Bastogne - Punto di rottura

di lapoetastra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Donald Hoobler ***
Capitolo 2: *** Joe Toye ***
Capitolo 3: *** William Guarnere ***
Capitolo 4: *** George Luz ***
Capitolo 5: *** Norman Dike ***
Capitolo 6: *** Ronald Speirs ***
Capitolo 7: *** Eugene Roe ***



Capitolo 1
*** Donald Hoobler ***


3 Gennaio 1945

Lipton mi aveva detto che la mia mira era infallibile.
Ed io ci ho creduto, per molto tempo.
Ma ora ho capito che non è affatto così.
Sono disteso sulla neve fredda che mi congela fin dentro le ossa ed il mio corpo ghiacciato è in preda a spasmi di dolore lancinante.
La mia gamba è completamente ricoperta dal sangue scuro che mi inzuppa i pantaloni e che è l’unico in grado di scaldarmi un po’.
Sento i miei compagni attorno a me, mi sorreggono la testa, mi chiamano, mi urlano di restare sveglio.
Ci provo, ma l’oscurità mi sta avvolgendo come una coperta calda.
Ed io ho tanto freddo.
Arriva il dottor Roe, affannato, che prova in qualche modo a curarmi, a salvarmi.
Vorrei dirgli di smetterla, perché tanto non c’è più niente da fare, ma rimango zitto, aggrappandomi a quel briciolo di speranza che la sua presenza mi infonde.
"Come ho potuto essere così stupido?", mi domando in un breve momento di lucidità.
Volevo a tutti i costi quella luger, la pistola tedesca migliore che esista.
E quando mi si è presentata la tanto agognata occasione, non me la sono lasciata scappare: l’ho presa da un cadavere e da allora non me ne sono mai separato.
L'ho mostrata a tutti con orgoglio, come fosse un trofeo, perché credevo che in fondo me la meritassi davvero.
Sono un tiratore scelto, dopottutto, non sbaglio mai la mira.
Ma ho fatto un errore, uno stupido e semplice errore che adesso dovrò riscattare con la vita.
Mi sono sparato alla gamba, accidentalmente.
Sento dire il dottore che la pallottola ha reciso l’arteria femorale e che non riesce a vedere niente.
Non sa cosa fare per salvarmi.
E io perdo ogni minima speranza.
La luce di fronte ai miei occhi si affievolisce, venendo sopraffatta dalle tenebre, che di nuovo mi avvolgono.
Non ho più freddo, adesso.
E non provo neanche dolore.
Eppure preferirei essere devastato da quelle sensazioni orribili di indicibile sofferenza, perché in tal caso significherebbe che sono vivo.
Adesso, invece, il mio cuore sta rallentando la sua corsa, ed il fiato abbandona i polmoni.
Chiudo gli occhi, ed una lacrima bollente mi scorre lungo la guancia.
È l’ultima cosa che sento.
Lipton mi ripeteva continuamente che avevo una mira infallibile.
Credo proprio che si sia sbagliato.
 

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Capitolo 2
*** Joe Toye ***


3 Gennaio 1945

Sono molto contento, oggi.
Finalmente, dopo lunghi giorni passati in una stanza piccola ed umida di ospedale, sono tornato sul campo di battaglia, con i miei compagni.
Qui fa molto freddo, ma non mi importa.
La vicinanza dei miei camerati mi scalda come nessun fuoco potrebbe mai fare.
Ma c'è poco tempo per festeggiare il mio ritorno ed essere gai.
Le bombe iniziano ad esplodere con i loro boati assordanti, tutto intorno a noi.
Cerco di trovare riparo in qualche buca, ma la volontà del destino mi coglie prima che possa fare qualsiasi cosa e tentare qualsiasi fuga.
Mi sento improvvisamente spinto all'indietro da una forza incredibile, a cui non riesco ad opporre resistenza.
Mi piego in due come una bambola di pezza.
Quando riapro gli occhi, dopo un tempo sconosciuto, mi ritrovo per terra, sdraiato sulla neve fredda.
Non sento più le gambe, ed immagino immediatamente che la bomba mi abbia spezzato la spina dorsale.
Mentre la vista comincia a snebbiarsi, però, capisco che è solo quella destra che non riesco più a percepire.
Per quanto faccia fatica, riesco a tirarmi su di un poco, e ciò che vedo è ancora più devastante dell'impatto vero e proprio.
La gamba destra non c'è più, non è più parte del mio corpo.
Il sangue esce copioso dal moncherino, come un torrente in piena, e colora la neve di un orrendo rosso scuro.
Ma non c'è tempo per compiangere la perdita.
Sono già stato fortunato a non essere ucciso dall'esplosione, e se voglio continuare a vivere devo nascondermi.
Le bombe dei tedeschi continuano a cadere e scoppiare, intorno e vicino a me.
Provo ad alzarmi, ma come era prevedibile non ci riesco.
Il dolore e la debolezza pervadono ogni singola fibra del mio essere, prevalendo sull'istinto di sopravvivenza.
Allora urlo, dato che non posso fare altro.
Chiedo aiuto, fino a sentire la gola scorticata, ma tanto so che non accorrerà mai nessuno in mio soccorso.
In questi momenti ognuno pensa a salvare la propria pelle, ed io non posso certo biasimare nessuno per questo.
Di colpo, però, vedo una figura corrermi incontro a perdifiato, incurante delle bombe e del pericolo.
Lo riconosco: è Bill Guarnere, il mio migliore amico.
Quando mi si avvicina rimane un attimo sconvolto alla vista della mia gamba tranciata di netto, ma si riscuote subito e prova con tutte le sue forze a cercare di tirarmi su.
Io sono stremato dal dolore e dalla stanchezza, e mi abbandono a lui come fosse l'unica ancora di salvezza in grado di impedirmi di affogare.
Non potrò mai sdebitarmi nei suoi confronti, non dopo che ha anteposto la mia vita alla sua sicurezza.
Ma un'esplosione mette fine ai miei pensieri.
Ed io sento unicamente il gusto acre della neve e del mio stesso sangue nella bocca.
Poi il mondo perde ogni colore.

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Capitolo 3
*** William Guarnere ***


3 Gennaio 1945

Apro gli occhi, e credo di essere diventato cieco.
La mia vista è offuscata da un lampo di dolore che mi assale, impossibilitandomi a compiere qualsiasi seppur lento movimento.
Non posso fare altro che rimanere fermo, sdraiato sulla neve che mi congela con la sua morsa ghiacchiata fin dentro le ossa.
E di colpo ricordo perchè sono qui e cosa è successo.


Sento qualcuno gridare, anche se non capisco come possa udire qualcosa con le esplosioni delle bombe tedesche che rimbombano tutto intorno a me.
Realizzo che quella voce proviene da non lontano la buca in cui mi trovo, e la riconosco.
È quella di Joe Toye, il mio migliore amico.
In pericolo, morto, forse.
Non posso restare qui, senza fare niente per aiutarlo, per salvarlo, sempre che sia ancora possibile.
Allora mi metto a correre, senza pensare, disperatamente, incurante delle bombe che continuano a scoppiare senza freno vicino a me.
Lo vedo.
È steso per terra, tremante.
Non ha più la gamba destra.
Al suo posto c'è un moncherino sanguinolento, che mi fa venire il voltastomaco.
"Oh, Joe, che cosa ti hanno fatto quei luridi crucchi?", penso, sentendo la disperazione che sale e si tramuta in lacrime ghiacciate.
So che devo aiutarlo.
Provo a tirarlo su, in qualche modo.
Ce l'ho quasi fatta, ma una bomba cade a pochi passi da noi vanificando qualsiasi sforzo.




< Medico! >, sento urlare, e torno alla realtà.
Sbatto gli occhi, con la mente confusa dai ricordi su ciò che è accaduto.
La vista è migliorata, ed il dolore si è un po' attenuato.
Mi rendo conto di non sapere ancora da cosa è causata quella fitta acuta di sofferenza che, seppur allentatasi, non mi ha di certo abbandonato.
Provo ad alzarmi, piano, e contro ogni mia previsione riesco a mettermi seduto.
La testa sta bene, così come le braccia e l'addome.
Qualche livido, forse, ma niente di cui preoccuparsi.
"Il vecchio Gonorrea se la cava sempre, eh?", penso, sogghignando.
Poi mi accorgo di cosa non va.
No, il Vecchio Gonorrea non se la cava sempre.
Non questa volta, almeno.
È non è neanche più tutto d'un pezzo come credeva.
La mia gamba destra è infatti ridotta ad un misero brandello di carne pulsante.
È completamente sfracellatta, ed io non posso smettere di fissarla a bocca aperta, con quel gusto che si prova solo per le cose più orride.
La contemplo da osservatore esterno, come se non fosse davvero la mia.
L'arrivo del dottore mi riscuote.
Mi sembra di uscire da uno stato di trance assolutizzante, e realizzo pienamente tutto ciò che è successo.
Sono diventato uno storpio.
Non potrò mai più camminare, o correre, o saltare.
Non farò mai più piedino ad una ragazza.
Non sarò mai più una persona normale.
Quasi mi viene da piangere, ma riesco a trattenermi, seppur con un notevole sforzo.
Rimango pur sempre il Vecchio Gonorrea, devo mantenere una certa dignità in qualsiasi situazione.
Ma questo dolore è davvero difficile da sopportare, e non parlo solo di quello fisico.
Di colpo, però, il mio cuore è invaso dalla gioia.
Perchè lui è qui, vicino a me.
E sta bene.
Certo, anche lui non ha più la gamba destra, ma almeno è vivo, e non ha subito ulteriori danni dall'esplosione che ci ha colpiti entrambi.
Joe Toye, il mio migliore amico, mi sta sorridendo.
Io lo guardo, e ricambio il suo saluto a trentadue denti.
Non parliamo.
Non ce n'è bisogno, in fondo.
Riesco a leggere nel suo sguardo tutta la riconoscenza nei miei confronti per averlo salvato quando nessun altro si è mosso, e sto per dirgli di non essere stupido, che qualsiasi amico lo avrebbe fatto - ed in guerra si è più che amici, si è fratelli - quando il dottor Roe mi fa caricare su una barella e mi fa portare via.
< Hai visto, Joe, che ci torno prima io a casa? >, dico a Toye.
Vorrei aggiungere qualcos'altro, perchè so che non lo rivedrò più, ma ormai sono troppo lontano, non mi sentirebbe, e non ho il fiato per urlare.
Riesco solo a girarmi quel tanto che mi permette di non capitombolare giù dalla barella e quel poco che mi consente la mia gamba squarciata.
Ed in un secondo, prima che sparisca alla vista, lo vedo sorridere.
Ricambio.
E mentre mi portano in ospedale mi domando se erano lacrime quelle che brillavano sul suo viso.
Proprio come quelle che stanno luccicando adesso sul mio.

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Capitolo 4
*** George Luz ***


10 Gennaio 1945

Lancio la sigaretta che ho appena finito di fumare in aria e quello sembra il segnale che i tedeschi stavano aspettando.
La prima bomba cade lontano da me, ma la sua esplosione mi stordisce lo stesso.
Mi getto a terra, con le mani sulla testa e le ginocchia a contatto con la neve fredda.
Adesso c'è solo silenzio intorno a me e penso che tutto sia finito.
Mi sbaglio.
Le bombe continuano a piovere dal cielo, illuminando il buio notturno.
Sono sempre più vicine, ora, e so che se voglio vivere devo alzarmi e cercare riparo.
Inizio a correre, terrorizzato, incespicando ogni due passi a causa del terreno che trema e della paura che mi attanaglia.
C'è luce dappertutto, ma non vedo niente comunque.
Ho troppa paura, e non riesco a trovare una buca in cui nascondermi.
< Luz! Luz, vieni qui! >, sento qualcuno chiamarmi d'improvviso, urlando per cercare di sovrastare il frastuono assordante.
Mi guardo intorno e li vedo.
Skip Muck è in una buca a pochi metri da dove mi trovo, insieme ad Alex Penkala.
I due migliori amici di Malarkey mi incitano a correre più velocemente per raggiungerli e mettermi al sicuro con loro.
Ci provo, mi impegno con tutto me stesso, ma continuo ad inciampare.
E intanto le bombe continuano ad esplodere, vicino e lontano.
Mi preparo a sentire lo scoppio che mi spezza in due - sono troppo esposto, qui fuori - anche se non succede niente.
I secondi passano, i miei piedi avanzano, e la buca è sempre più vicina.
Muck e Penkala non smettono di chiamarmi fino a rimanere senza voce.
Sono ad un passo da loro, dalla salvezza.
Di colpo mi fermo.
Una bomba cade proprio nella loro buca, spazzando via i miei due compagni come il vento porta via la polvere.
La luce mi abbaglia, e quando si affievolisce di loro non c'è più alcuna traccia.
Rimango sbalordito, sconvolto, immobile.
So che devo andare avanti, se voglio continuare a vivere.
Mi rialzo, in preda alla disperazione più assoluta che abbia mai provato in vita mia.
Corro, passando davanti ai loro resti, senza voltarmi.
Le lacrime mi accecano, non so dove sto andando ed intorno a me c'è solo l'Inferno.
D'improvviso sento una mano afferrarmi per un braccio e trascinarmi verso il basso.
Non oppongo alcuna resistenza e mi lascio trascinare nella buca.
Quando vedo che colui che mi ha salvato è il primo sergente Lipton, mi stringo a lui, per scaldarmi un poco e per non cadere ancora di più nella voragine che sta assalendo il mio cuore.
< Muck e Penkala! >, gli urlo con voce rotta direttamente nell'orecchio destro, ma egli non sembra afferrare ciò che gli ho detto.
< Hanno colpito Muck e Penkala! >, grido ancora, più forte che posso, fino a sentire la gola scorticata.
Lipton non dice niente, ma vedo nel suo sguardo lo stesso vuoto che sta dilagando nel mio.
Rimaniamo così, fermi, abbracciati, ciascuno con il proprio dolore dilaniante, ed aspettiamo che tutto finisca.
Una bomba cade nella nostra buca ed io non faccio altro che serrare gli occhi, aspettando l'ormai inevitabile fine.
Non succede niente.
L'ordigno non esplode.
Torna il silenzio, tutto attorno a noi.
Esco dalla buca con passo traballante, ancora scosso, ancora sconvolto, e mi incammino.
" Ed ora come lo dico a Malarkey?", mi domando.
I suoi due migliori amici sono stati uccisi in un attimo, senza che neanche se ne accorgessero.
Sono morti.
Non esistono più.
Non li rivedrà più.
E quasi vorrei esserci stato anche io, in quella buca.

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Capitolo 5
*** Norman Dike ***


Paura.
Ho troppa paura, non riesco a muovermi.
Mi sembra di essere in un sogno, in cui tutto va al rallentatore.
O meglio, in un incubo.
Le urla dei miei ragazzi, trucidati come bambole di pezza dai tedeschi mi arrivano alle orecchie come fossero lontane anni luce da me, eppure so che sono solo pochi metri quelli che ci separano.
Dovrei fare qualcosa.
Dare degli ordini, guidare il plotone.
Ma non faccio niente.
Rimango fermo, dietro un covone di fieno, nascosto, con gli occhi sbarrati ed il cervello completamente svuotato.
Una bomba scoppia a qualche metro da me.
Sussulto, ma non riesco a riscuotermi.
Nessuno urla.
Forse l’esplosione non ha colpito neanche uno dei miei uomini, o forse la morte è giunta talmente veloce da non dare loro neanche il tempo di dire addio al mondo.
Tremo.
Di freddo.
Di paura.
O forse di vergogna.
Non saprei dirlo.
So solo che mi sento paralizzato , nella mente e nel corpo.
Alcuni soldati mi urlano contro, mi chiamano, mi incitano a fare qualcosa.
Io li guardo, ma è come se non li vedessi.
Ed intanto la guerra continua imperterrita ad impazzare, intorno a noi, con la furia di una tempesta estiva e la devastante potenza di un uragano.
< Non abbiamo un comandante! >, sento gridare.
Sono io il comandante della Easy, eppure non mi sento di esserlo.
Non faccio niente.
Un soldato mi si avvicina.
Non riesco a riconoscerlo.
Mi scuote con forza, senza alcuna traccia di delicatezza.
Non lo biasimo.
Mi parla, ma non capisco le sue parole.
< Subentro io! >, urla allora con quanto fiato ha in gola, sovrastando per un attimo i boati delle esplosioni ed attraversando il mio muro di terrore.
Capisco, e mi alzo.
Lo guardo per un momento, e vorrei ringraziarlo per il suo coraggio.
Rimango zitto, però.
Leggo nel suo sguardo la pietà ed il disgusto che prova nei miei confronti, e so che se mi guardassi allo specchio vedrei nei miei occhi gli stessi sentimenti di ribrezzo.
Non valgo niente.
Non sono un uomo.
Benché meno un comandante.
Me ne vado, con il passo traballante.
Porto con me le urla di agonia dei miei uomini, uccisi senza pietà, senza che io facessi nulla per andare in loro soccorso.
Porto con me il disprezzo del soldato che ha preso il mio posto.
Porto con me il mio orgoglio.
Anzi no, quello no.
Quello è rimasto dietro il covone di fieno.
Sepolto sotto la neve.
Perso per sempre.

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Capitolo 6
*** Ronald Speirs ***


< Subentro io! >, urlo con quanto fiato ho in gola a Dike, che mi fissa con sguardo vacuo.
Vorrei picchiarlo, prenderlo a pugni con tutta la forza che ho, perché a causa della sua paura infantile decine di giovani soldati indifesi sono stati uccisi senza pietà.
Ragazzi, poco più che bambini mandati allo sbaraglio senza le direttive e l’incitamento del loro comandante a combattere una guerra nella quale probabilmente non hanno mai creduto.
Dike se ne va traballando, scompare alla mia vista, ed io tiro un sospiro di sollievo, in quanto se fosse rimasto ancora davanti a me sicuramente non sarei riuscito a tenere a freno la mia ira.
Non c’è tempo per i biasimi ed i rimproveri, adesso.
Ora sono io il comandante di questa compagnia, e so che devo fare tutto ciò che mi è possibile per salvare la vita dei miei soldati.
Raggiungo Lipton per informarmi della situazione, e faccio una tremenda fatica a capire le sue parole a causa delle esplosioni che non cessano di tramortirmi con i loro boati assordanti.
Apprendo che il primo plotone è dall’altra parte del muro che si staglia grigio ed imponente ad una ventina di metri da noi, e, dato che non riceve alcun tipo di direttiva su come procedere, sta per battere in ritirata.
Non posso permettere che ciò accada.
Rimango in silenzio un attimo, studiando la situazione.
Prendo una decisione.
< Resta qui! >, urlo a Lipton, e percepisco la confusione nei suoi occhi chiari, ma non posso perdere tempo a spiegargli il mio piano.
Senza pensarci mi metto a correre.
Corro, come se stessi partecipando ad una maratona e non fossi nel bel mezzo di una guerra.
Corro, e non mi preoccupo del fatto che i tedeschi sono tutto intorno a me, con i fucili spianati, pronti ad uccidermi senza che possa fare nulla per difendermi.
Corro, e non penso che a momenti sicuramente percepirò il duro e freddo metallo delle pallottole che mi penetrerà nella carne, strappandomi per sempre alla vita.
Guardo solo davanti a me, e non mi fermo, consapevole di essere circondato dalla morte.
Ma non succede nulla, ed i miei piedi continuano ad avanzare battendo il terreno con ritmo costante.
Vedo il muro dietro al quale si trova il primo plotone.
Lo scavalco come un fulmine, e con il poco fiato che mi rimane do loro indicazioni precise su come e dove attaccare.
Noto gli sguardi sopresi sui loro volti mentre parlo, increduli di vedermi lì come fossi spuntato dal nulla, ed a malapena riesco a trattenere un sorriso.
Le bombe che esplodono e gli uomini in lontananza che gridano mi distolgono dai miei pensieri, e capisco che non è ancora finita.
Devo rifarlo.
Riscavalco il muro e comincio nuovamente a correre in mezzo ai crucchi che per la seconda volta mi fissano inebetiti, stupiti dal mio coraggio e dalla mia stupidità.
Corro, ed anche adesso aspetto di morire da un momento all’altro.
Corro, e penso che in fondo è proprio disonorevole essere ammazzati così, perché ci si è esposti al nemico senza alcuna seppur misera protezione.
Corro, e sono consapevole che se non avessi fatto ciò che ho fatto i soldati del primo plotone sarebbero stati completamente alo sbaraglio, senza idea di cosa fare e senza alcuna speranza di vittoria.
Corro.
Mi fermo.
Sono arrivato da Lipton, dietro un covone di fieno, al sicuro.
Sono sopravvissuto.
Ed ho salvato la vita di decine di ragazzi, innocenti, poco più che bambini.

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Capitolo 7
*** Eugene Roe ***


Che io poi non sarei mai neanche voluto diventare medico.
Il sangue mi spaventa, e la morte mi terrorizza.
Eppure ora sono qui, circondato da una disperazione che non sembra avere mai fine, esattamente come la bianca coltre di neve che si dipana di fronte ai miei occhi e che sembra avermi invaso anche il cuore, racchiudendolo in una cortina di ghiaccio impenetrabile.
Mi sento morire dentro ogni volta che vedo i soldati, i miei commilitoni, distesi priva di vita sul terreno ricoperto del loro stesso sangue.
Ciò che ho visto in questa guerra interminabile è indicibile, eppure da quando siamo qui a Bastogne riesco distintamente a sentire la mia anima frammentarsi in pezzi ancora più piccoli rispetto a quelli in cui già è divisa, e sono consapevole che niente, neanche il tempo che guarisce ogni ferita, riuscirà mai a curarla.
Non posso chiudere gli occhi e non vedere di fronte a me il viso pallido di Hoobler quando non sono riuscito a salvarlo dalla ferita causata dallo sparo partito accidentalmente dalla pistola Luger che aveva appena trovato.
So che non me lo perdonerò mai, perché avrei potuto evitare che la morte lo cogliesse così di colpo, e soprattutto in modo così vergognoso per un soldato.
Eppure non riuscivo a vedere nulla, ed intanto la vita scivolava via dal suo corpo freddo e tra le mie dita sempre più velocemente.
E quando sono da solo, stringendo forte la fredda neve, mi sembra di aver ancora le mani bagnate dal sangue di Toy e Guarnere, quando la granata ha trasformato la loro gamba destra in un ammasso informe di carne viva e pulsante.
Ma la cosa che più mi ha spezzato il cuore è stata perderla.
Lei.
René.
Un’infermiera di Bastogne, dolce e buona come nessun’altra donna ho avuto il privilegio di conoscere nella mia giovane vita.
Era bello, stare in sua compagnia.
Quasi in quei momenti mi dimenticavo dell’orrore che mi circonda, e mi sembrava di stare bene.
Davvero bene.
Anche felice, forse.
Ma ormai non ha più importanza, perché anch’ella se n’è andata per sempre, lasciandosi alle spalle unicamente il suo ricordo, che vivrà per sempre in me.
Tuttavia non c’è tempo per rimembrare, in questa guerra senza fine.
Sento un soldato che mi chiama, urlando il mio nome con un tono acuto che ho imparato a riconoscere come quello di un uomo prossimo alla morte.
Allora corro, a perdifiato, inciampando e rialzandomi.
Per cercare di fare qualcosa.
Per salvarlo.
Per evitare che il suo fantasma mi ossessioni come un’ombra fino alla fine dei miei giorni.
Corro.
Io, che non sarei mai voluto diventare dottore.

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