Derek, l'oppressione, la vendetta

di DavidCursedPoet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Parte prima ***
Capitolo 3: *** Parte seconda ***
Capitolo 4: *** Parte terza ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Salve a tutti. Il mio nome è Derek. Se vi dovessi raccontare di me, la prima cosa che direi, è che sono nato vittima. La sorte ha voluto che non nascessi in una famiglia disastrata, che fossi educato normalmente, che frequentassi una buona scuola, mi diplomassi normalmente, con buoni voti. Che leggessi molto, che fossi molto riflessivo e molto sensibile. Sono contento di essere così. Forse la mia sventura risiede proprio in questo: sono troppo riflessivo e troppo sensibile. Insomma, sì, una di quelle persone a cui non puoi dire:" Fai schifo!" perché si offenderebbe e non ti parlerebbe più. A dire il vero, non so da cosa sia nata la mia sensibilità, fatto sta, che probabilmente è questa la causa della mia deriva.
 
Alle scuole medie, forse anche a causa della mia piccola statura, sono stato più di una volta vittima di bullismo: è pur vero che io ho provato ad oppormi, da solo, con le mie poche forze, però, ricordo ancora quei tre ragazzi. Mi chiesero di andare fuori al cortile della scuola con loro, una volta. Io, che li conoscevo solo di vista, li seguii, non avevo idea di ciò che stesse per accadere. Uno di loro, mi chiese:" Senti, Derek, per caso tu ce l'hai il cellulare?" "Ma certo!" "Me lo fai vedere?" Io anuii e glielo porsi, così, su due piedi, senza pensarci, col candore di un bambino, orgoglioso di quel piccolo tesoro. Inutile dire che dopo averci dato un'occhiata lo gettò a terra, tra le risa sguaiate degli altri due. Ci rimasi male, a dir poco. Sentivo che ero sul punto di piangere. E mi mollò un pugno, dopodichè andò via. Ripresi il cellulare. Andai dalla mia professoressa di italiano e spiegai l'accaduto, non mi interessava delle conseguenze: ero convinto che l'avrebbero pagata cara quei tre per l'affronto che mi avevano fatto. "Eh, Derek, mi dispiace tanto, adesso andrò a parlare con quelli, vedrò di farli calmare." Di fatto, non accadde nulla. Ci sono stati tantissimi altri casi in cui ho subito cose simili ed io ho sempre cercato di oppormi, senza far mai ricorso alla violenza. "I veri uomini non hanno bisogno di essere aggressivi, mi dicevo." Sì, ero convinto dell'ideale secondo cui le parole sono più efficaci dei pugni. Ora direi che è a dir poco ironico.
 
Poi, alle superiori, la situazione è cambiata. Sono cresciuto, ho trovato altre persone simili a me, ho iniziato ad avere alcuni amici, se così possono chiamarsi. All'inizio, i miei rapporti d'amicizia erano a dir poco idilliaci, davo molta importanza a coloro che mi circondavano, facevo di tutto per metterli a loro agio, scherzavo, ridevo, giocavo, aiutavo, quando e se possibile, consolavo. Alla fine, hanno finito per approfittare della mia bontà. Mi chiamavano "dolcetto". Sì, insomma, uno di quei nomignoli da due soldi, che però, forse, aveva un fondo di verità. L'ho odiato e lo odio ancora. Ogni volta che lo sentivo, reagivo male, alla fine, ho iniziato ad isolarmi sempre più, perché non ne potevo più di essere sfottuto, non mi piaceva sentirmi dire che ero una persona troppo dolce, troppo sensibile.
Dal terzo anno di superiore ho iniziato a rimanere a casa quasi ogni giorno, uscivo quel tanto che bastava per far star tranquilli i miei poveri genitori, che, poveretti, della mia vita non sapevano nulla: avevo buoni risultati a scuola, non causavo loro nessun problema a casa, stavo sempre per fatti miei, ripulivo la mia stanza e non ne uscivo quasi mai. Rimanevo a leggere e studiare, talvolta giocavo al PC. Amavo i classici della letteratura europea quelli che oggi sono in declino, sì. Ed ho sempre avuto una predilizione per gli autori "oppressi". C'era una sorta di simpatia fra me e loro (simpatia vuol dire, infatti, condivisione di dolore), tuttavia non ho mai pensato di scrivere, se non ora, dato che, ormai, non mi rimane altro da fare.
Pian piano mi sono reso conto della tristezza che mi circondava ed ho maturato alcune concezioni che non a stento posso definire filosofiche: il mondo si divide in due tipi di persone: oppressori ed oppressi. I primi ricorrono alla violenza ed alla demagogia per tenere sotto scacco i secondi. Questo grande meccanismo è insovvertibile, perché gli oppressi sono inabili a reagire: a loro (forse anche a me) basta vivere ed avere un piccolo spazio in cui potersi sfogare e distrarsi, di tanto in tanto; come per me i libri. Sono arrivato alla conclusione che gli oppressi, al fine di non essere più tali, devono indossare le vestigia degli oppressori e sostituirli. Molti pensano che questo ragionamento sia infinitamente semplicisitico e stupido: ritengo che queste persone siano o dei pigri o degli oppressori essi stessi. Posso garantirlo, perché, durante la mia infanzia ed adolescenza ci ho provato in tutti i modi: ho provato in tutti i modi possibili ad oppormi a chi voleva prendersi gioco di me, a chi piaceva la mia sofferenza: le conseguenze furono l'attirarmi odio da parte di chi mi circondava. Coloro che avrebbero dovuto aiutarmi, gli adulti, erano impassibili, ritenevano che le cose "si sarebbero sistemate da sole", come spesso ci si augura. Sì, a chi non piace che tutto di sistemi da sé? Peccato che non avvenga quasi mai. Dopo il liceo, dunque, iniziai la carriera universitaria, iscrivendomi alla facoltà di filosofia: mi sono ritirato, ma probabilmente, laureandomi non sarebbe cambiato molto. I miei genitori sono rimasti alquanto delusi da ciò, tuttavia, hanno accettato di buon grado che io lasciassi l'università. Adesso sono passati alcuni anni, non ho trovato un impiego fisso, diciamo.
 
Alla luce di tutto ciò che mi era accaduto, comunque, ho maturato la convinzione che andasse fatto qualcosa. Non mi sarei mai perdonato mai e poi mai di lasciare tutto così com'era: decisi di diventare un ideologo. Sì, mi attaccai all'idea di Giustizia, sì, con la G maiuscola. Pian piano, pian piano, come un verme che divora ingordo una mela dall'interno le idee di Giustizia e Vendetta si facevano largo nel mio cuore, ormai troppo ferito per essere risanato. Da quando avevo lasciato l'università, fino a quando non decisi di agire, non uscii di casa nemmeno una volta, ero completamente noncurante di tutto e di tutti. Se il mondo, come ci hanno sempre fatto credere, ha una ragione d'essere ed è stato creato da un Dio buono e giusto, sarei riuscito in quel che volevo: in verità, non nutrivo grandissime speranze, ma contavo sull'appoggio della fortuna. Mi sarei costruito una nuova vita, una nuova identità, sarei diventato un'altra persona. Certo, sapevo che avrei corso dei rischi enormi e che addirittura, poteva finir peggio di com'è finita in realtà, ma se un oppresso non decide di assumersi le proprie responsabilità, rimane sempre oppresso. Di tutto quel che ho fatto non mi pento, anzi, confesso, nonostante tutto, di andarne orgoglioso.
 
Finalmente, dopo parecchie settimane in cui non avevo fatto altro che pensare e pensare per conto mio, decisi che ero pronto. Mi preparai, presi tutti i miei risparmi ed uscii di casa. Era giunto il mio momento: il momento del riscatto, il momento della vendetta.

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Capitolo 2
*** Parte prima ***


Ero uscito di primo pomeriggio e avevo un'idea abbastanza chiara circa quel che avrei dovuto fare, il problema fondamentale era come farlo: non ne avevo idea, inoltre, devo confessare che me la stavo facendo sotto, non lo nego.
Probabilmente, molti di voi considereranno quel che scriverò da questo punto in poi come assurdo, inconcepibile, illegale, immorale, e chi più ne ha, più ne metta; in quel momento, tuttavia, il raggiungimento del mio obiettivo era più importante del buon senso, più importante di qualsiasi di qualsiasi legge. Immerso fra questi pensieri camminavo a passo svelto fra le strade della città, sperando con tutto il cuore che nessuno venisse a sapere dove stavo andando e perché: un solo errore, uno solo e sarebbe finito tutto ancor prima di cominciare ed io non potevo permettermelo.
 
Mi stavo dirigendo ad un bar da due soldi frequentato da tipi poco raccomandabili, simile ai saloon dei film western in cui spesso avvengono le risse più violente: un postaccio, insomma, uno di quei luoghi in cui un disadattato come me non avrebbe mai dovuto mettere piede, a meno che non avesse avuto intenzione di farsi pestare a sangue, non tanto per aver fatto qualcosa, quanto per la stessa natura violenta delle persone che ci si trovavano dentro; per non scappare a gambe levate, continuavo a ripetermi: "Il fine giustifica i mezzi. Non si può fare la frittata senza rompere le uova" all'infinito, in una sorta di cantilena stonata, che tuttavia aveva la sua ragion d'essere.
 
Dopo alcuni minuti mi resi conto di essere arrivato. La porta semichiusa del bar "La Corrida" era davanti a me. Non ci ero mai entrato, né mai avrei pensato di farlo: era come oltrepassare la porta dell'Inferno dantesco. "Il fine giustifica i mezzi. Non si può fare la frittata senza rompere le uova." Presi coraggio, sebbene stessi muovendo passi incerti e leggeri, spalancai la porta e mi incamminai verso il bancone.
 
Guardandomi intorno vidi proprio quello che mi aspettavo: il grigio ed il buio regnavano sovrani nel bar, lo definirei l'apogeo del sudiciume e della tristezza, il ritrovo dei falliti, dei disperati e dei cattivi, coloro che, per un motivo o per l'altro, avevano abbandonato una parte della loro umanità. Me compreso, dunque. Non che potessi sentirmi a mio agio; mi sentivo diverso sia dall'uomo che giocava alla slot machine in maniera frenetica, sia dall'ubriacone che stava nell'angolo più remoto a sorseggiarsi un calice di vino d'annata col naso e le gote rosse: certo, non avevo nulla da spartire con questi individui, davvero nulla.
Stavo cercando qualcuno che era solito frequentare quel posto: ed eccolo, era lì. Un uomo alto e magro, sulla quarantina, capelli castani, giacca nera e camicia blu, seduto ad un tavolino mentre fumava un sigaro e giocava a carte con un suo compare, nemmeno lui sembrava aver molto in comune con gli altri presenti in quel postaccio, se non che, probabilmente, era il peggiore di tutti. Famoso, temuto e rispettato da tutti nel paese, veniva definito un "galantuomo", allo stesso modo in cui viene definito Don Mariano nel "Giorno della civetta" di Sciascia; insomma, era un mafioso bello e buono.
Da dove ho preso tutto questo coraggio? Avvicinarmi ad uno degli uomini più pericolosi del paese, così, all'improvviso, dopo non aver avuto contatti umani per giorni e giorni. Voi avreste che la sanità mentale mi aveva abbandonato. Ed io avrei risposto con la solita cantilena: "Il fine giustifica i mezzi. Non si può fare la frittata senza rompere le uova."
 
C'era una sedia libera al tavolo dove il "buon signore" Berardo era seduto, sarei andato a sedermi proprio lì, con nonchalance. Intanto, chiesi al barista di portarmi un caffè corretto con whiskey, volendo atteggiarmi a vero duro, come per non sfigurare al cospetto della maestà che si ergeva in quel bugigattolo. Gli chiesi di portarmelo al tavolo, e piano piano andai ad accomodarmi al tavolo, accanto a Berardo ed al suo amico. Sulle prime sembrò ignorarmi: stava giocando a poker, ed era piuttosto concentrato, sul tavolo c'erano diverse decine di Euro.
 
Il suo compagno, con un sorriso sdentato, ad un certo punto, dichiarò: "Mi dispiace, ma questa volta mi porto tutto a casa..." mostrando tre assi.
"Hai proprio ragione, non posso farci nulla, pazienza..." rispose Berardo, aggrottando la fronte, con tono rassegnato. "Vinci tu, però, almeno va a pagarmi da bere, intanto che chiedo a questo giovane uomo cosa ha da discutere con me." L'altro annuì e si allontanò.
Berardo girò la testa e si rivolse a me:" Avanti, dimmi, figliuolo, cosa ti porta qui? Sono sicuro che tu sappia che sono come un padre premuroso, hai forse bisogno del mio aiuto?"
"A dire il vero sì...Però, buon signore, qui dentro mi sento molto a disagio a dirle ciò di cui ho bisogno, quindi, la prego, potremmo, erm... Uscire da questo posto? Spero di non mancarle di rispetto con una simile richiesta, dico sul serio." iniziai a mangiarmi le parole, la mia agitazione era palpabile, come se stessi per scoppiare da un momento all'altro in un pianto o in un urlo di sfogo.
"Alea iacta est" mi dissi "ho oltrepassato il varco."
Berardo raccolse le carte sparse sul tavolo e mi invitò a giocare con lui con un cenno della mano: "Stai tranquillo, qui, sono tutti miei ospiti, non hai nulla da temere." Intesi il significato delle sue parole.
Mentre iniziava a distribuire le carte, gli sussurrai, guardandomi intorno per star certo che nessuno potesse udire quel che stavo dicendo: "Bene...Avrei bisogno di comprare qualcosa. Ne farò buon uso." Pochi istanti dopo, il barista mi portò il caffè. "Grazie."
"Dunque, di quanto stiamo parlando, ragazzo?" domandò Berardo, con fare diplomatico, avendo sicuramente frainteso le mie parole.
"Ecco, no, vede, non sto cercando quelle cose. In verità, avrei bisogno di..." piombai nel silenzio più assoluto, non avrei mai voluto dire quelle parole in un posto in cui non ero solo col mio interlocutore. Cercai di scandire per bene le parole con le labbra.
"Un arma... Capisco."
Ebbene sì: stavo proprio cercando un'arma, una pistola, un fucile, non lo so, qualcosa per compiere la mia vendetta. Ero arrivato ad un punto talmente drastico da desiderare ardentemente la morte di tutti coloro che, in un modo o nell'altro, avevano arrecato torto ad altre persone. Mi dicevo che quando sarei stato soddisfatto mi sarei costituito, avrei passato il resto della mia vita in cella, però, almeno, avrei portato più giustizia nel mondo: mi sarei fatto portavoce di tutti gli oppressi diventando a mia volta uno degli oppressori, però, a differenza di tutti gli altri, avrei avuto il coraggio di pagare per le mie colpe e di consegnarmi nelle mani della giustizia.
 
Migliore di tutti gli altri, ecco cosa credevo di essere e nessuno, dico nessuno, avrebbe mai dovuto negarlo: un paladino, un eroe dei poveri. Robin Hood, sì, mi ispiravo a lui. In quegli istanti in cui parlavo con Berardo, ero certo del mio successo, solo un passo mi separava dal mio obiettivo. Certo, un conto è possedere un'arma, un conto è usarla, tuttavia in quel momento non ero al corrente della difficoltà con cui si preme un grilletto, con cui si uccide un uomo, con cui si fugge, con cui ci si nasconde. Non avevo mai vissuto nulla di lontanamente simile a tutto ciò, ero alla svolta più grande della mia vita, a mio avviso: beh, lo dico anche ora, probabilmente lo è stata.
Le vicende, si sa, non vanno mai secondo i piani, per cui il tutto ha preso delle pieghe a dir poco inaspettate, che ora mi appresto a raccontarvi.

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Capitolo 3
*** Parte seconda ***


Dopo alcuni secondi di raggelante silenzio Berardo riprese: "Tu sai, figliuolo, che un padre ha sempre bisogno di essere rassicurato dai propri bambini..." Distribuì le carte, le raccolsi.  "Ed io, da buon padre di famiglia il quale sono, non posso lasciar nelle tue mani un giocattolo tale senza aver verificato il tuo senso di responsabilità..."
"Non si fida di me, buon signore?" alzai le sopracciglia e feci cenno di cambiare tre carte.
"Non direi che è una questione di fiducia, no. Voglio soltanto verificare che tu non abbandoni tuo padre. Ti proteggerò, sarai sotto la mia ala: rassicurami, tutto qui." Berardo cambiò una sola carta.
"Ecco, ed in che modo, un povero ragazzo come me può dimostrare la propria devozione? Non so se ne sarei in grado, a dire il vero..."   Mostrai a lui il mio tris di regine, un punteggio niente male.
"Dai tempo al tempo. Nessuno ti sta mettendo fretta: pondera attentamente la tua scelta. Non essere avventato in quel che fai: nella mia famiglia siamo tutte persone con un profondo senso del dovere, un religioso rispetto della responsabilità. Non potrai essere da meno." Sbattè le sue carte sul tavolo, chiaramente deluso. "Non è proprio il mio giorno fortunato...Ho perso con due novellini" mormorò.
"Suvvia, si rifarà la prossima volta!" intervenni io, con tono allegro.
"Stasera, figliolo, vorrei che tu fossi ospite a casa mia. Lì, avrai modo di sapere quel che c'è da fare per avere tutta la fiducia ed il rispetto di tuo padre." Dalla giacca immacolata estrasse un biglietto da visita e me lo porse. "Ti aspetto per la cena, mi raccomando, non mancare."
"Ci sarò, non si preoccupi."
Mi avvicinai al bancone e pagai il mio conto, dopodichè, salutai con un leggero inchino il buon signore Bernardo, che mi rispose con un cenno della mano ed un grande sorriso.
 
Durante il tragitto verso casa, stavo riflettendo su quel che era accaduto: certo, quell'uomo si considera come un padre, per me, un mio protettore, ma la verità la sappiamo entrambi: è solo un aguzzino. Sarà il primo a cadere sotto la mia Giustizia, non appena avrò ricevuto la sua fiducia vendicherò tutte le persone che ha ucciso ed ha fatto uccidere, tutti quei poveracci che sono costretti a star sotto di lui, solo per non rischiare di chiudere i battenti, di perdere tutto ciò che hanno. Domina con la paura e con quello che i criminali mafiosi chiamano "rispetto", gliela farò vedere io, si pentirà di tutto quel che ha fatto. Devo pensare ad un modo per essere insospettabile, tuttavia, ma per questo c'è ancora del tempo: chissà cosa vorrà chiedermi stasera.
 
Arrivai a casa, lì, come al solito, incontrai mio padre intento a sfogliare una rivista di automobili. Lo salutai, alzò la testa e mi guardò, senza dir nulla. Un uomo molto riservato, mio padre: ritengo che non si sia mai abituato a vivere in questo posto. Un americano nell'Italia meridionale, più spesso avveniva il contrario; mia mamma, donna di ferro, era riuscita a convincerlo a venire qui. I nonni di mia madre, come moltissimi altri italiani, in quel periodo, erano migrati negli Stati Uniti ed erano riusciti, attraverso il commercio di prodotti tipici delle nostre parti a mettere da parte un bel gruzzolo. I miei nonni, sono nati ed vivono tuttora lì. Mia madre, alla tenera età di ventuno anni si sposò con mio padre. Due anni dopo il loro matrimonio, i miei genitori decisero di tornare qui, ed io fui gettato nel mondo poco dopo il loro arrivo in Italia. Il pegno che mio padre aveva chiesto per il trasferimento era il mio nome: roba da poco, direi. A mia madre chiamarmi "Dè" non è mai dispiaciuto. Invece mio padre finge quasi che io non esista; non posso dire che mi odi o che non mi voglia bene, più che altro, nella sua riservatezza è come me: manca d'affetto e di tenerezza. Non che io senta il bisogno impellente di averne.
 
Posso dunque concludere di non aver mai avuto un padre: l'uomo che in quel momento mi stava di fronte non sapeva nulla di me, se non che ero nato dalla consumazione del suo matrimonio con Bianca. Certo, mio padre naturale e Bernardo, in un certo senso sono molto simili: entrambi rivendicano la paternità su di me, ma nessuno dei due ha idea di chi sia; Bernardo non aveva neppure chiesto il mio nome: in me vede solo un pollo da spennare, un giovane incosciente da derubare. E non erano solo loro: ci sono così tante persone che si definiscono padri senza aver coscienza di chi siano i loro figli, senza sapere cosa si cela nelle loro menti: preti, insegnanti, medici, si sono sempre arrogati, in virtù del loro ruolo sociale, questo appellativo di "padre". A mio avviso, è solo un costrutto creato per dar loro prestigio, poco importa.
 
Dopo che ebbi oltrepassato quell'uomo senza che mi rivolgesse parola, mi recai nella camera mia: si stava facendo ormai sera, dovevo prepararmi per andare presso l'abitazione di Berardo. Decisi di tirarmi a lucido e di vestire elegante: indossai una giacca nera ed una camicia; addirittura indossai la mia unica cravatta. Forse in questo modo avrei attirato l'attenzione di mio padre, che avrebbe iniziato a farmi delle domande: avrei detto che avevo un appuntamento galante, quella sera, mi sembra un'ottima giustificazione. Quando si furono fatte otto, salutai mio padre nuovamente e mi apprestai ad uscire, ma mantenne il silenzio anche questa volta, come precipitato in un sonno catatonico.
 
Mentre camminavo sentivo il mio battito cardiaco accelerare: certo, non capitava tutti i giorni di cenare con una delle persone più temute e rispettate del paese, molti l'avrebbero considerato un onore. Inoltre, non potevo che essere leggermente impaurito per l'incarico che mi sarebbe toccato; speravo, in verità, di non dovermi sporcare le mani e di non correre rischi ancora prima di iniziare a mettere in atto il mio vero progetto, ma, come mi ero già detto "Alea iacta est", non si può più tornare indietro.
 
Arrivato al portone dell'abitazione di Bernardo, suonai al citofono. Poiché non sapeva il mio nome, alla domanda: "Chi è?" risposi: "Sono suo figlio!" "Ah, figliuolo, potresti essere tanto cortese da attendermi giù per alcuni minuti? Non ceneremo qui. Siamo stati invitati ad una piccola festa!" Sebbene sorpreso dalla notizia, risposi di sì. Una festa? Davvero? Che significava? Aveva forse intenzione di introdurmi alla società mafiosa come un suo protetto? Non avrei dovuto permettere che una cosa del genere accadesse. Però era ormai troppo tardi per voltarsi indietro, inoltre, non credo che ad una festa mi sarei macchiato di chissà quali crimini, pur essendo in "buona compagnia".
 
Iniziai a muovermi in tondo, avanti e indietro di fronte a quel portone, meditando più e più volte sulla possibilità di scappare. Non appena fui arrivato alla conclusione che era davvero quella la cosa migliore da fare, la voce di Bernardo irruppe alle mie spalle, annunciandomi: "Questa serata sarà molto piacevole per te, lo garantisco." Poggiando la mano sulla mia spalla con fare amichevole, ci incamminammo. 

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Capitolo 4
*** Parte terza ***


Ci dirigemmo in macchina all'Étoile Grand Hotel, un albergo a 4 stelle, fra i più rinomati del paese, in centro. Un usciere ci porse i suoi saluti ed aprì la porta d'ingresso. Devo dire che quello che mi si parò davanti fu un gran bello spettacolo: se dovessi definire quel che vedevo con una sola parola direi...Ottocentesco.
 
L'elemento che per primo saltò ai miei occhi era il lampadario enorme al centro del salone, fatto di cristalli multicolore, che illuminava tutto l'ambiente; i muri, color ocra, erano adornati con arazzi e quadri in stile romantico, erano presenti copie di dipinti famosi come "Viaggiatore sopra in un mare di nebbia" e "Morte di Ofelia"; i tavoli, apparecchiati in maniera impeccabile, erano numerosi e disposti a cerchio intorno alla sala, anch'essa circolare, a creare un ampio spazio al centro; alcuni camerieri con piatti d'argento servivano champagne e stuzzichini vari agli altri ospiti; in fondo alla sala, un quartetto strumentale suonava alcuni pezzi di musica classica: il tutto creava un atmosfera a dir poco suggestiva per me, che mai avevo visto qualcosa del genere.
"Perché siamo qui?" domandai a Berardo, non riuscendo a trattenere il mio stupore. "Mi aspettavo che saremmo rimasti a casa sua per discutere di..."
"Non c'è nulla di cui preoccuparsi. Rilassati e goditi la serata."
 
Intanto, un cameriere ci venne incontro e dopo aver riconosciuto Bernardo ci indicò un tavolo e annunciò:" Se i signori vogliono, possono accomodarsi lì."
Percorremmo tutta la sala e raggiungemmo il tavolo, notai che alcuni degli ospiti mi stavano squadrando: con ogni probabilità già si conoscevano tutti, ero io l'unico estraneo lì. Contai circa quaranta persone. C'erano altre tre persone al nostro tavolo; una sesta sedia, invece, era vuota.
 
Fu lì che la vidi per la prima volta, la ragazza leggiadra e terribile: non aveva passato i vent'anni, indossava un abito lungo e rosso, che lasciava scoperta metà della schiena, degli orecchini bianchi, una sottile collana d'argento, un braccialetto d'oro. Il viso, perfettamente truccato, era a dir poco incantevole, gli occhi grigi ammalianti, i capelli rossi, lunghi e sciolti, cadevano sulle spalle.
Stava conversando animatamente con un uomo grassoccio alla sua destra. Noncurante di Berardo, che era accanto a me, mi imbambolai a guardarla.
Uno scossone sulla spalla mi fece riprendere: "Ti fa appetito, eh?" scherzò Bernardo, ridendo.
"Ecco, veramente io..." Gli feci l'occhiolino, facendogli intendere di sì.
"Siediti accanto a lei, si chiama Beatrice, sono sicuro che sarà per te molto piacevole fare la sua conoscenza."
"Indubbiamente."
 
 Con calma mi accomodai alla sinistra di Beatrice, Berardo si posizionò vicino a me. Accanto a lui c'era una donna, che, pensai, fosse la moglie dell'uomo che discuteva con Beatrice, ma si affrettò a baciare sulle labbra Berardo, che subito dopo, prese parola, dopo un colpo di tosse, per richiamare a sé l'attenzione.
"Vorrei presentarvi, miei cari, un mio nuovo amico. Ha deciso volontariamente di entrare in affari con me, ecco." Non aspettandomi l'annuncio, sussultai sulla sedia e con voce sommessa, mi presentai a tutti, tenendo la testa bassa: "Mi chiamo Derek, è un piacere fare la vostra conoscenza, signori e signore."
"E signorine!" intervenne Beatrice. "E signorine..." ripetei io, imbarazzato. Tutti scoppiarono a ridere.
"Non sei di origini italiane, Derek?" mi chiese il signore grassoccio, squadrandomi con i suoi occhi piccoli. "Mio padre è americano, mia madre italiana. I nonni di mia madre immigrarono molti anni fa e lei ha deciso di tornare insieme a mio padre."
"Capisco. E cosa ti ha portato a diventare un amico di Berardo?"
 
"Io veramente..." sentivo il cuore palpitarmi. Tutto era stato frainteso: mi trovavo nei guai, cosa diamine avrei dovuto rispondergli? Che non volevo avere niente a che fare con nessuno di loro e che mi trovavo lì per una pura serie di sciagurate coincidenze? E mi sarei trovato una pallottola piantata nel cervello un paio di settimane dopo, magari. Non avrei potuto nemmeno dire che avrei voluto ammazzare tutti quelli come Berardo e lui, né che semplicemente volevo un arma per servirmene in maniera "privata". Ero in trappola.
 
"Derek è molto timido, Sandro. Per favore, non metterlo in imbarazzo con domande così scomode." Berardo mi aveva salvato, avrei voluto ringraziarlo; peccato che poi mi ricordai che era colpa sua, se mi trovavo in questa situazione.
"Hai ragione."  Prese una bottiglia dalla spumantiera al centro del tavolo e versò a tutti un bicchiere.
"A Derek." disse con tono gentile, poi bevve. Tutti gli altri seduti al tavolo, me compreso, lo imitarono.
 
Continuarono a parlare di faccende di poco conto molto a lungo ed io rimasi sempre in silenzio, gettando uno sguardo fulmineo a Beatrice di tanto in tanto, sperando che mi rivolgesse la parola. Penso che bevemmo tutti altri tre bicchieri, prima che la cena vera e propria iniziasse, dopo che tutti gli ospiti si furono accomodati ai tavoli.
Ci furono tante portate, anzi tantissime, a dir poco: molte erano a base di pesce, tutte pietanze che non avevo mai mangiato prima d'allora, tutte immensamente gustose. Più di una volta, Beatrice, sorridendo, aveva riempito i nostri due bicchieri ed aveva detto:" Dai, beviamo!" ed io non avevo rifiutato.
Mi duole ammettere che non ero abituato a bere, anzi, quella era sicuramente la prima volta in cui c'era così tanto alcool nel mio corpo. Non avevo un'idea vera e propria di quali fossero gli effetti; tutto quello che sapevo era per sentito dire. Sentivo che i miei muscoli si appesantivano e rilassavano; le mie labbra tendevano a formare involontariamente un sorriso, o più probabilmente, un'espressione da ebete, il mio battito cardiaco era leggermente accelerato, infine, sentivo caldo.
 
Beatrice mi invitò a bere ancora: preso dalla piacevolezza delle sensazioni che stavo provando, non volendo rifiutare la proposta di una così bella ragazza, accettai. E l'alcool si impadroniva sempre più del mio corpo.  Quando la cena fu finita, tra i complimenti e gli applausi ai cuochi, alla direzione dell'hotel ed al quartetto, il violinista, battendo due volte le mani, annunciò al microfono: "Vorrei ora invitare i gentilissimi ospiti ad alzarsi e danzare a coppie questo Valzer dei Vespri Siciliani."
 
"Valzer dei Vespri Siciliani? Cos'è? Si mangia?" chiesi, rivolgendomi a Beatrice, cercando di sembrare spiritoso. Lei, ignorando completamente la battuta, mi tirò a sé e disse: "Forza, andiamo a ballare!" L'odore del vino permeava le sue parole; non doveva sentirsi molto meglio di me.  Intanto, Berardo e la sua compagna si erano già allontanati.
"Ma io non ho mai..." iniziai a protestare. Pose il suo indice davanti alle mie labbra, mi alzai.
"Ti guido io, non preoccuparti." Mi stava tenendo la mano e conducendo verso il centro della sala. Lei pose la mia mano sul suo fianco e la sua sulla mia spalla. Ci furono alcuni attimi di silenzio, la luce del grande lampadario cristallino si affievolì, diventando soffusa.
 
Il Valzer iniziò. Beatrice, quando non rideva per la mia goffezza, mi sussurrava: "Segui me. Fai gli stessi passi che faccio io, poi dopo sedici serie... Fammi girare." Le pestai i piedi almeno due volte, però, riuscii a farle fare la giravolta. Vedevo intorno a me tutti gli altri ospiti che danzavano leggiadri, con dei sorrisi di cartone stampati nelle facce, così come vedevo il quartetto suonare appassionatamente, i camerieri ai fianchi scrutarci con aria soddisfatta. Ed infine, Beatrice che sprizzava erotismo da tutte le parti e che ballava con me. La testa iniziava a girarmi leggermente. Beatrice sorrideva, io pure: mi stava a dir poco travolgendo. Tutta colpa dell'alcool.
E prima che me ne rendessi conto, il Valzer era finito. Me ne dispiacque molto: non mi sarebbe capitata tanto presto l'opportunità di ballare con Beatrice di nuovo. Mi sentivo abbastanza rintontito, però, imitando tutti gli altri, presi ad applaudire per l'ennesima volta.
 
Successivamente, non ricordo molto bene quel che accadde, se non che io, Beatrice, Berardo e la sua compagna, tornammo a casa di Brardo in macchina e che Beatrice, ancora abbastanza allegra, si era avvinghiata a me. Mi accinsi a salutarli tutti, però, Berardo mi chiese: "Sei sicuro di non voler rimanere qui per la notte? Si sono fatte le tre." Ci pensai su per alcuni istanti, poi, accettai. Prendemmo l'ascensore, entrammo in casa. Non badai molto all'arredamento dell'abitazione. So solo che fui condotto in una stanza da letto in cui c'erano due letti singoli, in cui avremmo dormito Beatrice ed io. Questo era quanto credevo sarebbe accaduto.
 Non appena la porta si fu chiusa alle nostre spalle, si avvicinò a me e mi buttò letteralmente sul letto, così, in un sussurro all'orecchio, me lo chiese: "Lo facciamo?"
 
Mi sembra inutile dire che, fino a quel momento, non avevo mai avuto esperienze di quel genere, tantomeno, mi sarei aspettato che una ragazza appena conosciuta si avventasse su di me con tale violenza, con tale forza. Non starò a dirvi tutti i particolari dell'accaduto, perché, confido che voi, sappiate bene quel che si prova e quel che accade in queste circostanze. Lo farei altre mille volte, è stata un'esperienza unica nel suo genere, una totale novità. In quel momento, avevo perso ogni cognizione di tempo e di spazio, c'eravamo solo io e lei, in un mare di urla soffocate, morsi, baci, gemiti. Le luci erano spente, rendevano tutto più, come dire, eccitante. Non mi sono mai divertito così tanto.
 
 Alla fine, lei indossò una vestaglia da notte, e si coricò, dicendomi: "Domani mio padre sarà contentissimo! Ah, inoltre, prima di andartene, c'è qualcosa di molto importante che deve dirti, un piccolo favore, sai..."
In quel momento non capii nulla del senso di queste parole e mi limitai a rispondere:" Ah...Okay...Buonanotte!"
"Buonanotte, Derek!"

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