In punta di piedi

di _Krzyz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. La Porta della Cantina ***
Capitolo 3: *** 2. All'Incrocio ***
Capitolo 4: *** 3. Incandescenza ***
Capitolo 5: *** 4. La Fame ***
Capitolo 6: *** 5. Allinearsi ***
Capitolo 7: *** 6. I sogni ***



Capitolo 1
*** 0. Prologo ***


Tiptoe – [sost.] in punta di piedi , [verbo] camminare sulle punte
 

Prologo

 
Ogni persona ha dei segreti.

Ci sono migliaia di uomini nel mondo e ognuno si porta sulle spalle la sua quantità di scheletri polverosi. Ricordi trasparenti che nessuno vede, che nessuno sente, pesanti come rocce sulla spina dorsale di quello che non è nulla di più che un essere umano. Parti di vite nascoste, bene o male che sia.
Nessuno si salva, nessuno è migliore.  Che siano invincibili o miserabili, si chiudono dietro centinaia di porte, seppellendo le loro chiavi in una bara di costole. Alcuni vogliono dimenticare, altri cercano di non farlo, altri ancora vivono in funzione di essi.
Ci sono segreti orribili, fatti di sangue e lacrime; ci sono ricordi bellissimi, che parlano di amore e di pace; altri ancora sono bizzarri o inquietanti o tristi o gioiosi. Non ha importanza. Sono tutti accomunati dal fatto di essere stati chiusi.
Abbiamo tante serrature senza chiavi. Abbiamo una ragazza dalla forza adamantina, un ragazzo di acciaio, una madre, un padre, di cui sappiamo la storia. Ma ci sono mille altre anime la fuori. E c’è guerra, c’è amore, c’è sofferenza, c’è speranza. Abbiamo tante storie diverse, raccontate sottovoce, in punta di piedi, per lasciarle relegate nella testa e nel cuore di coloro a cui appartengono.

Ogni persona ha i suoi segreti .
Ogni segreto inizia con una parola.

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IL KACTUS DI KRZYZ

Beh, è la prima fanfiction che pubblico su Divergent, sebbene conosca la serie di libri da parecchio tempo. E , si, questo prologo non dice un granchè, ma è una storia che parla di segreti , se spoilerassi tutto nel prologo chi la leggerebbe? :D
Le pubblicazioni avranno cadenza settimanale o bisettimanale, a seconda degli impegni che ho! 
Spero vi abbia incuriosito almeno un pochino! Alla settimana prossima con il primo capitolo...

Saluti dal Kactus!
_Krzyz

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Capitolo 2
*** 1. La Porta della Cantina ***


Cellar Door – [letteralmente] la porta della cantina [espr.] dal 1903 considerata
a livello estetico la più bella espressione della lingua inglese


La Porta della Cantina 


Quante cose si possono nascondere dietro la porta della cantina. Qualcuno ci mette dentro vecchi mobili, oramai antiquati e tarlati; qualcun altro ci mette le marmellate, le conserve, il vino a decantare; altri ancora ci mettono i vestiti dei bambini che sono cresciuti, lasciando le piccole magliette a impolverarsi. Dietro la porta della cantina della casa di Peter però non c’era nessuna di queste cose.

Sua madre, prima di decidere che la verità era da preferire ad ogni altra cosa, era stata un’Abnegante. Era una donna severa, che perseguiva strenuamente le proprie convinzioni ed educava il figlio in maniera austera. Fin da quando era piccolo Peter era stato abituato a non disobbedire mai agli ordini dei genitori, e fra questi vi era il divieto assoluto di entrare in alcune zone della casa. La prima zona era la lavanderia, poiché si sarebbe potuto fare male toccando l’asciugatrice bollente o rovesciandosi addosso prodotti chimici per la pulizia domestica. La seconda zona era lo studio del padre, ricolmo di pratiche burocratiche estremamente importanti che avrebbe potuto danneggiare giocando o disegnandoci sopra. La terza zona era la cantina. La mamma non voleva che ci entrasse perché diceva che avrebbe potuto scivolare sui gradini ripidi, o si sarebbe potuto chiudere dentro per sbaglio. A Peter questa motivazione era sempre sembrata poco esauriente: lui era un ragazzino molto curioso, dirgli che non poteva fare qualcosa perché non poteva e basta gli dava fastidio. Avrebbe voluto guardare oltre la porta per vedere quali cose strane avrebbe potuto trovare, voleva scoprire cosa c’era di tanto speciale nella cantina. Tuttavia, Peter aveva sempre rispettato le regole dettate dai suoi genitori, senza trasgredire nemmeno una volta, per timore o per pigrizia. Fino alla primavera dei suoi nove anni.
Era tornato  da scuola, i suoi genitori non erano in casa. Era una cosa molto comune, assorbiti com’erano dal loro lavoro di rado si facevano trovare a tavola per l’ora di pranzo. Fuori c’era il sole e non era troppo caldo, ma lui non aveva voglia di scendere a giocare con gli altri bambini Candidi. Per un po’ guardò la televisione, poi si spostò  in terrazzo con gli occhiali da lettura di sua madre, divertendosi a bruciare le formiche. Un raggio di sole canalizzato attraverso quei piccoli pezzi di vetro diventava così potente da poter carbonizzare un esserino nel giro di pochi secondi. Era questo che facevano i desideri: in un attimo bruciavano tutti i limiti che venivano imposti, ogni divieto, ogni briciola di buon senso. E Peter quel giorno desiderava aprire la porta della cantina. Scese i gradini calibrando ogni singolo passo, per evitare di cadere; li contò tutti, erano tredici.  Eccola li, di fronte a lui, bianca come tutte le altre porte della sua casa, di legno laccato con la maniglia in acciaio lucido. Girò la chiave nella toppa, mentre un fremito gli correva lungo la schiena.
Dietro la porta della cantina non c’era niente. Un parallelepipedo di cemento leggermente interrato con due lampadine che pendevano dal soffitto, questa era la cantina della casa di Peter. Nessun cimelio di epoche passate, nessuno scatolone da aprire, nemmeno le vecchie pratiche del signor Hayes, nulla. Era vuota, perché i suoi genitori non avevano nulla da nascondere. Le scarpe del ragazzino lasciavano una scia di impronte nella polvere, sollevando una nuvoletta ad ogni passo.  Non c’era nulla da nascondere  nella cantina. Allora perché non iniziare da li?

Peter non aveva la stoffa dei Candidi, perché non disse mai ai suoi genitori della cantina. Ma piano piano dietro quella porta il vuoto iniziò a colmarsi. Il giorno dopo Peter portò la dei fogli, una scatola di pastelli colorati e un giocattolo di peluche. Passava il tempo la, disegnava, giocava da solo nel suo posto speciale, uscendo pochi minuti prima che i suoi genitori rientrassero in casa. Diceva di aver fatto i compiti, di aver letto qualche libro quando in realtà aveva passato le ore a muovere la polvere nel seminterrato. Il giorno dopo ancora portò la una macchinina giocattolo e un pallone; dopo toccò a due libri. E a dei dadi, a un trenino di legno. E via così, più il tempo passava più erano le cose che Peter portava là sotto.
Iniziò a nascondere le chiavi. Disobbedire ai suoi genitori divenne una cosa ordinaria, imparò a mentire molto in fretta. I giorni diventavano mesi, i mesi anni, e le cose nascoste dietro la porta della cantina divennero sempre di più.
Nascose dietro la porta dei proiettili che aveva trovato per terra, forse residui di un’esercitazione degli Intrepidi, quando la guerra era ancora un gioco.
Nascose dietro la porta un test andato male a scuola, perché i suoi genitori non dovevano saperne niente.
Nascose dietro la porta la sua prima cotta, e non la fece mai uscire da li. Capelli morbidi e lunghi, capelli fra i quali le sue dita non sarebbero mai passate, capelli che non avrebbe mai accarezzato.
Nascose dietro la porta un sacco da allenamento che gli Intrepidi avevano gettato in un cassonetto e che lui aveva preso per allenarsi.
Nascose dietro la porta le lacrime e la rabbia che portava dentro, rompendosi le nocche contro le pareti grigie, mentre fuori la pioggia non cessava e i lampi che scuotevano i bicchieri nelle case degli altri rimbombavano a vuoto nel suo cuore
E nascose dietro la porta tante altre cose, tanti oggetti, tante emozioni, uscendo esattamente com’era entrato. Prima giocattoli, poi cosine che aveva trovato per terra o che aveva rubacchiato di qua e di la, oggetti presi in prestito e mai restituiti, sassi colorati, pezzi metallici dalla forma strana , ossa.

L’ultimo giorno in cui Peter varcò la soglia della cantina fu il giorno prima della Cerimonia della Scelta, i  capelli scuri non ancora pettinati, gli occhi verdi stanchi, desiderosi di sonno. Si guardò intorno , circospetto: come al solito sua madre e suo padre non erano in casa. Scese i tredici gradini velocemente ed entrò senza emettere un suono.  Nel parallelepipedo di cemento ora c’erano i ricordi di una vita, ammassati gli uni sugli altri, infilati in scatoloni o barattoli vuoti di marmellata. Si sedette la, al centro della stanza, in silenzio, senza pensare a niente . Eccola la, davanti a lui la sua vita si stagliava prepotente sotto forma di una collezione sconclusionata che un bambino un po’ annoiato aveva iniziato sette anni prima violando una regola. E per cosa? Per un capriccio, un desiderio, la voglia di non passare il tempo come gli altri . Lui sapeva che non sarebbe più tornato la dentro. Sapeva che , una volta chiusa, la porta della cantina sarebbe rimasta sigillata, che nessuno l’avrebbe mai aperta. Chiusa come una bara, immobile. La polvere avrebbe nascosto tutto, così come il tempo. Non era un Candido, per quanto se ne vantasse, i Candidi non hanno nulla da nascondere.
Uscì.
 
Quell’ultimo giorno, Peter nascose dietro la porta della cantina tre cose.
La prima era la chiave, in modo tale che nessuno potesse più accedervi.
La seconda erano gli occhiali da lettura di sua madre, con cui aveva bruciato le formiche tanto tempo prima.
La terza era qualcosa di impalpabile, una perdita delicata che aleggiava nell’aria come una ragnatela, densa come nebbia eppure invisibile. Non ne avrebbe avuto bisogno, non ne aveva bisogno, perché in realtà era stata persa molto tempo prima. Non voleva che il suo cuore battesse per amore, nè per paura, erano cose da deboli, e le parole che definiscono i sentimenti mancano di obbiettività. Seppellì in quella stanza dai muri grigi tutta la sua umanità.

E dietro le spalle del ragazzo si chiuse, un’ultima volta , la porta della cantina.  

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IL KACTUS DI KRZYZ

Beh, eccoci qua con il primo capitolo di questa raccolta! Che dire, spero sinceramente che vi sia piaciuto (chiedo scusa a tutte le fan di Peter per l'OOC D:). Questo capitolo può darvi un'idea sull'impostazione delle storie: come vedete, ogni storia si basa su una parola inglese che ho tradotto con l'aiuto del buon vecchio dizionario, che mi ha colpito per come suona, o per i suoi molteplici significati. Questa parola può essere il tema centrale della storia, oppure un mezzo, o ancora qualcosa di marginale e contemporaneamente estremamente importante. Le One-shot raccontano stralci di vite passate che nascondono dei segreti. 
DISCLAIMER! In questa raccolta non verranno inserite storie su Tris o Quattro semplicemente perchè hanno una tre l'altro un libro all'attivo per poterli conoscere abbastanza bene. Io voglio dare una storia a quelli che una storia non ce l'hanno! :)
Grazie mille per aver trovato il tempo di leggere questa cosa oscena storia! :D
Saluti dal Kactus!
_Krzyz :D

 

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Capitolo 3
*** 2. All'Incrocio ***


                                                          Cross – [verbo] attraversare , varcare, incrociare  [sost.] croce, incrocio
[agg.] trasversale, di cattivo umore

 
All'Incrocio


Un incrocio è un’intersezione di più strade, solitamente dotato di semafori, molto comune in qualsiasi città. La casa di Lynn era però l’unica casa abitata che si trovava all’incrocio fra la Franklin e la Roosevelt. Il resto degli edifici costruiti in quella zona erano ormai ridotti a scheletri di cemento, ferro e vetro, alle pareti dei quali erano state installate delle microturbine per la produzione di energia elettrica. Non era male, la sua casa. Suo nonno l’aveva ristrutturata partendo da un vecchio condominio di tre piani, insolitamente basso rispetto all’altezza vertiginosa dei grattacieli morti che la circondavano. A Lynn la sua casa piaceva. La sua famiglia occupava solo il terzo piano, gli altri due erano vecchi appartamenti lasciati a cadere su loro stessi, ad accartocciare l’intonaco come foglie. Quand’era bambina le piaceva molto passare il tempo in quei gusci di mattoni, senza più vetri alle finestre, senza mobili, senza porte. Gli Esclusi non ci entravano, nelle costruzioni di quella zona, perché era in pieno territorio Intrepido, e solitamente agli Intrepidi gli Esclusi non vanno molto a genio. Aveva due piani tutti per lei, in cui giocava ogni giorno a qualcosa di diverso. A volte lei e i suoi fratelli diventavano quelli che in passato venivano chiamati “pirati”, altre volte imitavano i più grandi, altre volte ancora diventavano agenti segreti in missione. Un giorno lei e sua sorella Shauna avevano truccato il piccolo Hector da principessa e giocavano a salvarlo a turno; fu un duro colpo per la loro mamma vedere come l’avevano conciato quelle due piccole pesti!
Il punto più vicino in cui arrivava il treno era a circa venti minuti a piedi da dove abitava lei. Ogni mattina da quando se lo ricordava si alzava, faceva una colazione veloce e correva fino a quello che in tempi passati era un capannone industriale, attraversando l’incrocio vuoto, dai semafori spenti. Si arrampicava con facilità su una scala a pioli arrugginita ed instabile e aspettava che il mezzo passasse, accompagnata solo dal rumore del vento che fischiava fra i resti metallici di vite passate. Era la prassi, ogni mattina la solita solfa. Lynn era piuttosto schiva, non le piaceva più di tanto stare a vedere i piccoli Intrepidi che giocavano a fare i grandi Intrepidi. Preferiva starsene un po’ sulle sue , a immaginare storie, a vagabondare per il giardinetto che circondava la scuola. Anche se il suo corpicino ossuto era li, la mente di Lynn era sempre da un’altra parte.

Il tempo passava, così ben presto le elementari finirono. A dodici anni Lynn doveva passare nel posto dove avrebbe trascorso buona parte della sua adolescenza, le medie. Il primo giorno di scuola Lynn si svegliò come al solito, salutò i suoi genitori, Shauna ed Hector e si avviò verso il treno. Era un giorno di settembre dalla temperatura né troppo fredda né troppo calda. Il sole era coperto da una cortina di nubi arzigogolate, che non portavano pioggia. Una giornata anonima, neutra, che si prospettava decisamente priva di avvenimenti di rilievo. “Oggi cambierà tutto per te!” le aveva detto sua mamma prima che lei uscisse, ma a quanto pareva il mondo quel giorno era restio ai cambiamenti. La polvere degli edifici cadenti ricopriva i lati dei marciapiedi, ricoprendo le erbacce di una neve grigia e artificiale. Come ogni volta, per arrivare al treno, doveva attraversare l’incrocio deserto. Sembrava tutto identico: i pali arrugginiti, i semafori eternamente spenti, le strisce pedonali scolorite, ogni cosa era al suo posto. Ogni cosa tranne una.
Si, perché dall’altro lato dell’incrocio stamattina c’era una cosa che il giorno prima non c’era. Gli occhi metallici di Lynn osservavano interrogativi la scena, correndo invisibili sul cemento. Un ragazzo e una ragazza, che lei non aveva mai visto da quelle parti, stavano camminando parlottando verso il treno. E’ strano come una singola cosa fuori posto risalti nella monotonia, come quelle due figure abbiano catalizzato tutta l’attenzione della ragazzina. Cosa ci facevano li? Dove abitavano? Chi erano? Domande si scavalcavano a vicenda nella sua testa, cercando una spiegazione quantomeno logica per la presenza di due estranei ad un incrocio dove le uniche impronte che venivano lasciate sul cemento erano le sue.  Iniziò a seguirli pazientemente , come un fantasma inquieto, senza che i due se ne accorgessero. Li vide salire sulla stessa scala a pioli su cui saliva da sola ogni mattina, li vide prendere il treno con lei, li vide scendere davanti la scuola dove lei andava. Una bellissima ragazza dai capelli biondi e un ragazzo alto dalla pelle scura. Li continuò a seguire finchè non entrarono in una classe. La sua. All’appello loro risposero ai nomi di Uriah e Marlene, e lei non rispose quando la chiamarono.
Durante le pause Lynn non se ne andava più come al solito, se ne stava la, ad osservare quelle due figure meravigliose, sempre insieme. E ogni volta che incrociava i loro occhi il suo cuore perdeva un battito . La curiosità dovrebbe essere una colpa, la curiosità è pericolosa, ma alla ragazzina non importava. C’era qualcosa, qualcosa che le impediva di staccare gli occhi dai corpi dei ragazzi, qualcosa che le faceva bruciare lo stomaco. Tornando non smise un attimo di osservarli, scese dal treno senza fare alcun rumore, come un gatto. E all’incrocio li vide svoltare a sinistra , mentre lei proseguiva dritta tornando verso casa.
Quella notte non riuscì a chiudere occhio. C’era quella cosa, quella cosa che sentiva crescere come una fiamma dentro di lei, quella cosa che aveva fatto diventare quei due ragazzini un chiodo piantato nel suo cranio, che le impediva di dormire. E il giorno dopo uguale al precedente, e quello dopo ancora lo stesso. Lynn divenne la loro ombra, li seguiva in silenzio, come uno spirito affamato, desideroso. 

Una settimana dopo, Lynn si svegliò e aspettò i due ragazzi all’incrocio. Ma dalla sinistra non arrivò nessuno, di nuovo le orme che solcavano i marciapiedi dissestati fra la Franklin e la Roosevelt erano di nuovo solo le sue. Si avviò verso il treno con uno strano vuoto nel cuore , con nulla da seguire davanti a se. Saltò nei vagoni in silenzio, come faceva di solito, con la esta da un’altra parte. E poco prima di scendere qualcuno le toccò la spalla, chiedendole come si chiamava. E voltandosi vide i due ragazzi che la fissavano sorridenti, e la cosa che aveva dento iniziò ad ardere come il Sole , potente come mille titani. Rispose con voce bassa, e li seguì quando loro le chiesero se voleva andare con loro.
Scoprì che loro vivevano nella parte alta della città , che facevano a piedi tutta la Roosevelt per rilassarsi un po’ , e perché a loro piaceva la vecchia area della città, dove si respirava calce e passato, dove viveva solo la famiglia di Lynn, perché sapeva di avventura. Iniziarono a sedersi in banco insieme, a uscire il pomeriggio, a girovagare sui tetti della città come una banda di teppisti. Più il tempo passava e più il legame fra i tre si rafforzava. Erano una cosa sola, Uriah , Lynn e Marlene. Tutto quello che facevano lo facevano insieme, ridevano e scherzavano, vivevano una vita in tre. C’erano sempre l’uno per l’altro, e rimasero tutti insieme fino alla fine. E ognuno sapeva tutto degli altri.

Ma non sapevano una cosa di Lynn.
Non sapevano che, quando quella mattina di tanti anni prima all’incrocio avevano innescato una cosa nel cuore di quella curiosa ragazzina dagli occhi metallici.
Una cosa che negli anni non si spense mai, mai fino alla fine.
Una cosa che si rese conto, aveva scatenato uno dei due in particolare.
Una cosa, crudele e bellissima, che se vuole pazienta, che se vuole divora.

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IL KACTUS DI KRZYZ

Eccomi qua, come promesso, con il nuovo capitolo di questa raccolta! Innanzitutto mi è di dovere ringraziare  la fantastica Kaithlyn24 per le sue gentili recensioni e i tre (di cui non ricordo i nomi, sorry D:) che hanno inserito questa storia fra le seguite! Allora, come vi sembra questa Lynn? Il capitolo ha soddisfatto le vostre aspettative? :)
Alla settimana prossima!
Saluti dal Kactus!
_Krzyz :) 

 

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Capitolo 4
*** 3. Incandescenza ***


Incandescence – [sost] incandescenza, luce prodotta da alte temperature
[espr.] forza interiore


 
Incandescenza


Le lampadine a incandescenza che illuminavano la camera di Al sfarfallavano ad ogni sbalzo di tensione. Fuori una tempesta come non se ne vedevano da anni infuriava, la pioggia batteva come migliaia di dita sulle vetrate linde della casa. Di uscire non se ne parlava neanche, nemmeno per riportare in casa le camicie bianche che sua madre aveva steso ad asciugare quella mattina. Era assurdo. In un’ora o poco più il tempo era cambiato dal soleggiato al plumbeo, rovesciando secchiate pesanti sulla terra arida. Il ragazzo si stava annoiando terribilmente, tutti i dispositivi elettronici della casa erano completamente andati e in quel posto non c’era molto da fare. Avrebbe voluto chiedere consiglio agli altri ragazzi Candidi, quelli più grandi di lui, per sapere qualcosa di più riguardo al test attitudinale. Lo avrebbe affrontato il giorno successivo, e ora era bloccato in casa senza sapere che pesci pigliare.
Albert era il ragazzo più alto e massiccio del suo anno. Superava di una buona spanna i coetanei ed era fisicamente forte come un toro. Ma tutto questo era inutile, perché anche in una fortezza di granito ci sono delle crepe. E Al aveva paura. Da quando era in grado di ricordarselo aveva paura. Paura dei tuoni, paura degli spazi angusti, paura di soffocare, paura del buio, paura dei ragni… la sua lista di fobie si srotolava per kilometri nella sua possente gabbia toracica, rivelando un cuore buono e fragile come carta di riso.  Agli altri incuteva timore, forse per la sua stazza, forse per il fatto che a sedici anni già si faceva la barba. E la gente lo guardava e non sapeva che il primo ad avere paura era lui.
I suoi fratelli maggiori erano tutti rimasti nella fazione d’origine. Essere Candidi per loro era facile, dovevano solo fare tutto quello che avevano fatto fino a quel momento, e dire ogni singola cosa che gli balzava in testa non era un problema. Ma se Al avesse detto davvero tutto quello che pensava, tutto ciò che provava, cosa avrebbe concluso? Sarebbe solo, isolato, deriso per la sua vigliaccheria; era un fifone e ne era consapevole, tutto iniziava e finiva li. Aveva digrignato i denti infinite volte di fronte allo specchio, guardandosi e odiandosi in un circolo infinito che feriva come coltelli ,ma senza un rivolo di sangue. Era stufo di essere Albert, quello teme anche la sua ombra.
La pioggia non cessava, non smetteva di schiantarsi con fragore neppure un momento, nemmeno quando spense le sfarfallanti luci a incandescenza, installate più per stile che per comodità. Decise di andare a letto. Si alzò dalla poltrona e si arrotolò nelle lenzuola, quasi stesse cercando la protezione che solo i sogni sanno dare. Ci mise un bel po’ ad assopirsi, i tuoni facevano tremare l’intelaiatura bianca, trasmettendo le vibrazioni fino alle molle del materasso. Cosa avrebbe fatto se il test gli avesse detto di andarsene dalla sua fazione?  Sarebbe rimasto nei Candidi e avrebbe vissuto come aveva fatto finora ma senza sentirsi mai al posto giusto, probabilmente, perché non aveva abbastanza coraggio per cambiare. E se gli avesse detto  di restare, in quel caso che avrebbe fatto? Centinaia di domande sbattevano prepotenti contro la sua scatola cranica, implorando una risposta. Quando chiuse finalmente gli occhi sognò di volare.
La mattina seguente Al era troppo nervoso per fare colazione, quindi si limitò a vestirsi e a uscire di casa. Camminò velocemente fino al centro  dove l’avrebbero sottoposto al test e si mise educatamente in fila con gli altri Candidi, senza pensare a niente. Attorno a lui mille voci risuonavano chiedendosi a vicenda che fazione avrebbero preferito o discutendo la veridicità dei risultati del test, ma lui non era in grado di sentire nulla. Era terrorizzato e stava cercando in tutti i modi di sembrare calmo e distaccato. Si vergognava. Com’era possibile essere così codardi , così vergognosamente timorosi? Non si accorgeva dello scorrere del tempo, assorto com’era nei suoi pensieri, del progressivo diminuirsi della coda di ragazzi di fronte a lui. Da una delle porte del centro un’Abnegante si sporse chiamando il suo nome, ed Al entrò tremando nella stanza.
 
Il pomeriggio si ritrovò a casa da solo, esattamente come il giorno prima, a guardare la pioggia che si abbatteva sulle grandi vetrate. Ma non era una tempesta devastante come quella del giorno, era sì intensa ma non distruttiva. La televisione era spenta perché non aveva voglia di accenderla. Non c’era un rumore, se non il ticchettio delle gocce. Al era seduto sulla chaise-longue in pelle nera, osservava gli arzigogoli che l’acqua che scorreva formava sul vetro. Non riusciva a pensare a nulla che non fosse il risultato del test attitudinale. Un risultato scontato dopotutto.
Candidi.
Eppure perché gli faceva così male? Era la via facile, si sarebbe limitato a continuare a vivere come aveva fatto per sedici anni, senza però essere mai sincero una volta soltanto. Onesto a dirsi ma mai del tutto. Aveva avuto solo l’ulteriore conferma che gli diceva di starsene al suo posto. Allora cos’era quel macigno che ti stava schiacciando il petto, che non ti faceva respirare, Al? Era il tuo cuore, il tuo cuore che batteva violento contro la bara di costole in cui era stato seppellito, il tuo cuore buono e stanco di vivere incatenato dal terrore, dai chiodi che ti eri piantato in testa da solo.
Al non voleva più essere il ragazzo che sobbalzava  ad ogni ombra, che faceva fatica ad addormentarsi, che la gente credeva di conoscere, che lo guardava senza vederlo. E poi una cosa, una cosa quasi ridicola, che gli si accende in testa, come una di quelle lampadine a incandescenza che pendono dal soffitto più per bellezza che per utilità. Ed era come uno di quei piccoli bulbi di vetro che voleva essere:  voleva bruciare, bruciare fino a brillare. Voleva provare al mondo e a se stesso che era coraggioso, forte, che non aveva paura di niente. Non se n’era reso conto, ma per la prima volta dopo tanto tempo aveva preso una decisione senza vacillare nelle sue convinzioni, nemmeno per un secondo.
Ed è per questo motivo che, quando lo chiamarono alla Cerimonia della Scelta, lui afferrò il coltello e, senza esitazione, se lo passò sulla carne.
E’ per questo motivo che fece colare il suo sangue sui carboni ardenti, vedendolo evaporare come toccò la superficie calda e nera.
È per questo motivo che, sebbene gli tremassero le gambe, saltò sul treno.
Ma il cuore era sempre quello. Grande, e buono, forse troppo buono. Troppo buono per un luogo dove semini ematomi sui corpi di avversari più piccoli di te, o di sesso opposto, o deboli. Troppo buono per un luogo dove tutto quello che devi fare è diventare una macchina di tendini e muscoli, dove non è concessa l’umanità.
Perché Al voleva essere coraggioso, voleva brillare, voleva essere incandescente.

Ma c’era una luce che brillava più di lui, che lo attirava come i lampioni attirano le falene, sbattendovi contro.
E un giorno, un Diavolo gli aveva sussurrato all’orecchio. E, con parole suadenti, gli aveva detto che non sarebbe potuto bruciare a lungo, perché lui era un fuocherello e un fuocherello è nulla di fronte ad un incendio.  E Al ha avuto paura, riemersa dove l’aveva seppellita tanto tempo prima.
E ha provato a spegnere un fuoco amico, un fuoco che si fidava.
E ora non brilla più, perché era troppo buono per un posto così. E ora il suo cadavere è in fondo al Pozzo, la colonna vertebrale quasi disintegrata, e nulla in corpo, se non una flebile fiamma, se non il coraggio che lo aveva spinto a buttarsi giù da un precipizio.

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IL KACTUS DI KRZYZ
 
Ed eccoci qua con  questo nuovo capitolo, il cui protagonista è Al! :)
Vi è piaciuta questa storia? E avete ipotesi su chi potrebbe essere il prossimo?
Ed ora lasciatemi ringraziare. Chi? Ma voi, voi tutti che avete letto questa raccolta facendo arrivare il prologo a 200 visite, voi che la seguite, la ricordate, l'avete inserita fra i preferiti! Grazie mille anche a Kaithlyn24 e a maple, che puntualmente seguono questa storia!
Davvero, vi sono debitrice dal profondo del cuore. Non sapete quanto voglia dire per una persona come me, grazie infinite :)
Bacioni dal Kactus!

_Krzyz

p.s: MOMENTO DI AUTOPUBBLICITA' (cosa semi-illegale ma comunque tollerabile, spero) per tutti quelli che apprezzano il mio stile di scrittura, poco tempo fa ho pubblicato una short, sempre su Divergent, cambiando completamente stile. Era più una sfida con me stessa che altro...ma se avete pazienza, voglia e tempo per leggere quella cosa  storia, la trovate nelle storie da me pubblicate nella mia bio (non ho il link sottomano, sorry D:) e ditemi cosa ne pensate! Mi farebbe molto piacere :)

 

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Capitolo 5
*** 4. La Fame ***


Hunger – [sost] fame, appetito, ingordigia [verbo] bramare,
desiderare ardentemente
 
La Fame

Gli Eruditi tendevano ad essere affamati di natura. La loro sete di conoscenza era una cosa risaputa e criticata da tutte le fazioni, gli esperimenti assurdi che venivano perpetrati nei loro laboratori non erano un mistero per nessuno. Loro volevano, dovevano sapere ogni cosa, la bramosia gli scorreva nelle vene pari a pari con il sangue. Ma in mezzo a quel branco di gente che desiderava il mondo c’era qualcuno di diverso, qualcuno che aveva davvero fame.
Quel qualcuno si chiamava Eric. Era un ragazzo che non aveva più di quattordici anni, ma avrebbe potuto sembrare quasi un ventenne. Non che fosse brutto o eccessivamente sviluppato per la sua età, anzi, però i suoi occhi lo facevano pensare. Erano due laghi ghiacciati e profondi allo stesso tempo, così chiari da poterli confondere con la sclera, dalle pupille piccole come spilli. Erano occhi penetranti e severi, occhi di qualcuno che aveva vissuto milioni di vite, occhi che terrorizzavano e attraevano. Erano occhi che avevano fame.
La famiglia di Eric non era di certo una di quelle famiglie Escluse che educano i propri figli alla strada, no. Entrambi i suoi genitori lavoravano come ricercatori nel settore sviluppo delle tecnologie bioetiche, collaborando con i Pacifici. Sua sorella maggiore aveva seguito le loro orme, solo che era ancora un’apprendista e per il momento era ai comandi di un docente di neurologia. Una famiglia perfetta, che sapeva stare al suo posto, dediti al loro lavoro e alla cura dei figli. E in questo ambiente edulcorato e pulito, Eric era cresciuto come cresce la gramigna nei campi di fragole. Era un albero storto in un filare di pioppi diritti, un difetto, quasi. I suoi voti a scuola erano sempre stati mediocri, non eccellevano quanto avrebbero dovuto.  Erano gli stessi voti che avrebbe potuto avere un Candido o un Abnegante, non un Erudito. Eric non si era mai sentito al suo posto. A sua mamma era sempre sembrato un po’ schivo, era un bambino bellissimo che stava sempre inspiegabilmente per i fatti suoi. Quando era piccolo preferiva la compagnia di un pallone alla compagnia di un coetaneo, anche perché enumerare le costellazioni o sapere tutte le cifre del pi greco non erano esattamente cose che lo esaltavano.
Ad Eric piaceva correre. Gli piaceva andarsene per la città in solitaria, entrare in posti dove non doveva, arrampicarsi sugli scheletri degli edifici corrosi dal tempo e dalla pioggia. Ed era quel brivido, il vento sulla pelle, gli ematomi che si faceva quando calcolava male un atterraggio, quelle erano le cose che lo facevano sentire davvero vivo. Lui respirava il pericolo, assaporava il brivido che gli dava camminale sul bordo dei tetti dei grattacieli. Ma queste cose erano relativamente innocue, e più il tempo passava più la sua fame cresceva.

A dieci anni scatenò una rissa, la prima di una lunga serie, per un motivo del tutto irrazionale. Un suo compagno di classe aveva detto che era il più scarso fra gli Eruditi, che se non studiava avrebbe vissuto come gli Esclusi, fra gli stenti e i parassiti. E il pugno sulla mandibola era scattato quasi in automatico. Fortunatamente le liti fra decenni si risolvono con un paio di adulti e qualche cerotto, ma più il tempo passava più le bende di cui Eric aveva bisogno aumentavano.   Cominciò a passare i pomeriggi nelle zone dove vivevano gli Esclusi ad attar briga con qualche ragazzino più magro e più sporco di lui, uscendo sempre vittorioso anche se ammaccato. Si distruggeva le nocche colpendo tutto quello che trovava, rinforzandosi ogni giorno di più, tornando a casa quando i suoi erano già a letto. Non picchiava mai gente della sua età o più grande, perché sapeva che avrebbe perso, e lui non aveva alcuna intenzione di perdere uno solo dei suoi combattimenti. Era cattivo, insensibile, irascibile, codardo. E la sua fame non accennava a diminuire un secondo, non lo lasciava mai in pace.
La sua famiglia non sapeva dove avevano sbagliato. Avevano educato Eric esattamente come avevano educato la sorella, senza privilegi o divieti particolari. Si scervellavano pensando ad una soluzione per questo errore, cercavano di rattoppare con del nastro adesivo una falla troppo grande. E non capivano che loro non avevano commesso alcuno sbaglio, non capivano che Eric era così e basta. C’era qualcosa di terribile, sepolto dentro quel ragazzino, qualcosa che cresceva, cresceva come il bambù, senza fermarsi.

Quel giorno Eric andò fra gli Esclusi come al solito, alla ricerca di facili prede, solitario come un lupo, letale come un coltello. I vestiti azzurri di sartoria erano tutti sgualciti, coi gomiti bucherellate e l’imbottitura delle spalle della giacca disintegratasi tempo addietro. Non fosse stato per la superbia che tanto caratterizzava ogni Erudito avrebbe potuto tranquillamente mimetizzarsi con la gente della strada. Ogni passo rimbombava contro le pareti degli edifici fantasma della zona vecchia della città. Svoltò in una laterale angusta della Dickinson, schiacciandosi come un’ombra contro i mattoni nudi. Eric era così bravo a non farsi trovare in giro quando non doveva , si muoveva sicuro e silenzioso come uno spettro. Quel giorno aveva saltato la scuola, che andassero a farsi fottere tutti quei professori arroganti, che ripetevano che era una vergogna per gli Eruditi. Attraversò la stretta via per poi ritrovarsi di fronte ad un vecchio condominio dove si riunivano solitamente gli Esclusi in cerca di guai. Il ragazzo fece schioccare le nocche ed entrò, spostando il portone cigolante con facilità. Iniziò a salire le scale, un gradino alla volta, per arrivare al sesto piano. Era pronto, scattante, avrebbe pestato con qualche ragazzino più debole di lui e se ne sarebbe andato apparentemente soddisfatto. E la fame lo divorava, lo consumava, bruciava. Valicò la porta dell’appartamento del sesto piano sorridendo, ma i suoi occhi gelati non erano di certo preparati a quello che gli si presentò davanti.
C’era stata una sparatoria, gli Esclusi gestivano un traffico di armi illegali che poteva contare centinaia di migliaia di pezzi, ma quello era normale, fra le bande di strada ci si ammazzava tutti i giorni. Ma non aveva mai visto dei bambini, che al massimo potevano avere otto o nove anni, spararsi a vicenda. I corpi dei poveretti erano riversi sul pavimento, coperti di sangue, con delle pistole ancora in mano. Li contò, erano sette. Sette bambini morti. Mentre a quell’età fra gli Eruditi la preoccupazione più grave era quella di andare bene a scuola questi si piantavano pallottole di piombo addosso, forse per gioco. Come li disprezzava, Eric, gli Esclusi. Pesavano sulle spalle della società come macigni, erano sporchi, viscidi, ingombranti, inutili. La maggior parte di loro non lavorava, se ne stava sul ciglio della strada a elemosinare un po’ di cibo, o vestiti nuovi. Gli davano i nervi, avrebbero dovuto conservare quei pochi che servivano per mandare avanti la città e spazzare via tutti gli altri. Andava bene quando lavoravano nelle fabbriche, pulivano le strade o guidavano gli autobus, in tutti gli altri casi erano più che inutili. Straccioni, alcolisti, teppisti, puttane. In un’altra situazione si sarebbe fatto quattro risate e se ne sarebbe andato via senza fare nulla.
Ma quel giorno Eric se li caricò tutti in spalla, ogni bambino, e li portò via da li. Prese quei cadaveri, chissà se le madri o i padri li avrebbero mai cercati, chissà se si sarebbero mai accorti che uno di loro mancava all’appello. Passava inosservato, nonostante i vestiti inzuppati di sangue. Uno ad uno li portò in una zona che una volta avrebbe dovuto essere un parco, e li si mise a scavare a mani nude. Le unghie gli si spezzarono a furia di spostare terra; passò ore a scavare, fino a che non divenne buio. Posò i sette corpicini ognuno in una buca e li ricoprì lentamente, con attenzione. Quando ebbe finito, posò delle pietre lisce su ogni tomba. Non ci scrisse niente, non sapeva cosa scriverci, neanche li conosceva quei bambini. Si pulì le mani sui vestiti e se ne tornò a casa.

Da domani si ricominciava, senza pietà, senza paura, senza aver cura di chi era più sfortunato. Gli occhi di ghiaccio sarebbero rimasti com’erano: severi, freddi, distaccati, cattivi. Sarebbe tornato ad essere il ragazzo iroso che era di solito.
Ma la morsa della fame quel giorno si era attenuata un po’.
Lui credeva che fosse causata dall’ira che aveva dentro, dalla voglia di uccidere che cresceva senza fermarsi mai.

E invece tutta la fame che aveva Eric era solo fame di pietà in un corpo che divora come un lupo anche la più piccola traccia di umanità. 

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IL KACTUS DI KRZYZ

Eccoci qua, con il nuovo capitolo e con Eric, il cattivo più gettonato di tutto il fandom! :D
Come prima cosa ringrazio tutti i commenti, le seguite, le preferite e le ricordate, davvero, grazie mille dal profondo del cuore!
Chiedo scusa a tutti voi perchè temo di non essere stata abbastanza IC. Tuttavia ci tenevo a precisare che proprio non ci vedevo Eric come persona gentile e sensibile che ama tutto e tutti, per quello la storia ha un carattere relativamente più duro rispetto a tutte le altre.
Che ve ne pare? E, ora che il nostro amichetto è saltato fuori, chi sarà il prossimo?
Alla prossima settimana!
Saluti dal Kactus!

_Krzyz :) 

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Capitolo 6
*** 5. Allinearsi ***


Syzygy – [sost.] termine che descrive una congiunzione astrale o un’opposizione specifica ,
specialmente fra Terra, Luna e Sole
 

Allinearsi

C’è un termine, in astronomia, che definisce una particolare configurazione  planetaria, in cui tre corpi celesti si ritrovano allineati in una linea perfettamente diritta. Will lo conosceva; derivava da una lingua così antica a lungo rimasta sepolta, che poi gli studiosi avevano ritrovato e riportato  alla luce e dalla quale derivano molte parole di uso quotidiano. Ma non era il solo termine riguardante l’universo che lui masticava.

La più grande passione di Will era guardare il cielo notturno. Quando tutto taceva, quando gli ultimi abitanti della città andavano a dormire sotto la luce lattiginosa della Luna, il momento in cui il mondo dormiva, era quello l’attimo che il ragazzino aspettava per tutta la giornata. Usciva a piedi nudi in terrazzo, appiccicando gli occhioni verdi al telescopio. Osservava e riportava accuratamente ogni singola cosa in un quadernone a quadretti che teoricamente avrebbe dovuto usare per riportare gli appunti che prendeva a scuola. Invece che formule matematiche o trattati fra i più disparati, quel quaderno raccoglieva nomi di pianeti lontani, costellazioni, fenomeni astronomici di entità eccezionale. Indipendentemente dalla temperatura o dalle condizioni climatiche, se il cielo era sgombro era una buona serata per osservare la moltitudine di globi luminosi che tanto lo attraevano.
Che Will avesse un’intelligenza fuori dal normale era cosa risaputa. A sette anni aveva imparato, per puro divertimento, tutto l’atlante stradale della città, compresi nomi di vie e di luoghi d’interesse, e i manifesti di tutte e cinque le fazioni. Aveva una memoria inconsueta. Ricordava ogni cosa gli sembrasse rilevante, coglieva il più piccolo particolare, un neo sul viso di una ragazza, una crepa in un grattacielo di vetro. In quegli occhi verdi e cangianti si rifletteva un mondo di dettagli e stelle. Nulla poteva sfuggire al suo sguardo curioso e profondo, uno sguardo desideroso di conoscenza. Perfino fra gli Eruditi rappresentava un’eccellenza. I suoi risultati nei test erano fuori norma, i professori parlavano estasiati dei risultati del piccolo Will. Ai suoi genitori era perfino stato detto che se avesse mantenuto questa linea sarebbe potuto diventare un Capofazione. Tuttavia, le stelle avevano altro in serbo per lui.

Crescendo questa passione per l’astronomia non si affievolì di un attimo, anzi, più lui cresceva più l’interesse verso il cielo sembrava non volersene andare. I pianeti erano parte integrante dell’essere Will, le stelle di quasar pulsavano seguendo i battiti del suo cuore. Però mentre cresceva piano, disquisendo amabilmente con ricercatori di ogni tipo sui periodi di rivoluzione di Giove e dei suoi satelliti, si rendeva sempre di più conto che gli Eruditi gli stavano stretti come una camicia di sartoria comprata qualche anno prima: di fattura perfetta ma impossibile da indossare senza sentirsi scomodi. Era invidiato e guardato con ammirazione da tutti, ma quello che voleva lui non l’avrebbe mai raggiunto stando dietro ad un tavolo. Perché lui al cielo ci voleva arrivare davvero.
Durante l’inverno dei suoi quindici anni, sua madre e sua sorella Cara furono invitate per un seminario sulle tecnologie difensive che sfruttavano l’alta tensione dall’altra parte della città. Sarebbe durato non più di una settimana, ma avrebbe imposto loro di dormire nei laboratori per monitorare costantemente i progressi dei nuovi ritrovati. Will cercò di contenere il suo entusiasmo, finalmente di toglievano dai piedi per un po’, ma quando la porta si chiuse alle spalle di Cara, che a stento teneva il borsone con i vestiti, iniziò a fare i salti di gioia. Finalmente delle nottate senza sentire la madre che gli urlava di tornarsene a letto se stava sveglio fino a tardi, niente sorella maggiore che rovistava fra i suoi appunti, la manna divina ara arrivata! Alla sera mangiò cibo non propriamente raccomandato dai dietologi, passò un po’ di tempo guardando un film alla tv e rilesse qualche vecchio libro in attesa che calasse la notte. Quando anche l’ultimo raggio di luce svanì dietro la terra desolata che si estendeva oltre la Recinzione, in quel preciso istante iniziava la magia. Srotolò in salotto un’enorme mappa stellare che aveva redatto con precisione maniacale, ogni costellazione riportata fedelmente con misure perfettamente in scala. Non c’era una virgola fuori posto. Prese alcuni strumenti di misurazione, pennarelli di vari colori, libri e usci a piedi nudi in terrazzo. Quella era la sera perfetta.

Perché senza che nessuno lo sapesse, Will stava elaborando un teorema. Secondo lui gli avvenimenti più importanti della storia di una persona si potevano verificare quando i pianeti fossero stati allineati nella stessa maniera della notte durante la quale era nato un determinato individuo. Prendendo il suo caso, un perfetto allineamento lineare di Terra, Luna e Sole. Le cause dell’allineamento dei pianeti sulle persone e sugli esseri viventi erano ancora sconosciuti, ma lui era sicuro che l’universo non facesse accadere le cose per caso. Infatti, quell’avvenimento si era verificato quattro volte dal giorno della sua nascita, e in tutti e quattro i casi era successo qualcosa di importante. La prima volta era stato quando aveva scoperto, a quattro anni, come funzionava il telescopio. La seconda aveva stupito tutti durante i test finali, dimostrando di avere un QI medio pari a quello di un adulto ventenne, nonostante avesse 9 anni. La terza volta aveva colpito, grazie ad un accurato calcolo, un barattolo posto in cima all’edificio che aveva di fronte, abbattendolo con una pallina di carta. La quarta aveva baciato una ragazza. Secondo i suoi calcoli, questa circostanza si sarebbe verificata nuovamente fra un anno e tre mesi esatti. Un anno e tre mesi, un’ultima conferma , una conferma che doveva avere spostandosi da quel posto, cambiando prospettiva, scrollandosi di dosso la camicia di sartoria ormai piccola che erano gli Eruditi. Lui sarebbe arrivato al cielo, lo sapeva.

Ebbene, esattamente dopo un anno e tre mesi, Will stava dormendo nel suo letto, nel centro di addestramento degli Intrepidi. E nell’attimo in cui la Luna, la Terra e il Sole si trovarono allineati successe qualcosa, qualcosa che Will non capì mai.
Una volta, quando era ancora molto piccolo, sua mamma gli aveva raccontato una storia sul cielo notturno. La Notte era una signora molto vanitosa che aveva un lungo mantello di velluto nero, bellissimo e morbido. Quando la Terra venne creata, la Notte divenne gelosa di tutta quella bellezza e, appena suo fratello Sole andava a letto, lei stendeva la sua coperta nera su di essa, così che nessuno potesse vederla . Gli abitanti della Terra all’epoca avevano paura perché era sempre tutto buio e non vedevano nulla, così rimanevano chiusi dentro le loro case tutta la notte, disprezzandola e odiandola. Però il tempo passava e, a furia di stendere il suo manto sulla superficie del pianeta, il velluto della Notte si strappò in alcuni punti, lasciando filtrare la luce solare. Nel vedere quei buchi sul mantello, gli uomini rimasero incantati dai piccoli puntini luminosi, e cominciarono ad uscire dalle case per osservarli. Alla Notte all’inizio davano fastidio, ma poi si abituò alla loro compagnia. Così decise di volgere il suo faccione tondo e luminoso sulla Terra, per illuminarla ancor di più, e gli uomini la amarono e la venerarono, e la Notte non fu più invidiosa di loro.
Un proiettile partì dalla pistola che la sua migliore amica teneva ritta di fronte a se, squarciando il velo.
Will cadde a terra.
Il teorema era compiuto.
Allinearsi al mondo, questa era stata l’unica cosa che il ragazzo che voleva raggiungere il cielo non aveva mai imparato.
E nel velluto nero della Notte si formò un altro piccolo foro, un foro di pallottola, allineato ad altri tre, un foro grande e luminoso, un foro fiero di essere arrivato fino a la. 

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IL KACTUS DI KRZYZ

Ed eccolo qua, anche Will ha fatto capolino in questa raccolta! 
Ho fatto davvero molta fatica a scrivere di lui, perchè non sapevo bene come definirlo senza renderlo OOC (sarà il caldo, ma temo di aver fallito miseramente)! D:
Ringrazio dal profondo del cuore tutti coloro che leggono e seguono questa storia. Davvero, senza di voi tutto questo non sarebbe possibile! 
Allora, di chi parleremo nel prossimo capitolo? Cosa succederà? Questa raccolta inizierà a darci storie come si deve?
Alla prossima!
Saluti dal Kactus!
_Krzyz :)

p.s: A causa delle vacanze della sottoscritta, a meno di avvenimenti eccezionali, il prossimo capitolo verrà pubblicato il 6 agosto. Buona giornata! :)

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Capitolo 7
*** 6. I sogni ***


Ethereal – [agg.] lucente, non appartenente a questo mondo, estremamente delicato
 
 
I sogni


Nei sogni di Uriah c’era tanta luce. A lui piaceva sdraiarsi fra le coperte, aspettare che il sonno lo trascinasse via e godere di quella luminosità eterea. Era sospeso nel nulla, ma c’erano quei caldi raggi che lo avvolgevano e lo proteggevano come l’abbraccio di una madre.
Era da quando era piccolo piccolo che sognava quella luce. Non si ricordava di preciso quando avesse iniziato, il sogno si ripresentava sistematicamente quasi ogni notte e basta. All’inizio il cercava di dare una piccola spiegazione, dall’alto dei suoi sei anni; col passare del tempo decise che quella luce c’era e, dato che non gli dava fastidio, poteva restare. E a lui non poteva che fare piacere, adagiarsi in quel rifugio sicuro.

Uriah da bambino si divertiva a fare cose assai spericolate. Si arrampicava su qualsiasi cosa trovasse, fosse questa un muro, un albero, un grattacielo: nulla lo poteva fermare. Correva di qua e di la perché gli piaceva correre e basta, faceva gli scherzi ai figli degli Abneganti perché gli piaceva e basta, era un bambino vivacissimo che ne combinava di tutti i colori. Era una peste, insomma. Sua mamma, anch’ella Intrepida di nascita, capiva bene i figli, ma non riusciva a capacitarsi di come Uriah e Zeke si ficcassero nei guai un giorno si e l’altro pure. Nell’infanzia dei due ci furono parecchie ossa rotte, rimproveri da parte di altre madri o maestre e discorsi sul comportamento che non servirono mai a niente. Una volta furono addirittura portati a casa da un addetto alla sorveglianza perché si erano nascosti in un camion diretto alle fattorie dei Pacifici, provocando scompiglio e spappolando parecchie decine di pesche nel trasporto. E , dopo un’intensa giornata di scorribande, a Uriah piaceva abbandonarsi, riposare sotto quella luce, calda ma non scottante, luminosa ma non abbagliante.

Quando iniziò la seconda elementare, Uriah era già conosciuto in quasi tutta la scuola. Le sue imprese avevano raggiunto anche le orecchie più lontane, specialmente quando scoprirono che era riuscito ad arrampicarsi fino al sessantaquattresimo piano del quartier generale dei Candidi passando praticamente inosservato. Gli altri bambini Intrepidi lo ammiravano, avrebbero voluto essere come lui: coraggiosi, spericolati, liberi. Credevano lo facesse per noia, ma si sbagliavano.
Si, perché da un po’ di tempo Uriah aveva un obiettivo. Ogni avventura, ogni singola azione incosciente che faceva era per un motivo ben preciso. Quel bellissimo e vivace bambino dalla pelle scura voleva trovare la luce che tanto amava, la luce che lo proteggeva, la luce che lo curava. Voleva capire non tanto cosa fosse, non gli interessava, e nemmeno da dove venisse: voleva sapere dove si nascondeva la luce mentre lui era sveglio. Insomma, tutta quella luminosità doveva pur andare da qualche parte!
Tornava da scuola, faceva una rapida merenda e poi correva fuori di casa, a volte da solo, a volte con Zeke, e partiva. In poco tempo aveva esplorato praticamente ogni centimetro della città, calpestato i tetti di tutti gli edifici, entrato anche nel più alto grattacielo abbandonato. E quella luce non ne voleva sapere di venire fuori. Si fece comprare un quadernino dalla mamma, dove annotava ogni volta, con la calligrafia incerta e tondeggiante di chi ha appena imparato a scrivere, ogni posto in cui era andato. Non l’aveva trovata nella centrale elettrica, non l’aveva trovata nel centro di smistamento dei prodotti dei Pacifici, non l’aveva trovata nei laboratori degli Eruditi. E tuttavia, continuava a cercarla tutto il giorno e a cullarcisi dentro di notte, senza arrendersi un solo minuto.

Una mattina di aprile Uriah si svegliò esattamente come le altre mattine. Fece una colazione più che abbondante, prese i quaderni e se ne andò a scuola correndo. Il tempo quel giorno era strano, grossi nuvoloni coprivano il cielo, ma l’aria era calda e secca, situazione estremamente anormale considerando il fatto che erano appena all’inizio della primavera. Nell’aria c’era una tensione vibrante, palpabile, una corrente elettrica invisibile e dura come titanio. Qualcosa non andava, quel giorno, ne era sicuro.
A scuola tutto procedette come da copione, le lezioni erano noiose come al solito, tuttavia Uriah non riusciva a rimanere concentrato su nulla. Anche le più semplici azioni subivano le conseguenze, errori di distrazione e pasticci ortografici si accavallavano fra le pagine dei quaderni del bambino. Non c’era nulla da fare, non riusciva a concentrarsi. Continuava a voltarsi per guardare fuori dalla finestra. Era troppo strano. Quel clima in aprile era decisamente fuori dal comune, e nella mente di Uriah continuavano a saltare fuori domande che , ovviamente, non avrebbero potuto avere risposta.
Appena arrivò a casa fece come al solito, si fiondò in cucina e prese una mela. Fece appena in tempo a darle un morso che fuori iniziò a piovere. Una pioggia scrosciante e fitta come una foresta di rovi, secchiate d’acqua rovesciate contro le finestre e le pareti. Eppure qualcosa non quadrava. Come faceva ad esserci un temporale? Come poteva piovere se fuori c’era il sole?

Uriah si bloccò all’istante, facendo cadere il frutto morsicato sul pavimento.
Era ora.
Ora.

Senza esitare scappò fuori dalla porta di casa, precipitandosi giù dalle scale come se lo rincorresse un mostro. Era li , c’era quasi. Corse per la strada evitando un paio di passanti per miracolo e iniziò ad arrampicarsi sulla ripida scala a pioli di un condomino ormai abbandonato e cadente. Man mano che le piccole mani facevano presa sulle barre arrugginite, macinando in altezza metri e metri, Uriah sentiva che era giusto. Che tutto accadeva per un motivo, che non credeva solo ai sogni ma che i sogni potevano diventare realtà. Sentiva che la vita esisteva, che la ricerca di qualcosa richiedeva uno forzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di camminare, di respirare. Si tirò su incespicando sul tetto decrepito in cartone catramato. E la vide.

E vide la luce.
E la pioggia.
E le due cose che si mescolavano insieme.

Eccola la, di fronte a lui, forte come mille uragani e delicata come il petalo di un fiore di pesco. La luce, quella calda luce che popolava i suoi sogni era la, vivida, sospesa. Era un limbo di pioggia eterea, che non bagnava ma puliva. Uriah se ne stava in piedi davanti a lei, e la guardava, ed era bellissima. E in quel momento, in quell’attimo ritagliato in un mondo ordinario, quel bambino aveva trovato lo straordinario, mentre sotto di lui i mille pensieri dell’umanità pensavano solo a proteggersi dalla pioggia, troppo impegnati per alzare gli occhi al cielo e vedere le meraviglie che si srotolavano sopra di loro.
E nonostante la pioggia, e il freddo, Uriah sorrise, aspettò che il sole tramontasse e tornò in casa. Si asciugò e si mise a letto.

E una volta ancora, solo un’ultima volta, sognò quella bellissima, potentissima, eterea luce.

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IL KACTUS DI KRZYZ

Sono in ritardoooooo D: Chiedo davvero scusa a tutti coloro che puntualmente seguono e recensiscono questa fanfiction, ma fra un impegno e l'altro non sono riuscita ad aggiornare prima! Davvero, mi dispiace moltissimo, spero di farmi perdonare in futuro!
Allora, qui abbiamo Uriah! Che ve ne pare, vi è piaciuto questo capitolo? Chi sarà il prossimo? Che le scommesse abbiano inizio! :D
Non la smetterò mai di ringraziare tutti coloro che seguono e commentano, o anche solo che leggono, questa storia. Non potete sapere quanto siete importanti per me, vi ringrazio davvero dal profondo del cuore! :)
Alla prossima,
_Krzyz :)
p.s: siccome sarò veramente impegnata anche nel prossimo periodo, tornerò ad aggiornare dal 29 agosto. Nel frattempo sono comunque reperibile tramite messaggio privato per qualsiasi cosa! :)

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