Uomini a Ventiquattrore di Dew_Drop (/viewuser.php?uid=127372)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa. Solo un giorno, ogni giorno ***
Capitolo 2: *** Essere nel Ventidue ***
Capitolo 3: *** Incastrati e costretti a girare in eterno ***
Capitolo 4: *** Cose vive e indistinte ***
Capitolo 5: *** Quello delle mosche ***
Capitolo 6: *** Karoshi ***
Capitolo 1 *** Premessa. Solo un giorno, ogni giorno ***
Premessa. Solo un giorno, ogni giorno
{Note dell’Autore} Preferisco precisare subito come ho
voluto intendere la grammatica italiana nel caso del grattacapo chiamato
“ventiquattr’ore”. Questa parola a quanto pare è una totale scommessa: facendo
qualche ricerca, ho scoperto che si può scrivere in entrambi i modi, con o
senza apostrofo, quando si intende l’arco di tempo che copre una giornata
intera; personalmente, la preferisco con. La parola ventiquattrore intesa come piccola valigia di lavoro è invece scritta
sempre senza alcun segno grafico. È in questo modo che deve essere inteso il
titolo.
[ Storia partecipante al Contest "The Melancholy Spirit - dark horror story",
indetto da Yuko Chan _ l i n k -
http://freeforumzone.leonardo.it/d/11028606/THE-MELANCHOLY-SPIRIT-Dark-Horror-Story/discussione.aspx/1
- ]
Uomini a Ventiquattrore
“Nessuno
al mondo è in grado di dirti perché esisti, ma visto che sei qui, lavora per
dare un senso alla tua esistenza.”
S. Kierkegaard
Premessa.
Solo un giorno, ogni giorno
---------------------------------
Quando
l’uomo si sedette sul seggiolino accanto, Masa alzò gli occhi su di lui. Fu uno
sguardo distratto, giusto un mordi e fuggi, uno di quelli che valgono a
salutare colui che sarà il tuo sconosciuto compagno di viaggio. C’è qualcosa di
poetico nel pensiero che le vite si incrocino anche sottoterra, nei tunnel
delle metro.
Il
ragazzo non ci stava pensando. Piuttosto che riflettere su quella
considerazione filosofica, sembrava più interessato a capire perché il nuovo
arrivato fissasse ostentatamente il suo zaino sistemato a terra. Non c’era poi
nulla di strabiliante o degno di nota in un sacco con bretelle in cui erano
infilati due libri di medicina e il suo notebook. O gli stava osservando i
piedi? Aveva i mocassini neri sfregiati sulle punte o sporchi di una generosa e
allegra spruzzata di escrementi di piccione?
Non
impazziva per le metropolitane, ma Koriyama era viva abbastanza da necessitarne
una. Fosse stato per lui, un qualche posto più tranquillo sarebbe stato
l’ideale. Gli sarebbe piaciuto sperimentare un’esistenza diversa, una casa da
sé al posto di un appartamento – era grande, decisamente costoso, ma un
appartamento restava -, una bicicletta al posto dell’automobile. Aveva
entrambe, con il problema che non le usava spesso, considerato che a tutto
quanto pensavano i mezzi pubblici. Di tanto in tanto si chiedeva se fosse
ancora capace di guidare. Gran bel mistero.
Il
desiderio di diventare un dentista aveva la sua parte. Da quando frequentava la
Ohu, università privata per aspiranti cavabocche
– il giorno in cui il suo migliore amico aveva usato quell’espressione, aveva
scoperto quanto le persone ubriache potessero sparlare -, infilarsi sottoterra
e aggiudicarsi un posto a sedere nel primo treno buono erano diventati gesti
quasi quotidiani. La vita di quella città, sia sotto che sopra, era così
frenetica che a volte, tornando a casa, Masa aveva l’istinto di gettarsi sulla
sedia più vicina per paura che un fantomatico avversario potesse rubargli
quella comodità. La colpa era anche dei suoi genitori, che avevano insistito
per dare al loro appartamento un tocco un po’ più europeo.
“Però
le scarpe si tolgono lo stesso”, gli aveva detto sua madre quando, anni prima,
aveva tirato fuori quella sua improvvisa ammirazione per l’Occidente. “Le
scarpe sull’ingresso.”
Quella
regola doveva essere una delle poche cose giapponesi rimaste sulla lista delle
indicazioni comportamentali. Per il resto, e rifletterci gli faceva venire
voglia di ridere, suo padre sarebbe stato in grado di rincasare dalla
concessionaria, buttare giacca e calze ai quattro venti e sistemarsi davanti
alla televisione con una lattina di birra in mano, magari a tifare una qualche grintosa
squadra di baseball.
Ventunesimo secolo,
baby.
Viva lo stile americano.
«Studi?»
La
domanda lo raggiunse dall’altro capo dell’universo. Masa, che si domandò come avesse
fatto a passare dallo zaino all’orrenda e comica immagine di Toru Ikeshima
stravaccato in poltrona, si voltò ad incrociare gli occhi dell’uomo. Gli ci
volle qualche altro attimo per capire che lo sconosciuto si era rivolto proprio
a lui.
Era
un ometto basso, dal gran sorriso da jolly e dagli occhi neri accesi di sincero
interesse. I capelli avevano già cominciato a scoprirgli le tempie, che
risaltavano lucide come la fronte sotto alla bianca luce del vagone in corsa.
Per quanto il treno sobbalzasse un poco, se ne restava a guardarlo come se tra
il sedere e il seggiolino avesse una paletto di legno; sembrava non muoversi di
un millimetro. Era forse il primo uomo d’affari, tutto giacca e cravatta, che
avesse mai visto completamente immobile. Tra i piedi, ritta e fiera, aveva
un’elegante e piccola ventiquattrore.
Masa dovette rendersi conto che tutto quel suo
silenzio sarebbe potuto passare per maleducazione. «Sì,
signore», si decise a rispondere. Con un bel sorriso
da bravo ragazzo, anche. In effetti era davvero un bravo ragazzo. Bravo e
bello.
«Odontoiatria?»
«Alla Ohu, secondo anno.» Aggrottò appena le
sopracciglia, tra divertimento e curiosità. «Come ha fatto ad indovinare?»
«Dall’uniforme. Hai i denti troppi puliti per
poter studiare chirurgia.»
Se c’era qualcosa di macabro in quella
risposta, Masa non lo trovò. Quel che fece fu accogliere quelle parole con il
principio di una risata di convenienza. «Me lo dicono in molti. Dei denti,
dico.»
L’uomo rimase ad osservarlo con intensità. Le
sue mani tozze, posate sulle ginocchia, stiracchiarono appena le dita. «Il mio
nome è Okawa. Come ti chiami?»
«Ikeshima, signore. Ikeshima Masa.»
«È un bel nome.»
Il ragazzo avvertì l’impulso di ammettere che
persino quella era una cosa che gli dicevano spesso, ma si trattenne per il
semplice fatto che uscite del genere sapevano di film romantico di serie B, se
non C. Forse era distratto, ma intelligente. Non si meritava il ruolo in cui
quell’uomo voleva relegarlo; la categoria del bravo giovane che risponde con la
stessa frase solo per timidezza non faceva per lui. «Il piacere è mio,
Okawa-san. Prende spesso la metro?»
«Solo oggi», confidò l’altro. «Viaggio per
lavoro, ma questa sarà la mia ultima corsa su questa linea.»
«Va all’estero?»
Era una domanda stupida, ma se ne accorse solo
dopo averla pronunciata. Okawa non se ne preoccupò e il suo sorriso, vispo e
indulgente, rimase dov’era. «Non ti piacerebbe lavorare? I giovani d’oggi hanno
tanto bisogno di un mestiere.»
«Lo studio mi impegna.»
«Studiare e lavorare è conveniente e utile.»
«C’è chi riesce a gestire entrambe le cose.
Non mi ritengo parte del club.»
«Lavorare e studiare, allora? Dà tante
soddisfazione, Ikeshima.»
Masa lo osservava con un sorriso instupidito,
forse l’indizio sbiadito della convinzione con cui aveva steso il primo. Il
treno doveva essersi fermato due o tre volte. Stava tenendo mentalmente il
conto, in un modo o nell’altro. «Ne sono sicuro, signore. Non lo nego.»
«Potresti darti da fare durante le vacanze
estive», continuò Okawa. «Quelle settimane non sono da buttare al vento1.»
«Ah.» Adesso c’era anche ironico imbarazzo. «Quello
che dice anche mia madre.»
«Ed ha pienamente ragione. Alcuni sono
disposti ad assumere anche solo per un mese, se si tratta di studenti.» Allungò
le gambe, per quanto il verbo “allungare” non fosse adatto alla sua statura, e
incrociò le caviglie con l’atteggiamento di un sereno interlocutore. «Manca
poco alla fine dell’anno.»
In effetti, a conti fatti, mancava poco più di
un mesetto. Febbraio era agli sgoccioli, un po’ come la sua scorta di buona
volontà. Studiare odontoiatria gli piaceva, ma era pur sempre un ragazzo di
vent’anni e la sua età reclamava aria fresca, aria che non sapesse di lunghi
pomeriggi passati con i professori a pulire laboratori e dentiere di plastica.
Daisuke gli aveva detto che sarebbe stato grandioso spendere almeno una delle
settimane di vacanza fuori città. Si pensava ad Osaka. Oh, sarebbe stata una
gran cosa. Avrebbero potuto chiedere anche a Nao, e allora, se avesse
accettato, sarebbe stata una cosa indiscutibilmente mitica. Certo che avere un lavoro, anche se piccolo, anche se non
troppo importante...
«Anche questo è vero», ammise Masa,
ripescandosi da quel momento di distrazione. Mancavano solo due fermate e poi
sarebbe sceso. Si domandò per quanto ancora Okawa-san sarebbe invece rimasto
impalato su quel seggiolino come uno spaventapasseri al suo bastone di legno,
salvo poi maledirsi per la cattiveria di quella similitudine.
«L’azienda per cui lavoro è solita prendere
sempre qualche ragazzo durante le vacanze», continuò Okawa-san, stringendo le
mani tra le cosce. «Potresti farci un pensiero.»
«Di cosa si occupa esattamente?» Forzò
dell’interesse, ma nemmeno ebbe da impegnarsi troppo. Suo padre aveva sì una
concessionaria e sua madre era un medico, dettagli che significavano un gran
bel bottino di yen. In fondo, la Ohu
era privata e non certo gratuita. Non credeva però che i genitori non gli
avrebbero permesso di prendersi un lavoretto umile. Lavorare quando avrebbe
potuto vivere di rendita per ancora qualche anno sarebbe stato sinonimo di
responsabilità e autonomia.
Autonomia. Che
parola seducente.
«Lavoro d’ufficio, nulla di eccezionale.»
L’uomo si frugò nella tasca della giacca e trasse un biglietto da visita. Era
bianco e bordato di ghirigori neri. Se Masa non avesse saputo che riguardava un
posto di lavoro, avrebbe pensato che fosse un malriuscito cartoncino di auguri
di compleanno. Glielo tese con un generoso sorriso di cortesia. «Fare domanda
non costa nulla. Sono sicuro che ti assumeranno senza pensarci.»
Il ragazzo gli sfilò il biglietto dalle dita e
ci gettò uno sguardo. Il treno, alla partenza poco affollato, si era nel
frattempo riempito di pendolari che, aggrappati ai sostegni, dondolavano
lentamente avanti e indietro. Parlavano in pochi, e lo facevano a voce bassa. Qualcuno,
la maggior parte, digitava frettolosi messaggi sui cellulari o sui tablet;
altri giravano gli occhi attorno, languidamente, cuffiette nelle orecchie e viso
impassibile. Lavoratori imbottigliati. Piccole anime stipate in una supposta di
ferro e acciaio.
«Solo un giorno, ogni giorno», disse Okawa.
Masa, che non si aspettava che parlasse,
ritornò a guardarlo. Si era rigirato il biglietto fra pollice e indice e per
una frazione di secondo pareva essersi scordato di avere un compagno di
viaggio. Sorrise, ma solo di riflesso, e l’altro, che colse una domanda in
quella sua espressione, si affrettò ad aggiungere:
«È il nostro motto. “Solo un giorno, ogni
giorno”. È il tempo che viene preso a noi dipendenti. Un giorno solo. Non è
tanto.»
«È curioso.»
Okawa-san si chinò a recuperare la
ventiquattrore e si alzò, mentre il treno cominciava a decelerare. «Ti auguro
di concludere brillantemente il tuo anno.»
«Grazie, signore.»
L’uomo gli lasciò addosso un sorriso prima di
infilarsi fra la giungla di pendolari e dirigersi ad una delle porte. Quando
scese, Masa lo cercò dal finestrino e lo vide incamminarsi a passo spedito
verso le scale mobili, la sua bella valigetta stretta in mano e il portamento
dritto e fiero. Fu distratto dalla donnina che acciuffò il seggiolino lasciato
libero. Il ragazzo la spiò soltanto, il tempo di un sorrisetto di cortesia
nonostante lei gli avesse rivolto un ghigno diffidente, e tornò a guardare la
banchina. Il treno aveva già cominciato a muoversi e Okawa-san era scomparso.
Solo un giorno, ogni giorno. Appoggiò la nuca contro al vetro e diede un’occhiata al
biglietto. Ora che l’uomo se n’era andato, era come se si fosse portato dietro
la sua eloquenza; l’idea di chiudersi in un ufficio anche durante le già brevi
vacanze estive gli sembrava ora più stupida del pensiero che esistessero
giraffe volanti. Le sue labbra, piccole e dal disegno delicato, si curvarono
agli angoli in un sorriso. Che stronzata,
pensò.
Quando scese, lasciò il biglietto sul seggiolino.
Non che questo gesto valse a cambiare le cose.
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Note.
1 In
Giappone, l’anno scolastico inizia ad aprile e finisce verso marzo. Le vacanze
estive durano più o meno sei settimane.
Cos'è successo?
Sì,
cos'è successo? Succede che era da tanto che volevo scrivere
qualcosa sulle ventiquattrore e che questo Contest mi ha dato la
possibilità di sviluppare l'idea. Perché di uomini in
giacca a cravatta che camminano in branco e parlano di lavoro ce ne
sono sempre, in giro, e non posso mai fare a meno di chiedermi di cosa
diavolo stiano ciarlando, cosa accidenti si portino dietro nelle
valigette e cosa acciderboli trovino di appassionante nel mondo del
lavoro e dalla finanza.
Ho
tentato di immaginarmi qualche risposta. Non sono un'amante dell'horror
fisico; per me questo genere deve essere soprattutto psicologico.
L'horror è, prima di tutto, nelle idee. E con questa storia ho
voluto immaginare qualche risposta alle domande che mi pongo quando
vedo passare quegli sciami di uomini indaffarati, e davvero, col cuore,
spero di non aver indovinato. Inoltre, Koriyama esiste sul serio. Per
il resto devo davvero ringraziare i miei studi, perché senza la
storia e la filosofia per come le insegnano al liceo classico, certi
collegamenti e certe pensieri non sarei riuscita a farli. Grazie,
Inferno <3 (?)
Ringrazio
anche chi mi seguirà e chi lascerà qualche parere! Tolto
il prologo, si tratta di cinque piccoli capitoli. Pochi. Non vi
prenderò troppo tempo. Solo cinque capitoli, ogni cinque
capitoli.
Dew_
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Capitolo 2 *** Essere nel Ventidue ***
2. Essere nel Ventidue
ESSERE NEL VENTIDUE
__________
«Ho
i biglietti per Osaka»,
si annunciò Daisuke, infilandosi a sedere di fronte a lui. Per la fretta con cui si tuffò sulla seggiola,
picchiò il piede contro una gamba del tavolo e rischiò di causare un
catastrofico terremoto tra quel che Masa stava mangiando. In Giappone c’erano
già troppe scosse sismiche, e Daisuke Ido era fra quelle. «Tra due settimane si
levano le tende. Prenotare con anticipo è stata la scelta migliore. Tanto tu
finisci tra quindici giorni, qui, no? Mi stai ascoltando?»
Masa
non stava mangiando nel vero senso della parola. In risposta a quella domanda,
sventagliò distrattamente le bacchette e non scollò lo sguardo da una direzione
non ben definita, neanche stesse spiando i movimenti di un pugno di possibili furfanti
all’opera. Messo a quel modo, i gomiti puntellati sul tavolo e le pupille a far
capolino da sotto i sottili ciuffi neri dei capelli, sembrava un soldato
vietnamita immerso in una palude e intento a farsi passare per un coccodrillo. «Lo stanno facendo
ancora», mormorò. «Le stanno portando via.»
Daisuke,
che ascoltava quella storia praticamente dal giorno in cui avevano entrambi
cominciato a lavorare per l’azienda di Matsumoto, ruotò gli occhi verso il
soffitto e si sistemò il proprio vassoio sotto al naso. «Sei paranoico,
Ikeshima.»
Ad
onor del vero si chiamavano per nome la gran parte delle volte. Il cognome, per
loro che erano cresciuti praticamente assieme, era solo un modo per esprimere
un profondo quanto ironico sarcasmo. Per una serie di coincidenze si erano ritrovati
a firmare un piccolo contratto per lo stesso uomo, che aveva assunto giovani con
lo stesso atteggiamento del Papa che chiama a raccolta le pecorelle smarrite.
Masa non aveva ancora realizzato come fosse stato possibile, soprattutto perché
aveva impietosamente abbandonato il biglietto da visita di Okawa sul seggiolino
di quella supposta su rotaie. Pochi giorni prima del termine dell’anno
scolastico, quando era stato sul punto di scordarsi del tutto di quello scambio
di parole, sua madre aveva però scovato lo stesso annuncio sul giornale e lo
aveva convinto – o costretto, dipendeva dai punti di vista – a provare quella
piccola esperienza di lavoro che gli avrebbe portato via solo tre delle sei
settimane di vacanza.
La
vera sorpresa era stato scoprire che Matsumoto, il dirigente di cui non
conosceva nemmeno il volto, aveva assunto un numero spropositato di altri
studenti e persino qualche disoccupato oltre la trentina; il dettaglio
inusuale, quello di cui solo Masa sembrava essersi reso conto, era il modo in
cui erano organizzate le giornate di lavoro. Ognuno, al momento
dell’assunzione, aveva avuto in regalo una ventiquattrore. La sua era bella,
lucida e professionale, con il problema che non la usava. Era forse
paradossale, ma era così; non poteva aprirla, dal momento che serviva una
chiave che solo il capo del settore possedeva. Ed era così per tutte le altre.
Sul contratto, in uno specchietto a parte, stava scritto che “Ai dipendenti più meritevoli verrà
consegnata la propria chiave! All’interno, premio per lo sforzo del buon
lavoratore!”; era una bella iniziativa, eppure restava un mistero il perché
dovessero portarsele sempre dietro. A voler essere sinceri, quelle valigette
sembravano più dei decori che strumenti di lavoro veri e propri.
Alcuni
operai le raccoglievano durante la pausa pranzo e prima delle diciassette, orario
di chiusura, salvo poi riconsegnarle ai rispettivi proprietari. Se
l’immaginazione gliel’avesse permesso, e lui non ne aveva a sufficienza per
concedersi questo lusso, Daisuke avrebbe detto che la sensazione era quella di
assistere alla raccolta della biancheria da lavare e da rimettere poi a posto.
Tra i due, l’unico in grado di partorire un pensiero tanto surreale era Masa.
«Avranno le loro ragioni», disse Daisuke,
stringendosi nelle spalle. Aveva gettato uno sguardo verso le due porte
socchiuse della mensa, oltre le quali l’amico aveva visto passare in fretta i
carrelli colmi di valigette. «Forse è per evitare che qualcuno le rubi mentre
tutti sono assenti.»
L’altro fece silenzio per qualche istante.
Poi, nel tono meditabondo di chi si ritrova ai piedi del pero quando prima ci
era sopra: «Non ci avevo mai pensato.»
«È perché ti complichi
sempre la vita. Lascia perdere i meccanismi; in fondo l’importante è che
l’oggetto funzioni.»
L’oggetto,
ovvero l’azienda, funzionava bene. Non che avessero pienamente idea di che cosa
si occupasse – qualcuno optava per la finanza, altri per la produzione di parti
meccaniche -, ma gli orari erano buoni, la paga anche, l’ambiente organizzato. Il
loro unico compito era fare qualche calcolo, ricopiare qualche dato al
computer, controllare che le fotocopie colme di numeri fossero impeccabili. Andava
tutto alla grande.
«C’è un’altra cosa che
mi sorprende.» Masa tornò a
rovistare nel vassoio con le bacchette, ma questa volta stava sorridendo.
«Cosa?»
«Il fatto che non ti
abbiano detto niente per i capelli.»
Daisuke,
che aveva atteso la risposta con tanto d’occhi, buttò uno sbuffo e allungò un
pugno sopra al tavolo, beccando con entusiasmo la spalla dell’altro. «Sei un cretino. È tutta
invidia.»
«No, sul serio.»
«Mi hanno detto che mi
darò una regolata io, con il tempo. E ciò vuol dire che è invidia anche la loro.»
Masa
non trovava nulla di eccezionale in quel suo orgoglioso senso di appartenenza
alla moda hosuto1. Sancì la
chiusura del sipario con una scrollata di capo e un sorrisetto che gli disegnò
due fossette nelle guance. Erano
anni che Daisuke viveva a quel modo, esibendo un costoso vestiario che poteva
permettersi solo perché suo padre era un banchiere di quelli con la B
maiuscola. Non frequentava l’università e si accontentava di girare in branco
con altri suoi amici, facendo attenzione che i polsini delle giacche fossero a
posto e le etichette ben in vista. I suoi capelli erano uno spruzzo nucleare in
un parco acquatico. Letteralmente. Uno come lui sarebbe forse stato meglio a
Ginza, dove girare con capi alla moda non era un optional.
«L’unica cosa che ti invidio è il senso
dell’umorismo», confidò Masa, riguardando la sua prima intenzione di non
aggiungere più nulla. «Per il resto, non ci terrei ad andarmene in giro con un
riccio sciolto in testa.»
Daisuke strinse le labbra per costringersi a
non ridere. Alcuni dipendenti accomodati lì vicino avevano origliato abbastanza
da girare su di loro sguardi tra ammonizione e perplessità. «Mangia,
Ikeshima, altrimenti un riccio te lo infilo nelle mutande stanotte.»
* * *
La
nonna di Masa sfornava i migliori dorayaki
2 del mondo. Almeno era quello che dicevano tutti, e almeno era
quel che lei faceva quando ancora era in vita. Dal momento che erano tre anni
che riposava in pace, era naturale dubitare che continuasse a impastare e
infarcire. Forse, e l’idea non era niente male, metteva insieme qualche nuvola
e li preparava lo stesso.
La
vera fortuna era che questa brava donna spirata a ottantadue anni suonati aveva
lasciato questo suo passatempo in eredità alla figlia. Midori, che da lei si
era presa anche il piccolo neo sul collo e le dita un po’ corte, aveva imparato
a preparare quei dolci proprio seguendo la sua stessa ricetta. Di contro, Masa
aveva sì il neo e le dita poco eleganti, ma non si era scoperto ugualmente
portato nell’arte della pasticceria. Così lasciava che a prepararli fosse lei,
salvo poi mangiarli quasi tutti lui. Un buon ragionamento.
Aveva
trascorso l’infanzia e la prima adolescenza coi dorayaki della nonna, per poi imboccare la strada verso la maturità
con quelli della madre. Si sentiva quasi un eroe antico, uno di quelli
consapevoli di essere l’ultimo a poter gioire di un gran vanto di famiglia.
Aveva ottime ragioni di credere che i suoi nipoti non avrebbero avuto
l’opportunità di assaporare quella prelibatezza fatta in casa, per cui si
godeva il momento con l’orgoglio di un titano prossimo alla caduta. Era una
bella sensazione e lo faceva sentire importante, sempre che ci si potesse
considerare tale quando l’eredità di cui si va tanto fieri è un simpatico
dolcetto di forma circolare.
Ricordava
con morbosa chiarezza la passione con cui li mangiava da bambino, il gesto quasi
rispettoso con cui prendeva il primo pezzo e la serenità con cui pensava che
era un po’ come scaricare la vescica dopo ore di silenzioso supplizio. La
dolcezza di quei bocconi gli dava un sollievo quasi fisico, e le cose non erano
cambiate nemmeno ora che aveva superato di poco i vent’anni. In passato era
stato più corto, non avvertiva il fastidioso prurito della barba che minacciava
di ricrescere, ma per il resto non era cambiato quasi nulla; sul futon, in un giaciglio
di coperte, rivista o libro aperto sulle gambe, piatto di dorayaki lì accanto, per terra.
Stava
per portesene uno alla bocca, concentrato come solo lui sapeva fare quando si
trattava di mangiare e leggere in contemporanea, quando il cellulare si mosse.
L’apparecchio fece un salto e, colpa della vibrazione, prese a girare su se
stesso come una trottola. Chiamata. Masa, che a causa del silenzio accolse quel
rumore un po’ come si accoglierebbe un bombardamento aereo, ebbe un sobbalzo
più simile ad una scarica di elettroshock. Solo in un secondo momento fu in
grado di allungare la mano libera per acciuffare quell’aggeggio infernale e
dare un occhio al nome di chi gli aveva fatto rischiare l’infarto.
«Nao, quando saremo a Osaka, ricordami di
svegliarti facendoti scoppiare un palloncino in faccia», rispose quando si
portò il telefono all’orecchio.
«Non dirmi che stavi dormendo. Sono le otto di
sera.»
«No, me ne sto seduto sul letto. Che è la
stessa cosa.» Non scherzava. Era uno studente brillante, ma abbastanza
distratto da confondere le due cose. «Daisuke ti ha dato il biglietto? Li ha
comprati lui per tutti.»
«Sì, ma non è di questo che voglio parlarti. Accendi
la tv. Hai la tv in camera, no?»
Masa si era già tuffato di lato per acciuffare
il telecomando. Si era sistemato il cellulare fra spalla e orecchio e stava
sorridendo senza sconti. In qualche modo, destreggiandosi in un comico gioco di
equilibrismo per non far cadere il libro che reggeva sulle gambe o restare
imbrigliato nelle coperte, recuperò quel che cercava. «Ho tutto quello che
vuoi, Fuyutsuki. È che in camera di norma faccio altro.»
«Non fare lo spiritoso.» Dalla voce era facile
capire che cercava di non ridere. Sapeva della tv e sapeva che in camera si
poteva fare di meglio che accenderla. Non per nulla era la sua ragazza da ormai
due anni. «Prendi il telecomando e metti sul Ventidue.»
Il televisore era un piccolo gioiellino
firmato Samsung. Se ne stava in un angolino della stanza, per di più ignorato e
ricoperto da un perenne strato di polvere. Se era in funzione, il comando audio muto lo zittiva. Masa non poté biasimarlo quando si accese con un
ronzio indispettito.
«Guarda che non scherzo», diceva nel frattempo,
gli occhi abbassati a digitare il numero. C’era qualcosa di innaturale nella
postura in cui si trovava, seduto tra le coperte con un dorayaki nella sinistra, il telecomando nella destra e il cellulare
schiacciato in un bacio tra spalla e orecchio. Wow, degno di un supereroe, o di
un contorsionista thailandese. «Questa storia del divorzio dei tuoi è un
bell’impaccio. Quand’è che passi a trovarmi?»
«Appena posso. Lo sai, voglio stare vicina a
mamma e papà. Sei sul Ventidue?»
«Sì, ma non vorrei essere nel Ventidue, se capisci cosa intendo. Cos’è quel gregge di gente?
Soffocherei.»
«Vorrai dire chi è. È il tuo capo, testa di cocco. Matsumoto, quello
dell’azienda.»
L’immagine imbottigliava in un unico spazio un
gran numero di persone. Era un interno, probabilmente un grattacielo, a
giudicare dalla finestra che si intravedeva e che testimoniava una certa
altezza da terra. Tutti quanti erano disposti davanti ad un corridoio grigio,
che filava in lontananza e suggeriva la presenza di parecchie porte, quasi per
certo uffici nuovi di zecca. Uomini e donne in giacca e cravatta osservavano
l’inviato, al centro, che sorrideva con la bocca forse troppo vicina al
microfono. È alle prime armi, pensò
Masa. E poi, senza un nesso logico: è un’emittente
piccola, di quelle di classe C. C come Cicca. Ovvio che non conosco chi ci
lavora. Un sacco di mosche indistinte. Accanto a Senza Esperienza c’era un
uomo un po’ più alto degli altri, dai radi capelli scuri e dalle sopracciglia
folte. Teneva le mani dietro la schiena e i suoi occhi erano tanto neri da
sembrare senza pupille, luminosi come la promessa di Mosè.
«È lui?» domandò Masa. «Il tizio impagliato?»
«Hai davvero un gran rispetto per il tuo capo.»
«L’era del Bushido
3 è passata da un pezzo. Stanno davvero inventando altri posti
qui in città?»
«A quanto pare sta dando lavoro a un sacco di
gente. Gente come lui serve, di questi tempi.»
Senza Esperienza presentava l’iniziativa con
molto entusiasmo. Matsumoto aveva acquistato tre piani di quel grattacielo e
voleva riaprirli come uffici. Quanto a lui, non era intenzionato ad
interrompere il gran discorso dell’inviato e si limitava ad annuire e a
scambiare qualche sorriso con qualcuno dei colleghi. Davanti a loro ma distante
un bel po’ di chilometri, Masa prese un morso dal dorayaki e cominciò a masticare lentamente, seguendo il filo del
discorso. Era chinato in avanti in un modo un poco inquietante, ma non c’era
nessuno a farglielo notare.
«Nao, ma tu sai da dov’è balzato fuori?»
«Chi? Cosa?»
«Matsumoto.»
«Da un uomo e da una donna che si vogliono tanto
bene. Che razza di domanda è?»
«Non intendevo quello.» Masa mandò giù il
boccone senza perdersi il momento in cui Senza Esperienza consegnò un paio di
forbici al grande capo. Poco più indietro, un nastro giallo chiudeva il
corridoio. «Deve averne, di soldi, per assumere e comprare.»
«Proverrà da una qualche famiglia facoltosa. Non
tutti i ricchi del mondo hanno il loro nome e cognome nella Hall of Fame. Ci
sono molti imprenditori che si fanno strada dal nulla; magari i suoi nonni
erano contadini.»
«Forse», convenne lui. Si concesse l’ultimo
pezzo di dolce e si pulì la mano sulle coperte.
«Ti trovi bene?»
«Non mi lamento. È bello avere qualche
risparmio per me. Non dovrò chiedere denaro ai miei quando partiremo per Osaka.»
«Pensavo la stessa cosa. Avevo una mezza idea
di fare domanda; manca ancora un po’ prima della partenza.»
Da suo collega alla Ohu, Masa non trovò nulla
da dirle in contrario. Si strinse nelle spalle e riacciuffò il cellulare,
sgranchendosi il collo. «Sarebbe bello. C’è un sacco di gente che conosco che
lavora per Matsumoto.»
«È vero che regalano a ciascuno una borsa?»
«Una valigetta.
Ventiquattrore. Niente di troppo lussuoso o femminile.»
«Ma è una bella cosa. Mi dà l’idea di
un’azienda responsabile e affettuosa. Penso proverò a farmi assumere.»
Amorevole come fresco dopobarba, rifletté lui, ma non lo disse. Quello che invece fece fu
sorridere, un sorriso decisamente da idiota, e uscirsene in un tono da
lapidario giornalista con un: «Koriyama: la città-dipendente.»
Lei rise. Fu un suono fragrante, anche se
velato dal fruscio della linea telefonica. Rise su una battuta su cui solo
qualche giorno più tardi non avrebbe riso più.
* * *
Il
quartiere più a nord dipese per primo. La minoranza che ancora non era stata
assunta o non aveva scelto di lasciare il proprio lavoro per abbracciare il solo un giorno, ogni giorno lo fece in
un secondo momento. Alcuni firmarono contratti di poche settimane, altri di un
intero anno. Era persino possibile lavorare per sole ventiquattr’ore, salvo poi
lasciare la scrivania ad un nuovo collega.
Leggevano
gli annunci sui giornali, su Internet, sui cartelloni, e proseguivano per un
periodo con le loro vite di sempre. Poi, chi presto e chi tardi, si svegliavano
la mattina e decidevano di fare domanda. Negli esercizi commerciali esistenti
da tempo rimase solo un minimo numero di dipendenti; il resto ebbe in regalo la
bella e lucente valigetta scura.
Più
a est, dove molti spazi erano in vendita, vennero aperti altri uffici. Un buon
numero di palazzi finirono con l’essere interamente acquistati dalla società di
Matsumoto. In una città già presa d’assalto dal vorticoso giro di affari della
prefettura, uomini e donne con anonimi completi neri cominciarono ad affollare
la stazione, la metropolitana, le strade. Divennero sciami.
Prese
a lavorare anche Nao. Sei giorni dopo l’assunzione, un mercoledì, quando Masa si
fece consegnare la propria ventiquattrore come ogni mattina, la trovò più
pesante del solito. Pensò che fosse stanchezza. Il giovedì sembrava che
qualcuno ci avesse sistemato dentro un piccolo peso di piombo.
Daisuke mi ha dato del
paranoico, pensò. Comincio
a credere che abbia ragione.
__________
Note.
1 La moda
hosuto prevede abiti di marca e
capelli voluminosi dai tagli fantasiosi e appariscenti.
2 I dorayaki sono dei tipici dolci
giapponesi: due pancake riempiti, di norma, con una salsa di fagioli. Ne
esistono innumerevoli varianti, tra cui quelli farciti con marmellata o varie
creme.
3 Può
essere identificato come il corrispettivo della nostra cavalleria europea. Seguita dai samurai, è una condotta morale e di
vita improntata sul rispetto per gli altri, per i superiori e anche per il nemico.
B T W _ Su
questo sito ho un sacco di gente che mi vuole bene. Nel senso, è che
vorrei finire di pubblicare prima della scadenza del Contest, aka 2 giugno, sia per
una fissa mia (?), sia per, come dire, correttezza. Non so spiegarmi,
non sono mai capace di farlo, quindi prestate pazienza anche per questo x'
Sostanzialmente, spero mi vogliate bene anche se corro con gli aggiornamenti. Chu (?) <3
Dew_ <3
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Capitolo 3 *** Incastrati e costretti a girare in eterno ***
3. Incastrati e costretti a girare in eterno
INCASTRATI E COSTRETTI A GIRARE
IN ETERNO
__________
Doveva
essersi distratto, perché solo in un secondo momento si accorse del trio di uomini
fermo accanto alla scrivania. Quando si volse del tutto verso di loro, uno dei
tre, più avanti rispetto agli altri di qualcosa come mezzo passo, lo accolse sfilando
un sorriso eloquente. Fu come vedere una feroce virgola fare capolino in un
testo privo di punteggiatura.
«Ikeshima? È lei,
giusto?» chiese l’uomo.
Masa annuì in automatico, scostando le mani
dalla tastiera. Era completamente consapevole dell’espressione da idiota che
gli si era piantata in faccia; in un esilarante fumetto che l’immaginazione gli
stampò nel cervello, si vide cadere da un pero e rivolgere a quegli inattesi
ospiti uno sguardo da “Ehi, ma questo è
il Pianeta Terra?” La realtà non doveva poi essere così diversa.
«Dobbiamo prendere un attimo la sua valigia»,
spiegò l’altro. Teneva le mani intrecciate dietro la schiena e non aveva smesso
di sorridere, quasi non si fosse accorto dell’alto livello di distrazione di
chi aveva di fronte. Sempre che quel suo stoico atteggiamento non significasse
che preferiva non accorgersene. «Gliela riporteremo tra pochi minuti.»
Il ragazzo batté le palpebre una volta sola.
Teatralmente. «Dovete prendere la mia cosa?»
Nel silenzio dell’enorme ufficio organizzato in linee orizzontali, la domanda
risultò forse un po’ troppo alta, ma nessuno alzò gli occhi per vedere cosa
succedeva. Il ticchettio delle tastiere e lo squillo di qualche telefono
continuarono imperterriti.
Non era sicuro di aver sentito bene. E dire
che la ventiquattrore se ne stava lì accanto, sull’angolo della scrivania in
ferro, e non dava fastidio a nessuno. Nemmeno abbaiava, si disse, ma il
pensiero non riuscì a divertirlo. L’ora sul desktop suggeriva che mancavano
ancora cinquanta minuti alla pausa pranzo. In termini più semplici, era un po’
troppo presto per il rituale ritiro delle ventiquattrore, e lui decisamente distratto
e colto alla sprovvista.
L’uomo non si scompose e lo osservò con
deliziata indulgenza. A Masa ricordò Okawa-san che cercava di convincerlo a
lavorare per il mondo. «Pochi minuti», ripeté. Fece un cenno e uno dei colleghi
sottrasse la ventiquattrore al suo angolino. «Gliela restituiremo e lei potrà
tornare ai suoi doveri. Ci aspetti.»
Altro non disse. Se ne andò per il passaggio
sgombro fra le file di scrivanie, spalleggiato dagli altri due. Masa allungò
l’occhio lungo il corridoio e lì seguì finché si infilarono nella prima porta
buona. Uscirono.
La loro visita bastò a strapparlo definitivamente
a quel che stava facendo. Ricordava di essere concentrato, immerso quanto
bastava in quel mondo di dati e pixel per poter continuare per un anno intero,
e poi... Poi? Poi aveva cominciato a pensare ad altro, e quell’altro aveva
prima rallentato e dopo azzerato la sua voglia di fare. Finché non erano
arrivati gli uomini a fregargli la valigetta, così, senza un motivo apparente,
e lui era cascato dal cielo, simile nel comportamento ad un putto che si
accorge di essere nudo e cicciottello di fronte a tizi che non conosce. Non gli
serviva riavvolgere il nastro per sapere con assoluta certezza che in faccia
gli si era letta una distrazione quasi imbarazzante.
Mentre aspettava, girò ancora gli occhi
nell’ufficio. Forse era perché non stava lavorando, forse perché era l’unico lì
dentro a non fare assolutamente niente e a pensare agli affari suoi, ma
d’improvviso gli arrivò in faccia una zaffata di malessere generale. In
quell’enorme stanza rivestita di pannelli bianchi, dal soffitto e dal pavimento
grigi e puliti, file e file di dipendenti affrontavano la quotidianità davanti
ai computer. Di fianco ad ogni schermo, appoggiate con un’idea di riverenza,
stavano le ventiquattrore di ciascun dipendente. Masa, che si trovava
all’estremità di una delle file, fu pugnalato a tradimento dal pensiero che lì
dentro fosse tutto troppo ordinato. La colpa era quasi per certo di quello
sguardo unico, ma ebbe la sensazione che gli uomini e le donne seduti e chini
sulle tastiere fossero parte dell’arredamento. Parte dell’ordine e della
geometria, parte del giorno in cui si erano svegliati. Non ci aveva mai
pensato. Non aveva mai riflettuto su quanto quel lavoro li rendesse
pericolosamente monocromi. E Daisuke
era monocromo come gli altri; si trovava dall’altra parte del corridoio, una
fila più avanti alla sua.
Colto da un’ispirazione, Masa si infilò la
mano nella tasca. Non avrebbe dovuto, ma non riuscì a trattenersi. Cercò e
trovò la sagoma fredda del telefono. Lo accese, ringraziando l’abitudine di
tenerlo quasi sempre in modalità silenziosa. Chiamava il suo migliore amico
così spesso da essere persino in grado di farlo senza vedere i numeri. Facile,
soprattutto grazie ad un po’ di pratica e ai tasti di chiamata rapida. Da che
lo conosceva, Daisuke viveva con il cellulare acceso. Era anzi convinto, almeno
nelle proprie fantasticherie, che ne avesse avuto uno anche quando galleggiava
ancora nel liquido amniotico della madre e in testa non gli era cresciuta
quell’esplosione atomica che si trovava per capelli.
Lo vide sussultare. L’impressione fu che un
insetto gli si fosse infilato nelle mutande. Si impose di non ridere mentre lo
vedeva afferrarsi la tasca di colpo, quasi per certo nel tentativo di non far
notare la vibrazione del telefono, prima di tuffare una mano e sfilarlo quel
poco che bastava per leggere il nome sullo schermo; poi rifiutò la chiamata,
affondò di nuovo l’apparecchio e alzò gli occhi, girandoli indietro per
incrociare quelli dell’amico. La sua faccia era cinerea.
Masa la trovò irresistibilmente spassosa. Alzò
i pollici in segno di vittoria e sfilò un sorriso da vincitore della lotteria. Okay!, stava a significare.
“Okay” un cazzo.
Le sue labbra che sillabavano in silenzio. Sei
un coglione.
Non ci fece caso. Guarda, gli disse con le dita, che batterono l’angolo vuoto sulla
scrivania. No valigia. Presa.
Daisuke corrugò la fronte. Dov’è? Domanda resa più esplicita dal
cenno del mento e dall’espressione ora sorpresa e perplessa.
Tre. Tre
dita. Presa. Portata via. Non so.
Questa volta l’altro non ricorse alla bocca.
Si limitò a storcerla e ad alzare le spalle, un gesto che equivaleva ad uno
spassionato E lo chiedi a me?
Grande considerazione, gli rispose l’occhiataccia di Masa. Poi si accorse che una porta
si era aperta e poi chiusa e, alzando gli occhi oltre lo schermo, vide i tre
uomini. Stavano tornando indietro. Stavano tornando da lui, e lo stavano
facendo con la sua ventiquattrore.
All’altro bastò seguire la direzione del suo
sguardo per interpretare. Tornò al lavoro a labbra strette, le pupille
incollate sul desktop e le mani tornate precipitosamente sulla tastiera, lì
dove dovevano stare. Masa ebbe appena il tempo di accertarsi che avesse avuto
la prontezza di fingersi impegnato e zelante che i tre gli si piantarono di
nuovo davanti.
«Come promesso», esordì lo stesso uomo che già
gli aveva parlato, e posò la valigetta là dov’era prima. Sorrideva ancora, con
una generosità quasi convincente. «Ora può tornare a lavorare, signorino
Ikeshima. Ci scusiamo per il disturbo.»
Il ragazzo sfoderò l’espressione più
soddisfatta e grata che si fosse mai inchiodato in faccia a forza. «Nessun
problema. Grazie.»
Mantenne impeccabile quella maschera finché
non se ne furono andati e li sbirciò mentre uscivano in fila indiana. Poi,
quando riportò lo sguardo sulla ventiquattrore, la trovò inspiegabilmente più
pulita. Più bella e spaziosa. La
soddisfazione che solo poco prima aveva recitato divenne reale, tangibile.
Almeno gliel’avevano restituita a posto. Guardò verso Daisuke, ma vide che
l’amico si era di nuovo dedicato anima e corpo ai dati che doveva trascrivere e
inviare entro pranzo. Poi si accorse che la voglia di sbrigarsi era tornata
anche a lui, perché di tempo non voleva perderne. C’era già troppa gente al
mondo che esisteva e basta, senza fare nient’altro. Persone come quelle
pensavano e basta. Erano tutte piccole e annoiate cose materiali che perdevano
minuti preziosi riflettendo su cose immateriali.
Una categoria, insomma, che preferiva evitare.
* * *
L’idea
era stata di Daisuke. Masa aveva avuto due giorni per pensarci, e quei due
giorni gli erano bastati per farsi convincere dall’ipotesi che il signorino Ido
avesse organizzato quella trovata non tanto per aiutarlo, quanto per
rinfacciargli d’avergli fatto squillare il telefono in ufficio. D’altronde non chiedi
ad un amico di chiudersi in bagno e di restarsene seduto sulla tavolozza
abbassata dal water fino a sviluppi, a patto che tu non voglia tirargli un
enorme bidone e costringerlo in posizione fetale per metà giornata. Aveva però
riconosciuto che il piano da lui proposto avrebbe potuto rivelarsi un’occasione
d’oro, forse l’unica che potevano permettersi, per scoprire a cosa diavolo
servissero quelle ventiquattrore.
Daisuke, che per una buona volta non gli aveva
dato del paranoico, aveva accettato di spalleggiarlo per il semplice fatto che
la curiosità era troppa anche nel suo caso. Aveva assicurato di conoscere una
buona maniera per aprire una valigetta senza corrompere la serratura – a dire
il vero aveva usato il verbo “scassinare”, e Masa aveva capito che trovava la
situazione eccitante quanto una rapina in banca -, gli aveva spiegato cos’aveva
in mente e aveva concluso il discorso con un bel sorriso da aspirante
milionario. Sempre per la questione della rapina, esatto.
«Però non farti beccare», gli aveva
raccomandato l’altro. «Se ti beccano, poi la colpa è mia perché ti ho messo in
testa tutta questa storia, Daisuke.»
«Sei troppo agitato. L’ho già fatto.»
«Cosa? Rubare?»
«No, quello no. Intendevo aprire le serrature
senza una chiave.» Una pausa. Poi: «A rubare comincio domani.»
Non era stata un’uscita divertente e Masa lo
aveva salutato attaccandogli il telefono in faccia. Per la verità c’erano un
sacco di cose che erano cominciate domani.
Suo padre aveva cominciato a lasciare la concessionaria al secondo in comando
per mezza giornata, e solo per guadagnarsi a sua volta un posto in uno degli
uffici di Matsumoto con la grinta con cui ci si iscrive ad un corso di pittura
di nudo; Nao, che aveva sentito solo pochi giorni prima, aveva già preso posto
in uno dei grattacieli acquistati dalla società e gli aveva parlato con
entusiasmo delle sue prime ore da dipendente; quanto ai suoi genitori prossimi
al divorzio, il padre aveva fatto le valigie e l’aveva lasciata con quella che
sarebbe ufficialmente rimasta sua consorte per il tempo di qualche stupida
pratica burocratica. Il fatto era che le cose stavano acquistando una velocità
quasi insana; sembrava che avessero imboccato una discesa e che stessero
andando giù sempre più di corsa, mosse da quella fretta esponenziale e inarrestabile
dei corpi fisici buttati lungo un pendio. Procedevano, andavano senza che ci
fosse nessuno a dare la spinta o a dettare le cause. C’erano solo le
conseguenze.
E fra tante cose che si muovevano, lui se ne
stava fermo sulla tazza di un cesso ad aspettare che Daisuke facesse la sua
parte. Quel piano era zeppo di servizi igienici per uomini, ma avevano scelto
il più piccolo fra tutti, con un totale di otto cabine e rispettivi lavelli di
fronte. Non che questo rifocillasse il suo spirito per l’avventura, anche se a
rincuorarlo c’era il fatto che al momento ci fosse solo lui. Wow.
Sentì la porta del bagno aprirsi proprio
mentre prendeva in considerazione l’idea che qualcosa fosse andato storto. Rizzò
le orecchie e trattenne il respiro. Aveva avuto precise indicazioni e qualche
minuto prima, quand’era entrato in quella cabina, si era sfilato la cintura
posandola a terra, a poca distanza dalla zona di vuoto fra porticina e
pavimento. Ora allungò il piede e spostò la cinghia un po’ fuori, ad indicare
che si era chiuso lì dentro. Era una misura preventiva; magari non si trattava
di Daisuke e allora nessuno avrebbe trovato qualcosa di sospetto in una cintura
arrotolata a terra. I pantaloni si dovevano pur togliere e c’era anche chi si
sfilava del tutto la cinghia.
E invece era Daisuke. Lo capì perché si infilò
nella cabina accanto, chiuse la porta dietro di sé e picchiò le nocche contro
la parete che separava i due spazi. «Ikeshima? Ido chiama Ikeshima. Il suo
attacco di cacarella è così devastante, signore? È qui da un bel po’!»
«Non fare lo scemo», lo rimbeccò Masa, ma
stava sorridendo. Di sollievo, soprattutto. Ora che parlava, capì anche di
essere nervoso. Si accucciò a terra e spiò dall’altra parte. «Ce l’hai?»
«Cosa? No, da questa parte niente brodaglia
marrone, signore.»
«Piantala. E abbassati, che non ti vedo. Non
potevi entrare direttamente da me?»
Ma Daisuke si stava già abbassando e quando
sbirciò dalla sua parte con i capelli a cascargli davanti e per terra e la
guancia premuta sulle piastrelle, allungò un sorriso e alzò le sopracciglia. «Avresti
mai creduto possibile guardarsi così, io in un cesso e tu in un altro?»
«No.»
«Sostanzialmente non sono venuto da te per
evitare di attirare l’attenzione se qualcuno dovesse entrare. Se permetti, io
butterei l’occhio se notassi che in una cabina ci sono quattro piedi e non due.
E in un bagno per uomini, per giunta.»
Masa non lo biasimò. Il collo cominciava già a
fargli male, ma si costrinse a restarsene così, chino in quello spazio angusto
come un musulmano in preghiera. Il gabinetto non gli lasciava molto margine
d’azione. «Non voglio pensarci. Allora, ce l’hai?»
L’altro si portò accanto alla testa una
valigetta nera, un po’ troppo alta per passare attraverso la linea di vuoto fra
le cabine. Ci batté la mano nel gesto fiero di chi presenta un baule colmo
d’oro sonante. «Ce l’ho, capo. Tutto liscio.»
Rubarla ad uno dei colleghi avrebbe potuto
metterli in guai seri, ma era poi quello che avevano deciso di fare. Altre
buone occasioni non ce n’erano, così come non avevano modo di scoprire dove
portassero le ventiquattrore quando le ritiravano durante la pausa pranzo e
prima di spedire a casa i dipendenti. Quanto ad aprire le loro, di valigette,
non se ne parlava. Avrebbe significato andare sì in bagno, dove avrebbero
potuto svolgere senza problemi quello sporco lavoro di scasso – dubitavano che
ci fossero telecamere, lì dentro -, ma avrebbero dovuto portarsele dietro per
un lungo tratto del corridoio fra le scrivanie, e allora certo che avrebbero
attirato l’attenzione.
«Il tizio è quello di fronte alla porta»,
stava dicendo Daisuke, un sorriso a suo modo strambo per via delle piastrelle
che gli schiacciavano la guancia. «Su quella scrivania non c’è spazio per mettere
la valigia di fianco, così il tipo la sistema dietro allo schermo. L’ho presa e
lui nemmeno se n’è accorto; l’attimo prima gliela rubavo, quello dopo ero già
in corridoio. La strada per arrivare qui è una passeggiata.»
Giusto, neanche stesse narrando una rapina
epica. Masa avrebbe dovuto prevederlo. «Non perdiamo tempo. Aprila e dimmi cosa
c’è dentro.»
«Dammi un minuto», disse, poi sparì.
Si rialzò anche Masa, con la chiara sensazione
di aver violentato i muscoli del collo, e si sedette per terra, nello spazio
fra parete e gabinetto. Quando si accorse che la cravatta cominciava a stargli
troppo stretta, allentò il nodo e sistemò la nuca contro il muro,
nell’angolino. Una posizione quasi comoda. Dall’altra cabina avvertiva solo
movimenti leggeri, lo stridore di ferro contro ferro. Daisuke doveva essersi
procurato una forcina per capelli abbastanza grande. Considerati i capelli che
aveva in testa, non c’era da stupirsene.
Passò un minuto prima che sentisse, chiaro a
distinto, lo scattare della serratura. Si chinò ancora, precipitosamente, lottando
contro l’ingombrante presenza del gabinetto per poter di nuovo sbirciare
dall’altra parte. Di Daisuke c’erano solo le scarpe tirate a lucido; se ne
stava sul cesso con la valigia sulle gambe, supponeva.
«Wow!» Tutta gioiosa ironia.
«Wow
cosa? Non fare lo scemo, Ido. L’hai aperta?»
«Dentro c’è qualcosa di davvero
insospettabile! Mi chiedo se sia così per tutte le altre.»
«Adesso comincio con le parolacce.»
«Aspetta.»
E Masa aspettò. Perché la voce dell’amico
aveva assunto una nota che non gli piaceva. Oh, non gli piaceva per niente. «Cosa?»
domandò dopo un attimo, con cautela. «Cos’hai trovato?»
Per un po’ ci fu solo un rapido sfogliare,
l’inequivocabile suono di pagine che venivano girate e passate in veloce rassegna.
Poi, una parola mormorata, ma chiara come acqua corrente: «Cazzo.»
Daisuke non si faceva problemi a sporcarsi la
bocca. Non era un poeta, non era un romantico, uno di quei ragazzi pane e miele
che qualsiasi genitore desidererebbe come genero. Ogni tre parole che diceva,
almeno una era di norma piuttosto libertina. Il dettaglio era che Masa non
aveva mai avvertito della sincerità in quell’atteggiamento da spaccone; lo
faceva solo perché così faceva la gente che frequentava. Il problema, invece,
che in quel momento l’aveva percepita luminosa, consapevole. Era stato un cazzo dichiaratamente onesto, per Dio.
Si sentì il palato asciutto. «Dai, passa»,
disse. In un modo o nell’altro. «Muoviti. Non mi piace.»
L’altro scese dalla sua sedia improvvisata e
si accucciò a terra, lasciando la valigia dietro di sé. Quando si affacciò allo
spioncino, gli passò un fascicolo di fogli A4, fitti di appunti. «Non piace
neanche a me.»
Masa recuperò in fretta le pagine e si mise
pesantemente a sedere nel suo angolino, tra il muro e la parete che divideva le
cabine. Quel giorno si era dimenticato a casa gli occhiali da lettura – che non
portava nemmeno troppo, in barba alle raccomandazioni congiunte di oculista e
madre –, e le scritte erano così piccole e ingarbugliate da costringerlo a
stringere gli occhi. Era giapponese, e fin lì non c’era nulla di sbagliato; di
sbagliato era il fatto che si trattasse di fogli inondati di flussi di
coscienza. Ricordava in modo piuttosto dispersivo le lezioni al liceo che aveva
fatto in merito, ma sapeva il necessario. Bastavano una penna, un foglio, e si
cominciava a scrivere tutto quel che passava per la testa, anche senza l’uso di
una grammatica corretta. Aveva tentato di metter giù qualche testo del genere,
giusto per esercizio, salvo poi trovarlo incredibilmente noioso e lasciar
perdere.
Quelle che aveva di fronte erano fette. Non
gli venne in mente parola migliore. Fette di un’altra testa, brandelli di
discorsi, di ricordi, di raccomandazioni, di canzoni. C’era di tutto.
D’improvviso si sentì le dita di ghiaccio.
«Quanti ne hai?» chiese, con una voce che
faticò a identificare come sua. «Quanti fogli così ci sono?»
«Tanti. Tutti. No, aspetta.» Ancora uno
sfogliare precipitoso. «Non tutti. Alcuni sono bianchi.»
«Sto pensando ad una cosa, Daisuke.»
«Spero non sia quello a cui sto pensando io.»
«Prendono le valigie durante il pranzo, le
ritirano ancora a fine giornata. Vanno a cambiarle
quando sono piene. Le riempiono
di fogli bianchi e ce le restituiscono. Poi noi lavoriamo, e facciamo un ottimo
lavoro perché loro si prendono le cose che potrebbero distarci. Si prendono i
nostri pensieri.»
«Loro chi?»
«Le valigie. Forse, con il passare del tempo, si
prenderanno troppo di ciò che siamo. Forse ne diventeremo dipendenti e saremo
solo in grado di lavorare in eterno.»
«Ah. Proprio quello a cui pensavo io. Non dire
altro, perché non ha senso.»
C’era un certo timore nella sua voce, e Masa
se n’era accorto. Avvicinò il foglio e inspirò. Inchiostro. Solo che di
inchiostro mancava l’odore. E anche di carta.
Poi qualcosa si mosse. In fretta, nero su
bianco, uno scribacchiare scomposto e silenzioso. Non gridò, ma lasciò la
pagina e il respiro gli si inchiodò in gola strozzandogli in petto l’urlo che
altrimenti avrebbe lanciato. Puntellò i talloni sul pavimento e fece per
spingersi indietro, neanche potesse entrare nel muro, e nel movimento batté la
nuca contro la parete. Una mano gli afferrò il polso. Daisuke. Il suo braccio
infilato nella cabina.
«Che c’è?» chiese. «Cos’hai visto?» Poi spostò
gli occhi sul foglio per terra e trovò la risposta ancor prima che la risposta
trovasse lui.
C’era ancora un po’ di spazio, sulla pagina.
C’era stato. La frase che era sbucata
nel nulla si incurvava appena, complice la volontà di riempire più bianco
possibile. La grafia era impeccabile, degna di un uomo adulto e istruito, di un
marito, di un padre di famiglia. Degna del tizio a cui aveva fregato la
valigetta.
Masa sentì la presa dell’amico farsi più
morbida fin quasi a svanire, eppure la mano non si ritrasse. Non aveva ancora
scollato gli occhi dalla pagina. «L’hai visto. L’hai visto, Daisuke.» Non era
una domanda.
Era una bella riga, quella nuova. Ispirava
allegria e quotidiano, la confusione di una perfetta e caotica vita mentale.
Passare da XEBIO1 per regalo non so devo chiamare fare più foto
ma li vendono? la torta portare anche cane domani danno pioggia frescura mi
piace!
Mi piace.
«A me no», mormorò Masa. Quasi non se ne
accorse. «A me non piace. Per niente.»
* * *
Erano
fermi sulla banchina della metropolitana quando Masa, molto lentamente, disse: «Non dirglielo.»
Non c’era bisogno di chiedere. Benché fossero
passate ore da quando avevano aperto la ventiquattrore, l’amico trovò nella sua
voce un timore sincero, nonché il nome che aveva omesso. Nao. «Va bene»,
rispose. «Sta’ tranquillo.»
Sul
tabellone lampeggiavano numeri arancioni. Sette minuti.
«Forse avremmo fatto
meglio a riportare indietro la valigetta», aggiunse Daisuke dopo un attimo, osservando i
binari. Erano spalla contro spalla, ma nessuno dei due sembrava intenzionato a
guardare l’altro. Se ne stavano semplicemente immobili appena dietro la riga
gialla, due giovani in giacca e cravatta che si tenevano un po’ in disparte dagli
altri che aspettavano il loro stesso treno. «Le regole sono severe.»
«Tanto lo hai visto.
Quella cosa si prendeva lo stesso i suoi pensieri.» Masa si chiuse in una rapida riflessione. «Tu
stai pensando?»
«Lo stiamo facendo entrambi. Qui non ci
raggiungono.»
«Quando ci siamo rimessi
al lavoro... Quando siamo tornati nell’ufficio, Daisuke, avevo paura. Ma poi
sono stato bene, e ho lavorato ed è stato come scollarsi di dosso il fiato del
quotidiano. Come attaccarsi ad una mascherina per l’ossigeno. Dio, se andavo
veloce.»
«Questa cosa sarebbe
piaciuta a Stachanov2.»
Masa
si voltò. Le luci della metro scovavano nuove e insospettabili ombre sul suo
volto. «A chi?»
«Stachanov. Quello che
ha dato il nome allo stacanovismo. La filosofia del lavoratore perfetto e
instancabile.»
«Be’, io non voglio
essere un lavoratore perfetto. Non a queste condizioni.»
«Procediamo per ipotesi», riprese Daisuke,
ficcandosi le mani in tasca e sollevando appena il mento nel suo classico
atteggiamento da Dammi un minuto, sto
partorendo l’universo. «Ammesso
che questo non sia un sogno, staremmo lavorando per un uomo che ha dalla sua un
esercito di valigie in grado di ripulire la testa dei dipendenti di modo che
lavorino al cento per cento come automi.» Pausa. Poi, con una smorfia: «Dai, è
fantascienza.»
«O il secolo ventunesimo», rispose Masa.
«Sei apocalittico.»
«Sono sincero. Sono molto distratto, lo sai. Lo
sono sempre stato, eppure ho dato il meglio di me sin dal primo giorno di
lavoro. E adesso so perché; perché là divento un ingranaggio incapace di
pensare. Lo siamo tutti. Incastrati e costretti a girare in eterno.»
L’amico strinse le labbra. Nella pausa di
silenzio che si tese fra loro come la corda di un violino, sollevò gli occhi e
sbirciò il tabellone. Cinque minuti. «Tanto non lavoreremo per sempre per lui»,
disse. «Ancora pochi giorni e poi ci godiamo le vacanze.»
«Ma gli altri? Quelli che hanno firmato un
contratto diverso?» Il verbo non gli piacque. «Sono tanti. A volte, guardandomi
attorno, ho l’impressione che Matsumoto abbia assunto tutta la città.»
«Non può.» C’era una determinazione un po’
vaga nella voce di Daisuke, neanche l’avesse sistemata a forza su stampelle di
legno. Stai lì, sembrava voler dire
fra le righe. Stai lì e non cadere.
«Già un mucchio di gente ha cominciato a
lavorare per lui.»
«Usciremo presto da questa storia», lo bocciò
Daisuke, incrociando il suo sguardo. Parlava a bassa voce, perché sapeva che la
gente in attesa ha la pessima abitudine di allungare l’orecchio tanto per
passare il tempo. «Lo so io come lo sai tu. Rilassati. Lavoriamo ancora per i
giorni che ci restano e poi usciamo dal giro di quell’uomo, qualunque cosa stia
architettando e chiunque sia in realtà. E poi Koriyama è un punto nero; quando
otterrà il successo che cerca, perché è quasi per certo a questo che mira,
sposterà chiappe e società da un’altra parte, in Cina o in America, e si
porterà dietro quelle sue... quei suoi aggeggi.»
«“Aggeggi”?»
«Avanti, non puoi chiamarle valigie.»
Tre minuti e mezzo. Masa buttò lo sguardo nel
tunnel che si tuffava nel buio e cercò ancora il tabellone. «Non le chiamerò
valigie», rispose quando tornò nelle iridi dell’amico. «Non credo nemmeno che
esista una tecnologia in grado di fare quello che fanno.»
«Siamo a una cinquantina di chilometri da
Fukushima3. Magari il nucleare ha la sua parte.»
«Non mi interessa come funzionano. Mi
interessa perché lo fanno.»
Daisuke arricciò le labbra, sollevò le mani e le
lasciò ricadere in un gesto di umile sconfitta. «Mi arrendo. Chiedilo al grande
capo.»
«Secondo te la storia del premio è vera? Il
fatto della chiave che ti danno per sbirciare dentro la ventiquattrore, dico.
Forse, quando decidono di premiare un dipendente, al posto dei fogli mettono
altro.»
«Saranno le premesse, ma dubito ci troverei
dentro un pupazzo con dei cioccolatini. A mio parere è vera, ma non sono
curioso.»
«Forse la sorpresa è il niente.» Masa lo disse
prima di riflettere, ma ci credette. Sì, ci credette. «Forse la sorpresa è
aprire e scoprire che dentro non ci sono più fogli, che non c’è più nulla che
ti possa essere preso. Che sei infallibile, un incorrotto nulla.»
L’altro fece silenzio. Il tabellone passò da
due a un minuto, ma non ci fece caso. «Sai», ammise, in un malriuscito
tentativo di ricorrere ad un tono scherzoso. «è
vero, Masa. Pensi sempre troppo.»
__________
Note.
1 Catena
di negozi molto apprezzata che vende articoli sportivi di qualunque genere.
2 Operaio
russo vissuto attorno agli anni Trenta del Novecento. Da lui deriva il termine stacanovismo, utilizzato per indicare un
metodo di lavoro che prevede una rigida organizzazione, ritmi estenuanti e un
incremento della produttività individuale. La filosofia del lavoratore perfetto
fu una delle più efficaci basi del socialismo russo. Ancora oggi si definisce stacanovista un lavoratore appassionato
e instancabile.
3
Koriyama è effettivamente poco distante da Fukushima. È la città più vicina a
non essere stata inclusa nel programma di evacuazione organizzato dopo lo
scoppio della centrale nucleare.
|
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Capitolo 4 *** Cose vive e indistinte ***
4. Cose vive e indistinte
COSE VIVE E INDISTINTE
__________
Doveva essere nebbia.
Sporgendosi ancora un poco, Masa guardò sotto. La ringhiera del
ponte, per quanto fragile di aspetto, suggeriva sicurezza. Era un genere di
convinzione sottile, ma sufficiente a dargli il coraggio di stringere con forza
il ferro e avvicinarsi tanto da posarvi il petto mentre sbirciava il vuoto. Per
una qualche ragione sapeva che la camicia bianca, lì a contatto con vive macchie
di ruggine, non si sarebbe sporcata.
Non ricordava di essere salito così in alto, eppure c’era. La notte
era capace di una densità quasi fisica; strisciava con lentezza, con la
famelica pigrizia di un demone, e si infilava nei pertugi e nell’aria come malsana
acqua di palude. La sensazione era di poter sfilare nastri umidi e grigi solo unendo
indice e pollice e tirando quel che bastava, neanche il buio fosse un maglione
di lana da pizzicare fino alla rovina. Era un cielo gravido di nuvole dietro
cui non c’erano stelle. Anche questa era una certezza che gli lampeggiava
dietro alla fronte con la voracità di un’insegna al neon.
E poi c’erano le case. Le poche luci accese testimoniavano la
presenza di inquilini poco abituati alle visite. Erano simpatiche. Arzigogolate,
fantasiose, ma allegre. Masa aveva idea che un giorno avessero deciso di
crescere come gli alberi su cui poggiavano, in libertà, e che più in alto
sarebbero arrivate, più strambe e creative sarebbero divenute. Forse a qualcuna
sarebbe spuntato un corridoio in più e a un’altra sarebbe fiorito un comignolo.
Su qualche tetto, almeno fin dove la vista glielo aveva concesso, aveva
intravisto il gioco folle e libertino di quei rametti ancora informi che
spuntavano nella notte come zampette di mosche. Aspettavano di allungarsi e
costruire nuove stanze.
Ora che però aveva rivolto l’attenzione verso il basso, capì che il
sopra era forse meno coinvolgente del sotto. Degne d’interesse erano le cose in
movimento, così era sempre stato, e in cielo al momento non ce n’erano. In giù,
invece, qualcosa si muoveva.
Sul fondo, sotto ai gomitoli di nebbia, c’era anche dell’acqua. Lo
realizzò quando vide il riflesso delle lampade riflettersi sul fiume. La barche
che si stavano avvicinando erano molte, silenziose, lunghe, illuminate una ad
una. Sbucavano dal livore della notte, annunciate unicamente dal pallido
chiarore dei lumi e da un vacuo sciabordio. I passeggeri se ne stavano spalla
contro spalla senza lamentarsi, ingobbiti sotto ai cappotti e ai cappelli neri.
Se avesse potuto assaggiarli, rifletteva Masa, in bocca gli sarebbe rimasto un sapore
rancido e raffermo. Il gusto di un’infezione.
Potrei buttarmi, pensò. Potrei.
Mi accoglierebbero. Restare qui, in
bilico fra alto e basso, è una stupida pretesa di equilibrio.
Ah, certo che non voleva scavalcare la ringhiera. Cielo, non era
così stupido. E poi là sotto brulicavano. Brulicavano in tanti.
La barca in testa al corteo era ormai quasi sotto al ponte. C’era
la possibilità che passassero senza notarlo, e quasi lo sperò. Inutilmente.
Se il fiume era distante, non lo era abbastanza. Vide uno degli
uomini sollevare metà braccio e indicarlo dal basso. Poi Masa si accorse che
quell’indice non era puntato su di lui, ma un po’ più in là. Un po’ più indietro.
Quando si sottrasse al vuoto e si voltò senza lasciare la
ringhiera, il suo primo pensiero fu che l’uomo appoggiato al parapetto opposto somigliasse
a uno dei personaggi di Magritte. Nao aveva un debole per i pittori francesi e
qualche volta, almeno quando non riusciva a distrarla con altri argomenti, gli
mostrava qualcosa al computer. Le erano sempre piaciuti e amava parlarne, anche
se a lui il concetto di arte interessava quanto la televisione, ovvero poco.
Il signore era in giacca e cravatta. Non gli dava la schiena e
avrebbe benissimo potuto vedergli il volto se solo ne avesse avuto uno. Sopra
al colletto inamidato e sotto il borsalino nero c’era un’ombra indistinta e
sfuggente, come se proprio in quel punto la notte avesse stretto con più
ferocia i suoi fili per evitare che qualcuno ci guardasse attraverso. Niente
mela verde1.
Non che la faccia gli interessasse. Il ragazzo smise di
preoccuparsene quando l’uomo, perfettamente immobile, sollevò la mano e la
sventolò in segno di saluto. Sembrava sorridere. C’erano delle cose, sulle sue
dita. Cose vive e indistinte, cose a migliaia, cose che si agitavano e si scavalcavano
e vivevano le loro piccole e monocrome e brevi esistenze.
Un guanto di mosche.
* * *
«Poi hai urlato», gli
annunciò Nao a quel punto, appollaiandosi sulla ringhiera di ferro che correva
lungo tutto il perimetro della piazza. «Mi hai fatto assaggiare l’ebbrezza di
un infarto.»
Masa le scoccò uno sguardo e un sorriso. Gli riuscì meglio di
quanto credesse. «Dai, è la prima volta che capita. Non ti ho mai svegliata.»
«Però è forte», commentò Daisuke. Se ne stava in piedi dietro alla
ragazza, le braccia incrociate sulle sue spalle e il mento accomodato sulla sua
testa. Era probabilmente l’unico che poteva permettersi una simile confidenza,
soprattutto perché loro tre si conoscevano da una vita. Fosse stato qualcuno
altro a mostrarsi così amichevole con lei, Masa avrebbe avuto qualche appunto
da fare. Ed era già successo. «Quel posto, dico. Devi averne, di immaginazione,
per essertelo inventato di sana pianta.»
«Non me lo sono inventato. L’avevo già visto, ma ci sono arrivato
solo durante la pausa pranzo.»
«E?»
«È un logo. No, non un logo; un timbro. Lo hanno alcune carte che
mi capitano per mano. Forse ci avete fatto caso anche voi.»
L’amico e Nao si scambiarono un’occhiata. Per qualche momento fra
di loro corse solo il rumore del traffico delle cinque e mezzo che filava una
trentina di metri più avanti. Poi Daisuke, in tono scettico:
«Ovvero il nostro capo timbra malconce casette viola sui documenti
di cui ci occupiamo? Non ti sembra un po’ surreale?»
«E stupido», aggiunse lei. «Credo sia l’aggettivo più adatto.»
Masa si segnò mentalmente di mollare uno schiaffo a Daisuke alla
prima occasione buona. O un pugno, nel caso lo avesse trovato più appropriato. Piuttosto,
insensata era la sua mancanza di appoggio dopo che il giorno prima si erano
chiusi nel bagno e avevano capito a cosa servivano le ventiquattrore. Era un
genere di commento che avrebbe fatto volentieri, ma non in presenza della
signorina Fuyutsuki, come la chiamavano loro. Lei doveva restarne fuori. «Non
me li immagino di certo», ribadì. «Quei timbri ci sono. Deve essere una specie
di logo della società di Matsumoto.»
L’altro ragazzo cominciò a pizzicare i capelli di Nao. «Probabile.»
«Ido, la tua partecipazione emotiva è commovente.» Lo disse senza cattiveria,
ma si sentì in colpa lo stesso. A rincarare la dose fu il sorriso che si vide
rivolgere, un gesto che gli ricordò il crepitio di alluminio stracciato. Ha paura, pensò. Ha più paura di me.
«È solo che ti preoccupi sempre troppo», disse Daisuke in tono
inaspettatamente morbido. «Qualche volta dovresti smettere di pensare. Di
pensare così tanto, almeno.»
Confidare loro l’incubo era stato un effetto collaterale, un modo
per ammazzare il tempo mentre aspettavano il bus. Masa non si era svegliato
quella mattina a casa di Nao con l’intenzione di raccontare per filo e per
segno le sue passeggiate notturne, eppure era successo. In agenda non aveva
nemmeno segnato quell’implicito screzio con il suo migliore amico. Gli tornò
alla mente l’importanza delle cose in movimento, dei corpi che rotolavano lungo
il pendio per grazia di una forza invisibile ed esponenziale, e sentì che la discesa
non era solo lunga, ma anche eterna. Causa ed effetti. Causa, effetti e tante
mosche.
Il bus si presentò con un leggero ritardo. Nao scese alla quarta
fermata, non prima di essersi liberata i capelli da una coda di cavallo che
riteneva mortalmente scomoda. Non si scordò di salutare Masa con un bacio a
stampo prima di scendere di corsa, voltandosi una sola volta a sventolare la
mano prima di infilarsi sul marciapiede affollato. Dal finestrino, Masa
sfarfallò le dita mentre il mezzo ripartiva. Era consapevole che l’espressione
con cui aveva accompagnato il gesto non era stata delle più convincenti.
«Vorresti dirglielo», gli disse la voce di Daisuke.
L’altro non si voltò. Lo vedeva chiaramente nel riflesso del vetro,
lì seduto sul sedile accanto. Era serio. «No», rispose, un po’ a se stesso e un
po’ a lui. «No, non è vero.»
«Vorresti almeno dirle di fare attenzione.»
«Domanderebbe. Non sappiamo se ci saranno effetti a lungo termine;
può darsi che usciremo da questa storia come se niente fosse successo. Ma se mi
chiedesse il motivo di tutta questa prudenza... Se me lo chiedesse, io non
saprei darglielo. È tutto così insensato. Non saprei spiegare.»
«Io forse sì.»
Masa accomodò meglio la tempia contro il finestrino e chiuse gli
occhi. Voleva evitare di vedere quanto fosse sincero. «Forse. Ma non lo farai
senza il mio appoggio. Non potresti.»
Ci fu una pausa. Poi, chiaro e trasparente: «No, infatti. Non
potrei, stupido cavabocche.»
Sul fronte opposto ci fu un sorriso. «Va bene», mormorò. «Allora
non lo farai. Ancora una settimana e ce ne andiamo in vacanza. Sette o otto
giorni non ti possono cambiare la vita, giusto?»
Dopo un attimo sentì Daisuke muoversi e mormorare un “giusto,
grande capo”. Quando sollevò appena le palpebre, lo vide infilarsi un paio di
cuffie e rilassarsi contro lo schienale. Notò anche che il bus era colmo di
persone in giacca e cravatta. Un dettaglio a cui non aveva mai fatto troppo
caso, perché abitava in una città, per Dio, un alveare colmo di operai puntuali
e zelanti. Abitava nel Ventunesimo secolo, dove si sgobbava per guadagnarsi un
po’ di pappa reale da portare a casa. Naturale.
Annidò il viso nell’angolo fra il sedile e il finestrino e chiuse
di nuovo gli occhi. Dormì finché Daisuke non gli annunciò che avrebbe fatto
meglio a scendere prima di perdere la fermata.
* * *
Tre giorni dopo una donna piccola e cordiale l’aveva fatta
accomodare in un ufficio all’apparenza anonimo, domandandole il favore di
aspettare giusto qualche minuto. Nao, che di fretta non ne aveva, aveva
risposto che avrebbe atteso per tutto il tempo necessario. Lo fece.
La stanza in cui si trovava non aveva nulla di eccezionale. Cercò
qualche indizio su quelle pareti grigie, sui tabelloni colmi di carte affissi
vicino all’unica finestra, sulla scrivania sgombra e lucida davanti a cui
sedeva. La luce pioveva dall’alto levigando ogni superficie come la quiete dopo
la tempesta fruga in ogni ombra. Quell’ambiente esprimeva un’idea di ordinata e
placida bidimensionalità, il piacere di uno spazio disteso e spianato. Non
c’erano originali angoli o curve improvvise nella geometria di quell’ufficio. Era
come sospendere per un momento la frenesia del fare e del pensare.
Erano solo le undici e aveva ancora molto lavoro da fare. Al pianoterra,
dove si faceva in quattro con le sue colleghe per dividersi fra telefonate e
e-mail, c’era il movimento di ogni giorno. La donna che le aveva chiesto di
sedersi lì dov’era le aveva raccomandato di portarsi dietro anche la
ventiquattrore, che ora se ne stava acciambellata sulle sue gambe come un gatto
un po’ troppo insistente. La ragazza, un po’ per abitudine e un po’ per
comodità, vi aveva sistemato le mani prima di cominciare a perlustrare la
stanza con lo sguardo.
I suoi occhi scapparono indietro quando sentì la porta aprirsi. L’uomo
che stavo entrando era alto, snello, con i capelli scuri che già cominciavano
ad abbandonargli le tempie. Doveva aver superato da poco i quaranta. Poi,
quando incrociò le sue pupille e fece fatica a trovarle per colpa dell’abissale
nero delle iridi, capì di averlo già visto.
Fece per alzarsi con l’intenzione di rivolgergli un inchino del
busto, ma lui alzò la mano e la sventagliò con insospettabile grazia. Aveva
dita da pianista. O da esperto di tastiere e informatica.
«Resti pure seduta, Fuyutsuki», le disse, un rapido sorriso ad
arricciargli gli angoli della bocca. Invece di avvicinarsi, si era fermato di
fronte all’uscio chiuso e si era infilato le mani nelle tasche del completo
grigio, senza smettere di indirizzarle quell’espressione da eloquente agente
immobiliare. «Deduco mi abbia riconosciuto.»
«L’ho vista in televisione la scorsa settimana. Era sul Ventidue.»
«Il Ventidue è un canale riservato all’alta finanza. Mandano in
onda programmi interessanti, anche se un po’ complessi. Un po’ come gli essere
umani, signorina; promettenti e complicati. Noi siamo tutti nel ventidue.»
Nao fece un sorriso. Non sapeva come e se rispondere, per cui non
ci provò. Credeva che l’uomo avrebbe ripreso in mano il discorso senza
pretendere da lei un qualche tipo di partecipazione.
La televisione aveva dato di lui un’immagine un po’ diversa.
Matsumoto, almeno dal vivo, sembrava un poco più alto di quanto avesse
calcolato, con spalle piccole, occhi vivi, capaci di quel bagliore lontano dei
tizzoni ancora accesi. Non aveva fatto caso se al dito portasse una fede, ma,
per quanto si sarebbe potuto dire di bell’aspetto, dubitava che fosse sposato.
In lui c’era un’energia potenzialmente negativa, meticolosa e concreta; anche solo
il taglio dell’abito e le punte lucide dei mocassini neri svelavano il
carattere indaffarato e instancabile della sua mente. Dietro quella fronte c’era
un uomo del Ventunesimo secolo innamorato del suo lavoro e sintonizzato già
cento anni nel futuro. Sintonizzato sul Ventidue.
«Non conosco per nome tutti i miei dipendenti, ma conosco lei»,
ricominciò l’uomo. Stava ancora sorridendo con pratica cortesia. «Mi sono
giunte ottime notizie. Si sta impegnando molto.»
«La ringrazio.»
«Posso dirle alcune cose che ad altri non è concesso sapere.»
Matsumoto si mosse e passò oltre la scrivania, ma non si sedette. Se ne rimase
in piedi di fianco alla sedia imbottita, lo sguardo incastrato in quello della
ragazza. «Sono cose che conoscono solo i miei più stretti collaboratori. O i
migliori dipendenti, e questo sarà il suo caso.»
Furono parole inaspettate. Nao, che fino a poco prima si aspettava
un rimprovero a causa di un qualche errore di cui non si era accorta, alzò appena
le sopracciglia. Il suo era scetticismo misto a incredulità. D’improvviso si
rese conto di sedere dritta e tesa come se dietro alla schiena avesse un’asse
di legno. «Non credo d’aver fatto qualcosa di eccezionale, Matsumoto-san. E poi
lavoro qui da pochissimo tempo.»
«Infatti» le concesse lui, «ma lei ha una grinta ragguardevole.
Tramite il computer principale posso controllare gran parte del lavoro di tutti
quanti, e dalla sua postazione mi sono giunti buoni risultati. So che ha
firmato un contratto molto breve, dato che studia ancora; pensavo che sarebbe
bello averla con noi più a lungo, con una modifica di orari per permetterle di
frequentare almeno dei corsi serali.» Il sorriso si distese ancora un poco. «Sento
che farà grandi cose con me, signorina. Ho già promosso molti, tutti quanti
promettenti. Mi piacerebbe che lei facesse parte della lista; i suoi genitori
ne sarebbero molto felici, credo, dato il difficile periodo coniugale. Potrà
anche mettere una buona parola su altri dipendenti di sua conoscenza. Conosce
qualcuno che lavora per me?»
«Ikeshima Masa e Ido Daisuke.» Aveva risposto per istinto, perché
non era quello il punto che le interessava. Era rimasta a qualche battuta
prima. «Come sa dei miei genitori?»
Matsumoto si strinse nelle spalle in un gesto che avrebbe potuto
significare un ops. Col problema che
in quella simpatia non tutto era sano. «Ho i miei mezzi», si giustificò con
naturalezza. «Sono un uomo d’azione, signorina Fuyutsuki, e conosco i bravi
lavoratori, i loro bisogni e le loro famiglie. Non a caso so anche della sua
relazione con Ikeshima.»
«E di cos’avrei bisogno, secondo lei?»
«Mi spiace. Non avrei dovuto accennare alla vostra situazione.
Consideri come se non avessi detto nulla.»
Nao abbassò gli occhi e si impedì di arrossire. Non era seduta di
fronte al suo capo per rispondergli con le rime. «Mi scuso io, invece. Mi
perdoni per il tono.»
«Non ha importanza. Lei è ancora giovane ed esuberante.» Finalmente
si sfilò le mani dalle tasche e scivolò a sedere. «Tra le cose che voglio che
lei sappia, c’è il fatto che mentre voi dipendenti lavorate, negli uffici gira
sempre qualcuno dei miei stretti collaboratori. A volte vedono cose piacevoli,
come l’impegno e la buona volontà; altre, e mi rattrista ammetterlo, mi informano
di dettagli poco entusiasmanti.» Fece una smorfia, quasi avesse lanciato una
frecciata ad un evento in grado di addolorarlo nel profondo, per poi stringere
le labbra e alzare ancora le spalle. «Ma capita. Distrazione, a volte furti.
Sono errori umani. L’errore più grande dei trasgressori è però la loro certezza
di riuscire sempre a cavarsela.»
«Non me l’aspettavo.» Ah, che commento idiota. Sempre meglio di
niente.
«Non mi piace punire i lavoratori, perché so che in fondo hanno
buon cuore. Però è importante che sappiano che io vedo ovunque, giusto?»
«Ho fatto qualcosa di male, Matsumoto-san?»
Lui la guardò per un momento, poi le sue labbra si accartocciarono
in una mezza risata. «No, no, Fuyutsuki. Lo dico perché vorrei che lei
diventasse uno dei supervisori.»
«Cosa fa di preciso un... supervisore?»
«Tante cose. Controlla un numero definito di uffici, consegna e
ritira le valigie ad inizio e a fine giornata. Le porta via, le ricarica.»
«Ricarica?» Non era sicura di aver capito bene.
«Ricarica. Svuota e riempie», confermò l’uomo. Intrecciò le dita
sul ripiano della scrivania e si sporse leggermente in avanti, il sorriso
ritornato al suo posto, diretto e eloquente. «Trovo che il verbo sia adatto. I
dettagli però costano la firma del contratto, che prevede, ovviamente, un
aumento di stipendio.»
In breve, un modo originale per dirle che, per come stavano le
cose, le informazioni in merito finivano lì. Nao, forse accorgendosi di essere
rimasta immobile per troppo tempo, si mosse un poco e si mise più comoda,
alzando la mano per scostarsi dalla fronte un ciuffo castano sfuggito
dall’elastico. Quando la riabbassò, la posò di nuovo sulla ventiquattrore. «Dovrei
prima dare un’occhiata, Matsumoto-san.»
«Naturale.» Lui la osservò ancora un momento, quindi aprì un
cassetto e vi infilò la mano. Non aveva ancora scostato gli occhi da quelli
ansiosi della ragazza. «Sono le firme a far girare il mondo», aggiunse. «Le
darò tutto il tempo per leggere e valutare.»
Credeva che le avrebbe porto un piccolo fascicolo di fogli, e
invece si vide tendere una chiave. Era piccola, di ottone, con un disegno a decorare
una targhetta che se ne stava appesa ad una cordicella. Nao, che non aveva più ripensato
a quel che Masa le aveva raccontato tre giorni prima, si vide costretta a
riavvolgere il nastro.
«È il logo della società?» chiese, mentre prendeva la chiave. Diede
uno sguardo alle case raffigurate, unite da un ponte dall’aspetto decisamente
vago e onirico. Fosse stato un luogo reale, dubitava ci sarebbe salita. L’idea
che ispirava era di instabilità, ruggine, malattia.
Mentre si rimetteva comodo contro le schienale e si intrecciava le
dita in grembo, l’uomo allungò un sorrisetto a cui parteciparono solo le
labbra. «Se così si può definire. Ogni ventiquattrore ha una chiave propria, e
quella è la sua, signorina Fuyutsuki. Stamattina ho chiesto al supervisore dell’ufficio
in cui lavora di sostituire il contenuto della valigia con un contratto tutto
per lei. È una bella sorpresa, non trova?»
«Prima c’era dentro dell’altro?»
«È necessario, un po’ come mettere un pannolino a un neonato.
Quando il piccolo cresce, può farne a meno. Preferisco però avvertirla che non
tutti reggono al cambiamento; alcuni... ritrattano.»
Nao alzò gli occhi e vide che era serio. Doveva aver smarrito un
passaggio, perché non riusciva a capire come quelle parole potessero avere a
che fare con un contratto di lavoro. Matsumoto, percependo la sua perplessità,
si strinse ancora nelle spalle e sfilò un gran sorriso.
«Capirà quando leggerà. È tutto scritto», spiegò. «Le penne sono
qui, se gliene servirà qualcuna. Preferisce essere lasciata sola? Non ho
fretta.»
«Forse è il caso.»
«Bene.» Il suo tono era conclusivo. Piantò le mani sulla scrivania
e si alzò, dirigendosi alla porta. In faccia aveva ancora il velo di quel suo
sorriso concreto e professionale. Il sorriso del Ventidue. «Tornerò fra una quindicina
di minuti. Non si senta obbligata, signorina.»
La vide annuire, avvicinare la chiave alla piccola serratura della
ventiquattrore. Era curiosa. Le lasciò addosso uno sguardo soddisfatto prima di
uscire e, se si chiuse la porta alle spalle, non fu solo per semplice cortesia;
semplicemente e a ragione, preferiva che non scappassero. Sarebbero state
tante. Tante, vive e indistinte. Le avrebbero succhiato via la singolarità,
l’avrebbero resa infallibile. Una cosa bella.
Si sistemò fuori dall’uscio, le mani affondate nelle tasche del completo
e le spalle ritte e orgogliose. Gli angoli della sua bocca erano virgole di
vittoria, accenti vivaci e trionfanti. Il corridoio era vuoto, salvo per una
donna strizzata in un abitino nero che girava l’angolo in quel momento. Era la
stessa che aveva accompagnato la signorina fin lì; doveva essere rimasta nei
paraggi giusto per godersi lo spettacolo. Quando i loro occhi si incrociarono, l’uomo
sollevò le sopracciglia e i suoi occhi neri si illuminarono come quelli di un
bambino di fronte ad una giostra con innumerevoli cavallini rampanti. Le
indirizzò un’allegra alzata di pollice. Lei gli rivolse in risposta un sorriso,
un leggero arcuarsi delle labbra.
Le grida si alzarono in quel momento. Fortuna che gli uffici dei dipendenti
erano al piano inferiore. Piantato davanti alla porta, Matsumoto scrollò le
spalle e accartocciò il volto in un’ironica espressione di scuse.
Sì, pazienza. Urlavano sempre troppo.
__________
Note.
1 Il
riferimento è a “Il Figlio dell’Uomo”, opera di Magritte.
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Capitolo 5 *** Quello delle mosche ***
5. Quello delle mosche
QUELLO DELLE MOSCHE
__________
Lo chiamò solo dopo aver assistito al rientro del padre. Toru
possedeva quella concessionaria da anni, ma il tempo che dedicava al suo nuovo
impiego in ufficio, per quanto scarso, sembrava gratificarlo più di quanto lo
facessero le sue adorate macchine. Ne parlava con entusiasmo, con una voglia di
fare e di scoprire che sarebbe stata più adatta ad un ventenne che a lui.
«E non gli hai chiesto quanto dura il suo, di contratto?»
La domanda di Daisuke era giunta chiara e tonda. Masa, che sedeva
sulle scale con il cellulare incastrato fra spalla e orecchio, gettò uno
sguardo alla saletta da pranzo, dove i suoi erano presi dalle cronache della
giornata. «Preferisco di no», rispose. «Ho paura della risposta che potrebbe
darmi.»
«Hai mai riflettuto sul perché tu e io siamo gli unici a non essere
usciti scemi? Non credi che sia perché abbiamo scoperto a cosa servono le...
dico, gli aggeggi?»
Per quanto il suo tono fosse serio, non si contenne dallo scrollare
il capo e sfilare un sorrisetto. «”Usciti scemi”?»
«Insomma, hai capito cosa intendo.»
«Non siamo gli unici, credo. Solo abbiamo tante distrazioni. Siamo
giovani, più malleabili. Gli adulti pensano sempre e solo al lavoro; partono
con un piede nella fossa.»
«Illuminante. Aspetta.» Ci fu qualche movimento, il chiaro suono di
una porta che si apriva e si chiudeva. Poi ancora Daisuke: «Scusa, il gatto. In
ogni caso, guarda il lato positivo: noi usciamo dal giro fra tre giorni e poi
ce ne andiamo a Osaka con Nao. Non riesco a vedere nuvole scure all’orizzonte.»
«Andiamo in due.» Eccolo, il punto dolente. Il motivo per cui, si
ringrazi Signora Sincerità, lo aveva chiamato alle dieci di sera. Incassò il
silenzio dell’amico solo per decidere come continuare la frase. «Nao mi ha
detto che ha prolungato il contratto. Non potrà venire.»
«Lei cosa?»
«Mi hai sentito.»
«Mi stai pigliando per il culo?»
Con uno sbuffo, Masa cercò il corrimano e si issò in piedi,
avviandosi su per le scale. Si era stancato di origliare i suoi genitori.
Stancato e, perché no, pentito. «Sono serio. L’ho incrociata prima di cena e me
l’ha detto.»
«Dio, ci voleva pure Raiden-sama1», fu il borbottio che gli
giunse in risposta. Altri fruscii, uno sputacchiare nervoso. Niente di nuovo;
il suo adorabile animale domestico amava far assaggiare a chiunque i peli della
propria testa. «Quello che intendo, Masa» riprese Daisuke dopo un momento, «è
che non sarà la stessa cosa. Per che diavolo di motivo ha firmato un nuovo
contratto?»
«A lei va bene così. Era molto felice, anche se di fretta.»
«Oh, conosco quel tono. Stai per dirmi che ti è parsa superficiale.»
Masa si chiuse dietro la porta della camera. «Qualcosa di simile. E
non mi piace, perché c’è di mezzo tutta quell’insensata faccenda delle valigie
e di Matsumoto.»
«Chiediglielo.»
«Cosa?»
«Chiedile cos’è successo.»
«In questo momento credo sarebbe più facile scovare un orso polare
a passeggio per i corridoi della Ohu, ma ti ringrazio per il consiglio.»
«Allora pensaci. Ti piace tanto pensare, Ikeshima.» La voce che
sapeva di un sorriso.
«Lo farò.» Sbirciando fuori dalla finestra, aveva scorto solo le
luci sospese dei grattacieli e quelle più umili dei condomini di due o tre
piani. Si chiese, senza un motivo, come riuscissero a galleggiare nel buio più
assoluto. «E tu perché ti sei accorciato i capelli?» domandò, non senza
cogliere di sorpresa persino se stesso.
Daisuke si era effettivamente tagliato un bel po’ di capelli. Non
troppi, ma a sufficienza perché in testa gli restasse solo qualche ciuffo meno
ardito. Fino a pochi anni prima – o settimane, che era lo stesso -, Masa non
credeva che sarebbe stato in grado di spuntarsi lo spruzzo nucleare che aveva
in testa; quando si erano conosciuti, aveva già imboccato la strada di quella
moda che ordinava abiti di marca e capelli appariscenti, una ragione in più per
cui si era convinto che avrebbe portato avanti quello stile di vita per ancora
qualche tempo. Sbagliandosi.
La linea gli restituì un sospiro ironico. «Perché... lo sai, si
tratta di lavoro d’ufficio. Non mi sembra giusto distinguermi. Sarebbe come
trovare del prezzemolo incastrato in una dentatura perfetta. Tu ne dovresti
sapere qualcosa, mio caro studente di odontoiatria.»
«Già. È comprensibile.» Com’è che Daisuke gli aveva detto la prima
settimana di lavoro? “Mi
hanno detto che mi darò una regolata io, con il tempo”.
Prevedibile. Una conseguenza scomoda, l’appiattirsi. «Vado da Nao», aggiunse dopo un
attimo. «Forse riesco a farle
cambiare idea.»
Non che ci credesse. La
conosceva abbastanza da sapere di che genere fosse la sua pigrizia; si trattava
di quell’indolenza tipica delle persone creative, di una non-voglia passeggera
e non necessariamente nociva, eppure l’idea del lavoro a tempo pieno era
riuscita a sedurla lo stesso, tanto da convincerla a prolungare il contratto
fino alla fine delle vacanze estive. Dubitava avrebbe trovato del tempo per
leggere libri di disegno e pittura, un’abitudine che portava avanti anche
durante l’impegnativo anno scolastico, e tutto perché avrebbe passato mattina,
pomeriggio e sera davanti ad uno dei computer dell’ufficio. Eppure, come
scoprì, la prospettiva non la spaventava. Passò a casa sua e vi rimase per
poco, il tempo di una chiacchierata inconsistente come aria. Suo padre, che doveva
star giungendo alle conclusioni, avrebbe passato la notte da un collega, chiaro
indizio di quanto l’idea del divorzio stesse diventando un fatto. Nao però non
ci pensava e si limitò a spiegargli che era libero di fare quello che voleva,
per poi prendere a ripetergli che non si pentiva di aver preferito il lavoro
alla vacanza ad Osaka. Non gli raccontò nulla del contratto che aveva firmato.
C’era qualcosa che non andava. Glielo lesse in faccia mentre gli
parlava, nel modo in cui gli si rivolgeva, seduta alla scrivania e intenta a
dividersi fra il dialogo e una fascicolo che stava leggendo e sottolineando. Un
piccolo extra, gli aveva detto, da consegnare il giorno seguente. Per un
momento provò il profondo desiderio di chiederle dove fosse, salvo poi ritenere
quella domanda un po’ troppo stupida e tenersela per sé. Probabilmente, in
quella circostanza, Nao gli avrebbe risposto che era dove effettivamente si
trovava; lì davanti.
Guardandola, gli tornò alla mente il pensiero che gli si era
inchiodato in testa quando aveva acceso la televisione sul Ventidue e aveva
visto quel grappolo di uomini e donne, Matsumoto e l’inviato. Aveva riflettuto
sul fatto di non conoscere chi lavorava per quell’emittente e ricordava
chiaramente di aver paragonato quel pugno di facce sconosciute ad un nugolo di
mosche tutte uguali, un po’ come uguali sono i colori nel buio. Poi si rivide a
casa, a parlare al telefono con Daisuke e a guardare le luci delle case e degli
appartamenti sospese nella notte. Alcune piccole, alcune grandi, ma uguali
nell’idea di fondo. Brillavano. Stessa essenza, diversa intensità. Un po’ come
gli esseri umani.
Quando tornò in strada, l’aria si era fatta un po’ più fresca. Capì
che forse era il caso di parlare con colui per cui lavorava. Voleva chiedergli
quanto a suo dire brillassero gli uomini. Sollevò la zip del giubbotto blu e si
avviò a testa bassa verso casa, alzando gli occhi solo quando necessario. Aveva
paura che presto o tardi, guardando verso le luci degli edifici più lontani, le
avrebbe scoperte tutte uguali fra loro.
* * *
Non ebbe nemmeno da richiedere un colloquio. Matsumoto lo batté sul
tempo.
Li, ad onor del vero. Capitò l’ultimo giorno di lavoro, quello su cui
Masa aveva mentalmente segnato un’enorme e impaziente X nera. La sua intenzione
era finire il turno, consegnare la valigia e chiedere se fosse possibile
parlare con il capo, ovunque fosse. Perché teneva a conoscere di persona colui
che gli aveva garantito una prima esperienza, verissimo, e perché era stato un
lavoratore devoto e fiero di ogni impegno, cosa un po’ meno vera ma a cui si
poteva accennare. Come motivazioni erano passabili, di certo in grado di
convincere. Quello che non poteva aspettarsi era che una donna piccola e
professionale lo fermasse fuori dall’ufficio e gli annunciasse che Matsumoto
aveva chiesto di lui e di Ido Daisuke. Il karma è una ruota che gira, rifletté.
Sperava che girasse per il verso giusto.
Non dovettero nemmeno spostarsi. Il loro irraggiungibile datore si
trovava nello stesso edificio, cinque piani sopra di loro. La loro
accompagnatrice, benché non ispirasse l’idea di un’amante delle chiacchiere,
spiegò che quella mattina si trovava invece dall’altra parte della città, a
supervisione di altri uffici. “Ma desidera parlarvi da qualche tempo”, fu
l’ultima frase che sentirono pronunciarle. Masa e Daisuke, che procedevano
giusto dietro, si scambiarono un’occhiata; il secondo arrangiò un’esagerata espressione
di mute congratulazioni. Siamo famosi,
era il messaggio. Non era un dettaglio necessariamente positivo, soprattutto
non quando solo la settimana prima avevano rubato una ventiquattrore per
sbirciarci dentro, peraltro scoprendo certi scomodi fatti. Masa sospettava che
qualcosa potesse effettivamente c’entrare.
E ci prese in pieno. Lo capì ancor prima che Matsumoto confermasse
la sua ipotesi. I convenevoli erano stati rapidi, formali quanto bastava e
protratti il tempo necessario perché lui e Daisuke si accomodassero davanti
alla scrivania; poi l’uomo, che si era fermato dall’altra parte del ripiano con
le mani intrecciate dietro la schiena, li aveva guardati e aveva sfilato il
sorriso trionfante e tremendo di un bambino che indovina il trucco di un
prestigiatore un po’scarso. Era un prologo, quello, a cui seguiva una svolta
piuttosto prevedibile.
«So che entrambi i vostri contratti finiscono oggi», cominciò,
spezzando un filo restato teso troppo a lungo. «Ho trovato giusto mandarvi a
chiamare e farvi sapere che so cos’avete fatto. I furti non passano
inosservati. La sincerità mi sembrava un buon modo per congedarvi.»
Masa raccolse lo sguardo dell’amico, seduto lì accanto. Per un
momento pensò che il silenzio avrebbe risolto le cose, ma gli fu facile
realizzare che Matsumoto attendeva solo una loro parola in merito. Non avrebbe
aggiunto altro. Evidentemente stavano rotolando sempre più in fretta giù dal
pendio, costretti da quell’irresistibile forza fisica che era il legame fra
cause e conseguenze. E allora era il caso di rotolare.
«Lo credo anche io, Matsumoto-san», rispose, senza scomporsi. «La
sincerità è una buona scelta.»
Daisuke gli rovesciò addosso uno sguardo basito, l’espressione
incredula di chi non riesce a credere alle proprie orecchie. Era evidente che
da parte sua avrebbe preferito una smentita, non un’ammissione. Quanto all’uomo
in piedi davanti a loro, continuò imperterrito a sorridere. Non sembrava
turbato. A dirla tutta, non pareva nemmeno interessato a punirli in qualche
modo.
«Si corrono sempre dei rischi con i giovani», spiegò con
tranquillità. Nella posizione in cui si trovava, in piedi di fronte alla
panoramica parete a vetro che dava sulla città, sembrava nel suo ambiente
naturale. «Credo sia per questo che molti evitano di assumerli. Sono curiosi, pericolosamente
acerbi e pronti a maturare alle tue spalle. Soprattutto, sono distratti.
Alcuni, come voi, lo sono così tanto da non farsi coinvolgere dal lavoro come
da aspettative.»
«Sta parlando delle ventiquattrore, vero?» domandò Masa,
guardandolo dritto in faccia. Qualcosa gli diceva che la sfrontatezza che stava
dimostrando non era un peccato, ma un bisogno fisico. «Non credo che il verbo
“coinvolgere” sia esatto. Suonerebbe meglio “soggiogare”.»
«Gli adulti sono sempre più facili da convincere. Sono abituati ai
ritmi del secolo, non si pongono domande. Lavorano per lo stipendio e
nient’altro. Credevo che il trucco delle valigie avrebbe funzionato anche con
le nuove, pidocchiose generazioni.»
«Non ha funzionato. In questo momento, per farle un esempio, sto
pensando liberamente. Sto riflettendo su di lei, su quanto somigli ed agisca
come un emerito stronzo.»
Il gesto con cui Daisuke sollevò gli occhi al soffitto fu plateale.
Mosse le labbra in una silenziosa imprecazione e tirò uno sbuffo prima di
sistemarsi meglio sulla sedia, visibilmente a disagio. «Va bene», s’intromise,
alzando le mani. «Riavvolgiamo il nastro. La sincerità è una bella cosa, lo
ammetto, ma possiamo ricominciare da capo?»
«Ci deve spiegare come funzionano quegli aggeggi», lo ignorò Masa.
Ancora non aveva scostato le pupille da quelle rilassate di Matsumoto. Era
bravo ad arrabbiarsi, quando voleva. «Da dove sono uscite?»
«Sono utili. Ripuliscono la testa e fanno sì che l’uomo lavori nel
pieno delle sue capacità. Dobbiamo l’organizzazione del lavoro a una
meravigliosa catena di eventi storici, signorino Ikeshima. Dalla seconda
rivoluzione industriale in Inghilterra, passando prima al fordismo2 e
poi al socialismo, si sono fatti enormi passi in avanti. Non pensa che tutto
questo progresso sia meraviglioso?»
«Non siamo qui per una lezione di storia.»
«Lo so.» L’uomo tese le labbra in una linea che dell’idea di
sorriso aveva ben poco. «Siete qui perché ho una proposta da farvi. Ho qui le
vostre valigie», aggiunse dopo un attimo. Si chinò e le raccolse, posandole
sotto ai loro occhi. Una davanti a Masa, una davanti a Daisuke, nere, lucide e
immobili. Doveva averle conservate per tutto quel tempo sotto la scrivania, in
attesa di tirarle fuori. «Avete scoperto il motivo per cui i dipendenti devono
sempre tenerle con sé. Alcuni miei collaboratori si occupano di cambiarne il
contenuto, ogni tanto, a seconda del soggetto. Ci sono persone che necessitano
di più fogli perché pensano troppo, e altre a cui invece basta un minuscolo
fascicolo.»
«Bene», rispose Daisuke. «Quanti alberi vi abbiamo fatto abbattere?»
Matsumoto gli indirizzò un ghigno di intesa. Si sarebbe detto
deliziato da tutta quella suicida ironia. «Un po’. Voi due avete un sacco di
distrazione, in testa. Avete bisogno di tanta, tanta carta. Non siete elementi
corruttibili; in breve, siete stati una perdita di tempo. La vostra amica, la
signorina Fuyutsuki, è decisamente più malleabile di voi.»
«La convincerò a lasciar perdere.» Masa si costrinse a restare
seduto. Sarebbe stato capace di strangolarlo. «Potrei raccontarle tutto quanto.
Potremmo raccontarlo a chiunque.»
«Oh, ma sa già ogni cosa. Era una clausola del nuovo contratto; è
stato piacevole farvi un torto attraverso lei. Inoltre, se mi permette, non
credo che qualcuno sarebbe disposto a credere a una storia simile.»
«Allora ammette che è pura fantascienza. Probabilmente non si è
nemmeno presentato con il suo vero nome.»
«Non volete conoscerlo per davvero.» Un sorriso pratico. «Non è un
dettaglio importante.»
«Un’altra domanda, allora. Perché Koriyama?»
«È una città destinata a crescere. Dovreste saperlo: è la capitale
finanziaria della prefettura.»
«E solo per questo ha deciso di ambientarvi la sua personalissima
rivoluzione del mondo del lavoro?»
«Vede, Ikeshima? Lei chiacchiera sempre troppo.» Matsumoto si
dondolò sui tacchetti dei mocassini e indicò con il mento le due
ventiquattrore. «A dire il vero è una cosa che vi accomuna, ma ho deciso di
proporre ugualmente un contratto a uno di voi. Tentar non nuoce. Con l’altro
prometto di chiudere per sempre.»
Daisuke sollevò le sopracciglia in un sarcastico ed esagerato gesto
di congratulazioni. «Lei è molto realistico, davvero. Ci sono ottime
possibilità che qualcuno di noi desideri lavorare ancora per lei dopo quel che
abbiamo scoperto. Posso già sentire gli applausi in sottofondo.»
«Lo so», gli rispose l’uomo, e gli scoccò un sorriso di squisita
partecipazione. «Mi piace osare, Ido. I vincenti lo fanno sempre.»
Masa annusò una quasi concreta puzza di bruciato. Non c’era nulla
del volto di quel demonio che lo rilassasse, né gli piacque lo sguardo che
lasciò su Daisuke. Sembrava stesse osservando un ottimo e scontatissimo
frullatore esposto in vetrina. «Va bene», si tuffò, e piantò la mano sulla
propria valigetta, il palmo aperto, le dita rigide e tese. «Allora vuole farci
aprire questi aggeggi? Vuole che giochiamo a chi ci trova il tesoro?»
Matsumoto aveva già recuperato dal fondo della tasca un paio di
piccole chiavi. Il suono che produssero quando le lanciò sulla scrivania
scampanellò rumorosamente nell’aria. Ad ognuna era appesa una targhetta che
raffigurava le case sospese nel nulla e il ponte. «L’ho fatto anche con la
vostra amica», si giustificò. «È il mio modo di presentare le belle sorprese. A
lei non è dispiaciuto.»
«Dispiacerà a lei, capo, se il contratto è dentro la mia
ventiquattrore», soffiò Masa. Pescò la chiave più vicina, ma scoprì che non
girava nella serratura. Dopo un momento la inchiodò sulla valigia dell’amico,
che lo guardava ammutolito, e provò con l’altra. Ci fu uno scatto deciso.
Quando aprì, gli sembrò che sul fondo ci fossero un paio di fogli.
Poi realizzò che si trattava solo di una svista, di un’immagine piantatagli in
testa dalla fretta e dalla collera, e allora rimase zitto, le mani chiuse a
tenaglia sulla metà che teneva sollevata. Gli ci volle qualche secondo per
recepire il messaggio del nulla che si era trovato di fronte. Non lui. Lui era
libero di andarsene, di sputare su tutta quella faccenda, di voltare le spalle
a tutto quell’insensato delirio. Era Daisuke a non esserlo.
Inaspettatamente gli venne da sorridere. Spalancò la ventiquattrore
di colpo, consegnandone il nudo interno alla luce dell’ufficio con la
delicatezza con cui si schiaffa una bistecca sul tavolo della cucina. «Io
glielo dico, Matsumoto», se ne uscì, la bocca stesa in un’espressione di
divertimento tanto plateale da riuscire artefatta. Si lasciò persino andare
contro lo schienale della sedia, di punto in bianco, come un attore preso dal
suo incredulo e fanatico monologo. «Glielo dico chiaro e tondo: il mio amico
non firmerà proprio un cazzo.»
«Allora la star sono io?» domandò Daisuke. Mancava poco che si
mettesse a ridere. Ritornò a guardare l’uomo, che si limitava ad osservare le
loro reazioni con un filo di pietà dietro gli occhi, trasmettendo un
divertimento sinistro e sottile. «Sono l’uomo?»
«Avverto un sarcasmo giovane e pungente», commentò lui. Sorridendo.
«Non vuole nemmeno dare un’occhiata?»
«No. Anzi, sì.» E tornò serio, prese la chiave, la infilò nella
piccola serratura, gli occhi fissi in quelli di Matsumoto. «Sì, ma solo per
poterle strappare quei fogli sotto al naso.»
Poi accadde tutto un po’ troppo in fretta. D’improvviso Masa ebbe
chiaro perché anni prima, a scuola, il professore di ginnastica gli aveva detto
che lui per lo sport non sarebbe mai stato tagliato. “Hai dei riflessi pessimi,
Ikeshima”, gli aveva annunciato. “Questo spiega l’incredibile numero di palloni
che ti sono arrivati in faccia”. Fu un ricordo rapido ma preciso, così come
fulminea fu l’impressione di déjà vu che gli si piantò nello stomaco come un
pasto mal digerito. Semplicemente, non era pronto. Non lo sarebbe stato nemmeno
se gli fosse stato consigliato di esserlo.
Daisuke aprì la ventiquattrore solo di pochi centimetri. Bastò quel
piccolo spiraglio, quella fuga di neanche un quarto di metro per liberare di
colpo una rumorosa colonia nera, una nube informe e fitta, un rotolare incoerente
e monocromo. Mosche. Fu simile a togliere il coperchio da un pentolino colmo di
acqua in ebollizione. Si riversarono all’esterno a migliaia, quasi un corpo
solo, e presero il volto del ragazzo come un’enorme mano viva. Lui buttò la
valigia ora spalancata sulla scrivania, gettò un grido che era sorpresa e
orrore e volò all’indietro, rovesciando la sedia sotto di sé.
Masa si mosse solo in quel momento. L’istinto gli ordinò di
scostarsi bruscamente, lo scalciò giù dal posto a sedere. Cadde di schiena, sui
gomiti, le ginocchia appena sollevate, ma non avvertì dolore. I suoi occhi
rimasero fissi sull’amico, che si rotolava a terra e si schiaffava ovunque,
senza sconti, nel tentativo di togliersi di dosso quello sciame impaziente.
Sembrava in preda ad un delirio. Il suo corpo brulicava, sembrava vestire un
abito animato, uno strato translucido, folle, frenetico. Per quanto si
agitasse, per quanto si spingesse indietro e implorasse aiuto, per quanto si
picchiasse, le mosche ritornavano. Si contendevano i posti rimasti liberi,
quelle chiazze di nero ancora poco affollate. Alcune, le più audaci, si
infilavano nelle narici, nelle orecchie, nella bocca, fino a limitare le grida
a rantolii malsani. Il loro ronzio cominciò a fare più rumore delle urla.
Masa vide tutto quanto. I muscoli gli si erano irrigiditi, le ossa
quasi calcificate, il respiro fermato di colpo. Nemmeno riusciva a battere le
ciglia. Avrebbe voluto alzarsi, scivolare sul pavimento, inciampare dalla
fretta e gettarsi da Daisuke per togliergli di dosso quella massa convulsa e
viva, quella demenza di zampe, sottile peluria nera e caleidoscopici occhi da
insetto, ma non ci riusciva. Dio, era il suo migliore amico, ma non ci
riusciva. Paura, disgusto, orrida incredulità, tutte emozioni che lo avevano
inchiodato sul pavimento come un condannato sulla sedia elettrica. In bocca
avvertiva il sapore acido e stantio del conato che gli si stava arrampicando in
gola.
Non vomitò. Colse un movimento dall’altra parte della scrivania e
solo in quel momento si ricordò di Matsumoto. Lui, quello delle ventiquattrore,
quello col sorriso pratico e concreto. Quello che aveva visto per la prima
volta sul Ventidue.
Quando si voltò a guardarlo, gli scoprì la testa un po’ più
rotonda, lo sguardo un po’ più grande, rigonfio sulle tempie, le dita un po’
più lunghe, sottili come nervi. Si accorse di quanto i suoi capelli, così radi,
così neri, somigliassero alla peluria quasi invisibile di un insetto, uno di
quelli grossi, uno di quelli uguali agli altri, solo un po’ più... bipede. Uno
di quelli che stanno in piedi e vestono un completo e una cravatta.
«L’avevo detto, Ikeshima, che con uno di voi avrei chiuso per
sempre.» La sua bocca si era schiusa in un beccuccio rigido, grande quanto
quello di un piccolo uccello. O di una mosca troppo cresciuta. Sembrava
sorridere. «Non si muova. Non renda le cose più difficili.»
Masa capì e desiderò svenire. Lo desiderò così ardentemente da
sentirsi sul punto di perdere i sensi.
Non fece in tempo.
__________
Note.
1 O Raijin. È, secondo la mitologia
giapponese, il dio dei tuoni e dei fulmini.
2 Da
Henry Ford. Per la sua industria automobilistica, nei primi anni del Novecento sviluppò
il fortunatissimo metodo di lavoro basato sulla catena di montaggio, che
consentiva di ridurre i costi e produrre nel minor tempo possibile. Il fordismo fu il trampolino di lancio per
la produzione di massa.
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Capitolo 6 *** Karoshi ***
Epilogo. Karoshi
EPILOGO.
KAROSHI 1
__________
Quando sentì il collo di Nao spezzarsi, Daisuke salì sulla sedia. Si
era tolto le scarpe solo perché l’idea di sporcare il cuscino non gli piaceva.
La casa dei Fuyutsuki era pervasa da un silenzio quasi irreale,
tanto profondo e cavo da sapere di ovatta. Era pesante e concreto come
materiale da imballaggio. Si era ormai alla fine di marzo, ma nell’aria c’era
l’umidità di ottobre. La settimana successiva sarebbe cominciato il nuovo anno
scolastico. Alcuni, i più impazienti, avevano sicuramente già cominciato a far
prendere aria alle uniformi. Era un conforto sapere che i giovani sarebbero
tornati a studiare e gli adulti a lavorare. Tutto al proprio posto.
Non che Daisuke ci pensasse. Non frequentava l’università e
l’arrivo di aprile non significava per lui un nuovo inizio. Significativo era
il fatto che Matsumoto-san gli aveva proposto un contratto, con il problema che
gli orari e i doveri avevano ben presto cominciato a pesare. Si trattava di
vivere in ufficio per la gran parte del giorno, di rientrare la sera con la
mente colma di informazioni, dolorante come un livido maturo, tanto che la
sera, una volta a cena o a letto, non riusciva a pensare a nient’altro. Aveva
creduto, almeno per i primi giorni, che ci si sarebbe abituato, che si trattava
soltanto di adeguarsi al ritmo. Licenziarsi non esisteva; quella routine aveva
il fascino negativo delle cose irrinunciabili. Vi si sentiva ancorato come la
vita alla morte. Per questo, proprio per quest’errore di calcolo, non aveva
potuto immaginare che si sarebbe trovato con Nao a decidere per una soluzione
un po’ più drastica.
Lei ci pensava da qualche giorno in più. Gli aveva confidato di
avvertire l’irresistibile desiderio di ritrattare. “Mi ha detto che non tutti
reggono al cambiamento”, gli aveva detto una mattina. “Mi chiedo se non sia il
mio caso”. Diceva che lavorare così tanto, così all’improvviso, così completamente, bastava a prosciugarla.
Eppure quel posto le piaceva, ma le piaceva un po’ come piacciono le cose belle
fuori e marce dentro. Un po’ a metà. Alla fine, verso gli ultimi del mese,
aveva detto a Daisuke che camera sua aveva un soffitto a travi scoperte. Da
bambina, gli disse, le piaceva appenderci farfalle di carta tagliando qualche
striscia di spago.
Avevano trovato la scala di ferro nel seminterrato, assieme alle
funi. Erano robuste, decisamente di bell’aspetto. Una sera, quando sua madre
uscì – oh, si vedeva già con un altro uomo. Era veloce -, Nao chiamò il collega
e lo invitò. Trascorsero la serata a legare le corde e i cappi, chiacchierando di
quanto apprezzassero che sulle scrivanie dell’ufficio non ci fosse un solo
granello di polvere. Si chiesero se l’attività di Matsumoto sarebbe durata a
lungo. Lo sperarono. Soprattutto, si trovarono d’accordo sull’idea di aver
perso qualcosa, o qualcuno. Era come se da qualche parte, sospeso in una
frazione di tempo passata, fosse rimasto un nome amico. Non se lo ricordavano.
Nao aveva preteso di impiccarsi per prima perché desiderava che
l’altro le sistemasse i capelli dopo che fosse scesa dalla sedia. Temeva che,
se l’osso non si fosse rotto subito e lei si fosse dimenata, si sarebbero
spettinati. Lo convinse dicendogli che voleva essere trovata a posto, come una
rispettabile donna d’affari. Per l’occasione aveva indossato una bella gonna
nera e una giacca elegante. Per una qualche ragione entrambi sapevano con
assoluta certezza che l’unico modo per liberarsi da quello stress, da quel
lavoro, dalla firma che avevano posto, da tutto quanto, era penzolare a qualche
centimetro dal pavimento.
Daisuke, che era salito sulla sedia accanto alla sua, aveva già
cominciato a pettinale i lunghi capelli neri quando si fece quasi convincere
dal pensiero di rinunciare. Osservò il collo orrendamente piegato della
ragazza, la pelle tirata sulla sua gola e i suoi occhi immobili e scuri,
tuffati nel vuoto della libertà, e credette di poter cambiare idea. Nao era
sempre stata bella, anche se non in maniera sbalorditiva; era strano che non
avesse mai frequentato qualcuno.
«Però, davvero, c’è sempre troppo da fare. Sento di aver perso
qualcosa per strada», dichiarò, parlando nel semibuio. L’idea di abbassare le
persiane era stata sua. In qualche luogo e in qualche modo, era stato qualcun
altro. Quel mancato ricordo lo distruggeva. Gli sembrava di lavorare e di
muoversi e di rotolare e di cadere da sempre. Giù dal pendio, di corsa. «Vivere
per l’oggi e dipendere dal futuro. Siamo tutti uomini a ventiquattrore;
funzioniamo così, giriamo ovunque con la nostra valigia. Siamo saliti su una
giostra e la giostra gira e basta. Vorrei tanto scendere.»
Scese dalla sedia solo dopo essersi passato il cappio attorno al
collo.
* * *
Due settimane più tardi
Forse non sarebbe mai diventato direttore, ma Senza Esperienza
sapeva il fatto suo.
Senza Esperienza aveva anche un nome e un cognome, che la regia si
premunì di infilare in un angolo quando gli passarono la linea. Il suo grande
sogno era girare per il mondo come giornalista, ma, per come stavano le cose, Kitamura
Satoshi, o Sato per i confidenti più stretti, si doveva al momento accontentare
di girare qualche servizio di fortuna sul Ventidue. Non era comunque male per
uno a cui il padre aveva a malapena concesso la speranza di finire gli studi.
Quando il cameraman improvvisò un conto alla rovescia con le dita,
si schiarì la voce e drizzò le spalle sotto la giacca grigia, rinnovando la
presa al microfono. Si inchiodò in volto l’espressione più formale che avesse
nel repertorio e si preparò al leggero e abbozzato sorriso di convenienza con
cui avrebbe salutato i telespettatori.
Giù il medio, l’indice, il pollice. In onda.
«Sì, buongiorno a voi», cominciò, una mano salita a premere
l’auricolare da cui aveva ascoltato le direttive dello studio. Era un gesto
deliziosamente professionale, un po’ come quello, inutile ma di notevole
impatto, con cui i tennisti pizzicano le racchette passeggiando a bordo campo
come star di Hollywood. Mi stanno
guardando e per questo agisco come loro si aspettano che io agisca, era il
senso. «Come da voi anticipato, mi trovo a Koriyama, in uno degli uffici
dell’azienda. Qui con me c’è Matsumoto-sama, dirigente della società.»
Qualcosa, forse un piccolo sorriso di partecipazione, si disegnò
sulle labbra dell’interpellato. Se ne stava in piedi accanto a Kitamura, le
mani giunte in grembo e il completo nero tirato a lucido. Il cameraman aveva
scelto bene l’angolazione delle riprese; dietro a Matsumoto e al giornalista
c’era una bella parete colma di libri, più un assaggio, in basso a destra,
della scrivania. La luce era stata studiata in modo che tutto apparisse chiaro,
spolverato, nitido come le notizie che volevano vendere alla gente.
«L’atmosfera è di silenzioso rispetto», riprese Kitamura, le labbra
ora serrate in un gesto di severa comprensione e gli occhi impeccabilmente
fissi in camera. «In questi giorni si è spesso parlato delle tristi vicende che
hanno interessato questa società. Tirando le somme, i numeri ci dicono che, in
un solo mese, ben cinque persone si sono tolte la vita. Persone che lavoravano
per quest’azienda, persone anche giovani – ricordiamo a questo proposito il
caso della famiglia Fuyutsuki - che si sono uccise senza un motivo apparente.
Alcuni parlano di suicidio per lavoro, un’espressione forte ma adatta, secondo
gli inquirenti, a descrivere questa catena di eventi. Pochi... Sì, giusto pochi
minuti fa abbiamo saputo che i medici legali hanno saputo dare un nome all’uomo
ritrovato privo di vita nel lago Inawashiro2.» Una rapida occhiata al
foglio nell’altra mano. «Si tratta di Okawa Kazuo, quarantasette anni, dipendente
di questa società. Stando ai dettagli del ritrovamento, avvenuto qualche giorno
fa, non sembrano sussistere dubbi sul fatto che si sia trattato anche in questo
caso di morte volontaria. L’uomo si è legato un peso di piombo al piede destro
e si è calato in acqua, come fanno sapere i colleghi che lavorano a contatto
con le forze dell’ordine. Ancora nessuna notizia del giovane Ikeshima, di cui
si sono perse le tracce da settimane. La speranza è ovviamente di trovarlo in
vita.» Quando tornò ad osservare la telecamera, abbassò gli appunti e si voltò
appena verso l’ospite d’onore. «Matsumoto-sama, conosceva il signor Okawa?»
«Lo conoscevo», cominciò l’altro, annuendo mestamente. «Ha lavorato
per me per anni. La mia è una società giovane e oserei dire che lui l’ha
praticamente vista nascere. La sua perdita è sicuramente un brutto colpo da
accusare.»
«È d’accordo sul parere di quei giornalisti che vedono in queste
morti il riflesso di un malessere lavorativo?»
«Personalmente mi sento molto... indesiderato. È una situazione che
reca un certo imbarazzo a me e a chi lavora per l’azienda. Non trovo che sia
corretto scagliarsi così gratuitamente contro la mia attività, soprattutto
quando a perdere la vita sono stati lavoratori seri ed onesti come tutti. Sono
amareggiato dal comportamento di molte emittenti televisive ed editori.»
«Giustificabile», riconobbe Kitamura, riportando il microfono a sé.
«Come si sta vivendo la situazione? I dipendenti come hanno reagito?»
«Sono motivati. L’atmosfera è tesa, ma vivibile. I dipendenti
lavorano oggi come ieri con risoluta positività.»
«Vuole... rilasciare qualche commento sul caso Fuyutsuki?»
Del “caso Fuyutsuki” si erano già cibate le più importanti testate
giornalistiche del Paese. La notizia di quei due ragazzi ritrovati impiccati
nella stanza di lei aveva fatto il giro delle televisioni fin oltre Koriyama,
ed era approdata, non senza risultati, persino a Fukushima. La gente ha
l’insensibile talento di eccitarsi di fronte alle disgrazie. Quel duplice
suicidio lo aveva definitivamente approvato.
Matsumoto si mosse appena, un lieve indizio di sgomento. La
telecamera non riuscì a registrare l’attento studio che si celava dietro il
gesto con cui l’uomo aggrottò le sopracciglia. Era una messinscena, ma non se
ne accorse nemmeno Kitamura. Se Masa aveva pensato a lui come ad un Senza
Esperienza quando l’aveva visto per la prima volta, un motivo doveva pur
esserci.
«Erano bravi ragazzi, conoscevo entrambi. Avevano appena deciso di
rinnovare il contratto», fu la lenta, amara risposta. «Ho già portato le mie
condoglianze alle rispettive famiglie. Non intendo rilasciare nient’altro.»
«Continuerà a credere nel suo lavoro?»
«Gli uomini credono sempre nel lavoro. Ci credono e lo cercano,
perché sanno che lavorando si distinguono dagli animali. E io sì, voglio
distinguermi, e continuare a fare ciò che amo. Lo scalpore suscitato da questi
eventi così drammatici sta dimostrando l’unione dell’azienda e la devozione per
il fine comune», soggiunse dopo un attimo. Qualcosa, forse un sorriso, gli
aveva curvato un poco gli angoli delle labbra. La tipica espressione da capo
risoluto, instancabile, presente, fiducioso oltre i limiti. «Pensare è il
lavoro più pesante che ci sia, dicono3. Quindi noi lavoriamo e
basta, senza preoccupazioni, senza fermarci alle accuse o ai giudizi, e ci
muoviamo per il bene di questa città e di quelle che verranno.»
Il giornalista rispose di riflesso con un sorrisino di concreta ammirazione.
«È piacevole trovarla così motivato in questa burrasca di eventi,
Matsumoto-sama. La ringrazio per aver accettato di intervenire.» Si rivolse
nuovamente alla telecamera, l’espressione ora tornata grave e pratica. «Questo
è tutto quello che possiamo dirvi al momento. Vi richiederemo la linea nel caso
in cui riceveremo notizie sul ragazzo scomparso. Per il momento è tutto, a voi
in studio.»
Un ultimo sorriso di partecipazione. Un momento di immobilità
professionale. Un altro paio di secondi, il tempo di interrompere la messa in
onda, il tempo per Matsumoto di sorridere di punto in bianco, di sollevare le
sopracciglia in quel suo silenzioso “Ehi,
credetemi, il meglio deve ancora arrivare!”, e poi un netto taglio sul
nero.
Dove tutto è vago e indistinto.
__________
Note.
1 Letteralmente,
“morte per troppo lavoro”, ovvero “morte per sfinimento”. Si tratta più
che altro di cause fisiche, come attacchi di cuore. Questo termine viene però
utilizzato anche, a seconda delle circostanze, per indicare le morti volontarie
a causa dello stress lavorativo.
2 Si
trova a Est di Koriyama. È il quarto per estensione del Paese.
3 O
meglio, disse. La frase è infatti
attribuita a Henry Ford.
In un angolino...
Questo è stato un racconto molto, molto impegnativo. Sono
davvero felice che il mio impegno sia stato ricompensato. La cosa
davvero divertente, ammesso che ci sia qualcosa di divertente in questa
storia (?), è che quando ho messo l'ultimo punto il mio primo
pensiero è stato: "Okay, tutto questo è colpa del liceo".
Perché molti degli argomenti che ho toccato, prima fra tutti
l'alienazione causata dal lavoro di cui parla Marx, è farina
degli studi. Non so se i miei prof mi bacerebbero sulle guance se
scoprissero che ho usato l'eredità scolastica per scrivere un
racconto così psicologicamente crudo, ma pazienza, è un
modo come un altro di coinvolgere gli altri nelle stesse riflessioni...
credo (?) Io ho la fortuna di lavorare occasionalmente in un
ristorante, dove il mestiere non è mai monotono; a salvarmi
dalla monotonia ci sono i clienti, sempre diversi, sempre pronti a scassarti con,
cioè, a sottolineare i loro bisogni interculturali. Una
salvezza, penso, perché sono quasi certa che morirei in un
ambiente sempre uguale. Come gli uffici. Ah, si capiscono molte cose,
da qui (?)
Ringrazio enormemente chi è arrivato sino alla fine, soprattutto
per la lunghezza dei capitoli <3 Al momento sono presa con un
progetto mio e con una ff, ma prima o poi tornerò fra le
originali, dove mi sento a casa.
Dew_
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