Odog în - Sette anni

di Targaryen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte: Dagorlad ***
Capitolo 2: *** Seconda parte: Gorgoroth ***
Capitolo 3: *** Terza parte: Barad-dûr ***



Capitolo 1
*** Prima parte: Dagorlad ***


Odog în - Sette anni


"Colui che non ha visto il calar della notte
non giuri di inoltrarsi nelle tenebre."
-  Lord Elrond   -
 
(Il Signore degli Anelli – J. R. R. Tolkien)
 

 
Dagorlad (3434 S.E.)
 

Sulla piana di Dagorlad l’odore della paura traspira dalla terra violentata dal clangore dell’acciaio, e appesta l’aria tramutandola in sudario. E’ un miasma che si fa corpo e che fissa il cielo con gli occhi vuoti dei caduti, un fetore di putrefazione che aleggia sul campo di battaglia, gemendo attraverso mille e più voci riunite in un unico, raccapricciante grido di rabbia e di agonia. E tra le note di quel lamento la domanda che il vento sussurra, irridendo la loro stirpe: è un inganno l’immortalità?
La spada affonda nel petto, il colpo così violento da frantumare le piastre di metallo permettendole di scivolare giù, sino al cuore. Il cuore di un uomo, che pompa sangue rosso e caldo come quello che imbratta il volto, quasi irriconoscibile, dell’elfo che poco prima egli si era gloriato di consegnare all’oblio. In cosa sono diversi, ora?
Allertato dallo spostamento d’aria che anticipa l’assalto, Thranduil si piega di lato, il corpo più svelto della mente e l’arma ancora infissa nelle carni del nemico, e con l’altra lama taglia la gola di un secondo e mozza le gambe di un terzo. L’orrido gorgoglio con cui l’uomo aspira aria e sangue si mescola al gemito di colui che rovina a terra, e su cui la notte cala per opera della medesima spada che gli stacca di netto la testa. Rapida, precisa, perché il suo scopo è uccidere e non spargere sofferenza e la morte che regala è una morte pulita.
Thranduil getta un’occhiata al volto livido del padre, la guancia aperta da un fendente e la sorpresa del momento congelata nello sguardo vitreo. Le vesti raffinate riposano abbandonate tra il fango e anch’egli fissa il cielo, la corona riversa di lato e l’argento che si rifiuta di rifulgere sotto il sole, spento come il suo re.
Sa che quando le lame saranno sazie il dolore lo piegherà come un fuscello sotto la furia della tempesta, ma per ora non c’è tempo per pensare ai morti a meno di non volerli raggiungere. Per ora le lacrime devono attendere.
Aiutandosi con un piede libera la spada dal corpo privo di vita che pare volersi fare beffa di lui ostinandosi a trattenerla in sé, e la pianta nel collo largo ed indifeso di un orco. Sono stupidi gli orchi, ma sono tanti ed egli si aggrappa all’unica speranza che gli rimane: Gil-galad ed Elendil devono essere in una situazione migliore della sua.
Non ci sono posizioni in cui arroccarsi a difesa, solo una distesa piatta e informe dinanzi a loro e le paludi alle spalle, le paludi che hanno inghiottito Amdír e quasi tutti i suoi elfi. I silvani di entrambi i regni si sono riuniti intorno a lui e una corona invisibile cinge già il suo capo. Già Thranduil ne avverte il peso, ma non può fare altro se non pregare che la vittoria giunga grazie ad altri. Oropher ed Amdír hanno fatto tutto il possibile per impedire ai loro popoli di concorrere per conquistarla, ed egli quasi riesce ancora ad udire la propria voce mentre cerca disperatamente di sovrastare l’ordine scellerato del padre.
“No! Fermati padre! Moriremo tutti!”
Ha gridato, terrorizzato da ciò che sapeva sarebbe seguito, ma poi ha spronato il cavallo e lo ha affiancato nella sua follia, perché era suo padre ed era il suo re e perché egli amava entrambi e ad entrambi doveva ubbidienza.
Ora quel padre giace calpestato ed ancora egli lo ama, ma un’ira sorda fa tremare le fondamenta di quell’amore dinanzi ai cadaveri di cui il re è responsabile.
“Un re dovrebbe proteggere chi si affida a lui”, accusa Thranduil rivolto al suo spirito ormai lontano, le parole sostituite dal tonfo sordo delle lame che si abbattono su chi è tanto stolto da giungere alla loro portata. Furia e disperazione rendono pericoloso anche un incapace con la giusta arma tra le mani, e trasformano chi la sa maneggiare grazie al talento e all’esperienza in un avversario che nessuno vorrebbe affrontare.
Il tempo corre via senza quasi che egli ne abbia nozione. Su suo ordine i sopravvissuti hanno formato un perimetro di difesa compatto, i grandi scudi schierati a protezione laddove il terreno lo consente, ma non riusciranno a resistere a lungo attaccati sui quattro lati.
Thranduil lo capisce in fretta ed altrettanto in fretta comprende che la loro unica possibilità di salvezza risiede nel riunirsi all’esercito di Gil-galad. Elendil è troppo lontano, oltre la linea dell’orizzonte. Se restano tagliati fuori verranno falciati uno ad uno per una semplice questione di inferiorità numerica o, peggio ancora, verranno spinti verso gli acquitrini e la loro fine diverrà addirittura più rapida. Già il terreno cede sotto ai suoi piedi, imbevuto di acqua e troppo scivoloso per essere un valido alleato a chi fa della precisione la sua forza.
Si volge ed afferra per un braccio il più vicino tra i comandanti di suo padre. Ha una lieve ferita ad un fianco, ma non si è mai allontanato troppo da lui e non ha mai smesso di mozzare teste ed arti. Egli non sa quale sia il suo nome né quale ruolo ricoprisse nell’esercito ormai decimato, ma non ha importanza. Sente di potersi fidare e, in mezzo a sconosciuti, l’istinto è l’unica cosa su cui può contare.
“Mio signore”, mormora questi.
Lo guarda dal basso, come tutti o quasi. Thranduil ricorda ancora la risata del padre la prima volta in cui si accorse di dover sollevare il capo per fissarlo negli occhi. Sul suo volto vide la sorpresa, perché lui stesso svettava sugli altri, ma prima ancora vi riconobbe l’orgoglio. Era orgoglioso di lui, re Oropher di Boscoverde il Grande: perché gli ha sottratto il diritto di ricambiare?
“Ordina alle compagnie di avanzare e di non disperdersi. Se restiamo qui saremo cadaveri prima di sera!”
L’elfo fa un cenno di assenso e svanisce nella mischia.
Pochi istanti e Thranduil sente i corni squillare da ogni direzione, così forte che per un attimo teme che persino l’Alto Re ai piedi del Morannon sia indotto ad ubbidire a quell’ordine. Poi non pensa più a nulla e si limita ad andare avanti e a rimuovere ogni ostacolo che vorrebbe impedirgli di farlo. Ostacoli che respirano, ma in fondo niente altro che ostacoli.
Il sole infiamma già l’occidente quando egli riesce infine a distinguere l’emblema della stirpe reale sugli stendardi blu e argento di Gil-galad. E’ stanco, ma non può permettersi di sedere per riposare né di soffermarsi su quale possano essere le condizioni dei suoi guerrieri. Altri sono caduti durante l’avanzata, ma non così tanti e chi è rimasto pare non meno determinato di quanto lo fosse alle prime luci dell’alba. I loro colpi sono meno precisi, ma non meno letali. Sono valenti i silvani in battaglia, si rende improvvisamente conto Thranduil, e la rabbia muta le sue labbra in una linea sottile. Con un migliore equipaggiamento e guidati con sensatezza avrebbero aperto le file nemiche forse meglio dei Noldor nelle loro armature dorate. Vite inutilmente perdute e occasioni sprecate in nome di antichi dissapori.
Lontano, nel cuore della mischia, Aeglos volteggia nell’aria come dotata di vita propria, oltrepassando le carni troppo velocemente affinché sia possibile seguirne la danza. Tra le mani di Gil-galad canta ed uccide e a Thranduil pare quasi di udirne il sibilo mentre ride assetata di sangue. Glorfindel è appena riconoscibile laddove lo schieramento elfico si unisce a quello dei mortali, un rivolo d’oro che si insinua in un mare di tenebra trascinandosi dietro ombre che montano neri cavalli. I Nazgûl, gli Spettri dell’Anello.
“Thranduil!”
La voce di Elrond lo raggiunge sovrastando il frastuono della battaglia ed egli si gira in direzione del suono. Lo vede procedere verso di lui facendosi largo tra i nemici lordo del sangue degli orchi, i lunghi capelli scuri coesi in un ammasso indistinto e il volto striato di nero.
In un batter d’occhio la mano del signore di Imladris è sulla sua spalla, lo sguardo incapace di trattenere il groviglio di emozioni che lo pervadono e la voce incrinata. Insolito per lui, così bravo a controllare ogni gesto e ogni parola.
“Sei vivo”, sussurra intensificando la stretta, come a volersi accertare di averlo di fronte.
Thranduil non si sorprende di come Elrond lo avesse ormai dato per morto. Lui stesso ha creduto di doversi unire ai caduti quel giorno, e il giorno non è ancora finito. Trae un profondo respiro, cercando di mantenere un contegno dinanzi al ricordo ancora troppo vivo della distesa di corpi gonfi abbandonati negli acquitrini e del volto di suo padre con le ossa scoperte.
Sa quale sarà la prossima domanda di Elrond e si costringe a non pensare. Non ancora.
“Oropher e Amdír … dove sono?”, lo sente chiedere con urgenza.
“Entrambi morti, insieme a quasi due terzi dei nostri guerrieri”, risponde, la voce atona e distante che a stento riconosce come sua.
Elrond serra gli occhi per una frazione di secondo. Neppure lui può concedere più tempo al dolore e quello non è il momento giusto per chiedere spiegazioni. Spiegazioni che, forse, solo chi non è più con loro potrebbe fornire.
“Il nemico sta cedendo, ma dobbiamo entrare prima che cali la notte”, lo informa.
Il terreno su cui si trovano si eleva appena al di sopra della piana che si estende di fronte al Morannon. Thranduil si guarda intorno. Le forze di Sauron si stanno raccogliendo lungo il fronte principale, laddove Gil-galad ed Elendil stanno guidando l’avanzata incuneandosi sempre più in profondità nel cuore dello schieramento avversario. La pressione sulle ali si sta alleggerendo, e forse è anche per questo che i silvani sono riusciti a ricongiungersi all’armata. Dalle alture poste ai lati del Cancello Nero non giunge alcuna offensiva, e se Sauron ha sguarnito i monti per rafforzare la linea di difesa deve dubitare della sua capacità di arginare l’assalto.
“Fainion”, chiama.
In un momento imprecisato ha domandato al comandante quale fosse il suo nome. L’elfo accorre, le vesti sudice e un vistoso bendaggio in corrispondenza del fianco destro. Thranduil non ricorda di averlo visto fermarsi per improvvisare quella fasciatura di fortuna. Ha sempre avuto la sensazione di averlo alle sue spalle, lui e pochi altri. Li osserva per la prima volta con attenzione e comprende: la guardia personale di suo padre, la guardia del re. Deve anche a loro l’essere riuscito ad arrivare vivo fin lì e si ripromette di ricompensarli a tempo debito.
“Tutti coloro che dispongono di arco e frecce si mantengano nelle retrovie e prendano di mira il fronte”, comanda, “Ci sono zone sopraelevate che possono essere sfruttate sul fianco destro. Ordina ai capitani di prendere posizione e di non sprecare i colpi. Gli altri vengano con me.”
“Sì, mio signore.”
Fainion si allontana lesto mentre Thranduil segue Elrond, chiama i silvani a raccolta e si unisce alle forze di Imladris.
La resistenza del nemico è ostinata e molte altre vite vanno perdute prima che le avanguardie alleate riescano a dividere in due la linea avversaria.
Senza più nessuno che li ostacoli, gli eserciti di Gil-galad ed Elendil attraversano in un batter d’occhio il tratto di pianura che li separa dai Cancelli del Morannon, ma commettono un errore. Dall’alto gli orchi iniziano a far piovere frecce a cui è stato appiccato un fuoco innaturale, che brucia più a lungo e che si diffonde con maggiore velocità, ed altri caduti si aggiungono alla lunga lista di quel giorno.
Di nuovo nella mischia Thranduil non pensa ad altro che ad atterrare quanti più avversari può e non vede ciò che accade ai piedi del Cancello Nero, ma in un momento imprecisato gli arcieri elfici devono aver avuto la meglio su quelli nemici, perché i dardi smettono di bersagliarli e la terra vibra quando i colossali battenti iniziano a ruotare. Lentamente il Morannon si apre e le forze alleate penetrano nel ventre di Mordor.
L’attraversamento del varco ormai sguarnito richiede meno tempo del previsto, ma non è esente da rischi perché qualche servo di Sauron è ancora appostato nel buio di anfratti nascosti e scocca frecce che spesso vanno a segno.
Ed è una di queste frecce che si pianta nel braccio con cui Thranduil sta per sferrare il colpo di grazia all’ennesimo orco. La sorpresa ed il dolore improvviso lo fanno sussultare ed egli vacilla, ma ha abbastanza esperienza per capire che non deve retrocedere e la lama penetra esattamente dove deve uccidendo il nemico all’istante.
Con uno sforzo Thranduil estrae la spada, ma non riesce a farlo con la stessa rapidità di prima e, sbilanciato, rovina al suolo riverso all’indietro sotto l’impeto dell’ascia che si abbatte su di lui e che stride scivolando sul metallo della lama. Il dardo che sporge si spezza nell’impatto col terreno, strappandogli un gemito, ma egli riesce a conservare sufficiente lucidità per costringere il braccio martoriato a trafiggere il ventre scoperto dell’orco che si apprestava a colpire di nuovo. Rotolando di lato si allontana dal cadavere e cerca di rimettersi in piedi.
Cerca, perché un re caduto è l’occasione che ogni nemico brama e troppo tardi si accorge dell’uomo alle sue spalle, della sua lunga lancia e del movimento con cui la guida verso di lui. Non emette alcun lamento quando la punta si incunea sotto l’armatura e penetra nel fianco, ma sente il sapore del sangue sulle labbra e all’improvviso la notte diviene più nera.
Guarda per un attimo l’uomo negli occhi, occhi scuri su pelle scura, e getta una delle due spade per afferrare l’asta. Un profondo respiro e, in un unico gesto, scatta indietro estraendola dalle carni mentre gli mozza la testa con l’arma che tiene nell’altra mano. Grida forse, o forse no, ma cade in ginocchio mentre il sangue macchia le vesti sotto il metallo, caldo come la vita che con esso fugge via.
E’ strano, ma ciò che avverte in quel momento non è la paura, bensì il desiderio sfrenato di vedere le stelle oltre la cappa di fumo che grava su di loro. Intorno la battaglia infuria, ma ora i suoni gli giungono soffusi e la vista gli si confonde. Ed è questo, meglio del dolore, a fargli comprendere come la punta di quella lancia sia penetrata troppo a fondo per consentirgli di combattere ancora. Le forze lo stanno abbandonando in fretta ed egli quasi sorride di fronte alla sorte. E’ sopravvissuto all’inferno delle paludi per morire lì, con la vittoria a portata di mano.
“Mio signore!!!”
La voce di Fainion lo riscuote dal torpore che lo sta sprofondando nell’incoscienza. Si accorge che il comandante delle sue guardie sta urlando mentre si precipita verso di lui, e il terrore che traspare da quel grido è la migliore conferma delle condizioni in cui egli versa. Con uno sforzo di volontà focalizza lo sguardo e quasi dimentica la sofferenza quando vede Fainion intercettare scomposto l’ennesimo fendente destinato a lui. Tenta di avvertirlo, ma il corpo non gli risponde come dovrebbe e non gli permette di essere veloce abbastanza. Fainion blocca il colpo e gli salva la vita, ma cade tra la polvere portando l’orco con sé. In qualche modo Thranduil trova l’elsa della spada e riesce ad affondarla tra le scapole del servo di Sauron, ma è comunque troppo tardi. L’elfo muore lì, con gli occhi spalancati che riflettono il cielo nero e che forse vorrebbero, come i suoi, vedere le stelle.
Il re di Boscoverde scivola a terra sotto il peso di una nuova colpa, e quasi ringrazia l’oblio che lo accoglie mentre i silvani appena sopraggiunti si dispongono a difesa intorno a lui.

 
***


Per la decima volta dopo il crollo del Cancello Nero il sole è svanito oltre l’orizzonte, tramutando quell’eterno crepuscolo nella tenebra più cupa. Negli accampamenti l’attività freme e nuove tende vengono issate sotto il cielo privo di stelle. Esse brillano ovunque tranne che nella terra d’ombra, dove le polveri vomitate dall’Orodruin si adagiano come un manto che soffoca ogni luce.
Gil-galad percorre a passo svelto il sentiero sterrato fresco di costruzione, l’abitudine al comando che trapela da ogni gesto e il volto abitato da una calma quasi innaturale. Eppure gli occhi grigi sono gentili e raccontano di un animo benevolo se pur determinato, e nessuna scorta lo accompagna. Indossa una lunga tunica blu, l’armatura deposta per l’occasione, e un cerchietto d’oro sul capo a trattenere i lunghi capelli corvini, retaggio della sua stirpe come il titolo che sfoggia. Stella di radianza, Alto Re dei Noldor.
Dinanzi alla tenda del re di Boscoverde i silvani posti di guardia incrociano le lunghe lance, sbarrandogli il cammino. Non riconoscono la sua autorità ed egli si ferma, paziente. Non è giunto per aprire divisioni nella loro alleanza, ma è lì per parlare, se Elrond gli consentirà di farlo, e per capire.
Qualcuno scosta la spessa stoffa che protegge l’ingresso e il signore di Imladris si fa avanti, avvolto in una semplice veste grigia e l’aria stanca. Un suo cenno e le guardie si allontanano, permettendo a Gil-galad di raggiungerlo e testimoniando la fiducia che colui da cui prendono ordini ripone in Elrond nonostante la diversa discendenza.
Gil-galad non prova astio per questo, solo tristezza, ma il passato non si cancella e le colpe neppure. I Noldor hanno commesso errori che sono costati troppe vite per essere messi da parte, e il fatto che non tutti si siano resi colpevoli può sfuggire al giudizio di chi quelle colpe le ha subite. E può sfuggire il fatto che neppure i Sindar siano esenti da sbagli, anche se forse non altrettanto grandi se visti con il senno di poi. Di sicuro alcuni giorni prima un errore è stato commesso, e il nuovo re di Boscoverde non può non averlo capito. Indossa la corona in virtù di questo.
“Posso parlargli?”, domanda.
Elrond annuisce.
“Sì, mio signore, ma non a lungo.”
“Non ho intenzione di vanificare i tuoi sforzi, non temere”, lo rassicura Gil-galad, “Ma ho necessità di sapere su quante forze posso contare. La guerra non è vinta.”
“E’ tuo diritto. Seguimi.”
All’interno della tenda le lanterne aggrappate ai lunghi pali in legno spandono una luce calda che pare quasi animare il verde intenso dei tendaggi, mutandone le decorazioni in tronchi e foglie e le ombre danzanti nella carezza del vento.
Elrond scosta la stoffa leggera che delimita un’area appartata sul lato più lontano dall’ingresso, ed invita Gil-galad ad avvicinarsi. Il sovrano lo fa quasi con circospezione, mettendo da parte per un istante la fredda rigidità del re, e si ferma a pochi passi del letto.
Thranduil volge il capo nella sua direzione, lentamente, ma non mostra sorpresa nel vederlo. Sul suo volto non vi è alcun segno della battaglia sostenuta, nessuna escoriazione o ferita evidente, ma l’incarnato è troppo pallido e l’azzurro che da sempre conferisce alle sue iridi il chiarore del cielo terso di primavera sembra essersi arreso al grigio dell’inverno.  
Gil-galad esita, per la prima volta dubbioso delle proprie intenzioni. Forse avrebbe dovuto attendere ancora e concedere più tempo al re di Boscoverde.
Questi pare indovinare i suoi pensieri e solleva la mano, invitandolo con un gesto a prendere posto sullo scranno accanto a lui.
“Non temere”, lo rassicura, “Parlare con te non mi può causare più danni di quelli che ho già ricevuto. E lord Elrond ti caccerà via a forza se si accorgerà che stai esagerando. Siedi.”
La sua voce tradisce una profonda spossatezza, ma non è la voce di qualcuno che si è arreso. Gil-galad sorride e accoglie l’invito.
“Come ti senti?”, domanda.
“Vivrò.”
A breve distanza da loro Elrond ascolta in silenzio, intento ad ordinare con cura alcuni recipienti in legno. All’interno di essi si intravvedono foglie finemente sminuzzate, che Gil-galad è sicuro debbano possedere virtù terapeutiche ma che non conosce. Del resto non è lui il maestro di guarigione. Lui è soltanto un re ed un guerriero, e ha più dimestichezza con la morte che con la vita, tanto che ora si trova improvvisamente a corto di parole dinanzi al re di Boscoverde. Come domandare a qualcuno che ha già perduto troppo se è disposto a perdere altro? Ha visto ciò che è rimasto dell’armata silvana e il suo cuore ha mancato un battito davanti all’ecatombe delle paludi. Ma Sauron non è vinto e Thranduil lo sa. Gil-galad lo legge nel suo sguardo.
“Perdonami per non averti fatto visita prima, ma non è dipeso da me”, si scusa.
Chiamato in causa, Elrond rivolge ad entrambi un’occhiata gentile prima di ritornare alla sua occupazione. Sarebbe superfluo rimarcare che quel divieto non era dovuto ad un capriccio, poiché non c’è membro dell’alleanza che non sappia come il Reame Boscoso abbia rischiato di perdere due sovrani in un sol giorno.
“Ne sono convinto”, sorride Thranduil.
Gil-galad si lascia sfuggire un leggero sospiro e si costringe ad indossare di nuovo le vesti del re. Vorrebbe che quella fosse solo una visita di cortesia, ma tutti loro sanno che ciò non è possibile.
“Re Thranduil”, dice, scandendo il titolo come a voler sottolineare quel necessario cambiamento di ruolo, “Davanti al Morannon abbiamo vinto una battaglia, ma non la guerra. Re Amroth sta giungendo per prendere il comando di ciò che resta dell’esercito di suo padre. Non so ancora cosa egli intenda fare, ma ciò che mi preme è capire cosa hai intenzione di fare tu. Non sono qui per discutere delle gesta dei morti: non possono più parlare e ciascuno di noi può giudicarle in cuor proprio. Le perdite che la tua armata ha subito sono indicibili, me ne rendo conto, ma anche così ridotta può fare per noi la differenza. Non è questo il momento per costringerti ad una simile scelta, e vorrei non doverlo fare, ma questo lusso non mi è concesso.”
Thranduil ascolta in silenzio con lo sguardo smarrito nel vuoto, quindi abbassa le palpebre e per un istante chiude fuori il mondo. Non è il lusso di non rispondere quello che vorrebbe gli fosse concesso, bensì quello di dimenticare. Dimenticare il corpo martoriato del padre che è stato seppellito senza che egli potesse dirgli addio, dimenticare Fainion che gli ha regalato la propria vita e tutti coloro di cui non conoscerà mai il nome. Dimenticare, null’altro.
Una lunga pausa prima che il figlio di Orodreth parli di nuovo.
“Condurrai i silvani a Boscoverde, re Thranduil, o resterai al mio fianco?”, domanda.
Thranduil torna a guardarlo, le iridi che paiono aver ritrovato chissà dove il loro colore.
“I morti hanno le loro colpe, ma non credere che chi è rimasto in vita non ne abbia di proprie”, ribatte, “Mio padre ha commesso un errore imperdonabile ed Amdír non è stato da meno, ma mi domando se tutto questo non potesse essere evitato grazie ad una maggiore lungimiranza da parte dell’Alto Re dei Noldor.”
Elrond si volta, improvvisamente dimentico delle sue erbe.
“E’ dunque questa la tua risposta?”, chiede rigido Gil-galad.
Nel tempo di un battito di ciglia la sua voce ha perduto tutta la cortesia di pochi istanti prima, ma Thranduil non vi fa caso, quasi non lo avesse udito parlare.
“E da parte mia”, aggiunge in un sussurro.
Un’accusa rivolta a sé stesso che pesa più di quella indirizzata a Gil-galad.
Il signore del Lindon comprende e china il capo, il suo accenno d’ira spento sul nascere. Quanti morti, dagli Anni degli Alberi, ha provocato il male che Melkor ha sparso nel mondo, e quanti invece le incomprensioni che hanno messo fratelli contro fratelli? E quante di queste incomprensioni sono state generate dal malvagio Valar e dal suo servo?
“Non potevi prevederlo”, azzarda.
“Potevo invece, e potevi farlo tu”, lo corregge Thranduil, “Ed entrambi dovremo vivere sapendo questo.”
Di nuovo il silenzio, interrotto questa volta dalla voce di Elrond che pretende l’attenzione di Gil-galad.
“Deve riposare”, lo avverte.
Con un cenno di assenso il re dei Noldor si alza. Forse è stato troppo avventato cercare una risposta quando il lutto è ancora così vicino. Allunga la mano destra e abbozza un saluto, ma Thranduil lo ferma.
“Resterò al tuo fianco, ma come tuo pari”, dichiara, “Tu comandi i Noldor, solo i Noldor. Mio padre è morto, ma questo non è cambiato.”
Gil-galad resta immobile per un istante, la mano sospesa a mezz’aria, quindi la ritrae e solleva il capo.
“No, questo non è cambiato né io ho mai preteso di cambiarlo”, dice, “Ma Sauron è il nemico, e neppure questo è cambiato.”
Non si sofferma sul fatto che Thranduil neppure una volta si sia rivolto a lui usando il suo titolo. Quella rinnovata alleanza è già una vittoria inattesa e non intende metterla a rischio. E, soprattutto, non intende offendere il dolore del re di Boscoverde dando importanza a ciò che importanza non ha.
“Quando ti sarai ristabilito parleremo di tattica, e lo faremo da pari a pari”, aggiunge, “Per ora recupera le forze e, se posso permettermi un consiglio, concediti il tempo per piangere coloro che hai perduto. Le ferite del corpo sono le più facili a guarire.”
Quindi si volge e guadagna l’uscita.
“E’ un buon consiglio”, riconosce Elrond una volta che Gil-galad si è allontanato.
Thranduil non risponde e si abbandona contro i cuscini, la volontà di non apparire debole davanti all’Alto Re svanita e lo sforzo sostenuto che esige il suo tributo.
“Ti sono grato per ciò che hai fatto e che stai facendo”, sussurra, le parole appena distinguibili nel silenzio della notte, “Sono in debito con te.”
Elrond scuote il capo.
“Non hai alcun debito verso di me”, lo rimprovera con gentilezza, “Ma non sarò io a cercare di dissuaderti se ti fa piacere crederlo. Ora però devi dormire. Posso darti qualcosa che ti aiuti se lo desideri.”
Le parole di Elrond strappano a Thranduil un sorriso.
“No, cercherò di ricordare da solo come si fa”, lo rassicura, e chiude gli occhi sperando di non sognare.

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Note alla prima parte:
L’accenno iniziale all’inganno dell’immortalità è un chiaro riferimento a Fëanor e alla sua ribellione. Fainion (“figlio delle nuvole” in sindarin) è un personaggio di mia invenzione.

 

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Capitolo 2
*** Seconda parte: Gorgoroth ***


Gorgoroth



Amroth corre.
Corre da giorni, ormai, e ha quasi l’impressione di non essersi mai fermato da quando ha memoria. Tutto ciò che ha preceduto quell’attimo sembra svanito e il presente è ora la sua unica realtà, occupa ogni suo pensiero e si fa gioco della fatica bruciando il corpo e lo spirito con la stessa ferocia di una lama rovente.
“Tuo padre è morto, lord Amroth”, ha riferito il messaggero inviato dall’Alto Re, coperto di polvere e con l’orrore negli occhi.
“Come?”, ha domandato la sua voce mossa da volontà propria.
“Sul campo di battaglia, mio signore, insieme a re Oropher.”
Le sente ancora quelle parole, ogni istante più assordanti di prima, e gli pare di non udire altro da quando ha iniziato a correre, sfinendo non ricorda quanti cavalli e la scorta con essi.
Corre, Amroth, verso la tenda delimitata dalle alte bandiere percorse da intrichi di rami argentati, e non si accorge delle guardie poste all’ingresso finché le punte delle loro lance non toccano il velluto dei suoi abiti.
Si ridesta, allora, e fa un passo indietro. Un silvano, dai sottili capelli castani e con una vistosa cicatrice sul volto, si para dinnanzi a lui.
“Devo parlare con Thranduil!”, gli intima il nuovo re, e in un primo momento non comprende come mai l’elfo si irrigidisca sul posto e non accenni a spostarsi.
Poi un barlume di memoria si fa strada in lui ed egli lotta per trattenerne i frammenti.
Ha corso troppo, forse, e prima di balzare su quel cavallo per troppo tempo ha ascoltato solo la voce degli alberi, per troppo tempo ha respirato il profumo della terra e sognato di Nimrodel negli infiniti mondi danzanti tra pareti di rugiada. Ad ogni alba le gocce cadevano e le labbra di Nimrodel restavano lontane, finché tra un’alba e un tramonto suo padre è partito. Suo padre, che Nimrodel considerava così poco; suo padre, che è morto per il bosco e Nimrodel.
Non c’è rugiada sul Gorgoroth soffocato dalla polvere nera, non ci può essere rugiada sul filo di una lama rovente. Tornerà, forse, quando i rami lo abbracceranno di nuovo e quando Nimrodel gli racconterà dell’estasi che si prova bevendo la pioggia, ma ora non ci sono rami e la pioggia non cade.
“Chiedo di poter parlare con re Thranduil”, ripete, l’urgenza questa volta trattenuta.
L’elfo lo esamina per un momento, quindi gli volge le spalle e scompare oltre i drappi che nascondono l’ingresso. Amroth attende, immobile, finché non lo vede riaffacciarsi e scostare le stoffe invitandolo ad entrare.
D’impulso varca la soglia e si ferma dopo pochi passi. Si guarda intorno e per un lungo istante viene sopraffatto dalla sensazione di aver fatto ritorno nella propria terra. Confuso segue le curve del legno e si sazia del verde che gioca con esso, respirando lentamente quasi stesse inalando l’aria che accarezza le foglie del Lórinand. Non si accorge di colui che siede in un angolo sullo scranno accanto al braciere, il volto illuminato da guizzi di fiamma e gli abiti che brillano come argento tra l’erba.
“Benvenuto, re Amroth, nonostante le circostanze.”
Amroth si gira di scatto in direzione della voce, e la realtà gli rovina addosso insieme a quel titolo associato al suo nome. Re Amroth, perché re Amdír non è più.
Subito l’illusione svanisce ed egli cerca lo sguardo del re di Boscoverde.
Non ha mai incontrato il figlio di Oropher prima di adesso, poiché egli ha eletto da sempre i boschi a sua dimora mentre Thranduil ha preferito alla vita silvana la corte di un Noldor. Eppure Amroth  sa che colui che lo sta osservando non ha mai nutrito simpatia per i Noldor.
“L’erede di Boscoverde è come un seme che non può crescere all’ombra di alberi troppo invadenti”, gli disse secoli addietro Amdír, quando egli lo interrogò sul perché di quella scelta, “Ha bisogno di vedere il cielo per poter germogliare e divenire egli stesso albero.”
Al ricordo di suo padre il cuore rischia di fermarsi.
“Come è morto?”, irrompe dimenticando le formalità, “Tu eri là.”
Thranduil non risponde, ma solleva una mano ed indica il seggio posto dinanzi a lui.
“Siedi, re Amroth, e riposa un istante. Hai viaggiato a lungo e sei stanco.”
Amroth annuisce quasi senza rendersene conto ed accoglie l’invito, ma ripete la domanda. Ha corso troppo per attendere ancora e pare che Thranduil ne sia consapevole, poiché inizia a parlare non appena egli ha preso posto.
“Mio padre non ha rispettato quanto era stato stabilito, ha anticipato l’attacco e ha condotto verso la morte oltre metà del nostro esercito”, gli riferisce con voce bassa, “Re Amdír lo ha seguito, ma è rimasto indietro ed è stato spinto verso le paludi. Egli è morto insieme a quasi tutti i suoi silvani, ma se mi domandi come ciò sia accaduto non so dirtelo. Non ero al suo fianco.”
Amroth serra le palpebre e deglutisce a vuoto, cercando di resistere al dolore che all’improvviso lo sommerge come un fiume in piena e insieme al quale riprende a fluire la sua vita.
“Dov’è il suo corpo?”, riesce a domandare a fatica.
Per un tempo infinitesimo Thranduil sembra esitare.
“Nelle paludi”, dice quindi, “Lo hanno cercato, ma gli acquitrini non rendono mai ciò che hanno preso.”
Amroth si accorge di avere difficoltà a respirare e sussulta quando Thranduil si china accanto a lui e gli porge un calice pieno. Non aveva notato che si fosse alzato.
“Bevi”, lo sente sussurrare.
Improvvisamente arso dalla sete gli strappa il bicchiere di mano e lo svuota tutto d’un fiato, come se dal suo contenuto dipendesse la vita stessa. Il vino lambisce i suoi pensieri facendoli apparire più distanti, ma quando essi riacquistano consistenza si accorge che bruciano forse più di prima.
“Hai già seppellito tuo padre?”, chiede.
Thranduil prende il calice e lo appoggia sul tavolo vicino, facendosi spazio tra mappe arrotolate e fogli ricoperti da una scrittura fine e leggera.
“Altri lo hanno fatto per me”, risponde.
Amroth sa che anche Thranduil ha perso molto e che non può non soffrire almeno quanto lui, ma dalla sua voce traspare ben poco. E’ difficile riconoscere Oropher in colui che ha di fronte. La cadenza con cui parla è estranea alla lingua silvana, quel nervosismo nei gesti che distingueva il re deceduto è assente in lui ed anche dell’impulsività che era in suo padre non vi è traccia. Guardandolo egli si domanda se quell’atteggiamento faccia parte di lui o se non sia invece il frutto della vita trascorsa alla corte di Gil-galad, nei palazzi abitati da coloro che si arrogano il diritto di cambiare il mondo e dove non sempre è saggio svelare sé stessi. Amroth si lascia sfuggire un sospiro, incerto se attribuire quei pensieri al proprio sentire o a quello di Nimrodel. Li confonde spesso, ultimamente.
“Perché?”, vuole sapere.
“Io non potevo”, risponde Thranduil, e non aggiunge altro.
Questa volta la sua voce lascia trapelare una nota amara, che sorprende Amroth e che lo spinge ad osservarlo con maggiore attenzione. Lo vede sedere di nuovo, adagio, una mano appoggiata sul fianco e troppa attenzione nei movimenti perché possano essere considerati naturali, e comprende.
Comprende, e l’immagine di suo padre esanime si sovrappone senza alcuna ragione apparente a quella del re di Boscoverde.
Si alza e si precipita fuori in cerca di aria, ma quando tenta di riempire i polmoni la polvere sottile che piove dal cielo gli ferisce la gola e lo costringe a tossire violentemente. 
“E’ l’Orodruin”, sente Thranduil sussurrare alle sue spalle, “Le sue esalazioni avvelenano il cielo e la terra.”
Un lungo silenzio, durante il quale egli arriva a convincersi che se ne sia andato, ma poi la sua voce ritorna, questa volta forte e chiara.
“La tua gente ti sta aspettando. C’è una tenda pronta ad accoglierti. Riposa e decidi. Nessuno ti obbliga a restare e nessuno ti intima di andare, ma sappi che questa guerra non finirà domani.”
Quando Thranduil torna a tacere egli si volge e alza gli occhi.
“Tu resterai?”, chiede.
“Sì”, conferma questi.
Una scelta maturata da tempo, intuisce Amroth.
In un gesto dettato dall’abitudine si passa una mano tra i lunghi capelli e si sorprende nel ritrovarli dello stesso colore della cenere. Si guarda intorno e sobbalza alla vista delle lande desolate che si estendono sino all’orizzonte, quasi le scorgesse in quel momento per la prima volta. Le ha attraversate cavalcando giorno e notte, ma correva troppo veloce per riuscire a vederle davvero.
“Parlerò con l’Alto Re”, dice.
Thranduil si sofferma ad osservarlo per un istante, quindi annuisce e rientra nella tenda a passi lenti.
Immobile accanto all’ingresso, solo ora Amroth si accorge delle lacrime che gli rigano il volto, le prime da quel giorno, ma non cerca di fermarle. Piangere, a volte, è il primo passo che la guarigione richiede.

 
***
 

Ci sono molte cose che mancano sull’altopiano del Gorgoroth, e una di queste è l’acqua. Le linee di rifornimento che fanno la spola tra le terre fertili e i campi degli assedianti trasportano quella necessaria per il sostentamento degli eserciti, ma non possono sostituire né i fiumi né la pioggia. E Sauron lo sa, come sa che spegnere gli incendi usando la sabbia scura che ricopre la terra non è né facile né veloce. Per questo i suoi incursori scivolano come ombre nelle notti più nere e colpiscono laddove le sentinelle falliscono nell’individuarli. E dove questo accade il fuoco divampa e altre vite vanno perdute.
Thranduil osserva il corpo quasi interamente carbonizzato che giace ai suoi piedi. Si china accanto ad esso ed afferra il lembo di un tessuto miracolosamente sfuggito al rogo. Se non fosse per le insegne ancora intatte ai margini del campo non saprebbe dire se colui che giace privo di vita sia un elfo o un mortale. Il fuoco ne ha divorato il volto cancellandone i tratti. In silenzio lo copre e  si alza, lasciando vagare lo sguardo sui resti contorti delle tende ancora avvolte dal fumo. Le fiamme sono state spente, come ogni volta, ma come ogni volta qualcuno ha pagato quell’errore.
“Lo conoscevi?”, domanda Gil-galad accennando a chi è ormai cadavere.
“No.”
Quando le sentinelle hanno dato l’allarme si trovavano entrambi nella tenda dell’Alto Re, intenti a discutere su quale via seguire per muovere ancora più avanti la linea d’assedio. Sono usciti insieme, precipitandosi verso il bagliore che ha squarciato la notte, ed arrivando come sempre troppo tardi.
Hanno trovato Amroth, intento a ridefinire la disposizione degli osservatori per chiudere quella nuova falla, e hanno preferito rimandare a dopo le domande. Sono i suoi silvani usciti vivi dalle paludi ad essersi assunti quel compito, perché sono troppo pochi per formare un esercito e perché i loro archi sono quelli che arrivano più lontano. 
“Sono già trascorsi cinque anni”, sussurra l’Alto Re, il capo leggermente abbassato e un lampo di rabbia nello sguardo, “Questo assedio sembra non avere mai fine.”
Thranduil rinfodera la spada.
“Elrond direbbe che non è saggio per un re mostrarsi insicuro”, dice.
“Elrond direbbe che non è saggio per un re mostrarsi insicuro dinanzi al suo popolo”, lo corregge Gil-galad, e quasi sorride pur senza alcuna allegria.
A volte Thranduil ancora si sorprende di quanto la presenza del figlio di Orodreth sia divenuta per lui famigliare e di quanto sia ormai facile evitare formalità e finzioni in sua compagnia.
“Questa non è una via che può essere percorsa in entrambi i sensi”, riflette, “Si può andare soltanto avanti.”
L’Alto Re si concede un sospiro e con un gesto deciso pianta l’asta di Aeglos nella terra arida. Sospesa a mezz’aria la punta ondeggia nel buio della notte, quasi fosse un fuoco fatuo troppo nervoso e troppo brillante.
“Mi manca il mare”, confessa d’un tratto, e per un attimo Thranduil si convince di aver solo immaginato quelle parole.
Ma Gil-galad continua, la sua voce un po’ più alta di prima.
“Nell’Ossiriand, quando Ulmo agita le onde, si respira ovunque il sentore di sale e se lo segui arrivi sin dove il mare incontra la terra. Puoi sederti sulla sabbia, allora, e aspettare che il sole tramonti, e in quella luce che muore, tra la spuma che danza sui flutti, hai quasi la sensazione di scorgere il riflesso di Aman. Non è così, lo so, ma quella fantasia mi manca come non mai. E a te, Re Thranduil, cosa manca?”
Vi è una quiete innaturale in quei luoghi quando ogni suono tace, una quiete che spaventa e in cui riecheggia il silenzio denso che avvolge i morti lasciati a marcire sui campi di battaglia. Thranduil è sicuro che sia questa una delle ragioni per cui sul Gorgoroth nessuno cerca la solitudine.
“Solo una volta visitai Boscoverde, prima che mio padre lasciasse Amon Lanc”, ammette, “Durante le notti mi allontanavo spesso dagli insediamenti per camminare tra gli alberi. Erano alti ed antichi e coprivano il cielo con le loro fronde. L’aria era satura del canto delle stagioni e l’acqua era dolce come linfa, e talvolta tra le foglie le stelle scendevano a salutarmi. Avrei creduto che sarebbero stati gli agi della vita che condussi lontano da lui a mancarmi, e invece mi manca quel bosco con le sue stelle. Mi manca ora, e non so perché.”
Non si ritrae quando avverte la mano di Gil-galad posarsi lieve sulla sua spalla, fermarsi per il tempo di un respiro ed abbandonarla dopo averla appena sfiorata. 
“Lo rivedrai”, lo sente dire.
“E tu rivedrai il mare”, gli fa eco lui, volgendosi e abbozzando un sorriso.
Da anni, ormai, ha dimenticato come si sorride davvero e forse lo ha dimenticato anche Gil-galad.
Lo vede annuire mentre chiude le dita intorno all’asta di Aeglos, estraendola dal suolo ed allontanandosi a passo lento.
Thranduil getta un’ultima occhiata a ciò che resta del campo e lo segue.
Nessuno ama rimanere solo sul Gorgoroth.

 
***
 

I capelli bagnati adesi alla pelle, il sudore impastato con la polvere, gli occhi che bruciano per le esalazioni venefiche della montagna di fuoco e il tormento continuo della sete, che gli sembra di non riuscire mai a spegnere nonostante beva senza ritegno: è questo ciò che occupa i pensieri di Anárion, mentre inveisce contro l’ennesima roccia che ha bloccato l’avanzata della macchina d’assedio. Eppure è il sudiciume che imbratta ogni cosa a dargli più fastidio, più delle frecce che piovono dall’alto e che ormai non sono altro che uno sporadico disturbo.
Si porta le mani sui fianchi e accompagna con lo sguardo l’alta figura di Gil-galad mentre si allontana nella sua armatura dorata, non un rivolo di sudore sul volto, non un minimo accenno di disagio. Gli elfi non sentono ciò che lui sente. Li ha veduti ricoperti di sangue e di fango, eppure essi non subiscono come i mortali gli effetti di quel luogo maledetto. Nei primi nati la terra di Mordor tralascia l’apparenza e adombra lo spirito, spegnendone la luce pian piano e rendendo meno vivide le stelle che abitano le iridi dei più antichi tra loro.
Inveisce di nuovo, enfatizzando le parole con un calcio ben assestato alla ruota che non vuole saperne di muoversi. Devono fare in fretta. Il sole sta per tramontare oltre la cappa di fumo che pesa su di loro, ed entro breve non si vedrà ad un palmo dal naso.
“Togliete di mezzo questo masso, subito!”, urla rivolto a chiunque riesca ad udirlo, e si allontana ad ampie falcate.
Guidato dall’abitudine si inerpica lungo lo stretto sentiero che serpeggia tra scure lame di roccia e raggiunge il più vicino punto di osservazione.
Appena sotto di lui i soldati della guarnigione stanno già lavorando con pali e picconi nel tentativo di rimuovere il masso nel più breve tempo possibile. Anárion è spesso rude con loro, ma dopo sei anni di guerra al loro fianco li conosce ormai tutti per nome e ha sentito qualcosa rompersi dentro di sé ad ogni uomo perduto. E di guerre,  Anárion, ne ha combattute molte, forse troppe.
Giunto in prossimità del punto più alto si ferma e segue con lo sguardo i contorni neri delle mura di Barad-dûr, che incombe immensa su di loro. Sembra irridere i loro sforzi la torre oscura, ma ogni giorno che passa le maglie dell’assedio si stringono sempre di più e gli orchi sono costretti a divorare i cadaveri perché niente le attraversa.
Cadrà presto, Anárion lo sente. Presto Sauron farà l’ultima, disperata mossa e le sorti della Terra di Mezzo verranno decise. E lui sarà là, e farà tutto ciò che può per nutrire la propria spada con le sue carni e con le sue ossa. Lo deve alla sua terra, lo deve ai suoi uomini morti, lo deve a sé stesso e a ciò che ha sacrificato a causa sua. Lo deve a sua moglie e ai suoi figli.
Si passa una mano sul viso, cercando di dare sollievo agli occhi stanchi e arrossati.
“Dobbiamo completare il nuovo fronte prima di sera”, gli ricorda Elendil, seduto sul costone a pochi passi da lui, Narsil distesa al suo fianco e tra le mani due ciotole di cibo.
“Ce la faremo.”
Il re non aggiunge altro, ma offre al figlio la ciotola non ancora toccata e lo invita con un cenno a prendere posto accanto a lui.
In silenzio Anárion si toglie l’elmo ed affianca il padre.
Sta per portarsi alle labbra l’ultimo boccone quando le voci concitate che giungono dal basso lo costringono a rinunciare. Si rimette in piedi con un sospiro e si allontana, ed Elendil quasi sorride quando lo vede indossare nuovamente l’elmo in un gesto rassegnato.
Non avrebbe voluto che i suoi figli fossero stati costretti ad affrontare gli orrori di Mordor, così come non avrebbe voluto tante altre cose, ma raramente è dato scegliere in tempi come quelli.
Raggiunta la catapulta Anárion vede il capitano venirgli incontro. E’ un uomo basso e tarchiato, con più cicatrici in volto che capelli in testa, ma al quale affiderebbe la propria vita senza pensarci due volte.
“Cosa succede?”, domanda.
“Non è un masso, signore, ma un affioramento roccioso che scende in profondità. Dobbiamo aggirarlo.”
Anárion scuote il capo. Fortunatamente le postazioni di difesa nemiche sembrano poco attive e quello è l’unico inconveniente che hanno incontrato quel giorno. Tutte le altre macchine sono già state riposizionate e, in fin dei conti, quella è stata una giornata fortunata.
“D’accordo”, concede, “Iniziate ad arretrare.”
L’uomo non se lo fa ripetere, si allontana a passo svelto e non si accorge di nulla. Non se ne accorge lui, non se ne accorgono coloro che ancora imprecano intorno all’ostacolo e non se ne accorge Anárion. Se ne accorge Elendil, invece, ma il suo grido di avvertimento arriva insieme al proiettile che piomba dall’alto e che non cade dove dovrebbe.
Il masso manca l’obiettivo che avrebbe voluto mandare in pezzi e colpisce il terreno lievemente inclinato, scivolando senza che nulla lo trattenga sino ad Anárion e impattando poi contro la vicina parete.
Quando Elendil arriva alla fine del sentiero solo il silenzio lo accoglie. Il silenzio, e l’orrore stampato sui volti dei presenti.
Si ferma, il corpo spezzato che era una volta suo figlio mescolato con la terra e col sangue e la corona di Minas Arnor aperta in due. Si ferma, e la sua vita si ferma con lui.

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Note alla seconda parte:
La storia d’amore che vede protagonisti Amroth e Nimrodel si conclude tragicamente nell’anno 1981 della Terza Era. Nimrodel viveva nel Lórinand sin da prima dell’arrivo di Amdír. In questo racconto ho supposto che l’incontro con Amroth sia avvenuto poco prima dell’inizio della guerra tra Sauron e gli eserciti dell’Ultima Alleanza.

 
 

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Capitolo 3
*** Terza parte: Barad-dûr ***


Barad-dûr (3441 S.E.)


Per sette anni uomini ed elfi hanno stretto Sauron nella loro morsa, assediando il suo ultimo rifugio e guadagnando terreno giorno dopo giorno. Molti sono morti, arsi vivi nei roghi appiccati dagli incursori o trafitti dai dardi, e la stanchezza si è insinuata negli animi strisciando silenziosa insieme alla paura, ma l’alleanza ha resistito e l’anno 3441 della Seconda Era sta per volgere al termine.
Di nuovo l’inverno imperversa malsano nella terra d’ombra, senza pioggia né vento, e la cenere sottile ammorba l’aria con più insistenza di prima, scendendo grigia e spegnendo ogni colore. Solo il rosso delle fiamme che nascono e muoiono resiste, quasi a voler ricordare che c’è un altro mondo oltre le alte catene di monti, dove la pioggia cade, il vento soffia e il cielo regala la neve, e dove le stagioni non sono riflessi confusi che nessuno riuscirebbe più a riconoscere. Stagioni di cui nessuno avrebbe mai creduto di poter sentire una tale nostalgia.
In piedi intorno al tavolo gremito di mappe logore e rischiarato dalle fiamme guizzanti del fuoco, i signori dei popoli liberi della Terra di Mezzo alzano lo sguardo di scatto allo squillo improvviso dei corni.
Volgono il capo in direzione dell’ingresso e seguono l’alta figura di Círdan mentre lo varca e si avvicina a Gil-galad. Ha il fiato corto e la sua voce rivela un’inquietudine che gran parte dei presenti avrebbe giurato egli avesse per sempre perduto insieme alla giovinezza.
“Barad-dûr è illuminata a giorno da centinaia di torce”, riferisce, “Sta accadendo qualcosa.”
Prima che l’Alto Re possa proferire parola, Elendil raccoglie la cintura di cuoio a cui è appeso il fodero che custodisce la sua spada e la indossa con gesti esperti. Narsil ha mietuto vittime ogni giorno in quei sette anni di assedio, e si dice ormai che sia sufficiente che il re dei Reami in Esilio la sguaini per spargere il terrore tra le orde nemiche.
“Dobbiamo sapere cosa”, dichiara, e si allontana accompagnato da Isildur senza attendere il consiglio di alcuno.
Gil-galad fissa per un istante l’angolo vuoto precedentemente occupato dal re degli uomini. La perdita del secondogenito Anárion è calata come un’ala nera sul suo cuore, inasprendone il carattere e rendendo rare le sue parole, ma egli non è né stolto né avventato e non vi è ragione per impedire che vada.
“Raddoppia la sorveglianza”, ordina a Círdan, “Chiunque sia in grado di combattere si tenga pronto a farlo.”
Questi annuisce ed esce seguito da Glorfindel.
Unico tra di essi a non indossare mai l’armatura durante i loro incontri, Thranduil contempla il lento movimento del vino che ondeggia nel calice stretto tra le sue dita. Si ferma e ne inala il profumo dalle mille fragranze, quindi solleva la mano e beve un piccolo sorso.
Gil-galad lo osserva compiere quel gesto che ha imparato essere per lui consueto e il fantasma di un sorriso aleggia sul suo volto. Non è il vino fermo che egli ama quello che sta gustando il re di Boscoverde, ma il dorwinion, un concerto di aromi che nasce in terre straniere e che ha per lui il sapore delle cose troppo complesse.
Quando gli domandò come mai si liberasse sempre della corazza alla prima occasione, egli rispose che lo faceva perché altrimenti avrebbe dimenticato che esisteva altro oltre alla guerra, e quello fu il giorno in cui si rese conto di quanto Thranduil differisse da Oropher. Per secoli lo aveva incontrato alla propria corte, eppure non aveva mai saputo chi egli fosse prima di allora. Forse non era amicizia quella che era nata tra loro durante quei lunghi anni di guerra, ma di sicuro il rispetto ne faceva parte e con esso la fiducia. Molte volte si erano protetti a vicenda, molte volte Aeglos aveva trafitto qualcuno che si avvicinava troppo alle postazioni dei silvani e altrettanto spesso le frecce degli elfi di Boscoverde avevano spianato la strada ai Noldor. Combattevano in modo diverso sul campo di battaglia, agili e veloci come nessun altro i primi e possenti come un fiume in piena i secondi, eppure ora Gil-galad non avrebbe saputo più dire chi tra di loro primeggiasse e, se possibile, odiava ancora di più Sauron per aver gettato il seme della discordia tra i popoli di Arda.
“Temo che dovrai cambiarti di nuovo d’abito, re Thranduil”, dice.
Thranduil non risponde e non si volge, ma a Gil-galad non sfugge la piega appena accennata che le sue labbra assumono mentre depone il calice ancora mezzo pieno. Non si sarebbe mai aspettato di poter un giorno scherzare con il figlio di Oropher, ma la guerra rivela spesso ciò che la pace non può, nel bene e nel male.
Alle sue spalle, abbandonata contro il trono di legno, Aeglos rifulge tra le ombre come una lingua di fuoco bianco.
 
***

Quando il sole si affaccia ad oriente, rendendo un po’ meno nera la tenebra che avvolge perennemente l’altopiano di Gorgoroth, le forze dell’Oscuro Signore si riversano in massa fuori dalla fortezza sciamando come un morbo che corrompe la terra.
I servi di Sauron non seguono alcuna strategia. Il loro unico scopo è quello di spezzare l’assedio e la forza bruta è tutto ciò di cui ormai dispongono. Non ci sono dardi di fuoco che piovono sull’alleanza, perché essi hanno esaurito molto di ciò di cui disponevano agli inizi e niente ha superato la linea di sbarramento imposta dagli assedianti: niente armi e niente rifornimenti, e anche gli orchi hanno bisogno di legno e metallo per fabbricare frecce e di cibo per sopravvivere.
Gli scudi e le picche dell’esercito di Elendil reggono il primo impatto e, quando le file si aprono, gli attaccanti incontrano le lunghe lance degli elfi e gran parte di loro finisce mietuta prima ancora di imbattersi in una spada avversaria. Contemporaneamente le ali dello schieramento alleato si serrano sui fianchi di quello nemico, schiacciandolo. Nelle retrovie e in posizione sopraelevata, i silvani scoccano frecce senza concedersi tregua e non sbagliano mai. Sull’esempio dei fratelli del Lórinand hanno modificato gli archi, ora più lunghi e dotati di maggiore portata.
Per l’ennesima volta Thranduil ordina ai suoi arcieri di ricaricare e tirare. Ha avuto anche troppo tempo per studiare il terreno e non si aspetta sorprese. E, almeno all’inizio, di sorprese non ve ne sono.
Le forze di Sauron non solo non riescono ad avanzare, ma vengono costrette a retrocedere e il loro numero si assottiglia sempre più.
Tutto sembra volgere al meglio quando, inaspettatamente, la tenebra si infittisce di nuovo. Un boato sordo sovrasta il clangore dello scontro e l’Orodruin inizia ad eruttare fuoco con una violenza insolita, squassando rabbiosamente la terra. Costoni di roccia franano tra nuvole di polvere e profonde voragini serpeggiano attraverso il terreno, inghiottendo chiunque vi si trovi accanto.
Thranduil osserva sgomento dita di fiamma scavare i fianchi del Monte Fato e colonne di fumo innalzarsi oltre il cielo di pece, quasi a voler raggiungere il sole nascosto per estinguerne il fulgore. Non gli occorre molto tempo per rendersi conto della precarietà della loro posizione. Costringendo la voce a vincere le grida che si levano dal campo di battaglia, ordina agli arcieri di allontanarsi dalle pareti e di portarsi al livello inferiore.
Dinanzi a Barad-dûr le forze dell’alleanza continuano a fare strage di orchi e di uomini scuri e forse non si accorgono subito di ciò che esce dalla torre, ma Thranduil si trova in una zona sopraelevata e ciò che appare ha il potere di mutare il suo sangue in ghiaccio.
Non si concede alcun istante di attesa questa volta, il terrore per la sorte dei compagni che domina ogni altra emozione, e grida ai silvani di seguirlo mentre si precipita giù per lo scosceso pendio.
Contro colui che è sceso in campo brandendo metallo nero e avanzando come un lembo strappato alla notte più scura le frecce non servono a nulla, ma forse le spade possono qualcosa. Forse, o forse la fine di tutti loro è davvero giunta.
Mentre procede Thranduil vede le propaggini avanzate guidate da Elrond e Glorfindel tornare sui propri passi e formare un tutt’uno con le armate di Elendil e Gil-galad, ora fuse in un unico esercito. Le forze nemiche, invece, non si riuniscono intorno al loro signore, ma si allontanano da lui come se lo temessero quasi più di quanto temano il nemico. E non occorre molto per comprendere le ragioni di quel singolare comportamento.
Una guarnigione di eldar viene a trovarsi senza volere tra Sauron ed il grosso delle forze alleate e, audacemente, attacca. Il signore di Mordor solleva l’enorme mazza irta di chiodi che stringe nella mano destra e la abbatte su di loro, frantumando corpi e armature come fossero granelli di sabbia in balia del mare.
Thranduil si impone di non riflettere, perché qualunque considerazione in quel momento porterebbe chi è sano di mente a fuggire in cerca di salvezza e non a gettarsi tra le braccia della morte. Avanza soltanto, uccidendo chiunque gli sbarri il cammino e raggiungendo il primo fronte quando ormai l’arma di Sauron è lorda del sangue di uomini ed elfi.
Tra i saggi si dice che il coraggio non consiste nel non provare paura, ma nel trovare in sé stessi la forza per dominarla e per fare ciò che si deve. E in questo momento, sull’altopiano del Gorgoroth, non vi è creatura che non provi paura.
Cercando di mantenere il tono saldo Thranduil comanda ai silvani di appostarsi e di usare gli archi. Forse, da distanza ravvicinata, potrebbero avere qualche possibilità di successo. Piogge di dardi tempestano il signore oscuro, ma questi neppure vi fa caso, e il re di Boscoverde infine desiste ed ordina di mirare ai suoi servi. Almeno così le frecce non andranno sprecate. Lascia gli arcieri a fare il loro lavoro e si allontana accompagnato dai suoi migliori guerrieri, ma non giunge in tempo per incrociare le spade con il nemico. Gil-galad ed Elendil lo hanno preceduto e stanno attaccando insieme l’antico male, figlio indiretto di quella nota stonata con cui Melkor corruppe la musica degli Ainur quando né tempo né spazio ancora esistevano.
Thranduil vede l’Alto Re impegnare Sauron in duello senza mostrare alcuna esitazione, gli occhi freddi ed antichi e l’odio incanalato nella furia lucente di Aeglos, e per la prima volta comprende a cosa Gil-galad debba il suo nome. Ne riconosce il coraggio e il valore e, per la prima volta, lo ammira.
Quando il re elfico fallisce nell’evitare l’ennesimo colpo e scivola nella polvere perdendo lo scudo, Thranduil strappa l’arco dalle mani del più vicino tra i silvani e scocca la freccia con tutta la forza che ha in corpo. Nessuno, né lui né altri, saprà mai se è per merito suo che Sauron indugia quel tanto che basta da permettere ad Elendil di bloccare l’assalto, ma poco importa. L’oscuro signore cambia bersaglio e Gil-galad scatta in piedi, cogliendolo alla sprovvista e penetrando con la lancia laddove le placche della corazza si uniscono al centro del petto. Aeglos geme quando apre il metallo ma non si ferma, mentre Elendil libera Narsil ruggendo la sua rabbia e gli trancia di netto i tendini della gamba destra. Sauron crolla in ginocchio e Thranduil ha l’impressione che un raggio di sole sia riuscito a vincere la sua sfida con il Monte Fato e ad illuminare i contendenti.
Promette a sé stesso che, quando tutto sarà finito, renderà i dovuti onori all’Alto Re dei Noldor e al re degli uomini che lo ha affiancato con dignità.
E così, quando accade, egli quasi non crede che la scena dinanzi a lui sia reale. Sauron solleva la mazza e con disumana violenza colpisce in pieno Elendil, sbriciolando Narsil alzata a difesa e schiacciandolo contro il terreno roccioso. Non si preoccupa di recuperare l’arma e la lascia lì, sul cadavere insanguinato del Re di Arnor e di Gondor, quindi si volta troppo velocemente perché Gil-galad possa allontanarsi in tempo, lo afferra per la gola e stringe.
A Thranduil, ormai vicinissimo, pare quasi di udire le ossa del collo che si spezzano come legno secco e il sospiro della vita che abbandona quel corpo per librarsi al di là del mare. Non paga la mano di Sauron, ora ardente, brucia le carni dell’involucro ormai vuoto che ancora tiene sollevato da terra, eppure Aeglos non si arresta. Arroventata, prosegue la sua corsa come guidata da una volontà invisibile e raggiunge il cuore. Solo ora, finalmente, si quieta. Sauron vacilla e lascia la presa, ma non muore come un figlio di Arda. La nera armatura si disgrega come fosse composta da tenebra e aria e il suo spirito ulula sulla piana allontanandosi e disperdendosi oltre l’orizzonte, mentre un vento improvviso si alza ed atterra i meno forti tra loro. Gli ultimi orchi si danno alla fuga e solo ora Thranduil si accorge della presenza di Elrond.
Quasi irriconoscibile ma apparentemente illeso, si avvicina a colui che fu amico e re e si inginocchia accanto a ciò che ne resta, il capo chino e le lacrime silenziose che tracciano scie chiare attraverso la polvere che ne insudicia il volto.
Thranduil si porta una mano al viso e non si sorprende quando si accorge che è bagnato, e quasi non fa caso ad Isildur che solleva il moncone di Narsil e che taglia il dito di Sauron, reclamando l’Unico Anello per sé.
 
***

Sulla sommità della collina Thranduil spinge lo sguardo oltre la leggera bruma che ricopre gli acquitrini addormentati … le Paludi Morte, le chiamano ora, silenziose custodi di errori e follie e monito per coloro che verranno.
Quei sette, interminabili anni si sono insinuati in lui come le invisibili fratture che nel tempo minano la resistenza dell’acciaio, rendendo la lama fragile nonostante in apparenza nulla sia cambiato.
Si sente fragile in questo momento il re di Boscoverde il Grande, stanco come una lama troppo vecchia, eppure il mare non lo sta chiamando e l’occidente continua a rimanere per lui soltanto il luogo ove naufraga il sole. Le troppe vite perdute hanno dilatato quegli anni rendendoli lunghi come secoli e le lacrime sono finite senza lasciare nulla, neppure il desiderio di partire. Il domani è un’immagine sbiadita su cui il passato getta lunghe ombre, e tra le quali neppure i più saggi riescono a discernere.
Ed egli non si è mai ritenuto saggio.
Eppure, quel giorno, ha compreso qualcosa che sembra essere sfuggito a chiunque altro, persino a coloro che in più occasioni hanno dato prova di esserlo. Uomini ed elfi credono che Sauron non tornerà, ma Thranduil sa che l’oscuro signore di Mordor segue l’Unico con la stessa ossessione con cui uno spettro brama l’oscurità. Le correnti che ne hanno disperso le spoglie ai quattro angoli del mondo hanno mormorato parole sull’altopiano del Gorgoroth, e quelle che sono giunte a lui non sono state parole di addio. Isildur si è dimostrato stolto e, prima o poi, tutti loro dovranno affrontare le conseguenze della sua scelta sconsiderata.
Nel frattempo vi sono errori commessi da altri a cui riparare e ferite profonde dalle quali, forse, guarire.
“Non ho mai immaginato il mio futuro assiso in trono”, confessa, quasi si stesse rivolgendo a sé stesso.
Stringe la corona tra le dita della mano destra, il braccio disteso lungo il fianco e l’apparenza delle responsabilità deposta per un istante.
A pochi passi da lui, Elrond abbassa le palpebre per la durata di un respiro. Il vento corre lungo i crinali dei monti e gioca con i suoi capelli, sollevando strali neri come la notte più cupa.
“E’ sciocco pretendere di ottenere solo ciò che si desidera”, dice.
Il re di Boscoverde non ha bisogno di porre domande per rendersi conto che, in quel momento, il signore di Imladris è tornato ai piedi di Barad-dûr, accanto al corpo di Gil-galad riverso tra la polvere. Lo rivede anche lui, a volte, e a volte rivede ancora suo padre.
“I ricordi per i mortali sbiadiscono con il tempo, e talvolta vorrei che fosse così anche per noi.”
Elrond si volge e sorride, perché il dolore non lo ha reso meno cordiale e i suoi modi possiedono ancora il tocco gentile della primavera.
“Talvolta, re Thranduil, solo talvolta. Ci sono ricordi che vorremmo cancellare, ma altri ci sono cari e forse i mortali, che sperimentano ciò che noi non possiamo, preferirebbero preservare vividi entrambi.”
Thranduil annuisce e sorride anch’egli, ma non finge che quel sorriso nasca dal cuore. Ha la sensazione che siano trascorsi secoli dall’ultima volta in cui è stata la gioia a curvare le sue labbra, e ormai teme di non essere più in grado di accoglierla in sé.
In alto, nel cielo terso, un gabbiano sfreccia verso sud disturbando la calma innaturale di quei luoghi con il suo garrito, così lontano dal mare eppure intenzionato a farvi ritorno. Il re ne rincorre la sagoma scura, quasi fosse il fantasma di un pensiero restio a tradursi in parole, e quando la vede confondersi con l’orizzonte comprende.
“Sei il suo erede”, sussurra, “Ma non ne assumerai il titolo.”
Elrond pare riflettere, ma la scelta è già stata compiuta e forse ciò è avvenuto anni addietro. Il signore di Imladris pondera sempre le proprie azioni e una decisione di tale portata non può essere stata dettata dalle sole emozioni.
“Non è più tempo per gli Alti Re dei Noldor, e neppure io ho mai immaginato il mio futuro assiso in trono”, confida.
Thranduil annuisce, alza la corona e la osserva per un lungo istante in una muta, definitiva accettazione, quindi se la pone sul capo e distoglie lo sguardo dall’orizzonte. I rami d’argento cingono la sua fronte nell’abbraccio degli alberi del bosco ora suo, quel bosco di cui ha visitato solo le estremità meridionali in un passato che appare confuso come i ricordi dei mortali, ma di cui mai sul Gorgoroth ha cessato di udire il richiamo.
“Saresti stato un buon re”, afferma voltandosi verso Elrond, la voce salda e negli occhi ancora l’illusione del sorriso che si è concesso poco prima.
Solleva la mano e se la porta al petto, palmo aperto contro la sontuosa veste che ha sostituito l’armatura indossata per anni, e il capo abbassato in segno di rispetto.
Elrond imita il suo gesto, ma china la fronte un poco di più e sorride un poco di più, perché l’unica corona che non può rifiutare è fatta di virtù e non richiede che vi si renda omaggio.
“Possa tu percorrere sempre verdi sentieri, re Thranduil, e possa il tuo bosco ridarti la pace”, lo saluta, con l’affetto con cui si saluta un amico e con la solennità con cui si saluta un re.
“Possano le stelle guidare sempre i tuoi passi, lord Elrond”, risponde Thranduil, “Ogni volta che lo vorrai, sarai il benvenuto nel Reame Boscoso.”
“Come tu lo sarai sempre ad Imladris. Namárië.”
“Namárië.”
Non ci sono altre parole, solo un lungo silenzio e le sue infinite promesse, quindi Elrond si volge e si allontana.
Rimasto solo, Thranduil guarda per un’ultima volta la vasta pianura e si inchina, in un tacito omaggio ai morti. Dinanzi a lui i volti dei grandi signori di popoli si mescolano a quelli della gente comune i cui nomi non verranno mai celebrati, perché è la vita che li valuta diversamente, non la morte. Per la morte sono tutti uguali.
“Hantanyel Gil-galad, Alto Re dei Noldor”, sussurra.
E quasi lo vede, seduto sulla sabbia bianca che fa brillare le spiagge di Aman, mentre ride con la voce del vento.

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Note alla seconda parte:
I saluti finali tra Elrond e Thranduil sono liberi adattamenti di frasi di congedo tradotte dall’elfico. “Namárië” e “Hantanyel” significano, rispettivamente, “addio” e “grazie” in quenya.
 

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