Uomini a Ventiquattrore

di Dew_Drop
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa. Solo un giorno, ogni giorno ***
Capitolo 2: *** Essere nel Ventidue ***
Capitolo 3: *** Incastrati e costretti a girare in eterno ***
Capitolo 4: *** Cose vive e indistinte ***
Capitolo 5: *** Quello delle mosche ***
Capitolo 6: *** Karoshi ***



Capitolo 1
*** Premessa. Solo un giorno, ogni giorno ***


Premessa. Solo un giorno, ogni giorno











{Note dell’Autore} Preferisco precisare subito come ho voluto intendere la grammatica italiana nel caso del grattacapo chiamato “ventiquattr’ore”. Questa parola a quanto pare è una totale scommessa: facendo qualche ricerca, ho scoperto che si può scrivere in entrambi i modi, con o senza apostrofo, quando si intende l’arco di tempo che copre una giornata intera; personalmente, la preferisco con. La parola ventiquattrore intesa come piccola valigia di lavoro è invece scritta sempre senza alcun segno grafico. È in questo modo che deve essere inteso il titolo.

[ Storia partecipante al Contest "The Melancholy Spirit - dark horror story", indetto da Yuko Chan _ l i n k - http://freeforumzone.leonardo.it/d/11028606/THE-MELANCHOLY-SPIRIT-Dark-Horror-Story/discussione.aspx/1 - ]

 

Uomini a Ventiquattrore

 

“Nessuno al mondo è in grado di dirti perché esisti, ma visto che sei qui, lavora per dare un senso alla tua esistenza.”

S. Kierkegaard







Premessa.
Solo un giorno, ogni giorno

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Quando l’uomo si sedette sul seggiolino accanto, Masa alzò gli occhi su di lui. Fu uno sguardo distratto, giusto un mordi e fuggi, uno di quelli che valgono a salutare colui che sarà il tuo sconosciuto compagno di viaggio. C’è qualcosa di poetico nel pensiero che le vite si incrocino anche sottoterra, nei tunnel delle metro.

Il ragazzo non ci stava pensando. Piuttosto che riflettere su quella considerazione filosofica, sembrava più interessato a capire perché il nuovo arrivato fissasse ostentatamente il suo zaino sistemato a terra. Non c’era poi nulla di strabiliante o degno di nota in un sacco con bretelle in cui erano infilati due libri di medicina e il suo notebook. O gli stava osservando i piedi? Aveva i mocassini neri sfregiati sulle punte o sporchi di una generosa e allegra spruzzata di escrementi di piccione?

Non impazziva per le metropolitane, ma Koriyama era viva abbastanza da necessitarne una. Fosse stato per lui, un qualche posto più tranquillo sarebbe stato l’ideale. Gli sarebbe piaciuto sperimentare un’esistenza diversa, una casa da sé al posto di un appartamento – era grande, decisamente costoso, ma un appartamento restava -, una bicicletta al posto dell’automobile. Aveva entrambe, con il problema che non le usava spesso, considerato che a tutto quanto pensavano i mezzi pubblici. Di tanto in tanto si chiedeva se fosse ancora capace di guidare. Gran bel mistero.

Il desiderio di diventare un dentista aveva la sua parte. Da quando frequentava la Ohu, università privata per aspiranti cavabocche – il giorno in cui il suo migliore amico aveva usato quell’espressione, aveva scoperto quanto le persone ubriache potessero sparlare -, infilarsi sottoterra e aggiudicarsi un posto a sedere nel primo treno buono erano diventati gesti quasi quotidiani. La vita di quella città, sia sotto che sopra, era così frenetica che a volte, tornando a casa, Masa aveva l’istinto di gettarsi sulla sedia più vicina per paura che un fantomatico avversario potesse rubargli quella comodità. La colpa era anche dei suoi genitori, che avevano insistito per dare al loro appartamento un tocco un po’ più europeo.

“Però le scarpe si tolgono lo stesso”, gli aveva detto sua madre quando, anni prima, aveva tirato fuori quella sua improvvisa ammirazione per l’Occidente. “Le scarpe sull’ingresso.”

Quella regola doveva essere una delle poche cose giapponesi rimaste sulla lista delle indicazioni comportamentali. Per il resto, e rifletterci gli faceva venire voglia di ridere, suo padre sarebbe stato in grado di rincasare dalla concessionaria, buttare giacca e calze ai quattro venti e sistemarsi davanti alla televisione con una lattina di birra in mano, magari a tifare una qualche grintosa squadra di baseball.

Ventunesimo secolo, baby. Viva lo stile americano.

«Studi?»                                                                                                                                      

La domanda lo raggiunse dall’altro capo dell’universo. Masa, che si domandò come avesse fatto a passare dallo zaino all’orrenda e comica immagine di Toru Ikeshima stravaccato in poltrona, si voltò ad incrociare gli occhi dell’uomo. Gli ci volle qualche altro attimo per capire che lo sconosciuto si era rivolto proprio a lui.

Era un ometto basso, dal gran sorriso da jolly e dagli occhi neri accesi di sincero interesse. I capelli avevano già cominciato a scoprirgli le tempie, che risaltavano lucide come la fronte sotto alla bianca luce del vagone in corsa. Per quanto il treno sobbalzasse un poco, se ne restava a guardarlo come se tra il sedere e il seggiolino avesse una paletto di legno; sembrava non muoversi di un millimetro. Era forse il primo uomo d’affari, tutto giacca e cravatta, che avesse mai visto completamente immobile. Tra i piedi, ritta e fiera, aveva un’elegante e piccola ventiquattrore.

Masa dovette rendersi conto che tutto quel suo silenzio sarebbe potuto passare per maleducazione. «Sì, signore», si decise a rispondere. Con un bel sorriso da bravo ragazzo, anche. In effetti era davvero un bravo ragazzo. Bravo e bello.

«Odontoiatria?»

«Alla Ohu, secondo anno.» Aggrottò appena le sopracciglia, tra divertimento e curiosità. «Come ha fatto ad indovinare?»

«Dall’uniforme. Hai i denti troppi puliti per poter studiare chirurgia.»

Se c’era qualcosa di macabro in quella risposta, Masa non lo trovò. Quel che fece fu accogliere quelle parole con il principio di una risata di convenienza. «Me lo dicono in molti. Dei denti, dico.»

L’uomo rimase ad osservarlo con intensità. Le sue mani tozze, posate sulle ginocchia, stiracchiarono appena le dita. «Il mio nome è Okawa. Come ti chiami?»

«Ikeshima, signore. Ikeshima Masa.»

«È un bel nome.»

Il ragazzo avvertì l’impulso di ammettere che persino quella era una cosa che gli dicevano spesso, ma si trattenne per il semplice fatto che uscite del genere sapevano di film romantico di serie B, se non C. Forse era distratto, ma intelligente. Non si meritava il ruolo in cui quell’uomo voleva relegarlo; la categoria del bravo giovane che risponde con la stessa frase solo per timidezza non faceva per lui. «Il piacere è mio, Okawa-san. Prende spesso la metro?»

«Solo oggi», confidò l’altro. «Viaggio per lavoro, ma questa sarà la mia ultima corsa su questa linea.»

«Va all’estero?»

Era una domanda stupida, ma se ne accorse solo dopo averla pronunciata. Okawa non se ne preoccupò e il suo sorriso, vispo e indulgente, rimase dov’era. «Non ti piacerebbe lavorare? I giovani d’oggi hanno tanto bisogno di un mestiere.»

«Lo studio mi impegna.»

«Studiare e lavorare è conveniente e utile.»

«C’è chi riesce a gestire entrambe le cose. Non mi ritengo parte del club.»

«Lavorare e studiare, allora? Dà tante soddisfazione, Ikeshima.»

Masa lo osservava con un sorriso instupidito, forse l’indizio sbiadito della convinzione con cui aveva steso il primo. Il treno doveva essersi fermato due o tre volte. Stava tenendo mentalmente il conto, in un modo o nell’altro. «Ne sono sicuro, signore. Non lo nego.»

«Potresti darti da fare durante le vacanze estive», continuò Okawa. «Quelle settimane non sono da buttare al vento1

«Ah.» Adesso c’era anche ironico imbarazzo. «Quello che dice anche mia madre.»

«Ed ha pienamente ragione. Alcuni sono disposti ad assumere anche solo per un mese, se si tratta di studenti.» Allungò le gambe, per quanto il verbo “allungare” non fosse adatto alla sua statura, e incrociò le caviglie con l’atteggiamento di un sereno interlocutore. «Manca poco alla fine dell’anno.»

In effetti, a conti fatti, mancava poco più di un mesetto. Febbraio era agli sgoccioli, un po’ come la sua scorta di buona volontà. Studiare odontoiatria gli piaceva, ma era pur sempre un ragazzo di vent’anni e la sua età reclamava aria fresca, aria che non sapesse di lunghi pomeriggi passati con i professori a pulire laboratori e dentiere di plastica. Daisuke gli aveva detto che sarebbe stato grandioso spendere almeno una delle settimane di vacanza fuori città. Si pensava ad Osaka. Oh, sarebbe stata una gran cosa. Avrebbero potuto chiedere anche a Nao, e allora, se avesse accettato, sarebbe stata una cosa indiscutibilmente mitica. Certo che avere un lavoro, anche se piccolo, anche se non troppo importante...

«Anche questo è vero», ammise Masa, ripescandosi da quel momento di distrazione. Mancavano solo due fermate e poi sarebbe sceso. Si domandò per quanto ancora Okawa-san sarebbe invece rimasto impalato su quel seggiolino come uno spaventapasseri al suo bastone di legno, salvo poi maledirsi per la cattiveria di quella similitudine.

«L’azienda per cui lavoro è solita prendere sempre qualche ragazzo durante le vacanze», continuò Okawa-san, stringendo le mani tra le cosce. «Potresti farci un pensiero.»

«Di cosa si occupa esattamente?» Forzò dell’interesse, ma nemmeno ebbe da impegnarsi troppo. Suo padre aveva sì una concessionaria e sua madre era un medico, dettagli che significavano un gran bel bottino di yen. In fondo, la Ohu era privata e non certo gratuita. Non credeva però che i genitori non gli avrebbero permesso di prendersi un lavoretto umile. Lavorare quando avrebbe potuto vivere di rendita per ancora qualche anno sarebbe stato sinonimo di responsabilità e autonomia.

Autonomia. Che parola seducente.

«Lavoro d’ufficio, nulla di eccezionale.» L’uomo si frugò nella tasca della giacca e trasse un biglietto da visita. Era bianco e bordato di ghirigori neri. Se Masa non avesse saputo che riguardava un posto di lavoro, avrebbe pensato che fosse un malriuscito cartoncino di auguri di compleanno. Glielo tese con un generoso sorriso di cortesia. «Fare domanda non costa nulla. Sono sicuro che ti assumeranno senza pensarci.»

Il ragazzo gli sfilò il biglietto dalle dita e ci gettò uno sguardo. Il treno, alla partenza poco affollato, si era nel frattempo riempito di pendolari che, aggrappati ai sostegni, dondolavano lentamente avanti e indietro. Parlavano in pochi, e lo facevano a voce bassa. Qualcuno, la maggior parte, digitava frettolosi messaggi sui cellulari o sui tablet; altri giravano gli occhi attorno, languidamente, cuffiette nelle orecchie e viso impassibile. Lavoratori imbottigliati. Piccole anime stipate in una supposta di ferro e acciaio.

«Solo un giorno, ogni giorno», disse Okawa.

Masa, che non si aspettava che parlasse, ritornò a guardarlo. Si era rigirato il biglietto fra pollice e indice e per una frazione di secondo pareva essersi scordato di avere un compagno di viaggio. Sorrise, ma solo di riflesso, e l’altro, che colse una domanda in quella sua espressione, si affrettò ad aggiungere:

«È il nostro motto. “Solo un giorno, ogni giorno”. È il tempo che viene preso a noi dipendenti. Un giorno solo. Non è tanto.»

«È curioso.»

Okawa-san si chinò a recuperare la ventiquattrore e si alzò, mentre il treno cominciava a decelerare. «Ti auguro di concludere brillantemente il tuo anno.»

«Grazie, signore.»     

L’uomo gli lasciò addosso un sorriso prima di infilarsi fra la giungla di pendolari e dirigersi ad una delle porte. Quando scese, Masa lo cercò dal finestrino e lo vide incamminarsi a passo spedito verso le scale mobili, la sua bella valigetta stretta in mano e il portamento dritto e fiero. Fu distratto dalla donnina che acciuffò il seggiolino lasciato libero. Il ragazzo la spiò soltanto, il tempo di un sorrisetto di cortesia nonostante lei gli avesse rivolto un ghigno diffidente, e tornò a guardare la banchina. Il treno aveva già cominciato a muoversi e Okawa-san era scomparso.

Solo un giorno, ogni giorno. Appoggiò la nuca contro al vetro e diede un’occhiata al biglietto. Ora che l’uomo se n’era andato, era come se si fosse portato dietro la sua eloquenza; l’idea di chiudersi in un ufficio anche durante le già brevi vacanze estive gli sembrava ora più stupida del pensiero che esistessero giraffe volanti. Le sue labbra, piccole e dal disegno delicato, si curvarono agli angoli in un sorriso. Che stronzata, pensò.

Quando scese, lasciò il biglietto sul seggiolino. Non che questo gesto valse a cambiare le cose.

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Note.

1 In Giappone, l’anno scolastico inizia ad aprile e finisce verso marzo. Le vacanze estive durano più o meno sei settimane.

Cos'è successo?

Sì, cos'è successo? Succede che era da tanto che volevo scrivere qualcosa sulle ventiquattrore e che questo Contest mi ha dato la possibilità di sviluppare l'idea. Perché di uomini in giacca a cravatta che camminano in branco e parlano di lavoro ce ne sono sempre, in giro, e non posso mai fare a meno di chiedermi di cosa diavolo stiano ciarlando, cosa accidenti si portino dietro nelle valigette e cosa acciderboli trovino di appassionante nel mondo del lavoro e dalla finanza.

Ho tentato di immaginarmi qualche risposta. Non sono un'amante dell'horror fisico; per me questo genere deve essere soprattutto psicologico. L'horror è, prima di tutto, nelle idee. E con questa storia ho voluto immaginare qualche risposta alle domande che mi pongo quando vedo passare quegli sciami di uomini indaffarati, e davvero, col cuore, spero di non aver indovinato. Inoltre, Koriyama esiste sul serio. Per il resto devo davvero ringraziare i miei studi, perché senza la storia e la filosofia per come le insegnano al liceo classico, certi collegamenti e certe pensieri non sarei riuscita a farli. Grazie, Inferno <3 (?)

Ringrazio anche chi mi seguirà e chi lascerà qualche parere! Tolto il prologo, si tratta di cinque piccoli capitoli. Pochi. Non vi prenderò troppo tempo. Solo cinque capitoli, ogni cinque capitoli.

Dew_





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Capitolo 2
*** Essere nel Ventidue ***


2. Essere nel Ventidue





ESSERE NEL VENTIDUE

__________


 

«Ho i biglietti per Osaka», si annunciò Daisuke, infilandosi a sedere di fronte a lui. Per la fretta con cui si tuffò sulla seggiola, picchiò il piede contro una gamba del tavolo e rischiò di causare un catastrofico terremoto tra quel che Masa stava mangiando. In Giappone c’erano già troppe scosse sismiche, e Daisuke Ido era fra quelle. «Tra due settimane si levano le tende. Prenotare con anticipo è stata la scelta migliore. Tanto tu finisci tra quindici giorni, qui, no? Mi stai ascoltando?»

Masa non stava mangiando nel vero senso della parola. In risposta a quella domanda, sventagliò distrattamente le bacchette e non scollò lo sguardo da una direzione non ben definita, neanche stesse spiando i movimenti di un pugno di possibili furfanti all’opera. Messo a quel modo, i gomiti puntellati sul tavolo e le pupille a far capolino da sotto i sottili ciuffi neri dei capelli, sembrava un soldato vietnamita immerso in una palude e intento a farsi passare per un coccodrillo. «Lo stanno facendo ancora», mormorò. «Le stanno portando via.»

Daisuke, che ascoltava quella storia praticamente dal giorno in cui avevano entrambi cominciato a lavorare per l’azienda di Matsumoto, ruotò gli occhi verso il soffitto e si sistemò il proprio vassoio sotto al naso. «Sei paranoico, Ikeshima.»

Ad onor del vero si chiamavano per nome la gran parte delle volte. Il cognome, per loro che erano cresciuti praticamente assieme, era solo un modo per esprimere un profondo quanto ironico sarcasmo. Per una serie di coincidenze si erano ritrovati a firmare un piccolo contratto per lo stesso uomo, che aveva assunto giovani con lo stesso atteggiamento del Papa che chiama a raccolta le pecorelle smarrite. Masa non aveva ancora realizzato come fosse stato possibile, soprattutto perché aveva impietosamente abbandonato il biglietto da visita di Okawa sul seggiolino di quella supposta su rotaie. Pochi giorni prima del termine dell’anno scolastico, quando era stato sul punto di scordarsi del tutto di quello scambio di parole, sua madre aveva però scovato lo stesso annuncio sul giornale e lo aveva convinto – o costretto, dipendeva dai punti di vista – a provare quella piccola esperienza di lavoro che gli avrebbe portato via solo tre delle sei settimane di vacanza.

La vera sorpresa era stato scoprire che Matsumoto, il dirigente di cui non conosceva nemmeno il volto, aveva assunto un numero spropositato di altri studenti e persino qualche disoccupato oltre la trentina; il dettaglio inusuale, quello di cui solo Masa sembrava essersi reso conto, era il modo in cui erano organizzate le giornate di lavoro. Ognuno, al momento dell’assunzione, aveva avuto in regalo una ventiquattrore. La sua era bella, lucida e professionale, con il problema che non la usava. Era forse paradossale, ma era così; non poteva aprirla, dal momento che serviva una chiave che solo il capo del settore possedeva. Ed era così per tutte le altre. Sul contratto, in uno specchietto a parte, stava scritto che “Ai dipendenti più meritevoli verrà consegnata la propria chiave! All’interno, premio per lo sforzo del buon lavoratore!”; era una bella iniziativa, eppure restava un mistero il perché dovessero portarsele sempre dietro. A voler essere sinceri, quelle valigette sembravano più dei decori che strumenti di lavoro veri e propri.

Alcuni operai le raccoglievano durante la pausa pranzo e prima delle diciassette, orario di chiusura, salvo poi riconsegnarle ai rispettivi proprietari. Se l’immaginazione gliel’avesse permesso, e lui non ne aveva a sufficienza per concedersi questo lusso, Daisuke avrebbe detto che la sensazione era quella di assistere alla raccolta della biancheria da lavare e da rimettere poi a posto. Tra i due, l’unico in grado di partorire un pensiero tanto surreale era Masa.

«Avranno le loro ragioni», disse Daisuke, stringendosi nelle spalle. Aveva gettato uno sguardo verso le due porte socchiuse della mensa, oltre le quali l’amico aveva visto passare in fretta i carrelli colmi di valigette. «Forse è per evitare che qualcuno le rubi mentre tutti sono assenti.»

L’altro fece silenzio per qualche istante. Poi, nel tono meditabondo di chi si ritrova ai piedi del pero quando prima ci era sopra: «Non ci avevo mai pensato.»

«È perché ti complichi sempre la vita. Lascia perdere i meccanismi; in fondo l’importante è che l’oggetto funzioni.»

L’oggetto, ovvero l’azienda, funzionava bene. Non che avessero pienamente idea di che cosa si occupasse – qualcuno optava per la finanza, altri per la produzione di parti meccaniche -, ma gli orari erano buoni, la paga anche, l’ambiente organizzato. Il loro unico compito era fare qualche calcolo, ricopiare qualche dato al computer, controllare che le fotocopie colme di numeri fossero impeccabili. Andava tutto alla grande.

«C’è un’altra cosa che mi sorprende.» Masa tornò a rovistare nel vassoio con le bacchette, ma questa volta stava sorridendo.

«Cosa?»

«Il fatto che non ti abbiano detto niente per i capelli.»

Daisuke, che aveva atteso la risposta con tanto d’occhi, buttò uno sbuffo e allungò un pugno sopra al tavolo, beccando con entusiasmo la spalla dell’altro. «Sei un cretino. È tutta invidia.»

«No, sul serio

«Mi hanno detto che mi darò una regolata io, con il tempo. E ciò vuol dire che è invidia anche la loro.»

Masa non trovava nulla di eccezionale in quel suo orgoglioso senso di appartenenza alla moda hosuto1. Sancì la chiusura del sipario con una scrollata di capo e un sorrisetto che gli disegnò due fossette nelle guance. Erano anni che Daisuke viveva a quel modo, esibendo un costoso vestiario che poteva permettersi solo perché suo padre era un banchiere di quelli con la B maiuscola. Non frequentava l’università e si accontentava di girare in branco con altri suoi amici, facendo attenzione che i polsini delle giacche fossero a posto e le etichette ben in vista. I suoi capelli erano uno spruzzo nucleare in un parco acquatico. Letteralmente. Uno come lui sarebbe forse stato meglio a Ginza, dove girare con capi alla moda non era un optional.

«L’unica cosa che ti invidio è il senso dell’umorismo», confidò Masa, riguardando la sua prima intenzione di non aggiungere più nulla. «Per il resto, non ci terrei ad andarmene in giro con un riccio sciolto in testa.»

Daisuke strinse le labbra per costringersi a non ridere. Alcuni dipendenti accomodati lì vicino avevano origliato abbastanza da girare su di loro sguardi tra ammonizione e perplessità. «Mangia, Ikeshima, altrimenti un riccio te lo infilo nelle mutande stanotte.»

 

* * *

 

La nonna di Masa sfornava i migliori dorayaki 2 del mondo. Almeno era quello che dicevano tutti, e almeno era quel che lei faceva quando ancora era in vita. Dal momento che erano tre anni che riposava in pace, era naturale dubitare che continuasse a impastare e infarcire. Forse, e l’idea non era niente male, metteva insieme qualche nuvola e li preparava lo stesso.

La vera fortuna era che questa brava donna spirata a ottantadue anni suonati aveva lasciato questo suo passatempo in eredità alla figlia. Midori, che da lei si era presa anche il piccolo neo sul collo e le dita un po’ corte, aveva imparato a preparare quei dolci proprio seguendo la sua stessa ricetta. Di contro, Masa aveva sì il neo e le dita poco eleganti, ma non si era scoperto ugualmente portato nell’arte della pasticceria. Così lasciava che a prepararli fosse lei, salvo poi mangiarli quasi tutti lui. Un buon ragionamento.

Aveva trascorso l’infanzia e la prima adolescenza coi dorayaki della nonna, per poi imboccare la strada verso la maturità con quelli della madre. Si sentiva quasi un eroe antico, uno di quelli consapevoli di essere l’ultimo a poter gioire di un gran vanto di famiglia. Aveva ottime ragioni di credere che i suoi nipoti non avrebbero avuto l’opportunità di assaporare quella prelibatezza fatta in casa, per cui si godeva il momento con l’orgoglio di un titano prossimo alla caduta. Era una bella sensazione e lo faceva sentire importante, sempre che ci si potesse considerare tale quando l’eredità di cui si va tanto fieri è un simpatico dolcetto di forma circolare.

Ricordava con morbosa chiarezza la passione con cui li mangiava da bambino, il gesto quasi rispettoso con cui prendeva il primo pezzo e la serenità con cui pensava che era un po’ come scaricare la vescica dopo ore di silenzioso supplizio. La dolcezza di quei bocconi gli dava un sollievo quasi fisico, e le cose non erano cambiate nemmeno ora che aveva superato di poco i vent’anni. In passato era stato più corto, non avvertiva il fastidioso prurito della barba che minacciava di ricrescere, ma per il resto non era cambiato quasi nulla; sul futon, in un giaciglio di coperte, rivista o libro aperto sulle gambe, piatto di dorayaki lì accanto, per terra.

Stava per portesene uno alla bocca, concentrato come solo lui sapeva fare quando si trattava di mangiare e leggere in contemporanea, quando il cellulare si mosse. L’apparecchio fece un salto e, colpa della vibrazione, prese a girare su se stesso come una trottola. Chiamata. Masa, che a causa del silenzio accolse quel rumore un po’ come si accoglierebbe un bombardamento aereo, ebbe un sobbalzo più simile ad una scarica di elettroshock. Solo in un secondo momento fu in grado di allungare la mano libera per acciuffare quell’aggeggio infernale e dare un occhio al nome di chi gli aveva fatto rischiare l’infarto.

«Nao, quando saremo a Osaka, ricordami di svegliarti facendoti scoppiare un palloncino in faccia», rispose quando si portò il telefono all’orecchio.

«Non dirmi che stavi dormendo. Sono le otto di sera.»

«No, me ne sto seduto sul letto. Che è la stessa cosa.» Non scherzava. Era uno studente brillante, ma abbastanza distratto da confondere le due cose. «Daisuke ti ha dato il biglietto? Li ha comprati lui per tutti.»

«Sì, ma non è di questo che voglio parlarti. Accendi la tv. Hai la tv in camera, no?»

Masa si era già tuffato di lato per acciuffare il telecomando. Si era sistemato il cellulare fra spalla e orecchio e stava sorridendo senza sconti. In qualche modo, destreggiandosi in un comico gioco di equilibrismo per non far cadere il libro che reggeva sulle gambe o restare imbrigliato nelle coperte, recuperò quel che cercava. «Ho tutto quello che vuoi, Fuyutsuki. È che in camera di norma faccio altro.»

«Non fare lo spiritoso.» Dalla voce era facile capire che cercava di non ridere. Sapeva della tv e sapeva che in camera si poteva fare di meglio che accenderla. Non per nulla era la sua ragazza da ormai due anni. «Prendi il telecomando e metti sul Ventidue.»

Il televisore era un piccolo gioiellino firmato Samsung. Se ne stava in un angolino della stanza, per di più ignorato e ricoperto da un perenne strato di polvere. Se era in funzione, il comando audio muto lo zittiva. Masa non poté biasimarlo quando si accese con un ronzio indispettito.

«Guarda che non scherzo», diceva nel frattempo, gli occhi abbassati a digitare il numero. C’era qualcosa di innaturale nella postura in cui si trovava, seduto tra le coperte con un dorayaki nella sinistra, il telecomando nella destra e il cellulare schiacciato in un bacio tra spalla e orecchio. Wow, degno di un supereroe, o di un contorsionista thailandese. «Questa storia del divorzio dei tuoi è un bell’impaccio. Quand’è che passi a trovarmi?»

«Appena posso. Lo sai, voglio stare vicina a mamma e papà. Sei sul Ventidue?»

«Sì, ma non vorrei essere nel Ventidue, se capisci cosa intendo. Cos’è quel gregge di gente? Soffocherei.»

«Vorrai dire chi è. È il tuo capo, testa di cocco. Matsumoto, quello dell’azienda.»

L’immagine imbottigliava in un unico spazio un gran numero di persone. Era un interno, probabilmente un grattacielo, a giudicare dalla finestra che si intravedeva e che testimoniava una certa altezza da terra. Tutti quanti erano disposti davanti ad un corridoio grigio, che filava in lontananza e suggeriva la presenza di parecchie porte, quasi per certo uffici nuovi di zecca. Uomini e donne in giacca e cravatta osservavano l’inviato, al centro, che sorrideva con la bocca forse troppo vicina al microfono. È alle prime armi, pensò Masa. E poi, senza un nesso logico: è un’emittente piccola, di quelle di classe C. C come Cicca. Ovvio che non conosco chi ci lavora. Un sacco di mosche indistinte. Accanto a Senza Esperienza c’era un uomo un po’ più alto degli altri, dai radi capelli scuri e dalle sopracciglia folte. Teneva le mani dietro la schiena e i suoi occhi erano tanto neri da sembrare senza pupille, luminosi come la promessa di Mosè. 

«È lui?» domandò Masa. «Il tizio impagliato?»

«Hai davvero un gran rispetto per il tuo capo.»

«L’era del Bushido 3 è passata da un pezzo. Stanno davvero inventando altri posti qui in città?»

«A quanto pare sta dando lavoro a un sacco di gente. Gente come lui serve, di questi tempi.»

Senza Esperienza presentava l’iniziativa con molto entusiasmo. Matsumoto aveva acquistato tre piani di quel grattacielo e voleva riaprirli come uffici. Quanto a lui, non era intenzionato ad interrompere il gran discorso dell’inviato e si limitava ad annuire e a scambiare qualche sorriso con qualcuno dei colleghi. Davanti a loro ma distante un bel po’ di chilometri, Masa prese un morso dal dorayaki e cominciò a masticare lentamente, seguendo il filo del discorso. Era chinato in avanti in un modo un poco inquietante, ma non c’era nessuno a farglielo notare.

«Nao, ma tu sai da dov’è balzato fuori?»

«Chi? Cosa?»

«Matsumoto.»

«Da un uomo e da una donna che si vogliono tanto bene. Che razza di domanda è?»

«Non intendevo quello.» Masa mandò giù il boccone senza perdersi il momento in cui Senza Esperienza consegnò un paio di forbici al grande capo. Poco più indietro, un nastro giallo chiudeva il corridoio. «Deve averne, di soldi, per assumere e comprare.»

«Proverrà da una qualche famiglia facoltosa. Non tutti i ricchi del mondo hanno il loro nome e cognome nella Hall of Fame. Ci sono molti imprenditori che si fanno strada dal nulla; magari i suoi nonni erano contadini.»

«Forse», convenne lui. Si concesse l’ultimo pezzo di dolce e si pulì la mano sulle coperte.

«Ti trovi bene?»

«Non mi lamento. È bello avere qualche risparmio per me. Non dovrò chiedere denaro ai miei quando partiremo per Osaka.»

«Pensavo la stessa cosa. Avevo una mezza idea di fare domanda; manca ancora un po’ prima della partenza.»

Da suo collega alla Ohu, Masa non trovò nulla da dirle in contrario. Si strinse nelle spalle e riacciuffò il cellulare, sgranchendosi il collo. «Sarebbe bello. C’è un sacco di gente che conosco che lavora per Matsumoto.»

«È vero che regalano a ciascuno una borsa?»

«Una valigetta. Ventiquattrore. Niente di troppo lussuoso o femminile.»

«Ma è una bella cosa. Mi dà l’idea di un’azienda responsabile e affettuosa. Penso proverò a farmi assumere.»

Amorevole come fresco dopobarba, rifletté lui, ma non lo disse. Quello che invece fece fu sorridere, un sorriso decisamente da idiota, e uscirsene in un tono da lapidario giornalista con un: «Koriyama: la città-dipendente.»

Lei rise. Fu un suono fragrante, anche se velato dal fruscio della linea telefonica. Rise su una battuta su cui solo qualche giorno più tardi non avrebbe riso più.

 

* * *

 

Il quartiere più a nord dipese per primo. La minoranza che ancora non era stata assunta o non aveva scelto di lasciare il proprio lavoro per abbracciare il solo un giorno, ogni giorno lo fece in un secondo momento. Alcuni firmarono contratti di poche settimane, altri di un intero anno. Era persino possibile lavorare per sole ventiquattr’ore, salvo poi lasciare la scrivania ad un nuovo collega.

Leggevano gli annunci sui giornali, su Internet, sui cartelloni, e proseguivano per un periodo con le loro vite di sempre. Poi, chi presto e chi tardi, si svegliavano la mattina e decidevano di fare domanda. Negli esercizi commerciali esistenti da tempo rimase solo un minimo numero di dipendenti; il resto ebbe in regalo la bella e lucente valigetta scura.

Più a est, dove molti spazi erano in vendita, vennero aperti altri uffici. Un buon numero di palazzi finirono con l’essere interamente acquistati dalla società di Matsumoto. In una città già presa d’assalto dal vorticoso giro di affari della prefettura, uomini e donne con anonimi completi neri cominciarono ad affollare la stazione, la metropolitana, le strade. Divennero sciami.

Prese a lavorare anche Nao. Sei giorni dopo l’assunzione, un mercoledì, quando Masa si fece consegnare la propria ventiquattrore come ogni mattina, la trovò più pesante del solito. Pensò che fosse stanchezza. Il giovedì sembrava che qualcuno ci avesse sistemato dentro un piccolo peso di piombo.

Daisuke mi ha dato del paranoico, pensò. Comincio a credere che abbia ragione.

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Note.

1 La moda hosuto prevede abiti di marca e capelli voluminosi dai tagli fantasiosi e appariscenti.

2 I dorayaki sono dei tipici dolci giapponesi: due pancake riempiti, di norma, con una salsa di fagioli. Ne esistono innumerevoli varianti, tra cui quelli farciti con marmellata o varie creme.

3 Può essere identificato come il corrispettivo della nostra cavalleria europea. Seguita dai samurai, è una condotta morale e di vita improntata sul rispetto per gli altri, per i superiori e anche per il nemico.

B T W _ Su questo sito ho un sacco di gente che mi vuole bene. Nel senso, è che vorrei finire di pubblicare prima della scadenza del Contest, aka 2 giugno, sia per una fissa mia (?), sia per, come dire, correttezza. Non so spiegarmi, non sono mai capace di farlo, quindi prestate pazienza anche per questo x'

Sostanzialmente, spero mi vogliate bene anche se corro con gli aggiornamenti. Chu (?) <3

Dew_ <3


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Capitolo 3
*** Incastrati e costretti a girare in eterno ***


3. Incastrati e costretti a girare in eterno









INCASTRATI E COSTRETTI A GIRARE IN ETERNO

__________

 

Doveva essersi distratto, perché solo in un secondo momento si accorse del trio di uomini fermo accanto alla scrivania. Quando si volse del tutto verso di loro, uno dei tre, più avanti rispetto agli altri di qualcosa come mezzo passo, lo accolse sfilando un sorriso eloquente. Fu come vedere una feroce virgola fare capolino in un testo privo di punteggiatura.

«Ikeshima? È lei, giusto?» chiese l’uomo.

Masa annuì in automatico, scostando le mani dalla tastiera. Era completamente consapevole dell’espressione da idiota che gli si era piantata in faccia; in un esilarante fumetto che l’immaginazione gli stampò nel cervello, si vide cadere da un pero e rivolgere a quegli inattesi ospiti uno sguardo da “Ehi, ma questo è il Pianeta Terra?” La realtà non doveva poi essere così diversa.

«Dobbiamo prendere un attimo la sua valigia», spiegò l’altro. Teneva le mani intrecciate dietro la schiena e non aveva smesso di sorridere, quasi non si fosse accorto dell’alto livello di distrazione di chi aveva di fronte. Sempre che quel suo stoico atteggiamento non significasse che preferiva non accorgersene. «Gliela riporteremo tra pochi minuti.»

Il ragazzo batté le palpebre una volta sola. Teatralmente. «Dovete prendere la mia cosa?» Nel silenzio dell’enorme ufficio organizzato in linee orizzontali, la domanda risultò forse un po’ troppo alta, ma nessuno alzò gli occhi per vedere cosa succedeva. Il ticchettio delle tastiere e lo squillo di qualche telefono continuarono imperterriti.

Non era sicuro di aver sentito bene. E dire che la ventiquattrore se ne stava lì accanto, sull’angolo della scrivania in ferro, e non dava fastidio a nessuno. Nemmeno abbaiava, si disse, ma il pensiero non riuscì a divertirlo. L’ora sul desktop suggeriva che mancavano ancora cinquanta minuti alla pausa pranzo. In termini più semplici, era un po’ troppo presto per il rituale ritiro delle ventiquattrore, e lui decisamente distratto e colto alla sprovvista.

L’uomo non si scompose e lo osservò con deliziata indulgenza. A Masa ricordò Okawa-san che cercava di convincerlo a lavorare per il mondo. «Pochi minuti», ripeté. Fece un cenno e uno dei colleghi sottrasse la ventiquattrore al suo angolino. «Gliela restituiremo e lei potrà tornare ai suoi doveri. Ci aspetti.»

Altro non disse. Se ne andò per il passaggio sgombro fra le file di scrivanie, spalleggiato dagli altri due. Masa allungò l’occhio lungo il corridoio e lì seguì finché si infilarono nella prima porta buona. Uscirono.

La loro visita bastò a strapparlo definitivamente a quel che stava facendo. Ricordava di essere concentrato, immerso quanto bastava in quel mondo di dati e pixel per poter continuare per un anno intero, e poi... Poi? Poi aveva cominciato a pensare ad altro, e quell’altro aveva prima rallentato e dopo azzerato la sua voglia di fare. Finché non erano arrivati gli uomini a fregargli la valigetta, così, senza un motivo apparente, e lui era cascato dal cielo, simile nel comportamento ad un putto che si accorge di essere nudo e cicciottello di fronte a tizi che non conosce. Non gli serviva riavvolgere il nastro per sapere con assoluta certezza che in faccia gli si era letta una distrazione quasi imbarazzante.

Mentre aspettava, girò ancora gli occhi nell’ufficio. Forse era perché non stava lavorando, forse perché era l’unico lì dentro a non fare assolutamente niente e a pensare agli affari suoi, ma d’improvviso gli arrivò in faccia una zaffata di malessere generale. In quell’enorme stanza rivestita di pannelli bianchi, dal soffitto e dal pavimento grigi e puliti, file e file di dipendenti affrontavano la quotidianità davanti ai computer. Di fianco ad ogni schermo, appoggiate con un’idea di riverenza, stavano le ventiquattrore di ciascun dipendente. Masa, che si trovava all’estremità di una delle file, fu pugnalato a tradimento dal pensiero che lì dentro fosse tutto troppo ordinato. La colpa era quasi per certo di quello sguardo unico, ma ebbe la sensazione che gli uomini e le donne seduti e chini sulle tastiere fossero parte dell’arredamento. Parte dell’ordine e della geometria, parte del giorno in cui si erano svegliati. Non ci aveva mai pensato. Non aveva mai riflettuto su quanto quel lavoro li rendesse pericolosamente monocromi. E Daisuke era monocromo come gli altri; si trovava dall’altra parte del corridoio, una fila più avanti alla sua.

Colto da un’ispirazione, Masa si infilò la mano nella tasca. Non avrebbe dovuto, ma non riuscì a trattenersi. Cercò e trovò la sagoma fredda del telefono. Lo accese, ringraziando l’abitudine di tenerlo quasi sempre in modalità silenziosa. Chiamava il suo migliore amico così spesso da essere persino in grado di farlo senza vedere i numeri. Facile, soprattutto grazie ad un po’ di pratica e ai tasti di chiamata rapida. Da che lo conosceva, Daisuke viveva con il cellulare acceso. Era anzi convinto, almeno nelle proprie fantasticherie, che ne avesse avuto uno anche quando galleggiava ancora nel liquido amniotico della madre e in testa non gli era cresciuta quell’esplosione atomica che si trovava per capelli.

Lo vide sussultare. L’impressione fu che un insetto gli si fosse infilato nelle mutande. Si impose di non ridere mentre lo vedeva afferrarsi la tasca di colpo, quasi per certo nel tentativo di non far notare la vibrazione del telefono, prima di tuffare una mano e sfilarlo quel poco che bastava per leggere il nome sullo schermo; poi rifiutò la chiamata, affondò di nuovo l’apparecchio e alzò gli occhi, girandoli indietro per incrociare quelli dell’amico. La sua faccia era cinerea.

Masa la trovò irresistibilmente spassosa. Alzò i pollici in segno di vittoria e sfilò un sorriso da vincitore della lotteria. Okay!, stava a significare.

“Okay” un cazzo. Le sue labbra che sillabavano in silenzio. Sei un coglione.

Non ci fece caso. Guarda, gli disse con le dita, che batterono l’angolo vuoto sulla scrivania. No valigia. Presa.

Daisuke corrugò la fronte. Dov’è? Domanda resa più esplicita dal cenno del mento e dall’espressione ora sorpresa e perplessa.

Tre. Tre dita. Presa. Portata via. Non so.

Questa volta l’altro non ricorse alla bocca. Si limitò a storcerla e ad alzare le spalle, un gesto che equivaleva ad uno spassionato E lo chiedi a me?

Grande considerazione, gli rispose l’occhiataccia di Masa. Poi si accorse che una porta si era aperta e poi chiusa e, alzando gli occhi oltre lo schermo, vide i tre uomini. Stavano tornando indietro. Stavano tornando da lui, e lo stavano facendo con la sua ventiquattrore.

All’altro bastò seguire la direzione del suo sguardo per interpretare. Tornò al lavoro a labbra strette, le pupille incollate sul desktop e le mani tornate precipitosamente sulla tastiera, lì dove dovevano stare. Masa ebbe appena il tempo di accertarsi che avesse avuto la prontezza di fingersi impegnato e zelante che i tre gli si piantarono di nuovo davanti.

«Come promesso», esordì lo stesso uomo che già gli aveva parlato, e posò la valigetta là dov’era prima. Sorrideva ancora, con una generosità quasi convincente. «Ora può tornare a lavorare, signorino Ikeshima. Ci scusiamo per il disturbo.»

Il ragazzo sfoderò l’espressione più soddisfatta e grata che si fosse mai inchiodato in faccia a forza. «Nessun problema. Grazie.»

Mantenne impeccabile quella maschera finché non se ne furono andati e li sbirciò mentre uscivano in fila indiana. Poi, quando riportò lo sguardo sulla ventiquattrore, la trovò inspiegabilmente più pulita. Più bella e spaziosa. La soddisfazione che solo poco prima aveva recitato divenne reale, tangibile. Almeno gliel’avevano restituita a posto. Guardò verso Daisuke, ma vide che l’amico si era di nuovo dedicato anima e corpo ai dati che doveva trascrivere e inviare entro pranzo. Poi si accorse che la voglia di sbrigarsi era tornata anche a lui, perché di tempo non voleva perderne. C’era già troppa gente al mondo che esisteva e basta, senza fare nient’altro. Persone come quelle pensavano e basta. Erano tutte piccole e annoiate cose materiali che perdevano minuti preziosi riflettendo su cose immateriali.

Una categoria, insomma, che preferiva evitare.

 

* * *

 

L’idea era stata di Daisuke. Masa aveva avuto due giorni per pensarci, e quei due giorni gli erano bastati per farsi convincere dall’ipotesi che il signorino Ido avesse organizzato quella trovata non tanto per aiutarlo, quanto per rinfacciargli d’avergli fatto squillare il telefono in ufficio. D’altronde non chiedi ad un amico di chiudersi in bagno e di restarsene seduto sulla tavolozza abbassata dal water fino a sviluppi, a patto che tu non voglia tirargli un enorme bidone e costringerlo in posizione fetale per metà giornata. Aveva però riconosciuto che il piano da lui proposto avrebbe potuto rivelarsi un’occasione d’oro, forse l’unica che potevano permettersi, per scoprire a cosa diavolo servissero quelle ventiquattrore.

Daisuke, che per una buona volta non gli aveva dato del paranoico, aveva accettato di spalleggiarlo per il semplice fatto che la curiosità era troppa anche nel suo caso. Aveva assicurato di conoscere una buona maniera per aprire una valigetta senza corrompere la serratura – a dire il vero aveva usato il verbo “scassinare”, e Masa aveva capito che trovava la situazione eccitante quanto una rapina in banca -, gli aveva spiegato cos’aveva in mente e aveva concluso il discorso con un bel sorriso da aspirante milionario. Sempre per la questione della rapina, esatto.

«Però non farti beccare», gli aveva raccomandato l’altro. «Se ti beccano, poi la colpa è mia perché ti ho messo in testa tutta questa storia, Daisuke.»

«Sei troppo agitato. L’ho già fatto.»

«Cosa? Rubare?»

«No, quello no. Intendevo aprire le serrature senza una chiave.» Una pausa. Poi: «A rubare comincio domani.»

Non era stata un’uscita divertente e Masa lo aveva salutato attaccandogli il telefono in faccia. Per la verità c’erano un sacco di cose che erano cominciate domani. Suo padre aveva cominciato a lasciare la concessionaria al secondo in comando per mezza giornata, e solo per guadagnarsi a sua volta un posto in uno degli uffici di Matsumoto con la grinta con cui ci si iscrive ad un corso di pittura di nudo; Nao, che aveva sentito solo pochi giorni prima, aveva già preso posto in uno dei grattacieli acquistati dalla società e gli aveva parlato con entusiasmo delle sue prime ore da dipendente; quanto ai suoi genitori prossimi al divorzio, il padre aveva fatto le valigie e l’aveva lasciata con quella che sarebbe ufficialmente rimasta sua consorte per il tempo di qualche stupida pratica burocratica. Il fatto era che le cose stavano acquistando una velocità quasi insana; sembrava che avessero imboccato una discesa e che stessero andando giù sempre più di corsa, mosse da quella fretta esponenziale e inarrestabile dei corpi fisici buttati lungo un pendio. Procedevano, andavano senza che ci fosse nessuno a dare la spinta o a dettare le cause. C’erano solo le conseguenze.

E fra tante cose che si muovevano, lui se ne stava fermo sulla tazza di un cesso ad aspettare che Daisuke facesse la sua parte. Quel piano era zeppo di servizi igienici per uomini, ma avevano scelto il più piccolo fra tutti, con un totale di otto cabine e rispettivi lavelli di fronte. Non che questo rifocillasse il suo spirito per l’avventura, anche se a rincuorarlo c’era il fatto che al momento ci fosse solo lui. Wow.

Sentì la porta del bagno aprirsi proprio mentre prendeva in considerazione l’idea che qualcosa fosse andato storto. Rizzò le orecchie e trattenne il respiro. Aveva avuto precise indicazioni e qualche minuto prima, quand’era entrato in quella cabina, si era sfilato la cintura posandola a terra, a poca distanza dalla zona di vuoto fra porticina e pavimento. Ora allungò il piede e spostò la cinghia un po’ fuori, ad indicare che si era chiuso lì dentro. Era una misura preventiva; magari non si trattava di Daisuke e allora nessuno avrebbe trovato qualcosa di sospetto in una cintura arrotolata a terra. I pantaloni si dovevano pur togliere e c’era anche chi si sfilava del tutto la cinghia.

E invece era Daisuke. Lo capì perché si infilò nella cabina accanto, chiuse la porta dietro di sé e picchiò le nocche contro la parete che separava i due spazi. «Ikeshima? Ido chiama Ikeshima. Il suo attacco di cacarella è così devastante, signore? È qui da un bel po’!»

«Non fare lo scemo», lo rimbeccò Masa, ma stava sorridendo. Di sollievo, soprattutto. Ora che parlava, capì anche di essere nervoso. Si accucciò a terra e spiò dall’altra parte. «Ce l’hai?»

«Cosa? No, da questa parte niente brodaglia marrone, signore.»

«Piantala. E abbassati, che non ti vedo. Non potevi entrare direttamente da me?»

Ma Daisuke si stava già abbassando e quando sbirciò dalla sua parte con i capelli a cascargli davanti e per terra e la guancia premuta sulle piastrelle, allungò un sorriso e alzò le sopracciglia. «Avresti mai creduto possibile guardarsi così, io in un cesso e tu in un altro?»

«No.»

«Sostanzialmente non sono venuto da te per evitare di attirare l’attenzione se qualcuno dovesse entrare. Se permetti, io butterei l’occhio se notassi che in una cabina ci sono quattro piedi e non due. E in un bagno per uomini, per giunta.»

Masa non lo biasimò. Il collo cominciava già a fargli male, ma si costrinse a restarsene così, chino in quello spazio angusto come un musulmano in preghiera. Il gabinetto non gli lasciava molto margine d’azione. «Non voglio pensarci. Allora, ce l’hai?»

L’altro si portò accanto alla testa una valigetta nera, un po’ troppo alta per passare attraverso la linea di vuoto fra le cabine. Ci batté la mano nel gesto fiero di chi presenta un baule colmo d’oro sonante. «Ce l’ho, capo. Tutto liscio.»

Rubarla ad uno dei colleghi avrebbe potuto metterli in guai seri, ma era poi quello che avevano deciso di fare. Altre buone occasioni non ce n’erano, così come non avevano modo di scoprire dove portassero le ventiquattrore quando le ritiravano durante la pausa pranzo e prima di spedire a casa i dipendenti. Quanto ad aprire le loro, di valigette, non se ne parlava. Avrebbe significato andare sì in bagno, dove avrebbero potuto svolgere senza problemi quello sporco lavoro di scasso – dubitavano che ci fossero telecamere, lì dentro -, ma avrebbero dovuto portarsele dietro per un lungo tratto del corridoio fra le scrivanie, e allora certo che avrebbero attirato l’attenzione.

«Il tizio è quello di fronte alla porta», stava dicendo Daisuke, un sorriso a suo modo strambo per via delle piastrelle che gli schiacciavano la guancia. «Su quella scrivania non c’è spazio per mettere la valigia di fianco, così il tipo la sistema dietro allo schermo. L’ho presa e lui nemmeno se n’è accorto; l’attimo prima gliela rubavo, quello dopo ero già in corridoio. La strada per arrivare qui è una passeggiata.»

Giusto, neanche stesse narrando una rapina epica. Masa avrebbe dovuto prevederlo. «Non perdiamo tempo. Aprila e dimmi cosa c’è dentro.»

«Dammi un minuto», disse, poi sparì.

Si rialzò anche Masa, con la chiara sensazione di aver violentato i muscoli del collo, e si sedette per terra, nello spazio fra parete e gabinetto. Quando si accorse che la cravatta cominciava a stargli troppo stretta, allentò il nodo e sistemò la nuca contro il muro, nell’angolino. Una posizione quasi comoda. Dall’altra cabina avvertiva solo movimenti leggeri, lo stridore di ferro contro ferro. Daisuke doveva essersi procurato una forcina per capelli abbastanza grande. Considerati i capelli che aveva in testa, non c’era da stupirsene.

Passò un minuto prima che sentisse, chiaro a distinto, lo scattare della serratura. Si chinò ancora, precipitosamente, lottando contro l’ingombrante presenza del gabinetto per poter di nuovo sbirciare dall’altra parte. Di Daisuke c’erano solo le scarpe tirate a lucido; se ne stava sul cesso con la valigia sulle gambe, supponeva.

«Wow!» Tutta gioiosa ironia.

«Wow cosa? Non fare lo scemo, Ido. L’hai aperta?»

«Dentro c’è qualcosa di davvero insospettabile! Mi chiedo se sia così per tutte le altre.»

«Adesso comincio con le parolacce.»

«Aspetta.»

E Masa aspettò. Perché la voce dell’amico aveva assunto una nota che non gli piaceva. Oh, non gli piaceva per niente. «Cosa?» domandò dopo un attimo, con cautela. «Cos’hai trovato?»

Per un po’ ci fu solo un rapido sfogliare, l’inequivocabile suono di pagine che venivano girate e passate in veloce rassegna. Poi, una parola mormorata, ma chiara come acqua corrente: «Cazzo

Daisuke non si faceva problemi a sporcarsi la bocca. Non era un poeta, non era un romantico, uno di quei ragazzi pane e miele che qualsiasi genitore desidererebbe come genero. Ogni tre parole che diceva, almeno una era di norma piuttosto libertina. Il dettaglio era che Masa non aveva mai avvertito della sincerità in quell’atteggiamento da spaccone; lo faceva solo perché così faceva la gente che frequentava. Il problema, invece, che in quel momento l’aveva percepita luminosa, consapevole. Era stato un cazzo dichiaratamente onesto, per Dio.

Si sentì il palato asciutto. «Dai, passa», disse. In un modo o nell’altro. «Muoviti. Non mi piace.»

L’altro scese dalla sua sedia improvvisata e si accucciò a terra, lasciando la valigia dietro di sé. Quando si affacciò allo spioncino, gli passò un fascicolo di fogli A4, fitti di appunti. «Non piace neanche a me.»

Masa recuperò in fretta le pagine e si mise pesantemente a sedere nel suo angolino, tra il muro e la parete che divideva le cabine. Quel giorno si era dimenticato a casa gli occhiali da lettura – che non portava nemmeno troppo, in barba alle raccomandazioni congiunte di oculista e madre –, e le scritte erano così piccole e ingarbugliate da costringerlo a stringere gli occhi. Era giapponese, e fin lì non c’era nulla di sbagliato; di sbagliato era il fatto che si trattasse di fogli inondati di flussi di coscienza. Ricordava in modo piuttosto dispersivo le lezioni al liceo che aveva fatto in merito, ma sapeva il necessario. Bastavano una penna, un foglio, e si cominciava a scrivere tutto quel che passava per la testa, anche senza l’uso di una grammatica corretta. Aveva tentato di metter giù qualche testo del genere, giusto per esercizio, salvo poi trovarlo incredibilmente noioso e lasciar perdere.

Quelle che aveva di fronte erano fette. Non gli venne in mente parola migliore. Fette di un’altra testa, brandelli di discorsi, di ricordi, di raccomandazioni, di canzoni. C’era di tutto. D’improvviso si sentì le dita di ghiaccio.

«Quanti ne hai?» chiese, con una voce che faticò a identificare come sua. «Quanti fogli così ci sono?»

«Tanti. Tutti. No, aspetta.» Ancora uno sfogliare precipitoso. «Non tutti. Alcuni sono bianchi.»

«Sto pensando ad una cosa, Daisuke.»

«Spero non sia quello a cui sto pensando io.»

«Prendono le valigie durante il pranzo, le ritirano ancora a fine giornata. Vanno a cambiarle quando sono piene. Le riempiono di fogli bianchi e ce le restituiscono. Poi noi lavoriamo, e facciamo un ottimo lavoro perché loro si prendono le cose che potrebbero distarci. Si prendono i nostri pensieri.»

«Loro chi?»

«Le valigie. Forse, con il passare del tempo, si prenderanno troppo di ciò che siamo. Forse ne diventeremo dipendenti e saremo solo in grado di lavorare in eterno.»

«Ah. Proprio quello a cui pensavo io. Non dire altro, perché non ha senso.»

C’era un certo timore nella sua voce, e Masa se n’era accorto. Avvicinò il foglio e inspirò. Inchiostro. Solo che di inchiostro mancava l’odore. E anche di carta.

Poi qualcosa si mosse. In fretta, nero su bianco, uno scribacchiare scomposto e silenzioso. Non gridò, ma lasciò la pagina e il respiro gli si inchiodò in gola strozzandogli in petto l’urlo che altrimenti avrebbe lanciato. Puntellò i talloni sul pavimento e fece per spingersi indietro, neanche potesse entrare nel muro, e nel movimento batté la nuca contro la parete. Una mano gli afferrò il polso. Daisuke. Il suo braccio infilato nella cabina.

«Che c’è?» chiese. «Cos’hai visto?» Poi spostò gli occhi sul foglio per terra e trovò la risposta ancor prima che la risposta trovasse lui.  

C’era ancora un po’ di spazio, sulla pagina. C’era stato. La frase che era sbucata nel nulla si incurvava appena, complice la volontà di riempire più bianco possibile. La grafia era impeccabile, degna di un uomo adulto e istruito, di un marito, di un padre di famiglia. Degna del tizio a cui aveva fregato la valigetta.

Masa sentì la presa dell’amico farsi più morbida fin quasi a svanire, eppure la mano non si ritrasse. Non aveva ancora scollato gli occhi dalla pagina. «L’hai visto. L’hai visto, Daisuke.» Non era una domanda.

Era una bella riga, quella nuova. Ispirava allegria e quotidiano, la confusione di una perfetta e caotica vita mentale.

Passare da XEBIO1 per regalo non so devo chiamare fare più foto ma li vendono? la torta portare anche cane domani danno pioggia frescura mi piace!

Mi piace.

«A me no», mormorò Masa. Quasi non se ne accorse. «A me non piace. Per niente.»  

 

* * *

 

Erano fermi sulla banchina della metropolitana quando Masa, molto lentamente, disse: «Non dirglielo.»

Non c’era bisogno di chiedere. Benché fossero passate ore da quando avevano aperto la ventiquattrore, l’amico trovò nella sua voce un timore sincero, nonché il nome che aveva omesso. Nao. «Va bene», rispose. «Sta’ tranquillo.»

Sul tabellone lampeggiavano numeri arancioni. Sette minuti.

«Forse avremmo fatto meglio a riportare indietro la valigetta», aggiunse Daisuke dopo un attimo, osservando i binari. Erano spalla contro spalla, ma nessuno dei due sembrava intenzionato a guardare l’altro. Se ne stavano semplicemente immobili appena dietro la riga gialla, due giovani in giacca e cravatta che si tenevano un po’ in disparte dagli altri che aspettavano il loro stesso treno. «Le regole sono severe.»

«Tanto lo hai visto. Quella cosa si prendeva lo stesso i suoi pensieri.» Masa si chiuse in una rapida riflessione. «Tu stai pensando?»

«Lo stiamo facendo entrambi. Qui non ci raggiungono.»

«Quando ci siamo rimessi al lavoro... Quando siamo tornati nell’ufficio, Daisuke, avevo paura. Ma poi sono stato bene, e ho lavorato ed è stato come scollarsi di dosso il fiato del quotidiano. Come attaccarsi ad una mascherina per l’ossigeno. Dio, se andavo veloce.»

«Questa cosa sarebbe piaciuta a Stachanov2.»

Masa si voltò. Le luci della metro scovavano nuove e insospettabili ombre sul suo volto. «A chi?»

«Stachanov. Quello che ha dato il nome allo stacanovismo. La filosofia del lavoratore perfetto e instancabile.»

«Be’, io non voglio essere un lavoratore perfetto. Non a queste condizioni.»

«Procediamo per ipotesi», riprese Daisuke, ficcandosi le mani in tasca e sollevando appena il mento nel suo classico atteggiamento da Dammi un minuto, sto partorendo l’universo. «Ammesso che questo non sia un sogno, staremmo lavorando per un uomo che ha dalla sua un esercito di valigie in grado di ripulire la testa dei dipendenti di modo che lavorino al cento per cento come automi.» Pausa. Poi, con una smorfia: «Dai, è fantascienza.»

«O il secolo ventunesimo», rispose Masa.

«Sei apocalittico.»

«Sono sincero. Sono molto distratto, lo sai. Lo sono sempre stato, eppure ho dato il meglio di me sin dal primo giorno di lavoro. E adesso so perché; perché là divento un ingranaggio incapace di pensare. Lo siamo tutti. Incastrati e costretti a girare in eterno.»

L’amico strinse le labbra. Nella pausa di silenzio che si tese fra loro come la corda di un violino, sollevò gli occhi e sbirciò il tabellone. Cinque minuti. «Tanto non lavoreremo per sempre per lui», disse. «Ancora pochi giorni e poi ci godiamo le vacanze.»

«Ma gli altri? Quelli che hanno firmato un contratto diverso?» Il verbo non gli piacque. «Sono tanti. A volte, guardandomi attorno, ho l’impressione che Matsumoto abbia assunto tutta la città.»

«Non può.» C’era una determinazione un po’ vaga nella voce di Daisuke, neanche l’avesse sistemata a forza su stampelle di legno. Stai lì, sembrava voler dire fra le righe. Stai lì e non cadere.

«Già un mucchio di gente ha cominciato a lavorare per lui.»

«Usciremo presto da questa storia», lo bocciò Daisuke, incrociando il suo sguardo. Parlava a bassa voce, perché sapeva che la gente in attesa ha la pessima abitudine di allungare l’orecchio tanto per passare il tempo. «Lo so io come lo sai tu. Rilassati. Lavoriamo ancora per i giorni che ci restano e poi usciamo dal giro di quell’uomo, qualunque cosa stia architettando e chiunque sia in realtà. E poi Koriyama è un punto nero; quando otterrà il successo che cerca, perché è quasi per certo a questo che mira, sposterà chiappe e società da un’altra parte, in Cina o in America, e si porterà dietro quelle sue... quei suoi aggeggi.»

«“Aggeggi”?»

«Avanti, non puoi chiamarle valigie.»

Tre minuti e mezzo. Masa buttò lo sguardo nel tunnel che si tuffava nel buio e cercò ancora il tabellone. «Non le chiamerò valigie», rispose quando tornò nelle iridi dell’amico. «Non credo nemmeno che esista una tecnologia in grado di fare quello che fanno.»

«Siamo a una cinquantina di chilometri da Fukushima3. Magari il nucleare ha la sua parte.»

«Non mi interessa come funzionano. Mi interessa perché lo fanno.»

Daisuke arricciò le labbra, sollevò le mani e le lasciò ricadere in un gesto di umile sconfitta. «Mi arrendo. Chiedilo al grande capo.»

«Secondo te la storia del premio è vera? Il fatto della chiave che ti danno per sbirciare dentro la ventiquattrore, dico. Forse, quando decidono di premiare un dipendente, al posto dei fogli mettono altro.»

«Saranno le premesse, ma dubito ci troverei dentro un pupazzo con dei cioccolatini. A mio parere è vera, ma non sono curioso.»

«Forse la sorpresa è il niente.» Masa lo disse prima di riflettere, ma ci credette. Sì, ci credette. «Forse la sorpresa è aprire e scoprire che dentro non ci sono più fogli, che non c’è più nulla che ti possa essere preso. Che sei infallibile, un incorrotto nulla.»

L’altro fece silenzio. Il tabellone passò da due a un minuto, ma non ci fece caso. «Sai», ammise, in un malriuscito tentativo di ricorrere ad un tono scherzoso. «è vero, Masa. Pensi sempre troppo.»

__________


Note.

1 Catena di negozi molto apprezzata che vende articoli sportivi di qualunque genere.

2 Operaio russo vissuto attorno agli anni Trenta del Novecento. Da lui deriva il termine stacanovismo, utilizzato per indicare un metodo di lavoro che prevede una rigida organizzazione, ritmi estenuanti e un incremento della produttività individuale. La filosofia del lavoratore perfetto fu una delle più efficaci basi del socialismo russo. Ancora oggi si definisce stacanovista un lavoratore appassionato e instancabile.

3 Koriyama è effettivamente poco distante da Fukushima. È la città più vicina a non essere stata inclusa nel programma di evacuazione organizzato dopo lo scoppio della centrale nucleare.

 




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Capitolo 4
*** Cose vive e indistinte ***


4. Cose vive e indistinte








COSE VIVE E INDISTINTE

__________

 

Doveva essere nebbia.

Sporgendosi ancora un poco, Masa guardò sotto. La ringhiera del ponte, per quanto fragile di aspetto, suggeriva sicurezza. Era un genere di convinzione sottile, ma sufficiente a dargli il coraggio di stringere con forza il ferro e avvicinarsi tanto da posarvi il petto mentre sbirciava il vuoto. Per una qualche ragione sapeva che la camicia bianca, lì a contatto con vive macchie di ruggine, non si sarebbe sporcata.

Non ricordava di essere salito così in alto, eppure c’era. La notte era capace di una densità quasi fisica; strisciava con lentezza, con la famelica pigrizia di un demone, e si infilava nei pertugi e nell’aria come malsana acqua di palude. La sensazione era di poter sfilare nastri umidi e grigi solo unendo indice e pollice e tirando quel che bastava, neanche il buio fosse un maglione di lana da pizzicare fino alla rovina. Era un cielo gravido di nuvole dietro cui non c’erano stelle. Anche questa era una certezza che gli lampeggiava dietro alla fronte con la voracità di un’insegna al neon.

E poi c’erano le case. Le poche luci accese testimoniavano la presenza di inquilini poco abituati alle visite. Erano simpatiche. Arzigogolate, fantasiose, ma allegre. Masa aveva idea che un giorno avessero deciso di crescere come gli alberi su cui poggiavano, in libertà, e che più in alto sarebbero arrivate, più strambe e creative sarebbero divenute. Forse a qualcuna sarebbe spuntato un corridoio in più e a un’altra sarebbe fiorito un comignolo. Su qualche tetto, almeno fin dove la vista glielo aveva concesso, aveva intravisto il gioco folle e libertino di quei rametti ancora informi che spuntavano nella notte come zampette di mosche. Aspettavano di allungarsi e costruire nuove stanze.

Ora che però aveva rivolto l’attenzione verso il basso, capì che il sopra era forse meno coinvolgente del sotto. Degne d’interesse erano le cose in movimento, così era sempre stato, e in cielo al momento non ce n’erano. In giù, invece, qualcosa si muoveva.

Sul fondo, sotto ai gomitoli di nebbia, c’era anche dell’acqua. Lo realizzò quando vide il riflesso delle lampade riflettersi sul fiume. La barche che si stavano avvicinando erano molte, silenziose, lunghe, illuminate una ad una. Sbucavano dal livore della notte, annunciate unicamente dal pallido chiarore dei lumi e da un vacuo sciabordio. I passeggeri se ne stavano spalla contro spalla senza lamentarsi, ingobbiti sotto ai cappotti e ai cappelli neri. Se avesse potuto assaggiarli, rifletteva Masa, in bocca gli sarebbe rimasto un sapore rancido e raffermo. Il gusto di un’infezione.

Potrei buttarmi, pensò. Potrei. Mi accoglierebbero. Restare qui, in bilico fra alto e basso, è una stupida pretesa di equilibrio.

Ah, certo che non voleva scavalcare la ringhiera. Cielo, non era così stupido. E poi là sotto brulicavano. Brulicavano in tanti.

La barca in testa al corteo era ormai quasi sotto al ponte. C’era la possibilità che passassero senza notarlo, e quasi lo sperò. Inutilmente.

Se il fiume era distante, non lo era abbastanza. Vide uno degli uomini sollevare metà braccio e indicarlo dal basso. Poi Masa si accorse che quell’indice non era puntato su di lui, ma un po’ più in là. Un po’ più indietro.

Quando si sottrasse al vuoto e si voltò senza lasciare la ringhiera, il suo primo pensiero fu che l’uomo appoggiato al parapetto opposto somigliasse a uno dei personaggi di Magritte. Nao aveva un debole per i pittori francesi e qualche volta, almeno quando non riusciva a distrarla con altri argomenti, gli mostrava qualcosa al computer. Le erano sempre piaciuti e amava parlarne, anche se a lui il concetto di arte interessava quanto la televisione, ovvero poco.

Il signore era in giacca e cravatta. Non gli dava la schiena e avrebbe benissimo potuto vedergli il volto se solo ne avesse avuto uno. Sopra al colletto inamidato e sotto il borsalino nero c’era un’ombra indistinta e sfuggente, come se proprio in quel punto la notte avesse stretto con più ferocia i suoi fili per evitare che qualcuno ci guardasse attraverso. Niente mela verde1.

Non che la faccia gli interessasse. Il ragazzo smise di preoccuparsene quando l’uomo, perfettamente immobile, sollevò la mano e la sventolò in segno di saluto. Sembrava sorridere. C’erano delle cose, sulle sue dita. Cose vive e indistinte, cose a migliaia, cose che si agitavano e si scavalcavano e vivevano le loro piccole e monocrome e brevi esistenze.

Un guanto di mosche.

        

* * *

 

«Poi hai urlato», gli annunciò Nao a quel punto, appollaiandosi sulla ringhiera di ferro che correva lungo tutto il perimetro della piazza. «Mi hai fatto assaggiare l’ebbrezza di un infarto.»

Masa le scoccò uno sguardo e un sorriso. Gli riuscì meglio di quanto credesse. «Dai, è la prima volta che capita. Non ti ho mai svegliata.»

«Però è forte», commentò Daisuke. Se ne stava in piedi dietro alla ragazza, le braccia incrociate sulle sue spalle e il mento accomodato sulla sua testa. Era probabilmente l’unico che poteva permettersi una simile confidenza, soprattutto perché loro tre si conoscevano da una vita. Fosse stato qualcuno altro a mostrarsi così amichevole con lei, Masa avrebbe avuto qualche appunto da fare. Ed era già successo. «Quel posto, dico. Devi averne, di immaginazione, per essertelo inventato di sana pianta.»

«Non me lo sono inventato. L’avevo già visto, ma ci sono arrivato solo durante la pausa pranzo.»

«E?»

«È un logo. No, non un logo; un timbro. Lo hanno alcune carte che mi capitano per mano. Forse ci avete fatto caso anche voi.»

L’amico e Nao si scambiarono un’occhiata. Per qualche momento fra di loro corse solo il rumore del traffico delle cinque e mezzo che filava una trentina di metri più avanti. Poi Daisuke, in tono scettico:

«Ovvero il nostro capo timbra malconce casette viola sui documenti di cui ci occupiamo? Non ti sembra un po’ surreale?»

«E stupido», aggiunse lei. «Credo sia l’aggettivo più adatto.»

Masa si segnò mentalmente di mollare uno schiaffo a Daisuke alla prima occasione buona. O un pugno, nel caso lo avesse trovato più appropriato. Piuttosto, insensata era la sua mancanza di appoggio dopo che il giorno prima si erano chiusi nel bagno e avevano capito a cosa servivano le ventiquattrore. Era un genere di commento che avrebbe fatto volentieri, ma non in presenza della signorina Fuyutsuki, come la chiamavano loro. Lei doveva restarne fuori. «Non me li immagino di certo», ribadì. «Quei timbri ci sono. Deve essere una specie di logo della società di Matsumoto.»

L’altro ragazzo cominciò a pizzicare i capelli di Nao. «Probabile.»

«Ido, la tua partecipazione emotiva è commovente.» Lo disse senza cattiveria, ma si sentì in colpa lo stesso. A rincarare la dose fu il sorriso che si vide rivolgere, un gesto che gli ricordò il crepitio di alluminio stracciato. Ha paura, pensò. Ha più paura di me.

«È solo che ti preoccupi sempre troppo», disse Daisuke in tono inaspettatamente morbido. «Qualche volta dovresti smettere di pensare. Di pensare così tanto, almeno.»

Confidare loro l’incubo era stato un effetto collaterale, un modo per ammazzare il tempo mentre aspettavano il bus. Masa non si era svegliato quella mattina a casa di Nao con l’intenzione di raccontare per filo e per segno le sue passeggiate notturne, eppure era successo. In agenda non aveva nemmeno segnato quell’implicito screzio con il suo migliore amico. Gli tornò alla mente l’importanza delle cose in movimento, dei corpi che rotolavano lungo il pendio per grazia di una forza invisibile ed esponenziale, e sentì che la discesa non era solo lunga, ma anche eterna. Causa ed effetti. Causa, effetti e tante mosche.

Il bus si presentò con un leggero ritardo. Nao scese alla quarta fermata, non prima di essersi liberata i capelli da una coda di cavallo che riteneva mortalmente scomoda. Non si scordò di salutare Masa con un bacio a stampo prima di scendere di corsa, voltandosi una sola volta a sventolare la mano prima di infilarsi sul marciapiede affollato. Dal finestrino, Masa sfarfallò le dita mentre il mezzo ripartiva. Era consapevole che l’espressione con cui aveva accompagnato il gesto non era stata delle più convincenti.

«Vorresti dirglielo», gli disse la voce di Daisuke.

L’altro non si voltò. Lo vedeva chiaramente nel riflesso del vetro, lì seduto sul sedile accanto. Era serio. «No», rispose, un po’ a se stesso e un po’ a lui. «No, non è vero.»

«Vorresti almeno dirle di fare attenzione.»

«Domanderebbe. Non sappiamo se ci saranno effetti a lungo termine; può darsi che usciremo da questa storia come se niente fosse successo. Ma se mi chiedesse il motivo di tutta questa prudenza... Se me lo chiedesse, io non saprei darglielo. È tutto così insensato. Non saprei spiegare.»

«Io forse sì.»

Masa accomodò meglio la tempia contro il finestrino e chiuse gli occhi. Voleva evitare di vedere quanto fosse sincero. «Forse. Ma non lo farai senza il mio appoggio. Non potresti.»

Ci fu una pausa. Poi, chiaro e trasparente: «No, infatti. Non potrei, stupido cavabocche.»

Sul fronte opposto ci fu un sorriso. «Va bene», mormorò. «Allora non lo farai. Ancora una settimana e ce ne andiamo in vacanza. Sette o otto giorni non ti possono cambiare la vita, giusto?»

Dopo un attimo sentì Daisuke muoversi e mormorare un “giusto, grande capo”. Quando sollevò appena le palpebre, lo vide infilarsi un paio di cuffie e rilassarsi contro lo schienale. Notò anche che il bus era colmo di persone in giacca e cravatta. Un dettaglio a cui non aveva mai fatto troppo caso, perché abitava in una città, per Dio, un alveare colmo di operai puntuali e zelanti. Abitava nel Ventunesimo secolo, dove si sgobbava per guadagnarsi un po’ di pappa reale da portare a casa. Naturale.

Annidò il viso nell’angolo fra il sedile e il finestrino e chiuse di nuovo gli occhi. Dormì finché Daisuke non gli annunciò che avrebbe fatto meglio a scendere prima di perdere la fermata.

 

* * *

 

Tre giorni dopo una donna piccola e cordiale l’aveva fatta accomodare in un ufficio all’apparenza anonimo, domandandole il favore di aspettare giusto qualche minuto. Nao, che di fretta non ne aveva, aveva risposto che avrebbe atteso per tutto il tempo necessario. Lo fece.

La stanza in cui si trovava non aveva nulla di eccezionale. Cercò qualche indizio su quelle pareti grigie, sui tabelloni colmi di carte affissi vicino all’unica finestra, sulla scrivania sgombra e lucida davanti a cui sedeva. La luce pioveva dall’alto levigando ogni superficie come la quiete dopo la tempesta fruga in ogni ombra. Quell’ambiente esprimeva un’idea di ordinata e placida bidimensionalità, il piacere di uno spazio disteso e spianato. Non c’erano originali angoli o curve improvvise nella geometria di quell’ufficio. Era come sospendere per un momento la frenesia del fare e del pensare.

Erano solo le undici e aveva ancora molto lavoro da fare. Al pianoterra, dove si faceva in quattro con le sue colleghe per dividersi fra telefonate e e-mail, c’era il movimento di ogni giorno. La donna che le aveva chiesto di sedersi lì dov’era le aveva raccomandato di portarsi dietro anche la ventiquattrore, che ora se ne stava acciambellata sulle sue gambe come un gatto un po’ troppo insistente. La ragazza, un po’ per abitudine e un po’ per comodità, vi aveva sistemato le mani prima di cominciare a perlustrare la stanza con lo sguardo.

I suoi occhi scapparono indietro quando sentì la porta aprirsi. L’uomo che stavo entrando era alto, snello, con i capelli scuri che già cominciavano ad abbandonargli le tempie. Doveva aver superato da poco i quaranta. Poi, quando incrociò le sue pupille e fece fatica a trovarle per colpa dell’abissale nero delle iridi, capì di averlo già visto.

Fece per alzarsi con l’intenzione di rivolgergli un inchino del busto, ma lui alzò la mano e la sventagliò con insospettabile grazia. Aveva dita da pianista. O da esperto di tastiere e informatica.

«Resti pure seduta, Fuyutsuki», le disse, un rapido sorriso ad arricciargli gli angoli della bocca. Invece di avvicinarsi, si era fermato di fronte all’uscio chiuso e si era infilato le mani nelle tasche del completo grigio, senza smettere di indirizzarle quell’espressione da eloquente agente immobiliare. «Deduco mi abbia riconosciuto.»

«L’ho vista in televisione la scorsa settimana. Era sul Ventidue.»

«Il Ventidue è un canale riservato all’alta finanza. Mandano in onda programmi interessanti, anche se un po’ complessi. Un po’ come gli essere umani, signorina; promettenti e complicati. Noi siamo tutti nel ventidue.»

Nao fece un sorriso. Non sapeva come e se rispondere, per cui non ci provò. Credeva che l’uomo avrebbe ripreso in mano il discorso senza pretendere da lei un qualche tipo di partecipazione.

La televisione aveva dato di lui un’immagine un po’ diversa. Matsumoto, almeno dal vivo, sembrava un poco più alto di quanto avesse calcolato, con spalle piccole, occhi vivi, capaci di quel bagliore lontano dei tizzoni ancora accesi. Non aveva fatto caso se al dito portasse una fede, ma, per quanto si sarebbe potuto dire di bell’aspetto, dubitava che fosse sposato. In lui c’era un’energia potenzialmente negativa, meticolosa e concreta; anche solo il taglio dell’abito e le punte lucide dei mocassini neri svelavano il carattere indaffarato e instancabile della sua mente. Dietro quella fronte c’era un uomo del Ventunesimo secolo innamorato del suo lavoro e sintonizzato già cento anni nel futuro. Sintonizzato sul Ventidue.

«Non conosco per nome tutti i miei dipendenti, ma conosco lei», ricominciò l’uomo. Stava ancora sorridendo con pratica cortesia. «Mi sono giunte ottime notizie. Si sta impegnando molto.»

«La ringrazio.»

«Posso dirle alcune cose che ad altri non è concesso sapere.» Matsumoto si mosse e passò oltre la scrivania, ma non si sedette. Se ne rimase in piedi di fianco alla sedia imbottita, lo sguardo incastrato in quello della ragazza. «Sono cose che conoscono solo i miei più stretti collaboratori. O i migliori dipendenti, e questo sarà il suo caso.»

Furono parole inaspettate. Nao, che fino a poco prima si aspettava un rimprovero a causa di un qualche errore di cui non si era accorta, alzò appena le sopracciglia. Il suo era scetticismo misto a incredulità. D’improvviso si rese conto di sedere dritta e tesa come se dietro alla schiena avesse un’asse di legno. «Non credo d’aver fatto qualcosa di eccezionale, Matsumoto-san. E poi lavoro qui da pochissimo tempo.»

«Infatti» le concesse lui, «ma lei ha una grinta ragguardevole. Tramite il computer principale posso controllare gran parte del lavoro di tutti quanti, e dalla sua postazione mi sono giunti buoni risultati. So che ha firmato un contratto molto breve, dato che studia ancora; pensavo che sarebbe bello averla con noi più a lungo, con una modifica di orari per permetterle di frequentare almeno dei corsi serali.» Il sorriso si distese ancora un poco. «Sento che farà grandi cose con me, signorina. Ho già promosso molti, tutti quanti promettenti. Mi piacerebbe che lei facesse parte della lista; i suoi genitori ne sarebbero molto felici, credo, dato il difficile periodo coniugale. Potrà anche mettere una buona parola su altri dipendenti di sua conoscenza. Conosce qualcuno che lavora per me?»

«Ikeshima Masa e Ido Daisuke.» Aveva risposto per istinto, perché non era quello il punto che le interessava. Era rimasta a qualche battuta prima. «Come sa dei miei genitori?»

Matsumoto si strinse nelle spalle in un gesto che avrebbe potuto significare un ops. Col problema che in quella simpatia non tutto era sano. «Ho i miei mezzi», si giustificò con naturalezza. «Sono un uomo d’azione, signorina Fuyutsuki, e conosco i bravi lavoratori, i loro bisogni e le loro famiglie. Non a caso so anche della sua relazione con Ikeshima.»

«E di cos’avrei bisogno, secondo lei?»

«Mi spiace. Non avrei dovuto accennare alla vostra situazione. Consideri come se non avessi detto nulla.»

Nao abbassò gli occhi e si impedì di arrossire. Non era seduta di fronte al suo capo per rispondergli con le rime. «Mi scuso io, invece. Mi perdoni per il tono.»

«Non ha importanza. Lei è ancora giovane ed esuberante.» Finalmente si sfilò le mani dalle tasche e scivolò a sedere. «Tra le cose che voglio che lei sappia, c’è il fatto che mentre voi dipendenti lavorate, negli uffici gira sempre qualcuno dei miei stretti collaboratori. A volte vedono cose piacevoli, come l’impegno e la buona volontà; altre, e mi rattrista ammetterlo, mi informano di dettagli poco entusiasmanti.» Fece una smorfia, quasi avesse lanciato una frecciata ad un evento in grado di addolorarlo nel profondo, per poi stringere le labbra e alzare ancora le spalle. «Ma capita. Distrazione, a volte furti. Sono errori umani. L’errore più grande dei trasgressori è però la loro certezza di riuscire sempre a cavarsela.»

«Non me l’aspettavo.» Ah, che commento idiota. Sempre meglio di niente.

«Non mi piace punire i lavoratori, perché so che in fondo hanno buon cuore. Però è importante che sappiano che io vedo ovunque, giusto?»

«Ho fatto qualcosa di male, Matsumoto-san?»

Lui la guardò per un momento, poi le sue labbra si accartocciarono in una mezza risata. «No, no, Fuyutsuki. Lo dico perché vorrei che lei diventasse uno dei supervisori.»

«Cosa fa di preciso un... supervisore?»

«Tante cose. Controlla un numero definito di uffici, consegna e ritira le valigie ad inizio e a fine giornata. Le porta via, le ricarica

«Ricarica?» Non era sicura di aver capito bene.

«Ricarica. Svuota e riempie», confermò l’uomo. Intrecciò le dita sul ripiano della scrivania e si sporse leggermente in avanti, il sorriso ritornato al suo posto, diretto e eloquente. «Trovo che il verbo sia adatto. I dettagli però costano la firma del contratto, che prevede, ovviamente, un aumento di stipendio.» 

In breve, un modo originale per dirle che, per come stavano le cose, le informazioni in merito finivano lì. Nao, forse accorgendosi di essere rimasta immobile per troppo tempo, si mosse un poco e si mise più comoda, alzando la mano per scostarsi dalla fronte un ciuffo castano sfuggito dall’elastico. Quando la riabbassò, la posò di nuovo sulla ventiquattrore. «Dovrei prima dare un’occhiata, Matsumoto-san.»

«Naturale.» Lui la osservò ancora un momento, quindi aprì un cassetto e vi infilò la mano. Non aveva ancora scostato gli occhi da quelli ansiosi della ragazza. «Sono le firme a far girare il mondo», aggiunse. «Le darò tutto il tempo per leggere e valutare.»

Credeva che le avrebbe porto un piccolo fascicolo di fogli, e invece si vide tendere una chiave. Era piccola, di ottone, con un disegno a decorare una targhetta che se ne stava appesa ad una cordicella. Nao, che non aveva più ripensato a quel che Masa le aveva raccontato tre giorni prima, si vide costretta a riavvolgere il nastro.

«È il logo della società?» chiese, mentre prendeva la chiave. Diede uno sguardo alle case raffigurate, unite da un ponte dall’aspetto decisamente vago e onirico. Fosse stato un luogo reale, dubitava ci sarebbe salita. L’idea che ispirava era di instabilità, ruggine, malattia.

Mentre si rimetteva comodo contro le schienale e si intrecciava le dita in grembo, l’uomo allungò un sorrisetto a cui parteciparono solo le labbra. «Se così si può definire. Ogni ventiquattrore ha una chiave propria, e quella è la sua, signorina Fuyutsuki. Stamattina ho chiesto al supervisore dell’ufficio in cui lavora di sostituire il contenuto della valigia con un contratto tutto per lei. È una bella sorpresa, non trova?»

«Prima c’era dentro dell’altro?»

«È necessario, un po’ come mettere un pannolino a un neonato. Quando il piccolo cresce, può farne a meno. Preferisco però avvertirla che non tutti reggono al cambiamento; alcuni... ritrattano.»

Nao alzò gli occhi e vide che era serio. Doveva aver smarrito un passaggio, perché non riusciva a capire come quelle parole potessero avere a che fare con un contratto di lavoro. Matsumoto, percependo la sua perplessità, si strinse ancora nelle spalle e sfilò un gran sorriso.

«Capirà quando leggerà. È tutto scritto», spiegò. «Le penne sono qui, se gliene servirà qualcuna. Preferisce essere lasciata sola? Non ho fretta.»

«Forse è il caso.»

«Bene.» Il suo tono era conclusivo. Piantò le mani sulla scrivania e si alzò, dirigendosi alla porta. In faccia aveva ancora il velo di quel suo sorriso concreto e professionale. Il sorriso del Ventidue. «Tornerò fra una quindicina di minuti. Non si senta obbligata, signorina.»

La vide annuire, avvicinare la chiave alla piccola serratura della ventiquattrore. Era curiosa. Le lasciò addosso uno sguardo soddisfatto prima di uscire e, se si chiuse la porta alle spalle, non fu solo per semplice cortesia; semplicemente e a ragione, preferiva che non scappassero. Sarebbero state tante. Tante, vive e indistinte. Le avrebbero succhiato via la singolarità, l’avrebbero resa infallibile. Una cosa bella.

Si sistemò fuori dall’uscio, le mani affondate nelle tasche del completo e le spalle ritte e orgogliose. Gli angoli della sua bocca erano virgole di vittoria, accenti vivaci e trionfanti. Il corridoio era vuoto, salvo per una donna strizzata in un abitino nero che girava l’angolo in quel momento. Era la stessa che aveva accompagnato la signorina fin lì; doveva essere rimasta nei paraggi giusto per godersi lo spettacolo. Quando i loro occhi si incrociarono, l’uomo sollevò le sopracciglia e i suoi occhi neri si illuminarono come quelli di un bambino di fronte ad una giostra con innumerevoli cavallini rampanti. Le indirizzò un’allegra alzata di pollice. Lei gli rivolse in risposta un sorriso, un leggero arcuarsi delle labbra.

Le grida si alzarono in quel momento. Fortuna che gli uffici dei dipendenti erano al piano inferiore. Piantato davanti alla porta, Matsumoto scrollò le spalle e accartocciò il volto in un’ironica espressione di scuse.

Sì, pazienza. Urlavano sempre troppo.

__________


Note.

1  Il riferimento è a “Il Figlio dell’Uomo”, opera di Magritte.













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Capitolo 5
*** Quello delle mosche ***


5. Quello delle mosche









QUELLO DELLE MOSCHE

__________

 

Lo chiamò solo dopo aver assistito al rientro del padre. Toru possedeva quella concessionaria da anni, ma il tempo che dedicava al suo nuovo impiego in ufficio, per quanto scarso, sembrava gratificarlo più di quanto lo facessero le sue adorate macchine. Ne parlava con entusiasmo, con una voglia di fare e di scoprire che sarebbe stata più adatta ad un ventenne che a lui.

«E non gli hai chiesto quanto dura il suo, di contratto?»

La domanda di Daisuke era giunta chiara e tonda. Masa, che sedeva sulle scale con il cellulare incastrato fra spalla e orecchio, gettò uno sguardo alla saletta da pranzo, dove i suoi erano presi dalle cronache della giornata. «Preferisco di no», rispose. «Ho paura della risposta che potrebbe darmi.»

«Hai mai riflettuto sul perché tu e io siamo gli unici a non essere usciti scemi? Non credi che sia perché abbiamo scoperto a cosa servono le... dico, gli aggeggi?»

Per quanto il suo tono fosse serio, non si contenne dallo scrollare il capo e sfilare un sorrisetto. «”Usciti scemi”?»

«Insomma, hai capito cosa intendo.»

«Non siamo gli unici, credo. Solo abbiamo tante distrazioni. Siamo giovani, più malleabili. Gli adulti pensano sempre e solo al lavoro; partono con un piede nella fossa.»

«Illuminante. Aspetta.» Ci fu qualche movimento, il chiaro suono di una porta che si apriva e si chiudeva. Poi ancora Daisuke: «Scusa, il gatto. In ogni caso, guarda il lato positivo: noi usciamo dal giro fra tre giorni e poi ce ne andiamo a Osaka con Nao. Non riesco a vedere nuvole scure all’orizzonte.»

«Andiamo in due.» Eccolo, il punto dolente. Il motivo per cui, si ringrazi Signora Sincerità, lo aveva chiamato alle dieci di sera. Incassò il silenzio dell’amico solo per decidere come continuare la frase. «Nao mi ha detto che ha prolungato il contratto. Non potrà venire.»

«Lei cosa

«Mi hai sentito.»

«Mi stai pigliando per il culo?»

Con uno sbuffo, Masa cercò il corrimano e si issò in piedi, avviandosi su per le scale. Si era stancato di origliare i suoi genitori. Stancato e, perché no, pentito. «Sono serio. L’ho incrociata prima di cena e me l’ha detto.»

«Dio, ci voleva pure Raiden-sama1», fu il borbottio che gli giunse in risposta. Altri fruscii, uno sputacchiare nervoso. Niente di nuovo; il suo adorabile animale domestico amava far assaggiare a chiunque i peli della propria testa. «Quello che intendo, Masa» riprese Daisuke dopo un momento, «è che non sarà la stessa cosa. Per che diavolo di motivo ha firmato un nuovo contratto?»

«A lei va bene così. Era molto felice, anche se di fretta.»

«Oh, conosco quel tono. Stai per dirmi che ti è parsa superficiale.»

Masa si chiuse dietro la porta della camera. «Qualcosa di simile. E non mi piace, perché c’è di mezzo tutta quell’insensata faccenda delle valigie e di Matsumoto.»

«Chiediglielo.»

«Cosa?»

«Chiedile cos’è successo.»

«In questo momento credo sarebbe più facile scovare un orso polare a passeggio per i corridoi della Ohu, ma ti ringrazio per il consiglio.»

«Allora pensaci. Ti piace tanto pensare, Ikeshima.» La voce che sapeva di un sorriso.

«Lo farò.» Sbirciando fuori dalla finestra, aveva scorto solo le luci sospese dei grattacieli e quelle più umili dei condomini di due o tre piani. Si chiese, senza un motivo, come riuscissero a galleggiare nel buio più assoluto. «E tu perché ti sei accorciato i capelli?» domandò, non senza cogliere di sorpresa persino se stesso.

Daisuke si era effettivamente tagliato un bel po’ di capelli. Non troppi, ma a sufficienza perché in testa gli restasse solo qualche ciuffo meno ardito. Fino a pochi anni prima – o settimane, che era lo stesso -, Masa non credeva che sarebbe stato in grado di spuntarsi lo spruzzo nucleare che aveva in testa; quando si erano conosciuti, aveva già imboccato la strada di quella moda che ordinava abiti di marca e capelli appariscenti, una ragione in più per cui si era convinto che avrebbe portato avanti quello stile di vita per ancora qualche tempo. Sbagliandosi.

La linea gli restituì un sospiro ironico. «Perché... lo sai, si tratta di lavoro d’ufficio. Non mi sembra giusto distinguermi. Sarebbe come trovare del prezzemolo incastrato in una dentatura perfetta. Tu ne dovresti sapere qualcosa, mio caro studente di odontoiatria.»

«Già. È comprensibile.» Com’è che Daisuke gli aveva detto la prima settimana di lavoro? “Mi hanno detto che mi darò una regolata io, con il tempo”. Prevedibile. Una conseguenza scomoda, l’appiattirsi. «Vado da Nao», aggiunse dopo un attimo. «Forse riesco a farle cambiare idea.»

Non che ci credesse. La conosceva abbastanza da sapere di che genere fosse la sua pigrizia; si trattava di quell’indolenza tipica delle persone creative, di una non-voglia passeggera e non necessariamente nociva, eppure l’idea del lavoro a tempo pieno era riuscita a sedurla lo stesso, tanto da convincerla a prolungare il contratto fino alla fine delle vacanze estive. Dubitava avrebbe trovato del tempo per leggere libri di disegno e pittura, un’abitudine che portava avanti anche durante l’impegnativo anno scolastico, e tutto perché avrebbe passato mattina, pomeriggio e sera davanti ad uno dei computer dell’ufficio. Eppure, come scoprì, la prospettiva non la spaventava. Passò a casa sua e vi rimase per poco, il tempo di una chiacchierata inconsistente come aria. Suo padre, che doveva star giungendo alle conclusioni, avrebbe passato la notte da un collega, chiaro indizio di quanto l’idea del divorzio stesse diventando un fatto. Nao però non ci pensava e si limitò a spiegargli che era libero di fare quello che voleva, per poi prendere a ripetergli che non si pentiva di aver preferito il lavoro alla vacanza ad Osaka. Non gli raccontò nulla del contratto che aveva firmato.

C’era qualcosa che non andava. Glielo lesse in faccia mentre gli parlava, nel modo in cui gli si rivolgeva, seduta alla scrivania e intenta a dividersi fra il dialogo e una fascicolo che stava leggendo e sottolineando. Un piccolo extra, gli aveva detto, da consegnare il giorno seguente. Per un momento provò il profondo desiderio di chiederle dove fosse, salvo poi ritenere quella domanda un po’ troppo stupida e tenersela per sé. Probabilmente, in quella circostanza, Nao gli avrebbe risposto che era dove effettivamente si trovava; lì davanti.

Guardandola, gli tornò alla mente il pensiero che gli si era inchiodato in testa quando aveva acceso la televisione sul Ventidue e aveva visto quel grappolo di uomini e donne, Matsumoto e l’inviato. Aveva riflettuto sul fatto di non conoscere chi lavorava per quell’emittente e ricordava chiaramente di aver paragonato quel pugno di facce sconosciute ad un nugolo di mosche tutte uguali, un po’ come uguali sono i colori nel buio. Poi si rivide a casa, a parlare al telefono con Daisuke e a guardare le luci delle case e degli appartamenti sospese nella notte. Alcune piccole, alcune grandi, ma uguali nell’idea di fondo. Brillavano. Stessa essenza, diversa intensità. Un po’ come gli esseri umani.

Quando tornò in strada, l’aria si era fatta un po’ più fresca. Capì che forse era il caso di parlare con colui per cui lavorava. Voleva chiedergli quanto a suo dire brillassero gli uomini. Sollevò la zip del giubbotto blu e si avviò a testa bassa verso casa, alzando gli occhi solo quando necessario. Aveva paura che presto o tardi, guardando verso le luci degli edifici più lontani, le avrebbe scoperte tutte uguali fra loro.    

 

* * *

 

Non ebbe nemmeno da richiedere un colloquio. Matsumoto lo batté sul tempo.

Li, ad onor del vero. Capitò l’ultimo giorno di lavoro, quello su cui Masa aveva mentalmente segnato un’enorme e impaziente X nera. La sua intenzione era finire il turno, consegnare la valigia e chiedere se fosse possibile parlare con il capo, ovunque fosse. Perché teneva a conoscere di persona colui che gli aveva garantito una prima esperienza, verissimo, e perché era stato un lavoratore devoto e fiero di ogni impegno, cosa un po’ meno vera ma a cui si poteva accennare. Come motivazioni erano passabili, di certo in grado di convincere. Quello che non poteva aspettarsi era che una donna piccola e professionale lo fermasse fuori dall’ufficio e gli annunciasse che Matsumoto aveva chiesto di lui e di Ido Daisuke. Il karma è una ruota che gira, rifletté. Sperava che girasse per il verso giusto.

Non dovettero nemmeno spostarsi. Il loro irraggiungibile datore si trovava nello stesso edificio, cinque piani sopra di loro. La loro accompagnatrice, benché non ispirasse l’idea di un’amante delle chiacchiere, spiegò che quella mattina si trovava invece dall’altra parte della città, a supervisione di altri uffici. “Ma desidera parlarvi da qualche tempo”, fu l’ultima frase che sentirono pronunciarle. Masa e Daisuke, che procedevano giusto dietro, si scambiarono un’occhiata; il secondo arrangiò un’esagerata espressione di mute congratulazioni. Siamo famosi, era il messaggio. Non era un dettaglio necessariamente positivo, soprattutto non quando solo la settimana prima avevano rubato una ventiquattrore per sbirciarci dentro, peraltro scoprendo certi scomodi fatti. Masa sospettava che qualcosa potesse effettivamente c’entrare.

E ci prese in pieno. Lo capì ancor prima che Matsumoto confermasse la sua ipotesi. I convenevoli erano stati rapidi, formali quanto bastava e protratti il tempo necessario perché lui e Daisuke si accomodassero davanti alla scrivania; poi l’uomo, che si era fermato dall’altra parte del ripiano con le mani intrecciate dietro la schiena, li aveva guardati e aveva sfilato il sorriso trionfante e tremendo di un bambino che indovina il trucco di un prestigiatore un po’scarso. Era un prologo, quello, a cui seguiva una svolta piuttosto prevedibile.

«So che entrambi i vostri contratti finiscono oggi», cominciò, spezzando un filo restato teso troppo a lungo. «Ho trovato giusto mandarvi a chiamare e farvi sapere che so cos’avete fatto. I furti non passano inosservati. La sincerità mi sembrava un buon modo per congedarvi.»

Masa raccolse lo sguardo dell’amico, seduto lì accanto. Per un momento pensò che il silenzio avrebbe risolto le cose, ma gli fu facile realizzare che Matsumoto attendeva solo una loro parola in merito. Non avrebbe aggiunto altro. Evidentemente stavano rotolando sempre più in fretta giù dal pendio, costretti da quell’irresistibile forza fisica che era il legame fra cause e conseguenze. E allora era il caso di rotolare.

«Lo credo anche io, Matsumoto-san», rispose, senza scomporsi. «La sincerità è una buona scelta.»

Daisuke gli rovesciò addosso uno sguardo basito, l’espressione incredula di chi non riesce a credere alle proprie orecchie. Era evidente che da parte sua avrebbe preferito una smentita, non un’ammissione. Quanto all’uomo in piedi davanti a loro, continuò imperterrito a sorridere. Non sembrava turbato. A dirla tutta, non pareva nemmeno interessato a punirli in qualche modo.

«Si corrono sempre dei rischi con i giovani», spiegò con tranquillità. Nella posizione in cui si trovava, in piedi di fronte alla panoramica parete a vetro che dava sulla città, sembrava nel suo ambiente naturale. «Credo sia per questo che molti evitano di assumerli. Sono curiosi, pericolosamente acerbi e pronti a maturare alle tue spalle. Soprattutto, sono distratti. Alcuni, come voi, lo sono così tanto da non farsi coinvolgere dal lavoro come da aspettative.»

«Sta parlando delle ventiquattrore, vero?» domandò Masa, guardandolo dritto in faccia. Qualcosa gli diceva che la sfrontatezza che stava dimostrando non era un peccato, ma un bisogno fisico. «Non credo che il verbo “coinvolgere” sia esatto. Suonerebbe meglio “soggiogare”

«Gli adulti sono sempre più facili da convincere. Sono abituati ai ritmi del secolo, non si pongono domande. Lavorano per lo stipendio e nient’altro. Credevo che il trucco delle valigie avrebbe funzionato anche con le nuove, pidocchiose generazioni.»

«Non ha funzionato. In questo momento, per farle un esempio, sto pensando liberamente. Sto riflettendo su di lei, su quanto somigli ed agisca come un emerito stronzo.»

Il gesto con cui Daisuke sollevò gli occhi al soffitto fu plateale. Mosse le labbra in una silenziosa imprecazione e tirò uno sbuffo prima di sistemarsi meglio sulla sedia, visibilmente a disagio. «Va bene», s’intromise, alzando le mani. «Riavvolgiamo il nastro. La sincerità è una bella cosa, lo ammetto, ma possiamo ricominciare da capo?»

«Ci deve spiegare come funzionano quegli aggeggi», lo ignorò Masa. Ancora non aveva scostato le pupille da quelle rilassate di Matsumoto. Era bravo ad arrabbiarsi, quando voleva. «Da dove sono uscite?»

«Sono utili. Ripuliscono la testa e fanno sì che l’uomo lavori nel pieno delle sue capacità. Dobbiamo l’organizzazione del lavoro a una meravigliosa catena di eventi storici, signorino Ikeshima. Dalla seconda rivoluzione industriale in Inghilterra, passando prima al fordismo2 e poi al socialismo, si sono fatti enormi passi in avanti. Non pensa che tutto questo progresso sia meraviglioso?»

«Non siamo qui per una lezione di storia.»

«Lo so.» L’uomo tese le labbra in una linea che dell’idea di sorriso aveva ben poco. «Siete qui perché ho una proposta da farvi. Ho qui le vostre valigie», aggiunse dopo un attimo. Si chinò e le raccolse, posandole sotto ai loro occhi. Una davanti a Masa, una davanti a Daisuke, nere, lucide e immobili. Doveva averle conservate per tutto quel tempo sotto la scrivania, in attesa di tirarle fuori. «Avete scoperto il motivo per cui i dipendenti devono sempre tenerle con sé. Alcuni miei collaboratori si occupano di cambiarne il contenuto, ogni tanto, a seconda del soggetto. Ci sono persone che necessitano di più fogli perché pensano troppo, e altre a cui invece basta un minuscolo fascicolo.»

«Bene», rispose Daisuke. «Quanti alberi vi abbiamo fatto abbattere?»

Matsumoto gli indirizzò un ghigno di intesa. Si sarebbe detto deliziato da tutta quella suicida ironia. «Un po’. Voi due avete un sacco di distrazione, in testa. Avete bisogno di tanta, tanta carta. Non siete elementi corruttibili; in breve, siete stati una perdita di tempo. La vostra amica, la signorina Fuyutsuki, è decisamente più malleabile di voi.»

«La convincerò a lasciar perdere.» Masa si costrinse a restare seduto. Sarebbe stato capace di strangolarlo. «Potrei raccontarle tutto quanto. Potremmo raccontarlo a chiunque.»

«Oh, ma sa già ogni cosa. Era una clausola del nuovo contratto; è stato piacevole farvi un torto attraverso lei. Inoltre, se mi permette, non credo che qualcuno sarebbe disposto a credere a una storia simile.»

«Allora ammette che è pura fantascienza. Probabilmente non si è nemmeno presentato con il suo vero nome.»

«Non volete conoscerlo per davvero.» Un sorriso pratico. «Non è un dettaglio importante.»

«Un’altra domanda, allora. Perché Koriyama?»

«È una città destinata a crescere. Dovreste saperlo: è la capitale finanziaria della prefettura.»

«E solo per questo ha deciso di ambientarvi la sua personalissima rivoluzione del mondo del lavoro?»

«Vede, Ikeshima? Lei chiacchiera sempre troppo.» Matsumoto si dondolò sui tacchetti dei mocassini e indicò con il mento le due ventiquattrore. «A dire il vero è una cosa che vi accomuna, ma ho deciso di proporre ugualmente un contratto a uno di voi. Tentar non nuoce. Con l’altro prometto di chiudere per sempre.»

Daisuke sollevò le sopracciglia in un sarcastico ed esagerato gesto di congratulazioni. «Lei è molto realistico, davvero. Ci sono ottime possibilità che qualcuno di noi desideri lavorare ancora per lei dopo quel che abbiamo scoperto. Posso già sentire gli applausi in sottofondo.»

«Lo so», gli rispose l’uomo, e gli scoccò un sorriso di squisita partecipazione. «Mi piace osare, Ido. I vincenti lo fanno sempre.»

Masa annusò una quasi concreta puzza di bruciato. Non c’era nulla del volto di quel demonio che lo rilassasse, né gli piacque lo sguardo che lasciò su Daisuke. Sembrava stesse osservando un ottimo e scontatissimo frullatore esposto in vetrina. «Va bene», si tuffò, e piantò la mano sulla propria valigetta, il palmo aperto, le dita rigide e tese. «Allora vuole farci aprire questi aggeggi? Vuole che giochiamo a chi ci trova il tesoro?»

Matsumoto aveva già recuperato dal fondo della tasca un paio di piccole chiavi. Il suono che produssero quando le lanciò sulla scrivania scampanellò rumorosamente nell’aria. Ad ognuna era appesa una targhetta che raffigurava le case sospese nel nulla e il ponte. «L’ho fatto anche con la vostra amica», si giustificò. «È il mio modo di presentare le belle sorprese. A lei non è dispiaciuto.»

«Dispiacerà a lei, capo, se il contratto è dentro la mia ventiquattrore», soffiò Masa. Pescò la chiave più vicina, ma scoprì che non girava nella serratura. Dopo un momento la inchiodò sulla valigia dell’amico, che lo guardava ammutolito, e provò con l’altra. Ci fu uno scatto deciso.

Quando aprì, gli sembrò che sul fondo ci fossero un paio di fogli. Poi realizzò che si trattava solo di una svista, di un’immagine piantatagli in testa dalla fretta e dalla collera, e allora rimase zitto, le mani chiuse a tenaglia sulla metà che teneva sollevata. Gli ci volle qualche secondo per recepire il messaggio del nulla che si era trovato di fronte. Non lui. Lui era libero di andarsene, di sputare su tutta quella faccenda, di voltare le spalle a tutto quell’insensato delirio. Era Daisuke a non esserlo.

Inaspettatamente gli venne da sorridere. Spalancò la ventiquattrore di colpo, consegnandone il nudo interno alla luce dell’ufficio con la delicatezza con cui si schiaffa una bistecca sul tavolo della cucina. «Io glielo dico, Matsumoto», se ne uscì, la bocca stesa in un’espressione di divertimento tanto plateale da riuscire artefatta. Si lasciò persino andare contro lo schienale della sedia, di punto in bianco, come un attore preso dal suo incredulo e fanatico monologo. «Glielo dico chiaro e tondo: il mio amico non firmerà proprio un cazzo.»

«Allora la star sono io?» domandò Daisuke. Mancava poco che si mettesse a ridere. Ritornò a guardare l’uomo, che si limitava ad osservare le loro reazioni con un filo di pietà dietro gli occhi, trasmettendo un divertimento sinistro e sottile. «Sono l’uomo?»

«Avverto un sarcasmo giovane e pungente», commentò lui. Sorridendo. «Non vuole nemmeno dare un’occhiata?»

«No. Anzi, sì.» E tornò serio, prese la chiave, la infilò nella piccola serratura, gli occhi fissi in quelli di Matsumoto. «Sì, ma solo per poterle strappare quei fogli sotto al naso.»

Poi accadde tutto un po’ troppo in fretta. D’improvviso Masa ebbe chiaro perché anni prima, a scuola, il professore di ginnastica gli aveva detto che lui per lo sport non sarebbe mai stato tagliato. “Hai dei riflessi pessimi, Ikeshima”, gli aveva annunciato. “Questo spiega l’incredibile numero di palloni che ti sono arrivati in faccia”. Fu un ricordo rapido ma preciso, così come fulminea fu l’impressione di déjà vu che gli si piantò nello stomaco come un pasto mal digerito. Semplicemente, non era pronto. Non lo sarebbe stato nemmeno se gli fosse stato consigliato di esserlo.

Daisuke aprì la ventiquattrore solo di pochi centimetri. Bastò quel piccolo spiraglio, quella fuga di neanche un quarto di metro per liberare di colpo una rumorosa colonia nera, una nube informe e fitta, un rotolare incoerente e monocromo. Mosche. Fu simile a togliere il coperchio da un pentolino colmo di acqua in ebollizione. Si riversarono all’esterno a migliaia, quasi un corpo solo, e presero il volto del ragazzo come un’enorme mano viva. Lui buttò la valigia ora spalancata sulla scrivania, gettò un grido che era sorpresa e orrore e volò all’indietro, rovesciando la sedia sotto di sé.

Masa si mosse solo in quel momento. L’istinto gli ordinò di scostarsi bruscamente, lo scalciò giù dal posto a sedere. Cadde di schiena, sui gomiti, le ginocchia appena sollevate, ma non avvertì dolore. I suoi occhi rimasero fissi sull’amico, che si rotolava a terra e si schiaffava ovunque, senza sconti, nel tentativo di togliersi di dosso quello sciame impaziente. Sembrava in preda ad un delirio. Il suo corpo brulicava, sembrava vestire un abito animato, uno strato translucido, folle, frenetico. Per quanto si agitasse, per quanto si spingesse indietro e implorasse aiuto, per quanto si picchiasse, le mosche ritornavano. Si contendevano i posti rimasti liberi, quelle chiazze di nero ancora poco affollate. Alcune, le più audaci, si infilavano nelle narici, nelle orecchie, nella bocca, fino a limitare le grida a rantolii malsani. Il loro ronzio cominciò a fare più rumore delle urla.

Masa vide tutto quanto. I muscoli gli si erano irrigiditi, le ossa quasi calcificate, il respiro fermato di colpo. Nemmeno riusciva a battere le ciglia. Avrebbe voluto alzarsi, scivolare sul pavimento, inciampare dalla fretta e gettarsi da Daisuke per togliergli di dosso quella massa convulsa e viva, quella demenza di zampe, sottile peluria nera e caleidoscopici occhi da insetto, ma non ci riusciva. Dio, era il suo migliore amico, ma non ci riusciva. Paura, disgusto, orrida incredulità, tutte emozioni che lo avevano inchiodato sul pavimento come un condannato sulla sedia elettrica. In bocca avvertiva il sapore acido e stantio del conato che gli si stava arrampicando in gola.

Non vomitò. Colse un movimento dall’altra parte della scrivania e solo in quel momento si ricordò di Matsumoto. Lui, quello delle ventiquattrore, quello col sorriso pratico e concreto. Quello che aveva visto per la prima volta sul Ventidue.

Quando si voltò a guardarlo, gli scoprì la testa un po’ più rotonda, lo sguardo un po’ più grande, rigonfio sulle tempie, le dita un po’ più lunghe, sottili come nervi. Si accorse di quanto i suoi capelli, così radi, così neri, somigliassero alla peluria quasi invisibile di un insetto, uno di quelli grossi, uno di quelli uguali agli altri, solo un po’ più... bipede. Uno di quelli che stanno in piedi e vestono un completo e una cravatta.

«L’avevo detto, Ikeshima, che con uno di voi avrei chiuso per sempre.» La sua bocca si era schiusa in un beccuccio rigido, grande quanto quello di un piccolo uccello. O di una mosca troppo cresciuta. Sembrava sorridere. «Non si muova. Non renda le cose più difficili.»

Masa capì e desiderò svenire. Lo desiderò così ardentemente da sentirsi sul punto di perdere i sensi.

Non fece in tempo.

__________



Note.

1 O Raijin. È, secondo la mitologia giapponese, il dio dei tuoni e dei fulmini.

2 Da Henry Ford. Per la sua industria automobilistica, nei primi anni del Novecento sviluppò il fortunatissimo metodo di lavoro basato sulla catena di montaggio, che consentiva di ridurre i costi e produrre nel minor tempo possibile. Il fordismo fu il trampolino di lancio per la produzione di massa.


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Capitolo 6
*** Karoshi ***


Epilogo. Karoshi


 

EPILOGO.

KAROSHI 1

__________

 

Quando sentì il collo di Nao spezzarsi, Daisuke salì sulla sedia. Si era tolto le scarpe solo perché l’idea di sporcare il cuscino non gli piaceva.

La casa dei Fuyutsuki era pervasa da un silenzio quasi irreale, tanto profondo e cavo da sapere di ovatta. Era pesante e concreto come materiale da imballaggio. Si era ormai alla fine di marzo, ma nell’aria c’era l’umidità di ottobre. La settimana successiva sarebbe cominciato il nuovo anno scolastico. Alcuni, i più impazienti, avevano sicuramente già cominciato a far prendere aria alle uniformi. Era un conforto sapere che i giovani sarebbero tornati a studiare e gli adulti a lavorare. Tutto al proprio posto.

Non che Daisuke ci pensasse. Non frequentava l’università e l’arrivo di aprile non significava per lui un nuovo inizio. Significativo era il fatto che Matsumoto-san gli aveva proposto un contratto, con il problema che gli orari e i doveri avevano ben presto cominciato a pesare. Si trattava di vivere in ufficio per la gran parte del giorno, di rientrare la sera con la mente colma di informazioni, dolorante come un livido maturo, tanto che la sera, una volta a cena o a letto, non riusciva a pensare a nient’altro. Aveva creduto, almeno per i primi giorni, che ci si sarebbe abituato, che si trattava soltanto di adeguarsi al ritmo. Licenziarsi non esisteva; quella routine aveva il fascino negativo delle cose irrinunciabili. Vi si sentiva ancorato come la vita alla morte. Per questo, proprio per quest’errore di calcolo, non aveva potuto immaginare che si sarebbe trovato con Nao a decidere per una soluzione un po’ più drastica.

Lei ci pensava da qualche giorno in più. Gli aveva confidato di avvertire l’irresistibile desiderio di ritrattare. “Mi ha detto che non tutti reggono al cambiamento”, gli aveva detto una mattina. “Mi chiedo se non sia il mio caso”. Diceva che lavorare così tanto, così all’improvviso, così completamente, bastava a prosciugarla. Eppure quel posto le piaceva, ma le piaceva un po’ come piacciono le cose belle fuori e marce dentro. Un po’ a metà. Alla fine, verso gli ultimi del mese, aveva detto a Daisuke che camera sua aveva un soffitto a travi scoperte. Da bambina, gli disse, le piaceva appenderci farfalle di carta tagliando qualche striscia di spago.

Avevano trovato la scala di ferro nel seminterrato, assieme alle funi. Erano robuste, decisamente di bell’aspetto. Una sera, quando sua madre uscì – oh, si vedeva già con un altro uomo. Era veloce -, Nao chiamò il collega e lo invitò. Trascorsero la serata a legare le corde e i cappi, chiacchierando di quanto apprezzassero che sulle scrivanie dell’ufficio non ci fosse un solo granello di polvere. Si chiesero se l’attività di Matsumoto sarebbe durata a lungo. Lo sperarono. Soprattutto, si trovarono d’accordo sull’idea di aver perso qualcosa, o qualcuno. Era come se da qualche parte, sospeso in una frazione di tempo passata, fosse rimasto un nome amico. Non se lo ricordavano.

Nao aveva preteso di impiccarsi per prima perché desiderava che l’altro le sistemasse i capelli dopo che fosse scesa dalla sedia. Temeva che, se l’osso non si fosse rotto subito e lei si fosse dimenata, si sarebbero spettinati. Lo convinse dicendogli che voleva essere trovata a posto, come una rispettabile donna d’affari. Per l’occasione aveva indossato una bella gonna nera e una giacca elegante. Per una qualche ragione entrambi sapevano con assoluta certezza che l’unico modo per liberarsi da quello stress, da quel lavoro, dalla firma che avevano posto, da tutto quanto, era penzolare a qualche centimetro dal pavimento.

Daisuke, che era salito sulla sedia accanto alla sua, aveva già cominciato a pettinale i lunghi capelli neri quando si fece quasi convincere dal pensiero di rinunciare. Osservò il collo orrendamente piegato della ragazza, la pelle tirata sulla sua gola e i suoi occhi immobili e scuri, tuffati nel vuoto della libertà, e credette di poter cambiare idea. Nao era sempre stata bella, anche se non in maniera sbalorditiva; era strano che non avesse mai frequentato qualcuno.

«Però, davvero, c’è sempre troppo da fare. Sento di aver perso qualcosa per strada», dichiarò, parlando nel semibuio. L’idea di abbassare le persiane era stata sua. In qualche luogo e in qualche modo, era stato qualcun altro. Quel mancato ricordo lo distruggeva. Gli sembrava di lavorare e di muoversi e di rotolare e di cadere da sempre. Giù dal pendio, di corsa. «Vivere per l’oggi e dipendere dal futuro. Siamo tutti uomini a ventiquattrore; funzioniamo così, giriamo ovunque con la nostra valigia. Siamo saliti su una giostra e la giostra gira e basta. Vorrei tanto scendere.»

Scese dalla sedia solo dopo essersi passato il cappio attorno al collo.

 

* * *

 

Due settimane più tardi

 

Forse non sarebbe mai diventato direttore, ma Senza Esperienza sapeva il fatto suo.

Senza Esperienza aveva anche un nome e un cognome, che la regia si premunì di infilare in un angolo quando gli passarono la linea. Il suo grande sogno era girare per il mondo come giornalista, ma, per come stavano le cose, Kitamura Satoshi, o Sato per i confidenti più stretti, si doveva al momento accontentare di girare qualche servizio di fortuna sul Ventidue. Non era comunque male per uno a cui il padre aveva a malapena concesso la speranza di finire gli studi.

Quando il cameraman improvvisò un conto alla rovescia con le dita, si schiarì la voce e drizzò le spalle sotto la giacca grigia, rinnovando la presa al microfono. Si inchiodò in volto l’espressione più formale che avesse nel repertorio e si preparò al leggero e abbozzato sorriso di convenienza con cui avrebbe salutato i telespettatori.

Giù il medio, l’indice, il pollice. In onda.

«Sì, buongiorno a voi», cominciò, una mano salita a premere l’auricolare da cui aveva ascoltato le direttive dello studio. Era un gesto deliziosamente professionale, un po’ come quello, inutile ma di notevole impatto, con cui i tennisti pizzicano le racchette passeggiando a bordo campo come star di Hollywood. Mi stanno guardando e per questo agisco come loro si aspettano che io agisca, era il senso. «Come da voi anticipato, mi trovo a Koriyama, in uno degli uffici dell’azienda. Qui con me c’è Matsumoto-sama, dirigente della società.»

Qualcosa, forse un piccolo sorriso di partecipazione, si disegnò sulle labbra dell’interpellato. Se ne stava in piedi accanto a Kitamura, le mani giunte in grembo e il completo nero tirato a lucido. Il cameraman aveva scelto bene l’angolazione delle riprese; dietro a Matsumoto e al giornalista c’era una bella parete colma di libri, più un assaggio, in basso a destra, della scrivania. La luce era stata studiata in modo che tutto apparisse chiaro, spolverato, nitido come le notizie che volevano vendere alla gente.    

«L’atmosfera è di silenzioso rispetto», riprese Kitamura, le labbra ora serrate in un gesto di severa comprensione e gli occhi impeccabilmente fissi in camera. «In questi giorni si è spesso parlato delle tristi vicende che hanno interessato questa società. Tirando le somme, i numeri ci dicono che, in un solo mese, ben cinque persone si sono tolte la vita. Persone che lavoravano per quest’azienda, persone anche giovani – ricordiamo a questo proposito il caso della famiglia Fuyutsuki - che si sono uccise senza un motivo apparente. Alcuni parlano di suicidio per lavoro, un’espressione forte ma adatta, secondo gli inquirenti, a descrivere questa catena di eventi. Pochi... Sì, giusto pochi minuti fa abbiamo saputo che i medici legali hanno saputo dare un nome all’uomo ritrovato privo di vita nel lago Inawashiro2.» Una rapida occhiata al foglio nell’altra mano. «Si tratta di Okawa Kazuo, quarantasette anni, dipendente di questa società. Stando ai dettagli del ritrovamento, avvenuto qualche giorno fa, non sembrano sussistere dubbi sul fatto che si sia trattato anche in questo caso di morte volontaria. L’uomo si è legato un peso di piombo al piede destro e si è calato in acqua, come fanno sapere i colleghi che lavorano a contatto con le forze dell’ordine. Ancora nessuna notizia del giovane Ikeshima, di cui si sono perse le tracce da settimane. La speranza è ovviamente di trovarlo in vita.» Quando tornò ad osservare la telecamera, abbassò gli appunti e si voltò appena verso l’ospite d’onore. «Matsumoto-sama, conosceva il signor Okawa?»

«Lo conoscevo», cominciò l’altro, annuendo mestamente. «Ha lavorato per me per anni. La mia è una società giovane e oserei dire che lui l’ha praticamente vista nascere. La sua perdita è sicuramente un brutto colpo da accusare.»

«È d’accordo sul parere di quei giornalisti che vedono in queste morti il riflesso di un malessere lavorativo?»

«Personalmente mi sento molto... indesiderato. È una situazione che reca un certo imbarazzo a me e a chi lavora per l’azienda. Non trovo che sia corretto scagliarsi così gratuitamente contro la mia attività, soprattutto quando a perdere la vita sono stati lavoratori seri ed onesti come tutti. Sono amareggiato dal comportamento di molte emittenti televisive ed editori.»

«Giustificabile», riconobbe Kitamura, riportando il microfono a sé. «Come si sta vivendo la situazione? I dipendenti come hanno reagito?»

«Sono motivati. L’atmosfera è tesa, ma vivibile. I dipendenti lavorano oggi come ieri con risoluta positività.»

«Vuole... rilasciare qualche commento sul caso Fuyutsuki?»

Del “caso Fuyutsuki” si erano già cibate le più importanti testate giornalistiche del Paese. La notizia di quei due ragazzi ritrovati impiccati nella stanza di lei aveva fatto il giro delle televisioni fin oltre Koriyama, ed era approdata, non senza risultati, persino a Fukushima. La gente ha l’insensibile talento di eccitarsi di fronte alle disgrazie. Quel duplice suicidio lo aveva definitivamente approvato.

Matsumoto si mosse appena, un lieve indizio di sgomento. La telecamera non riuscì a registrare l’attento studio che si celava dietro il gesto con cui l’uomo aggrottò le sopracciglia. Era una messinscena, ma non se ne accorse nemmeno Kitamura. Se Masa aveva pensato a lui come ad un Senza Esperienza quando l’aveva visto per la prima volta, un motivo doveva pur esserci.

«Erano bravi ragazzi, conoscevo entrambi. Avevano appena deciso di rinnovare il contratto», fu la lenta, amara risposta. «Ho già portato le mie condoglianze alle rispettive famiglie. Non intendo rilasciare nient’altro.»

«Continuerà a credere nel suo lavoro?»

«Gli uomini credono sempre nel lavoro. Ci credono e lo cercano, perché sanno che lavorando si distinguono dagli animali. E io sì, voglio distinguermi, e continuare a fare ciò che amo. Lo scalpore suscitato da questi eventi così drammatici sta dimostrando l’unione dell’azienda e la devozione per il fine comune», soggiunse dopo un attimo. Qualcosa, forse un sorriso, gli aveva curvato un poco gli angoli delle labbra. La tipica espressione da capo risoluto, instancabile, presente, fiducioso oltre i limiti. «Pensare è il lavoro più pesante che ci sia, dicono3. Quindi noi lavoriamo e basta, senza preoccupazioni, senza fermarci alle accuse o ai giudizi, e ci muoviamo per il bene di questa città e di quelle che verranno.»

Il giornalista rispose di riflesso con un sorrisino di concreta ammirazione. «È piacevole trovarla così motivato in questa burrasca di eventi, Matsumoto-sama. La ringrazio per aver accettato di intervenire.» Si rivolse nuovamente alla telecamera, l’espressione ora tornata grave e pratica. «Questo è tutto quello che possiamo dirvi al momento. Vi richiederemo la linea nel caso in cui riceveremo notizie sul ragazzo scomparso. Per il momento è tutto, a voi in studio.»

Un ultimo sorriso di partecipazione. Un momento di immobilità professionale. Un altro paio di secondi, il tempo di interrompere la messa in onda, il tempo per Matsumoto di sorridere di punto in bianco, di sollevare le sopracciglia in quel suo silenzioso “Ehi, credetemi, il meglio deve ancora arrivare!”, e poi un netto taglio sul nero.

Dove tutto è vago e indistinto.

 

__________



Note.

1 Letteralmente, “morte per troppo lavoro”, ovvero “morte per sfinimento”. Si tratta più che altro di cause fisiche, come attacchi di cuore. Questo termine viene però utilizzato anche, a seconda delle circostanze, per indicare le morti volontarie a causa dello stress lavorativo.

2 Si trova a Est di Koriyama. È il quarto per estensione del Paese.

3 O meglio, disse. La frase è infatti attribuita a Henry Ford.



In un angolino...

Questo è stato un racconto molto, molto impegnativo. Sono davvero felice che il mio impegno sia stato ricompensato. La cosa davvero divertente, ammesso che ci sia qualcosa di divertente in questa storia (?), è che quando ho messo l'ultimo punto il mio primo pensiero è stato: "Okay, tutto questo è colpa del liceo". Perché molti degli argomenti che ho toccato, prima fra tutti l'alienazione causata dal lavoro di cui parla Marx, è farina degli studi. Non so se i miei prof mi bacerebbero sulle guance se scoprissero che ho usato l'eredità scolastica per scrivere un racconto così psicologicamente crudo, ma pazienza, è un modo come un altro di coinvolgere gli altri nelle stesse riflessioni... credo (?) Io ho la fortuna di lavorare occasionalmente in un ristorante, dove il mestiere non è mai monotono; a salvarmi dalla monotonia ci sono i clienti, sempre diversi, sempre pronti a scassarti con, cioè, a sottolineare i loro bisogni interculturali. Una salvezza, penso, perché sono quasi certa che morirei in un ambiente sempre uguale. Come gli uffici. Ah, si capiscono molte cose, da qui (?)
Ringrazio enormemente chi è arrivato sino alla fine, soprattutto per la lunghezza dei capitoli <3 Al momento sono presa con un progetto mio e con una ff, ma prima o poi tornerò fra le originali, dove mi sento a casa.

Dew_



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