Wedgwood

di Tersy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Note: Sono necessarie alcune precisazioni. Questo racconto è stato scritto per un concorso sui colore. Il colore che ho scelto è appunto il wedgwood (per un esempio, vedere il titolo). Quando ho letto il nome sulla tavolozza sono rimasta incuriosita ed ho fatto una piccola ricerca (Wikipedia power). Ho scoperto che deriva da Josiah Wedgwood , un ceramista inglese, che usava quella tonalità di azzurro per le sue opere, tra cui questo cameo ( Immagine ) a cui mi sono ispirata per la trama. Si tratta di Anna Laetitia Aikin Barbauld, una poetessa inglese. Viene da sé la folgorazione che ho avuto, creando una romanzata improbabile e mai avvenuta. Una sorta di fusione tra l’intreccio di mani e creta di Ghost e il ritratto commissionato di Titanic. Un racconto originale che, però, assomiglia molto ad una fanfiction xD
Ci tengo a dire che è la prima volta che scrivo una storia “in costume”, quindi è un esperimento.
Disclaimer: Questa storia non è scritta a scopo di lucro e gli elementi di mia invenzione appartengono solo a me. I personaggi sono realmente esistiti, ma i fatti narrati sono esclusivamente e totalmente frutto di fantasia.
Capitolo 1


Mi sono sempre chiesto cosa distingua l’uomo come essere vivente. In tutte le mie speculazioni (se attendibili possano essere le affermazioni di un artigiano, che non possiede né l’acume né la dottrina degli scienziati e dei filosofi) ho riconosciuto un dato di fatto: l’uomo, la nostra specie, si distingue per l’uso delle mani. Per quanto i nostri palmi possano apparire insignificanti e callosi; per quanto il nostro genio possa essere straordinario od altresì modesto (quale ritengo il mio); per quanto eleviamo al cielo la nostra spiritualità, è alla terra che dobbiamo affidarci. Sono le nostre capacità di render malleabile e duttile, plasmabile ed utile la materia a proclamarci padroni del mondo. Nelle nostre mani risiede il principio creatore delle cose.

« Ti ho colto con le mani nel sacco, Josiah... » Impertinente già nel timbro vocale. I tacchi delle sue scarpe lucide pizzicavano i suoi timpani. Boriosi, arroganti, noiosi. Come il proprietario. Un aroma di acqua di colonia si diffuse nel piccolo studio, con prepotenza.
« Invece di curarvi della tua clientela » con un bastone d’ebano che accompagnava la sua figura da aristocratico puntò un tavolo da lavoro, su cui giaceva vario vasellame. Arte ancora informe che doveva essere sottoposta al potere creativo del tornio. E del vasaio. « Ti ritrovo a scrivere un trattato? Non ti pagano forse per imbrattare le vostre abili mani di creta e non d’inchiostro? » Rochemont Barbauld si arrestò proprio dinanzi al giovane con una smorfia, che deformò il suo volto dal mento in su. Bastardo, ma nella misura in cui lo era tutti coloro che si gonfiano il petto in proporzione al rigonfiamento del proprio portafoglio. Né più né meno. Josiah socchiuse le palpebre, quasi volesse evitare a se stesso il diretto contatto visivo con colui che aveva sempre considerato un verme. Uno di quelli che se ne sarebbero dovuti andare con la rivoluzione. Invece erano ancora lì e più di prima. Raccolse i pochi fogli sparsi che vagavano sullo scrittoio e li ripose in un cassetto. Mentre richiudeva quest’ultimo, si rimise in piedi, abbandonando quell’umile seggiola.
« Mr. Barbauld voi mi giudicate fin troppo negativamente. Io ho molto a cuore i miei clienti. Ed è per questo che ogni mia opera deve essere curata in ogni dettaglio. Ma per far questo, me lo concederete, ho bisogno di molto tempo. » Si avvicinò al nobile con sguardo malizioso come ci fosse una sfida in corso. Come se dovesse sempre difendersi per poter affondare una nuova stoccata.
« I migliori artigiani sono quelli che lavorano bene nel minor tempo utile. Tienilo a mente per il futuro, mio caro giovane. » Il pomo del suo bastone si scontrò con il petto del ceramista. Quella fu la sua stoccata.
Il giovane spinse il legno con il centro del palmo destro, allontanandolo da sé, con il volto contrito di una certa rimostranza. Stava trattenendo ogni commento puramente negativo ed offensivo, che sarebbe stato sputato di bocca in bocca in tutta Londra nel momento stesso in cui lo avesse indirizzato al nobil signore. Ma forse non possedeva nemmeno tali parole, adeguate e pertinenti alla figura alla quale andavano affibbiate. Doveva accontentarsi di labbra storte ed occhiate truci per esprimere il suo disappunto.
« Spero non siate venuto solo per sciorinarmi la vostra sapienza... »
« Dovrei forse cogliere una punta di sarcasmo? »
« Ogni uomo interpreta il mondo a suo piacimento, Sir. » La sua testa compì una leggera rotazione, facendo sì che un sol occhio fosse puntato verso l’altro uomo.
« Non ne dubito, ma io sono, per così dire, un’anima scientifica. Credo che esista una realtà obiettiva che possa valere per tutti, in ogni luogo e tempo. Cosiddette leggi assolute. » Restò una manciata di secondi con entrambi i palmi poggiati sul bastone, il quale faceva da perno dalla sua stazza poco titanica. « Ma non è il caso di intavolare una discussione filosofica. D’altronde non ci sarebbe nemmeno un termine paragone con cui confrontarsi...» Un sorriso beffardo, tanto amabile, quanto maleducato, che racchiuse in sé un insulto preconfezionato.
Josiah rimase impassibile alle sue sferzate di esaltazione spropositata della sua persona. Non era la prima e non sarebbe stata l’ultima volta. Inutile pensare che sarebbe cambiato, che la vecchiaia lo avrebbe reso più pacato e meno opportunista. Era un esponente della nobiltà londinese, di quelli che chiamano sua Maestà per nome (o soprannome) con disinvoltura e prendono a calci i servi quando li scoprono sotto le lenzuola assieme alla moglie, anche se è la consorte ad essere fin troppo licenziosa. Non cambiano, perché non ne hanno alcun interesse. È questo che muove il loro piccolo grande mondo: l’economia fruibile e fruttabile. Tutto, dal granello di sabbia al chicco di caffè, si misura in termini di usabilità. Dalla felicità all’amore. Tutto.
« Suvvia, non mi dirai che ti sei offeso? Credevo che voi artigiani foste fieri di essere la parte produttiva della società. »
Parte produttiva della società. Dopo la rivoluzione industriale divenne tabù la parola “plebe” ed iniziarono ad inventarsi perifrasi di circostanza, le più diverse, le più fantasiose, ma con un unico significato: gli schiavi moderni. Nessun diritto contro migliaia doveri, che facevano pendere la bilancia dalla parte opposta della dignità. Che è sempre la parte sbagliata.
« Comunque sia... Non sono venuto unicamente per una visita di cortesia al mio protetto. Sono qui per commissionarti un’opera. O meglio un regalo. » Si tolse lentamente i guanti di seta bianchi, sfilandoli dalle dita per poi riporli nel taschino.
« Regalo? Che genere di regalo? » Monotona la sua voce, standardizzata, prodotta in serie, come del resto ogni cosa oramai. Si era perso il valore della rarità, tutto va realizzato bene nel minor tempo utile,appunto. Anche se era il motto più lontano dal suo pensiero, aveva finito per essere risucchiato da questo vortice, dal capitalismo e dall’industria dilagante. Nessuno ne era immune, per quanto tempo lui avrebbe potuto resistere? E soprattutto, perché? « Oh, sono certo che è alla tua portata. Vorrei un ciondolo... »
« L’orefice è in fondo alla via, Sir. » prima ancora che esponesse per intero il suo pensiero, Josiah lo aveva liquidato, senza batter ciglio.
Chi non lo conosceva, avrebbe interpretato questo atteggiamento come impertinenza imperdonabile. Chi lo conosceva, avrebbe pensato lo stesso, solo che avendoci fatto il callo non ne avrebbe dato peso. Anche Barbauld era al corrente del carattere irriverente del ragazzo, ma c’erano altri motivi a non farlo desistere, non certo l’abitudine.
« Se avessi voluto interloquire con l’orefice, non sarei qui.» Ovvero: “io so sempre ciò che voglio. Non dimenticarlo mai!”
« Allora, Sir... » incrociò le braccia dinanzi al petto, in posa d’attesa. « A meno che Voi non desideriate una brocca pendente al Vostro collo, come posso esaudire i Vostri desideri, facendo sì che rientrino nelle mie capacità?» Ovvero: “da quando un ceramista realizza gioielli?”
« Sono estasiato dalla tua buona volontà e non indugerò ad essere più preciso. D’altronde è un regalo molto, molto speciale. » iniziò a passeggiare avanti e indietro per il piccolo studio, facendo scricchiolare le assi in legno del pavimento, poiché ogni passo era ponderato e gravava in tutto il suo peso.
« Ho una notizia favolosa, mio giovane, che voglio condividere con te in esclusiva. »
« Quale onore... » voltò il capo di un quarto di giro per eludere lo sguardo compiaciuto del nobile. Chissà che incarico altisonante sta per comprare con quel dono. Gli faceva ribrezzo essere l’artefice di una corruzione. Ne era certo, come che il giallo ed il rosso, mescolati insieme, danno l’arancio.
« Sto per prender moglie.» Fiero nel tono, quasi avesse conquistato il diamante più bello. E su questo non aveva torto, affatto.
« Felicitazioni alla futura signora. Sarei ben lieto di realizzare un servizio da the per i novelli sposi. Se voi voleste...»
« Ed infatti non voglio. » scosse il dito indice dinanzi al suo viso. Era un no, categorico. « Realizzerai un cameo per la mia fidanzata. È inutile sottolineare che pretendo la migliore ceramica che hai mai creato. È di gusti raffinati, la mia Anna. Sai, è una poetessa. » L’aggettivo possessivo non era un sintomo d’affetto, ma di vero e proprio possedimento.
« E quando la vostra Anna dovrebbe ricevere il magnifico dono?» Anche lui marcò il possessivo. Ancora doveva chiederle di sposarla e già metteva in conto che avesse accettato? La superbia non è forse uno di quei peccati capitali da cui bisognerebbe rifuggire per non finire all’Inferno?
« La cena formale è fissata tra due giorni. » puntuale, preciso. Come un killer silenzioso.
« Due giorni?! » irruppe la sua voce, sciolse la posizione delle braccia mentre il volto esprimeva cattivo stupore. « Ma due giorni sono... »
« Quarantotto ore, duemilaottocentoottanta minuti, centosettantaduemilaottocento secondi. » pronunziò, con leggerezza, troncando le lamentele del giovane. Un momento di pausa ed un sorriso gli scivolò sul volto. Ma questo non fece arrestare la preoccupazione di Josiah, anzi la rinvigorì.
« Ma, Sir, sono troppi pochi. È un lavoro che richiede accuratezza, dedizione. Non posso farlo in così breve tempo. Devo prima fare una bozza preparatoria, poi devo comprare il materiale, fare una prima lavorazione e poi... »
« Josiah non hai abbastanza fiducia in te stesso. Io ne ho molta, moltissima. Non sei forse il più acclamato ceramista di tutta l’Inghilterra? Non mi stupirei se fossi interpellato da sua Maestà in persona. » Suadente e persuasivo, maestro negli elogi quanto nelle calunnie. E difatti mutò subito registro. Dall’esaltazione alla minaccia. « Non credo che tu sia nella posizione di poter rifiutare... Ti sei già dimenticato di quella locandiera che hai messo incita tra un vaso e l’altro? Se non le avessi sparato in pieno ventre, adesso saresti a spaccarti la schiena per un allevare un bastardo. Josiah, dov’è finita la tua gratitudine? » appoggiò entrambe le mani sulle gote lisce del giovane, gesto che contrastava la rudezza della sua voce « Anche le tue mani sono porche di sangue. » strinse la pelle del viso in una morsa iraconda. « Sei di mia proprietà. Non te lo scordare. »
Josiah piegò le labbra, ricolmo di rabbia. Come poteva cedere ad un ricatto in questo modo e per così tanto tempo? Perché non aveva la forza o il coraggio o entrambe le cose per dirgli in faccia che non era un assassino e che tutto ciò che si poteva imputare era solo paura? Impronunciabile terrore di non essere ancora un uomo e di essere ancora imbrigliato in un mondo, in cui l’amore non fa male, non fa soffrire, non fa morire e non fa uccidere. Ed ora è schiavo della sua ingenuità.
Lo sguardo del nobile si distese, assieme alle labbra, mentre scendevano le sue mani sul petto, picchiettandolo con la punta delle dita. Aveva interpretato il suo timore come la certezza che lo aveva in pugno. Per sempre,qualunque cosa gli avesse chiesto in futuro. Una garanzia di fedeltà. Proseguì con tono pacato ed affabile. « E poi la signorina Aikin ha richiesto esplicitamente di te. » « Di me? Per qual motivo?»
« Ah, non ricordo bene. Josiah, tienilo a mente: le donne ragionano solo in base ai propri istinti ormonali. Non sono come noi.» scosse il capo, in un gesto di compassione per quel gentil sesso, che non era capace di comprendere e che riteneva nessuno fosse in grado di comprendere. Si rimise i guanti candidi, mentre si avviava verso l’uscio, guardandolo solo di sbieco.
« Ma se non pecco in memoria, era molto affascinata dai tuoi colori. » Un attimo di pausa. « Comunque sia, verrà qui domani mattina stesso per esserti da modella. In fondo è lei l’oggetto del tuo lavoro, no? Ne approfitterete per intavolare discorsi da donnicciole e sbarbatelli sui colori. Ve ne do libertà.» Afferrò il bastone, facendo scorrere il palmo lungo il legno fino al pomello in ottone. Aprì la porta con la mano destra, mentre della mancina restavano ritti l’indice ed il medio.
« Due giorni. » si infilò nel pertugio creato dall’apertura e, sbattendo rumorosamente la porta, si riversò in strada.
Josiah restò in un muto silenzio per alcuni secondi, in piedi dinanzi al suo tavolo di lavoro. Le sue lunghe dita sfioravano la superficie lignea, percorrendola per il lato lungo. I suoi occhi castani le seguivano, finché non incrociarono un vaso, su cui era raffigurata una donna che giaceva elegantemente sul suolo, vestita di leggerissime vesti, come una dea classica.
Immagini frammentarie vennero proiettate nelle sua mente. Una porta che si spalanca scricchiolando; una scia rossa sul pavimento; ampie chiazze di sangue; il suo peplo bianco ormai compromesso nel suo chiarore, immondo come colui che l’aveva compiuto.
Un pugno si infranse sul tavolo, provocandogli dolore a causa dell’eccessiva energia adoperata.
« Il soggetto del mio lavoro. Soggetto. Non sono cose, figlio di pu**ana. »

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2


Tutto si può creare. Molti pensano che sia la mente a comporre e reinventare. Non nego all’intelletto il ruolo di dirigente primo, ma se non ci fossero le mani a realizzare e mettere in pratica ciò che gli viene comandato, non esisterebbe una sola cosa in questo mondo. Nemmeno la natura, poiché perirebbe se il contadino non fosse così carico di premure e dovizia da accudirla con le sue mani. Nemmeno i sentimenti, se non fossimo vogliosi di abbracciare od uccidere rispettivamente chi amiamo e odiamo.
Ne sono convinto: l’amore nasce dal desiderio di toccarsi.


« È permesso?» un timbro vocale sottile e soave si impadronì della stanza. Dalla piccola finestra penetravano pochi raggi splendenti. La figura si addentrò nello studio con estrema cautela, guardandosi intorno incuriosita ed intimorita. Non avendo ricevuto alcuna risposta, insistette.
« Mr. Wedgwood? C’è nessuno? » davanti a lei, si presentava lo scrittoio, ma non c’era nessuno dall’altro capo. All’apparenza, il luogo era disabitato.
Fu un rumore sordo e secco a far ridestare la sua attenzione. Il rumore di una goccia che piombava dall’alto e si immergeva in un’infinita di altre gemelle, divenendo indistinguibile. Fece roteare le sue dolci iridi azzurre per giungere all’origine di quel suono. Che era ai suoi piedi, riverso a terra, con una piuma d’oca sporca di nero inchiostro, che gocciolava dritto nella bocca del calamaio. Vide il suo petto sollevarsi ed abbassarsi ritmicamente e capì che era completamente crogiolato nel sonno.
Anna sorrise a quella vista. Era la prima volta che vedeva un uomo così indifeso, fragile, bisognoso d’attenzione e non ebbe alcun arcigno pensiero di svegliarlo. Così, si accovacciò presso di lui, delicatamente estrasse la piuma dalla sua morsa tra pollice ed indice e assieme al calamaio la ripose sulla scrivania. Avrebbe voluto posizionarlo in modo più consono, ma non avrebbe saputo come sollevarlo con le sue esili forze. Tuttavia, prese la briga di togliersi il mantello e posarlo sul suo corpo disteso per preservarlo, per quanto possibile dal freddo. Carino, questo ceramista. Un ciuffo gli copriva la fronte fino al naso, rendendolo maggiormente infantile ed amabile.
Tremarono le sue ciglia. I muscoli oculari si sforzarono per portare la mente del proprietario in quella stanza, in quel momento. In massima tensione, finché non riuscirono a fargli spalancare le palpebre. Josiah posò una mano dietro la nuca, sparpagliando i capelli. Strizzò più volte le palpebre per poi sbadigliare con grande sonoro.
« Per quanto eleviamo al cielo la nostra spiritualità, è alla terra che dobbiamo affidarci. Oh Signore, se lo leggesse il monsignore, sarebbe colpito da febbre improvvisa! » La sua vocina penetrante giunse limpida alle orecchie del ragazzo che si riscoprì in terra dinanzi ad una splendida donna in abito merlettato. Era seduta e leggeva dei fogli ad alta voce. Non ci mise molto a capire chi era e cosa stesse leggendo.
« Miss Aikin? » ancora occhi sbarrati e sguardo perso, confuso. Come se tutto ciò che stava accadendo esulasse dalla sua volontà e stesse vivendo il sogno di qualcun altro.
« Oh! » la sua boccuccia si contrasse in un cerchietto costituito dalle sue rosee labbra. « Vi siete svegliato. Sono state forse le mie letture ad alta voce? Se fosse così, Vi chiedo umilmente perdono. »
« No, no. Non dovete scusarvi, non è colpa vostra. Sono io il maleducato ad essermi fatto trovare in pessime condizioni. Sono terribilmente desolato. » precipitò in un inchino verso la dama, facendo scuotere la sua chioma castana.
« Bene, credo che ci siamo scusati abbastanza. » portò il dorso della mano destra dinanzi alla bocca, per nascondere un accenno di risata.
« Ehm » ritornò eretto e si spolverò gli abiti per essere più presentabile. « Io sono Josiah Wedgwood, l’umile ceramista che ha il compito di ritrarvi.»
« Lo so chi siete. » lo stupì con tali parole, ma non la interruppe. « Ho visto il vostro vasellame esposto in teche di cristallo in casa di nobili dell’elite londinese. Non ho potuto non pensare che foste un genio, anche perché erano così ben realizzate, curate fin nei minimi dettagli. Le figure disegnate sembrano vive e in grado di uscire fuori dal vaso. E poi quell’azzurro... » intrecciò le dita dinanzi al petto. « Non ho visto nessuno usare un colore simile per la ceramica. »
« Beh... la ringrazio, Miss. È... È fin troppo gentile. » le sue pupille si piazzarono sul pavimento, laddove sarebbe rimaste a lungo.
« Dico solo la verità. Avete un grandissimo talento, ve lo meritate davvero. »
« Se per questo, avrei anche un nome battesimo e vorrei che mi chiamaste così. Non occorre che mi diate del voi.»
« Talentuoso, modesto... ma credo anche piuttosto giovane. Le tue gote non mentono, arrossate alla vista di una donna. Quanti anni hai, dunque? » sembrava un interrogatorio, quasi avesse dovuto dare spiegazioni di un qualche reato.
Josiah aprì la bocca con l’intento di dire qualcosa che potesse scagionarlo, ovvero farlo sembrare molto più adulto di quello che era in verità. Ma ne uscirono sono singhiozzi e balbettii, che non aiutarono molto a dimostrare questa tesi.
« Diciotto, ma di donne ne ho visto ed amate già a decine. Non crediate che possa davvero arrossire come un fanciullino. Mi capita solo con le belle donne. »
« È un complimento? » domandò, spolverando un velo di cinismo.
« Dico solo la verità. » ricambiò la replica, sorridendo maliziosamente.
Anna lo osservò con occhietti vispi che parevano ammonirlo o scandagliarlo. Invece il suo sguardo divenne ridente e le labbra si piegarono di conseguenza, palesando la sua migliore espressione. La cute pallida acquistò una grande lucentezza e la tonalità delle sue iridi acquisì sfumature eleganti e dolcissime.
« Ci stiamo perdendo in chiacchiere. Forse dovremmo rendere proficuo questo nostro incontro. »
“Baciami, allora” volante, rapido, infido. Un pensiero.
« Tu, l’artista ed io, la modella, benché non sappia quanto possa reggere il confronto. »
« Quale modella migliore di voi per voi stessa? » mentre tesseva la domanda retorica, afferrò carta da disegno e matita.
La sua modella troneggiava su di un sedile di fronte al suo, composta, deliziosa, una vera matrona. Una donna da sposare, che qualcuno, in effetti, stava per sposare. Particolare che Josiah avrebbe fatto meglio a non dimenticare mai. Invece se lo dimenticò spesso. Troppo spesso. Le aveva chiesto di restare immobile e di non parlare, ma mentre abbozzava i tratti del volto, iniziò a provare nostalgia per la sua voce.
« Il vostro futuro sposo mi ha detto che vi piacciono i miei colori. In che senso “i miei”? I colori sono di tutti, non sono ad appannaggio di nessuno in particolare. »
C’era pochi argomenti che potessero inserire Josiah Wedgwood in una conversazione, ma erano altrettanto poche le persone con cui ne poteva parlare. A dire il vero, lei era la prima con cui riusciva a dialogare davvero, il tanto desiderato scambio di opinione che non gli era mai stato concesso. Erano solo comunicazioni a senso unico, a cui non poteva mai replicare. Invece lei lo ascoltava e sembrava davvero interessata al suo punto di vista.
« È vero, i colori ce li ha dati la natura, è stata lei ha crearli. Quando la luce colpisce un oggetto e ci restituisce la sua esteriorità, ci sentiamo tutti parte di un’unica prospettiva. E poi, chi vivrebbe in un mondo grigio? » musicali le sue parole, come parte di un componimento poetico.
« Ma anche il grigio è un colore, con la stessa dignità degli altri. » ricolme di vigore, passionalità. È il suo cuore che parla, come fosse l’avvocato del grigio. Ma lui era il legale di tutti i colori, indistintamente.
« Credo sia un gioco di sensazioni. Il grigio esprime malinconia, solitudine, tedio. » rabbuì il volto, quasi fosse entrato nel cuore quel grigio che odiava.
« E se fosse il colore di un corpetto? Non si tradurrebbe in sensualità? E se fosse la copertina di un libro, non sarebbe la saggezza. Niente è assoluto. La natura ci dà la materia prima, ma dobbiamo essere noi a lavorarla o non avrà mai valore. »
« Già. » lo interruppe « Non nego all’intelletto il ruolo di dirigente primo, ma se non ci fossero le mani a realizzare e mettere in pratica ciò che gli viene comandato, non esisterebbe una sola cosa in questo mondo. Giusto? Segui il corpo e non lo spirito. Allora le mie poesie? Sono frutto della mia mente. »
Si sorprese della sua impeccabile memoria, le era bastata una sola lettura per potergli penetrare le idee, la filosofia, la teoria, anche se quello non era trattato, ma puri pensieri di un uomo che vuole dimostrare di saper pensare. Posò momentaneamente i suoi “attrezzi ” e si avvicinò ad Anna. Le prese entrambe le mani e carezzandole disse:
« Le vostre dita hanno sorretto la piuma, si sono macchiate dell’inchiostro, si sono strofinate contro la carta. Non disprezzare le vostre mani. » le strinse tra le sue e se le passò sul viso. « L’ho notato solo adesso: ma i vostri occhi... » accorciò le distanze tra i loro nasi « Sono dello stesso colore della mia ceramica. Color Wedgwood.»
« Color Wedgwood?! Avverto una certa presunzione. Non avevi forse detto che è la natura a creare i colori e che non sono ad appannaggio di nessuno? Ed ora ti vanti, dando il tuo nome ad un colore? »
« Sì, ma la natura mi ha dato il bianco ed il blu, non l’azzurro. Io creo e sono al servizio degli altri. Non tengo per me ciò che realizzo, ma lo condivido. D’ora in poi questo azzurro » indicò un vaso lì nei pressi « verrà presentato dai pittori come la sfumatura del cielo quando il sole rigonfia di luce propria o delle intime profondità di una splendida poetessa, che si fa commissionare un cameo da un povero e semplice “fanciullo” che arrossisce alla sua vista. In altre parole: color Wedgwood. »
« Non sarà forse un tentativo subdolo per rubarmi il mestiere? » allungò il collo verso di lui.
« È tentativo, spero non subdolo, per rubarvi un bacio. »
« Perché continui a darmi del voi, quando il tuo cuore mi chiama per nome? Anch’io ho un nome... »
« Miss Aikin, io... » due polpastrelli si posarono sulla sua bocca, trascinando il labbro inferiore con sé.
« Anna. Ripetilo. Anna. » custodì i suoi occhi tra le palpebre e , mentre le sue labbra si assottigliavano, inclinò il capo verso destra per trovare il giusto incastro con quelle di Josiah, perché era nate per questo, lo sapeva. Ed in ogni caso avrebbe fatto in modo che lo fossero.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3


Now the moonbeam's trembling lustre
silvers o'er the dewy green,
and in soft and shadowy colours
sweetly paints the chequered scene.
*

« Anna! Anna! » sferzante di nuova energia, la sua voce si espandeva nel tratto di strada antistante lo studio.
La sua femminea sagoma si voltò al suo indirizzo, elegantemente, reggendo tra le mani un delizioso ombrellino da sole. A passi minuti, si affiancò al giovane.
« Mr. Wedgwood, come mai tanta foga? Ch’accade? » cordiale nel tono, perfino troppo disponibile e distaccata. Una doccia d’acqua gelida che si riversò sulla testa di Josiah.
« Come mai queste formalità? Non le avevamo già accantonate?»
Sul viso di Anna apparve una risata che dilaniò la posa da fanciulla immacolata.
« Mr. Wedgwood siete davvero divertente. Se vi sentisse il mio fidanzato, potrebbe perfino essere geloso di voi.»
« Credo che ne avrebbe tutti i motivi... » affermò, dipingendosi le iridi castane di malizia.
« Non è un uomo così all’antica da essere geloso solo per aver posato per un’artista... Ma comunque sia, è pronta la vostra opera.»
« Sì... sì è pronta, era venuto a fartela vedere. Ci ho lavorato tutta la mattina perché fosse pronta per tempo. » con il palmo destro massaggiò la nuca e le prime vertebre. La trascinò all’interno, strattonandola. « Eccolo.» Dal borsello che portava lungo il fianco, estrasse un piccola scatolina azzurra - color Wedgwood - che allungò verso la donna.
Le sue dita affusolate l’accolsero per poi delicatamente sollevarne il coperchio. Cullato da morbido velluto blu notte, giaceva il prodotto del suo lavoro, il risultato finale di tanta passione e di macchie di vernice sui vestiti. Passò la punta del polpastrello sulla superficie liscia per contornare la bianca sagoma che vi era impressa.
« Vi ringrazio. È splendido. Il mio fidanzato provvederà a darvi il compenso pattuito. » benché non fosse stato pattuito alcun compenso, ma questo la ragazza non lo sapeva.
« In realtà » le afferrò il polso « È un altro il compenso che preferirei. »
« Non vi seguo... » inclinò il capo e l’ombrello assecondò questo movimento.
« Smettila di fare l’ingenua! » gridò, spazientito. « Quello che è successo ieri per te non ha alcun valore? Perché sposare quell’uomo borioso e schiavista? Tu non sei come lui, non rovinarti la vita. Non commettere un errore di cui potresti pentirtene. Io... » le strinse le braccia. « Io ti amo, Anna. Ne sono certo, non mi posso sbagliare. »
« Aspetta, aspetta. Mi stai chiedendo di lasciare tutto ciò che ho guadagnato con fatica e sudore, un posto altolocato, una casa di tutto rispetto, un marito prestigioso, la possibilità di vivere una vita ricca di agi e comodità, per seguire uno stupido ragazzino idealista, che si è innamorato di me dopo una notte passata assieme, che non ha nulla da offrirmi se non una bettola, dove tessere discussioni inutili sui colori? È questo che mi stai dicendo? » spalancò la bocca quando nessun fiato da parte del ragazzo smentì quanto aveva detto.
« È assurdo... » scosse il capo, fissando il soffitto.
« Te la darò io una lezione di vita: ho sedici anni, sono stata trattata come un essere inutile per tutta la vita e, per quanto fossi intelligente e capace, nessuno si accorgeva di me. Allora mi sono rimboccata le maniche e le sottane e ho cercato un modo per venir fuori da quella situazione. Finalmente ci sono riuscita, mio fratello ha scoperto che il signor Barbauld è interessato a me, anche se dubito per le mie doti poetiche. Ma sai una cosa? Non mi interessa affatto, perché grazie ai suoi soldi potrò pubblicare tutto ciò che scrivo e finché questo ventre » si diede alcuni colpetti sull’addome « continuerà a sfornare infanti, non avrò un solo problema. Svegliati, giovincello. È così che va avanti il mondo, io l’ho già capito. Tu quando ti rassegnerai? » a passi sfrontati si avvicinò a lui, lo prese sotto braccio e gli accarezzò una guancia
« Però devo ammettere che sei stato utile, tesorino. Senza il tuo vigore passionale, non potrei presentare il “legittimo” erede al mio sposo, che ora non potrà più tirarsi indietro. Grazie. » e gli stampò un paio di labbra sotto gli zigomi.
«Allora tutte quelle smancerie, quei modi raffinati, la poesia... era tutta una menzogna.»
«La poesia! Ah! Solo tu potevi farti prendere da certi infantilismi. La poesia è un modo come un altro per guadagnare. C’è chi lavora con il carbone, chi sforna il pane. Io macchio fogli e fogli d’inchiostro e li vendo. Credi davvero che la poesia sia uno stile di vita, eh? Sei patetico. Come è patetico è il tuo mondo. Guardati attorno.» allargò le braccia per comprendere tutta la stanza « È un altarino che ti sei auto dedicato. Color Wedgwood eh? Il colore dei miei occhi?» sbatté le ciglia per sottolineare il sarcasmo.
« E’ solo azzurro, Josiah. Misero, inutile, comune azzurro. Puoi chiamarlo come vuoi, ma resterà sempre quello che è. Un banale colore per un banale sognatore. » Si fermò al centro dello studio e si riassettò le vesti che si era scombussolate a causa della sua foga argomentativa.
« Vi saluto, Mr. Wedgwood. Addio. » Gli donò le spalle e si appropinquò all’uscio, ancheggiando.
« Se foste una donna vi augurerei di trovare un buon partito. Dato che non lo siete, posso solo dirvi: abbiate cura di voi. »
“L’uomo, la nostra specie, si distingue per l’uso delle mani.” “Sono le nostre capacità di render malleabile e duttile, plasmabile ed utile la materia a proclamarci padroni del mondo.” “Nemmeno i sentimenti, se non fossimo vogliosi di abbracciare od uccidere rispettivamente chi amiamo e odiamo.”
La mente di Josiah era naufragata in altri mari. Nessuno l’avrebbe tratto in salvo da quell’isola deserta su cui era approdato, trascinato dalla tempesta dell’irrazionalità, della paura, della delusione che si tramuta in ira e follia. Vedeva la sua schiena andare via da quel luogo e da lui. Percepiva già il vuoto della sua assenza e non avrebbe potuto vivere con quel macigno. Così corse, corse rapido, una scheggia. Le braccia che ciondolavano lungo i fianchi ed il respiro che s’affannava. La colse alla sprovvista e si avvinghiò a lei, cingendolo di spalle. Posò il mento sulla sua spalla, le scostò la chioma castana per donarle uno schiocco di labbra nell’insenatura delle scapole.
« Se foste una donna virtuosa, vi augurerei ogni felicità. » Eco metallico. « Dato che non lo siete, posso solo dirvi: muori sgualdrina.» Una lama penetrò da parte a parte le sue costole. Il sangue sembrava vernice o magari lo era davvero, perché il viso di Josiah si stese, era sollevato e gaudente.
Il cadavere di Anna fu trovato riverso di una pozza di sgargiante liquido rosso e circondato dai vasi del ceramista, quasi volesse mettergli in mostra, anche dopo la morte. Il cameo era ancora stretto tra le sue mani. Riuscirono a strapparglielo di mano e a conservarlo nel modo migliore possibile, pulendolo dagli schizzi scarlatti. Ma non tutti sono stati cancellati...

L’uomo distrugge ciò che ha creato.
Per questo, nonostante mi ritrovi a raccogliere i cocci della mia lucidità, continuo a pensare che quello fosse amore e questo sia color wedgwood. E che le due cose coincidano.
Perché li ho creati io, con le mie mani, come la mia condanna a morte.
Questa è la mia storia. Ciò che si dirà, è leggenda.

- Josiah Wedgwood, cella 311 -


[*] : tratto da una poesia di Barbauld (tradotta da me, spero di non aver fatto errori)

“Ora la luce tremolante del raggio di luna
colora d’argento i prati verdi e
con colori chiari e scuri
dipinge dolcemente la scena a scacchi.”
[ un modo eccentrico per dire: “passata la notte...” xD ]

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