e pensava di poter fare in
tempo.
“Jason, NO!” urlò Ethan, e
corse verso di lui, lanciandosi, nel disperato tentativo di
allontanarlo dall’auto. Lo raggiunse, ma era già
troppo tardi. La luce dei fanali li abbagliò entrambi.
Per un istante si fece buio.
.
.
.
La luce tornò, ed era troppo fioca per appartenere al pomeriggio. Lui sentiva il sapore del ferro in bocca, ed era
come se un elefante si fosse seduto sul suo corpo. Ethan
sentì delle voci attutite, e quasi credette di stare
sott’acqua, poi riconobbe quella di Grace che chiamava il suo
nome. Chiamava anche Jason. Percepiva una nota di terrore che mai aveva sentito nella voce della moglie.
Non poteva muovere il volto. Vide solo che nel cielo talmente pulito da
non avere nuvole c’era un puntino rosso, e lo
seguì mentre si innalzava e diveniva sempre più
piccolo. Poi, finalmente, perse conoscenza.
note: Questo è praticamente un esperimento (a tempo perso),
e sarà una storia interattiva!
Mi
sono chiesta come una storia che proviene da un certo medium
(videogiochi) possa essere fruita in altri (scrittura) e se sia
godibile per chi non conosce la storia originale, solo attraverso la
narrazione scritta qui!
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Capitolo 2 *** Due anni dopo ***
heavy rain part 2
Due
Anni Dopo.
Nonostante
non ci fosse traffico, arrivò comunque in ritardo. La
maledetta
pioggia che tentava forse di inondare Philadelphia rendeva difficoltoso
vedere
qualcosa, anche coi fanali spianati. L'umidità creava una
patina fumosa sul
vetro della sua auto di seconda mano.
Parcheggiò, notando che gli ultimi bambini ritardatari
stavano tornando a casa
coi genitori. Ethan scese dall'auto, cominciando subito a bagnarsi
nella fitta
pioggia. Si era nuovamente scordato l'ombrello. Poco importava.
Shaun lo vide, unico bambino rimasto accanto alle maestre, e
uscì in fretta per
raggiungerlo, i piedi che sciacquettavano tra le pozzanghere, lo zaino
che pesava sulla sua piccola schiena.
"Ciao, Shaun" lo salutò il padre aprendogli la portiera.
Il bambino rispose al saluto, più per abitudine che altro, e
si mise in auto
guardando il finestrino.
Non dissero una parola mentre la macchina sfrecciava verso le stradine
di
periferia.
Una volta a casa Shaun si lanciò sul divanetto e accese la
tv, rilassandosi
dopo quello che evidentemente era stato un lunedì intenso.
Ethan lo vide mentre cercava la posizione più comoda sul
vecchio divano.
Sicuramente quello a casa di sua madre era ben più spazioso.
Avrebbe dovuto
dirgli di fare i compiti ma preferì dargli del tempo per
rilassarsi. Anche
perchè, una volta davanti ai cartoni animati, non aveva
molte speranze di
coinvolgerlo in altre attività.
Senza grosso interesse cominciò a controllare la sua posta.
Bollette vicino
alla scadenza. Il giornale del giorno prima, su cui capeggiava un
titolo
minaccioso. "Il Killer degli Origami colpisce ancora: settima vittima
identificata."
Lo mise via senza leggere altro. Poi tra i manifesti pubblicitari,
trovò una
lettera.
Era diretta a lui, ma non c’era un mittente. La
aprì con una certa curiosità.
Nel centro del foglio piegato in
quattro, battuto
evidentemente a macchina, c'era scritto:
Quando
i genitori rientrarono a casa dopo la messa tutti i loro bambini erano
scomparsi.
Li cercarono e li chiamarono a gran voce, piansero e implorarono ma fu
tutto
inutile. Nessuno rivide mai più i bambini.
Si
chiese se si fosse trattato di
uno strano scherzo, ma non credeva di conoscere nessuno con un tale
senso
dell'umorismo. Poteva anche essere arrivata a lui per errore. Avrebbe
potuto
rimuginarci su ancora per un po', ma Shaun gli chiese a gran voce la
merenda e
le sue preoccupazioni si riversarono sul figlio.
Quella
sera riuscì a metterlo a
letto presto. Grace si lamentava sempre di come Shaun dormisse poco nei
giorni
in cui stava da lui, ma gli piaceva dare un minimo di
libertà al figlio. Quella
sera comunque, dopo aver mangiato una pizza scongelata davanti alla tv
(altra
libertà concessa in gran segreto) lo aveva convinto a salire
in camera in un
orario decente. Era perfino riuscito a ritrovare il
suo orsacchiotto di pelouche
preferito, dall’innaturale pelo verde, che per qualche
strano motivo era
sulla lavatrice.
Lo
confortava che ormai gli bastasse
solamente il pelouche e la lucina accesa per dormire serenamente.
Nell’ultimo
anno aveva smesso di intrufolarsi nel letto dei genitori, o di
bagnarlo, e da
pochi mesi dormiva senza svegliarsi urlando. Disegnava ancora quei crudeli disegni, quelli con la mamma che piangeva, con papà triste, con Jason steso in orizzontale, anche a scuola. Lo psicologo diceva che era normale. Bisognava dargli tempo.
Ethan abbassò le tende della
cameretta e dandogli il pelouche, gli rimboccò le coperte.
“’Notte,
Shaun” sospirò.
“Notte, Papà” fece lui, tranquillo.
Ethan stava per andarsene quando il
ragazzino lo chiamò di nuovo.
“Papà?”
“Sì?”
“Perché sei così triste?”
chiese, mentre gli occhi castani lo guardavano con innocenza.
Non c’era una vera risposta che
avrebbe voluto dargli. O forse, ce ne erano troppe. “Credo
che mi serva un po’
di tempo… Per tornare come prima.” si limitò a dire.
“Papà, quello che è successo a Jason
non è colpa tua!” disse Shaun, con una
sincerità tale da lasciarlo spiazzato.
Avrebbe tanto voluto che fosse così semplice. Davvero.
“Buonanotte, Shaun” disse
semplicemente Ethan. Gli baciò la testolina bruna,
gli sistemò meglio le coperte e
stavolta si accomiatò davvero.
Non
voleva causare altra ansia al bambino. Aveva ancora tutta la notta per
restare a rimuginare, e forse bere qualcosa. Stava per scendere le
scale quando
il suo intero corpo si bloccò. Le scale si duplicarono ai
suoi occhi. L’intero
corridoio prese ad ondeggiare. Cercò inspirare ma non gli fu
possibile.
Poi
il buio.
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Riemerse.
Pioveva
parecchio e le uniche fonti di luce erano quelle dei lampioni, in una
strada deserta.
Ethan si ritrovò completamente fradicio. Ma il freddo e la
luce lo aiutarono a
riprendersi. Doveva essere notte fonda. Si guardò attorno,
riprendendo a
respirare. Carnaby Corner, diceva un cartello. Era ad almeno tre
chilometri da
casa sua, o forse quattro. Come ci fosse finito, non lo sapeva. Non aveva alcun senso.
Con stupore, trovò nella sua mano
destra un origami, che ricordava vagamente la forma di un cane. Lo
guardò per
un lungo istante senza capire.
Doveva
essere un incubo.
Non poteva stare accadendo a lui.
Non di nuovo…
Senza trovare alcuna risposta, cominciò
a camminare verso casa.
note:
sì,
dopo anni mi ritrovo a lavorare di nuovo su quella che è
letteralmente la versione romanzata del videogame Heavy Rain. Da poco
mi è tornata la voglia di riaggiornare vecchie storie. Credo
che sarà molto difficile terminare una trama simile ma
tenterò almeno di andare a buon punto.
I punti e
le linee sono un linguaggio esistente, e vi sfido a tradurre cosa
c'è scritto. Nel prossimo capitolo ci sarà la prima scelta da fare! Non dovrei impiegare anni per scriverlo, quindi alla prossima!
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