l'orizzonte degli eventi

di Ciel Shieru Chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** C'era una volta... ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** capitolo 8 ***



Capitolo 1
*** C'era una volta... ***


Aprì gli occhi improvvisamente.
Il soffitto a cassettoni lignei le apparve raggiante della luce del primo mattino che filtrava dalle pesanti tende davanti la finestra.
Che bella era quella sensazione! La più felice del giorno!
Si voltò verso la fonte luminosa.
Amava la luce, amava il giorno, il sole, la vita, gli uccellini che cantavano fuori dalla finestra per svegliarla.
Aurora amava tutto ciò.
E detestava dormire. Lo odiava, la metteva a disagio come poche altre cose al mondo.
Poteva contarle sulle dita di una mano, ma nulla era come dormire.
Aveva sempre paura di chiudere gli occhi e di non svegliarsi più. Aveva paura di dormire.
Aveva paura del buio, aveva paura della notte, di quei malefici occhi verdi nel caminetto. Impressi nella sua mente, la volta in cui Malefica la stregò per farle toccare il fuso dell'arcolaio e lasciarla cadere nel sonno eterno.
Da quel momento odiava il pensiero di dover dormire.
Le veniva sempre da piangere quando la madre la invitava a ritirarsi per la notte e la accompagnava nei suoi appartamenti.
Nessuno lo sapeva, nemmeno Filippo. ...Oh! Filippo!
L'immagine del suo principe la fece ridestare da quei nefasti pensieri.
Quello era un nuovo giorno! Un nuovo mattino!
E lei amava alzarsi il mattino per correre dal suo Filippo!
Tirò via le coperte e corse a scostare i tentaggi.
Gli uccellini volteggiarono nella sua stanza e uno scoiattolo la osservò dal davanzale.
Aurora rise mentre i suoi piccoli amici le giocavano tutt'intorno.
Cominciò a cantare la sua canzone mentre volteggiava con grazia in camicia da notte per la camera.
All'improvviso la porta si spalancò.
Aurora si voltò di scatto.
Le ante sbatterono contro il muro.
Fauna, Flora e Serenella la osservavano da appena fuori. Dietro di loro sua madre.
Sembravano tutte così costipate.
Forse qualcosa non andava, pensò tra se e se.
D'istinto si voltò verso il camino, in attesa di Malefica. Ma non poteva essere...lei era morta.
"Buongiorno" disse non proprio esclamando con la sua solita allegria.
"Buongiorno cara" la rispose Fauna La regina le sorrise gentile, ma c'era qualcosa che davvero non andava...
"Qualcosa non va?"
Si avvicinò con la sua solita grazia al gruppetto che era rimasto sull'uscio della porta a guardarla come si guarda un caro prossimo alla morte.
"Bimba mia, abbiamo una cosa da dirti"
"Che cosa?" Aurora era sempre più fremente. Detestava l'attesa.
"Non tenetemi sulle...spine"
Un vero eufemismo, pensò.
Serenella riprese il discorso.
"Rosa...ecco...vedi...il principe Filippo...lui...lui e suo padre..."
Nessuna sapeva bene cosa dire esattamente, si osservavano tra di loro evidentemente preoccupate.
La ragazza si voltò verso la madre, alla disperata ricerca di una risposta.
La donna le si avvicinò, sorpassando le tre fate. "Tesoro mio...tuo padre e il Re Umberto hanno litigato"
Aurora sospirò soddisfatta.
Era molto più tranquilla ora!
"Litigano continuamente madre!" esclamò con sarcasmo.
"Non questa volta"
"Che vuoi dire?"
"Voglio dire che questa volta è stato differente, hanno discusso brutalmente, non vi è stato alcun tentativo di riavvicinamento da parte di nessuno dei due"
Flora le interruppe. "Il Re e il principe Filippo hanno lasciato il palazzo..." La sua espressione era colma di apprensione.
Aurora sgranò gli occhi molto lentamente.
Il suo viso si distese totalmente.
Lo sguardo perso nel vuoto.
Filippo era andato via...via...il dolce oggetto dei suoi sogni... Non poteva essere vero...
Uscì immediatamente dalla sua stanza correndo a piedi nudi, in camicia da notte, da suo padre.
Il pavimento gelido scorreva rapido sotto al suo tocco delicato, mentre le lacrime già le riempivano gli occhi.
Sentiva le fatine correrle dietro, urlando il suo nome, ma non le ascoltava, non più.
Corse giù dallo scalone d'onore, rischiando di inciampare goffamente più volte.
Attraversò la sala del trono, lasciando in tutti i presenti lo sgomento nell'aver visto la Principessa Aurora correre conciata in quel modo.
Arrivò nel salone da pranzo, colmo di cibo per la colazione.
Suo padre, di spalle, guardava la brughiera, affacciato alla balconata. Parlava.
Si rese conto che accanto a lui vi era un altro uomo.
Alto, slanciato, di nero vestito con un buffo cappello.
E nonostante ciò si trattava della persona più sgradevole che avesse mai incontrato.
Re Stefano e il Ministro di Giustizia Frollo si voltarono e la videro.
Questi sgranò gli occhi, incredulo, e non le risparmiò un truce sguardo di rimprovero, per poi poggiare una mano davanti agli occhi.
"Aurora!"
Re Stefano le si avvicinò sorpreso, ordinando che le venisse immediatamente portato un mantello per coprirsi.
"Padre...ve ne prego padre...ditemi che non è vero...vi prego"
Le lacrime attraversavano dolcemente il suo volto, spezzando l'espressione del suo viso. Il sovrano venne scosso da un fremito nel vedere la figlia piangere in quel modo.
Le si avvicinò e la coprì con il mantello che aveva ordinato, mentre la giovane poggiava la testa sulla sua spalla.
Le accarezzò i capelli sussurrando.
"Suvvia bimba mia, cerca di essere forte, tutto si risolverà"
Arrivarono le tre buone fate che la riportarono nelle sue stanze.

Il sovrano si voltò verso il ministro.
"Non vi è margine di speranza, a vostro parere?"
"Non si possono conoscere le vie con le quali opera il signore, vostra maestà, tuttavia non posso porre la mia fiducia nelle condizioni che vi sono state poste da Re Umberto"
"Sono d'accordo con lui, vostra maestà"
Lord Tremaine avanzò verso i due.
Nella sua corporatura alta, tozza e massiccia. Il viso sgraziato e allungato, con il grosso naso camuso al centro. Gli occhi piccoli, specchio della sua proverbiale astuzia.
"Non possiamo cedere. Quelle che io non definisco altro che come vere minacce attentatrici alla nostra sovranità non possono infangare oltre la corona e il regno"
"Purtroppo temo che abbiate ragione" asserì sconfortato il sovrano.
Il nobile prese brutalmente un frutto e lo addentò senza ritegno.
Il rumore secco fece sbuffare Frollo.
Plebeo. Fidato del Re solo grazie ai suoi subdoli inganni.
"Non dobbiamo cedere alla pressione di Umberto"
Decise infine Stefano.
"Aspetteremo qualche mese, sarà lui a fare la prima mossa"
L'uomo si voltó e fece per allontanarsi.
"Ne siete certo vostra grazia?"
Il sovrano lo guardò interrogativo.
"Non sarebbe il caso di muovere l'esercito sulle frontiere? Il Capitano..."
"Muovendoci nel modo in cui suggerite otterremo l'effetto inverso, io temo"
Frollo si intromise tra i due, osservano il rivale con il suo sguardo carico di soddisfazione.
"Re Umberto lo riterebbe un affronto..."
"Una prova della nostra superiorità!" insistette l'altro.
"Piuttosto una minaccia alla sua di sovranità, al suo reame" concluse pacato.
"Ma cosa andate blaterando, signor Ministro?!" lo schernì l'altro.
"Non ricordo l'ultima battaglia a cui avete partecipato!"
"La strategia non dipende solo dalla-
"Adesso basta!" esclamò il monarca "Non ci muoveremo fino a mio nuovo ordine!"
Si voltò e si allontanò a grandi falcate.
"Questa volta non vi lascerò contaminare le scelte del nostro Re, mio signore"
"Aspettate signor Ministro, aspettate e pregate il vostro dio..."
I due uomini si voltarono all'unisono.
La regina, oltre la lunga tavolata, li osservava imperscrutabile.

Le settimane successive all'avvenimento, si fecero sempre più grigie e monotone.
Aurora si alzava, mangiava abbastanza per non mettere in guardia i genitori o le fate, se ne stava chiusa nelle sue stanze quasi tutto il giorno, senza cantare o danzare, piangeva spesso, attendendo la sera, che, quando arrivava, la stringeva nel velo della sua morsa.
Il terrore si impadroniva di lei, stavolta con la certezza che nessuno l'avrebbe mai più salvata.

Stavolta era lui. Era lui chiuso nella torre. Nella stanza più remota della torre più alta, ad essere precisi.
Circondato da una foresta di rovi chiamata politica.
Ben peggiore di quella che aveva affrontato per salvare la sua amata.
La porta si aprì lentamente.
Già poteva udire il respiro affannato di suo padre. Non si voltò nemmeno, non lo salutò, evitò qualsiasi forma di contatto.
Rimase fermo ad osservare dalla stretta finestra il panorama, in direzione della lontana dimora della sua Aurora.
Chissà come stava, cosa faceva, se sentiva la sua mancanza almeno un po'.
"Figliolo, sono due giorni che non tocchi cibo, di questo passo starai molto male!"
"Non posso stare peggio di così" rispose seccamente.
"Filippo, ascoltami Filippo, sei il mio ragazzo, il mio figliolo, e io non permetterò che diventi un burattino nelle mani di Stefano! Purtroppo le circostanze..."
"Ti impongono di tenermi imprigionato qui!?"
"Attento Filippo, portami rispetto! Sono pur sempre tuo padre! E il tuo Re!"
"Scusate tanto 'Vostra Maestà', pensavo che solo i malvagi come Malefica fossero capaci di rinchiudere le persone per i loro vili scopi"
"Bada a te! Lo faccio per il tuo bene! Non ti ho rinchiuso!"
"La mancanza di Aurora ogni giorno è dura più dei ceppi che mi legavano le mani nelle prigioni della Montagna Proibita!"
Ora suo padre era davvero fuori di sè. Rosso in viso, muoveva affannato le grassocce braccia e le gambette corte, salterellando e mimando severo.
"Tu riprenderai a mangiare! Dovessi farti imboccare maledizione!"
Filippo di nuovo non rispose.
Aspettò, voltato senza commentare, che la porta sbattesse violentemente.
Tornato ancora solo nel silenzio dei suoi pensieri, riprese a chiedersi perchè fosse stato costretto a tornare a casa.
Perchè suo padre si ostinava a non parlargli del motivo della loro improvvisa quanto spiacevole partenza.
Si sentiva un inutile buono a nulla.
E Aurora? Ne sapeva di più?
Doveva assolutamente tornare da lei.

Aprì gli occhi improvvisamente. Il soffitto a cassettoni lignei ancora fu la prima cosa che vide.
Qualcosa non andava. Erano le campane. Era stata svegliata dalle campane.
Perchè suonavano le campane??
La porta si spalancò sbattendo violentemente contro il muro.
Aurora urlò e temette che l'anta le volasse addosso, nonostante la distanza.
Un plotone di soldati entrò nella stanza. Alcuni si misero fuori di guardia, altri sulla balconata, altri ancora vicino al suo letto.
Un paio rovesciarono con un violento calcio un tavolino, sul quale erano poggiate alcune brocche.
Il rumore di vetri rotti e legno spaccato, unito al fragore di spade ed armature fece pulsare la testa della principessa.
Gli occhi presero nuovamente a lacrimarle.
Fauna e Serenella fecero il loro repentino ingresso e si avvicinarono a lei. "Che sta succedendo?!" chiese quasi urlando ancora.
Non aveva nemmeno avuto il coraggio di chiederlo ad una delle guardie.
"Mia cara, è appena successo un terribile avvenimento" Aurora osservava prima una e poi l'altra.
Non era sicura di volerlo sapere.
Prima che una delle due potesse di nuovo aprir bocca, entrò un'altra figura nella stanza.
Un uomo dalla statura allenata, anch'egli in armatura.
I capelli biondi e gli occhi chiari, la barbetta ispida incorniciava il suo volto.
Il suo bell'aspetto e la sua aria cordiale, nonostante l'abbigliamento, rassicurarono un po' la giovane, che comunque sollevò le coperte per cercare di coprirsi il più possibile.
"Perdonate l'intrusione così improvvisa e poco ortdossa dei miei uomini, Vostra Grazia.
Permettete che mi presenti, sono il Comandante Generale della Guardia Reale, Jehan de Châteaupers, per servirvi"
La giovane non rispose. Continuava a fissarlo senza proferir parola.
Il Capitano sembrava molto a disagio.
Sentirlo balbettare alla ricerca delle parole migliori per continuare il discorso, tradì la sicurezza che ispirava in Aurora. "...Tuttavia..." parve riprendersi dalla sua insicurezza. "Oggi ho il gravoso incarico di informarvi che il Re Stefano vostro padre...è morto"

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Capitolo 2
*** capitolo 2 ***


In tutto il regno le bandiere a mezz'asta.
La Rosa Regale su sfondo purpureo veleggiava placida sulle altissime guglie e sui tetti del palazzo, a ridosso della capitale, in lutto.
Aurora sedeva su una sedia, accanto alla salma del padre, all'interno di una grande bara di granito, ricoperta di fiori, ai piedi. Rose, naturalmente.
Era semplice, bianca e spigolosa, non era una tomba grandiosa come lei avrebbe voluto.
Ma Frollo insisteva che la semplicità sta nel Paradiso, e compito degli uomini era di inneggiare ad una vita semplice e misericordiosa.
Ma il vero significato era che suo padre non era stato un gran re.
Non uno di quelli che si ricordano nei grandi tomi di storia, non uno di quelli che merita un immortale monumento per la memoria comune.
Era stato un sovrano come un altro, nessuno di particolarmente grandioso, potente, coraggioso o addirittura avvenente.
Era solo un uomo che governava un regno. Tutto qua.
Questo forse faceva più male della sua prematura dipartita.
La consapevolezza che suo padre non le aveva lasciato niente.
Nemmeno lo conosceva come avrebbe voluto o dovuto una figlia.
E ora, in qualità stessa di figlia, che ne sarebbe stato di lei? E di sua madre? Sarebbero morte anche loro?
I medici di corte lo avevano confermato: si trattava di veleno.
Improvvisamente un paggio entrò nella cripta.
Aurora si voltò e lo vide attraverso la veletta nera, legata alla complessa acconciatura da un fiocco, anch'esso nero.
Il giorno delle esequie tutto doveva essere nero, e i suoi capelli d'oro dovevano restare legati e acconciati in complessi intrecci attaccati alla nuca e coperti da un velo, per non apparire troppo sbarazzini, e quindi irrispettosi. 
Si alzò e osservò l'ometto correre giù per le scalette.
Sembrava alquanto imbarazzato di averla interrotta. Forse spaventato addirittura.
"P-perdonate Vostra Grazia...ma è arrivata una corrispondenza...si tratta di una lettera proveniente da Ambroise...Vostra Grazia" si affrettò ad aggiungere.
Aurora si incamminò allarmata verso le scale per tornare ai piani superiori.
Il pesante abito di seta nera strisciava per terra provocando una sorta di eco all'interno della vasta sala.
Arrivata in cima alle scale attraversò la sala del trono, tanto gremita di persone da farle venire la nausea.
Erano giunti all'incirca tutti coloro che le avevano giurato fedeltà quasi diciassette anni prima.
Ora erano lì per sapere chi sarebbe stato il loro prossimo sovrano, colmando la sala di un pesantissimo, insopportabile silenzio.
Solo il tacchettio delle sue scarpe contro la pietra fredda del pavimento spaccava brutalmente l'atmosfera cupa.
Tenne lo sguardo rivolto verso il basso.
Flora le aveva insegnato ad avere un portamento fiero, sicuro di sé, con il mento alto e lo sguardo nobile.
Ma in quel momento non voleva incrociare lo sguardo di nessuno, voleva solo sparire da quel luogo il più in fretta possibile.
Un portone laterale si aprì per lasciarla passare, sotto lo sguardo di tutti presenti, e si richiuse immediatamente una volta varcata la soglia.
La sala, di forma rettangolare, non era molto grande, e il fatto che fosse entrata dal salone principale la rendeva ancora più piccola, ai suoi occhi.
C'erano comunque due enormi camini alle due estremità e sulla parete opposta all'entrata vi erano degli archi a sesto acuto finemente decorati, con colonnine tortili, che davano su una lunga balconata.
Al centro un tavolo di palissandro.
Il piccolo trono a capotavola era vuoto, presumibilmente il posto di suo padre, alla sua destra era seduta la regina e a proseguire alcuni altri uomini.
Il capo opposto del tavolo non aveva seggio.
Riconobbe immediatamente il Ministro di giustizia Frollo, Lord Tremaine e il Capitano Jehan, che le accennò un sorriso gentile.
"Aurora..." la chiamò la madre "...vieni" con un gesto della mano le indicò la sedia di fronte alla sua, a sinistra del trono.
La principessa prese posto e tornò a fissare verso il basso, le venature del legno. Le tremavano le mani.
Trovarsi tra così tanti uomini a discutere di questioni di cui non sapeva cosa dire la mise a disagio.
Il Lord si alzò in piedi e prese la parola.
"Questa mattina è arrivata una lettera da Re Umberto..."
Doveva essere quella che aveva sua madre tra le mani.
"...Egli porge le sue condolianze per la morte di Re Stefano e si affretta ad aggiungere che è pronto a far tornare suo figlio, il principe Filippo, a corte per sposare la nostra principessa e ridare stabilità a questa situazione di grave crisi"
Non appena sentì il nome di Filippo, Aurora alzò immediatamente lo sguardo. Alcuni dei presenti la osservarono.
Il nobile riprese il discorso.
"Forse sono l'unico, ma mi pare alquanto strano che questa lettera sia già giunta a noi, quando il nostro...amatissimo sovrano..." seguì uno sguardo salamelecco alla regina "...ci ha lasciato giusto ieri!"
"Che cosa vorreste insinuare??" si intromise un altro lord osservandolo di sbieco.
Era calvo e con una barbetta bianca, le guance rosse e la pancia abbondante.
Tremaine si voltò di scatto e ricambiò lo sguardo.
"È chiaro!" rispose con enfasi.
"Re Umberto ha fatto assassinare il nostro sovrano e ha subito inviato una lettera onde evitare di essere incolpato"
"Baggianate! Non può essere andata così! Re Stefano e Re Umberto sono sempre stati grandi amici! Fin dalla Guerra delle Uova d'oro!"
Aurora perse la sua già carente attenzione, pensando a quanto fosse ridicolo un nome del genere per una guerra.
"Eppure..." ribattè ancora Tremaine battendo il pugno sul tavolo e richiamando a sè tutti gli sguardi "Trovo estremamente sospetto l'arrivo così repentino di questa 'lettera di condolianze'..." disse storcendo il naso "...quando la notizia della morte di Re Stefano starà ancora viaggiando verso gli altri reami!"
Nella sala calò il silenzio.
Qualcuno sussurrò a voce bassa che Umberto non poteva essere così sciocco da commettere un errore del genere, ma nessuno ebbe il coraggio di opporsi alla tesi.
D'altronde come aveva fatto a sapere della morte di suo padre così presto? Che avesse delle spie a corte? O forse lui stesso era l'effettivo mandante?
Forse nemmeno il più sommo tra gli dei avrebbe saputo dire cosa sarebbe successo.

"Mio figlio! Egli ha l'età della principessa! È un giovane alto, forte e valoroso! Io propongo mio figlio!"
"No! Io avanzo mio nipote! Egli è ormai un uomo di vent'anni! È già saggio e grande come un re!"
"Io propongo me stesso! Signore dei fiumi del nord!"
"Mio signore, se voi lord dei fiumi salirete al trono, il nostro signore della costa ovest vi sarà subito ostile!"
"È una dichiarazione di guerra forse?!"
"Chi siete voi per minacciarmi, signorotto qualsiasi!"
"Non osate! Sono fratello e primo alfiere del lord dei colli verdi!"
"E si sa bene che hai colli verdi gli uomini s'accoppiano con le capre!"
Ci fu una sgraziata risata generale.
"Provate a ripetere! Voi dei fiumi nemmeno siete in grando di accoppiarvi!"
Signori, signorotti e grandi lord si urlavano l'un l'altro per tutta la grande sala, cercando di farsi avanti per la mano della principessa e litigando fra loro per ottenerla ad ogni costo.
Aurora osservava da dietro una porta socchiusa, insieme a Fauna e Serenella.
Se solo avessero saputo che era lì ad ascoltare, ogni uomo in quel salone si sarebbe inchinato cento e mille volte chiedendo perdono per la propria sfrontatezza e nessuno avrebbe osato chiederla in sposa. Ma lei questo non lo sapeva e decise di restare nascosta.
Il suo regno, la sua bella Neustria, sembrava sull'orlo del collasso.
Coloro che avevano le redini del potere, grandi e piccoli, si scontravano e si attaccavano, urlando come al mercato.
Era terrorizzata.
Filippo vieni a prendermi.
Questo e solo questo pensava.
Il cuore le batteva forte all'idea che uno di quei rozzi bruti sarebbe diventato il suo promesso.
Non sapeva che cosa fare.
Fauna le accarezzava dolcemente i capelli, Serenella, iraconda come sempre, criticava il comportamento dei nobili signori.
Aurora scoppiò in un nuovo pianto disperato, abbandonandosi contro al muro e lasciandosi scivolare per terra.
Il suo regno stava per cadere nel baratro della guerra civile.
Il suo amato era intrappolato chissà dove e non sarebbe venuto a salvarla. Non stavolta.
I lord si azzuffavano inferociti come cani rabbiosi all'idea di possederla.
Qualcuno, dietro tutto ciò, godeva e rideva, assaporando il dolce sapore del potere.

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Capitolo 4
*** capitolo 3 ***


Flora si era sempre considerata una sorta di leader delle fate.
Era lei che aveva sempre le idee migliori, che sapeva sempre cosa fare e che aveva rapporti intimi con il re e la regina.
Per questo quando scoprì che Serena aveva una lettera da parte nientemeno che di re Umberto stesso, andò su tutte le furie.
La fata blu, dal canto suo, con il suo caratterino ostico e irasicibile non le veniva certo incontro.
Così le due erano ricadute in una delle loro solite deflagrazioni fisiche, verbali e magiche.
Fauna, la fata verde, prese la lettera oramai aperta e rovinata dal miscuglio delle altre due.
Curiosa, la lesse e alla fine criticò a gran voce. "Oh! Ma è proprio sguaiato!"
Le altre due la fissarono sbigottite dall'inusuale giudizio della compagna.
"Che cosa dice, cara?" chiese Flora con una certa curiosità.
Sapeva di essere curiosa e che il suo comportamento non era quel che si dice 'degno di nota', ma era comunque in pensiero per la sua figlioccia e, dato che il Consiglio Reale trapelava pochissime informazioni, ogni altro genere di notizia poteva essere interessante per vederci più chiaro.
Fauna non fece neppure in tempo a rileggere che Flora prese la lettera dalle sue mani, per leggerla direttamente coi suoi occhi, ingorando le boccaccie della fatina blu.
Re Umberto invitava Aurora a trasferirsi alla sua corte, ad Ambroise, per stare accanto al suo principe dove, a detta sua, '...avrebbe dovuto trovarsi una principessa...'
Subito dopo si annunciava pronto ad intervenire con il proprio esercito per riportare l'ordine e sedare gli innumerevoli conflitti che un po' ovunque nel reame erano scoppiati.
"Dobbiamo mostrare questa lettera alla regina"
"E a quale scopo!?" irruppe Serenella. "Lei la mostrerà al Consiglio e noi verremo cacciate nuovamente e tenute all'oscuro di tutto!"
A colpire l'orgoglio della fatina, Flora lo sapeva, era la condizione in cui versavano a corte.
Da qualche tempo erano state allontanate dai consiglieri più stretti del re, finchè non divenne vietato per loro assistere alle riunioni.
Si vociferava che fosse proprio Lord Tremaine a diffidare di loro e in quanto svolgeva l'incarico di primus inter pares tra i fidati del re, doveva certamente averlo influenzato con uno dei suoi discorsi esaltati.
Da quando Stefano se n'era andato, poi, la situazione era solo peggiorata: le intenzioni ben poco chiare della Regina e l'ostilità del Consiglio Reggente avevano spinto le tre via via contro un muro.
Da qualche tempo, infatti, vivevano la loro esperienza a corte come un peso.
L'unica persona che era loro permesso di vedere era Aurora.
Eppure, si chiedeva Flora, erano loro ad averla salvata. Loro l'avevano curata e allevata per sedici lunghi anni, loro avevano rischiato la vita sfidando Malefica, loro avevano guidato il principe Filippo nel suo salvataggio, e avevano fatto si che si riconciliasse con la Principessa.
Principessa che sempre più assomigliava ad un fiore appassito, grigia e debole.
Troppo fragile per stare al mondo.
Ad ogni modo Flora sapeva che era la cosa giusta da fare.
Con un colpo di bacchetta riportò la lettera alle sue condizioni originarie e si avviò, seguita dalle altre due.
Con la poca autorità rimasta loro, riuscirono ad entrare nella sala dove si riuniva il Consiglio del Regno. Ignorando i commenti di Lord Tremaine sul fatto che nessuno sarebbe dovuto entrare durante le sedute, Fauna consegnò la lettera alla Regina, che la lesse ad alta voce. Nessuno accennò più a fare uscire le fate.

"E così Re Umberto crede che siamo così disperati da accettare le sue condizioni" Lord Tremaine era paonazzo in volto, come se lo avessero offeso personalmente.
O forse era così che considerava l'offerta del sovrano di Ambroise.
"Miei signori" si rivolse a tutti i membri presenti della stanza con la sua solita esuberanza.
"Noi non permetteremo a nessuno di prenderci per dei poveri idioti"
Battè le mani sul tavolo facendo sobbalzare i suoi vicini "E impediremo con ogni mezzo necessario l'intromissione di Umberto nella nostra corte!"
"Mio signore, di quali mezzi state parlando?"
La voce di Frollo risuonò fatale come i rintocchi di un orologio che segnava l'inizio di un nuovo infinito contrasto tra i due.
Il suo ghigno malvagio e gli occhi piccoli, ma luminosi di certezze lo guidavano davanti al suo interlocutore.
"Le nostre truppe sono impegnate ovunque nel reame per sedare rivolte e disordini, non possiamo permetterci una guerra"
Prima che Tremaine potesse ribattere, il Ministro di giustizia si rivolse al Capitano Jehan de Chateaupers.
Anch'egli serio e impeturbabile. Le spesse sopracciglia corrugate in segno della più totale attenzione.
"Comandante, prego sarete così gentile da esporre al Consiglio le vostre richieste?"
Il soldato, colto alla sprovvista per l'improvvisa richiesta, farfugliò qualcosa tra sé e sé per poi tossicchiare e schiarirsi la voce. "Sì mio signore"
Si rivolse a tutti gli sguardi.
"Questa mattina le spedizioni cittadine hanno trovato il cadavere di un uomo impiccato davanti ad una locanda, tre cadaveri di donne dilaniate in vari luoghi della città, di cui una senza testa, che è stata successivamente recuperata nella fontana della piazza principale. Sono scoppiati tre incendi e i miei uomini sono dovuti intervenire in due diversi scontri tra fazioni rivali, vicino al fiume. Miei signori, nonostante gli sforzi, temo che gli uomini a protezione della città non siano più sufficienti e-
"Continuate" lo interruppe Frollo. "Continuate con le informazioni riguardo gli scontri"
Confuso per l'interruzione, Jehan riprese il discorso.
"Ehm...ovviamente mio signore...Dunque, i signori dei fiumi del nord hanno riunito i vessilli e si stanno dirigendo verso la costa petrosa, a nord ovest. Parte dell'esercito regolare è stata inviata a sostegno di questi ultimi, mentre sono scoppiati diversi tumulti nei centri della brughiera, dove altre fazioni rivali si colpiscono l'un l'altra. Abbiamo dovuto allontanare parte dei soldati schierati ai confini con Ambroise per intervenire in questi e altri scontri"
"Senza contare il degrado e la distruzione che lasciano i conflitti sulle terre! Che restano improduttive! Che vengono depredate e infestate da quei mefitici zingari che si aggirano per tutto il regno!"
Il magistrato parve aver perso il controllo, ma si riprese immediatamente, rivolgendosi ancora al condottiero.
"Cosa ne pensate di questa situazione?"
Come ignorando la domanda del giudice, il Capitano concluse il suo discorso, rispondendovi ugualmente.
"Miei lord, se vogliamo evitare la dispersione dell'esercito in tutto il paese, bisogna agire in fretta. Il numero di soldati è troppo esiguo perchè possano sostenere ancora questa situazione"
Calò ancora una volta il silenzio, mentre ognuno dei grandi del reame soppesava il significato di quelle parole.
Tremaine era momentaneamente fuori gioco quando Frollo riprese ancora la parola.
"A fronte di questi problemi potremmo scendere ad un compromesso con Umberto"
Tremaine sgranò gli occhi, ma Frollo non si fece intimorire.
"Lasciamo che il progetto di unificazione dei regni auspicato dal nostro defunto Re riprenda vigore ed invitiamo Umberto e il principe Filippo a tornare presso la nostra corte"
"E svendere la principessa alla loro mercè comportandoci come dei vigliacchi bastardi!?"
La reazione del rivale fu improvvisa, ma non inaspettata.
"Non permetterei mai che la nostra giovane erede si ritrovi sotto l'ala di quell'idiota bifolco!"
"Meglio sotto la vostra, forse?"
Il commento fece vacillare Tremaine, che spostò lo sguardo da un angolo all'altro della sala in pochi attimi.
"Ministro, dovreste essere processato per questo vostro giudizio! Il principe sarà anche solo un giovane, ma Umberto non si lascerà scappare l'occasione di mantenere il suo controllo su tutta l'area!"
"E se avessimo come garanzia la vicinanza di Filippo?"
Altre voci, sempre più forti, sempre più urlanti fecero irruzione nel discorso.
Ogni Lord e alto funzionario voleva dire la sua, ma Tremaine, l'astuto Tremaine, liquidò tutte le incertezze con una sola frase.
"Umberto potrebbe procedere con la revoca e la riassegnazione dei titoli ai suoi!"
Tutti sapevano che ciò significava la perdita di terre, ricchezze e privilegi.
Alla fine il disastroso dibattito si protrasse per un tempo che a Serenella parve interminabile, ma, sul concludersi, una consistente maggioranza appoggiava Tremaine, con suo sommo orgoglio.
Frollo, sconfitto dall'avidità del Consiglio, non si riserbò dal tentare di ottenere almeno un'unica soddisfazione.
"Vostra Maestà" disse rivolgendosi direttamente alla regina "Vi prego almeno di accordare l'annullamento della 'Festa dei folli' che dovrebbe tenersi tra una settimana. Le nostre truppe non sono nelle condizioni di setacciare un'intera città abbandonata all'ebrezza"
Il Capitano Jehan si ritrovò completamente d'accordo e la Regina approvò la sentenza, permettendo al giudice di immaginare con soddisfazione la delusione di una giovane conoscenza, di 5 anni appena, segregata su un campanile, che avrebbe aspettato invano quella degradante celebrazione.
A quel punto i lord si riunirono per discutere delle nuove manovre dell'esercito sul campo, ma le fate avevano già sentito abbastanza e si diressero verso gli appartamenti della principessa.

"Volete dire....che avrei veramente potuto rivedere il mio Filippo?"
Aurora quel giorno era rimasta a letto poichè accusava un forte mal di pancia.
Quando le madrine le riportarono quanto appreso, si abbandonò tra le coperte, sconfortata.
"Vorrei tanto fuggire da qui..."
"Bambina mia, non dire così" Fauna era sempre la più dolce in quel genere di contesti.
"Vedrai che il principe tornerà a salvarti, voi siete destinati a stare insieme, cara"
"Tu lo credi davvero?"
"Ma certo cara!" rispose Flora.
"Non c'è nulla che ora possiamo fare se non-
"Ooohoh! Perchè invece non cerchiamo di risolvere le cose per conto nostro!?"
La voce seccata di Serenella arrivava sempre per ultima, ma non capitava di rado che dicesse cose intriganti.
"Cosa vorresti dire zia?"
La principessa serbava un forte sospetto che, però, aveva troppa paura di esprimere.
"Dico che ormai sei abbastanza grande per cercare una soluzione da sola! Dico che sei l'erede di un re! Non merce di scambio come quelli vorrebbero farti intedere! Dico quello che ho detto! Che puoi decidere anche tu!"
"Vuoi dire governare?" chiese la giovane, anche se la risposta era evidente.
"Ma io non so niente di come si governa!"
"Serena, cara!" Flora era turbata da quella rivelazione.
La fata blu non le diede retta e continuò "Pensa! Sarebbe più bello che mai se Filippo sapesse che lo aspetti qui! Senza dover dipendere da nessuno! Libera di sposarlo come vorresti!"
"Ma da sola...io non so se..."
La fata rossa le si accostò, accarezzandole la testa.
"Ma tu non sei sola, Rosa, ci siamo noi con te!"
Flora aveva compreso il fine del discorso di Serena.
Molti membri del consiglio erano corrotti e disonesti. Qualcosa non funzionava, qualcosa di importante.
Loro, come esseri fatati, se ne erano rese conto da tempo, ma non avevano il potere di agire per difendere la loro protetta.
Ma se avessero avuto la capacità di tenersi stretti Aurora e Filippo, una volta assurti al trono, avrebbero potuto allontanare i corrotti membri del Consiglio e ritrovare finalmente quelle tanto agognate verità e giustizia di cui era permeata la stessa spada di Filippo, che aveva trafitto Malefica.
Aurora interruppe i suoi pensieri.
"È evidente che nessuno comprenda cosa sia meglio per me, ora. Pertanto penso proprio che dovrò pensarci da sola"
Le fatine verde e blu annuirono rassicurandola accanto a lei, mentre la guidavano davanti al suo piccolo scrigno portagioie.
Aurora prese in mano la sua corona. La soppesò qualche minuto tra le mani, in silenzio. Infine si girò e disse "Voi mi regalaste questa corona, dicendomi che per diritto mi sarebbe spettata. Ed io credo che ora ne farò uso"
Fauna e Serenella applaudirono, ma l'espressione di Aurora tradiva la sicurezza che tentava di mostrare.
Per qualche motivo Flora sentiva che c'era qualcosa di insolito in tutto ciò.
La principessa che prendeva le redini come un re.
Certo non sarebbe stato facile...in qualche modo bisognava leggittimare i diritti ereditari di Rosaspina...Impedire a lord e magistrati di fare manbassa della sua inesperienza...
Trovato!
"Mia cara, deve esserci un testamento!"
Le altre tre la osservarono senza capire.
"Qualcosa che Stefano ci abbia lasciato, un progetto che potremmo utilizzare!"
"Ma nessun testamento è mai stato trovato dalla sua dipartita, cara" le rispose Fauna.
"Perdonate l'interruzione, mie signore"
Le presenti si voltarono all'unisono verso la fonte della voce.
Il Ministro di giustizia Frollo era retto sull'uscio della porta, ad osservarle con la sua espressione sprezzante nei confronti di chiunque.
Tutta la sicurezza raccimolata da Aurora svanì in pochi attimi.
Con una riverenza troppo accentuata salutò il nuovo arrivato.
"Desidererei conferire con la principessa, in privato"
Non volò una nota.
Farfugliando qualcosa come "Ma certo milord", Aurora si avvicinò subito all'uomo e i due si incamminarono al di fuori delle stanze.

"Confido che abbiate saputo della decisione del Consiglio di tenervi qui a corte"
"Sì" rispose con un sussurro. Non sapeva che cosa dire.
Il silenzio si era fatto imbarazzante mentre passeggiavano per gli infiniti, e al momento troppo grandi, corridoi del palazzo.
Sbirciò il suo interlocutore con la coda dell'occhio.
Era più alto di lei, ed estremamente magro.
Sebbene non fosse ancora da considerarsi un uomo anziano, di certo mostrava più anni di quanti non ne avesse realmente.
I capelli già brizzolati, tendenti al grigio, e gli occhi procini incastonati nei suoi lineamenti severi.
"Vostra Grazia, mi sento in dovere di porvi le mie sincere condolianze per la situazione in cui siete stata versata.
Purtroppo il Consiglio Regale è pieno di subdoli sobillatori pronti a far valere i propri interessi prima di ogni altra cosa"
"C-che volete dire?" chiese lei atterrita.
"Temo che ci siano poche probabilità che riusciate a rivedere il vostro amato, tutto per colpa dell'influenza di alcuni signori su molti altri, che traggono disgustosi vantaggi dal trono vacante. Reprovevole, non trovate?"
"Io...credo di sì, mio signore.."
Frollo si fermò davanti ad una grande finestra che affacciava sulla Capitale.
"Venite, mia signora, osservate"
Lo scenario dei tetti delle case colpite dai colori del crepuscolo era reso macabro dalle enormi colonne di fumo che si stagliavano in vari punti.
Alcuni uomini alla gogna si trovavano proprio nella piazza difronte al castello, e, più in là, si poteva scorgere un manipolo di soldati dividersi in gruppi e setacciare alcune vie.
"E questo è solo quanto accade in città, principessa"
Frollo posò lo sguardo su di lei.
"La fuori, in tutto il regno, è molto peggio"
Fece un passo avvicinandosi a lei e poggiandole una mano sulla spalla nuda dalla scollatura.
"La gente muore e patisce fame e malattie mentre i traditori della corona appestano le loro case e distruggono i loro raccolti per poi lasciarli nelle mani dei ladruncoli zingari che infestano questo paese come mosche!"
Le dita le stringevano la pelle e le facevano male.
L'uomo la guardava con occhi folli mentre non staccava lo sguardo dai suoi.
"Non si può mai sapere cosa accadrà! Mentre il fuoco dell'inferno continua a bruciare per mano di dei mostri che infestano il nostro palazzo!"
Aurora stava per urlare, mentre il viso dell'uomo si fece semlre più minaccioso, più vicino...
Ma venne interrotta da una terza voce.
"Frollo! Non starete torturando la nostra principessa con le vostre ridicole quisquiglie!?"
Quel vocione sgraziato apparteneva a Lord Tremaine.
In piedi eretto dietro di loro, il naso schiacciato e gli occhi grandi e irregolari.
I capelli rossi ricadevano arruffati sulle spalle.
Il giudice gli scambiò uno sguardo velenoso che fu presto ricambiato.
"Ma voi, piuttosto" chiese "che cosa fate qui? Origliate le conversazioni altrui?"
"Sono qui per accompagnare sua grazia dalla sua nuova guardia personale!"
Tese una mano alla principessa, sorridendola ed invitandola a seguirlo.
Aurora lo osservò e poi si voltò verso Frollo, indecisa su cosa fosse opportuno fare.
Tuttavia il Ministro stava guardando sprezzante il rivale, quindi lo salutò appena e si avviò con l'altro uomo.

Tremaine la prese a braccetto, conducendola in un'ala del castello che meglio riconosceva.
Nonostante l'aspetto rude, sapeva essere estremamente delicato, constatò.
"Domando scusa per qualsiasi cosa vi abbia detto quell'esaltato! È talmente ossessionato dal male che non si accorge di essere davvero fuoriluogo!"
Scoppiò in una sonora risata, mostrando i denti gialli e sporchi.
"Vi assicuro, altezza, che la nostra risoluzione non è mai stata più efficace!"
Aurora si voltò a guardarlo e si sforzò di sorridere, se non altro per educazione.
"Molti signorotti vorrebbero usare il matrimonio per giungere al potere! Ma noi non permetteremo che voi cadiate in balia di qualche villico nobiletto di campagna!"
Nel tono altezzoso e sprezzante riconosceva tratti dell'espressione di Frollo.
"Non vi angustiate, tutto è sotto il nostro controllo! La sicurezza e la stabilità del regno sono le nostre priorità e già stiamo grandemente rimediando a queste lievi scaramucce tra signori! E staneremo anche coloro che hanno attentato alla vita di vostro padre, parola mia!"
Aurora non sapeva come rispondere. Le pareva di vedere l'altra faccia di una medaglia condivisa tra Frollo e lord Tremaine.
"Ma ora vi prego, entriamo"
Non si era resa conto che si trovavano di fronte ad una grande porta chiusa.
Una guardia la aprì per lasciarli passare e i due si incamminarono.

Il comandante Jehan sembrava piuttosto eccitato.
Vederlo, nella sua armatura d'orata con tanto di mantello blu, sorridere in quel modo era quasi esilarante.
"Maestà, permettetemi di presentarvi mio figlio! Febo de Chateaupers!"
Aurora si voltò e vide il giovane rigidamente in piedi di fronte a lei.
Era alto poco più di lei, con i capelli biondo paglia, lunghi appena appena sotto le orecchie e una barbetta immatura sul mento.
Gli occhi scuri e le sopracciglia, folte come quelle del padre, corrugate in segno di estrema attenzione.
Si inchinò impacciatamente quando lei lo guardò, schiacciato dall'armatura argentata.
"Vostra Grazia" si limitò a dire. Doveva avere poco più della sua età.
"È stato investito cavaliere da pochi anni, ma è già un giovane valoroso uomo!" esclamò Tremaine soddisfatto.
Nonostante i toni militari, Aurora scorse agitazione nel suo modo di fare.
Doveva essere molto nervoso. Questo la inteneriva.
Sarebbe stato interessante, forse era l'unico che la considerava importante, al momento.

"Ti chiami Febo, giusto?"
"Sì mia signora, vuol dire...DioSole"
"Ti prego, non chiamarmi così, va bene anche se prendi della confidenza"
Il ragazzo sembrò sorpreso.
Erano da ore chiusi nella stanza mentre Aurora si sforzava di leggere un libro sotto lo sguardo del nuovo arrivato, che la metteva troppo a disagio per fare qualsiasi cosa...
"Ma vostra grazia..."
"Mi sembri molto teso, come mai?"
Lì per lì Febo era talmente preso alla sprovvista dall'improvviso interesse della principessa nei suoi confronti che si dimenticò di rispondere.
Ma, colto il suo errore, si sforzò di dire qualcosa.
"Nessuna tensione...vostra maestà. Solo qui per proteggervi"
"È il primo incarico che ricevi?"
"Sì, altezza"
"Allora è per questo che sei teso"
La conclusione della ragazza lo colse in contropiede.
Non si aspettava di trovare davvero qualcuno che si interessasse a lui, a corte.
"Perchè non ti siedi?" gli chiese indicandogli una sedia.
Febo si avvicinò, senza tuttavia sedersi.
Era tutto troppo nuovo e strampalato.
Aurora sembrava attendere, finchè non cambiò strategia.
"Allora ti ordino di sederti"
La giovane guardia, ancora troppo sbalordita, fece quello che gli venne ordinato.
"Ora dimmi, un'ultima volta, cosa ti turba?"
"Beh..altezza..."
Febo si arrese.
Forse era quello che lei voleva davvero. Semplicemente parlare.
"...vedete...proteggervi è un incarico di grande responsabilità"
"Sono sicura che nessuno potrebbe svolgerlo meglio di te"
La voce della principessa era dolce come il miele e sembrava anche sincera.
"Sono preoccupato anche per mio padre"
"Vostro padre?"
"È il Capitano della Guardia...e tra pochi giorni partirà per mettere fine alle rivolte"
"Sei preoccupato per lui?"
Febo la guardò annuendo.
Scoprì di aver proprio bisogno di confidarsi con qualcuno, e forse l'austerità di quel luogo faceva sì che anche la principessa ne avesse bisogno.
Si chiese perchè non avesse dame di compagnia.
"Vostro padre è esperto ed un forte combattente, sono sicura che non avete motivo di temere per la sua vita"
La sua mano delicata sfiorò quelle del ragazzo, in segno di sostegno.
"Tuttavia penso di potervi capire meglio di chiunque. Mio padre...era il re"
"Perdonate principessa, non era mia intenzione ricordarvi che-
"Nessun problema, é successo e basta"
Improvvisamente ad Aurora balenarono nella mente delle parole lasciate in sospeso.
Si alzò dalla sedia come ipnotizzata dai suoi pensieri.
L'altro si rialzò di scatto e si rimise sull'attenti.
"Vieni con me Febo, dobbiamo andare in un posto"








Ehilaaaaaaaa lettori e lettrici (?)
Beh intanto mi presento! Salve a tutti! Sono Ciel Shieru Chan (e grazie al c***)
Sono la mente anormale che ha creato la nostra storia!
E, se ve lo state chiedendo, mi faccio sentire solo ora perchè volevo che prima vi approcciaste un po' alla storia senza il mio intervento! Anzi...avrei dovuto fare la mia comparsa dopo....tuttavia ho deciso di apparire ora perchè questi primi capitoli vanno un po' troppo a rilento e nonostante vorrei andare più veloce per permettere alle frotte di altri personaggi di apparire, non posso permettere che l'inizio della storia venga male! Ma vi prometto che dal prossimo capitolo appariranno altri nuovi (vecchi) protagonisti!
Ho pensato a questa storia, non ve lo nascondo, perchè ho letto e visto "Il Trono di spade", e dato che io adoro quei libri/quella serie e adoro anche la Disney, ho deciso un po' di metterle assieme.
Mi spiego, questo non è un crossover dove i personaggi Disney entrano a Westeros.
Sono gli amati e indimenticabili protagonisti della nostra infanzia catapultati in una dimensione più adulta della loro vita.
Sì perchè come molte delle fiabe da cui sono tratti, essi rappresentano spesso il passaggio tra giovinezza ed età adulta!
La nostra giovane Aurora già deve fare i conti con il peso del potere!
Quindi mentre leggevo i benedetti capolavori di Martin mi chiedevo "Come funzionerebbe se in un mondo più o meno parallelo, il Regno delle Fiabe appunto, dovessero essere i famosissimi personaggi a dover prendere questo genere di decisioni? Si tratta pur sempre di principi, principesse ed eroi, no?
Ovviamente accetto e ringrazio ogni genere di recensione e consiglio, positivi o negativi!
E chissà...magari anche qualche parere su come 'rendere' i personaggi che preferite! Fatevi sentire per favore! È la prima storia che pubblico!

Vi auguro un buon proseguimento e soprattutto una buona lettura!!

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Capitolo 4
*** capitolo 4 ***


"Non vi angustiate, tutto è sotto il nostro controllo!”
Le parole di Lord Tremaine le risuonavano nella mente con il sinistro sapore di un inganno.
Il nostro…piuttosto il LORO controllo!
Le mani le scivolavano nervosamente sul pesante scrittoio di quercia, armeggiando con chiavi e cassetti, alla disperata ricerca dell’unica fonte di salvezza che poteva aiutarla al momento, ammesso che fosse proprio lì, ma, osservandosi intorno, non v’erano molti altri luoghi dove avrebbe potuto trovarsi, considerata la semplicità di quelli che erano gli appartamenti di suo padre.
Aurora si voltò ad osservare Febo, posizionato di guardia davanti alla grande e scura porta di legno socchiusa, con le mani tese sull’elsa della spada, che lo sosteneva poggiando per terra con la punta della lama, mentre scrutava, teso, il vano d’ingresso appena fuori dalla stanza e il lungo corridoio che si estendeva da esso verso l’oscurità degli infiniti corridoi del palazzo.
“V…vostra grazia”
Si schiarì la voce tossendo.
“Io…io non mi permetterei mai di dissuaderla, ma se voi voleste almeno spiegarmi che cosa avete intenzione di fare potrei…ecco…aiutarvi”
La principessa sospirò mentre si guardava intorno.
Oltre al grande, immenso letto a baldacchino, rifinito elegantemente con boiserie in legno rappresentanti motivi floreali, fino ai due delfini che ne fungevano da piedi, non vi erano altro che i grandi arazzi che coprivano le fredde pareti, i pesanti, lunghi tendaggi verdi scuro e oro che, dalle altissime bifore gotiche, opprimevano la sala nella penombra, impedendo alla luce e alla brezza primaverile della sera di entrare, oltre che una scomoda panca di metallo con vari cuscini ricamati e lo stesso scrittoio su cui stava armeggiando con impazienza.
Era riuscita a scovare due piccoli vani nascosti nelle spesse gambe del mobile, ma nessuno dei due conteneva quello che cercava.
Proseguendo con le dita, adoperando più cautela ed attenzione possibile, tradita unicamente dall’affanno dei suoi respiri, carezzò una piccola protuberanza fredda sottostante l’asse principale della scrivania.
Doveva essere certamente un pomello!
Tuttavia, data la sua locazione, non riusciva a capire da che parte dovesse spingere, o quantomeno tirare, anche se l’impugnatura pareva girare su sé stessa.
Si chinò con grazia, scostando l’abito e poggiando delicatamente le ginocchia contro il tappeto, reso ispido dalla mancanza d’aria.
Si tolse la corona dalla testa e la poggiò con cautela e delicatezza accanto a lei, sulla sinistra.
Fece per roteare il busto, poggiandosi con un braccio sotto al mobile, per controllare direttamente, mentre con l’altro si teneva i capelli per evitare che toccassero il pavimento pieno di polvere, quando notò dal tintinnio dell’armatura che Febo si stava avvicinando per offrirle il suo aiuto.
Stese il braccio scuotendo la mano.
“No tranquillo, posso farcela, tu resta di guardia, per favore”
Poteva? Non ne era sicura…ma non voleva far fare tutto a lui.
Anche se in pratica non aveva mai fatto nulla del genere.
Anzi non aveva mai fatto nulla di pratico e basta.
Neppure lavorare all’uncinetto le era mai riuscito bene, ed ogni volta, nonostante questo, le fate la guardavano sempre con quell’aria compassionevole.
Poteva giurare di aver sentito, una volta, zia Serenella sussurrare: “Fortunatamente non ha dovuto ricamare il proprio viso, come quello di una bambola”
In quel momento le era apparsa come la chiara impressione che si stesse riferendo proprio a lei.
Ecco. Ora i capelli erano scivolati, toccando per terra.
Febo si era fermato sull’attenti a metà del percorso, nel bel mezzo della sala.
“Come desiderate vostra grazia”
La situazione stava diventando alquanto insolita.
Tutto a un tratto la principessa si era alzata dalla sedia, come incantata, lasciando scivolare il libro per terra, intimandogli di seguirla.
E adesso eccola lì, in quella posizione decisamente indecorosa mentre…ancheggiava davanti a lui…
Scosse la testa e distolse lo sguardo arrossendo, rimproverandosi.
Certe cose non si dovrebbero nemmeno pensare!
Ma per quale ragione si era improvvisamente ridestata in quel modo?
 
Successivamente essere usciti dalle sue stanze, dopo un momento di incerta indecisione, Aurora si diresse con passo furtivo verso sinistra, attraversando, forse più sgattaiolando come un topolino in trappola, lungo gli immensi, altissimi, gelidi corridoi cupi del castello, tappezzati di tende, drappi e lunghissimi arazzi raffiguranti paesaggi, scene di caccia o di amor cortese che, in differenti circostanze, le avrebbero riportato alla mente Filippo, ma che, in ogni caso, non ravvivavano l’ambiente.
Le ci volle del tempo per orientarsi, mentre con esitazione proseguiva per il suo stesso palazzo, pensando e rimuginando sulle parole di Flora
“Deve esserci un testamento!”
Doveva esserci? Ci sarebbe stato?
Domande del genere l’angustiavano, infestandole la mente come uno sciame di vespe.
Non si sentiva né sicura, né convinta di stare compiendo la scelta giusta, una cosa, comunque, l’aveva compresa e doveva tenerla bene a mente: era necessario giocare d’astuzia, e se una possibilità era rappresentata da quel foglio di pergamena che, a quanto ne sapeva, rappresentava le ultime volontà di suo padre, per tanto sicuramente benevole nei suoi confronti, valeva la pena tentare.
L’avrebbe aiutata ad allontanare tutti quegli uomini dalle intenzioni poco chiare che l’angosciavano, o magari avrebbe ribadito una volta per tutte che avrebbe sposato il principe Filippo, dissolvendo ogni altro genere di evenienza.
Si ritrovò a gesticolare con il dito indice, puntandolo verso il nulla innanzi a lei, fendendo l’aria mentre camminava.
Quando, tuttavia, il nome del suo amato si fece strada nella giostra delle sue speranze, rallentò il passo fino a fermarsi davanti una stretta finestra, dove, senza neppure avvicinarsi, si limitò a ruotare il capo appena appena verso destra, osservando con la coda dell’occhio il panorama della brughiera circostante, con il Sole che si avviava a posarsi placidamente presso il suo consueto alveo di nubi dorate, incurante delle nulle tribolazioni dei piccoli uomini sulla Terra.
Febo la raggiunse dopo pochi attimi, levandola dai suoi assidui pensieri.
Si avvicinò a lei, senza naturalmente toccarla.
“Vostra grazia…”
La principessa si voltò e gli sorrise tentennante, senza riuscire a nascondere lo sconforto.
Se non fosse arrivato lui così di punto in bianco, forse non sarebbe neppure riuscita a cogliere il coraggio per recarsi presso i vecchi appartamenti di suo padre.
“Sto bene” confermò prima che potesse farle qualsiasi domanda, ma quando sollevò lo sguardo dalle pieghe dell’abito constatò che il ragazzo non stava osservando lei, ma qualcosa che si trovava oltre la sua figura.
Si voltò e finalmente notò un’alta figura davanti al grande portone di legno che segnava l’accesso alle stanze del padre.
Era un soldato, chiaramente.
Il che non era inusuale, ma solitamente le pesanti ante restavano aperte, a meno che non fosse il Re a richiedere altrimenti.
Poi, a pensarci meglio, perché mai una guardia avrebbe dovuto montare di guardia a delle sale ormai vuote?
Si girò di nuovo, guardando il giovane con aria incerta, approssimando un cenno con il capo, come a chiedere la sua approvazione, ma questi la poteva ricambiare solo con le sopracciglia aggrottate in un’espressione interrogativa e vagamente inquieta.
Aurora serrò i pugni e chiuse gli occhi, prendendo un profondo, tremolante respiro.
Poi si rivoltò un’ultima volta e riprese a camminare, con l’altro al seguito.
Cercava di imporsi, nel breve tragitto verso la guardia che li scrutava gonfiando il petto, di tenere il mento alto, il naso all’insù e lo sguardo perentorio.
Ma l’uomo restava comunque più alto.
Una volta giunta innanzi a lui, dopo quella che le parve un’infinita processione, cercò di sostenere il suo sguardo, impresa difficile visti gli occhi di ghiaccio dell’uomo, lasciando tessere al silenzio un’atmosfera pesante.
Il suo mento pronunciato, con la fossetta, ricoperto di barbetta ispida, e il naso aquilino erano incorniciati dalla mascella possente e dai capelli color del mogano che, liberi dall’elmo, ricadevano sull’attaccatura del mantello bianco alla corazza metallica.
“Ebbene…Desiderate?”
L’improvviso intervento di quella voce roca e malevola tradì in lei un'espressione di mal celato imbarazzo.
Lo sguardo del milite soppesò tra lei e il compagno, fino a fermarsi sulla spada di quest’ultimo.
Rosaspina mandò giù un amaro boccone, che si annodò al suo stomaco, e ribatté cercando di ostentare tutta la sicurezza che le era mancata fino a quel momento…dall’inizio della sua vita.
“Desidero vedere gli appartamenti di mio padre”
L’altro, sorpreso, distese le sopracciglia e socchiuse le labbra, ma solo per brevi attimi, perché si riprese.
Accennò un inchino con il capo, ma subito dopo divaricò le gambe e gonfiò nuovamente il petto.
“Temo che non sia possibile, altezza”
La ragazza fece per voltarsi e tornarsene indietro, fino ai suoi appartamenti, ma Febo le saettò accanto e intervenne.
“Non hai sentito? La principessa ti ha ordinato di lasciarla passare”
Lo redarguì acidamente.
Stavolta fu lei a rimanere stupita.
“E tu non hai capito? Ho detto che non è possibile”
Istintivamente, la mano di entrambi si diresse repentina verso l’elsa delle rispettive lame.
Come offeso, il più grande si chinò lievemente, per guardare negli occhi l’avversario e sussurrò.
“O te lo devo spiegare in modo più chiaro, ragazzino?”
Febo si avvicinò ancora di più.
Fece per rispondere, ma Aurora glielo impedì alzando la voce nell’intento di farsi ascoltare da entrambi.
“Lascia perdere, Febo”
Entrambi si voltarono a guardarla mentre lei già si era voltata ed aveva cominciato a camminare.
“Credo proprio che dovremo far spostare il nostro cavaliere a guardia delle segrete…dentro o fuori che sia, non ha importanza…”
L’uomo sgranò gli occhi e sbiancò.
“…se poteste essere così galante da farmi sapere il vostro nome”
“Maestà…ho ricevuto ordini precisi riguardo il non fare accedere nessuno”
“E sono sicuro che chiunque ti abbia dato quegli ordini non abbia l’autorità per impedire alla principessa di fare come crede opportuno”
Febo sostenne Aurora, che sembrava stesse per svenire per via di un qualche immane sforzo.
L’uomo gli lanciò un’occhiataccia velenosa prima di rispondere rivolgendosi a lei.
“Io…non…non ne sono certo…mia signora”
“Allora va’…e fa in modo di esserne certo”
Ora osservava entrambi, alternativamente, indeciso sul da farsi.
“…oppure puoi sempre dare a sua grazia il tuo nome”
Senza voltarsi, l’uomo si incamminò scostandolo malamente e accennando un altro inchino impacciato ad Aurora.
La giovane guardia della principessa sorrise compiaciuta.
Sapeva che la maggior parte dei soldati, a differenza sua, non era istruita neppure sulle più piccole cose, e aveva compreso che questo incideva, poi, sulla capacità di ragionare e prendere decisioni in seguito.
Una volta impeditogli di fare il prepotente era stato facile metterlo da parte.
Aprì a fatica il portone e si scostò per far accedere Aurora, facendo un inchino in segno di rispetto, ma quella, anziché entrare, si soffermò davanti a lui poggiando una mano sulla sua spalla.
“Non so come ringraziarti, sei stato…”
Il suo sguardo commosso rendeva la situazione molto più seria di quanto non gli apparisse.
O forse per lei lo era…
 
Ridestandosi dai suoi pensieri, Febo notò un folto gruppo di persone che dal corridoio, proprio da dove erano giunti loro due, si dirigeva verso di loro.
Distinse la guardia che avevano allontanato, ma anche la regina madre, in un grande abito scuro, oltre che diversi uomini in armatura.
Trasse un profondo respiro.
Col senno di poi, lasciarlo andare era stata una pessima idea.
“Vostra grazia…”
Aurora si voltò.
“…temo che il tempo sia scaduto”
La principessa sgranò gli occhi con orrore.
Il ragazzo attraversò la sala a grandi falcate, avvicinandosi a lei per aiutarla ad alzarsi dal pavimento.
Lord Tremaine, nella sua solita armatura, fece irruzione nella stanza colpendo le ante come fossero fatte di carta, le quali sbatterono comunque con fragore contro il muro.
Immediatamente dopo fece il suo ingresso la regina Leah, seguita dalla guardia di prima, diversi uomini, che Febo riconobbe come alti nobili e dei soldati.
“Mia principessa!?”
Esordì Tremaine con voce rude e la sua solita aria concitata e i movimenti sgraziati.
“Cosa fate in questo ameno luogo di malinconici ricordi?”
La giovane, improvvisamente rigida, con lo sguardo rivolto verso il basso, le braccia stese e le dita intrecciate, non proferì parola.
Lo sguardo del lord balenò per qualche istante su di lui.
Aurora si decise a rispondere, forse più per educazione che altro.
“Io…io…cercavo…”
L’uomo inarcò un sopracciglio e tornò a scrutarla, ma vedendo che non si decideva a proseguire, tentò di insistere con delicatezza.
La regina si fece avanti, oltrepassando l’uomo, per avvicinarsi a sua figlia.
“Mia cara…”
Le accarezzò il braccio con gentilezza, osservandola con un’espressione preoccupata e rassicurante al tempo stesso.
“Ma su! Vi prego! Usciamo tutti da qui! E’ senz’altro un posto pieno di ricordi!”
Tremaine poggiò energicamente il braccio sulla spalla di uno di quei signori baffuti, che sobbalzò, e cercò di condurlo verso la porta, sperando di essere seguito dagli altri.
“…sembri molto confusa”
La madre le prese la mano.
No.
Non potevano portarla via così.
Non poteva vivere un altro giorno come quelli visti fino ad ora.
Lo sguardo le atterrò sulla spada infoderata di Febo.
Avvertì un fischio assordante all’orecchio.
“Forza mia cara, la tensione di questi ultimi avvenimenti deve avervi sfinita! Siete alquanto pallida dopotutto!”
L’uomo le indicò la porta con un eloquente gesto del braccio.
“Farò chiamare Flora, vuoi figlia mia?”
“Ma certo! Certo! Un po’ di compagnia non può che rinvigorirvi!”
Le voci del lord e di sua madre si fecero sempre più confuse.
Le sue pupille non si erano staccate dall’arma di Febo.
Poi fu come se il tempo si fosse dilatato.
All’improvviso strattonò il braccio per allontanare la regina e afferrò l’elsa dalla fodera di Febo, che colto alla sprovvista, si scansò per non ferirla accidentalmente.
Estrasse la lama, molto più pesante di quanto non si aspettasse, ma riuscì a menarla verso l’alto.
Le braccia le bruciavano come mai prima di allora.
Mentre roteava, fendendo l’aria, sentì la sua presa venire meno.
Il fischio sordo del metallo affilato che fendeva l’aria si fece sempre più forte.
La sensazione delle dita che perdevano la stretta era come se centinaia di piccole spine smussate le graffiassero la mano.
Alla fine la spada trafisse da parte a parte quel maledettissimo scrittoio.
Poté avvertire il rumore amplificato decine e decine di volte.
Poté sentire il mobile sfaldarsi come fosse fatto di cera.
Poté vedere le schegge di legno volare dappertutto, e il viso sbalordito ed esterrefatto di sua madre e di Febo e di tutti gli altri.
Alla fine la punta della lama atterrò violentemente contro la nuda pietra, producendo un’abbagliante scintilla.
E quegli infiniti, immobili attimi di tempo tornarono a farsi reali.
“Santissimi numi…ma cosa…!!?”
Sbottò Tremaine.
“Aurora!”
Fu il turno di sua madre.
“Vostra grazia!”
“Principessa!”
“Altezza!”
“Vostra maestà!”
Pian piano tutti i presenti ripassarono gli appellativi reali a suon di esclamazioni di stupore.
Solo Febo rimase zitto, con gli occhi sbarrati, ma comunque in silenzio.
Mentre la regina pareva non riprendersi.
D’altronde avrebbe potuto colpirla in pieno…
La ragazza non sollevò lo sguardo dai resti di legname.
Non si mosse, non chiese scusa.
Con la fronte aggrottata e l’espressione ridotta a quella di un folle spirito, osservava ogni angolo della pila.
Le guardie presenti si erano ovviamente avvicinate al luogo del delitto.
Uno di loro estrasse un foglio di pergamena gialla arrotolato, chiuso con una colata di ceralacca rossa su cui era apposto il sigillo della rosa regale.
Nonostante Tremaine cercò di intercettare lo sguardo dell’uomo, questi si avvicinò alla sovrana, che, sotto gli sguardi sgomenti di tutti, spezzò il timbro.
“E’ un testamento”
Proferì con un fil di voce.
“Suggerirei a tutti noi di trasferirci nella sala del concilio per…analizzare la questione”
Intervenne ancora il lord annuendo con il capo per convincere gli altri signori.
Né Aurora, né Febo, troppo provati, reagirono.
“Mio signore…perché mai trasferirci in un’altra sede, quando siamo già tutti qui?”
L’inconfondibile, acuta, austera, assertiva voce del Ministro di giustizia Claude Frollo fece irruzione nella sala.
“Perché…mio…caro, caro amico…codesto non è certamente il luogo adatto per discorrere di cotali novità! Andiamo! Non sappiamo neppure se il documento presente è autentico!”
Frollo si avvicinò alla regina con spavalderia.
“Questo sta a me soppesarlo”
La donna gli porse con delicatezza la pergamena, e il Ministro la ringraziò con un profondo inchino, dopo di che infilò il naso nella carta e dopo alcuni, interminabili secondi, dove il tempo parve tornare a giocare con tutti loro, dichiarò:
“E’ indubbiamente autentica. Il timbro, la scrittura e la firma appartengono senz’ombra di dubbio a sua altezza reale re Stefano di Neustria”
Gli altri lord si erano avvicinati per scrutare sul foglio.
“E qui dice…che date le ultime, recentissime circostanze, sua grazia reale Aurora di Neustria, principessa e sua erede…”
Aurora si ridestò da quell’incanto temporaneo, con il cuore che batteva nel petto come l’impatto del fuoco violento di un drago contro lo scudo di un cavaliere.
“…In conclusiva istanza…dovrà sposare sua signoria Adam di Villeneuve, duca di Villeneuve e signore di Beaumont*”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*In riferimento ai titoli e alle terre del principe Adam, ho deciso di usare i nomi delle due “scrittrici originali” che hanno riadattato e scritto la favola de “La Bella e la Bestia” appunto, rispettivamente Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve e Jeanne-Marie Leprince de Beaumont.

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Capitolo 5
*** capitolo 5 ***


Era da poco tornato a palazzo, quando il sole si era tuffato dietro l’orizzonte, liberando quelle onde dorate che altro non erano che le nuvole in cielo.
La carrozza trainata dai cavalli bianchi era giunta, dopo aver oltrepassato i grandi cancelli di ferro battuto e girato il cortile d’ingresso, fin davanti alle stalle, dove Adam scese frettolosamente per dirigersi all’interno del palazzo.
Camminava a lunghe falcate con passo svelto per le grandi, luminose sale di mattoni ricoperti di intonaco bianco con le alte volte incrociate, nelle quali erano conservate le vecchie carrozze ed i calesse.
Poteva sentire l’eco dei suoi passi rimbombare nel vuoto.
Salì poi a due a due i gradini di una larga scalinata di marmo, fino a che non entrò in un corridoio che lo fece sbucare lateralmente nell’ingresso principale.
Immediatamente Lumière fece la sua comparsa venendogli incontro.
Adam lo intercettò con lo sguardo e si avvicinò a lui osservandosi attorno, per non farsi sentire, ond’evitare che Belle potesse trovarsi nei paraggi, nonostante avesse dato precise disposizioni quella mattina.
“Allora??”
Chiese sussurrando con impazienza al maître del castello.
“Com’è la situazione?”
L’uomo sembrava esausto.
“Le abbiamo pvovate tutte padvone! Ma voi sapete com’è acuta la vagazza!”
Rispose con esuberanti movimenti delle braccia e il suo tipico accento moscio.
Rise tra sé e sé.
Sì lo sapeva, l’amava anche per questo, era troppo furba per riuscire a prendersi facilmente gioco di lei.
“Ora dov’è?”
Chiese divertito, carezzandosi il mento e sorridendo maliziosamente, inarcando un sopracciglio.
“Quando non vi ha tvovato questa mattina, abbiamo tentato in tutti i modi di distvavla, alla fine Tockins è viuscito a pvendeve tempo mostvandole la sezione di botanica antica nella biblioteca”
Rispose nuovamente socchiudendo le palpebre in un’espressione di ovvia rassegnazione, che sottolineava l’insensatezza della faccenda.
Quando il maggiordomo si metteva in testa un’idea, fallimentare o meno che fosse, sebbene il più delle volte concorresse la prima opzione, era impossibile fargli cambiare parere.
Ora si trattava di ridurre il più possibile la noiosissima agonia della ragazza, così Adam ordinò al servitore di dirigersi presso la libreria per prendere le redini della situazione e far in modo che Tockins lo raggiungesse, per poi incamminarsi di fretta verso le cucine.
“Oh! Mrs Bric è pronta?”
“Stanno fascendo un’ottimo lavovo, mi cveda!”
Lo rassicurò strizzandogli l’occhio e unendo pollice e indice, facendogli l’occhiolino con le dita.
Il ragazzo si voltò e riprese la sua direzione.
 
Giunto nella grandissima sala, Lumière constatò con sorpresa il numeroso gruppo di tomi che, in una pericolante, disordinata pila, minacciavano di disfarsi da un momento all’altro.
Chicco e Sultano erano da una parte, il bambino con la testa poggiata sul dorso del cane, disteso.
Entrambi sull’orlo di cedere alle morbide carezze di Ipno.
Sghignazzò tra sé e sé.
Tockins doveva essere nelle vicinanze.
Sollevò lo sguardo verso gli scaffali sopraelevati, dove il maggiordomo ripassava i titoli dei libri che sfilava dalle loro postazioni, sottolineandone l’importanza e poggiandoli tra le braccia di un’incerta Belle, che barcollava sul poggiolo più alto.
“Mon ami! Ma che stai fascendo?! Non vedi che mademoiselle Belle ha bisogno di un aiuto???”
Tockins interruppe il suo setacciare e si voltò verso il basso, alla ricerca del proprietario di quell’inconfondibile voce.
“Cosa vuoi tu!?”
Si accanì con la sua voce stridula e infantile, tipica di quando era arrabbiato.
“Io e la signorina stiamo cercando un importantissimo trattato di giardinaggio floreale, le cui istruzioni doneranno di nuovo colore ai roseti del giardino!”
Aggiunse con tono altezzoso.
“Ehm…A dire il vero…” sopraggiunse Belle sollevando il collo per fare in modo che almeno i suoi grandi occhi color nocciola riuscissero ad oltrepassare il mucchio di libri che aveva tra le mani.
“…avrei proprio bisogno di aiuto”
La sua voce dolce e profumata come il miele addolcì entrambi.
“Ooh…ehm…beh in questo caso…direi…che in questo caso…”
Tockins scese goffamente le scalette e la aiutò a poggiare i libri in un angolo, poi si scusò con la ragazza, la quale gli sorrise con gentilezza.
“Lascia pevdeve mon ami! Sci penso io!”
Il maggiordomo le chiese con la sua solita affabile cortesia che lo aspettasse lì, mentre lui discorreva con il suo collega.
Dopo aver percorso le scale a chiocciola sino a terra si avvicinò al maître corricchiando sulle corte gambe e i due iniziarono a sussurrare.
Dall’alto della sua posizione, Belle, aveva compreso subito che se quei due confabulavano stretti stretti doveva esserci chiaramente sotto qualcosa.
Si tirò su la spaziosa gonna di seta color verde pavone che le impacciava i movimenti in quell’ambiente così ristretto, e scese, a fatica, giù per la rampa, avvicinandosi ai due.
Da quella mattina, tutti, nel castello, avevano assunto uno strano atteggiamento.
Lumière, Tockins, persino Mrs Bric si era dileguata subito dopo il pranzo, senza lasciare traccia.
Solo madame Armoire le aveva accidentalmente regalato un piccolo dettaglio apparentemente insignificante all’inizio della giornata, quando, dopo il bagno, le consigliò quell’abito verde dall’ampia gonna di seta, lunga fino a terra, con il corpetto di damascato color verde oliva, dalla scollatura appuntita di raso verde chiaro che le lasciava le spalle scoperte, simile, come disse lei, a quella della principessa Aurora.
Quando le chiese il motivo di tanta eleganza non necessaria, la donna si morse un labbro e tra le risate di imbarazzo, cercando di sviare, le rispose che non avrebbe potuto mai sapere quale abito potesse essere il più adatto nel caso di un evento speciale e che quello le donava in modo particolare data la sua pelle nivea e gli occhi d’ambra.
Angelique aveva poggiato una mano sulla fronte in segno di sconforto e aveva chiuso la discussione con un semplice intervento.
“Invece di domandave pevchè all’eleganza, chiedete pevchè no?”
Dopo di che l’aveva condotta alla toletta, dove l’aveva aiutata ad arricciare i capelli, in modo che le scendessero in morbidi boccoli castani sulle spalle.
Da allora non aveva fatto che chiedersi ed indagare su cosa stesse succedendo intorno a lei, così, osservando gli sguardi perplessi dei due servitori, che la stavano osservando dopo avere improvvisamente interrotto la loro conversazione, si era decisa che lo avrebbe scoperto una volta per tutte.
“Di cosa state parlando?”
Chiese con aria affabile, poggiando un dito contro il mento, com’era solita fare quando ragionava.
Tockins prese a farfugliare parole a caso, quando Lumière lo sovrastò.
“Ma assolutamente di niente, mademoiselle!”
“Appuravamo che potrebbero servire delle candele per continuare la nostra ricerca” intervenne l’altro
“Delle candele? Oh! Oui! Ma scertamente! Si sta fascendo buio e non vovvete vovinarvi la vista mia cava!”
Entrambi sorridevano, persuasi meno di lei da quella scusa.
“Candele…” ripeté nient’affatto convinta.
“Oui!” le rispose, seguito da una risatina nervosa dell’altro.
“Se volete scusavsci un momento…”
Cinse le spalle di Tockins con un braccio e si voltarono appartandosi in un altro punto poco distante della sala.
Belle, con l’orecchio teso, si avvicinò a Chicco, che sollevò le spalle con aria interrogativa.
Ad un certo punto, il maître, ripeté a voce troppo alta.
“Oui! E’ un ovdine del padvone!”
L’altro gli diede uno strattone, ammonendolo.
“Abbassa la voce idiota!”
“Idiota a chi? Pallone gonfiato! Le tue vose non sono servite affatto a distvavve la vagazza!”
“Il padrone?” chiese lei interrompendoli “E’ tornato?”
I due si voltarono di nuovo all’unisono, con la stessa espressione impacciata.
Tockins tirò una spinta al braccio dell’altro, che lo ricambiò con uno sguardo velenoso.
Belle roteò gli occhi al cielo quando Lumière le venne in contro, spiegandole, con aria evasiva, che aveva chiaramente frainteso, ma la giovane si svincolò da quel teatrino e si avviò a grandi passi verso l’uscita.
“Allora andrò di persona a recuperare queste candele” rispose spazientita.
“No no no mademoiselle! La stvada pev le cuscine è lunga! Lasciate che se ne occupi Tockins!” esclamò.
“Allora posso accompagnarlo”
E con decisione riprese a camminare.
Erano riusciti a farla annoiare nella biblioteca, senz’altro insolito, pensava con ironia fra sé e sé, mentre proseguiva ignara delle richieste e dei tentativi della coppia di distrarla.
Non ce ne fu più bisogno, perché alla fine delle scale apparve Adam che, vestito con un’elegante giacca rossa, sulla consueta camicia avorio con i pantaloni scuri, la aspettava a braccia aperte, sorridendo.
Scese gli ultimi gradini in gran fretta e si buttò su di lui, che la afferrò prontamente, cingendola in un abbraccio e facendola roteare in aria.
Alla fine si fermò e la fece scivolare delicatamente a terra.
Le accarezzò il volto.
“Belle…sei bellissima”
Lei gli sorrise con dolcezza.
I suoi grandi occhi si illuminarono, prima che gli desse una lieve pacca sul braccio.
“Dove sei stato? Mi hanno tenuto tutti sulle spine!”
Lui rise e la prese a braccetto, scortandola.
“Beh…Non c’è rosa senza spine”
La sua risposta combaciò perfettamente con il loro ingresso nella sala da ballo, elegantemente allestita.
Attraversarono la vasta stanza fino al balcone, dove era finemente apparecchiato un tavolo pieno di boccali d’argento, bicchieri di vetro, saliere dorate, candelieri di ottone, taglieri di legno, bacili per le mani e oggetti ornamentali che facevano bella mostra di sé, con al centro una cesta in fili d’argento intrecciato, colma di pane dorato e scrocchiante.
Scostò la sedia per lasciarle prendere posto prima di sedersi a sua volta, all’opposto del tavolo.
Mrs Bric giunse con un grande carrello pieno di vettovaglie.
I camerieri iniziarono la loro consueta danza tra vivande, tovaglioli e calici.
Venne servito un invitante stufato di coniglio con cipolle, fave e crostini di pane, forse una pietanza troppo calda, pensò Belle, considerata la stagione, ma era comunque ottimo.
“Dunque Mrs Bric ha passato l’intero pomeriggio a gestire la cucina?” chiese.
“Questa sera ogni cosa deve essere perfetta”
La giovane allungò lo sguardo oltre il principe, verso Lumière, Tockins e Mrs Bric, che li osservavano colmi di gioia.
Le sorrise da lontano chinando il capo per ringraziarla.
In realtà che stessero sempre lì ad osservarli la imbarazzava un po’, ma non lo avrebbe mai ammesso.
“Come mai? Festeggiamo una ricorrenza particolare?”
Gli chiese ancora, mentre i cucchiai tintinnavano contro i piatti di porcellana.
“Diciamo che…”
Rispose lui deglutendo.
“…vorrei crearne una felice stasera, dopo tanto tempo”
Se Belle avesse saputo che quella mattina aveva cavalcato fino al paese per chiedere personalmente a Maurice, suo padre, l’onore di avere la sua mano, come richiedevano le usanze, si sarebbe molto arrabbiata.
Lei non si era mai considerata, al contrario, aveva sempre sottolineato di non essere un oggetto in palio al miglior offerente, ma una donna, in grado quanto un uomo, in realtà sosteneva anche più, di decidere della sua vita.
Ovviamente lui per primo la sosteneva su questa via, ma sapeva che lo stesso non valeva per gran parte delle altre persone, la cui mentalità, specialmente in una regione rurale come la loro, faceva fatica ad evolvere.
Lui, in quanto di nobile, era in un certo qual senso tenuto ad osservare le regole dell’etichetta.
Sollevò il bicchiere colmo di vino purpureo e lo stese verso l’alto, imitato da lei.
“Dunque un brindisi ai bei ricordi e a quelli che si creeranno, spero vivi della tua presenza”
Belle sorrise e chinò lievemente il capo, come per ringraziarlo del complimento e assicurargli implicitamente di aver già accettato la futura proposta e ricambiò il suo sguardo dolce con un sorriso.
Avrebbe voluto essere più vicina a lui, accarezzare il suo viso angelico e maturo, abbracciarlo e baciarlo, ma chiaramente non poteva comportarsi come una ragazzina, proprio la serata in cui, se le sue supposizioni erano esatte, le avrebbe chiesto di crescere come donna al suo fianco fino alla fine dei loro giorni.
Adam era meraviglioso.
Dopo diversi mesi dalla scomparsa della bestia, si era rivelato non solo dolce e profondo, ma possedeva anche quella giusta dose di mistero che la eccitava e incuriosiva insieme, e che era decisa a smascherare lentamente, pregustando l’odore della loro lunga vita insieme.
Odore che aveva sempre più l’invitante essenza di carne arrosto.
Quaglia, per la precisione, servita con carote, sedano e cipolle.
I piatti ormai vuoti vennero sostituiti con le nuove portate.
Belle agguantò la forchetta, con l’acquolina in bocca.
Dopo aver assaggiato un primo pezzo, si fermò.
La carne, deliziosa, era permeata da un sapore intenso e bruciante, decisamente forte.
Tossì un paio di volte e bevve dell’acqua per mandare giù e abituarsi a quel nuovo gusto.
Ne tagliò un altro boccone e lo assaggiò con più attenzione.
Quel sapore particolare rendeva l’insieme molto più armonico.
Si accorse che Adam la stava osservando.
“Si chiama pepe…” disse prima ancora che lei potesse deglutire.
“…E’ una spezia che proviene da molto, molto lontano”
La ragazza sollevò un sopracciglio.
“…oltre Agrabah e Pridei, oltre i Denti del Drago, più lontano dei grandi imperi dell’est che per primi vedono nascere il sole, in regni governati da piccoli uomini urlanti, pieni di peli che vivono nelle rovine di antiche civiltà”
Il suo sguardo intrigante passava inosservato davanti ai mitici luoghi citati che la affascinavano oltre ogni immaginazione.
“O almeno…così mi ha detto quel mercante!”
Risero insieme.
“Ma volevo un tocco speciale…”
“…per la serata speciale…ed è perfetto” concluse lei.
Quando anche la quaglia fu consumata, i brindisi espressi, la servitù congedata e la crostata alle ciliegie fece la sua comparsa sulla tavola sempre più spoglia, Adam cominciò ad avvertire un senso di nausea.
Stava per chinarsi, con un ginocchio a terra, innanzi alla sua vita.
Il suo destino avrebbe indossato quell’anello e coronato il suo sogno.
Si alzò e si avvicinò alla giovane, poggiandosi con il bacino contro la tovaglia immacolata di merletti.
Lei non si alzò, rimase ferma come una statua, salvo per gli occhi scintillanti di emozione.
 “Belle…”
Le prese la mano.
“…io…”
“Padrone!!”
Si voltarono entrambi verso la fonte di quel richiamo.
Avrebbe voluto riavere le zanne e scagliare uno di quei possenti ruggiti che facevano tremare le pareti e volar via i mobili spaventati.
“Oh…”
Tockins si fermò a pochi metri da loro, dapprima senza rendersi conto della situazione, poi sorridendo inebetito.
“Che cosa c’è??”
Chiese il principe sbattendo la mano sul tavolo nervosamente, forse con troppa foga.
Questo la faceva indispettire sempre, sperò che non ci avesse fatto caso.
“Ehm…ehm…E’ arrivata una lettera…ehm…dalla capitale…giunge con il sigillo del re…pare sia della massima urgenza…”
Paonazzo in volto, lasciò il documento sul tavolo prima di allontanarsi con gran fretta.
Adam sospirò e si voltò ancora verso l’amata.
Fece per prenderle la mano, ma lei stava guardando il cartiglio.
Maledizione!
Quel pezzo di pergamena aveva la capacità di inclinare gli sguardi, la stanza, l’intero palazzo sotto il suo peso.
“E va bene…”
Sbuffò nuovamente irritato.
Tanto valeva togliersi il pensiero.
La aprì senza curarsi di rovinarla, la sua vendetta personale nei confronti di quel maledetto messaggio.
Belle lo osservava curiosa.
“Che cosa dice?”
Il volto dell’uomo si corrugava sempre di più, mentre si avvicinava, quasi a volersi addentrare nel manoscritto.
“…che sono convocato di urgenza presso Sua Altezza Reale la regina madre Leah e il Consiglio Reggente”
“Perché?” chiese ancora.
“Non è specificato”
Strinse i denti sino a sentirli stridere.
Ora…se le avesse chiesto la mano…sarebbe dovuto partire immediatamente dopo e sarebbe mancato per almeno due settimane, nel suo lungo viaggio verso nord.
“Belle…io…ecco…”
Stavolta fu lei a prendergli la mano, annuendo e sorridendogli.
“…non posso farlo” concluse.
“Ciò che ho da chiederti, deve essere libero da ogni vincolo”
Fece una lunga pausa.
“Se lo facessi ora, cosciente del fatto che domani non saremo insieme…Non sarebbe come lo abbiamo sempre sognato”
Gli strinse la mano con decisione.
“Allora torna il più in fretta possibile” rispose lei.
La baciò sulla guancia e richiamò Tockins, che era rimasto nascosto dietro l’anta della porta, insieme a tutta la combriccola.
“Fa sellare i cavalli e preparare la carrozza, partiamo immediatamente verso nord, per la capitale”

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Capitolo 6
*** capitolo 6 ***


Era ferma sulla medesima pagina da almeno mezz’ora.
La fissava come incantata, ipnotizzata dai suoi pensieri.
Il volto pallido ed immobile, in una pietosa espressione di amarezza, il naso arricciato e le labbra tremanti pendenti verso il basso, senza il minimo pudore nel nascondere la sua angoscia.
Un’ancella di bassa statura, dal volto chiaro ricoperto di lentiggini, gli occhi di smeraldo e i fluenti capelli castani, le si avvicinò sotto la finestra e si chinò per farsi vicino al suo viso, senza comunque toccarla.
“Vostra grazia? Vi sentite bene?”
La stanza era piena di giovani, belle ragazze, bionde, more, ramate, dalla pelle chiara od olivastra e gli occhi dei più diversi colori, tutte rigorosamente di azzurro vestite, come segno di riconoscimento della loro lealtà alla principessa.
Ora che era promessa, facevano parte del suo corredo e della sua corte, che occorreva rendere il più ricca e raffinata possibile.
Gonfiò il petto a singhiozzi e, piena di rancore, sussurrò flebile.
“Allontanati”
La ragazza fece una piccola, impacciata riverenza, piegando malamente le ginocchia ed inchinandosi appena appena con il capo, e la guardò di sottecchi senza trasudare la ben che minima emozione, se non velato timore, per poi tornare a sedersi sul davanzale della finestra vicina, dove riprese a filare con una compagna.
Aurora fece un altro rumoroso sospiro e sollevò lo sguardo verso il placido paesaggio boschivo fuori della trifora.
Pesanti lacrime si fecero vive lungo gli occhi, pronte ad attraversare, in una copiosa carovana, le sue gote arrossate, fino al mento.
Tutto quello che suo padre le aveva lasciato era la completa sfiducia nelle sue capacità.
D’altronde...come avrebbe potuto fidarsi di lei?
Nonostante fosse sua figlia, quasi non la conosceva, e l’amore paterno incondizionato non avrebbe mai potuto celare la sua completa incapacità nel fare qualsiasi cosa.
Restava pur sempre una donna.
Sospirò.
E come le avevano impresso, proprio in quanto tale, andava bene solo come ornamento.
Come trofeo, come bottino di guerra, come bella principessa.
Come genitore e come re non poteva certo permettersi di affidarle qualcosa di importante come le redini del suo stesso destino e soprattutto quelle dell’intero regno.
Quell’auriga sarebbe dovuto essere in ogni caso un uomo, ovviamente.
Suo padre, Filippo, Tremaine o chiunque altro.
Non certo lei.
Tanto non ne sarebbe stata comunque capace.
Strinse i denti e si passò la manica di velluto porpora sugli occhi, per asciugarli.
Un altro sospiro forte e combattuto, che le lasciò il ventre completamente vuoto, scandì il silenzio rotto solo da qualche lieve brusio, nella stanza affollata.
Tirò su con il naso e chiuse gli occhi.
Si odiava.
Detestava sé stessa, la sua trappola, il suo corpo, la sua condizione di donna.
Niente più che un’inutile giocattolo.
La carta più bassa del mazzo.
L’ultima ruota del carro.
Titoli, castelli, possedimenti, vestiti, gioielli, complimenti, balli di corte, principi, feste, carrozze, poesie e poemi d’amor cortese.
Solo meri tentativi per celebrare una forza da sempre repressa, che sentiva comune a centinaia, migliaia, milioni di donne.
Anche la bellezza era un modo per distrarle.
Per insidiare l’insicurezza nei loro cuori.
Per metterle in competizione le une con le altre.
Per far loro dimenticare i reali obiettivi di una vita vera.
Si voltò a guardare le sue nuove protette.
Tutte virgulte in fiore che cucivano, leggevano, giocavano a carte, si snodavano e riannodavano i capelli, si scambiavano le scarpe e si esercitavano a far inchini e piroette, capaci unicamente di questo.
Talvolta anche meno.
Tutte stupide anime di un universo colmo di invidia e ipocrisia.
Incapaci di veder dritto al futuro.
Incapaci di sventare l’insidioso inganno e strapparlo dai loro occhi come un telo invisibile.
Incapaci. Proprio come lei.
Si rigirò rassegnata, perdendo ancora lo sguardo ed i pensieri.
Si sentiva in colpa per le sue conclusioni.
Proprio lei.
Che era principessa, giovane e bella.
Flora, Fauna e anche Serena le avevano insegnato che doveva sempre avere rispetto e dignità per sé stessa e per la sua posizione.
Ma non per questo doveva trascendere dal suo obbligo di nobile principessa, ovvero quello di trattare tutti con il medesimo riguardo, indipendentemente dal loro rango o dalla loro dote.
Fece scivolare il gomito sinistro contro il freddo davanzale di pietra, poggiandosi, poi, con la testa, sulla mano.
Chiunque la potesse osservare dal retro, avrebbe potuto confonderla per l’Aurora di qualche tempo fa, pochi giorni, qualche settimana.
La ragazza dallo sguardo dolce, i capelli d’oro, il profumo di rosa e l’aria sognante, che, guardando fuori così assorta, doveva certamente star pensando al giorno delle sue nozze, al suo meraviglioso abito, alla sua prossima vita, marito e figli.
Ma quella dolce bambina racchiusa in corpo di donna, era ormai appassita.
E pensava, sì, al futuro, ricco solo di incertezza e disagio.
A questo suo futuro marito, che doveva essere un uomo potente, se poteva permettersi di elevarsi al rango di sovrano senza il timore che gli altri lord si ribellassero a lui.
Ma, a quanto ne sapeva, non si trovava né a corte a reclamare il suo lignaggio nella speranza di potersi avvicinare a lei, né in giro per il regno a radunare i suoi vessilli fedeli, per intimidire la schiera di nobili circostanti, con il medesimo obiettivo.
Forse già questo fatto poteva considerarsi una piccola fortuna.
Cercava di consolarsi, di sorridere persino.
Ma, a ben pensare, era uno dei signori del sud del reame e, per quanto ricco e potente fosse, non era il solo, tra questi ultimi, a non essersi presentato a palazzo, dai funerali del re.
I lord del sud erano numerosi, sebbene in minoranza rispetto a quelli del nord, più vicini alla capitale.
Erano lontani dal giogo del potere che circondava il trono e la corona.
Aveva scoperto che un casato del sud non aveva il privilegio di unirsi con la famiglia reale da ormai più di cento anni, cioè da dopo l’unione dell’antico regno meridionale di Amberl a quello settentrionale di Neustria, che crearono il paese così come era adesso.
Ed ancora oggi molti di questi signori evidenziavano legami di parentela con l’antica famiglia reale di Amberl.
Dopotutto si sapeva da sempre che Neustria era composta da quei due regni distinti.
Che il sud, con le sue terre fertili, aveva conservato tradizioni ed usanze passate, la sua vocazione mercantile, i costumi frivoli, gli abiti esagerati delle donne, i capelli lunghi degli uomini, i castelli pieni fino all’orlo di ornamenti, statue e decorazioni di ogni genere e materiale, mentre il nord girava quasi tutto intorno alla capitale, al palazzo reale, vicino alla corte, vocato alla guerra e alla gloriosa eredità feudale e cavalleresca.
Quei legami venivano rammentati e sottolineati in più di un’occasione ufficiale, oltre che in diverse rivolte, di nobili e di contadini, di ricchi e di poveri, di disperati con un sogno e di approfittatori senza arte né parte, tutti accomunati dall’unica appartenenza al sud di quelle belle terre.
Quasi a far nascere una sorta di risentimento verso la capitale, la famiglia reale e, in generale, contro il regno intero, forse visto come un invasore.
Ed anche questo Adam di Villeneuve e Beaumont poteva vantare una lunga discendenza da quei vecchi regnanti, forse più stretta, per non dire veritiera, di molti altre.
Di conseguenza era tanto un tassello importante per stroncare i disordini interni, oltre che una garanzia di ricchezza, quanto un metodo per evitare che qualche altra importante ed ostile dinastia del sud si schierasse contro la monarchia.
Inoltre doveva essere anche un bell’uomo.
Aveva avuto occasione di vedere un solo, piccolo ritratto.
Purtroppo faceva parte di una serie di opere che risalivano a una decina di anni prima e, da allora, non si erano più avute notizie di lui.
Come svanito nel nulla.
Circolavano addirittura voci di una maledizione, che le facevano accapponare la pelle.
Sarebbe stato la ciliegina sulla torta, un mostro come marito.
Ma, se così fosse stato, non gli avrebbero mai permesso di avvicinarsi a lei.
O forse sì?
Valeva così poco?
Certamente valeva di più il trono, e quello non lo avrà tanto facilmente, che sia un orco oppure no.
Scosse la testa.
In ogni caso, se era rimasto fedele ai suoi tratti originari, doveva essere davvero un bel uomo.
Troppo diverso, tuttavia, da Filippo.
Lui era perfetto, i capelli castani come corteccia di quercia, la mascella quadrata, le spalle larghe e potenti.
Stare vicino a lui non solo la faceva sentire protetta e felice, ma la inebriava, le faceva provare una sensazione travolgente dappertutto, che la spingeva a stringersi contro di lui, ad aderire al suo corpo.
Strinse i pugni ed inspirò profondamente, nel tentativo di percepire di nuovo quella gioconda emozione maliziosa.
L’illusione di avvertire il suo petto contro la schiena e il mento sulla testa, il suo amabile abbraccio, quando la trovava indaffarata nelle sue futili faccende e la coglieva di sorpresa.
E invece sentiva unicamente il freddo viscerale della solitudine.
Come una gelida secchiata della maligna realtà.
Come un sogno che si interrompe troppo presto, perché si viene bruscamente svegliati.
Questo Adam non sarebbe stato neppure minimamente paragonabile al suo principe.
Al suo vero amore.

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Capitolo 7
*** capitolo 7 ***


“Sposare la principessa?!”
Adam batté più volte le palpebre incredulo, quasi gridando.
“Come sarebbe a dire??”       
Il ministro di giustizia chiuse a sua volta gli occhi e sospirò profondamente.
Si levò dallo schienale di tela blu, ormai appiattito dal tempo, sistemato sul grande scranno gotico di legno scuro e poggiò i gomiti sul tavolo, seguiti dalle ampie e pesanti maniche della tonaca scura bordate di morbida pelliccia bianca ai margini.
Unì i polpastrelli delle rispettive dita e incrociò nuovamente il suo sguardo con quello del principe.
“Mio signore, come ho avuto modo di mostrarvi pocanzi, le ultime volontà testamentarie del nostro defunto, amato sovrano, Stefano di Neustria…che il cielo lo abbia in gloria…”
Aggiunse sollevando il viso ad osservare verso l’alto, aprendo le braccia in segno di pia devozione, per poi riposizionarsi nello stesso identico modo di prima.
“…Prevedono che la principessa Aurora, sua unica figlia ed erede, si mariti con vostra signoria”
“Ma io non posso sposarla…non la conosco…non…non l’amo…io…”
Con aria interrogativa, Frollo, ritrasse lievemente il mento, inarcò un sopracciglio e strizzò gli occhi, come se non vedesse.
Ed infatti non vedeva proprio il problema.
Era più unico che raro che gli sposi si conoscessero prima delle nozze vere e proprie.
Lo interruppe con voce austera.
“Domando perdono, ma temo di non concepire il punto della vostra situazione”
Adam sbuffò sconsolato e ricominciò il suo discorso, cercando di essere più chiaro possibile, tradito, tuttavia, dall’eccessivo nervosismo manifesto dal suo tremule tono.
“Io amo un’altra donna…non potrei nemmeno prendere in considerazione l’idea di sposare qualcuna che non sia lei…che oltretutto…”
Mentre parlava, l’interlocutore, dal canto suo, roteò gli occhi, spazientito.
Quel giovane gli ricordava tutto ciò che aveva sempre disprezzato dei grandi nobili del suo genere.
Lui stesso proveniva dalla nobiltà, seppur piccola, di campagna.
Tuttavia, sin dall’infanzia, fu destinato prima allo stato ecclesiastico, poi agli studi di giurisprudenza.
E nel rispettare il disegno che i suoi genitori e i precettori avevano realizzato per il suo avvenire, studiò sempre con ardore e dedizione.
In silenzio dall’alba fino al tramonto nelle stanze di quel rigido collegio.
Diritto, legge, retorica, teologia, storia, medicina, arti, lingue e molto altro ancora erano il suo pane quotidiano.
E quel bamboccio di bell’aspetto, dalla pelle chiara, la mascella squadrata, le labbra carnose e gli occhi penetranti come il cielo ghiacciato d’inverno, dalle larghe spalle possenti contornate dalla pregiata marsina stretta di velluto blu e i capelli orrendamente lunghi, agghindati in un riprovevole, femmineo codino, certamente mai aveva dovuto far nulla per offrire un’essenziale spiegazione al motivo della sua esistenza.
Che senz’ombra di dubbio, come molti suoi coetanei, passava le intere giornate nella deprecabile condizione di perder tempo e sprecar denaro con futili attività quali la caccia, lo stomaco o il ridicolo vanesio sforzo di soddisfare la propria vanità innanzi ad uno specchio, al pari d’un volgare cicisbeo.
Ora, innanzi alla promessa di un futuro regale, si tirava indietro pensando alla precaria passione per una qualche dama approfittatrice.
Forse, ragionandovi su, sarebbe stato meglio evitare un re di questo stampo, ma oramai era troppo tardi.
Aveva commesso un incalcolabile errore di giudizio.
La fretta, si sa, è cattiva consigliera.
Ad ogni modo egli rappresentava comunque il male minore, se confrontato con la situazione più ampia.
“Mio signore”
Proferì in tono autoritario interrompendolo nei suoi sproloqui, che aveva cessato di ascoltare sul nascere.
“Siete cosciente del fatto che, mancando il giuramento di servire il re nell’intento di adempiere ai suoi bisogni e desideri fino a che le vostre possibilità ed i vostri mezzi ve ne dispongano, commette un gravosissimo atto, al pari del tradimento verso la corona ed il reame intero?”
Quello fece per rispondere, aggrottando le sopracciglia, socchiudendo le labbra ed emettendo una lieve esclamazione, ma Frollo non gliene offrì la possibilità, continuando a sua volta.
“E vi rendete conto che, così facendo, compromettete la vostra posizione di privilegio nobiliare, che vi garantisce quegli stessi mezzi e disponibilità di cui vi ho appena accennato?”
Adam sgranò gli occhi ed, irato, si alzò in piedi di scatto, lasciando che il seggio offertogli poco prima, senza troppe cerimonie, stridesse fastidiosamente contro il freddo pavimento di pietra.
“Voi mi state forse minacciando alludendo alla revoca dei beni!?”
Il ministro stese nuovamente le braccia e inspirò profondamente, recitandosi desolato.
“Mio signore, quegli stessi beni che, a quanto pare, non sono affatto proficui nelle vostre deliziose mani, così come il vostro titolo nobiliare, le vostre terre e gli introiti a voi assegnati”
“Risparmiatemi l’ipocrisia”
Rispose il giovane con decisione.
Poggiò i palmi delle mani contro il legno della scrivania e si ancorò con le dita per venire avanti con il busto, verso il viso spigoloso dell’altro.
Puzzava di incenso e di un vecchio stanzino chiuso.
“Non avete alcun mezzo con cui osare minacciare me”
Rispose quasi sussurrando, ad un palmo dal suo naso adunco.
“Ma certo…”
Gli sorrise quello.
“Dopotutto sono solo al servizio della regina madre, membro del consiglio regale, tutore della principessa ed amministratore della giustizia del paese”
Rimarcò l’ultimo incarico con particolare cura, con un accento quasi sibillino.
Il principe sostenne tentennante il suo sguardo malignamente divertito.
Improvvisamente le pesanti ante di legno della porta sbatterono con fragore contro il muro e, violento come una tempesta, fece irruzione nello studiolo lord Tremaine, che con tono irruente accusava l’intero reame dell’ignobile reato di cui era colpevole, quello di non renderlo partecipe dell’arrivo di sua signoria Adam presso la capitale ed il Palazzo di Giustizia.
Frollo sbuffò, roteando gli occhi teatralmente, con il gomito sulla scrivania, poggiò il pollice sulla tempia destra ed indice e medio sulla fronte e si accasciò fiaccamente contro il pesante tavolo, scuotendo la testa rassegnato.
Il nuovo arrivato si fece avanti, scandito dal tintinnio dell’armatura di metallo, nel piccolo studio di forma quadrata dalle pareti altissime, lasciando che l’entrata si chiudesse, circondata com’era, da due piccoli arazzi ai lati e da uno molto più grande, che copriva l’intera superficie sopra le boiserie che ornavano la parte superiore del telaio della porta.
Tutti raffiguranti rigorosamente scene di tipo religioso.
Con passo sicuro, gonfiò il petto come una fregata quasi ad intimorire i presenti, avanzando tra le elevate librerie che circondavano la sala ricoperte da centinaia di libri, antichi e nuovi, ma anche statuette, tele e piccoli dipinti, miniature, candelieri, calici e vasi, gioielli sparsi in piccoli scrigni e decine e decine di candele.
Giunto innanzi alla vasta scrivania, che rendeva l’austera sala ancora più piccola, si inchinò al cospetto del principe, che si era voltato, stupefatto.
Con il ginocchio a terra e la destra sul petto, sollevò il capo per raccogliergli la mano e baciare uno degli anelli che portava, constatandone, sorpreso, l’assenza.
Adam, dal canto suo, la ritrasse fulmineo, quasi disgustato.
Frollo portò un pugno alla bocca e tossì per schiarirsi la voce e segnalare la sua persistente presenza.
L’altro si rialzò, riversando tutto l’imbarazzo di quell’inusuale scena sull’ospite, che alternava occhiate alla sua mano e ai due presenti.
Si eresse in tutta la sua massiccia statura e, guardando il ministro dall’alto verso il basso, lo salutò freddamente.
“Mio signore”
Frollo lo ricambiò, con un lieve cenno del capo, senza distaccare la sua espressione pacata.
Ovviamente non si alzò, come avrebbe dovuto.
Adorava stuzzicare la già facile ira del suo rivale con queste piccole, infantili dimostrazioni di sfrontata impertinenza.
Tremaine si voltò nuovamente verso il principe e con la sua voce tonante esclamò
“Domando scusa a Vostra Grazia, se il qui presente ministro vi ha tediato con le sue ignobili, subdole questioni!”
Adam aggrottò le sopracciglia, estraniato, e ringraziò incerto.
Era l’uomo più brutto che avesse mai visto in vita sua.
Con quel naso storto, schiacciato sul viso, la pelle segnata da cicatrici e segni di una violenta acne passata facevano crescere rada la barba pel di carota sulle guance, che andava arricciandosi, poi, sul mento.
I suoi occhietti scuri e luccicanti, infossati sotto le spesse e folte sopracciglia, non si levavano dal suo viso, dall’alto della loro statura, resa ancora più colossale dalla grande armatura corazzata d’argento.
Gli rispose titubante
“Oh…bene…Sono certo che questo malinteso verrà chiarito al più presto quindi”
Il lord assunse un’aria interrogativa, mentre ripeteva tra sé e sé quelle parole.
“Malinteso?”
Frollo si mise finalmente in piedi e, annuendo con aria di monito verso di lui, alzò la voce, caparbiamente.
“Egli nutre dei riserbi riguardo l’idea di sposare la principessa”
Tremaine, con la stessa espressione lenta, continuò a ripetere le sue frasi
“Dei riserbi riguardo lo sposare…”
Improvvisamente, come si fosse appena svegliato, sgranò gli occhi e si voltò nuovamente verso il giovane, esclamando vibrante
“Come sarebbe a dire?! L’onorabilissima principessa è la giovane più graziosa ed innocente che questo secolo abbia mai visto!”
“La carica di sovrano è troppo per voi?”
Sottolineò il ministro con la sua voce sibaritica.
“Sovrano?!”
Adam vide aprirsi una gravosissima incognita sul suo futuro più prossimo.
Non poteva governare!
Al di fuori di quanto faceva ogni giorno, sapeva di non esserne veramente in grado.
Destreggiarsi tra leggi, editti, favori, titoli, nobili, guerre alleanze e sovrani.
Cose di cui amava sentir racconti da piccolo, quando sembrava bastasse il coraggio per vincere il mondo.
Ben diverso dalla reale situazione.
Il solo pensiero gli strinse lo stomaco in una morsa dolorosa e la pelle gli si accapponò.
“Io non ambisco a quel genere di potere”
Rispose seccamente fingendo di riprendendosi dallo stupore iniziale.
Tremaine gli poggiò pesantemente una mano sulla spalla, strattonandolo sotto il suo peso e, forse con l’intenzione di stabilire un contatto più intimo, continuò
“Tutti agognano il comando”
Frollo lo guardò di sottecchi con astio.
Era un uomo eccezionalmente pericoloso.
“Io sono promesso ad un'altra”
Cambiò argomentazione il principe.
I due uomini si scambiarono un’occhiata furtiva.
Tremaine si separò da lui per spostarsi verso la stretta, altissima finestra sulla destra.
Accarezzandosi il pizzetto silenziosamente, si mise ad osservare la piazza sottostante, dove, nel viavai generale di uomini, donne e bambini, identificò il suo cavallo e i suoi uomini, che lo attendevano.
Si voltò nuovamente per chiedere all’interessato.
“E la donzelletta di cui andate cincischiando è vostra promessa…ufficialmente?”
Il ragazzo, con tono suspicioso, rispose
“Beh…ecco…non esattamente…lei è…”
“Eccellente!” esclamò quello con la sua voce fastidiosamente irsuta.
Frollo, intercettata l’intenzione del rivale, continuò soddisfatto.
“Questo fa di voi un uomo senza alcun impegno”
Adam sospirò rumorosamente e si morse il labbro inferiore.
Aveva commesso un errore fatale e gli sarebbe costato molto, molto caro.
“Io non ho intenzione di sposarmi”
Annunciò ancora, tentando sicurezza, mentre la camicia gli aderiva sempre più per il sudore.
“Sì! E nei più grandi ed importanti tomi di storia gli amanuensi scriveranno che il reame cadde sotto la sudicia impronta dello straniero!
Del crucco nemico che attese la guerra civile che ci sta divorando per invadere questa bella terra!
Ma si saprà, nei millenni a venire, che la colpa fu di un unico uomo! Voi! Che potreste essere il baluardo della salvezza per la nostra nazione! Voi! Che avete scelto il baratro! La caduta! Che avete condannato tutti noi alla sconfitta per un vostro futile capriccio!
E scriveranno di voi pagine e pagine! Si accuserà la vostra inettitudine! Chiameranno in causa la vostra impotenza! Vi crederanno omosessuale! Ostinato! Malato! Ritardato o semplicemente stupido!
Ma ogni cosa andrà in secondo piano innanzi all’odio che vi spetterà per il destino che avete prescelto al nostro paese!
E sputeranno sul vostro nome! Demoliranno il vostro palazzo e trucideranno coloro che vi sono cari e che vi amano a loro volta! Non vi sarà pietà per le vostre terre e le vostre genti, che verranno annientate dopo essere già state decimate dai rigori della battaglia che solo voi potevate stroncare!”
Tremaine concluse ansimando, dopo aver pronunciato, urlato il suo discorso simile ad una nefasta predizione.
Frollo aggiunse, con molta più indifferenza
“Il destino del reame, come quello della donna che…amate…”
si sforzò di proferire quest’ultimo verbo, dati i suoi forti dubbi.
“…è nelle vostre mani.
Ma siate cosciente che questa giovane, bella e senz’altro intelligente, patirà la fame, la miseria e magari il fatale colpo, dato dalla caduta della vostra casa e dalla fine della protezione che irradiate su di lei”
Vigoroso, l’altro riprese il discorso
“Non vi permetteremo di distruggere tutto ciò che i nostri avi hanno costruito, pezzo dopo pezzo con fatica e sacrificio, per la vostra inesperienza giovanile!
Voi sarete Sua Altezza Reale! Che vi piaccia o no! Il peso della corona che porterete sulle spalle sarà affievolito solo dall’esperienza che noi sapremo trasmettervi.
Ma è giunto il momento, per voi, di guardare in faccia alla realtà e afferrare la vita per le redini”
“Ma vi sbagliate! Voi non potete!”
Adam sbatté i polsi sul tavolo, irato e disperato.
“Portatelo via”
Decretò infine Frollo, tenebroso, con appena un filo di voce in più del solito.
Due guardie entrarono dall’entrata principale, dove rimase affacciato un ometto grassoccio che doveva essere il suo primo maggiordomo, ed altre due da una porticina minuscola, seminascosta dagli affreschi del muro e dagli scaffali della libreria.
Dapprima incerti sul da farsi, all’assenso del loro signore, i soldati afferrarono il ragazzo per le braccia, mentre quello si divincolava e si lamentava senza ritegno.
“Scortatelo nei suoi alloggi ed assicuratevi che abbia modo di riposarsi”
L’ometto seguì il pietoso corteo chiamando il suo padrone.
Il silenzio totale tornò ad incombere nella stanza.
Entrambi avevano appena appreso una lezione inestimabile, che li poneva in netto vantaggio, rispetto a tutti gli altri lord.
Tremaine irruppe con voce fredda e distaccata, tornando a guardare fuori della bifora, verso le svettanti torri in lontananza.
“Non lo lascerò tra le vostre grinfie un minuto di più.
Manderò una carrozza che condurrà il principe a palazzo, la sua vera, nuova casa”
“Sarò lieto di raggiungerlo”
Rispose in tono mellifluo.
“…per servire il reame”
“Per servire il reame”
Ripeté l’uomo con fermezza, per poi incamminarsi a passi lunghi e decisi vero l’uscita, senza proferir parola, senza salutare.
Ad entrambi era chiaro che l’autorità del nuovo re era tanto effimera quanto un mazzo di fiori.
E dato che, per loro, era impossibile collaborare, nonostante avessero appena avuto dimostrazione di quanto fossero potenti di comune accordo, non restava che spartirsi il resto quanto più in fretta possibile.
Le cose cominciavano davvero ad incrinarsi.

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Capitolo 8
*** capitolo 8 ***


Vennero a svegliarla talmente presto che dovettero usare delle candele poiché, nonostante fosse quasi estate e le giornate si fossero notevolmente allungate, il sole non si era ancora levato all’orizzonte.
A differenza dello sposo, che avrebbe avuto il privilegio di dormire ancora per un bel po’, lei aveva l’obbligo di dedicare un’accoratissima attenzione nei confronti della sua stessa presentabilità, che doveva essere impeccabile, perfetta per il più importante avvenimento della sua vita, al di là del quale sarebbe tramontata la considerazione altrui nei suoi confronti, in quanto donna e in qualità di principessa, o regina, non contava poi tanto, difatti.
Con lo sguardo ancora appannato dalla stanchezza, poté constatare un piccolo esercito di ancelle e servette che, assieme a una dozzina delle sue dame, fece irruzione nella stanza.
Entrarono, dietro di loro, metri e metri delle stoffe più pregiate, di color bianco, crema, avorio, dorato e argentato, assieme a piccoli scrigni pieni di gioielli su vassoi d’ottone, fiale ed ampolle di vetri colorati e minuscole etichette, pesanti brocche piene di latte caldo, spatole e conchiglie colme di creme e polveri di ogni colore e odore, baccelli, semi e rametti di piante profumate ed ancora uova, mandorle e limoni, barattoli e recipienti di vetro e ferro tappati con il sughero, pieni dei più strani ingredienti.
Alcune delle sue ancelle la accompagnarono, prendendola per mano con fare allegro, fino alla stanza da bagno, dove la grande tinozza di diafana ceramica fumava di acqua bollente.
Si potevano udire flebili risatine, sussurri maliziosi ed occhiate fulminee in quel piccolo universo di condizioni femminili.
Aurora, che viveva la situazione esterna come un’estranea prigioniera in un corpo che non le appartiene più veramente, non avrebbe saputo dire se ridevano per lei ed il suo matrimonio o di lei e la sua sventura.
Mentre alcune serve si avvicinarono e le sfilarono la camicia da notte, con la delicatezza di chi maneggia una bambola di porcellana e con la crudeltà di chi lascia una bambina innocente nuda ed imbarazzata a tentare di nascondere le proprie grazie.
Ne entrarono altre, con delle bende e dei panni bianchi lievemente umidi, con i quali venne quasi totalmente avvolta, dal viso al dorso dei piedi.
Anche, con sua estrema vergogna, nei punti che si era impegnata a celare.
Altre ancora irruppero con dei cesti pieni di pietre nere fumanti, che misero nella piccola stufa, anch’essa nera, che spiccava come un lampo nella fredda stanza marmorea.
Versarono sopra altra acqua calda, creando una vorticosa nuvola opaca di vapore che pervase l’atmosfera e appannò gli occhi e le pareti.
La condussero, poi, tutte insieme, verso la stufa, per lasciarla sedere con estrema delicatezza, come fosse una piccola rosa da trapiantare...sì…nel giardino d’un altro uomo, però.
Prese un respiro profondo.
Per quanto la mancanza d’aria glielo permise.
Seduta lì si sentiva stranamente al sicuro, cosparsa da un calore sereno, intimo, quasi materno, circondata da morbide figure femminili sfocate, ondeggianti tutt’intorno a lei.
Tuttavia, già dopo pochi secondi, cominciò ad ansimare in cerca di ossigeno e successivamente anche a sudare ampiamente da ogni singola parte del corpo.
Le bende si fecero via via sempre più appiccicose, fastidiose e pesanti.
Più sudava, più aderivano alla sua pelle bagnata e più aderivano, più lei sudava e quindi si bagnava.
Dopo una decina di minuti, che le parvero spiacevolmente infiniti, le ancelle la aiutarono ad alzarsi con altrettanta delicatezza ed attenzione.
Rimossero le bende fradice come se sfilassero via una seconda pelle e la aiutarono ad entrare nel catino che, pieno fino all’orlo, straboccò lievemente sul pavimento bianco di lisce piastrelle perfettamente incastrate.
Aurora vi si immerse completamente, scivolando sulla superficie ovale del fondo.
I capelli le fluttuavano a galla come alghe dorate dal sole.
Immobile com’era, sembrava un’esile farfalla incastonata nell’ambra.
Quella sensazione di rinnovata protezione, la riportò ad un ancestrale stato di percezione quasi fetale.
L’acqua calda, la superficie liscia, il totale silenzio, solo i battiti del suo cuore che, inesorabilmente, rallentavano sempre di più.
Aprì a fatica gli occhi sotto la superficie.
D’altronde oramai era abituata ad averli pieni e bagnati.
Guardò verso l’alto, senza osservare nulla in particolare.
Ai margini fumosi, quelle stesse figure che, se prima le erano parse amichevoli, ora si estendevano tremule e minacciose oltre il pelo dell’acqua.
La beata solitudine, che le donava quella sensazione quasi sovrannaturale di sola beatitudine, iniziò a scomporsi quando il corpo e tutti i suoi istinti si ribellarono ciecamente nel tentativo di tornare a riacquistare l’aria esterna
Quando riemerse respirando pesantemente si fiondarono tutte all’unisono su di lei e si occuparono di lavarla, cospargendola e sfregando, con la massima cura, farina di fave e diversi oli d’oliva e d’alloro.
Quando ebbero terminato la aiutarono ad uscire, avvolgendola nuovamente con un grande telo bianco di lino, mentre la spuma scivolava fuori dal catino come strati di nembi.
Quando ancora era umida e gocciolante, passarono alla cura del corpo, uscendo dalla stanza decisamente accaldata ed entrando in una sala rettangolare di minori dimensioni, allestita appositamente con cassettoni e tolette adorne di specchi, oltre che tavoli ove poggiare i recipienti.
La fecero stendere su di uno scomodo triclinio di legno, sprovvisto di cuscini.
Si appoggiò contro il duro schienale e si distese, stendendo il braccio per coprire il pube con il polso e la mano.
Le spalmarono con cura sulle gambe una crema viscosa dall’odore assolutamente nauseante.
Distolse lo sguardo, voltandosi alla ricerca di aria libera di quel puzzo.
Una delle dame più anziane, rugosa come corteccia di quercia, tutta vestita di grigio con un grembiule ed una cuffia con il velo che le copriva i capelli, dando per scontato che ne avesse ancora, si avvicinò armeggiando una grossa spatola di legno e vetro.
La principessa si ritrasse, intimorita dallo strumento, comunque meno minaccioso di quello sguardo severo e imperscrutabile tralasciato dalle vuote pupille nere, attorniate da quella ragnatela di grinze.
Iniziò a strofinarla ripetutamente sulla pelle ricoperta di crema, per levigarla e renderla di velluto, provvedendo ad eliminare ogni pelo superfluo.
Fortunatamente i pochi peli che aveva erano chiari e sottili e vennero via con estrema facilità, ma si sorprese comunque della maestria e della sapienza con cui lavorò la donna, decisa e delicata insieme, che concluse il lavoro dopo due sole passate per gamba, senza proferir parola.
Non era scontato neppure che avesse i denti.
Venne risciacquata con acqua gelida ed asciugata ancora, per essere poi condotta ad un tavolino per la toletta.
Particolare attenzione doveva essere riservata alla pelle del viso ed ai capelli, i veri punti di forza del fascino e della celata sensualità femminile.
Tra gli altri materiali sul bancone riconobbe diverse polveri, di antimonio e di nerofumo, foglie di salvia, di lavanda e steli di rosmarino, del succo di limone e diverse uova.
Spuntarono due visi nuovi, anch’essi muniti di cuffia velata che, nonostante la giovine età, si occuparono di affinare ed assottigliare le sue sopracciglia.
Non che ci fosse poi molto da fare anche in questo caso, ma la perfezione non ha limiti e la fronte spaziosa andava particolarmente di moda in quel momento.
Spesso si fermavano ed annuivano l’una all’altra, per controllare che venissero uguali e, talvolta, si invertivano di posto.
Una quarta serva, corpulenta, dal volto sgraziato e lo sguardo truce, poggiò pesantemente una piccola tinozza di legno piena d’acqua sul mobile, di fronte a lei, schizzando lievemente.
Le altre la fulminarono simultaneamente per il rumore e quella arrossì, scoprendo i pochi denti gialli, con un’espressione talmente innocente ed imbarazzata che si dovette ricredere.
Un’altra dama si era occupata di spaccare le uova e riversarne tuorlo e albume in una bacinella.
Aurora si chiese a cosa potessero servire, ma si accorse che erano i gusci, quelli che non vennero buttati via.
Così, per la pulizia dei denti, usarono una mistura di polvere di corna di cervo con i gusci triturati nell’acqua fredda, che li fece apparire ancor più bianchi di prima.
Addirittura dotati di luce propria, paragonati alla scarsa illuminazione del mattino che solo ora cominciava a filtrare dalle finestre.
Per poi detergerle la pelle del volto, dopo averla aiutata a stendersi, usarono tre dei boccali pieni di latte, con speciali spugne a base di pane fresco.
Mentre percepiva le gocce di latte scivolarle sulla pelle, dalle gote ai lobi delle orecchie, dal mento lungo il collo, osservava altre due donne, che l’avevano precedentemente svegliata, che le tamponavano il volto con delicatezza, pensando quanta ironia vi fosse nel fatto che la gente patisse la fame duranti i disordini, ormai quotidiani, quando solo per lei venivano sprecati pane, latte e uova semplicemente per bellezza.
Non poté rimuginarvi sopra, poiché la sua attenzione venne pervasa dal dolce aroma che regalava l'affascinante acqua di rose, altro prodotto base per la pulizia del viso e del collo, recentemente scoperto, che giungeva dai mercanti della lontana Agrabah.
Qualche minuto dopo, il tempo necessario per non bagnare eccessivamente la pelle, venne invitata ad alzarsi.
Avvolta in un telo di lino più asciutto, venne fatta sedere innanzi ad uno strano mobile di legno che era composto da due metà piene di cassetti, unite nel mezzo da uno specchio che la rifletteva dalla testa alle ginocchia.
Sistemarono un catino su uno sgabello e lasciarono che i capelli ancora gocciolanti vi si posassero sull’orlo.
Vennero mescolate diverse sostanze vegetali con della polvere giallognola, che era zolfo.
Le venne massaggiato il cuoio capelluto con acquavite e detergenti di ogni tipo, profumo e provenienza.
Tornava ad essere estremamente piacevole il tocco sapiente di mani esperte sulla nuca, mentre i capelli le venivano pettinati, spazzolati ed arricciati e, per aumentarne ancora di più la lunghezza, vennero usati dei particolari toupet, di un colore simile al suo, che non avrebbe fatto la differenza, sotto al velo.
Chiuse gli occhi, sul punto di addormentarsi di nuovo, perché questo trattamento la rilassava a tal punto da farle dimenticare tutti i brutti pensieri, che erano oramai gli unici ad infestarle la mente, come fantasmi in un maniero maledetto.
Ma, ancora una volta, venne costretta a ridestarsi da sé, per proseguire con il minuzioso percorso destinatole.
Per quello che le dame chiamavo “maquillage”, invece, gli ingredienti basilari erano il rossetto e la crema, fatta di un intruglio di aceto e miele che conferiva all’incarnato un colore bianco ed opaco insieme, simile a quello di un confetto.
Dopo che il telo venne sostituito con una stretta sottoveste di delicato chiffon semitrasparente, la fecero nuovamente sedere ad una toletta, per truccarla.
Usarono, per gli occhi, due polveri nerissime, il carboncino d’antimonio e il nerofumo, che le donarono profondità ed espressione…sebbene non fosse un’espressione felice.
Altri cosmetici erano, poi, lo zafferano, che diede vivacità alle gote, la polvere di mandorle e le ali d’api che le donarono un effetto di fatata brillantezza.
Mentre poteva ammirarsi allo specchio, in tutto lo splendore reso perfetto dal piedistallo della sua già sorprendente bellezza naturale, l’ansia tornò a stringerla nella sua insostenibile morsa.
Fu il turno delle damigelle vere e proprie, che fecero la loro apparizione nella saletta, vestite tutte uguali per la cerimonia, con lunghe gonne rosa e corpetti porpora dalle scollature ampie e le maniche trasparenti, che lasciavano trasparire, agli sguardi più maliziosi, le nivee braccia e le innocenti, piccole spalle, con i capelli scoperti, ma legati ed acconciati in code e boccoli spirali, adornati con nastri rossi.
La strapparono a quel povero mondo di caricature umane, per portarla di nuovo nella stanza da letto, illuminata dalla flebile luce del primo sole.
Venne fatta salire su di uno sgabello di legno, mentre nacquero piccole lacrime, dal sapore di note perdute da un’amara melodia.
Davanti a lei venne scoperta la sua armatura.
La sua candida condanna a vita, più preziosa dell’oro, più pesante della promessa a cui sarebbe stata vincolata, più opprimente della prossima prigione.
L’abito da sposa.
Nel suo insieme, risultava grandioso, mentre, pezzo per pezzo, veniva smontato per essere riassemblato intorno a lei.
Per primo il corpetto, che copriva la stretta sottoveste, era di colore bianco latte, con perle cucite lungo tutto l’orlo della scollatura circolare, realizzata a pizzi, merletti e complessi ricami che andavano intrecciandosi e sovrapponendosi gli uni agli altri, lasciando scoperte le spalle ed il petto.
Attaccate alla scollatura due piccole spalline a sbuffo, anch’esse di chiffon, non troppo appariscenti, subito bloccate a metà del braccio da due bracciali d’argento tempestati di perle, da cui si sviluppavano, fin quasi a terra, due lunghe sovra-maniche pendenti aperte, decorate con cuciture e ricamate, che lasciavano intravedere le due maniche della sottoveste, aderenti al braccio fino al polso, dal quale si protraevano coprendo parzialmente il dorso di ogni mano fino al dito medio, dove terminavano unendosi ad un anello d’oro.
Era un’alternativa molto in voga ai veri e propri guanti, al momento.
Sul ventre era ricamata, sempre in oro, la rosa di Neustria, simbolo del re e del reame, tempestata di piccole perle e altre pietre bianche, da cui si diramava tutta una serie di decorazioni floreali in damascato che le adornavano il retro.
Sulla vita il corpetto terminava con la consueta forma a “V”, con una sottile bordatura di ermellino bianco che, sul davanti, pendeva con un laccio fino a sfiorare il terreno, lasciando spazio all’ampia, lunghissima gonna in seta color bianco ed avorio, decorata con broccato in filo d’oro e d’argento ed ancora bordata d’ermellino sul margine, con un pesante strascico che si stendeva per diversi metri.
I capelli, agghindati con fiori di biancospino, le vennero raccolti sulla nuca, fissati da una spilla, in oro e rubini, raffigurante la rosa regale, vessillo della famiglia, oltre che da una retina quasi invisibile e da una piccola tiara in argento decorato, tempestata di pietre preziose, posta quasi sull’attaccatura dei capelli, a cui era a sua volta legato un lungo velo di lino candido e organza, che adombrava i lunghi capelli -e i toupet- cadenti in boccoli d’oro, riempiti di nastri e collane, e superava grandemente, in lunghezza, lo strascico dell’abito, raggiungendo un’estensione notevole.
Al collo venne posato uno stretto girocollo d’argento e, sul petto, un prezioso diadema, sempre d’argento, incastonato di zaffiri e pietre preziose, simile alla tiara che portava sul capo.
Entrambi splendevano più che mai sulla sua pelle perlacea.
Si guardò ancora una volta allo specchio.
Bellissima, nobile, irraggiungibile.
Quell’immagine le sarebbe rimasta impressa per tutta la vita.
Da quel momento ogni cosa si fece sempre più veloce e distaccata tutt’intorno a lei.
Le ragazze ridevano e danzavano volteggiandole attorno, spandendo petali di rose bianche, in segno di buon auspicio.
Cercò di fare un passo per scendere dal gradino, ma inciampò ed urtò un’ancella, che cercò di sorreggerla, mentre le altre accorrevano in suo aiuto.
Il suo respiro si faceva sempre più affannoso, il calore asfissiante, mentre le cose si sforzavano di andare bene anche senza il suo consenso.
Cercò di liberarsi da quegli insopportabili rametti rinsecchiti che cercavano di tirarla su ripetendo ‘Principessa!’ come delle povere ossesse, ma si sentiva debole, incapace.
Si voltò alla ricerca di qualcuno di familiare.
Qualcuno che non era lì.
Qualcuno che, quel suo abito splendente, non avrebbe mai potuto ammirarlo.
Scombussolata, si tirò su guardando le punte delle scarpe allontanarsi, ma si accorse che non aveva fatto nulla da sola, poiché Febo la reggeva saldamente a sé, sorridendole dolcemente.
Il suo volto, a pochi centimetri da lei, era la cosa più dolce che avesse visto da quando, ore fa, la presero per violare il suo destino.
La barbetta era scomparsa, rivelando una fossetta sul mento, che lo faceva apparire comunque più giovane.
Si separò da lui, ringraziandolo sotto voce, tra sé e sé in realtà, sotto gli sguardi imbarazzati delle presenti.
Nella sua armatura dorata, con il consueto mantello blu sostituito da uno bianco lungo fino a terra, le porse il braccio per scortarla fuori, giù per le scale, fino alla carrozza.
Quello sguardo sicuro, devoto, amichevole, quasi fraterno, la tranquillizzò, ancora una volta, in quel continuo mutamento di emozioni contrastanti.
 
La carrozza, tutta rigorosamente dorata, splendeva nella sua meravigliosa statura, impreziosita da nastri e ghirlande di fiori, che ruotavano sul telaio ed attorno ai raggi delle immense ruote.
La madre l’attendeva a braccia aperte, innanzi ad essa, attorniata da una dozzina di cavalieri.
La regina Leah portava alla testa un elegante mazzocchio nero, decorato a strisce con perle e seta bianca, all’interno del quale si ergeva una piccola corona d’oro a punte, simbolo della sua posizione di sovrana madre del regno.
Dal complesso copricapo si protraeva un corto velo di raso nero decorato con un elegante pizzo sovrastante, che le copriva i capelli, soffermandosi fino a alle scapole, in segno di lutto per la perdita del marito.
L’ampia scollatura quadrata bordata d’oro, del corpetto nero, lasciava spazio ad una camicia di seta blu che le copriva il petto fino al collo, impreziosito da una semplice collana di perle nere.
Alla vita vi era una cinghia dorata, decorata e sapientemente ricamata, che tuttavia appariva agli occhi come una saetta, circondata com’era dall’ampia gonna color blu cobalto, in damascato decorato con merletti neri sul corto strascico che la seguiva.
Si avvicinò a lei, intimorita.
La donna le sorrise e la abbracciò accarezzandole i capelli, senza dire nulla.
Aurora chiuse gli occhi.
Ormai non c’era più spazio per le lacrime, non c’era più niente.
Senza aggiungere altro all’apprensivo colloquio visivo, la donna fece cenno ad un lacchè in livrea che, dopo aver aperto loro il portello, diede ordine a sua volta agli staffieri ed al cocchiere, che si posizionarono, mentre madre, figlia ed un paio di dame salivano sulla cassa.
Le restanti ancelle le seguivano, in due file, formando un fastoso, limpido corteo, mentre reggevano due ghirlande, una per lato, legate al cocchio, succedute poi dalla scorta, dove si trovava Febo stesso.
I massicci portoni di legno vennero spalancati e il fragoroso boato della folla in festa pervase l’aria mattutina.
I cavalli bardati partirono al trotto uscendo fuori dal complesso interno, per entrare nella vasta piazza circondata dalle alte mura esteriori della gigantesca fortezza, dov’era eccezionalmente concesso al popolo minuto di festare al passaggio di Sua Grazia.
Uomini e donne, bambini, contadini, artigiani, artisti, musici, mercanti, ma anche cavalieri, dame, nobili, ambasciatori e digniatri…
Riempivano tutto lo spazio disponibile, affacciati dai ballatoi e dalle bifore delle mura, dai balconi e dalle finestre, poggiati alle fontane zampillanti d’acqua cristallina, sul ponte che sovrastava il fossato e ovunque vi fosse posto, agitando fazzoletti e festoni, lanciando fiori ed inneggiando alla loro amata principessa.
Era stato lasciato libero solo un corridoio, circondato da due file di soldati allineati muniti di alabarde, che, in linea retta, divideva lo spiazzo in due parti ed avrebbe permesso il breve viaggio della processione verso la celebrazione vera e propria, nella grandissima basilica.
Le due ali della calca erano aperte attorno ad esso, ammassate per vedere meglio.
Aurora osservava sua madre che agitava la mano con grazia verso il suo popolo, ma non fece altrettanto, limitandosi ad osservare le mille facce differenti che scorrevano l’una dietro l’altra lentamente, siccome procedevano a passo d’uomo, mentre le auguravano felicità, salute, fertilità ed ogni altro bene, sorridendole, piangendo contente, intente ad ammirarla come una dea, vivendo questo giorno come fosse la loro figlia, la figlia di tutto il regno.
Diversi minuti dopo, giunti innanzi al tempio, il lacchè aprì la portiera e porse la mano alla regina, che scese salutando, un po’ intimidita.
Dall’interno, Aurora vide l’abito blu della madre scostarsi e la mano dello staffiere protendersi verso di lei.
Indecisa, tremante d’agitazione, sotto gli sguardi incitanti delle indesiderate accompagnatrici, vi poggiò appena appena la propria e si sentì trascinata con estrema delicatezza verso l’esterno.
Rimase abbagliata dalla luce splendente che la colpì in volto tanto che dovette chiudere gli occhi.
E rimasero abbagliati tutti i presenti, nel vedere quella sposa d’oro e di bianco vestita, mentre le ancelle si preoccupavano di raccoglierle il velo, ammassato all’interno.
Aurora si voltò e rimase ancora meravigliata per l’edificio che, di fronte a lei, si innalzava torreggiando verso l’alto dei cieli.
Gli altissimi contrafforti sulla facciata, interamente decorati con bassorilievi e figure geometriche ed incastonati con nicchie contenenti statue marmoree, si elevavano ad archi rampanti che parevano volare, mentre si sovrastavano gli uni agli altri fino a tornare perpendicolari alle altissime pareti decorate a cui si riunivano sbocciando in elaboratissimi pinnacoli e guglie.
I tre grandi portali strombati a sesto acuto erano tutti spalancati e lei entrò da quello centrale, il più grande, il più alto ed il più importante.
Passandovi sotto fu circondata dal tenue colore rosato riflesso dalla muratura di granito.
La lunetta sopra l'architrave, che rappresentava un giovane cavaliere trafiggere un drago, le riportò alla mente Filippo, mentre una lacrima leggera le calò dal volto, dal sapore di amara delusione e rassegnato sconforto.
L'arco era contenuto tra due lesene scanalate e lo spazio superiore era arricchito da due grandi losanghe, all'interno delle quali alloggiavano due bellissime rose di pietra.
Gli interstizi tra le colonne dell'arco erano ornati da figure che rappresentavano arti e mestieri e, lungo tutta la superficie, da figure immaginarie e mostruose, tra fiori e foglie.
Le eleganti colonnine nelle strombature, decorate con con ghirlande ed edera di pietra, si univano formando un armonioso ed elevato arco acuto, sotto il quale lei passò.
Una volta entrata l’effetto visivo fu quasi opposto e le ci vollero diversi secondi per abituarsi all’ambiente, luminoso, ma comunque molto meno rispetto all’esterno.
Guardava fissa davanti a sé, senza osservare nulla in particolare, aspettando.
Mosse un lieve passo incerto, ma si fermò.
Si voltò alla ricerca di sua madre o di un qualsiasi assenso.
Dietro di lei vi erano otto damigelle a reggerle il velo, quattro per lato, seguite dalla regina Leah, poi dalle altre sei ancelle ed infine Febo e altri due uomini.
La sovrana, che continuava a sorriderle, fece un imperscrutabile movimento con le dita, in segno di procedere.
Improvvisamente le trombe annunciarono, suonando solenni, la sua entrata.
Osservata da ogni singolo ospite, che si voltò verso di lei.
Accecata, assordata, fece un secondo passo, poi un terzo, un quarto, un quinto…finché non le sembrò naturale e smise di contare.
Guardava intimorita verso il basso, il pavimento di marmo che costituiva un intricato labirinto tra le mattonelle più scure e quelle più chiare, ma si rese immediatamente conto che, così facendo, trasgrediva l’etichetta, così tentò di sollevare il mento e darsi un’espressione almeno dignitosa, se non felice, come le avevano insegnato.
All’interno, i pilastri a fascio, che sembravano innalzarsi fino al cielo, aprivano le nervature dei costoloni sulle altissime volte a ventaglio che chiudevano il soffitto di pietra nell’immensa navata centrale.
I mille colori della luce arcobaleno che entrava dalle altissime finestre polifore con i rosoni dai decorati vetri policromi, raffiguranti immagini di ogni sorta, occupavano quasi ininterrottamente il cleristorio, divise solo dalle esili lesene, fino all’abside, attorno alla quale giravano.
Dal triforio sottostante, sopra le navate laterali, decine di ospiti erano affacciati alle alte loggette, comunque in numero esiguo, rispetto agli invitati seduti ai banchi di pregiato legno scuro, lungo tutta la navata principale e quelle laterali, dove si trovavano in piedi, con gli occhi puntati unicamente su di lei.
Tutti con indosso pomposi e superbi abiti dalle fogge rare e pregiate, ornati con pellicce, ermellini, sete colorate, pietre preziose, drappi d’oro e stemmi bardati.
Tutti nella maniacale ricerca di apparire ricchi, potenti ed influenti, con calzebrache quartate in colori accesi ed allegri, giubbe ricamate, guanti ingioiellati e merlettati, borzacchini di fine cordovano e scarpe col tacco, parrucche e ventagli in piume grigie o fastosamente decorate.
Regnava la musica, poiché nemmeno le dame più frivole potevano permettersi di deridere quella visione d’incanto.
Man mano che si avvicinava, notò che l’ambulacro retrostante l’altare era popolato dagli alti prelati di tutto il reame che parevano ammuffiti sulle loro ricchissime panche pregevolmente intarsiate le quali, disposte a semicerchio seguendo l’abside, su tre livelli di altezza, sembravano più un tribunale dell’inquisizione, che un sacro coro.
Ma non erano loro ad aver catturato il suo sguardo.
Era colui che stava eretto davanti a loro e, dandogli le spalle, guardava proprio lei.
Il suo promesso.
Salì i due gradini che la portarono sul fianco sinistro del ragazzo.
Era bello, proprio come doveva essere un principe.
Con il naso dal profilo diritto, leggermente affilato e le labbra carnose, il mento e la mascella pronunciati, ma non sporgenti, era perfetto.
Dal suo abito, due grandi maniche a sbuffo sulle spalle, costituite da strisce di tessuto damascato color rosso e porpora e di velluto nero, rifinite e decorate con filo d’oro, che si alternavano senza unirsi tra di loro, da cui spuntava il color avorio della camicia di lino sottostante, come una vaporosa nuvola estiva.
La maglia colorata era coperta da uno stretto gilet attillato di pelle, nero a scaglie argentate, con due spalline in metallo rifinito che sovrastavano le ampie maniche sottostanti.
Dal colletto alto e rettangolare, che in parte adombrava quel tanto discusso codino, si stendeva un candido plastron bianco che gli illuminava il volto, puntato con una perla.
Una fascia rossa e oro, decorata con fili d’argento e broccato in disegni di gigli e rose incorniciava il tutto, e, dalla spalla destra, si univa, sul fianco sinistro, al cinturone posto alla vita, che lo faceva apparire ancora più aitante, con i fianchi stretti e il dorso largo, il sogno di ogni principessa.
Portava un paio di guanti di pelle, anch’essi neri, decorati in un ricamo rosso e oro che, sul polso si allargavano fino a metà dell’avanbraccio e che, per certi versi, ricordavano quelli di un falconiere.
Alle dita portava diversi anelli, uno d’oro con rubini sull’indice destro, uno d’argento e ferro sul medio sinistro, mentre l’anulare della stessa mano era libero per essere occupato dalla fede nuziale.
I pantaloni grigio scuri a bande ricamate, aderenti alla pelle, erano coperti, dal ginocchio in giù, da due alti stivali lucidi e nerissimi, in pelle e cuoio, che si concludevano con un risvolto in feltro adornato da un rubino sul ginocchio.
Un lungo mantello rosso bordato d’ermellino, dall’imbottitura metallica sulle spalle, gli scivolava con maestà lungo gli scalini.
Alla testa, la corona ducale d’oro, incastonata alla base con rubini, alternati a zaffiri da decorazioni bronzee e incisioni nel metallo, sormontata, poi, da otto fioroni sostenuti da punte, ed alternati da otto perle bianchissime.
I due si guardarono negli occhi per un attimo infinito.
L’oratore si erse dall’altare e, dorato nella sua ricchissima casula, incoronato con la mitria, anch’essa di pregiatissima fattura, allargò le braccia in un abbraccio metaforico ed iniziò la celebrazione.
 
Seduto su una panca in quarta fila, dal lato della sposa, affacciato verso il centro, Frollo assisteva attento alla cerimonia, ripetendo a bassa voce tutte le formule religiose pronunciate dall’uomo.
Vestiva una tonaca di seta e raso lunga fino alle caviglie, nera a strisce grigie verticali, con le falde foderate in pelliccia di marmotta.
La scollatura quadrata era coperta da una giubba sottostante di color marrone scuro, simile a quello del pelo, la quale, a sua volta, copriva la camicia, il cui stretto colletto sporgente aderiva perfettamente al collo lungo e sottile dell’uomo, tenuto da una spilla preziosa in argento e perle.
Sulle spalle una larga imbottitura formava due lunghe spalline a strisce nere ed arancio scuro, da cui si protraevano due maniche grigie, ampie fino al polso, dove si stringevano aderenti.
Tra le mani, impreziosite da diversi anelli dai colori sgargianti, reggeva il suo cappello tricorno gonfio a strisce nere e viola, con il tocco rosso che toccava il pavimento.
Ai piedi due scarpe appuntite scure, con la suola di cuoio duro e la tomaia in pelle, circondata da uno strato di seta nera.
Davanti a lui lord Tremaine, a cui spettava, tra quelle privilegiate, una posizione ancora migliore.
Si protrasse all’indietro con difficoltà, data l’armatura che indossava e sussurrò all’uomo accanto a Frollo.
“La ragazza doveva indossare il velo anche sul viso, non è forse così? Chi diavolo si è occupato di prepararla!?”
Lord Faloys, questo era il suo nome, gli rispose, leccandogli i piedi come un servo.
“E’ giunta con il volto scoperto! Senza nulla che la celasse alle impurità”
Spazientito, il ministro intervenne chiudendo la questione.
“Non vi è mai stato nulla di necessariamente religioso nel coprire il volto di una sposa, fuor che la necessità di nasconderle il viso qualora lo sposo, nel vederla, cambiasse idea e decidesse di non rispettare gli accordi presi, ma nel caso della principessa non ve ne è alcun bisogno”
I due lo osservarono interrogativi.
Sbuffò e riprese, osservandola di spalle.
“Ella ha il corpo ben fatto, i fianchi stretti, il collo più bianco della neve su un ramo, i suoi occhi sono grigio-azzurri, il viso chiarissimo, la bocca gradevole ed il naso regolare, ha le sopracciglia brune, la fronte ampia, i capelli ricciuti e biondissimi, alla luce del giorno più luminosi dell’oro”*
Di fronte all’ovvietà i due non dissero altro e Frollo riprese la sua sottile cantilena.
Tremaine, che avvertiva il filo della sua voce, storse il naso e sbuffò a quella povera dimostrazione d’affanno religioso.
Si spostò a destra, con l’intento di ostruire la vista del rivale con la sua stazza massiccia, evidenziata dal vestiario.
Indossava la sua armatura personale, che faceva sfigurare quella dorata del capitano Jehan, di Febo, come di tutte le guardie del re.
Era in metallo, decorata in bronzo ed argento, con una cascata di pietre preziose, rilucente come una luna piena nella notte, che oscura tutte le stelle del cielo.
La corporatura muscolosa, il mento prominente sospinto verso l’alto in un’espressione altezzosa e il portamento fiero lo rendevano un cavaliere quasi perfetto, facendolo apparire più bello di quanto non fosse usualmente, soprattutto poiché lo sguardo veniva distolto dal volto.
Il petto della corazza, fino alla panziera, era finemente decorato ed inciso con forme floreali e motivi fantasiosi di ghirigori e arzigogoli svolazzanti, che contornavano il blasone del casato, con due cani rampanti circondati da due rami di alloro con delle strisce rosse e bianche sul retro, realizzate tramite l’incastonatura di decine di rubini e diaspri, alternati a quarzi e perle.
La gorgiera, poi, era un tripudio di pietre preziose e bronzo dorato, incastrate tra le varie lame, da cui si poteva appena appena intravedere la cotta di maglia.
Gli spallacci, appuntiti a chiodoni, rivelavano un intricato gioco d’intrecci fra questi ultimi, alternati in oro ed argento in un’intoccabile scacchiera abbagliante.
I fiancati a lamine di bronzo, fusi ed incisi con motivi arabescati, lasciavano spazio ai cosciali di metallo, anch’essi dorati e finemente decorati, fino ai ginocchielli che, in forma di testa di cane con due topazi al posto degli occhi, riprendevano il motivo dello stemma, per poi continuare con le decorazioni di lauro degli schinieri, simili a quelli sulle cubitiere e sui mitteni, decorati con smeraldi.
Sulla destra, tra il fianco e il braccio reggeva l’elmo a bocca di rana, in bronzo, con un fastoso, coloratissimo pennacchio.
Il tutto doveva pesare più di trenta chili, ma egli non mostrava il segno del minimo sforzo nell’indossarla.
La donna accanto a lui, sua moglie Lady Tremaine, indossava un lungo abito ampolloso di seta verde, guarnito di ermellino bianco sulle maniche a sbuffo, sul bordo e sulla scollatura quadrata, la quale lasciava spazio ad una camicia di organza decorata a pizzi che chiudeva fino al collo.
Dal corpetto a fiocchi pendevano nastri e strisce di tessuto azzurro e blu sulla gonna, scarsamente decorata.
Dalle spalle lasciava calare una stola finemente ricamata, di color blu.
L’acconciatura a forma di cuore era coperta da un velo merlettato quasi trasparente, simile allo scialle, che pur lasciava intravedere i capelli già brizzolati.
Portava una collana di grosse perle e pietre verdeacqua, simile agli orecchini circolari, dello stesso colore, che si rifacevano chiaramente agli occhi di smeraldo.
Se probabilmente era la dama vestita più sobriamente fra tutte, lo stesso non poteva dirsi delle due figlie che le sedevano accanto.
Le due bambine, di appena cinque anni, erano un tripudio di ricchezza che, sui loro corpicini tozzi e cicciottelli, appariva più grossolana che altro.
Una, di nome Anastasia, con i capelli in boccoli, rossi come quelli del padre, aveva un abitino ampio con una sottoveste di seta rossa e un’ampia gonna di organza rosa a falde, stretta in vita da una cinghia decorata d’argento e due spalline a sbuffo quasi sferiche che circondavano la testolina, mentre al collo portava un lungo ciondolino.
L’altra, di nome Genoveffa, con i capelli stretti da un grande fiocco celeste, nerissimi come forse dovevano essere stati un tempo quelli della madre, portava un abito quasi uguale, verde chiaro e scuro a falde, con una lievissima scollatura a punta, come quella che soleva indossare Aurora.
 
Le trombe tornarono a suonare, accompagnate dal coro angelico di voci bianche che sopraggiungeva dal transetto.
Mentre il retore decantava con astruse formule la solenne promessa, guidando le mani dei due nel congiungersi l’un l’altra, egli si occupava delle fedi nuziali.
Ignorando le lacrime che, come rugiada, sfioravano le gote pallide o il rossore imbarazzato, li legò nel sacro vincolo per sempre…o finché la morte non li avrebbe separati.
Al momento dell’aulico giuramento, le parole dei promessi accennarono flebilmente e quando il momento del bacio sopraggiunse inevitabile, con gli occhi di tutti i presenti fissi sul momento in cui l’intera trama politica sarebbe divenuta ufficiale.
Dopo minuti di spinoso silenzio, dove i denti di molti stridettero per la rabbia o per la goduria, Adam si abbassò lentamente, mentre Aurora gli venne incontro nel tentativo ultimo di adempiere alle sue responsabilità.
Il minimo contatto con le sue labbra le permise di constatare quanto fossero fredde ed asciutte rispetto a quelle che le restituirono la vita.
Dopo un istante si separarono, senza più guardarsi negli occhi, senza guardare nessuno.
Il predicatore li osservò perplesso, ma riprese il suo rito senza essere ascoltato, come di consueto, quando improvvisamente dopo diversi minuti, si protrasse lievemente in avanti e ripeté sussurrando al principe
“Vostra Grazia…dovreste inginocchiarvi”
Il giovane lo osservò assorto, per poi rendersi conto della richiesta, esortata per la terza volta dall’anziano uomo, col volto paonazzo e sudato per la tensione dell’inusuale situazione.
Esitante, non riuscì a trattenere un lievissimo gemito di imbarazzo, scosse il capo come per riprendersi da quello torpore assorto e s’inginocchiò lentamente sul freddo, duro gradino di pietra, soppesando ogni singolo movimento.
Aurora fece lo stesso, con estrema grazia, ma lui non ebbe l’ardire di porgerle il braccio per aiutarla e se ne vergognò come un bambino che commette una birbonata.
L’uomo si avvicinò a lui e, a braccia aperte, dopo aver profondamente inspirato, declamò a gran voce ulteriori frasi rituali per l’evento più significativo che comportava quella cerimonia.
Alla sua destra apparve un corteo di paggi elegantemente vestiti con livree porpora e argentate.
I primi due sorreggevano un grande cuscino quadrato di velluto rosso, pomposamente imbottito con piume d’oca e finemente decorato con un broccato di pregevolissima fattura, bordato e profilato con ampie nappe su ogni angolo.
Sopra vi era adagiata la corona formale dei sovrani di Neustria, essenza di potere e sovranità, garante essa stessa della perpetua successione, simbolo dell’immortalità della monarchia che, compianto Stefano, era pronta a rifiorire con Adam sotto l’egida della fede che, inafferrabile ed imperituro, il re non muore mai.
Ai primi due valletti, seguivano altri due che reggevano due alabarde incrociate, legate insieme da un velo di tessuto cremisi che celava il gioiello come un baldacchino.
Altri due, dietro ancora, portavano un secondo cuscino, simile al primo, di colore blu, con la tiara della regina, coperta anch’essa da un candido zendado bianco.
Rimossagli la corona che aveva indosso e poggiata con cura su un terzo cuscino uscito di scena, l’oratore poggiò la mano rugosa sul suo capo e lo benedisse invocando tutti gli avi ed i patroni del reame, che potessero guidarlo con grazia e con saggezza e che il suo regno potesse durare cento anni e che portasse gloria e prosperità ai suoi sudditi tutti e che generasse una prole numerosa e feconda.
Scostò il telo che copriva la corona e la prese con fermezza.
La tirò su quasi sbuffando per la pesantezza e la sollevò a fatica verso l’alto, così che la luce potesse investirla e che tutti potessero ammirarla luminosa e raggiante.
Subito dopo la calò lentamente sulla sua testa.
Adam avvertì il peso farsi sempre più opprimente sul suo collo, finché non si interruppe e lui ondeggiò impercettibilmente per non perdere l’equilibrio.
Lo splendore del diadema non aveva eguali nella sala.
La base era incastonata di enormi rubini, smeraldi e zaffiri, alternati con decorazioni in argento, compresi tra due file di perle bianche, sormontati da otto gigli d’oro, da cui si diramavano altrettanti archetti, ricoperti di lapislazzuli e perle, che, sulla sommità, congiungevano in un globo sormontato da una rosa di rubini, che sovrastava il tocco color porpora.
Simile, ma più fine nei tratti, quella della regina, che venne adagiata sul capo della principessa, mentre l’intera sala tratteneva il fiato chiedendosi se il peso dell’ornamento avrebbe spezzato quel giovane fuscello appassito.
Il giovane si rialzò con uno sforzo che, dopo tutto quel tempo, gli parve disumano e gli fece tremare il ginocchio, pregando sinceramente qualsiasi essere vi fosse oltre le nuvole perché la corona non cadesse rovinosamente.
Si voltò subito verso la sposa, ancora pietrificata a terra e si chiese se anche lei condivideva i suoi timori, sorprendendosi poi, di quanto si fosse lasciato trascinare dalla gravità della situazione.
In fondo non gli importava davvero se anche fosse caduta, se si fosse distrutta o se gli fosse stata sottratta.
Si avvicinò comunque alla ragazza e l’aiutò a rimettersi in piedi, evitando il suo sguardo, che restava comunque incollato al pavimento.
I due vennero invitati a voltarsi verso gli invitati, la dichiarazione solenne venne pronunciata a gran voce e Adam ed Aurora furono proclamati re e regina di Neustria.
Tutti i presenti, da Frollo a Tremaine, s’inginocchiarono prestando giuramento al sovrano ed al paese.
La cerimonia si concluse con esclamazioni di tripudio ed ovazioni concitate ai nuovi monarchi, che dovettero farsi avanti con forza, nuovamente scortati da cavalieri, guardie, dame e nobili del corteo lungo la navata, verso il portale, che venne aperto pian piano, lasciando che il boato della folla si sprigionasse in tutta la sua incontenibile ebrezza.
Un calesse aperto ricoperto di rose li attendeva al di fuori dell’edificio, per il ritorno verso il palazzo reale.
Come due bambini spaventati, il re e la regina vennero guidati ed invitati a salire.
Fiori, ghirlande, festoni venivano lanciati verso la coppia al passaggio dei cavalli.
Gioia ed eccitazione pervadevano uniformi quasi ogni anima accorsa in quel piazzale.
Ma se c’era una causa ancor più indirizzante a questi fasti era l’imminente banchetto di nozze, i cui avanzi distribuiti avrebbero sfamato il popolo minuto per giorni.
Così la gratitudine ed il giubilo s’esprimevano nella più concitata delle manifestazioni collettive.
 
Ovunque nell’immenso salone centrale stendardi pendevano dalle altissime capriate lignee del soffitto.
Aquile nere su sfondo rosso, gigli in campo verde, croci arancio su sfondo beige ed ancora dragoni rampanti, leoni, falchi, lepri, delfini, fiori, torri, scudi, scacchiere, pennacchi in campo blu, giallo, porpora o qualsiasi altra tinta.
Più grandi degli altri erano quelli della rosa rossa centrata in campo porpora del re e della rosa gambuta in campo azzurro di Adam.
Non a caso già le chiamavano le nozze delle due rose.
Sottostante a quest’emblematica sfilata, tavole coperte da coloratissime tovaglie, unite a formare un unico lunghissimo banco, circondato da altri minori, tutti agghindati con saliere d'argento, forchette e coltellerie, pinte d’avorio, nappi, stoviglie e suppellettili d’ogni genere, oltre che le immancabili rose.
Sulle logge sopraelevate, affacciate sulla sala dagli esili colonnati, vi erano altri deschi ancora, decorati con mille dettagli ed accortezze, dove avrebbero preso posto gli ospiti meno illustri.
Su ognuno, poi, una grande tazza d'argento colma d'acqua per rinfrescare bicchieri e bibite.
Ogni tavolo era, inoltre, rallegrato da danze, musiche e piccoli spettacoli.
Le sue dame la accompagnarono al posto d’onore, sulla destra del trono a capotavola, riservato al sovrano.
I commensali iniziarono a prendere posto ai rispettivi scranni, parlando tra loro, scortandosi vicendevolmente, talvolta scambiandosi di posto in una rumorosa quadriglia doviziosa.
Aurora si chiuse tra sé e sé, ignorando senza neppure guardare i presenti vicino a lei che, ossequiosi, si accostavano inchinandosi al cospetto suo e di suo marito.
Frollo prese posto poco più avanti, sul lato opposto al suo, accompagnato da un altro uomo dall’aspetto di un barbagianni, con una lunga tonaca rosso acceso ed il naso adunco di proporzioni sgraziatamente smisurate.
Le conversazioni si sovrapponevano le une alle altre, rimestandosi nell’aria dell’immensa sala, confusionarie e caotiche.
Le facevano venire il mal di testa, compresi i suoi vicini, uomini e donne, che cercavano di mantenere quantomeno un po’ di contegno nelle loro sperequazioni.
Le mani, sotto la tovaglia, si strofinavano nervosamente l’una nell’altra, premendo sullo stomaco, serrato in una morsa nauseabonda.
Abbassò lo sguardo sul suo piatto dorato, per poi rialzarlo qualche secondo dopo, per effetto delle trombe che annunciavano ufficialmente l’inizio del banchetto.
A quel punto i conviviali si affrettarono a prender posto anche nelle tavolate minori.
Ogni portata sarebbe stata anticipata dagli squilli delle trombe.
Camerieri e portatori erano fermi ai piedi dello scalone e, solo a un cenno stabilito dello scalco, appena dopo il suono, si diressero in parte presso il tavolo centrale nel salone ed in parte nelle logge superiori, di modo che le vivande si posassero tutte assieme ad ogni seggio.
La prima vivanda servita era della crema di fave, accompagnata con verdure e crostini di pane aromatizzato alla birra.
Ovunque servi e cameriere reggevano pinte, giare o piccole otri, contenenti acqua, birra chiara, birra doppio malto, latte e latte di mandorla, vino, sidro e succhi di ciliegie di stagione, per servirli qualora ve ne fosse la mancanza e riempire il bicchiere di ogni commensale.
Aurora si limitò a sorseggiare del succo, lasciando intatto il contenuto del proprio piatto, mentre Adam faceva roteare sempre lo stesso vino all’interno del del proprio fastoso calice, senza sollevare lo sguardo.
Al centro di ogni tavolo c’erano vassoi d’ottone colmi di frutta.
Le ultime mele e i primi lamponi ed i mirtilli, grosse arance dal colore acceso e prelibato, oltre che ciliegie, limoni, forse eccessivamente maturi, e fragole.
Tutte quelle tonalità allegre ed intense le avevano catturato lo sguardo.
Improvvisamente Tremaine, distante una mezza dozzina di seggi da lei, afferrò una fragola con uno scatto fulmineo e, a gran voce, si rivolse alla nuova sovrana.
“Mia regina, sapete come sono nate le fragole?”
Le chiese affabile indicando il frutto tra le sue tozze dita con un cenno del folto sopracciglio.
I presenti intorno si voltarono verso di lui, mentre Aurora sollevò lo sguardo e lo inquadrò senza guardarlo veramente, senza pensare a nulla.
Osservò solo la fragola.
Quel piccolo frutto, dolce e delicato, nelle mani di uno spietato aguzzino.
Tutti loro erano degli aguzzini.
Tutti loro che la guardavano fissi, in attesa della sua reazione, di cui si interessavano solo per poter tornare a pendere dalle labbra di quell’uomo
Tremaine riprese il suo discorso, interpretando il silenzio della giovane come un’esortazione a continuare.
“Sono nate dal pianto di un’antica e bellissima dea, che, alla morte del suo amato, pianse copiose lacrime, le quali, giunte a terra, si trasformarono in piccoli cuori rossi!”
Qualche signora emise un gemito di sorpresa, mentre il gruppo tornava a distrarsi da quell’attimo di silenzio.
Un’altra mano si fece largo per raggiungere un’altra, tra le deliziose fragole.
Tra le sue dita lunghe ed affusolate, Frollo rimirò il succulento frutto portandolo vicino al viso.
“E’ una storia ridicola”
Proferì ligio e sentenzioso come il giudice di un tribunale.
“Va ringraziato solo il cielo per l’abbondanza di buon cibo al desco del re”
Tremaine roteò gli occhi sbuffando e rispose seccamente.
“Lo stesso non si può dire dei commensali”
 
La crema di fave lasciò il posto a dei lunghi taglieri di legno, pieni di formaggi vari di pecora e capra, anticipati dal solito annuncio di tromba.
Anche stavolta Aurora si limitò nel toccare cibo e lo stesso fece Adam, rinchiuso in quel covo di stranieri.
Per mera cortesia, si finse sorpreso quando raffinati recipienti fecero il loro ingresso, portando dei pistacchi, mitici frutti dalla lontanissima Agrabah, che non poté trattenersi dall’assaggiare, così come quasi tutti i presenti, inclusa sua moglie.
Questa parola lo straniva.
Aveva perso valore, ora che coronava la testa di un’altra donna.
Chissà come stava Belle.
Come avrebbe preso la notizia? Ammesso che non l’avesse già appresa.
Lo avrebbe mai perdonato?
Sarebbe riuscito a sposarla un giorno?
Ormai non importava davvero.
Che razza di uomo era, se si era lasciato obbligare a compiere un passo del genere?
Certo i soldati, quelle stanze anguste in cui lo avevano rinchiuso, la mancanza di cibo…
E poi c’era il suo dovere.
Avrebbe dovuto compierlo, perché questo significava essere nobile e così gli avevano insegnato sin da bambino, prima che lo lasciassero solo.
Ma lui non era mai stato un bravo signore.
Non fino a quando l’aveva conosciuta, non fino a quando non gli aveva ricordato cosa poteva essere, a dispetto del suo aspetto fisico.
Ed ora probabilmente l’aveva perduta per sempre.
Tutto per via della sua incapacità nell’affrontare la vita.
Perché di questo era colpevole.
Chiuso in un palazzo per ventuno anni in un esilio volontario che non solo aveva compromesso il suo corpo, ma aveva strappato via anche la sua umanità.
Ed ora che aveva la possibilità di dimostrare a Belle di non essere solo affascinante, dopo che lei gli aveva restituito le sue fattezze, ma anche capace di affrontare la vita e di proteggerla, si era reso conto con lui stesso che non era così.
Che non era ancora pronto.
Che era tutto come quando era solo un bambino e forse non era mai cresciuto davvero.
Non bastava un bacio per quello.
Rinsavì quando un timido servitore gli si avvicinò con un inchino impacciato, chiedendo il permesso di portare via il suo piatto, immacolato.
Le trombe annunciarono ancora una volta e fece la sua entrata trionfale il cappone arrostito accompagnato con cipolle, chiodi di garofano, sedano e carote, al termine del quale venne seguito, dopo un altro squillo, da pollo con rosmarino, salvia, aglio, uova, arricchito con zafferano e pepe ed ancora, successivamente, una minestra di pesce e farro, con olio e prezzemolo.
L’esercito di servi si muoveva quasi a passo di danza per la sala, mentre i piatti vuoti venivano sostituiti con la massima velocità ed i bicchieri venivano riempiti continuamente, con gran piacere e godimento degli ospiti.
L’orata alle melanzane, ricoperta di fette d’arancia, insieme con miele ed olio si legava perfettamente alla minestra, mentre lo stufato di cinghiale con rosso d’uovo, fette di pane e formaggio, bagnato con latte di mandorla, riportava il saporito gusto della carne al palato, seguito dallo speziato spezzatino di selvaggina in brodo e dai fagiani ripieni con rosmarino, salvia, cipolla, lardo di maiale e limone, cosparsi nel vino.
L’agnello rosolato con albicocche secche, pinoli, ravanelli, rape ed olive con aceto ed olio chiudeva le principali portate del fiume di leccornie che defluiva ad ogni stomaco.
L’ormai noto squillo di trombe offrì una fresca insalata con lattuga, ravanelli e rape, che si fece largo tra i più sazi, ma solo per preannunciare l’arrivo delle successive focacce al miele con mandorle, scorza grattugiata d’arancia e noce moscata, delle frittelle di mele, dei dolcetti di marzapane alla cannella e delle crostate alla ciliegia con crema pasticcera.
I dolcetti ebbero particolare successo tra la folla.
Tremaine ne trangugiava a coppie senza alcun ritegno, sotto lo sguardo seccato della moglie, che aveva ridotto gli occhi a due sibilline fessure di smeraldo.
Un altro suono, Aurora ne aveva ormai perso il conto, scortò l’entrata di decine di ceste frutta.
Si chiese quale fosse il senso di portare altra frutta quando questa già abbondava nei centrotavola, ma evidentemente era troppo stupida per comprendere, si disse.
Lasciò il suo piatto immacolato ancora una volta.
Non aveva assaggiato neppure metà di tutte le pietanze che vennero servite nel corso del banchetto, aveva evitato il pesce, perché non le era mai piaciuto, ed aveva gustato solo il pollo e lo stufato di cinghiale, mentre aveva giusto assaggiato il cappone e lo spezzatino di selvaggina, che non aveva comunque concluso.
Eppure, fortunatamente, nessuno parve farci caso.
Era in un certo senso la festeggiata, il motivo per cui tutti quei nobili pomposi erano lì, ma passava sempre tanto inosservata quanto il suo nuovo marito.
E chi meglio di lei per saperlo.
Gli era vicina da ore, ma non aveva avuto il coraggio nemmeno di alzare lo sguardo per osservarlo.
Nessuno parlava con lui, né con lei.
Lei non parlava con lui e lui non parlava con lei.
Nessuno parlava con il re e la regina ed il re e la regina non parlavano tra loro.
Guardandosi intorno, si chiese dove fosse sua madre, era inusuale che non le fosse vicino.
Chiunque aveva predisposto i seggi aveva proprio voluto negarle ogni soddisfazione, constatò.
Non che avrebbe fatto la differenza dopotutto, di poche parole com’era l’avrebbe solo tediata con le sue futili preoccupazioni sul cibo.
Nemmeno Flora, Fauna e Serenella erano in vista.
E forse era meglio così anche per quel verso, dove invece l’avrebbero soffocata con le loro questioni sulla compostezza e la loro apprensione
Possibile che non ci fosse nessuno in quella grandissima sala colma di centinaia di persone che non l’avrebbe fatta soffocare di angoscia?
Sbuffò rumorosamente per via della stanchezza, sollevò il mento verso l’alto per distendere il collo, le doleva ancora per il peso della corona che aveva sorretto durante la funzione.
Chiuse gli occhi per isolarsi ed evitare di incrociarli con quelli di qualcun altro.
Il minimo contatto l’avrebbe fatta scoppiare in lacrime e lo sapeva.
Anche saperlo l’avvicinava sempre di più a quel momento.
Immaginare, poi, quello che sarebbe accaduto dopo mangiato, quella notte, la fece rabbrividire.
Nessuno aveva avuto il coraggio di dirle cosa sarebbe accaduto, ma a quanto ne sapeva, e non era molto, per quanto naturale che fosse la questione, lei avrebbe dovuto passivamente lasciare che il destino seguisse il suo corso.
Alcune signore la destarono con dei gemiti di ammirazione.
Socchiuse l’occhio destro per sbirciare.
Immediatamente intercettò lo sguardo di Adam, che la fece sussultare per un attimo fulmineo, irrigidendola tutta in un battito di ciglia, con il volto paonazzo.
Ciononostante l’attenzione di entrambi venne catturata dall’altissima montagna che fece ingresso fino al centro del salone, seguita da uno squillo di trombe più solenne dei precedenti.
La torta nuziale venne trasportata con un capiente carrello, che circondava la larghissima base e si muoveva pericolante sul pavimento porpora di pietra.
Era composta da un’altissima montagna di bignè, riempiti con crema pasticcera e ricoperti di panna, insieme a fragole, canditi ed abbellita con delle rose bianche e rosse, il tutto tenuto insieme da sottili e delicati filamenti di caramello caldo, che giravano tutt’intorno alla struttura, dalla base alla cima, in un’elaboratissima rete.
Una serva la invitò ad alzarsi.
Adam la prese a braccetto, guardandola diritta negli occhi e questa volta si lasciò rapire dalla profondità dello sguardo ghiacciato del giovane.
Un silenzio innaturale calò tra le decine e decine di invitati.
Si avvicinarono al dolce, che torreggiava sopra di loro.
Doveva essere alto due metri, come minimo, più l’altezza del carrello.
Adam riuscì a tagliarne un pezzo, mentre tutti trattenevano il fiato.
Servì anche Aurora, che simulò un ringraziamento con un impacciato cenno del capo.
Non aveva comunque intenzione di mangiarlo, ma nessuno si mosse.
I conviviali, ammassati in un grande cerchio tutt’attorno, guardavano i sovrani.
Il suo sguardo incrociò quello di Febo, poco distante di fronte a lei, che la incitò gonfiando le guance così da farle capire.
Inspirò profondamente, come se stesse per compiere un gesto estenuante, e si vide costretta ad assaggiarne un pezzo ed altrettanto fece il re.
Al palato risultava in un primo momento croccante, probabilmente per via del caramello e successivamente morbida e dolce del ripieno.
Non le dispiacque, soprattutto perché non appena inghiottì il primo boccone tutti i commensali si sbloccarono come da protocollo ed iniziò una composta, ma insidiosa calca verso il nuovo obiettivo.
Si voltò a guardare nuovamente la sua guardia, accennando un sorriso di gratitudine.
Il giovane le sorrise di rimando, per poi avvicinarsi.
Aurora lo osservò quasi divertita mentre lui si destreggiava imbarazzato tra ventri gonfi ed abbondanti e gonne larghe e spaziose, ma venne distratta dal suo sposo, che la scortò nuovamente a sedere e, non appena si poggiarono ai loro scranni, un altro annuncio di tromba introdusse, stavolta dal salone adiacente, un ciambellano in livrea rossa che reggeva un vassoio tra le mani.
Nuovamente il silenzio divenne sovrano, mentre chi gli era di intralcio si preoccupava di permettergli di passare in tutta sicurezza.
Il servitore si fermò a metà strada e porse il vassoio ad un altro cameriere dall’aria altezzosa, con un lieve inchino.
Tutti nella sala osservarono il tragitto del secondo, ma solo a pochi era sconosciuta la sua funzione.
L’uomo si fermò tra i seggi di Adam ed Aurora, adagiò il portavivande sul tavolo con un inchino e si congedò senza proferir parola.
Erano presenti un dolce che somigliava ad una fetta ben tagliata di pane scuro**, lievemente bagnato ed un calice di quello che sembrava del vino rosso, che tuttavia fumava ed al cui interno galleggiavano delle foglie scure.
Un terzo valletto si fece avanti e, data l’assenza di una preparazione precedente, sussurrò istruzioni ad Adam, di fronte allo sguardo perplesso o accigliato dei presenti.
Il giovane prese l’elegante forcella di madreperla adagiata sulla piccola torta e ne sminuzzò una parte, per poi dirigere il boccone verso Aurora, che spalancò gli occhi e si ritrasse lievemente.
“Per te...regina” fu tutto quello che riuscì a dire sul momento.
Dapprima inarcò un sopracciglio, poi fissò lui e il morso che attendeva a mezz’aria, finché non si sporse in avanti senza pensarci.
Aveva solo voglia che tutta quella farsa avesse fine.
Una volta che ebbe assaggiato quella strana pietanza dal sapore intenso, deciso e solo vagamente zuccherino, tossì per scacciare il pizzicore dalla lingua e dalla gola.
Solo quando il re le porse la posata di rimando le fu chiaro che sarebbe toccato anche a lei.
Sentendosi nuovamente avvampare l’afferrò indecisa e tremante, per poi fare altrettanto affondando i denti metallici in quella vivanda dalla consistenza mollicosa e soffice.
Si sentì in colpa per l’impazienza di poc’anzi, perché nell’avvicinare il cibo alle labbra del ragazzo si rese conto di quanto disagio provasse nel compiere un’azione apparentemente così semplice.
Si sentiva coinvolta in un gesto intimo di cui non voleva per nessuna ragione far parte.
Quando il Adam mise in bocca la forchetta avvertì immediatamente il forte sapore dello zenzero, insieme a quello piccante e vagamente dolciastro della cannella, poi i chiodi di garofano secchi e infine l’acqua di rose in pan grattato.
Si vide costretto a stringere la mascella per evitare le punte della suppellettile che avanzavano sulla sua lingua, finché non afferrò direttamente il manico per evitare che la ragazza gli infilzasse la gola.
Quella, spaventata ritrasse la mano ond’evitare il minimo contatto, imbarazzata per aver mancato un’accortezza tanto stupida.
Deglutì e poggiò la posata sul piatto, dove il dolce era rimasto praticamente intatto.
Prese il calice e, saggiando il penetrante aroma di salvia***, ne bevve un sorso, per poi offrirlo nuovamente ad Aurora, la quale, se possibile, ne assaggiò ancora meno.
La cerimonia del banchetto si concluse ufficialmente.
A quel punto, mentre nessuno accennava a muoversi, le ancelle della regina si fecero largo per raggiungerla, delicate e leggiadre come petali di rose al vento.
Di nuovo la testa prese a vorticarle rovinosamente, mentre loro la fecero alzare.
Vide di sfuggita che anche Adam si alzò in piedi, mentre veniva allontanata da quel corteo festante verso lo scalone d’onore.
Non era sicura se vi fosse della musica e l’ultima immagine che vide furono decine e decine di calici sollevati in suo onore e percepì un vocione cavernoso a lei familiare che tesseva ovazioni, mentre le dame la conducevano ai piani superiori, sotto gli occhi di tutti gli invitati, dei servi, della corte e del reame.
 
 
Nessun ballo quella sera.
La festa da ballo sarebbe stata domani, accompagnata da un fastoso ricevimento.
Quella sera era più importante oltrepassare un altro traguardo.
Ignorando questo essenziale dettaglio, Aurora si sentiva sollevata, stanca com’era, di poter tornare nelle sue stanze.
Il pensiero di dover danzare con lui la turbava.
Tenerlo per mano, guardarlo negli occhi, lasciarsi cingere alla vita per farsi trasportare tra le nuvole…non sarebbe mai successo con lui.
Solo Filippo era in grado di portarla sulle nuvole.
Si chiese se avrebbe saputo ballare ugualmente.
Con Filippo le veniva più che naturale, ma non aveva mai pensato a cosa dovesse effettivamente fare, mentre con Adam si sarebbe concentrata su qualsiasi cosa per di evitare il suo sguardo.
Dopo aver svoltato decine di volte ed aver attraversato la solita moltitudine di corridoi le servette si arrestarono e svoltarono presso un grande portone che conduceva a degli appartamenti resi molto fastosi.
Non era mai stata in quell’ala del castello.
Ovunque v’erano rose, vasi di rose, petali di rose sparsi per il pavimento e sul grande letto dal baldacchino cremisi.
Candele al profumo di rose e candelabri accesi erano disseminati nella sala.
Grandi tappeti rendevano calda la pavimentazione di pietra, tende e drappi scivolavano sulla cupa mobilia di legno, ricoperta di morbidi cuscini.
Si guardò intorno spaesata mentre le ragazze le piroettavano attorno.
Improvvisamente la gonna le venne slacciata ed allentata, cadendo a terra ed Aurora non si sentì mai più così leggera come allora.
La aiutarono ad uscire dal cratere formato dalle stoffe dorate color bianco ed avorio per farla salire su un piccolo sgabello foderato di piume.
Mentre due si occupavano di sbottonarle le pesanti, lunghe maniche, un’altra da dietro le snodava il complesso di fiocchi del corpetto lungo la schiena.
Aurora si voltò e si vide riflessa sullo specchio semi opaco di una cassapanca, sovrastato da un’elegantissima cimasa dorata con incastonate pietre rosse e blu in una sorta di scacchiera luminosa.
Quando le maniche caddero anch’esse con le spalline, le sfilarono quelle sottostanti di pizzo, lasciandole le braccia scoperte.
Le sfilarono il corpetto e l’aiutarono a scendere dal seggiolo facendola sedere su una sedia, davanti allo specchio dove le sfilarono i gioielli, e le sciacquarono il volto, mentre altre le pettinavano i capelli, sciogliendo i toupet.
Le portarono una sorta di polvere che le rese le gote nuovamente più rosee e giusto un filo di rossetto.
Quando finalmente si allontanarono, come rapaci da un carcame, ed uscirono dalla stanza si poté alzare e solo allora si rese conto che era rimasta con la lunga camicia di chiffon quasi trasparente, con le spalline abbassate per lasciarle il candido petto scoperto fin quasi ai seni e le spalle nude.
Mentre osservava una ciocca di capelli le poggiava sulla spalla sinistra, arricciandosi lungo il torace nell’atmosfera tenue della luce baluginante, le porte si aprirono nuovamente ed Adam venne sospinto dentro.
Nell’istante in cui le porte si aprirono intravide Febo, al di fuori, che alzò lo sguardo incrociando i suoi occhi nel momento in cui si richiusero con un sonoro schiocco.
La sua ultima via di fuga era chiusa.
Ma se anche avesse provato ad uscire l’avrebbero afferrata per le braccia e richiusa dentro quelle stanze, finché non avrebbe soddisfatto le loro aspettative.
Spostò lo sguardo verso le tre finestre chiuse sulla destra.
Forse c’era un’altra via d’uscita…
Eppure aveva troppa paura per compiere un gesto simile.
Si voltò e tornò a guardare il ragazzo innanzi a lei, che non si era mosso.
Aveva una camicia larga, color avorio, da cui si intravedevano le forme del corpo, le possenti spalle e il busto tonico.
I pantaloni erano gli stessi della cerimonia, mentre ai piedi portava due borzacchini di morbido raso.
Quando lui ebbe il coraggio di sollevare il viso per guardarla, lei lo abbassò di scatto.
Aveva le braccia conserte per coprire il petto che si agitava su e giù.
Aveva sentito dire da una delle dame di corte che la prima volta faceva male.
Avrebbe sofferto? Avrebbe sofferto tanto?
Osservandosi i piedi nudi e bianchi con gli occhi spalancati cominciò a tremare.
Aveva sentito dire che la prima volta si sanguinava.
Percepì il suo respiro farsi via via più affannoso.
Si morse il labbro con i denti fino a farsi male, mentre vedeva le dita sul tappeto che si avvinghiavano in loro stesse.
Un groppo in gola le fece annodare la pancia, mentre avvertiva come il bisogno di dover vomitare.
Tirò su arricciando il naso mentre piccole lacrime cominciavano a scenderle lentamente giù dagli angoli degli occhi, scivolando sulle gote pallide ed emaciate fino a tuffarsi giù dal mento.
Strinse le dita delle mani fino a graffiarsi le braccia con le unghie, scalfendosi la pelle.
Un gemito soffocato le fece aprire la bocca per prendere più aria, ma non riuscì a far altro che emetterne un altro ancora più forte, simile al guaito di un cucciolo.
Chiuse gli occhi arrendendosi al destino, lasciandosi piangere copiosamente, lasciando che la sua voce gemesse e si soffocasse, lasciandosi cadere lentamente per terra, poggiandosi sul morbido seggio di piume e stringendone il cuscino con forza.
Vi affondò il volto e strinse i denti, senza riuscire a smettere.
Vergognandosi della sua paura, del suo timore.
Udì la porta aprirsi e poi richiudersi lentamente, facendo cigolare gli infissi.
Avvertì espressioni di esclamazione mentre dei passi decisi si allontanavano.
La porta si aprì ancora crepitando rumorosamente.
Si tuffò ancora di più con il volto nel buio del guanciale, ansimando senza sosta.
Erano arrivati a percuoterla per farla stare zitta.
Erano arrivati per farle del male e farla sanguinare.
Una mano si posò sulla sua spalla, scostandole i capelli.
Esalò un grido e si tirò su con la schiena agitando il braccio pronta a colpire chiunque, ma Febo le afferrò prontamente il polso.
Aurora lo guardò negli occhi blu, corrugando le sopracciglia e tirando ancora su con il naso, mentre le lacrime continuavano a sgorgarle lungo i lineamenti, fino al collo.
Sembrava così serio, così preoccupato.
Si girò lentamente e constatò che erano soli.
Cercò di balbettare delle scuse, ma lui l’abbracciò forte e lei riprese a piangere con forza per tutta la notte, poggiandosi contro le sue ginocchia, stesa sul caldo tappeto ruvido, fino ad addormentarsi.
 
 
 
 
 
 
 
*la frase è tratta da Maria di Francia (prima poetessa francese, vissuta nella seconda metà del XII secolo), riguardo i connotati che la damigella ideale avrebbe dovuto presentare a suo avviso.
 
**Una ricetta medievale ritenuta afrodisiaca a base di cannella, zenzero, chiodi di garofano, pangrattato e acqua di rose
 
***La salvia era chiamata anche “erba sacra”, e si credeva essenziale in quanto anch’essa potente afrodisiaco maschile, in grado, inoltre, di proteggere le gravidanze ed accrescere la fertilità femminile.
Le foglie di questa pianta cotte nel vino erano ritenute l’ideale come rinvigorente sessuale.

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