Mycroft and Sherlock, fairytale of two little shit

di Ziggie
(/viewuser.php?uid=80039)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tutto ha un proprio inizio ***
Capitolo 2: *** Niente è più ingannevole dell'ovvio ***
Capitolo 3: *** Natale: quale immensa agonia! ***
Capitolo 4: *** Caring is not the advantage ***
Capitolo 5: *** Manners Maketh Man ***
Capitolo 6: *** Brother Mine ***
Capitolo 7: *** Missioni, ferite, dolci e Anthea ***



Capitolo 1
*** Tutto ha un proprio inizio ***


E proviamo a scrivere una long fiction come da troppo tempo non accadeva. Proviamo e vediamo cosa ne viene fuori. Buona lettura e, se vi fa piacere, sarei felice di sapere i vostri pareri.

P.S. Il titolo è ampiamente voluto, non per sfottere o simili, ma semplicemente perché mi piace creare un rapporto con i personaggi a cui tengo, come se fossero degli amici che frequento tutti i giorni. Quindi lettori, non sentitevi offesi. P.P.S I riferimenti in merito alle note disciplinari sono stati presi da qui https://www.pinterest.com/pin/430093833139505504/
 

Mycroft and Sherlock, fairytale of two little shit.
 
 
Inghilterra, patria di misteri e intrighi, alcuni senza nome ne volto, altri noti a tutti e che hanno viaggiato nei secoli fino ad arrivare al nostro quotidiano.

Non c'è nulla di nuovo nel mondo del giallo, c'è sempre un'ispirazione ad un illustre predecessore, basta saperla cogliere, basta saper osservare.

L'arte dell'osservazione, dal canto mio, ha sempre accompagnato la mia persona, tanto che ho sempre trovato banale approcciarmi troppo al quotidiano.

Ricordo che provai una sorta di disgusto quando mia madre presentò, a me e a mio fratello minore, i figli dei nuovi vicini di casa con la speranza che potessero divenire i nostri nuovi compagni di gioco; un tentativo che si rivelò vano perché, dopo pochi minuti, Sherlock accusò il più piccolo tra i due di essere un ladro di snack, fatto che io stesso confermai facendo notare una macchia di cioccolato, ormai secca, appena sotto la tasca dei pantaloni: accusa, zuffa, allontanamento, insomma la nostra classica routine.

Come dimenticare, poi, il nostro breve rapporto con le istituzioni scolastiche? Avevo nove anni, Sherlock due e già era un bambino sveglio, con una parlantina maggiore rispetto ad un suo coetaneo in pannolino. Frequentavamo entrambi l'istituto Saint John, una scuola per soli maschi, una scuola che vide la nostra presenza per un anno dopodiché, in seguito a molte note disciplinari e richiami, fummo espulsi. Più e più volte mi azzuffavo a mani e parole quando i miei compagni di classe se ne uscivano con frasi banali e richieste di chiarimento scontate. Un esempio?

- Tornando a casa ieri, mi sono imbattuto con mio padre in un posto di blocco - disse un ragazzino dai capelli neri, Marius per l'esattezza, ed io ricordo questa scena come se fosse ieri - ma esattamente, che cos'è un posto di blocco, professore? -
Sospirai dalla mia postazione, mi alzai e mi avvicinai al ragazzo - te lo ha mai detto nessuno che le tue richieste degenerate rubano l'ossigeno che serve agli altri per respirare? Non sprecarlo, la prossima volta tieni la bocca chiusa! Un posto di blocco, per Dio!!! Come si fa a non sapere cosa sia? -

Fu soltanto uno dei tanti episodi, certamente il più divertente.

Mio fratello Sherlock non fu da meno, a soli due anni e nel giro di poche settimane fu il bambino con più note disciplinari della scuola, credo che il suo record sia rimasto tuttora imbattuto. Ricordo che il suo maestro della scuola dell'infanzia aveva espressamente richiesto di farlo vedere da un esorcista perché il piccolo genio in pannolino aveva appiccato un principio d'incendio nell'aula di arte con dei pezzi di filo e uno stuzzicadenti.

Ed è così che, dopo l'espulsione, iniziò il nostro periodo di lezioni private con mamma, che aveva momentaneamente lasciato il lavoro, e apprendimenti da autodidatta. Inutile dire che prevalse maggiormente la seconda via dato che, dopo qualche mese, la via della matematica l'ha portata in Oklahoma.

- Dovrai prenderti cura di Sherlock, Myc - mi aveva detto mio padre, parole che tuttora mi rimbombano nella testa - Dovrai essere più di un fratello mentre io e tua madre saremo via -

Un patto di alta responsabilità visto e considerato che la nostra casa nella campagna britannica era tutt'altro che piccola e che io non sono mai stato così tanto pratico ad esternare sentimenti, soprattutto nei riguardi di mio fratello.

Un patto che in quel momento mi fece sentire come l'uomo di casa, forse è per quello che, nonostante siano passati anni e i rapporti siano andati calando, continuo a mantenerlo vivo.

No, non sono mai stato un fratello perfetto, un modello da seguire. Ho sempre cercato di mettere da parte i sentimenti, accantonarli in una stanza per perseguire i miei interessi, andare dritto al punto, arrivare dove sono ora.

Uomo di ghiaccio, Moriarty è arrivato tardi con questo soprannome, ci aveva già pensato mio fratello ad appellarmi così e questa che vado a raccontarvi è un po' la nostra storia. 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Niente è più ingannevole dell'ovvio ***


Si, avete letto bene nelle note, nei prossimi capitoli arriverà un crossover con il film Kingsman, che consiglio a tutti, intanto vi lascio il primo capitolo corposo della storia, il precedente era una sorta di anteprima. Buona lettura a tutti e se vi fermate a leggere, fatemi avere un vostro parere.

 

2. Niente è più ingannevole dell'ovvio

Avevo dodici anni quando appresi la scelta di mia madre di voler restare in Oklahoma ancora per qualche tempo. Lei e mio padre erano partiti un anno e mezzo prima e da quella data io e Sherlock facevamo la spola tra la campagna e la città, tra la casa dei nonni paterni e quella di un vecchio zio. Mamma occorreva alla matematica, noi occorrevamo all'Inghilterra, ho sempre tentato di spiegarla così sia a mio fratello, sia al mio subconscio; non eravamo stati abbandonati a noi stessi a causa di un lavoro che aveva più importanza, anche se i fatti parlavano chiaro, i nostri genitori ci stavano dando un'opportunità: iniziare a conoscere Londra.

- Devi prenderti cura di tuo fratello, mamma ha un impiego dall'altra parte del globo a cui non può  mancare -

- E se non fossi in grado? Se lo avvelenassi per sbaglio; se non sapessi come curarlo? - avevo provato a replicare.

- Mycroft Holmes, non dire sciocchezze! Potrai essere totalitario e sistematico quanto vuoi, ma non con tua madre - così mi aveva detto ed io avevo messo il broncio - Svolgi questo incarico a dovere ed io non ti chiederò più nulla. -

Londra, una grande realtà, una grande scatola a forma di corona, indipendente, magnifica.

La city, così la chiamano, così è conosciuta in tutto il mondo. Ero più piccolo di Sherlock quando vi misi piede per la prima volta ed oggi sorrido come ieri alla sua vista. Un semplice respiro e, se sai come fare, se sai come muoverti, entri in lei, nella sua mente, nei suoi meandri.

Londra è un invito a prendere un tè con alle cinque, ad uscire con un ombrello quando il cielo è appena coperto: gesti abituali che descrivono caldo e freddo, due facce della stessa medaglia, due facce della stessa città.

Erano i nostri nonni paterni che abitavano nella city e da loro ci trasferimmo quando il vecchio zio burbero ci cacciò dalla sua tenuta in campagna dopo che Sherlock aveva causato un blackout di tutto il vicinato campagnolo con un congegno costruito di suo pugno  con i fili elettrici. E di chi fu il grosso della colpa?

- Spettava a te la supervisione di questo demonio di cinque anni! -

Non vedevo l'ora di andarmene da quella casa, di avere una mia personale tranquillità nella quale potevo migliorare le mie conoscenze in campo storico, politico, deduttivo e logico ed affinare mano e postura nell'arte della scherma: tutti atti che si potevano svolgere tranquillamente nella casa dei nonni in quanto Sherlock sarebbe stato impegnato a giocare ai pirati con Barbarossa, il setter di nostro nonno.

Quella volta però ad accoglierci alla porta non trovammo il cane e, dalle espressioni malinconiche sui volti dei nostri nonni, capii subito come andarono le cose. Accompagnai Sherlock dentro casa, ma lasciai che fosse nostro nonno a prendere parola in merito anche se, per come aveva deciso di esporgli i fatti, intervenni ugualmente.

- La gente crede a quello che le si insegna a credere, non va oltre a tutto ciò, non si pone domande - esclamai, alzandomi dalla mia poltrona - cosa c'è dopo la morte? Un regno eterno nell'alto dei cieli dove tutti vivono in armonia. È una delle concezioni più stupide che abbia mai sentito! E nonno, non scomodarti, vado da solo in camera mia - lo precedetti una volta visto che a breve sarebbe arrivato il rimprovero.

Uscii dalla mia stanza a pomeriggio inoltrato e trovai Sherlock seduto su una poltroncina in velluto scuro in corridoio poco distante dalla porta del mio piccolo alloggio, la stessa che utilizzava come cassero di poppa da dove impartire gli ordini per i suoi arrembaggi, stava dondolando le gambe, facendo finta di non essersi accorto della mia presenza, ponendo la sua attenzione in quanto stava facendo. Scrollai le spalle e mi avvicinai.

- Non è ancora buio, ti andrebbe una passeggiata per Londra? - gli chiesi poggiandogli una mano su una spalla ed in tutta risposta ottenni un leggero cenno del capo - Allora andiamo - esclamai porgendogli la mano. Faticavo ad esternare sentimenti; faticavo a star dietro a quel piccoletto, ma ogni tanto l'umanità faceva visita anche a me.

Camminammo fino a Westminster, il Big Ben non era molto distante da dove abitavamo tanto che, in meno di mezzora, fummo sotto la torre dell'orologio in tempo per il rintocco delle quattro di pomeriggio. Rimanemmo su quel ponte per un po', ammirando il Tamigi e il primo tramonto sulla città e sui suoi colori invernali. Io in piedi, Sherlock in spalla.

- Avrei voluto salpare con lui, Mycroft. Avrei voluto raggiungere quell'orizzonte - indicò un punto dritto davanti a noi, appoggiandosi poi con il mento sulla mia testa.

- Niente dura per sempre, Sherly - esclamai, poi fu silenzio.

- Come credi sia morto Barbarossa? - mi chiese dopo un po'.

- Di certo non come i suoi predecessori a due gambe, a detta del nonno aveva ancora la testa attaccata al corpo -

- Sei di ghiaccio, Mycroft! - sbraitò contrariato, tirandomi un calcio in pieno petto, che effettivamente meritavo, prima di scendere agile dalle mie spalle, allontanandosi di corsa.

- Non sono io ad essere di ghiaccio, sei tu a pormi domande stupide di cui già conoscevi la risposta! - gli urlai appresso, massaggiandomi il petto.

- Non sono stupide! - si lamentò lui, voltandosi verso di me, ma nel farlo inciampò e cadde a terra.

- No? - feci ironico io, raggiungendolo senza fretta, guardandolo mentre scuotevo il capo - Alzati da lì, ho da raccontarti una storia mentre torniamo a casa - gli porsi una mano, ma stavolta fu restio ad accettarla, tanto che si arrangiò da solo - La storia conosce diversi Barbarossa, Sherlock. I due fratelli corsari, incubo del Mediterraneo e signori di Algeri, e l'imperatore Federico I Barbarossa, simbolo della lotta contro i comuni, che riorganizzò l'impero germanico e morì in una delle prime crociate, in suo onore è stata ribattezzata l'operazione tedesca di invasione della Russia. Ora, sei proprio sicuro che il nonno ha dato il nome al suo adorato cane basandosi su ciò e non semplicemente perché era un setter rossiccio? -

- Non c'è nulla di più ingannevole dell'ovvio -

Sorrisi a quell'esclamazione - Guarda i dettagli fratellino, guarda l'ovvio, guarda oltre, impara a farlo di più rispetto a quanto già sai fare -.

- Tu giocherai di più con me? - mi chiese mentre ci incamminavamo verso casa.

- Vedremo. -

- E mi aiuterai a migliorarmi? -

- Lo sto già facendo. -

Mi capita spesso di pensare al passato, di meditare su quanto è stato con un buon brandy nel bicchiere. Al Diogenes si può riflettere in completo silenzio: una gran regola quella del divieto di parola.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Natale: quale immensa agonia! ***


Nuovo capitolo, i fratelli Holmes sono ancora dei pischelli. Mycroft ha tredici anni, Sherlock 6 ed i signori Holmes hanno finalmente fatto rientro in Inghilterra. Un capitolo preludio al futuro crossover che vedremo nei prossimi capitoli, forse già nel quarto, ed una leggera introspezione su alcune motivazioni che portano Mycroft a detestare il Natale. Buona lettura e lasciate un commento se passate tra queste righe.
 

3. Natale: quale immensa agonia!


Natale, un fantastico giorno da passare in compagnia della propria famiglia tra pranzi, cene, rimpatriate e regali. Natale, un giorno in cui tutto sorridono, si mostrano gentili con chiunque perché è così che vuole la tradizione. Natale, quale giorno, quale periodo più bello? Potrei rispondere con tre parole: ogni qualsiasi giorno.

Ho sempre detestato le feste, questa in particolare. Non sono mai riuscito ad entrare nell'ottica del "è un giorno diverso" oppure "almeno a Natale dimostriamoci gentili": perché devo mostrarmi gentile con persone che non vedo mai o che mi hanno fatto un torto?  Perché devo passare la giornata con persone che, nel corso dei miei tredici anni di vita, ho visto giusto quando ero in fasce ed ora devo salvaguardare le mie guance dalle loro mani adipose?

Non eravamo una famiglia numerosa, nostro padre era figlio unico, mentre mamma era la più piccola di due sorelle: una zitella per scelta, l'altra sposata con un comandante dell'aviazione con il quale aveva avuto un figlio, Winston, di due anni più grande del sottoscritto e prossimo nell'entrare all'accademia militare; fosse stato intelligente, l'Inghilterra avrebbe ringraziato.

In tutte queste domande, in tutto questo siparietto che sarebbe durato fino a sera inoltrata, nemmeno la soddisfazione di qualche regalo decente: erano le 11 di mattina ed io ero già in agonia.

- Il chirurgo e il piccolo chimico, è così che vi presenterete in famiglia tra qualche anno? - esordì sarcastico mio cugino entrando in salotto, avendo notato i due giochi in scatola con i quali stava smanettando mio fratello sul tappeto al centro della sala, mentre io me ne stavo seduto in poltrona osservando l'omino in mutande dell'allegro chirurgo, cercando di capire l'andamento del gioco.

- I giochi in scatola dicono di più del contenitore in cui sono tenuti, così il modo di muovere del giocatore - esordii io, quasi sovrappensiero.

- È una sfida, Mycroft? -

- Tutt'altro, un invito - sorrisi, facendo ridacchiare anche Sherlock, che si avvicinò poco dopo.

- Scelgo gli scacchi -

- Un gioco notevole - continuai con il mio tono mellifluo.

- Hai paura che Mycroft si accorga del tuo leggero tremore alle mani quando sei nervoso, Winston? Credo lo abbia già fatto! - esclamò tranquillamente Sherlock, mettendosi comodo su un cuscino a terra, proprio vicino il nostro tavolo da gioco.

- Com… Come diavolo? - fece lui allibito.

- Hai sempre tremato quando ti abbiamo  messo di fronte a delle sfide, sia questi giochi, sia questi argomenti seri. Non sei mai riuscito a controllare ciò e di sicuro al nuovo reggimento cavalleria non occorrerà una mano instabile, mmh? - si, non c'erano dubbi, Sherlock ci stava prendendo gusto a trattare nostro cugino come un inetto.

- Sherlock, non fare il più intelligente della situazione - lo ammonii leggermente - così metti in difficoltà Winston! Ora il suo cervello starà generando domande su domande, quando è raro che ne sopporti più di due - esclamai con un sorrisetto beffardo.

- Vogliamo giocare? - esclamò spazientito, con il tipico modo di fare di chi si ritrova con le spalle al muro.
 
- Veramente abbiamo terminato la partita cinque minuti fa, nella foga del discorso, volente o nolente, hai mosso due pedine in malomodo ed hai dato a me l'opportunità di fare scacco matto al re - Sherlock ridacchiò appena - mi dispiace, cugino -.

Mi alzai dalla mia postazione ed andai verso la cucina, il pranzo era quasi pronto ed io non vedevo l'ora di mangiare per poi lasciare lasciare gli adulti alle loro chiacchiere e rifugiarmi da qualche parte. Piani che vennero smontati quando raggiunsi la sala da pranzo e vi trovai mio zio e mio padre, che parlavano con Winston alquanto imbronciato, tanto che non feci in tempo a fare dietrofront, che mio zio venne verso di me, allontanandomi dal resto del gruppo.

- Se è per la sconfitta a scacchi di Winston che mi stai allontanando per darmi una sorta di punizione, credo tu sappia bene che nel gioco degli scacchi ogni mossa è valida - dissi in mia difesa, calò il silenzio e mi voltai quindi verso mio zio che non era affatto contrariato, ma di tutt'altro umore; non era la tipica aria tipica di qualche punizione quella che stavo respirando, quanto piuttosto aria di nuove notizie, probabilmente buone.

- Non venirmi a dire come si gioca a scacchi, Myc - mi rimproverò bonario l'aviatore - stavo giusto parlando con tuo padre, poco fa, del fatto che hai una mente brillante per la tua età e, fra due anni quando avrai l'età di Winston, penso che faresti faville nell'esercito inglese. -

- Non per romperti le uova nel paniere, zio, ma avrei altri progetti e ti prego di chiamarmi Mycroft-

- Da come muovi le tue pedine, figliolo, immagino bene che la prima linea non sia il tuo forte, so bene che preferisci stare dietro le quinte ed è per questo che molte persone stanno già studiando il tuo fascicolo -.

- Ho un fascicolo? - era raro che mi stupissi, ma quella fu una delle rare volte in cui lo feci, quello zio che avevo sempre considerato un tipico aristocratico inglese, si stava rivelando tutt'altro, eppure non era la prima volta che mi facevo beffe di suo figlio!

- Ognuno di noi lo ha - asserì con un sorriso - e se nei tuoi futuri progetti pensavi al college, non temere, quanto affronterai tra due anni a questa parte prevederà anche quello - mi portò un braccio attorno alle spalle - non posso dirti molto altro, ma ai servizi segreti di sua maestà occorrono uomini come te, hai tre anni di tempo per pensare a questo progetto Myc, nel frattempo lo chiameremo esercito britannico, perché a differenza tua è lì che effettivamente andrà tuo cugino - mi sussurrò, anche se eravamo alquanto distanti dalle persone che avevamo lasciato in sala da pranzo, un vero peccato che altre orecchie erano in agguato in quel mentre.

La notizia che mi aveva dato mio zio, mi lasciò frastornato per tutto il resto del giorno. Come poteva un ragazzo di soli tredici anni avere un fascicolo? Cosa vi era riportato? Cosa avrei fatto una volta compiuti sedici anni? Ero abituato a pormi domande, il grande gioco dell'osservazione e delle minute deduzioni mi portava sempre a pormele tra le più svariate, ma adesso era tutt'altra cosa. I servizi segreti. Perché io? Cosa avevo di così speciale? Cercai di non pensarci, accantonando quella proposta per tutto il giorno, lasciandomi travolgere completamente dall'agonia che le feste e le rimpatriate di famiglia sapevano darmi, tanto che non sentii dolore quando la sorella zitella di mia madre, mi strapazzò le guance, facendomi nuovamente gli auguri e salutandomi.

Era sera inoltrata quando il sipario calò sulla festa di Natale ed io ancora non sapevo come sentirmi. Andai in camera mia e chiusi la porta, appoggiandomi ad essa con la schiena e guardandomi intorno. Tre anni. Così aveva detto mio zio. Tre anni. Il tempo che avrei avuto a disposizione per occuparmi di mio fratello, come avevo promesso ai miei genitori che, anche se ormai erano tornati, una promessa è sempre una promessa, così come il ruolo del fratello maggiore non può certo venire meno. Tre anni e silenzi in merito a quel tutto appena rivelato. Ah! Il Natale! Che festa inutile!  

Caddi lentamente a terra, scivolando lungo la porta, posando poi il mento sopra le ginocchia e fu lì che sentii un leggero rumore di passi, che conoscevo bene.

- Il fantasma di Barbarossa ti perseguiterà - esclamò una voce bussando ripetutamente la porta.

- Sicuro che non sarà il contrario, Sherlock? -

Attimi di silenzio che finirono nella frase: - avevi detto che avresti giocato con me di più! -

Di nuovo silenzio. Mio fratello sembrava avere la voce rotta, oltre che a contrariata. Mi alzai e presi due ombrelli che tenevo appoggiati al muro poco distante dalla mia postazione ed aprii la porta, porgendogliene uno - coraggio piccolo capitano, mostrami di che pasta sei fatto, engarde! - mi misi in posizione di guardia, attendendo che anche lui facesse lo stesso, ma ci mise un po' più tempo del solito.

- Ti sconfiggerò demone del silenzio - esclamò dopo diversi istanti, attaccandomi con foga, tanto che dovetti indietreggiare.

- Fai molta attenzione a come parli il demone del silenzio è uno stretto alleato del vento dell'est e tu sai cosa succede quando questo inizia a soffiare, vero Sherly? -

- Si, ti porterà via - corrugai la fronte e fu quella mia attenzione a causare la mia sconfitta, Sherlock stava usando tutta la forza che un bambino di sei anni potesse avere in corpo e riuscì a colpirmi la mano che reggeva l'ombrello con la punta di ferro del proprio, la botta fu talmente forte che dovetti lasciare la presa.

- Oh, ma davvero? - feci sorpreso io, abbassandomi a recuperare l'ombrello, massaggiandomi poi la mano, la botta inizia a pulsare.

- Si, è inutile che fai finta di niente, ti ho sentito quando parlavi con lo zio. Ho sentito che te ne andrai. Ho sentito tutto! - sbraitò e solo allora notai i suoi occhi lucidi. Era sempre stato un bambino dall'animo vivace e dalla scorza dura, ma doveva ancora imparare a gestire i sentimenti, oppure ero io ad essere davvero di ghiaccio?

- Non andrò via, Sherlock. Non ancora. -

- Ma lo farai -

- Non vivremo insieme per sempre. Ognuno avrà la propria vita da vivere - gli posai le mani sulle spalle, asciugandogli le lacrime che avevano preso a bagnargli le guance.

- E io chi affronterò quando tu non abiteremo più insieme? - chiese tirando su con il naso, una domanda che mi fece sorridere.

- Sempre me, di certo non ti libererai del sottoscritto così facilmente -.


Del Natale porto con me ricordi più negativi che positivi. Una festa che ho sempre detestato, che non ho mai capito. Ben poche sono le vicende legate a questa festa che mi rimandano indietro nel tempo facendomi pensare di aver compiuto la scelta giusta, di vivere compiendo un lavoro adatto alla mia persona, di essere stato effettivamente un buon fratello. Quel lontano Natale è uno di questi momenti. In quel lontano Natale facevo la promessa più grande che potevo fare a me stesso e a mio fratello quella che, nonostante gli alti e bassi, avremmo continuato ad essere due facce diverse di una stessa medaglia, sempre.
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Caring is not the advantage ***


Questo capitolo è stato un po' un parto per diversi motivi, il primo tra tutti era quello che avrei voluto smetterla qui, senza pensare troppo ad un continuo, con troppi "E se..", con troppe idee in testa. Poi però mi sono detta la parolina magica e ho continuato. Da troppo tempo non scrivo una long fiction e non vedo perché smettere adesso, proprio quando il personaggio scelto ha molto da dire. No, non vado da nessuna parte e continuo imperterrita e così vi lascio il continuo, spero vi piaccia e spero lascerete qualche commento, io sono molto curiosa a riguardo. Buona lettura.
 
4. Caring is not the advantage
 

Una finestra e il suo oltre: cosa potrebbe narrare?

Niente, qualcosa, tutto.

I passi delle persone sull'asfalto cittadino raccontano parte della loro storia, se si tende l'orecchio, se si sta ad ascoltare.

I materiali edili narrano quella delle case, degli edifici che reggono da tempo immemore o leggermente nuovo.

L'osservazione, niente lasciato al caso, niente lasciato all'ovvio.

Ultimamente il mio tempo lo spendevo così, osservatore pensieroso dietro le righe.

Quattro anni erano passati da quel Natale in cui mi era stata data una possibilità di emergere, quattro anni in cui avevo continuato a vivere la mia vita come avevo sempre fatto, affinando le mie conoscenze, ampliandole, migliorandomi per prepararmi al college, per prepararmi a questa possibile opportunità. Quattro anni, non tre sperati, promessi.

I servizi segreti. Esistevano davvero o era stata una momentanea invenzione di mio zio per compiacermi? Una seconda opzione valida e vivida più che mai a differenza di quello zio dissolto nel nulla. L'attaccamento a qualcuno, a qualcosa distoglie dai propri obbiettivi; occorre essere razionali, mai essere troppo coinvolti perché non ha senso rimanere delusi da un'idea, da una promessa, dal tempo che scorre; non ha senso rimanere delusi da parole dettate all'orecchio da persone di cui  si conoscono a malapena volto e voce.

L'esperienza del college iniziò in autunno, inutile dire che mi portò indietro nel limbo dei ricordi collegati alla mia esperienza al Saint John, ma stavolta non mi sarei fatto espellere, in quegli anni avevo imparato a gestire la mia impulsività indossando la maschera della compostezza qualora e laddove mi fosse possibile. Ragionare prima di agire era sempre la giusta scelta a differenza di quello che poteva pensare mio fratello e mentre pensavo a ciò, immaginavo la voce di mia madre dire: - ma ha dieci anni! - mentre io ipoteticamente le rispondevo che non era un buon motivo.

Non cercai di farmi degli amici, non ne avevo voglia e non ne avevo bisogno, ma quando meno te lo aspetti, rischi di venire trasportato in un turbine di nuove esperienze e questo era successo anche a me.
Il vento soffiava forte sulle imposte mentre il cielo chiamava pioggia da un momento all'altro. Avevo da poco finito le lezioni e stavo preparando i libri sulla scrivania quando un rumorino metallico giunse al mio orecchio, ma non feci in tempo a voltarmi che mio fratello, alquanto malconcio, stava entrando dalla finestra con un grimaldello in mano.

- Potresti avere un futuro da criminale, lo sai vero? - asserii, accennandogli con un cenno del capo al grimaldello che teneva in mano.

- Si, è il terzo lavoro che ho nella lista "cosa mi aspetta il futuro?", ma non preoccuparti fratellone, non ho forzato nessuna finestra, queste imposte sono facili da aprire facendo leva dall'esterno, questo l'ho portato per evenienza -

- O per difesa - esclamai - non è difficile dedurre che ti sei azzuffato a scuola, i tuoi vestiti e il tuo volto parlano chiaro - gli feci segno di accomodarsi dove più gli era congeniale e andai a recuperare la cassetta del pronto soccorso.

- Non è colpa mia se sono circondato da un gruppo di idioti e comunque non ne voglio parlare - si imbronciò.

- Perché sei qui allora? - chiesi spontaneamente, mentre gli tamponavo il taglio che aveva sul labbro.

Silenzio, poi un leggero brontolio - saluti - tagliò corto, mentre faceva diverse smorfie per sopperire il dolore. Scossi il capo ed un sorriso mi si dipinse sul volto, ma sparì subito quando sentii bussare, cosa alquanto strana: chi diavolo poteva essere?
Feci segno a Sherlock di nascondersi da qualche parte, non mi andava di dover dare spiegazioni a qualcuno sul perché mio fratello, un bambino di dieci anni, malconcio e con un grimaldello al seguito si trovava in camera mia, ne tanto meno mi andava che lui iniziasse ad analizzare il possibile interlocutore, bastava la mia mente a farlo. Contrariato scosse il capo, così fui costretto a prenderlo di forza ed appenderlo all'attaccapanni dietro la porta, ringraziando le divise scolastiche con tanto di bretelle che resero il tutto più facile, mentre il bussare alla porta si faceva sempre più insistente.

- Un attimo, arrivo - esclamai aprendo la porta e trovandomi davanti un signore sulla cinquantina, ben vestito e con degli occhiali da vista: un professore pareva. Non avevo mai seguito un corso con lui e non aveva nessun principio di polvere di gesso addosso, piuttosto indossava un completo perfetto gessato scuro, una cravatta bordeaux e delle scarpe nere, eleganti e lucide - Desidera? - chiesi dopo aver lasciato che entrambi ci studiassimo.

- Fare quattro chiacchiere con lei, Mycroft Holmes - rispose semplicemente lui, un tono gentile.

- Se potessi avere il piacere di conoscere il nome del mio interlocutore, sarei più invogliato nell'accettare questo invito - un tono più mellifluo il mio.

- Mi avevano detto che era molto sospettoso - esclamò ridacchiando appena.

- Lei dice? - osservai io, aggrottando la fronte senza scompormi - Tra noi due è lei quello che conosce i dettagli, ma ostenta le presentazioni - feci sfacciato e notai un maggior sorriso dipingersi sul volto del mio anziano interlocutore.

- Mi chiami pure Artù - disse senza darmi il tempo di porre altre domande, il suo sguardo era deciso e irremovibile che era chiaro il fatto che se avessi voluto sapere di più, se avessi voluto fare quelle quattro chiacchiere, avrei dovuto seguirlo. Entrai in camera ad afferrare la giacca ed osservai Sherlock, ancora appeso all'appendiabiti dietro la porta, imbronciato e con le braccia conserte.

- Da quando un vecchio dal nome mitologico e dal mocassino nero numero 43 suscita la tua attenzione più di tuo fratello malconcio, che hai volutamente appeso dietro alla porta? -

- Da quando mio fratello malconcio si arrampica dalla grondaia con un grimaldello in mano per raggiungere la finestra più in ombra del secondo piano solo per parlare di una zuffa? - eravamo pari, frecciatina per frecciatina, ma sapevamo anche che avremmo affrontato l'argomento al mio ritorno: si, perché lui non sarebbe tornato a casa.

- Parleremo più tardi, Sherlock. Nel frattempo, se ti conviene, non combinare guai - uscii, lasciandolo appeso alla porta in modo tale che avrebbe impiegato due minuti del suo tempo per scendere da lì, e raggiunsi Artù ormai in fondo al corridoio.

Fu una camminata silenziosa fino al polo principale del college e nel mio mutismo cercavo di apprendere maggiori informazioni da colui che sarebbe diventato a breve, o così pensavo, il mio interlocutore, ma era molto ligio e più di quello che avevo già dedotto quando si presentò al dormitorio, non riuscii a fare. Raggiungemmo i sotterranei dell'università, lunghi e infiniti corridoi ricchi d'archivi, con l'illuminazione che rifletteva sulle pareti in vecchia e solida muratura. Non una parola, finché non arrivammo dinanzi ad un ascensore, vi entrammo e questo iniziò a muoversi lateralmente.

- Come diavolo è possibile? - domandai alquanto stupito.

- Ci sono molte cose a cui rivolgerai questa esclamazione, non tutte le domande potranno avere una risposta -

Lo guardai un po' sconcertato, ma rimasi in silenzio, quella poteva essere una frase adatta a me, perché mai non l'avevo pensata prima? Il viaggio in quello strano ascensore fu il più lungo che ebbi mai compiuto e ci condusse all'interno di una lussuosa villa. Mi guardai attorno per assicurarmi non fossimo giunti a Buckingham Palace, ma i lampadari e i tappeti mi diedero la conferma che non eravamo giunti a far visita alla regina e ciò mi fece tirare un respiro di sollievo. Seguii Artù fino al salotto e mi accomodai in poltrona solo dopo che mi fece segno di sedermi.

- Ti sono grato per non essere stato tedioso durante questo nostro piccolo viaggio fino a qui - era la seconda volta che si rivolgeva a me dandomi del tu, probabilmente il lei lo utilizzava per i convenevoli e le presentazioni di facciata.

- Avrei dovuto, signore? - domandai, mettendomi comodo su quella poltrona di pelle, lui sorrise.

- Esattamente quattro anni fa ti è stato detto che il tuo fascicolo era stato preso in considerazione dalle più alte cariche dei servizi segreti, vero? -

- Più o meno è andata così, ma visto e considerato il ritardo nell'adempiere questa vecchia diceria, mi viene da pensare a due opzioni: il mio non era tra i fascicoli degni di nota o i servizi segreti di sua maestà non sono puntuali come dovrebbero essere - lessi una sorta di irritazione nel suo sguardo quando mi mostrai a lui con quell'osservazione dal tono sfacciato e sorrisi mentalmente.

- Esistono diverse tipologie di servizi segreti in tutto il mondo, Mycroft. La stessa Inghilterra possiede varie categorie di questo stampo: MI5 per la sicurezza interna, MI6 per quella esterna e poi ci siamo noi, una società di uomini ben addestrati al servizio di sua maestà e di questi due grandi gruppi. Dove non arrivano loro, andiamo noi. Qualora avessero bisogno di uomini, il nostro supporto non è mai negato. La nostra società è nata ai tempi di Giorgio VI, tempi in cui la guerra imperversava nel mondo e le nostre forze avevano bisogno di una mano invisibile che le aiutasse, per giungere dove loro non sarebbero mai arrivate. Noi siamo i Kingsman e il tuo fascicolo è sotto stretta sorveglianza da quando eri in fasce - sorseggiò un po' del suo brandy che il maggiordomo aveva servito mentre parlava, io stesso avevo il bicchiere bagnato da quel liquore, ma fu come se non lo vedessi, attento come ero a quella storia. Era una minaccia? Era un invito a prenderne parte? Era entrambi? Perché ora? Perché non prima o dopo il college?

- Dovrei essere impressionato, Sir? - convenni con lo stesso tono sfacciato di prima - Quattro anni fa fui stupito quando seppi di avere un fascicolo, credevo che soltanto i criminali potessero averne uno. Ora lei mi dice che lo tenete sotto controllo da quando ero in fasce, ma cosa potrà mai aver fatto un bambino, un neonato, in fasce tra le braccia dei propri genitori? Sia io che mio fratello abbiamo un'intelligenza più sviluppata e molto ben allenata, un'ottima memoria visiva, i dettagli sono il nostro forte, ma può dirmi quello che vuole, Sir, ma non credo di essere stato un caso più unico che raro quando indossavo ancora il pannolino e gorgheggiavo -.

- Quando hai iniziato a parlare, Mycroft? -

- Tra i 7 e gli 8 mesi -

- Il che non è da tutti, no? Tuo zio ha sempre fatto rapporto dei tuoi progressi in ogni campo. Ognuno può essere un Kingsman, in pochi dimostrano di saperlo essere davvero - disse, finendo il suo brandy. Era uno dei colloqui più strani a cui avevo mai preso parte e non mi chiesi nemmeno come potevano sapere tutte quelle cose sul mio conto, tanto da farmi mettere quasi sulla difensiva prendendo anche in considerazione mio fratello, cosa alquanto rara. Cosa significava tutto quello? Come sarebbe finita? Sarebbe durata molto? Avevo troppe domande in testa, avevo bisogno di estraniarmi con i miei pensieri e riflettere, riflettere e basta. - Quello in cui ci troviamo ora è il quartier generale della nostra scuola di addestramento. I corsi inizieranno tra una settimana e riguarderanno non soltanto la pratica sul campo, ma anche la cultura generale, sosterrai esami al pari di quelli del college e potrai conseguire un diploma di alto riconoscimento se supererai i test con il massimo dei voti. Certo, accettando è inutile che ti dica che metterai in gioco la tua stessa vita, ma credo sia una cosa ovvia e normale se si vuole lavorare in questo campo o in quello politico, al quale sapevo che stavi mirando una volta iscritto all'università. -

Ora che evitava di girare attorno all'argomento ed era giunto al punto, la cosa si faceva più interessante nonostante fossi una persona che preferiva toccare con mano le situazioni, scettica nei riguardi della semplice parola, ma in quel discorso non c'era una virgola fuori posto così come sul volto di quell'uomo e un sorriso si distese sul mio - Quanto tempo ho per darle una risposta, Artù? -

- Quarantotto ore, non un minuto di più - annuii - e Mycroft, la segretezza è la massima priorità anche nei riguardi di chi ci sta più a cuore -.

Mi congedai annuendo a quelle ultime parole, sapevo che non avrei potuto rivelare nulla a nessuno, non ai miei, non a Sherlock, a momenti nemmeno a me stesso. Occorreva la giusta scusa, la mezza verità e avevo quarantotto ore per decidere cosa sarebbe stato della mia vita.

Per tornare sui miei passi non potei usare la scorciatoia segreta che avevamo usato per raggiungere detto luogo qualche ora prima, ma il maggiordomo mi accompagnò alla porta e notai che eravamo nel bel mezzo della campagna inglese, sospirai pensando che mi ci sarebbero volute ore per tornare da lì alla City sulle mie sole gambe, ma un sorriso mi si dipinse sul volto quando il lacchè mi aprì gentilmente la porta di una berlina nera con i sedili in pelle marrone chiaro.
- Prego, Sir, il suo passaggio - esordì con un leggero inchino, mentre io osservavo ancora incredulo tanta organizzazione e ricchezza tutta in una volta: rischio, organizzazione, conoscenza, buon gusto e buone maniere, se quello era il sipario che avvolgeva il lavoro e il percorso che mi era appena stato offerto, ero pronto a metterci la firma, anche se avevo già imparato a mie spese che esser troppo legati ad una semplice idea non era mai la scelta giusta. Com'è che si dice in questi casi? Ah si, caring is not the advantage.

L'oscurità delle prime ore della notte aveva avvolto Londra quando rientrai al college, rimanendo per qualche istante ad osservare quella berlina nera riprendere la strada. Quando salii in camera, trovai Sherlock rannicchiato sul letto, che dormiva con il grimaldello in mano e sorrisi richiudendo la porta alle mie spalle, raccogliendo da terra le bretelle di mio fratello che avevo appena calpestato; non mi era stato difficile immaginare il tempo e il modo in cui si fosse liberato dall'attaccapanni. Nonostante l'ora tarda, immaginavo che i miei genitori non fossero ancora a letto visto e considerato che mia madre aveva una forte apprensione nei riguardi di mio fratello, perciò decisi di chiamare a casa e rassicurarli sul fatto che si trovava con me.

- Mamma -

- Myc, per l'amor del cielo, dicci che è lì con te, è da tutto il pomeriggio che non abbiamo sue notizie -.

- Si, mamma. Sherlock è qui con me, sta usurpando il mio letto, dormendo come un ghiro, ma è tutto intero ed è tutto nella norma - dissi con tono stanco, quasi pensieroso.

- Dal tuo tono non sembrerebbe -.

- Sono solo stanco, mamma. Stavo studiando così assiduamente che non mi sono reso conto del tempo che passava - mentii prontamente, come potevo dirle che avrei lasciato il college? Come potevo dirle che avrei frequentato altrove servendo l'intelligence nazionale? Avevo bisogno di una notte per pensarci, un momento per rimanere da solo con i miei pensieri. - Non preoccuparti per Sherlock, lo porterò io stesso a scuola domattina. Buonanotte -.

Passai una notte in preda ai pensieri, alle mezze verità che avrei potuto sciorinare, poi ebbi l'illuminazione verso l'alba, rivangando nei ricordi, tornando a quel Natale e alle parole scambiate con mio zio: il regio esercito britannico. Come avevo fatto a non pensarci? Era perfetto! Ero così entusiasta che non chiusi occhio se non poco prima del suono della sveglia, che maledissi, cercando di tornare a dormire, ma vidi Sherlock nella penombra del letto fissarmi. Strofinai gli occhi e mi stiracchiai, avrei pagato profumatamente chiunque mi avesse portato del caffè nero non zuccherato in quel momento, ma cercai di non pensarci, alzandomi dalla sedia sulla quale avevo passato la notte pensierosa, avviandomi al letto in silenzio, sapevo che il primo a parlare non sarei stato io.

- Ti ho sentito stanotte mentre parlavi con mamma -

- Era tarda sera, Sherlock, cosa ti fa credere che chiami i nostri genitori nel cuore della notte? -

- Mezzanotte e mezza, Mycroft… Io non la definirei tarda sera - puntualizzò come suo solito, un bambino di dieci anni che già si comportava come un adulto, difficile a dirsi o forse no, io ero peggio alla sua età.

- È una specie di interrogatorio quello che stai mettendo in atto? Vuoi sapere il perché ho mentito così spudoratamente alla mamma, non è vero? -

Lui sorrise ed annuì - Diciamo di si, anche se immagino che quel vecchietto dal nome del re bretone per eccellenza sia la tua opportunità tanto agognata che nostro zio ti aveva promesso quattro anni fa. - Non avevo mai sottovalutato Sherlock, non me ne aveva mai dato modo, nonostante io tenessi le distanze, tenendomi composto, freddo.

- Perché ti sei azzuffato ieri? - cambiai discorso, ma sapevo che in merito alla mia situazione non avevamo più molto da dirci, lui non avrebbe detto nulla ai nostri genitori, io avrei fatto lo stesso garantendogli protezione, nonostante la lieve lontananza che si stava per andare a creare.

- Una semplice discussione contro un inetto più grande di qualche anno che si chiama Anderson. Sai, vuol fare il poliziotto, ma non è in grado di distinguere il superfluo dall'evidenza -.

- E tu ti sei premurato di insegnargli come fare, no? - commentai ironico.

- Più o meno è andata così - ridacchiò.

- Cerca di evitarli i guai, fratellino - lo ammonii, dandogli una lieve pacca sulla spalla - qualora non ci riuscissi, questa stanza farà al caso tuo, ma non far preoccupare troppo la mamma -.

- Disse quello che sta per unirsi ai servizi segreti -.
 
Al Diogenes riesco sempre ad estraniarmi e a tornare indietro ai ricordi più impensati e più nascosti, è sempre notevole vedere quanto possa fare il silenzio accompagnato da un buon bicchiere di brandy.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Manners Maketh Man ***


Ed eccoci arrivati ad uno dei capitoli più crossover della storia. Non so quanti di voi hanno visto Kingsman, The Secret Service, ma è da quando i miei occhi si sono posati sul grande schermo, che medito questa storia. Se non avete visto il film, non ha importanza, alla fine la storia scorre tranquillamente. Ringrazio tutti coloro che mi fanno avere i loro pareri sia tramite il programma recensioni del sito, sia al di fuori di esso: mi rendete davvero felice, grazie! Ora vi lascio alla storia, buona lettura e se vi va, ditemi cosa ne pensate.
 


5. Manners Maketh Man


 
Divertimento, una parola non di uso comune nel mio vocabolario e solitamente usata in modo inopportuno quando io e mio fratello analizzavamo ogni mossa di nostro cugino, mettendolo con le spalle al muro, in imbarazzo: ah, i vecchi tempi!
Divertimento, questa è la parola per descrivere il mio approccio con i Kingsmen e gli anni di formazione tra le loro fila: non era il college, ma gli anni di studio erano gli stessi; non era il college, ma la qualifica finale sarebbe stata uguale, con una conoscenza a trecentosessanta gradi su una quantità di argomenti notevole; non era il college ed il lavoro sul campo poteva costarti la vita.

I primi due anni e mezzo prevedevano quasi tutti gli esami teorici del corso: dottrine e istituzioni politiche, diritto nazionale e internazionale, storia dell'Inghilterra, storia generale, storia dei servizi segreti, chimica, nozioni scientifiche, fisica e le lingue basilari come lo spagnolo, l'italiano, il francese, il tedesco, l'arabo e le lingue orientali. Dalla seconda metà del terzo anno, gli esami teorici diminuirono e si lasciò spazio alla pratica e all'addestramento sul campo: tutto quanto avevamo appreso negli anni precedenti tornava utile per calcolare, ad esempio, la velocità del proiettile, la miglior traiettoria di questo, evitare il rinculo del calcio di qualsiasi arma da fuoco e via discorrendo. Sei anni di teoria e pratica che ti preparavano al mondo dello spionaggio; sei anni di teoria e pratica che solo pochi eletti riuscivano a portare a compimento; sei anni in cui lo studio non fu mai così divertente. Era tutto come un gioco, nonostante ero conscio e ben attento a valutare la gravità della situazione che mi gravava attorno. Ero il più razionale della mia squadra, colui che teneva le redini del gioco e che non esitava mai ad andare in prima linea quando era richiesto.

Non avevo mai avuto amici, non ne avevo mai sentito il bisogno, non avevo mai capito perché dovessi relazionarmi con altre persone quando queste piccole menti erano così lente a comprendere. Questo però non aveva nulla a che vedere con i Kingsmen, perché lo spionaggio, la crescita della persona, dell'io esteriore ed interiore porta a rivedere le priorità e a piccoli o grandi cambiamenti. Una squadra è come una famiglia, la maggior parte delle volte vige il motto "uno per uno e uno per tutti", in rare occasioni quel del "chi indietro rimane, indietro viene lasciato". Uniti nella gran parte dei casi, coinvolti mai. Il numero standard di componenti del gruppo era dieci, dall'inizio della seconda metà del terzo anno al quarto inoltrato quel numero calò fino ad arrivare a restare fisso sul quattro. Io, Harry, Jack e Mark eravamo molto abili e attenti singolarmente, infallibili e veloci in gruppo, tanto che riuscimmo ad ottenere il nome in codice prima del diploma, cosa che poteva permettere ai superiori di portarci in missione qualora avessero voluto. A Mark fu assegnato il nome di Merlin, ad Harry quello di Galahad, Jack divenne Lancelot, io fui Galvano. Eravamo un gruppo omogeneo, uniti dalle stesse passioni, dagli stessi interessi; con Merlin ci trovavamo spesso dopo lo studio e parlavamo di armi e modi di agire perché dei quattro eravamo coloro affascinati al dietro le quinte, da sempre convinti che per salvare il mondo non occorre solo la destrezza sul campo, ma anche un buon manovratore nascosto. Con Galahad e Lancelot verteva più sull'eleganza e la politica internazionale.

Era il mese di Aprile del quarto anno all'accademia dei Kingsmen quando Artù venne nella nostra camerata e ci invitò a seguirlo senza proferir parola. Il percorso mi ricordò molto quello che avevo intrapreso anni prima quando quello stesso uomo era venuto a bussare alla porta della mia camera al college, ma questa volta prese un'altra direzione fino a raggiungere una sorta di nuovo vagone della metropolitana. Salimmo tutti e cinque ed il viaggio durò si e no una decina di minuti, conducendoci ad una sorta di scantinato ricco di manichini e scatole che tanto pareva una cantina di una sartoria. Artù ci fece strada e salimmo le scale che ci condussero ad uno dei negozi più eleganti del centro di Londra: la boutique di Mr Porter. Era un piccolo angolo di paradiso con vestiti eleganti e stoffe pregiate degne delle migliori sartorie. Artù parlò con l'uomo dietro al bancone e, nel giro di pochi minuti, questo alzò lo sguardo su di noi e ci sorrise.

- Allora signori, chi è il primo? - chiese gentilmente, mentre noi lo guardammo tra lo spaesato e l'eccitato.

- Io - esclamai facendo un passo avanti, seguendolo in uno stanzino, dal quale uscii diversi istanti dopo con un'espressione soddisfatta dipinta sul volto. Avevo scelto una stoffa gessata grigio melange per l'abito, un gessato più chiaro, ma non troppo, per il gilet ed una serie di camicie e cravatte da alternare. Il tutto mi sarebbe stato recapitato all'accademia di lì a qualche giorno e nel frattempo attesi che anche gli altri scegliessero mentre mi guardavo attorno soddisfatto.

- Sono rari i casi in cui le persone del quarto anno entrano qui, vero? - chiese Lancelot.

- Così come è raro il fatto che già avete un nome con il quale potete partecipare a delle probabili missioni - replicò Artù in tono ovvio - ma le sorprese non sono ancora finite -.

Si, le sorprese non erano ancora finite e quando Merlin terminò la sua prova d'abito e misure aggirammo il bancone ed entrammo in un'altra porta sul retro di questo, che si aprì su una grande stanza color ocra con mensole in ebano nero ed una fievole luce ad illuminare quanto sostenuto dagli appositi sostegni: armi di ogni sorta, ombrelli, taccuini, altre eleganti chincaglierie. Capitava raramente rimanessi stupito per qualcosa, solitamente sapevo dosare il mio stupore, essendo molto razionale nei sentimenti, ma quella fu una delle prime volte che capitò il contrario, tanto che se Merlin non mi avesse dato un lieve pizzico sul braccio avrei seriamente pensato di esser perso in qualche mio sogno.

- Le buone maniere determinano l'uomo, l'eleganza e gli oggetti di cui si circonda tendono a fare il resto - esordì Artù - occorre sempre guardare oltre a ciò che si vede. Un ombrello, per esempio, può rivelarsi un'arma inaspettata quanto efficace e letale - ne prese uno e fece una dimostrazione, aprendolo come un normale ombrello, ma sparando un proiettile dal puntale in ferro che andò dritto al centro di un bersaglio posto in fondo alla stanza: una mossa che ebbe tutta la mia attenzione. - Ogni cosa può essere un'arma, la può contenere e meno è visibile e più ci garantisce di muoversi con discrezione - sbatté il tacchetto della scarpa e ne fuoriuscì una lama, prese una semplice penna Mont Blanc e ci mostrò in che modo questa potesse essere l'innesco per attivare una bomba, per passare poi al modo in cui un semplice orologio potesse essere letale o quasi con alcuni dardi soporiferi o avvelenati nascosti al proprio interno.
Non sapevo cosa mi avrebbero riservato la vita o gli ultimi due anni all'accademia, non mi piaceva fare progetti su quanto non conoscevo, quanto stavo toccando con mano era più che sufficiente ad attirarmi sempre di più verso il ruolo delle organizzazioni segrete in difesa del'Inghilterra e del resto del mondo.

*

L'unica cosa frustrante era non poter rivelare nulla nemmeno alla propria madre. In quei quattro anni c'erano state delle mezze verità, ma mai mi ero sbilanciato troppo e Sherlock aveva mantenuto il segreto. Quando l'addestramento lo permetteva e non c'erano esami o missioni imminenti, tornavo spesso a casa nei weekend. Fu una cena modesta quella che mia madre cucinò una sera di inizio Maggio: polpettone, insalata di patate e pudding come dessert. Non era un caso che avesse scelto due dei miei piatti preferiti, così come non era troppo normale tutto quel silenzio durante il pasto, mi aspettava sicuramente un dopocena dal sapore amarognolo.

Attesi che Sherlock e mio padre ci lasciassero soli e l'aiutai a sparecchiare, in attesa che lei iniziasse un discorso  - Ultimamente non vola una mosca a tavola, sai? Sherlock diventa più taciturno ogni giorno che passa e quelle occhiaie sul suo volto raccontano più delle parole non dette - fece una pausa mentre prendeva i piatti che le porgevo ed iniziava a lavarli - grazie a te so solo che si è inimicato diversi gruppi a scuola ed è per questo che io temo possa finire in cattive compagnie -.
 
- Ah, la carriera piratesca che avanza! - osservai con ironia, venendo fulminato con lo sguardo da mia madre - Ha quattordici anni, è in piena adolescenza e frequenta una delle scuole più importanti della città, io sarei contento di sapere che non è stato ancora espulso nonostante tutti questi "nemici" attorno, non credi? -

- È compito di una madre preoccuparsi per suo figlio - feci un leggero sospiro in quanto tra i due era sempre Sherlock quello a venire sempre preso in considerazione - e questo vale anche per te, signorino - esordì subito dopo, una frase che mi fece aggrottare le sopracciglia e mi portò sulla difensiva.

- Mamma, sono al college, cosa vuoi che accada? - esordii io con un altro sospiro.

- È proprio questo! Tutto questo essere vago, questo non accadere nulla che mi porta a sospettare che ci sia qualcosa, sia da parte tua che da parte di tuo fratello - scossi il capo ridacchiando appena e rivendendo nell'apprensione di mia madre sia me, che Sherlock quando eravamo alle prime armi nel gioco della deduzione.

- Sospettare… E di cosa? Del tuo stesso figlio che sta facendo tirocinio presso alcuni uffici del Governo o dell'altro che è in piena fase adolescenziale? - feci una pausa per studiare l'espressione stupita e quasi orgogliosa della donna, ma lo diedi il tempo per parlare, non avevo ancora finito - Non vivere nell'apprensione, mamma. Sei al sicuro con le nostre scelte - la baciai in fronte e sorrisi - così al sicuro che questa notte dormirò qui - esclamai facendo per andarmene, dopotutto quanto c'era da dire lo avevamo trattato.

- Mycroft Holmes e tu pensi di darmi una notizia del genere e poi farla franca? - esclamò in tono di rimprovero, seguendomi svelta per abbracciarmi, senza darmi il tempo di replicare, ma solo quello di godermi il momento. Quegli attimi stavano diventando sempre più rari ed essere così ligio e razionale spesso portava a dimenticare quanto un piccolo gesto potesse trasmettere calore - sono orgogliosa di te, figliolo e grazie -.

Sorrisi, sapevo che quel grazie stava a racchiudere non solo la mezza verità sciorinata, ma anche le parole dette in merito a Sherlock, il mio controllo su di lui da dietro le quinte; mio fratello era sempre stato il più irascibile e testardo tra noi due e a me non dispiaceva tenerlo sotto controllo ogni tanto, osservando quanto si inventava per tirarsi fuori o mettersi nei guai.

Proseguii verso camera mia ed una volta imboccato il corridoio sentii una melodia a metà tra il dolce e il malinconico, che si tramutò svelta nell'inno inglese quando i miei passi si avvicinarono alla porta aperta.

- Una provocazione o un saluto? - esclamai poggiandomi allo stipite della porta.

- Esercizio - si voltò appena, rispondendomi pacato - e poi non dirmi che, ti dispiace sentire l'inno della nostra amata madre patria, ora che sei quasi un suo degno agente -.

- Sbaglio o nel tuo tono c'è del risentimento, Sherlock? - puntualizzai.

- Io? Perché mai dovrei essere risentito? - scosse appena il capo - Non sono risentito per le cose non dette o per quelle lasciate in sospeso. Non sono risentito per le volte in cui mi hai promesso che ci saresti sempre stato quando ne avessi avuto il bisogno. No, Mycroft, non sono risentito - si voltò di scatto verso di me, posando sulla sedia della scrivania il violino e il suo archetto, mentre io cercavo di venire a capo di quel suo sfogo, colto in contropiede, in silenzio.

- Non sono mai venuto meno alle mie promesse, credo che tu lo sappia questo -

- Si, conosco il tuo modo di agire dietro le quinte, riconosco la gran parte dei messaggi che mi mandi indirettamente, ma a volte gradirei trovare qualcuno con cui parlare in quella camera di Cambridge -

- Sai, Sherlock - mi avvicinai e gli posai una mano sulla spalla, accovacciandomi quanto bastava per essere all'altezza del suo sguardo, ormai non era poi così più basso di me - a volte non fa male sciorinare un "mi sei mancato" -

- È strano sentirtelo dire - commentò aggrottando la fronte.

- È giusto un momento, mi passerà - esclamai con un sorriso, che venne ricambiato.

Non eravamo mai stati avvezzi ad aprirci a sentimenti, a lasciarci andare ai ti voglio bene e simili frasi melense e tipiche delle persone comuni, normali. Sapevamo che esistevamo l'uno per l'altro, la razionalità vinceva su tutto, ma la chimica molte volte la faceva da padrone e quello era uno dei tanti casi. Sette anni di differenza potevano essere tanti, le strade che si sceglievano di seguire diverse, ma eravamo fratelli, due facce della stessa medaglia così simili quanto diversi; sempre l'uno al fianco dell'altro anche se lontani. 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Brother Mine ***


Mi scuso per il ritardo, ma gli esami ed altri impegni mi distolgono un po' dalla scrittura di questi tempi, nonostante le idee. Questo capitolo è stato un po' un parto, cambiato in mille maniere e in mille modi, ed anche ora non ne sono totalmente soddisfatta, ma rispetto a prima non mi lamento per nulla. Volevo ringraziare tutti coloro che lasciano un commento nella sezione recensioni o che me li fanno al di fuori da qui, mi rendete felice, grazie. Detto ciò vi auguro buona lettura e spero di leggere un vostro parere. Al prossimo capitolo.

 
 
6. Brother Mine

 
Gli ultimi anni di studio in accademia misero a dura prova le mie facoltà sia fisiche che mentali, così come quelle dei miei compagni. Le missioni stavano diventando sempre più numerose, sempre più fitte e a queste occorreva aggiungere l'addestramento per il passare gli ultimi esami. Avevo venticinque anni, stavo per laurearmi e avevo già preso parte a cinque missioni attraverso la Gran Bretagna e l'Irlanda volte a fermare il traffico d'armi e alcuni attentatori che, in quegli anni di scontri tra cattolici e protestanti, infiammavano Belfast.

Non rientravo mai in accademia quando la missione vedeva la fine, avevo bisogno di respirare Londra e le sue vie, bisogno di toccare con mano la mia e la sua esistenza e una passeggiata nei suoi vicoli mi dava quella certezza. Avevo due luoghi nei quali potevo tornare: casa e la camera di Cambridge inutilizzata, ma sempre disponibile e fu quella la scelta che feci quella volta, visto e considerato che i miei si trovavano oltreoceano per un convegno sulla fisica quantistica e la cerimonia dei 50 anni di insegnamento di uno dei colleghi di mia madre. Credevo di aver fatto la giusta scelta entrando in quella stanza, avevo solo voglia di dormire e avevo dato per scontato, visto l'assenza dei miei, che mio fratello si trovasse a casa, probabilmente mi sbagliavo. La puzza acre di fumo misto ad erba era ancora forte nel locale, impregnata nell'ambiente e nei pochi tessuti circostanti. Narghilè, mozziconi di sigaretta, qualche bong, mio fratello stava facendo buon uso del suo tempo libero: - Ah, gli anni dell'adolescenza che vedono la fine! La facoltà di chimica lo saprà mettere sulla buona strada - pensai sarcastico, ben convinto del contrario. Cercai di non fare caso al disordine, pensando al meritato riposo che volevo e dovevo prendermi, ma un laccio emostatico sul pavimento attirò la mia attenzione e mi fece riprendere il cammino per le vie della città.

Tre erano i luoghi che mio fratello usava come nascondigli, tre erano quelli che conoscevo e, visto e considerato che non era nella mia vecchia stanza, questi si restringevano a due: la mansarda della nostra casa e una piccola baracca sul Tamigi abitata da alcuni poveri in canna che aveva preso a frequentare. Perché avrebbe dovuto farlo? Perché buttarsi in quel vortice di perdizione? Noia? Mero piacere personale? Il brivido della libidine? Erano tante le domande che mi accompagnavano nella mia ricerca disperata, domande che vennero interrotte alle prime luci dell'alba dallo squillare del telefono nella casa dei miei. Presi la telefonata e venni a sapere che mio fratello si trovava ricoverato in ospedale per uno svenimento causato dall'accumulo di sostanze stupefacenti, che lo avevano portato alle soglie di una leggera overdose. Riattaccai la cornetta, presi un taxi ed arrivai in poco tempo al London Bridge Hospital. Una volta raggiunta la stanza di mio fratello appresi che aveva appena subito una lavanda gastrica e che l'avrebbero mantenuto in osservazione per diversi giorni.

- Diventerai famoso per il tuo tempismo perfetto nel mettere in subbuglio i programmi e gli animi, fratellino - esclamai a bassa voce, mentre lo osservavo dormire, atto che mi accinsi io stesso a fare non appena mi accomodai su una sedia lì accanto al letto.

*
 
- Signore, è per lei - esclamò una voce femminile, posandomi una mano sulla spalla mentre ero ancora tra le braccia di Morfeo - Signore - fece poi gentile e con gli occhi ancora socchiusi le riservai un sorriso prendendo il telefono.

Fu una chiamata veloce, sbrigativa, durante la quale scossi il capo più e più volte - sembrerebbe che la droga stia diventando l'ordine del giorno di questi tempi - mormorai contrariato, chiudendo la chiamata una volta ottenute le coordinate. Era una missione semplice, non sarebbe durata più di qualche ora se non ci fossero stati intoppi e, svolgendosi in città, avevo tutto il tempo di ritornare al capezzale di quel folle di mio fratello.

- Devi proprio andare? - esclamò Sherlock con voce flebile.

- Si, fratellino, ma non starò via molto, giusto il tempo delle tue visite di controllo - lo ammonii piccato, prima di sistemarmi camicia e gilet, rimettermi la giacca per poi avviarmi al luogo dell'appuntamento: il porto di Londra.

Ero arrabbiato con me stesso, deluso dai miei gesti nei confronti di mio fratello, quasi sconfitto e la domanda del "perché lo hai fatto, Sherlock?" che mi aveva accompagnato nei sogni, ora era più vivida che mai. Per una volta, per la prima volta non riuscivo a rimanere distaccato, il mio pensiero tornava sempre a quella camera di Cambridge impregnata dei più acri odori e alla chiamata avuta dai medici. Il mio pensiero era fisso su Sherlock, sul fatto che avrei dovuto chiamare i miei e su quello che per la prima volta non sapevo come avrei dovuto comportarmi.

- Mycroft, sei tra noi? - mi picchiettò un dito sulla spalla Merlin.

- Mi sembra di essere qui, no? - esclamai sarcasticamente ironico.

- Non sembrerebbe, anzi mi stupisce vederti qui piuttosto che al capezzale di tuo fratello -

- Non mando all'aria una missione per degli sbagli fatti da un diciottenne alla deriva, dovresti conoscermi ormai, Merlin -

- Certo, certo, il tuo essere di ghiaccio non è una novità - esordì pacato, sfoderando una pistola con silenziatore annesso, facendo fuoco su un cecchino che stava puntando alla mia persona - lo è il fatto che io ti debba coprire le spalle -.

- Perché? Non lo hai mai fatto, forse? - la buttai sul ridere, impugnando la pistola pronto a cimentarmi in quello scontro a fuoco tra la nostra banda e quella del narcotrafficante, che era circondato da quando aveva messo piede sul molo.

- Giusto per ricambiare alcuni favori - ridacchiò - Finiamo questa faccenda, dopodiché potrai distrarti quanto vuoi all'ospedale -.

Requisimmo trenta chili di hashish ed altrettanta cocaina al trafficante sudamericano, quantità che ad ogni missione contro il narcotraffico si facevano sempre più alte, missioni che ormai divenivano l'ordine del giorno.

*
 
Dovevo molto a Merlin, se non fosse stato per il suo gesto, mi sarei trovato all'altro mondo alquanto presto; un grazie e mille altri pensieri tornavano a galla, ma aveva senso rimanere arrabbiati? Aveva senso darsi delle colpe? Non ero una persona che si piangeva addosso e non avrei iniziato a farlo in quel momento.
Tornai al'ospedale e trovai Sherlock addormentato, così decisi di fare una telefonata.

- Mamma -

- Oh, ciao Mickey! Come vanno le cose a casa? -

- Tutto bene, mamma. Sherlock è in ospedale, ma tutto relativamente bene -.

- Come? Il mio bambino è in ospedale? Che è successo, Mycroft? -

- Quando te lo ricordi, lo usi il mio nome, eh! - convenni con ironia. Ero appena fuori dalla stanza a chiamare, ma il mio sguardo era ben puntato sul capezzale di mio fratello, che notai muoversi appena - Non è successo nulla, ha solo avuto una forte colica renale, che ha fatto presupporre una sospetta appendicite ed i medici lo hanno ricoverato per qualche giorno, uscirà domani - una mezza bugia vale più di mille verità alle volte.

- Buon Dio! Ora come sta? Posso parlarci? - fece apprensiva.

- Ora è fresco come una rosa, ma sta dormendo, gli riporterò i tuoi saluti. -

Parlammo ancora qualche istante e le feci sapere i dettagli sulla cerimonia di laurea. Da una parte mi spiaceva che i miei non potessero prendervi parte, purtroppo però la data era uscita pochi giorni prima, in perfetto stile kingsman, ed i miei si trovavano già dall'altra parte del mondo per il convegno, con i biglietti aerei già prenotati, ma era un lusso sapere di averli al fianco almeno per cena.  

A chiamata terminata entrai nella camera di Sherlock e mi accomodai sulla sedia, che da qualche giorno era diventata la mia seconda casa e il mio luogo di riposo, lo osservai e sorrisi, notando che stava facendo finta di dormire, ma non interferii con il suo piano e mi misi a leggere un quotidiano che avevo recuperato prima di salire in reparto.

- Non è da te non chiedermi il perché l'ho fatto - esordì dopo qualche minuto, dodici per l'esattezza.

- Già, ma ho sempre saputo di avere un fratello sconsiderato e ci sono occasioni in cui non occorrono domande - risposi pacato, continuando la mia lettura senza distogliere lo sguardo dal giornale.

- Tutto patria e regina, ecco cosa sei diventato. Alla minima chiamata accorri e le vecchie promesse vengono sempre meno - esclamò risentito, sospirai cercando di non dargli troppo peso, per niente in vena di litigi.

- Stai parlando a vanvera, Sherlock -.

- Così a vanvera che sono arrivato ad essere qui per il gusto di osare in un momento di noia. Sai cos'è la noia, fratellone? No, forse no, le missioni adrenaliniche non ti permettono di toccarla con mano -.

- Abbiamo un diciottenne in vena di litigate, infermiera porti del calmante - esclamai ironico, abbassando solo allora il giornale - Sai, Sherlock, l'adrenalina a volte è talmente un'abitudine che non riesci a distinguere quando la preoccupazione la sovrasta, facendoti perdere il controllo dalla tua missione, destabilizzandoti e solo allora ti domandi perché? Perché io, che ho sempre cercato di tenermi in disparte, dovrei essere coinvolto? - mi alzai e  mi avvicinai a lui - attento a giocare con il fuoco, fratellino o finirai per bruciarti - gli sussurrai all'orecchio, dandogli un buffetto sulla guancia, prima di riprendere ombrello e soprabito ed avviarmi all'uscita.

- Sei sentimentalmente di ghiaccio, fratello -.

- La prossima volta rifletti sul da farsi, Sherlock, non sei il primo in famiglia a giocare con erbe e composti, lascia questo primato allo zio Rudy -.

- Va al diavolo, Mycroft -.

Sherlock uscì dall'ospedale il giorno successivo, dopo che aveva passato sotto osservazione un'intera settimana. Il nostro colloquio quel giorno si era incentrato semplicemente sul saluto, nulla di più, ma a sera, quando stavo preparando il completo per la cerimonia di laurea, arrivò in camera mia rimanendo appoggiato allo stipite della porta.

- Il tuo grande capo permetterà a noi comuni mortali di accedere alla vostra sede supersegreta, domani? - chiese cercando di nascondere la curiosità.

- È un piacere sentire che, qualche volta, ti definisci un comune mortale - ridacchiai - comunque no, la cerimonia si terrà in quel di Cambridge, per gentile concessione del rettore, alle due di pomeriggio - lo notai arricciare il naso contrariato, immaginando bene la sua curiosità riguardo i vari congegni segreti e simili, un giorno chissà, magari gli avrei mostrato qualcosa.

- E per quanto riguarda mamma e papà? -

- Saranno in volo verso l'Inghilterra a quell'ora, festeggeremo con loro a cena -

- Gli hai raccontato del tuo fratellino sconsiderato, non è vero? - esclamò in tono pungente e sospirai, voltandomi verso di lui per guardarlo dritto negli occhi.

- Si, sanno della tua situazione - commentai con tono grave - una forte colica renale e sospetta appendicite, era per quello che eri sotto osservazione ospedaliera, no? E non far finta di non aver sentito il mio colloquio con mamma - lo ammonii, appendendo il mio miglior completo alla maniglia dell'armadio, mentre Sherlock era rimasto sconcertato - Vedi di non farmene pentire, fratellino -.
 

Ho un bel ricordo di quella giornata, un ricordo fresco racchiuso nella mente e in una fotografia, che rappresenta me e mio fratello spensierati e sorridenti, una fotografia rara, che allontanava entrambi da quanto era successo i giorni precedenti.
Sherlock era sempre stato un ragazzo sveglio al quale piaceva mettersi in gioco e sperimentare su e con sé stesso; la scelta del proseguo degli studi in chimica non è mai stata un caso, così come non era un semplice incontro tra libido e noia quel principio di overdose avuto in quell'occasione. Più e più volte ho dovuto correre per lui, aiutandolo in prima persona o muovendo i fili dal dietro le quinte. Più e più volte l'ho fatto e continuerò imperterrito. 
Diogenes.
Ora.
Pensieri.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Missioni, ferite, dolci e Anthea ***


Innanzitutto volevo esordire con un scusate il ritardo, l'università mi sta uccidendo. Bene, ora che l'ho fatto possiamo passare al capitoletto. Come ogni Mythea che si rispetti, in questo capitolo è riportato il plausibile vero nome di Anthea, che è Andrea (si può notare dallo script originale della serie tv, in rete ci sono diverse foto, e anche dagli scritti di http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=61784 che mi ha fatto gentilmente notare anche la stessa ripresa del cognome della ragazza e a cui dico grazie). Dopo questa breve premessa spero che il capitolo vi piaccia, non sono troppo portata per le romanticherie, buona lettura! 
 

7. Missioni, ferite, dolci e Anthea

 
Capelli lunghi. Fluenti. Mossi. Scuri, castani per l'esattezza, come gli occhi.
Minuta, ma ben proporzionata.
Elegante nonostante il lavoro che svolgeva.
Il suo nome: Anthea.

I cinque anni dopo la cerimonia a Cambridge, dopo quel graduation day, erano stati il cosiddetto periodo di formazione professionale. Anni in cui divenni una figura di spicco nei retroscena del governo inglese coordinando come un'ombra le azioni dei ministri degli esteri e degli interni. Loro agivano, io ordinavo secondo il volere dell'unico superiore inglese: la regina.
Se una colomba spiccava il volo dall'altra parte dell'Inghilterra, io lo sapevo.
Se una mosca veniva uccisa in un sobborgo di Londra, io lo sapevo.
Se api laboriose si ritrovavano per dei summit oltremanica io lo sapevo.
Erano anni in cui continuavo a giocare alla spia, sia come Kingsman, sia come uomo dell' MI6.
Anni in cui mi ero offerto per l'addestramento delle nuove reclute dell'accademia insieme a Merlin, non che i miei rapporti con le persone fossero migliorati, ma l'Inghilterra aveva bisogno di nuovi delfini.
Avevo poi ereditato da uno zio lontano una villa a due piani in pieno stile vittoriano a qualche isolato di distanza da Kensington, villa volenterosamente lasciatami interamente da mio fratello con la battuta, alquanto scontata: - troppo spazio distoglie la mente dalle faccende quotidiane necessarie e l'idea di essere quasi vicino di casa della regina mi mette i brividi. Fratello caro, ti cedo volentieri anche la mia parte -.

Una tavola calda tra la mia abitazione e la via più vicina ad uno dei passaggi per l'accademia, il negozio del nostro sarto di fiducia per l'esattezza, era il solito luogo di ritrovo mio e di Merlin. Entrambi non eravamo assidui frequentatori di quei posti, ma c'era qualcosa di diverso in quello. La tavola calda era piccola, elegantemente sobria, ordinata e non riportava il solito olezzo tipico di quei luoghi; i suoi attendenti erano tutti cortesi ed elegantemente vestiti, così come il personale e, la ragazza descritta pocanzi, ne faceva parte.
Doveva avere sui diciannove, vent'anni al massimo, un'età ed una bellezza pari ad una musa del Rinascimento e che il sottoscritto non doveva né toccare né pensare.
Avevo ventinove anni e di certo non ero da considerare un adone, tutt'altro.

- Posso tentar lor signori con del buon whisky arrivato in mattinata dall'Irlanda? - chiese gentilmente.

- Un Jameson appena uscito di fabbrica, quindi? - domandò Merlin, la ragazza annuì - Non chiedo di meglio! - esordì schioccando le labbra, mentre io mi limitavo ad un leggero cenno col capo.

Era così ogni volta che andavamo lì, un goccetto in più, un dolce in più, tutto offerto dalla casa ed io avevo preso l'abitudine ad andarvi anche quando il mio collega era troppo occupato all'accademia per raggiungermi, ma si sa che anche l'occhio vuole la sua parte e a me bastava anche solo guardare quella ragazza per allietarmi l'animo.
Non ero mai stato espansivo, mai di troppe parole, ma giocando alla spia tutti i giorni avevo ben imparato ad approcciarmi con le persone e a nascondere sempre al meglio la mia impulsività, lasciando spazio alla razionalità ed in quel modo a volte capitava che le chiacchiere tra me e Anthea si prolungassero oltre alle semplici ordinazioni, rimanendo comunque ad una dovuta distanza di sicurezza. Venni a sapere che lavorava in quel posto per permettersi gli studi perché, essendo orfana di entrambi i genitori, i suoi nonni non potevano permettersi un'intera retta di Cambridge, fatti che però non andarono oltre, Anthea era molto socievole per quanto riguardava il lavoro e la quotidianità dell'evidenza, ma era molto riservata per quanto riguardava la sua vita al di fuori da quel locale, tanto che rimasi colpito quando mi rivelò della sua situazione privata, ma ne colsi subito il motivo dato che le avevo rivolto la domanda in merito allo studio.

- Non è un po' tardi per stare sui libri? - le avevo chiesto una sera, vedendola intenta a leggere e sottolineare un libro di economia politica, mentre mi avvicinavo per pagare il conto.

- Ho il test d'ingresso tra due giorni, sir. Studiare nelle pause e alla sera è l'unico tempo che ho - mi aveva cordialmente risposto.

Dopo quell'incontro, non riuscii più ad andare alla tavola calda a causa degli orari indecenti dell'accademia. L'autunno era appena iniziato e come Anthea, anche io avevo i test d'ingresso da affrontare, dall'altra parte della cattedra però, correggendoli. Avevamo un giorno di tempo per emettere i punteggi e scegliere trenta nuovi adepti da addestrare su cento e siccome Merlin si stava occupando di faccende legate alla sicurezza, stavolta toccavano a me i doveri di insegnante. Verso la fine dell'immenso plico, la mia attenzione fu attirata da una grafia che mi sembrava familiare, una grafia elegante, pulita, chiara e appena tondeggiante. Lessi il nome in cima al foglio: Andrea Stevenson.
La calligrafia era troppo simile a quella di una donna per equiparare quel nome ad un ragazzo dalle origini italiane e quel cognome era ben noto tra le file degli agenti segreti. In quegli anni mi era capitato spesso di udire l'operato dell'agente Stevenson e della moglie, un nome che mi riportava agli inizi dei miei studi, perché era quando frequentavo il terzo anno dell'accademia che tutto accadde: una missione in Crimea andata male, una talpa aveva giocato con il piede in due scarpe e aveva fatto perdere la vita ad un'intera squadra, nella quale militavano marito e moglie, scuotendo così i reparti speciali fin nelle fondamenta, ma lì si fermavano le mie conoscenze, non avevo indagato oltre in merito, impegnato su altri fronti. Ed ora eccolo lì il frutto del loro amore che si presentava tra le file dei Kingsmen con un buon punteggio su tutta la linea, il test infatti era perfetto, con nessun errore e ciò garantiva diretto accesso alla trentina di nuove reclute.
La tentazione di scoprire il volto di quel piccolo genio dalla parentela ben conosciuta era grande, ma la fila dei test da correggere era ancora lunga e l'orologio segnava già le due del mattino e la cerimonia di accesso all'accademia si sarebbe svolta nel primo pomeriggio, perciò continuai con il mio dovere, lasciando che la sorpresa prendesse piede qualche ora dopo.
Avevo consegnato i test corretti ed i nominativi dei nuovi delfini ad Artù quella mattina stessa, ma non potei assistere alla cerimonia perché questioni di carattere governativo mi fecero partire in mattinata e mi tennero lontano dalla sede dei Kingsmen per più di due giorni.

- Non crederai mai  a chi è presente tra le nuove reclute, Mycroft! - esordì Merlin quando mi chiamò al telefono il giorno stesso della cerimonia.

- Credimi, Merlin, penso proprio di saperlo! - risposi pacato, sospirando appena, immaginando bene a chi si stava rivolgendo.

- Al diavolo tu e le tue doti deduttive - brontolò anche se in tono alquanto divertito, ormai si era abituato alla mia perspicacia - Riuscirò mai a sorprenderti come si deve? -

- Continua a provarci e lo scoprirai -

Rientrai a Londra dopo tre giorni di conferenze, riunioni e impegni governativi di vario genere volti a cercare l'aiuto di tutti per la questione irlandese a Belfast ed ai continui tumulti che si facevano ogni giorno più intensi. Questioni che toccavano i servizi segreti inglesi di striscio in quanto semplici tumulti di strada che continuavano per pochi giorni di fila, ma l'MI6 considerava la questione più grave del previsto in quanto era solo questione di tempo prima che l'IRA prendesse piede e se ne giovasse.
Fino a nuovo ordine avrei potuto svolgere tranquillamente la mia missione di insegnante presso l'accademia, uno dei lavori che risultavano poco adatti al sottoscritto in quanto il restare in contatto con persone con poca iniziativa e appena svezzate mi generava fin dalla più tenera età ribrezzo ed un principio di orticaria. Giunsi al quartier generale giusto in tempo per la mensa e non rimasi per nulla stupito di ritrovare Anthea in fila con i suoi compagni procedere elegantemente a passo di marcia verso il refettorio. La sua grafia mi aveva dato ampia certezza, certezza confermata anche dalla telefonata di Merlin. Ma perché quel nome? Era un'invenzione? Ancora non lo sapevo. Avrei potuto aspettare a farmi avanti, in quanto ogni volta che la vedevo il cuore mancava di un battito e le preoccupazioni sparivano, ma ignorai tutte quelle emozioni che solo la sua vista sapeva darmi e andai subito al dunque, tossicchiando per attirare la sua attenzione ed invitandola con un cenno del capo a raggiungermi lasciando la fila.

- Sa, non credo che presentarsi con un altro nome possa giovare una conversazione, Miss Stevenson - iniziai piccato - a meno che questo non sia estremamente richiesto dalla situazione - si, avrei gradito delle spiegazioni.

- Sir! - mi salutò cordiale, come se le mie parole non l'avessero scalfita minimamente.

- Anthea! - la salutai io utilizzando quel nome con il quale si era presentata la prima volta - non sembra sorpresa dalla mia presenza - osservai poi.

- Non ne vedo il motivo, signor Holmes! Il professor Merlin ha chiaramente specificato che possiamo far affidamento su di voi in quanto nostri insegnanti - rispose sorridendomi pacata - Se cercavate lo stupore, dovevate presentarvi tre giorni fa - continuò gentile. No, vederla tutti i giorni, rimanerci così a stretto contatto non mi avrebbe giovato affatto, sospirai appena.

- Non mi aspettavo di trovare un altro nome, rispetto a quello che conoscevo io, sotto la sua grafia. Perché quella bugia? -

- Le bugie, se a fin di bene, nascondono sempre un minimo di verità e poi non ho mentito, mi sono semplicemente presentata a lei con il nome con il quale mi conoscono tutti, mentre quello che ho dovuto riportare sul foglio del test richiedeva chiaramente i propri dati anagrafici - specificò senza entrare nel dettaglio, dando lo stesso una dovuta spiegazione - Ora che conosce entrambi i miei nominativi, è libero di chiamarmi come meglio crede - esclamò infine e con un cenno del capo si ed un sorriso cordiale si avviò verso la mensa.

Scoprii dopo qualche mese che il nome Anthea non era nient'altro il nominativo che la madre di Miss Stevenson utilizzava come nome in codice, gli archivi dei servizi segreti riportavano cose che gli esseri umani faticano ad immaginare, ma non il perché questi nomi vengono adottati, anche se non era difficile intendere che Andrea aveva adottato quel nome perché probabilmente era molto legata alla madre.

I mesi successivi ai test d'ingresso furono ricchi di impegni governativi, missioni e lezioni, con mio grande stupore furono in pochi quelli che gettarono la spugna, ma gli anni in accademia erano lunghi e ben presto si sarebbero ben distinti i veri Kingsmen dalle semplici reclute. In quel periodo il mio rapporto con Anthea si restrinse a quello che c'è tra professore ed alunna, ma a me bastava anche solo guardarla prendere appunti in classe per allietarmi la giornata: si, era meglio così. Era quasi giunto Natale, mancavano due settimane, quando l'IRA lanciò la sua nuova minaccia in Irlanda ed io venni mandato con una cellula dei servizi segreti ad affrontare la faccenda prima in linea diplomatica, se poi fosse servito anche con la forza, in quel di Belfast.
Una missione che radunava alcuni grandi nomi del mondo nella hall di un albergo della capitale dell'Irlanda del Nord, una missione che non finì come doveva finire: una talpa tra le nostre file, un terrorista, fece esplodere due bombe in quella stanza causando una decina di morti e altrettanti feriti, tra questi ultimi il sottoscritto, ferito gravemente all'addome, portato d'urgenza in ospedale per l'operazione e riportato in una clinica privata di Londra, qualche giorno dopo.

- Perché ho la sensazione che mi farete passare più tempo qui dentro che ad una semplice cena di famiglia? - esordì Violet Holmes rivolta a Sherlock, osservandomi dormire al di là della finestra della stanza.

- Lavora per il governo britannico, mamma e si trovava ad un briefing internazionale al momento sbagliato - sospirò Sherlock - e non capisco perché io debba essere sempre preso in causa -.

- Devo ricordarti il tuo ultimo soggiorno qui, William Sherlock Scott Holmes? - rimproverò seria, mio fratello aveva fatto un trauma farmacologico dopo l'ennesimo miscuglio di droghe e acidi

- Per l'amor del cielo, mamma! Il tutto era necessario per l'esame più importante del semestre! -

Passai il Natale in ospedale, essendo restato diversi giorni privo di sensi ed essendo la riabilitazione alquanto lunga, ma nonostante la noia e il tempo che non scorreva, alla mattina era sempre piacevole svegliarsi e trovare sul comodino un pacchetto con un fiocco verde ed un foglietto con impresso la lettera A nella grafia che avevo ben imparato a conoscere.
La prima mattina che lo trovai, mi era persino rimasta impressa in mente una frase, vivida come se l'avessi sentita oppure sognata: - Giusto un pensiero che spero gradirà, Mr. Holmes. Mi spiace molto per quello che le è capitato, così come mi spiace non vederla più molto spesso all'accademia. Buona guarigione, Sir -

Quel pacchetto fu il primo di una lunga serie e ancora oggi alla mattina del giorno di Natale trovo sulla scrivania del mio ufficio lo stesso pacchetto, con lo stesso foglio e la stessa grafia. 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3038527