Lycan
Chronicles
Questa
storia è stata scritta per la mia amica muztco,
e il suo unico scopo è di divertire me e lei e chiunque
altri
la voglia leggere. Anche se vi sono riferimenti a luoghi e
avvenimenti reali, dai quali ho tratto ispirazione, i dati sono del
tutti imprecisi dal punto di vista storico e geografico e mi servono
solo come pretesti per narrare una storia di lupi mannari.
I
personaggi sono tutti di mia invenzione, quindi di mia
proprietà,
ma se volete usarli siete liberi di farlo (dubito che a qualcuno
interessi riciclare 'sti tizi, ma non si sa mai...) basta che me lo
facciate sapere.
Le
citazioni sono la mia ultima fissa. Spero che gli sproloqui di
proprietà altrui in cima ai capitoletti non vi turbino.
Parte
Prima
“Cada
la tua spada senza filo, dispera e muori!”
William
Shakespeare – Riccardo III
Il
sole già iniziava a calare sulla piana sconvolta dalla
battaglia, ma l'intensità dello scontro non diminuiva. L'ala
destra dell'esercito romano era stata ormai quasi annientata dalla
cavalleria cartaginese, mentre il centro e l'ala sinistra ancora
reggevano contro i temibili elefanti di Annibale. I legionari non si
lasciavano spaventare tanto facilmente, e di quei bestioni in Italia
se n'erano già visti al tempo di Pirro. Eppure iniziavano a
stancarsi di quel nemico dalle risorse apparentemente illimitate. Per
ogni cartaginese ucciso sembravano spuntarne altri due.
Il
centurione Aemilius, uno dei pochi ufficiali rimasi in vita nell'ala
destra, però non aveva smesso di combattere con foga e di
incitare i suoi, ormai decimati, a resistere ancora. Per un soldato
romano la sconfitta non esisteva, ed egli era un vero legionario, un
uomo duro, temprato da un'infanzia di lavoro nei campi e da una
giovinezza segnata da mille battaglie.
-Per
tutti gli dei! Voglio vedere il colore delle loro budella!-
urlò.
Era ormai una giornata intera che gridava ordini, e aveva la gola
riarsa e bruciante. La voce di un ufficiale era come un'arma: doveva
essere ben affilata per superare il fragore assordante della
battaglia, il cozzo metallico e ininterrotto delle armi, l'urto degli
scudi, le stridule grida dei morenti.
Gli
uomini attorno a lui avanzarono di qualche passo con la forza della
disperazione, facendosi largo tra una moltitudine di nemici. Il
terreno sotto i loro piedi era scivoloso per il sangue versato.
Aemilius spinse in avanti la spada con forza, conficcando la corta
lama nel ventre di un cartaginese poco più alto di lui.
Aveva
tutti i muscoli indolenziti e non sentiva più il braccio
sinistro, che reggeva lo scudo. La corazza gli pesava sulle spalle
sfregandogli dolorosamente la pelle, ma non ci faceva caso. L'unica
cosa che contava era farsi uccidere decentemente. Perché,
per
quanto poco onorevole fosse non avere fiducia nella perfetta macchina
da guerra romana, un uomo sensato come lui si poteva facilmente
rendere conto della loro disperata situazione. Un nemico gli venne
incontro con la spada puntata dritta al cuore, ma Aemilius
riuscì
a scansarsi. La mischia però gli impedì di
evitare del
tutto il colpo, che lo colse ad una spalla. Rovinò addosso
ad
un compagno, ma questi riuscì a restare in piedi e a
proteggerlo dal colpo che giungeva per finirlo. Mentre si rialzava
dal fango, il centurione lo ringraziò: -Ti devo la vita,
Marcus.-
Conosceva
i suoi uomini uno per uno, ne ricordava i nomi sin dal primo giorno
in cui era stato assegnato al loro comando. Erano tutti come
fratelli, e nel corso degli anni si erano salvati più volte
la
vita a vicenda. Per quanto alcuni del gruppo originale fossero morti,
mai si era vista una carneficina come quella che si stava svolgendo
quel giorno a Canne.
-Non
ce la facciamo, signore!- gridò disperato Iulius, uno dei
più
giovani, che combatteva alla sinistra di Aemilius.
-Ce
la dobbiamo fare- ribatté cupo il centurione, parando un
colpo
con lo scudo. Il sangue usciva copioso dalla ferita alla spalla
destra e la spada gli sembrava pesantissima; ciononostante
alzò
l'arma per difendersi da un nuovo attacco del cartaginese. L'uomo
sembrava stanco quanto lui, e questo gli diede la
possibilità
di difendersi. Marcus, alla sua sinistra, staccò di netto il
braccio all'uomo.
-Iulius
ha ragione, signore- gridò il soldato, tentando di coprire
le
grida dell'uomo a cui aveva mozzato il braccio -Non siamo
più
in grado di combattere.-
-Un
romano non si arrende!- ringhiò Aemilius, sbattendo di
taglio
lo scudo sotto il mento di un nemico e spaccandogli la mascella.
Accanto a lui, i suoi uomini resistevano come potevano, combattendo
come leoni. Erano dei valorosi, indomiti e fedeli a Roma e al loro
centurione. Aemilius, ritrovò nelle sue stesse parole
energia
per resistere. -Un romano non si arrende!- ripeté.
I
suoi risposero con un ruggito levarono alte le loro grida di
battaglia -Per Roma!- e -Per la gloria, per la vittoria!- e ancora
-Ammazziamo questi cani!- ma soprattutto urlarono: -Onore alla
settima legione!- e ripeterono più volte le loro grida,
scandendo una parola per ogni colpo dato o parato. -Onore- stoccata
-alla- parata -settima- affondo -legione!-
Proprio
mentre sembrava che le cose iniziassero a migliorare giunsero dalla
parte opposta del campo di battaglia le grida di vittoria del
cartaginesi. Paura e scoraggiamento presero possesso anche dei cuori
più valorosi, e ovunque nella piana i romani iniziarono ad
arretrare. Ma anche in quel momento il perfetto addestramento dei
legionari stava salvando la vita a molti di loro: ancora nessuno si
era dato disordinatamente alla fuga, volgendo le spalle al nemico e
provocando in questo modo una carneficina.
Il
centurione Aemilius piantò saldamente i piedi a terra,
deciso
a non cedere un solo palmo di terra. -Soldati!- chiamò,
senza
smettere per un attimo di combattere -La battaglia non è
ancora persa! E se anche questa battaglia dovesse essere perduta, noi
non saremo qui a fare da testimoni ad una sconfitta di Roma! Che la
nostra vittoria sia celebrata in tutto l'impero o che la nostra morte
sia ricordata attraverso i secoli!-
Non
ci furono grida quella volta. Solo il mortifero fragore delle spade
accolse le parole di Aemilius. Un colpo di spada si andò ad
infrangere contro il suo elmo, lasciandolo stordito per qualche
secondo. Si portò istintivamente lo scudo davanti al volto,
e
ciò gli salvò la vita, poiché un
nemico aveva
alzato la lunga lama per staccargli la testa. Ignorando la carne
lacerata della spalla che ululava di dolore, alzò la spada
per
attaccare, e tracciò con la punta un segno rosso sul braccio
del suo assalitore. Parò un colpo ed attaccò
nuovamente, avanzando di un passo per darsi maggior slancio, e
infilò
la lama nella gola del nemico. Non ebbe però forza
sufficiente
a tenere la spada, che cadde insieme al corpo nel quale era
infilzata.
-Vi
difendiamo noi, signore- affermò il giovane Iulius,
accorgendosi dell'accaduto. I soldati si strinsero maggiormente
attorno al loro comandante, ma ciò non impedì il
disastro che incombeva su tutti loro. Uno alla volta furono feriti,
uccisi o disarmati. Anche con le loro ultime forze continuarono a
combattere, raccogliendo da terra le armi dei caduti, inciampando nei
cadaveri dei compagni, sanguinando da numerose ferite.
Aemilius
si reggeva in piedi per miracolo, protetto dagli ultimi della sua
centuria, quando un uomo piuttosto basso si gettò
letteralmente su di lui tenendo la spada come un pugnale. Lo
colpì
in pieno petto. Il centurione capì di essere spacciato
nell'istante il cui sentì la punta della spada toccare la
sua
corazza. Poi un dolore lancinante, non molto diverso da quello di
molte altre ferite, gli morse la carne. Per un momento credette di
essere morto e gli si mozzò il respiro, ma fece in tempo a
cadere all'indietro e ad accasciarsi a terra prima che
l'oscurità
calasse su di lui.
“I
am a little more provocative than you might be, and there's your
shock 'n' then your horror on which I feed, so can you tell me what
exactly does freedom mean, if I'm not free to be as twisted as I
wanna be?”
Disturbed
– Divide
A
prima vista Keith Morrison era il tipico ragazzo ricco e spocchioso,
abituato a comandare e ad essere ubbidito. E questa immagine
superficiale era nello stesso tempo molto lontana e molto vicina
rispetto alla realtà. Era davvero abbastanza viziato, ma non
così tanto da non rendersi conto di esserlo. La tendenza
delle
persone a fare ciò che diceva era data tanto dai suoi soldi
quanto dal suo innegabile fascino. A vent'anni compiuti da poco,
Keith era al massimo del suo splendore. Era alto e piuttosto
muscoloso, ma non era imponente né aveva l'aria da
culturista.
I capelli biondo cenere erano sempre sapientemente spettinati, e
alcuni ciuffi gli ricadevano sulla fronte ampia. Solitamente si
vestiva in modo molto trasandato e si ribellava a tutte le
convenzioni sociali. Amava scandalizzare e si divertiva a scoprire
quale profondo orrore potessero suscitare comportamenti anche solo di
poco fuori dalla norma.
Il
padre non gli imponeva regole. Mugugnava e sbuffava ogni volta che
doveva dargli dei soldi, che Keith riusciva a spendere a
velocità
spaventosa, e si arrabbiava un po' quando doveva tirarlo fuori dai
guai o andare a recuperarlo in giro dopo qualche bevuta eccessiva, ma
per il resto evitava di immischiarsi nella vita del figlio.
Fortunatamente,
fino a quando Keith aveva avuto sedici anni sua madre si era occupata
di lui con una certa severità, e gli aveva insegnato un po'
di
disciplina e l'aveva fatto studiare. Con la morte della madre il
ragazzo aveva perso la disciplina ma non l'amore per lo studio. Era
incostante, ma aveva una mente brillante e molta curiosità.
Conosceva le scienze naturali, sapeva suonare perfettamente
pianoforte e sassofono, stava studiando chitarra, era dotato per la
matematica, conosceva a menadito la storia e parlava correntemente
inglese, italiano, francese e russo. Se la cavava decentemente col
latino e si le sue ultime passioni erano il giapponese e il disegno.
Conosceva
praticamente tutta Londra, ma aveva pochissimi amici. Anzi, forse
aveva un solo vero amico, Toleph. Gli era stato accanto sin da quando
Keith aveva memoria, e probabilmente lavorava per la sua famiglia da
prima che lui nascesse, anche se all'apparenza non dimostrava
più
di trentacinque anni.
Toleph
era un tipo davvero singolare, a cominciare dal nome. Non esisteva in
nessuna lingua, se l'era inventato lui. Inoltre era l'unico lycan
immortale di cui si avesse notizia dopo i figli di Fenrir, dei quali
si erano perse le tracce nella notte dei tempi, quando ancora gli dei
pagani regnavano su gran parte del mondo.
Il
padre di Keith l'aveva scovato in una palestra di boxe clandestina
completamente fatto e pronto a battersi con un tizio grosso come un
armadio. Il perché un rispettabile uomo d'affari si trovasse
in un luogo simile era presto spiegato: il signor Morrison era in
realtà un uomo di fiducia tanto della mafia russa quanto di
quella italiana. Oltre che per i criminali, la sua famiglia era un
punto di riferimento per tutti i lycan del paese, soprattutto per
quelli che non si facevano troppi scrupoli ad ammazzare. Una volta
assunta la forma di lupo non si lasciano impronte digitali
né
tracce in alcun modo riconducibili ad un essere umano, quindi il
signor Morrison aveva deciso di sfruttare la cosa a proprio
vantaggio. Da ragazzo si era fatto strada partendo dal basso, poi
aveva pian piano costruito la sua organizzazione. Da anni non si
sporcava più le mani di persona.
L'ultima
volta che l'aveva fatto era stato per vendicare la morte della
moglie. Lei era umana, e non era stato difficile ucciderla, per
quanto protetta da numerose guardie del corpo. Neppure trovare i suoi
assassini e i mandanti dell'omicidio era stato difficile per il
signor Morrison. Conosceva bene tutte le famiglie più
potenti.
Per alcune egli era uno dei killer che tenevano sul libro paga,
mentre per altre era un grave pericolo. Colpire uno dei suoi
familiari era un avvertimento classico, ma il padre di Keith aveva
sempre sospettato che ci fosse stato qualcos'altro dietro.
“Gimme
fuel, gimme fire, gimme that which I desire!”
Metallica
– Fuel
Keith
si lasciò cadere sul sedile anteriore della limousine e
sogghignò. Tol alzò gli occhi al cielo -Cosa hai
intenzione di combinare oggi?-
-Oggi
nulla- rispose innocentemente il ragazzo -Ma pensavo di fare un
viaggetto in Italia.-
-Tuo
padre non te lo permetterà mai- rispose laconico Toleph.
-Per
questo ho bisogno del tuo aiuto- fece Keith con un sorrisetto furbo,
avvicinandosi a Tol per sussurrare come se qualcuno avesse potuto
sentirli -Di te si fida.-
-E
di te, giustamente, no.-
-Appunto...-
ammise Keith -Quindi tu mi devi aiutare. E poi naturalmente verrai
con me.-
-Ascolta,
a volte tuo padre è iperprotettivo, ma sul fatto di andare
in
Italia credo che abbia ragione. Lo sai che là si
è
fatto nemici potenti- cercò di farlo ragionare Toleph.
Il
ragazzo alzò gli occhi al cielo -Non mi metterò
nei
guai stavolta, te lo prometto. Non ho intenzione di farmi ammazzare,
ma non voglio che la paura mi impedisca di vivere la mia vita. E poi-
aggiunse con un altro sorriso dei suoi -A chi verrebbe mai in mente
di usare proiettili d'argento per far fuori il figlio di un killer?-
-Tuo
padre ha sempre sospettato che ci fossero dei vampiri dietro
l'omicidio di tua madre. Se fosse vero saprebbero perfettamente come
farci fuori.-
Ma
per quanto si sforzasse, Tol non riusciva a fare il duro a lungo con
quel ragazzo, e non riusciva ad essere severo come avrebbe voluto. Lo
aveva visto nascere e crescere, lo aveva tenuto sulle ginocchia
quando ancora non camminava, aveva ascoltato i suoi primi balbettii
incoerenti; era stato per lui come un padre, e tutto il suo contegno
militaresco andava a farsi benedire ogni volta che Keith tirava fuori
una delle sue folli idee con quel sorrisetto furbo che sembrava dire:
“Sarà terribilmente divertente!”
In
mezz'ora Toleph si trovò a promettere di mentire al signor
Morrison e di accompagnare Keith in Italia.
“Lunga
e diritta correva la via...”
Francesco
Guccini – Canzone per un'amica
L'autostrada
si stendeva come un infinito nastro grigio d'asfalto. Lada guidava
senza fretta, cantando a squarciagola le sue canzoni preferite dei
Manowar, che si era copiata su cassetta apposta per il viaggio. Il
suo magro stipendio le serviva per mantenersi
all'università,
e già era tanto se si era potuta permettere una macchina
usata
e piuttosto male in arnese: un'autoradio con lettore CD era fuori
discussione. Forse fare tutto il viaggio dall'Inghilterra in auto non
era stata un'idea geniale per quel povero vecchio motore, ma a Lada
non piacevano gli aerei e gli aeroporti, e poi ne aveva approfittato
per fare alcune soste in giro per l'Europa. Doveva ammettere che, per
quanto le facesse piacere tornare a trovare i genitori e gli amici
d'infanzia, quell'estate le era venuta voglia di viaggiare
all'avventura. E la sua dose di viaggio avventuroso e disorganizzato
per le capitali europee se l'era appena gustata; era pronta a
rilassarsi.
La
grigia nebbiolina che le aveva tenuto compagnia dall'inizio del
viaggio si mischiò ad una pioggia sottile ed insistente
quando
raggiunse la Puglia. Era mai possibile che ogni volta che tornava
nella sua terra natale questa dovesse momentaneamente assumere il
clima londinese? Lada sbuffò, stringendo più
forte le
mani sul volante per il nervosismo. Lei a Londra ci studiava, ed era
diventata casa sua, ma tornare in Puglia le piaceva. C'era solo quel
maledetto dettaglio del clima che sembrava volerla prendere in giro.
“Come
se la natura non mi avesse fatto già abbastanza
scherzi”
rifletté rabbiosamente. Cercò di scacciare il
pensiero,
ma più ci provava e più sentiva la furia crescere
in
lei, come sempre. Non era una tipa collerica, ma c'era quell'unico
argomento che la mandava davvero fuori di testa.
Respirò
profondamente. Dopo vent'anni avrebbe anche potuto smetterla di
prendersela tanto, ma essere un licantropo non era una cosa che le
sembrava di poter mandare giù tanto facilmente.
Già
normalmente era una ragazza piuttosto impulsiva, come del resto quasi
tutti i giovani, ma quando diventava un lupo la sua tendenza a
cacciarsi nei guai aumentava in maniera preoccupante. E si
trasformava quando era arrabbiata. Probabilmente accadeva
perché
il suo corpo si preparava reagire ad eventuali attacchi, ma non
poteva sbranare sua madre solo perché le ordinava di mettere
in ordine la stanza, o un professore solo perché era severo.
Per
quanto cercasse di evitarlo però, era una chiamata radicata
in
lei troppo profondamente perché potesse permettersi di
ignorarla. E Lada questa tirannia sulla sua vita proprio non la
poteva soffrire.
Cercò
di concentrarsi su qualcos'altro, come per esempio l'assurdo rosa di
cui si era tinta le punte dei capelli e l'urgenza di trovare un
parrucchiere. O su quale fra i mille golosi piatti della cucina
barese le avrebbe fatto trovare la madre per cena. Dopo qualche
attimo tornò a canticchiare rilassata, filando sulla strada
semi deserta e ignorando la pioggia.
Dei
Licantropi
Un
giorno Fenrir, si invaghì di una fanciulla di stirpe
mortale,
e chiese a Odino di donargli per un giorno forma umana. Il dio
esaudì
il suo desiderio, e per una giornata intera il lupo
corteggiò
la fanciulla. Quando finalmente questa gli si concesse, il giorno era
quasi trascorso, e Fenrir iniziò a mutare la sua forma
mentre
si giaceva con lei. Egli fuggì prima che la trasformazione
fosse completata. Chiese a Odino di poter tornare nuovamente da lei,
ma questi non acconsentì. Gli dei infatti avevano iniziato a
temere Fenrir a causa della sua immensa forza, e tramavano contro di
lui. Essi intendevano imprigionarlo con una corda magica,
all'apparenza simile ad un nastro di seta. Fenrir però non
era
a conoscenza dei loro piani e non capì perché
Odino gli
rifiutasse il favore. Per giorni vagò furibondo per i
boschi,
non sapendo cosa fare, finché non incontrò una
creatura
strana, dall'aspetto fragile e malato, che gli disse d'essere una
strega figlia di antichi dei e di poterlo aiutare. Essa era la prima
della stirpe dei vampiri, e la causa della nostra perpetua
inimicizia. Essa lo ingannò ed egli non rivide mai
più
la sua amata. Ciò che non sapeva era che ella aveva
concepito
un figlio, proprio nel momento in cui egli iniziava a trasformarsi.
Per questo possiamo mutare la nostra forma. Nulla ha a che vedere con
noi la luna, simbolo della Dea, alla quale sono devoti i nostri
eterni nemici.
“Mi
piace far canzoni e bere vino, mi piace far casino...”
Francesco
Guccini - L'avvelenata
Bari
era completamente diversa da qualunque altra città si
potesse
immaginare. Era una grande e ambigua folle alla quale era difficile
sottrarsi. Sul lungomare, file di eleganti edifici guardavano fieri
verso il mare, dritti nella loro imponente e marmorea bellezza,
cullati dallo sciabordio delle onde. Nell'interno invece enormi
palazzoni sbucavano dal nulla in mezzo a casupole basse e a strade
piene di immondizie come doni votivi a quei giganti di cemento
armato. Come in ogni grande città, non esisteva il silenzio,
ma a Bari i rumori avevano una consistenza diversa. La folla in
perenne movimento era tutto un vociare; non si trattava però
di un mormorio indistinto ma di un insieme di grida quasi armoniche
nella loro insensata e stridula lotta per il dominio dei canali
uditivi dei passanti. Ma ciò che ci interessa in questa
storia
è specialmente un piccolo locale un po' fuori mano. La
periferia poteva non essere un bel posto, ma i veri cuoi neri di Bari
erano il quartiere San Paolo e Bari Vecchia, il centro della
città,
la parte che in ogni altro posto è la più ambita
e la
più raffinata.
Il
locale non era molto più che un piccolo bar con musica dal
vivo, suonata da un paio di gruppi di ragazzi della zona, ma per Lada
era un piccolo paradiso. Conosceva il gestore e le due cameriere. Lei
stessa aveva lavorato lì per un breve periodo e chiamava per
nome tutti i clienti abituali. Era stato uno dei primi posti
“trasgressivi” dove era stata da ragazzina, il
primo locale in
cui le era stato permesso di mettere piede dopo il tramonto,
perché
anche i suoi lo conoscevano. Così, il giorno dopo il suo
arrivo, Lada si era fiondata al Blue Wolf. Il nome era piuttosto
assurdo e pretenzioso, e il riferimento ai lupi faceva sempre
rabbrividire la ragazza.
Dopo
aver salutato tutti quelli che conosceva, Lada notò due tizi
che sembravano decisamente fuori posto. Passando loro accanto
notò
che parlavano inglese, e pensò che dovevano essere dei
turisti. Certo però che quel locale era tutto
fuorché
turistico.
“There's
a devil waiting outside your door.”
Metallica
- Loverman
Keith
si voltò per un attimo verso la porta. La ragazza che era
appena entrata non lo vide neppure, ma lui rimase a fissarla per un
momento. -Tol- borbottò aggrottando le sopracciglia -Quella
ragazza...-
-Ha
dato anche a te una strana sensazione?- Il giovane annuì e
Toleph ridacchiò -Allora non le stavi solo guardando le
tette.-
-Non
fare lo scemo! E poi anche se fosse carina, sotto quei vestiti da
barbona, non si vedrebbe.-
-Parla
quello che all'ultimo ricevimento di suo padre si è
presentato
in ciabatte- ribatté Tol, appoggiandosi allo schienale della
sedia e sorseggiando la sua birra.
-Ma
sopra avevo lo smoking- sghignazzò Keith -E poi faceva
caldo-
aggiunse, come se si fosse trattato di una spiegazione perfettamente
razionale. Sapevano bene entrambi che in realtà Keith amava
provocare e il caldo era stata solo una scusa. -Comunque, tornando a
quella tizia...-
-Sì,
è una di noi- lo interruppe Toleph.
-Come
fai ad esserne certo?- chiese Keith sospettoso. L'altro non gli
rispose e il ragazzo alzò gli occhi al cielo -Non
è
possibile, tu sei sempre un passo avanti rispetto a noi comuni
mortali!- si lamentò invidioso.
Tol
mise su una falsa aria di superiorità, poi
ridacchiò
-Io ti definirei tutto fuorché un comune mortale, Keith.-
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