The Hunt of Blood

di EmmaDiggory15
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Uprising ***
Capitolo 3: *** Unintended ***
Capitolo 4: *** Theft and Injustice ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


Ad A. e a D., la prima perché senza di lei non avrei mai pensato di scrivere seriamente questa storia, la seconda perché senza di lei non sarei riuscita a cobinare nulla
 
Prologue
'Cause you've seen, seen
Too much, too young, young
Soulless is everywhere
 
Augusta, Maine; dicembre 2010

Uno, due, tre, quattro.

Contare i fiocchi di neve che finivano sul parabrezza si sarebbe rivelata un’attività alquanto noiosa e senza scopo, in circostanze normali. Jake era sempre stato un ragazzo molto pratico: azione, conseguenza, trovare una soluzione. Si era trovato molte volte a dover applicare questo suo metodo di vita.

Correre per casa. Rompere il vaso della mamma. Usare i soldi della paghetta per ricomprare il vaso.

Non studiare. Prendere un’insufficienza. Non uscire i venerdì sera per riparare l’insufficienza.

Fare sesso non protetto. Mettere incinta la propria ragazza. Trovare un lavoro.

Se ci fossero stati momenti in cui non c’era molto da fare, avrebbe preso le cuffie del suo MP3 e avrebbe lasciato che la musica conducesse i suoi pensieri altrove. Nonostante avesse da poco compiuto vent’anni, c’erano delle volte in cui Jake aveva bisogno di chiudersi in camera con della buona musica metal che ricoprisse qualsiasi altro suono; sua madre elaborava teorie sul crescere troppo in fretta e sul bisogno di dover recuperare i momenti persi, dopo che la situazione era diventata quasi stabile.

Abbassò lo sguardo sulla mano che aveva poggiato sulla gamba destra e dischiuse il pugno. Emerse una fotografia i cui bordi non erano ancora stati danneggiati dal tempo. Essa raffigurava sua figlia Ariel nel giorno del suo terzo compleanno, avvenuto due mesi prima; gli occhi verdi identici a quelli di Jake erano grandi ed espressivi, mentre i capelli biondi erano di sua madre; Jake, infatti, aveva i capelli castani.

Non si poteva dire che i due genitori andassero d’accordo: si erano lasciati poco dopo aver scoperto che lei era incinta. Jake, inizialmente, non aveva voluto essere coinvolto in quella storia, ma dopo varie proteste da parte di Lexie, la sua ex-ragazza e madre di Ariel, era andato a vedere sua figlia appena nata e ne era rimasto conquistato. Come aveva potuto credere che una cosa così perfetta potesse essere un errore?

«Questo, figliolo, è il tuo grande giorno.»

La voce di suo padre lo riportò alla realtà, lontano dal calore familiare che sentiva quando aveva sua figlia vicino e sempre più dentro quella nevicata gelida che incombeva sulla strada. Era arrivato il momento di crescere e di diventare un vero uomo. Non avrebbe dovuto aver motivo di essere nervoso, fin da quando era piccolo si preparava per quel momento, eppure si sentiva come se fosse un semplice spettatore e non stesse vivendo l’esperienza in prima persona. Sentiva il nervosismo pervadergli ogni cellula del corpo. E se non ne fosse stato in grado?

«Fidati, non hai motivo di essere nervoso» disse suo padre, indovinando i suoi pensieri. «All’inizio sembra una gran cosa, ma con il tempo ti ci abituerai.»

«Non sono nervoso.» La voce gli uscì strozzata e desiderò di essersela schiarita prima di aver aperto bocca.

Suo padre scosse la testa, le mani poggiate in una stretta decisa sul volante. «L’importante è tenere a mente la missione. Se ricorderai questo, vincere su di loro sarà facile.»

Jake annuì, sapeva dove il padre intendesse arrivare. Poggiò la mano sul finestrino, rabbrividendo leggermente a quel contatto, riprese ad osservare il bosco che si rincorreva, gli alberi resi candidi dalla neve con i rami mossi dal vento, il terreno sporcato da alcune impronte di scarponi. Una famiglia che andava a fare una passeggiata? Una delle loro prede? No, si disse. Loro non lasciavano impronte, se non volevano farlo.

Continuò ad osservare l’asfalto grigio dove passava il padre con le ruote, emettendo ogni tanto qualche rumore, poi il suo sguardo tornò sulla foresta alzandosi fino al cielo, reso bianco dalle nuvole, che però si stavano allontanando. Aveva smesso di nevicare.

Si strinse sulla giacca, ma non aveva freddo. Cominciò inconsciamente a ripassare tutte le lezioni che aveva ricevuto nella sua vita.
Non guardare mai nello stesso punto. Sono veloci, non si fanno sentire. Devi stare sempre all’erta.

Non lanciarti mai direttamente contro di loro. Si sposteranno prima che il paletto arrivi a metà strada. Lascia che siano loro a venire da te.

Cercare di spaventarli non servirebbe a niente. Loro non hanno paura di nulla.

Tieni sempre il crocifisso attorno al collo, ti proteggerà.

Non guardarli mai negli occhi. Mai. O sarai morto prima ancora che i loro denti sfiorino il tuo collo.

Si riscosse nuovamente dai suoi pensieri quando sentì che il pickup marrone scuro di suo padre si stava fermando proprio davanti a quello che sembrava essere l’ingresso del bosco aperto ai turisti. C’era un casello per le informazioni, Jake sapeva che se si fosse rivolto all’uomo che lavorava lì, quello gli avrebbe perfino fornito una mappa del Pine Tree State Arboretum, ma non ne avrebbe avuto bisogno: c’era stato mille volte e sapeva dei sentieri, degli alberi e dei fiori che si trovavano all’interno di esso. Jake si chiese perché suo padre e gli altri anziani avessero scelto quel posto, che sembrava il posto perfetto per un’escursione in famiglia, come luogo per la sua prima caccia.

«Sei pronto?» Il tono severo e solenne di suo padre fece scaturire in lui qualcosa, così raddrizzò le spalle, sollevò la testa e cercò di assumere un’espressione seria e concentrata.

«Sì, padre» disse, anche se non era sicuro che quelle parole non sarebbero venute fuori con un tono incerto. Non capiva cosa gli stesse succedendo, lui non era un codardo, non lo era mai stato, ma allora perché tutta la sicurezza che aveva acquisito durante gli anni, che aveva costruito mentre si allenava ogni giorno, dopo la scuola e dopo il lavoro, che suo padre gli trasmetteva attraverso i racconti delle sue cacce, la seria prima di andare a dormire al posto delle fiabe che ascoltavano la maggior parte dei bambini, perché stava tutto lentamente andando in pezzi?

Sentì la mano forte di suo padre poggiarsi sulla sua spalla, quella mano era così grande e forte, si poggiava dolcemente sulla guancia di sua madre, gli scompigliava i capelli, ora che aveva vent’anni, così come quando ne aveva dieci, quella stessa mano che vedeva fabbricare paletti di legno dagli stessi alberi che si trovavano nel giardino del retro della loro casa e quella stessa mano che si macchiava del sangue dei loro nemici.

«Senti, lo so che sei spaventato, te lo si legge in faccia, ma posso assicurarti che dopo questa volta ti sembrerà più facile, tranquillo, vedrai.»

Le parole del padre non furono molto confortanti per Jake, ma questa volta si sforzò di dargli ascolto. Detestava il fatto di sentirsi come un bambino spaurito che aveva bisogno di protezione, lui stava per diventare un cacciatore! Se fosse andato tutto secondo i piani, quella notte avrebbe ricevuto il tatuaggio che contraddistingueva i cacciatori dalla gente comune: un pentacolo in un cerchio nero. Non che esso rappresentasse una minaccia per i vampiri, non esistevano simboli in grado di scacciarli realmente; per quanto ne sapeva Jake, il pentacolo serviva per scacciare i demoni o i fantasmi, non era certo, però credeva che si usasse nei rituali della religione Wicca, lo sapeva perché sua madre possedeva decine di libri sull’argomento e aveva letto qualcosa anni prima. Il pentacolo per i cacciatori rappresentava più che altro un simbolo di riconoscimento e distinzione, qualcosa che facesse capire che si trattava di un gruppo stretto, senza nessun vero scopo pratico, ma era un importante rito di passaggio.

Fece un respiro profondo. Non c’era spazio per i ricordi o le insicurezze, in quel momento. Era ora di uscire e di affrontare la prima caccia.
Infilò con cura la foto di sua figlia nella tasca della giacca, quella che stava all’altezza del cuore, e scese dal pickup del padre. Il freddo della sera lo investì e, alzando gli occhi al cielo, notò quanto esso si era scurito, doveva mancare poco al tramonto ormai.

Vide parcheggiare dietro suo padre altre due auto. Dalla prima, una Jeep blu, vennero fuori due uomini dell’età di suo padre; quello che stava al posto del guidatore si chiamava Robert Montgomery, soprannominato in adolescenza Rob-sfasciacarrozze, visto che in gioventù aveva il vizio di struggere qualsiasi auto guidasse, e Jake sapeva che aveva lasciato a casa una moglie e tre figlie. L’uomo del posto del passeggero si chiamava John Ventura ed era quello con l’aria più minacciosa tra i due, cosa che era dovuta forse alle cicatrici che aveva sul volto; entrambi gli uomini portavano abiti scuri, come Jake e suo padre, del resto. La seconda auto era una Chevrolet su cui Jake era salito milioni di volte nella sua vita, infatti, da quella macchina scese un ragazzo che aveva un anno più di Jake ed era il suo migliore amico, e subito dopo di lui suo padre. Il suo amico si chiamava George Freeman ed aveva corti e ricci capelli castani e gli occhi azzurri, di lui si poteva dire che amasse veramente solo due cose: la sua xbox e la sua ragazza, Tyler, che era la più grande delle figlie di Robert; su suo padre, Mike, c’era poco da dire, bastava sapere che prendeva la caccia molto seriamente. Non era sorprendente il fatto che Jake conoscesse così bene i cacciatori amici di suo padre: in una città piccola dove si conoscono tutti, un gruppo ristretto si conosce ancora meglio.

Mentre suo padre armeggiava con delle sacche che stavano sul sedile del passeggero, Jake andò incontro a George, accennando un’espressione rilassata come se stessero semplicemente andando al cinema. L’altro gli diede una pacca sulla spalla.

«Nervoso, amico?»

«No, non lo sono. Ho passato vent’anni a preparami per questo momento, non ho motivo di essere nervoso.»

«Lo sai che questa è la tipica frase che dice qualcuno che è decisamente nervoso?»

«Non sono nervoso!» sbottò, scrollandosi la mano dell’altro dalla spalla.

George si accigliò più per il modo brusco in cui il suo amico gli aveva risposto che per altro. «Bene, allora.» Roteò gli occhi, non era il tipo che amava discutere.

«Sei uno sciocco, se non sei nervoso, ragazzo.» Mike diede a sua volta una paca sulla spalla del figlio e poi guardò Jake con un’espressione identica a quella di George. «Qui non stiamo giocando, là fuori sono tutti veri.»

John si mise al fianco di Jake. «Non ti preoccupare. Il ragazzo è un cacciatore eccellente, proprio come suo padre da giovane.»

«Puoi dirlo forte, Jo.» Il padre di Jake lanciò una delle borse in mano all’amico. «Questo non vuol dire che non debba stare attento. Tutti noi dobbiamo essere cauti, sempre.»

«Quanto manca al tramonto?» intervenne George per spezzare la tensione che si era creata.

«Non molto ormai» disse Robert, e tutti e sei alzarono lo sguardo verso il sole arancione che tingeva la neve bianca sugli alberi, il fresco della sera penetrava i vestiti di Jake, facendolo rabbrividire, mescolando l’ansia della caccia imminente alla paura di fallire miseramente.
Istintivamente poggiò la mano sul petto, proprio dove teneva la foto di Ariel, ora a casa con sua madre Lexie, al sicuro.

«Chi cerchiamo?» domandò, sperando che così avrebbe esorcizzato la paura.

«Il più giovane degli Smith. Crediamo che sia stato trasformato il giorno in cui gli altri sono stati uccisi» rispose suo padre, mentre intercettava il suo sguardo carico d’ansia mal celato.

«Si può dire che la sorella più grande, Lisa, sia stata fortunata a trovarsi fuori città, quel giorno.» Il tono quasi scherzoso di Robert sembrava stonare terribilmente in quella situazione.

«Fortunata? Io non mi sentirei così fortunato, se dovesse succedere qualcosa alla mamma o a Lydia o a te…»

«Ecco perché facciamo questo: per proteggere le nostre ragazze.» Mike mise una mano sulla spalla del figlio, il cui tono era visibilmente preoccupato.

«Ma così non sarà troppo facile? È solo un ragazzino.» Jake tentò di apparire spavaldo.

«Beh, a tuo padre toccò un cane mannaro alla sua prima caccia, quindi…»

«Rob, quello non era un cane mannaro, quello non è il nostro campo.» L’atmosfera tra di loro si era alleggerita.

«Ti ricordo che il tuo primo era una vecchietta…»

«Io sono stato sfortunato: ho dovuto uccidere Rachel Jones, quella che si era appena trasferita. Peccato. Era molto carina.»

Jake aveva un ricordo vago della ragazza di cui parlava l’amico, forse bionda e ricciolina? «Ma poi ti sei consolato con Tyler…» sussurrò all’orecchio di George, per non scatenare la gelosia paterna di Robert.

«Il punto è, ragazzi, che vogliamo che capiate con chi avete a che fare. Non sarebbe saggio farvi combattere un Vampiro Superiore durante la vostra prima caccia.»

Jake abbassò lo sguardo, nuovamente spaventato, dopo le parole di suo padre: un Vampiro Superiore era un vampiro che aveva vissuto per più di un secolo, questi erano più veloci, più forti, più esperti e perfino più crudeli dei vampiri più giovani. Quelli preferivano dissanguare le loro vittime subito dopo la cattura, mentre dei superiori si diceva che avessero un perverso senso dell’umorismo, durante le loro cacce; alcuni affermavano che loro amassero tenere le vittime segregate per mesi prima di finirle, aspettando di avere la loro fiducia, per poi colpirle… Jake rabbrividì al solo pensiero.

«George, tu accompagnerai Jake, visto che sei l’ultimo arrivato. Noi ci terremo alle vostre spalle.»

«Immagino che sarà bello non essere più il novellino.» George scrollò le spalle e Jake sorrise.

«Vediamo chi sarà il migliore.»

«Jake, vieni un secondo.» Era suo padre.

«Sì» disse, e lo seguì lontano dagli altri, verso la loro auto.

Non percorsero un lungo tragitto, solo qualche metro, ma a Jake sembrò di camminare per un’eternità.

«Ascoltami bene. Questo per te è un momento importante, sono quindici anni che ti prepari per questo e adesso sei preoccupato, ma lo siamo stati tutti…» fece una pausa, aspettando che Jake dicesse qualcosa.

«Il fatto è che ho vent’anni, adesso sono un uomo! Non dovrei avere paura» confessò. Il fatto era proprio questo: come aveva detto il padre, si allenava da quando aveva appena cinque anni, da sempre gli avevano insegnato che al mondo esistevano i vampiri e che era suo compito sconfiggerli. Ma gli avevano anche raccontato di quanto fossero spaventosi e crudeli, di come potessero farti perdere il lume della ragione con un solo sguardo e di come per loro non esistessero né pietà, né amore, né nient’altro. Ogni volta che suo padre usciva per una caccia, nutriva in segreto il terrore che lui non sarebbe mai tornato e che lo avrebbe lasciato da solo con un peso troppo grande da portare. Jake avrebbe voluto poter essere spaventato, ma fin da bambino aveva dovuto drizzare le spalle e mostrarsi coraggioso, non aveva alcun diritto di chiedere aiuto o di scappare, doveva soltanto affrontare la realtà ed essere un cacciatore.

«Sono degli esseri spaventosi, sono dei mostri e noi dobbiamo sconfiggerli. Hai paura, perché io non sono stato abbastanza bravo con te.» Sospiro ed aprì lo sportello posteriore della macchina, per poi seppellirci il busto dentro. Jake sapeva che lo faceva quando non lo voleva guardare negli occhi. «Avrei dovuto insegnarti che tu sei più forte, ma forse ho sbagliato, pensavo che se avessi capito con chi avevi a che fare, saresti stato più coscienzioso.»

Forse l’uomo voleva solo farlo sentire meglio, ma Jake ebbe solo la conferma di ciò che pensava segretamente da anni: non sarebbe mai stato un bravo cacciatore. Non aveva mai visto nessun altro dei ragazzi con cui era cresciuto essere così spaventato dai vampiri, loro erano cresciuti strafottenti e con la sicurezza di sconfiggerli, perfino Lydia, la sorella di George, era più coraggiosa di lui.

«C’è una cosa che non ti ho mai detto,» continuò, uscendo dalla macchina, «non l’ho fatto perché non è una cosa di cui si parla spesso tra le nostre righe, preferiamo nasconderlo, abissare i casi che ogni tanto capitano, metterci una benda sugli occhi e negare l’evidenza, ma io credo che tu debba sapere la verità.»

Jake avrebbe voluto incrociare lo sguardo del padre, ma lui aveva gli occhi puntati fra gli alberi, sfuggenti.

«Noi professiamo che loro siano degli esseri immondi, spaventosi, un abominio, ma a volte ci ingannano, ci inducono a pensare cose che non dovremmo, a tradirci e a voltare le spalle alla nostra stessa famiglia.» Finalmente si voltò verso di lui, lo sguardo indecifrabile e la fronte corrugata. «Non permettere mai che uno di loro di avvicini a te, non lasciare che le loro parole ti confondano la mente, non lasciare…» Fece un’altra pausa. «Non lasciare che ti avvelenino il cuore.»

Jake sbatté lentamente le palpebre, incapace di capire le parole che il padre gli aveva appena rivolto. Non era la prima volta che veniva avvertito sui trucchetti mentali che un vampiro era in grado di attuare, anche se non aveva mai capito veramente come la cosa dovesse funzionare, ma non aveva mai sentito dire da nessuno dei cacciatori più anziani che un vampiro era in grado di avvelenare un cuore.

Intendeva forse dire che potevano fargli credere di provare sentimenti che in realtà non avrebbe mai potuto concepire?

Avrebbe voluto dire qualcos’altro a suo padre, avrebbe voluto chiedergli spiegazioni o che fosse stato più chiaro con le sue parole, ma, senza aggiungere altro, l’uomo chiuse lo sportello che aveva aperto e si allontanò.
 
***

Camminava per il sentiero, il rumore dei suoi passi era soffocato dalla candida neve appena caduta e aveva le mani fredde strette attorno alle armi che suo padre gli aveva procurato: la destra stringeva un paletto di legno dall’impugnatura scheggiata e nella sinistra teneva una pistola carica di proiettili d’argento; era convinto che non sarebbe servita a molto contro un vampiro, soprattutto se avessero incontrato un superiore, ma servivano comunque per prendere tempo e disorientarli, e poi i vampiri superiori erano rarissimi.

Respirò pesantemente e poté chiaramente vedere il suo fiato gelare in una nuvoletta argentea davanti ai suoi occhi; nonostante il nervosismo per ciò che stava per fare, la presenza del suo amico lo rassicurava e anche se poteva sentire il rumore dei suoi passi alle sue spalle, riusciva a percepire il suo respiro smorzato dal freddo.

Più si addentravano nel bosco, più il freddo sembrava farsi glaciale e Jake aveva il terrore che le sue mani intorpidite dal freddo non sarebbero riuscite a trapassare il petto di quei mostri con il paletto di legno, che non sarebbe mai diventato un vero uomo.
Si fermò di scatto, quando l’unico rumore udibile era diventato quello del suo respiro. Si voltò.

«George, dove sei?» sussurrò preoccupato dall’assenza dell’amico alle sue spalle. Cercò di concentrarsi e mantenere la calma: doveva trovare George senza farsi sentire, se avesse gridato per chiamarlo si sarebbero accorti della sua presenza. Un nuovo ricordo delle lezioni di suo padre affiorò nella sua mente e si rese conto che non c’era bisogno che urlasse perché loro lo sentissero, bastava il suo respiro, bastava il battito del suo cuore.

Era sul punto di muovere un passo e mettersi alla ricerca dell’amico, quando sentì uno scricchiolio a pochi metri dalla sua posizione. Si girò e non poté evitare di spalancare la bocca dalla sorpresa. Non ne aveva mai visto uno prima.

Doveva avere non più di dieci anni, indossava un giubbotto pesante e jeans chiari, sotto ai quali portava delle scarpe da ginnastica sporche di terra e aveva i capelli castani pettinati con una riga di lato. Nel complesso sarebbe potuto sembrare un bambino normalissimo, se non fosse stato per il volto dall’espressione mostruosa. Aveva gli occhi spalancati e fissi su Jake in uno sguardo consapevole, con le iridi del colore del sangue, la bocca semi aperta pronta ad accogliere un pasto particolarmente appetitoso. Jake sapeva che anche lui era pronto a cacciare, come sapeva che aveva fatto rumore perché voleva che lo notasse. Strinse i pugni e si preparò.

Mosse un piede in avanti, come suo padre gli aveva insegnato, senza spostarsi veramente, e in un attimo il vampiro gli fu addosso.
Era sorprendente il modo in cui si era mosso: veloce come un felino e silenzioso e leggero come una piuma. Si era piegato sulle ginocchia, portando le braccia indietro come a darsi slancio e senza emettere alcun suono, aveva spiccato un balzo di più cinque metri e aveva allungato nuovamente le braccia, arricciando le dita come a voler minacciare con degli artigli e spalancando la bocca, dando mostra delle sue zanne.

Il vampiro aveva atterrato Jake e aveva la bocca spalancata e mostrava due canini candidi come la neve sul suolo e affilati come rasoi. Affondò le unghie sulle sue spalle e Jake dovette sforzarsi per non gemere dal dolore che gli aveva procurato; il vampiro riusciva a tenerlo perfettamente inchiodato al terreno con la sola forza delle mani e gli bloccava il resto del corpo con il peso del suo. Incredibile pensare che un essere apparentemente così piccolo potesse essere così forte. Jake si dibatté dalla sua presa, ma quello non la allentò, anzi, spalancò ancora di più la bocca e i suoi occhi sembrarono diventare ancora più rossi di quanto non fossero prima.

Il vampiro stava per affondargli i canini sul collo, ma Jake non aveva lasciato mai andare il paletto e continuando a dimenarsi, riuscì a sbloccare il braccio destro. Cercò di affondarlo nel petto del vampiro, ma quello gli lasciò andare una spalla e gli bloccò il polso, cercando poi di puntarlo sulla gola di Jake.

Era davvero forte. Jake pensò che forse non sarebbe riuscito a sconfiggerlo, che avrebbe dovuto gridare per chiamare qualcuno, ma sentiva come se la sua gola fosse serrata dall’interno. La presa del bambino era più salda della sua e spingeva sempre di più il paletto contro la gola di Jake, che lo sosteneva a malapena.

Alla fine, il paletto di legno era puntato sulla sua gola, poteva quasi sentirlo perforargli la pelle e pensò che tutto sarebbe finito lì, che sarebbe morto in quel momento. Ad un tratto si sentì un altro scricchiolio.

Il vampiro si voltò di scatto e Jake riuscì a rafforzare la presa sul paletto. Gli bloccò l’altro braccio e in un secondo affondò il paletto nel cuore del vampiro.

Il suo respiro era veloce, mentre vedeva il vampiro annaspare e poi il suo corpo afflosciarsi contro di lui. Era morto.

Buttò il corpo da un lato e si mise seduto, ancora tremante. Guardò il corpo del vampiro immobile e si sforzò di capire come avesse fatto. Aveva ucciso il suo primo vampiro. Era salvo. Sarebbe sempre stato così o sarebbe stato ancora più difficile?

Stava per rimettersi in piedi, deciso a ritrovare George, suo padre e tutti gli altri, quando vide, più lontano di dove si era trovato il vampiro ora morto, una ragazza.

Quella era decisamente la ragazza più bella che avesse mai visto. Aveva il viso pallido, grandi occhi azzurri e boccoli biondi che le circondavano il volto, con le sue labbra rosee avrebbe potuto essere scambiata per una bambola. Jake staccò con molta fatica il suo sguardo dagli occhi di lei e notò che indossava un vestito rosso fuoco che le arrivava a metà coscia, lasciando gambe e piedi nudi.

La comprensione si fece largo nella sua mente e tornò ad osservare i suoi occhi, rendendosi conto che lo osservava con la testa chinata da un lato, lo stesso sguardo di sua figlia quando osservava le farfalle d’estate, prima di allungare le manine paffute nel tentativo di catturarle. Il sorriso della ragazza si allargò in una smorfia crudele e Jake tentò di estrarre il paletto dal petto del vampiro, ma era troppo tardi.

Era ancora più veloce del bambino. Non riuscì nemmeno a distinguere il momento esatto in cui spiccò il balzo.

In un secondo, la ragazza lo sovrastava, bloccandogli ogni via di fuga, gli occhi azzurri puntati sui suoi e Jake si scoprì incapace di distogliere lo sguardo da essi.

La ragazza gli accarezzò lievemente il volto con la punta delle dita e poi si avventò sul suo collo.

All’inizio avvertì solamente il dolore acuto e bruciante dei canini di lei che gli perforavano il collo e ogni parte del suo corpo urlava: «Scappa!». Ma non c’era alcun modo di scappare. Lei gli bloccava una spalla e le gambe con forza, come aveva fatto prima il bambino, e gli impediva di muoversi e il dolore che si irradiava dal suo collo sembrava impedirgli di pensare.

Poi smise di provare dolore. Una voce nella sua mente gli diceva: «Rilassati, non fa male», e lui lo fece, chiudendo gli occhi. Il dolore del morso era scomparso ed era rimasta solo la sensazione di abbandono che lo cullava lentamente, mentre il sangue defluiva del suo corpo alla bocca della vampira. Sentiva che tutte le preoccupazioni erano svanite: da quando si era arreso, c’era soltanto il piacere provato dal morso e la sensazione delle morbide labbra di lei sul suo collo e il pensiero dei piccoli canini candidi affondati nel suo collo. Neve nel suo collo. Non c’era più l’istinto di scappare ed era svanito anche il ricordo del paletto a pochi centimetri da lui, esisteva solo lei e le sue labbra e il piacere e il mondo era sempre più lontano…

All’improvviso sentiva che veniva strappato da quelle sensazioni e riportato bruscamente alla realtà. Jake non riuscì più a sentire il peso della ragazza che incombeva su di lui o le sue labbra sul collo. Aprì gli occhi e lei era sparita.
 
***

La prima cosa che vide fu il bianco.

Non era un bianco accecante, era un bianco tenue, riusciva a scorgervi delle piccole ed irregolari macchie dorate, testimoni della sua breve fobia del buio da bambino.

Era il soffitto della sua stanza, una volta delle piccole stelline dorate erano attaccate ad esso e si illuminavano la notte, creando l’illusione di un cielo stellato, si ricordava di averle staccate una ad una quando aveva dodici anni e doveva fare venire un compagno di scuola a casa, il primo amico che non fosse un cacciatore. Fece spostare lo sguardo dal bianco al blu scuro della parete, dove erano appese fotografie di lui da bambino e da adolescente, ce n’era perfino una dove teneva sua figlia ancora neonata in braccio, era l’unica foto che aveva lasciato a casa dei suoi genitori e non aveva ancora portato nel suo nuovo appartamento.

«Jake, sei sveglio?»

Si voltò lentamente e vide sua madre seduta accanto al suo letto. Aveva i capelli spettinati e le occhiaie, ma sembrava molto sollevata di vederlo sveglio.

Stava per rispondere, quando sentì il familiare suono di tende che venivano scostate e il sole invase la camera, prima al buio, costringendolo a coprirsi gli occhi con una mano.

«Ruth, ma sei impazzita?» Era ancora sua madre, ma la sua voce non era bassa e dolce come prima, ma più acuta e arrabbiata.
Una donna in piedi accanto alla finestra aperta scrollò le spalle. «Scusami, Cynthia, stavo solo controllando.»

«E a cosa ti è servito? È rimasto incosciente per due giorni, non credi che ci saremmo accorti, se fosse diventato un vampiro?»

«Due giorni?» La voce gli uscì rauca, mentre i ricordi iniziavano a riaffiorare. La sua prima caccia. Il bambino. La vampira. Il morso.

Sua madre lo guardò con dolcezza. «Sì, tesoro.»

«Andrò a dire agli altri che si è ripreso» annunciò Ruth, ed uscì.

Ruth e sua madre erano migliori amiche. Erano entrambe cresciute nella comunità dei cacciatori e nella giovinezza avevano ucciso parecchi vampiri insieme; con il passare degli anni si erano sposate e avevano avuto dei figli, ma, mentre Ruth aveva deciso di non abbandonare la missione, sua madre si era dedicata interamente a lui e con il tempo la maternità l’aveva addolcita, fino a farle quasi dimenticare come ci sentisse ad uscire di notte con lo scopo di uccidere vampiri; Ruth era rimasta tale e quale a com’era, anzi, il fatto di avere figli non era stato un freno, come con sua madre, ma sembrava averle dato un’altra spinta in più per agire. Era anche questo il motivo per cui Jake aveva legato così tanto con il suo migliore amico, nonostante non fossero coetanei: Ruth era la madre di George, e ogni volta che lei e il marito uscivano a caccia, lasciavano lui e sua sorella Lydia a casa di Jake con sua madre a dover fare da babysitter.

«Cos’è successo?»

Sua madre gli accarezzò i capelli amorevolmente. «Non ti ricordi? Eri alla tua prima caccia e sei stato attaccato, eri svenuto quando ti hanno trovato.»

Aggrottò le sopracciglia, non ricordava di essere svenuto. «Ma come stavo, insomma… Ero ferito o altro?»

Si bloccò per un istante, ma poi riprese a muovere la mano fra i suoi capelli. «Avevi una ferita al collo… Pensiamo che tu sia stato morso dal vampiro che hai ucciso. È così?»

Jake non rispose, rendendosi conto solo in quel momento della benda che gli stringeva la gola.

«Hanno esaminato la tua ferita e credono che il morso sia troppo grande rispetto alla dentatura del vampiro che hanno trovato morto accanto a te e che sia stato fatto in modo troppo preciso per uno che è stato appena trasformato.» Strinse le labbra. «C’era qualcun altro? Un altro vampiro? Lo dobbiamo sapere, Jake.» Spostò la mano sulla sua guancia. «Dimmelo.»

E Jake voleva dirlo. Voleva dire che c’era un vampiro femmina che si aggirava per i boschi, voleva raccontare quanto forte era stata e quanto pericolosa dovesse essere, voleva raccontare del suo sguardo, di come lo aveva ipnotizzato e voleva anche chiedere perché il morso fosse stato così… piacevole.

«Non ho visto nessun altro» sussurrò.

Non capiva perché lo avesse detto. La cosa giusta da fare sarebbe stata dire la verità, così suo padre e gli altri avrebbero potuto fare rapporto e catturare quella vampira, ma era come se ci fosse qualcosa nella sua mente, qualcosa che gli suggeriva che era giusto mentire, che non doveva rivelare niente di quello che era accaduto, era come quando osservava un coltello e, per quanto ne fosse affascinato, c’era una parte della sua testa che gli diceva che si sarebbe fatto male se ne avesse toccato la lama.

«Ne sei sicuro?»

«Sì.»

E non dissero più nulla.
***

Portland, Maine; marzo 2012

Era mezzanotte in punto quando le tende si mossero.

Le tende erano blu scuro, di un tessuto leggero che non riusciva a celare completamente la figura all’interno della camera e lasciavano intravedere la sagoma dormiente del ragazzo, sdraiato sul letto con i muscoli del viso rilassato e il petto che si muoveva a ritmo del suo respiro. Le tende erano leggere, così leggere che si tendevano per via del peso provocato dalle sferette di vetro che si trovavano alla fine di esse; quelle sferette erano di un blu leggermente più scuro delle tende, ed erano un’aggiunta del ragazzo che dormiva, ogni volta che le tende si spostavano, le sferette andavano a sbattere contro il vaso di vetro che si trovava sotto la finestra, producendo un tintinnio lieve, ma comunque perfettamente udibile alle orecchie del ragazzo.

Jake si alzò di scatto, svegliato dal tintinnio delle sferette contro il vaso. Ancora stordito dal sonno, allungò la mano verso il comodino di legno scuro, che ancora odorava di nuovo, come il resto dell’appartamento, dopotutto, trovando il paletto che teneva vicino a sé da quando era diventato un cacciatore. Si mise in allerta; i suoi sensi di cacciatore tesi al massimo gli avevano permesso di agire in fretta, nonostante sentisse la testa pesante dal sonno bruscamente interrotto, consapevole che poteva trattarsi di un falso allarme e che il tintinnio poteva essere stato provocato da una semplice folata di vento.

Accese la lampada sul comodino e scrutò rapidamente la camera: alla sua sinistra c’era la porta del bagno chiusa a chiave, quindi, se qualcuno fosse entrato, avrebbe dovuto sentirlo; si voltò verso destra, dove c’era la finestra e notò che il vaso di vetro non era stato mosso di un millimetro, ma, con un sussulto, si accorse che le tende erano state aperte del tutto e che il vetro della finestra era stato sollevato. Chiunque fosse entrato doveva averci messo molto tempo per riuscire a spostarlo senza fare rumore, dato che l’unica cosa che aveva sentito Jake erano state le sferette. Deglutì. C’era solo una categoria di esseri che avrebbe potuto spostare il vetro con così tanta delicatezza e pazienza da non produrre il minimo rumore.

Spostò lo sguardo verso i piedi del letto e lo puntò di fronte a lui, nell’angolo in ombra fra la porta aperta e l’armadio. All’inizio non vide nulla, ma poi socchiuse le palpebre e guardò più attentamente nel buio, finché non vide prendere forma di fronte a sé la figura di una ragazza in piedi e con le braccia lungo i fianchi.

«Chi sei? Vieni fuori!» La voce non gli tremava come avrebbe fatto un anno prima, infatti, durante quell’arco di tempo era riuscito a controllare meglio le sue emozioni e ad inquadrare l’obbiettivo: purificare il mondo dalla piaga dei vampiri. Con la coda dell’occhio lanciò uno sguardo verso il cassetto del comodino, dove conservava un altro paletto più grosso di quello che stringeva in mano, se solo fosse riuscito ad afferrarlo in tempo…

«D’accordo.» L’affermazione fu accompagnata da una leggera e cristallina risata divertita. La figura avanzò fino ad uscire completamente dall’ombra, rivelandosi. Era bionda, con il viso da bambola e le labbra piegate in un sorriso vittorioso.

Jake sbarrò gli occhi. Era lei. Quella era la vampira che lo aveva morso il giorno della sua iniziazione, quella che lo aveva quasi ucciso.
Sbatté le palpebre, non c’era tempo per pensare o per provare alcuna emozione.

Con tutta la forza che aveva, scagliò il paletto contro di lei, per poi allungarsi verso il cassetto e afferrare l’altro, preparandosi all’attacco.
Con sua grande sorpresa, la vampira non si spostò, anzi, rimase perfettamente immobile, tenendo gli occhi puntati su Jake. Quando il paletto la raggiunse, si conficcò sotto il suo seno, squarciando il vestito verde che indossava. Jake scese dal letto, pronto a finirla, ma poi si bloccò. La vampira stava ridendo.

«Non posso credere che tu ci abbia provato davvero!» Continuava a ridere come se trovasse l’intera situazione particolarmente spassosa. Con molta nonchalance estrasse il paletto dal suo petto e lo buttò per terra, macchiando di sangue il tappeto bianco ai suoi piedi. «Non puoi uccidermi.»

Sta mentendo, pensò Jake e tentò di lanciarle contro l’altro paletto, ma questa volta lei lo afferrò prima ancora che la sfiorasse.

«Non puoi uccidermi, è tutto inutile» continuò e Jake sentì la sua mente annebbiarsi. Doveva ucciderla, doveva riuscirci, i paletti avrebbero dovuto funzionare, ma forse aveva sbagliato qualcosa, forse poteva provare con l’acqua benedetta, forse doveva cercare dei rinforzi, ma non avrebbero avuto il tempo di arrivare, perché lei era entrata in casa sua, attraverso la finestra e…

Sbarrò gli occhi. I vampiri non dovrebbero entrare senza permesso.

«Sei proprio uno sciocchino, lo sai? Avresti dovuto controllare chi fosse il fattorino, prima di farlo entrare.» Lo disse come se sapesse esattamente cosa Jake stesse pensando.

Si sentì sprofondare. Era vero: due settimane prima stava giocando con sua figlia Ariel e aveva fatto entrare il fattorino della pizza senza nemmeno controllare, tutto ciò che aveva visto era solo una coda di cavallo bionda e non si era preoccupato di nulla. Idiota.
«Voi cacciatori non siete così bravi come dite di essere, eh? Siete solo delle piccole mosche.»

«Che cosa vuoi?» disse, cercando di prendere tempo. Doveva riuscire a prendere degli altri paletti, forse poteva provare a tagliarle la testa, magari poteva distrarla con una croce e poi con l’acqua benedetta…

Non gli diede tempo di fare nessuna di quelle cose.

In un attimo gli fu addosso, lo ributtò sul letto e si mise a cavalcioni su di lui, bloccandolo con la sua forza. Jake realizzò di essere bloccato e si sentì impotente: non sarebbe riuscito a prendere le sue armi nemmeno se ci avesse provato e lei gli impediva ogni via di fuga; si sentiva uno stupido per essere stato così poco attento e ora si trovava alla mercé di una vampira tornata per finire il lavoro che aveva iniziato quella notte. Fu solo per un momento, ma ebbe il timore di non essersi mai mosso dalla neve gelata e di essere ancora in quel bosco un anno prima.

«Quello che voglio» sussurrò «è il tuo sangue.»

Jake fece saettare lo sguardo e notò che dal cassetto aperto sporgeva un terzo paletto a cui non aveva pensato. In quel paletto vide l’occasione di avere la meglio sulla vampira, di liberarsi, doveva solo essere abbastanza rapido.

«Non ci pensare nemmeno» disse, il tono minaccioso e lo sguardo spaventoso non si addicevano al suo viso da bambola, così come non gli si addicevano i suoi occhi, che stavano lentamente prendendo striature scarlatte. «Non andrai da nessuna parte.» Si avvicinò al suo orecchio, fino a sfiorare la pelle con le labbra. «Sei mio, adesso.»

Jake credette di sentire le parole della vampira penetrargli la mente e offuscargli i pensieri dalla paura, ma in un momento di lucidità pensò che quello sarebbe stato il momento perfetto per allungarsi e prendere il paletto, avrebbe potuto colpirla sul collo per stordirla e poi l’avrebbe uccisa. Ancora una volta non ne ebbe il tempo.

La vampira affondò la mano destra fra i capelli di Jake e gli tirò la testa di lato, scoprendo il suo collo, poi vi affondò i canini affilati.
Jake provò a divincolarsi, ma prima che potesse sfuggire alla sua presa, si sentì sprofondare nel buio.
 









 
 
 
 
 
Note:
Dunque.
Sono abbastanza nervosa, non posso credere che la sto pubblicando, dopo così tanto tempo. È quasi un anno che ci lavoro, sia nella mia testa, che su carta, ma mai avrei pensato che l’avrei fatto davvero. Temo che le troppe puntate di Supernatural mi abbiano dato alla testa.
Comunque, ci tengo a dire un paio di cose.
La prima è che non ho davvero idea di dove andrò a finire con tutto ciò, insomma, l’ho progettata praticamente tutta, ma qualunque cosa può succedere.
La seconda è che quello che avete visto in questo prologo non è esattamente tutto. Quello che intendo dire è che andando avanti esplorerò le cose da altri punti di vista, chissà.
La terza è che, nel caso vi interessasse, Jake avrebbe il volto di Grant Gustin, personalmente non piace cercare i presta volto, ma dato che lui ne ha uno…
La quarta è che sicuramente ci saranno scene non esattamente allegre, nulla di eccessivamente esplicito, ma intanto preferisco mettere le mani avanti.
La quinta è che la canzone all’inizio è New Born dei Muse, inoltre il Pine Tree State Arboretum esiste davvero, sembra un posto carino.
Ultima, ma non per importanza, sono aperta a tutti i tipi di opinione, anzi, mi farebbe un grandissimo piacere sapere cosa ne pensate, se vi va.
Detto ciò, tornerò presto, spero.
Addio.

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Capitolo 2
*** Uprising ***


Uprising
They will not force us
They will stop degrading us
They will not control us
We will be victorious

 
Portland, Maine; novembre 2014

«Certo che ho compiuto ventuno anni. Vuole vedere un documento?»

Il barista, un uomo dall’espressione burbera e la barba incolta, scrutò la ragazza con aria sospettosa, ma poi scrollò le spalle e tornò a pulire i bicchieri. «D’accordo. Ma se succede qualcosa, non voglio casini, intesi?»

La ragazza sorrise. «Certo.»

Dopo che lo scambio di battute fu terminato e la ragazza si fu seduta al bancone, ogni persona presente al bar quella sera tornò a concentrarsi sul proprio drink e altri, come Jake, ripresero la partita di biliardo che avevano interrotto. Accanto a lui il suo amico e collega Andrew gli colpì la spalla con la stecca per attirare la sua attenzione. Andrew aveva ventisette anni, corti capelli biondo scuro, occhi verdi e la fama di cambiare ragazza ogni due mesi.

«È carina, no?»

Jake annuì. In effetti, era stato parecchio difficile non notarla, quando era entrata all’interno del bar: postura dritta e fiera, lunghi e lisci capelli scuri e occhi del medesimo colore, era vestita completamente di nero con pantaloni attillati e un top dalla generosa scollatura, sul quale spiccava un medaglione d’argento. Infine, portava un paio di stivali alti fino al ginocchio con il tacco lungo e sottile, ma nonostante questo si muoveva con andatura sicura e Jake pensò che fosse difficile credere che fosse solo una ragazzina, ma allo stesso tempo non riusciva a farsi un’idea di quanti anni avesse. Nel frattempo, la ragazza aveva accavallato le gambe e ordinato una birra che stava sorseggiando lentamente. Molti uomini non avevano staccato gli occhi da lei, come se su di loro fosse stato lanciato un incantesimo, e la ragazza aveva tutta l’aria di una che si stava godendo quelle attenzioni, anche se continuava a sorseggiare la sua birra in silenzio, le unghie smaltate che battevano ritmicamente sul boccale di vetro. Jake notò che era molto pallida e istintivamente strinse gli occhi, pronto all’attacco, ma lei era perfettamente calma in un luogo pubblico e forse era il nero a farla sembrare così pallida. Si convinse che non era pericolosa e tornò al suo biliardo.

«Sul serio, amico, dovremmo invitarla a giocare con noi» continuò Andrew colpendo una pallina.

«Sei così ubriaco che non ricordi di avere una ragazza?» Non che Andrew fosse propriamente ubriaco, ma generalmente dopo una caccia gli piaceva alzare il gomito, a modo suo per festeggiare. Quella sera non si sarebbe dovuto trovare nemmeno lì, infatti, Jake sarebbe dovuto andare a caccia con quello che era, o almeno era stato, il suo migliore amico, George, ma quel giorno era l’anniversario o qualcosa del genere suo e di Tyler, così era rimasto con lei ad Augusta, la loro città natale, per festeggiare, mentre Jake e Andrew, dato che entrambi vivevano lì, erano andati a cercare indizi sulla morte di diverse persone che venivano trovate con la gola tagliata: completamente dissanguati, ma senza una goccia di sangue addosso, tipico caso di interesse dei cacciatori. Era stato Jake a dare inizio alle indagini, successivamente era stato raggiunto dagli altri cacciatori.

«Non ho una ragazza, sono uscito con Mandy solo un paio di volte.» Andrew scosse la testa e poi lanciò un’occhiata maliziosa a Jake. «Ma, se proprio la vuoi mettere su questo piano, tu sei completamente single.»

Jake scosse la testa. «Non è il mio tipo.»

«Amico, è per tua figlia? Mi sa che Lexie abbia fatto in fretta a trovarsi un altro uomo.»

«Malcom è suo marito, non lo ha cercato a caso» precisò, «e non è per lei. Davvero, quella ragazza non è il mio tipo.»

«Ma è uno schianto!»

Può anche essere uno schianto, pensò Jake, ma non sarà mai bella quanto lei.

«Poco male, ce ne sarà di più per me. Come ho detto prima: io e Mandy siamo usciti insieme solo un paio di volte.» E si diresse verso il bancone.

Nel frattempo, un uomo si era seduto accanto alla ragazza.

«Come ti chiami, tesoro?» disse, mettendole una mano sulla coscia. Jake roteò gli occhi: il vecchio Tom era di nuovo ubriaco e forse l’intervento di Andrew sarebbe stato più utile che altro. Tom era un uomo che aveva da poco passato la cinquantina, ma i vizi del fumo e dell’alcol lo facevano sembrare molto più vecchio; era divorziato da diversi anni, perfino la moglie si era stancata di lui; ultimamente si vociferava che avesse perso il lavoro e non avesse più modo di pagare l’affitto, e invece di trovarsi un nuovo impiego, passava da un bar all’altro cercando di rimorchiare ragazze sempre più giovani.

Per risposta, la ragazza conficcò la punta di un tacco sul piede sinistro dell’uomo. «Le suggerisco di spostare la mano, prima che chiami la sicurezza.»

Tom gemette di dolore, ma non spostò la mano, anzi, rafforzò la presa. « Andiamo, tesoro, non far tanto la difficile.»

Prima che la ragazza potesse fare qualsiasi cosa, Andrew intervenne. «Non hai sentito? La signorina ha detto no.» E spinse via in malo modo il braccio di Tom.

Tom si alzò in piedi, scocciato. Era talmente ubriaco che si sentiva la puzza di alcol fino al tavolo da biliardo. «Fatti un po’ di affari tuoi, finocchio!»

Andrew, che aveva bevuto un po’ anche lui, strinse i denti dalla rabbia. «Sono un finocchio perché non importuno le ragazze con trent’anni meno di me? Ma levati dalle palle!»

«La finiamo? Non voglio problemi.» Il barista scavalcò il bancone e allontanò Tom, mentre Jake aveva raggiunto Andrew e gli stringeva una spalla.

«È lui che mi rompe i coglioni!»

«Sei tu, Tom, che rompi i coglioni.» Il barista spinse Tom fino alla porta.  «Non ti fare più vedere in giro!» E gliela chiuse in faccia.

«Vaffanculo!» Si sentì urlare dalla strada, ma Tom e il suo piccolo spettacolo furono presto dimenticati.

«Voi altri avete intenzione di dare problemi?» disse il barista, guardandoli male.

«No, stavamo andando via.»

L’uomo annuì in un gesto accennato. «Bene.» Continuò ad osservarli finché non furono tutti e tre fuori.

L’aria notturna li accolse, facendo scompigliare i ciuffi che si erano spostati sulla fronte della ragazza.

Andrew la guardò. «Tutto bene?»

Lei si scostò i capelli dal viso e sorrise leggermente. «Sì, grazie.»

«Io sono Andrew Ventura e lui è Jake Dallas.» Uno per volta le porsero la mano e lei le strinse, Andrew sentì che la sua era fredda a quel contatto, ma qualcosa lo indusse a credere che fosse solo per via del freddo.

«Io sono Morgan Williams.» Morgan incrociò le braccia al petto e rabbrividì. «Ho dimenticato la giacca.»

«Prendi la mia» si offrì Andrew, togliendosi la giacca scura e porgendola a Morgan, che gli sorrise grata e poi si affrettò a coprirsi.

«Allora, sei di qui oppure studi? Lavori?»

«Sono una babysitter, casa mia non è molto lontana.»

«Allora Jake ti può assumere!» scherzò, dando una pacca sulla spalla a Jake.

Morgan si dimostrò curiosa. «Hai una sorella?»

Jake roteò gli occhi. «Non proprio.»

«Comunque, grazie ancora per avermi dato una mano con quel tipo.»

Andrew le sorrise. «Non c’è problema. Tom è un idiota, spero solo che non si faccia più vedere in giro.»

Jake scrollò le spalle. «Probabilmente a quest’ora sarà già passato al bar successivo.»

«Peccato che non ci sia uno come te in ogni bar, allora. Sai, per aiutare le ragazze.» Si spostò una ciocca dietro l’orecchio.

«Questa sera ho dato una mano a te.»

Jake notò che i due avevano cominciato a scambiarsi delle occhiate, ma qualcosa lo induceva a pensare che ci fosse qualcosa di strano nella situazione.
Era un cacciatore, quindi era più che normale che fosse continuamente all’erta, ma questa volta aveva come un presentimento che sarebbe accaduto qualcosa di grosso.

Morgan stava rispondendo ad Andrew, ma Jake la interruppe. «Vuoi un passaggio per tornare a casa?»

La ragazza lo guardò sorpresa. «D’accordo, grazie.»

«Jake, ti posso parlare un secondo?» Andrew non aspettò una sua risposta, gli mise una mano sulla spalla, come aveva fatto lui poco prima, e si allontanarono di qualche passo. «Amico, stavo flirtando, non rovinare tutto.»

«Non lo so, Andrew, c’è qualcosa che non mi torna.»

«Jake, ha bevuto la birra, sentiva freddo. Non possiamo sospettare di tutti» disse, gesticolando vistosamente.

«Non sospetto di tutti, è solo che ho un presentimento» insistette.

Alzò gli occhi al cielo. «Lascia perdere i tuoi presentimenti, ok?»

Tornarono da Morgan, che stava camminando in cerchio, le braccia ancora incrociate sotto il seno. «Allora?» disse, fermandosi.

«È tardi, ti accompagniamo a casa.»

Percorsero i pochi metri che li separavano dell’auto di Andrew in silenzio. Quella sera lui era venuto a prendere Jake a casa per andare a caccia, e Jake fu grato che avessero messo tutto nel cofano per nascondere le armi alla vista, ma allo stesso tempo avrebbe voluto poter avere accesso a qualcosa, anche solo per stringerlo e sentirsi più forte. Negli anni era diventato più sicuro di sé come cacciatore, ma la maggior parte delle volte che si trovava fuori dalla comunità dei cacciatori, si sentiva fuori posto e sotto continua minaccia. Era venuto a vivere a Portland per sua figlia, dato che Lexie si era trasferita lì da anni con il marito, ma cominciava a prendere seriamente in considerazione l’idea di tornare ad Augusta, la distanza da casa sembrava colossale ogni volta che andava a caccia a Portland, da solo. Quasi si sentiva felice all’idea che stesse lavorando di nuovo con i suoi amici ad una serie di uccisione ripetute, anche se comportava la morte di diverse persone.

«Bella macchina» disse Morgan, quando furono saliti. Lei si era sistemata nel sedile posteriore in mezzo e aveva piegato la schiena, per poi poggiare i gomiti sui sedili di Jake ed Andrew. Il suo volto era così vicino a quello di Jake che lui poté vedere una fila di denti bianchissimi quando aprì bocca.

«Grazie» rispose Andrew con naturalezza, mentre Jake aveva ancora qualche sospetto sulla ragazza. Lei, però, sembrava trovarsi a suo agio in mezzo a loro e lui sapeva che l’unica cosa che i vampiri sapevano fare era mordere.

Morgan spiegò brevemente ad Andrew dove fosse casa sua. Jake tentò di intavolare una conversazione con lei.

«Sei nata qui o ti ci sei trasferita?» chiese, cercando un argomento.

Morgan poggiò il mento su un palmo. «Trasferita, vivo qui da due anni, quando ho cominciato a fare la babysitter.»

«Posso chiederti quanti anni hai?» fece Andrew con il tono divertito e le mani sul volante, mentre svoltavano una curva.

«Tu quanti anni mi dai?»

Ridacchiò. «Non lo so, non più di ventidue.»

Morgan sorrise. «Hai indovinato.»

«Quindi, vivi qui da quando hai vent’anni?»

La ragazza annuì. «Frequentavo l’università e stavo a casa di una mia zia, ma poi ho mollato, non faceva per me.»

«Perché? Cosa studiavi?»

«Medicina. L’ho fatto più per i miei genitori che per me, si aspettavano una figlia modello, ma non era la vita che desideravo io.»

Jake ruotò la testa per guardarla. Mentre aveva pronunciato quelle parole, aveva abbassato lo sguardo e dal tono sembrava perfettamente sincera.

«È giusto che tu abbia lasciato, devi essere libera di poter fare quello che desideri.» Andrew annuì alle sue stesse parole.

«Giusto, anche se studiare medicina ti può portare ad una grande carriera» disse Jake più rilassato.

Morgan strinse le labbra. «Non ce l’avrei mai fatta, il sangue e tutte quelle cose lì mi disgustano.»

Jake emise un verso stupito ed Andrew gli lanciò un’occhiata eloquente. «Beh, allora è stato meglio così.»

«Sì.»

Guidarono per altri dieci minuti. Durante quell’arco di tempo, Andrew e Morgan chiacchierarono parecchio e ogni tanto Jake si aggiungeva alla conversazione. Aveva capito che l’amico avrebbe desiderato poter essere da solo con la ragazza, quindi tentò di non essere invadente, ma allo stesso tempo non poteva escludersi totalmente dai loro discorsi.

Ogni tanto Andrew faceva una battuta e Morgan rideva, era una risata cristallina, ma diversa da quella di lei, sembrava più matura, in qualche modo più consapevole, ma d’altronde non aveva mai incontrato nessuna ragazza che ridesse come lei, era unica in tutto ciò che facesse.

Alla fine, arrivarono in un plesso di palazzi grigi e Morgan indicò il terzo piano come suo, salutò i due ragazzi e scese dalla macchina. Jake vide che Andrew la osservava e anche Morgan doveva essersene accorta, perché si girò nuovamente verso di loro e rivolse ad entrambi un grosso sorriso, anche se dopo aveva spostato lo sguardo su Andrew. Si tolse la giacca e la porse ad Andrew, ma lui scosse la testa.

«Tienila tu, magari un’altra volta torno a prenderla» disse, alzando un angolo della bocca in un sorriso che accennava malizia. Morgan sorrise e si rimise la giacca, poi si voltò e camminò verso il cancello.

I due ragazzi la osservarono camminare e solo quando fu entrata, Andrew ripartì.

«È simpatica, no?» La sua sembrava una domanda più retorica che altro.

«Sì, sembra anche dolce.»

Andrew alzò un sopracciglio. «Hai visto? Che ti avevo detto?»

Jake si limitò a roteare gli occhi. «A proposito di giacche, ne hai lasciata una a casa mia.»

«Giusto, tornerò a prenderla.»

Sbuffò leggermente, pensando a quante giacche il suo amico avesse lasciato in giro, senza mai preoccuparsi veramente di venirle a riprendere.

Continuarono a parlare del più e del meno, fino a quando non arrivarono anche a casa di Jake, ma in tutto quel tempo lui non aveva fatto altro che pensare a lei. Andrew e Morgan gli avevano fatto ricordare che non la vedeva da quasi due settimane ormai e gli mancava terribilmente. Gli mancavano i suoi occhi, il suo viso, la sua bocca, il suo corpo… Non faceva altro che pensarci. Sapeva che quel rapporto era sbagliato, ma non riusciva mai a staccarsi da lei; più tempo passavano insieme, più gli mancava quando non la vedeva e in quel momento la sua assenza era diventata insopportabile.

Fu per questo che tirò un sospiro di sollievo, quando la vide seduta sul divano a casa sua.
 
***

L’aria fredda della notte fu una liberazione.

Dopo aver passato ore a intrattenersi con degli umani, per di più cacciatori, la solitudine delle strade buie sembrava un sogno. Certo, non poteva godersi appieno il vento che le sferzava il viso, sentiva solo che era freddo, non le pizzicava piacevolmente le guance come un tempo, ma sapere di poter affrontare qualsiasi cosa senza debolezze come il troppo caldo o il troppo freddo le dava una sensazione di potenza unica.

Non era rientrata a casa, dopo che i due erano andati via, ma aveva preso la direzione opposta ed era ritornata verso il centro della città. Si guardò intorno alla ricerca di un vicolo o di un altro punto buio della strada dove poter agire indisturbata. Probabilmente anche quella notte si sarebbe dovuta accontentare di qualche uomo di mezza età ubriaco, perché non aveva tempo di mettersi a cercare un pasto più appetitoso; la missione in quel momento veniva prima di tutto.

In ogni caso, se la missione avesse sempre previsto il dover passare il tempo con quei due, sarebbe stata una passeggiata: due cacciatori erano stati in compagnia di una vampira per ore e non se n’erano neppure accorti. Che razza di idioti.

Anche se stare tutto quel tempo vicino a sangue umano senza poterne toccare una goccia le aveva fatto fisicamente male, si era divertita parecchio ad osservare i cacciatori che avevano davanti ai loro nasi una delle loro prede e non facevano assolutamente nulla perché non consapevoli; allora, non erano affatto forti e pericolosi come si diceva, se non avevano riconosciuto lei, figuriamoci dare la caccia ad un vampiro. Inoltre, il premio che le offriva il compimento della missione era qualcosa che aspettava con impazienza da decenni e sarebbe valso anche passare giornate intere senza toccare una goccia di sangue. Quella sera, però, era stanca, poteva sentire battiti di cuori umani distanti miglia, così come avvertiva il suono dello scorrimento del sangue ronzarle nelle orecchie…

Basta, non c’era più tempo. Doveva trovare del sangue e in fretta.

Cominciò a camminare rapidamente in cerca di qualcuno, di chiunque. Sentiva soltanto la fame, non mangiava da giorni e nella mente le rimbombava un unico pensiero: sangue, sangue, sangue…

Non dovette camminare molto, prima di trovare qualcuno. Si muoveva per la strada barcollando e mormorava qualcosa di incomprensibile con la voce impastata, la puzza di alcol che emetteva le punse le narici, quando respirò per sentire l’odore dell’aria, ed emise un verso di ribrezzo: l’alcol era disgustoso, non ne avrebbe più toccato un bicchiere, nemmeno per rendere più credibile la recita. L’uomo mosse qualche altro passo in avanti e si voltò verso di lei, e allora lo riconobbe: era l’uomo che nel bar le aveva toccato la coscia. Bene. Un maniaco ubriacone in meno.

L’uomo si mosse verso di lei, visibilmente instabile sulle sue stessa gambe. «Ehi, tesoro, che ci fai qui tutta sola?»

Qualcosa si smosse dentro di lei, facendole dimenticare per un attimo la fame atroce che sentiva e facendole godere quel momento in cui quell’uomo era lì impotente ed ignaro di fronte a lei, grande e grosso, ma in realtà del tutto vulnerabile. Il brivido della caccia.

«Seguimi» sussurrò. Il tipo era talmente ubriaco che non avrebbe fatto alcuna domanda, e lei aveva fretta ed era affamata.

Come previsto, l’uomo la seguì senza battere ciglio, attraverso i vicoli della città, probabilmente troppo occupato a pensare di essere riuscito a conquistare una ragazza come lei, che sospettare qualcosa. Che idiota, come se avesse davvero potuto anche solo avvicinarsi a lei.

Si fermarono in un vicolo poco lontano dal bar dove si erano incrociati quella sera. Lo condusse nella parte più buia del vicolo e poi a riparo dietro un cassonetto verde scuro, anche se non si sarebbe potuto dire verde con il buio che c’era, ma lei, in fondo, non era una persona normale.

«Vieni qui, piccola.» L’uomo lasciò cadere il boccale di birra che teneva in mano ed esso andò in mille pezzi; poteva sentire ciascun frammento infrangersi al suolo. Le mise le mani sui fianchi e la avvicinò a sé, così lei poté vedere ogni singola goccia di sudore attraversargli la fronte, e in quel momento fu grata di non aver bisogno di respirare.

Sentiva le sue mani che risalivano i suoi fianchi, fino ad arrivare a sfiorarle il seno. Quasi rideva al pensiero che quel tizio credesse di avere anche una minima possibilità con lei. Gli avvolse le braccia attorno al collo e sfiorò con le dita i capelli sudati, mente l’uomo la guardava con visibile desiderio.
Quanto amava la caccia. Si alzò in punta di piedi e avvicinò le labbra alle sue, respirando profondamente in modo che il suo fiato si confondesse con quello dell’uomo, che aveva portato una mano alla sua testa e si era sporto per baciarla. Quando amava quel gioco. Non si lasciò baciare, ma chinò la testa verso il collo dell’uomo, continuando a fargli sentire il respiro sulla pelle, poi portò la bocca più vicino al suo collo, fino a sfiorare la gola con le labbra.
Forse il grido dell’uomo sarebbe stato sufficiente per chiamare qualcuno, ma era troppo tardi: l’aveva già morso.

Rafforzò la presa sul corpo dell’uomo con le braccia e fece affondare ancora di più i canini nel suo collo, godendosi la sensazione del corpo immobilizzato dalle sue braccia e della vita che scivolava via dalle sue mani, i gemiti strozzati e il sangue caldo che le inondava la bocca. Aveva un sapore leggermente aspro per via dell’alcol, ma aveva il solito sapore dolce ed allo stesso tempo deciso tipico degli uomini umani, era caldo e denso, e tutto era reso migliore dalla soddisfazione di aver condotto quello stupido umano in una trappola mortale.

Smise di bere solo quando sentì che i battiti del cuore dell’uomo stavano pericolosamente rallentando, allora tirò fuori i canini dalla sua carne e li passò su tutto il collo dell’uomo, per creare una ferita che ricordasse quella di un coltello, tanto gli umani non erano capaci di distinguere un morso da una gola tagliata con un’arma.

Non si fece molti problemi a lasciare lì il corpo, ma si passò entrambe le mani sulla bocca e poi sulla camicia a quadri dell’uomo per pulirsi. Immerse le mani nelle tasche dell’uomo, alla ricerca di qualcosa che potesse esserle in qualche modo utile. Sorrise quando vide che nel portafogli marrone era rimasto qualcosa di soldi in contanti, velocemente controllò quanti fossero e in fretta se li mese in tasca, poi si sistemò i capelli e tornò sui suoi passi.
Morgan sorrise. Quanto amava il sangue.
***

«Ciao, Jake» disse con tono suadente. Era seduta sul divano beige del suo appartamento, le gambe accavallate, con un gomito poggiato sulla spalliera e il mento poggiato sul palmo.

«Sei qui.» Lasciò cadere la sacca che aveva ripreso dalla macchina di Andrew per terra e mosse qualche passo verso di lei.

Spostò il braccio dalla spalliera e picchiettò con la mano sul posto libero accanto a lei. «Siediti.»

Jake obbedì e si sedette di fianco a lei, senza mai distogliere lo sguardo dalla sua figura, facendo scivolare lo sguardo sul suo corpo fasciato da una camicetta di seta rossa e un’aderente gonna nera. I capelli biondi erano sciolti e le incorniciavano il viso pallido, le labbra rosee curvate in un sorriso.
«Cosa hai fatto oggi?» gli chiese, anche se non sembrava essere interessata alla risposta, ma cominciò ad accarezzargli una guancia con i polpastrelli.
Jake si rilassò sotto le sue dita, ogni volta che lo toccava, si sentiva tremare e senza forze. «Sono andato a caccia e poi sono uscito con Andrew. Ha incontrato una ragazza che gli piace.»

Non smise di accarezzarlo. «E com’è questa ragazza?» Il tono era neutro, ma Jake sapeva che c’era altro sotto, che si sarebbe arrabbiata molto, se avesse anche solo guardato un’altra, poteva vedere nei suoi occhi un accenno di rabbia ben celata.

«Non è il mio tipo.»

Fece scorrere la mano sulla sua mascella e poi si fermò all’altezza della bocca, accarezzandogli lievemente il labbro con il pollice. «E chi sarebbe il tuo tipo?» sussurrò.

«Tu. Solo tu.»

Sorrise soddisfatta. «Bene, lo sai quanto io possa diventare gelosa

Deglutì. L’aveva vista arrabbiata una volta, e quella sera avrebbe davvero potuto uccidere qualcuno, se non l’avesse fermata. Però, non capiva perché si preoccupasse tanto: non lo sapeva che per lui al mondo non esisteva nessun’altra? Da quando l’aveva conosciuta, non aveva più neanche considerato l’idea di avere una ragazza, c’era solo lei e basta.

«Lo sai che voglio soltanto te.» Provò a ricambiare la sua carezza, ma lei non glielo lasciò fare, gli prese la mano che aveva sollevato e la intrecciò con la sua, per poi portarle sul suo grembo.

«Non mi piace quando parli con le altre ragazze. Come si chiamava?» Jake si accigliò, ma lei agitò la mano libera come a voler scacciare una mosca. «Non le farò nulla, finché ti starà lontana. Come si chiama?»

Forse sarebbe stato più saggio non rivelarle il nome della ragazza, ma a Jake bastò incrociare per un secondo il suo sguardo per cambiare idea. «Morgan Williams, credo.»

Fu solo per un secondo, ma a Jake sembrò di vedere una scintilla negli occhi di lei, come se in quell’istante si fosse ricordata di qualcosa di molto importante, come un ricordo assopito che lui aveva risvegliato.

«La conosci?» chiese, confuso.

Scrollò le spalle, facendo agitare la chioma bionda, e la scintilla era sparita. «Certo che no.»

Era strano, gli era sembrato che nascondesse qualcosa, ma cambiò presto idea. Lei aveva alzato il mento e aveva preso a guardarlo con intensità, gli occhi puntati sui suoi che lo attiravano come calamite.

«Voglio che tu le stia alla larga, capito?» Non lo disse come una minaccia, il suo tono era sempre lento e basso.

«Perché? Lei piace ad Andrew, non a me» insistette.

Strinse i denti. «Tu fa’ come ti dico.»

C’era una parte del cervello di Jake che continuava a suggerirgli che ci fosse qualcosa che non andava in quella conversazione; un’altra, invece, sussurrava che sarebbe dovuto scappare lontano, che era tutto sbagliato, che quella relazione era immorale e contro i suoi principi, che stava tradendo la sua stessa famiglia, i suoi amici, la sua comunità. C’erano dei momenti, a tarda notte, dove lui si svegliava, la fronte imperlata di sudore e i battiti del cuore accelerati, allora, pensava che doveva finirla, che la prossima volta che lei si sarebbe presentata a casa sua, l’avrebbe cacciata via, che avrebbe raccontato tutto ai suoi amici e che si sarebbe fatto aiutare ad eliminarla, ma poi arrivava il giorno e il ricordo dei suoi occhi azzurri riaffiorava nella sua mente e si ricordava che non c’era nulla di sbagliato, che era giusto che lei venisse lì da lui e prendesse ciò che volesse.

Come aveva fatto tante altre volte, lei gli prese il viso con entrambe le mani e lo guardò intensamente. Jake si lasciò perdere nei suoi occhi, lasciando che l’azzurro intenso cancellasse tutto quello che c’era attorno a loro: la sua casa, il suo lavoro, perfino il suo nome diventavano cose esterne, superficiali. In quel momento, esisteva solo lei, tutto il mondo girava intorno a lei, nient’altro aveva importanza.

Lo baciò. Avvicinò il suo viso a quello di Jake e poggiò le labbra sulle sue. Ogni volta, Jake si stupiva di quanto quelle di lei potessero essere così fredde e morbide allo stesso tempo, erano lisce e perfette, e l’assenza di calore non gli portava via nessuna sensazione, anzi, aggiungeva un fascino particolare a quel contatto, come se stesse baciando una rarità perfetta che si era conservata nel tempo. Sentì il suo cuore accelerare, allora, la strinse a sé, avvolgendo le braccia sulla sua vita, mentre lei faceva scendere le mani dal suo viso, per poi intrecciarle dietro il suo collo. Strinse i suoi fianchi e poi la sollevò, fino a farla sedere a cavalcioni su di lui.

Si staccò da lui e riprese ad accarezzargli delicatamente il viso; il suo tocco era freddo, ma a Jake sembrava di sentirlo bruciare lo stesso. Lentamente, fece scorrere le mani sulla sua pelle, scendendo fino al suo collo, per poi premere delicatamente sul lato di esso con la punta del pollice.
Non gli disse nulla e non chiese il permesso. Abbassò il viso e lo morse.

Il dolore passò in fretta, era così abituato al fastidio dei canini che si aprivano un varco nella carne, che quasi non ci faceva più caso. Dopo quella sensazione, c’era solo l’oblio. Puro piacere che creava oblio. Era quello il momento in cui Jake si sentiva più perso, quasi si dimenticava di esistere, concentrato com’era sul piacere che le labbra di lei gli procuravano. La loro freddezza faceva da anestetico alla ferita procurata dai denti, e poi si muovevano succhiando dal suo collo, mentre lei stringeva i suoi capelli fra le dita. Aveva la testa inclinata di lato, per permetterle più accesso, e in qualche modo il sapere di essere totalmente arreso a lei lo rilassava, gli faceva dimenticare tutto e aumentava solo il piacere. Lei continuava a succhiare e a succhiare, e Jake sapeva che questo la rendeva felice, perché era certo che lei sarebbe venuta sempre e solo da lui, che tutto era in funzione di quel momento, che anche lei provava le stesse sensazioni, gli stessi sentimenti…

Si staccò troppo presto.

L’unica cosa che consolava Jake dalla fine del contatto era il vedere la soddisfazione nei suoi occhi, il sapere che era stato lui a procurargliela.

«Ti amo» sussurrò.

Lei sorrise. «Sì.»
***

Qualche giorno dopo, i cacciatori più giovani erano tutti riuniti a casa di Jake, nessuno avrebbe mai indovinato cos’era successo qualche sera prima.
La casa di Jake non era molto grande, era un piccolo appartamento con l’ingresso che dava direttamente sul salotto e sulla cucina, aveva un bagno e due camere da letto, una per lui e una per sua figlia. Non aveva mai riflettuto molto su come doverla arredare, quindi la maggior parte dei mobili era stata scelta da sua madre. 

Si trovavano nel salotto, ma alcuni erano più nello spazio riservato alla cucina, con i gomiti poggiati sul bancone, altri erano seduti sul divano, altri ancora in piedi. Quel pomeriggio si trovavano a casa di Jake parecchi suoi vecchi amici, e la cosa lo faceva sentire a casa, come se non avesse mai lasciato la sua città natale. C’era Andrew, che dalla sera dell’ultima caccia non aveva più lasciato la città; c’era George, quello che un tempo era il suo migliore amico, anche se si erano allontanati negli ultimi anni per via del trasferimento di Jake; poi erano anche presenti Tyler e Sarah, la prima era la fidanzata storica di George, la seconda la sorella minore di Tyler, entrambe giovani, ma, da quel che aveva sentito Jake, ottime cacciatrici, degne eredi del padre; era anche venuta la scorbutica Janelle, orgogliosa ragazza di venticinque anni, che evitava di dimostrarsi acida soltanto con Christine, la sua ragazza, che al contrario di lei era una ragazza molto dolce; Thomas, che era un uomo poco più grande di Andrew, ma con un gran senso del dovere, li aveva raggiunti all'ultimo minuto; infine, la più giovane di tutti, Lydia, era la sorella minore di George e a soli vent’anni aveva già ucciso tre vampiri giovani, diventando molto famosa fra tutti i cacciatori, da quello che ne sapeva Jake, la cosa infastidiva George, che era finito con l’essere messo in ombra dalla sorella, che si supponeva dovesse prendere esempio da lui. Era strano pensare a come fossero cambiate le cose, da quando Jake era piccolo: adesso, nel loro gruppo di nove, c’erano più donne che uomini.

Thomas, in piedi a fissare l’elenco delle vittime poggiato sul tavolino da caffè rettangolare, scosse la testa. «Si era fermato per un paio di giorni e poi ha riattaccato, ha fatto un’altra vittima il giorno successivo e ora è di nuovo fermo. Non è un comportamento normale: sempre nella stessa città, sotto gli occhi di tutti…»

«Corrono il rischio che la polizia inizi ad indagare.»

«Lo sta già facendo, Lydia. Quello che non capisco è perché non si sposti.» Thomas inarcò le sopracciglia.

«Ma non sospettano qualcosa?» intervenne Christine, scuotendo i ricci rossi.  «Non si vede dall’autopsia che la ferita è stata inflitta post mortem
«Sì, ma così si chiederanno come hanno fatto i corpi a dissanguarsi, se la gola delle vittime è stata tagliata successivamente, e non troveranno risposta» disse Janelle.

«Lasciate perdere la polizia, non ammetteranno mai di non avere alcuna soluzione.» Sarah incrociò le braccia. «Dobbiamo pensare che sia qualcuno di molto forte.»

«Un Superiore? Probabile.»

«Allora, dovremmo prepararci a combatterlo.» Dalla cucina giunse la voce di George. Jake non aveva bisogno di guardarlo, per sapere che aveva stretto i denti. Un tempo, lo conosceva benissimo, ma negli ultimi anni si erano allontanati così tanto, che a volte gli sembrava fosse un estraneo.

Andrew agitò una mano. «Calmiamoci un momento, vi ricordo che i Superiori sono estremamente rari.»

«E chi pensi abbia fatto questo?»

Scrollò le spalle. «Non lo so.»

Tyler si scostò la treccia bionda da una spalla. «Andrew, ha ragione: un vampiro comune non avrebbe fatto una cosa così. Quello che dovremmo capire è perché, solo così potremmo avvicinarci alla sua identità.»

«Ah sì? Non mi risulta che tu abbia un fascicolo su ogni vampiro esistente» disse Janelle sarcastica.

«Non intendevo dire questo.»

«Ragazze, smettetela.» Thomas riprese il controllo della situazione. «Tyler, il tuo modo di vedere la situazione è giusto, ma non conosciamo ogni singolo vampiro.»

«Ma il perché potrebbe aiutarci, no?»

«E da quando i vampiri hanno bisogno di un perché?» George guardò Jake con un sopracciglio alzato, come se avesse detto qualcosa di assurdo. Le volte che si rivedevano, Jake pensava a quanto fosse cambiato in quegli anni: era diventato identico al padre, abbandonando i modi rilassati che lo avevano sempre caratterizzato. «Tutti noi sappiamo che sono dei crudeli assassini, che uccidono per piacere.»

«E se ci sbagliassimo?»

Tutti gli sguardi si puntarono su di lui. Poteva vedere ogni suo singolo amico fissarlo sbigottito, anche se non era più certo che quelli fossero i suoi amici. Christine e Sarah avevano la bocca semi aperta, come se avesse detto qualcosa di impossibile e di assurdo; Janelle lo guardava sospettosa, e Jake ebbe l’impressione che fosse indietreggiata leggermente; George aveva stretto gli occhi, in un’espressione identica a quella della sorella; Tyler aveva strabuzzato gli occhi; Andrew era visibilmente confuso. L’unico che non sembrava stranito era Thomas.

«Che cosa intendi dire con questo, Jake?» gli chiese con calma. Thomas non era un tipo che saltava a conclusioni affrettate, anche quando sembravano ovvie.

Sbatté rapidamente le palpebre. «Ecco, intendo che forse c’è una ragione per cui è rimasto qui, non deve essere una cosa casuale dovuta alla fame.»
Tutti si rilassarono, soddisfatti della sua spiegazione, tranne George, che rimase accigliato. Jake si sentì ferito da quello sguardo, gli mancava il suo migliore amico, e in quell’occasione era stato il primo ad accusarlo. Avrebbe voluto che le cose fossero come prima.

«Dobbiamo presumere che abbia uno scopo, quindi.»

«A questo punto, potremmo anche supporre che si tratti di più vampiri.»

«No, le gole erano tagliate tutte allo stesso modo.»

«Ma perché questa città? C’è qualcosa che trattiene qui il vampiro?»

C’è qualcosa che trattiene qui il vampiro?

Quelle parole risuonarono nella testa di Jake. Poteva essere stata lei?

«Forse dovremmo concentrarci sulle vittime» suggerì Sarah.

Andrew strinse le labbra. «Tredici. Sette donne e sei uomini, tutti di età differenti, dai trenta ai sessanta, anche se ci sono state un paio di vittime più giovani.»

«Sono troppe.»

Tredici vittime. Non era mai capitato che ce ne fossero così tante in un solo periodo. In quella situazione tutti loro erano spaesati, non erano abituati a quel genere di situazioni, in genere, si risolveva tutto con un’unica uccisione, ma quella volta era diverso. Non avevano mai dovuto dare la caccia ad un vampiro che uccidesse così tante persone, di solito, il vampiro faceva due o tre vittime e poi loro iniziavano a dargli la caccia. Negli ultimi due mesi, avevano provato ad andare a caccia, ma senza alcun risultato, ogni volta che arrivavano in un posto, il vampiro era già passato al successivo.

Si erano riuniti altre volte, avevano elaborato strategie su strategie, si erano detti che non era diverso da un qualsiasi altro vampiro che avessero mai affrontato, che non c’era motivo di preoccuparsi, che l’avrebbero risolto in fretta. Ma la verità era che non avevano la minima idea di cosa fare.

«Chi è l’ultima vittima?» chiese Janelle.

«Si chiamava Tom Carter, è stato trovato in un vicolo.» Jake lanciò un’occhiata ad Andrew, ma quello non gli diede retta.

«Non facciamo progressi!» sbottò. «Non ci abbiamo messo mai più di tre settimane e sono quasi passati due mesi e la gente continua a morire e non stiamo facendo bene il nostro dovere!»

Thomas gli mise una mano sulla spalla. «Calmati, troveremo un modo per risolvere la faccenda.»

Un dubbio si insinuò dentro Jake.

«Datti una calmata, Andrew, impazzire di certo non ci aiuterà.» Christine si alzò in piedi. «Qui siamo tutti stressati, ma dobbiamo riflettere e usare la testa. Cerchiamo di capire dove colpirà la prossima volta.»

«Dovremmo dividerci e pattugliare la città, aspettare che colpisca» suggerì Lydia. «Non attacchiamo subito, aspettiamo di vedere chi è il vampiro. Una volta fatto questo, organizzeremo un attacco.»

Thomas annuì d’accordo. «Buona idea.»

«I nostri paletti basteranno? Forse ci vuole qualcos’altro.»

«Non credo, se riusciamo a circondarlo…» Janelle passò con naturalezza una mano tra i capelli rossi di Christine. L’unico gesto d’affetto che si concedeva in pubblico.

«Dobbiamo essere pronti, potrebbe riattaccare in qualsiasi momento.» George si spostò al fianco della sorella.

«Giusto, cominciamo da subito.» Tyler si alzò in piedi. «Organizziamo le postazioni.»

«Ci siamo tutti per stasera, giusto?»

La domanda posta da Thomas era retorica, tutti lo sapevano. Quando si trattava di fare cose come dividersi in giro per la città, ognuno dava la propria disponibilità, senza pensarci due volte. Nessuno si sarebbe aspettato che qualcuno si fosse assentato, semplicemente bisognava andare e basta.

«In realtà, io avrei un impegno.»

Come poco prima con Jake, tutti si voltarono verso Andrew.

«Che cosa dovresti fare?»

«Porto fuori una ragazza.» Normalmente, avrebbe scoccato un’occhiata maliziosa, ma si trattenne.

«Una ragazza? La gente sta morendo, Andrew.» Sarah lo guardò con severità.

«Beh, nessuno qui si è lamentato, quando George e Tyler hanno preferito uscire a cena, piuttosto che andare a caccia.»

«È una cosa diversa,» intervenne il ragazzo, «era solo una caccia, non una cosa del genere.»

Andrew si rabbuiò. «Che ne sai che non avevo un altro impegno e ho dovuto disdire per colpa tua?»

«Ma chiudi la bocca! Non pensi ad altro che a scopare!»

Dovettero trattenerli prima che scoppiasse una rissa.

Jake afferrò le spalle di Andrew. «Basta, adesso.»

Thomas trattenne George. «Non siete più dei ragazzini, comportatevi in modo maturo.»

«Controllerò io per Andrew, tanto saremmo andati a coppie, giusto?» si offrì Jake, nella speranza che si raggiungesse un accordo.

«Bene, allora!» sbottò Andrew, mentre George non disse nulla, limitandosi a stringere i pugni.

Non erano mai andati molto d’accordo, ma negli ultimi due mesi si ritrovavano a litigare spesso. Jake pensò che avrebbe fatto solo bene a coprire Andrew, così entrambi sarebbero stati accontentati e avrebbero evitato di seminare ulteriore zizzania. Probabilmente, anche gli altri non erano molto d’accordo che lui andasse in giro, ma Jake sapeva che sarebbe rimasto scorbutico per tutta la durata dell’osservazione, quindi era meglio che si presentasse a quell’appuntamento, e magari dopo gli sarebbe passata. In fondo, lui non poteva giudicare.

La situazione si calmò, tra i borbottii scontenti di Lydia, gli sbuffi di Janelle e Thomas che guardava di soppiatto Andrew.

Jake pensò che forse c’era qualcosa sotto. Forse la ragazza, Morgan, era collegata agli omicidi, forse era lei la chiave di tutto. In quel caso, avrebbe dovuto avvertire Andrew, sarebbe stato pericoloso trovarsi fuori con lei di sera, senza alcuna arma per difendersi. Inoltre, anche lei sembrava aver pensato qualcosa, quando le aveva rivelato il suo nome.

Scosse la testa. Quella lì era solo una coincidenza, Morgan era una normalissima ragazza, aveva bevuto, sentito freddo e non aveva provato alcun desiderio di sangue umano, pur rimanendo con loro per un po’. Avrebbe dovuto smettere di sospettare di chiunque, lui, che era il primo che tradiva la sua stessa razza.

«Bene, allora, che la caccia abbia inizio.»

Tyler lo disse per alleggerire la tensione creata probabilmente, ma Jake sapeva che era lì il vero inizio.
 
 
 
 
 
 


Angolo autrice:
Beh, salve.
Intanto: la canzone all’inizio è Uprising dei Muse, da cui è tratto anche il titolo, chiaramente.
Come potete vedere, qui ho introdotto un altro po’ di personaggi e diciamo che questi saranno i veri protagonisti.
In realtà, quella che mi preoccupa di più è Morgan, ci tengo tantissimo a lei, spero proprio che, magari con il tempo, vi piacerà.
E nel caso vi interessasse, il presta volto di Andrew è Jensen Ackles, eheh.
Un’altra cosa. Dopo questo ho altri tre capitoli scritti, quindi non sono sicura dopo con quanta frequenza riuscirò ad aggiornare. Mi sembrava giusto dirlo.
Detto questo, vado.
Addio.

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Capitolo 3
*** Unintended ***


Unintended
You could be my unintended
Choice to live my life extended
You could be the one I'll always love

You could be the one who listens
To my deepest inquisitions
You could be the one I'll always love



«Hai freddo? Vuoi la mia giacca?»

Si strofinò la mano su un braccio. «Non c’è bisogno.»

Scosse la testa. «Prendila, dai.»

Afferrò la giacca verde scuro che le stava porgendo e la indossò, per poi sorridere. «Grazie.»

Andrew ricambiò il suo sorriso, curvando l’angolo sinistro delle labbra sottili verso l’alto e strizzando un occhio. Aveva un modo tutto suo di rivolgere un sorriso, considerando che lo rivolgeva praticamente a chiunque. Si passò una mano fra i capelli biondi, soffermandosi a stringere i ciuffi più corti sulla nuca.
Quella sera, sarebbero dovuti andare a cena fuori, ma lei aveva insistito per fare una semplice passeggiata. Non era da lui portare a cena le ragazze con cui usciva, in genere, preferiva incontrarle nei bar o addirittura arrivare al sodo la sera stessa che le conosceva, per poi chiuderla lì; non era mai stato un tipo da appuntamenti, preferiva di gran lunga il brivido di una semplice e unica notte. Non era sicuro di cosa lo avesse spinto a proporle una cena vera e propria, c’era qualcosa di diverso in quella ragazza, qualcosa che gli faceva sentire che era speciale.

Continuarono a camminare.

Il centro di Portland era davvero bello. C’erano palazzi di mattoni rossi, bassi e angolari; lampioni che illuminavano la strada, non erano i soliti lampioni che si trovavano nelle autostrade, ma erano neri, non molto alti e racchiudevano la luce bianca in una struttura dal sapore antico; le strade erano piene di vita, e le insegne dei negozi luccicavano.

Non c’erano stelle, in cielo: oltre alle luci della città moderna a nasconderle, le nubi grigie si erano addensate sopra di loro, oscurando perfino la luce. Faceva freddo, quella sera, nonostante Morgan indossasse già un coprispalle lungo, aveva avuto bisogno della sua giacca per coprirsi. Lanciando un’altra occhiata in alto, si chiese se avrebbe piovuto.

«È tutta la sera che parliamo di me, dimmi un po’ della tua vita.»

Andrew fu stupito da quell’affermazione: di solito, quando usciva con delle ragazze, l’unico argomento ammesso era su di loro. Eppure, era vero che non avevano fatto altro che parlare strettamente della vita di Morgan, lei gli aveva raccontato della sua vita, della sua famiglia, si era aperta con lui ed era solo il primo appuntamento.

«Non c’è molto da dire, in realtà.» Spostò lo sguardo da lei, in cerca di qualcosa da dire. «Sono originario di Augusta, faccio il meccanico, nulla di speciale.»

Morgan roteò gli occhi con un sorriso accennato. «È la tua vita, e la tua vita è speciale.»

Le sorrise. «Beh, sono stato un po’ in giro.»

«Tipo?»

«Sai com’è, ho visto qualche città del Maine, qualcosina in altri stati» disse, alzando le spalle.

«Come mai?» Andrew notò che spesso tendeva a premere gli incisivi sul labbro inferiore, pur continuando a sorridere.

«Piacere personale, nulla di più.» Era una bugia, ma non serviva che lei lo sapesse.

«E chi fai qui a Portland?» Non sembrava affatto intenzionata a chiudere l’argomento.

Andrew sospirò. «Mi sono trasferito un po’ per cambiare aria, un po’ per fare compagnia a Jake.»

«Sì? Vi conoscete da molto?» Si avvicinò a lui ed Andrew le mise un braccio intorno alle spalle.

«Da quando eravamo piccoli.»

Gli accarezzò un braccio. «È bello che siate rimasti amici per così tanto tempo.»

«Già.»

«Mi piace davvero molto questa città» disse.

«È vero, ma casa è sempre casa.»

«Sì, è vero.» Abbassò lo sguardo e si morse un labbro, Andrew pensò che forse era la nostalgia.

«Ti manca New York?»

Girò la testa di lato, in modo da guardarlo negli occhi. «Non tanto spesso, sai? È come se lasciando New York avessi chiuso un capitolo della mia vita, ed in effetti è così. A volte penso a com’erano le cose prima, alla mia famiglia e alla vita che avevo prima, ma poi mi ricordo di come sono ora e non sono più triste. Se potessi tornare indietro, sceglierei comunque di andare via, non mi sono mai pentita di ciò che ho fatto.»

Fu colpito da ciò che gli aveva detto. Erano passati da semplici conversazioni formali, a qualcosa di più profondo, come era normale, ma dal modo in cui aveva parlato, sembrava che avesse svelato una cosa molto importante. «Meglio così, allora. L’importante è che tu stia bene con quello che fai.»

Sorrise, ma senza mostrare i denti, questa volta. «E tu? Sei felice con ciò che sei e con la vita che vivi?»

Non ebbe alcuna esitazione nel rispondere. «A volte è complicato, ma so che è la cosa giusta da fare.»

«Per te o per gli altri?»

«Per il mondo.»

«Fare il meccanico è importante per il mondo?» Morgan ridacchiò, convinta che avesse fatto una battuta.

Scrollò le spalle. «Che posso dire, non sai quante auto ci sono da sistemare.»

Camminarono in silenzio per qualche minuto, con Andrew che stringeva le spalle di Morgan e lei che ricambiava la stretta, tenendo le dita sottili poggiate sulla sua maglietta nera. La pelle bianca di lei spiccava particolarmente contro il tessuto scuro.

«Mi piace parlare con te, sai?» Ed era vero. Non aveva mai intrattenuto conversazioni particolarmente profonde, limitandosi solamente a scoprire quelle poche informazioni essenziali per non dover chiamare qualcuna “sconosciuta”, ma con Morgan era diverso, lei era diversa. Quando aveva risposto, prima, si era reso conto di non essersi mai chiesto nulla sulla sua vita da cacciatore, non si era mai posto il problema del se fosse veramente felice o meno, eppure, lei aveva tirato fuori quell’argomento, seppur inconsciamente.

Si fermò. «Anche a me piace.»

Si prese un momento per osservarla meglio. I lisci capelli scuri le incorniciavano il viso, la pelle era pallida e liscia, le linee delicate del volto erano perfettamente completate da un naso piccolo, le labbra tinte di rosso e gli occhi scuri e profondi. A prima vista, li avrebbe definiti neri, ma se guardava meglio, poteva notare che erano di un particolare castano scuro.

Quei pochi momenti che aveva trascorso con Morgan gli avevano fatto rivalutare l’idea del colpo di fulmine. Lui non era quel tipo di ragazzo, lui non passava le ore ad osservare la foto di una conosciuta in un bar, struggendosi, ma lei aveva totalmente catturato la sua attenzione, era come se non riuscisse più a pensare ad altro, come la sua mente fosse stata del tutto svuotata e riempita solo con il pensiero di lei.

 Doveva sicuramente trattarsi di un colpo di fulmine.

Si udì lo squillo di un telefono.

«Scusa, è il mio» si affrettò a dire Morgan, immergendo rapidamente la mano nella borsa che teneva appesa su una spalla. Quando la riemerse, Andrew notò che il suo telefono era un modello piuttosto vecchio.

«Solo un secondo.» Indicò alle sue spalle con tono allusivo.

«Non c’è problema.»

Morgan si allontanò di qualche passo da lui, così si mise le mani nelle tasche dei jeans e prese a camminare avanti e indietro, per ingannare l’attesa.

Riuscì a cogliere qualche sprazzo della conversazione.

«Sei sicuro che sia quello giusto?» Da lontano, lo guardò di sottecchi e si affrettò a girare la testa. «Bene, ma non ho modo di arrivare lì. Escogiterò qualcosa. Sì, di questo sono convinta. Ok, ciao.»

Chiuse la chiamata e mise a posto il telefono, poi tornò verso Andrew.

«Scusami ancora» disse, chinando leggermente la testa di lato.

Scrollò le spalle. «Non ti preoccupare.»

«Stavamo dicendo?»

Ripresero a camminare. «La famiglia?»

«No, non era questo.»

«Davvero? Non me lo ricordo più.»

Risero.

«Dove ti va di andare, adesso?» le chiese.

«Non lo so. Tu dove vorresti andare?»

«Sicura che non ti va di prendere qualcosa in un bar o un posto del genere?»

Scosse la testa. «No, per un po’ voglio dimenticarmi dei bar.»

Andrew strinse le labbra. Ovvio che non voleva andare in un bar, forse era ancora scossa per quello che era successo con Tom qualche sera prima. Rabbrividì al pensiero dell’uomo. Era vero che era un nullafacente e guardone, ma nessuno meritava la fine che aveva fatto.

«D’accordo, allora vuoi…»

Ma non finì la frase.

Dapprima fu solo un tuono, ma presto iniziarono a cadere parecchie gocce di pioggia, che andavano sempre  più ad intensificarsi.

«Forse è meglio andare!» esclamò Morgan, sovrastando il rumore dell’acqua.

«Hai ragione.» Andrew le rimise un braccio attorno alle spalle e insieme corsero sotto la pioggia.

La pioggia batteva sempre più forte, ma Andrew poteva sentire con chiarezza Morgan ansimare rumorosamente al suo fianco e i suoi tacchi che battevano contro l’asfalto bagnato.

Avevano appena raggiunto la macchina, entrambi esausti dalla corsa. Seduti sui sedili, tremavano leggermente, così Andrew si affrettò ad accendere il riscaldamento.

«Tutto ok?»

«Sì.»

La guardò. La pioggia le aveva inzuppato i capelli, che si erano incollati alla sua fronte, così come i vestiti al suo corpo, e il trucco si era sbavato, formando dei cerchietti scuri sotto gli occhi. In particolare, le gocce d’acqua le scendevano lungo i capelli lisci, scivolando sul collo e sfiorando la pelle scoperta della scollatura.

Alzò lo sguardo e ancora una volta si ritrovò come perso nei suoi occhi scuri, c’era una forza che gli impediva di distaccarsene, non riusciva più a pensare, nella mente dominava soltanto un pensiero: lei.

«Baciami» sussurrò.

Lo fece.

Senza esitare, allungo le mani e le afferrò il viso, stringendola delicatamente e accarezzandole le gote fredde con i pollici. Premette le labbra sulle sue e scoprì che erano morbide e umide, così come le sue, d’altronde. Fece scivolare le mani su tutto il suo viso, mentre lei gli cingeva il collo, avvicinandosi il più possibile a lui. Voleva approfondire il contatto, voleva toccarla, ma Morgan si staccò prima.

«Wow.» Quello non era di certo il suo primo bacio, ma era il suo primo bacio con Morgan e non aveva mai baciato nessun’altra in quel modo, non aveva mai desiderato nessun altra in quel modo. Non ci aveva pensato fino a poco prima, era come se fosse nato tutto nel giro di pochi istanti, come se fosse stato il solo guardarla a provocargli quelle sensazioni.

«Già.» Si ricompose. «Mi riaccompagni a casa?»

Anche Andrew si ricompose, scrollando le spalle e poi passandosi una mano fra i capelli bagnati. «Certo.»

Guidò sotto la pioggia e non smise mai di lanciarle occhiate di sottecchi, anche con la chioma nera inzuppata, il trucco sbavato e le labbra arrossate era sempre bellissima. Ad un certo punto, tolse la mano destra dal volante ed afferrò la sua; Morgan, dapprima, si irrigidì, ma poi ricambiò la stretta.
Continuarono a stringersi le mani, finché non arrivarono a casa sua.

Lei sorrise.«Ci vediamo domani?»

Domani? Era più che certo di avere qualche impegno per il giorno dopo, anche in quello stesso momento si sarebbe dovuto trovare insieme ai cacciatori e non con lei, ma non aveva importanza. Tutto quello che voleva era stare con lei.

«Sì, domani.»
***

Erano quasi le tre del mattino.

Si trovava poco lontano dal centro della città e, piano piano, le luci di Portland si stavano spegnendo una dopo l’altra, lasciando posto soltanto ai bar e alle discoteche aperte fino all’alba. Non c’era anima viva in quella strada, riusciva a vedere con chiarezza le strade deserte, solo ogni tanto sentiva i passi ticchettanti di qualcuno, ma, allora, scattava in posa d’attacco, aspettandosi di incontrare una creatura dalle apparenti fattezze umane, ma dalla natura crudele e assassina. Fino a quel momento, però, tutto quello che aveva visto erano semplici uomini e donne che si affrettavano verso il locale più vicino, stretti nei loro cappotti, visto come scendeva la temperatura in quel periodo dell’anno. Li vedeva, camminare spediti, ma allo stesso tempo tremanti, mentre lui restava lì, fermo, ad aspettare. Pensandoci bene, qualsiasi persona fra quelle sarebbe potuta essere una vittima, chiunque di loro avrebbe potuto incontrare il vampiro per la strada ed essere aggiunto all’elenco di uccisi stipulato dai cacciatori. Muoveva gli occhi rapidamente da un angolo all’altro della sua visuale, vigile. Non poteva perdersi neanche il minimo movimento, anche una semplice ombra sarebbe potuta essere l’oggetto delle loro ricerche.

Più precisamente, era accucciato nello spazio fra due case, stringeva con una mano un paletto e con l’altra il suo telefono, impostato nella chiamata rapida a Thomas; se si trattava davvero di un Superiore e questo lo avesse visto, non c’era alcuna possibilità che sarebbe riuscito ad affrontarlo da solo, avrebbe avuto bisogno di contattare qualcuno per capire cosa fare. D’altro canto, se fosse riuscito ad individuarlo, avrebbe comunque dovuto chiamare Thomas, per informarlo.

In quel momento, desiderò che Andrew fosse lì con lui. Non gli era mai piaciuto andare a caccia da solo, e anche se Andrew viveva a Portland come lui, sembrava sempre essere preso da altro in altri posti, mentre lui rimaneva sempre in città da solo a cacciare. Andrew aveva sempre preferito spostarsi altrove, in altre città, sempre in movimento, e lui non riusciva a capire il perché. Lo irritava sapere che lui se ne andava in giro, lasciando a lui la responsabilità di una città intera.

C’erano delle volte in cui si chiedeva perché diavolo fosse venuto ad abitare lì. Per Jake era stata una costrizione: o rimaneva ad Augusta o vedeva sua figlia una volta al mese; Andrew, invece, era partito un giorno, senza dare spiegazioni a nessuno, si era semplicemente svegliato una mattina e aveva deciso che gli andava di trasferirsi. Non avrebbe mai capito il motivo di questo gesto, tutto quello che Jake desiderava era un po’ di stabilità, non era il tipo a cui piaceva spostarsi continuamente.

Faceva molto freddo, quella sera. Era novembre e la temperatura si stava abbassando notevolmente, era davvero difficile tenersi concentrati, dato che doveva stare immobile e vigilare l’area circostante, sempre il solito paesaggio, con il vento e, un po’ prima, anche la pioggia. Desiderò tornare a casa e dimenticarsi della missione, ma poi, con una stretta allo stomaco, si ricordò delle tredici vittime e sperò che riuscissero a trovare in fretta il vampiro, così da mettere fine a quella storia.

Scosse la testa. Anche se avessero messo fine a quella storia, dopo ce ne sarebbe stata un’altra e poi un’altra ancora, non sarebbe mai finita, non veramente.

Poi, nel silenzio della notte, il suo telefono squillò.
***

«E poi Thomas mi ha chiamato, dicendomi di tornare a casa» concluse, mentre prendeva un bicchiere dalla credenza.

«Così presto? In genere ci fa restare fino all’alba» commentò Andrew, seduto al bancone della cucina.

Si trovavano a casa di questo ed era mezzogiorno circa. Jake si era recato lì non appena si era svegliato, per fare un breve resoconto ad Andrew della serata che si era perso e di ciò che avevano scoperto, anche se non avevano concluso granché, quella volta.

«Credo che Lydia e Janelle siano rimaste, gli altri faranno un turno stasera.»

«Ma noi siamo liberi, no?»

Jake annuì. «Non abbiamo trovato nulla» disse, versandosi dell’acqua. «Niente di niente. Thomas ha detto che ha fatto anche il giro della città con la macchina, ma non ha visto nessuno.»

Andrew roteò gli occhi. «Sono troppo veloci, non lo avrebbe mai trovato con l’auto.»

«Intendevo dire che cercava anche delle vittime, beh, fortunatamente non ce ne sono state.»

«Vuol dire che non ha colpito ieri sera.»

«Pensandoci bene, potrebbe colpire in qualsiasi momento.» Si passò una mano sul viso, riflettendo. «E non solo qui, ma ovunque.»

Jake strinse le spalle. «Lo so, ma cosa possiamo fare?»

«Questa cosa del dividerci è stupida, non lo troveremo mai così.»

«Se hai qualche suggerimento migliore, sono ben accolti. E comunque, non è questo il problema.»

«E quale sarebbe il problema?»

«Che non sappiamo come affrontarlo. Avanti, Andrew, come facevamo le altre volte? Ci siamo sempre appostati per individuare il vampiro o per capire dove avrebbe colpito la volta successiva, mentre stavolta è come se non sapessimo da che parte cominciare.» Sospirò, chiudendo gli occhi.

«Hai ragione, è questo che dobbiamo risolvere.» Si poggiò contro il vetro della finestra.

«Due mesi. E tredici persone.»

«Lo so.» Aprì le tende, lasciando entrare il sole.
***

Qualche giorno prima

Dall’esterno della casa si sentivano delle chiacchiere, ma, quando Morgan aprì la porta, cessarono all’istante.

I tre erano seduti, Michael e Sophia sul divano e Selena nella poltrona di fronte a loro. Si girarono a guardarla, sorpresi.

Vivevano, almeno per il momento, in una piccola villa ai confini della città. C’era un giardinetto con l’erba appena tagliata che profumava sempre e un vaso di terracotta con delle rose al suo interno, Morgan tremava ogni volta che le vedeva; l’esterno era dipinto di giallo ocra e le ampie finestre erano prive di qualsiasi protezione contro il sole; all’interno, l’atmosfera della casa era calda e accogliente, regnavano i colori del rosso e dell’oro e aveva tutto l’aspetto di una casa normalissima; probabilmente, al piano superiore le camere da letto erano arredate con la stessa attenzione riservata al salotto, ma Morgan non vi era mai salita e non poteva dirlo con certezza. Non erano solo le rose a darle i brividi: non era normale che i vampiri prestassero così tanta attenzione ad una semplice abitazione, che avrebbero dovuto lasciare comunque nel giro di dieci anni. Certo, non era nemmeno normale che formassero a tutti gli effetti una famiglia umana. Non erano raro avere un Compagno che diventasse anche un’amante, aveva anche chiamato Famiglia i suoi precedenti Compagni, ma non una famiglia come quella, non l’imitazione degli umani.

Sophia aveva le gambe accavallate, una stretta gonna scura e una giacca grigia, i capelli castani legati in uno chignon; Michael le sedeva accanto, con una mano poggiata su una sua coscia e anche lui indossava abiti formali; Selena era quella che aveva l’aspetto che avrebbe potuto avere qualsiasi altra bambina, con i jeans chiari e una maglietta rosa, la ballerine, però, erano sempre presenti, probabilmente era stata lei a ribellarsi per indossare degli abiti comuni, stanca delle oppressioni di Sophia. Morgan non poteva darle torto: se c’era una cosa che la infastidiva, erano quei vampiri vestiti perennemente di tutto punto.

«Sono qui. Che cosa vi serve?» Lanciò un’occhiata scocciata a Selena, che rispose con una indignata.

Sophia scostò con delicatezza la gamba dalla presa affettuosa di Michael e raggiunse Morgan, che era avanzata fino al centro della stanza. «Parliamo dei tempi.»

Qualcosa si smosse dentro di lei, un piccolo scatto di terrore, ma non lo diede a vedere. «Non starete pensando di rimangiarvi la parola, vero?»

Michael raggiunse Sophia e le poggiò una mano sulla spalla. «Assolutamente no. Volevamo solo essere informati su come sta procedendo il tuo lavoro.»

Si rilassò. «Bene, credo di averla individuata, finalmente.»

Sophia spalancò gli occhi, Michael rafforzò la presa sulla sua spalla e perfino Selena, la quale era rimasta in disparte e silenziosa, mostrò un improvviso interesse.

«Ah sì? E dov’è?» Sophia lanciò un’occhiata alle spalle di Morgan, come se si aspettasse di veder saltare fuori chi cercava.

«È qui, a Portland. Credo che abbia instaurato un rapporto intimo con un cacciatore» affermò.

Michael alzò un sopracciglio. «Un cacciatore? Sei sicura?»

Morgan annuì. «Ne sono abbastanza convinta.»

«Prima dici che non riesci ad avvicinarla, poi salta fuori che sai che sta con un cacciatore. Come dovresti averlo scoperto? Sentiamo!»

Guardò Selena truce. «Ho le mie fonti.»

«Fonti?»

«Non ti è dato sapere.»

Sophia agitò freneticamente le mani. «Quindi? Quanto manca ancora?»

Morgan non aveva mai amato tutta quell’impazienza verso quell’incarico, era fermamente convinta che ci fosse qualcosa di sospetto sotto. «Non lo so con precisione. Sono riuscita ad avvicinare il cacciatore in questione ed un suo amico. Credo di piacergli.»

«A chi? Al cacciatore?» Selena si era alzata e li aveva raggiunti.

«No, il suo amico.»

«Ottimo!» esclamò Sophia. «Adesso, cerca di avvicinarti sempre di più a loro.»

«Era quello che avevo intenzione di fare.»

«Stai attenta a quello che fai, questa è una parte molto delicata.» Michael parlò in tono serio, era decisamente più diplomatico della moglie. La moglie.
«Lo so. Pensavo di guadagnarmi la loro fiducia, così avrei potuto scoprire qualcosa di più sul cacciatore, verificare se è davvero lui, entrare in casa…»
Michael annuì. «È una buona strategia, ma vedi di rendere la parte credibile.»

«Se piaci al suo amico, è una buona cosa, potrai avvicinarlo più facilmente.» Sophia fece una pausa. «Questo vuol dire che dovrai fare tutto quello che ti chiederà.»

Morgan sbatté le palpebre, confusa. «In che senso, scusa?»

Emise un respiro particolarmente profondo per un vampiro. «Vuol dire tutto. Se vuole uscire con te, lo fai. Se vuole baciarti, lo fai. E se vuole andare a letto con te, beh, lo fai.»

«Cosa?» Fece un passo indietro, indignata.

«È per il piano.» Michael lanciò un’occhiata di sottecchi a Sophia, probabilmente seccato per il tono che lei aveva usato.

«Non mi interessa un accidente il piano! Mi avete presa per una puttana?»

Selena ridacchiò, Morgan la fulminò con lo sguardo.

«E tu ci hai presi per degli aguzzini?»

«Ma vi siete proposti voi! Tutto questo piano è vostro

«Non devi prenderla alla lettera, era solo un esempio.» Michael zittì Sophia con un gesto della mano.

«Senti,» Sophia andò avanti, ignorando Michael, «fai tutto ciò che è necessario.»

«Prostituirmi non era nei piani.»

«Nemmeno andare in giro con i cacciatori era nel piano.»

Il suo desiderio di vendetta era forte, molto. Si sentiva consumare da dentro, tanto era grande, ma il rispetto per se stessa lo era di più. «Potete anche cercarvi qualcun altro, per quello che mi riguarda.»

Si voltò e camminò spedita verso la porta, ma Michael le sbarrò la strada.

«Aspetta!» le disse. «Non è necessario che tu lo faccia!»

Indicò Sophia alle sue spalle. «Mi ha dato della puttana!»

«Forse ho esagerato, ma tuo il modo di agire, tuo il controllo delle conseguenze.»

«Morgan, tu sei l’unica che può farlo.»

Tentò di fare un passo indietro, ma c’era Sophia a bloccarle la strada.

«Perdona la mia irruenza.»

«Perdono un corno!»

«Allora, ti offriamo qualcos’altro.»

Si voltò verso Selena, che si era messa al suo fianco. «Ma di che parli?»

Sophia e Michael puntarono lo sguardo su Selena. «So che sai della nostra Stanza.»

Morgan aprì leggermente la bocca, stupita. Tutti sapevano della loro Stanza.

«Selena!»

«Sophia, è colpa tua se vuole tirarsi indietro, quindi sta’ zitta!» Non era strano che Selena si rivolgesse così a Sophia, in fondo, non era davvero sua madre.
«Davvero?» Morgan era dubbiosa. Nonostante le parole di Sophia sul fatto di non essere degli aguzzini, il loro passato diceva il contrario; si vociferava che si fossero ritirati da poco da quelle attività, ma che scegliessero sempre case con un seminterrato per adibirla da camera dove nascondervi dentro le prove. Tra i vampiri, quel luogo veniva chiamato La Stanza.

«Sì.» Si voltò verso Michael, attendendo la sua conferma.

Socchiuse gli occhi. «D’accordo. Allora, che ne dici?»

Non avrebbe dovuto accettare. La cosa più rispettosa verso di sé da fare sarebbe stata uscire da quella casa e non rivederli mai più, trovare un modo di risolvere i suoi problemi da sola. Eppure, una parte di lei non poteva fare a meno di sussurrare soluzioni, avrebbe potuto benissimo evitare le parti scomode e la loro offerta era irripetibile, non sarebbe mai più capitato che le offrissero un’opportunità come quella. Inoltre, non aveva idea di come iniziare per risolvere da sola la situazione. C’era sempre quell’accanimento verso il suo obbiettivo, era una cosa che voleva con tutta se stessa, aveva addirittura abbandonato i suoi Compagni per portare a termine l’obbiettivo. C’era sempre quella scintilla che la faceva bruciare dentro, spingendola verso qualsiasi cosa sarebbe stata d’aiuto, a qualsiasi prezzo. Non si sarebbe mai spenta, lo sapeva bene.

Strinse i denti. «Va bene, ma non farò mai cose del genere.»

«Come vuoi, puoi scegliere.»

Si strinse nella giacca e andò via.
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
Ok, questo capitolo è più corto rispetto ai precedenti, ma succedono un paio di cose importante, quindi, non va sottovalutato. Non preoccupatevi se succedono cose strane o i personaggi si comportano in un certo modo: c'è una spiegazione per tutto!
La canzone all’inizio è Unintended dei Muse, come il titolo.
Comunque, devono ancora succedere un milione di cose, ci sono ancora così tanti capitoli da scrivere e io non riesco a mettermi seduta e a farlo, bene.
A presto, spero.

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Capitolo 4
*** Theft and Injustice ***


Theft and Injustice
When your dreams all fail
And the ones we hail
Are the worst of all
And the blood’s run stale

 
Il giorno successivo, Morgan non aveva perso tempo: appena si era alzata, si era subito vestita e preparata, dopo aveva fatto una telefonata e definito l’obiettivo della giornata.

Sapeva che non doveva più perdere tempo, erano due anni che cercava di venire a capo della situazione, ma c’era sempre qualcosa che le sfuggiva, si ritrovava sempre un passo indietro ogni volta che credeva di essere giunta alla fine.

Nell’ultimo periodo, però, qualcosa era cambiato. Sophia e Michael avevano iniziato a farle costantemente fretta, chiamandola più volte al giorno, ricordandole continuamente il loro accordo. Era strano che insistessero in quel modo, per quegli anni aveva girato quasi tutte le città, fra lo stato di New York e il Maine, e mai una volta le avevano messo così tanta fretta; da quando erano arrivati a Portland, invece, non facevano altro che intimarle di concludere rapidamente. Morgan, però, non avrebbe dovuto stupirsi troppo del perché: dopo due anni di ricerca, avevano scoperto una cosa molto interessante su di lei, lì a Portland, ma la loro apprensione era davvero forte.

Magari, potevano anche essere impazienti, visto il fatto che erano riusciti ad individuarla in un punto fisso, ma generalmente i vampiri non avevano mai fretta. La stessa Morgan attendeva da quasi vent’anni, ma non si era mai posta il problema di cercare in fretta, il mondo non era infinito e lei lo avrebbe trovato, non aveva alcuna fretta. Loro evidentemente sì.

Tutto quello che sapeva era che negli ultimi mesi i cacciatori si erano allarmati per via dell’aumento delle uccisioni fra gli umani, periodo coincidente con il loro trasferimento a Portland. Morgan aveva pensato che questo avvenimento potesse essere collegato con l’improvvisa fretta di Sophia e Michael, ma i vampiri non si interessavano delle morti umane  o dei problemi dei cacciatori, e, anche se questo fosse stato davvero collegato con le sue ricerche, non capiva come questo potesse influenzarli in quel modo, si trattava di umani, dopo tutto.

In ogni caso, aveva deciso di attivarsi. Non era del tutto sprovveduta e in quegli anni non aveva mai fatto tutto da sola, infatti, ad aiutarla c’erano stati Henry e Logan, suoi Compagni, entrambi molto giovani, ma si erano rivelati abili nel rintracciare altri vampiri, ottimi amici per Morgan e dei vampiri promettenti loro stessi. Nonostante non avesse preso alla leggera l’idea di andare via da loro per due anni, in qualche modo era positivo, dato che finalmente aveva lasciato ai due il loro spazio e non doveva più fare da terzo incomodo, e poi, si sentivano per telefono quasi ogni giorno; i tempi erano decisamente cambiati, da quando lei era diventata una vampira.

Non credeva che l’avrebbe fatto davvero, ma aveva deciso di seguire il cammino suggeritole da Sophia, aveva iniziato la sera prima, baciando Andrew, e quel giorno era riuscita nel suo intento, ne era valsa la pena. Finalmente, stava per verificare veramente se stesse seguendo la giusta pista o se si fosse trattato di uno sbaglio, inoltre, avrebbe anche scoperto se quello che stava facendo ad Andrew servisse veramente a qualcosa.

Erano davanti alla porta dell’appartamento di Jake.

Anche quella sera, sarebbe dovuta uscire con Andrew, ma non appena era arrivato nel suo appartamento, aveva ricevuto una chiamata da Jake, che gli aveva chiesto di andare a casa sua urgentemente. Andrew non era sembrato allarmato, ma Morgan poteva cogliere piccoli gesti che segnavano il suo nervosismo: si grattava le unghie, si passava freneticamente la mano fra i capelli, si mordeva le labbra, tutte cose che non faceva normalmente.

Inizialmente, Andrew aveva insistito per lasciarla a casa e ripassare più tardi, poteva immaginare il perché, probabilmente si trattava di una cosa da cacciatori, ma Morgan non aveva tempo da perdere, così aveva dovuto intervenire. Dopo, Andrew aveva accettato di portarla con sé e aveva guidato freneticamente per tutto il viaggio, fino a scendere rapidamente dall’auto e correre verso il palazzo di Jake.

Morgan scoprì presto di aver fatto bene ad insistere per quella sera: l’indirizzo datole da Logan ed Henry corrispondeva all’identità del cacciatore da loro segnalatole, ora mancava solo una piccola prova.

La porta era marrone scuro, con il numero sette in bianco a campeggiare su di essa, il pulsante per il campanello al fianco e all’angolo del muro una pianta. Alle loro spalle c’erano le scale, che portavano sia al piano di sotto che a quello di sopra, e a fianco le loro teste c’era una piccola finestra chiusa.

«Ci metto solo un secondo» disse, armeggiando con la tasca destra dei jeans, ma il suo tono rifletteva la preoccupazione interna. «Ecco qui.» Tirò fuori la mano ed espose alla luce bianca del pianerottolo un mazzo di chiavi.

«Hai le chiavi di casa di Jake?» chiese, sorpresa.

«Sì, nel caso succedesse qualcosa.»

«Che pensi sia successo?» Poteva davvero trattarsi di qualcosa di grave? Jake dal telefono era sembrato più frettoloso che altro.

«Adesso lo scopriremo.» E aprì la porta.

Morgan non poté comunque vedere molto dell’interno dell’appartamento, nonostante la sua eccellente vista al buio. All’interno, c’era un divano, un tavolino da caffè e vari giocattoli sparsi per terra. Le finestre erano chiuse con le tende tirate e nessuna fonte di luce illuminava la stanza. Dalla sua posizione, non poteva scorgere altro che una fetta di quello che doveva essere il salotto, sembrava che la casa fosse stata scelta di proposito.

«Chi c’è lì?» fece una vocina acuta e tremante.

Andrew si allarmò. «Ariel, sono io, sono Andrew.»

Fu allora che scorse il primo cenno di movimento. Una figurina uscì dal dietro del divano rivelandosi: era una bambina di sei o sette anni, dai lunghi capelli biondi che le avvolgevano le spalle come un mantello e gli occhi azzurri. Morgan non poté fare a meno di pensare che le ricordasse qualcuno.

«Ciao, Andy» disse.

«Ariel, dov’è tuo padre?» Andrew mosse qualche passo attraverso la soglia e sbirciò oltre le sue spalle.

Morgan non capì subito, se quella era la casa di Jake, di quale padre stavano parlando?

«Non c’è, è andato via. Lei chi è?» Spostò lo sguardo su Morgan, squadrandola dalla testa ai piedi, sbattendo i grandi occhi azzurri contornati da lunghe ciglia dorate.

«Jake ti ha lasciata qui da sola? È questo il problema?» Andrew si rilassò, ma poi sembrò ricordarsi che una bambina era stata lasciata da sola in una casa completamente al buio e si affrettò a chinarsi su Ariel, come a controllare che fosse tutta intera. «Dov’è andato?»

«Fuori per lavoro. Ha detto che torna presto. Lei chi è?» ripeté.

«Un’amica.»

Ora tutto era chiaro: Jake non aveva una sorella, ma una figlia. «Andrew, lascia perdere, non vedi che sta benissimo?»

Il ragazzo si calmò e Morgan aveva notato il cambiamento nel suo sguardo quando la bambina aveva nominato la parola “lavoro”.

«D’accordo, allora lo chiamo.»

«Perché siete qui?» chiese e a Morgan non sfuggì il modo in cui stringeva una mano dietro la schiena.

«Come sarebbe a dire? Siamo qui perché ce lo ha chiesto tuo padre.»

La bambina strinse le labbra. «Papà dice che non devo fare entrare gli sconosciuti.»

Mosse qualche passo all’indietro, tornando verso la porta. «Lei non è una sconosciuta, la conosco e anche tuo padre.»

Doveva agire in fretta. Non poteva permettersi che sospettassero qualcosa. «Ma lei non mi conosce, è questo che conta. Io sono Morgan.»

«D’accordo, puoi stare a casa con noi.» La bambina continuava a sembrare dubbiosa, ma doveva avere fiducia in Andrew.

Morgan esitò per un secondo. La bambina era solo una bambina, ma doveva piacerle tanto Andrew, visto che non aveva posto alcuna domanda sul perché fosse ancora fuori dalla soglia. Non le aveva direttamente detto di entrare, non era sicura che avrebbe funzionato lo stesso, non le era mai capitata una situazione del genere; in effetti, non le era mai capitato di dover avere a che fare con gli umani per così tanto tempo. Mosse un piede oltre la soglia e lo poggiò oltre di essa. Respirò. Era dentro.

«Bene, allora, andrò a fare questa telefonata.»  

«Che cosa hai dietro la schiena, Ariel?»

La bambina non aveva ancora tolto la mano da dietro la schiena e Morgan sapeva cosa aspettarsi, era solo stupita che ne avesse uno così presto. Non che fosse un’esperta nel campo, ovviamente.

La sua domanda catturò l’attenzione di Andrew, che si affretto ad afferrare la mano della bambina, proprio nel momento in cui lei stava alzando il braccio. «Lascia perdere, è solo un giocattolo.»

Morgan non fece in tempo a vedere l’oggetto per intero, che Andrew lo aveva già nascosto alla sua vista, ma non aveva bisogno di guardarlo per sapere cos’era. Un paletto.

Ariel fece qualche passo in avanti, camminò di fianco a Morgan e si sedette sul divano, di fronte alla tv. «Vuoi guardarla con me?» chiese.
Annuì e prese posto accanto a lei. «Dov’è tuo padre?»

«È fuori per lavoro.» Prese due telecomandi e accese la televisione, poi inizio a premere vari bottoncini nel telecomando grigio, finché non riuscì ad accendere il lettore DVD.

Morgan si guardò intorno. Il salotto e la cucina formavano un unico ambiento, mentre alle sue spalle c’era un piccolo corridoio che dava su tre porte. Andrew si era spostato in cucina e aveva il telefono all’orecchio, aspettando la risposta alla sua chiamata. Se era abbastanza veloce, poteva agire in fretta e senza farsi scoprire.

«Mi fai vedere dov’è il bagno?»

La bambina si alzò e prese la mano di Morgan, che sperò non risultasse troppo fredda al contatto con quella piccola, morbida e calda di Ariel.

Attraversarono il piccolo salotto e raggiunsero il corridoio. «Ecco qui» disse ed alzò il braccino libero per aprire la porta centrale. Quello che era il bagno era occupato quasi per intero dalla doccia e non c’erano nemmeno le tovaglie per asciugarsi.

«Grazie.»

«Torna presto, così guardiamo il film.» Accennò un sorriso e tornò indietro.

Morgan entrò nel bagno. Aveva bisogno di un piano e in fretta. Non era sicura di quanto tempo gli umani impiegassero in bagno, forse poteva usare la scusa di essersi aggiustata il trucco, nel caso si fosse trattenuta troppo, ma le bastavano davvero pochi minuti.

Lentamente, riaprì la porta, lasciandola socchiusa. Era riuscita a non produrre alcun rumore e, sbirciando dal corridoio, vide che Andrew stava parlando animatamente al cellulare e che Ariel si era seduta per terra e stava frugando in un cesto rosa. Le porte non erano visibili dal salotto, ma era comunque meglio non rischiare. Aprì la porta a metà circa ed uscì con un movimento silenzioso; restava solo di entrare nella camera giusta.

Le due porte erano una di fronte all’altra ed erano identiche, non c’era un singolo segno che facesse intuire chi fosse il proprietario. Allungò la mano, aprì la porta alla sua destra e la attraverso con la stessa rapidità con la quale era uscita dal bagno.

Anche se avrebbe attirato l’attenzione, non ebbe comunque bisogno di accendere la luce. La camera appariva di sfumature bluastre, pochi angoli risultavano neri, ai suoi occhi di vampira, il letto era un matrimoniale che non era stato ancora rifatto, i comodini sobri e privi di alcun gingillo, la giacca da uomo abbandonata ai piedi dell’armadio… Era stata fortunata.

Non aveva senso aspettare oltre.

La prima cosa che controllò fu il letto. Esaminò con la mano le lenzuola arricciate e il piumone arrotolato in fondo al materasso, alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa che le potesse essere utile per confermare la sua tesi, i suoi sospetti. Passò ai cuscini, facendo attenzione a lasciare ogni cosa esattamente come l’aveva trovata, vi passò le mani più e più volte, anche all’interno delle federe, senza trovare alcunché di utile. Si inginocchiò e dette un’occhiata sotto il letto, esaminando il pavimento polveroso centimetro per centimetro, cercando di non perdersi nulla. Si rialzò in fretta e passò a frugare nell’armadio, immergendo le braccia e toccando ogni singolo capo d’abbigliamento, rovesciando le tasche e poi rimettendole a posto con rapidi gesti delle dita. Si abbassò nuovamente e controllò il pavimento, dalla porta alla testiera del letto, dagli angoli agli spazi tra i mobili ed il muro. Mentre controllava la striscia di pavimento fra il comodino e il muro, spalancò la bocca. Non riusciva a credere di non averci pensato fin dall’inizio.

Si rialzò, pulendosi rapidamente i collant neri, ed aprì il cassetto del comodino. C’era una svariata quantità di oggetti là dentro: un paio di occhiali da sole, un mazzo di chiavi, il passaporto, tutte cose che chiunque non si sarebbe stupito di trovare in un cassetto; poi, c’erano anche gli oggetti non convenzionali, non erano nemmeno nascosti alla vista, chissà se Ariel avesse mai aperto quel cassetto… Ma era ovvio, era figlia di un cacciatore, dopo tutto, probabilmente fin da prima di camminare le avevano insegnato come tenere saldo il paletto che stringeva poco prima. L’interno del cassetto, infatti, era stipato di paletti, alcuni più grossi ed altri più sottili, c’era anche un crocifisso e una boccetta di quella che doveva essere dell’acqua benedetta.

Morgan ridacchiò. Questi cacciatori avevano decisamente visto troppe puntate di quella serie televisiva sul soprannaturale, quella con i due cacciatori di demoni e che rappresentava i vampiri come degli idioti. Come se fossero loro gli idioti.

Ma non era l’acqua ad aver attirato la sua attenzione. In fondo al cassetto, c’era un piccolo pezzo di carta, che avvolgeva qualcosa. Si sentiva quasi le mani tremare dall’emozione, di quant’era eccitata. Afferrò l’involucro e tolse rapidamente la carta, strappandola in alcuni punti, finché non rivelò l’oggetto che celava.

Non poteva credere che fosse lì. Erano anni che la conosceva, non si sarebbe mai separata dalla collana, non se la sarebbe mai tolta. Mai.

Strinse il ciondolo tra le dita, freddo come le sue mani. Era una pietra rotonda, non più grande di un paio di centimetri, con dei raggi che la circondavano, ampliandone la grandezza. Avrebbe potuto ricordare il disegno di un sole stilizzato, se non fosse stato per il fascino inquietante dato dalla pietra argentea e dai raggi neri che si irradiavano attorno ad essa.

Vi passò un polpastrello sopra, accarezzando la pietra sfaccettata ed i componenti lucenti, che sembravano brillare anche senza alcuna fonte di luce. Ricordava la prima volta che l’aveva vista e di come si era sentita inferiore a possedere solo un semplice medaglione; lo portava ancora, stava proprio sopra l’incavo dei seni, vicino ad un cuore che non batteva più da anni.

Se la infilò nella tasca della gonna. Fortunatamente era stata previdente ed aveva portato con sé qualche bottone, incerta su quanto la prova fosse stata grande, incerta anche se l’avesse trovata. Li prese tutti e li avvolse nella carta dove aveva trovato la collana, richiudendola nel modo più vicino possibile a come l’aveva trovata.

Si ricompose ed uscì.
***

Era tornato indietro di corsa.

Dopo essersi assicurato che Andrew sarebbe venuto a casa sua, era uscito di casa; avrebbe voluto aspettarlo, ma non ne aveva avuto il tempo.

Avrebbero potuto mandare direttamente Andrew, ma dicevano che non rispondeva al telefono, cosa strana, dato che a lui aveva risposto subito. Si era pentito del modo in cui aveva agito: avrebbe dovuto far andare lui e basta.

Aveva salito le scale dell’appartamento di Lexie il più in fretta possibile, era tardi, ma lei aveva insistito perché venisse comunque: non era mai stata un tipo a cui piaceva aspettare orari consoni, anche se si trattava di tarda notte.

Conosceva già casa sua, c’era stato varie volte, quando andava a prendere Ariel, e ricordava perfettamente ogni dettaglio, anche se lanciava occhiate casuali a punti imprecisi: si era guardato intorno talmente tante volte, che alla fine aveva memorizzato i particolari, anche se non era il primo dei suoi interessi.
In quella casa viveva, naturalmente, anche il marito di Lexie, Malcom, ma a Jake non dava fastidio che stessero insieme: la relazione con Lexie era stata una cosa adolescenziale, probabilmente a quel punto non sarebbero più stati nemmeno in contatto, se non avessero avuto una figlia, e Jake faceva il più possibile per starle vicino, perché, se da un lato di Lexie non gli importava nulla, temeva che un giorno Ariel non l’avrebbe più riconosciuto come padre, preferendo Malcom. Il solo pensarci lo preoccupava, non era qualcosa che sarebbe stato disposto ad accettare o a capire, in fondo, era per quel motivo che aveva lasciato la sua vecchia città, preferendo trasferirsi permanentemente a Portland.

Lo stava aspettando a braccia conserte. «Ti rendi conto di quanto tu sia stato irresponsabile?» esordì, non appena Jake mise piede in casa.

«Senti, non è stata qualcosa che ho deciso, ok? È capitato, non posso farci nulla.»

«È tua figlia, Jake! Ha sette anni! Non puoi lasciarla e andartene in giro di sera!» Avanzò verso di lui, le braccia ritte lungo i fianchi, i pugni chiusi e i capelli rossi legati in una coda alta e disordinata, indossava il pigiama ed era struccata, ma era comunque minacciosa.

«Lo so! Infatti, mi sono premurato di chiamare Andrew, perché stesse con lei, mentre tu non c’eri.» Era stanco, non aveva voglia di litigare.

«È rimasta da sola!»

«Per dieci minuti!»

«Non mi interessa se sono stati dieci minuti o dieci secondi, tu non puoi lasciare da sola una bambina ed andartene in giro, è un principio!»

«Lexie, non è più così piccola.»

«Lo è ancora, invece.» Si allontanò da lui e fece qualche passo per la stanza, massaggiandosi le tempie con le dita. «E se le fosse successo qualcosa? Che cosa avresti fatto?»

«Ma non è successo.»

«Sarebbe potuto succedere! Io non ho idea del fatto che tu abbia o meno nemici là fuori…»

«Nemici?» la interruppe bruscamente. «Intendi vampiri?»

«Quei mostri, Jake.» Si allontanò ancora di più da lui. «Quei mostri sono spaventosi e non voglio che capiti qualcosa mia figlia, non voglio che abbia nulla a che fare con questa storia.»

«E secondo te io lo voglio? Secondo te mi fa piacere sapere che mia figlia debba preoccuparsi di un potenziale vampiro, invece di giocare con le bambole e avere l’amica del cuore? Credi che mi piaccia che sia dentro tutto questo?»

«Tu ce l’hai messa!»

«Non sono stato io!» urlò. «Non è colpa mia, cazzo. Se avessi potuto scegliere, non mi sarei immischiato io in questa storia, non posso fare nulla per evitarlo.»

«Potevi evitarlo, invece. Potevi non dirle nulla e basta, potevi tenerti per te tutta questa storia.»

«Lexie, è una cosa che deve essere fatta.» Si strinse i capelli sulla nuca.

«Ma perché proprio mia figlia? Non stiamo nemmeno insieme!»

«Perché, oltre ad essere tua figlia, è mia figlia. Se non fosse lei, dovrebbe essere qualcun altro.»

Per un attimo non disse nulla, come se stesse riflettendo e poi parlò. «E perché non qualcun altro?»

Jake si tolse la mano dai capelli e la guardò arrabbiato. «E cosa dovrei fare? Andare fuori e scoparmi una tipa a caso, così da fare un bambino? Ma ti rendi conto di quello che dici?»

«Magari sarebbe la cosa migliore! Non voglio che mia figlia abbia a che fare con questo, non voglio che abbia a che fare con te.»

Questa volta, fu lui ad indietreggiare. «Non puoi impedirmi di vederla.»

«Certo che posso, se ritengo che tu non sia idoneo come genitore.»

«Ma che cazzo stai dicendo? Non puoi inventarti una legge dal nulla.»

«Forse non potrò fare questo, ma posso tenere chiusa la porta di casa e non farti entrare. Se provi ad avvicinarti ti denuncio per stalking.»

«Ma sei impazzita? Ti denuncio io per impedirmi di vedere mia figlia!» Quella situazione stava degenerando, non poteva credere alle parole di Lexie.

«Esci subito fuori di qui!» Tornò verso di lui e lo spinse fuori dalla porta.

«Sei una pazza, devi farti curare!»

«Stai alla larga da me.» Con un’ultima spinta, lo chiuse fuori.

Jake non poteva crederci. Si era comportata in modo inaccettabile, lui non aveva avuto scelta e adesso lo minacciava di denunciarlo e gli voleva impedire di vedere sua figlia.

Sentì la rabbia crescere dentro di lui, pensando a quello che gli aveva detto e percorse in fretta il breve spazio che lo separava dalla porta all’ascensore, premendo con colpi secchi i tasti, cercando di uscire fuori il più in fretta possibile.

Si infilò bruscamente le mani in tasca e percorse a grandi passi la distanza che lo separava dall’appartamento di Lexie alla sua auto.

Non avrebbe dovuto essere stupito da quello che era successo, se avesse pensato a mente lucida, forse avrebbe anche potuto valutare la possibilità che Lexie avesse ragione, ma lo era. Non poteva dirsi propriamente stupito, si sentiva più arrabbiato. Stringendo i denti spalancò la portiera della sua auto ed entrò in essa.

«Vaffanculo!» sbottò, colpendo con i palmi aperti il volante.

Era arrabbiato. Non era semplicemente arrabbiato con Lexie perché gli aveva detto che non voleva che vedesse più Ariel, era arrabbiato perché non aveva modo di controllare quella situazione, non aveva idea di quello che stesse succedendo e aveva così tanti pensieri che gli passavo per la testa, che credeva che quella potesse scoppiare da un momento all’altro.

Non era stata colpa sua se aveva dovuto lasciare Ariel da sola. Quello era il giorno che generalmente passava con sua figlia, non se ne sarebbe mai andato, ma l’avevano chiamato, dicendogli che non potevano sostituirlo, così aveva telefonato ad Andrew. Non poteva credere che l’avessero costretto a lasciare sua figlia, anche se era rimasta da sola per dieci minuti; in quel momento riusciva solo a pensare che fosse stato fatto di proposito: nessuno veniva mai chiamato all’ultimo momento, se aveva detto di aver un impegno importante; dovevano averlo fatto perché era andato via anni prima, non gli veniva in mente nessun altra spiegazione.

La cosa lo frustrava. Non era mai successa una cosa del genere, si trattava di sua figlia, non avrebbero dovuto chiedergli di lasciarla da sola. Non sarebbe dovuto andare. Doveva rimanere a casa e ignorare le loro insistenti chiamate, avrebbe dovuto spegnere il telefono e chiudere le tende alle finestre, nel caso fosse venuto in mente a qualcuno di andarlo a prendere fino a casa, dato che ricordava chiaramente che una volta era successo ad una delle ragazze. C’era questo codice tra i cacciatori. Una caccia è una caccia e nessuno può rifiutare di prendere parte ad una di esse. Chiaramente, c’erano delle volte in cui uno o più trasgrediva il regolamento, ma nessuno aveva insistito troppo. Quella volta, però, non volevano lasciarlo in pace, non aveva potuto fare altrimenti.

Anche Lexie si era arrabbiata molto, ovviamente. In fondo, lei aveva lasciato Ariel in custodia a Jake, sotto la sua responsabilità e lui l’aveva lasciata in casa da sola, seppur per breve tempo, così aveva dovuto disdire i suoi impegni e tornare a prenderla; forse non avrebbe dovuto chiamarla, ma Andrew non poteva rimanere tutta la sera a fargli da babysitter.

Lexie non poteva capire. Non aveva idea di cosa significasse essere un cacciatore e avere sulle spalle la responsabilità di proteggere la gente, senza nemmeno un “grazie” in cambio, dato che l’esistenza dei vampiri andava tenuta segreta.

Si era dovuto impegnare molto con Lexie. Non era sua moglie, quindi non aveva il permesso di raccontarle la verità sulla sua famiglia e la sua cerchia di amici, ma le regole non scritte dei cacciatori imponevano che ognuno di loro insegnasse a ogni figlio come cacciare, se poi non volevano, potevano scegliere di evitare, ma almeno uno della prole doveva raccogliere l’eredità. Jake era figlio unico, non aveva avuto possibilità di scelta.

Certe notti, ci pensava a fondo. Pensava a come fosse essere un cacciatore e alla sua vita lì a Portland. Era diverso dai primi mesi che aveva trascorso come cacciatore nella sua città natale: laggiù doveva fare quello che il suo gruppo gli diceva di fare, mentre lì cercava di evitare di immischiarsi nelle cacce il più possibile. Non lo aveva mai detto a nessuno, ma non aveva voluto avere contatti con la comunità di Portland. Diceva di essersi trasferito per sua figlia, ma dentro di sé sapeva che c’era qualcosa di più.

Stava guidando, quando qualcosa attirò la sua attenzione.

Una figura sul ciglio della strada, questa volta indossava un vestito nero con le maniche di pizzo, i capelli biondi che spiccavano nell’abito scuro. Era lei.
Era sempre strano, quando pensava a lei. Sentiva come se tutti i suoi pensieri svanissero all’istante, come se qualsiasi cosa dovesse fare non fosse più importante; tutto diventava insignificante, se paragonato a lei.

Accostò l’auto e scese, raggiungendola a grandi falcate. Era immobile e scrutava un punto impreciso davanti a sé, non dava segno di averlo visto passare con la macchina.

Quando arrivò accanto a lei, era incerto su cosa dire e lei non si era nemmeno girata per guardarlo. «Cosa stai facendo?»

Non si voltò. Continuava a guardare davanti a sé, lo sguardo assente.

«Cosa stai…?»

Allungò il braccio verso la sua spalla, mentre diceva quelle parole, ma non terminò la frase.

Lei alzò la mano così rapidamente che nemmeno se ne accorse, gli strinse il polso a mezz’aria, scattando verso di lui in pochi secondi.

Il suo viso non era più inespressivo, aveva stretto le labbra e contratto il viso. «Jake.» Lo lasciò andare.

Si massaggiò il polso, lo aveva stretto talmente forte che gli si era arrossato. Indietreggiò leggermente, non credeva che avrebbe potuto fargli male, sapeva che era forte, ma spesso era così preso da come appariva, che dimenticava chi fosse veramente.

«Che ci fai in mezzo alla strada?» chiese.

«Nulla che ti riguardi.» Non aveva usato un tono sprezzante, non lo faceva quasi mai.

E Jake non fece domande, non lo faceva mai.

Ci fu un secondo in cui si chiese perché fosse lì, era frustrato, ma non riusciva a capire il perché. Non aveva motivo di essere frustrato o arrabbiato, era con lei adesso. Era sicuro che c’entrasse sua figlia, ma ci avrebbe pensato dopo, non era più importante.

«Senti, mi è venuta in mente una cosa» disse, sfiorandogli la mascella.

«Cosa?»

«Ho lasciato una cosa da te, ricordi? Me la devi riportare.»

Jake la guardò confuso. «Ma avevi detto che dovevo tenerla.»

Poggiò la mano al lato del suo viso, stringendo la presa. «E, invece, ora ti dico che me la devi portare. Chiaro?»

«D’accordo, d’accordo.» Proprio non la capiva. Pochi giorni prima gli aveva detto di tenerla e ora gli diceva il contrario.

«Bene.»

Rimasero in silenzio per qualche secondo, Jake ad osservarla e lei con lo sguardo che andava oltre le sue spalle. Capitava che lei rimanesse semplicemente così, immobile a fissare il vuoto, Jake si era sempre chiesto il perché, ma osava chiedere e le poche volte che lo faceva, non riceveva risposta.

«Devo andare, adesso» disse, togliendo la mano dal suo viso.

«Dove?» Voleva toccarla, ma aveva la sensazione che non glielo avrebbe permesso. Non voleva che andasse via così presto.

«Devo andare a nutrirmi, lo sai» aveva abbandonato il tono apprensivo, ma pur sempre controllato, di poco prima e aveva ripreso il solito basso e calmo.
Strinse i denti. «Devi farlo per forza?»

«Jake, sai che ne ho bisogno per vivere.»

Succedeva sempre qualcosa quando parlavano di quell’argomento. Jake sentiva sempre un piccolo campanello d’allarme nella sua testa, qualcosa che gli diceva che era sbagliato, che doveva impedirlo, ma non poteva farlo, sapeva che quello era l’unico modo in cui lei sarebbe potuta sopravvivere, che quello era l’unico modo in cui avrebbe continuato a camminare su quella terra e a tornare da lui. Avvertiva anche, però, un moto di gelosia. Non potevano farlo sempre, ma desiderava così tanto essere l’unico per lei.

«Fallo a me, allora. Bevi il mio sangue.»

Lei lo guardò. I suoi occhi azzurri fissi su di lui, che scendevano lentamente dal suo viso fino al collo, come se fosse pronta ad agire. «Non posso, Jake, non sei forte abbastanza.»

«Non hai bisogno di loro, ti basto io.» E lo voleva, lo voleva davvero.

Gli accarezzò il viso, sorridendo, ma con espressione rassegnata. «Vorrei che fosse così, ma non è possibile.»

«Ma non ne hai bisogno! Non hai bisogno di uccidere nessuno!» Succedeva anche questo, Jake ricordava con prepotenza cosa lei faceva davvero, faceva una cosa contro cui lui lottava ogni singolo giorno. Quando la guardava, però, non riusciva a vedere l’assassina, vedeva solo una splendida donna, una donna che riusciva a fargli dimenticare ogni cosa con un solo sguardo; non ricordava nemmeno come fosse iniziato tutto, da dove fosse arrivato il sentimento.
«Ma io ne ho bisogno Jake, te l’ho detto un attimo fa!»

«Ci deve pur essere un altro modo.»

«Non c’è, Jake. È quello che devo fare e basta.»

«Ma ti piace, non è vero? Uccidere ti diverte.»

«E a te piace uccidere i vampiri, Jake?»

«Lo faccio per difendere le altre persone.» Si fermò un secondo, chiedendosi dove sarebbe arrivata quella conversazione. Non ne avevano mai parlato in modo così diretto.

«Noi facciamo quello che facciamo per vivere! Per sopravvivere. Lo capisci?» Strinse i pugni, la sua espressione sempre così controllata aveva assunto un cipiglio arrabbiato.

«Non posso capirti, non ci riesco. È sbagliato.» Ed era la prima volta che lo diceva, la prima in cui non chiudeva gli occhi e faceva finta che non esistesse nulla.

«Jake, io vado a caccia in altri posti per te, perché so che qui vive gente che tu conosci, ma tu non batti ciglio, quando si tratta di uccidere un vampiro, perché io devo sentirmi in colpa e tu no? Perché quello che faccio io è sbagliato e quello che fai tu no? Perché io sono la cattiva e tu l’eroe? Non basta quello che faccio? Sei un ingrato!»

Non sapeva cosa rispondere. I motivi li aveva: doveva proteggere le altre persone, ma anche lei doveva proteggere se stessa. Non avevano mai litigato, lei non si era mai scomposta in quel modo, quella sera, stava guardando una persona diversa.

«Stammi lontano, allora, visto che non hai bisogno di me.»

Non aveva mai detto di non aver bisogno di lei. Che cosa sarebbe successo a quel punto? Sarebbe andata via? Jake sapeva che non era questo che voleva, non aveva mai voluto vederla andare via. Non gli importava nulla se uccideva, non gli importava se quella relazione malsana andava contro i suoi principi. Non poteva perderla, non poteva permettere che andasse via.

«Non è vero, ho bisogno di te.»

Non era la prima volta che la vedeva mutare completamente espressione, da un secondo all’altro. Un attimo prima era arrabbiato, quello dopo aveva rilassato la fronte, sollevato gli angoli delle labbra e il suo sguardo esprimeva soddisfazione. «Dillo di nuovo.»

Anche il suo tono era tornato quello di sempre. «Ho bisogno di te.»

Continuò a sorridere. «Buona notte, Jake.»

«Io…»

E ancora una volta, era sparita prima che potesse dire qualsiasi cosa.
***

Alla fine erano riusciti a combinare qualcosa, quella sera.

L’aveva portata a vedere un film al cinema. Si vedeva che quell’uomo non aveva la minima fantasia in fatto di appuntamenti, ma non si era lamentata: in fondo, era stata una serata molto produttiva. Presa com’era dal pensiero di ciò che conservava nella sua tasca, non aveva fatto il minimo caso al brutto film di cui nemmeno ricordava il titolo o al modo in cui Andrew continuava a fissarla e a far scendere la mano dalle sue spalle pericolosamente più giù. Se si concentrava abbastanza, riusciva a far finta che non stesse succedendo nulla di troppo fastidioso. Ma ne era valsa la pena. Ormai mancava così poco che riusciva già a figurarsi mentre… Sorrise. Era stata così presa dall’eccitazione dell’idea, che non aveva ancora deciso cosa fare.

Non aveva più importanza cosa voleva combinare l’umano con lei, a quel punto dovevano solo vedersi poche altre volte.

Entrò nella sua casa. All’ingresso, sentì qualcosa sfiorarle la gamba e, abbassando lo sguardo, notò che era un gatto nero piuttosto grande, ma che continuava a muoversi agilmente, diverso da quei gatti grassi e pigri che ormai popolavano le case delle ragazzine disperate.

Si abbassò e lo accarezzò sulla schiena. «Ci siamo quasi, sai? Presto verrà il momento.»

Era affezionata a quel gatto. Lo aveva preso quando erano arrivati a Portland, colpita dal suo fitto pelo nero. Non riusciva a capire come potessero esistere esseri umani che disprezzassero certe creature solo per il colore del pelo.

«Il nostro tempo sta per scadere, temo. Magari ti porto con me.» Si chiese se fosse fattibile. I vampiri non tenevano animali domestici, non era nella loro natura affezionarsi a qualcosa che avesse vita così breve come un gatto o un cane, ma quella volta era diverso. Nonostante non avrebbe mai potuto prendere il posto di un vero Compagno, quel gatto le aveva fatto compagnia senza chiedere nulla in cambio, a parte cibo e carezze. Era anche stato il primo animale che non avesse intimidito, quindi, anche se un vampiro avesse voluto un animaletto, non avrebbe potuto comunque tenerlo, visto che la maggior parte si allontanava per istinto. Quel gatto, però, non l’aveva mai allontanata, né graffiata. Forse si capivano a vicenda. Una volta, si era scioccamente chiesta se anche lui fosse mai stato tradito da qualcuno.

Non si alzò. Si limitò a prendere il suo telefono e a comporre il numero, mentre continuava ad accarezzare il suo gatto. «Non vedo l’ora, non puoi capire quanto ho aspettato per questo momento.» Roteò gli occhi. Doveva smettere di parlare al gatto come se fosse una persona.

Finalmente risposero al telefono. «Pronto? Volevo dirti che l’ho trovata.» Si alzò e camminò avanti e indietro per il piccolo salotto, tormentandosi le labbra dall’emozione e stringendosi una ciocca di capelli tra le dita. «Sì, ormai ci siamo. Manca davvero poco.» Sorrise. «Presto tornerò a casa.»

 
 
 
 
 






Note:
Allora.
Sono passati mesi dall’ultima volta che ho pubblicato, non so se c’è qualcuno là fuori a cui ancora interessa questa mia cosina, mi auguro di sì.
Il fatto è che in questi mesi sono cambiate così tante cose nella mia vita, mi sembra passato un secolo. Fortunatamente, ora posso ricominciare a scrivere regolarmente, perché la mia storia è sempre rimasta la stessa.
Posso capire che alcune cose possano sembrare confuse per ora, ma assicuro che tutto verrà spiegato. La canzone è Demons degli Imagine Dragons.
A presto, spero.

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