Note stellate e sinfonie ad occhi chiusi.

di emotjon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Prologo. ***
Capitolo 2: *** 2. Sinfonie ad occhi chiusi. ***
Capitolo 3: *** 3. La furia del violoncellista. ***
Capitolo 4: *** 4.Lezione di solfeggio. ***
Capitolo 5: *** 5. Note stellate. ***
Capitolo 6: *** 6. Tesa come una corda di violino. ***
Capitolo 7: *** 7. Diapason. ***



Capitolo 1
*** 1. Prologo. ***



 


alla migliore amica migliore del mondo, che ha avuto l'idea.
a me stessa, per aver reso la sua idea reale.


 

1. Prologo.
 


L’archetto, stretto delicatamente nella mano destra, era quasi come fosse un prolungamento del suo braccio, incastrato alla perfezione tra le dita e che sembrava vivere di vita propria, mentre scorreva fluido sulle corde a comporre quei suoni che le sue orecchie sembravano esser nate per sentire. Avanti e indietro, mentre socchiudeva gli occhi con un mezzo sorriso per il perfetto suono ottenuto e le dita della mano sinistra premevano sulle varie corde per creare le diverse note, per addomesticare il suono, per dar vita a quella melodia straziante che riusciva a farlo sentire vivo più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Un leggero rivolo di sudore gli scivolava placido dall’attaccatura dei capelli corvini lungo il collo, sulla pelle tesa dallo sforzo, lucida di sudore e brillante per via delle forti luci artificiali che illuminavano il teatro deserto nel quale si stava esibendo e nel quale si esibiva ogni giorno da solo.
Solo lui e il proprio violoncello.
Aveva i primi bottoni della camicia bianca lasciati sbottonati, con la stoffa madida di sudore che gli si appiccicava addosso e il petto che gli si sollevava ed abbassava ad ogni respiro, ad ogni movimento delle dita sulle corde, ad ogni passaggio dell’archetto, avanti e indietro come se ci stesse facendo l’amore, con quella sinfonia. Ogni respiro era una nota che prendeva vita, ogni nota era un battito del suo cuore che prendeva forma e ogni battito in sincrono con quella musica era un brivido che gli si formava addosso e gli scivolava lungo la schiena una vertebra di seguito all’altra come il sudore faceva sul suo petto.
Una nota più lunga delle altre. Le dita della mano sinistra a premere sulla corda. La mano che trema per rendere il suono dello strumento più intenso, carico, violento. Un sospiro libero dalle labbra schiuse, e l’ultimo movimento dell’archetto ormai coi crini completamente sfilacciati, prima che la sinfonia finisca, il respiro torni a mano a mano regolare, il cuore riprenda il proprio battito e i suoi occhi contornati da quelle folte ciglia scure sollevino le palpebre e rivedano la luce soffusa del teatro, le poltrone di velluto bordeaux tutte vuote e i calli sulle proprie dita ancora tese intorno a quello strumento del quale non riuscivano più a fare a meno.
L’ultima nota della sonata per violoncello che aveva appena finito di suonare era ancora nell’aria, riecheggiava da una parete all’altra del teatro, fermandosi nelle sue orecchie per un ultimo respiro, prima di morire e tornare ad essere silenzio. Quell’ultima nota gli accarezzò l’udito come il sospiro di un’amante, prima che staccasse l’archetto dalle corde per riporre sia esso che lo strumento nella sua custodia – era nera e lucida come il violoncello stesso, nera come lo era il suo sguardo in quel momento, svuotato di ogni emozione, come se finita la musica morisse un po’ anche lui con lei.
Srotolò le maniche della camicia riabbottonandone i polsini e coprendo di nuovo i tatuaggi di cui la sua pelle era quasi completamente satura. Nascose le catenine che portava addosso in qualsiasi momento sotto la camicia, abbottonandola quasi fino in cima e infilandone l’orlo nei jeans stretti tanto da far fatica a toglierli la sera, strappati sulle ginocchia anche se a un violoncellista non si addiceva per niente – almeno secondo i suoi genitori. Si passò una mano dietro la nuca, catturando tra le dita qualche ciocca sfuggita al codino con cui era solito legare i capelli decisamente troppo lunghi ma che non aveva intenzione di tagliare, prima di slegarli del tutto e provare a risistemarli ma senza troppo successo.
Gli sfuggì un sospiro, rinfilandosi la giacca e abbassandosi per richiudere la custodia del violoncello. Gli sembrava sempre di non passare mai abbastanza tempo con lo strumento tra le mani, come se – per quanto si sforzasse e suonasse praticamente in ogni momento libero – non fosse mai abbastanza e il movimento non gli sembrasse mai perfetto e le note non fluissero ancora come dovevano. Avesse potuto avrebbe passato ogni minuto del giorno a suonare, morendo con un archetto tra le dita e le ultime note di una suite di Bach nelle orecchie.
La perfezione gli sembrava irraggiungibile ogni volta, e continuava a spingere per arrivarci, ad allungare la mano fino a sfiorarla, ad accarezzare le corde fino a raggiungerla, anche se solo per un istante, per un momento effimero che finiva sempre troppo in fretta, lasciandolo di nuovo nell’imperfezione e nell’incertezza. La perfezione non aveva suono né volto… o, se l’aveva, lui non l’aveva ancora vista né sentita.
Un respiro profondo e il sorriso che sembrò tornargli un secondo dopo l’altro, mentre si metteva in spalla la custodia del violoncello e si passava una mano sulla fronte – sfiorando appena e per caso l’anellino che gli ornava il sopracciglio sinistro – per spazzare via il leggerissimo strato di sudore che la ricopriva dopo aver suonato così tanto e così bene da liberare il nervosismo che gli gravava addosso come nicotina superstite in una nuvola di fumo di sigaretta.
«Ciao, Zayn», lo salutò una ragazza con un insieme disordinato di spartiti sotto braccio, appena fuori dal teatro, senza quindi nemmeno dargli il tempo di prendere un respiro. Doveva averlo sentito suonare, come del resto doveva aver fatto il gruppetto di ragazze del primo anno appostate di fianco alla porta dalla quale il violoncellista stava uscendo. Come succedeva ogni volta, del resto. Ma lui si limitò a salutarle con uno sguardo ed un mezzo sorriso sghembo, come in fondo succedeva sempre.
«Ciao, ragazze».
E poté giurare di sentirle sospirare il sincrono, mentre si allontanava. Come poté giurare di aver udito il suono di decine di fogli che urtavano placidamente il pavimento, mentre voltandosi gli scappava un sorriso, lusingato forse di avere un tale seguito e di fare un tale effetto, perché oltre ad essere un violoncellista Zayn era un giovane uomo conscio del proprio effetto sulle donne.
Dall’altra parte del corridoio, una ragazza si limitò a sbuffare al sentire quel branco di galline sospirare. Per cosa, poi? Per uno strumentista. Un musicista che probabilmente era in grado di suonare solo note composte secoli prima da uomini che portavano una parrucca per coprire la calvizie, o che erano sordi e per comporre musica posavano l’orecchio a terra per sentirne le vibrazioni. Un musicista, presumibilmente in giacca e papillon, che non beveva, non fumava e ed era nato e cresciuto col proprio strumento accanto. Ci sarebbe anche morto con quello strumento, probabilmente.
No, quella ragazza non riusciva a capirle, mentre entrava nella sala di registrazione infilando il mozzicone di una matita tra i corti capelli ricci per tenerli fermi. Perché anche lei aveva parecchi fogli sotto braccio, ma non le sarebbero di certo scivolati di mano solo per un saluto borbottato tra i denti da un… musicista! Dio, non le pareva possibile una cosa simile. Doveva essere addirittura un classico, dal poco che aveva sentito passando per il corridoio – una suite di Bach suonata a meraviglia, ovviamente – ma lei proprio non riusciva a capire cosa ci trovassero quelle ragazzine in un tipo del genere, che lei non aveva mai visto.
Ovviamente, però, ne aveva sentito parlare.
D’altronde, chi non aveva sentito parlare di Zayn Malik, alla Royal Academy of Music?
Mise le cuffie sulla testa, facendo scappare una ciocca di capelli ricci dall’acconciatura improvvisata fermata poi dalla montatura degli occhiali perché non le ricadesse davanti agli occhi. Erano la sua barriera dal resto, quelle cuffie, le coprivano perfettamente le orecchie proiettandola nel proprio mondo. Non sentiva niente che non fossero le note della canzone, niente che non fosse la propria voce. Persino il respiro le arrivava lontano, come ovattato, non del tutto suo.
Il microfono, tenuto delicatamente con entrambe le mani smaltate di nero, era come fosse una parte di lei, un’appendice della quale non si sarebbe potuta separare nemmeno se avesse voluto. Lo teneva tra le dita, sentendo premere appena contro la pelle gli strass blu elettrico applicati su di esso, mentre tenendo le palpebre abbassate le labbra le si muovevano quasi senza che ci pensasse e il suono fluiva come acqua, limpido e cristallino. Su e giù, il piede batteva distrattamente contro il pavimento, mentre le sfuggiva un sorriso all’attacco del ritornello – che per una volta sembrava essere venuto proprio come aveva sempre voluto che venisse – e una si staccava dal microfono per disegnare un ghirigoro nell’aria, come stesse disegnando le parole che cantava o le note che prendevano forma.
Un velo di sudore freddo le imperlava la nuca ogni volta che prendeva quella nota – apparentemente altissima – facendole scendere un brivido lungo la schiena, fermo per un istante su ogni vertebra, prima che si perdesse nel vuoto, nella nota successiva, nella parola seguente, nell’aria pregna di musica che la circondava.
Solo lei e la propria voce.
Una ragazza pressoché invisibile, che non si sarebbe mai fatta notare da nessuno, se non quando le veniva messo un microfono tra le mani e tirava fuori parti di sé che non conosceva nessuno, non appieno, non abbastanza da poter dire di riuscire a leggerla come si fa coi libri e non abbastanza da conoscerla a memoria come un musicista avrebbe potuto dire di un assolo per violoncello di Čajkovskij.
I jeans scuri le fasciavano le gambe e la rendevano anche più piccola di quanto già non fosse. Li aveva tagliati col tagliaunghie su un ginocchio, nei momenti di noia o quando si ritrovava nella propria camera del dormitorio con gli spartiti sparsi ovunque e una matita messa dietro l’orecchio, a portata di mano se improvvisamente avesse dovuto scrivere qualche nota, qualche parola, qualche pensiero da rendere musica. E le scarpe da ginnastica che una volta erano bianche, in quel momento – mentre una di esse teneva il tempo contro il pavimento – tendevano ad una qualche sconosciuta tonalità di grigio polvere.
Aveva la cerniera della felpa grigia – parecchio più grande di lei ma che avrebbe continuato ad indossare fino alla fine dei suoi giorni, fosse stato per lei – tirata su fino in cima, col cappuccio adagiato sulle spalle e un riccio sfuggito alla presa della matita che le scendeva lungo il collo, fino a scontrarsi con le note d’inchiostro che le decoravano la pelle da dietro l’orecchio sinistro alla base della scapola destra. Visibili solo in parte, quelle note, ma parte di lei fino all’ultimo millimetro, fino al si bemolle che chiudeva la scia, il tatuaggio e ogni suo respiro.
E ogni respiro era libertà. Ogni respiro era una boccata di musica e aria fresca insieme. Ogni respiro era inspirato in preparazione alla nota che chiudeva il tutto, che la rendeva completamente libera e le faceva davvero dimenticare ogni preoccupazione, ogni respiro che non fosse il proprio e ogni nota che non facesse parte della sinfonia della propria vita. Ogni respiro portava inevitabilmente alla fine di una canzone e ogni canzone che finiva la faceva sempre morire un po’ dentro e ogni volta che moriva dentro l’unica cosa che riuscisse a riportarla a galla era sempre e solo altra musica, in un circolo vizioso che non avrebbe mai trovato la propria fine, perché lei avrebbe respirato musica fino all’ultimo sospiro emesso dalle proprie labbra in punto di morte.
C’era un vetro, a separarla dal suo mondo fatto di acuti e musica e parole che venivano dal cuore. Un vetro, oltre al microfono. Un vetro, dietro al quale stava uno dei ragazzi dell’ultimo anno che la aiutava con l’incisione del suo primo album. Un vetro che lei non guardava mai, un po’ per non farsi mettere in soggezione dagli occhi che si sarebbe trovata addosso, un po’ perché era abituata a cantare al buio, con gli occhi chiusi e il cuore che comandava ogni parola che le usciva dalle labbra.
Un vetro, dietro al quale un violoncellista dai capelli neri legati in un codino sfatto, la osservava senza sapere che dire, mentre il ragazzo che incideva lo guardava con la coda dell’occhio senza trattenere un ghigno. Lei faceva quell’effetto, a chi non l’aveva mai sentita. Lei bloccava il respiro di chiunque non l’avesse mai ascoltata. Lei faceva fermare il cuore solo cantando. E lui non sapeva davvero come poter reagire, davanti a tanta… perfezione.
Forse l’aveva appena trovata, la perfezione che tanto aveva cercato.
Aveva il suono della sua voce, una nuvola di capelli ricci fermati da una matita, un paio di occhiali da vista dalla spessa montatura nera e un cerchietto argentato al labbro inferiore. Aveva una felpa grigia, dei jeans strappati e delle scarpe da buttare. Aveva un paio di magiche labbra rosa che si muovevano davanti a lui rendendolo vittima di un incantesimo dal quale non voleva svegliarsi.
Ed era quasi la fine della canzone, quando il ragazzo si passò una mano dietro la nuca distogliendo finalmente lo sguardo ma senza riuscire a smettere di sentir risuonare quella voce nelle orecchie. «Come si chiama?», riuscì a chiedere, con la gola secca, mentre il ragazzo lo guardava inarcando un sopracciglio e trattenendo una risata.
«Esme».
Una nota più lunga delle altre, lo costrinse a tornare a guardarla per qualche altro secondo, mentre immaginava di accompagnarla col violoncello, di suonarci insieme, di sentire quella voce ancora, ancora e ancora, fino a non poterne più. La sua voce cristallina gli fece venire i brividi lungo la schiena, mentre chiudeva gli occhi anche lui per goderne al meglio, per sentirla meglio, per farsi inondare da quella nota presa alla perfezione e senza che dovesse minimamente sforzarsi.
La guardò ancora, aveva le dita della mano sinistra strette più forte sul microfono. La mano libera ferma a mezz’aria come per sentire meglio il suono della propria voce e concentrarsi meglio sulla quella chiusura così intensa, carica, violenta. Un sospiro libero dalle labbra ancora impegnate con l’ultima nota, e l’ultima vocale fuori da lei, col battito del cuore ormai del tutto destabilizzato, prima che la canzone finisca, il respiro torni a mano a mano regolare, il cuore riprenda il proprio battito e i suoi occhi grandi contornati da quelle folte ciglia scure cariche di mascara sollevino le palpebre e rivedano la luce intensa della sala di registrazione, il profilo dell’asta del microfono davanti a sé e le proprie dita con lo smalto mangiucchiato ancora tese intorno a quello strumento del quale non avrebbero mai più potuto fare a meno.
Ma quando Esme riaprì gli occhi e smise di cantare, prendendo poi un respiro profondo, oltre il vetro vide solo il solito ragazzo biondo che aveva la pazienza di aiutarla con disco, col pollice alzato e un sorriso che di rimando la fece scoppiare a ridere di felicità. Non vide ragazzi dai capelli scuri e dallo sguardo incantato; non vide una camicia bianca abbottonata alla meno peggio, né vide il leggero brillio di un piercing al sopracciglio sinistro.
Guardando meglio, però, vide la porta chiudersi.
E la sagoma della custodia di un violoncello che spariva dalla propria vista.




 

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Capitolo 2
*** 2. Sinfonie ad occhi chiusi. ***







2. Sinfonie ad occhi chiusi.


 
Le palpebre ancora socchiuse dalla stanchezza, la ragazza dai capelli ricci, gli occhi grigio-verde e il nome di una gitana si passò una mano dietro la nuca grattandone appena la pelle e cercando di tenere a freno l’istinto che le diceva di uccidere il proprio migliore amico seduta stante. Cercava di pensare al ritmo immaginario che stava tenendo col leggero battito di uno degli anelli che portava alle dita contro l’enorme bicchiere colmo di concentrato di caffeina che teneva in mano. Cercava di respirare a fondo per non mettersi a imprecare nel bel mezzo del corridoio affollato di prima mattina. Cercava di sfogare le energie fin troppo sveglie che le venivano versate contro la pelle e la tazza di caffè, per non venire alle mani con l’unico ragazzo che si prendeva la briga di svegliarla ogni mattina perché non perdesse le lezioni – fosse stato per lei, infatti, a quell’ora sarebbe ancora stata sotto le coperte fino al naso, con gli occhiali sul comodino e solo il proprio sonno profondo a farle compagnia.
Ma Michael non voleva saperne di smettere di parlare, gesticolandole di fronte in un modo che in quel momento avrebbe preferito non esistesse. In realtà avrebbe semplicemente preferito essere ancora a letto, con gli spartiti in (dis)ordine sulla scrivania e nessuna parola detta a voce troppo alta a fracassarle i timpani fin troppo sensibili. E Michael davvero non voleva saperne di smettere di parlare, così la ragazza fu costretta a sospirare e mettergli una mano sulla bocca senza troppi complimenti, facendolo ridacchiare – almeno però sarebbe stato in silenzio quanto bastava per farla riprendere dal troppo poco sonno di cui aveva goduto durante la notte.
«Puoi stare zitto almeno per il tempo che mi ci vuole per finire il caffè?». Ti supplico.
Allora il ragazzo sollevò finalmente le mani come per arrendersi, spingendola con un solo sguardo a liberarlo della sua mano sulla propria bocca. «Certo, dolcezza». Ma non disse altro, intimorito ma perlopiù divertito dallo sguardo decisamente assassino della migliore amica, che quella mattina avrebbe davvero voluto sbatterlo poco delicatamente contro il primo muro disponibile. Le rivolse un mezzo sorriso, mentre lei gli faceva la linguaccia e tratteneva un sorriso in risposta, nascondendolo nel bicchiere di carta dal quale prese un generoso sorso di caffè.
Aveva questo sorriso terribilmente contagioso, Michael. Un sorriso che compariva per la minima sciocchezza, un sorriso che rendeva allegri anche solo a scorgerlo da lontano. Un sorriso che per Esme era quasi come cantare, quasi come ossigeno e azoto e idrogeno. Un sorriso che riusciva a tirarla su quando crollava e la musica non riusciva a nascere, a montarle dentro, ad arrivarle al cuore. E aveva un paio di occhi che ricordavano il mare d’inverno, Michael; due occhi un po’ blu e un po’ grigi che le ragazze si incantavano a guardare estasiate, perché essi riuscivano a sorridere quasi quanto riuscivano a fare le sue labbra; due occhi che riuscivano a capirti, ad annuire, a dispiacersi, a stare male per te, a commuoversi… a cantare, perfino.
Il ragazzo le portò un braccio intorno alle spalle, in religioso silenzio quella volta, stringendosela un po’ più vicina come a dirle che tanto l’avrebbe sopportata e le avrebbe voluto bene anche se avesse minacciato di ucciderlo per la sua voce – troppo squillante di prima mattina – in tutte le lingue del mondo conosciute. Le strappò l’accenno di una risata, mentre continuava a bere caffè e continuavano a camminare per il corridoio diretti alla prima lezione della giornata, che onestamente Esme nemmeno ricordava quale fosse.
Altre palpebre invece si erano chiuse a stento, quella notte. E mentre la ragazza riccia si riempiva di caffeina per svegliarsi, un ragazzo dalla carnagione caffelatte si scostava una ciocca di capelli umida di sudore dalla fronte, smettendo improvvisamente di suonare al sentire una delle pesanti porte di legno dell’auditorio cigolare nell’aprirsi.
Aveva cercato di chiudere gli occhi e abbandonarsi al sonno, la sera prima, ma non c’era stato verso che riuscisse a smettere di pensare a certe note, certi movimenti, certi capelli ricci e certi occhi dei quali aveva potuto solo immaginare il colore dato che – quando cantava – lei  lo teneva sempre nascosto, abbassando le palpebre ed escludendo tutto il resto. Aveva provato a smettere di pensarci o a smettere di immaginare una serie di note, che alla fine aveva dovuto scarabocchiare all’angolo di un quaderno perché non andassero perse. Aveva provato – davvero – a dormire, ma c’erano troppi pensieri a tenerlo sveglio, perché riuscisse a rilassarsi e ad abbandonarsi alle braccia di Morfeo.
Quindi si era legato i capelli alla meno peggio, si era passato una mano sugli occhi e aveva represso uno sbadiglio, prima di infilarsi una canottiera bucata sui pantaloncini da basket che usava per dormire, prima di recuperare il violoncello elettrico e l’amplificatore e portare tutto di sotto, nel teatro. Passando per i corridoi deserti col più lugubre dei silenzi a riempirgli le orecchie, interrotto solo dal proprio respiro assonnato e dal leggero cigolio delle ruote del piccolo carrello col quale trasportava la propria attrezzatura ovunque.
E si era semplicemente messo a suonare, allenandosi con la pedaliera e sperimentando nuovi accordi, nuove melodie, nuove note. Suonando per spegnere il cervello e smettere di pensare; suonando per isolarsi, fino a sentire il sudore colargli lungo la schiena, le gambe fargli male per la posizione in cui le costringeva suonando e le dita bruciare per il contatto con le corde e l’attrito con l’archetto che continuava a muoversi avanti e indietro e a picchiettare sulle corde quasi a caso, ma componendo la migliore delle melodie – violenta, cruda, nulla a che vedere col violoncello classico.
Si era semplicemente messo a suonare, passando la notte in bianco, ma senza pentirsene nemmeno per un istante.
Schiacciò quindi uno dei pedali dell’amplificatore per spegnerlo – distratto dalla porta che si apriva – prima di sollevare lo sguardo dallo strumento e dall’ultimo movimento che l’archetto che teneva tra le dita stava compiendo e incontrare un paio di occhi verde giada che lo osservavano divertiti e una massa confusa di capelli colorati di celeste – rasati sul lato destro e lunghissimi dalla parte opposta, strani e meravigliosi esattamente come la persona che li portava.
«Ero passata a svegliarti… e ti ho preso dei vestiti puliti, con la chiave di riserva», aggiunse la giovane avvicinandosi al palco e mostrando all’amico un borsone che doveva aver preso dalla sua camera al piano di sopra, camminando sul paio di scarpe alte che indossava come se stesse camminando a piedi nudi sulla sabbia – come fosse quindi la cosa più naturale del mondo. «E la notte è fatta per dormire, tesoro…», gli fece notare salendo i pochi scalini che li dividevano, posando il borsone sul parquet e scostandogli i capelli dalla fronte sudata per posarvisi un bacio leggerissimo, attenta a non sbavarsi il rossetto.
Aveva il vizio di baciargli la fronte per fargli capire che era preoccupata per lui invece di dirlo, Sky. Glielo si leggeva negli occhi verdi e nel sopracciglio scuro leggermente inarcato, ma aveva anche la brutta abitudine di toccare le persone, Sky, anche solo sfiorarle, accarezzarle appena, sentirle in punta di dita o assaporarle delicatamente sulle labbra. Era una ragazza tutta tacchi alti, jeans aderentissimi – da far fatica ad allacciarli – e pancia scoperta per lasciar intravedere il piercing che le ornava l’ombelico; era il genere di persona che il ritmo lo sentiva dentro, che picchiettava le dita ovunque a creare qualcosa di nuovo o a suonare qualcosa che le piaceva abbastanza da rimanerle addosso a vita. E sorrideva poco, Sky, ma quando lo faceva era davvero una delle cose più belle che si potessero vedere.
«Troppi pensieri per riuscire a chiudere occhio, tesoro…», le fece il verso, senza riuscire a trattenere una mezza risata, anche se era una risata stanca e appena somigliante alla sua solita allegria e al suo solito entusiasmo. Si concesse uno dei suoi meravigliosi sorrisi solo quando la vide alzare gli occhi al cielo e la sentì sbuffare, con l’eco del suo respiro che si scontrava contro le pareti insonorizzate e tornava indietro come a farle un dispetto. «E poi, tu sei la prima che la notte fa altro, invece che dormire», aggiunse concedendosi una risata di quelle vere, che la fece borbottare qualcosa che detto con quel tono di voce nessuno sarebbe riuscito a capire.
«Se io fossi quella ragazza mi sarei già spaventata, comunque… sei uno stalker, cazzo!», lo prese in giro – con ancora quella mezza risata a risuonarle nelle orecchie – dandogli una spinta non proprio amichevole ad una spalla che dentro di sé lo fece ridere anche più forte ma che esteriormente gli fece solo mordere un labbro e inarcare il sopracciglio col piercing, divertito oltre ogni limite dalla reazione decisamente esagerata della migliore amica.
A lei aveva raccontato tutto, compreso il suo nuovo e appena sbocciato amore per la sala di registrazione dove quella ragazza di cui sapeva solo il nome e aveva memorizzato ogni dettaglio cantava tutte le sere, con le cuffie nere sui ricci, il microfono con gli strass blu e quella voce che sembrava provenire un po’ dal paradiso e un po’ dall’inferno, come fosse il centrifugato perfetto di angelo e demone e nemmeno ne fosse consapevole, Esme. A Sky Zayn aveva raccontato quanto gli piacesse entrare in sala e osservarla cantare, vedere le sue labbra muoversi ad articolare le parole e percepire le sue mani nell’aria intorno a lei come se le avesse addosso, a sfiorarlo nel più muto ma rumoroso dei sospiri.
A Sky l’aveva detto, ma lei si era limitata a ribattere che doveva essere sicuramente uscito di testa come mai era successo prima, se si limitava ad osservare una ragazza muoversi davanti ad un microfono e a sentirla cantare, invece di agire. Presentarsi. Almeno farsi vedere! La ragazza dai capelli celesti non gli aveva chiesto poi molto. Ma lui era come bloccato nella sua bolla di pensieri e note che continuavano a vorticargli intorno per poter anche solo pensare di darle ascolto.
«Devi sentirla cantare per capire».
E la ragazza scoppiò a ridere, con una mano a tenere ferma la tracolla sulla spalla e l’altra a tenersi lo stomaco per le troppe risate, troppo divertita dalla logica dell’amico. Devi sentirla cantare per capire. Andiamo! A Sky sembrava decisamente di essere in uno di quegli scadenti film romantici che finiva per guardare quando si ritrovava bloccata sul divano per il ciclo con una scorta di cioccolata e fazzoletti da far paura. Scoppiò a ridere, continuando a guardare Zayn che, nonostante il mezzo sorriso sulle labbra, era dannatamente serio.
«Io ti prenderei comunque per stalker», gli disse, sempre divertita e con un mezzo sorriso ad illuminarle appena il volto sotto le luci diffuse del teatro. E ancora rideva, con gli occhi che le brillavano di ironia, quando finalmente il moro si decise ad alzarsi e a liberarsi del violoncello posandolo contro la sedia appena abbandonata, prima di raggiungere la ragazza da dietro e sollevarla da terra tenendola per i fianchi e facendola ridere ancora, come solo lui era capace di farla ridere. «Sei tutto sudato, cazzo!», esclamò col respiro bloccato in gola e l’ennesima risata a formarlesi nei polmoni, mentre lui nonostante la stanchezza le rideva tra i capelli celesti e nell’orecchio mandandole un brivido lungo la schiena e rendendole le gambe molli.
Perché onestamente Zayn faceva quell’effetto a chiunque, e non era un segreto.
Faceva effetto alle ragazze della sua stessa orchestra, alle musiciste “alternative” come Sky, che suonava la batteria per il semplice motivo di avere un senso del ritmo troppo fuori dal comune per non sfruttarlo. Faceva effetto alle ragazze che si fermavano ad ascoltarlo suonare appena fuori dal teatro, coi brividi lungo la schiena e tutti quei sospiri che sfuggivano loro senza che riuscissero – o provassero – a fermarli. Faceva effetto a chi ne aveva solo sentito parlare e non l’aveva mai visto né sentito suonare. E faceva lo stesso effetto anche alle cantanti, per quanto Esme si ostinasse a dire il contrario e a negare l’evidenza.
Roxanne, ad esempio, aveva un debole innato per i musicisti – in particolar modo per i chitarristi, ma in fondo chiunque suonasse uno strumento, anche solo le nacchere, aveva la sua stima più profonda. Aveva il vizio di canticchiare ovunque si trovasse, lei, con quei capelli rossi troppo rossi per essere naturali e quegli occhi troppo scuri per poter distinguere l’iride dalla pupilla. Aveva la brutta abitudine di parlare a vanvera e di gesticolare e di sistemarsi la frangia anche quando non c’era alcun motivo di sistemarla perché era perfetta così com’era, lei. Aveva il vizio di ridere forte fregandosene delle espressioni o dei pensieri delle persone e aveva l’abitudine di fermarsi in fondo alle aule di musica quando gli altri facevano lezione, con le palpebre abbassate e le labbra schiuse che si muovevano canticchiando senza voce parole solo suonate.
Roxanne aveva un debole innato per un musicista in particolare. Le piaceva il suo modo di abbracciare la chitarra come se stesse abbracciando una ragazza, un’amante e un’amica tutto nello stesso istante. Le piaceva tenere gli occhi chiusi mentre lui suonava, qualsiasi cosa suonasse – anche se invece di cantare mugugnava, perché era comunque meraviglioso ascoltarlo e immaginare che quelle dita indurite dai piccoli calli provocati dalle corde dello strumento la sfiorassero, anche solo per sbaglio, o per gioco. Le piaceva salutarlo con gli occhi e arrossire, quando lui si accorgeva di lei ma continuava comunque a suonare, a mugugnare le parole e a sbuffare quando un accordo non gli riusciva, perché in fondo Niall non aveva il coraggio di stare a guardarla per più di una manciata di secondi senza avvampare – e ne sapeva perfettamente il motivo, ma tentava di ignorarlo, pur suonando la canzone dei Police che le dava il nome, con le palpebre che gli sfarfallavano fino ad abbassarsi e il cuore che gli batteva più forte del solito nel petto.
E Iris aveva i capelli biondo grano almeno quanto quelli di Roxanne erano tinti di rosso.
Iris amava ballare tutta la notte, con le braccia lanciate verso il cielo, il sudore che le scivolava giù per la schiena scoperta, le luci stroboscopiche che le confondevano e le offuscavano la vista e la musica troppo alta che le entrava dentro e le faceva cantare a squarciagola quelle parole che avrebbe voluto essere capace di scrivere lei. Aveva questi capelli color grano portati a caschetto che alla luce sembravano raggi di sole, il nome di un fiore ancora sbocciato a stento e un paio di occhi che senza troppi giri di parole erano azzurri – azzurri e basta.
Aveva una voce assurda, Iris, ed era una di quelle ragazze che finivi per notare per forza da quanto era bella quando scoppiava a ridere, ma avresti potuto dire che quello fosse il suo unico pregio. Almeno finché non la si sentiva cantare, allora cambiava tutto, e anche il cuore più freddo e gelido si sarebbe sciolto di fronte a tanta forza e tanta dolcezza; perché sentirla cantare era splendido almeno quanto guardarla negli occhi e vederci il mare o ritrovarsi a sorridere davanti alla nascita di un arcobaleno nel cielo. E anche Iris aveva un debole per un musicisti, e non era un segreto che riuscisse a scoppiare in lacrime per una sonata per pianoforte, come non era un segreto la sua fissazione per le loro mani, le loro dita, la loro pelle.
C’era un pianista in particolare, alla Royal Academy of Music, che la mandava fuori di testa. C’erano i suoi occhi verdi, i suoi capelli mossi terribilmente lunghi, le sue labbra rosse, le fossette che comparivano quando scoppiava a sorridere. C’era lui, tutto dinoccolato e tutto storto, che la salutava nei corridoi da sempre e che oltre al suo nome e alla sua voce straordinaria sapeva tutto. C’erano le sue camicie sempre mezze sbottonate e i suoi tatuaggi e quella ragazza dai capelli celesti che lo baciava sempre sulla guancia quando si separavano per le lezioni – e Iris non credeva stessero insieme, o forse ci sperava e basta – e il ragazzo cui la sua amica Roxanne moriva dietro che lo seguiva ovunque, o quel violoncellista taciturno che sorrideva a stento ma che la bionda sapeva essere il suo migliore amico.
C’era un pianista in particolare, alla Royal Academy of Music, che Iris non riusciva a smettere di guardare anche se solo da lontano, ormai. C’era quel pianista, con le sue dita affusolate e tutti quegli anelli e quella voce che le mancava tanto da star male. C’erano vecchi ricordi, vecchi dolori, occhi verde prato che la guardavano come se tra di loro non fosse mai successo nulla – né nel bene né nel male. C’erano però quei mezzi sorrisi che non riuscivano ad evitare di lanciarsi quando si incrociavano nei corridoi, o le porte che Harry apriva per farla passare.
Nonostante tutto, sembrava non riuscissero a fare a meno di quelle piccolezze.
Nonostante tutto, nonostante continuasse a dire il contrario, Esme non era riuscita a trattenersi dal diventare parte del branco di galline che qualche giorno prima avevano sospirato al passaggio di Zayn. Non completamente parte della massa, si era però fatta corrompere da Roxanne, che quella mattina a lezione di solfeggio le aveva riso in faccia, quando le aveva detto che non sapeva nemmeno che volto avesse, quel violoncellista di cui tutti parlavano così tanto. Si era fatta convincere dall’amica, almeno ad ascoltarlo, almeno a farsi un’idea, perché se era lui il ragazzo che la andava a “spiare” mentre registrava per l’album era suo dovere comportarsi allo stesso modo, secondo la rossa. Non completamente parte della massa, quindi, la ragazza si era seduta a terra con la schiena posata contro la parete esterna del teatro, gli occhi chiusi e una mano a picchiettare nervosamente sulla coscia in attesa che lui iniziasse a suonare.
Non aveva dovuto aspettare tanto.
Qualche minuto nel silenzio più totale, prima che il primo movimento del tema di Mission le arrivasse attutito alle orecchie e le vibrasse contro la schiena attraverso la parete. Un motivo familiare, terribilmente. Una serie di suoni che le fecero muovere le dita nell’aria con un mezzo sorriso sulle labbra, mentre rannicchiava le ginocchia al petto come per proteggersi da quel suono straziante e allontanare il brivido che le stava attraversando la schiena in un lampo, rapido e inaspettato come un fulmine a ciel sereno. Una serie di brividi che riuscirono a sorprenderla come non succedeva da tempo o come forse non era mai successo davvero, non in quel modo.
Quel ragazzo sapeva davvero suonare. Sapeva davvero addomesticare le note e muovere le emozioni, non erano solo chiacchiere. Sapeva davvero esprimere qualcosa e far venire i brividi e rendere le gambe molli – non solo per il suo bel faccino, a quanto pareva. Erano suoni forti. Emozionanti in ogni loro minima parte. Violenti. Dettati da quello che sentiva lui… e sentiva davvero tanto, a giudicare dalla reazione della ragazza. Lui sentiva come lei. Lei sentiva il suo sforzo, il suo amore per la musica, la sua tristezza nascosta ma non troppo, il suo senso di libertà – quello lo sentiva sulla pelle quasi come stesse cantando, e non solo ascoltando lui suonare.
Suonava divinamente – bisogna ammetterlo – ed Esme aveva davvero sempre creduto di essere l’unica a poter sentir così, come Zayn pensava che nessuno potesse percepire il suo modo di sentire la musica. Lei l’aveva appena capito ed era appena stata travolta da quelle note come da un fiume in piena, ma lui non lo sapeva e forse non l’avrebbe mai saputo. Suonava divinamente, ed Esme era appena finita nella stessa bolla che la avvolgeva quando cantava e le cuffie la isolavano dal resto lasciandola sola con la propria voce; niente che non fossero i propri momenti in sala di registrazione riusciva a farla sentire in quel modo, nient’altro riusciva a farle venire i brividi e nient’altro riusciva a farla commuovere.
Zayn c’era appena riuscito, tanto che Esme fu costretta ad alzarsi velocemente dal pavimento e a percorrere in fretta il corridoio semi deserto fino ad una delle aule che a quell’ora sapeva con certezza essere vuote. Zayn era appena riuscita a farla crollare con poche note ascoltate da dietro una parete, tanto da lasciarsi scivolare contro la porta e stringersi le mani tra loro per evitare che tremassero, senza troppo successo. Zayn l’aveva appena fatta a pezzi, e ora lottava per rimettersi insieme almeno quanto bastava per non farsi vedere in quello stato da chi l’avesse vista camminare a testa bassa fino in sala.
Avrebbe messo tutta quell’emozione in quel che cantava, quella sera.
E, anche quella sera, Zayn l’avrebbe ascoltata tirar fuori tutto. Ma lei non lo sapeva e forse non l’avrebbe mai saputo.
Andavano avanti in quel modo da giorni che avevano fatto in fretta a diventare settimane.
Lui continuava a fermarsi in sala di registrazione, nella penombra e attento a non farsi vedere; continuava ad ascoltarla, ad osservarla, a registrare ogni particolare delle sue dita smaltate frettolosamente strette intorno al microfono o dei riccioli ribelli che le ricadevano sulla fronte mentre con un respiro più profondo in preparazione ad una nota più lunga i suoi denti giocherellavano col piercing al labbro; continuava ad immaginare le note che avrebbe potuto suonare per lei; continuava ad immaginarla ad occhi chiusi e labbra socchiuse mentre si lasciava andare completamente alla musica. Lui continuava a passare notti insonni e continuava a suonare alla ricerca di una perfezione che iniziava a sospettare non esistesse – non intrinseca in se stesso, almeno. Lui continuava a sentire la musica come aveva sempre fatto, o forse anche qualcosa in più del solito, anche se non capiva come potesse accadere.
Lui, sospettava fosse merito di Esme.
Lei continuava a sedersi contro la parete del teatro con un mezzo sorriso sulle labbra e le dita a picchiettare sulla coscia destra; continuava ad ascoltarlo e ad immaginarlo suonare, a registrare nella propria mente ogni nota e ogni particolare che le arrivasse alle orecchie, senza vederlo, senza bisogno di farlo. Continuava ad immaginarlo suonare per lei. Continuava ad immaginarlo coi capelli scompigliati, il sudore sulla fronte, le ciglia che gli si sfarfallavano fino ad abbassarsi completamente e le labbra che buttavano fuori l’aria in interminabili sospiri che sapeva le avrebbero fatto venire la pelle d’oca se li avesse sentiti addosso, mentre si lasciava andare completamente alla musica. Lei continuava a sentire gli occhi pizzicarle e lottava contro se stessa per non piangere quando una nota più intensa le arrivava addosso e rischiava di farla crollare. E continuava a cantare come se non avesse altra opportunità per sfogarsi, lei. Continuava a sentire la musica come aveva sempre fatto o forse anche qualcosa di più, e anche se capiva perché le accadesse, forse non l’avrebbe mai ammesso.
Lei, sapeva fosse merito di Zayn.
E Zayn… lui avrebbe solo voluto riuscire a tenere la bocca chiusa per non rovinare tutto come sempre. Avrebbe solo voluto essere un ragazzo diverso, con un rapporto diverso coi propri genitori. Avrebbe voluto avere genitori diversi, che magari avessero capito le sue aspirazioni, i suoi desideri, la sua passione per i tatuaggi e per il violoncello elettrico. Avrebbe voluto che non finissero per urlargli contro ogni volta che si presentava a casa – per andare a trovare la sorella minore, non per altro – e quando gli chiedevano come andasse lui rispondeva che aveva sempre qualche serata da fare, anche se non era come volevano che andasse loro.
Avrebbe voluto evitare di litigare davanti alla sorella. Avrebbe voluto evitare di farla spaventare, piangere, nascondersi in cameretta e non scendere nemmeno per salutarlo. Avrebbe voluto far sentire ai suoi cos’era per lui quello strumento, anche se era diverso e alternativo e a loro non era mai andato a genio. Avrebbe voluto smettere di arrabbiarsi e di stringere i pugni e di urlare, perché in fondo non portava a nulla se non a farlo scappare e a non sapere come sfogarsi, come annullare la rabbia, come trattenere le lacrime.
Avrebbe voluto che provassero a capire, perché non poteva andare avanti così.
Non poteva continuare ad arrabbiarsi, ad urlare, a spaventare tutti e non risolvere niente. Non poteva tenersi tutto dentro. Non poteva più andare avanti in quel modo, facendo finta che il problema non esistesse. E non poteva credere di non averci pensato prima, quando rientrando in accademia si diresse direttamente in teatro, col violoncello elettrico in spalla e l’amplificatore subito dietro, trascinato sul solito carrellino.
Aveva troppa rabbia nelle iridi per farsi fermare e troppa instabilità nelle dita che gli tremavano, strette intorno alla cinghia della custodia dello strumento. Era visibilmente scosso, evidentemente, perché le due ragazze che lo videro arrivare trafelato dalle porte principali del teatro non si opposero nemmeno più di tanto, quando lui chiese loro di lasciargli il teatro. Le aveva interrotte nel loro duetto, in cui le voci della rossa e della bionda si fondevano in modo quasi irreale.
E di norma Zayn non avrebbe interrotto un altro artista, ma il teatro gli serviva, e gli serviva in quel momento, o sarebbe scoppiato. Di norma le avrebbe lasciate finire, le avrebbe anche applaudite con un mezzo sorriso solo per vederle arrossire e magari ridacchiare passandosi una mano tra i capelli. Di norma avrebbe lasciato correre, avrebbe aspettato o avrebbe pensato ad un altro modo per sfogare il nervosismo, ma in quel caso rischiava di prendere a pugni qualcosa o qualcuno, ed era l’unica cosa che avrebbe voluto fare.
«Vi lascio le mie due ore di domani, Iris…», disse loro provando ad accennare un sorriso, che però era troppo tirato per sembrare vero.
La bionda si mordicchiò appena un labbro, vedendolo in quello stato, ma poi annuì con un sorriso leggermente preoccupato e un’occhiata che però lui fece finta di non vedere, prima di prendere Roxanne sottobraccio e trascinarla via senza nemmeno spiegarle cosa stesse succedendo, perché lei poteva solo immaginarlo lontanamente, dal poco che le aveva raccontato Harry quando stavano insieme, troppo tempo prima perché potesse ancora avere importanza – o forse no.
E il ragazzo rivolse loro un sorriso sollevato, anche se minuscolo e poco visibile, prima di sistemare la strumentazione e attaccare il violoncello all’amplificatore. Seduto sulla solita sedia presa dietro le quinte, iniziò a suonare come se fosse l’ultima volta, mentre le due ragazze che aveva appena cacciato malamente dalle loro prove camminavano per il corridoio alla ricerca della loro migliore amica, quella che stava scaricando il proprio dolore sul microfono come il musicista dal quale si erano appena allontanate stava facendo col violoncello.
«Che ci fate voi…?». Esme si interruppe all’improvviso e a metà frase, quando liberandosi delle cuffie il sorriso che le era appena spuntato al vedere le amiche le scomparve di dosso nel giro di pochissimi secondi, sostituito da un brivido lungo la schiena più potente del solito al sentire una serie di note fin troppo riconoscibili arrivarle alle orecchie, lontane ma con la potenza di un uragano. «Pensavo foste in teatro…», riprovò in un sussurro, ma fermata di nuovo da tutta quella rabbia che anche se distante le si riversò addosso facendola per un attimo smettere di respirare.
«Eravamo in teatro, infatti… ma il tuo violoncellista tenebroso sembrava incazzato».
«Parecchio tenebroso, incazzato e sexy», aggiunse la rossa con l’accenno di una risata che di conseguenza portò Esme a mordersi un labbro anche più forte del solito e a reprimere l’accenno di un sorriso, al sentir parlare di lui. Le due ragazze si sedettero sui due sgabelli liberi ai lati della mora, ma non fecero in tempo a dire altro che lei era già scesa dal proprio con una mano tra i ricci, il labbro ancora stretto tra i denti e la borsa già a tracolla prima che si accorgesse di averla presa in mano. «Dove stai andando?». Ma Roxanne stava già ridendo, quando dopo averglielo chiesto Esme si era limitata a leccarsi il labbro e fare spallucce, come se quei pochi gesti apparentemente insignificanti in realtà spiegassero tutto.
Quasi non le sentì scoppiare a ridere, mentre le salutava con un “ciao” appena sussurrato e usciva dalla sala di registrazione senza pensare, come se i piedi le si muovessero da soli, vivi di vita propria e determinati a conoscere finalmente l’oggetto del proprio desiderio e la causa di tanto entusiasmo e dolore insieme. Percorse tutto il corridoio con un mezzo sorriso ad incresparle le labbra e qualche parola della canzone che lui stava suonando poco distante a prendere forma e venire alla luce quasi senza che lei lo volesse.
Quasi non si accorse di trattenere il fiato.
E quasi non si accorse di spingere sulla pesante porta di legno per aprirla.
Quasi non se ne accorse, perché i suoi piedi l’avevano già fatta entrare nel teatro. Quasi non se ne rese conto, che era già dentro, con la musica altissima e violentissima che le arrivava addosso quasi a volerle far male fino ad ucciderla e Zayn poco lontano, tanto concentrato sul proprio strumento e la propria musica rabbiosa da non accorgersi di lei.



 

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Capitolo 3
*** 3. La furia del violoncellista. ***








3. La furia del violoncellista.



Avrebbe dovuto maledirsi in tutte le lingue conosciute, per essere entrata in quel teatro mentre lui suonava. Avrebbe voluto avere la forza di riaprire la pesante porta di legno, voltarsi e tornare il più velocemente possibile da dov'era venuta. Tornare in sala di registrazione, rimettersi le cuffie, isolarsi di nuovo e ricominciare a cantare come se non l'avesse sentito suonare e non avesse sentito quella rabbia e non fosse stata presa dalla sua solita curiosità, che come sempre la portava ad agire ancor prima di pensare.
Ma era sempre stata troppo curiosa ed era troppo impulsiva per essere fermata. Impulsivi i suoi piedi, che si erano mossi lungo il corridoio del piano terra dell'accademia quasi senza che lei lo volesse o almeno se ne accorgesse. Impulsive le sue labbra, che avevano preso a muoversi, intonando a voce appena udibile la canzone tanto familiare alle sue orecchie - impulsive anch'esse - che lui stava suonando egregiamente, ma forse con troppa forza, con troppa rabbia, furia, rancore. Impulsive le sue mani, che avevano spinto sulla porta senza che fosse loro richiesto, in uno stimolo tutto loro e impossibile da fermare.
Impulsiva lei, col respiro incastrato nei polmoni e il cuore in gola senza possibilità di ritorno.
A guardare lui, dal primo istante in cui mise piede in quel teatro e dai primi passi che percorse lungo il corridoio che divideva le poltrone le une dalle altre. In completo silenzio, con la paura anche di respirare, di interrompere la sua musica con un sospiro sfuggitole dalle labbra o inciampando nei propri piedi o svenendo direttamente, uccisa da tutta la rabbia che lui le stava scaricando addosso suonando e senza nemmeno saperlo. In silenzio per non interrompere, per non disturbare e soprattutto per non farsi scoprire.
A guardare lui, illuminato appena dalle luci non troppo intense del teatro e troppo impegnato ad abbracciare lo strumento che teneva tra le braccia per potersi accorgere di qualsiasi altra cosa. Tanto impegnato da tenere le palpebre abbassate e farsi trasportare dalla musica quasi come lui fosse un naufrago e le note che suonava fossero l'unica cosa che riuscisse ad impedirgli di andare a fondo senza possibilità di tornare a galla vivo. Tanto preso dalla musica da permetterle di arrivare alle prime file senza essere vista, posare la borsa carica di spartiti buttati dentro a caso su una poltrona con la mano che non riusciva a smettere di tremarle e il cuore che le batteva tanto forte nel petto da sentirlo rimbombare nelle orecchie.
Poltrone rosso porpora tutte uguali ma tutte diverse, ognuna con la propria storia da raccontare ma tutte con la stessa stoffa di velluto a ricoprirne la seduta e lo stesso odore di tessuto, di teatro e di musica. Poltrone spettatrici silenziose di uno spettacolo udito da molti ma visto da nessuno... unica spettatrice, Esme, che più lo guardava e più non riusciva a smettere di farlo e più lo ascoltava e più avrebbe voluto fare a meno del resto dei suoni, pur di continuare ad ascoltare il modo in cui l'archetto tra le mani di Zayn creava tutta quella meraviglia, apparentemente senza nemmeno sforzarsi.
Ma lo sforzo c'era eccome.
Esme poteva vederlo nella sua fronte aggrottata e nella piccola ma profonda ruga che gli si era formata tra le sopracciglia scure, e che gli tremava ad ogni movimento più intenso delle dita, ad ogni nota vibrata e ad ogni scarica di rabbia che sembrava fluire da lui e renderlo a mano più leggero, ma che non faceva comunque diminuire la forza con cui stava continuando a suonare, nè i movimenti violenti che le sue dita strette intorno all'archetto continuavano a produrre scontrandosi contro le corde. Movimenti obliqui, brevissimi, effimeri e che quasi sembravano non avere a disposizione abbastanza tempo per esistere davvero.
Era visibile nel sudore che gli si formava sulla fronte e gli appiccicava i capelli alla pelle, o nell'eterno sospiro che gli si poteva veder scivolare via dalle labbra come a riprendere fiato tra un movimento e l'altro, come se stesse sussurrando il nome di un'amante facendoci l'amore o come stesse semplicemente mormorando tra sè le parole della musica che stava suonando, canticchiandole senza voce perchè lo strumento che teneva fermo tra le ginocchia faceva già tutto al posto suo. La fatica era in quelle ciglia scure che gli tremavano, negli occhi chiusi e nel naso leggermente arricciato, nella mascella serrata e nei muscoli del collo tesi. La fatica era nelle spalle contratte e brillanti di un velo quasi impalpabile di sudore.
Lui, era fatica. Sforzo fisico. Ma anche soddisfazione, che dopo tutto quell'esercizio e quella fatica e quello sforzo arrivava sui muscoli doloranti e le orecchie sensibili per la musica alta a posarglisi addosso come una pomata, a lenire tutto e donargli un senso di pace che solo la musica e il violoncello e quelle note violente sapevano dargli. La musica era sfogo e conforto dove niente e nessun altro sapevano arrivare, per Zayn. La musica lo rendeva libero di lanciare una vecchia felpa col cappuccio sul parquet fresco di cera e di suonare in canottiera senza che nessuno si lamentasse che quello non era l'atteggiamento giusto, per un musicista classico.
Beh, lui in quel momento era una rockstar, non un pomposo violoncellista classico.
Ed Esme era l'unica spettatrice di tale spettacolo, l'unica ragazza che avesse mai avuto il coraggio di irrompere in un teatro mentre lui si esercitava e senza sentirsi minimamente in colpa, perchè sentirlo suonare era un conto... ma vederlo era tutt'altra cosa. Vederlo suonare e muovere quell'archetto e accarezzare le corde con le dita; o vedere i capelli scuri sfuggire alla coda e cadergli sulla fronte; o vederlo mordersi le labbra e muovere il piede a ritmo sulla pedaliera e osservarlo muoversi in sincrono con lo strumento, quasi come se fosse vivo e ci stesse ballando o avesse la pelle morbida di una giovane donna e lui lo stesse accarezzando. Tutto quello, beh, era diecimila volte meglio che sentirlo suonare da dietro una parete.
Lei era l'unica ragazza che poteva dire di averlo visto suonare davvero, mentre si liberava di tutta la rabbia e di tutto il rancore repressi, senza freni e senza inibizioni. L'unica che lo stesse vivendo e guardando davvero, e l'unica che non riuscisse a smettere di farlo. Perchè smettere di guardarlo suonare sarebbe stato come smettere di respirare, in quel momento... sarebbe stato come farsi colpire in pieno dalla sua rabbia fatta musica, invece che provare a capirla. Smettere di guardarlo le avrebbe fatto a pezzi il cuore e l'avrebbe fatta sciogliere in lacrime, come cercava di evitare che succedesse ogni volta che lo ascoltava dal corridoio.
Una nota più potente delle altre la fece annaspare e chiudere gli occhi, irrigidendone i muscoli e facendone serrare le dita intorno al velluto della poltrona, mentre un sospiro più pesante dei precendenti le sfuggiva dalle labbra a rompere il silenzio e il segreto che aveva cercato di mantenere dal momento in cui aveva messo piede lì dentro. Rigida contro lo schienale, con gli occhi chiusi e completamente in balìa della musica, quasi non si rese conto di essere stata scoperta, e non si accorse che Zayn aveva appena sollevato le palpebre, puntando la proprie iridi scure sul suo viso.
Gli occhi del ragazzo, ora aperti, sembrava non riuscissero a richiudersi. Le sue iridi di solito color nocciola erano rese più scure dalla rabbia che gli montava dentro, ma più chiare a mano a mano che sfogava la propria frustrazione sullo strumento, meno arrabbiate a mano che l'archetto scorreva con la sua solita fluidità sulle corde. Fino a tornare ad essere del colore di sempre, quando le palpebre gli si sollevarono attirate da quel sospiro e si posarono prima con impazienza e poi quasi con timore su di lei.
Impazienza, perchè non credeva potesse essere proprio lei, nemmeno lontanamente. Poteva essere una delle ragazze che di solito si fermavano ad ascoltarlo suonare fuori dall'auditorio, anche se sospettava che nessuna di esse avesse il coraggio di intrufolarsi lí dentro con lui presente. Come sospettava, anche, che se fossero mai entrate si sarebbero limitate a nascondersi - nella penombra, o nelle ultime file, il più lontano possibile dall'essere viste, sentite o qualsiasi altra cosa. Impazienza, perchè odiava essere osservato o disturbato o interrotto mentre suonava. Impazienza, perchè se fosse stata una ragazza qualunque avrebbe smesso all'improvviso, l'avrebbe guardata col peggiore degli sguardi o l'avrebbe direttamente cacciata di lì urlando. Ne sarebbe davvero stato capace... ma lei non era una ragazza qualunque.
Ed era proprio quello che lo intimoriva. Lei era la ragazza che aveva seguito, spiato e sentito cantare fino a sentire gli occhi chiudersi dal sonno; lei era la ragazza con la voce incredibile e le felpe con le maniche lunghe fino a coprire le mani - come in quel momento; lei era la ragazza che con la propria voce riusciva a trasportarti in un mondo e senza sforzarsi minimamente.
Lo intimorivano i suoi capelli ricci sempre un po' ribelli e le palpebre sempre abbassate a nascondere il colore delle proprie iridi; lo intimoriva quel piercing al labbro inferiore e le sue stesse labbra e la sua voce che senza troppa fatica avrebbe potuto rompere un bicchiere di cristallo e rimetterlo insieme come se non si fosse mai rotto; lo intimorivano quelle felpe che la coprivano come non avesse una forma, e quei jeans stretti e strappati che al contrario le facevano due gambe da urlo; lo intimorivano quelle scarpe da ginnastica distrutte dall'usura, perchè era evidente quanto ci avesse camminato e quanto in qualche modo che lui non capiva tenesse alla loro storia.
Lo intimoriva lei, dalla punta dei ricci alla suola delle scarpe.
E continuare a suonare con la stessa rabbia in sua presenza era impossibile, perchè sembrava semplicemente essere svanita nel momento in cui si era accorto di lei, perchè il suo sorriso era quasi più rassicurante di quanto non lo fosse mai stato la musica e perchè quasi si faceva schifo da solo, ad essersi mostrato tanto vulnerabile e arrabbiato davanti a lei.
Non restava che trasformare la rabbia in qualcos altro, cambiare in modo impercettibile l'inclinazione dell'archetto o la posizione delle braccia; bastava cambiare canzone all'improvviso per vederla irrigidirsi e trattenere il fiato; bastava che la rabbia si trasformasse in passione, perchè le sue ciglia sfarfallassero fino a farle risollevare le palpebre e le sue labbra si stirassero nell'ombra di un sorriso o le sue gambe si rilassassero sul sedile, meno attaccate al petto, come sentisse che non c'era più bisogno di proteggersi perchè non c'era più nulla di cui avere paura, in quel teatro deserto di persone ma carico di musica.
Era bastato poco, per guardarla finalmente negli occhi e vederci le foglie di primavera. Poco, per perdercisi e perdere un respiro e perdere il filo di quel che stava suonando, ma fortunatamente senza che lei se ne accorgesse o almeno senza che lei gli facesse capire che se n'era accorta. Poco, perchè lei si passasse la lingua sulle labbra e nascondesse un sorriso incastrando una mano tra i capelli. Davvero poco, perchè la rabbia che l'aveva mosso fino a lì svanisse come fumo di sigaretta nella brezza di aprile, quasi come se grazie a quegli occhi verdi, quelle ciglia scure e la spessa montatura di quegli occhiali il resto avesse semplicemente smesso di esistere, sostituito solo da lei e dalla sua espressione nel sentirlo suonare, dalle mani ancora strette sulle maniche del maglione che indossava e dal piercing al labbro che riusciva a brillare nonostante la pochissima luce presente.
Ed era bastato poco, perchè di riflesso la ragazza si perdesse negli occhi scurissimi del violoncellista, prima che lui riabbassasse le palpebre con l'accenno di un sorriso e finisse di suonare. Più lieve, meno violento. Ma pur sempre da far venire i brividi lungo la schiena e immaginare davvero che lui sfiorasse lei, al posto del violoncello. Più lieve e passionale... più lucide le sua labbra, più rilassato il volto, quasi travolto anch'esso come lei dalla potenza della musica, dal vibrare delle corde e dall'importanza di quel momento. Più lievi e meno violenti anche i suoi occhi, più limpidi a mano a mano che i secondi scorrevano inesorabili e meno arrabbiato il suo sguardo a poco a poco che guardava lei. Solo lei. Non riusciva a guardare nient'altro che non fosse il suo viso, in quel momento.
Così come lei, del resto, non riusciva a far altro se non guardare lui e cercare di capire di che colore fossero davvero, quegli occhi. Oppressa dalla loro oscurità, ma senza riuscire a desiderare di uscirne. Al contrario, col desiderio di vederli da vicino, di affogarci dentro, di calarcisi pian piano e tutto in una volta per scoprire chi fosse davvero lui e da dove provenisse davvero tutta quella rabbia che gli aveva sentito buttar fuori fino a qualche secondo prima, fino a che non aveva mosso delicatamente l'archetto ad accarezzare le corde per produrre l'ultima nota, quella che fece socchiudere gli occhi ad entrambi, chi con un mezzo sorriso, chi mordendosi un labbro per non rendersi ridicola sospirando.
Tanto profondi, quegli occhi, da non riuscire a distogliere lo sguardo. Esme infatti sembrava come incatenata a lui, in quel momento. Tanto presa da quelle iridi scure - tanto diverse da quelle che aveva amato un tempo - da non accorgersi di quanto stesse diventando insistente il suo sguardo su di lui. Tanto presa da lui da non rendersi conto di quanto forte si stesse mordendo il labbro inferiore, almeno finché non sentì il sapore rugginoso del sangue sulla lingua. Tanto presa da quel momento da farsi scappare un sospiro lievissimo, con le mani che le tremavano come quando era entrata lì dentro ed era stata colpita da quell'uragano di musica e rabbia che le era piombato addosso senza nemmeno pensare di chiedere scusa.
Rilasciò il labbro inferiore dalla trappola dei denti, insieme a quel sospiro, appena in tempo per accorgersi di quanto imbarazzante stesse diventando guardarlo senza riuscire a dire nulla, guardare in quegli occhi e aspettare che come per magia essi parlassero al posto suo - e c'era una scintilla, che sembrava davvero sul punto di voler dire qualcosa ma che alla fine non riuscì a dire nulla in più dello sbattere veloce delle palpebre, che le fece finalmente distogliere lo sguardo da lui e da quel mare color nocciola versato nei suoi occhi.
Rilasciò il nervosismo sotto forma di una risata, Esme.
Una risata che arrivò alle orecchie del ragazzo sotto forma di note scritte di fretta su un pentagramma e impresse a fuoco nella sua mente. Come avesse voluto riprenderle, poi, e riprodurre quella risata - arrivatagli alle orecchie come un coro di campanelle - al violoncello. Una risata che si perse nella grandezza di quello spazio, scemando a poco a poco fino a scomparire nel vuoto, tra le luci che provenivano dall'alto, le pareti insonorizzate e il velluto color porpora delle poltrone. Una risata che le orecchie di Zayn catturarono e tennero con sè come fosse il loro piccolo segreto, di cui nessuno doveva venire a conoscenza.
E applaudì, Esme, tornando a guardarlo e facendolo scoppiare a ridere con lei, che anche se imbarazzata non riusciva nè a smettere di sorridere come una stupida nè a smettere di riascoltare la sua bellissima risata. Bellissima come le nuvole che nascondono il cielo sopra Londra, come i palazzi riflessi sul Tamigi e come camminare per la città di notte e immaginare di dirigere le luci dei semafori come stesse dirigendo un'orchestra. Bellissima come un'alba, la sua risata. Unica come ogni goccia di pioggia che si schianta violentemente sull'asfalto e unica come l'arcobaleno che la seguiva.
Applaudì senza riuscire a smettere di ridacchiare, anche se tentata di scappare da lì e tornare a far finta che lui non esistesse. Tentata di alzarsi mentre lui riponeva il violoncello nella sua custodia. Tentata di evaporare come neve al sole, pur di non affrontarlo - anche se lei non era mai stata il tipo di ragazza da farsi intimidire da un ragazzo, tantomeno uno strumentista, per quanto dotato potesse essere e per quanto potesse farle venire i brividi anche solo guardandola di sfuggita.
Tentata di scappare, ma fermata dai suoi occhi di nuovo sul proprio viso, fermata dalla vista delle sue mani inanellate incastrate tra i capelli, a tirarli indietro per legarli alla meno peggio. Distratta da lui, dal suo modo di scendere i pochi gradini che dividevano il palco dalla platea, dal suo modo di camminare e rinfilarsi la felpa col cappuccio che fino a qualche istante prima giaceva buttata a caso sul pavimento di fianco alla custodia dello strumento, come se prima di iniziare a suonare se la fosse sfilata con rabbia e l'avesse gettata a terra con noncuranza, quasi con rancore. Distratta dal suono del suo respiro affannato sempre più vicino, Esme non riuscì a muoversi se non per seguirlo con gli occhi e continuare a stringere i polsini del maglione tra le dita.
Sempre più vicino, il suo respiro. Sempre più vicino lui e sempre più vicino il suo forte odore di tabacco e di sudore. Sempre più vicino il colore dei suoi occhi ma sempre meno il coraggio della ragazza di guardarci dentro e sentirsi tirare giù fino a soffocare. Tanto vicino da sentirne il battito velocizzato del cuore e sentirne quasi il calore della pelle sulla propria, oltre al suono del respiro che di secondo in secondo sembrava quasi entrarle nelle orecchie.
«Niente male, per essere uno strumentista», minimizzò la mora, reprimendo l'istinto di scoppiare a ridere, vedendolo spostare la tracolla sul sedile accanto e occuparne il posto con un sospiro e un sorriso insieme. Inarcò semplicemente un sopracciglio ma non disse altro che potesse distrarlo dalle proprie parole. Niente male. Bugia. Era chiaro come il sole quanto davvero l'avesse colpita, bastava sfiorarle le guance leggermente macchiate di rosso con lo sguardo, per capirlo.
«Nemmeno tu sei male...».
«Esmeralda, piacere».
La giovane gli porse la mano - quel giorno con le unghie smaltate di rosso ma che già stava andando via. Assaporò il contatto con la mano di Zayn in punta di dita, sfiorandone i polpastrelli, i leggeri calli che li ornavano, la lunghezza della dita affusolate e il calore della sua mano. La strinse appena, quella mano, accennando un debole sorriso quando lo sentí ricambiare la stretta, spiazzata da tanta forza e delicatezza insieme. Era come se stesse ancora stringendo l'archetto, anzichè la mano di una ragazza; era come volesse stringere quanto bastava per sentirla davvero ma non abbastanza da farle male; come stesse stringendo tra le dita una farfalla in fin di vita, invece che la mano di Esme.
«Zayn, piacere mio».
Appena fuori dal teatro, i capelli rossi di Roxanne venivano addomesticati alla meno peggio in quello che avrebbe dovuto essere uno chignon, ma che in realtà vedeva parecchi ciuffi ribellarsi e andare per conto loro - frangetta a parte, quella era sempre perfetta comunque la mettesse. Appena fuori dal teatro, Roxanne canticchiava appena, con le labbra strette su un insieme di spartiti che non aveva saputo come altro reggere, avendo le mani impegnate. Appena fuori dal teatro, ripassava il testo di una canzone passeggiando avanti e indietro, pur di non passare la serata in camera con la propria coinquilina che, malauguratamente, suonava la tromba e si sarebbe esercitata fino a non aver più fiato.
Con lo sguardo concentrato sui listelli di parquet scuro che ricoprivano il pavimento e le mani ancora impegnate a tenere fermi i capelli, non si accorse del ragazzo biondo che le arrivò addosso spuntando all'improvviso dalle scale che portavano al piano di sopra e ai dormitori, oltre che ad altre aule di musica e agli uffici dei professori. Biondo. E con la chitarra acustica tra le mani. Con gli occhi celesti sgranati dalla sorpresa di essersela trovata di fronte all'improvviso e col timore di averle fatto male a far capolino nelle stesse iridi, mentre lei lasciava andare i capelli e schiudeva le labbra rosa abbastanza da far scivolare fino a terra gli spartiti che tenevano strette.
«Io... scusami... non volevo venirti addosso».
«No, io... scusami tu, dovrei guardare dove vado», mormorò la ragazza, stranita dal colore di quelle iridi che mai erano state tanto vicine e mai l'avevano guardata davvero, non in quel modo. Si passò la lingua sulle labbra secche - facendolo deglutire - prima di trattenere una risata imbarazzata e abbassarsi a raccogliere gli spartiti, nello stesso momento in cui al biondo venne la stessa identica idea. Testa contro testa, quindi, prima che entrambi scoppiassero a ridere mel corridoio deserto e si porgessero la mano, quasi in sincrono. «Roxanne, piacere», riuscí a dire, ancora con la propria risata in gola e quella del ragazzo a risuonarle nelle orecchie.
Come la canzone dei Police, avrebbe voluto dire lui, ma non ne ebbe il coraggio.
«Niall, piacere mio».
E le strinse la mano come fosse una canzone, piano, come la stesse accarezzando con le corde della propria chitarra fino a plasmarla e renderla la cosa più bella che avesse mai suonato. Le strinse la mano indugiando sulle sue dita, sul calore della sua pelle, marchiandola coi piccoli calli che gli ricoprivano le dita, marchiandola con se stesso, mentre lei ricambiava la stretta quasi senza riuscire a respirare. La strinse come pensava che lei volesse essere stretta, mentre la sua risata ancora gli girava nelle orecchie e sembrava non volersene andare.
Le strinse la mano beandosi della nascita di un sorriso sulle labbra di Roxanne, rendendosi conto di aver pensato anche se solo per un attimo di voler essere lui, la causa di quel meraviglioso sorriso e di quelle iridi scure che avevano preso a brillare come piccole luci al led in un corridoio buio.
Le strinse la mano, Niall, mentre poco lontano Esme si alzava dalla poltrona color porpora su cui era ancora seduta senza riuscire a trattenere un sorriso e si sporgeva oltre Zayn per recuperare la propria tracolla. Tanto vicina da sfiorargli il viso coi ricci, tanto vicina da respirarne l'odore e lasciarsene penetrare in modo indelebile le narici e tanto vicina - per quell'istante effimero in cui prese la borsa e tornò indietro - da sentirlo respirare nel proprio orecchio come fosse un segreto. Tanto vicina da sentirselo quasi sorridere contro la pelle.
E non disse una parola, mentre lo superava e tornava sui propri passi. Sempre più lontana da lui, dal suono della sua risata, dal suo sorriso, dalla sua pelle lucida di goccioline di sudore e dalla scia del suo profumo. Sempre più lontana ma sempre col sorriso, mentre prendeva a fischiettare proprio la canzone che lui le aveva suonato proprio prima. Lo fece scoppiare a ridere e probabilmente scuotere la testa, cosa che la fece voltare prima che potesse spingere la porta ed uscire, allontanandosi definitivamente da lui.
Non disse una parola nemmeno a sentirlo ridere, quando in realtà avrebbe voluto dargli addosso e dirgli di smetterla picchiandogli il petto, perché quella risata era davvero troppo per essere sopportata e non reagire. Quella risata, la sua risata, chiedeva almeno di sentir ridere in risposta. Non disse nulla, la lingua paralizzata dal suo sguardo che le trapanava la schiena come volesse passarle attraverso e leggerle dentro - come volesse spogliarla, con quello sguardo.
Non avrebbe voluto allontanarsi da quella risata, per nessun motivo al mondo.
Cosí, pur di non scomparire troppo in fretta, si voltò di nuovo verso il palco, tornando indietro di qualche passo e facendo incastrare i loro sguardi, riuscendoci anche nella penombra. Pur di non lasciar andare quel momento, lo guardò stringendo di più la presa sulla tracolla della borsa, prima di dire le uniche parole che le vennero in mente di cui non si sarebbe mai pentita, nemmeno fosse cascato il mondo.
«Suoni divinamente quando ti incazzi, sai?».
Qualche altro passo verso Zayn, mentre lui si alzava come di riflesso e le andava incontro senza riuscire nè provare a fermarsi. Con lo sguardo scuro e divertito rivolto verso il basso, a sollevarsi lungo le sue gambe a mano che le si avvicinava, a mano che ricominciava a sentirne il profumo di fiori e il sentore di menta che sembrava portarsi dietro ovunque andasse - anche se lui ancora non lo sapeva.
«Chi ti dice che fossi incazzato?», la provocò lui inarcando un sopracciglio.
«La musica...», gli rispose semplicemente, arrivando dritta al punto. Di nuovo tanto vicini da respirarsi, abbastanza da allungare la mano e sfiorarsi. E fu quello che fece lei, senza nemmeno starci a pensare troppo su; allungò una mano verso il suo viso, catturando una ciocca di capelli umida di fatica sfuggita alla coda improvvisata e portandogliela dietro l'orecchio. Indugiando sulla sua pelle, sul freddo metallo del piercing al sopracciglio. Indugiando su di lui, in ogni particolare, fino ad imprimerselo in mente. «Mi ha detto più lei di quanto non mi avresti tu se te l'avessi chiesto», mormorò, a voce tanto bassa da far fatica a sentirla, non ci fosse stato il silenzio più completo.
«Magari ti sbagli». Non ti sbagli. Sei l'unica che se ne sia mai accorta davvero.
«Certo... ma magari invece no, perchè io sento nello stesso modo in cui senti tu». Sentiamo tutti nello stesso modo, Esme. Avrebbe voluto dirlo, urlarglielo contro la pelle, distruggerla con quelle poche parole che nemmeno lontanamente avrebbe potuto considerare vere, ma non poteva spezzare un legame appena nato come il loro. Non si sarebbe spezzato. E non voleva spezzare lei, era tanto fragile che non si sarebbe aggiustata... e vederla in pezzi, stranamente, era l'ultima cosa che voleva. «Dovresti averlo intuito, a forza di sentirmi cantare», aggiunse la mora con l'accenno di un sorriso, più compiaciuto che davvero irritato come avrebbe voluto sembrare.
Esme fece schioccare la lingua contro il palato, trattenendo l'ennesimo sorriso, che però era troppo spontaneo per essere nascosto, quando vide Zayn mordersi il labbro e subito dopo passarci sopra la punta della lingua ad inumidirlo, come fosse appena stato colto in flagrante. E lei davvero non sapeva se esserne più lusingata o... spaventata. C'era davvero motivo di esserne spaventata? In fondo lui l'aveva solo ascoltata cantare, come prima di lui avevano fatto altre decine di persone. Era solo strano, per Esme, che lui non l'avesse fatto alla luce del sole come tutti gli altri.
Era solo strano, e non potè trattenersi dal ridere scuotendo appena la testa, prima di scostarsi da lui, voltarsi ancora e tornare per la seconda sui propri passi, diretta lontano da lui e dal suo sguardo terribilmente affascinante.
Di nuovo vicina alla porta, con la mano già sul legno lucido e freddo, quasi non si accorse di essere praticamente investita dalla porta stessa e dal ragazzo che dall'altra parte stava spingendo per entrare, con più di quanta non stesse mettendo lei per uscire. E da essere contro la porta si ritrovò ad essere contro un ragazzo e la sua chitarra, contro il profilo familiare e il petto ampio di Niall. Il biondo la afferrò per un gomito ridacchiando prima che potesse cadere, salutandola poi come se si conoscessero da sempre, cosa che era più o meno vera, se un anno poteva considerarsi tale.
Ma lo sguardo di nuovo scuro di Zayn le avrebbe detto più di quanto stesse dicendo il ragazzo con la chitarra che ancora la teneva per il gomito, se solo lei se ne fosse accorta. Sembrava gelosia, forse, ma nemmeno il violoncellista poteva esserne sicuro... non era geloso da così tanto che non ne ricordava più neppure la sensazione sulla pelle, nelle iridi, sulla nuca; non era geloso da quando lei se n'era andata, e Esme non era lei, era solo una bella voce di cui non riusciva a fare a meno.
Paradossalmente, proprio come lo era stata lei.
Solo che quello sguardo Esme non lo vide mai, come non si accorse della nascita di quella gelosia nei suoi occhi. Non si accorse del dolore, dei ricordi riaffiorati. Troppo impegnata a salutare Niall, non si accorse del tumulto di Zayn nè di null'altro. Fuori dal teatro, interrotta dal salutare il moro ancora dal chitarrista che «Ti si sente dal piano di sopra, Zay», prima che scoppiasse a ridere come faceva sempre, facendo sorridere l'altro anche se aveva ancora lo sguardo fisso su di lei. Fuori dal teatro, voltatasi per salutarlo, riuscì a farlo solo con un sorriso, una strana luce negli occhi verdi e un gesto delle dita, mentre le sue labbra mimavano un "ciao" e sparivano dalla sua vista come ghiaccio che si scioglie al sole.
E lei era già lontana, quando lui vide qualcosa di metallico brillare appena sulla moquette scura. Era già troppo lontana per poterla raggiungere, chiamare o fermare, quando si chinò per raccogliere la collana che doveva esserle caduta nello scontro con Niall. In fondo, avrebbe dovuto ringraziarlo, anche se continuava a ridere di lui e del suo comportamento... c'era da aspettarselo però, lui era fatto così - e aver conosciuto Roxanne lo rendeva anche più allegro ed entusiasta del solito, ma il moro non poteva saperlo, nè se ne curò più di tanto, se non sorridendogli e dandogli un'ironica pacca sulla spalla.
Esme si addormentò tardi quella sera, tenuta sveglia un po' dal pensiero di Zayn che suonava a pochi metri da lei - facendole rivivere fino a notte fonda ogni movimento del suo archetto e ogni sospiro che gli era uscito dalle labbra suonando - e un po' dalla sensazione che le mancasse qualcosa. Solo, non era riuscita a capire cosa nemmeno mentre crollava tra le lenzuola, ancora con una matita incastrata tra i capelli a tenerli fermi e in mente il pensiero di quel ragazzo che era riuscito a farla sospirare solo suonando, senza nemmeno sfiorarla.
Si addormentò tardi, dormì male e venne svegliata anche troppo presto, per essere sabato mattina. Mugugnò qualcosa nel cuscino, prima di lanciare un occhiata alla sveglia sul comodino e imprecare a voce alta. Le otto del mattino di sabato. No. Cioè, no. Non poteva credere che qualche coglione stesse davvero bussando alla porta della sua stanza a quell'ora nell'unico giorno in cui avrebbe volentieri dormito tutto il giorno senza nemmeno alzarsi per mangiare o andare in bagno. Non poteva credere che quello stesso idiota continuasse a bussare ridacchiando dopo averla sentita imprecare con la voce ancora decisamente impastata dal sonno. Risata terribilmente familiare, ma che appena sveglia Esme non riuscì a collegare a nessun volto, nè a nessun paio di occhi castani in cui solo il giorno prima sarebbe affogata senza nemmeno pensarci.
«Arrivo... porca puttana, oh...».
Imprecazioni ferme in gola.
Respiri ancora bloccati nel polmoni.
Battiti del cuore congelati ancor prima di diventare vita.
La porta della stanza aperta con troppa forza, abbastanza da farla sbattere contro l'armadio e far schiudere le labbra di uno e dell'altra in sincrono, chi per fingersi stupito e chi per dire qualcosa ma non riuscire poi a dire nulla. Un paio di occhi verdi sgranati per la sorpresa di vedere proprio quel coglione, davanti alla sua porta. Un paio di occhi castani che luccicavano di malizia e divertimento insieme, al sentirla imprecare e al vederla in quello stato - in pigiama, se così potevano definirsi quella maglia sformata e quel paio di slip neri. Un paio di labbra ancora secche dal sonno che si aprirono e chiusero più volte, prima che potesse anche solo formulare un pensiero concreto di fronte a lui.
Lui, che la anticipò con un mezzo sorriso, tirando fuori da una tasca la sua... collana. Quella che non toglieva nemmeno per dormire o per lavarsi o per fare l'amore, perchè era parte di lei praticamente dalla nascita e non se ne sarebbe separata nemmeno sotto tortura. Quella per cui viveva e che stringeva quando la forza sembrava mancarle e faceva fatica a respirare. La sua collana, tra le sue mani. Sembrava uno scherzo del destino... lui aveva stretto tra le mani un pezzo di lei senza nemmeno sapere quanto potesse essere intenso e importante, quel pezzo.
«La mia...». La ragazza si toccò improvvisamente il collo, spaesata.
«Ti è caduta ieri, uscendo dal teatro».
«Beh...», mormorò lasciando che inaspettatamente lui gliela rimettesse al collo, facendole sentire di nuovo il leggero peso del metallo proprio dove stava il cuore. Ecco cosa le era mancato e le aveva tolto il sonno. Le mancava quel cuore formato dalla chiave di basso e dalla chiave di Sol legate insieme, sul proprio, a renderla completa. «Grazie, sei stato gentile», aggiunse passandosi una mano tra i capelli e sfiorandosi la collana con le dita dell'altra, senza però smettere di guardare lui e i suoi capelli tenuti sciolti, i suoi occhi che sembravano oro fuso e quelle labbra che... nemmeno Esme sapeva di preciso cosa si sarebbe fatta fare, da quelle labbra carnose e leggermente screpolate. Tutto, probabilmente.
«Avevi ragione, ieri... ero incazzato».
E lei annuì con un mezzo sorriso, anche se lo sapeva già, l'aveva sentito dalle prime note che le erano arrivate alle orecchie il giorno prima e non ne erano ancora uscite. Cercò di nascondere un sorriso più ampio in uno sbadiglio che più finto non sarebbe potuto essere, quando subito dopo lo vide sollevare divertito il sopracciglio col piercing. Quasi un gesto di sfida nei suoi confronti, che però non era riuscito a fermare.
Così come la ragazza non riuscì a fermare l'acidità con cui gli rispose, anche se gli strappò la più bella risata che avesse mai sentito nascere dalle labbra di qualcuno. «Lo so, Zayn... e sarei curiosa di sapere perchè, ma ora come ora sono davvero tentata di prenderti a sberle e tornamene a letto». E quella risata, davvero, era talmente assurda e meravigliosa da far sorridere anche lei. Quella risata, con quella mano passata divertito tra i capelli lunghi, le fece quasi fermare il cuore da quanto le entrò dentro in un lampo - come un pugno nello stomaco, ma con un dolore decisamente diverso, più piacevole in un certo senso.
«E se ti offrissi la colazione?».
«Mh...». La mora fece finta di pensarci, picchiettandosi un dito sulle labbra senza smettere di guardarlo negli occhi, tirando appena l'anellino di metallo che glielo ornava un po' a provocarlo e un po' a nascondere una risata che se fosse stata un'altra le sarebbe sicuramente scappata - isterica, probabilmente. «Allora potrei anche trovare la forza e infilarmi qualcosa addosso».
«Per me puoi anche scendere così».
E dopo avergli chiuso la porta in faccia, Esme quella risata non la trattenne più.
Come Zayn non trattenne la propria, a poca distanza da lei.






 

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Capitolo 4
*** 4.Lezione di solfeggio. ***







4. Lezione di solfeggio.

 



Le dita di Esme si erano riabituate a giocherellare con la collana a forma di cuore, dalla mattina in cui lui gliel'aveva riportata. Era da parecchio che la teneva addosso solo come abitudine, ma da quando aveva visto lui suonare e da quando quella mattina erano scesi insieme a colazione - per quanto fosse irritata per esser stata svegliata tanto presto - sembrava essere cambiato tutto. Le era tornato il vizio che aveva quando stava con Louis, quello di stringere sempre la collana come per tenere le mani impegnate e cercare di placare il nervosismo; beveva più caffè del solito, per quanto potesse essere possibile berne più di quanto non facesse già; e aveva sempre un gran sorriso stampato in faccia, come non riuscisse a levarselo di dosso, come una bambina la mattina di Natale.
Le dita di Esme giocavano con quella collana di continuo, da quando era arrivato lui. Soprattutto quando lui era nei paraggi, quando lui sorrideva, suonava, parlava, o semplicemente respirava. Era come se Zayn si fosse inconsapevolmente legato a quella collana e di conseguenza a lei, come se sfiorandola avesse dato a quel gioiello un significato diverso, ancor più profondo di quanto non significasse prima per la mora.
E le sue dita la sfioravano sempre perché lui era praticamente ovunque andasse lei - o al contrario lei era ovunque andasse lui. Era quasi un rapporto di simbiosi, una strana convivenza che li vedeva condividere la stessa aria ogni secondo possibile, parlando di qualunque cosa venisse loro in mente ma soprattutto di musica, camminando fianco a fianco di aula in aula o solo osservandosi.
In quelle due settimane che seguirono quella colazione inaspettata, la ragazza poteva dire di aver imparato a memoria ogni movimento che il violoncellista faceva suonando, parlando o anche solo respirando; ne aveva imparato a memoria i movimenti leggeri o violenti che fossero dell'archetto; aveva imparato a decifrarne gli sguardi, i gesti delle mani mentre parlava o il vizio che aveva di mordersi il labbro quando non sapeva che dire; aveva registrato ogni suo tono di voce e ogni minima sfumatura del suo sorriso, riavvolgendo il nastro e rivivendo tutto ogni volta che soprappensiero non riusciva a rivivere altro che non fosse lui.
Le dita di Zayn invece si erano riabituate a tremare, dalla mattina in cui le aveva riportato quella collana. Avevano tremato da quando gliel'aveva rimessa al collo e le aveva sfiorato appena la pelle. E avevano tremato durante la colazione e mentre le spiegava a grandi linee perché fosse così incazzato, gli era tornato lo stesso nervosismo che gli impregnava ogni cellula quando aveva Miriam, quello che lo faceva gesticolare quando parlava o gli faceva distogliere lo sguardo da lei anche se non avrebbe fatto altro che guardarla e gli faceva incastrare le dita tra i capelli quando rideva, sperando che ridesse anche lei con lui. E inghiottiva più nicotina del solito, più di quanta già non gli distruggesse i polmoni. E aveva sempre un mezzo sorriso ad increspargli le labbra, tanto che gli sembrava di essere tornato bambino e che i problemi che gli corrodevano il cuore fosse scomparsi, evaporati come rugiada sotto al sole.
Le dita di Zayn avevano ripreso a tremare di continuo, da quando era arrivata lei. Soprattutto quando lei era nei paraggi, quando lei sorrideva, cantava, parlava, o semplicemente respirava. Era come se Esme si fosse legata a lui solo scostandogli una ciocca di capelli dal viso, come se sfiorandogli la pelle e il sudore, il suo cuore avesse preso a battere in modo diverso dal solito - più forte, intenso, veloce, impaziente, nervoso.
E le sue dita tremavano sempre senza che riuscisse anche solo a placarle un po', perché erano praticamente sempre insieme, a respirare la stessa aria e a parlare di tutto ma soprattutto di musica e ad osservarsi come fossero opere d'arte da cui fosse impossibile distogliere lo sguardo. In quelle due settimane che seguirono il violoncellista poteva dire di aver imparato a memoria ogni movimento che facevano le dita della cantante mentre provava, parlava, sorrideva o anche solo respirava; ne aveva imparato a memoria le inflessioni della voce, le sfumature di verde che le coloravano lo sguardo o il vizio che aveva di giocare col piercing al labbro quando le veniva da ridere ma voleva nasconderlo; aveva registrato tutto, dal suo modo di camminare, al suo modo di spingerlo giocosamente a qualsiasi altro particolare che poteva sembrare inutile ma che per Zayn era l'unico modo per riviverla ovunque fosse e sentirla con sé anche quando non c'era.
La sveglia doveva aver suonato e lei a quanto pareva doveva averla spenta, ma era ancora troppo assonnata per essersene accorta o anche solo per ricordarsene. Assonnata dalla nottata passata quasi in bianco per colpa di qualcuno, che non riuscendo a dormire lui stesso l'aveva tenuta sveglia a parlare praticamente di nulla. Qualcuno che, per quanto la facesse sorridere per niente, avrebbe ucciso a sangue freddo alla successiva notte in bianco. O, forse, non l'avrebbe ucciso, ma di sicuro gli avrebbe fatto male abbastanza da farglielo ricordare a vita. Qualcuno che quella notte aveva scherzato con lei come la conoscesse da sempre, e che le aveva dato la buonanotte anche se probabilmente lui poi non era comunque riuscito a dormire.
Prese il cellulare dal pavimento e scivolò da sotto le lenzuola sbloccandone lo schermo. Una foto con Michael le diede il buongiorno facendola sorridere appena, prima che il sorriso le si ampliasse al vedere una notifica lampeggiare in un angolo, ad avvertirla che c'era un messaggio non letto da... Zayn. Si legò i capelli ridacchiando, pensando di essere la creatura più ridicola dell'universo, in quel momento; perché lei non sorrideva mai così tanto, tantomeno scoppiava a ridere da sola al vedere la notifica di un messaggio... non si era mai comportata così in ventitré anni, e di certo non per un ragazzo.
Forse non aveva mai sorriso in quel modo nemmeno per Louis.
 
Nuovo messaggio da: Zayn (7:28)
Buongiorno, micetta...
 
Messaggio a: Zayn (8:12)
Micetta? Ti hanno drogato il caffè, gattino?
 
E si sfilò la canottiera bucata che usava per dormire con ancora il sorriso addosso, fermando poi i ricci che le ricadevano sul collo con una matita presa dalla scrivania mentre caracollava stranamente allegra verso il bagno. Troppo allegra, per una che non aveva ancora preso il solito caffè nero ed era stata sveglia la metà della notte a ridere nel cuscino per non svegliare nessuno. Troppo allegra, per una che guardandosi allo specchio non riusciva a capire dove finissero le occhiaie e dove iniziasse uno dei tanti sbadigli che non sarebbe riuscita a trattenere nemmeno volendolo davvero.
Cominciò a pensare di essere l'unica a non essersi svegliata, quella mattina, quando una volta vestita, col cellulare in tasca e uscita in corridoio, di ritrovò da sola e nel silenzio più assoluto, con solo il lieve suono degli strumenti o delle voci provenienti dalle aule a disturbarle le orecchie, insieme al leggero sciabordio che faceva il caffè bollente nel solito bicchiere di carta che teneva in mano, mentre la mano libera era impegnata a sfiorare il ciondolo che teneva al collo, leggermente soprappensiero e un po' come se si aspettasse di veder comparire Zayn da dietro l'angolo da un momento all'altro.
Cominciò a pensare che probabilmente era anche l'unica a non riuscirsi a far bastare poche ore di sonno, visti gli sbadigli che continuavano a scivolarle via dalle labbra. Anche se, probabilmente, nonostante avesse voluto uccidere colui che l'aveva tenuta sveglia, non si sarebbe mai pentita di quella notte insonne. Quella notte le aveva regalato l'emozione di conoscere lo Zayn divertente, allegro davvero e spontaneo; quella notte le aveva regalato più risate di quante le sue labbra non avessero emesso dall'inizio dell'anno; quella notte era rimasta sveglia perché lo voleva lei, non semplicemente perché gliel'aveva chiesto lui.
E cominciò a pensare che forse avrebbe davvero dovuto affidarsi di più ai propri presentimenti quando - con ancora le dita a sfiorare il ciondolo - sentì un fin troppo familiare modo di suonare il violoncello arrivarle addosso. Flebile, lontano, attutito dalle pareti insonorizzate. Suono che la fece sorridere come una bambina, di nuovo, mentre fregandosene di tutto abbassava piano la maniglia ed entrava in una delle aule per le lezioni individuali degli strumentisti.
L'orecchio allenato le aveva fatto riconoscere il suono del violoncello. E in qualche modo aveva anche indovinato chi lo stesse suonando, senza vederlo. In qualche modo riconosceva Zayn come fosse una parte di se stessa... non ne capiva il motivo, ma non riusciva a fermare quelle sensazioni e quei sorrisi e quei gesti. Non poté fermarsi da spiarlo nemmeno quella volta, chiudendosi la porta alla spalle attenta a non fare rumore e sedendosi sul primo banco che le capitò di fronte, con la borsa e il bicchiere di caffè al proprio fianco, il leggerissimo suono dell'archetto a sfregare contro le corde del violoncello classico nelle orecchie e Zayn riflesso nelle proprie iridi.
Solo lui, ad attirare la sua attenzione.
Solo lui e il suo modo diverso nel suonare. Il suo essere diverso, in quella stanzetta insonorizzata. Col violoncello diverso dal solito, di legno scuro e con la cassa di risonanza che non era abituata a vedere - dato che l'elettrico non ce l'aveva. Vestito diversamente dal solito, quasi fosse la divisa dello strumentista classico; con un paio di pantaloni neri stretti che gli fasciavano le gambe in tensione dalla posizione mantenuta per suonare, una camicia bianca abbottonata quasi fino in cima e una giacca nera. Era... elegante. Ed era quasi strano vederlo così tanto vestito, così meno emotivamente convolto, meno arrabbiato, più tranquillo. Era come rilassato nonostante lo sforzo evidente, con un mezzo sorriso ad increspargli le labbra e la mascella solo appena serrata, coi capelli legati e in ordine.
Sembrava un altro musicista, un altro Zayn. Ma era pur sempre lui, con lo stesso modo di sentire le note sulla pelle e lo stesso identico modo di creare musica, di muovere l'archetto, di respirare a ritmo con esso. Era pur sempre la stessa ruga, quella che gli si formava tra le sopracciglia, ed erano pur sempre gli stessi sospiri, quelli che gli sfuggivano dalle labbra e gli tornavano indietro al movimento successivo e in fondo era pur sempre lui, con la stessa passione di sempre.
Esme lanciò un'occhiata all'insegnante, sedutogli poco lontano, che teneva una mano in grembo e l'altra a muoversi leggera nell'aria come lo stesse dirigendo. Gli occhi chiusi, le labbra a muoversi da sole come stesse analizzandone le note. Concentrato anch'egli su ogni nota, ogni movimento, ogni vibrazione che l'archetto scivolando contro le corde faceva nascere nell'aria, fino a scemare nelle orecchie e contro le pareti. Concentrato come lo era Zayn finendo di suonare. Concentrato come lo era lei mentre lo guardava senza riuscire a smettere e lo ascoltava non riuscendo a farne a meno.
Concentrata sulle sue mani, Esme. Sulle dita che stringevano l'archetto e su quelle che premevano sulle corde. Sulla stretta di quelle mani, sulla sua pelle. Sulla sensazione di sentirle addosso, come stesse suonando lei, e non lo strumento. Concentrata sul suo viso, sulle sue labbra e sulle sue ciglia, che mentre la lezione finiva sfarfallarono fino a fargli riaprire gli occhi castani, luminosi e improvvisamente fissi su di lei. Concentrata sul mezzo sorriso che le rivolse finendo di suonare scostando con grazia l'archetto dal violoncello e poco consapevole del sorriso che di riflesso comparve sul proprio volto, che fece mordere il labbro al ragazzo, mentre con poca grazia si alzava dalla sedia posando il violoncello per poi andarle incontro.
Il suo entusiasmo la fece scoppiare a ridere. I suoi occhi che sembravano brillare solo per lei le scaldarono il cuore, prima che esso prendesse a battere come un forsennato e senza che ci fosse un modo, uno qualsiasi, per fermarlo. Il suo ennesimo sorriso gliene fece reprimere un altro in risposta, nascosto ancora dal bicchiere di caffè che di nuovo si portò alle labbra; provava a nascondere l'allegria, Esme, ma per quanto ce la stesse mettendo tutta, non c'era verso - le brillavano troppo gli occhi perché riuscisse a nasconderlo.
Combattuta se scappare a lezione o restare, il musicista la precedette strappandole il caffè di mano, prendendone un sorso e facendo una smorfia al sentirlo così amaro - troppo amaro, per i suoi gusti. La precedette, impedendole di starci troppo a pensare, quando se la tirò contro per abbracciarla; lei ancora seduta su quel banco con le gambe leggermente divaricate e lui con le mani sui suoi fianchi, il corpo tra le sue gambe e il respiro che le sbatteva contro l'orecchio facendola rabbrividire. Pronta a scappare ridacchiando, prima che lui la stringesse a sé senza possibilità di fuga, premendo sulla sua schiena e respirando contro la pelle del suo collo.
In trappola. Ma forse scappare non aveva senso, se lì stava così bene.
«Non così in fretta, micetta».
Ancora questo ridicolo soprannome? «Devo andare a lezione, gattino».
E Zayn non poté far altro se non riderle addosso, con le labbra ancora contro la pelle e il suo profumo a impregnargli le narici, allontanandosi poi per guardarla in quegli occhi verdi che brillavano di divertimento e lasciandosi spingere di un passo, in modo che lei scendesse dal banco e raccogliesse le proprie cose - prendendo un sorso di caffè e sorprendendosi nel constatare che sapesse delle sue labbra. Zayn non poté far altro se non seguirla con lo sguardo, mentre la mora si rigirava verso di lui e gli faceva la linguaccia strizzando gli occhi verdi mentre da dietro le lenti degli occhiali scoppiava a ridere, ancora.
La risata di quella ragazza lo mandava fuori di testa. Solo quella risata, riusciva a fargli dimenticare in meno di un secondo dove si trovasse o anche come si chiamasse. Solo la sua risata lo mandava fuori di testa, gli faceva credere che avrebbe potuto fare - e farle - di tutto. L’avrebbe sentita ridere per il resto dei propri giorni, non fossero stati interrotti dal caschetto biondo di Iris e da una delle sue sopracciglia chiare elegantemente inarcate sugli occhiali dalla montatura scura e quegli occhi azzurri che davvero facevano invidia al cielo da quanto brillavano – ed era pura allegria, data dal vedere la propria migliore amica ridere così tanto come forse mai l’aveva vista ridere. Zayn l’avrebbe davvero ascoltata ridere per sempre, se Iris non avesse scosso la testa divertita, prendendo poi Esme per mano e trascinandola per il corridoio senza che nemmeno le desse il tempo di salutarlo.
La ragazza dai capelli ricci in quel momento l’avrebbe uccisa volentieri.
L’avrebbe presa per i capelli e gettata lontano, pur di poter guardare ancora gli occhi scuri di Zayn illuminarsi mentre le veniva da ridere. Le avrebbe fatto davvero del male, se Iris non fosse stata Iris e se a guardare lui illuminarsi non avesse sentito lo stomaco contrarlesi e le gambe diventare di gelatina. Uno di quei cliché che lei detestava, ma che le calzava insolitamente a pennello, quasi quanto le mani di Zayn le stavano bene sui fianchi quando la abbracciava.
«Sappi che ti odio».
Poche parole che fecero ridere la bionda di gusto, mentre entravano a lezione di solfeggio ed Esme non riusciva a smettere di risentire quella risata nelle orecchie che era decisamente troppo allegra e provocante per essere appena sveglia, ma che le piaceva troppo perché se ne riuscisse a privare. Poche parole che le sfuggirono di bocca più acide di quanto non pensasse, ma che Iris si fece scivolare addosso regalandole un sorriso e una mezza gomitata nelle costole, mentre si sedevano l’una di fianco all’altra ed Esme si nascondeva nuovamente nel bicchiere di caffè che le ricordava indelebilmente lui, a quel punto.
«Sappi che sono contenta che tu sorrida così», ribatté l’altra senza nemmeno provare a reprimere un sorriso. Osservò l’amica scostare la bocca dal bicchiere e mordersi il labbro. Osservò i suoi occhi illuminarsi e il lato destro del suo viso sollevarsi in un mezzo sorriso. «Era ora che andassi avanti, tesoro...». Iris la vide irrigidirsi, e mentre si aspettava che le facesse la solita ramanzina – Andare avanti? Io? Tu ed Harry invece? Quando andrete avanti? Quando la smetterete di fare i bambini? – al contrario la mora scosse semplicemente la testa e non disse nulla, prendendo a torturare il ciondolo con le dita, seguendo la lezione a spezzoni, interrotta anche dalla ragazza al proprio fianco, che proprio non voleva saperne di stare zitta.
In fondo, come poteva evitare di farle tutte quelle domande?
E, in fondo, come avrebbe potuto Esme non rispondere?
Erano pur sempre amiche, e Iris sapeva che l’altra le avrebbe tenuto il broncio solo fino a che non avesse pronunciato proprio le parole che voleva sentirsi dire. Ed Esme non voleva parlare di andare avanti, né pensare nemmeno lontanamente a Louis, né infilare il coltello tra le crepe del cuore di Iris. Esme voleva semplicemente parlare di quanto stesse bene dal giorno in cui era entrata in quel teatro e si era innamorata del modo di suonare di Zayn; voleva parlare di come si sentisse mentre parlava con lui di musica – perché parlarne con lui era come aver trovato la nota perfetta, come duettare, come mettersi a cantare camminando per la stazione della metropolitana ed attirare lo sguardo dei passanti… parlare di musica con lui era appagante quasi quanto il sesso. Quasi. E voleva semplicemente parlare di lui e ridere di se stessa per come si sentisse parlandone.
Iris lo sapeva. L’aveva capito da una semplice occhiata nei suoi occhi di giada. E l’aveva accontentata, l’aveva lasciata parlare di quanto le facesse bene parlare con Zayn, di quanto le venisse voglia di sospirare in sua presenza, di come le venissero i brividi quando lui suonava o di come si sentiva quando lo vedeva mordersi il labbro e – diamine – avrebbe voluto morderlo lei, quel dannato labbro. L’aveva vista gesticolare e inarcare le sopracciglia e trattenersi a stento dal ridere, e aveva sorriso con lei, aveva annuito quando ce n’era stato bisogno e le aveva fatto domande, aveva interagito con lei nonostante stesse facendo tutto da sola e stesse parlando a macchinetta da tutta l’ora – beccandosi anche parecchie occhiatacce da parte della loro insegnante.
L’aveva lasciata sfogare e ridere e imputarsi su particolari inutili, Iris, mentre lei dal canto proprio non riusciva a smettere di pensare a come si fosse sentita lei quando una vita prima aveva conosciuto Harry. Iris non ricordava di essere stata come Esme, al contrario lei Harry non riusciva nemmeno a guardarlo negli occhi; lei arrossiva ogni volta che qualcuno lo nominava o anche solo a vederlo da lontano; lei non riusciva nemmeno a parlarci, né a cantare in sua presenza. Lei veniva come annullata dalla presenza del riccio. La sua amica al contrario riusciva a tenere testa a Zayn, riusciva ad allontanarlo quando lui la abbracciava, riusciva a non affogare solo guardandolo negli occhi.
E non credeva fosse possibile, ma la invidiava.
«Non mi hai detto com’è quando suona…», la stuzzicò mentre si sedevano ad un tavolo in disparte, in mensa. Ognuna col proprio vassoio e già con un sorso d’acqua in bocca, Esme quasi non si strozzò, a quella domanda. La sua reazione fece ridere la bionda, con una mano tra i capelli e gli occhi celesti che le brillavano di divertimento e celavano l’invidia come meglio potevano. «Voglio i dettagli, Es», aggiunse ridacchiando al vedere l'altra prendere fiato, probabilmente al rivedere nella propria mente proprio Zayn che suonava.
Ed Esme perse improvvisamente le parole, a quella domanda, ripensando a quella stessa mattina col violoncello classico e a tutte le volte che in quelle due settimane si era intrufolata nel teatro solo per sentirlo suonare ma soprattutto per guardarlo, finché lui non la vedeva stravolta dalla stanchezza e smetteva di suonare, rivolgendole un sorriso e andava a sederlesi affianco, solo per godere del momento in cui lei sbadigliava e con un mezzo sorriso gli posava la testa sulla spalla, respirandone l’odore e perdendosi in esso mentre si limitava a ridacchiare, prima di spedirla gentilmente a dormire.
Esme perse la voce, di fronte a quelle poche parole, perché davvero non sapeva come spiegare come si sentisse al sentirlo suonare. Non sapeva spiegare come stesse al guardarlo stringere il violoncello o all’osservarlo muovere l’archetto o spingere sulle corde per le note vibrate – quelle che continuavano a vibrare anche mentre le arrivavano contro o mentre le entravano dentro senza pensare nemmeno per un istante di uscirne. Perse le parole, perché probabilmente quelle parole non esistevano. Perse le parole perché spiegare cosa fosse lui mentre suonava era come immaginava fosse spiegare ad un bambino da dove vengono i bambini.
Bellissimo. Intenso. Da brividi. Forte. Violento. Arrabbiato.
«Lui è… quando suona lui…». Non riusciva nemmeno lei a capire cosa fosse Zayn mentre suonava, nonostante ce l’avesse impresso a fuoco dietro le palpebre e lo rivedesse ogni volta che le abbassava. Non riusciva a spiegarselo, le veniva da ridere, e Iris che la squadrava trattenendo una risata sulle labbra tinte di rosso di certo non aiutava. Chiuse appena gli occhi, la mora, cercando di trovare le parole adatte, anche se era quasi sicura che non ne esistessero abbastanza, per spiegare lui, il suo archetto, o il sudore che gli scivolava lungo il collo. «Lui è sensuale, quando suona…», esalò soprappensiero, guardando l’amica negli occhi ma in realtà senza rivedere nulla che non fosse lui. «E’ eccitante». Tanto da morirne, tanto da farla sospirare senza volerlo, tanto da farle stringere le gambe e abbassare le palpebre e mordersi il labbro inferiore fino a farlo sanguinare. «E’ orgasmico, Cristo!».
Non avrebbe saputo spiegarlo in altro modo e non avrebbe potuto farlo meglio, Esme.
Iris era semplicemente a bocca aperta, le labbra rosse appena schiuse e gli occhi sempre più divertiti, ma anche… la mora non avrebbe saputo dirlo, ma le sembrava quasi che la bionda fosse colpita, da quella descrizione. Per il semplice motivo che, forse, lei avrebbe descritto Harry nello stesso modo anche dopo così tanto tempo e avrebbe ancora provato le stesse sensazioni. Quel senso di perdere se stessa e non ritrovarsi se non nei suoi occhi verdi, quel senso di impotenza di fronte al suo modo di suonare, quella sensazione di poter morire sotto quelle dita, anche solo immaginandole sulla propria pelle, senza averle davvero a contatto.
«Wow…».
«Iris, dovresti vederlo… mi manda in crisi solo guardandomi di sfuggita, cazzo».
E a quel punto la bionda non riuscì più a trattenersi. Scoppiò a ridere davanti alla dolcezza della ragazza che le stava seduta di fronte. Perché, inutile negarlo, la mora era terribilmente tenera in quel momento. Tanto tenera da farla scoppiare a ridere forte, con la testa buttata all’indietro e gli occhi lucidi strizzati, chiusi, quasi sul punto di piangere dal ridere; e chi se ne frega se la sua risata attirò l’attenzione di tutta la mensa, chi se ne frega dell’occhiataccia di Esme. Rise e basta, perché in fondo non aveva nulla da perdere, perché la sua migliore amica non sarebbe riuscita a tenerle il muso per più di dieci minuti, e perché di certo non si aspettava di veder comparire l’ultima persona che avrebbe voluto trovarsi di fronte una volta risollevate le palpebre.
Harry era in piedi di fianco a Esme, con un mezzo sorriso ad increspargli le labbra, una mano tra i capelli che erano troppo lunghi per essere ancora ricci e gli occhi verdi che la guardavano come non avessero mai smesso di farlo. Harry era di fronte a lei come se non l’avesse mai lasciata, come non fosse mai uscito dalla sua vita, come se ancora l’amasse – ed era impossibile, lui gliel’aveva giurato, che non la amava più. Eppure era lì come se non avessero mai sofferto e lei non avesse mai pianto. Harry era in piedi coi jeans stretti e quegli orrendi stivaletti che aveva da anni e non riusciva a buttare via, era lì con quelle mani che la mandavano fuori di testa, quei tatuaggi che aumentavano di giorno in giorno e quella camicia sempre troppo sbottonata per non notarla.
Lui era lì, e lei smise di respirare nello stesso momento in cui lo vide e le morì la risata in gola.
«Ciao, Harry… io, mi sono appena ricordata che devo studiare per… una cosa… in biblioteca, sì».
Iris l’avrebbe uccisa, Esme. In qualche modo però, avrebbe solo dovuto ringraziarla. Ma mentre la guardava allontanarsi dopo averla salutata con un bacio velocissimo su una guancia, nello stomaco le ribolliva l’odio. Cosa pretendeva che facesse, con Harry così vicino? Come pretendeva si trattenesse dall’urlare e dal piangere e dal picchiarlo, se l’aveva tanto vicino da respirarlo e sentirne l’odore sulla pelle? Come pretendeva riuscisse a sopravvivere, o anche solo a respirare?
Quando Harry però le si sedette di fronte, con le mani sul tavolo e gli occhi verdi nei suoi azzurri, Iris non seppe più cosa pensare, se non che in fondo avrebbe davvero dovuto ringraziarla. Forse, un giorno. Forse non l’avrebbe fatto, semplicemente perché lei non era il tipo, semplicemente perché la sua migliore amica lo sapeva già, era come se quel grazie l’avesse già sentito. Quando Harry le si sedette di fronte Iris si morse il labbro, con la voglia di scappare e fingere di non averlo avuto così vicino… perché faceva male, averlo così vicino e non poterlo toccare.
E Esme era già fuori dalla mensa, quando Harry disse le ultime parole che Iris si sarebbe aspettata di sentire. Esme era già lontana, diretta per davvero in biblioteca per – provare a – studiare qualche testo di canzone o qualche spartito che nonostante tutto ancora non le era entrato bene in mente. Lei aveva la borsa piena di spartiti buttati dentro alla rinfusa su una spalla, i capelli ricci particolarmente in disordine per averci passato più volte le dita e gli occhi ancora stanchi dalla nottata passata a scrivere messaggi a Zayn; lei aveva ancora la mente concentrata sul nomignolo ridicolo che lui le aveva affibbiato quella mattina, due volte per giunta; lei si sedette ad uno dei tavoli liberi sparpagliando i propri fogli ovunque e tirando fuori una matita, picchiettandola sulle labbra e pensando all’espressione del violoncellista quando nervosa finiva per giocherellare col piercing senza smettere di guardarlo negli occhi scuri.
E avrebbe dovuto studiare. Avrebbe almeno dovuto provare a leggere qualcosa, provare a memorizzare, provare il tempo di qualcuna delle canzoni nuove che le aveva assegnato la professoressa di solfeggio… non riuscì nemmeno ad iniziare, distratta da qualcosa scarabocchiato nell’angolo di uno dei suoi spartiti. Note casuali, apparentemente. Note che però non si era appuntata lei, e che stranamente sembravano essere un po’ ovunque, in ogni angolo dei suoi spartiti ma sempre diverse.
Avrebbe dovuto studiare, ma a quel punto era impossibile. Inspiegabili, quelle note messe lì a caso. Aveva quel mistero da risolvere, doveva assolutamente capire chi avesse potuto scriverle quelle note, in qualche modo. E le comparve un sorriso sulle labbra mentre a bassa voce provava ad intonare quelle note sentendole sempre più familiari. Quasi come le avesse scritte lei, o fossero state scritte per la sua voce, perché le cantasse lei e nessun altro. Le comparve quel sorriso che le compariva sempre in presenza di…
«Zayn…», mormorò la ragazza sfiorando l’angolo di uno dei suoi testi – quelli scritti di fretta e che alla fine nemmeno lei riusciva a decifrare.
Oltre alle note scarabocchiate, delle parole in arabo, a matita. Le era quasi sembrata una caccia al tesoro, nella quale indizio dopo indizio e nota dopo nota aveva trovato la soluzione, forse. Una caccia al tesoro che l’aveva fatta sorridere fin quasi a non trattenere una risata vera e propria; una caccia al tesoro che forse Zayn nemmeno aveva programmato ma che lei aveva risolto come il più semplice degli indovinelli; una sorpresa che le stava regalando una canzone, oltre al sorriso che non riusciva a scrollarsi di dosso.
«Cosa mi stai facendo, Zayn?», borbottò poi tra sè, con una mano tra i capelli e la matita messa di fretta dietro l’orecchio, prima che raccogliesse i propri fogli, spartiti e il resto della propria roba e rimettesse tutto nella tracolla, anche più in disordine di quanto già non fosse prima che provasse a studiare. «Che cazzo mi stai facendo?», aggiunse ridendo tra sé, giocherellando col piercing al labbro mentre quasi correva via di lì rischiando di far male a qualcuno, soprattutto quando fuori dalla sala lettura, canticchiando ancora quelle note, quasi non diede una spinta a Roxanne e Niall, tanto forte da far spaventare la prima e far quasi cadere rovinosamente a terra la chitarra del secondo.
«La solita grazia, Es…», la prese in giro la rossa, mentre cercava di non avvampare, stordita dalla risata del biondo al proprio fianco. La mora inarcò un sopracciglio e trattenne a stento una risata, prima di riprendere a sfiorare il ciondolo a forma di cuore, più forte del solito, con più intensità – quasi stesse sfiorando Zayn, come lo stesse spingendo ad una spalla prima di abbracciarlo tanto stretto da non sentire altro se non lui. E in qualche modo Roxanne sembrò capirla, annuendo tra sé e «Zayn è in corridoio…», le disse divertita, sulle labbra il sorriso di una che aveva appena capito tutto senza bisogno che le si dicesse nulla.
«Di fronte alla seconda entrata dall’auditorio, sta aiutando Sky con la batteria».
Quasi non fece in tempo a finire la frase che la mora diede ad entrambi un bacio su una guancia ridendo e corse – letteralmente – per il corridoio, rischiando di inciampare nelle sue stesse scarpe. E Roxanne ce la mise tutta per non dare di matto, ma non riuscì a trattenersi dal «Ti ha sporcato di rossetto», prima che Niall si pulisse e la prendesse per i fianchi stringendola a sé per un abbraccio. «Ruffiano…».
«La prossima volta fermala, piccola». E Roxanne arrossì e basta, non avendo la forza di dire niente che avesse davvero un senso, non avendo la forza necessaria a non balbettare come una ragazzina alla prima cotta. Oppure baciami tu, avrebbe voluto aggiungere il biondo, limitandosi però a sentire il suo cuore battere tanto forte da pensare di scriverci su una canzone e suonarla solo per lei.
Harry intanto non riusciva a smettere di guardare Iris e pensare che lasciarla fosse stata la cosa più stupida della propria vita, anche più di rifiutarsi di prendere lezioni di piano quando era bambino – quando poi quello strumento era diventato parte integrante di lui, come un braccio o una gamba o un pezzo di cuore. Non riusciva a smettere di guardare i suoi occhi celesti che di rimando lo guardavano a tratti, come se le facesse davvero troppo male, come fosse troppo dolore da sopportare per il suo povero cuore, come non volesse guardarlo per non morire di nuovo dentro vedendo il mare in tutto quel verde. Non riusciva a smettere di ricordare come le sue labbra rosse stessero bene contro le proprie.
Harry guardava Iris e respirava a stento. Harry aveva il terrore che lei… lo lasciasse andare.
Iris guardava Harry e respirava a stento. Iris guardava le sue mani, quelle dita di cui era innamorata da sempre. Iris sentiva la mancanza di quelle mani grandi e forti, di quelle labbra rosse, delle sue fossette mentre sorrideva; sentiva la mancanza dei suoi occhi che riuscivano a guardarle tanto a fondo da poterla leggere con una semplice occhiata; sentiva la sua mancanza ed era come se non riuscisse a respirare, non davvero, non come avrebbe fatto una persona sana. Lei stava male senza di lui, ed era proprio quello il punto, ma lui sembrava non averlo mai capito, come lei non aveva capito che lui provava le stesse identiche cose e sentiva le stesse identiche mancanze.
«Mi manchi da morire, Iris…».
Un soffio, quasi un sospiro. Come fosse un segreto, poche parole che doveva udire solo lei e nessun altro. A bassa voce perché l’incantesimo non si spezzasse del tutto; a bassa voce perché gli mancava il coraggio di parlare più forte come a lei mancava la forza di continuare a guardarlo negli occhi senza scoppiare improvvisamente e inevitabilmente in lacrime. Un soffio e quasi un sospiro, un alito di vento anche se del vento non c’era traccia… ma la bionda lo sentì come se l’avesse urlato in una stanza vuota. Lo sentì come se gliel’avesse detto direttamente nell’orecchio e le vennero i brividi come se quelle parole potessero davvero toccarla e quelle mani la stessero davvero stringendo, invece che starsene a torturarsi tra loro su quel tavolo.
Ma distolse lo sguardo prima di rischiare di crollare davanti a lui. Distolse lo sguardo sbattendo velocemente le palpebre come sperando che se fosse tornata a guardare nella sua direzione lui sarebbe semplicemente potuto scomparire. Sperando che non notasse gli occhi lucidi di lacrime o il labbro inferiore stretto tra i denti per impedirgli di tremare. Sperando che non la conoscesse più tanto bene come una volta… sperando che non la amasse più ma allo stesso tempo sperando che la amasse abbastanza da cessare quella tortura e lasciarla libera.
Tornò a guardarlo cercando di essere gelida, glaciale. Abbastanza credibile, almeno.
«Tu ormai non mi manchi più…». Con la voce più ferma e fredda che fosse riuscita a tirar fuori, ma comunque senza riuscire a dire il suo nome, nemmeno in un sussurro. Quello l’avrebbe davvero fatta crollare, senza più darle la possibilità di rimettersi insieme. «Sei solo un ricordo», aggiunse a voce più bassa, alzandosi e cercando di mascherare le mani che le tremavano stringendo la borsa. Il mio ricordo più bello, avrebbe voluto aggiungere, ma continuare a parlargli, a guardarlo o anche solo a sentire il suo respiro viaggiare in quel poco spazio che li separava e arrivare fino a lei, le avrebbe davvero fatto troppo male. L’avrebbe distrutta come aveva fatto lui quando se n’era andato senza spiegare.
Se però l’avesse guardato una manciata di secondi in più, avrebbe potuto vedere il dolore, in quegli occhi verdi. Avrebbe potuto respirarlo, quel dolore, o addirittura sentire il suo cuore spezzarsi di nuovo in mille pezzi, come era successo il giorno che era scappato da lei e dal suo amore come un codardo, senza lasciare spiegazione, lasciandole il proprio cuore ma senza mai avere il coraggio di tornare a riprenderselo.
E mentre un cuore si accartocciava su sè stesso e si spezzava come un gingillo di cristallo, un altro cuore batteva come impazzito e senza che lo si riuscisse a fermare. Il corpo a cui quel cuore apparteneva tremava, le gambe si muovevano lungo il corridoio quasi correndo e aveva un sorriso sulle labbra che non riusciva più a fermare, un sorriso che non avrebbe fermato nemmeno se avesse potuto, un sorriso che le faceva brillare gli occhi e la faceva scoppiare a ridere dentro. Un sorriso che se possibile le si ampliò ancora e le fece stringere il labbro tra i denti, non appena vide Zayn poco lontano e non appena lo sentì ridacchiare mentre spingeva giocosamente una ragazza dai lunghi capelli celesti, intenta a stringere una serie di cinghie intorno ad un amplificatore per impedire che cadesse dal carrello sovraccarico sul quale avevano già stipato la batteria della ragazza.
«Zayn...», lo chiamò la ragazza, mordendosi un labbro per non dire qualcosa di cui probabilmente si sarebbe pentita. Lui la faceva sorridere per niente, ma la faceva anche sprofondare per meno di nulla, se si comportava con chiunque - con qualsiasi ragazza - come aveva fatto con lei per quelle due settimane. C'era qualcosa, nel modo in cui scherzavano, che in qualche modo la rese... gelosa. Esme nemmeno ricordava come fosse essere gelosa di qualcuno. Ne aveva rimosso la sensazione sulla pelle, da quanto tempo era passato dall'ultima volta. Ma in qualche modo le passò tutto di mente quando il moro si accorse di lei. «Ciao...».
«Oh, tu devi essere Esme... Cristo, Zayn non fa altro se non suonare e parlare di te, finalmente ti conosco!», le disse velocemente la ragazza dai capelli azzurri prima che il suo migliore amico potesse davvero accorgersi della presenza della mora. Esme lo vide sorridere, mentre si passava una mano tra i capelli in imbarazzo - si, era decisamente imbarazzo - prima che quella ragazza bella quanto strana le porgesse la mano, lasciando andare improvvisamente la cinghia che teneva fermo l'amplificatore.
Fece appena in tempo a respirare, e Sky fece appena in tempo ad urlare.
Fecero appena in tempo a prendere paura, prima che Zayn prendesse Esme per un polso e se la tirasse velocemente contro. Tanto forte e in fretta da farle scappare un gemito, che però nessuno sentì, ovattato dal fragore della cassa che in pochi secondi cadde a terra, nel punto esatto in cui un attimo prima stava lei. Tratta in salvo dalle sue mani grandi e dalla sua prontezza nel tirarsela addosso - non delicatamente come avrebbe fatto in qualunque altra situazione, gli importava solo che non si facesse male, in quel momento, gli importava solo del suo respiro spezzato e del cuore che da così vicini poteva quasi sentire direttamente nelle orecchie, e non solo immaginarne il suono. Tratta in salvo dal respiro leggermente pesante di Zayn improvvisamente nelle orecchie, tratta in salvo del suo odore di tabacco che le riempiva le narici e le rendeva difficile respirare.
«Tutto bene, micetta?», le alitò contro la pelle improvvisamente impallidita del viso. Aveva perso colore nel giro di pochi secondi, lasciando che la paura prendesse il sopravvento. Riprese colore insieme al respiro più regolare solo al sentire la voce di Zayn - ancora con quel ridicolo soprannome a scivolargli via dalle labbra - e al sentire le sue dita sfiorargli delicatamente il polso fino a farla smettere di tremare e sentire il cuore regolarizzare il battito.
Quelle parole però le sentí appena, troppo concentrata sulla sua presa sul proprio polso e troppo concentrata sul suo odore cosí tanto vicino da poterne morire. Lo sentí appena mentre la chiamava "micetta", per quanto in qualche modo la irritasse, troppo presa da lui e da quelle labbra che una volta allontanatasi di mezzo passo non riuscí più a smettere di guardare. Troppo concentrata sul guardare alternativamente quelle labbra piene e lucide e quegli occhi pieni di preoccupazione e profondi come la sua rabbia, profondi come l'inferno.
«Tutto...». Fece un pausa, sentendo la propria voce spezzarsi appena. Zayn continuò a sfiorarle il polso con leggerezza, spostando come lei lo sguardo dalle sue labbra ancora tremanti di paura ai suoi occhi verdi leggermente sgranati e improvvisamente lucidi. «Bene», mormorò in un soffio, con una mano posata sul suo petto e stretta appena sulla sua camicia - come volesse averlo ancora più vicino. Gli occhi persi nei suoi, la voce tanto bassa da far fatica a sentirla, le gambe improvvisamente deboli, tanto da farle credere di poter crollare da un momento all'altro.
E forse l'avrebbe baciato.
Forse Zayn si sarebbe lasciato baciare.
O l'avrebbe baciata, senza stare a pensarci troppo.
Ma l'imprecazione a voce alta di Sky bloccò entrambi al proprio posto, col polso di Esme ancora stretto nella mano di Zayn e lo sguardo preoccupato di lui fuso con gli occhi lucidi di lacrime di lei. La sua imprecazione e il suo camminare volecemente fino a loro li fece allontanare, ma senza che Esme smettesse di guardarlo come se gli dicesse grazie e senza che Zayn smettesse di sfiorarle la mano come a chiederle se stesse davvero bene.
«Porca puttana... io... non credevo che crollasse, Dio...».
E Zayn avrebbe davvero voluto stringerla a sè fino a sentire nient'altro che fosse lei, come Esme si sarebbe lasciata tenere stretta fino a scomparire, fino a dimenticare di esistere, fino a sprofondare in lui e lasciare che tutto il resto diventasse solo un ricordo di cui non si sarebbe dovuta curare almeno finchè lui non l'avesse lasciata andare.
E, fosse stato per lui, non avrebbe mai smesso di tenerla stretta. Fosse stato per lui se ne sarebbe preso cura come lei fosse stata una gattina ferita, l'avrebbe stretta tra le braccia come fosse stata una farfalla in punto di morte e l'avrebbe respirata a pieni polmoni come fosse stata l'ultimo refolo di estate prima che arrivi l'autunno e spazzi via tutto.
Fosse dipeso da lui l'avrebbe semplicemente baciata, senza troppi giri di parole e senza troppi pensieri a pesare sulle loro spalle.



 

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Capitolo 5
*** 5. Note stellate. ***





5. Note stellate.


 
Canzoni del capitolo:
Who you are - Jessie J.
Fighter - Christina Aguilera.


 
 

Zayn aveva iniziato a dare lezioni di musica quando era stato ammesso alla Royal Academy of Music. Dopo la prima litigata coi genitori ai quali finito il liceo aveva confessato quanto amasse suonare il violoncello elettrico; cacciato di casa, erano finite anche le lezioni di violoncello pagate dal padre, erano finiti i concerti ai quali andava di tanto in tanto per immergersi completamente nella musica e per capire come sentissero gli altri musicisti. Era finita la vita che loro avevano programmato per lui ed era iniziata una vita nuova, nella quale doveva lavorare se voleva andare avanti, se voleva frequentare quella scuola terribilmente costosa e se non voleva vedersi costretto ad abbandonare la musica.
Quando era successo aveva solo diciotto anni, ma la musica era l'ultima cosa che si sarebbe lasciato scivolare tra le dita. La musica non l'aveva mai tradito e mai l'avrebbe fatto, lei era l'unica cosa che mai l'avesse fatto sentire vivo, e di certo non l'avrebbe scaricata solo perchè i suoi genitori - pur fieri della borsa di studio parziale per l'accademia - lo stavano lasciando in mezzo ad una strada solo perchè si era ribellato al proprio futuro programmato, ribellato all'assenza del violoncello elettrico nella propria vita.
La musica non l'aveva tradito, e lui di certo non avrebbe tradito lei.
Fatto sta che aveva dovuto trovarsi un lavoro, e l'unica cosa che gli piacesse fare o che in realtà sapesse fare era proprio la musica. L'unica cosa che non lo stancasse mai, l'unica che non lo annoiasse, che gli mettesse allegria. L'unica cosa, nel miliardo di lavori che avrebbe potuto cercare nella capitale inglese, che riuscisse a dargli la soddisfazione di saper fare qualcosa, di far capire a qualcuno cosa significasse la musica e magari di far diventare la musica stessa parte integrante della vita di qualcun altro.
E dare lezioni di musica lo faceva sentire bene, lo faceva sentire importante, utile a qualcosa. Forse convinto nel profondo - o era soltanto speranza - che con il passare del tempo uno dei suoi piccoli allievi sarebbe diventato bravo a suonare almeno la metà di quanto dicevano tutti fosse lui. Dare lezioni di musica gli faceva incanalare la rabbia in altro modo che non fosse suonare, per una volta, o più semplicemente la rabbia sembrava sparire e basta... per poi ricomparire quando la lezione finiva e i pensieri tornavano alla sua mente prepotenti come sempre o forse più di prima.
Solo, quel giorno di inizio maggio, la sua mente era altrove.
Concentrata su un paio di labbra che non aveva avuto il coraggio di sfiorare con le proprie, sull'odore dello shampoo di una ragazza riccia che non riusciva a scrollarsi dai pensieri, sulla presa della sua mano piccola contro la propria camicia quando l'aveva tirata via appena in tempo prima che si facesse male, sul modo in cui le sue iridi verde giada fossero finite in automatico sulle proprie labbra che non era riuscito a non mordere - come non era riuscito a non ricambiare lo sguardo alle sue, di labbra, che tremavano ancora un po' dalla paura.
Aveva ripensato a quel momento tutta la settimana, cercando di scacciarlo dalla mente, cercando di pensare ad altro, cercando disperatamente di far finta di nulla. Ma come avrebbe potuto far finta di non aver voluto baciarla, quando poi si ritrovava ad accompagnarla in stanza tutte le sere, o a parlarle nei corridoi o a lasciarsi prendere sottobraccio perchè ormai era troppo normale per non lasciarglielo fare? Come avrebbe potuto evitare di pensare a come si sarebbe sentito se si fossero baciati, quando anche lei non faceva altro se non guardargli le labbra e guardarlo negli occhi e distogliere lo sguardo arrossendo?
E, quel giorno di maggio - mentre avrebbe dovuto spiegare alle gemelle Carter come leggere un pentagramma - in realtà stava pensando alle labbra di Esme, ai suoi occhi verdi o alla sua abitudine di salutarlo con un sorriso e muovendo le dita della mano prima di lasciarlo da solo a rimuginare su quanto fosse davvero incredibile quel mezzo sorriso. In realtà quella era l'ennesima volta in cui si ritrovava a pensare a quelle labbra, alla dolce tortura a cui si sarebbe sottoposto pur di averle sulle proprie; era l'ennesima volta che finiva per immaginare come fossero, quelle labbra, quanto potessero essere soffici, di cosa avrebbero potuto sapere quando le avesse sfiorate...
E semplicemente era il suo pensiero fisso, non riusciva a smettere di pensarci.
Esme era nella stessa situazione, con la differenza che invece di insegnare musica ai figli dei ricconi si era dovuta accontentare di un umiliante e sottopagato lavoro come barista nella caffetteria poco distante dall'accademia.
Ma, come Zayn, la sua mente era annebbiata dal ricordo onnipresente di come lui l'aveva salvata da quell'amplificatore; fissa sulla stretta che le aveva circondato il polso e l'aveva tirata forte; fissa sul respiro che le era mancato all'improvviso quando era finita schiacciata addosso a lui, col suo odore nelle narici e la sua clavicola coperta dalla camicia leggera ad un millimetro dal proprio naso; fissa sul modo in cui aveva continuato a sfiorarle il polso fino a calmarla, fino a sentire il suo cuore tornare a battere in modo regolare.
Come Zayn, non riusciva a smettere di pensare a quel momento - a cui aveva inevitabilmente pensato per tutta la settimana - in cui chiamandola "gattina" si era preoccupato per lei, in cui l'aveva tenuta stretta a sè come avesse avuto paura di romperla, in cui lei come lui non aveva potuto evitare di spostare lo sguardo dai suoi occhi scuri alle sue labbra carnose, umide di saliva e di preoccupazione per lei.
E, come Zayn, aveva immaginato la consistenza di quelle labbra per ore intere, aveva continuato a guardarle giorno dopo giorno mentre se le mordeva appena quando lo salutava con la mano e con un mezzo sorriso che non riusciva mai a fermare. Aveva pensato di morderle, quelle labbra, di sfiorarle appena, di farsi sfiorare il piercing al labbro inferiore mentre le mani le vagavano fino ai suoi capelli senza che nemmeno lei se ne rendesse conto. Aveva passato di passarci un dito sopra e di sentirne la consistenza, aveva immaginato il suo respiro di sigarette e musica contro la pelle fino quasi a sentire la testa girare e rendersi conto di avere le palpebre abbassate.
Ma quel giorno di maggio aveva il giorno libero, così aveva deciso di prendersi un paio d'ore in teatro. Aveva fatto male i conti, se pensava che la musica l'avrebbe distratta da lui - in fondo nemmeno servire caffè per sei ore filate riusciva a distrarla da lui, dalle sue labbra, dai suoi occhi troppo profondi per non essere notati e dalle sue braccia che quando la abbracciava sembravano essere nate apposta per quello. Quel giorno di maggio era un giorno come tutti gli altri da quando l'aveva conosciuto. Quel giorno di maggio aveva talmente tanti pensieri per la mente e quasi tutti riguardavano lui, che sarebbe stato quasi impossibile riuscire a cantare qualcosa decentemente.
Anche se era da sola in quel teatro vuoto. O forse proprio per quello.
Perchè era strano, ma era come se si fossero entrati dentro, l'uno sotto la pelle dell'altra. Come se una volta entrati in contatto non riuscissero più a staccarsi, a lasciare la presa, a lasciarsi scivolare via, liberi di tornare a respirare, di far battere i cuori normalmente. Come se i loro sguardi si fossero fusi l'uno dentro l'altro e non riuscissero più a separarsi. Come se si fossero finalmente trovati senza sapere di essersi cercati.
Ed era strano, ma Esme smetteva di tremare quando lui la sfiorava.
Smetteva di pensare troppo, di mordersi le labbra. Smetteva di essere nervosa al solo sentire le punta delle dita di Zayn sfiorarle una mano, un braccio; al solo essere toccata anche per sbaglio da lui, sentiva il resto scivolarle via di dosso, sentiva l'aria arrivarle prepotente nei polmoni, sentiva le mani smettere di tremare e i brutti pensieri tornare al proprio posto - dove tentava sempre di nasconderli. Strano come solo Zayn riuscisse a farle quell'effetto, ma lei di certo non l'avrebbe fermato, nè sarebbe scappato dalla presa di quelle dita o dal tocco di quella pelle. Egoista, forse, ma non le sarebbe potuto importare di meno.
Era strano, ma Zayn non riusciva a smettere di farlo.
Sfiorarla anche solo per un istante, anche solo per sbaglio, gli veniva naturale come respirare. Perchè non voleva che lei tremasse, non voleva che stesse male, non voleva che pensasse troppo se significava che iniziasse a mordersi le labbra fino a rischiare di sanguinare. Sfiorarla gliela faceva sentire più vicina, forse addirittura un po' più sua. Sfiorarla lo faceva respirare con più leggerezza; sfiorarla lo faceva sorridere, quando la vedeva sciogliersi sotto al suo tocco - anche se durava appena il tempo di un respiro.
Esme stava giusto pensando a quello, alla strana delicatezza con cui lui la toccava sempre. Come ne avesse davvero bisogno, come se la toccasse per rendersi davvero conto della sua esistenza. Ci stava pensando, coi capelli ricci legati in quello che sarebbe dovuto essere uno chignon e una matita tenuta stretta tra le labbra struccate, con addosso una maglietta troppo grande per lei e presa a caso dall'armadio e il solito paio di jeans stretti strappati sulle ginocchia. Ci stava pensando, circondata da un mare di spartiti che invadevano il parquet, mentre lei vi stava in mezzo, seduta a gambe incrociate sul legno scuro e con un quaderno in equilibrio precario sul ginocchio.
Gli occhi verdi tenuti chiusi, mentre immaginava come avrebbero potuto suonare le note che Zayn le aveva scarabocchiato ovunque. Le palpebre tenute abbassate, si accorse a malapena della porta che si apriva cigolando o del leggero rumore delle ruote di un carrello che scorrevano sul parquet; se ne accorse solo quando lo sentì sorridere; se ne accorse solo quando la sua mezza risata divertita le arrivò alle orecchie e fu costretta ad aprire gli occhi e schiudere improvvisamente le labbra al vederlo, perdendo la presa sulla matita che cadde tra le sue gambe fermando il silenzio e coprendo quella risata che non avrebbe mai smesso di riascoltare.
«Ciao...».
Sembrava che Esme perdesse ogni pensiero e ogni capacità di spiccicare parola, in sua presenza. Sembrava che persino quel "ciao" le fosse scivolato dalle labbra a fatica, quasi come avesse voluto dire tutt'altro. Sembrava che Esme diventasse la classica dodicenne alla prima cotta in sua presenza, e lo odiava, odiava il proprio essere così e odiava lui per renderla così insicura e imbarazzata... lei non era mai stata così debole, prima che lui arrivasse e suonasse il violoncello in quel modo che le provocava un uragano dentro.
E sembrava che anche solo quel "ciao", seppur sussurrato a fatica ma udito come fosse stato urlato, riuscisse ad abbattere il muro di rabbia che di solito custodiva il cuore di Zayn, sciogliendolo in un sorriso che sembrava nascere apposta perchè lei lo vedesse, apposta perchè lei sorridesse di rimando, apposta per mandarle in crisi ogni pensiero logico appena nato nella sua mente.
Quel sorriso nato da quel "ciao" le scioglieva il cuore e i pensieri in un colpo solo, e lui lo sapeva, alla perfezione.
«Ciao...». Avrebbe voluto dire di più, mentre si chinava per baciarle una guancia, indugiando qualche secondo di troppo solo per sentire il suo odore di caramelle alla menta entrargli dentro. Avrebbe voluto chiamarla "micetta" solo per vederla accennare una smorfia per nascondere il sorriso che però sapeva le stesse covando dentro. Avrebbe voluto tirarla su e abbracciarla tanto forte da sentire solo lei, come faceva sempre ma mai abbastanza.
«Ho già finito il tempo? Cazzo...», borbottò con una risatina passandosi una mano sulla fronte, mentre il moro spostava alcuni dei suoi spartiti dal pavimento per sederlesi di fronte, a gambe incrociate anch'egli, in modo che le loro ginocchia in parte scoperte dagli strappi dei jeans entrassero in contatto. Ed Esme si maledisse mentalmente; aveva passato due ore in quel teatro senza concludere nulla che non fosse pensare al ragazzo che in quel momento le stava di fronte e guardava il quaderno che teneva sul ginocchio con un sorriso furbo e la testa leggermente inclinata da un lato. «Che c'è?», gli chiese mordendosi un labbro, vittima di quello sguardo così intenso da respirare a fatica.
«Hai trovato i miei appunti, a quanto pare».
Il ragazzo trattenne una risata divertita, passandosi una mano tra i capelli per nascondere il sorriso che gli aveva appena increspato le labbra. Trattenne una risata, al vederla sollevare le sopracciglia e storcere leggermente il naso - era troppo bella quando lo faceva, ed era inutile negarlo, inutile che lui continuasse a negare quanto la trovasse meravigliosa. Esme sarebbe voluta scoppiare a ridere, ma si limitò a passare lentamente la lingua sulle labbra, indugiando sul piercing, sorridendo tra sè quando vide l'altro deglutire, sollevata dal fatto che non fosse l'unica a sentirsi debole, impotente e fragile quando si trattava di lui - a Zayn succedeva la stessa cosa quando la guardava o la ascoltava ridere, e lei se n'era appena accorta, come avesse appena trovato il suo punto debole, il suo tallone d'Achille.
Beh, era difficile non trovarli. «Il problema è che non ho idea di come farle suonare», mormorò appena, recuperando la matita da terra e riposizionandosela tra le labbra, guardandolo dritto negli occhi e trattenendo una risata. Stare con lui la faceva ridere, e ancora non era riuscita a scoprirne il motivo, il perchè in sua presenza le venisse così tanto da ridere, il perchè con lui riuscisse ad essere se stessa, tanto spontanea e maliziosa da vedere i propri muri crollare come un castello di carte sotto una folata di vento.
E davvero non aveva idea di come far suonare quelle note o di come lui le avesse composte - cosí in disordine e senza un filo logico e senza nemmeno un motivo. Non aveva idea di come farle funzionare, né di come immaginarne il suono nella propria mente, tanto per giocare. Non sapeva come comportarsi, con quelle note; non sapeva se sentirle completamente proprie o se considerarle solo di Zayn o se, ancora, considerarle di entrambi - come una collaborazione, una scrittura a quattro mani, un duetto.
Non ne aveva idea, Esme, ma nemmeno ci fu bisogno di chiedere a Zayn. Nel tempo in cui lei stava impiegando a formulare una frase che avesse un minimo di senso, lui si stava già sollevando da terra e stava già aprendo la custodia del violoncello elettrico con un mezzo sorriso ad increspargli le labbra piene. Nel tempo in cui lei avrebbe messo in ordine i pensieri, lui si stava arrotolando le maniche della camicia bianca fino ai gomiti e stava liberando i primi due bottoni dalle rispettive asole fin troppo lentamente, tanto lentamente che per Esme era allo stesso tempo difficile guardarlo e impossibile smettere di farlo.
E ogni volta che lo osservava avvicinare l'archetto alle corde sembrava essere la prima. Ogni volta che note nuove - o sempre le stesse - venivano emesse dal suo violoncello e le arrivavano alle orecchie, sembrava sempre di assistere alla nascita di qualcosa di meraviglioso, perchè ogni volta che lui suonava in sua presenza le sue dita davano vita alla miglior musica che potessero creare. Ogni volta che lo sentiva suonare era come la prima e lungo la schiena Esme sentiva nascere un brivido che era sempre più intenso di volta in volta ma che allo stesso tempo sembrava essere sempre uguale e sempre lo stesso.
Ascoltarlo suonare quelle note però era diverso. Era più intenso. Emotivamente più distruttivo, se pensava che quelle note doveva averle scritte sui suoi appunti sperando probabilmente che le trovasse, o se pensava - con un sorriso impossibile da trattenere - che forse quelle note le aveva ispirate proprio lei, che forse le aveva scritte apposta per lei. Erano note lente, lunghe, le più intense che gli avesse mai sentito suonare; e le si abbassarono le palpebre, mentre al contrario lui non riusciva a smettere di guardarla o di suonare quella serie di suoni ispirati dal suo sorriso; le si chiusero gli occhi color giada, mentre immaginava i suoni che sarebbero potuti venire dopo o le parole che la propria voce avrebbe potuto cantarci sopra.
Suonare quelle note era differente anche per Zayn, diverso da qualsiasi cosa avesse mai composto o suonato, diverso perchè gli arrivava direttamente dal cuore e diverso perchè quelle poche note erano l'effetto che gli faceva pensare ad Esme e a quelle labbra che tanto avrebbe voluto avere il coraggio di baciare. E smettere di guardarla era impossibile, mentre schiudeva le labbra, inclinava la testa dal un lato e rilassava completamente i muscoli delle spalle con un mezzo sorriso sulle labbra rosa; impossibile, quando la vide sfarfallare le ciglia e risollevare le palpebre, leccarsi piano le labbra e voltare le pagine del quaderno fino a trovarne una bianca, prima di scriverci un paio di righe, alzarsi da terra scompostamente e avvicinarsi a lui col labbro intrappolato tra i denti, a mostrargli la pagina.
La pagina che prima era bianca.
In quel momento c'era una serie di note, che Zayn prese a suonare con un sopracciglio leggermente inarcato, accorgendosi poi - mentre prendevano vita - che sembravano suonare alla perfezione, di seguito a quelle che aveva composto lui. Le suonò come fossero la continuazione del proprio respiro, come venissero dal proprio cuore e non da quello di lei, come se quelle note li collegassero più di quanto già non fossero.
Al musicista venne da ridere, a quel pensiero. Perchè il loro rapporto era già strano così, senza che pensassero le stesse note e li stessi suoni. Rise piano, guardandola mentre anche lei tratteneva una risata inarcando ironicamente un sopracciglio. E rise più forte, smettendo poi di suonare mentre lei gli lanciava un foglio di carta appallottolato scoppiando a ridere con lui, passandosi una mano tra i capelli ricci e osservando il suo sorriso, le pieghe intorno agli occhi e il naso appena appena arricciato.
«Come fai a capirci qualcosa con questo casino, Esmeralda?».
La ragazza alzò gli occhi al cielo, sorridendo dentro di sè perchè il proprio nome per intero detto dalla sua voce, scivolato via dalle sue labbra, suonava terribilmente bene. Come una melodia, un segreto, o una preghiera sussurrata con un filo di voce in una chiesa vuota che odora di fiori e acqua santa. Il proprio nome detto per intero da lui era tutta un'altra cosa - non riusciva nemmeno ad odiarlo come faceva di solito, da quanto alle sue orecchie suonavano bene quelle nove lettere.
«Casino?».
Le venne da ridere. Quello era semplicemente disordine controllato. E fu esattamente in quel momento - pensando all'effettivo disordine che la circondava - che si accorse della completa assenza di spartiti nella vita di Zayn. Sollevò entrambe le sopracciglia e inclinò la testa da un lato, di fronte a quella scoperta. E la sua espressione confusa lo fece semplicemente scoppiare a ridere con la gola esposta e la testa buttata all'indietro, prima che le spiegasse che lui imparasse tutto a memoria. Orecchio assoluto e una memoria fotografica da far paura, era il suo unico segreto.
«Come tu impari le canzoni, io imparo le note... lo so che sembra difficile, è solo questione di abitudine, piccola».
Quel "piccola" le fece perdere un battito. La fece arrossire appena sulle guance, senza che riuscisse a fermare il sangue dall'affluire al proprio viso sempre un po' pallido. Quella parola la fece sorridere, perchè non era mai stata tipa da nomignoli ma detto da lui sembrava tutto stranamente migliore, sembrava tutto stranamente più bello.
«Comunque io nel mio casino ci convivo benissimo, ragazzo prodigio».
E passarono tutto il resto del pomeriggio in quel teatro a provare. A comporre. A scrivere note nuove su un pezzo di carta che Esme avrebbe perso nella tracolla e di cui forse Zayn non avrebbe più fatto parola. A cantare parole nuove cercando di dare loro un senso. A sorridersi e lanciarsi pezzi di spartiti appallottolati. A fissare il soffitto l'uno accanto all'altra, a volte anche senza dire niente, semplicemente perchè il silenzio bastava a colmare il vuoto, o forse perchè non c'era nessun vuoto da riempire.
Passarono il pomeriggio più vicini di quanto non fossero mai stati, separandosi solo quando all'improvviso il ragazzo si sollevò da terra con una mezza risata - provocata dallo sguardo confuso della ragazza, che aveva ancora il suo odore nelle narici quando si accorse che si stava allontanando - e si sistemò sulla seggiola posta al centro del palco, col violoncello posizionato tra le gambe divaricate e la camicia ancora come l'aveva sistemata quando le aveva suonato quelle poche note (pericolosamente sbottonata, insomma).
«Che stai...?».
Ma le sue parole, dette come sempre con un filo di voce quando era sola con lui, vennero fermate dal cozzare lieve dall'archetto contro le corde. Come sempre. I brividi erano sempre quelli, Zayn era sempre lo stesso... ma quella canzone... quella era la canzone che cantava giorno dopo giorno in sala di registrazione. La canzone che lui doveva averle sentito cantare un'infinità di volte senza mai stancarsene. La canzone che parlava di lei, delle sue paure, delle insicurezze che le attanagliavano lo stomaco.
La canzone che le permetteva di restare fedele a sè stessa.
Just be truth to who you are, diceva. E lei l'aveva sempre presa alla lettera. Le era venuto da piangere la prima volta che l'aveva sentita, aveva pianto la prima volta che l'aveva cantata in sala di registrazione. Le si spezzava sempre un po' la voce, ogni volta che la cantava. Veniva travolta dall'emozione e faticava a respirare e... finiva per piangere col sorriso, perchè quella era una delle canzoni che la faceva andare avanti, che la faceva respirare a pieni polmoni quando la cantava, che la calmava, che le faceva esprimere ogni briciola di quel che sentiva dentro. Che la faceva sentire viva, semplicemente.
E lui la stava suonando come se nulla fosse. Come se non sapesse cosa significasse per lei, come non le avesse mai visto le lacrime agli occhi e non avesse mai sentito la voce spezzarlesi come vetro infranto sempre sulle stesse note, sulle stesse parole. Sempre nel momento in cui la sua mente ripercorreva tutta la propria vita e avrebbe solo voluto piangere, ma c'era quella canzone e c'erano quelle note... e Zayn le stava sentendo dentro nello stesso modo in cui le sentiva lei ogni volta che le cantava. Era incredibile come stesse prendendo un sentimento non suo e lo stesse facendo proprio, facendo sentire alla cantante lo specchio delle sue emozioni.
Come se lei fosse davanti ad uno specchio e la stesse cantando.
Come se le emozioni che lei faceva fluire via le tornassero indietro, colpendola con la stessa forza con cui le lasciava andare, la stessa con cui se ne liberava. Tornavano indietro come schiaffi, come pugni nello stomaco, in un certo senso come memorie che avrebbe volentieri voluto scordare. E le venne da piangere, anche se era davanti a lui, anche se odiava che qualcuno - chiunque fosse - la vedesse così debole. Le venne da piangere perchè quella canzone era semplicemente il suo punto debole, perchè quelle erano le parole che avrebbe voluto saper scrivere e perchè come la stava suonando Zayn era davvero troppo per non sciogliersi. Sarebbe riuscito a far sciogliere chiunque, Esme ne era sicura.
«Ehi...». Non si era nemmeno accorta della fine della canzone. A malapena sentiva le lacrime rotolarle lungo le guance. A malapena sentiva la voce di Zayn arrivarle alle orecchie, tramortite dai piccoli singhiozzi che non riusciva a trattenere. «Esme...», la chiamò il ragazzo lasciando il violoncello e andandole accanto, abbassandosi al suo livello e notando le palpebre abbassate e le labbra che le tremavano come foglie in autunno. «Guardami, Es... stai bene?», provò ad aggiungere in un sospiro, senza riuscire a nascondere la preoccupazione nella propria voce.
«H-hai imparato una delle mie canzoni, Zay...».
Riuscì finalmente a guardarlo negli occhi, asciugandosi di fretta le guance e tirando su col naso, facendolo sorridere appena - un po' per il gesto tanto tenero e un po' per come l'aveva chiamato. Solo Sky lo chiamava in quel modo, e l'aveva sempre trovato ridicolo. Ma detto da lei era tutta un'altra storia. Detto da lei era musica, anche se stava ancora piangendo e tratteneva a stento altre lacrime e altri singhiozzi e altra emozione.
«E' una bella canzone, no?».
In qualche modo riuscì a farla ridere, anche se pianissimo, mentre annuiva appena e si passava una mano tra i capelli. Cercava di calmarsi, Esme, ma non riusciva a smettere di pensare a come si sarebbe sentita se ci avesse cantato sopra, se avesse provato a sovrapporre la propria voce al suono carezzevole del violoncello del ragazzo. «Scusami... dio, sono un disastro... e mi hai vista piangere, cristo...». Quella volta fu lui a ridacchiare, prima che le posasse un bacio sulla fronte - come per tranquillizzarla - e le sussurrasse un "sei bellissima comunque" a fior di pelle, perfettamente udibile nel silenzio dell'auditorio deserto.
Lei sbattè velocemente le palpebre ancora umide di lacrime, cercando di assimilare quelle tre parole. Soprattutto due delle tre, in realtà. Sei bellissima. Era davvero troppo che non se lo sentiva dire, troppo che non ci credeva, troppo che subito dopo esserselo sentito dire non le spuntava in automatico un sorriso sulle labbra - uno di quelli veri, coi denti scoperti, uno di quelli che si fanno fatica a trattenere da quanto sono spontanei e sinceri. Quindi sorrise, Esme, del sorriso più vero che le sue labbra rosa fossero mai riuscite a creare. Sorrise seza riuscire a fermarsi e senza riuscire a smettere di farlo, asciugandosi le lacrime e prendendo un respiro profondo prima di alzarsi da terra e lisciare inutilmente le pieghe sui jeans. Sorrise di fronte all'espressione serena di Zayn - che sembrava anche impressionato dal suo riuscire a calmarsi così, nel giro di pochi istanti, con solo quelle due parole che le aveva sussurrato senza pensarci ma pensandole e credendoci con ogni fibra di se stesso.
«Posso farti sentire una cosa? Non l'ho cantata davanti a nessuno... non so neanche se ne sono capace in realtà...», borbottò improvvisamente poco convinta e in imbarazzo. Gesticolò nervosamente, osservando Zayn sedersi a gambe incrociate sul parquet, prima di prendere un respiro fondo e sistemarsi un riccio dietro l'orecchio. Non avrebbe dovuto avere paura, non di lui, non di cantare davanti a lui quando l'aveva già sentita decine di volte, non di... di cosa aveva paura, davvero? «No, okay, non lo so...».
«Canta e basta, Esme», le disse lui con un mezzo sorriso.
E in qualche modo riuscì a convincerla. Quel sorriso la convinse a chiudere gli occhi e lasciar scivolare le parole della canzone come stesse semplicemente respirando; quel sorriso la spinse a cantare a bassa voce ma con tutta la forza che aveva dentro, la spinse ad esprimere ogni emozione con tutta se stessa, come avesse voluto far capire davvero a Zayn come si sentiva quando cantava quelle parole, come avesse voluto fargli capire tutto quel che aveva passato - o quasi - con una canzone.
In qualche modo i suoi occhi riuscirono a darle la spinta che le serviva per cantare. Fighter era un'altra delle sue canzoni, di quelle che a mano a mano che le cantava la rendevano più forte; Fighter era essere forti nonostante le debolezze, il dolore o le persone che se ne andavano senza nemmeno lasciare uno straccio di spiegazione, perchè quelle debolezze e quel dolore - e le persone che se ne andavano, anche - l'avevano resa una guerriera; Fighter le aveva fatto capire che non si sarebbe dovuta arrendere, mai, anche se c'erano tanti - troppi - muri da abbattere e le sembrava di non avere la forza necessaria per farlo.
Canta e basta. Ed Esme cantò e basta.
Le prime parole solo sussurrate, ma poi dette col coraggio e la determinazione di sempre. Come se avesse avuto colui che le aveva fatto male di fronte e gli stesse dicendo tutto quello che non era mai riuscita a dirgli. Non ce l'aveva con Louis per averla tradita o per essersene andato da un giorno all'altro sparendo dalla sua vita quasi non fosse mai esistito. Non riusciva più ad avercela con lui, non riusciva nemmeno più a ricordare come fosse stato amarlo, come fosse stato essere completamente sua e sorridere e farsi accarezzare la schiena con le labbra dopo aver fatto l'amore.
Louis era la persona di cui si fidava di più al mondo.
L'aveva tradita e abbandonata.
Ma lei avrebbe solo voluto ringraziarlo.
Avrebbe voluto ringraziarlo perchè ogni lacrima che aveva versato per lui l'aveva resa più forte, perchè ogni notte insonne l'aveva resa pià saggia, le aveva permesso di imparare a non fidarsi troppo delle persone perchè nei suoi confronti esse sembravano esser fatte apposta per scappare e lasciarla sola coi propri demoni. Avrebbe voluto dirgli grazie per averla resa in grado di pensare con la propria testa, per essersi posta degli obiettivi, dei sogni.
Avrebbe dovuto ringraziarlo per averla resa quel che era in quel momento, in quel teatro vuoto con Zayn come unico spettatore, che la guardava come si guarda il cielo tingersi di rosso al tramonto e la ascoltava rapito, sorpreso, paralizzato da tutti quei sentimenti che gli arrivavano addosso come proiettili e gli finivano sotto pelle senza più riuscire a trovare nè a cercare la via d'uscita. Zayn continuava a guardarla e sentiva sempre più brividi lungo la schiena, sempre più il desiderio di prenderla tra le braccia e stringerla fin quasi a farla sparire.
Esme avrebbe voluto ringraziare Louis.
«So thanks for makin me a fighter...».
Di nuovo a voce bassa, quell'ultima frase. Un sussurro, rispetto agli acuti che avevano spezzato l'aria fino a qualche secondo prima. Un sussurro che il violoncellista sentì direttamente sulle proprie ossa, ancora tremanti dall'ultimo acuto che le aveva invase con quella voce potente e profonda. Sembrava un'altra persona quando cantava, e di certo non avresti detto che da quel corpicino così minuto sarebbe potuta venir fuori tutta quella voce, senza alcuno sforzo.
«Wow», mormorò il ragazzo, mentre l'ultima parola usciva dalle sue labbra e gli arrivava alle orecchie accarezzandole e quasi facendogli il solletico. Aveva ancora gli occhi leggermente sgranati dall'ultima nota decisamente impressionante che aveva emesso sorridendo e le labbra schiuse dalla sorpresa di averla sentita cantare... così. Era semplicemente incredibile, e l'unica parola che era riuscito a pronunciare era probabilmente l'esclamazione più stupida che avrebbe potuto dire.
«Wow?».
«Sei incredibile... mi hai appena lasciato senza parole, micetta».
La vide arrossire appena, nonostante la penombra, nonostante tutto. La osservò passarsi la mano tra i capelli e lanciare un'occhiata all'orologio che portava al polso, anche se sembrava che non volesse farlo, che non volesse dirgli che se ne stava andando - con una scusa parecchio banale, tra l'altro. Sembrava che Esme volesse rimanere con lui, ma volesse anche andarsene e scomparire e magari smettere di pensare a quegli occhi che le ricordavano il buio e quelle labbra che tanto avrebbe voluto baciare. «Beh... dovrei andare, Zayn... dovrei già essere con Iris e Roxanne e...».
Lui si alzò dal parquet e le diede un rapido bacio sulla guancia. Non riuscì a dire una parola mentre la guardava raccogliere i propri spartiti, nè mentre si metteva seduto col violoncello tra le gambe e l'archetto stretto fin troppo forte tra le dita. Non la guardò nemmeno mentre tratteneva uno sbuffo irritato e usciva dal teatro, anche lei senza riuscire a dire una parola. Si riscosse solo quando sentì qualcuno schiarirsi la voce e si accorse di Sky - coi capelli azzurri raccolti in una treccia e un'espressione decisamente stranita sul viso stranamente poco truccato.
«Spiegami per quale motivo l'ho sentita imprecare mentre usciva di qui».
«Perchè sono un coglione, Sky».
«Bene, e ora che l'abbiamo reso ufficiale, alza quel bel culo che ti ritrovi e vai da lei, cristo!». Il musicista scoppiò a ridere davanti a quelle parole, pensando inizialmente che non fosse così semplice. Insomma, non poteva lasciare tutto lì e correrle dietro. O poteva? «Zay, dico davvero... muoviti e vai da lei, ora. Il violoncello te lo riporto in camera io, ma vai...».
E non seppe come controbattere, forse non c'era nulla con cui sarebbe riuscito a tenerle testa. Avrebbe potuto continuare a negare tutto, continuare a negare quanto avrebbe voluto correrle dietro, afferrarla per un polso, tirarsela contro e baciarla. Baciarla e basta. Baciarla fino a non poterne più e sentire i polmoni bruciare per la mancanza d'aria e sentirla sussurrare il proprio nome labbra contro labbra e...
Schioccò velocemente un bacio sulla guancia della propria migliore amica, facendola scoppiare a ridere, prima di correre in corridoio con una mano incastrata tra i capelli e trovarlo vuoto. Completamente deserto. «Cazzo...», borbottò tra sè prima di raccogliere le idee e salire le scale per i dormitori femminili. Meno male che conosceva le sue migliori amiche, o a quel punto avrebbe sicuramente dato di matto.
A Esme invece tremavano le mani. Le veniva da piangere.
E avrebbe davvero voluto avere le palle di prendere Zayn per il colletto della camicia sbottonata e baciarlo. Baciarlo e basta, senza stare a pensarci troppo perchè più ci pensava e più giocava col piercing e più le sembrava di impazzire. Avrebbe voluto avere più coraggio di restare e meno forza di scappare. Scappava sempre, scappava per paura di... tutto, in pratica. Paura di lui, di non riuscire a spiccicare parola, paura di toccarlo, paura quasi di respirare in sua presenza.
E quando Esme aveva paura saliva sui tetti. Si sedeva con lo sguardo rivolto al cielo e componeva, cantava, o qualsiasi altra cosa riuscisse a farle passare la paura. A volte bastava poco, come la vista delle stelle sullo sfondo nero del cielo. A volte non riusciva a smettere di piangere e doveva chiamare Michael perchè corresse ad abbracciarla e facesse scomparire il panico solo sussurrandole che sarebbe andato tutto bene.
C'era un tetto in particolare, su cui Esme amava salire in quei momenti. Nessun grattacielo dagli innumerevoli piani. Era un palazzo di dodici piani, dal quale se ci si saliva di giorno si poteva vedere il cortile dell'orfanotrofio dov'era cresciuta - ed erano in pochi a saperlo, pochi a cui l'aveva voluto dire perchè si fidava più di quanto non facesse con sè stessa.
Non c'era nemmeno bisogno di chiederlo, a Zayn l'avrebbe detto.
Arrivare su quel tetto era automatico, spontaneo come respirare. Poi sollevava lo sguardo al cielo e guardava le stelle e le sembrava di riuscire addirittura a contarle. Perdeva il conto, ricominciava da capo, e finiva per ridere da sola, di se stessa, delle sue inutili paure e degli stupidi pensieri che le affollavano la mente anche quando non avrebbero dovuto, anche quando avrebbe dovuto fare di tutto per impedirsi di pensare.
Arrivare su quel tetto era la sua piccola salvezza.
E su quel tetto sembrava tutto più giusto.
Anche volere Zayn così tanto da far male.
Un'ora e centottanta scalini dopo, Zayn si passò una mano tra i capelli reprimendo un sorriso, al sentirla cantare a mezza voce parole familiari, che le aveva sentito cantare decine di volte in sala di registrazione, ma non ne aveva capito il vero significato fino a quel momento. E' solo un'altra notte e sto guardando la luna, passa una stella cadente e penso a te, canto una ninna nanna in riva al mare e so che se fossi qui la canterei a te. Lanciò un'occhiata al cielo scuro e stranamente limpido sopra le loro teste, appena in tempo per vedere una stella cadere, con la sua scia terribilmente bianca a spiccare nel cielo nero anche se solo per un istante, il tempo che ci avrebbe messo un'onda ad infrangersi contro uno scoglio.
«Esprimi un desiderio», mormorò il ragazzo, tanto piano da non essere sicuro che lei l'avesse sentito, almeno finchè non la vide irrigidire le spalle ma senza voltarsi, nascondendogli il sorriso che le spuntò inevitabilmente sulle labbra al solo sentire il suono nella sua voce. E' stato appena esaudito. Esme avrebbe voluto dirlo, almeno sussurrarlo, ma non ne ebbe il coraggio; riuscì a malapena a voltarsi verso di lui, ancora con le braccia incrociate sotto al seno e le labbra ancora schiuse dalle parole che aveva canticchiato prima che lui arrivasse. «Ciao...», sussurrò ancora Zayn, stavolta guardandola negli occhi senza trattenere un sorriso - uno dei suoi, di quelli con la lingua tra i denti e le pieghe intorno agli occhi e il naso arricciato.
E alla ragazza scappò l'accenno di una risata, mentre si tratteneva a stento dall'alzare gli occhi al cielo davanti al quel saluto. Non si vedevano da quanto, due ore? Eppure sembrava davvero che Zayn la stesse salutando come si fa con chi non si vede da anni, in un sussurro appena udibile che avrebbe potuto benissimo essere inteso come un segreto. E eppure, per quanto odiasse ammetterlo, le era mancato.
Più di tutto, il suono della sua voce.
Più di tutto, l'effetto che le faceva quando la guardava.
«Come mi hai trovata?», gli chiese mordendosi appena il labbro inferiore, per poi trattenere tra i denti un'estremità del piercing - per un istante, quanto bastava da far trattenere il fiato al violoncellista, nonostante la poca luce, nonostante tutto. Le venne spontaneo indietreggiare di un paio di passi, mentre lui ne faceva altrettanti in avanti, verso di lei. Come volesse inseguirla, lui; come stesse scappando e non aspettasse altro che essere inseguita, lei. Costretta a fermarsi al sentirsi collidere contro la balaustra della terrazza, gli occhi verdi ancora fissi in quelli più scuri di Zayn e un mezzo sorriso ancora ad incresparle le labbra, riflesso del suo.
E Zayn fece solamente un gesto con la mano come se non fosse importante, pur continuando a sorridere pensando a come avesse bussato con poca grazia alla porta della stanza di Iris - trovandosi però Roxanne di fronte con un sopracciglio inarcato e tutte le intenzioni di nascondere la bionda dietro di sè. Il ragazzo non aveva fatto troppe domande, aveva semplicemente chiesto dove fosse Esme, ricevendo la risposta con una mezza risata e senza troppa fatica.
«Le tue amiche...».
«Ovviamente», mormorò la mora alzando gli occhi cielo.
«Non avrei saputo aspettare domani, okay? Io... devo solo dirti una cosa, non riesco più a tenermela dentro e niente...». La ragazza si morse un labbro per non ridere, sentendo poi la risata incastrarlesi in gola quando lo vide avvicinarsi ancora, tanto vicino e imponente da impedirle ogni pensiero coerente - insieme alla fuga. Tanto vicino che era quasi come abbracciarlo ma senza poterlo toccare, tanto vicino da avere il suo odore nelle narici e non riuscire a smettere di guardargli le labbra e gli occhi e di nuovo le labbra. Sentirlo così confuso era strano, ma allo stesso tempo quella confusa era lei - confusa dai suoi occhi, dalle parole che le stava dicendo, da quelle labbra che, diamine, erano troppo da sopportare, soprattutto a quella distanza. «Posso parlare o pensi che scoppierai a ridere?».
Sono proprio belli, i tuoi occhi. Ma prese un respiro profondo e non disse nulla, limitandosi ad annuire. Limitandosi ad abbassare le palpebre per un secondo al sentire la sua mano posarlesi sul fianco, con le punte delle dita a sfiorarle la pelle sotto la maglietta cospargendola di brividi e pelle d'oca. Limitandosi a riaprire gli occhi e ritrovare ancora i suoi sul proprio viso, ancora fissi su di lei come stesse guardando chissà quale dipinto o ascoltando chissà quale sinfonia. Sì, sono proprio belli. Come l'alba, la neve che cade e la coda delle comete.
Il ragazzo prese un respiro profondo, pensando esattamente la stessa cosa riguardo i suoi, di occhi. Con la piccola differenza che lui li avrebbe paragonati al tramonto, alla pioggerella che cade quando c'è il sole e alle foglioline che sbocciano sugli alberi in primavera. «Sono giorni che non riesco a togliermi di mente le tue labbra, Esme». E lo disse in un sospiro, soffiandolo delicatamente contro la sua pelle e senza troppi giri di parole, senza stare a pensarci troppo - chè se avesse continuato a pensarci probabilmente non l'avrebbe detto, non così. «Sono giorni che non riesco a smettere di pensare al suono della tua voce, al modo in cui aggrotti le sopracciglia quando sei confusa, o alla tua cazzo di risata che mi manda completamente fuori di testa... non ci riesco, non riesco a starti lontano», aggiunse sempre più a bassa voce, sempre più vicino - tanto da far male, da respirarlo, da non riuscire a dire nulla.
Non c'era nulla che avrebbe potuto dire senza sentirsi la ragazza più ridicola del pianeta, probabilmente. Nulla che le venisse in mente, mentre senza distogliere lo sguardo da lui si passava una mano tremante tra i capelli mossi dal vento, prima di allungare la stessa mano verso la sua guancia ricoperta dal solito velo di barba e posarcela delicatamente contro, in una carezza che doveva servire a dire tutto quel che le sue labbra non sarebbero riuscite a pronunciare nemmeno se le avesse costrette a farlo. Gli accarezzò la pelle sentendo i peli ispidi della barba farle il solletico sotto i polpastrelli e lasciando che un sorriso le comparisse sul viso mentre quasi in automatico il pollice finiva a sfiorargli le labbra facendole schiudere.
Non era riuscita a trattenersi, e di sicuro Zayn non l'avebbe fermata.
Per nulla al mondo.
«Soo nella tua stessa situazione... da quando mi sono imbucata in teatro e ti ho visto tenere il violoncello tra le braccia», ammise la cantante passandosi la lingua sul labbro inferiore ma senza scostare la mano dal viso del violoncellista, continuando a sfiorarlo come avesse paura di romperlo, come un soffio di vento accarezza un prato facendone oscillare i fili d'erba. «Ho la tua cazzo di risata in loop nel cervello e non riesco a smettere di ascoltarla e sorridere anche io, perchè è troppo bella... i tuoi occhi sono troppo belli e non riesco a non guardarli, non riesco a stare lontana da te, Zayn».
Il cuore le batteva fortissimo contro la cassa toracica, tanto da sentirlo nelle orecchie, tanto che forse anche Zayn lo sentiva, a quella distanza. Sembrava volerle sfondare, quelle poche ossa che lo distanziavano da lui. Sembrava voler uscire e farsi cullare dalle braccia di Zayn, lasciandosi risanare dalle vecchie cicatrici o lasciandosi schiacciare e distruggere. Non avrebbe fatto alcuna differenza, importava solo che fosse lui a farlo. Lui e nessun altro.
E continuò a batterle forte - sempre più forte, quasi da sembrare che le scoppiasse nel petto - mentre si sollevava sulle punte dei piedi aiutata dalla mano di Zayn che ancora la teneva per il fianco, ancora con la mano sotto alla sua maglietta, direttamente a contatto con la sua pelle. Sulle punte per averlo più vicino, per poterlo guardare meglio negli occhi, per avere le sue labbra più vicine e il suono del suo respiro leggermente irregolare direttamente nelle orecchie. Sulle punte per poter guardargli direttamente dentro e cercare di fargli capire - con un solo sguardo - quanto volesse essere baciata.
Smise di battere, per un secondo, al sentire improvvisamente le labbra del moro contro le proprie. Abbassò lentamente le palpebre, incastrandogli in automatico la mano - quella libera dall'accarezzargli la guancia - tra i capelli, mentre la leggera pressione della sua lingua contro le labbra gliele fece schiudere con un sospiro e un sorriso trattenuto a stento dal mostrarsi contro la pelle dell'altro. Lo respirò per qualche secondo, semplicemente fermi l'uno contro l'altra. Si lasciò respirare, lasciò che Zayn le rubasse ossigeno e lo facesse proprio; lasciò che lui le leccasse lentamente tutto il labbro inferiore, senza fermarlo, senza riuscire a farlo; lasciò che le dita di Zayn le scivolassero placide sotto la maglietta, mentre le succhiava appena il labbro e la sua lingua giocava con l'anellino di metallo che portava.
Lasciò che la baciasse come forse nessuno l'aveva mai baciata.
Lo baciò come non aveva mai baciato nessun altro. Con così tanta voglia di baciarlo da fargli venire i brividi lungo la schiena, mentre stringeva appena la presa delle unghie sulla sua nuca facendogli perdere un respiro. Lo baciò sfiorandolo con la lingua come fosse una preghiera - una preghiera a non smettere, a non respirare, a finire il fiato con lei.
E lui si lasciò baciare come volesse essere l'ultima goccia d'acqua nel deserto, l'unica cosa in grado di dissetarla, di rimetterla in forze. Si lasciò baciare lasciando che lei gli rubasse aria direttamente dai polmoni, restituendogliela al respiro successivo e riprendendola a quello dopo. E così via, fino a sentire ognuno il battito di cuore dell'altro nelle orecchie e sentire il respiro cedere in piccoli sbuffi uno sulle labbra dell'altra.
Nessuno dei due però capì chi si staccò per primo.
Zayn era troppo preso dallo sfiorarle la schiena nuda sotto la maglietta, incappando con le dita sul gancetto del reggiseno, respirando più a fondo e tornando indietro. Era impegnato a sentire le sue dita sfiorargli la nuca e tornare ad affondare nel capelli. Impegnato ad osservarla risollevare le palpebre e abbandonare la fronte contro la propria con un sospiro affannato e rotto dal fiato corto.
Esme era troppo presa dalla sfumature terribilmente scura che avevano preso le sue iridi, troppo presa dal rendersi conto di quel che era appena successo per poter anche solo pensare di dire qualcosa, con la fronte posata contro la sua e gli occhi immersi nei suoi senza riuscire a staccarsene. Era troppo presa da lui per rendersi conto che non si stavano più baciando. Troppo presa dalle sue mani contro la schiena.
«Avevo un ragazzo, una volta...», mormorò la ragazza con gli occhi che le brillavano di ironia al vedere il sopracciglio del moro inarcarsi - quello ornato dal cerchietto di metallo. «Baciava decisamente meglio di te, gattino», scherzò mordendosi un labbro per non scoppiare a ridere, o un po' anche per risentire il suo sapore sulla punta della lingua. Soprattutto, per risentire il suo sapore. Lo osservò serrare la mascella e passarsi una mano tra i capelli, sfiorando poi anche se solo per un attimo le dita di Esme, ancora incastrateci in mezzo.
«Ah, davvero?».
«Mh, sì, davvero...».
Le prese la mano delicatamente, sfiorandone le dita e intrecciandole con le proprie come fosse la cosa più naturale del mondo, facendole risucchiare un respiro, senza che però riuscisse a smettere di sentire quel contatto o riuscisse a smettere di osservare lui, coi muscoli del collo ancora tirati ma le labbra stirate in un mezzo sorriso - in un certo senso come se si stesse trattenendo dallo scoppiare a ridere.
E le sfiorò una guancia con le le labbra. Una carezza che la fece ridacchiare, con la barba che le faceva il solletico e quelle dita che non smettevano di sfiorarla - nè sulla mano che stringevano, nè sulla schiena, ancora impegnate a toccarla, impegnate a sentire la pelle d'oca formarsi e sparire e tornare quando le sue dita tornavano indietro. Le sfiorò la mascella, con le labbra. Poi lo zigomo. E la guancia. E le labbra, come fosse un gioco, come a stuzzicarla, a rimangiarsi le parole, a farla ridere contro di lui perchè sapevano entrambi di star scherzando e non c'era nulla di più bello.
La baciò di nuovo, sollevandola per i fianchi e posandola a sedere sulla balaustra, facendola scoppiare a ridere contro la propria bocca mentre incrociava le caviglie dietro la sua schiena. Tenendolo vicino, appiccicato a sè e senza intenzione di farlo allontanare. La baciò di nuovo, ancora e ancora, sfiorandola e mordendola e ridendole direttamente nell'orecchio, accarezzandola e dimostrandole di saper baciare meglio di chiunque altro avesse mai avuto - meglio di chiunque altro avrebbe mai potuto avere.
La baciò di nuovo, mentre una stella cadeva nel cielo sopra le loro teste.
La baciò di nuovo, non avendo altro desiderio da esprimere che non fosse lei.




 

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Capitolo 6
*** 6. Tesa come una corda di violino. ***


- Whitney Houston, I will always love you (Roxanne)
- Ariana Grande, Love me harder (Esme)
- Ludovico Einaudi, Indaco (Harry)
- Ne-Yo, Let me love you (Zayn)
 


 
 
6. Tesa come una corda di violino.


 
 
I capelli della ragazza sembravano brillare, sotto i raggi del sole. La luce vi si rifrangeva contro ed essi divenivano parte di essa, luce pura, emanando uno strano bagliore rosso e oro che quasi accecava chi la guardasse; allo stesso tempo però era talmente affascinante e tanto bella da non riuscire a staccarle gli occhi di dosso. E anche quando finalmente riuscivano a smettere di guardarla, quegli occhi sembravano poi trovarsi improvvisamente al buio. E tornavano su di lei e su quella luce, come calamitati da essa, calamitati da lei senza alcuna speranza di riuscire a starle lontani.
Lei fischiettava soprappensiero, dividendo i capelli rossi in tre ciocche e iniziando ad acconciarli in una treccia a spina di pesce. Quasi senza stare a pensarci, muovendo le dita e le ciocche una di seguito all'altra come fosse la cosa più naturale della terra. Chiuse la treccia con un elastico colorato che teneva al polso e se la portò su una spalla, sistemando poi la frangia sulla fronte e puntando il proprio sguardo color terra tutt'attorno a sé, alla ricerca di una testa di capelli biondi tinti e di un paio di occhi che facevano invidia al cielo da quanto erano blu.
Cercava Niall, Roxanne.
Tirava una brezza fresca, quella mattina. La ragazza si era svegliata col telefono che vibrava sulla superficie del comodino ad avvertirla dell'arrivo di un messaggio; era quasi caduta dal letto, ed era quasi scoppiata a ridere di gioia al vedere il nome del biondo comparire tra le notifiche. Poi era saltata fuori dal letto ed era quasi inciampata nei suoi stessi piedi ed era corsa a vestirsi e truccarsi cantando, fregandosene altamente di rischiare di svegliare la propria compagna di stanza. Ed era uscita saltellando e fischiettando, allegra come non mai, felice di vedere Niall come se non si vedessero da anni - e non dalla sera prima, quando l'aveva riaccompagnata in camera e l'aveva lasciata con un bacio sulla fronte.
Roxanne avrebbe voluto uno di quei baci che si vedono solo nei film o di cui si legge solo nei libri. L'aveva guardato negli occhi quasi pregandolo di baciarla, ma le cose erano due. Anzi, tre. O Niall non se n'era accorto, o l'aveva ignorata, oppure non voleva baciarla - e l'ultima delle tre era l'opzione a cui la ragazza dai capelli rossi e gli occhi neri cercava di non pensare, era l'opzione che addirittura aveva cercato di eliminare dalla propria mente, anche se senza troppo successo. Roxanne sognava le sue labbra di giorno quanto di notte, ma Niall sembrava essere solo in grado di sorridere a parlare a macchinetta in sua presenza - il che sarebbe stata un'ottima scusa per tappargli la bocca, se solo ne avesse avuto il coraggio.
Tirava una brezza fresca e leggera che si divertiva a strapparle sottili fili rossi dalla treccia e li faceva svolazzare liberi intorno a lei, facendola sbuffare e sorridere allo stesso tempo, irritata e divertita insieme dai fili di luce riflessa che le vorticavano tutto intorno al viso. E Roxanne cercava Niall, ma di Niall non c'era traccia. E cercò di trattenere il piccolo broncio deluso che sembrava volerle comparire sulle labbra tinte di rosso quasi quanto lo erano i suoi capelli. Cercò di trattenersi dal mordersi il labbro e dallo sbuffare... cantando. A bassa voce, mentre si sedeva sulla prima panchina libera e tirava su le gambe per rannicchiare le ginocchia al petto, cantando la prima canzone che le venne in mente, la canzone che sperava di cantare alla persona giusta, un giorno.
Roxanne era una di quelle ragazze abituate a sognare ad occhi aperti, che credevano nelle favole, che vivevano di cliché romantici ben oltre il consentito e che aspettavano il principe azzurro che le venisse a salvare in sella ad un cavallo bianco. Roxanne amava forte, quando si innamorava finiva per donare ogni fibra di se stessa, pur sapendo di potersi perdere, di soffrire, di spezzarsi dentro. Roxanne amava anche i difetti degli altri e continuava ad amare anche quando chi amava se ne andava; quando amava, amava per sempre.
E I will always love you era decisamente adatta.
Il ragazzo dai capelli biondi non arrivava mai in ritardo. Odiava sia aspettare che far aspettare gli altri; odiava far aspettare Roxanne, sapeva quanto poteva irritarsi, anche se sentirla sbuffare e vederla storcere il naso era davvero adorabile. E aveva il fiatone, mentre entrava nel parco dove avrebbero dovuto vedersi più di un quarto d'ora prima e si sistemava la tracolla sulla spalla. Poteva sentire una piccola goccia di sudore colargli lungo il collo, mentre continuando a camminare fermava lo sguardo in qua e in là, alla ricerca dei capelli rossi della ragazza. Un briciolo di ansia gli riempì lo stomaco; non la trovava, iniziava a pensare di aver fatto troppo tardi, o addirittura che lei gli avesse dato buca.
Poi però la vide.
A qualche metro di distanza, seduta su una panchina leggermente umida di rugiada, rannicchiataci sopra e con lo sguardo scuro perso nel prato davanti a sé, impegnato ad osservare due bambine bionde che si rincorrevano. Niall la osservò qualche secondo; registrò il modo in cui le sue mani abbracciavano le ginocchia, il leggero movimento che facevano i suoi capelli rossi nel vento o il suono lievissimo prodotto dalle sue labbra rosse, che gli arrivava addosso e gli finiva nelle orecchie come glielo stesse sussurrando alla distanza di un bacio. Registrò la sua voce e il suo respiro regolare e il modo in cui quei jeans le fasciavano le gambe.
Gli venne da sorridere al vederla baciata dal sole, al vedere quel sorriso che tanto adorava incresparle le labbra, al sentirla cantare. Niall amava la sua voce, o il modo spontaneo in cui le veniva da sorridere serena quando cantava o il modo in cui muoveva le labbra e arricciava leggermente il naso articolando ogni parola. Il suo modo di cantare lo rilassava, lo faceva sorridere, sembrava gli rendesse più semplice respirare.
Roxanne lo sentì arrivare, prima di vederlo. Ne sentì il respiro appena affannato, che in qualche modo riusciva a sovrastare senza fatica il rumore del vento e degli steli mossi da esso, arrivandole addosso come se i metri di distanza fossero in realtà solo centimetri. Ne sentì il fruscio della stoffa dei jeans mentre muoveva un passo dietro l'altro verso di lei, facendo crepitare i fili d'erba umidi della rugiada mattutina sotto le suole delle scarpe da ginnastica consumate - e in quel momento umide anch'esse, come l'erba e la panchina su cui Roxanne era seduta. Ne sentì l'odore portato dal vento e avvertì la panchina scricchiolare accanto a sé sotto al suo peso.
Smise di canticchiare mordendosi il labbro con un mezzo sorriso impossibile da fermare, prima di posare naturalmente il capo sulla sua spalla e guardarlo dal basso mentre si chinava su di lei per lasciarle un tenero bacio tra i capelli - che a quel punto erano quasi tutti sfuggiti alla freccia. «Ciao...», lo salutò la rossa in un sussurro, dimenticandosi improvvisamente del suo ritardo e concentrandosi sulle sue labbra lucide dal leggero strato di saliva che vi aveva depositato passandoci fin troppo lentamente la lingua sopra, come se quel movimento potesse far passare il nervosismo e lo rendesse improvvisamente sicuro di sé. Roxanne era concentrata sulle sue labbra, come sempre ma più del solito, perché Niall le stava tanto vicino da riuscire a malapena a respirare, tanto da sussurrare a stento un "ciao" e lottare con tutta se stessa per non arrossire, anche se senza troppo successo.
«Ciao, àlainn ["bellissima", nda]...». Il chitarrista le sorrise contro la tempia, mormorando quelle due parole e mandandole un brivido lungo la schiena mentre lei cercava di capire cosa volesse dire quella parola detta in quella lingua che non conosceva. Gli porse la mano, che lui stava cercando con lo sguardo e alla quale intrecciò automaticamente le proprie dita rovinate dalle corde della chitarra. Quella stretta contro le dita le fece dimenticare come si respirava - le fece risucchiare un mezzo respiro, che lo fece ridere, mentre con un altro bacio sulla testa stringeva la presa su di lei.
Roxanne era investita dal suo odore, dal colore delle sue iridi e dal suono della sua voce.
Investita da lui come da un treno in corsa.
Prese un respiro profondo, mentre il biondo prendeva a giocare con le sue dita, senza riuscire a comporre nessun pensiero coerente, senza poter parlare, senza riuscire a muoversi. Rilasciò il respiro stringendo la presa sulla stoffa della borsa che aveva di fianco, dall'altro lato rispetto al ragazzo. «Perché il parco?», gli chiese, allontanandosi quanto bastava per guardarlo negli occhi e vederli illuminarsi mentre non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. Quella in fondo era una bella domanda, che lo fece sorridere e di riflesso fece ridacchiare lei scuotendo la testa.
«Perché mi piacciono i tuoi capelli alla luce del sole, Rox...». Perché amo il modo in cui il sole vi intreccia i propri raggi e amo come si muovono col vento; perché col sole si intravedono le lentiggini che ti ricoprono la punta del naso e la tua pelle sembra fatta di porcellana; perché alla luce del sole i tuoi occhi sono meno indecifrabili e io mi venderei l'anima al diavolo per potermi immergere in essi e capirne anche solo la minima parte. Perché la luce del sole ti rende più bella di quanto tu già non sia; perché sei uno spettacolo, ai miei occhi.
Niall avrebbe voluto avere un po' di coraggio in più e pronunciarle quelle parole, non solo pensarle. Avrebbe voluto potergliele sussurrare nell'orecchio senza balbettare e senza che gli sudassero le mani. Avrebbe voluto essere capace di prenderle il viso tra le mani e baciarle pianissimo le guance arrossate dal complimento che le aveva appena fatto. Avrebbe voluto fare ed essere tante cose, Niall, ma con lei diventava così piccolo che quasi scompariva.
Anche Roxanne avrebbe voluto essere tante cose, ma in fin dei conti era solo una ragazzina che ancora credeva al principe azzurro e passava pomeriggi interi a piangere sulla propria copia rovinata di Ragione e sentimento - e inutile dire che anche lei, con Niall, diventata talmente piccola e fragile da poter scomparire nel tempo che avrebbe impiegato a battere le ciglia. A Roxanne i capelli di Niall piacevano sempre, e le piacevano i suoi occhi blu e amava quando lo vedeva sorridere perché era talmente adorabile che l'avrebbe riempito di baci fino a non avere più sorrisi da stampargli addosso.
Arrossì ancora più forte, mentre ci pensava.
Ma ogni pensiero coerente venne spazzato via da una folata di vento più forte delle altre. Ogni pensiero venne cancellato da quella ciocca di capelli rossi che le faceva capolino davanti al viso sventolando come una bandiera sulla propria asta. Qualsiasi cosa avrebbe potuto pensare venne fatta sparire dalle dita di Niall così vicine alla pelle del suo zigomo, da quelle dita che catturarono la ciocca dispersa e giocarono con essa. Tutto venne spazzato via dal viso del biondo improvvisamente tanto vicino da non vedere altro.
Tutto scomparve, quando Niall posò le labbra sulle sue, senza pensarci troppo. L'aveva fatto abbastanza, aveva pensato, e non aveva concluso nulla. Ora aveva le labbra di Roxanne contro le proprie e poteva sentire il sapore del rossetto e quello del caffè, poteva sentire il suo respiro mischiarsi al proprio e le sue dita tra i capelli. E sentiva lei, Niall. Non sentiva nient'altro che non fosse lei. Sentiva l'attrito delle loro labbra finalmente unite e sentiva le unghie della rossa graffiargli il collo; la sentì alzarsi dalla panchina senza smettere di baciarlo e di sorridere e la sentì sedersi a cavalcioni su di lui; la sentì boccheggiare mentre le dita gli scivolano sotto il leggero maglioncino che indossava, a contatto diretto con la pelle dei suoi fianchi.
La sentì staccarsi con uno schiocco.
E si sentì bene, Niall, al vederla leccarsi le labbra per risentire il proprio sapore. Si sentì bene, quando posando la fronte su quella di lei vide i suoi occhi scuri brillare e respirò ancora la sua stessa aria, il suo stesso ossigeno. Si sentì bene, quando Roxanne gli diede un bacio sulla punta del naso e gli venne da ridere perché lei stava sorridendo ed era contagioso come la varicella, il suo sorriso.
«Sai di patatine fritte...», mormorò la rossa, ancora praticamente contro le labbra del ragazzo. Trattenne a stento una risata, ma bastava il sorriso che si poteva vedere nelle sue iridi a dimostrare quanto fosse felice in quel momento. E fece appena in tempo a prendere fiato, dopo quelle poche parole, che Niall aveva di nuovo le labbra incollate alle sue. Aveva di nuovo il suo sapore addosso, il suo odore nelle narici e il pensiero di doversi staccare per prendere fiato che quasi faceva male.
«Tu sai di me, Rox...».
Sussurro portato dal vento. Risate spontanee di un primo bacio desiderato da troppo.
E se Roxanne respirava a stento per la vicinanza con Niall, Esme avrebbe voluto dire lo stesso. Avrebbe voluto essere col violoncellista dai capelli scuri che le rubava il sonno e la ragione, avrebbe voluto respirare il suo odore anziché l'aria un po' viziata della sala di registrazione e avrebbe voluto sentire le sue dita sulla schiena, a tranquillizzarla. A volte le bastava solamente sentire la sua mano contro la propria e tutto il resto spariva... in quel momento, con le palpebre abbassate per cercare di concentrarsi e la base di una delle canzoni che avrebbe dovuto incidere nelle orecchie, avrebbe solo voluto sentire lui al proprio fianco.
Era troppo distratta per poter incidere, troppo distratta dal pensiero delle sue labbra contro le proprie o delle sue mani contro la propria pelle. Distratta dal suono che facevano le loro labbra quando si baciavano. Distratta da lui, sempre. Quel giorno più del solito. Quel giorno aveva fatto fatica ad alzarmi dal letto, a salutarlo in corridoio, a chiudersi in sala. Faticava a pensare ad altro che non fosse lui. Faticava a cantare, quando di solito era la cosa più naturale che avesse.
Distratta da una suite per violoncello che continuava a risuonarle nella mente, a darle fastidio tra un pensiero e l'altro, che continuava a vorticarle nella scatola cranica tanto da farle girare la testa. Distratta dal modo in cui lui la suonava, dal modo in cui l'archetto - anche se sfiorava le corde - sembrava sfiorare lei. Distratta dai capelli che gli sfuggivano al codino, da quegli occhi che brillavano e sembravano sprigionare musica. Distratta dai muscoli delle sue braccia che si tendevano ad ogni movimento.
E sentiva come un peso nello stomaco. Che non se ne andava, non c'era verso.
«Vuoi fare una pausa, Es?».
Persino la voce del tecnico del suono le arrivò come distorta, distante anni luce. Come fosse su una frequenza diversa dal resto del mondo e non riuscisse a capire cosa stesse accadendo all'infuori di sé. Sentiva la confusione dentro di sé, sentiva di essere distratta e sentiva la mancanza di Zayn - tanto da far fatica a respirare o anche solo a capire dove si trovasse. Sentiva se stessa e i propri pensieri che urlavano il nome del ragazzo dal quale non riusciva a staccarsi. Sentiva un vuoto al centro del petto. Sentiva la propria voce, forse, ma era lontana, come non la sentisse davvero propria, come appartenesse a qualcun altro.
Ma quando in realtà avrebbe voluto sedersi e prendere fiato, o magari chiamare Zayn solo per sentire la sua voce nelle orecchie per dieci secondi, la ragazza dai corti capelli ricci scosse la testa con l'ombra di un sorriso sulle labbra. Sollevò le palpebre e mise a fuoco il microfono davanti a sé, la pareti insonorizzate e la vetrata che la separava dal tecnico. Provò a prendere un respiro, mentre dentro di sé il pensiero delle labbra del moro schiuse contro la propria pelle la faceva letteralmente andare a fuoco.
Quando avrebbe davvero voluto cercare di riprendere il filo dei propri pensieri, fece invece l'unica cosa che sembrava in grado di fare. Anche quando si distraeva. Anche quando aveva un pensiero fisso. Esme riusciva sempre ad incanalare quel che provava nel canto. Qualsiasi cosa stesse provando, c'era sempre una canzone che le faceva sfogare tutto nel microfono.
In quel caso, era puro desiderio.
«Mandami Love me harder, John».
Prese un respiro profondo, al sentire le prime note risuonarle nelle orecchie attraverso le cuffie. Prese un respiro più profondo. Ma, mentre chiunque altro avrebbe fatto di tutto per scacciare i pensieri, Esme con quel respiro e con quella canzone sembrava intenzionata a fare tutto il contrario; mentre chiunque altro avrebbe voluto smettere di pensarci, Esme voleva che il pensiero di Zayn - di ogni briciola di lui - la permeasse da capo a piedi, voleva che lui e i suoi occhi e il suo sorriso riempissero ogni fessura provocata dall'assurda mancanza che ne sentiva.
Riempiendosi di lui e di quella mancanza e dello spettro delle sue labbra contro le proprie, avrebbe cantato alla perfezione la propria confusione, la frustrazione. Riempiendosene se ne sarebbe liberata, anche se detto in quel modo sembrava solo il peggiore dei controsensi. Respirando quella mancanza a pieni polmoni avrebbe potuto cantare tutto quel desiderio che le corrodeva lo stomaco, l'avrebbe fatto scivolare via e avrebbe respirato libera - magari avrebbe rubato l'ossigeno a Zayn, baciandolo, era proprio quello che sperava.
E quella canzone, anche se non era esattamente il suo genere, la estraniava dal resto del mondo. Esme chiudeva gli occhi e a quel punto esisteva solo la musica. Chiudeva gli occhi e compariva il volto di Zayn e quelle parole appena sussurrate sembravano fatte apposta per arrivare a lui - attraversando cuori spezzati e pareti insonorizzate come se nulla fosse. Stringeva il microfono e la confusione sembrava sparire all'improvviso, così com'era arrivata. E giocava coi ricci soprappensiero, quasi senza accorgersi di star cantando meglio di quanto non fosse riuscita a fare tutta la giornata.
Perse un respiro, proprio come diceva la canzone, immaginando che fosse lui a rubarglielo e a farlo proprio. Lo risucchiò nei polmoni facendo finta che lui la stesse sfiorando, immaginando come sarebbe stato cantarla a lui, vedere la sua espressione e magari il suo sorriso, osservarlo leccarsi le labbra mentre muoveva appena i fianchi e sussurrava, più che cantare a voce piena. Prese un respiro e si ritrovò a trattenere una risata divertita, a quei pensieri di cui si stava davvero riempiendo, senza riuscire né provare a fermarli.
Si morse il labbro proprio come diceva la canzone, sorridendo. Sperando forse che qualcuno la vedesse. Sperando di dimostrare che stava riuscendo a scacciare i demoni e sorridere e cantare come sempre nonostante le tonnellate di pensieri che le riempievano la mente. Si morse il labbro, ma non sentì la porta aprirsi dietro di sé, né sentì l'aria muoversi intorno a lei portando un nuovo odore alle proprie narici, un odore di cui non sarebbe mai più riuscita a fare a meno. Quell'odore che apparteneva proprio alla persona per cui quasi senza volerlo stava cantando, quella persona che in pochissimo tempo le aveva strappato il cuore dal petto e ora lo teneva tra le mani come fosse la più preziosa delle reliquie.
Non se ne accorse o fece finta di non farlo. E continuò a cantare.
Perché cantava e tutto spariva. Rimaneva sola in quella sala.
Sola con Zayn. Forse solo metaforicamente, o forse davvero.
«'Cause if you want to keep me, you gotta, gotta, gotta, gotta, got to love me harder...».
«I'mma love you harder», si sentì mormorare nell'orecchio libero dalle cuffie. E le parole successive le si bloccarono in gola, mentre la base continuava a suonare ma lei sembrava non sentirla. Riusciva a sentire il respiro di Zayn contro l'orecchio, e quelle parole che aveva appena sussurrato, che le vorticavano in mente come impazzite, come non credesse di averle davvero sentite. Riusciva a sentire le sue mani improvvisamente sui fianchi, sotto la maglietta, direttamente a contatto con la pelle - dove sembravano nate per stare, più Esme ci pensava più se ne convinceva. «Ciao, micetta», aggiunse pianissimo, soffiandoglielo contro il collo prima di posarvici un bacio umido che le fece venire la pelle d'oca.
La ragazza fece sfarfallare le ciglia fino a riaprire gli occhi, mentre un sorriso felice le compariva sulle labbra e i denti stringevano la presa sul piercing per impedirsi di scoppiare a ridere. Si sfilò le cuffie e lasciò andare il microfono - che aveva stretto più forte quando si era accorta del violoncellista dietro di lei, quando si era accorta del suo respiro e delle sue mani e del suo odore e di tutto quanto.
«Ciao, gattino...».
Quando però scivolò nel suo abbraccio e si voltò per guardarlo negli occhi, non riuscì più a trattenere la risata che gli stava montando dentro da secondi interi, interminabili. E rise, salendo in punta di piedi e intrecciando le dita dietro il collo del moro. Gli rise nell'orecchio, contro la pelle, con gli occhi verdi che le brillavano sotto le luci al neon e il corpo tanto vicino a quello del ragazzo - tanto vicino da non sentire altro, da non vedere altro, da scomparire contro di lui. Gli lasciò un bacio sulla mascella, uno più in basso, e così via. Fino ad arrivare alle labbra e bloccargli un sorriso dentro pur di respirarlo.
«Non riuscivo a suonare, mi sei mancata troppo», le confessò il moro passandosi una mano tra i capelli sciolti, ancora tanto vicino a lei da continuare a sfiorarle le labbra mentre parlava. Ed era vero, era stato troppo distratto per riuscire a suonare. Troppo confuso da pensieri su pensieri che riguardavano lei per riuscire a ricordare le note e renderle musica, magia. «Volevo rapirti e saltare le lezioni del pomeriggio, ma...».
«Mi salvi la vita, grazie», lo interruppe Esme con un altro bacio.
Prima che però potessero davvero scappare da lì, alla ragazza venne in mente una cosa. Zayn aveva cantato. Erano solo quattro parole, ma le aveva cantate. Eccome, se l'aveva fatto. Era stato un sussurro, ma era stato musica, alle orecchie della cantante. L'aveva sorpresa, perché non credeva che lui sapesse cantare; l'aveva sorpresa, e non se ne sarebbe andata fino a che non l'avesse sentito cantare davvero - anche se la sola idea di andare via, soprattutto se con lui, la allettava ben oltre il lecito.
«Che stai...?».
Non lo fece nemmeno finire, gli sistemò semplicemente le cuffie e lo tirò per la camicia fino a farlo finire di fronte al microfono. Lo fece scoppiare a ridere, mentre lei si mordeva il labbro e si sedeva su uno sgabello di fronte a lui, con le gambe accavallate e le mani intrecciate in grembo; e con un sorriso strano sulle labbra, tanto che Zayn non riusciva a capire cosa volesse da lui - oltre alle cose più ovvie.
«Sai cantare e non me l'hai detto, stronzo!», esclamò puntandogli un dito contro mentre lottava con ogni fibra di sé per non ridere - ancora. Il ragazzo sollevò le mani come ad arrendersi, prima di ridacchiare e sollevare lo sguardo al soffitto. Esme era quasi sconcertata dal fatto che lui non le avesse nemmeno lontanamente accennato di saper cantare - o anche solo di essere intonato. Era già incredibile quando suonava... se sapeva anche cantare, magari solo un decimo di come suonava, sarebbe davvero potuto diventare l'uomo della sua vita nel tempo che le ci voleva per sbattere le palpebre. E no, non solo metaforicamente. Lei era il tipo di ragazza che nonostante tutto si affezionava; e lui era così - così - che era quasi impossibile non affezionarcisi. «Cantami qualcosa, dai...». Quasi lo supplicò, passandosi la lingua sulle labbra e guardandolo dritto negli occhi scuri.
Zayn sapeva cantare, era vero. Non era niente di che, cantava sotto la doccia e niente di più. Ascoltava molto musica, ed era un punto a suo favore, ma non se la sentiva di dire in giro di saper cantare quando magari non era vero. Non era proprio il caso, in effetti. Non avrebbero capito - faticavano già a capire il suo amore incondizionato per il violoncello, figurarsi le facce di chi avesse scoperto che per caso sapeva anche cantare e che gli piaceva, anche. Pensava solamente di avere una voce gradevole, Zayn. Di essere intonato. Niente di più e niente di meno.
Ma Esme... lei non aveva giudicato né il violoncello - classico o elettrico che fosse - né la sua pelle tatuata. Lei non giudicava la sua passione quasi innata per la musica. Non aveva detto una parola riguardo al piercing che gli ornava il sopracciglio o riguardo i suoi capelli lunghi. E non aveva detto niente perché semplicemente non le importava, come non aveva giudicato perché semplicemente non era il tipo di persona da giudicare. In più, lei trovava meravigliosa ogni minima particella di lui, dai capelli troppo lunghi ai jeans strappati al violoncello elettrico.
Esme non poteva giudicarlo, era come se gliel'avesse promesso la prima volta che si erano guardati.
E anche se Zayn era riluttante - a dir poco - a far sentire la propria voce... chiuse gli occhi, proprio come faceva sempre la ragazza che in quel momento gli stava seduta di fronte. Abbassò le palpebre e prese un respiro profondo. Immaginò di essere sotto la doccia, prima di schiudere le labbra e iniziare a cantare. Pianissimo, quasi come avesse paura di farsi sentire. Poi, a mano a mano che le parole e le sensazioni scivolavano via dalle sue labbra, la sua voce divenne più sicura, forte, intensa.
La ragazza dai capelli ricci schiuse piano le labbra. E non riuscì a richiuderle. Né riuscì a dire nulla di sensato. Solo un'esclamazione poco comprensibile, che fece arrossire leggermente il moro, senza che però smettesse di cantare. Lei lo osservava incantata, sentendo quelle parole entrarle dentro, fin sotto la pelle. E non c'era possibilità che le scivolassero di dosso, non senza lasciarle un segno indelebile sul cuore e dietro la palpebre. Quella voce le sarebbe rimasta impressa a vita... e quelle parole, quelle non le avrebbe mai scordate.
«Girl let me love you, and I will love you, until you learn to love yourself...».
Lascia che ti ami e ti amerò fino a che non imparerai ad amare te stessa.
Quelle erano le parole più belle che le avessero mai regalato. Erano le più significative. Erano una promessa, sussurrata come se Zayn avesse desiderato che la sentisse solo lei. Le brillavano gli occhi di lacrime trattenute, le tremavano le mani dalla voglia di stringerlo in un semplicissimo abbraccio e aveva bloccate in gola due parole che non diceva da quanto Louis se n'era andato e le aveva sussurrate alla segreteria telefonica del castano. Anche se era presto e Zayn lo conosceva appena, quel "ti amo" le rimase sospeso sulla punta della lingua, sostituito dall'inizio di un singhiozzo che immediatamente fermò il ragazzo, gli fece riaprire gli occhi appena in tempo per vederla scendere dallo sgabello con un saltello scoordinato e avvicinarglisi - mentre una lacrima impavida le scivolava giù per la guancia.
Non disse nulla. Le bastò abbracciarlo.
E lui come lei non disse nulla. Gli bastò stringerla e lasciarle il fantasma di un sorriso a fior di pelle, prima di baciarle la guancia sulla scia della lacrima e poi passare alle labbra, facendole sentire il gusto salato dell'emozione insieme al proprio sapore - quel solito miscuglio di sigarette e musica di cui Esme si sarebbe nutrita per il resto dei propri giorni, se fosse stato anche solo lontanamente possibile.
Le mani del moro le finirono tra i capelli, a giocare coi suoi boccoli facendola sorridere. Non riusciva a smettere e lui con lei. Sorrideva anche quando le mormorò in un orecchio di scappare con lui; e lei sorrideva di rimando, quando gli sfilò le cuffie sfiorandogli di nuovo le labbra.
Il nervosismo era sparito. Completamente.
Iris invece era nervosa, e stanca. E tesa. Tesa come una corda di violino.
Non aveva avuto né il tempo né la voglia di lisciare i capelli, quella mattina; erano un po' mossi e ancora un po' schiacciati sulla nuca per via del cuscino, e li aveva pettinati solo passandoci le dita in mezzo, ma immaginando che altre mani ne districassero i nodi, che altre dita ci si perdessero in mezzo, tra un filo d'oro e l'altro. Non aveva nemmeno avuto la pazienza di truccarsi, quella mattina; niente linea di eyeliner, niente mascara, niente rossetto rosso che le faceva brillare gli occhi celesti.
Iris aveva a malapena avuto la forza di lavarsi il viso con acqua bollente e sistemarsi gli occhiali da vista sul naso. Non si era lisciata i capelli né si era truccata e si era vestita con le prima cose che aveva trovato nella cassettiera; tutto questo per non avere il tempo di lasciar vagare i pensieri verso il motivo delle sue lacrime, per non mettersi a pensare ad Harry e alla sua espressione ferita e distrutta quando gli aveva sussurrato che lui per lei era solo un ricordo.
Da quel che Iris ricordava, Harry riusciva sempre a capire quando mentiva.
Forse ricordava male. O forse non erano più gli stessi ragazzi di una volta.
Aveva fatto scivolare un paio di leggings neri lungo le gambe, quindi, cercando disperatamente di non pensare né immaginare come sarebbe stato sentire di nuovo le dita affusolate del pianista contro la pelle, a sfiorarle le cosce per tutta la loro lunghezza, scendendo lungo i polpacci e tornando verso l'alto solo quando l'avesse sentita bisbigliare una preghiera. Aveva indossato un maglioncino leggero, cercando di non notare come quel verde pallido non avesse nulla a che fare col verde prato delle iridi che mai avrebbe smesso di amare.
Aveva semplicemente provato a spegnere i pensieri, Iris.
Ma quei pensieri arrivavano di soppiatto e all'improvviso, sconvolgendola ogni volta e facendole mancare un respiro. Quei pensieri le rendevano gli occhi celesti più grandi e lucidi, quasi liquidi e lisci come la superficie di una piscina. Quei pensieri le facevano venir voglia di piangere e desiderare di sparire. Le facevano tremare i polsi e le gambe e i pensieri, come quando doveva cantare e aspettava il momento perfetto per attaccare.
Ma né non avere tempo per pensare né girovagare per l'accademia apparentemente senza meta, l'avevano tenuta lontana da Harry; in realtà, ormai l'aveva capito, nulla sembrava riuscire a tenerla lontana da lui, dalle sue mani grandi, dai suoi capelli ormai troppo poco ricci o dai suoi occhi troppo verdi. Lei era solo una piccola calamita indifesa, lui un enorme pezzo di metallo che la attirava a sé sperando di non doverla lasciare mai più.
Iris aveva camminato tanto.
E quella saletta per le prove sembrava vuota.
Sembrava. Era immersa nel buio, con le persiane abbassate per impedire alla luce del sole di penetrare e illuminare lo spazio; un velo di polvere sembrava ricoprire qualsiasi cosa riempisse la stanza, dalle sedie al pavimento al pianoforte - l'aria stessa era colma di vecchia polvere stantia, quasi quanto bastava da non riuscire a respirare correttamente. Ed era immersa nel silenzio, quella sala prove. Un silenzio rotto dalle suole delle scarpe della bionda sul vecchio parquet che scricchiolava un po' sotto al suo peso. Un silenzio quasi opprimente e un buio quasi pesto - le due caratteristiche che spinsero la giovane cantante ad entrare senza timore e camminare piano nella polvere.
Quando si accorse del neon accesosi sfarfallando sul pianoforte, però, era troppo tardi per fare marcia indietro e scappare. Era troppo tardi per svanire o correre via. Lei era pur sempre una calamita, attratta da quel pianoforte e da quella luce soffusa, attratta dal pianista che prese posto sullo sgabello e attratta dal leggero sospiro che gli lasciò le labbra, lieve come un soffio di vento ma abbastanza da non sentire altro, per Iris. E lui era pur sempre un enorme pezzo di metallo che sembrava essere fatto apposta per attrarla, per giocare con lei come il gatto fa col topo.
Era troppo tardi per andarsene, quando vide le dita affusolate di Harry posarsi sui tasti d'avorio, accarezzandoli come stesse sfiorando una donna, premendoli con la solita delicatezza di sempre e facendo nascere gli stessi suoni e le stesse note che suonava dopo aver fatto l'amore con Iris tutta la notte, quelle che la facevano addormentare tra le lenzuola che sapevano di loro con un sorriso immenso sulle labbra rese gonfie dai loro morsi e dai loro baci.
Le spuntò lo stesso sorriso di un tempo, come non fosse mai accaduto nulla. Come non si fossero mai staccati l'uno dall'altra. Come non avessero mai urlato disperati nelle notti senza stelle e come non avessero mai pianto in lenzuola che non sapevano di nulla se non di detersivo ma che non ricordavano niente di quel che loro avevano avuto, amato, distrutto. Le spuntò lo stesso sorriso che Harry amava da sempre e del quale non era mai riuscito a fare a meno. Le spuntò sulle labbra un sorriso impossibile da fermare e capace di illuminare anche la stanza più immersa nel buio.
Quel sorriso però rimase un suo segreto.
Harry non se ne accorse. Harry non la vide.
Lui era troppo impegnato a suonare. Con le palpebre abbassate e i capelli sciolti. Con un velo di malinconia a corrodere il mezzo sorriso che gli increspava le labbra - e che non era abbastanza da fargli comparire le fossette sulle guance. Col capo abbassato e lo sguardo nascosto, e con quelle dita che scorrevano veloci sui tasti nel modo più naturale del mondo, a rincorrere i ricordi per farli di nuovo propri e a rincorrere vecchie melodie che però alle sue orecchie suonavano nella stessa maniera di sempre.
Era troppo impegnato a ricordare, Harry, per accorgersi di lei. Ricordava la prima volta che le aveva suonato proprio quella melodia e ricordava le lacrime che erano affiorate alla superficie degli occhi celesti della bionda. Ricordava ogni volta che l'aveva suonata e ogni volta che Iris l'aveva ascoltata, rabbrividendo e sorridendo insieme. E ricordava la volta che l'aveva suonata dopo essere scappato da lei, quando le lacrime gli avevano offuscato la vista ma aveva continuato a suonare fino in fondo e senza nemmeno guardare lo spartito.
Era troppo impegnato a cercare di smettere di pensare a lei, Harry.
Ed era troppo impegnata ad ascoltare, Iris. Per quanto avrebbe voluto scappare e più semplicemente far finta di non essere lì, smettere di ascoltare quella serie di note o di guardare le sue dita muoversi sui tasti, era impossibile. Quella musica le si era appena infiltrata sotto la pelle come succedeva ogni volta che la risentiva; quella musica le aveva appena illuminato gli occhi e il sorriso e la vita intera; quella musica le aveva appena fatto tornare in mente com'era stato avere Harry, com'era baciarlo appena svegli o com'era addormentarsi abbracciati o com'era stato tirarlo su quando toccava il fondo. Era troppo concentrata su di lui e su un ricordo in particolare, Iris. Sul momento in cui lui non era riuscito a suonare e lei gli aveva stretto una mano e baciato il collo, spazzando via tutto e lasciando solo la musica, con loro.
Però, per quanto ci stesse provando e per quanto si stesse sforzando di non piangere, tutto quello che le sue orecchie avevano appena udito e che i suoi occhi avevano appena osservato nei minimi particolari, era troppo. Troppo da sopportare, troppo per non sciogliersi, troppo per tenere le lacrime al proprio posto come nulla fosse.
E le sfuggì un singhiozzo, prontamente messo al riparo da una mano che le tremava come una foglia secca appesa ancora al proprio ramo quasi per scherzo. Pregò che non la sentisse. Pregò di non aver fatto troppo rumore. Pregò che quell'emozione tornasse indietro, riassorbita dal respiro successivo.
Si rese conto, però, di non aver pregato abbastanza forte.
Gli occhi di Harry furono sul suo viso struccato in tempo per vedere una lacrima solitaria lasciare la propria scia sulla sua pelle e nel suo cuore. In tempo per vedere i suoi occhi blu oceano riempirsi di altre lacrime, tutte quelle che in quel periodo aveva cercato di trattenere tra le ciglia bionde e tutte quelle che aveva pregato di non piangere. In quel momento lui la stava guardando come forse non aveva mai fatto, leggendole dentro e capendo solo con quello sguardo e grazie a quelle lacrime silenziose quanto lei gli avesse mentito, quando gli aveva detto che per lei lui fosse solo un ricordo.
Harry era il suo tutto, e onestamente alla bionda sembrava quasi strano che non se ne fosse accorto prima. Forse aveva fatto finta di non accorgersene o aveva fatto finta di nulla. Forse aveva solo mentito a se stesso. Forse aveva visto quella bugia dal primo momento, ma non aveva voluto farci i conti.
Quelle lacrime su quelle guance fecero male. Gli immobilizzarono il cuore come se qualcuno glielo stesse stringendo in una morsa, prosciugandoglielo di ogni goccia di sangue e di ogni sentimento, lasciandolo a fare i conti col proprio dolore e il senso di colpa per essersene andato. Quelle lacrime su quelle guance però riuscirono a farlo muovere... lei era ancora immobile a guardarlo, con le lacrime che ormai scorrevano libere e senza freni. E lui, lui riuscì ad alzarsi dallo sgabello e a muovere qualche passo in avanti, verso di lei.
Il musicista dai capelli ricci però venne fermato dal suono della voce della bionda, ancor prima di riuscire a schiudere le labbra e comporre anche solo un pensiero coerente. Venne fermato dalla sua mano passata nervosamente tra i capelli e dalla sua lingua passata sulle labbra prima di parlare, prima di dire tutto quello che si era tenuta dentro da troppo tempo, abbastanza da non riuscire più a sopportare il dolore.
«Mi manchi così tanto che non respiro, Harry...».
Il ragazzo schiuse le labbra in cerca d'aria, colpito all'improvviso da quelle parole dette tanto inaspettatamente da far male. Risucchiò un respiro tra i denti, provando a dire qualcosa - qualsiasi cosa. Ma di nuovo Iris si lasciò andare ad un fiume di parole che lo colpì al petto come un uragano. Lo fece rimanere senza parole e senza fiato, mentre il suo cuore perdeva un battito e si passava una mano tra i capelli cercando di tenersi insieme per non crollare davanti a lei, con lei.
«Mi manca il suono della tua voce e mi mancano i tuoi occhi e passare le dita tra i tuoi capelli... e mi manca la tua pelle, mi mancano i tatuaggi, i baci sul collo, il solletico sui fianchi e la tua risata e le tue dita contro le mie qualsiasi cosa accada... e mi manca sentirti suonare e baciarti per svegliarti e dormire abbracciati». La ragazza fece una pausa, prendendo fiato e asciugandosi le guance dalle lacrime. Fece un altro paio di passi verso di lui, entrando nel fascio di luce sprigionato dal neon sopra le loro teste. Lasciò che vedesse i propri occhi velati di lacrime e il labbro inferiore che le tremava. Lasciò che vedesse il dolore che la prosciugava, prima di continuare. «Tu sei la mia canzone, Harry, lo sei sempre stato», aggiunse in un soffio, togliendosi un peso di dosso, quel peso che quasi l'aveva fatta soffocare.
Harry smise di respirare per un attimo che gli sembrò un'eternità.
E quando ritrovò la forza di respirare riuscì a mormorare solo una cosa. Solo il suo nome.
«Iris...».
«Mi manca la mia canzone, da morire...», lo interruppe ancora lei, sempre nel più lieve dei sussurri, quasi un sospiro involontario che portò quelle parole dalla bocca di lei alle orecchie di lui.
Abbassò le palpebre, dicendolo. Nascose i suoi occhi da quelli di Harry, non riuscendo a fare altro. Abbassò le palpebre, risollevandole solo quando sentì le sue mani chiuderlesi sulle guance, solo quando lo sentì tanto vicino da non capire più nulla. Avrebbe voluto dire qualcosa, avrebbe voluto essere capace di respirare in sua presenza e avrebbe quasi voluto odiarlo per essere così, per renderla sempre così debole, nonostante il tempo che era passato.
Poi Harry la baciò, e lei quasi non se ne accorse.
Harry la baciò e basta, perché non c'era altro da dire, aveva appena detto tutto lei. Lui la baciò perché gli era mancata, la baciò perché voleva farlo, la baciò perché era solo stanco di stare lontano da lei e stanco di pensare alle conseguenze. La baciò perché le sue labbra erano troppo belle per non essere sfiorate. La baciò sapendo che lei voleva lo stesso, glielo poteva intravedere nelle iridi azzurre come il cielo sopra le nuvole di Londra.
Poi Iris si lasciò baciare, e lui pensò che non aspettava nient'altro.
Iris si lasciò baciare e basta. Non disse nulla per fermarlo. Non voleva fermarlo. Schiuse le labbra contro le sue senza pensarci, lasciò che si sfiorassero, lasciò che le mani del pianista finissero tra i propri capelli biondi, poi sul collo e poi direttamente sui fianchi. Si lasciò sollevare da terra, senza staccarsi da lui, giocando con la sua pelle, coi suoi capelli, giocando con lui.
E si lasciò posare con delicatezza - ma non troppa - sul pianoforte a coda che lui aveva smesso di suonare solo qualche minuto prima. Le mani di Harry scivolarono sotto al suo maglione, e lei glielo lasciò fare, come sempre. I suoi denti le morsero un labbro e le sue mani se la premettero contro facendola gemere appena, ma Iris gli avrebbe lasciato fare qualunque cosa. Si sarebbe lasciata baciare fino a morirne, si lasciò baciare fino a sentire i polmoni bruciare per la mancanza d'aria, fino a non avere fiato per pensare, fino a doversi staccare per guardarlo negli occhi e accertarsi che quello non fosse un sogno.
Il ragazzo la osservò sfarfallare le ciglia con un sorriso. E gli venne da ridere, lì, fermo tra le sue gambe divaricate e con la donna che amava da sempre tra le braccia, che sorrideva come non la vedeva sorridere da troppo e con quegli occhi che le brillavano quasi come il riflesso del sole sul mare. La osservò, rendendosi conto davvero di quanto gli fosse mancata... di come i suoi capelli e il suo sorriso e le sue labbra o i suoi occhi gli fossero mancati.
«Ora respiri?», le chiese il ragazzo accarezzandole una guancia.
Lei scoppiò a ridere nascondendo il viso nell'incavo tra il suo collo e la sua spalla.
Eccome se respirava. Meglio di quanto non avesse mai fatto.
E c'era almeno un altro studente dell'accademia che respirava come mai aveva fatto in vita propria. Capelli neri come l'ebano e legati in un codino frettoloso, occhi color cioccolato, il petto nudo ornato di tatuaggi che di sollevava ed abbassava in fretta, rubando ossigeno ad un paio di labbra ormai gonfie che non sembravano in grado di staccarsi da lui e restituendoglielo in un sospiro nel bacio successivo.
Zayn non riusciva a smettere di baciare Esme. Non riusciva a staccarsi. Non voleva smettere di respirare con tanta serenità e sapeva che sarebbe successo, se lei si fosse allontanata da lui. Lo sguardo che però lei gli rivolse dopo essersi allontanata di qualche centimetro, gli fece cambiare idea. Le loro labbra si sfioravano ancora, i loro nasi anche, e le loro fronti si toccavano, posate l'una contro l'altra come a sorreggersi a vicenda; e i suoi occhi sembravano promettergli che non se ne sarebbe andata, che stava bene, che respirava davvero solo quando era con lui.
Il violoncellista decise di credere a quello sguardo, e a quella promessa detta senza il bisogno di parlare.
«Posso rimanere, stanotte?», gli chiese Esme in un soffio. Glielo chiese contro la bocca, senza avere il coraggio di allontanarsi ancora. Glielo chiese chiudendo gli occhi ma sentendolo sorridere. Glielo chiese pensando che le dicesse di no ma sperando in un sì. Era sicura che una volta uscita dalla sua stanza non sarebbe riuscita a chiudere occhio, sicura che se fossero stati distanti avrebbero passato la notte in bianco, a scambiarsi messaggi e a soffocare risate nel cuscino. Ma il suo odore era troppo intossicante per starne lontana, Esme se n'era appena resa conto - anche se probabilmente si era appena umiliata chiedendogli di restare e...
«Resta...», le mormorò Zayn di rimando, facendo sì che i suoi occhi verdi si aprissero all'improvviso, sgranati e sorpresi. Al ragazzo venne da ridere al vederla così... sconvolta. «Davvero, Esme, voglio che resti», aggiunse, strofinando piano il naso contro la sua guancia, facendola ridacchiare, prima che nascondesse il viso nella sua spalla, respirando il suo odore e lasciandovi un bacio - insieme ad un "grazie" appena sussurrato. Il ragazzo le depositò un bacio tra i capelli, accarezzandole la schiena coperta appena da una maglietta bianca che le aveva prestato per stare più comoda. «Sei stanca?».
La cantante soppresse a stento uno sbadiglio, sdraiandoglisi accanto e accoccolandosi contro di lui, annuendo appena. Stanca, sì. Accoccolata ad un ragazzo del quale quasi non conosceva l'esistenza fino a qualche settimana prima. Stretti in un letto singolo, con le lenzuola attorcigliate e che già sapevano di lei, oltre che di lui. Stanca, sì. Ma non voleva dormire. Avrebbe di gran lunga preferito osservare Zayn prendere sonno e poi guardarlo tutta la notte, immaginare cosa stesse sognando, svegliarlo la mattina dopo con un bacio sulle labbra.
«Non voglio dormire, Zay».
Il moro le pizzicò un fianco, facendola ridere - ed era talmente bella che sarebbe rimasto sveglio tutta la notte pur di sentirla ridere, ancora e ancora. Si chinò sulle sue labbra, mordendola, facendole perdere un battito e un respiro insieme; poi però la sentì distendere le labbra in un sorriso, si sentì tirare sopra di lei in modo tanto brusco da rischiare di far cadere entrambi a terra. «Cosa vuoi fare, allora?», le chiese malizioso, sollevando e abbassando entrambe le sopracciglia e senza riuscire a trattenere un sorriso sulle labbra, lasciandolo arrivare senza sforzo anche agli occhi. Le riprese il labbro tra i denti e lo succhiò piano, facendola irrigidire sotto di sé.
«Tu cosa vuoi fare?», mormorò la ragazza, cercando di restare al gioco senza scoppiare a ridere.
«Tenerti tra le braccia tutta la notte», disse lui, semplicemente, pizzicandole il naso con le labbra.
E lo fece. Esme si addormentò sdraiata su di lui, con la cascata di ricci neri sparpagliati sulla sua spalla, una mano stretta intorno a lui e la gambe nude intrecciate alle sue - coperte da un vecchio paio di pantaloni della tuta. Si addormentò sentendo le sue dita giocherellare coi propri ricci. Si addormentò cullata dal battito del suo cuore contro l'orecchio. Si addormentò stretta tra le sue braccia, e per la prima volta negli ultimi mesi riuscì a dormire serena, senza incubi né problemi. Zayn dal canto proprio fece come le aveva promesso... la tenne stretta. Chiuse gli occhi in pace, cullato dal suo respiro e rassicurato dal suo corpo premuto delicatamente contro il proprio.
La mora avrebbe voluto stare in quel modo con lui per sempre, se solo fosse stato possibile. Tenere le palpebre abbassate fino a dopo la fine del mondo. Finire insieme, finire con lui. Ma quel pensiero venne bruscamente interrotto dalla sveglia, che suonava come impazzita sul comodino di fianco al letto - dalla parte opposta rispetto a dove si trovava, fortunatamente, ma non abbastanza da non sentirla o da ignorarla. Si svegliò di soprassalto, trattenendo a stento un urlo - che le uscì come un grugnito soffocato - ma cadendo dal letto come un frutto maturo dall'albero, sul sedere e successivamente sulla schiena.
Quello era peggio che essere svegliata presto la mattina di sabato.
E la sveglia non voleva saperne di smettere di suonare.
Esme si passò una mano sugli occhi e poi tra i capelli, sbadigliando rumorosamente e cercando di sollevarsi a sedere per capire che ora fosse - oltre che per uccidere Zayn per aver puntato la sveglia senza nemmeno avvisarla. Si arrese quando l'apparecchio infernale smise finalmente di suonare, sentendo poi Zayn borbottare qualcosa a bassa voce, poco comprensibile da dove si trovava lei.
«Es...?».
«Sono sul pavimento», borbottò lei, ancora sconvolta per essere stata svegliata in quel modo per niente delicato, con uno sbadiglio bloccato in gola e la risata del moro improvvisamente nelle orecchie. Le scappò un mugugno, prima che potesse riaprire gli occhi e incontrare il suo viso e i suoi occhi scuri che la guardavano divertiti dall'alto, mentre lui se ne stava ancora comodo tra le lenzuola. «Ti faccio ridere, gattino?», gli chiese la ragazza inarcando un sopracciglio, cercando di non notare quanto fosse dannatamente perfetto appena sveglio, anche con la voce impastata e i capelli spettinati.
«Sei esilarante, micetta», ammise il ragazzo, mordendosi il labbro inferiore per non riderle in faccia. Era bella anche appena sveglia, con uno sbadiglio dietro l'altro a schiuderle le labbra screpolate dal sonno e i ricci in disordine e schiacciati dietro la testa. Bella, e tanto, con la sua maglietta decisamente troppo grande per lei addosso, ma che la rendeva terribilmente sexy. Bella e divertita anche lei, per quanto stesse cercando di non farlo notare.
La vide mordersi un labbro, prima che finalmente le scappasse un sorriso. Un sorriso che inizialmente Zayn non capì e che gli fece comparire una piccola ruga tra le sopracciglia. Un sorriso non capito che però trovò la propria spiegazione qualche secondo dopo, quando Esme si sporse verso l'alto e afferrò l'orlo del lenzuolo in una mano, tirando più forte che poté. Forte abbastanza da cogliere di sorpresa il ragazzo, e abbastanza da farselo rotolare addosso con un gemito roco e sorpreso - insieme ad un'imprecazione che lei fece finta di non sentire.
Scoppiò a ridere, sentendoselo cadere addosso, gli rise nell'orecchio, accarezzandogli poi la nuca con le unghie, mentre lui si sollevava sulle braccia per guardarla. Finta rabbia negli occhi e divertimento mal represso sulle labbra, aveva. E lei rise ancora più forte, almeno finché non sentì le sue labbra posarsi velocemente sulle proprie, per poi staccarsene, allontanarsi e guardarla. E di nuovo giù, labbra contro la labbra; e di nuovo su, a leccarsi la bocca per assaporarla e a osservarla senza stancarsene.
Giù. Le braccia tese per non pesarle. Le labbra a sfiorare le sue per un istante.
Su. I muscoli sempre in tensione, le labbra stese in un mezzo sorriso, gli occhi che gli brillavano.
«Stai barando», mormorò Esme prendendo fiato tra un bacio e l'altro, benedicendolo e maledicendolo insieme, pregando che non smettesse ma anche che si staccasse presto, perché non riusciva quasi a respirare da quanto si sentiva indebolita in sua presenza. «Non stai giocando lealmente», mormorò ancora, ridacchiando, dopo un altro bacio. Zayn strofinò il naso contro il suo, ridendo appena, facendole comparire la pelle d'oca sulla nuca. «Non è giusto, Zay...», aggiunse infine, non riuscendo più a trattenersi dal ridere.
«Forse è solo un modo per non smettere di baciarti, piccola».
E mentre le guance della cantante riccia si tingevano di rosso, mentre il violoncellista le regalava l'ennesimo bacio sulle labbra, un ragazzo dai profondi occhi color nocciola faceva il suo ingresso nella caffetteria della Royal Academy of Music. Si guardò intorno un po' spaesato, non abituato allo sfarzo delle scuole private, dato che lui non ne aveva mai avuto la possibilità. Si passò una mano tra i capelli, sospirando, cercando di immaginare a chi avrebbe potuto chiedere perché lo aiutassero a trovare una persona in quel posto immenso.
Londra gli era mancata. Esme gli era mancata anche di più. E gli erano mancati i loro caffè amari, le felpe che le prestava perché non sentisse freddo e perfino le giornate passate insieme in orfanotrofio, quando erano solo due bambini. Lei era sempre stata la sua migliore amica, da che ne aveva memoria, fin da quando erano finiti in castigo insieme... lei per non aver voluto mettere un vestito, lui per aver difesa. Gli venne da sorridere, a quel pensiero. Non riuscì a fermarlo, perché era da lì che era iniziato tutto, era grazie a quel momento se non si erano più staccati l'uno dall'altra.
Non fosse stato per Louis non si sarebbero persi, mai.
Ma erano anni che non la vedeva né la sentiva, e in quel momento - con un bicchiere di caffè nero in mano e il cellulare che vibrava sul piano del tavolino a cui si era seduto - si sentì stupido. Non aveva senso ricomparire dal nulla dopo così tanto tempo. E non aveva senso cercarla in quel mare di studenti, non sapendo a chi chiedere né da che parte cominciare. Avrebbe potuto cercare una delle sue amiche, sperando che si ricordassero di lui, ma era come cercare un ago in un pagliaio. Finché...
«Due caffè, Marie... uno amaro e uno zuccherato, sì... due muffin al cioccolato e un sacchetto di caramelle alla menta, Esme ne è dipendente...». Il ragazzo scoppiò a ridere divertito con la ragazza della caffetteria, dopo averlo detto, e il castano si affrettò a raggiungerlo con un mezzo sorriso ad increspargli le labbra. Non era stato poi così difficile trovare qualcuno che la conoscesse, doveva ammetterlo; era stato piuttosto fortunato.
Si schiarì la gola, avvicinandosi. E il ragazzo dai capelli neri lunghi e spettinati si voltò a guardarlo con il sorriso ancora stampato sulle labbra ma un sopracciglio leggermente inarcato. «Ho sentito per sbaglio quello che hai detto... sei un amico di Esme?», gli chiese, intimidito dalla sua figura e da quel sorriso, anche se lui era fisicamente più grosso di Zayn. Più grosso magari, ma anche più timido, da un certo punto di vista.
«Il suo ragazzo... e tu sei?».
Il moro non riuscì a trattenere la gelosia. Ne riempì quelle poche parole, facendo sorridere il ragazzo che lo aveva appena avvicinato. Serrò la mascella e tentò un respiro profondo, provando ad immaginare chi potesse essere quel ragazzo e cosa c'entrasse con lei, con i suoi capelli ricci e la sua bellissima voce. Si fermò dal pensare il peggio solo quando lo sentì ridacchiare, prima che gli porgesse una mano e «Liam, piacere... un vecchio amico di Es».
Vecchio amico.
Non era proprio la combinazione di parole che Zayn preferiva, ma Liam sembrava davvero solo un amico, uno di quelli con cui cresci e ti diverti e fai le peggio stronzate. Non sembrava il genere di ragazzo di cui lei si sarebbe potuta innamorare né il genere di persona capace di spezzarle il cuore. Fece un respiro profondo, quindi, prima di ridacchiare e stringergli la mano che gli stava tendendo. «Zayn, piacere... io, scusami se ho reagito così». Fece una pausa, sentendosi ridicolo per un istante. È solo che sono terribilmente geloso quando si tratta di lei. «Ci trovi stasera, se ti va... io suono con la mia migliore amica, è un bel posto e ci si diverte...».
Liam gli regalò un sorriso, prima di annuire contento.
Avrebbe rivisto la propria migliore amica dopo tre anni.
Sperava solo che lei non desiderasse di ucciderlo e che lo riconoscesse. Non chiedeva altro.

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Capitolo 7
*** 7. Diapason. ***


7. Diapason.


 
 
Non era riuscita a perdere il sorriso. Non aveva voluto perderlo e aveva fatto in modo di non farselo scivolare via dalle labbra. Quel sorriso le si era stampato sul viso mentre lui la baciava e rideva, e non l’aveva mollata un momento; non quando l’aveva osservato vestirsi coi primi stracci trovati nell’armadio né quando le aveva scompigliato i capelli ed era uscito sorridendo per andare a prendere qualcosa per colazione; non quando si era  guardata intorno curiosando tra le sue cose né sotto la doccia, inebriata dall’odore del suo bagnoschiuma e dalle particelle di vapore che riempivano il piccolo bagno rendendola quasi cieca.
E continuò a sorridere anche guardandosi allo specchio appena uscita dalla doccia, lasciando vagare i pensieri verso quel ragazzo del quale a quel punto sembrava quasi non riuscire a fare a meno. Si leccò le labbra soprappensiero, prima di scuotere piano la testa divertita da se stessa e far partire la riproduzione casuale del telefono – che aveva lasciato di fianco al lavandino. Uptown funk riempì il silenzio facendola scoppiare a ridere, facendola ballare a tempo mentre indossava qualcosa che aveva preso in prestito dall’armadio di Zayn.
Quasi non si rese conto di aver preso in mano la spazzola del violoncellista, quando iniziò a cantare sulla voce di Bruno Mars, un po’ come se ci stesse duettando e un po’ come volesse dimostrare a se stessa di riuscire a superarlo, in un modo o nell’altro. E come sempre, cantando finiva per essere troppo presa dalla musica per potersi accorgere di qualsiasi altra cosa.
La prima cosa che Zayn sentì ancor prima di abbassare la maniglia della porta della propria stanza, fu la musica. E fu quando entrò, che iniziò a dimenticarsi di qualsiasi altra cosa gli stesse passando per la testa. Dopo la musica, ci fu la voce di Esme – la sua voce e null’altro. Quella voce gli fece spuntare un enorme sorriso sul volto; gli fece venire i brividi lungo la schiena; fu in grado di svegliarlo del tutto.
Meglio del caffè, pensò, lasciando poi la colazione e le caramelle per la ragazza sulla scrivania, prima di seguire la sua voce fino al piccolo bagno e trattenere il fiato. Il respiro gli si incastrò in gola, letteralmente, fermato all’improvviso dai capelli bagnati di Esme che – a mano che il tempo scorreva – si stavano arricciando naturalmente, come sempre; fermato dalla sua voce così limpida e forte; fermato dalla sua figura che ballava davanti allo specchio senza accorgersi di niente che non fosse musica.
Fermato dalle sue gambe nude.
Fermato dai propri boxer visti addosso a lei. Fermato dalla propria canottiera dei Guns’n’Roses presa dal suo armadio senza chiedere, perché in fondo non c’era bisogno di farlo. E, Zayn doveva ammetterlo, quei vestiti stavano decisamente meglio a lei. E non riusciva a smettere di guardarla e sorridere, non riusciva a smettere di ammirare quella luce nei suoi occhi verdi o il suo sorriso o il modo in cui prendeva fiato prima di continuare a cantare o il modo in cui la sua mano libera dalla spazzola si muovesse nell’aria quasi senza saperlo, senza volerlo davvero.
Continuò a guardarla senza perdere il sorriso – che anzi sembrava aumentare di intensità via che i secondi scorrevano senza fare rumore. Continuò a guardarla poggiandosi contro lo stipite della porta, passandosi una mano tra i capelli scuri prima di incrociare le braccia al petto, ancora senza che il suo sorriso si decidesse a mostrare segni di cedimento. Continuò a guardarla ballare e a sentirla cantare riempiendosene gli occhi e le orecchie, riempiendosene il cuore tanto da dover lottare per non scoppiare a ridere, per non farsi notare.
Riuscì a coglierla di sorpresa, quando colmò la distanza che li separava con un paio di passi e la prese per i fianchi soffiandole l’accenno di una risata dietro l’orecchio. La colse di sorpresa tanto da strozzarle una nota in gola e farla rimanere senza fiato, quando strinse appena la presa su di lei e le stampò un bacio sul collo umido e che odorava del suo bagnoschiuma. «Odori di me», le fece notare in un soffio mentre la canzone scemava contro le pareti del bagno, mentre una mano gli scivolava sotto la canottiera fino all’ombelico, facendola rabbrividire e ridacchiare allo stesso tempo.
«Ed è un problema?».
«Assolutamente no», mormorò il ragazzo osservandola far sfarfallare le ciglia fino ad abbassare le palpebre, rilassandosi sotto al suo tocco e cullata dal suo respiro come una scialuppa dalle onde del mare. «Mi piace sentire il mio odore su di te», aggiunse Zayn intrecciando le dita di entrambe le mani con quelle di Esme. Ed era la pura verità, sentire il proprio odore su di lei gliela faceva sembrare più… sua, in un certo senso.
«Okay…», disse la ragazza voltandosi per stampargli un bacio sulle labbra – rapido come i movimenti dell’archetto contro le corde del violoncello – prima di allontanarsi spegnendo la musica e prendere un sorso del proprio caffè dal bicchiere di carta lasciato sulla scrivania. «Non ho voglia di andare a lezione… film?». La mora prese il portatile del violoncellista e si sedette a gambe incrociate tra le sue lenzuola ancora sfatte sotto il suo sguardo divertito, col sopracciglio inarcato e il labbro inferiore stretto tra i denti.
«Film, ci sto…».
«Mh…». La ragazza annuì sorridendo, quando scorrendo la lista dei film in streaming lo vide con la coda dell’occhio avvicinarsi e sederlesi accanto senza smettere di sorridere. «Cosa guardiamo?», gli chiese soprappensiero continuando a scorrere la lista ma senza smettere di guardare lui e i suoi capelli sciolti e il brillio del suo piercing al sopracciglio.
Di certo però, seppur osservandolo di continuo e tenendogli sempre gli occhi addosso, non si aspettava la sua risposta. O, meglio, non si aspettava il gesto con cui la accompagnò. «Batman». E le diede un bacio sulla guancia. «Iron Man». Un altro bacio, più vicino alle labbra. «Spiderman», mormorò ancora, facendola ridacchiare quando le sfiorò l’angolo delle labbra. «Captain America…». E questa volta le posò un bacio direttamente sulla bocca, che sapeva di caffè e sigarette.
Esme però scosse la testa ad ogni titolo che scivolava sensuale e provocatorio dalle sue labbra carnose. Giocherellò col piercing al labbro, prima di protrudere lo stesso labbro in fuori e battere le lunghe ciglia nere, avvicinandosi poi al suo orecchio. Sorrise, sentendolo rabbrividire. E «Voglio vedere Frozen», gli disse in un soffio, lasciandogli poi una scia di baci lungo la mascella e finendo sulle sue labbra, respirandogli contro e guardando in quegli occhi scuri che più il tempo passava e più sembravano diventare neri.
Il musicista si accorse di star trattenendo il fiato solo quando rilasciò l’aria contro il sorriso malizioso della cantante e le sue guance leggermente colorate di rosso. Borbottò qualcosa di poco comprensibile, ma che somigliava terribilmente ad un “va bene, vada per Frozen” che, seppur detto in modo da non essere capito, fece ridere Esme, contenta di aver vinto quella piccola battaglia come una bambina che la mattina di Natale scarta i regali e trova proprio quello che voleva.
Sembrava davvero una bambina, Zayn non avrebbe potuto descriverla altrimenti. Guardava lo schermo del portatile come se ne fosse stata incantata, quasi senza battere le palpebre e con gli occhi che le brillavano… proprio come ad una bambina piccola di fronte al proprio cartone animato preferito. Cantava ogni canzone. Imitava addirittura i gesti dei personaggi. E sorrideva, sorrideva tanto – così tanto da far sorridere anche lui mentre la guardava.
Lui in effetti non stava guardando il film.
Lui guardava lei, ed era uno spettacolo mille volte meglio.
Esme, dal canto proprio, fece finta di non accorgersi di quello sguardo sul proprio viso. Fece finta che il sorriso sul viso di Zayn non fosse lo specchio esatto del proprio, e viceversa. Fece finta di non notare la lentezza infinita con cui una delle mani del moro le si stava avvicinando alla coscia nuda; fece finta di nulla, ma la vedeva con la coda dell’occhio e pregava che si desse una mossa, perché una buona parte di lei voleva solo sentire le sue dita a contatto con la propria pelle nuda.
Zayn la osservò in silenzio. Ed Esme guardò il film mimandone le battute e i gesti, ma senza parlare. Fu solo quando le prime parole di Let it go le scivolarono involontariamente di bocca, che la mano del moro si decise finalmente a posarsi finalmente sul suo ginocchio, per poi risalire la coscia un millimetro per volta, facendole il solletico.
Esme però si trattenne dal ridere – a stento, a dire il vero – voltandosi verso di lui senza smettere di cantare e avvicinandosi tanto da sfiorargli la guancia con le labbra, tanto da sorridere e cantargli quelle parole contro la pelle, premendoci le labbra sopra abbastanza da non capire neppure lei quali parole stesse cantando. Rise con lui senza allontanarsi, quando lo sentì ridacchiare, con le dita affusolate che ancora le sfioravano la coscia e che a quel punto non sembravano più essere in grado di smettere, di eliminare quel contatto.
«Immagina la nostra vita come in un cartone animato…», esclamò Zayn ad un certo punto, smettendo di ridere all’improvviso e cessando di muovere le dita sulla sua pelle, senza però allontanarle di un solo millimetro. La ragazza gli sfiorò la nuca con le unghie, incitandolo con un sorriso a continuare. «Io sono Kristoff, naturalmente più bello», aggiunse il moro dopo un paio di secondi, facendo ridere la cantante, prima che potesse mormorare un “viva la modestia” che lui fece puntualmente finta di non sentire. «E tu Anna… immagina la nostra vita come se fossimo loro…».
E quando lo guardò negli occhi, riuscì ad immaginarlo davvero. Vide davvero la neve che cadeva, nel buio di quelle iridi scure; e vide se stessa al posto della principessa Anna; vide Zayn che la teneva in braccio proteggendola dal freddo in sella ad una renna, proprio come Kristoff. Lo sentì accarezzandogli i capelli neri, che quello che lui le stava chiedendo di immaginare era quello che voleva.
Beh, non la parte del cartone animato.
La parte in cui immaginava di tenerlo per mano e continuare a baciarlo. La parte in cui abbassava le palpebre e si vedeva con lui. La parte in cui loro erano insieme, stavano insieme, finivano insieme. Quella era la parte che voleva, lui era quello che voleva. Poteva sembrare stupido, visto da quanto si conoscevano, ma in quel momento era la verità; voleva Zayn, forse fin dall’inizio, ed era irritata da se stessa per non averlo ammesso subito.
«Sarebbe bello, decisamente…», riuscì a mormorare la giovane con l’ennesimo sorriso della mattinata sul viso, prima di stampargli un bacio vicino alle labbra e allontanarsi appena – ma non troppo, giusto quanto bastava a poter posare il capo sulla sua spalla per tornare a guardare il film. «Sarebbe una favola», aggiunse pianissimo, lasciando che il ragazzo intrecciasse le dita con le proprie e stringesse la presa.
E forse fu la leggera malinconia con cui pronunciò quelle parole, ma in quel momento Zayn – baciandole con dolcezza i capelli ancora bagnati – decise che le avrebbe fatto vivere quella favola che tanto le mancava e che tanto desiderava. Decise che sarebbe rimasto, che l’avrebbe baciata sulle labbra per svegliarla, che le avrebbe accarezzato i capelli e che l’avrebbe protetta da chiunque avesse anche solo pensato di farle del male.
«E’ tutto okay principessa, ci penso io a te».
Bastarono quelle pochissime parole a fermare l’uragano di pensieri che le stava montando dentro. Pensieri di dolore, di tradimenti, di persone che se ne andavano. Pensieri di chi non l’aveva trattata come meritava. Pensieri di lacrime, di sorrisi finti, di occhiate colme di compassione per la povera ragazza che era stata lasciata senza nemmeno un biglietto, una scusa, una giustificazione. Pensieri di mancanze e di sms ai quali non aveva più risposto e di chiamate perse senza nemmeno farci troppo caso, perché forse era semplicemente meglio così.
Bastarono poche parole per spazzare via tutto. Quasi come non fosse mai esistito. Il che era sempre stato tutto ciò che aveva sempre chiesto, solo con lo sguardo, credendo che non ci fosse alcun bisogno di parlare. Solo che nessuno aveva mai udito la sua muta richiesta di aiuto, nessuno aveva anche solamente intravisto la malinconia celata nel suo sguardo. Nessuno aveva mai provato a capirla davvero, in tutti quegli anni.
Nessuno tranne Zayn. Sembrava chissà quale miracolo, ma lui la sentiva chiedere aiuto e vedeva la malinconia che si portava dietro da sempre… e la capiva. La capiva davvero, non si sarebbe arreso alla minima difficoltà, ed Esme se n’era appena resa conto, proprio grazie a quelle poche parole sussurrate.
E semplicemente gli si strinse più vicina. Annuì e basta, con un sorriso sulle labbra che diceva più di quanto avrebbero potuto fare mille parole. Quel sorriso e quel modo di stringerlo erano il suo modo – forse un po’ contorto – di dirgli grazie. Grazie di esistere, per quanto potesse suonare come uno stupido cliché. Lo pensava per davvero, non poteva farci nulla.
Ripresero a guardare il film abbracciati. Esme continuò a canticchiare ritrovando senza troppa fatica il pizzico di allegria persa e Zayn continuò a guardarla, stringendola a sé come se non volesse lasciarla andare ma anche come avesse avuto paura di romperla, di distruggerla in mille pezzetti impossibili da ricomporre. Quando però la sentì ridere di nuovo, la paura di aver rovinato tutto svanì all’improvviso così com’era arrivata e senza lasciare traccia alcuna del proprio passaggio.
«Ciao, mi chiamo Zayn», esclamò il ragazzo imitando alla perfezione la voce del pupazzo di neve del cartone animato. La mora lo guardò con un sopracciglio inarcato e mordendosi il labbro, prima di ridacchiare, aspettando che lui finisse la battuta. «Amo i caldi abbracci… e i baci bollenti», aggiunse dopo qualche secondo di pausa. Dicendolo sollevò ed abbassò le sopracciglia, guardandola malizioso negli occhi verdi come primavera.
E la risata che gli riempì le orecchie gli sembrò il suono migliore di sempre.
«Ciao, mi chiamo Esme», lo imitò allora lei dopo aver smesso di ridere, facendo nascere un sorriso sulle sue labbra carnose che gli increspò il velo di barba leggermente incolta. «Amo i caldi abbracci… e un violoncellista sexy di nome Zayn», aggiunse in un soffio che pareva quasi portato dal vento, avvicinandosi poi alle sue labbra per depositarvi il bacio che tanto anelavano.
Gli sfiorò le labbra con le proprie prendendogli il viso tra le mani con un sorriso. Affondò le dita tra i suoi capelli, sentendolo poi ridacchiare dentro la propria bocca, sentendo la vibrazione di quella risata entrarle dentro, riempirla fino a farle perdere il fiato, fin quasi a farla gemere senza che riuscisse a trattenersi. Giocò con le sue labbra, dimenticandosi di tutto il resto e finendo sdraiata di schiena sul materasso con Zayn sopra.
Senza fiato e con una risata spenta in gola.
Col film che nel portatile andava avanti per la propria strada senza che nessuno dei due gli prestasse attenzione, l’una concentrata sulle labbra del moro che le stavano scendendo lungo il collo arrivando con facilità alla gola e alle clavicole, e l’altro attento a sfiorare con le labbra ogni centimetro di pelle lasciata scoperta. Concentrato su di lei, nonostante le sue parole gli frullassero in mente come impazzite.
Gli aveva detto la parola “amo” senza curarsi delle conseguenze? L’aveva detto davvero o stava solo scherzando? Zayn non… capiva. Non sapeva se prendere per vere le sue parole o se avrebbe fatto meglio a prenderle con le pinze, attento a non lasciarsele esplodere addosso, attento a non farsi male. E cosa avrebbe dovuto risponderle? Lui, come lei, non era immune alla paura né al dolore. Lui era stato spezzato, lasciato, distrutto, tradito. Era come lei, avevano le stesse paure e gli stessi pensieri e provavano lo stesso, identico, dolore.
«Es…?».
«Mh…». La ragazza aprì gli occhi col fiato corto, tuffandosi in quelli scuri di lui, vedendoci la malinconia e la paura – le stesse che avevano attanagliato le proprie iridi poco prima. E capì immediatamente quale fosse il problema, sempre che potesse definirsi tale. Si accorse di quel che aveva detto, poi, boccheggiando appena in cerca d’aria. «L’ho detto senza pensarci», mormorò in un soffio, sfiorandogli una guancia con la mano aperta contro di essa, come se lo stesse sostenendo impedendogli di cadere. «Non perché io non ti ami, è solo che non sono innamorata…». Non ancora, avrebbe voluto aggiungere. «Mi capisci?». Ma non ci fu bisogno di aggiungere nulla, perché il ragazzo le stampò un bacio sulle labbra, annuendo di fronte al suo punto di vista, prima di nascondere un sorriso nell’incavo del suo collo.
Sorriso che lei sentì contro la pelle accaldata e sotto di essa. Sorriso che prese a scorrerle nelle vene, che respirando per regolarizzare i battiti del cuore le riempì i polmoni. Sorriso che sembrò riuscire a scaricarla di un peso, quel peso dato da quelle parole sfuggite dal suo controllo, in un momento in cui il cervello era stato scollegato dalla bocca – non c’era altra spiegazione.
«Ti va di uscire, stasera?».
Che, in quanto a pensieri scollegati dalle parole, non era niente male.
«Tipo un appuntamento?», gli chiese ridacchiando e sfiorandogli la nuca con le dita, prima di scendere lungo la spalla, sotto la maglietta. Si leccò la pallina del piercing, prima che il suo sguardo si immergesse nel proprio con un brillio di divertimento e un pizzico di malizia – visibile anche se ben nascosta. «Solo io e te, a lume di candela, su una terrazza dalla quale…». Per quanto stesse ironizzando, Esme non poté fare a meno di parlare a vanvera, almeno finché non venne interrotta dalle labbra morbide e invitanti del violoncellista contro le proprie, di nuovo.
«Puoi portare le ragazze e Michael e chi ti pare… volevo portarti dove suona Sky di solito, anche perché mi serve un incoraggiamento prima di suonare con lei», aggiunse il moro, prima sfiorandole il labbro ornato dal piercing col pollice, e poi scostandole un boccolo ormai asciutto dietro l’orecchio. La ragazza dagli occhi verdi annuì solamente, sorridendo, sporgendosi poi verso di lui per un bacio, e un altro, e un altro ancora.
Nemmeno si erano accorti che si fosse bloccato lo streaming.
«Cosa suonate?».
«Vedrai», mormorò il moro ridacchiando, ancora contro le sue labbra. Lei sbuffò, cercando di divincolarsi dalla sua presa e – cosa più importante – cercando di non farsi trasportare da quella risata, cercando di non ridere con lui. «Vedrai anche cosa intendo per incoraggiamento, piccola…».
E per quanto avrebbe davvero voluto ridere di fronte a quella provocazione, non fece altro se non farla sbuffare ancora, sempre più vicina allo scoppiare a ridere, mentre immaginava come sarebbe stato vederlo suonare con Sky, in mezzo ad altra gente. Con altre ragazze ad osservarlo. E a quel pensiero si ritrovò involontariamente a serrare la mascella. Gelosa, decisamente, non c’era bisogno di girarci troppo intorno, era evidente. Cercò comunque di non darlo troppo a vedere, intenta a scivolare via da sotto il corpo di Zayn, anche se lui non sembrava aver intenzione di spostarsi.
«Se non mi dici che locale è come faccio a decidere cosa mettermi?».
«Allora è questo il problema…». Zayn rise, lasciandola finalmente libera di muoversi. Chiuse il portatile con un ghigno, osservandola sistemarsi la canottiera alla meglio e passarsi una mano tra i capelli, come fosse soprappensiero. Sospirò, accennando un sorriso, prima di avvicinarsi e prenderla per i fianchi. «Non devi vestirti chissà come…», le sussurrò, posando piano le labbra appena sotto l’orecchio.
«Dici?». Esme sorrise, di un sorriso che Zayn non vide, che immaginò e basta.
«Non c’è bisogno che attiri la mia attenzione, tanto guardo solo te, micetta», mormorò ancora, prendendole una mano e sentendola sorridere forte ancora senza bisogno di vederla. L’aria si alleggeriva quando lei sorrideva, era più facile respirare. E se la rigirò tra le braccia ridendo appena, con l’intenzione di baciarla ancora, prima di essere interrotto da un fastidioso bussare alla porta, seguito dalla voce insistente di Sky che blaterava qualcosa sul fatto che sapesse che lui fosse lì e sul fatto che i cellulari li avessero inventati perché lui rispondesse, ogni tanto. «Ci mancava lei…», borbottò il moro, sbuffando contro il viso della ragazza che teneva tra le braccia, facendola ridere prima che si nascondesse nel suo collo, un po’ come avrebbe fatto una bambina dietro le gambe del padre.
«Ti ho sentito, idiota!», urlò la ragazza dai capelli color cielo da dietro la porta, prima che finalmente Esme si divincolasse da Zayn per aprirle – senza pensare nemmeno per un secondo a come fosse vestita, o a come non lo fosse. Lei non ci aveva pensato, e di contro fu la prima cosa alla quale la batterista pensò non appena la vide coi boxer del proprio migliore amico indosso. Si portò una mano alla bocca per impedirsi di scoppiare a ridere, cosa che però fece ugualmente dopo un paio di secondi. «Vi siete rotolati nelle lenzuola tutta la notte?», chiese alla mora senza peli sulla lingua, con una luce maliziosa negli occhi che era troppo per non essere notata.
«Sky…», provò ad interromperla Zayn trattenendo una risata, mentre Esme sgranava gli occhi e apriva un poco la bocca pensando di riuscire a trovare qualcosa da dire. Non disse nulla però, e la batterista continuò a blaterare anche quando rimase da sola con lei, la ragazza del proprio migliore amico – lui aveva fatto in fretta a sparire in bagno col proprio caffè, e quando tornò la trovò che ancora faceva allusioni sessuali, solo per il gusto di far arrossire la ragazza che aveva di fronte. «Smettila, Sky», la ammonì – pur senza smettere di sorridere – baciando poi una spalla nuda di Esme, un po’ perché moriva dalla voglia di sentirla rabbrividire, un po’ perché la reazione dell’amica sarebbe stata sicuramente impagabile.
Zayn la vide perdere le parole per un istante e sentì la propria ragazza rilassarglisi tra le braccia, prima che finalmente la musicista si decidesse a spiegare il motivo per cui li avesse interrotti in quel modo. La vide gesticolare con un pizzico di nervosismo ben visibile, mentre gli spiegava che avrebbero dovuto passare il pomeriggio al locale per sistemare la strumentazione per quella sera, e che era agitata e non vedeva l’ora di suonare e che aveva mal di stomaco e che…
Fu quando la ragazza prese a balbettare dicendo che sarebbe andata uno schifo e che sarebbe sicuramente stato un fiasco assoluto, che il violoncellista lasciò la presa sulla ragazza dai capelli ricci e si mise davanti alla migliore amica, posandole le mani sulle spalle e guardandola negli occhi, le cui iridi forse erano anche più scure e profonde delle proprie. «Respira», le disse pianissimo, facendo sorridere Esme dietro di sé. Prese un respiro profondo con lei, poi un secondo e un terzo, fino a farla smettere di tremare. «Tu sei la batterista più fenomenale che io conosca, tesoro… hai il ritmo che ti scorre nelle vene col sangue, e andrà bene perché sei semplicemente fantastica quando suoni, okay?», aggiunse scostandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio, regalandole un sorriso che in qualche modo riuscì a far sorridere anche lei.
La ragazza si rifugiò per qualche istante nel suo abbraccio, prima di respirare ancora profondamente e staccarsi da lui con una risatina imbarazzata. Esme la sentì mormorare un “grazie, Zay” a voce bassissima, che la fece sciogliere in un sorriso. Sky evidentemente non era il tipo di persona che si abbassava a chiedere aiuto, ma Zayn d’altro canto era il tipo di ragazzo che aiutava le persone anche senza che gli venisse chiesto – se ne accorgeva e basta quando c’era bisogno di lui, di un suo abbraccio o anche solo di un incoraggiamento. Ed Esme non potè far altro se non innamorarsi completamente di quel lato di lui, in quel momento. Le brillavano gli occhi, forse, perché Sky da sopra la spalla del migliore amico le sorrise come se avesse appena intuito tutto.
«Vieni anche tu stasera?».
Esme annuì appena, sorridendole mentre Zayn le prendeva la mano e la baciava velocemente su una guancia. «Devo chiamare le ragazze e Michael per stasera», aggiunse la mora passandosi una mano tra i ricci. Finse di non notare come l’altra ragazza si fosse passata velocemente la lingua sulle labbra al sentire il nome del giovane dagli occhi blu; finse di non notare quella reazione, e soprattutto cercò di non far capire a Sky che se ne fosse accorta. «E devo trovare qualcosa da mettere stasera», aggiunse sbuffando e mordicchiandosi l’unghia del mignolo con un sopracciglio inarcato come a cercare di valutare la reazione del ragazzo. Lui ridacchiò scuotendo la testa, alludendo tra sé al discorso che le aveva fatto poco prima; però non disse nulla, si limitò ad alzare lo sguardo al cielo e ad immaginare come si sarebbe potuta vestire, come si sarebbe sentito lui a vedere altri uomini guardarla… quanto si sarebbe ingelosito.
«Puoi sempre venire nuda, sono sicura che a Zay non dispiacerebbe». La voce di Sky interruppe il filo dei suoi pensieri, riscuotendolo. Soprattutto quando la sentì borbottare qualcosa che purtroppo sentì fin troppo nitidamente per i propri gusti. «E non dispiacerebbe nemmeno a me», aggiunse infatti, arrotolando pigramente una ciocca di capelli celesti intorno al dito. Lasciandoli andare e poi riprendendoli, in attesa di una reazione da parte dell’amico che non tardò ad arrivare.
Le due ragazze lo osservarono mentre borbottava qualcosa tra i denti prima di allontanarsi scuotendo nervosamente la testa. La mora ridacchiò, prima di seguirlo senza perdere il sorriso e senza dire una parola – perché era una reazione davvero troppo ridicola, dai – mentre l’altra scoppiò direttamente a ridere, riprendendo a giocare coi capelli e lasciando correre i pensieri verso un ragazzo dagli occhi blu, anche se forse lui non l’avrebbe mai notata.
«Zay…».
«Mh…».
«Sei adorabile quando ti ingelosisci, sai?». Gli prese una mano, che lui teneva stretta a pugno – sfiorandone le nocche fino a sentirne i muscoli tesi rilassarsi, fino a riuscire ad intrecciarne le dita con le proprie e vedere l’accenno di un sorriso comparirgli sulle labbra che fino a qualche attimo prima erano tese in un broncio. «Non hai motivo di essere geloso di lei, comunque», aggiunse lasciandogli una serie di baci lungo la mascella, fino a fermarsi a qualche millimetro dalle labbra.
Sentì il suo respiro diventare più veloce, quasi irregolare. La sua mano si strinse in automatico sulla propria, prima che lo sentisse sorridere e potesse intravedere l’angolo delle sue labbra sollevarsi leggermente verso l’alto. «Chi ti dice che io sia geloso?». E Esme scoppiò semplicemente a ridere, allontanandosi, con le mani sollevate come ad arrendersi, a mano a mano che seppur giocosamente si staccava da lui. «Okay, forse lo sono, giusto un po’», borbottò afferrandola per un polso prima che si allontanasse troppo e tirandosela addosso. Di nuovo la sua schiena contro il proprio petto. Di nuovo il naso immerso nei suoi ricci. «Non devo preoccuparmi di Sky, quindi?».
«Decisamente no, non è il mio tipo…», gli disse la ragazza voltandosi nell’abbraccio, ancora tanto vicini da respirare la stessa aria, tanto da sentire l’uno il battito del cuore dell’altra direttamente nelle orecchie. E prima che lui potesse chiederle chi fosse il suo tipo, Esme aveva già la risposta pronta sulla punta della lingua. «Il mio ragazzo ideale suona il violoncello come toccherebbe la propria donna, con la passione che gli scorre viva e bollente appena sotto la pelle… il mio ragazzo ideale bacia con tanta forza da sentire le vibrazioni di quel bacio rischiare di distruggerti…». E ad ogni parola sussurrata gli si stava avvicinando alle labbra, tanto da sussurrare le ultime parole direttamente contro di esse. «Devo andare avanti…?».
«Sei stata piuttosto chiara», mormorò il ragazzo ridacchiando, prima di baciarla proprio come lei l’aveva descritto solo qualche istante prima. Aveva ragione, lui quando baciava lo faceva con forza – quasi volesse far sentire ogni più piccola briciola di quel che provava solo toccando le sue labbra con le proprie. Baciava con trasporto, dimenticando tutto il resto. Baciava come stesse componendo una sinfonia e la teneva tra le braccia come fosse uno strumento di inestimabile valore e la sfiorava davvero come la stesse suonando, quasi senza che se ne rendesse pienamente conto.
Come del resto non si rese conto di averla sollevata da terra per poi lasciarla andare sul davanzale della finestra, guadagnandone l’inizio di un gemito, via dalle labbra di Esme per finire dritto nelle proprie orecchie prima che scemasse fuori dalla finestra aperta.
«Pensi che mi lascerai tornare in camera mia?», mormorò Esme ancora col fiato corto e ancora tanto vicina a lui da non sentire altro. Gli occhi così profondi e immensi di Zayn le impedirono ogni tentativo di prendere un respiro profondo, ogni tentativo di regolarizzare i battiti del cuore, qualsiasi tentativo di sopravvivere a quello sguardo – perché ogni volta era peggio, ogni volta ci si perdeva un po’ di più. Lui le impedì di allontanarsi, attento ad ogni suo minimo movimento, in particolare alla lingua passata sulle labbra mentre con un pizzico di malizia non sembrava essere capace di distogliere lo sguardo.
«Potrei tenerti prigioniera, micetta».
«Potrei lasciartelo fare, gattino».
«Potrei anche vomitare», li interruppe la migliore amica del violoncellista, con un sopracciglio inarcato e un mezzo sorriso trattenuto sulle labbra. Nella loro dolcezza magari potevano diventare stomachevoli, ma il sorriso decisamente felice sulle labbra di Zayn ne valeva la pena. Sky avrebbe sopportato tutta quella dolcezza da diabete, se serviva a vedere quel sorriso sul suo volto, su quell’anima che ne aveva sopportate forse troppe per una vita sola. «Ma mi fa schifo anche solo il pensiero», aggiunse la ragazza facendo ridere la riccia e facendo scuotere la testa al moro. «E tu devi venire al locale con me, gattino…». Fece l’occhiolino ad Esme, che scosse la testa divertita, prima di baciare Zayn su una guancia e scendere dal davanzale con un saltello.
«Non prenderti troppa confidenza», sillabò poi la riccia lasciando un bacio veloce sulla guancia di Sky. La sentì ridere, mentre si infilava i jeans del giorno prima e recuperava le proprie cose. Non voleva andarsene, in realtà. Stare lontana da lui, seppur solo per qualche ora, era diventato insopportabile, sempre peggio per ogni giorno che stava con lui. «Ci vediamo stasera», aggiunse con un sorriso salutandoli solo agitando le dita. Vide il sorriso sulle labbra di Zayn comparire come in uno specchio, e decise che forse poteva farselo bastare, che forse poteva resistere fino a quella sera.
E Zayn, sotto lo sguardo attento di Sky, pensava la stessa cosa.
Iris e Roxanne l’avevano cercata tutta la mattina, invano. La bionda tutto sommato aveva continuato a respirare normalmente, pur con un leggero velo di preoccupazione ad adombrarle le iridi azzurre. Aveva provato a distrarsi scambiando messaggi con Harry e ripensando alle parole che gli aveva detto, ai suoi occhi verdi e al bacio che si erano scambiati su quel vecchio pianoforte. Ma in sostanza c’era stata Roxanne a rendere completamente inutile il suo tentativo di distrarsi. La rossa non aveva fatto altro che non fosse controllare il telefono – ad intervalli decisamente isterici di dieci secondi – parlare con Niall o camminare avanti e indietro per il corridoio, preoccupata e nervosa. Si era legata e sciolta i capelli almeno una decina di volte, aveva giocato con l’orlo della maglietta e si era mangiata tre delle cinque unghie della mano sinistra. Era quasi andata nel panico. Totalmente fuori di testa che Iris aveva dovuto prenderla per le spalle e scuoterla.
E forse le avrebbe urlato contro, se proprio la persona che le aveva quasi fatte uscire di testa non fosse improvvisamente comparsa in fondo al corridoio, intenta a sistemarsi gli occhiali sul naso e a… sorridere. Non riusciva a smettere, e improvvisamente ad Iris venne da sorridere con lei – ignorando Roxanne, che ancora non aveva smesso di dare di matto. «Sei totalmente andata…», si sentì dire la mora, accorgendosi finalmente delle amiche, ferme davanti alla porta della sua stanza.
«Mi è morto il telefono», provò a giustificarsi, ma venne interrotta prima che potesse anche solo prendere un respiro.
«Oh, sono sicura che Zayn avrebbe potuto prestarti il suo», le fece notare la rossa, terribilmente acida. Arrabbiata, forse. Ma più di tutto preoccupata. «Ti perdono solo perché mi serve una cosa dal tuo armadio», borbottò poi, facendo ridere le altre due, prima che Esme la abbracciasse e le chiedesse scusa direttamente nell’orecchio, come fosse un segreto che le stava chiedendo di mantenere per il resto della propria vita. Roxanne sbuffò, perdonandola in un battito di ciglia. E senza che quasi se ne rendessero conto quello era diventato un pomeriggio come tanti, a prepararsi tutte e tre insieme per un venerdì sera qualunque – ma allo stesso tempo diverso da tutti gli altri.
Ore dopo che parevano secondi, Harry bussò alla porta della camera di Esme giocherellando con uno degli anelli che portava. Forse era solo nervosismo, ma somigliava terribilmente alla paura di perdere tutto – di perdere Iris – di nuovo. Aveva paura di rovinare tutto, di fare qualcosa di terribilmente sbagliato per cui lei non avrebbe più potuto perdonarlo. La sentì ridere, prima che aprisse la porta e lo facesse rimanere senza fiato, prima che ogni preoccupazione svanisse sostituita da lei.
Da Iris. Dal suo sorriso. Dalle sue labbra schiuse. Dai suoi occhi, che alla vista del ragazzo presero a brillare come la più luminosa delle stelle nel cielo. Dai suoi capelli mossi. Dal collo scoperto. Da quel vestito di pizzo bianco e da tutta quella carenza di stoffa che le lasciava le labbra quasi completamente nude. Dalle sue cosce e da quelle caviglie sottili che erano esattamente come ricordava.
«Wow…», fu tutto quello che riuscì ad esalare, mordendosi forse il labbro già rosso e passandosi una mano tra i capelli, al vederla fare una giravolta su se stessa. Come se non bastasse, aveva anche la schiena nuda. E lui riuscì a trattenersi dall’imprecare solo prendendola per i fianchi e baciandola di slancio, facendola ridere, prima che rispondesse al bacio legando le braccia dietro al suo collo. «Wow, davvero», mormorò ancora. Ma quella volta alludeva solo ai suoi occhi, che erano come ci fosse appena annegato o come avesse appena spiccato il volo.
Il pianista si accorse a malapena delle amiche della ragazza che teneva tra le braccia. Rispose in automatico quando gli chiesero dove fossero gli altri, ma non staccò lo sguardo da lei nemmeno per un momento, ridacchiando quando dopo averla vista arrossire lei nascose il viso nella sua spalla, respirandone l’odore e cercando di far fluire il sangue dalle guance. Era incredibile come lui riuscisse a mandarla in fiamme solo guardandola – ancora più incredibile che Iris non si fosse ancora abituata a sentirsi così.
A pensarci bene, forse non si sarebbe abituata mai.
Ed Harry un po’ ci sperava, se significava farla arrossire così.
Niall ebbe più o meno la stessa reazione dell’amico, al vedere Roxanne. Il respiro che però gli si fermò in gola gli fece andare di traverso la saliva, costringendolo a tossire e costringendo Zayn a dargli una serie di pacche sulla schiena affinché tornasse a respirare normalmente. La rossa si sistemò la giacchina di pelle sul braccio, mordendosi l’interno della guancia per non sorridere, ma in fondo anche terrorizzata di avere qualcosa che non andasse, a meno fino a quando non vide il biondo mimare un “sei bellissima, cazzo” che fece ridere Esme al suo fianco. Ma la cosa migliore da vedere fu l’espressione del chitarrista quando si accorse della schiena quasi completamente nuda della ragazza.
«No, non se ne parla proprio. Non andiamo da nessuna parte finché non ti cambi», aggiunse il ragazzo non riuscendo a trattenere la gelosia e stringendo forte la mano della ragazza cercando di trascinarla di nuovo nel dormitorio per farla cambiare. Non sapeva nemmeno lui se stesse scherzando o facendo sul serio, ma di certo nessuno si aspettava la reazione di Roxanne – forse nemmeno la stessa Roxanne.
Lei non era il tipo di persona che si ribellava al volere degli altri. Era la classica ragazza che in un occasione del genere si sarebbe cambiata, e probabilmente senza nemmeno battere ciglio. Ma, se era vero che con Niall diventava piccola, era anche vero che con lui diventava la persona più forte che aveva sempre sognato di essere e che aveva sempre fatto fatica a credere di poter diventare. Quasi non ci credette nemmeno lei, quando lo strattonò in modo che si fermasse e lo fece voltare verso di sé con un sopracciglio inarcato e le labbra schiuse. Non ci credette, quando se lo tirò addosso per baciarlo sulla bocca e tutti scoppiarono a ridere al vedere tanta intraprendenza – Niall compreso, contro le sue labbra. «Mi cambio se tu ti cambi quei jeans», mormorò la rossa dopo avergli succhiato il labbro inferiore e avergli strappato l’inizio di un gemito.
«Ma…».
«Vedi? Nemmeno tu hai intenzione di cambiarti».
E il biondo scoppiò semplicemente a ridere, prima di stamparle un altro bacio e allontanarsi da lei scuotendo la testa con l’accenno di un sorriso – che un po’ era malizioso e un po’ semplicemente divertito dalla situazione quasi irreale. Stava lasciando un bacio sulla punta del naso di Roxanne, quando sentirono Esme urlare e Zayn scoppiare a ridere qualche secondo dopo, con una mano nei capelli e l’altra ferma su un fianco della mora, a stringerla mentre lei si tratteneva a stento dal saltellare – per quanto le permessero i tacchi.
A pochi metri da loro infatti c’era una grossa moto completamente nera, quasi invisibile al buio, non fosse stato per il lampione sotto al quale era parcheggiata. Il violoncellista le posò un bacio sulla tempia, sorridendo al vederla tanto eccitata per così poco, sorridendo perché lei dal canto proprio non riusciva a fare altro se non sorridere e sorridere e ancora sorridere. «E’ una favola», mormorò la ragazza mentre lui la aiutava a salire a cavalcioni sulla moto, tanto vicina a sé da sentirne le ossa contro la pelle e il respiro direttamente nell’orecchio.
Quando poi mise in moto e si sentì stringere più forte, a Esme girava solo una domanda per la testa. Una domanda che col ruggito della moto sotto di sé non riuscì a pronunciare. Una domanda che le morì in gola quando Zayn accelerò e sfrecciarono per le strade di Londra come se il traffico non li sfiorasse nemmeno per scherzo. Una domanda che le scomparve dai pensieri quando il ragazzo si voltò ad un semaforo per baciarla sotto le luci dei lampioni e gli sguardi di chi guidava loro accanto. La fece ridere di gusto, e fu come se una tonnellata di peso le venisse tolta dalle spalle… perché forse aveva già la risposta a quella domanda, forse lo sapeva già, forse non c’era davvero così tanto bisogno di sentirselo dire.
Però, quando arrivarono al locale le tornò in mente con tutta la prepotenza di cui una domanda del genere era capace. Le tornò in mente quando vide Niall sfiorare il collo nudo di Roxanne con due dita e sentì lei ridacchiare. Le tornò in mente quando dopo una manciata di secondi Iris li raggiunse sistemandosi le maniche di pizzo del vestito – instabile sui tacchi, sorridente, e con Harry che poco dietro di lei cercava disperatamente di coprire un succhiotto con il colletto della camicia. Le tornò in mente quando si rese conto che le sue migliori amiche e i ragazzi che le accompagnavano erano qualcosa.
Ma lei e Zayn? Loro che cos’erano?
«Tutto bene?», le chiese il moro intrecciando automaticamente le dita con le sue. Si vedeva lontano chilometri quanto fosse soprappensiero, dalla piccola ruga tra le sopracciglia o dal labbro inferiore incastrato tra i denti o ancora dal modo in cui – per quanto cercasse di nasconderlo – le tremavano le mani. Qualche istante e si ritrovò il suo sguardo insicuro addosso, come se volesse chiedergli qualcosa ma non avesse il coraggio di farlo. «Piccola, che c’è?», aggiunse prendendole il viso tra le mani e lasciando che gli altri entrassero nel locale – non senza lanciare loro qualche occhiata leggermente preoccupata.
Esme li ignorò. E, come succedeva spesso, iniziò a parlare a vanvera.
«Io… stavo solo pensando, okay? Insomma, ci sono Iris e Harry che sono tornati insieme e probabilmente venendo qui si sono fermati da qualche parte… il tuo migliore amico aveva l’aria di uno che volesse scoprire se sotto quel vestito la sua ragazza portasse le mutandine o meno, mi segui? E ci sono Roxanne e Niall, che non si tolgono lo sguardo di dosso da settimane e sembrano il principe e la principessa delle fiabe e sono tanto carini che mi viene da sorridere come una disagiata ogni volta che li vedo insieme e non è normale, giusto? E poi ci sono io che vado nel panico perché non ho idea di cosa siamo noi e ho una fottuta paura di chiedertelo e…».
Zayn riuscì a fermare quel blaterare apparentemente senza senso solo ridacchiando appena e chinandosi su di lei per posarle un bacio sulla fronte – che finalmente le fece riprendere fiato, dato che aveva detto tutto nel tempo di un solo respiro. «Noi siamo musica», le disse semplicemente, soffiandoglielo sulla punta del naso, riuscendo a farla sorridere e far ritirare le lacrime che rischiavano di scivolarle via dagli occhi e farle illuminare quelle iridi tanto belle di quella che sembrava decisamente felicità pura. «Siamo melodia e voce della stessa canzone, e l’una senza l’altra non sono nulla, no?».
Era come se le stesse dicendo che lui senza di lei non era niente. Ed Esme si ritrovò a trattenere un sorriso sulle labbra, prima di sfiorare quelle di Zayn con le proprie e mormorare un “grazie” che lui liquidò alzando gli occhi al cielo. La fece ridere, prima di inarcare un sopracciglio al constatare quanto effettivamente fosse vestita rispetto alle sue amiche. Fece per abbassarle la cerniera della giacca di pelle, ma lei gli allontanò le mani ridacchiando.
«Esme…».
«Tu non dovresti andare a suonare?».
«E tu non dovresti darmi quell’incoraggiamento di cui parlavamo oggi?».
La ragazza scoppiò nuovamente a ridere, prima di scuotere la testa e baciarlo ripetutamente sulle labbra. Gli ripulì le labbra dal proprio rossetto, poi, passandoci il pollice sopra senza smettere di guardarlo negli occhi. Come se gli stesse dicendo che anche lei senza di lui si sentiva come la voce senza la melodia, come se non fosse nulla o al massimo il fantasma pallido e lontano di quel che era insieme a lui. «Vai a spaccare il palco, gattino», gli disse poi in un orecchio, quando finalmente stavano entrando nel locale… appena prima che un ragazzo decisamente familiare dai capelli e gli occhi castani fermasse la cantante prendendola delicatamente per un polso.
Non poté credere ai propri occhi, quando riconobbe Liam davanti a sé, con una mano tra i capelli corti e un sorriso un po’ impacciato sulle labbra. Il suo migliore amico di sempre. Davanti a lei dopo anni di silenzio assoluto, anni in cui non si erano visti né sentiti e ora compariva praticamente dal nulla. Non fece nemmeno caso allo sguardo leggermente colpevole di Zayn, che si era completamente scordato di avvertirla. Non fece caso a nulla. Riuscì solo a mormorare il nome di quel ragazzo che tanto le era mancato e a tuffarglisi tra le braccia, stringendolo come avrebbe voluto fare ogni giorno da quando Louis l’aveva lasciata.
Lo sentì sorridere con più convinzione, mentre il violoncellista le diceva che lui intanto sarebbe entrato – senza fare domande su Liam, cosa che però non la insospettì per nulla, troppo concentrata a tenere tra le braccia qualcuno che credeva avesse perso per sempre. «Ehi… non ti azzardare a piangere, okay?», le disse il castano allontanandosi per accarezzarle una guancia con la punta delle dita, cosa che la fece tirare su col naso al ricordo di tutte le volte che l’aveva fatto solo per tirarla su. «Ti ho cercata stamattina in accademia e il tuo ragazzo mi ha detto che ti avrei trovata qui e…».
«Hai conosciuto Zayn?», riuscì a mormorare lei, disorientata.
«Niente conclusioni affrettate, Es, magari si è solo dimenticato di dirtelo… sembra così tanto preso da te che non mi sorprenderebbe se vedendoti si fosse dimenticato come si respira». Sollevò e abbassò le sopracciglia, dicendole le ultime parole, al che lei non riuscì a far altro se non arrossire di un rossore tanto diffuso da essere visibile anche alla debole luce dell’insegna del locale. Il ragazzo ridacchiò, prima di baciarle una tempia e «Mi sei mancata così tanto», mormorò mentre entravano finalmente nel locale in cui avrebbero sentito il violoncellista e la sua migliore amica suonare.
Invasi dalla musica alta, purtroppo Liam non la sentì quando mormorò di rimando un “anche tu, da morire” che l’avrebbe sicuramente fatto sorridere come nient’altro al mondo.
Sky era la ragazza più strana su cui Michael avesse mai posato lo sguardo. Decisamente.
L’aveva osservata da quando Iris dopo averlo salutato era andata a prendere da bere con Harry. Lui era rimasto lì, con la schiena contro la parete di fondo del locale. E lei era salita sul palco ridacchiando con Zayn, poteva immaginarne il suono nelle orecchie anche senza sentirlo. E da quel momento, da quando l’aveva vista illuminata dai faretti appesi al soffitto, non era riuscito a toglierle gli occhi di dosso.
Era una ragazza strana. Forse non era il suo tipo. Ma la cosa più strana era una: se non era il suo tipo, come si ripeteva da quando l’aveva incrociata per i corridoi dell’accademia settimane prima, perché continuava a guardarla reprimendo a stento il desiderio di mordersi il labbro? Perché ogni volta che pensava a quella chioma di capelli celesti gli scappava un sorriso? Perché allora era lì quella sera, a immaginare di cantarle qualcosa contro la porzione di pelle dietro l’orecchio? Perché immaginava di continuo di sfiorarle le gambe nude solo per vedere la pelle d’oca formarlesi addosso? Perché…
L’ennesimo perché gli scivolò via dai pensieri, quando si accorse che lei lo stava guardando. I suoi strani capelli azzurri erano sciolti e scostati tutti su una spalla, lasciando che la luce le illuminasse il collo scoperto e i brillantini che dalla coda dell’occhio le arrivavano come in una scia di stelle fino alla tempia. I suoi strani occhi castani sembravano anche più scuri e profondi quella sera, e lo fissavano quasi brillando, anche i suoi come se non riuscissero a distogliere lo sguardo da lui. Era… assurdo. Michael stava per pensare ancora alla parola “strano”, che tanto sembrava adattarsi alla ragazza dai capelli celesti. Infatti, indossava una strana canottiera che lasciava davvero poco all’immaginazione, col logo di una band che purtroppo da quella distanza non riusciva a riconoscere; e persino le sue bacchette per la batteria erano strane – come se ci fosse qualcosa disegnato sopra, ma era impossibile poter dire cosa con esattezza.
Michael era troppo lontano. E non si sarebbe avvicinato. Avrebbe continuato a guardarla da lontano, avrebbe giocato con lei quel gioco di sguardi maliziosi e mezzi sorrisi. Non sarebbe scoppiato a ridere, avrebbe sostenuto il suo sguardo tutta la sera, avrebbe cercato di leggerla da lontano, senza una parola… solo con uno dei suoi sguardi del colore del mare in tempesta.
Non sapeva che avrebbe dovuto guardare così tanto, però.
C’erano le sue mani. E le bacchette. E il movimento che facevano le sue braccia per suonare la batteria. E i piatti che vibravano. E lei che muoveva il capo a ritmo, coi capelli che le svolazzavano ovunque tutt’intorno. C’erano le sue scarpe blu notte col tacco che tenevano il tempo. E il suo vizio di mordersi il labbro di tanto in tanto mentre suonava. E il sudore che le luccicava sulla pelle sotto le luci. E le sue labbra tinte di rosso che mimavano le parole della canzone che lei e il suo migliore amico stavano suonando. E il ritmo che anche da lontano si poteva vedere scorrerle sotto pelle, nelle vene, col sangue.
E lei continuava a guardarlo. Di tanto in tanto spostava lo sguardo fino ad arrivare a lui, come ne fosse calamitata, come non riuscisse a farne a meno. Si morse il labbro, guardandolo. Continuò a suonare, guardandolo. Sentì una goccia di sudore scivolarle placidamente lungo la schiena, guardandolo. E, sempre guardandolo in quegli incredibili occhi color mare, si sfilò la canottiera velocemente e la gettò a terra accanto allo sgabello su cui era seduta, per poi riprendere a suonare come se niente fosse appena accaduto. Fingendo di non aver sentito le risate del pubblico e un applauso scrosciante subito dopo.
In realtà, le sembrò di aver sentito Michael trattenere il fiato.
Distintamente, come se ce l’avesse avuto di fianco.
Esme al contrario quasi non aveva notato lo spettacolo messo su qualche istante prima da Sky. Si era sbottonata a poco a poco la giacca di pelle fino a toglierla, rivelando al di sotto un top senza spalline, a fascia e con scollatura a cuore. Nero e ricoperto di strass dello stesso colore, che brillavano sotto le luci – anche se soffuse – del locale. E una cerniera dorata le passava tra i due seni. Era una di quelle cose che non metteva mai… in un certo senso, credeva che non fosse adatto a nessuna occasione.
Ma mentre si sfilava la giacca e la posava su uno sgabello di fianco a sé, con lo sguardo posato sul violoncellista dai capelli scuri, lo vide deglutire – nitidamente – e quasi perdere una nota. Si morse un labbro trattenendo un sorriso, mentre lui scuoteva leggermente la testa e sembrava sul punto di alzare lo sguardo al cielo. Aveva in mente solo lei. Lei e tutti gli uomini poco distanti che la guardavano come volessero mangiarsela. Ma non era il momento di essere gelosi… così Zayn prese un respiro più fondo e continuò a suonare, senza però distogliere lo sguardo dagli occhi verdissimi di Esme e dalle sue spalle nude e – soprattutto – dal ciondolo che le finiva esattamente tra i seni.
Mosse l’archetto sulle corde come se stesse posando i polpastrelli poco al di sotto del mento della propria ragazza. Come se le dita scendessero lungo la gola, tra le clavicole e stessero percorrendo lo sterno. Come se si fosse staccato per un istante dalla sua pelle e subito l’avesse sfiorata di nuovo, continuando a scendere fino ad arrivare nel punto in cui il suo ciondolo toccava la pelle. Esattamente tra i seni. Precisamente sul cuore.
Lo immaginò senza distogliere lo sguardo, sicuro che solo guardandola anche lei sarebbe riuscita ad immaginare la stessa cosa. Sulla pelle. Come se stesse succedendo davvero e non fossero distanti e tra tutta quella gente; come se fossero solo loro, a suonare una canzone che non conosceva nessun altro, fatta di respiri spezzati in gola e gocce di sudore a scorrere lungo la pelle bollente di chi si ama.
Esme trattenne il fiato di fronte a quello sguardo. Le sembrò quasi di poter sentire il suo tocco addosso. O le sue labbra. Sfiorarla come se la suonasse. Suonarla fino a sfinirla. E la ragazza dovette lottare contro se stessa per rimanere seduta su quello sgabello, con le dita a sfiorarsi inconsciamente la gola e lo sguardo ancora perso negli occhi lussuriosi del musicista.
Al suo fianco, Roxanne stava “discutendo” con Niall. Diceva di voler bere, e il biondo le diceva di no ridacchiando, e lei tornava a dire di sì con gli occhi che brillavano e lui… la ragazza dai capelli ricci interruppe il contatto visivo con Zayn solo per strappare un bicchiere colmo di liquido apparentemente celeste dalle mani della migliore amica dai capelli rossi, dando ragione al suo ragazzo e portandoselo alle labbra prendendone poi un sorso. Scosse la testa con una mezza smorfia che fece ridere l’irlandese di gusto, prima che potesse ordinare “qualcosa di meno forte, per lei” e Roxanne potesse indossare il suo broncio più carino.
Quando la mora tornò a guardare il violoncellista era cambiata la musica. Sky si era legata i capelli in una treccia improvvisata, e una ciocca di capelli neri umida di sudore ricadeva sulla fronte di Zayn – che ancora la guardava, un mezzo sorriso ancora sulle labbra, l’archetto ancora tra le dita e il piede che teneva il ritmo della batteria che stava accompagnando. E continuarono in quel modo finché i due ragazzi non smisero di suonare.
La migliore amica del moro si prese uno scroscio di meritati applausi, prima che Esme la vedesse rivolgere un sorriso verso il fondo del locale, mordendosi il labbro subito dopo. Ma la risata che le si formò al vedere il proprio migliore amico dagli occhi blu ricambiare quel sorriso, viene spenta dalle labbra di Zayn posatelesi alla base del collo. Aveva le mani sui suoi fianchi, coi mignoli infilati nei passanti dei jeans e i pollici a sfiorarle la pelle nuda. «Piaciuto lo spettacolo?», le chiese in un soffio nell’orecchio, perfettamente udibile nonostante la musica che riempiva l’aria.
«Da morire… e a te?».
Il ragazzo scoppiò a ridere sulla sua pelle, lasciandole un bacio all’attaccatura dei capelli e mormorando un “da morire” che per un istante le rese le ginocchia deboli. E no, non era colpa dell’alcool. Era stato il modo in cui l’aveva detto, con la voce roca che trasudava lussuria e le mani che continuavano a toccare ogni millimetro di pelle nuda. Avrebbe voluto prenderlo per mano e andare via da lì, davvero.
Ma non aveva ancora fatto i conti sul perché davvero Liam fosse ricomparso dal nulla dopo tutto quel tempo. Fu come se ogni dolore tornasse a galla ad ogni volta che parlando il castano pronunciava il nome del fratellastro… Louis questo, Louis quello. Presero a tremarle le mani mentre Liam le spiegava – parlando decisamente troppo in fretta perché potesse capire tutto – che fosse andato a cercarla per avvertirla che anche Louis era in città e sicuramente l’avrebbe cercata e… «Basta», si sforzò di dire la ragazza a voce abbastanza alta da poter essere udita, sentendo le lacrime salirle agli occhi e voltandosi per cercare lo sguardo di Zayn. Quella doveva la loro serata, si sarebbero dovuti divertire tutti insieme; Liam aveva decisamente scelto il momento sbagliato per… che stava facendo, esattamente? «Non voglio sentire un’altra parola, davvero. Non mi interessa se Louis sia tornato in città, né perché. Non me ne frega proprio un cazzo di lui, mi ha già rovinato abbastanza la vita e…».
«Piccola, ehi…». La voce di Zayn le arrivò alle orecchie come un balsamo. Allora si accorse di star piangendo, delle lacrime che le scorrevano sulle guance senza aver chiesto né aver ottenuto il suo permesso. «Vuoi prendere un po’ d’aria?», le chiese asciugandole le guance delicatamente, con entrambi i pollici, sfiorandola come fosse stata la cosa più fragile dell’intero universo. La osservò guardarsi intorno spaesata, ma Liam si era già allontanato da loro scuotendo la testa affranto. «Se vuoi ce ne andiamo, okay?».
«Voglio bere, Zay… lo so che rovinerò l’appuntamento rendendomi ridicola e ballando su qualche tavolo mezza nuda, ma…». Lo stava facendo ancora. Stava di nuovo parlando a vanvera, con la voce rotta da quello che sembrava nervosismo ma che in realtà conoscendola, lui riconobbe come dolore. Di quel dolore sordo che distrugge i cuori in pezzi tanto piccoli da non riuscire più a rimetterli insieme, nemmeno con tutta la buona volontà del pianeta. Ed Esme non si aspettava che lui annuisse lasciandole un bacio sulla fronte, né tantomeno che le ordinasse una birra. La fece ridere, in qualche modo.
E una birra dopo l’altra il resto sembrò scomparire dalla lista delle sue preoccupazioni. Forse era solo l’alcool, o forse era solo Zayn che rideva con lei e beveva con lei e la ascoltava blaterare cose poco comprensibili senza battere ciglio. Ma Esme dimenticò tutto. Nella sua mente era tornato ad esserci solo Zayn –  lui, e la sua adorabile espressione da ubriaco. Aveva ripreso a gravitare tutto intorno a lui come un pianeta avrebbe fatto col sole. E lei non era più riuscita a staccarsi da lui, quella notte.
Alla terza birra aveva iniziato a ridere.
Alla quinta le era sembrato di vedere Iris ed Harry scappare – letteralmente – dal locale. Mano nella mano. Lui ridendo, lei con un sorriso che Esme non le aveva mai visto sul viso. Non così pieno e luminoso e felice come in quel momento, almeno. Si erano dileguati, comunque. Beh, non riusciva nemmeno a biasimarli; l’avrebbe fatto anche lei, se avesse dovuto recuperare il tempo perduto.
Non riuscì ad evitare di chiedersi se lei avrebbe dato una seconda occasione a Louis.
La risposta però non fece nemmeno in tempo a pensarla che una delle sue canzoni preferite si era fatta prepotentemente strada dalle casse disseminate un po’ ovunque alle sue orecchie. Zayn stava per portarla via, ma vedendola scendere dallo sgabello ridendo e farsi strada tra le persone per ballare – anche se barcollava e quasi faticava a restare salda sulle proprie gambe – decise di lasciarla fare, decise di farla ballare, di farla divertire perché in fondo erano lì per quello.
Esme però ballava una musica tutta propria. Arrivata al centro del locale, posizionata esattamente sotto ad un faretto che emetteva ad intermittenza diverse luci colorate, chiuse semplicemente gli occhi e si lasciò trasportare dalla vibrazione della musica sulla pelle, più che dal suono effettivo che poteva sentire nelle orecchie. Chiuse gli occhi, alzò le braccia al cielo, entrò nel proprio mondo.
E Zayn non riusciva a non guardarla. Tra tutta quella gente, il suo sguardo era calamitato da quelle braccia al cielo, dal quel modo di muovere i fianchi ad un ritmo tutto proprio, da quelle luci che le rendevano la pelle un attimo blu e l’attimo dopo rosa e quello subito dopo verde. Tra tutta quella gente, riusciva a vedere solo le gambe di Esme fasciate dai jeans stretti strappati sulle ginocchia. Tra tutta quella gente, solo lei… era come se lo portasse su un altro pianeta solo muovendosi appena, solo passandosi lentamente la lingua sulle labbra, senza nemmeno guardarlo. E nessuna – nemmeno Miriam – l’aveva mai fatto sentire in quel modo.
La ragazza sentiva la musica arrivarle addosso ad onde. I suoni le si fermavano sulla pelle, le vibravano addosso come se fosse un diapason. Non sentiva altro che non fosse musica e lo sguardo di Zayn penetrarle la carne quasi fino a farla sanguinare. Quando le mani del ragazzo le si posarono sui fianchi, poi, non sentì altro se non la loro pelle a contatto, altro che non fossero scintille sulla pelle o fiamme che sembravano nascere direttamente da essa, scottandola di un calore che pero nulla era se non piacere puro.
«Andiamo via…».
«Mi porti su una stella?».
«Ti porto dove vuoi».
Erano le due passate quando Zayn si mise in spalla il violoncello – chiuso nella sua custodia – e aiutò Esme a infilare la giacca di pelle. Lei ridacchiava come se ci fosse davvero qualcosa di divertente per cui ridere, stropicciandosi gli occhi mezzi chiusi per la stanchezza e per l’alcool e blaterando di quanto fossero belle le stelle e di quanto fosse bella la luna e di quanto fosse bello Zayn con un ciuffo di capelli sfuggito al codino e ricaduto sulla fronte. Erano le due passate quando la ragazza lo fece scoppiare a ridere fermandosi al centro del marciapiede e indicando qualcosa che probabilmente vedeva solo lei.
Erano le due passate quando Zayn la baciò spingendola contro la parete del corridoio del dormitorio dell’accademia. Le sfuggì un gemito, mentre la sollevava per le cosce e le sfilava la giacca di jeans tenendola sollevata da terra contro il muro. Le sfuggì un gemito, al sentire la barba del ragazzo solleticarle il collo, e le sue labbra lasciarle un bacio umido sulla clavicola. Ed erano le due passate, quando Esme lo guardò negli occhi e le sembrò di affogare.
«Resta…», mormorò, in quel silenzio rotto solo dai loro respiri e dai battiti dei loro cuori, impazziti contro le casse toraciche, come se volessero distruggerle e annullare le distanze, come se volessero toccarsi come stavano facendo i loro corpi, le loro mani, le loro labbra che ancora sapevano di birra.
«Micetta…». Il resto della frase gli morì in gola quando Esme gli sfiorò la nuca con le unghie e gli morse appena un labbro, sorridendo. Il suono roco che gli strappò e che le arrivò alle orecchie, le fece automaticamente inarcare la schiena e scivolar via un sospiro – dalle proprie labbra direttamente nelle sue. «Siamo ubriachi, e… n-non so se riesco a controllarmi, piccola».
«Suonami», mormorò, in un soffio. Come avesse avuto paura di dirlo a voce più alta. Suonami. Toccami come fossi uno strumento musicale. Tienimi tra le braccia come se fossi il tuo violoncello. Sfiorami con l’archetto come se fossi una corda tesa. Strappami gemiti di dosso come fossero melodie di angeli. «Suonami, Zayn», mormorò ancora, però a voce leggermente più alta, più udibile.
E se avesse voluto dire qualcos’altro, non la sentì nessuno.
Il violoncellista bloccò qualsiasi altra parola solo posando le labbra contro le sue.

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