cento per cento

di Mrs Carstairs
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. occhi dorati ***
Capitolo 2: *** 2.sorprese ***
Capitolo 3: *** 3.rossetto e sigarette ***
Capitolo 4: *** 4. Ecco cosa! ***
Capitolo 5: *** 5. Una sera bagnata di pioggia ***
Capitolo 6: *** 6.Mancanza ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 7: LUNEDI’ ***
Capitolo 8: *** 8. In Corsa ***
Capitolo 9: *** 9. Cheerleader ***
Capitolo 10: *** 10. king's Cross ***
Capitolo 11: *** 11. Waterloo Bridge ***
Capitolo 12: *** 12. Passione per i jeans ***
Capitolo 13: *** No. Nemmeno se avessi mosso l’inferno ***
Capitolo 14: *** Swallow Falls ***
Capitolo 15: *** 15. solo Alex? ***
Capitolo 16: *** 16. Mrs Caplam ***
Capitolo 17: *** 17. scommesse e terrazze ***



Capitolo 1
*** 1. occhi dorati ***


Si guardava riflessa nello specchio del bagno, i capelli sciolti che le ricadevano sulle spalle in ricci scombinati. La felpa larga copriva le curve del suo corpo, i pantaloni del pigiama, lasciati bassi sulla vita, arrivavano quasi a coprirle le caviglie.  Si guardava in faccia, occhi negli occhi con se stessa e si domandava come fosse ancora possibile pensarci. Pensare a come si era sentita in quella sera bagnata di pioggia e di rabbia. Pensare a quegli occhi fulvi che la guardavano quasi in cerca di qualcosa a cui potersi aggrappare. Pensare a come ci si era tuffata -anche se non sapeva cosa avrebbe potuto fare- senza esitare, con il cuore che le martellava nel petto.  Scosse la testa, come a mandar via l’immagine di quel ricordo. Ogni volta che finiva per pensarci si ritrovava svuotata, malinconica. Consapevole del fatto che non poteva guardare quegli occhi come avrebbe voluto e che s’anche ci avesse provato, probabilmente il suo gesto non sarebbe stato capito. Fece un profondo respiro, come a voler esalare tutte quelle dannate sensazioni e poi si scostò dallo specchio, tornando nella stanza vuota del dormitorio del campus. Madeleine era andata alla festa della confraternita e Tris era sicura che non avrebbe dormito nel letto accanto al suo. Poteva capirlo dalla semplice osservazione della sua metà stanza. L’anta dell’armadio della compagna era rimasta mezza aperta, rivelando un’uniforme mancante e le magliette in disordine, come se le mani di Madeleine avessero frugato a lungo per trovare qualcosa da mettere in borsa, prima di andarsene. Inoltre il pigiama giallo canarino della ragazza non era più ben piegato sul suo cuscino. Tris sorrise un po’, e poi si trascinò fino al letto, dove si lasciò cadere, di peso. socchiuse gli occhi, in attesa che la stretta al petto causata dai pensieri di poco prima s’allentasse. Ci vollero diversi minuti perché non si sentisse mancare il fiato poi, quando fu più o meno sicura di aver regolarizzato il battito cardiaco, si mise seduta. Si allungò verso il fondo del letto, aprendo il suo baule. Tirò fuori l’album dei disegni e l’astuccio, per poi ributtarsi sul letto con le ginocchia piegate. Tendendo la mano verso il comodino afferrò il telecomando dello stereo e pigiò il tasto d’accensione. Dopo pochi secondi la stanza era inondata dalle parole di Axl Rose che cantava a squarcia gola sulle note di Welcome to the Jungle e la matita aveva preso a muoversi leggera sul blocco di fronte a Tris. Un occhio. Un altro. Un naso non troppo dritto per una frattura durante una rissa, la mandibola piuttosto squadrata, gli zigomi alti e un po’ scavati, le labbra piegate in un ghigno soddisfatto e ricci ribelli che ricadevano su una fronte non troppo alta, sempre un po’ corrugata. Una volta impostate le linee del collo e delle clavicole sporgenti, posò la matita. Guardò il ritratto e sorrise leggermente. Quasi subito però, i suoi occhi incontrarono quelli liquidi del viso in bianco e nero. Tris boccheggiò, allungando un dito a seguire i contorni del volto di grafite.  Scosse piano la testa, e sentì gli occhi riempirsi di lacrime, il naso che le pizzicava, come ogni volta che stava per piangere. Deglutì forte, imponendosi di non versare nemmeno una lacrima, ma uno di quei dannatissimi cristalli salati le percorse lo zigomo, cadendo sul lenzuolo candido. Sbatté le palpebre velocemente, fissando lo sguardo sulla luce del comodino, in modo che le lacrime evaporassero dalle sue iridi. Mentre ancora guardava i fili incandescenti della lampadina, lasciò cadere il blocco per terra, distogliendo lo sguardo dalla lampadina. Poi chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi. Era inutile indugiare su cose passate. Andrea era il suo migliore amico. Era il suo migliore amico da tre anni. E questo non sarebbe cambiato. Tanto valeva farsene una ragione. Così fece in modo di zittire tutti quei pensieri che le frullavano in testa e di ascoltare solo e soltanto Axl e i Guns N’ Roses che cantavano della pioggia di novembre. 
***
“ma come? Noi non… ci siamo visti per quasi due settimane… non posso avertela passata io!” Mary stava alzando la voce. Lei e Andrea si trovavano sulla porta del dormitorio e discutevano, come da tempo ormai accadeva. Ma questa volta la cosa sembrava essere più seria. Il più delle volte litigavano per delle stupidaggini, o perché Mary voleva un Andrea diverso da quello di cui si era innamorata. 
“senti. Non lo so se ce l’ho. Ho fatto gli esami stamattina e… per sapere se hai la mononucleosi ci vogliono qualche giorno di analisi mediche.” Il volto di Mary però era rimasto impassibile. Anzi si era incupito di rabbia e dolore assieme. “oh.. non puoi credere quello che penso.. – continuò lui, sentendo i suoi pensieri- e invece lo credi veramente.” Disse senza inflessione, con gli occhi fissi in quelli di lei, che distolsero lo sguardo dopo poco. Andrea era incredulo, nonostante lo tenesse per sé e la febbre che saliva non lo aiutava di certo. 
“cosa dovrei pensare d’altro? Come posso pensare altro? Torni dai tuoi due settimane per le vacanze di primavera e torni con la mononucleosi. Quali altre deduzioni posso fare?” Mary urlava ormai. Ma Andrea sembrava stanco, oltre che per la febbre, anche del suo continuo comportarsi da bambina, imperterrita e testarda. 
“non lo sai ancora se ce l’ho. E nemmeno io. Il referto medico ce lo dirà tra qualche giorno. E sinceramente, non ho più voglia di doverti dar prova di quello che dico. Se credi che io ti abbia tradito, allora… non mi conosci.” E detto questo il ragazzo si voltò, accedendo al corridoio. Appena voltato l’angolo si ritrovò alle scale che si biforcavano nella sezione femminile o in quella maschile. Senza nemmeno pensarci, scelse quella femminile, percorrendo il corridoio per raggiungere la camera 121. Quando fu a qualche passo dalla stanza, sentì il sottofondo di musica che proveniva dalla fessura della porta e si fermò. Tris era evidentemente da sola o Madeleine l’avrebbe uccisa piuttosto che farle ascoltare i Guns N’ Roses. Ma Andrea sapeva cosa stesse facendo la ragazza dall’altra parte del muro. Pian piano si avvicinò alla porta, poggiando la mano sul pomolo e girando delicatamente per aprire. Socchiuse un po’ il legno bianco e la vide perfettamente. Come aveva pensato, se ne stava sdraiata sul letto con un ginocchio piegato e un braccio dietro alla testa. Gli occhi erano chiusi e le labbra della ragazza si muovevano delicatamente, sillabando le parole della canzone. Andrea sgusciò dentro, chiudendosi la porta alle spalle, cercando di non far rumore, ma evidentemente il clic della serratura si era sentito, perché Tris, si era messa a sedere di scatto, guardando ad occhi spalancati verso di lui. poi aveva allungato una mano sul comodino, prendendo il controller dello stereo per abbassare il volume della musica.
“ehi che ci fai qui..? credevo che restassi a Cardiff fino a domani..” fece alzandosi dal letto e andandogli in contro. Andrea sorrise un po’, ma poi la sorpassò, finendo per buttarsi mani in tasca sul letto di Tris. 
“sono tornato prima.. volevo.. starmene per i fatti miei qualche giorno ma..” esitò. Sbuffò passandosi una mano sulla faccia.
“che c’è? Hai.. mal di testa?” chiese Tris aggrottando la fronte e avvicinandosi di qualche passo al letto. 
“ho discusso con Mary..” solo a sentirla nominare, alla ragazza venne da stringere i pugni per restare quieta. Si, Marylin era una brava ragazza, simpatica se voleva, ma… le dava sui nervi. Aveva perso il conto di tutte le volte che Andrea si era sfogato con lei per una discussione con la ragazza e… quante volte lo aveva ferito con le sue insinuazioni da bambina egoista. Tris odiava vederlo soffrire, ma sapeva anche quanto lui tenesse a Mary. così aveva sempre cercato di fare da consulente di coppia e… fin ora le cose avevano funzionato abbastanza bene. 
“ancora. A quanto siamo? 1200esima volta? Di più? Perché ho perso il conto…” sbottò la ragazza allargando le braccia. Andrea annuì, prima di portare un braccio a coprirsi gli occhi. 
“non dirlo a me. Mi sono stufato.”
“non ti biasimo. E sentiamo… quale… è stata la causa scatenante, stavolta?” chiese Tris incrociando le braccia al petto. Andrea si mise a sedere, la fronte corrugata e un’espressione di fatica sul viso. 
“crede che io l’abbia tradita.”
“scherzi, vero?” ma l’espressione sul volto di Andrea faceva trasparire tutt’altro che ilarità. “Perché dovrebbe pensare una cosa così di te? Non lo faresti mai, insomma… se esiste una persona di cui fidarsi quella sei tu… io..” ma la voce del ragazzo la interruppe all’improvviso. 
“mononucleosi.” Tris spalancò gli occhi. Un punto di domanda stampato in faccia. 
“frena frena frena. Tu.. avresti la malattia del bacio?” chiese stupita e scuotendo un po’ la testa, incredula. 
“non lo so.” Esalò, lasciandosi andare di nuovo sul materasso, ritrovandosi a pancia in su “so solo che ho la febbre, i miei mi hanno fatto fare l’esame per precauzione perché alcuni dei sintomi sono quelli. Ma.. lo sapremo solo tra tre giorni, se ce l’ho o no.” 
Tris rimase a guardarlo un attimo, per poi avvicinarglisi e mettergli una mano sulla fronte. “scotti… dovresti… metterti a letto.” Sussurrò. Andrea annuì e cominciò a levarsi le scarpe. Tris rimaneva immobile. Poi lo vide levarsi la felpa, di seguito la maglietta e poi sbottonarsi i jeans, prima di infilarsi sotto le coperte del suo letto. 
“ma che fai?” fece in un sussurro irritato. 
“mi metto a letto, lo hai detto tu. “ la voce era bassa, gutturale, piena di stanchezza e debolezza, con quel velo di incoscienza che si ha con la febbre a 40. Tris fece per protestare, ma poi chiuse la bocca e sparì nel bagno. Aprì l’armadietto delle medicine e ne estrasse la scatola delle pastiglie per abbassare la febbre. Ne fece uscire una dalla cartina, porgendola al ragazzo sul palmo della propria mano. 
“manda giù, questa abbassa la febbre.” Andrea non aprì nemmeno gli occhi. Cercò la mano di lei con la propria, trovando la pastiglia e ingoiandola senza prendere il bicchiere d’acqua dal comodino. 
Poi biascicò un grazie e cadde nel sonno. Tris sorrise, andando a spegnere lo stereo e la luce sul comodino. Poi si accovacciò sulla poltrona di fronte al letto e aprì il blocco dei disegni. Voltò pagina e ricominciò il rito, questa volta copiando l’espressione del ragazzo addolcita dal sonno, i suoi ricci inspiegabilmente al posto giusto, ad incorniciargli perfettamente il viso. Era bellissimo. Lo pensò di nuovo. Credeva davvero di non aver mai visto nulla di simile in vita sua. La pace sul viso della persona che amava di più al mondo. Una visione paradisiaca. Dopo poco però, Morfeo venne a bussare alle porte della mente di Tris, che si assopì lentamente sulla poltrona, rannicchiata in una coperta, con l’album da disegno e la matita abbandonate tra le sue mani. 

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Capitolo 2
*** 2.sorprese ***


A svegliare Tris fu la luce del sole che entrava dalle finestre. La sera prima doveva essersi dimenticata di chiudere le veneziane. Si accorse poco dopo di non essere a letto ma… in poltrona. Aveva dormito tutta la notte in quella scomoda posizione, appollaiata su quella poltrona infossata, perché? D’istinto, lo sguardo corse al letto, trovandosi a rimirare le coperte sfatte, il lenzuolo attorcigliato e uno dei due cuscini a piedi del letto. Andrea sussurrò. E decise finalmente di alzarsi per sgranchirsi quelle povere gambe piegate da chissà quante ore. Come si avvicinò al materasso dalla parte dello scendiletto, vide qualcosa, incastrato tra le pieghe del piumone. Allungò una mano e lo prese tra due dita. Un biglietto. “Grazie.” A.
Era tutto quello che diceva il pezzo di carta. Andrea doveva essersene andato presto, quella mattina, resosi conto di dove aveva passato la notte. In effetti era stato un bene. Le aveva evitato l’imbarazzo della mattina dopo… anche se il dopo consisteva in una dormita febbrile del migliore amico nel suo letto, al posto di ciò che tutti si aspetterebbero. Accartocciò il biglietto in un pugno e sedette sul letto. Infilò un piede sotto la coperta e.. sorprendentemente scoprì che il materasso aveva conservato un po’ del calore del corpo di Andrea. In fretta s’infilò sotto il piumone, tirandolo su fino al naso, inspirando a pieni polmoni. Poi piegò la testa sul cuscino, quasi affondandocela, e lì trovò la seconda bella sorpresa di una mattina qualunque. Il cuscino sapeva di Andrea. Il misto tra il suo profumo e il suo odore, sapone e pelle, febbre e oblio. Una delizia. Era come se Tris si ritrovasse avvolta in uno dei pochi abbracci che Andrea le aveva dedicato in vita sua. Restò nelle coperte, senza la minima intenzione di uscirne prima di aver goduto di tutte quelle attenzioni lasciate per caso.
 

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Capitolo 3
*** 3.rossetto e sigarette ***


Quando si svegliò il sole era già a metà del suo corso e arrivava dritto dritto a colpirle gli occhi. Strinse le palpebre e si mise seduta, sempre con gli occhi chiusi. Si stiracchiò per bene, allungando braccia e gambe come un gatto e poi cercò le ciabatte con i piedi giù dal letto. Sbadigliò rumorosamente e guardò la sveglia sul suo comodino. -6.45 pm.- 
La festa di primavera sarebbe cominciata di lì a poco e il suono delle chitarre elettriche che venivano accordate echeggiava già nel cortile del campus a tutto volume. 
Ma Tris non aveva alcuna intenzione di andarci. Stava troppo bene in quel groviglio di coperte e non aveva nessuna voglia di impazzire cercando qualcosa da mettersi per uscire. Così allungò una mano verso il comodino, raccogliendo Paradise Lost di Milton e continuò a leggere da dove aveva lasciato qualche sera prima. Il Paradiso e l’Inferno erano un argomento molto interessante, i ragionamenti e gli insegnamenti penetranti, ma con quella musica nelle orecchie Tris non riusciva davvero a concentrarsi sulle parole, figuriamoci sulle frasi.. così, spazientita, chiuse il libro, rimettendolo al suo posto. Sbuffò e uscì dal suo caldo giaciglio. Andò dritta all’armadio e ne tirò fuori un vestito che non si ricordava nemmeno di avere. Quando lo indossò rammentò il perché. Cortissimo, arrivava a stento a coprirle metà delle cosce e la schiena era lasciata quasi nuda dalla trasparenza di un disegno in pizzo nero, quasi gotico, che continuava anche sulle maniche lunghe. In più era molto aderente e la scollatura a V le sembrava troppo esosa, arrivando quasi allo sterno. In ogni caso chiuse la cerniera sul proprio fianco e fece un respiro stizzito. Testa alta e occhi fieri. Tutto qui. Dannazione a cos’è servita tutta quella corsa se non a questo? Decisa, fece scivolare i piedi in un paio di decolleté con un cinturino a circondarle le caviglie e sistemò i capelli tutti da una parte, in modo che l’orecchio sinistro, ornato di piercing dal lobo alla punta, fosse lasciato scoperto e i ricci ricadessero a cascata sulla spalla destra. Dopo di che disegnò una linea nera con la matita sulla palpebra inferiore, che sfumò con un pennello e con un rossetto rosso scuro delineò il contorno delle quelle labbra che odiava tanto. A lavoro concluso rimase  fissarsi nello specchio per qualche secondo. Non era pienamente soddisfatta del suo lavoro, ma pensò che potesse andare per una serata come quella. Tanto non l’avrebbe notata nessuno, come al solito. Forse Andrea avrebbe avuto qualcosa da ridire scherzosamente, ma nulla di più. Nessuno l’avrebbe guardata, o per lo meno, nessuno l’avrebbe guardata con ammirazione. Avrebbe sentito solo bisbigli carichi di ironia e scherno, come sempre, ma stranamente non le importava. Voleva solo sentire un po’ di musica decente e magari, distrarsi un po’. Con un ultimo respiro profondo, uscì dalla 121 e cominciò a scendere le scale per uscire dal dormitorio. 
***
Quando Tris entrò nella palestra, metà dei ragazzi era già ubriaca fradicia, alcuni ballavano scoordinatamente sulla pista da ballo al centro della sala, altri erano schiacciati contro le pareti con i bicchieri in mano, battendo il ritmo della musica con un piede e le coppiette erano già impegnate a scambiarsi effusioni, fin troppo azzardate, sulle poltroncine. Tris sorpassò quel marasma di gente ad occhi bassi, cercando di non pestare i piedi di nessuno e di non scontrarsi con nessun’altro, dopo aver ricevuto gomitate e spallate da ballerini negati. Lei voleva solo trovare Andrea, o il piano bar-in quel momento era quasi lo stesso. Era riuscita ad infilarsi in un punto dove la calca era minore, dove si respirava aria più fresca. Si guardò attorno e notò Andrea, seduto ad un tavolino. Sorridendo un po’, fece qualche passo deciso verso di lui, ma la sua convinzione venne nettamente smorzata dalla ragazza che gli sedette sulle ginocchia e si chinò su di lui per baciarlo. Capelli biondi, fisico da paura e vestitino verde acqua. Marylin. 
Quel poco di entusiasmo che Tris conservava al suo centro scomparve, lasciando al suo posto una sensazione di vuoto, una specie di… tradimento, forse.. non lo capiva. Un qualcosa di tremendamente freddo e buio che la sovrastava. Allora indietreggiò, voltando le spalle alla scena e uscendo dalla palestra dalla porta laterale. Appena si chiuse il battente alle spalle sospirò e realizzò l’improvvisa voglia di una sigaretta. Un gruppo di ragazzi, poco distanti da lei, chiacchieravano in abiti relativamente eleganti con sigarette accese tra le labbra o tra le dita e “scusate, avreste una sigaretta?” la voce che uscì dalle labbra tremanti di Tris fu la più sicura e chiara che avesse mai sentito da lei stessa. Alcuni dei ragazzi con lo smoking voltarono un po’ la testa e uno di loro le fece segno di avvicinarsi con un cenno del mento, tendendole un pacchetto rosso e bianco aperto. La ragazza allora raggiunse il gruppetto e prese una sigaretta dal cartoncino colorato, portandosela alle labbra. Prontamente, il ragazzo alla sua destra fece scattare un accendino proprio sotto il suo mento, incendiando l’estremità della sigaretta.  Tirata la prima boccata di fumo, ringraziò con un sorriso languido e tornò verso la porta, appoggiandosi al muro di cemento con la schiena, piegando una gamba per far aderire suola e tacco di una scarpa. Una cosa le era veramente chiara. Anche se Marylin lo faceva diventare matto, Andrea avrebbe sempre avuto un debole per lei. anzi, forse era quella sensazione di instabilità che gli piaceva tanto, l’adrenalina di star cadendo nel vuoto, o l’essere consapevole che da un giorno all’altro quella storia sarebbe potuta finire.. non lo capiva. Davvero era un mistero anche per lei, la sua migliore amica. migliore amica uguale disgrazia. non si rese conto nemmeno di dirle ad alta voce quelle parole, tanto che, quando il gruppetto di ragazzi si voltò verso di lei, Tris gli restituì uno sguardo severo, quasi disgustato. Poi s’accorse di quello che era successo e finì per buttare lo sguardo sul pavimento, quasi lo potesse perforare con una sola occhiata. Il braccio si mosse in contemporanea con la testa, stendendosi sul suo fianco e facendo aprire la mano, così che la sigaretta cadesse a terra, a pochi centimetri da lei.  gli occhi di Tris si soffermarono sui giochi creati dal fumo nel buio della notte, poi il ginocchio si stese, lasciando che la punta della scarpa col tacco della ragazza spegnesse quello che era rimasto della sigaretta.  

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Capitolo 4
*** 4. Ecco cosa! ***


Tris aveva deciso di tornarsene dentro, tanto valeva berci sopra, dimenticarsi per un momento della sferzata di gelosia e dolore che aveva provato poco prima e mentre stava per spingere sul maniglione antipanico per aprire la porta e rientrare, Andrea comparve sulla soglia, con un’aria tranquilla e il pacchetto di sigarette in mano. “ehi-disse prima di tirarne fuori una con i denti- dov’eri finita?” le parole, un po’ biascicate per via della stecca di tabacco stretta in bocca, arrivarono deformate alle orecchie di Tris e per un momento le venne da ridere, ma poi ricordò il freddo e si fece subito seria. “perché, mi cercavi?” il tono tagliente di Tris fece alzare subito lo sguardo di Andrea dall’accendino agli occhi di lei. “mi sembravi abbastanza impegnato” Il ragazzo piegò leggermente la testa di lato e poi rispose. “beh, io.. mi aspettavo di vederti, tutto qui.” Lo disse in tutta tranquillità, ma la ragazza sentì montare dentro un qualcosa che non poteva essere messo a tacere. “tu ti aspetti sempre troppe cose. Ti aspetti che io ti dia conforto, che resti ad ascoltare per ore le lamentele del tuo cuore dilaniato.. ti aspetti sempre che io sia lì. Per te. Ed è quello che ho fatto.- Tris fece una piccola pausa, se doveva dirlo, doveva dirlo nel pieno delle sue facoltà- ma se un giorno sparissi? Che faresti?-silenzio- mi cercheresti?-silenzio- correresti tu, per me?” Andrea non ci stava capendo nulla, ma rispose lo stesso alla domanda. “si, certo… sono.. il tuo migliore amico, mi sembra di non aver mai mancato di ricambiare quello che provi per me.” E qui Tris sorrise, tristemente, ma sorrise, umettandosi di seguito le labbra, che sentiva secche, come la gola. “e invece non hai mai ricambiato, Andrea. Hai mancato di brutto di farlo.” Andrea scosse la testa, si tolse la sigaretta di bocca, per risponderle a tono, ma Tris alzò una mano aperta, per fermarlo. “non lo sapevi. E come potevi?! Non mi sono mai arrischiata tanto…” il ragazzo aggrottò la fronte, forse- si disse Tris- comincia a capire. “magari è ora che tu lo sappia.” La ragazza prese un respiro profondo come l’oceano e ricominciò il discorso. “ho cercato di fartelo capire, sì, non sai quante volte ci ho provato, in quante piccole accortezze, in quanti piccoli gesti… speravo che prima o poi ci saresti arrivato, ma… no. O forse non volevi capirlo, forse non volevi niente di tutto ciò che quelle piccole cose potevano comportare e forse non lo vuoi nemmeno adesso… io non lo so..” Andrea però la interruppe bruscamente. “ma di che diamine parli, Tris?!” il suo tono era diventato aspro, impaziente. “sto parlando di quello che sento da mesi. Di quello che ho sempre avuto paura di dirti e che adesso non riesco più a tenere dentro.” “che cosa, dannazione! Dimmi che diavolo..!” “sono innamorata di te, ecco cosa!” il ragazzo spalancò gli occhi, ma poi tornò all’espressione solita, orgogliosa e fiera. In ogni caso non parlò per lungo tempo. Poi volse lo sguardo verso di lei, sorridendo, quasi teneramente, tanto che Tris strinse la mascella esalando un respiro tremante. Poi tese un braccio verso di lei, sospirando. La ragazza aggrottò la fronte, restando ferma dov’era. Allora Andrea coprì la distanza che li separava, tirandola a sé e racchiudendola in un abbraccio stretto. Tris rimase immobile tra le sue braccia, finché una lacrima non le scivolò lungo la guancia. Andrea dovette accorgersene, perché la strinse di più al suo petto, prima di allontanarla, ma con una mano intrecciata alla sua. “non cambierà niente, donna. Te lo prometto.” forse lo aveva detto per confortarla, per dirle che sarebbe rimasto con lei lo stesso, che questo non avrebbe rovinato la loro amicizia, ma Tris non si sentì per niente meglio. Era l’esatto contrario di quello che voleva. “per te forse. Per me è già cambiato.” e fece per andarsene, ma la mano dell’amico era forte. “io non voglio perderti.” Tris sorrise nonostante gli occhi lucidi. “non mi perderai. Dammi tempo… io sarò sempre qui. Ma adesso sei tu a dover aiutare me. E questo è il modo migliore per farlo.” Allora la mano di Andrea lasciò lenta quella di lei, guardandola camminare verso il dormitorio. Provava una fitta, quasi fosse di rimorso. Ma lui non l’amava, giusto? Sarebbe stato scorretto prenderla in giro e poi… Marylin. Già, Marylin. Una partner più sbagliata di lei non c’era. Eppure gli aveva fatto provare sensazioni che nessuna mai aveva acceso in lui. Quella sensazione di caduta e di improvviso atterraggio in piedi era qualcosa di indescrivibile… ma.. avrebbe retto? Era solo quello che lo spingeva a guardarla negli occhi e a dirle ‘ ti amo ’ anche dopo i suoi dubbi e i suoi capricci? Era il suo corpo perfetto, ad attrarlo così ferocemente? In ogni caso.. erano risposte troppo poco soddisfacenti. Ma non era il momento di farsi domande, ora. era ad una festa, perché starsene lì impalati come degli stoccafissi!

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Capitolo 5
*** 5. Una sera bagnata di pioggia ***


Era una settimana che Tris e Andrea non si parlavano. Dalla sera della festa di primavera non avevano scambiato una parola, né si erano guardati negli occhi per più di due secondi di seguito, a lezione o quando si incontravano nei corridoi. Quel venerdì, invece di incontrarsi per passare insieme ‘il loro pomeriggio’, Tris si era fiondata in biblioteca e Andrea non aveva fatto altro che tirare pugni al sacco blu appeso in palestra. Eppure, Tris non poteva fare a meno di chiedersi come stesse, se tutto sarebbe rimasto così com’era adesso, o se invece si sarebbero potute sistemare le cose, in qualche modo. Certo, avrebbe dovuto mettere da parte i sentimenti, chiuderli in una cassa forte nella sua mente e sbarazzarsi di chiave e combinazione. 
Solo… non era mai successa una cosa simile. Non erano mai stati tanto lontani. Non per così tanti giorni, non senza dirsi una parola, non senza guardarsi negli occhi. Pensando a tutto questo, Tris ci mise il doppio del tempo per finire di studiare e uscì dalla biblioteca dopo l’ora di cena. Si era scordata di mangiare, ma non sentiva i morsi della fame attaccare spietati le pareti del suo stomaco. Anzi, era certa che avrebbe provato solo repulsione per qualsiasi tipo di cibo, quella sera. Così mentre si chiedeva quando quella matta di Madeleine sarebbe ritornata in camera da lei, invece di lasciare soltanto stupidi biglietti per chiarire la sua collocazione e continuare a svuotare l’armadio, prese il viottolo per ritornare al dormitorio in tempo per il coprifuoco. 
Mentre svoltava l’angolo dei piccoli bar e caffè del campus, un tuono la fece sobbalzare e alzare lo sguardo verso le pesanti nuvole grigie che si confondevano con il cielo scuro della sera. Pian piano gocce di pioggia iniziarono a bagnarle il viso e i capelli, trasformandosi in gocciolone tonde e pesanti che si schiantavano al suolo in rumorosa frequenza. Tris non si mise nemmeno a correre. Non le importava di bagnarsi. I libri erano al sicuro nella borsa di pelle e lei dell’acqua non aveva paura. Così continuò a camminare come nulla fosse verso il lato est del campus, verso i dormitori. 
“Dì un’altra cosa del genere e giuro, giuro che ti spacco quella faccia di merda che hai!” una voce familiare giunse all’orecchio di Tris, perforando i suoi pensieri, ormai annacquati dalla pioggia. Era stato un grido infuriato, una minaccia e la voce che era penetrata nella sua testa, l’unica in grado di colpirla così violentemente, era la Sua.  Si guardò attorno, cercando di capire da dove venisse, accelerando il passo per trovarlo. 
Si fermò di colpo. Andrea, sotto quella pioggia feroce, teneva le mani strette sul colletto di un altro ragazzo. Schiacciava il corpo contro il suo, continuando a urlargli addosso. Il ragazzo cercava di liberarsi in qualche modo, ma non ci riusciva. Connie. Connie Bright! Tris lo riconobbe subito. Un ragazzo intellettuale, che sentivano spesso parlare alle lezioni di letteratura, un tipo tranquillo, ma che non sapeva apprezzare l’umorismo nero di Andrea, tanto meno il suo sarcasmo. Questa volta doveva aver superato il limite e Andrea non doveva aver più retto i suoi commenti puntigliosi. Non c’era come pungerlo nell’orgoglio, per farlo incazzare davvero. E Connie doveva averlo capito, ma non aveva riflettuto. 
“oh, non avresti il coraggio di prendermi a pugni.” e qui aveva sbagliato di nuovo. Insinuando l’incapacità di Andrea, Connie non faceva che fomentare la sua rabbia e rischiare seriamente di rompersi il naso. Ed ecco che Andrea portava indietro il braccio per colpirlo, quando Tris, senza rifletterci, sgusciò in mezzo ai due corpi dei ragazzi. 
E come Hulk alla vista di Vedova Nera, l’espressione di Andrea cambiò. Restò sempre rabbiosa, ma meno assetata di vendetta, meno propensa a far del male. Incontrò il fulvo degli occhi di lei e indietreggiò un passo, abbassando i pugni e respirando forte. Tris non si mosse, non riuscendo a staccare lo sguardo dall’oro delle sue iridi. E in un secondo erano soli. 
“ma guarda, ti sei fatto la ragazza!” Connie parlava ancora, ma nessuno degli altri due pareva ascoltarlo. Fu Tris a smuovere le acque. 
“va al diavolo Connie, prima che cambi idea e lasci che ti spacchi il naso.” e borbottando, la figura allampanata di Bright si allontanò, sistemandosi il colletto della camicia ormai fradicia. In tutto questo, infatti, la pioggia non aveva mai smesso di cadere e non faceva che battere sui personaggi della nostra storia, cadenzata, a ritmo mutevole, rumorosa, bella, quasi fosse stata una colonna sonora. 

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Capitolo 6
*** 6.Mancanza ***


Dopo che Connie se n’era andato, Andrea e Tris erano rimasti a guardarsi per parecchio, guardinghi, mentre la pioggia continuava a cadere su di loro, rendendo i vestiti zuppi e delineando percorsi d’acqua sui loro visi. A rompere l’immobilità del momento, fu Andrea. Dopo quel lungo sguardo, aveva respirato velocemente, rabbiosamente, per poi voltare le spalle a Tris e incamminarsi dalla parte opposta ai dormitori. Tris aveva provato l’impulso di seguirlo, i piedi si erano mossi senza che lei se n’accorgesse, ma poi si bloccò. Voleva che tornasse, voleva urlare il suo nome per farlo tornare, ma.. le riuscì solo di dar voce a un sussurro che solo la pioggia sentì, mentre guardava la sua figura allontanarsi. Tutto ad un tratto, il freddo e l’umidità che sentiva addosso per i vestiti bagnati dalla pioggia, svanirono, soppiantati da un’indifferenza profonda, un vuoto interiore e un senso di debolezza che le fecero dimenticare la pioggia e a stento le permettevano di mettere un piede davanti all’altro per andarsene da lì. Quando arrivò all’edificio dei dormitori, i corridoi erano già al buio e Tris si sentì come in uno di quei sogni in cui si percorrono corridoi di labirinti interminabili, nei quali non si fa altro che camminare, per poi rassegnarsi all’infinito di cunicoli bui e desolati. Andando a memoria, salì le scale e svoltò nell’ala femminile, contando i passi per arrivare alla 121. Poi si fermò davanti alla porta, cercando le chiavi a tentoni nelle tasche dei jeans zuppi. Aperta la porta non accese nemmeno la luce, la richiuse dietro di sé, lasciando cadere la borsa sulla sedia di fronte alla propria scrivania. Alla luce del lampione che entrava dal finestrone constatò che Madeleine doveva essersi trasferita altrove senza dirle nulla, perché l’anta aperta dell’armadio rivelava che il mobile era vuoto e il suo comodino e la scrivania erano vuoti. Scosse la testa, non avendo nessuna intenzione di pensarci in quel momento, lasciando che le sue mani corressero a sollevarle la maglietta, levando l’indumento bagnato dal suo corpo infreddolito; che scivolassero sull’orlo di jeans per slacciarne i bottoni e lasciarli cadere sul pavimento, con i calzini; prendere dal letto la felpa di due taglie più grandi di lei e infilarsela da sopra la testa. I capelli, ancora umidi, le ricaddero sulle spalle e Tris camminò, quasi senza accorgersene, fino alla finestra, dove si rannicchiò nel suo incavo, con le ginocchia al petto e le braccia strette attorno ad esse. Appoggiò la testa al muro dietro di lei e guardò attraverso i vetri. Dapprima non vide nulla, la vista offuscata dalle lacrime che spingevano per scenderle sulle guance. Poi cominciò a mettere a fuoco il cortile, gli acciottolati che portavano da una parte all’altra del campus, la bancarella coperta del caffè e più in là la palestra, la biblioteca. E spariva tutto di nuovo, diventando un insieme sconnesso di linee, un paesaggio sfocato, un acquarello ancora fresco su cui è caduto un barattolo d’acqua. Poi la lacrima scendeva e allora tutto tornava nitido, come se il pittore avesse ripreso a calcare tratti e ombreggiature. Perché si era allontanato così da lei? forse aveva sbagliato a confessargli ciò che provava, forse era stata la cosa più sbagliata da fare. Aveva rovinato tutto, come si era detta un migliaio di volte di non fare. Eppure non aveva più voluto trattenersi. Glielo diceva sempre Andrea, Carpe diem accidenti! altrimenti non combinerai mai nulla nella vita, Tris! Rischia, buttati, cazzo! A che serve zittire le emozioni? ‘te lo dico io a che serve! A evitare di perderti, ecco a che serve. -pensò- Mi serviva ad averti vicino, serviva a tenerti con me..’ Non cambierà niente, donna. Te lo prometto. E invece era cambiato tutto. Ho bisogno di tempo. Nemmeno un migliaio di anni sarebbero bastati a dimenticare. *** Andrea aveva sempre e solo camminato, da quando aveva voltato le spalle a Tris nel viale dietro la biblioteca. La pioggia continuava a scendere e i suoi piedi a mettersi uno di fronte all’altro. Si muoveva, come ramingo, poi si sedeva su una panchina bagnata, poi si alzava di nuovo, non trovava un posto, il posto giusto, non.. non poteva pensare ad un posto giusto. Beh, forse poteva.. ma il posto giusto non era il posto giusto in quel momento. Però non riusciva a non pensarci, non riusciva davvero ad evitarlo. Qualunque direzione prendesse, qualunque stradina del campus prendesse, ritornava sempre lì, al dormitorio delle ragazze. Sempre la stessa scena: si fermava a qualche metro dall’edificio silenzioso e guardava su, ad una delle finestre del primo piano, le stanze dal 111 al 121 e si ritrovava a fissare i vetri scuri dell’ultima finestra da destra, dove forse stava seduta Tris, nella sua solita posizione rannicchiata. Andrea sapeva benissimo a che cosa pensava la ragazza. Anzi no, forse non lo sapeva per niente. Sapeva solo che a lui mancava tanto. A mancargli era la sua voce, quella voce che gli rompeva tanto le scatole che.. che trovava bella, calda, a volte l’unica cosa che gli serviva per resistere. E quegli occhi. Quegli occhi che sapevano dire tante cose, tante cose che lui non aveva saputo sentire. E poi i capelli che adorava scompigliarle, per vederle stampata in viso quell’espressione contrariata che si trasformava in un sorriso subito dopo. Era stato stupido allontanarsi così. Aveva bisogno di tempo, si. Ma Andrea la rivoleva indietro. E di tempo.. glie ne aveva lasciato anche troppo. Due settimane senza parlarsi, guardarsi, toccarsi. Era stato troppo anche per lui. Non credeva di poterlo sentire. Non credeva di poter sentire così la mancanza di una persona. In fondo, lui non aveva bisogno di nessuno. Non aveva mai avuto bisogno di qualcuno. Se l’era sempre sbrigata benissimo da solo. E allora perché, tutto a un tratto, non sentiva che una stretta alla gola, una difficoltà a respirare, come avesse il diaframma schiacciato da un masso? E perché, se non aveva bisogno di lei, si ostinava a guardare in su, verso quella dannata finestra? Dopo qualche minuto, passato con la testa quasi all’indietro, come un lupo che ulula alla luna, ficcò le mani nelle tasche dei jeans e a forza, riprese a camminare. Ma i suoi piedi non gli diedero quiete quella sera. Continuando ad avanzare, finì per svoltare a destra all’altezza della caffetteria, uscì dal campus, ritrovandosi in una stradina familiare. Camminò sempre senza pensare a dove stava andando e, misteriosamente, o chiaramente-dipende dai punti di vista- si ritrovò di fronte a quel maledetto locale. Joe’s risaltava nel buio delle strade della periferia, con la scritta al neon che gridava quel comunissimo nome ai passanti. Era un posticino mica male, arredato in stile anni 50, con quei divanetti in pelle rosso fuoco e il bancone incurvato. Oltre a un vecchio juke-box, risaltava un flipper che sembrava nuovo di pacca, ma il pezzo forte era il tavolo da biliardo in mezzo alla sala. Il panno verde del tavolo era consumato qua e la dai numerosi passaggi delle stecche e dal rotolare delle palline. Ma era la parte preferita di lui e Tris. Era stato Andrea ad insegnarle a giocare a biliardo, a tenere la stecca nel modo giusto e quasi tutti i venerdì sera uscivano dal campus per giocare almeno una partita. In più, in quel locale i due avevano preso la sbronza più pesante della storia. Non si ricordava perché, non si ricordava come, avevano bevuto come due spugne e la mattina dopo si erano ritrovati in camera sua, rannicchiati tra le coperte scombinate del suo letto con un mal di testa che non avrebbero dimenticato in tutta una vita. E non si era accorto nemmeno di aver spinto la porta di Joe’s, di essere entrato e, continuando a pensare, di essersi piantato a qualche metro dal tavolo da biliardo, a fissare una delle stecche muoversi sul panno verde. Il tiro non andò male, ma la pallina rossa restava ancora un poco lontana dalla buca. Il turno dopo però, una seconda stecca mandò la pallina rossa e quella verde in buca. Andrea allora seguì con lo sguardo la stecca, fino ad arrivare alla mano del proprietario, in questo caso una ragazza. Continuò a far scorrere lo sguardo su di lei, arrivando alle spalle, ai capelli ricci messi tutti da una parte, scendendo dalla nuca alla schiena, coperta da una felpa molto più grande del dovuto, poi alle gambe asciutte, avvolte in quel paio di jeans neri strappati qua e là… Tris.. fu appena un sussurro, sovrastato dalla musica rock ad un volume pazzesco, ma lei parve sentirlo. Infatti si voltò quasi di scatto, cercando per un attimo la stanza, con una bottiglia di birra in mano. Poi forse si convinse d’essersi sbagliata, perché tornò al tavolo da gioco, impugnando la stecca. Andrea allora, senza farsi notare, salì i tre scalini che portavano sul palchetto del gioco, sorpassò spettatori e giocatori, arrivando a lei. “no, non quella.. mira a quella vicino alla bianca. Se riesci a mantenere la traiettoria giusta ne mandi in buca due..” a quel sussurro Tris parve concentrarsi ancora di più, mirare e far scivolare le palline, con uno schiocco, in buca. I ragazzi attorno al tavolo urlarono complimenti, mezzi rimbambiti dalla musica e dall’alcool e lei sorrise soddisfatta. Poi si voltò, sistemando la punta scheggiata della stecca. “guarda guarda..” disse senza alzare lo sguardo “non mi aspettavo di vederti. Anzi forse invece, era proprio il posto dove avrei creduto di trovarti” Tris parlava in tono pacato, ma tagliente, quasi rabbioso. “e forse era quello dove anche io mi aspettavo di trovarti.” Lo aveva pensato, era vero. Quando aveva continuato a guardare alla finestra della camera della ragazza e l’aveva sempre trovata buia, aveva pensato fosse uscita e.. in automatico, aveva pensato a Joe’s. Tris sembrò sbalestrata per qualche secondo, ma poi, ripresa la bottiglia in mano, poggiò la stecca al supporto, scendendo i tre scalini per sedersi ad uno dei tavoli ancora liberi. Teneva lo sguardo basso, sul legno lucido del tavolo, giochicchiando con la bottiglia ormai vuota. “senti io..” cominciò il ragazzo, non sapendo nemmeno da dove cominciare. “non lo so perché mi sono comportato così.” La ragazza sorrise un po’, lasciandosi andare sullo schienale del sedile in pelle. Ancora non lo aveva degnato di uno sguardo che non fosse pieno di sarcasmo o di confusione. “e va bene!- la voce di Andrea cominciava ad alzarsi, i pugni erano stretti l’uno contro l’altro- sono stato un idiota, ok? Non so cosa mi sia preso.” Il sorriso malinconico di Tris cominciava a sparire, soppiantato da un’espressione sempre più seria. “sono tre settimane che non mi parli, che non mi guardi negli occhi.” “lo so. anche tu.” Rispose lei in un sussurro. “si, lo so. vuoi piantarla di infierire? Non era mia intenzione farlo, ok? Avrei dovuto starti vicino..” “si, avresti dovuto. Quindi?” Tris era fredda, rispondeva come una macchina, senza macchia d’emozione nella voce. Andrea la guardò stranito. “non fare quella faccia. Prenditi della Vodka e torna qui, magari da ubriaco farai discorsi più sensati e vivaci di questo.” “Tris, quante ne hai bevute di queste?” chiese lui indicando la bottiglia che la ragazza stava facendo girare sul tavolo. Lei sorrise storto, scuotendo un po’ la testa. “e io che ne so?!” rispose con leggerezza, come se non le fosse mai importato un accidente di niente. “ok, adesso alzati, se ci riesci e torniamo al campus.” Il tono di Andrea le lasciava poca scelta, ma per tutta risposta, Tris ridacchiò. “perché, chi sei tu? Mia madre? E poi non darei ascolto neanche a lei.” disse convinta. Andrea alzò gli occhi al cielo, scostò la sedia dal tavolo, prese la ragazza da sotto le gambe, facendole passare un braccio dietro la schiena e la sollevò di peso. “volente o nolente tu vieni con me” disse tra i denti e poi s’incamminò verso l’uscita del locale. Tris si dibatté, scalciando, finché non furono fuori dal locale e Andrea la mise giù, schiacciandola contro il muro, facendola prigioniera del suo corpo. Il petto di Andrea si alzava e si abbassava contro il suo, rendendole difficile respirare a fondo, il suo bacino incollato al proprio, un ginocchio appoggiato alle sue gambe. Le labbra le tremarono leggermente e se le morse, per nasconderlo. Voltò la testa di lato, guardarlo negli occhi, adesso, le era impossibile. Non le venne da piangere, come s’aspettava, anzi, rimase con lo sguardo fisso sulle case del vicolo, ma il respiro affrettato la tradiva. Andrea se ne rese conto pochi secondi dopo, continuando a fissarla. Pian piano le lasciò andare i polsi, finora stretti nelle mani callose del ragazzo. “adesso te ne vai a letto, intesi? E mentre vai al dormitorio non fare stronzate.” Come ferito, più da sé stesso che da lei, fece per allontanarsi, ma la voce di Tris lo fermò. “vieni con me ti prego..” il sussurro strozzato che uscì dalla bocca della ragazza suonò alle orecchie di Andrea come la cosa più bella del mondo. Si voltò verso di lei e la prese per mano con cautela. Fece scivolare le dita tra le sue con leggera dolcezza, attenzione. poi strinse un po’, come per confermare la sua risposta e cominciarono a camminare, insieme, sotto quella dannata pioggerellina che non smetteva mai di scendere. Quando arrivarono al dormitorio salirono le scale con lentezza, perché le gambe di Tris sembravano starsi sciogliendo come burro ad ogni passo. in corridoio, Andrea si passò un suo braccio sulle spalle e la trascinò fino alla 121. “Tris. Tris… le chiavi” il ragazzo cercò di svegliarla da quel sonno che sembrava averla avvolta in una strana incoscienza, ma lei gli si aggrappò al collo con entrambe le braccia, appoggiando la testa sul suo petto. “tasca posteriore dei Jeans.” La voce flebile della ragazza si spense subito, sostituita da un respiro altrettanto sussurrato e che come un venticello estivo, si abbatté caldo sul collo di Andrea. Il ragazzo sospirò, nel suo modo spazientito, ma poi s’accorse della sua mano che stringeva la schiena di Tris per sostenerla e.. il suo sguardò s’addolcì, come il suo respiro che rallentava. Con discrezione fece scivolare l’altra mano sulla felpa della ragazza, sollevandone l’orlo per raggiungere la tasca dei pantaloni e farci scivolare dentro due dita. Si sentiva strano, imbarazzato come mai in vita sua, nonostante Tris fosse la sua migliore amica e lui le stesse solo facendo un favore e premesso che lei, probabilmente, non avrebbe ricordato il viaggio della sua mano su di lei. in ogni caso si sentiva strano e voleva che tutto questo finisse al più presto. Dopo qualche sforzo e un po’ di pressione sulla porta, Andrea riuscì ad aprirla e a scivolarci dentro, con Tris che si muoveva solo per inerzia. Chiuse l’uscio con una pedata e quando furono più o meno vicini al letto, la prese in braccio, depositandola sulle lenzuola e coprendola con le coperte. Ripiegandone l’orlo, sedette sul bordo del letto e guardò il viso della ragazza per un momento. La luce dei lampioni entrava dalla finestra aperta, illuminandole gli zigomi e le labbra. La carnagione sembrava ancor più pallida in quella luce zenitale e i capelli, scombinati sul cuscino, portavano riflessi ambrati sul bianco della federa. Andrea sorrise, passandole un dito sul braccio che usciva dalle coperte. Poi voltò lo sguardo sul comodino, trovandoci l’album da disegno aperto su una delle ultime pagine. Lo prese in mano, avvicinandoselo per guardare meglio. Appena comprese che cosa avesse disegnato, lasciò cadere il blocco di fogli tanto era stupito. Il rumore sordo aveva fatto muovere Tris, facendola rannicchiare su un fianco, più verso di lui. Il ragazzo continuò a tenere gli occhi spalancati e la bocca socchiusa, mentre si sentiva afferrare il polso da quelle dita affusolate che stringevano delicate sulla sua pelle. “non andartene ti prego- la voce della ragazza non era più impastata di sonno come quando gli aveva risposto per le chiavi. Era più vigile e forse un po’ più triste. Andrea levò il polso dalla sua stretta e Tris spalancò gli occhi , come spaventata. Ma il ragazzo allungò la mano verso di lei, passandola fra quei capelli ricci indisciplinati, per poi voltarle le spalle e armeggiare vicino al pavimento. La ragazza si sollevò su un gomito e si sporse da dietro le sue spalle per capire che stesse combinando. Constatò che si stava slacciando le scarpe e sorrise un po’, per poi stendersi di nuovo e rannicchiarsi su un fianco, facendo spazio al ragazzo. Dopo poco Andrea era steso anche lui su un fianco, faccia a faccia con Tris, un braccio sotto al cuscino, l’altro fermo sulla piccola porzione di materasso che li separava. Tris invece, cercava di farsi sempre più piccola nell’enorme felpa grigia di cui ora tirava i polsini per coprirsi le mani. Andrea la guardò rannicchiarsi e poi aprire gli occhi, puntandoli nei suoi. Nell’oscurità della stanza, quelle iridi fulve diventavano grigie e tutto sembrava una vecchia foto in bianco e nero. Poi Tris sembrò aver l’intenzione di dire qualcosa, perché schiuse le labbra e Andrea la sentì chiaramente prendere fiato. Però le sue corde vocali non produssero nessun suono. Solo un sospiro, prolungato, esasperato. E d’un tratto fu come se lei non riuscisse più a sostenere il suo sguardo. Infatti si voltò sull’altro fianco, fissando un punto a caso della stanza, senza nemmeno vederlo. La mano del ragazzo allora si scostò dalle lenzuola, andando a poggiarsi sul fianco di lei. Tris sobbalzò al suo tocco, cercando di allontanarsi, ma il bordo del letto non le permetteva maggior spostamento di quello e la stretta di Andrea non la lasciava andare, le dita che si stringevano ancora di più su di lei. la ragazza rimase immobile, il respiro che cominciava a mancarle. Poi Andrea si tirò su, sostenendosi con il gomito e prese ad accarezzarle il braccio, percorrendo con le dita le pieghe della felpa. Arrivato al polsino, stretto nel pugno di Tris, tirò leggermente la stoffa, ma le dita di lei rimanevano dov’erano. Allora lui accarezzò il pugno stretto attorno alla manica, cercando di farle allentare la presa e, dopo qualche minuto, ci riuscì. Tris aveva mollato la manica e ora cercava le dita di Andrea con le sue. Finalmente riuscì ad imprigionarne uno in una stretta leggera, prima che si divincolasse per tirarle su la manica. Poco dopo quelle dita corsero a sfiorare quella porzione di pelle scoperta, facendole venire i brividi. D’un tratto Tris voltò la testa verso il ragazzo, ritirando il braccio, allarmata. Voleva urlargli di piantarla, di smettere di giocare, sapendo cosa provava per lui, ma… le parole e la rabbia le morirono in gola quando si ritrovò a fissare il viso di Andrea da una così poca distanza, una distanza millimetrica, che le permetteva di contare le striature dorate nei suoi occhi fulvi. “che stai facendo?” chiese soltanto, in un sussurro. Il ragazzo le prese i fianchi, in modo che fosse supina e si avvicinò ancora al suo viso, quasi a sfiorarlo con il proprio. “quello che è giusto.” Mormorò sulle sue labbra, prima di farle poggiarle completamente a quelle di Tris in un bacio leggero. Staccandosi piano la guardò negli occhi e poi scese al collo, soffiandole sulla pelle mentre parlava ancora. “quello che voglio.” E la baciò appena sotto la linea della mandibola. Per poi tornare faccia a faccia con lei, tuffandosi in quell’abissale color cioccolato in cui si era sempre perso e solo ora se ne rendeva conto. “quello che non ho voluto fare per troppo tempo..” e fece aderire di nuovo la bocca a quella di Tris, che restava immobile, con il cuore che le batteva a mille. Avrebbe voluto chiedergli perché. Perché ora, perché in un momento del genere. Perché rischiare che non lo ricordasse allo schiarire dell’alba. Ma in quel momento non le importava davvero di nessuna di queste cose. Voleva solo sentire quelle labbra morbide su di lei. quella bocca che dalla sua scendeva al suo collo, spostando la stoffa della felpa per posare baci caldi sulle sue clavicole; sentire quelle mani ruvide poggiarsi sulle sue spalle, scivolare sulle sue braccia e infine stringerle la cassa toracica e i fianchi, mandandole scosse e brividi di piacere ovunque, mentre quelle dita dribblavano il tessuto della felpa e cominciavano ad accarezzarle la pelle. Tris aveva chiuso gli occhi per sentire a pieno tutte quelle sensazioni.. il freddo dell’anello d’acciaio che Andrea portava sempre, che a contatto con la pelle della sua schiena la fece inarcare, portandosi più verso il ragazzo, che la strinse.. ed ecco un altro dettaglio, il graffiare del bracciale di cuoio intrecciato che portava sul polso sinistro, quello che le aveva regalato lei e che lui non aveva mai tolto… il fruscio del morbido tessuto della maglietta di Andrea tra le sue dita. La sua pelle liscia sotto le unghie e i muscoli sotto di essa che si tendevano allo sfiorare di un punto più sensibile. Tris non era consapevole del momento in cui avesse mosso anche le sue di mani, andando ad accarezzare le spalle del ragazzo, ma ora si rendeva conto di star saggiando il suo corpo con tocchi decisi, come di studio. Voleva sapere, conoscere ogni parte che ogni giorno lo materializzava davanti a lei. Tutt’a un tratto poi Andrea si puntellò sulle ginocchia, passando le mani sotto la sua schiena, tirandola su con sé in una posizione seduta. La sollevò dal materasso, facendola sedere sulle sue gambe, con il bacino che aderiva al suo. Tris gli accarezzò il collo con una mano, l’altra salda sulla sua spalla sinistra, le gambe ad avvolgergli i fianchi. Anche lei si tuffò negli occhi dorati e liquidi di lui, per poi tirarlo a sé e questa volta baciarlo come non aveva mai immaginato di poter fare. Fece sempre più pressione con le labbra su quelle di lui, voleva fargli capire che non c’era nient’altro, nessun’altro che volesse se non lui. Lo voleva sempre più vicino a sé, quasi che potessero fondersi come metalli in una lega nuova. Andrea si staccò da lei soltanto per sollevarle la felpa, fermandosi a metà, come per chiederle il permesso e lei alzò le braccia, invitandolo a levargliela del tutto. Senza aspettare di sentire il suo sguardo su di sé, Tris corse alla maglietta del ragazzo con impazienza, restando a rimirare il suo fisico perfetto. Ma ora che era fatta, lui aveva preso a guardarla, ad osservare le sue curve e Tris si sentiva quasi in imbarazzo. Sapeva di non essere un gran che, con quelle clavicole sporgenti e il fisico che aveva. Aveva voltato il viso allora, non volendo incontrare uno sguardo probabilmente deluso. Senza dire nulla, Andrea sorrise leggermente alla vista della timidezza di quella ragazza tanto sfacciata. Allungò le mani, carezzandole le spalle, contando le costole una ad una per scendere sui fianchi, sulle gambe ancora coperte dai pantaloni. Nel sentire la delicatezza e l’attenzione con cui la sfiorava, Tris cominciò a seguire con lo sguardo le mani del ragazzo, finché con estrema calma non risalirono al suo petto, fermandosi dove più o meno c’è il cuore, dove se ne sente maggiormente il battito. Tris inspirò di colpo e fece per allontanarsi un po’, ma Andrea non glie lo permise. Con una mano dietro la sua schiena la strinse a sé, affondando la testa nell’incavo del suo collo. Tris rimase stupita, ma poi poggio anche lei la testa alla sua, carezzandogli i capelli con delicatezza. Senza nemmeno accorgersene, si trovarono stesi, abbracciati, con Tris rannicchiata tra le bracci di Andrea, i due corpi pigiati l’uno contro l’altro, i respiri caldi che s’incrociavano e le coperte che li proteggevano dal mondo esterno al loro.

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 7: LUNEDI’ ***


Quando il chiarore di un nuovo giorno cominciò ad invadere la 121, arrivando fino al letto della ragazza che ci dormiva sopra, si fermò su quella figura inerme e, con raggi di fuoco bianco, le infuse un calore quasi vitale, risvegliandola come il bacio del principe aveva fatto con la Bella addormentata. Proprio come risvegliata da un bacio, Tris si portò una mano alle labbra, indugiandoci con le dita, al ricordo di un tocco desiderato, agognato e finalmente ricevuto. Con un sospiro si stropicciò gli occhi, per poi spalancarli e guardarsi attorno, come persa. Ad un tratto si sentì come se stesse notando un’anomalia nella normalità della 121, come… un qualcosa che mancava e qualcosa che non era al suo posto. Di colpo il suo cuore fece un tuffo, al ricordo di un paio di braccia che la stringevano a un petto forte, le sue dita che si aggrappavano a una schiena muscolosa, i polmoni che le si dilatavano alla sensazione di un tocco che sembrava esserle rimasto sulla pelle. Come tornata alla realtà dopo un incubo, si scosse di colpo. Guardò la parte vuota del letto accanto a lei. Fino a quel momento infatti, non si era accorta di essere seduta sul bordo del letto, dalla parte della finestra. Andrea odiava dormire accanto alle finestre. Glielo aveva detto quando aveva rivoluzionato la sua stanza al dormitorio maschile, mettendo il letto al posto della scrivania perché era sotto la finestra. Tris ricordava di aver sorriso, poggiando una mano sulla rete del letto per aiutarlo a posizionarla contro il muro. Lentamente si alzò, andando a mettersi ai piedi del letto e stare a guardare. La sua parte del letto era composta, segno che non s’era mossa molto e anche quella dove Andrea aveva dormito –si che se lo ricordava- lo era, ma sul suo bordo c’erano le pieghe create dalla fretta con la quale si era alzato, lo scendi letto tutto a pieghe, dimostrando la velocità e la poca cautela con la quale si era rimesso le scarpe. Il cuscino era praticamente tutto dalla parte di Tris, nonostante il ragazzo odiasse dormire senza cuscino.
Poi seguì l’andamento scombinato e tutto pieghe delle lenzuola, trovando la sua maglietta sul pavimento, sotto quella di lui. Tris ebbe un sussulto e abbassò la testa per guardarsi. Era tutto vero. Andrea le aveva levato la maglietta, lei aveva scaraventato in terra la sua e si erano guardati, studiati, baciati, finché Andrea non aveva nascosto la testa nell’incavo del suo collo, con la mano che indugiava a sentire il suo battito cardiaco sotto il palmo della mano.
Eppure, dopo tutto questo… dopo che la pellicola si era riavvolta durante la notte lui.. lui se n’era andato. Si era allontanato, come al solito. Non ci capiva niente. Così si infilò in bagno, con la divisa pronta appesa sopra gli asciugamani. In fin dei conti era lunedì, un altro inizio di settimana. Solo un altro susseguirsi di giorni, inutili e.. per quello che si prospettavano.. vuoti.
Levandosi anche l’intimo scivolò in doccia, lasciando che l’acqua le scorresse addosso, lavando quella sensazione di carezze che le restava appiccicata alla pelle chiara.
 
 
 
***
Andrea guardava il viso di Tris alla luce fievole dell’alba e pensava che non ci fosse cosa più dolce di quegli occhi chiusi e delle ciocche di ricci ribelli che le cadevano sul viso mentre dormiva. Credeva di non averla mai vista così serena in vita sua, di non aver mai potuto guardarla così a lungo intenzionalmente. Le passò una mano tra i capelli, cercando di conservare un tocco leggero, per non svegliarla.
In realtà avrebbe voluto svegliarla. Avrebbe voluto vedere quel color ambra spalancarsi di luce nei suoi occhi. Avrebbe voluto avvicinarsi e riprendere a baciarla con foga, tirando quei capelli selvaggiamente. Ma non poteva farle questo. Non poteva trascinarla così nella sua vita. Non poteva distruggerla.
Tris era un tipo complicato, una che aveva i demoni della malinconia a trafiggerle il cuore come fosse un puntaspilli, una che quando alzava lo sguardo, oltre la fierezza nascondeva un mare di tristezza. Una forte, che non si arrendeva mai, che non sopportava le ingiustizie e… e che quando teneva a qualcuno.. faceva tutto quello che era in suo potere per rendere quel qualcuno felice. Non le importava di soffrire, non le importava di un accidente. Quello a cui dedicava tutta se stessa era dare il 100% di sé a quella persona, provare a darle un motivo per restare e… prometterle –mantenendo sempre la parola- che non l’avrebbe lasciata mai, a meno che non glie lo chiedesse. E Andrea non poteva. Non poteva toglierle quella luce dagli occhi, non riusciva proprio a pensare di farla star male, di essere la causa della sua tristezza, della sua lontananza. Ma l’aveva già sperimentato in quelle due settimane, in cui l’unica cosa della quale gli importava era poterla rivedere, poterla riavere accanto a sé. Non poteva trascinarla così in sé stesso. Semplicemente perché sapeva che l’avrebbe coinvolta nei suoi problemi, nella parte della sua vita che non raccontava mai a nessuno e non voleva. Tris ci era incespicata, in Andrea, nel primo anno di college. E lui non aveva nemmeno pensato che quella ragazza con i capelli da matta potesse condizionarlo tanto. Non pensava nemmeno che sarebbe riuscito a conoscerla cosi bene, non pensava di VOLERLA conoscere così a fondo. Era stato errore di percorso, uno sbaglio permetterglielo. Permettergli di guardarlo negli occhi e vederci la sua anima, invece che una tela di rabbia. Un errore lasciarle conoscere il suo modo di pensare veramente. Un errore farle capire quando stava male. Un grande, enorme errore confidarle paure, segreti e gioie. Era tutto un errore e lui non si era accorto che lei lo guardava sempre di più in modo diverso, che leggeva nei suoi occhi ogni cosa, ancor prima che glie lo dicesse. E non se n’era reso conto finché la sera prima non aveva sentito quella cosa, allo stomaco e poi al centro di sé. Quello che lo aveva portato a baciarla e a dirle che voleva farlo da tempo.. ma aveva sbagliato anche quello. E l’aveva capito troppo tardi, quando ormai erano andati ben oltre il bacio e lui aveva affondato la testa nel collo di Tris, mormorando il suo nome, come una litania. La cosa peggiore in tutto questo però, era che fosse vero quello che le aveva detto. Aveva sempre sentito una spinta verso di lei, era sempre stato attratto da quelle labbra che si schiudevano così facilmente, dai suoi occhi grandi che sapevano parlare e dal suo corpo robusto e piantato a terra. E quando aveva ascoltato il suo battito, quella sera… era stato come una puntura di morfina a qualcuno che ha le convulsioni: piano piano si era calmato, fino a stendersi accanto a quel corpo che sentiva suo.
Ma la mattina, quando si era svegliato, ancora accanto a lei, senza maglietta e con un braccio a cingerle i fianchi aveva pensato che non potesse esserci risveglio più dolce, cosa più bella da sentire per prima la mattina, se non il liscio della sua pelle e il profumo dei suoi capelli. Ma proprio per questo non poteva restare, aspettare che si svegliasse. Non poteva permettersi di rovinare una cosa bella come quella. Non capiva se lo faceva per sé, oppure se stava scappando di nuovo da lei. in ogni caso, raccolse la felpa e uscì dalla stanza con le scarpe ancora slacciate ai piedi.
***
L’aula era praticamente vuota quando Tris sedette in uno degli ultimi banchi. Il signor Spigelmann non era ancora seduto alla cattedra, ma la sua valigetta di cuoio troneggiava sul grande banco, ancora chiusa. Tris tirò fuori dalla tracolla l’astuccio e il suo blocco degli appunti. Poi si appoggiò con una spalla al muro, cominciando a scarabocchiare cose a caso sul primo foglio. Si domandava il perché delle azioni di Andrea, della sua fuga mattutina, sorridendo un po’ al ricordo della sua maglietta ancora sul pavimento di camera sua. Pensava e ripensava al momento in cui Andrea l’aveva baciata, sul suo letto, così dolcemente, con una delicatezza di cui probabilmente nemmeno lui si credeva capace. L’aveva baciata, l’aveva accarezzata, spogliata e poi.. e poi si era fermato, come spaventato da qualcosa. Forse si era reso conto pienamente di come il battito di Tris fosse pericolosamente aumentato al suo tocco, o forse non voleva andare oltre, o ancora.. o ancora aveva capito di aver fatto un grosso sbaglio. E quindi aveva aspettato che lei s’addormentasse, per poi sgattaiolare silenziosamente fuori dalla 121, allontanandosi da lei. Ma allora perché aveva detto quelle cose? Perché le aveva detto di star facendo la cosa giusta? Perché le aveva detto che era quello che voleva? Forse per Marylin? Già, alla fine non sapeva nemmeno se avevano chiuso sul serio o no.. magari Andrea era ubriaco e non aveva pensato alle conseguenze. Ma anche lei doveva essere ubriaca, giusto? Eppure ricordava tutto, ogni singolo istante, ogni suo esitare, ogni suo avvicinarsi sempre di più a lei, ogni suo brivido… e la sensazione di vuoto che era seguita. Vuoto. Uno spazio bianco, il nulla, una parte mancante di sé. Come un pezzo di puzzle mancante in una scatola da 1000 pezzi. Quello che sembra il più piccolo, il più insignificante… ma che quando manca nella figura si rivela il più importante, magari quello proprio al centro.
L’aula si era riempita pian piano, come il suo primo foglio del blocco prendi appunti di fronte a lei. Accanto a lei non si era seduto ancora nessuno, quando sentì un peso morto cadere sulla sedia del banco vicino al suo. Non voltò nemmeno lo sguardo, sapeva benissimo chi era. La pesantezza dei movimenti, la svogliatezza nel sedersi, le gambe larghe sotto al tavolo, il bacino in avanti, in modo da trovarsi seduto praticamente sull’osso sacro..
“wow.” La voce del ragazzo risuonò quasi fredda nelle orecchie di Tris. “devi aver dormito male stanotte, la tua faccia non è delle migliori.” Lo scherzo freddo nella voce del ragazzo le faceva venire i nervi, ma non riusciva davvero ad arrabbiarsi. Era troppo stanca forse, per contrattaccare.
La ragazza girò distrattamente il viso verso di lui, gli occhi che gridavano di voler piangere, le labbra strette in una linea dura, quasi bianca.
“forse.” Si limitò a dire, in un sussurro. La stava trattando come se non fosse successo niente, come se la sera prima non fosse esistita in quelle 24 ore, come se non avesse dormito con lei, come se non l’avesse baciata, come se non avesse ascoltato il battito del suo cuore.
La lezione cominciò, distraendola per 5 minuti da quei pensieri. Ma nemmeno l’estetismo di Oscar Wilde riusciva a spazzare via quelle sensazioni, entrandole nella testa per un po’. Il professor Spigelmann continuava la sua spiegazione del ‘Ritratto di Dorian Gray’, quando parve accorgersi di qualcuno, in fondo all’aula, con lo sguardo fisso sulla finestra.
“signorina Fairfox. Signorina Fairfox, si sente bene?” Tris ci mise qualche secondo a capire che Spigelmann stava parlando con lei. voltò lo sguardo verso l’uomo in giacca e cravatta, cercando di mettere a fuoco l’immagine, ma le sembrava sempre più difficile.
“si io.. sto bene” disse incerta, fissando il pavimento, con i gomiti e le mani appoggiati sul banco, le dita che si chiudevano a pugno, per nasconderne il tremore. Poi Andrea chiuse una mano sul suo polso sinistro, facendola sussultare. Tris cercò di divincolarsi, mentre il professore andava avanti con la lezione e quando ci riuscì, si alzò dal banco, raccogliendo la tracolla e il blocco dal banco, per poi uscire dall’aula senza dire una parola. Sapeva che si sarebbe presa un richiamo, ma non le importava niente di essere messa in punizione.  Appena uscì dalla classe attraversò il corridoio, arrivando in fretta al suo armadietto. Mosse le dita per inserire la combinazione e meccanicamente ci poggiò dentro libri e blocco degli appunti. Poi si immobilizzò.
Quello che è giusto. 
Quello che voglio.
Quello che non ho voluto fare per troppo tempo…
Strinse la mascella contro la mandibola, sentendo il leggero stridio dei denti che sfregavano. Chiuse una mano a pugno e con l’altra chiuse l’armadietto con una sberla, il colpo che rimbombava nel corridoio vuoto. Si voltò, imboccando l’uscita dell’edificio. Prese a camminare, per poi correre, sempre più veloce, col cuore che le batteva nel petto a più non posso. Come la sera prima. Il respiro irregolare. 

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Capitolo 8
*** 8. In Corsa ***


In un batter d’occhio Tris si era trovata nello spogliatoio della palestra, aveva spalancato la porta a vetri con forza, facendo sbattere i battenti sul margine del muro bianco dietro di lei. Poi si era infilata nel corridoio, costeggiando i bagni ed era finita nello spogliatoio femminile. Era vuoto. Nessuno faceva lezione di educazione fisica al lunedì. Ma lei aveva bisogno di sfogarsi e correre era ciò che doveva fare per riuscirci. Si sarebbe trovata sfinita poi, senza nemmeno un briciolo di forza per pensare. E non pensare era quello che le serviva.
Si levò i vestiti con movimenti rabbiosi, senza raddrizzare la felpa o la maglietta, senza appendere i pantaloni, ficcando tutto nella borsa come una furia. Poi si mise le cuffie nelle orecchie e accese l’ipod, lasciandolo cadere nella tasca dei pantaloncini. Uscì dallo spogliatoio, dirigendosi al campo di atletica in un’andatura veloce, quasi una corsa leggera.
“Passion in my eyes, I lived it everyday, but how could you go throw it all away? 
In my dreams it's me and you, it's there I saw it all come true 
As time went by faith in you grew, so one thing's left for me to do” 
M. Shadows urlava nelle orecchie di Tris le parole di Betrayed, dandole il ritmo della corsa, coprendo i suoi pensieri. Anche se tradita era come si sentiva adesso. Tradita in amore, in amicizia e non da una persona di cui non le importava… ma dalla persona a cui più teneva al mondo. E le parole di Andrea bruciavano ancora nel suo cuore.
“I feel it burn inside, burn in me like the rising sun 
Lifted into the sky, took away the only thing I loved 
I know after tonight all your power crumbles in my arms 
So don't worry, I'll be fine, when my life ends, I'll leave this scar” 
La canzone continuava, le strofe scivolavano via piano piano, seguite dall’assolo di Synyster Gates, l’unica cosa capace di distrarla seriamente da quei dannati pensieri.
Correva, correva, incapace di fermarsi, incapace di trattenere aria nei polmoni per troppo tempo. Un paio di lacrime percorsero le sue guance fino ad irrigarle il collo, mentre percorreva l’anello di terra battuta, costeggiando le scalinate del campo di atletica. Sbatté velocemente gli occhi, per cacciarle via, ma nuove altre scesero a inumidirle il viso. E allora lasciò che fosse il vento della corsa ad asciugargliele, a mandarle via dai suoi occhi. E più correva, più la tristezza e il dolore si trasformavano in rabbia, e quel freddo interiore veniva sciolto dal fuoco che le percorreva le vene, come sempre quando aveva il vento nei capelli. Corse sempre più veloce, il cuore che le batteva all’impazzata, il fiato inesistente, si sentiva soffocare, la vista annebbiata, ma non si fermava. Sentiva il rumore delle sue stesse scarpe battere con forza o leggerezza il terreno. Anche se adesso i passi della corsa erano pesanti, incontrollati. I muscoli le bruciavano, la canotta bianca zuppa di sudore, la musica che continuava a trasportarla verso sensazioni nuove, evitandole di sentire il dolore fisico e lo stremo del suo corpo. Seguiva il ritmo della chitarra, non si fermava, come un cavallo imbizzarrito che cerca la via di fuga nell’anello in cui è rinchiuso. Poi pian piano si impose di rallentare. Cominciava a sentirsi troppo leggera, la testa pesante, le tempie che le pulsavano da morire. Avrebbe dovuto fermarsi ora, oppure avrebbe rischiato grosso. Così riuscì a ritornare a quella corsetta leggera che l’aveva portata in campo. E allora entrò in palestra, recuperando ancora in corsa le fascette per combattere. Non le indossava da un pezzo, ma le stavano dando sicurezza e le infondevano l’adrenalina necessaria per tenerla ancora in piedi. Adesso era ferma di fronte al sacco da boxe nel quarto angolo della palestra. Osservava quell’ammasso di gomma dura con fierezza,  le labbra a scoprire i denti in un ghigno di fatica e furia, come una bestia indomabile. Nel momento in cui cominciò a tirare pugni a quell’affare, sentì fitte di dolore percorrerle gli avambracci e i polsi. Ne è passato di tempo dall’ultima volta eh Tris? E di nuovo, tirò indietro la spalla destra per colpire il fantoccio. Altro dolore. Non c’era da lamentarsi. Lo avrebbe fatto e rifatto, finché non l’avesse fatto correttamente.
 
***   
 
Appena finita la lezione del professor Spigelmann, Andrea era aveva preso la sua tracolla da terra, uscendo dalla classe ad andatura decisa. La catena tintinnava ad ogni suo passo, assicurando il portafoglio ad uno dei passanti dei Jeans. Percorrendo il corridoio degli armadietti cercava con lo sguardo una massa di capelli scuri e ricci e tutte le ragazze con una felpa addosso diventavano un target, ma cambiava direzione appena capiva che non si trattava di lei. Svoltò l’angolo, trovandosi nell’atrio pieno di ragazzi che si dirigevano nelle diverse aule per le lezioni successive e anche qui fece vagare lo sguardo per tutta la stanza, senza trovare niente di lei. Allora uscì dall’edificio, accendendosi prontamente una Marlboro appena messo piede all’aperto. Camminò per un po’ sui vialetti costeggianti le aiuole, per poi spegnere la sigaretta sulle grate di una presa d’aria. Tris.. dove diavolo sei finita? Pensò, pentendosi dell’indifferenza che aveva mostrato poco prima. Avrebbe dovuto per lo meno spiegarle il perché non avrebbero più potuto stare insieme in quel modo.. cercare di essere morbido, di…anzi no. Forse era stato meglio così. Forse avrebbe evitato più sofferenza ad entrambi. Lei lo credeva un bastardo, un senza cuore. Forse aveva anche smesso di credere in quel che rimaneva della loro amicizia. Almeno ora sarebbe stato più facile. Distrutto alla radice. Se lei si fosse allontanata da lui e basta, non ci sarebbe stato bisogno di spiegazioni, o tanto meno di addii.
Ma mentre pensava a tutto questo, non si era accorto di dove lo stavano portando i suoi piedi. Di nuovo era finito al dormitorio e stava salendo le scale che portavano alla sezione femminile. Arrivato in fondo al corridoio, alla 121, inchiodò di colpo, come fosse stato un robottino telecomandato e alzò lo sguardo, la fronte aggrottata. Era sorpreso, dopotutto. Nonostante stesse decidendo di lasciarla andare, era di nuovo capitato lì, da lei. O almeno, in un posto che le apparteneva. Rifletté. Dalla stanza non proveniva musica, né rumore alcuno. Ed era strano, perché Tris… non riusciva mai a stare ferma, o senza musica, a meno che non dormisse. Ma non sarebbe riuscita a chiudere occhio dopo quella mattina e lui lo sapeva benissimo. Così, decise che sarebbe tornato indietro. Dopotutto storia era la sua materia preferita.
Proprio mentre stava per uscire dal corridoio, qualcuno lo urtò in corsa, finendogli contro il petto. d’istinto Andrea chiuse le mani sulle spalle di quel qualcuno e lo allontanò da sé per guardarlo in viso.
“ehi, sta attento, guarda dove vai!” ma quel qualcuno abbassò ancor di più la testa coperta dal cappuccio di una felpa grigia e, senza rispondergli, si scostò, avanzando verso il fondo del corridoio. Andrea fece ancora qualche passo avanti, ma poi inchiodò.
“Tris!” chiamò a gran voce, voltandosi, mentre la vedeva entrare nella 121 e chiudere la porta. Il ragazzo si precipitò di fronte all’uscio, battendo una mano aperta sul legno.
“cazzo, Tris! Apri questa dannata porta!” ringhiò, senza averne particolare intenzione, in realtà. Ma alla sua non risposta non poté far altro che arrabbiarsi di più. Credeva che avrebbe funzionato evitare di cercarla, starle lontano. Ma se anche i suoi piedi e la sua voce lo tradivano così…  come mai avrebbe potuto riuscirci?
E allora la mano aperta si trasformò in un pugno, un pugno che si chiudeva così tanto su sé stesso da far conficcare le unghie corte del ragazzo nella carne rosea delle sue mani.
“Tris ti prego!” ma la ragazza non dava segno di essere presente dall’altra parte della porta.
 
Tris era in piedi, di fronte alla porta che veniva percossa da continui tremori. I pugni di Andrea si sentivano bene e facevano tremare gli infissi dell’uscio. La ragazza si strinse nelle braccia per un momento, ma poi si mise ritta come un fuso, ad ascoltare come la voce del ragazzo si stava man mano incrinando, diventando roca, arrabbiata e avrebbe osato dire… dispiaciuta. Probabilmente ora le avrebbe detto qualsiasi cosa pur di cancellare la freddezza del mattino, o la sparizione improvvisa dal suo letto. Ma lei non avrebbe di certo aperto. Tutte quelle ore passate a correre e a tirare pugni a quel coso, sfregiandosi le nocche delle dita, per provare a tenerlo fuori da sé stessa e… e in cinque minuti secchi lui stava demolendo tutto. Aveva cancellato il suo lavoro. No. Avrebbe aspettato che s’arrendesse. Tanto avrebbe dovuto andarsene prima o poi. Per mangiare, se non altro. Non poteva di certo pensare di starsene lì a vita. E lei invece sarebbe potuta tranquillamente non uscire più di lì. Già. Almeno far finta, di non farlo. La finestra della stanza dava su un terrazzo con la scala d’emergenza ed essendo al primo piano, le sarebbe bastato un saltino per atterrare sul vialetto. Dopo un po’ i colpi alla porta finirono, ma la voce di Andrea si sentì di nuovo.
“ok! Resta lì dentro per sempre. Perché io da qui non me ne vado” e lo sentì chiaramente sedersi con la schiena appoggiata alla porta. Allora Tris s’alzò, cambiò la felpa e i pantaloni, e uscì dalla finestra, restando sul balcone per un po’. L’aria di mezzogiorno era più calda di quella di quando aveva corso, ma.. poco le importava.

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Capitolo 9
*** 9. Cheerleader ***


Tris stava con le braccia appoggiate sulla ringhiera del terrazzo e guardava i prati verdi e le aiuole ordinate del campus. In lontananza si vedeva la città, con le case alte e strette, l’edificio della stazione che si stagliava più alto degli altri nel solito cielo grigio azzurrino dell’Inghilterra. Sospirò. In certi momenti il Galles le mancava tantissimo. Amava quei kilometri di verde che si estendevano attorno a vecchi castelli e all’aria fresca che si inalava la mattina presto appena svegli. E le corse a cavallo.. il galoppo sfrenato di quell’animale che rendeva liberi, che cancellava ogni pensiero. Ne avrebbe avuto bisogno, in quel momento di follia. La corsa a perdifiato era servita, ma non le aveva dato quella sensazione di liberazione. Si era sentita ancora incatenata alla realtà, senza il profumo dell’erba bagnata di rugiada e il suono del respiro accelerato di Ashes sotto di lei.
Il fatto era che adesso si trovava lì. due settimane alle vacanze di Pasqua e Andrea inchiodato alla porta della 121, per ripicca. Davvero aveva intenzione di rimanere lì fino a quando non avesse deciso di aprirgli? Ormai era più di mezzora che se ne stava dietro la porta ad aspettare. Era davvero curiosa di sapere se avesse mantenuto fede alle sue parole. Così rientrò in camera, girando la chiave nella toppa e prendendo un grosso respiro. Poi aprì la porta di scatto. Spalancò gli occhi. Andrea non c’era. Perché sono così sorpresa? Avrei dovuto aspettarmelo! in realtà forse un po’ lo aveva sperato, di trovarlo ancora seduto con la schiena contro il legno. Aveva sperato di potergli credere, almeno stavolta. Ma si era sbagliata, di nuovo. “Resta lì dentro per sempre. Perché io da qui non me ne vado”  i fatti però dimostravano altro. Così sbatté la porta dietro le sue spalle, tornando in terrazza per scendere la scala d’emergenza.
 
Andrea si era seduto con le spalle e la schiena appoggiate alla porta, in attesa di sentire qualsiasi cosa gli desse l’impressione di Tris che attraversava la stanza per aprirgli la porta. Ma non sentì nulla, se non rumori che sembravano provenire dal fondo della stanza. Allora voltò la testa di lato, in modo da pigiare l’orecchio contro il legno fresco dell’uscio. Restando in ascolto sentì la maniglia del finestrone scattare e i passi della ragazza che usciva dalla stanza. Poi il silenzio. Doveva aver chiuso la finestra, pensò. Ma perché? A Tris non piaceva stare in terrazza. Faceva troppo caldo per i suoi gusti, il sole ci batteva per tutta la mattina e parte del pomeriggio-il che era ideale per i suoi disegni- ma lo trovava un posto soffocante, se non per..
E in quel mezzo secondo di realizzazione, Andrea scattò in piedi, fiondandosi giù dalle scale del dormitorio, quasi buttandosi sulla porta d’entrata per aprirla. Una volta fuori inchiodò. Indietreggiò, portandosi sotto la finestra della stanza della ragazza, individuandola in piedi sulla terrazza. Subito, senza aspettare che potesse vederlo, si rifugiò sotto il ripiano di pietra del terrazzo. E sentì Tris sparire dentro la stanza per un attimo, per poi ritornare fuori e mettere un piede su uno dei pioli della scaletta d’emergenza. Pian piano li scese tutti, voltandosi per saltare giù. E Andrea era là. Se n’era accorta troppo tardi. Aveva già lasciato il piolo con la mano, staccando anche i piedi per quel mezzo secondo di sospensione. Il ragazzo si scostò giusto un po’, preparandosi a prenderla. E Tris atterrò proprio nel cerchio delle sue braccia. Sentì le spalle di Andrea irrigidirsi, i muscoli degli avambracci tendersi per stringerla a sé. Prontamente poggiò le mani sul petto di lui, a palmo aperto, cercando di allontanarsi, di sfuggirgli di nuovo. Ma la stretta di Andrea non le lasciava moto spazio di movimento.
“smettila Tris. Non sei nemmeno convinta di quello che fai” il tono del ragazzo era morbido, anche se deciso. Adesso le aveva preso i polsi, stringendoli sul suo sterno. La ragazza avrebbe voluto dirgli che era convinta di volersene andare, ma che non poteva picchiare più forte di così per via delle nocche e delle dita malconce dalla sessione di boxe. Ma poi si rese conto che la boxe non c’entrava niente. Che i suoi gesti di protesta erano languidi perché voleva essere stretta da quelle braccia, a quel corpo, di nuovo.
Allora smise di dibattersi, anche se, alzando lo sguardo, i suoi occhi tradivano una punta di rabbia verso il ragazzo.
“cosa vuoi da me?” la domanda non aveva nemmeno tono interrogativo, tanto la voce della ragazza era piatta, fredda. Andrea allora abbassò lo sguardo sulle mani della ragazza, che ancora teneva strette al suo petto. Solo allora si accorse delle nocche scorticate e dei polsi gonfi di Tris. Allentò la presa, aggrottando la fronte, ma capendo immediatamente perché non era riuscito a trovarla qualche ora prima.
“che hai combinato?” chiese lui tenendo le mani della ragazza tra le sue, delicatamente.
Tris ritrasse le mani di scatto, riportandole lungo i fianchi, coperte dai polsini della felpa.
“dovevo sfogarmi. –fece una pausa di qualche secondo, in cui distolse lo sguardo dagli occhi di Andrea, buttandolo chissà dove sul pavimento. –e tu non hai ancora risposto alla mia domanda” concluse spalancando il fulvo dei suoi occhi in quelli del ragazzo. Andrea si ritrovò a fissare quelle miniere bronzee che luccicavano e si rese conto che lo sfogo, le nocche graffiate e le mani che le facevano male… erano colpa sua. E quel che era peggio da sapere, era che Tris era arrabbiata. Ma arrabbiata in un modo triste, non solo incazzata. Anche ferita. E nello sguardo che gli rivolgeva ora si poteva leggere tutto quello che stava provando… o meglio.. tutto ciò che stava provando a non provare.
“voglio…” Andrea guardò con Tristezza quelle mani che sfuggivano alla sua presa e d’improvviso era come si fosse dimenticato cosa doveva dirle di tanto importante. O forse non l’aveva dimenticato.
“voglio chiederti scusa.” I lineamenti di Tris parvero addolcirsi per un momento, ma gli occhi tornarono a socchiudersi, la bocca si socchiuse un pò, incertezza e sofferenza. Quasi si stesse interrogando sulla verità che quelle parole nascondevano.
“per cosa?” chiese di nuovo la ragazza, cominciando a giochicchiare con un polsino della felpa, che ad ogni tocco si sgualciva sempre di più.
“per ieri notte” buttò fuori quelle parole di getto, come se non fosse riuscito a fermarle, o a calibrarne la forza con cui le stava dicendo. La voce tremò, gracchiò per un secondo, come se l’aria, passando dalle corde vocali gli avesse provocato dolore fisico.
Tris annuì lentamente, soppesando le parole del ragazzo. “certo. Sotto l’effetto della birra si fanno e dicono cose che da sobri non si farebbero o direbbero mai.” Andrea provò a continuare nel suo discorso, ma una mano aperta di lei si era alzata, interrompendolo.
“non dire altro. Per te ieri sera è stato un errore, bene. Finiamola qui.” E si voltò, desiderando cominciare a correre di nuovo, ma una mano si chiuse attorno al suo braccio, fermando il solo pensiero.
“aspetta Tris, ti prego.”
“che diavolo vuoi ancora, eh?! Vuoi vedermi correre fino a perdere quel poco di ossigeno che ho nei polmoni e svenire perché non riesco a fermarmi? Perché è questo quello che farò se proverai a giustificarti, se proverai a chiedermi quello che non posso fare!” la mano di Andrea si aprì lenta, lasciando il braccio di Tris con riluttanza. Abbassò lo sguardo sulle sue scarpe, rimanendo in silenzio.
“tu lo sapevi. Sapevi cosa provo per te. E non ti è importato. Lo hai fatto per te stesso, sapendo perfettamente che ti stavi sbagliando, che io non ero niente in quel momento. E lo hai capito-avrei dovuto accorgermene, davvero- perché quando ti sei fermato, appoggiando la testa sul mio petto.. hai capito di non poterti spingere più in là di così.” Andrea alzò di scatto lo sguardo su di lei, stringendo le mani a pugno lungo i fianchi. Era giusto che lei pensasse questo. Anche perché non poteva negarlo.
“e adesso sei qui. Come se ti importasse davvero sapere come sto, cos’ho fatto per grattarmi via la pelle dalle nocche o… il perché ti sto evitando. Quando la ragione è talmente chiara che la capirebbe anche una cheerleader.”
Andrea sorrise, ma lasciò cadere gli angoli della bocca realizzando cosa aveva detto. 

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Capitolo 10
*** 10. king's Cross ***


Le vacanze di Pasqua erano ormai arrivate e Tris aveva fatto i bagagli già da una settimana quando ripose le ultime cose nella valigia, infilandosi le scarpe e ritrovandosi in corridoio, a chiudere la porta della camera con la chiave argentata. Poi si voltò, uscendo dal dormitorio, con il biglietto del pullman in mano. arrivata alla pensilina, si appoggiò al palo che sosteneva gli orari delle corse e chiuse gli occhi. In poche ore sarebbe stata di nuovo a casa. In poche ore avrebbe gustato il pasticcio di carne che sua nonna le preparava sempre quando tornava dal campus dopo tanto tempo. In poche ore sarebbe stata lontana da lì, con le braccia appoggiate al recinto dei cavalli e il vento fresco di primavera inoltrata nei capelli.
Non vedeva l’ora di arrivarci, di levarsi le scarpe da ginnastica per mettersi gli stivali di quel cuoio di cui le piaceva tanto l’odore… non poteva non desiderare di rivedere la nonna puntarsi i capelli seduta davanti allo specchio o… di sentire il profumo del tabacco di suo nonno, per poi guardarlo dondolarsi sulla sedia sotto il portico.. e sapeva benissimo che Shakespeare-il setter del nonno- sarebbe partito in una corsa folle non appena l’avesse vista, piombandole addosso con un balzo...
E nella sua testa era tutto bellissimo, piacevole, come al solito. Ma la verità era che le faceva male andarsene così, senza dire niente ad Andrea, senza… la consapevolezza del fatto che fosse tutto a posto.
Poi l’autobus arrivò e raccolse i suoi passeggeri con i rispettivi bagagli. Parecchi studenti lasciavano il campus per le vacanze di Pasqua e alcuni viaggiavano in piccoli gruppetti. Erano chiacchiere divertenti quelle che circolavano tra i sedili del veicolo, ma a Tris provocavano un senso di vertigine, come se le mancasse la terra sotto i piedi per qualche istante, finché non decise di seguire il dondolio soporifero dell’autobus a due piani sulla strada, cercando di dormire per quell’oretta e mezzo che la separava dalla stazione dei treni.
*** 
Andrea era alla stazione di King’s Cross da più di mezz’ora ormai. Continuava a guardare l’orologio, in attesa del suo treno. Erano stati giorni abbastanza vuoti i precedenti alla partenza. Tris gli stava lontana il più possibile e i pochi sguardi che ricambiava erano pieni di tristezza e, forse, anche di rabbia. Erano sempre occhiate languide, quasi faticose da sostenere. La cosa peggiore era sapere che la causa della sua debolezza era lui stesso. Continuava a ripetersi che non sarebbe dovuto rimanere con lei, quella sera. Che avrebbe dovuto soltanto aprirle la porta e lasciarla andare a dormire. In effetti era tutto perfettamente logico nella sua testa. Avrei dovuto soltanto accompagnarla. Se non fossi entrato nella sua stanza niente di tutto questo sarebbe successo. Se avessimo chiarito come tutte le persone normali, con… che so.. una discussione, un.. confronto… non sarei qui a dirmi che sono un idiota. Se non le avessi detto tutte quelle cose… adesso non mi sentirei uno schifo. Ma la cosa che lo faceva stare ancora peggio era che in quel momento, un quel fottuto momento in cui l’aveva coperta col suo corpo, nel momento in cui lei lo aveva stretto al suo corpo… lui si era sentito vivo. Aveva sentito il calore dell’abbraccio di lei sul suo corpo freddo della pioggia e della brezza serale. Aveva sentito che quello era il suo posto. E in quei momenti non aveva trovato parole migliori per spiegarsi. Ma non è giusto. Non per lei. non per… noi. Se lo ripeteva spesso, come fosse un mantra. Ce ne voleva per convincere Andrea a pensarlo sul serio. Infatti ogni volta che passava davanti a Joe’s o.. che facendo i bagagli trovava qualcosa che lo rimandava a Tris si poneva sempre la stessa domanda.
“perché ho lasciato che accadesse?”
Ed era più di una domanda. Era una domanda collettiva, che ne racchiudeva al suo interno almeno un miliardo di altre. Per esempio.. perché si era lasciato trascinare nella 121 quella sera? Perché non aveva lasciato che Tris tornasse al dormitorio da sola? Perché si era lasciato trasportare? Perché l’aveva baciata? perché se l’era stretta al petto, come se non aspettasse di fare altro in vita sua? E soprattutto… perché l’aveva lasciata allontanarsi così? Perché aveva lasciato che credesse che lui fosse innamorato ancora di Mary? Perché le lasciava pensare che di lei gli importava così poco? Perché le lasciava credere di essere un bastardo patentato? E la risposta arrivava… debole. Ma al suo orecchio arrivava…
Stava per rispondersi di nuovo, quando vide qualcosa di familiare andargli in contro. Alzò lo sguardo dalle piastrelle del binario e spalancò gli occhi in quelli di qualcun altro. Ciò che aveva visto di sfuggita era un trolley rigido, con le stampe di tutti i supereroi Marvel a ricoprirne l’esterno. E di sicuro erano state anche quel paio di All Star con tutte le scritte del mondo piazzate qui e là sulla tela. Scritte che sapeva benissimo fossero versi di Shakespeare. Non ricordava quanto tempo ci avesse messo a ricoprire la tela nera delle scarpe in quel modo… ogni centimetro coperto da una lettera.
Ed eccola lì, con lo sguardo dritto nel proprio, con il trolley alla mano e un libro nell’altra. Con la salopette di jeans che indossava quando viaggiava, con la pettorina e le bretelle slacciate, che ricadevano sui pantaloni e una camicetta tutta fronzoli a coprirle il torace. Guardandola in viso, notò lo sguardo assente, perso nei propri occhi e poco dopo il suo deglutire forte, in respiro stizzito. Il libro che aveva in man si piegò leggermente nella sua stretta, sottolineando lo sforzo della ragazza nel voltargli le spalle, girandosi verso i binari del treno.
Dopo qualche minuto, la vettura arrivò, frenando e cigolando sulle rotaie ferrose della stazione. Le carrozze passarono di fronte agli occhi di Andrea veloci, rallentando mano a mano, finché il treno non si fermò completamente. Le porte si spalancarono e pian piano tutti i passeggeri scesero dai vagoni, svuotando completamente il treno. Per un momento lanciò uno sguardo nella direzione di Tris, giusto in tempo per vederla farsi strada tra i passeggeri per raggiungere la porta centrale e salire uno o due vagoni più in là del suo. Era sicuro fosse lei. Capelli così ricci e pettinati a quella maniera… poteva averli solo lei. sorrise debolmente, pensando a quanto tutto sarebbe stato diverso al loro ritorno. Anche se non era che un mese di lontananza. Vero. Anche lui stava tornando dalla sua famiglia in Galles, ma la famiglia di Tris non viveva in città e così nemmeno incontrarla per caso sarebbe stato possibile. Bene. A Cardiff mancava la mia aria depressa.
 
Tris era salita sul treno appena le porte si erano aperte, ignorando la folla di persone che cercava di respingerla, scendendo dal vagone. Prese qualche spallata e nel corridoio del treno perse l’equilibrio più volte, cercando di tirarsi dietri il trolley alla ben e meglio. Poi la carrozza si svuotò del tutto e finalmente sedette, aprendo di scatto il libro che stringeva in mano. cercò di leggere, ma le parole sembravano sovrapporsi, sfuggire alla sua visuale in un secondo. Non riusciva a mettere a fuoco e non capì perché, finchè il treno non prese a muoversi e una lacrima cadde sulla pagina che stava cercando di leggere. Con un movimento che fece sussultare la persona che stava per sedersi di fronte a lei, chiuse lo scritto, buttando lo sguardo fuori dal finestrino.
Il pensiero di Andrea non l’aveva mollata per tutti i giorni passati, da quando avevano discusso. Ma vederlo lì, alla stazione, quasi l’aspettasse al binario del treno… era stato davvero devastante. Probabilmente stava tornando a casa per le vacanze di fine semestre, ma di certo non avrebbe pensato di ritrovarselo sullo stesso treno. Se fossimo ancora amici lo avrei saputo… e non avrei preso questo treno… ma poi riflettè meglio e pensò che avrebbe preso quel treno eccome. Gli sarebbe stata vicino fino alla fine del viaggio, come si era prefissata di fare nella sua stessa vita. Era stato un patto mai pronunciato, ma che entrambi sapevano esistere da quando si erano conosciuti. E lei lo stava infrangendo. Entrambi lo avevano infranto. Le aveva fatto male guardarlo negli occhi. Anche quella volta, anche se per pochi secondi. Quello sguardo era difficile da sostenere e forse lui pensava la stessa cosa del proprio. La tristezza di entrambi era visibile, ma nell’espressione di Andrea c’era anche la solita sfacciataggine, quella che gli serviva da nascondiglio, da cancellino per tutte le altre emozioni sbagliate.
Odiava quando lo faceva. Teneva per sé tutto ciò che provava. 

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Capitolo 11
*** 11. Waterloo Bridge ***


Dopo tre ore di viaggio in rettilineo, Tris si era addormentata con l testa appoggiata al finestrino del treno. Poi, il sobbalzo del cambio binario l’aveva svegliata, con un colpo poco gentile del vetro alla tempia. Pian piano aprì gli occhi, corrugando la fronte per il fastidio. Ormai doveva essere ora di pranzo. Chissà se la nonna ha fatto il pasticcio… il pensiero della ragazza era volato di nuovo alla villa di campagna con nient’altro attorno che prati, il profumo della menta piperita che cresceva ai lati del sentiero.. al cielo plumbeo che accompagnava le estati più intense.
Nel frattempo il treno si era fermato ancora. Aveva perso il cartello con il nome della stazione, ma sapeva di essere ancora lontana da casa sua. Dovevano essere in una cittadina, forse anche… a Cardiff.
Tris si sporse dal sedile per guardare fuori dal finestrino opposto alla sua parte di corridoio e cercò freneticamente tra i passeggeri che scendevano una testa dai capelli ricci e arruffati, delle spalle larghe, una tracolla piena di scritte e versi di canzoni.. ed eccolo lì. In mezzo alla fiumana di gente che saliva e scendeva dal treno, Andrea stava fermo, come a fare da spartitraffico, guardando verso la vettura. Poi le porte del treno si chiusero e tutto ricominciò a muoversi di nuovo, lentamente. Tris piantò le unghie nel metallo della cornice lucida del finestrino, la mascella serrata, il cuore che le martellava nel petto, gli occhi ancora sulla figura del ragazzo. Stava per accendersi una sigaretta, ma d’improvviso alzò lo sguardo. Tris non seppe dire se l’aveva fatto apposta o no, ma l’espressione che ritrovò sul viso di Andrea le suggerì che niente di tutto quello che stava accadendo era stato calcolato. Gli occhi del ragazzo incontrarono i suoi per un momento, le mani sollevate, una a proteggere la sigaretta dal vento, l’altra a far scattare l’accendino; tra le labbra una Marlboro rossa. E d’improvviso la sua espressione mutò. Un angolo della bocca si curvò all’insù, delineando il suo solito sorrisetto compiaciuto, l’accendino scattò, accendendo la sigaretta e la mano che non la proteggeva più le rivolse un cenno di saluto quasi alla militare. Dopo di che il treno aveva cominciato a correre sulle rotaie e la stazione era ormai svanita dalla vista sfocata della ragazza. Si spinse via dal finestrino, lasciandosi cadere di nuovo al suo posto, allungando le gambe sul sedile di fronte al suo. Il suo scompartimento era vuoto, fatta eccezione per un gruppo di ragazzi che chiacchieravano tra loro.
Bello spettacolo, Tris. Complimenti. Alcuni di loro, infatti, guardavano nella sua direzione, sorridendo o ammiccando.
***  
Quando Tris riaprì gli occhi, dopo un piccolo sonno, si ritrovò a scattare in piedi come una molla. Il cartello che riportava il nome della sua stazione era apparso davanti ai suoi occhi assonnati già da un po’.
Raccolse le sue cianfrusaglie e sciolse i capelli dalla coda improvvisata per la comodità del viaggio. Prima che se ne accorgesse sul serio, aveva messo piede sulla banchina dalle piastrelle chiare del binario.  
Betws-y-Coed, ripeteva l’incisione sopra l’arco d’uscita della stazione. Sospirò. Finalmente era arrivata.
Alla vista della pietra familiare dell’edificio della stazione sorrise. Era un bel po’ che non ci rimetteva piede. Aveva passato il Natale a Londra, da sua madre, senza potersi godere la neve a Betws-y-Coed e quell’atmosfera terribile e scura tipica del suo inverno. Adesso sentiva il profumo del fiume e l’aria dolce delle cascate di Swallow Falls e il familiare peso di quel luogo, la sacralità dell’abbazia di St. Mary, poco lontana e in fine la brezza leggera che scuoteva le fronde e i rami più alti degli alberi dei boschi circostanti.
I piedi di Tris si mossero da soli, senza che lei stessa lo volesse, quasi, cominciando a camminare sulla strada principale del paese. La casa dov’era cresciuta si trovava poco fuori dal centro della piccola cittadina, appena la strada finiva e cominciavano i sentieri, avrebbe dovuto attraversare il ponte della battaglia di Waterloo, seguire il sentiero del bosco, giungendo alla deliziosa villetta immersa nel verde.  Il trolley la seguiva fedelmente, graffiato  dai sassolini dei primi sentieri e ormai impolverato del selciato. Ma fu tutti più semplice sul ponte di Waterloo. Tris lo percorse fino a metà, appoggiandosi alla balaustra per guardare l’acqua. Un gruppetto di anatre scivolava sull’acqua fluida e verde del fiume, qualche foglia ne colorava il riflesso, riempiendo d’arancione e giallo la riva rocciosa. Un venticello leggero, ma fresco -un rimasuglio della brezza invernale- le scostò i capelli dalle spalle, come una carezza di bentornato, per poi annullarsi come s’era creato.
Tris sospirò. Quanto avrebbe voluto che Andrea potesse ammirare quello spettacolo di colori con lei… glie lo aveva promesso qualche mese prima. Gli aveva promesso di portarlo con sé per mostrargli quei luoghi di cui lei parlava sempre con ardore. Gli aveva promesso di insegnargli ad andare a cavallo, di guidarlo nei boschi per vedere le Swallow Falls..
Sarebbero rimasti in silenzio ad ascoltare tutto quello che le rocce avevano da raccontare, che l’acqua cantava a squarcia gola alle cascate. Avrebbero camminato fino all’abbazia per ammirarne l’aspetto solido e sacro. Si sarebbero stesi sull’erba del giardino, a guardare le nuvole che correvano veloci… a raccontarsi stupidate o qualcosa di importante… e invece sul ponte di Waterloo c’era solo lei. 

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Capitolo 12
*** 12. Passione per i jeans ***


La metrò di Cardiff correva sotto la città veloce come il vento, permettendo ad Andrea di intravedere soltanto i manifesti dell’underground spiaccicati sulle pareti. La metrò correva, quasi alla velocità dei suoi pensieri. Era tutto un miscuglio, tra la musica che gli batteva sui timpani ad un volume pazzesco e tutto quello che gli girava per la testa. Aveva impresso nella mente lo sguardo sconvolto di Tris al finestrino del treno. Lui era sceso dal treno di fretta, non era stato ben attento e si era accorto troppo tardi di essere arrivato. Così aveva preso i bagagli di forza e s era trascinato giù. Una volta con i piedi a terra, aveva realizzato di aver mancato Tris. Non l’aveva salutata, non l’aveva nemmeno cercata, a dire il vero. Non l’avrebbe rivista per quattro settimane, eppure non aveva mosso un dito per salutarla.
Il fatto di aver avuto fretta era tutta una scusa. Andrea sapeva perfettamente qual era il motivo vero per cui non era andato da lei. sarebbe stato tutto molto più difficile se avesse attraversato mezzo treno per lei. sarebbe stato tutto più complicato se le avesse lasciato capire che gli importava. Così era sceso dal treno e poi l’aveva cercata a un finestrino, sperando impotentemente di poter vedere quegli occhi ancora una volta. E così era stato. L’aveva vista, non appena il capotreno stava serrando le porte e la vettura cominciava a pensare di muoversi. Si era alzata in piedi di scatto, accorrendo al finestrino, per stare più verso di lui. Gli occhi spalancati, increduli, come sorpresi di qualcosa. E sì, forse era sorpresa quanto lui. era strano, infatti, che un ragazzo, sceso dal treno, si fermasse in mezzo alla banchina rivolto verso il treno, per accendersi una sigaretta. Ma poi Andrea ci pensò. No.. non è strano per niente.
La vibrazione del telefono, distolse il ragazzo da tutta quella marmaglia di pensieri e risposte, facendolo concentrare sullo schermo colorato del suo I Phon.
“brutto stronzo che non sei altro. Se tua madre non diceva alla mia che saresti tornato, ad oggi non lo saprei ancora. Vengo a prenderti alla metro. E non azzardarti a fare storie. Stasera andiamo a bere.
Bekka.” 
Andrea sorrise intanto che scendeva dalla metro e saliva le scale. Una volta sul marciapiede, venne investito da qualcuno che gli saltò praticamente in braccio.
“sei davvero incredibile, tu! Un bastardo. Il mio bastardo preferito” Bekka lo salutò, con le parole che si confondevano nell’incavo del collo del ragazzo. Andrea la strinse a sé, con i bagagli che lo tiravano giù, ma con la sensazione di essere tornato a casa davvero.
“che accoglienza! Sei rimasta la solita impicciona, vero?”
 
***
 
Quando Tris arrivò alla villetta, mancavano pochi minuti alle due del pomeriggio e un sole pallido, ma abbastanza caldo, allungava i suoi raggi fino alle pietre di quella stradicciola, passando attraverso i rami degli alberi che circondavano la casa. La ragazza rimase un po’ indietro, guardando se qualcuno la aspettava. Non c’era nessuno sulla porta, eccetto suo nonno, che sotto il portico stava sulla sedia a dondolo a fumare la pipa di legno scuro in tutta tranquillità. Sollevando il trolley da terra, Tris si avvicinò ancora un po’ alla casa, sempre di soppiatto, non volendo che qualcuno s’accorgesse di lei. Ma Shakespeare, seduto composto accanto alla sedia sotto al portico, sembrava aver sentito i suoi passi sul sentiero. Infatti partì in corsa verso di lei, frenando a poco meno di un metro dalla ragazza, per poi tirarla per i pantaloni della salopette, trascinandola fuori dal suo nascondiglio.
“Shakespeare!” protestò Tris, costretta dal cane a raggiungere il portico della villetta.
“Beatrice!” esclamò il signore anziano, alzandosi dalla sedia con molta più agilità di quella di cui si riteneva capace. “sei arrivata, finalmente!”
“nonno!!!” e la ragazza si fiondò tra le braccia dell’uomo, stringendolo forte, respirando forte l’odore di tabacco dalla sua camicia a quadri.
“la nonna ti ha preparato il pasticcio! E sarà bene entrare, io sto morendo di fame!” Richard Fairfox aprì la porta di casa proprio nel momento in cui sua moglie Emily faceva lo stesso dall’interno, ritrovandosi con l’uscio spalancato quasi sul naso. Per un momento di sbalordimento guardò i due sul portico con gli occhi spalancati, ma poi piegò le labbra in un gran sorriso, protendendo le bracci averso Tris.
“Beatrice, tesoro!” e la ragazza si ritrovò nel cerchio strettissimo delle braccia della nonna, con il grembiule allacciato fino al collo e il suo solito profumo al mughetto che le solleticava il naso.
“nonna.. come sono contenta di vederti!!” Tris non si era resa conto di quanto i suoi nonni le fossero mancati. E di quanto quella casa le era mancata e di quanto…
“Tris.” La voce di suo padre echeggiò attraverso al corridoio, arrivando svelta alle orecchie della ragazza, che si staccò dall’abbraccio della nonna, rimanendo ferma di fronte alla figura di Albert. L’espressione era quella di quando lei era partita, il primo giorno di scuola. Seria, decisa, dispiaciuta, ma orgogliosa. Ma adesso un sorriso gli increspava gli angoli delle labbra, distendendo quei lineamenti duri tipici del Galles. I capelli neri cominciavano a riportare riflessi argentati, ma gli occhi verdi rimanevano sempre lucenti e giovani. Suo padre era un bell’uomo. Questo l’aveva sempre pensato. Ed era felice di come l’aveva sempre visto. Era la persona di cui si poteva fidare. Quella che non l’avrebbe mai lasciata. Anche se con tutti i difetti del mondo. Era serio, diligente, ordinato… faceva un po’ paura in realtà, specie agli amici di Tris, ma con lei era tutta un’altra cosa. Ridevano spesso insieme. Andavano a cavallo, parlavano come parlano i migliori amici… e lei trovava sempre saggezza nelle parole di Albert. Come nelle parole di suo nonno, a dir la verità.
Sorridendo azzerò la distanza tra loro, buttando le braccia al collo del padre e stringendo anche lui fortemente a sé.
“ci hai fatto aspettare… stiamo tutti morendo di fame qui dentro! Il profumo del pasticcio ci tenta da mezzogiorno!” Tris rise, scuotendo la testa.
“mi dispiace.. mi sono fermata…a Waterloo Bridge. Non avrei dovuto farvi aspettare tanto”
“Waterloo Bridge, eh?” Richard annuì, portandosi la pipa alla bocca in modo pensieroso. Aggrottò la fronte e poi alzò lo sguardo verso di lei.
“beh, vogliamo metterci a tavola?” Emily sembrava aver colto l’osservazione di Richard, ma non voleva aspettare oltre. Il pranzo era servito.

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Capitolo 13
*** No. Nemmeno se avessi mosso l’inferno ***


Andrea e Bekka  si erano allontanati dalla metro, camminando fino in centro di buon passo. Andrea metteva un piede davanti all’altro, nella sua andatura calma e fluida, mentre Bekka camminava all’indietro, quasi di fronte al ragazzo, che sotto sotto ridacchiava e pensava a quanto dovesse risultare ridicola ai passanti questa cosa. In realtà non era ridicola. Semplicemente stravagante. Come Bekka. E la gente guardava, come sempre era stato, dalla loro parte. Alcuni ridevano, alcuni la fissavano straniti, altri ancora le lanciavano sguardi di disapprovazione, ma a lei non importava. Sentiva gli sguardi su di sé, Andrea lo sapeva, ma semplicemente non ci faceva caso.
“non mi hai avvisato nemmeno stavolta… sai, credevo mi avresti mandato a quel paese quando mi avessi vista ad aspettarti…” la ragazza parlava con le mani in tasca, sempre avanzando di spalle alla strada. Adesso teneva lo sguardo sulle sue Converse nere di tela, probabilmente celando imbarazzo.
Andrea sorrise ancora, poi le rispose.
“non stavolta… no.” Disse, scuotendo la testa lentamente. Bekka strinse gli occhi, studiando il suo atteggiamento. Qualcosa che non andava c’era. Come sempre da che si conoscevano, ma.. stavolta c’era altro, oltre al suo solito essere malinconico.
Quello a cui pensava in quell’istante però era che le era mancata quell’espressione pensierosa.
Le erano mancati i suoi occhi opachi e brillanti allo stesso tempo. Le era mancato potersi voltare e trovarlo lì, semplicemente accanto a lei. Non gli aveva mai detto quanto fosse stato difficile senza di lui, ma poco importava. Sapeva perfettamente che Andrea aveva bisogno di stare lontano da Cardiff il più possibile.
Il punto era che gli anni al college diventavano sempre più difficili e lei non aveva ancora trovato qualcun altro che potesse colmare il vuoto che sentiva dentro. Qualcuno che sapesse sedere al banco accanto a lei come faceva lui, che avesse un posto speciale in lei, come ce lo aveva lui. Nonostante tutto questo, Bekka lo aveva lasciato fare, sapendo benissimo che niente avrebbe cancellato il dolore che provava.
E lui era partito per Londra un pomeriggio di fine estate, con tanto di valigione strapieno e di zaino, salendo sulla metro così carico e sparendo per parecchio tempo.
A Natale e per le vacanze dalla scuola tornava a casa, ma per pochi giorni, solo per la visita di rito. E Bekka lo veniva a sapere sempre troppo tardi, tanto che capitava non s’incrociassero, nonostante i pochi metri che separavano le due case.
A volte invece lo vedeva sedersi sugli scalini d’entrata, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e la testa tra le mani. Allora apriva la finestra e stava in ascolto. Lo sentiva respirare forte, come se non stesse riuscendo a recuperare il controllo di sé e, in sottofondo, echeggiavano le urla dei suoi genitori. In certe occasioni trovava il coraggio di uscire, con la giacca di pelle sopra al pigiama, sedendosi accanto ad Andrea e rimanendo in silenzio, solo per fargli capire che lei c’era. Che ci sarebbe sempre stata.
Certe volte la mandava via, dicendo di voler restare solo, altre volte invece, la lasciava fare.
“e comunque non me ne sarei andata lo stesso, stavolta!” annunciò Bekka, con una linguaccia per sottolineare la sua decisione.
“ah no? Nemmeno se t’avessi urlato contro o avessi sbraitato in mezzo alla strada?” chiese Andrea, puntando i piedi sull’asfalto. Ma Bekka non indietreggiò. Rimase dov’era, ancorando le suole delle scarpe all’asfalto nero.
“no. Nemmeno se avessi mosso l’inferno.”
 
***
 
Il tavolo da pranzo era apparecchiato in modo impeccabile, come Emily desiderava, con dei fiori in un cestino che facevano da centro tavola. Tris sorrise nel vedere il vassoio con il pasticcio in caldo, i bicchieri pieni d’acqua e quella tovaglia bianca e blu carta zucchero che aveva almeno una trentina d’anni. Ricordava bene come da piccola non riuscisse a stenderla al primo colpo sul tavolo, cosa che invece, a nonna Emily, riusciva benissimo. Ricordava di aver messo il broncio, qualche volta, mentre guardava la donna apparecchiare e cercando di imitarla le volte successive, ma senza molto successo. Eppure non poteva che sorridere a quel ricordo, sorridere al rivedersi alta un pochino più del tavolo, con Shakespeare che le arrivava quasi alle spalle.
“Tris, tesoro..- Emily sembrava sorpresa- il pasticcio non ti piace?” solo in quel momento la ragazza si rese conto di essere rimasta immobile, con la forchetta a mezz’aria, a fissare i fiori.
“oh, no! Il pasticcio è grandioso, nonna!” disse in fretta e, senza farselo ripetere due volte, fece sparire la carne dalla forchetta e… dal piatto.
“Emily, credo che tua nipote abbia gradito il tuo pasticcio di carne.” Richard sorrise un po’, arricciando i baffi ordinati e guardando con affetto la ragazza dall’altro capo del tavolo.
“lo credo bene” la donna sorrise orgogliosa di fronte al piatto quasi pulito della ragazza.
Ma Albert guardava la figlia con gli occhi stretti, uno sguardo che le lanciava spesso, quando credeva di aver intercettato un guaio o… qualcosa di sbagliato nella figlia. D’un tratto infatti, Beatrice aveva smesso di sorridere alla nonna, fissando un punto fuori dalla finestra con tale intensità da spaccare il vetro.
L’uomo continuò ad osservarla, finché la ragazza non si alzò, scostando la sedia dal tavolo apparecchiato.
“scusate… nonna, il pranzo era… davvero ottimo.. nonno..” Richard fece l’occhiolino alla nipote, che confusa indietreggiò verso la porta della cucina, sostando ancora un attimo, per ricambiare lo sguardo che, sapeva, suo padre le stava rivolgendo.
“la cenere è sempre nel caminetto”
 
 
Tris si voltò in fretta, percorrendo il corridoio correndo, colpendo la porta di servizio con una spalla per aprirla. e corse ancora più veloce, una volta fuori dalla casa, attraversando metà del prato verde per raggiungere le scuderie. Una volta davanti alla porta della selleria, si fermò, ansante, abbassando la maniglia per aprirla. Era tutto come se lo ricordava, finimenti e selle appesi a ganci e strutture al muro di fronte a lei, gli armadietti sulla sinistra e il terzo… il terzo- l’unico pieno di scritte- rimaneva lucido come sempre, chiuso dal lucchetto laccato di verde che lei stessa aveva dipinto. A passo deciso, si fermò di fronte all’armadietto, cercando le chiavi altrettanto verdi in tasca, dove le portava sempre e dovunque andasse, nonostante quel dannato armadietto restasse a centinaia di chilometri da lei durante l’anno scolastico.
Aprì il lucchetto con uno scatto del polso, per poi dare un piccolo schiaffo alla parte alta dell’anta, perché finalmente quella trappola potesse aprirsi. Dentro c’era tutto come lo aveva lasciato. Due paia di stivali, uno per la monta inglese e uno per la monta americana, di cui uno, con la suola rivolta verso l’alto. Perché tanta fretta?  Aveva pensato nel vedere il paio disallineato di fronte a lei. ma senza starci troppo a pensare, aveva afferrato proprio quel paio di stivali, infilandoseli ai piedi in fretta e furia. Poi aveva richiuso l’anta e il lucchetto, recuperando la sua sella e l’imboccatura all’americana e, tenendo tutto su un braccio, era uscita dalla selleria, dirigendosi alle scuderie vere e proprie.
 
Appena entrò si accorse delle risistemazioni di cui suo padre le aveva parlato tanto. I box erano di un bellissimo legno lucido, molto più ampi di prima e le finestre facevano entrare molta più luce, illuminando i manti perfettamente lucidi dei cavalli. Tris sorrise, camminando veloce verso il box più vicino all’uscita che dava sul prato e, come sempre, da quando aveva 9 anni, quel magnifico animale se ne stava in piedi, con le orecchie dritte verso di lei, lo sguardo fiero e la criniera liscia che gli ricadeva sul collo in magnifici crini bianchi. Tris inchiodò. Alzò il mento, fischiando quattro note soltanto. La testa di Ashes uscì dalla finestrella del box e il collo si allungò, mentre un lungo nitrito fece schiudere la bocca al quadrupede, accompagnato da uno scalpiccio di zoccoli frementi. Allora la ragazza coprì la distanza che li separava, aprendo la porta del box e buttando le braccia al collo dell’animale. Il suo pelo era morbido come lo ricordava, e il suo respiro, caldo e umido sulla sua nuca.
“tu non hai idea di quanto mi sei mancato, Ashes!” esclamò la ragazza, accarezzando il muso del cavallo sul punto più morbido, il naso.  Ma Ashes invece sembrava averne una vaga idea, perché alzò prima una zampa e poi l’altra, come Tris gli aveva insegnato tempo prima, accompagnando il movimento con la testa, come se annuisse.
“A quanto pare… anche tu gli sei mancata” una voce maschile interruppe il tenero scambio di saluti tra la ragazza e il suo destriero, insinuandosi nei timpani di entrambi in modo caldo e sicuro, ma rispettoso, come a chidere il permesso. Tris si voltò, cercando il corridoio della scuderia con lo sguardo. Appoggiato al muro con una spalla, un piede incrociato all’altro e un secchio pieno d’acqua ai piedi, c’era un ragazzo dai capelli di un biondo scuro, tagliati corti.
Tris sorrise un po’, annuendo, mentre continuava ad accarezzare il muso dell’animale. Ma tornò seria quasi subito e, lanciandogli un’ultima occhiata, si voltò, cominciando a sellare Ashes.
Il ragazzo aggrottò la fronte, inclinando un po’ la testa per osservarla. Poi prese il secchio, dirigendosi verso di lei. Appoggiato il secchio al di fuori del box di Ashes, sgusciò al fianco dell’animale, sistemando il sottopancia da un lato, porgendolo alla ragazza sul lato sinistro. Passarono alcuni secondi prima che Tris si decidesse a prenderlo e ad agganciarlo.  Sospirò e il ragazzo fece un mezzo sorriso, raccogliendo la testiera dal gancio e tenendola sospesa con il proprio dito, così che la ragazza potesse averla a portata di mano. quando Tris si voltò verso di lui, aveva uno sguardo interrogativo, si chiedeva il motivo per il quale Mr X avesse tutto quel riguardo verso di lei, ma-soprattutto- andava domandandosi chi diavolo fosse. Non lo aveva mai visto negli ultimi mesi in cui era stata a casa… anche se in effetti non tornava a Betws-y-Coed dall’inizio della scuola.
In ogni caso ringraziò con un cenno della testa, finendo di allacciare il sottogola al cavallo. Appena la vide muovere un passo, il ragazzo uscì dal box prendendo il secchio dal manico e facendo la stessa strada di Tris, arrivando fino alla staccionata, fuori dalle scuderie. Il ragazzo svuotò il secchio nel prato di fronte a loro, per poi dirigersi verso un minivan pieno di sacchi dall’aria pesante, cominciando a scaricarli e a fare avanti indietro dal fienile. Ciò che stupì la ragazza- oltre al fatto di essersi persa l’assunzione di un così bel ragazzo come aiuto scuderia-era lo sguardo che gli riservava ogni volta che tornava a prendere un sacco dal minivan. Allora, incuriosita, glielo restituì, mentre metteva il piede sinistro nella staffa e, con una spinta, si accomodava  in sella.  L’espressione sul viso del ragazzo si fece più seria, mentre sollevava un sacco di quello che sembrava mangime e, infatti, rimase lì, fermo, con il sacco posto sugli avambracci e gli occhi fissi in quelli di Tris. La ragazza soppesò quello sguardo con attenzione. non sapeva dire se accennasse a stupore o a curiosità. Sentiva e sapeva soltanto che la stava osservando, con tanto di serietà. Per qualche ragione il peso di quello sguardo la attraversò come una scarica di adrenalina, inducendola a schiudere le labbra in un gesto di sorpresa e ficcare il tacco dello stivale nel fianco di Ashes, facendolo voltare verso il verde in un trotto sostenuto.
***
 
E lui invece se ne stava lì, senza poterla seguire, con quei dannati sacchi di mangime che pesavano tra le braccia. Avrebbe voluto montare a cavallo e correrle dietro, raggiungerla e avere le risposte che cercava. La guardò da dietro, la schiena dritta, in sella, le spalle rilassate, le redini in una mano e l’altra che correva alla coda in cui erano legati i capelli, sciogliendoli. E non se lo aspettava, ma una massa di ricci le ricadde sulle spalle, continuamente mossa dal ritmo del trotto. E, come se si fosse liberata di un peso, di una cosa che la rendeva più leggera in sella, diede ancora di gambe e il cavallo partì in un galoppo dapprima controllato, che si trasformò, in progressione, in una corsa sfrenata di Ashes fino al centro del pratone che arrivava al limitare del bosco. Lì, Tris tirò le redini, facendo voltare il cavallo quasi su sé stesso, tornando indietro in quello stesso galoppo impazzito. Il ragazzo era ancora lì, a guardare quello spettacolo, a guardare i capelli di Tris che svolazzavano al vento, o le coprivano in volto ad una frenata brusca o ad una svolta. Pensò che fosse la cosa più eccitante del mondo guardare quei due correre, un qualcosa che sarebbe rimasto a guardare per tutta la vita.
“Alex! Alex, che ci fai lì impalato?!” il vecchio signor Fairfox stava chiamando il ragazzo a gran voce e Shakespeare gli camminava a fianco, con quell’aria fedele e attenta che aveva sempre. E Alex dovette distogliere lo sguardo dal vento nei capelli di Tris per rispondere all’uomo dei 25 sacchi che non aveva ancora scaricato

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Capitolo 14
*** Swallow Falls ***


Ashes continuava un galoppo pericolosamente veloce, senza fermarsi mai in quella distesa verde d’erba alta e fresca. I capelli le battevano sulle spalle al ritmo del galoppo e i muscoli delle gambe le bruciavano, mentre stringeva i polpacci. Una mano teneva le redini, seguendo il movimento del collo del cavallo che s’allungava per correre più veloce, l’altra era libera, sospesa in aria, il gomito leggermente piegato perché non toccasse la sella. Adorava sentire l’aria che le sferzava il viso, senza l’odore pesante di città, ma con solo la fresca aria dei prati gallesi che si infilava tra i suoi capelli, e le impregnava i vestiti. Arrivata al limitare del bosco, per la trecentesima volta, non si fermò. Fece breccia tra i rami, con Ashes che pestava le frasche e la terra più umida, infilandosi nel sentiero del bosco con attenzione. Al passo prese la via principale, per poi svoltare in un passaggio stretto, una delle tante parallele che portavano al centro del bosco, alle Swallow Falls. Gli alberi portavano ombra e coprivano il sole, mandando riflessi verdi di foglie e lasciando entrare stretti raggi di luce nei punti in cui le foglie erano più rade. Tris viaggiava con la testa reclinata all’indietro, guardando il tetto di foglie sopra di loro, godendosi i tratti in cui il sole le scaldava il viso. Ashes sapeva dove andare, lei si fidava della sua memoria. Avevano fatto quella strada così tante volte che avrebbero potuto farla entrambi ad occhi chiusi. Dopo un buon quarto d’ora il suono delle cascate risuonava abbastanza vicino a loro da segnalare il loro arrivo, ma Tris tirò le redini appena cominciò a scorgere l’acqua che sgorgava dalla roccia più grande e scendeva di violenza sulle altre pietre, scalfendone i blocchi col tempo. Erano passati mesi e mesi dall’ultima volta che era stata alle cascate di Swallow, ma le rocce e l’acqua non avevano smesso di scontrarsi, di incrociarsi e separarsi, di creare immagini da favola al centro di quel piccolo bosco. Anche senza di lei l’acqua continuava a scorrere. Anche senza di lei le rocce prendevano forme diverse e diventavano lisce, i sassi su cui Tris avrebbe ancora una volta messo i piedi, i sassi su cui Ashes scivolava di tanto in tanto, preferendo bagnarsi le gambe piuttosto di non aver presa sul terreno. E come sempre, questo spettacolo era per loro due soli, per gli inseparabili pensatori del bosco.
D’improvviso Tris pensò che non voleva più restare lì. Invece che darle conforto, le cascate le davano un senso di vuoto nel petto che non capiva. Una vertigine, il senso della mancanza della terra sotto i piedi. E così volse il cavallo con le spalle alle cascate, tornando sul sentiero che aveva lasciato. Diede gambe e Ashes ricominciò a galoppare, veloce, come sempre, ritrovandosi presto sulla strada più larga che conduceva al suo prato. Ed eccoli, che correvano veloci, fino al punto in cui gli alberi non coprivano più la strada, nel punto in cui il cielo ricominciava a vedersi e ora, in quella corsa pazza, saltavano dal terreno rialzato del bosco, atterrando nell’erbe alta e verde di quel prato così gallese, così fresco. E fu come ritornare a respirare, come se non si fosse accorta di avere i polmoni pieni di anidride carbonica, il peso che le schiacciava il petto così forte. E galoppava ancora, dirigendosi verso le scuderie, senza pensare a cosa faceva, la mente completamente vuota, un foglio bianco. E continuò, finchè l’emozione non prese il colore di due occhi dorati, il tocco di due mani forti e il suono roco di una voce. E qui, proprio in quel momento, inchiodò. Tris tirò le redini così forte che Ashes fu costretto quasi a sedersi, per frenare così bruscamente. Il rumore degli zoccoli sulla ghiaia si sentì forte e chiaro nel raggio di parecchi metri e la polvere alzata sembrava nebbia, da quant’era.  E fu in quella nebbia che Albert scorse la figlia al passo sul suo cavallo, con la testa bassa e i capelli spettinati, le mani molli, una abbandonata sulla coscia, l’altra a tenere a stento le redini.
 
***
 
No. Nemmeno se avessi mosso l’inferno.
La determinazione nella frase di Bekka, il modo in cui l’aveva pronunciata, di fronte a lui, guardandolo negli occhi, aveva stupito Andrea. Il ragazzo rimaneva lì, a fissarla, praticamente in mezzo al marciapiedi, consapevole dei passanti che cercavano di evitarli, evidentemente scocciati.  Ma poi sorrise, prendendo il pacchetto  di sigarette dalla tasca, tenendone una tra i denti e accendendola in un fluido movimento della mano.
“vuoi?” chiese alla ragazza che lo guardava ancora, con la stessa decisione di poco prima.
“perché no..” esalò dopo un respiro profondo, accettando l’ennesima Marlboro da quel cretino. Riusciva sempre a farti sentire una stupida. A cambiare le carte in tavola da un momento all’altro. A far finta che parole non fossero mai state pronunciate, che fatti non fossero mai accaduti. Chiudeva tutto in un punto del suo cervello e faceva sì che niente scappasse da quella gabbia di sinapsi. La mano di Andrea scivolò veloce sotto il mento di Bekka, accedendole la sigaretta, mentre lei aspirava.  La ragazza alzò lo sguardo negli occhi del ragazzo, trovandoli in quell’espressione che dicevano facesse impazzire le ragazze… una via di mezzo tra lo stretto e il sorridente, un nascondiglio di malizia e scherno. Uno sguardo che l’aveva sempre fatta arrabbiare. Dio. Possibile che non sia capace di restare serio, per una volta?
E Bekka si voltò, camminando dritta, non più di spalle, affiancando Andrea. Il ragazzo rimase a fissarla un attimo, per poi stare al suo passo, continuando a fumare la sua sigaretta.
“e adesso cos’hai?” chiese con la sua solita voce scocciata. La ragazza voltò la testa verso di lui, levò qualunque tipo di espressione dal suo sguardo, mantenendo solo una sottospecie di divertimento.
“che vuoi che abbia?” chiese in risposta, continuando a camminare. E Andrea sapeva benissimo che era colpa sua se aveva cambiato espressione, se aveva cambiato modo di rivolgersi a lui, di camminare e di stare composta. Le spalle erano più rigide, la mano che non reggeva la sigaretta stava nascosta nella tasca dei jeans.
Ci riusciva sempre. Ci riusciva sempre a farle rimpiangere di aver pensato a lui. Bekka voleva solo restare con lui, come facevano prima che andasse a Londra e aveva ritagliato del tempo che stava dedicando a lui, solo a lui. E Andrea si sentì la persona più stupida del mondo. Stava respingendo la persona che probabilmente lo capiva di più al mondo… quella con cui era cresciuto. Ma, a pensarci bene, lo aveva già fatto. Una volta a Londra aveva voluto dimenticare ogni singola cosa che lo legasse a Cardiff, ogni persona, ogni riferimento… ma non aveva potuto farlo realmente. Bekka era nelle e-mail che aveva promesso di non scrivergli, nell’anello a forma di teschio che avevano comprato entrambi in un negozio del centro e nelle classi di storia, la sua materia preferita. Non ci riusciva. Fingeva di dimenticare cose, persone, oggetti.. ma non ci riusciva. Nonostante mostrasse un cuore di pietra, una maschera di sarcasmo a proteggerlo dalla verità di sentimenti e paure.
E in mezzo a questa cortina di pensieri, sentì Bekka afferrargli una spalla, per fermarlo.
“ma dove diavolo vai?” chiese la ragazza con stupore. Andrea si guardò attorno, capendo immediatamente l’errore. Aveva mancato casa sua. Immerso in quella nebbia di riflessioni non  si era accorto di esser finito praticamente nel giardino della signora Maple. 

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Capitolo 15
*** 15. solo Alex? ***


“in un posto dove non voglio tornare. Ecco dove sto andando.” Andrea sputò quelle parole con rabbia, come se fosse colpa di Bekka se casa sua era diventata un posto in cui odiava stare. In effetti, l’unica cosa positiva di quella casa era la soffitta. L’ultimo piano della casa era diventato ormai il regno del ragazzo. C’era salito da piccolo, in un giorno di pioggia, dopo che sua madre lo aveva sgridato per l’ennesima volta. C’era salito correndo per le scale, rischiando di farsi male, come sempre ed era arrivato in quel posto impolverato, casa di ragni secchi e cianfrusaglie confinate lì come condannati in esilio. Aveva avuto un po’ di paura ad entrare in quella stanza buia, dove il pavimento scricchiolava e sembrava che le ombre muovessero verso di lui. Ma era il posto che lo nascondeva meglio. Il posto in cui nessuno lo avrebbe sentito piangere, il posto in cui le urla non sarebbero giunte ai suoi timpani. E così aveva preso a passarci sempre più tempo, cominciando a ripulire pavimento e soffitto da polvere e ragnatele, scartando tutto ciò che era stato mandato lì a marcire, ordinando fotografie e piccoli ricordi dentro ai vecchi bauli della nonna. Così, quando tornava a casa per le vacanze di fine trimestre, continuava in quel lavoro, rendendo quella soffitta sporca e dimenticata da tutti, un posto familiare, accogliente. Si. Perché casa sua non era né accogliente né familiare. Conosceva la casa come le sue tasche, ma non sentiva di appartenervi. Non lo sentiva come casa. Solo… solo come un posto dove doveva farsi trovare per qualche giorno all’anno dai genitori. Non c’era niente dell’amore e del calore che dovevano trasudare dalle pareti di una casa. Niente di bello da ricordare che fosse legato a quelle quattro mura. Solo incubi. Urla. Rimproveri e delusioni. E Andrea, in un posto del genere, non ci poteva stare. Così aveva almeno creato uno spazio in cui passare del tempo in quei maledettissimi due giorni che doveva passare con i suoi ad ogni vacanza.
E Bekka lo sapeva. Sapeva di quella soffitta piena dei disegni del ragazzo. Sapeva delle miriadi di dischi e libri impilati qua e là sul pavimento. Sapeva della decina di cuscini e del tappeto che aveva ripulito e steso su quel vecchio pavimento per non farlo scricchiolare. Il punto però era che… lei non ci era mai salita in quella soffitta. Andrea non ce l’aveva mai invitata. E lei non gli aveva mai chiesto nulla, nonostante avesse una voglia matta di vedere con i suoi occhi tutto quello che aveva immaginato. Niente fantasticherie. Solo la voglia di conoscere di più quel ragazzo dallo sguardo perso.
Bekka si limitò a guardarlo negli occhi per qualche istante, con un piccolo sorriso ad incresparle le labbra.
“nella vita ci saranno sempre posti in cui non vogliamo ritornare.- Andrea continuò a fissarla negli occhi, impassibile. Anzi. Forse era un qualcosa di peggio che impassibile. Era…indifferente. –saranno posti reali. Oppure saranno posti che hanno il nome di una persona. O ancora, posti che significheranno sensazioni e sentimenti che non vorremmo mai riprovare in vita nostra. Però.. però è una cosa inevitabile.” E la ragazza allargò le braccia, con un’espressione di rassegnazione in volto. “e l’unica cosa che possiamo fare è affrontarlo. Accettare che è così e muoverci. Seguire il nostro pattern impedendo alla paura di frenarci. O almeno provarci.” E detto questo, Bekka ficcò le mani nelle tasche della giacca di pelle, voltando le spalle al ragazzo, cominciando a camminare sul marciapiede, nella direzione opposta alla sua.
 
***   
 
 
Alex non sapeva nemmeno perché avesse pensato alla figlia di Albert Fairfox come ad una pellicola che avrebbe guardato e riguardato fino allo sfinimento.
Non la conosceva nemmeno. Non sapeva nulla di cos’era nascosto sotto quella marea di ricci. Sapeva solo che gli era piaciuto il modo in cui si era posta. Quello sguardo fiero, la fluidità e l’armonia con cui aveva mosso il suo corpo e l’impazienza di sentire il vento nei capelli una volta in sella.
Non aveva potuto fare a meno di guardarla. Era come se i suoi occhi fossero metallo attirato da una calamita. C’era qualcosa in lei che lo aveva spiazzato, ma non aveva ancora capito cosa fosse, quando sentì i passi lenti del cavallo avvicinarsi alle scuderie.
E fu come stare a guardare un guerriero stanco tornare da una battaglia persa. Forse non sapeva nemmeno come poteva stare in sella, le ferite sembravano profonde e la testa ricadeva pesante verso il collo del cavallo. Arrivata all’entrata della scuderia, Tris smontò dal suo impavido destriero, trascinandolo con sé all’ombra della tettoia. Fece scivolare via la sella dalla schiena dell’animale, appoggiandola sullo steccato e si diresse con Ashes ai paddock, lasciando libero il quadrupede in quel meraviglioso prato recintato.
Rimase lì, con le briglie in spalla, a guardare con occhi brillanti il galoppo sfrenato di quella magnifica creatura, le sgroppate e il senso di libertà che sprigionava da quelle corse impazzite. Poi però voltò le spalle alla staccionata, tornando in scuderia con tutto l’armamentario. Lo sguardo era sempre basso e Alex quasi non si rese conto del paio di stivali piantato di fronte a lei nel corridoio.
Il ragazzo la vide fermarsi d fronte a lui, senza che alzasse lo sguardo sul suo viso. Avrebbe voluto dire qualcosa, chiederle perché il fuoco che aveva dentro si era spento così all’improvviso. E invece restò in silenzio, passando le mani sotto la sella che la ragazza teneva sulle braccia. Tris lasciò la presa sui finimenti dopo qualche secondo, come riscuotendosi da un’ipnosi.
“io.. –cominciò come se non sapesse cosa le stesse accadendo, come se si fosse accorta solo in quel momento di non essere sola- grazie.” Finì buttando di nuovo lo sguardo sul pavimento della scuderia. Alex aggrottò la fronte, ma poi distese il viso, cominciando a camminare verso la selleria.  
Tris esitò, ma poi lo seguì, entrando anche lei in quella piccola stanza popolata da finimenti, armadietti e mensole piene di prodotti di scuderia. Rimase appoggiata alla porta con la schiena, incrociando le braccia sul petto. Osservò il ragazzo lavorare, rimettere la sella al suo posto e passare sulla pelle e sul cuoio lo straccio imbevuto di grasso. Ci dava dentro, strofinando con energia la seduta e i quarti della sella.
Alex si sentiva come osservato e si voltò, con lo straccio in una mano e il grasso nell’altra.
E la vide lì, a braccia conserte, con un piede sull’altro, che lo guardava.
“non mi hai ancora detto come ti chiami…” spiegò Tris, allargando le braccia, come se fosse ovvio che lo avesse seguito per quella ragione. Alex rimase spiazzato per qualche secondo, ma poi si ritrovò a sorridere, rispondendole piano.
“Alex.. mi chiamo Alex” disse e poi si voltò, come per tronare a lavorare.
Tris però sembrò non accontentarsi della risposta, perché fece qualche passo avanti, incastrò il suo corpo nello spazio tra una sella e un’altra, issandosi su una di quelle all’inglese con le braccia.
“solo Alex?” chiese piegando un po’ la testa di lato. Il ragazzo la guardò di nuovo, ma non vide quasi nulla nell’espressione di Tris, era uno spazio bianco. Come una tela che aspettava di essere dipinta.
“solo Tris?” chiese di rimando e gli angoli della bocca di lei fremettero, come forzati dal riso.
“ok, uno a zero per te..” mormorò, distogliendo per un attimo lo sguardo dal viso del ragazzo. Ma poi, inaspettatamente per Alex, la voce di Tris riempì di nuovo la stanza. “Beatrice. Pronunciato come se alla fine ci fosse una S, alla francese, ecco perché Tris in diminutivo.”
E ‘Beatris’ alzò le spalle, come ad aver detto qualcosa di stupido, banale. Il ragazzo a quel punto ripose grasso e straccio su una mensola, per poi starle di fronte, appoggiato con una spalla al muro.
“Alexander. Dalle prime quattro lettere il diminutivo” non c’era nulla di grandioso in quelle parole, pensò Tris, (certo, fatta eccezione per il suo nome per intero.) ma la ragazza si sentì quasi stupita nel contare le quattro semplici lettere del suo nome e ricavarne di nuovo Alex. Era stupido. Molto stupido e francamente non capiva come una cosa del genere potesse interessarle. Ma lo aveva appena fatto e le piaceva come suonava nella sua testa.
La ragazza scivolò piano giù dalla sella, senza dire più nulla. Alex si scostò appena, in modo da non ritrovarsela in braccio una volta con i piedi per terra e la guardò mentre raggiungeva il suo armadietto.
 
“verde?” Tris sentì quella domanda composta da un’unica parola e si immobilizzò. Aveva aperto l’armadietto e si stava sfilando gli stivali, quando la voce di Alex aveva spaccato il silenzio a metà. Con uno stivale in mano si sporse dalla porta dell’armadietto, guardandolo stupita.
“verde?” ripeté senza capire. Il ragazzo annuì, indicando l’acciaio dell’armadietto sulla parte del lucchetto.
“è il tuo colore preferito?” continuò.
Tris guardò lucchetto e chiavi, smaltate di quel bel verde acceso che le ricordava i prati. Poi ritornò con lo sguardo su Alex e annuì.
“beccata.” E, dopo aver riposto gli stivali sul ripiano apposito, chiuse l’armadietto. Dovette darci il solito colpetto poco gentile perché si chiudesse a dovere, notando la risatina di Alex al suo fianco.
“ho imparato che con le buone maniere anche gli armadietti più infidi si chiudono.” E anche sul suo viso si formò un sorriso. Piccolo- pensò Alex- ma sincero.
Poi Beatrice gli voltò le spalle e, camminando verso la porta, raccolse quella marea di ricci scompigliati dal vento in una sottospecie di chignon con l’elastico che portava sul polso poco prima.
Non era la prima volta che Alex osservava una ragazza pettinarsi, raccogliersi i capelli con le mani. Eppure pensò di non aver mai guardato veramente qualcuno farlo. Quelli che compì Tris erano movimenti semplici, che aveva fatto chissà quante volte e che, proprio per questo, sembravano naturalissimi, armoniosi. Qualcuna lo faceva per vanità, perché i ragazzi le guardassero. Ma Alex non aveva trovato niente di falso in quel gesto. Semplicemente il voler essere composta e pratica. Quando la porta si aprì il ragazzo era ancora fermo sulla stessa asse di legno del pavimento di poco prima. E solo quando la porta fece il clack della chiusura, sembrò riscuotersi dai suoi pensieri, ricominciando con la cura dei finimenti.  
*Spazio autrice*
salve cari lettori voglio solo ringraziarvi per aver seguito Beatrice e Andrea in tutti questi capitoli. 
non capita spesso di ritrovarsi a pubblicare qualcosa di nostro e di così... reale, ma quando si fa... beh ci si aspetta qualcosa. 
non necessariamente qualcosa di bello. insomma quello che si scrive può anche non piacere alla gente che legge ma... ci si aspetta sempre 
che capiti qualcosa. o almeno, io, mi aspetto che capiti. 
e in effetti è così. perchè non mi aspettavo che parecchie persone visitassero questa Fiction e soprattutto non mi aspettavo commenti positivi. 
non per la fare la falsa modesta. ma è vero. 
così sono ancora qui a chiedervi di rimanere con me. 
e naturalmente mi aspetto di sentire commenti da voi. negativi o positivi che siano. mi scuso per l'inesattezza del codice di pubblicazione precedente
vi saranno sanguinati gli occhi. ma ancora di più grazie di averla letta lo stesso. 
grazie a chi me lo ha fatto notare e a chi ha lasciato e lascierà recensioni. 
insomma non so quanti "grazie" ho usato in quest spazio autrice. 
un abbraccio e a presto.

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Capitolo 16
*** 16. Mrs Caplam ***


Ashes era fermo in mezzo al prato recintato, la testa volta verso la ragazza che stava seduta sull’erba, con le gambe piegate e una mano allacciata ad un polso, le braccia sostenute dalle ginocchia. Il cavallo diede un piccolo nitrito, allungando leggermente il collo verso di lei. Tris sorrise un po’, con il cappello da cow boy che le copriva il viso alla vista dell’animale. Poi alzò lo sguardo sull’erba verde del paddock, spostandosi pian piano verso il centro, dove il suo quadrupede stava col muso tuffato nell’erba alta, per poi ritrarsi e guardare verso di lei mentre masticava. Ma poi i suoi occhi tornarono sui suoi stivali di cuoio chiaro, fissi lì, come se la libertà di quell’animale la stesse straziando, come se fosse una grazia che lei non avrebbe mai potuto avere, un’emozione che lei non avrebbe mai potuto provare appieno. Ma la cosa che la faceva rimanere lì seduta a pensare era un’altra. Era una cosa un po’ più complicata e scomoda.
Andrea.
Andrea che non capiva niente. Andrea che sembrava l’unico essere umano sulla terra a capirla. Andrea che disegnava. Andrea che alzava il volume dello stereo nella 121. Andrea che dormiva nel suo letto e parlava di cose sconnesse per la febbre. Andrea che la baciava. Andrea che la stringeva in quel modo. Andrea che ascoltava il suo battito. Andrea che la guardava dalla banchina della stazione dei treni..
E d’improvviso scosse forte la testa, tenendosi il cappello con due dita per evitare che le scivolasse dalla testa. Lo fece come se quel gesto potesse far svanire tutte quelle immagini e sensazioni dalla sua testa, cancellarle da dentro di lei.
Ma il dolore che sentiva al centro del petto non si attenuava, anzi, sembrava crescere tutto d’un colpo, soffocandola come un pugno dritto dritto allo stomaco.
Chiuse gli occhi, sempre con le braccia appoggiate alle ginocchia e il cappello sulla testa. Le mancava. Le mancava tanto. Avrebbe voluto averlo vicino in quel momento. Avrebbe voluto essere rassicurata dai suoi modi di fare. Avrebbe voluto sentire le sue mani attorno ai fianchi, come quando le si avvicinava per farle il solletico.
E invece era sola. Senza il suo migliore amico.
Con lui si sarebbe sentita libera di andare ovunque. E di certo le Swallow Falls non le avrebbero fatto quell’effetto se lui fosse stato con lei.
E invece l’acqua continuava a scorrere e le rocce continuavano a scalfirsi. Anche senza di lei.
 
“mi chiedevo perché fossi tornata così presto” La voce di Albert Fairfox arrivò alle orecchi della figlia come in un soffio di vento. Tris aprì gli occhi, ma non si voltò per guardare il padre in viso.
“tu e Ashes non siete mai tornati prima di due ore dalle vostre passeggiate.” Continuò l’uomo, sedendo accanto alla figlia sull’erba fresca del prato.
Ma Tris non rispondeva ancora. Rimaneva in silenzio, provando a guardare lontano, anche se la vista le si appannava di continuo.
Albert guardò la ragazza con attenzione, cercando di cogliere cambiamenti nella sua espressione. Ma il viso di Beatrice rimaneva fisso su un’espressione quasi di indifferenza, anche il padre la conosceva abbastanza da sapere che la sua indifferenza celava sempre tristezza o, peggio, rabbia.
“ricordi quella ninna nanna che ti cantavo da piccola quando non dormivi?” Tris annuì soltanto una volta, lentamente, continuando a fissare il sole che pian piano scendeva sulla linea dell’orizzonte.
“era una ninna nanna irlandese. Il nonno aveva un 45 giri con quella canzone incisa sopra e io non potevo fare a meno di sentirmi tranquillo quando da giradischi risuonavano quelle poche note. Bing Crosby era la voce giusta. Bassa, tranquilla e rassicurante. Così quando sei nata tu ho cominciato a cantartela, perché ti addormentassi. E funzionava. Piangevi spesso la notte. Odiavi stare da sola. Allora mi alzavo, ti prendevo in braccio e cominciavo a cantare. Finché c’era la ninna nanna andava tutto bene. Mi guardavi per un po’, ti mangiucchiavi le manine e poi chiudevi gli occhietti, addormentandoti.”
Adesso era Albert a guardare verso il sole arancione di tramonto e Tris aveva voltato il viso verso di lui, guardando il suo profilo ben definito e familiare.
“non so a cosa pensavi o... cosa può starti ferendo in questo modo, ma.. io sono qui, Beatrice.” La ragazza continuò a fissarsi negli occhi del padre, cercando le certezze di cui aveva bisogno. “ricordi? Da piccola ti chiedevo sempre ‘qual è la mia battuta?’ e tu dovevi rispondere..”
“è un sasso” rispose Tris in un sussurro. Avevano adottato quel sistema anni prima. Una piccola frase in codice che esprimeva un semplice concetto: Albert era la roccia a cui Beatrice poteva aggrapparsi in qualsiasi momento. Era l’unica certezza che aveva dalla vita. Che lui sarebbe rimasto. Sarebbe sempre stato lì per lei, come le rocce che sono ancorate al terreno per forza di cose. L’avrebbe protetta dalle tempeste, l’avrebbe riparata dal vento forte. E magari la pietra si sarebbe scalfita un po’, ma sarebbe sempre stato lì per lei.  
“A Bug’s Life è un lungometraggio molto più utile di quanto non pensassi, vero papà?”
 
 
Alex era appena uscito dal bagno, dopo essersi fatto una doccia per ripulirsi da un’altra giornata di lavoro.
Aveva addosso soltanto un paio di jeans, per di più slacciati e aveva attraversato il corridoio, raggiungendo la porta della sua stanza, quando vide Beatrice salire le scale di buon passo. La ragazza canticchiava un motivetto country e, salito l’ultimo gradino, sganciò entrambe le bretelle della salopette di jeans, rivelando una camicetta color panna che le fasciava la vita asciutta e le spalle chiuse dalla posizione mantenuta a cavallo. Appena Tris alzò lo sguardo sul corridoio, si sentì inevitabilmente nel suo campo visivo. In effetti, la ragazza si era bloccata, subito dopo il primo gradino, con gli occhi spalancati. Era un’espressione di sorpresa, realizzò il ragazzo, rimanendo anch’egli immobile, con una mano sul pomolo della porta.
Tris fece scorrere lo sguardo sulla figura del ragazzo per qualche secondo, rimirando il busto muscoloso e la sporgenza delle creste iliache che si tuffavano dei pantaloni, sparendo nella stoffa dei jeans. Poi, appena si rese conto di dove si era soffermata con lo sguardo, si riscosse, distogliendo lo sguardo dal corpo di Alex, muovendosi verso la sua stanza.
Alex sorrise un po’, cogliendo chiaramente l’imbarazzo nel suo sguardo basso e allo stesso tempo compiacendosi di quella lunga occhiata che lei gli aveva rivolto. In fin dei conti, quei lavori pesanti erano serviti a qualcosa!
“un momento.” la voce di Tris gli rimbombò nei timpani con forza. Alzò gli occhi su di lei, con sguardo interrogativo.
“tu che cosa ci fai qui?” chiese, come spaesata.
“ci… vivo?” rispose Alex, quasi con cautela, facendo scivolare via la mano dal pomolo.
“ci vivi. Tu dormi nella stanza accanto alla mia?” il ragazzo non sapeva più come interpretare l’espressione di Tris. Si limitò ad annuire con un “mmmh”, restando in piedi di fronte a lei.
“perdonami devo sembrare una perfetta idiota. È solo che non… lo sapevo…” Alex si appoggiò al muro con una spalla, incrociando le braccia al petto.
“comprensibile, so che sei via da parecchio.” e Tris non poté che annuire, schiudendo le labbra quando lo vide avvicinarsi.
“già. Io credo che… andrò a farmi una doccia… ci si vede a cena, suppongo..”
“certo. Credo che tua nonna abbia appena sfornato una magnifica pie.”
E Beatrice indietreggiò, infilandosi in bagno in tutta fretta.
 
*** 
 
“Bekka! Bekka!” prima di rendersene conto, Andrea si ritrovò a correre dietro a Bekka, chiamandola a gran voce. Parecchi passanti si voltarono verso di lui, vedendo un ragazzo con una miriade di capelli fiondarsi dietro a qualcuno, i bagagli lasciati in mezzo al marciapiede.
In pochi secondi l’aveva raggiunta e, prendendola per un polso l’aveva fatta voltare verso di sé.
“che cavolo vuoi!?” Bekka lo guardò con occhi opachi di rabbia e pianto.
“che tu venga con me.” il ragazzo sussurrò quelle parole all’orecchio di Bekka, come contenessero qualcosa di segreto e poi la tirò un po’ per il polso, cercando di convincerla a tornare indietro con lui.
Bekka lo guardò stranita, come se non capisse che diamine avesse nella testa quell’idiota:
“io non ti capisco.” Disse e poi lo seguì di nuovo, arrivando di fronte ai gradini del civico accanto a quello della signora Maple.
“tua madre ti prenderebbe a sberle, se sapesse che hai lasciato i bagagli in mezzo alla strada” lo rimproverò la ragazza, sollevando uno dei due borsoni da terra e salendo i gradini.
Andrea la raggiunse  dopo qualche secondo, infilando le chiavi nella serratura, facendola scattare. E Bekka non attese oltre. Con una spallata poco delicata aprì la porta, entrando in casa dell’amico di gran carriera.
“quale entusiasmo..” commentò lui guardandola poggiare il borsone nel soggiorno e rimanere in piedi, vicino alle scale.
“beh, qualcuno deve riparare al tuo atteggiamento da depresso cronico. Cardiff dev’essere stufa di vederti sempre e solo accompagnato dal tuo viso scuro.” Il tono scherzoso di Bekka tradiva la verità nascosta in quelle parole. Ma Andrea sorrise lo stesso, avvicinandosi anche lui alle scale, mettendo un piede sul primo gradino.
“E a chi altri dovrei accompagnarmi?- la ragazza lo guardò con gli occhi spalancati in uno sguardo al limite tra l’arrabbiato e lo scoppiare a ridere- se ti riferisci a te… somigli troppo ad un ragazzo perché io possa anche solo pensare di uscire con te..” Bekka aveva cominciato ad arricciare le labbra, guardando con aria di sfida il ragazzo, che si tratteneva a stento al ridere.
“comincia a correre.”
 
***
 
Tre colpetti alla porta fecero voltare Tris sullo sgabello della toilette che aveva in camera sua, dando il permesso a chiunque ci fosse dietro l’uscio di entrare.
“tesoro, la cena è pronta. Ho fatto la chicken pie che ti piace tanto!!!” Emily Fairfox era entrata nella stanza della nipote di buon passo. Le si era avvicinata, prendendole di mano la spazzola con delicatezza e finendo di acconciarle i capelli in una lunga treccia che le cadeva su una spalla. La chiuse con un piccolo elastico, coprendolo con una ciocca di capelli che affrancò sotto il cerchietto colorato.
“era un po’ che non ti facevi pettinare da me, Beatrice.”
“già, ma non ho mai dimenticato quanto fossi brava, nonna” la donna sorrise teneramente, guardando la nipote nello specchio, per poi toccarle una spalla, invitandola a scendere con lei.
 
Al piano di sotto il soggiorno era ancora illuminato dalla luce del tramonto, che entrava dalla bow window  sulla parete di sinistra, dov’era apparecchiato il tavolo in legno massiccio che aveva seguito la famiglia Fairfox in tutti i traslochi.
Quando Tris entrò nel salotto, trovò Alex seduto sul divano, di fronte a suo nonno e suo padre, che chiacchierava amabilmente. Fece qualche passo verso la libreria, ma Richard la fermò.
“oh, Beatrice! ho saputo che sei uscita a cavallo oggi pomeriggio.. come è stato ritornare in sella?”
La ragazza rimase interdetta per qualche secondo, scorrendo con lo sguardo su tutti e tre.
Poi si schiarì la voce e annuì lentamente.
“Ashes è fantastico, come al solito. Le nostre galoppate sono rimaste spericolate e liberatorie come sempre.” disse sorridendo un po’.
“bene, sono contento di sentirlo. Spero che il tempo sia clemente. Dai giornali si prevede pioggia per domani…” Richard alzò lo sguardo sulla nipote, registrando il suo cambio di umore improvviso. Il piccolo sorriso di Tris era scomparso dal suo volto in un secondo, gli occhi avevano puntato il pavimento e si era stretta nelle spalle, esalando un lungo sospiro. Ma il nonno non ebbe il tempo di chiederle cosa non andasse, perché Emily aveva fatto il suo ingresso trionfale in soggiorno, un vassoio fumante in una mano, l’altra sul fianco, mo’ di modella.
“la cena è servita, signori!” l’entusiasmo nella voce della donna avvolse il centro ghiacciato di Beatrice, che si voltò verso di lei, con un sorriso che le gonfiava gli zigomi e andò a sedersi al tavolo, scegliendo un posto a caso.
La chicken pie di Emily era sempre una delizia per il palato di tutti i presenti. Alex l’aveva spazzolata via dal piatto in poche forchettate, mentre Albert e Richard mangiavano con calma, gustando i sapori di quel tortino salato, così semplice eppure così buono.
Tris, dal canto suo aveva tagliato in piccoli quadratini la sua fetta di chicken pie, con il proposito di mangiarla con calma, ma la fame e la prelibatezza di quel piatto vinsero su di lei.
D’un tratto, Shakespeare le appoggiò il muso sulle gambe, guardandola con gli occhi più dolci che poteva scegliere, implorando un pezzetto di qualunque cosa ci fosse di commestibile in tavola. Tris sobbalzò per la sorpresa, ma poi accarezzò quel testone liscio, allungando sotto il tavolo uno dei suoi quadratini di tortino, che il cane divorò senza quasi masticare.
“Shakespeare, sei sempre il solito!” Emily sorrise, guardando il cane come per rimproverarlo, ma lo sguardo indifeso del cane non riuscì a non addolcirle i tratti.
“allora Tris, che novità ci porti? In fin dei conti è da Halloween che non ti vediamo…”
“beh, la scuola è sempre la stessa, una noia mortale. Eccetto le lezioni del professor Spiegelman, certo. Per il resto… non ho ancora idea di come andrà il ballo di fine anno, ma credo che me ne starò nella 121, cercando di sovrastare il volume della musica della palestra con il mio stereo” Tris sorrise ironicamente, guardando prima il nonno e poi la nonna. Emily sollevò un sopracciglio, appoggiando la forchetta al piatto.
“non dirmi che non ci andrai..”
“è quello che ha appena detto, Emily cara, ma se ti fa sentire meglio non te lo dirà di nuovo” Richard guardava la moglie dall’altro lato del tavolo con occhi scherzosi, contro quelli stupiti di lei.
“ma è il tuo ultimo anno, tesoro…”
“lo so, nonna. E non vedo l’ora di prendere il diploma, davvero. solo.. quelle cose non fanno per me.”  E poi chi mi inviterebbe, secondo te?
“e Andrea? Lui non ci va?” al sentire il suo nome,  la ragazza ripose la forchetta e il coltello sul piatto, appoggiandosi allo schienale della sedia.
“immagino di si, nonna.” Il suo sorriso era forzatissimo, le mani strette in pugni attorno al tovagliolo steso sulle gambe.
“a proposito di ballare!” Albert interruppe la madre, cominciando a capire cosa frullava nella testa di sua figlia. “l’avevo quasi dimenticato, ma so che è una festa che a te piace molto…”
“Il Festival dello Stivale? C’è ancora?” gli occhi di Tris si spalancarono, la bocca si piegò in un bel sorriso .
“Mrs Caplam smetterà di finanziare quella festa solo quando sarà sei metri sotto terra, credimi.”
“cos’è che finanzia Mrs Caplam?” chiese Alex curioso. Non aveva parlato fino a quel momento, pensando di esser fuori luogo, ma questo gli interessava. Sapeva chi fosse Mrs Caplam, perché Richard lo mandava quasi tutti i giorni a prendersi cura del suo destriero e a portarle le marmellate di Emily. Era una Lady di nobile casata, vedova e senza figli, una signora che adorava i cavalli, il tè e… la marmellata.
“ogni anno, più o meno in questo periodo Mrs Caplam apre la sua tenuta per il Festival dello Stivale. Si chiama così in ricordo dello stivale che la stessa Lady Caplam ha perso non si sa come in una caccia alla volpe.”
“con la caccia alla volpe però non c’entra più nulla.- continuò Richard sorridendo- Lady Caplam adora i cavalli in tutte le salse, oh che mi perdoni, non in cucina… diciamo solo che per essere felice e soddisfatta se ne sta seduta sotto il gazebo a guardare ogni disciplina che comprenda un cavallo al suo interno. E chiunque sappia combinare qualcosa in sella ad un cavallo è invitato a partecipare. Sai, è quasi un’attrazione turistica, viene gente dall’Inghilterra, oltre che dal Galles intero.”
“papà, adesso la stai facendo troppo grossa.” Albert rise, scuotendo la testa.
“in parole povere, se vuoi divertirti per un giorno intero e ti piacciono i cavalli, vacci.” Tris si era voltata verso Alex di scatto, avvicinandoglisi un po’ , come a dirgli qualcosa di segreto in un orecchio. Il ragazzo sorrise, annuendo.
“mi pare di aver capito che tu ci vai ogni anno” Alex la osservava sorridere e coprirsi le mani tirando le maniche del pullover.
“non solo lei ci va, ogni anno-intervenne Richard- lei PARTECIPA ogni anno.”

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Capitolo 17
*** 17. scommesse e terrazze ***


“piantala! Io e Matt non stiamo insieme!” Bekka aveva tirato una manata alla spalla di Andrea, che le camminava vicino, a due isolati da casa sua, diretti verso il Red Dragon, un pub incastrato tra due strade, il posto in cui entrambi avevano imparato a giocare a biliardo.
“e lui lo sa?” il sorriso del ragazzo pareva di scherno, ma al contrario della reazione che si aspettava da lei, Bekka lo guardò con un’espressione che non seppe decifrare. Sembrava a tratti triste, a tratti delusa. La sentì sospirare e poi la vide sorridere un po’, con solo un angolo della bocca alzato.
“beh.. sono irresistibile, sarà sempre attratto da me.” Disse sicura e quell’aria malinconica che l’aveva attraversata per quei pochi secondi svanì, tanto in fretta quant’era arrivata, soppiantata dall’aria sicura e suadente di sempre. Andrea non poté che sorridere nell’osservarla. Il giubbetto di pelle le fasciava il torace e i jeans neri lasciavano scoperte le ginocchia in due sbreghi diseguali. Ai piedi un paio di anfibi neri lasciati slacciati, con le stringhe che ticchettavano sul cuoio ad ogni passo.
I capelli le ricadevano sulle spalle in ciocche dritte come fusi, ma morbide e lucide, di un nero saturo, quasi da sembrare blu scuro.
“smettila di fissarmi” con tono pacato, Bekka distolse il ragazzo dai suoi pensieri, cominciando a camminare all’indietro, nel suo modo sgraziato ma incredibilmente carino di sempre, per fermarsi di fronte all’insegna a led rossi del locale.
Appena entrarono, Andrea si levò la giacca, poggiandola sullo schienale di una sedia, occupando il loro tavolo. Bekka si era precipitata al bancone, ordinando da bere, mentre le luci si abbassavano, creando i soliti giochi di luce sulla figura del drago al centro della parete dietro al tavolo da biliardo sopraelevato alla stanza, come da… Joe’s.
Andrea restò a guardare il palchetto ancora vuoto e, per un momento, rivide la scena di una sera di pioggia. Sentì quel nome sfiorargli le labbra di nuovo e quella massa morbida di capelli ricci si materializzò ancora di fronte a lui.
“partita a biliardo?” Bekka sembrava su di giri con la sua birra in mano, gli passò davanti, salendo i tre gradini che separavano il tavolo dal pavimento con un salto.
Appena la ragazza appoggiò le due bottiglie sul bordo della ringhiera in legno che racchiudeva il palchetto, voltandosi con una stecca in mano, Andrea mosse qualche passo, raggiungendola. Si trovò ad accarezzarle il viso, sorridendo. Bekka restò immobile, incapace di sottrarsi a quel tocco, a quelle dita callose che le sfioravano il viso. La mano del ragazzo si mosse sul suo viso, passandole dietro al collo e affondando nei capelli. Si rese conto della differenza tra il liscio e il soffice di quei capelli e la morbidezza e la leggerezza di quelli di Tris, ma continuò ad attorcigliarci dentro le dita, sfiorando la nuca di Bekka con delicatezza.
“E adesso sei qui. Come se ti importasse davvero sapere come sto, cos’ho fatto per grattarmi via la pelle dalle nocche o… il perché ti sto evitando. Quando la ragione è talmente chiara che la capirebbe anche una cheerleader.” Le parole di Tris gli tornarono in mente tutto in una volta, seguite dalla stessa fitta di dolore che lo aveva colpito quel giorno. La mano che accarezzava i capelli di Bekka s’irrigidì mentre Andrea la ritraeva.
La ragazza si sentì spaesata, aveva notato il repentino cambio d’umore dell’amico e gli afferrò il polso, costringendolo a guardarla.
“tu non me la dai a bere. Che c’è che non va?” chiese con fermezza.
“niente. Sai, neanch’io sono di ghiaccio” e s’allontanò di qualche metro, scegliendo una stecca tra quelle appese al muro.
“parlerai. Prima o poi scoprirò che ti succede.” Il ragazzo sorrise storto, preparandosi a colpire la formazione delle palline.
“vinci la partita e te lo dirò.”
 
***
 
 
“perdonatemi. Da domani comincerà l’allenamento, perciò…”
“buonanotte, Beatrice. Cerca di dormire” Albert aveva accennato un sorriso, mandando uno sguardo comprensivo alla figlia. Tris annuì una volta soltanto, per poi alzarsi da tavola, rivolgendo un piccolo saluto agli altri commensali. Alex la osservò mettersi in piedi, l’espressione vacua, le labbra appena schiuse.
La seguì allontanarsi con lo sguardo, mentre camminava nel corridoio, ciondolando, salendo le scale con flemmaticità.
“credo che anch’io me ne andrò a letto, con permesso..” Alex sentì il bisogno di seguirla, di capire che cosa andava combinando quella ragazza.
“sembra che lo scarico del mangime lo abbia stancato, stavolta.” Richard sollevò la tazza con la tisana con molta calma, i baffi che si arricciavano sotto il suo sorriso. Emily guardò prima il marito, cercando di capire a cosa alludesse, poi di scatto voltò la testa verso il corridoio, appena in tempo per vedere la scarpa elegante di Alex salire l’ultimo gradino visibile della scala.
 
Alex percorse il corridoio rasentando il muro, frenando di colpo di fronte alla stanza di Tris. Alzò una mano, piegandone le dita, battendo la nocca dell’indice destro sul legno avorio della porta.
Il ragazzo tese l’orecchio, aspettando una risposta, ma nessuno suono provenne dall’altro lato dell’uscio. Bussò di nuovo, leggermente più forte, nel dubbio che Tris non avesse sentito al primo colpo e la porta s’aprì, con la sorpresa di Alex.
“Tris?” il ragazzo aprì di più la porta, guardandosi attorno nella stanza buia, aspettandosi di carpire anche solo un piccolo rumore che gli desse un indizio su dove la ragazza potesse trovarsi. Entrò definitivamente, socchiudendo la porta dietro di sé. Di colpo sentì una fresca corrente d’aria solleticargli il collo, facendolo voltare di scatto verso la finestra. Le ante erano scostate, aperte sul balconcino di pietra e mattoni rossi che decorava il retro della casa. Alex si avvicinò lentamente, temendo di essere scoperto, cercando di non fare rumore mentre si spostava.
In pochi passi aveva raggiunto il profilo della finestra, ma non si spinse oltre. Tris era lì, seduta con la testa appoggiata alla cornice spessa della finestra. Le gambe incrociate, i piedi nudi, la salopette slacciata. Il vento della sera soffiò ancora, scostandole i capelli dal viso, rivelando quello sguardo assorto che la caratterizzava. La Luna era ben alta in cielo e tingeva di quel pallore la pelle della ragazza, rendendola diafana.
Senza smettere di guardarla, quasi senza accorgersene, si mosse, sedendo accanto a lei.
Tris voltò lo sguardo su di lui, alzando la testa, per poi abbassarla, seguendo i suo movimenti.
“ciao”
“ciao”
“certo… potevo inventarmi qualcosa di meglio..”
“che?” Tris lo guardò senza capire cosa intendesse. Alex sorrise, poi parlò di nuovo.
“invece di ‘ciao’… avrei potuto avere un po’ più di fantasia.. non so tipo… non hai freddo?”
“sai, nemmeno quella è una cosa originale da dire quando si trova una ragazza seduta sul pavimento di un balcone al chiaro di Luna…”
Alex rise scuotendo la testa, ma rideva soltanto della sua goffaggine, perché di Beatrice, come dipinta in un quadro notturno, non avrebbe mai potuto ridere.
“probabilmente hai ragione. Non sono mai stato troppo bravo in queste cose.”
Tris levò un sopracciglio, rivolgendogli uno sguardo.
“quali cose?” Ma Alex non rispose, restituendole solamente uno sguardo un po’ imbarazzato.
“volevo solo sapere cosa ti spinge a rannicchiarti qui fuori, se non è questa bellissima stellata” Tris continuò a guardarlo, attonita. Le sembrava strano che qualcuno volesse capire. Si sentiva come spaesata, disorientata da quella domanda, a cui nemmeno lei avrebbe saputo rispondere con precisione.
“stavo solo pensando.”
“già. Tu dai l’idea di una che pensa.”
“io do l’idea di una che pensa..?”
“decisamente.- Alex fece una pausa, come a riflettere su ciò che gli aveva dato quell’impressione.
Le cascate…- cosa hai visto alle Swallow Falls?” quando riprese a parlare, la sua voce era ridotta ad un sussurro azzardato, come si stesse avvicinando ad un animale selvatico, con la paura di spaventarlo. Non voleva fare errori, solo capire.
Beatrice si voltò con lentezza verso di lui guardandolo con occhi indagatori, anche se languidi. Poi le labbra le si incresparono in un sorrisetto storto, mentre ritornava a fissare le fughe dei pietroni sul pavimento.
“cosa dovrei averci visto? Ci sono solo rocce e acqua per parecchie iarde.”
In effetti sono uno stupido. Alex si maledisse mentalmente, ragionando sul fatto che –s’anche a quelle benedette cascate fosse successo qualcosa- Tris non avrebbe di certo avuto voglia di parlarne… di certo non con un quasi estraneo. Il ragazzo sospirò silenziosamente, ripensando all’espressione sul viso della ragazza mentre s’avvicinava alle scuderie in quel galoppo impazzito.
Ci fu un lungo momento di silenzio in cui Tris aveva alzato la testa per guardare il cielo. Alex seguì la linea che seguiva quello sguardo smorzato fino alla volta celeste.
“hai ragione” disse di colpo, restando a fissarsi sulla luce di una stella.
“che?” Tris parlò senza distaccarsi da quella cupola blu lucente.
“sono stato incauto.” Il ragazzo si alzò in piedi, appoggiandosi al muro con il fianco. “è solo che siete tornati come un uragano, tu e Ashes. Credevo foste sereni, prima…” Alex ora guardava la ragazza, recependo l’espressione scura del suo viso. D’un tratto, sembrò Tris gli rivolgesse particolare attenzione, fissando quegli occhi fulvi nei suoi, freddi.
“prima che mi accorgessi di quanta fatica facessi a restare in piedi.. perché diciamocelo, se non fossi stata in sella… forse avresti avuto bisogno di una sedia.”
La ragazza schiuse leggermente le labbra, come a prendere fiato, raccogliendo le forze per parlare.
“si. Sei stato incauto.” E la frase, detta in quel tono piatto, funzionava da ammonimento. Alex la osservò, sostenendo quello sguardo di ghiaccio e fuoco mescolati insieme per qualche secondo. Poi annuì.
“mi dispiace, non avrei dovuto addentrarmi così nei tuoi pensieri” e, per quanto potessero sembrare di scherno, le parole del ragazzo portavano la forza di una considerazione più che valida. Tris non aveva smesso di guardarlo fino a quel momento.
“forse no.”
 
***
 
 
La partita a biliardo era giunta ormai alla fine e Andrea ebbe la meglio, come sempre. Bekka protestò sonoramente, sbattendo l’estremità piatta della stecca sul legno del palchetto. Il ragazzo rise della permalosità dell’amica, che imprecò a bassa voce.
“Dannazione” un suono che aveva più l’intonazione di un insulto, che altro, mentre affrancava la stecca negli appositi spazi al muro.
“ah, dai, Bekka… non prendertela… cos’è il biliardo, in fin dei conti!” ma la ragazza non era rimasta ad ascoltarlo. Aveva sceso i gradini, ritornando al tavolo per indossare la giacca.
“Bekka!” Andrea la chiamò di nuovo, mentre mollava la stecca sul tavolo e cercava di raggiungerla prima che uscisse dal Red Dragon. Ma la ragazza aveva già lasciato che la porta si chiudesse dietro di lei, ritrovandosi nel freddo della sera. Andrea emise un respiro stizzito, tornando a recuperare la propria giacca e seguirla. All’esterno il cielo si era rannuvolato e, nel buio della notte, la pioggia cadeva densa, in piccole goccioline scure. Con una strana sensazione addosso si guardò attorno, in cerca della ragazza. I lampioni accesi creavano delle pozze di luce sui pietroni di cemento del marciapiede, accentuando  il vuoto della strada.
Allora Andrea prese a camminare, mentre sentiva l’umidità di quella pioggerellina fitta passargli attraverso i vestiti, cominciando ad intaccargli anche le ossa. All’incrocio successivo si fermò, cercando di capire in quale vicolo si fosse cacciata Bekka. Si voltò verso destra, incontrando la strada principale, che scartò subito. Di riflesso, volse lo sguardo a sinistra, dove il marciapiede si faceva improvvisamente più scuro. Un lampione non funzionava, rimanendo spento e dando un senso spettrale al grigiore delle vecchie case del vicolo. Senza pensarci, imboccò quella straducola, sicuro che si sarebbe ritrovato la ragazza di fronte, se solo avesse continuato a camminare.
In effetti non si sbagliava.
Appoggiata alla ringhiera della casa scampata alla luce del lampione che non funzionava, Andrea riconobbe la figura di Bekka. Nonostante il cappuccio tirato sulla testa, i capelli le si erano bagnati e gocce d’acqua piovana cadevano dalle estremità, sfracellandosi sul cemento per gravità.
“Bekka.”
“ah, allora ti importa ancora qualcosa di me” il tono tagliente della ragazza lo confuse.
“cosa ti ha fatto credere il contrario?” Bekka gli rivolse uno sguardo furibondo, parandoglisi davanti, senza smettere di fissarlo.
“il solo fatto che per sapere che diavolo ti stia succedendo io debba vincere una stupida scommessa per esempio”. Andrea si limitò ad abbassare lo sguardo sulle proprie scarpe, senza risponderle.
“forse sono… cambiate delle cose tra noi” Bekka indietreggiò di un passo, cercando la distanza che lui aveva messo con quei silenzi.
Andrea si dondolò sulle gambe, cercando di guardare ovunque tranne che negli occhi della ragazza.
“allora non lo neghi” sussurrò, più a sé stessa che a lui, prendendo coscienza del fatto. Ma il ragazzo notò la consapevolezza crescere nello sguardo dell’amica e allungò una mano, afferrandole il polso con forza.
“non ho detto questo” la voce celava rabbia, le parole strozzate dai denti stretti. Il respiro che tremava mentre buttava fuori l’aria, come le dita a contatto con la pelle di Bekka.
Lei spalancò gli occhi, restando immobile. Sollevò il mento, con sicurezza, cercando di contrastare la forza dei muscoli di Andrea con la propria. Cercò di ritirare il braccio, opponendosi alla sua stretta. Il ragazzo si trovò preso alla sprovvista. Perse un po’ l’equilibrio, costretto a un passo in avanti.
“puoi fare quello che ti pare per farti odiare anche da me. Ma te lo assicuro- Bekka parlava a pochi centimetri dal viso del ragazzo, lo sforzo chiaramente udibile nella voce- non ci riuscirai. Ti starò vicino. Fosse l’ultima cosa che faccio, mi hai sentita?” non aveva mai smesso di tirare il braccio verso di sé, anche se la stretta di Andrea non accennava a diminuire.
Il braccio cominciava a farle male, i tendini della spalla bruciavano e i muscoli sembravano contrarsi all’inverosimile. Il fatto era che non le importava. Non le importava un accidenti del dolore, della pioggia, o di qualunque altra cosa non riguardasse Andrea in quel preciso istante. D’improvviso la pressione sul braccio svanì e Bekka si sentì avvolta da una sensazione di totalità che la sbalestrò. Andrea la stava abbracciando. L’aveva attirata a sé prendendola per i fianchi, incastrando le mani dietro la sua schiena. Ed era rimasto così, a stringerla al petto, con il mento appoggiato alla testa di lei.  
 

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