The Man who spoke with the Witch.

di Night_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Girando una pagina, una scoperta. ***
Capitolo 3: *** La malattia dell'osare. ***
Capitolo 4: *** Lo sgomento della protezione. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***




 

 

 

 

Prologo 

 

 

 

 

 

 

Il vento fischiava.
Era come trovarsi in un lercio stadio ricolmo di esseri umani che gridano – incitano, acclamano.
Il vento cantava.
Con potenza, avvolgeva e fasciava quell'enorme pezzo di terra, annerito dalla magia, reso sterile dall'oscurità che traboccava come una sorgente di petrolio che scoppia. La strega guardò in basso.
Il grigio delle sue iridi si posò nel fondo e il velo di un un macabro spettacolo si specchiò nelle pupille: li vide. Incrociò lo sguardo funesto che li attanagliava come avvoltoi. Ogni piccolo connotato, spigolo facciale, persino le nuvolette che i loro respiri creavano – era tutto talmente orrendo. Camminavano vicini come sardine, probabilmente le loro spalle si toccavano, ma non si gettavano una singola occhiata.
Degradante.
Eppure, di fronte allo spettacolo di burattini ingrigiti, il viso della strega restò immobile. Inespressivo, grigio – sollevò solo l'indice.
E una luce azzurra assorbì il plumbeo. 

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Capitolo 2
*** Girando una pagina, una scoperta. ***


NOTA DELL'AUTRICE:
Hmmmmm. Non so perché abbia deciso di scrivere la nota dell'autrice qui in alto e, invece, in VD continuare a metterla in basso ma... OKAY.

Duuunque--- dovete sapere che questa storia ha già un paio di anni di vita, forse quattro, ed era una delle tante idee che la mia testa partoriva ma che non riuscivo mai a mettere per iscritto – decentemente, per lo meno. E NIENTE.
Sono feliciAH di scrivere una storia ambientata nella terra del tè e della pioggia (?) perché ogni tanto fa proprio bene cambiare... paese.

E buh.
Vi lascio~

 

Night, ovviamente, con affetto.

 

 

 

 

 

 

 

Girando una pagina, una scoperta

 

 

 

 

 


 

 

L'incessante e pesante pioggia invernale stava annegando Londra da almeno cinque ore – mi ero appuntato l'inizio del diluvio – ed era talmente grave da far tremare i vetri del mio ermetico studio, quasi intimiditi da tale potenza. Normalmente, non avrei avuto da che ridire su quello scrosciare fitto e continuo, la pioggia non mi era mai sembrato un grande disturbo: fino a quel momento. Pareva di essere a Venezia – mi sarebbe piaciuto visitarla, un giorno – ma, sprovvisti di gondole come ovviamente eravamo, non si poteva attraversare una singola strada. Inutili erano anche le posizioni strategiche e salva inzuppamento sotto i tettucci o i balconi, grondanti d'acqua fino a diventare rumorosi.
Morale della favola: i londinesi era stati messi alle strette. Irrimediabilmente, fastidiosamente.
Se non altro, pensai mentre, rivolto alla finestra dietro alla mia scrivania e con le braccia incrociate dietro la schiena, vidi una macchina nera sfrecciare sull'asfalto scivoloso, non dovrò incontrare quella fastidiosa inquilina. Non ne posso più. Come dovrei farglielo capire che, dei suoi biscotti, non mi interessa affatto?
Fu proprio mentre una seconda, disperata automobile decise di generare un'onda anomala, attraversando celere la strada, che il legno della porta del mio studio venne gentilmente colpito da tre colpi.
«Avanti», e nell'esclamare ciò, mi girai; sulla scrivania non avevo più niente da circa le diciannove e venti, quando ebbi terminato di trascrivere qualche noioso documento, eccetto un portafoto con l'elegante cornice rosso sangria e la tazza bianca col tè fumante. Prima di sollevare lo sguardo sulla nuova arrivata, mi concedetti un leggero sorriso alla donna ritratta sulla foto: i segni dell'invecchiamento erano sì visibili, ai lati della rosea bocca, ma le donavano forse più della giovinezza. Gli occhi nocciola brillavano.
«Come immaginavo, è ancora qui. Non vorrebbe tornare a casa, capo?», chiese, curiosa, la voce femminile – alzai gli occhi.
Gli occhi scuri, tanto simili alla cioccolata fondente che le piaceva sorseggiare, avevano ancora la luce infantile ed energica di quando era appena una ragazzina: di quando giocavamo insieme, alla scuola materna. Ed era ancora disordinata, internamente ed esternamente. I capelli neri erano acconciati in una comoda coda di cavallo ma diversi ciuffi sfuggivano dalla morsa dell'elastico e carezzavano dietro il collo o le guance.
«”Capo”», ripetei, aggrottando la fronte.
Lei rise, allegramente. «Hm, devo darti ragione. Riformulo: non vorresti tornare a casa, Edward?». Bene, come pensavo. Bastava che fossimo soli e la maschera di professione – tra l'altro, non le stava granché bene – che le decorava il viso latteo si scheggiava, frantumava, cadeva a picco. Ed ecco che quella casinista irrecuperabile di Annabel faceva la sua comparsa.
Nel mio studio, certo.
«Anna», mi lasciai cadere sulla mia poltrona color petrolio, di pelle. D'estate era abbastanza appiccicosa. «Hai fatto ciò che ti ho chiesto?».
Lei arricciò il naso e strinse le sottili labbra, una smorfia le artigliò del tutto il viso che, da diversi mesi, mi ero abituato a vedere in continuazione – voglio dire: era la mia segretaria personale. Meglio farsene una ragione che quella lì avrebbe invaso il mio spazio personale, che si sarebbe addormentata più volte sulla mia poltrona, che avrei dovuto--- in una parola: sopportarla.
Ma vabbene.
Lei si avvicinò alla scrivania e scivolò seduta sopra, appoggiando metà fondo schiena e accavallando la gamba sinistra sulla destra. Erano fasciate dalle calze nere ma la stoffa non doveva essere molto spessa visto che permettevano ugualmente la visione della sua pelle, in parte – era interessante.
«Veramente, no», rispose, spingendo le labbra verso l'esterno. «Papà non c'era, oggi. E prima che tu possa chiedermelo: non so dove sia stato».
«Non c'era?», ripetei e la mia fronte si aggrottò autonomamente. «Strano che Arthur sia mancato. Non manca mai». E la guardai, inarcando un sopracciglio sull'occhio.
Lei rispose all'occhiata alzando il mento e sospirando pesantemente, quasi l'avessi costretta a sollevare un quintale da sola. «Jesus!».
Appoggiai la schiena al dorsale, arcuando appena la bocca in un sorrisetto. Non poteva biasimarmi se l'avevo guardata con il sospetto nelle iridi: Arthur Page era un uomo ligio al dovere e meticoloso, forse più di me; mi ricordavo ancora nitidamente le discussioni animate tra Arthur e mio padre, quando dovevano prendere una decisione importante, quando volevano spostarsi e andare in altre zone: l'archeologia classica non era uno scherzo.
Entrambi lo sapevano.
«A volte vorrei che corrispondessi allo stereotipo dei biondi», borbottò Annabel, spingendosi verso di me. Ci mancava poco che si sdraiasse. «Perché non sei uno stupido?».
«Perché dovrei esserlo?», ribattei, alzando la mano per scostarmi una ciocca bionda dall'occhio – lei mi anticipò. Le sue sottile dita si avvicinarono e si infiltrarono come serpenti tra i miei capelli, sfiorando con il palmo la mia fronte. I capelli vennero tirati dolcemente indietro e, quando tolse la mano dalla mia testa, ricaddero leggeri e scarmigliati sul mio viso.
«Saresti più felice», rispose. «Sai com'è, l'ignoranza è spesso una beatitudine».
Beh, non aveva del tutto torto: spesso era una beatitudine, ma non sempre. Socchiusi le palpebre, specchiandomi nei suoi limpidi occhi scuri ornati da ciglia folte, sia le superiori che le inferiori. Erano state accentuate con del mascara. «Ti preoccupi della mia felicità, suppongo. Dovresti preoccuparti della tua vita, piuttosto. Sei appesa ad un filo».
Avrei voluto aggiungere qualcosa, ad esempio come il suo lavoro come mia segretaria personale fosse una grazia più che un qualcosa di meritato e di diritto – se non fosse stato per Arthur, con la quale lavoravo fianco a fianco... non starebbe su questa scrivania. Oppure, ci starebbe eccome, ma più come parassita che come dipendente.
La vidi arricciare l'espressione energica in una di indignazione. Aspettavo che da quella bella bocca cominciasse ad uscire la solita cascata di parole che, francamente, non avevo la voglia di ascoltare – erano più potenti del magma, a volte.
«Tsk. Appesa ad un filo? Eppure, senza di me, dovresti alzare quelle natiche per ogni piccola cosa».
Jesus, a questo punto, lo dovrei dire io.
Non risposi, limitandomi ad aguzzare la vista per squadrare la sua figura mentre, sinuosa ed elegante, si spostava dalla scrivania. Sentii i tacchi da cinque centimetri – così mi parve – pestare il tappeto, piano, uno alla volta. «Come credi», sussurrai, lasciandomi scivolare un po' di più nella poltrona, assorbendo con ogni mia cellula e fibra la morbidezza. Annabel annuì. Chissà perché, poi. «Ora, andiamo a casa? Voglio farmi un bagno con le candele».
Mi alzai – che si trattasse con adeguatissime cure, già lo sapevo – e piegai il busto verso la scrivania per premere il tasto della lampada, lasciando che il buio inghiottisse avidamente il mio studio, che lo trascinò con sé nelle ombre della notte. E poi, percorrendo i corridoi desolati ed indossando nel frattempo il mio soprabito – cercai di non pensare alle gambe di Annabel nude ed insaponate.

 

 

 

***


 

 

Dal mio attico all'appartamento di Annabel intercorrevano all'incirca una quarantina di metri, facilmente percorribili a piedi ma difficilmente in macchina. Le strade erano troppo trafficate, il rischio di mettere sotto qualcuno era piuttosto alto – meglio di no, giusto? – e, visto che volevamo tutti passare una vita più legale possibile, ci eravamo messi l'anima in pace già cinque anni fa, quando entrambi lasciammo casa per seguire i nostri obiettivi. Anche se, c'era da dirlo, Annabel non era il tipo di persona che riusciva a trascorrere un'esistenza quieta, ammansita.
Diceva spesso di aver bisogno di qualcosa. Ma di cosa, poi?
Da bravo amico, le chiedetti più di una volta cosa intendesse, o meglio, cosa desiderava esattamente. Avrei potuto aiutarla? Avrei potuto avverare questo ambiguo desiderio? E c'era un'altra cosa che mi frullava nella testa – il ché era faticoso, dato il mal di testa che mi artigliava il cervello: qual era il significato di un “obiettivo”?
Darsi da fare per raggiungere tutto ciò che forsennatamente si vuole; imprimersi una missione dentro, a fondo; avere qualcosa di più laborioso da fare, durante la giornata?
Mentre lasciavo il soprabito nella vasca da bagno, a gocciolare copiosamente, mi diedi mentalmente dell'idiota per quelle assurdità. A che diavolo si finisce per pensare, alle volte! Mille volte possedere un lavoro stabile, un patrimonio altrettanto resistente e... beh, nient'altro.
Annabel era un Diavolo che ti contorceva i pensieri e la mente. A volte, finiva con l'essere peggio di quella protagonista del libro che, negli ultimi giorni, mi prendeva la notte: una bellissima ragazza dalla doppia natura sovrannaturale e, come a voler sfogare questa consapevolezza sugli altri, era spesso velenosa e, appunto, diabolica.
Ma c'era da dire che questa protagonista* aveva la decenza di possedere il coraggio per proteggere gli altri, ecco.
La sera avrei continuato a leggerlo, non mi mancava molto per finire il primo libro. Prima, però, dovevo ascoltare la segreteria telefonica. Magari Arthur mi aveva lasciato qualcosa per stamani, che era mancato. Camminai lungo il corridoio che sfociava nel soggiorno – il gocciolare dei miei capelli era quasi rilassante –, spingendo le mani contro l'asciugamano che mi asciugava un poco la chioma biondo cenere.
«”Ehi, tesoro, volevo solo dirti che... “», la voce di mia madre mi riempii l'orecchio come un dolce e apprensivo balsamo, districando i sottili e insistenti nodi, accarezzandomi il capo ancora molto umido. Molto meglio, sì. «”La nonna continua a sbagliare il mio nome. Allora devo ripeterlo una decina di volte che è Abigail, e non alligatore”».
Già.
Quest'ultima parte non l'avrei sentita, fosse stato per me.
«”A proposito, per i tuoi ventisei anni, non vuoi fare niente in particolare? Potrei fare quella torta che tanto ti piace, oppure... potremmo fare una festa”», si fermò un attimo, come se stesse disperatamente cercando altre proposte. Il ché, francamente, sarebbe stato il caso. «"a tema... ? Chiamerò Annabel per capirci qualcosa delle tue attuali preferenze. Non parliamo praticamente mai, io e te, sai?"».
«Già», sussurrai. Esatto – guardai davanti a me, parlai al vuoto. Non mi ascoltava normalmente, quando eravamo faccia a faccia, anima contro anima – figuriamoci ad una registrazione. Mi guardava con quei suoi bei occhi nocciola e il suo sguardo sorrideva dolce come zucchero.
«"La nonna mi sta chiamando, quindi... fatti sentire, okay? Sogni d'oro"».
La registrazione terminò come se le fosse stato appiccato un fuoco. Da tre anni a questa parte, le nostre conversazioni erano un astruso reso conto dei tempi in cui non ci sentivamo: prima si trattava di una settimana, le prime in cui cominciai a lavorare; poi, lentamente ma inesorabilmente, il tempo si allungò fino ad un mese. Temo che arriveremo ad un anno e a quel punto le parole nemmeno basteranno.
«Sì, sì, ti rich---». Un suono sordo e opprimente attutì la mia voce e sobbalzai, come scottato – alzai il naso verso il soffitto. Netto, deciso, di quelli che di solito fanno le persone quando cadono di sedere. Talmente grave che temetti seriamente si fosse creato un buco.
Un buco senza fine – dovevo andare a controllare, giusto?
Ma diamine.
Non volevo per nessuna ragione andare a vedere. Sebbene non ne fossi un grande fan, mi capitava di guardare qualche film horror, di tanto in tanto, e sapevo come andava a finire: l'idiota di turno andava a controllare laddove era successa un'anomalia e ci lasciava la pelle.
E tanti saluti.
Un rivolo di sudore – o forse era la pioggia? – mi percorse la colonna vertebrale. In meno di qualche secondo, un altro sordo rumore occupò il mio udito.
E in poco tempo mi trovai a sudare freddo alle mani, al collo. L'asciugamano sceso a circondarne il retro era bagnato e pesante.
Me ne pentirò, pensai, strisciando la schiena per staccarmi dal muro, amaramenteI rumori provenivano dalla soffitta. Era anche vero che la soffitta aveva una certa età e che i cigolii erano più che permessi, ma quelli non erano rumori riconducibili ad una soffitta. Non erano i lamenti del legno che marcisce. Affatto.
Erano i passi falsi di qualcuno.
Con questo stato d'animo e mille dubbi che tornai indietro verso il corridoio, strisciando i miei piedi nudi sul parquet, fermandomi al centro, con quelle pareti strette che mi volevano schiacciare. Sollevai il naso verso l'alto – ecco, quel pezzo quadrato. Sembrava sfottermi pacificamente, con la cordicella che pendeva e alla cui estremità un cerchietto. Attendeva solo di essere afferrato. Le scale sarebbero scivolate con scioltezza fino a toccare piano il pavimento – e voilà, il sentiero per l'Inferno era spiegato.
Sollevai la mano verso il soffitto, alzai l'indice verso il cerchietto. Lo guardai, probabilmente c'era molto astio nelle mie iridi. Dannazione. Dannazione – lo afferrai e tirai verso il mio petto.
Ed ecco lo scalare di quei gradini. Era arrivato il momento: mi tolsi l'asciugamano umido dal collo e lo lasciai ai piedi della scala, dopo attraversai la mia nuca con le dita, nel tentativo di asciugare un poco la pelle. Era un miscuglio di sudorazione e pioggia. Sentivo che i miei capelli avrebbero finito con l'attaccarsi alla nuca, alla fronte, alle guance.
Stavo tergiversando. In una maniera ridicola.
«A noi due», sibilai – e cominciai a salire. Ad ogni passo in più, ad ogni scalino superato, sentivo una sensazione opprimente schiacciarmi il petto ed un freddo destabilizzante insinuarsi nelle ossa, scalfirle e rosicchiarle come se fossero le prede di un vorace lupo.
Sopra, nella soffitta, era il buio più totale – come immergersi in un incubo. La mia testa spuntò come un fungo giallo e i miei occhi, accolti dal petrolio, si strizzarono istintivamente.
Come se la situazione non fosse già abbastanza degradante, doveva esserci quel dannato buio: d'altro canto, era una soffitta. Cosa mi aspettavo, che le luci si accendessero rilevando i miei movimenti? Ma tralasciando questi pensieri – adesso, era solo silenzio. Pressante e insistente.
Il tipico silenzio che sembrava ordinarti di trattenere il respiro.
Cautamente, finii di salire gli scalini e appoggiai un ginocchio a terra, mentre l'altro lo usavo per appoggiarci il braccio – spostai il mio peso in avanti e battei le palpebre. Non vedevo davvero niente. Era come provare un numero da circo senza aver mai fatto pratica. Come avrei capito se c'era qualcuno? Brancolando tra le ombre fitte, tastando a caso... non era una buona prospettiva. Mi alzai lentamente sulle gambe, erano instabili e un tremolio me le scuoteva internamente.
In momenti come questi, la presenza di Annabel non sarebbe male.
Mi avrebbe fermato prima che, dalla mia sciocca bocca, fosse uscita questa frase: «C'è qualcuno?». Il tono quieto di una creatura rilassata. La domanda più idiota dei secoli. Ero abbastanza sicuro che questo era il cliché per eccellenza dei film horror, di serie b o no che fossero; questo voleva dire che a momenti sarei morto. Chissà come sarei morto, ciò si chiedeva la mia mente mentre, il respiro trattenuto nei polmoni, trascinavo le dita su un muro di cui nemmeno ricordavo l'esistenza; camminavo a stento, non respiravo, tastavo e aspettavo impaziente che i miei occhi si abituassero al buio pesto.
Poi, le mie dita trovarono quello che sembrava un interruttore – lo premetti all'istante.
Liscio, freddo e paradisiaco. Siano ringraziati gli interruttori.
«E luce fu», bisbigliai, quando la gialla luce mi accecò per un istante e illuminò largamente la soffitta.
E... non c'era nessuno.
Riuscivo quasi a vedere delle balle di fieno rotolare e spazzare il pesante velo di polvere che, su per giù, prendeva ogni angolo della soffitta. Spostai lo sguardo tutto intorno a me, scrutai attentamente ovunque e mi chiesi, maledicendo questo attico, cosa fosse accaduto, prima. Non c'era nessuno, non c'era niente. Tanti pensieri e progetti per il mio funerale per nulla.
Avrei dovuto esserne sollevato, ma una sensazione di delusione prevaleva di gran lunga: forse speravo che ci fosse qualcuno. Speravo che fosse accaduto qualcosa – che il mio battito cardiaco avesse potuto continuare a battere rapidamente. E invece...
«Meeeow!». Scattai sul posto, i capelli sulla fronte mi caddero sugli occhi come una sottile maschera e una fila di imprecazioni uscirono dalla mia bocca come una torrente.
Ruotai lo sguardo oltre il muro dell'interruttore e lo posai nell'angolo a destra.
Un gatto. Un gatto. Un fottuto gatto tigrato.
Appollaiato su una mensola – sotto la mensola, diversi oggetti. Qualche bambola, porcellana , vasi, piatti, contenitori di plastica.
«Stupida bestiola», sussurrai, acidamente, mentre mi avvicinavo all'angolo. Proprio da quella parte, dove ricominciava la parete, vi era una delle due finestre presenti nella soffitta. Con un gesto scocciato, l'aprii, spingendola largamente verso l'esterno – guardai di traverso il gatto. Si stava leccando il pelo sul fianco, muovendo appena la punta di un orecchio, con tutta la calma del mondo. «Avanti! Esci!». Ma sembrava che preferisse curarsi del pelo anziché del sottoscritto – tsk.
«Guarda cos'hai combinato», brontolai, stendendo il braccio verso l'ammasso di oggetti e dirigendoci lo sguardo. «Ora devo mettere i—hm?».
Qualcosa.
Qualcosa di giallognolo, più sul color sabbia, e di cartaceo. Spiegazzato e sotterrato per metà dai cocci del vaso e della porcellana, sembrava chiedere aiuto ed essere salvato dall'affogamento – perché mi interessava? Mi chinai sulle ginocchia, fino ad appoggiare le natiche sui talloni.
E quel qualcosa di giallognolo, cartaceo e spiegazzato fu la pistola che dava il via alla maratona.

 

 

 

 

 

* protagonista: avete capito chi è la protagonista? ~

 

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Capitolo 3
*** La malattia dell'osare. ***


NOTA DELL'AUTRICE:

Bonsoir, bella CENTEH! Tra una craniata al muro e l'altra, riesco a finire questo benedetto secondo capitolo e a postarlo, URRA'.
E niente, c'è da dire che sono due capitoli piuttosto keep calm, come al solito quando si parla dell'avanzamento di una storia della sottoscritta--- ma vbb.

E niente, spero vi piaccia~

 

Night, ovviamente, con affetto.

 

 

 

 

 

La malattia dell'osare

 

 


 

 

 



 

Non sapevo cosa diavolo avessi. C'era qualcosa di assolutamente contorto.
Mi sentivo come se un verme mi fosse scivolato dall'intestino fino al cervello e avesse manomesso le mie funzioni, malmenato i neuroni e cambiato i miei normali atteggiamenti. Ciò che i miei occhi avevano visto – normalmente, avrei lasciato stare. 
Perché, insomma, quante possibilità c'erano che quella cosa fosse significativa? Poteva essere un giocattolo, per quanto ne sapevo. E poi, non avevo mai creduto a ciò che non era stato provato scientificamente. Non avevo mai creduto in Babbo Natale, non credevo a superstizioni come il gatto nero, non credevo che il quadrifoglio portasse cieca fortuna – quindi, cosa?
Le mie domande non trovarono risposta.
Il mio fiato usciva dalla bocca sotto forma di nuvolette irregolari e confuse. Mentre la mia mano si sollevava e le falangi si scontravano bruscamente contro il legno di quella porta, la mia testa mi insultava. Era piuttosto scurrile.
Decisi che le prime dieci bussate avrebbero destato per forza l'ospite dell'appartamento – allora ritirai la mano e attesi. I capelli gocciolavano copiosamente, come se mi fosse rotolato sull'asfalto ancora tormentato dalla pioggia: se non altro, mentre avevo percosso la strada, la pioggia era diminuita.
Fuori, c'era solo il suono distante di macchine che passavano. Forse era del tutto finita.
Proprio mentre cominciai a sentire un vago sentore di sollievo, all'idea di poter tornare “all'asciutto” a casa mia, passi trascinati mi colsero e la porta, come un tornado, venne spalancata internamente.
«Ma sei impazzito?!». Annabel mi guardava con le sopracciglia scure inarcate e la bocca serrata. Era arrabbiata, eh? Guardandola, pensai che probabilmente il mio arrivo e il suo tanto amato bagno con le candele avevano avuto uno scontro; oppure, era appena uscita dalla vasca e io l'avevo richiamata, come con un pettirosso.
Solo che i pettirossi sono carini e docili – lei era un Diavolo, come già ho proferito.
La vidi scollarsi una ciocca bagnata attaccata alla guancia con la punta dell'indice, usando un poco dell'unghia; l'accappatoio fasciava largamente il suo corpo, con la cintura in vita, e sinuosi rivoli d'acqua attraversavano il collo e le clavicole, scivolando verso il petto – era un poco aperto, in quella zona. Sollevai lo sguardo sul viso umido di Annabel. «Ho bisogno di te».
Lei mi guardò, cambiando espressione. «Hai bisogno di me».
«Esatto».
«E ti costava così tanto aspettare domani, a lavoro?», sbuffò sonoramente e fece un passo indietro, strisciando sulla moquette scarlatta con le sue pantofole rosa, invitandomi ad entrare con un cenno del capo. Un turbante le reggeva i capelli, sebbene qualche ciuffo fosse sfuggito – come con quella coda laterale.
Io entrai.
Il suo appartamento rispecchiava bene ciò che aveva nel cervello: casino. Totale anarchia.
Un ammasso di pensieri da una parte e poi un altro ammasso poco distante e, nel mezzo, ciò che era realmente importante ma a cui dedicava raramente il suo tempo.
Le pareti color camoscio erano in penombra con le due uniche piccole lampade, che illuminavano il piccolo salotto. Nella totale oscurità e diviso da un muretto, la cucina – riuscivo a sentire i profumi del cibo. Doveva cenare ancora, probabilmente.
Non mi sarei stupito se avesse mangiato nella vasca, mpf. «Allora», la porta si chiuse, leggera. Annabel incrociò le braccia al petto – il morbido e accogliente petto – e mi rivolse un'occhiata. Adesso pareva curiosa. D'altro canto, non ero mai andato a casa sua alle undici di sera per... per qualcosa, ecco. Non ero mai stato qui così tardi.
Mi sentivo quasi strano. Si stava chiedendo cosa ci fosse di tanto urgente da spingermi qui, ora, ne ero certo.
«Cosa dovrei fare?», chiese. «Ma prima vieni in bagno con me».
Mi trattenni a stento dall'aggrottare la fronte e crucciarmi; lei aveva già iniziato a camminare, infiltrandosi nel corridoio che sembrava separare salotto dalla cucina – alla soglia, mi guardò. «Beh? Sei bagnato peggio di un pulcino. E poi, devo asciugarmi anch'io, non voglio certo un malanno!».
Jesus, che idiota che ero, alle volte – certo, certo. In silenzio, un po' colpevole, le andai dietro, raggiungendola nella sua affrettata camminata. Questo corridoio l'avevo sempre considerato leggermente inquietante.
C'erano tre stanze a lato, con le porte spalancate e il buio che inghiottiva ogni singola sagoma, rendendo indistinguibile qualsiasi cosa. Ogni volta che mi capitava di stare qui e di passare per il corridoio – anche esso in fitta penombra – mi premuravo di guardare davanti a me, verso il tavolino con al di sopra un vaso e dei tulipani.
Carini.
«Tieni», Annabel allungò il braccio verso di me, le sue dita erano affondate nella stoffa ruvida dell'asciugamano. Lo presi e guardai verso lo specchio, affianco a me c'era proprio lei, che premeva le mani sull'asciugamano e lo strofinava, energicamente.
«Ora puoi parlare».
Ora potevo parlare.
Adesso potevo spiegare cosa avevo visto.
Potevo documentare sul mio leggerissimo infarto, grazie a quel dannato gatto dalle linee fulve – che, per la cronaca, era ancora in soffitta. Chissà che magari era pure sceso! Non avevo ritirato la scaletta della soffitta, di corsa com'ero. Mi schiarii la voce con dei colpi di tosse, chiusi le palpebre e le riaprì. Guardai il mio riflesso: i capelli biondo cenere non avevano più un senso. Bagnati, disordinati, impiastricciati.
E i miei occhi, le mie iridi cerulee – non smettevano di criticarmi. Mi additavano furiosamente e bisbigliavano, fra un respiro e l'altro, che stavo per dire l'idiozia più grande della mia vita. O meglio, l'unica idiozia vera e propria.
Eppure – il bisogno era forte.
Mi sentivo esattamente come se, da quando ebbi aperto gli occhi alla nascita ad ora, venticinque anni, non avessi mai detto o fatto qualcosa di stupido. Qualcosa che non avesse logica. E allora, mentre ci ragionavo sopra e lo sguardo di Annabel sembrava sempre più sarcastico, mi dissi ciò: O la va, o la spacca.
«Appena tornato a casa, mi sono asciugato i capelli e poi ho sentito la segreteria telefonica. Mia madre mi ha parlato della nonna e del mio compleanno, ha detto che ti chiamerà per aiutarla. E poi, mentre parlavo fra me e me che avrei dovuto richiamarla, c'è stato un rumore. Forte. Proveniva dalla soffitta. Giustamente, anche se ne avrei fatto a meno, sono salito a controllare e, dopo essermi flagellato più volte con pensieri poco felici, ho scoperto che si trattava di uno stupidissimo gatto che intelligentemente ha fatto cadere un po' di roba. Tra questa roba, ho trovato qualcosa. Una mappa».
«Una mappa... ».
«Una mappa che conduce alla terra delle streghe».
Silenzio.
Silenzio talmente denso che mi sembrò di sentire il suo respiro caricarsi dentro il petto, come se stesse prendendo la rincorsa per... beh, probabilmente, urlarmi in faccia. Comprensibile.
Stavo ancora guardando il mio viso che, durante il breve racconto, aveva assunto un paio di espressioni, come l'irritazione e il dubbio, la nausea imminente e, alla fine, un enorme confusione – gettai gli occhi in basso, alla mia sinistra.
Annabel aveva le palpebre abbassate e la bocca socchiusa. «Una mappa», disse la sua voce, asciutta; stavo per annuire quando lei , , rapida, spostò gli occhi dallo specchio che usava come tramite per i nostri sguardi, per inchiodarli nei miei – girò il corpo dalla mia parte. La sua mano sinistra era appoggiata fermamente al lavandino mentre la destra andò ad artigliare il centro della mia maglietta, stropicciandola e stritolandola come una gallina.
«Mi stai dicendo che il mio Ed, quello che conosco da più di vent'anni, ha trovato una stupida e insulsa mappa da quattro soldi e ha pensato bene di piombarsi qui, sotto la pioggia, alle undici e mezza di sera?», i suoi occhi scuri lampeggiavano come se all'interno dei tuoni stessero troneggiando. «Il meticoloso, attento, incline alla scientifica e a ciò che ha senso... Edward Harlow?».
Il mio cognome mi echeggiò nelle orecchie come una cantilena – lagnoso e irritante. I polpastrelli della mia mano destra si poggiarono sul dorso della mano che mi stringeva, premendo e scostando, come se si trattasse di un ratto troppo coraggioso.
Non mi aspettavo che mi desse retta, non mi aspettavo niente – non mi aspettavo mai niente da nessuno. Nemmeno da mia madre.
Respirai piano, chinai il mio viso verso il suo e le punte dei nostri nasi entrarono in contatto. Riuscivo a percepire sul collo il suo respiro carezzarmi la pelle.
«Ma io non sono tuo», assottigliai le palpebre e sorrisi, leggermente. «Cara Anna».

 

 

 

***

 

 

 

La pioggia era stata sostituita da un tiepido calore.
La luce del sole filtrava attraverso le finestre, fra le pesanti tende color ciliegie, posando i suoi fasci sulla scrivania e spingendosi fino al pavimento. Sentivo il calore toccarmi la nuca, ma non era abbastanza intenso per farmi provare bruciore.
Piacevole, carezzevole.
Cercavo di concentrarmi sulle parole della donna che avevo di fronte, ma la sensazione di profonda sonnolenza mi artigliava gli occhi – ah, le palpebre erano così pesanti... 
«Mi sembri stanco».
Scattai sulla poltrona, le mie dita corsero ai braccioli e li circondarono il più possibile. Probabilmente, più che stanco, sembravo una molla.
«No... no, non sono stanco», mormorai – a quella donna. I suoi caldi e apprensivi occhi nocciola mi guardavano con quella loro curva verso il basso, mentre le labbra si stendevano in un sorriso leggero, che tirava un poco le rughe. Avevo sempre considerato – e non solo io – mia madre come una donna bellissima e raffinata, con un senso dell'umorismo tutto suo e tanta voglia di vivere.
Il ché, francamente, mi sfuggiva, dopo gli avvenimenti di undici anni fa'. Ma forse ero io quello incapace di guardare diritto, di dare le spalle agli incidenti e alle malattie. Forse, forse... ero io.
«Direi che il lavoro va' a gonfie vele, eh?», ridacchiò, gentilmente, coprendosi la bocca con due dita. «Ma non dimenticare di prenderti qualche vacanza, di tanto in tanto. Puoi permettertela, comunque».
«Vacanza... », ripetei, saggiando il suono della parola. Una vacanza. Non andavo in vacanza da quando ero un bambino di dieci anni, con mia madre e mio padre, tra viaggi aerei e crociere con destinazioni totalmente casuali. Era davvero assurdo. Con l'incognita di dove saremmo arrivati, ci godevamo il soggiorno sulla nave, tirando ad indovinare la locazione.
Adesso, l'unica cosa che provavo ad indovinare, era quante volte mia nonna avrebbe sbagliato il nome di sua figlia.
«Potremmo andarci insieme», mi fece lei – alzai gli occhi sui suoi.
Come al solito, non mi ero nemmeno accorto di averli chinati sulla scrivania, a guardare il suo legno elegante.
«Non sarebbe male», dissi, con in volto la parvenza di un sorriso, di energie. Non avevo fatto niente di eclatante e mi sentivo come prosciugato e mentre la mia schiena sprofonda nella poltrona nera e ne assorbiva la morbidezza, sentivo come se... , mi sarei potuto addormentare tranquillamente.
Beh, mia madre conosceva il posto e non se la sarebbe mai presa: casomai, mi avrebbe lasciato una coperta addosso. Con la sua innata gentilezza, la stoffa avrebbe coccolato il mio corpo irragionevolmente e stupidamente provato – le palpebre si chiusero sulla mia visuale.
Mi sembrava quasi di sentirla già, la coperta.
Che accidenti di sonno...
«Oh, Arthur!».
La molla si riattivò nel mio corpo. Il generatore riprese a funzionare. La testa mi maledì, il corpo disubbidì agli istinti e ai desideri e scattò sulla poltrona, cercando di non farlo sembrare un movimento troppo ovvio, troppo – patetico? Mi veniva da dire questo, in effetti. Le palpebre si staccarono fra di loro e la luce del sole alle mie spalle, sebbene non molto ampia e forte, riuscì ad accecarmi la retina.
Avevo sentito dei passi – già: e ora si erano fermati. Riuscivo persino a percepire la presenza di un'altra persona, di Arthur, in piedi davanti alla scrivania con quel suo sorriso bonario sulla bocca sottile e le sopracciglia un po' alzate, stupite da... beh, immagino dal mio salto di dieci metri.
«Edward!», rombò la sua voce. «Ti senti poco bene?!». Non c'era veramente preoccupazione, e poi credo si capisse dal mio viso semplicemente assonnato che la mia salute era apposto.
Alzai la testa e puntai le iridi in quelle dell'uomo; slanciato e dalle spalle larghe, ampie e protettive, fasciate da un gilet grigio e sopra, una giacca nera; i capelli brizzolati erano ordinatamente portati indietro con del gel – suppongo – e gli occhi scuri, brillanti e intelligenti, avevano la stessa luce infantile di Annabel.
Tale padre, tale figlia.
Sotto certi aspetti.
«Sto bene», riuscii ad articolare, passandomi distratto la lingua fra le labbra. Un po' secca. «Sono solo assonnato».
«Vedo, vedo», disse Arthur, tornando con le sopracciglia sopra gli occhi, con un acciglio preso in contropiede – ma non troppo. Non era un uomo che si lasciava sorprendere molto facilmente e potevo dirlo con estrema sicurezza. Ci avevo passato un sacco di anni, insieme, d'altronde. «Oh- Abigail, da quanto tempo, eh?».
Mia madre sorrise.
Avete presente quando vi trovate alla cassa e qualcuno vi passa davanti in tutta fretta, non lasciandovi nemmeno il tempo di protestare e, allora, voi sorridete? Quel genere di sorriso assolutamente ironico e leggermente omicida, del tipo che se un poliziotto ve lo vedesse stampato in volto non ci penserebbe meno di un istante ad arrestarvi. Tolto questo...
«In effetti», concordò mia madre, aggiustandosi una ciocca bionda dietro l'orecchio, sollevando la gamba destra sulla sinistra per mettersi più comoda sulla sedia. «Ne è passato. Tutto okay?».
«Assolutamente», rispose Arthur, puntando le mani ai fianchi e stropicciando un po' i bordi della giacca. «Come sempre, tutto a meraviglia. Qualche sera di queste dovremmo avere una cena. Sei sempre meravigliosa, Abigail».
Il sorriso di mia madre si infittì ancora.
A questo punto, qualcuno si potrebbe chiedere se Arthur Page fosse un uomo stolto o cieco o della stessa taglia Sheldon Cooper*, ma dovete starne sicuri: non lo era affatto. Intelligente e rapido come un computer.
«Non saprei».
«Ma dai, Abigail! Non ti sto chiedendo di sposarmi, certamente. Una cena amichevole», si fermò per scoppiare in una fragorosa e improvvisa risata, abbastanza scoppiettante da farmi aggrottare la fronte. Che casino che faceva. «Voglio dire, non credo che Caelan me ne vorrebbe per una cenetta!».
Il ghiaccio scese profondo nel mio studio.
Come se qualcuno stesse servendo qualcuno con del ghiaccio, nei loro calici pregni di vino – ma, incapace, aveva rovesciato i cubi di acqua gelata. Quelli non avevano emesso un suono, troppo intimoriti, troppo sottomessi. E d'altro canto, davanti allo sguardo di mia madre, anch'io non avrei emesso un suono: ma in questo caso, riuscii. La mia bocca si aprii, le labbra si modellarono per farmi parlare.
«No, non credo che mio padre te ne vorrebbe, ma non credo nemmeno che sia il caso nominarlo così leggermente». La furia repressa nelle iridi nocciola parve placarsi. La bonaccia si insidiò nel suo sguardo e quello tornò, più o meno, ferito e manomesso, quieto e gentile – ma non dolce. Per quello ci sarebbe voluto un po' di tempo.
Mentre Arthur si mordeva le labbra, le braccia gli caddero sconfitte lungo il busto e le mani si fermarono più sotto della cintura – le dita sembravano ansiose. C'era da dire che, nella famiglia dei Page, non c'era mai stato un tatto particolarmente considerevole: questo non voleva dire che fossero degli insensibili incurabili, certo, ma che non pensavano granché prima di spiccicare parola.
«Sono stato inopportuno, Abigail», a questo punto, mi chiesi se ad Arthur piacesse dire il nome di mia madre. Mah. «Non dovevo nominarlo».
Vidi mia madre sollevare lo sguardo verso il capofamiglia dei Page e rivolgergli un mesto sorriso, come a volergli concedere tutte le scuse che voleva. Forse era troppo spossata, dentro, per arrabbiarsi. Per urlare – e non era tipo da grida iraconde.
Nemmeno da lacrime.
Sia quando, da bambino, caddi e mi ferii gravemente e venni portato in ospedale in fretta e furia, sia quando mio padre si suicidò. Non aveva pianto. Il suo viso si era coperto dello spesso velo di consapevolezza e forza di volontà – chiusi gli occhi e sospirai silenziosamente.
A volte, sapevo di averne bisogno anch'io e quando non riuscivo in alcun modo ad attingerci, mi chiedevo se fossi impuro sino a quel punto.

 

 

 

 

* Sheldon Cooper: uno dei protagonisti della serie tv The Big Bang Theory, incapace di capire quando una persona è sarcastica/ironica o quando è sincera.

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Capitolo 4
*** Lo sgomento della protezione. ***


NOTA DELL'AUTRICE:

C'è una cosa assolutamente incredibile: riesco a finire un capitolo al giorno.

Questo, datemi retta, E' UNA DELLE COSE PIU' BELLINE JSDPFOJSFOS; sarà perché è una storia in prima persona, che ritengo essere più semplice da scrivere, sarà perché Edward è un tizio che nella mia testa ho capito all'istante, sarà perché tutto ciò mi ispira un casino.

Mah.

MAH.

Ma chissene dai, l'importante è che non ho blocchi. (le ultime parole famose---)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo sgomento della protezione

 

 

 

 

 

 

 



 

Spiegai la mappa sulla superficie della scrivania, di fronte ai miei occhi.
La guardai, abbassando leggermente la palpebre; era palese che si trattasse di una mappa di longeva – e anche molto – data, forse poteva addirittura risalire a trent'anni fa', da quello che vedevo; sostanzialmente, un pezzo di carta dai bordi – e non solo – stropicciati, largo quaranta centimetri e alto trenta. Il colorito giallognolo prendeva sfumature marroni qua e là, come se qualcuno gli avesse fatto saggiare il calore di una fiamma.
E in effetti, il bordo destro, per tutta la lunghezza, era bruciacchiato.
Cautamente, attraversai tutta la mappa con i palmi delle mani, stendendola e assorbendo con il tatto la carta rovinata e delicata. Era rovinata ma leggibile.
Probabilmente... sarebbe persino possibile recarsi in questa terra delle streghe. Probabilmente, potrei decidere di andarci – comunque, la parte di me che aveva sempre prevalso, continuava a sputare quegli insulti. Come frecce precisamente scoccate, sfrecciavano nell'aria fino a giungermi alla testa e di nuovo sprofondavo nella razionalità: l'insulsa maschera di senso che mi ero sempre ostinato a portare. Per quanto meraviglioso e semplice fosse a volte, altre, invece, era come soffocare.
Staccai le mani per avvicinare la schiena alla dorsale, chiuso in un pensieroso silenzio.
Pensandoci, che senso avrebbe intraprendere un viaggio che si prospettava faticoso e lungo per raggiungere un posto che di sensato non aveva niente? Probabilmente, era solo una specie di gioco. 
Certo, c'era da capire perché diavolo si trovasse nella mia soffitta.
Era questo piccolo dettaglio della storiella che mi tratteneva dalla decisione finale: fargli assaggiare ancora le fiamme, a quella mappa, o utilizzarla come dovrebbe essere usata. Inseguire quelle indicazioni, i disegni fitti e dettagliati, percorrere le strade – e giungere fra le streghe.
Streghe.
Da piccolo – indovinate! Non credevo alla loro esistenza. Mi sembrava un'assurdità che delle donne, anziane e giovani, saltassero in groppa ad una scopa per solcare i cieli di notte e sfiorare le nuvole opache. Era assurdo. E poi, il colpo di grazia, erano le magie che teoricamente sarebbero in grado di fare. 
Ancora, mi sembrava un'assurdità ben peggiore di Babbo Natale o il quadrifoglio.
Quindi... che fare?
«Edward?». La voce di Annabel non arrivò energica e priva di rispetto per i superiori, ma calma e bassa – sulla soglia della porta. Hm.
Sollevai pigro lo sguardo e con la coda di esso, la osservai nella sua piccola statura, avvolta dai capelli neri lasciati sciolti e ondulati come onde di un mare di notte e gli occhi rivolti a me. Alla mano sinistra, c'era un documento. Per me, eh? «Entra», dissi, tornando alla scrivania con i gomiti. Annabel fece un cenno ed entrò. Il ticchettio dei suoi tacchi neri e lucidi sembrava scandire il tempo e dare una pacca al silenzio infiltrato; già, dopo ieri sera... suppongo di aver esagerato.
Magari, chissà, avrei dovuto dirle che sì, ero suo, di sua proprietà – il solo pensiero mi fece stringere duramente le labbra fra di loro.
Non ero di nessuno.
E men che meno lo sarei stato di Annabel, l'unica persona che ritenevo una cara amica, ma dalla quale non avevo mai chiesto degli aiuti, dalla quale non contavo minimamente. Ieri sera, per me, era stata la prima ed ultima volta – mi sentivo stupido per averle chiesto una mano per questa faccenda. Avrei pensato io a tutto, a cercare informazioni su quella mappa, ma sapevo bene quanto Annabel fosse portata per le ricerche insidiose.
Ma, a questo punto, era inutile.
«Questo è per te», disse a voce bassa – ma non sembrava imbarazzata o cosa –, quando fu davanti alla scrivania, lasciandoci scivolare sopra il foglio. Proprio sopra la mappa. «Un autorizzazione per i prossimi scavi».
Annuii.
Poi, sgranai gli occhi – giusto. Il lavoro, dovevo portarlo avanti. Il lavoro che ormai facevo da cinque anni, il lavoro che mio padre mi aveva praticamente lasciato nell'anima – ma non come eredità: sapevo che l'aveva fatto per lasciarmi campo libero, nella scelta. E di questo gli ero davvero grato.
Non potevo lasciare tutto per partire, dal nulla.
«Ho... ho incontrato Abigail e papà, fuori», mormorò Annabel. Le sue sopracciglia, anche se basse sugli occhi, erano piuttosto nascoste dai capelli sulla fronte. «Ma è tutto okay?».
Come una lama, la punta della mia penna trafisse il foglio, rapida ed efficacie. In fondo, scrissi il mio nome e cognome per autorizzare e confermare questo prossimo punto di scavo. Uhm, magari potevo andarci anch'io. Non era certo questa parte amministrativa ad interessarmi, dell'archeologia – non era nemmeno archeologia!
«Sì, immagino di sì», dissi. «Solo che il tatto di tua padre, a volte, è destabilizzante. Come il tuo, comunque».
Annabel mi guardò con occhi confusi, non disse nulla. Stava metabolizzando le mie parole e cercando di connetterle per capire a cosa mi stavo riferendo – poi, con la coda dell'occhio e un sopracciglio alzato, vidi le sue spalle avere un sussulto. Direi che aveva inteso.
«Dio mio», esclamò. «Avrà detto un'altra delle sue stupidate. Mi dispiace!».
Mah, non era la fine del mondo.
«Un giorno dovrò cucirgli la bocca. Scusami, davvero. Non... oddio, non ci avrà riprovato con Abigail, vero?».
A quella domanda, sollevai la testa e lasciai la mia penna nera sul legno della scrivania, guardandola con un espressione quieta. «E' quasi divertente», dissi, mentre le mie dita scivolavano al documento e, tra il pollice e l'indice, lo rendevo ad Annabel. «Non ci pensare. Vabbene».
Forse non andava esattamente bene, ma... comunque, non era una situazione poi molto fastidiosa; mia madre ed Arthur non si vedevano praticamente mai, visto che lei era occupata con la nonna e lui col lavoro e, più importante, non c'era quella “scusa” che portasse mia madre da Arthur o viceversa.
A questo punto, se Arthur mi avesse pugnalato per poter chiamare mia madre a raggiungerci all'ospedale, innocentemente, non mi sarei sorpreso. E per la terza volta in vita mia, avrei avuto l'occasione di vedere come quella donna non riuscisse a versare traslucide e calde lacrime.
«Se lo di--- aspetta, ma quella non sarà... la mappa?».
«Ah?», aprii gli occhi e guardai Annabel nei suoi, sorpresi quanto incuriositi. Lei appoggiò le mani sul bordo della scrivania e si protasse in avanti, stringendo i bicipiti contro il petto - e quello occupò il mio raggio visivo, non per mio desiderio, eh. Però sembrava che dovesse esplodere da un momento all'altro.
«Ah, sì», dissi, abbassando lo sguardo sul giallo della mappa. Poi, le schioccai un'occhiata.
E lei indugiò. Senza spostarsi o cambiare posizione, aggrottò la fronte e si umettò le labbra con la lingua vermiglia, guardò la mappa come se stesse cercando di capirne l'essenza.
Alla fine, sospirò.
«... mi fai dare un'occhiata?».

 

 

 

***

 

 

 

La mattina dopo – faceva quasi caldo – era Domenica e mi svegliai più tardi del solito; non vidi l'orario ma a giudicare dal sole che trapassava i vetri del soggiorno e lo irradiava ampiamente, dovevano essere le dodici di mattina. La sera prima avevo lasciato lo studio verso le dieci di sera e, con le palpebre che premevano per scendere sugli occhi, ero tornato a casa e mi ero messo a letto. Questa stanchezza era inspiegabile. Specie perché, da un po' di tempo a quella parte, non avevo avuto il tempo di recarmi sugli scavi e facevo solo lavoro d'ufficio.
Forse era sonnolenza – forse era noia.
Mah.
C'era da dire che stavo diventando sempre più strano; e non mi riferivo alla stranezza tipica di un giovane uomo che – a quanto sentivo – avrebbe dovuto passare le notti fra una discoteca e il letto di una ragazza di cui, puntualmente, avrebbe scordato il nome, ma di quella in cui non riesci a raccapezzare nemmeno le tue abitudine, il tuo carattere, la tua persona.
Quella in cui ti perdi miserabilmente.
«Ah, sei ancora qua, eh?». I miei occhi si puntarono autonomi sulla palla di pelo fulvo che, le orecchie sollevate, stava scivolando sinuoso ed elegante davanti alla grande vetrata del soggiorno. Il sul pelo era baciato dalla luce e risplendeva ancora di più, probabilmente era anche morbido. Mpf.
Mi passai una mano sulla guancia e poi tra i capelli – uhm, dovevo fare colazione o solo uno spuntino? Erano le dodici e un quarto.
«Quante libertà ti prendi», borbottai, camminando sul parquet accaldato dai fasci del sole, per raggiungere il piano della cucina. E fu mentre aprivo la dispensa sopra ai fornelli che una specie di tonfo mi fece aggrottare la fronte – ah!
«Scendi di qua!».
Quella dannata pulce!
Un conto era circolare per casa mia, un altro che salisse sulla cucina che usavo per preparare i pranzi, le cene e i famigerati spuntini – i suoi peli nel cibo, bleah. Fui tentato di prenderlo per la collottola e lanciarlo da qualche parte, ma la mia esclamazione servì a farlo miagolare sommessamente e poi, con un balzo, a scendere dal ripiano.
«'ccidenti a te», ennesimo borbottio. Dovevo seriamente decidere cosa farne.
Naturalmente, volevo lasciarlo nelle mani di qualcuno di capace, non di certo al primo che sarebbe passato: il problema era che non mi veniva in mente nessuno. L'avrei lasciato a mia madre, ma... come avevo già detto, era occupata con la nonna.
Pace all'anima mia, insomma.
Un gatto era l'ultimo impiccio di cui necessitavo.
E poi – din dong. Il suono del campanello mi arrivò imprevisto, disturbante, indesiderato, a dirla tutta, mentre nella mano sinistra una fetta di pane aspettava di essere ricoperta di dolce marmellata violacea. La guardai, piegando le sopracciglia in un espressione desolata.
Aaah, che scocciatura, di prim----... a mezzogiorno.
Andai alla porta trascinando i piedi e sospirando un paio di volte. Non avevo voglia di vedere nessuno: ciononostante, guardai all'occhio magico e poi aprii.
Ricordate quando avevo parlato del mio spazio personale invaso da una certa ragazza dai capelli corvini? Ecco. Questo era il perfetto esempio di ciò a cui mi riferivo.
«Ho trovato qualcosa di assolutamente importante», Annabel parlava velocemente e strizzando gli occhi mentre, travagliante come un tornado e con i capelli ondulati stranamente vaporosi, entrava in fretta e furia – mi passava di fianco, mi oltrepassava.
Aveva trascinato con sé il tiepido calore della giornata, di quel sabato di Febbraio: se provavo a ricordare, era il primo sabato soleggiato del mese. Ricoperti dalle nuvole plumbee e dal cielo intristito, le pelli dei londinesi avevano una tonalità pallida, quasi cadaverica. Era difficile trovare qualcuno dalla pelle dorata, graziata dal sole
E prima che potessi accorgermene, il mio salotto vorticava come il centro di un tornado – poi capii che era Annabal che mi trascinava sul divano rosso accostato contro la parete.
Con la sua giacca nera lunga fin sopra alle ginocchia sembrava una scacchiera di dubbio gusto.
«Ascoltami bene», e anziché ascoltarla bene come vi aveva appena impartito, mi soffermai a guardare dentro le sue iridi, un colore scuro che si confondeva nel cioccolato fondente, con briciole luccicanti ad accenderli – lumi ardenti.  Brillavano davvero un sacco. Mi chiesi cosa riusciva a renderli così vivi. Temevo e sapevo che i miei, della tonalità cerulea, il fondo di uno sporco mare, non avevano quella luce vivida.
Le sue mani si attaccarono alle mie spalle, fasciate dalla leggera stoffa della maglietta di cotone – le dita afferrarono come trappole.
«Non devi assolutamente averci a che fare», le sue labbra si muovevano lentamente, ma non ero certo che stesse parlando con quel tempo. Voleva assicurarsi che recepissi il messaggio?
Non arrivò.
Non lo recepii.
«Ed? Ed, mi hai sentita?», esclamò – sgranai gli occhi, li strizzai e li chiusi. Poi, in silenzio, annuii distrattamente. Sentivo la superficie degli occhi bruciore come se fossero stati schiaffeggiati dal vento.
«Non ne sono granché sicura», disse Annabel, aggrottando la fronte. «Ripeto: non devi averci a che fare. Capito?».
Stavolta, la sua voce e le lettere – prima mischiate fra di loro – mi arrivarono limpide e chiare, le colsi sul momento, ma... non ne capivo la motivazione: non dovevo avere a che fare con la terra delle streghe, era questo ciò che voleva dirmi, vero? Certo, certo.
«Ho capito», risposi, lentamente, infastidito. Aprii gli occhi e li ruotai su quelli di Annabel. Lei aveva ancora le mani strette sulle mie spalle, cominciavo a sentirne la pressione. «Non devo averci a che fare per quale motivo?».
Annabel lasciò scivolare i suoi palmi giù dalle mie spalle, cadendo sul mio petto e poi, come scottati, si ritirarono al proprio.
«E' pericoloso. Molto pericoloso».
Pericoloso – bisogna guardarsi le spalle. Cosa poteva esserci di pericoloso? Che domanda stupida, penserebbe qualcuno eppure, guardando tutta la faccenda, c'era qualcosa di anche più sciocco della mia domanda.
Le streghe.
Ecco, la mastodontica sciocchezza.
«Pericoloso», ripetei, cercando di capirne meglio le sfumature. Lei fece un leggero cenno, talmente impercettibile che i suoi capelli restarono immobili. Socchiusi le palpebre e sprofondai nella morbida dorsale del divano. «Capisco. In ogni caso, non avevo deciso di volermi introdurre chissà quanto, in questa storia. Solo... ».
«Solo?».
«Mi chiedo cosa ci sia di tanto pericoloso... ». Mi fermai, chiusi la bocca – guardai la silhouette del gatto passare. Annabel seguì il mio sguardo e lo soffermò, aprendo un poco le labbra con stupore, su quella bestiaccia. Poi disse delle cose. Non ne sentii mezza.
In quel piccolo, fulgido istante – quel millesimo di attimo – il mio cervello pensò in grande, mi disse di sbarcare in quel “pericolo”. Mi disse, sussurrando e deliziandomi l'udito: «Rischia».
«Annabel... », e lei si girò al mio docile richiamo, inclinando il capo d'un lato – totalmente ignara.
Inchiodai il mio sguardo nel suo e un ghigno mi artigliò la bocca.
«Ci ho ripensato. Mi recherò lì». 

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