Il viaggio di Lele

di francoise14
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Anna ***
Capitolo 2: *** Julia ***
Capitolo 3: *** Nemesi ***



Capitolo 1
*** Anna ***


Il viaggio di Lele

Anna

Il treno aveva ripreso da poco la sua corsa, allontanandosi lentamente dalla stazione semidistrutta. Gli occhi grigi di Lele si soffermarono per un istante sulla banchina, ancora gremita di uomini, donne e bambini dalle facce stanche e dagli abiti di fortuna. La fortuna... Lele sorrise amaramente tra sé. Be', parlando di fortuna sicuramente stavolta era stato fortunato a trovare posto sul convoglio giusto: per una volta non si sarebbe dovuto affidare nuovamente a qualche passaggio o alle sue gambe, sempre più malferme e smagrite. Ormai non c'era più nemmeno il Professore a condividere con lui quel lungo ed estenuante viaggio attraverso mezza Europa, il suo calvario era terminato a Milano una settimana prima. Un tremito scosse il corpo di Lele: per un attimo lo aveva invidiato, il Professore, stretto fra le braccia della sua donna, in lacrime come un bambino. Era rimasto rispettosamente in disparte, finché l'ultimo bacio e l'ultimo singulto si erano consumati e l'amico si era voltato verso di lui con gli occhi ancora lucidi.
- Resta con me, Lele, con noi! - gli aveva detto improvvisamente il giovane, poco più grande di lui nonostante il soprannome pomposo che si era portato dietro in tutti quegli anni segnati dalla guerra e dalla prigionia. - Ormai siamo come fratelli!
Le labbra sottili di Lele si erano increspate in un mesto sorriso.
- No, amico mio. Lo sai che non posso.
- E' per lei?
- Anche. Non solo. Milano non è casa mia.
Il Professore gli aveva posato una mano sulla spalla, stringendogliela impercettibilmente. Si erano guardati negli occhi per un istante, poi aveva annuito.
- Mi mancherai, Lele.
- Anche tu, Giovanni.
Si erano abbracciati, poi Lele era ripartito subito, ignorando le proteste dell'amico e della moglie, che lo avevano pregato di fermarsi almeno per la notte, se non addirittura per qualche giorno, giusto il tempo di riprendersi un po' dalla fatica e dalla stanchezza del corpo e dell'anima. Lele non aveva voluto. Al solito, testardo come un mulo.
- Ti avevo detto che non mi sarei fermato, prima di arrivare qui. E poi è giusto che tu e la tua signora stiate da soli. Buona fortuna, ragazzi... ve la meritate.
Un ultimo abbraccio prima di partire, una lieve stretta di mano a salutare quella giovane sposa che tanto gli ricordava lei. Anna. Anna, capelli ramati e occhi color miele. Anna, profumo di casa e di una vita semplice, fatta di scherzi, risate, corse tra i campi e baci rubati. Anna che gli aveva detto che l'avrebbe aspettato. Anna che gli aveva sussurrato nella stalla che sarebbe stata sua.
Lele distolse lo sguardo dal paesaggio che correva rapido fuori, un paesaggio monotono dominato dal marrone cupo della terra dormiente e dal verde lontano delle colline circostanti. Iniziava ad essere vicino casa. Guardò pensieroso la piccola treccia rossa legata ora al suo indice sinistro, dal momento che l'anulare era ormai troppo magro per poterla portare senza rischiare di perderla. E gli sarebbe dispiaciuto perdere proprio adesso, quell'anello che era riuscito a nascondere e a proteggere  persino nell'inferno del campo. L'avrebbe riconosciuto, Anna? L'avrebbe voluto ancora? Cosa era rimasto di quel ragazzone moro sempre allegro, alto e robusto, per cui tanti cuori avevano palpitato? Era ridotto ormai a un mucchietto di ossa, quaranta chili per un metro e ottanta di tristezza. I capelli ancora troppo corti, gli occhi grigi induriti dagli stenti.
Era stato il pensiero di lei, insieme alla presenza del Professore, a tenerlo in vita e a non farlo impazzire nell'inferno in cui erano precipitati. Ricordava ogni singolo istante con lucidità. Non avrebbe dimenticato mai. Qualche anno prima aveva creduto che la guerra fosse il peggiore dei mali, ma aveva sempre avuto il conforto di qualche lettera di Anna o di quelle scritte dal curato di N. per conto dei suoi genitori. Senza contare le chiacchierate e le letture serali col Professore, inseparabile compagno di avventura dal loro arruolamento. Si era ritrovato quindi a Brindisi col suo battaglione, pronto ad essere imbarcato per la Grecia. Aveva incontrato fortuitamente l'amato fratello Giuseppe, si erano abbracciati commossi, giusto qualche frase scambiata (non era loquace, Giuseppe, tanto più in quella circostanza), prima di andare incontro ciascuno al proprio destino. Poi.. poi c'era stato l'otto settembre. L'armistizio, la rabbia dei Tedeschi. Lele e i suoi compagni d'armi si erano ritrovati prigionieri, con la prospettiva di arruolarsi per combattere per i nazifascisti o morire in qualche campo di internamento. Avevano scelto quasi tutti la prigionia.(1) Per un attimo Lele rabbrividì. Come avrebbe potuto dimenticare? La tradotta, il puzzo di urina e di sudore degli uomini stipati come nemmeno le sue mucche lo erano mai state nella stalla; l'arrivo al campo, il filo spinato, il suo nome ridotto a un numero, la paura, le umiliazioni e l'orrore. Tecnicamente non erano prigionieri di guerra, quindi nemmeno la Croce Rossa era potuta intervenire.(2) Due anni trascorsi a lavorare dieci ore al giorno in una fabbrica vicina, cercando di ignorare i morsi della fame, il freddo e il numero sempre più esiguo dei propri compagni. Alcuni erano stati trasferiti in altri campi, molti erano morti. Lele e Giovanni, detto il Professore per la laurea in Lettere, erano riusciti a sopravvivere. Insieme, facendosi coraggio a vicenda, condividendo cibo e sofferenze. Giovanni gli parlava di Erminia, la fidanzata sposata in tutta fretta il giorno prima di partire, Lele di Anna. Giovanni aveva il ricordo di quell'unica notte d'amore a dargli conforto, Lele solo quello di una promessa. Una promessa fatta in una stalla, dove lui l'aveva portata di nascosto per affondare il viso tra i suoi capelli e assaggiare le sue labbra perfette. Anna non aveva voluto andare oltre, ma lo aveva stretto forte.
- Non ora, Lele. Non così. Ti prometto che quando ritornerai sarò tua.
Lele aveva borbottato qualcosa che aveva solo l'accenno di una protesta, non era abituato a ricevere rifiuti. Lei aveva sorriso, forte del suo ascendente e della sfrontatezza dei suoi sedici anni.
- Ti prometto che ti aspetterò. - aveva dichiarato solennemente la ragazza.
- Me lo giuri?
- Sai che non si giura! Ma hai la mia parola!
- E mi sposerai?
Anna aveva sorriso di nuovo, la pelle nivea improvvisamente tinta di rosa.
- Sì - aveva bisbigliato, prima di suggellare con un bacio la sua promessa.
Lele le aveva sorriso a sua volta, poi le aveva sussurrato:
- Aspetta, ho una cosa per te.
Aveva tirato fuori dalla tasca dei calzoni un anello d'acciaio e glielo aveva infilato sull'anulare.
- Così tutti sapranno che sei mia.
Anna lo aveva guardato incredula.
-Ma dove l'hai rimediata?
- E' quella di mia madre. Me l'ha data lei per te.
- Ma come ha fatto a rinunciare alla sua fede?
- Quella non è la fede che le ha infilato mio padre. E' la fede del Fascio (3), non la vuole più. Sapeva che ti avrei chiesto di sposarmi e l'ha data a me.
- Ringraziala da parte mia - aveva allora capitolato la ragazza.
Lele aveva posato teneramente le labbra su quella semplice fascetta grigia.
- Però anche tu devi avere qualcosa di mio... - aveva improvvisamente detto Anna, spezzando l'imbarazzante silenzio che si era creato tra loro. Si era guardata intorno, in cerca di qualcosa, poi un lampo le era passato negli occhi di un nocciola così chiaro e dorato da ricordare il colore del miele. Con gesti rapidi aveva intrecciato una piccola ciocca sfuggita alle forcine con cui quel giorno aveva raccolto le lunghe chiome ramate.
- Dammi il coltello - aveva ordinato a Lele.
- Che ci vuoi fare?
- Tu dammelo - aveva ripetuto. Lele, perplesso, glielo aveva allungato e lei aveva reciso la treccia corta e sottile, per poi annodarne saldamente le estremità, ricavandone così un anello un po' più improvvisato rispetto a quello che portava ora al dito.
- Dammi la mano sinistra.
Lele aveva iniziato a ridere sommessamente, aveva finalmente capito. Emozionata, Anna a sua volta gli aveva inserito l'improvvisata fedina, depositando anche lei un casto bacio su quella mano che fino a poco prima l'aveva fatta fremere di desiderio.
-  Adesso sapranno tutti, ma soprattutto tutte, che anche tu sei mio.
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Note:
(1) Dopo l'otto settembre, circa 810.000 militari italiani, tra soldati e ufficiali, furono catturati dai Tedeschi su vari fronti, tra cui i Balcani. Classificati come prigionieri di guerra fino al 20 settembre 1943, furono successivamente considerati internati militari (Imi);a quel punto ebbero la possibilità di scegliere tra restare prigionieri nei campi tedeschi, arruolarsi nelle SS o nella Werhmacht o tornare sotto Salò. In 716.000 scelsero la prigionia (l' "altra resistenza" o " resistenza silenziosa"); di questi, all'interno dei lager, solo 43.000 si arruolarono come combattenti di Salò e 60.000 aderirono come ausiliari: più di 600.000 rimasero nei campi di concentramento, in condizioni disumane.    
(2) Essendo stati catalogati opportunamente come Imi, non erano tecnicamente prigionieri di guerra e quindi per loro non valeva la Convenzione di Ginevra del 1929.
(3) Il 18 novembre 1935 gli Italiani furono invitati dal regime fascista a donare oro per sostenere la guerra d'Etiopia ("Oro alla Patria"). Il 18 dicembre, esattamente un mese dopo, fu proclamata la "Giornata della Fede". gli Italiani donarono le loro fedi nuziali, ricevendo in cambio una fede di ferro. Evidentemente la madre di Lele non aveva aderito proprio spontaneamente o si era pentita di averlo fatto.
 
 
 

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Capitolo 2
*** Julia ***


Julia

Il treno si era fermato. Oltre quella stazione non si proseguiva, la rete ferroviaria era stata pesantemente danneggiata dai bombardamenti. Lele scese stancamente: la fortuna era durata poco, lo spazio di un breve riposo e di tanti ricordi. Intorno, solo sfacelo.
Chissà quanto ci vorrà a ricostruirla?E quanto ci vorrà a ricostruire questa nostra terra martoriata e offesa? Quanto ci vorrà a ricostruire me, a farmi ritornare la persona che ero?
Lele scosse la testa. No, quella persona non tornerà mai più.
Iniziò a incamminarsi lungo la strada polverosa, restando però indietro rispetto agli altri passeggeri. Non aveva voglia di compagnia. Non aveva voglia di parlare. Il cielo iniziava a tingersi di rosso: presto sarebbe calata la sera e ormai era autunno inoltrato per pensare di dormire all'aperto, tanto più che non c'era Giovanni a dividere con lui eventuali turni di guardia, mentre l'altro dormiva. No, troppo freddo e troppo rischioso. Il paese più vicino non distava molto, sicuramente avrebbe trovato un riparo per la notte.  Ringraziò mentalmente l'amico, che prima di abbracciarlo l'ultima volta, gli aveva infilato a forza nelle tasche il poco denaro che la moglie aveva con sé. Lele istintivamente aveva provato a rifiutare, ma Giovanni questa volta non aveva sentito ragioni.
- Serviranno più a te che a noi. Hai un lungo viaggio da fare, ancora: finora il più delle volte abbiamo incontrato gente di cuore, ma non è sempre così. E poi sei solo.
Lele aveva accampato ancora qualche protesta, ma l'amico alla fine aveva vinto. Almeno su quello.
Sorrise Lele, a quel ricordo. Caro, vecchio Giovanni! Lo assalì un'improvvisa tristezza... Quel "Resta con me, Lele" , quella richiesta accorata continuava a risuonargli nell'anima, ma la causa di tanta mestizia non era solo la nostalgia per il Professore. Pochi mesi prima, un'altra persona aveva pronunciato le stesse parole, quelle parole che in bocca a Giovanni gli avevano rammentato l'unica parte della sua vita di cui non andava fiero. Julia...
Lele si strinse nel pesante cappotto nero, così grande per lui, rabbrividendo... ma non era per il freddo. Il pensiero di Anna e l'amicizia di Giovanni gli avevano salvato l'anima, a Julia doveva la vita. Per un attimo ripensò a quella calda giornata di giugno, quando l'aveva vista per la prima volta all'ingresso della fabbrica con le valigie ancora in mano. Appena arrivata da Berlino dopo la morte della madre, per raggiungere quel padre lontano che dirigeva la fabbrica e si era trasformato, per Lele e i suoi disgraziati compagni, nell'ennesimo aguzzino. Lele aveva sentito su di sé lo sguardo di quella ragazza bionda dai tratti delicati e aveva alzato la testa in un moto di orgoglio, ma subito dopo non aveva potuto fare a meno di sussultare. In quegli occhi, di un celeste limpido come l'acqua, aveva riconosciuto il dolore della pietà. E per la prima volta, da quando era in quell'inferno, si era ricordato di essere un uomo, per la prima volta si era vergognato del suo aspetto, dei capelli rasati, del volto smunto.
Da quel giorno, quella giovane silenziosa, perfetto esemplare della razza ariana tanto decantata da Hitler, era diventata l'angelo custode del campo. Approfittando di qualsiasi momento di distrazione delle guardie preposte alla sorveglianza, mettendo a repentaglio la sua stessa vita, allungava a quanti poteva un tozzo di pane o qualche pezzo di formaggio. A Lele riusciva a far arrivare persino qualche biscotto o una fetta di torta, che il giovane nascondeva gelosamente e divideva poi la sera con il Professore, nel fetore della loro baracca. Ogni volta quel dono era accompagnato da un sorriso, che il giovane si scopriva ansioso di ricambiare. Era diventata ormai un'abitudine per lui, la mattina quando arrivava e la sera quando ripartiva, alzare lo sguardo verso la finestra degli uffici e cercare quello di lei.
- Stai giocando con il fuoco, amico mio. - lo aveva ammonito una sera Giovanni, scuotendo la testa.
Lele era arrossito violentemente, ma aveva cercato di eludere il discorso.
- Non capisco cosa vuoi dire.
Il Professore aveva sorriso amaramente.
- Sai bene a cosa mi riferisco... non sono cieco, Lele, lo vedo come ti guarda lei e... vedo come la guardi tu. Li vedo i sorrisi, le sento le poche parole che vi riuscite a scambiare tra il tuo tedesco stentato e il suo italiano da studentessa appassionata di lingue... e non mi piace, amico mio. Capisco che non c'è nulla di male in questa... chiamiamola "simpatia"... E poi lei è veramente bella, sembra una dea, ma...
- E' una Tedesca, Giovanni. E a me non piacciono le Tedesche. - lo aveva interrotto bruscamente l'amico, abbassando gli occhi grigi sulla piccola treccia di Anna. Non lo avrebbe ammesso mai di fronte a lui, ma si sentiva colpevole.
Giovanni era scoppiato a ridere
- Pensa allora se ti piacevano!
Poi, facendosi serio, aveva mormorato:
- Comunque io ti consiglio di darci un taglio. Hai detto bene, è una Tedesca. Ed è una donna, una donna innamorata, lo puoi negare quanto ti pare ma è così. La cosa ti si può ritorcere contro. Non la illudere, Lele... E' una brava ragazza, non se lo merita.
Lele non aveva osato replicare, ripromettendosi tuttavia di seguire il consiglio dell'amico. Non ne aveva però avuto il tempo, perché pochi giorni dopo erano arrivati i Russi: la fine di un incubo e l'inizio di un'odissea.
Lele e il Professore avevano deciso di partire da soli, senza aspettare. Era troppa la voglia di tornare a casa. Prima però Lele aveva voluto andare da Julia.
- La voglio salutare, Giovanni. Glielo devo. - aveva detto all'amico.
Il Professore aveva annuito e lo aveva accompagnato davanti la fabbrica, ma non lo aveva seguito.
Lele era entrato silenziosamente nell'ufficio di Julia e l'aveva trovata lì, seduta alla scrivania, i begli occhi cerulei lucidi di pianto. Alla sua vista, un sorriso le aveva illuminato il volto, e scansando bruscamente la sedia, si era alzata di scatto e gli si era buttata al collo. Lele, frastornato, l'aveva stretta forte, ricambiando quell'abbraccio disperato; quindi lei aveva avvicinato le labbra all'orecchio di lui e gli aveva sussurrato qualcosa in tedesco che non era riuscito a capire. Julia allora aveva ripetuto in italiano:
- Resta con me, Lele! Resta con me! - e aveva posato quelle labbra morbide su quelle di lui.
Per un attimo Lele non aveva capito più niente. Inebriato dal profumo di lei, stordito dal sapore della sua bocca, i sensi improvvisamente risvegliati da quel corpo flessuoso e morbido che si era stretto al suo. Poi, quel pensiero. Il fieno, la stalla. Lei, Anna. Anna, che aveva promesso. Anna, che l'aspettava. Anna, che sarebbe stata sua. Con la poca forza rimasta, Lele si staccò da lei.
- No, Julia, non fare così, ti prego...
Julia aveva continuato a implorarlo e a cercare di abbracciarlo, scivolando quindi ai suoi piedi e aggrappandosi piangente alle sue ginocchia.
- Resta con me, Lele, resta con me!
Una rabbia sorda e sconosciuta lo aveva assalito. Rabbia verso Julia e, avrebbe scoperto più avanti, soprattutto verso se stesso. Ma in quel momento era stato più facile sfogarsi su di lei. Una Tedesca. Non l'angelo che l'aveva protetto, non la donna che lo aveva amato nell'ombra. Solo una Tedesca. E che ne sapeva veramente, una Tedesca, di quello che aveva passato? Come poteva chiedergli di restare, di fare parte di quello stesso popolo che lo aveva ridotto a una larva, che lo aveva trasformato in una bestia? Che ne sapeva di lui, della sua vita prima, di Anna?
- Togliti!- gli aveva urlato in tedesco. - Togliti! - aveva ripetuto, cercando di liberare le gambe.
- No!
- Togliti, Julia!
- No!
L'aveva dunque afferrata, scaraventandola lontano, pentendosi subito dopo del suo gesto. Julia aveva alzato il capo, ferita, e l'aveva trafitto col muto rimprovero dei suoi occhi. Occhi di cielo in colpevoli occhi grigi. Non riuscendo a sostenere quello sguardo, Lele aveva abbassato la testa, e mormorando un addio si era diretto alla porta.
- Aspetta, Italiano! - lo aveva bloccato lei, in tedesco. Aveva pronunciato quelle parole in tono secco, asciutto, perentorio. Da degna figlia di Hitler.
Lele si era voltato ed era trasalito di fronte a quello sguardo diventato improvvisamente di ghiaccio.  Julia aveva aperto un piccolo armadio di noce posto alla destra della scrivania e ne aveva tirato fuori due pesanti cappotti di lana.
- Questo è per il tuo amico. E  questo è per te. - gli aveva detto freddamente. - Tieni, indossalo. Fuori fa freddo, Italiano. - e senza che Lele avesse osato fiatare, lo aveva aiutato ad indossarlo. Gli aveva quindi infilato alcune monete in tasca e, guardandolo fieramente per l'ultima volta, gli aveva detto semplicemente:
- Buona fortuna.
Quindi si era voltata, affinché egli non vedesse le lacrime che avevano ripreso a scorrerle sulle guance.
Lele era fuggito. Da vigliacco, senza dire niente, uscendo precipitosamente da quell'ufficio e quasi tirando il cappotto all'amico prima di incamminarsi rapidamente, da solo, lungo la strada che dalla fabbrica portava alla libertà. Giovanni non aveva avuto bisogno di fare domande e si era limitato a seguirlo in silenzio.
 
 

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Capitolo 3
*** Nemesi ***


Nemesi
 
Lele aprì faticosamente gli occhi, cercando di abituarsi alla luce che filtrava dalle finestre attraverso le improbabili tendine a fiori appese ai vetri. Il suo sguardo vagò per la stanza, mentre cercava di mettere a fuoco lo scarso mobilio che l'arredava: una sedia impagliata, addossato al muro un tavolo che aveva conosciuto giorni migliori e, accanto al letto, un piccolo comodino col ripiano in marmo, unico pezzo di un certo valore insieme al letto in ferro battuto.
 Il giovane si passò una mano sulla fronte per tergersi il sudore... ancora quell'incubo, quel maledetto, solito incubo. Lui che annaspava nella nebbia, inseguito dai suoi aguzzini, i cani che gli azzannavano le gambe, e poi quel dolore opprimente al petto. Un colpo di tosse scosse il corpo di Lele. Purtroppo ne conosceva già il significato: troppi suoi compagni di prigionia erano morti per quel male oscuro e subdolo, quel mal sottile che consumava inesorabilmente i corpi e che, nelle precarie condizioni di vita del campo, era risultato il più delle volte fatale.... Probabilmente, una volta tornato a casa, sarebbe dovuto ripartire subito per il sanatorio, ma ora aveva altro a cui pensare.
Constatò, stizzito, che paradossalmente aveva iniziato ad essere tormentato da quelle immagini subito dopo la sua partenza dal campo. Le notti durante la prigionia, invece, erano state popolate dagli struggenti ricordi delle persone care e dai ricorrenti sogni che lo riportavano ora davanti al focolare, mentre parlava con sua madre, ora nel fiume a schizzarsi con le sue sorelle, ora tra le rassicuranti colline della sua terra, quelle colline verdi dai dolci pendii che gli ricordavano tanto il profilo dei seni di Anna, celati dal vestito verde della festa.
Sorrise Lele a quel ricordo e si tirò su dal letto, per scenderne quasi di scatto, come se avesse ritrovato di colpo tutte le sue energie. Si avvicinò al catino pieno d'acqua che la proprietaria della modesta pensione gli aveva portato in camera la sera prima e si lavò il viso, asciugandosi con un telo di lino. Ruvido, ma pulito... un lusso rispetto a quello che aveva vissuto negli ultimi anni. Un lusso che però gli costava caro: da quando era stato costretto a proseguire a piedi, era la terza locanda in cui si fermava e i soldi di Giovanni diminuivano sempre di più. Ma ormai era arrivato... il giovane si rivestì rapidamente e scese le scale. Ancora poche ore e l'avrebbe rivista, ancora poche ore e avrebbe di nuovo odorato il profumo della sua pelle e si sarebbe di nuovo specchiato nel miele dorato dei suoi occhi. Un fremito lo percorse, prima di pagare il dovuto e uscire in tutta fretta dall'edificio.
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Lele camminò per tutta la mattina e buona parte del pomeriggio, fermandosi appena pochi minuti per mangiare un poco di pane che gli era avanzato dalla sera prima. Si ritrovò a pensare, ironicamente, che l'unico aspetto positivo della prigionia, se così lo si poteva definire, era stato quello di abituarsi a vivere con poco, cibo compreso. Ancora faticava a completare un pasto, subito dopo si sentiva gonfio e dolorante come se avesse partecipato a un banchetto di nozze.
Sorrise di nuovo, Lele; quel giorno era tutta la sua anima a sorridere, illuminata dalla certezza dell'incontro imminente: con Anna, ma anche con la sua numerosa e allegra famiglia. Non era sicuro, in realtà, che quell'allegria fosse sopravvissuta alla guerra, né che i suoi due fratelli più grandi fossero ancora vivi, tuttavia era dolce perdersi nella speranza di ritrovare quel piccolo mondo perfetto che aveva dovuto abbandonare a malincuore diversi anni prima.

Aveva scelto di lasciare la strada maestra e di proseguire lungo il vecchio tracciato ferroviario, (desolatamente distrutto in più punti dai bombardamenti), che costeggiava il fiume fra gli alberi del bosco. Probabilmente non sarebbe stato più ricostruito, si ritrovò a pensare il giovane, ma in quel momento la sua unica preoccupazione era arrivare a casa prima del tramonto, non c'era più traccia in lui dell'amarezza e delle cupe riflessioni dei giorni passati. Gli sembrava che quella fosse una giornata splendida: nonostante i primi freddi, il cielo era azzurro e terso, il tepore del sole gli scaldava le membra e negli occhi aveva i colori caldi delle foglie d'autunno. Quando riprese la strada imbrecciata, il suo sguardo si posò sui tetti scuri del piccolo borgo che si facevano sempre più vicini, sui monti che sovrastavano la piana e, soprattutto, cercò le antiche e bianche mura della Città di Pietra, troppo lontane però per essere avvistate da lì, i cui palazzi si stagliavano sulle pendici del Colle Eletto.
 Lele gioì: era arrivato. Accelerando il passo, tagliò per i campi e quando ritornò sulla stradina, proseguì lungo la discesa. Davanti a sé, le colline... Lele sorrise per l'ennesima volta, non gli era mai sembrato così bello il contrasto tra la terra lavorata e l'arancio e il rosso della macchia circostante.
Sta a vedere che a forza di stare col Professore, son diventato poeta anch'io!, si ritrovò a pensare.
Gli erano rimasti pochi spiccioli in tasca, ma bastavano per prendere le sigarette. Non per sé, ovviamente, data la malattia, ma per suo padre e i suoi fratelli... e per Anna, con cui tante volte si erano nascosti per consumare baci e cicche.
Lo spaccio sorgeva al pianoterra della casa posta alla sinistra della strada, quasi alla fine della discesa. Lele si avvicinò alla porta e, trovandola aperta, scansò la tenda di stoffa che ne celava l'ingresso ed entrò. Fu in quel momento che udì una risata argentina tanto familiare... e il suo cuore perse un battito, quando all'interno dello spaccio, lo accolsero un sorriso gentile e due inconfondibili occhi color miele.
"Desidera?" domandò la giovane donna dai capelli ramati, un poco incuriosita dal forestiero.
Lele ammutolì, non riusciva a trovare le parole di fronte all'oggetto del suo amore, alla donna della sua vita, improvvisamente materializzatasi dietro il bancone. Evidentemente ora lavorava lì come commessa, constatò rapidamente... però non l'aveva riconosciuto.
"Va tutto bene, signore? " chiedeva a quel punto la ragazza, intimidita dal silenzio di quello strano giovanotto e, soprattutto, dai suoi febbricitanti occhi grigi che sembravano toccarle l'anima.

"C'è qualcosa che non va, Anna?" fece allora una voce maschile e dal retrobottega comparve un giovane alto e dinoccolato, dai corti capelli castani e gli occhi di ghiaccio. Lele fece uno sforzo di memoria, realizzando che doveva essere per forza quel moccioso di Antonio Contini, il figlio dei proprietari. Aveva sempre provato una sana e istintiva antipatia per quel ragazzino viziato, coetaneo di Anna, che alle feste si dava tante arie di fronte a lui e ai suoi amici. E l'antipatia si era rafforzata alla sua partenza, perché grazie alla sua più giovane età, il Contini in guerra non era stato chiamato...
Lele, infastidito da quell'intromissione, stava per replicare qualcosa quando, ad un tratto, un semplice quanto spontaneo gesto del ragazzo lo colpì come una frustata: Antonio Contini aveva cinto con un braccio la vita sottile di Anna... della sua Anna. 
Lele annaspò... il suo sguardo si abbassò sulla mano di lei e fu allora che si sentì mancare la terra sotto i piedi: sull'anulare sinistro di Anna, al posto della fede d'acciaio, faceva bella mostra di sé il vecchio anello di famiglia dei Contini, che Lele tante volte aveva notato sul dito della madre di Antonio... un anello di dubbio gusto, sormontato da una rosa in corallo tutt'altro che delicata, ma dall'inequivocabile significato.
"Si sente bene, signore?" ripeté attonita Anna... e solo in quel momento notò la piccola treccia di capelli annodata sul dito dell'uomo. La ragazza impietrì, come se avesse visto un fantasma... e di fronte a quegli occhi sgranati, di fronte a quel pallore colpevole che improvvisamente l'aveva colta, Lele si voltò di scatto e uscì.
Sentì la voce spezzata di lei chiamare il suo nome, scongiurarlo di aspettare, ma il giovane non si fermò: corse via ricacciando indietro le lacrime, perché un uomo non piange, Lele... ma appena fu abbastanza lontano per non essere raggiunto, un conato lo assalì e ricacciò anche l'anima.
Aveva vissuto in quegli anni solo per lei, per lei aveva lottato e affrontato un viaggio lungo e pericoloso, per lei aveva lasciato Giovanni a Milano senza neanche fare una sosta... e per lei aveva rinunciato a Julia, trattandola come la peggiore delle donne, quando la giovane aveva rischiato la sua stessa vita per lui, senza chiedere niente in cambio, tranne forse un po' d'amore. Tutto solo ed esclusivamente per lei, Anna... Anna che aveva promesso, Anna che non l'aveva aspettato. E come dolorosa rivelazione, una parola gli affiorò sulle labbra: Nemesi. Era stato Giovanni, un giorno, a spiegargliene il significato, parlando di come la Storia, prima o poi, presenti il suo conto.
Era la sua giusta punizione, quindi? O solo un assurda beffa del Destino? Per un istante rivide lo sguardo azzurro e lucido di Julia... e si sentì di nuovo colpevole al pensiero di averla fatta soffrire per inseguire una chimera.
Si rialzò, Lele. Il cielo continuava ad essere azzurro, il sole a splendere... ma la sua anima non rideva più. Lo colse l'impulso di abbandonare tutto, di scappare via da quella terra tanto amata perché c'era Anna ad aspettarlo... ma per andare dove? Da Giovanni, che era tornato alla sua vita? Da Julia, che aveva ferito in modo tanto crudele? No, non poteva.
Il giovane inspirò profondamente. Non era tornato solo per Anna: era tornato perché quello era il posto che l'aveva visto nascere, era il luogo per cui aveva combattuto... era la terra della sua famiglia. Era tornato perché quella era la sua casa.
Senza accorgersene, era arrivato sulle rive del fiume, in realtà poco più di un ruscello, che separava la strada dai campi, vicino alla piccola edicola in pietra con l'immagine della Vergine. Lele la guardò distrattamente, non era mai stato particolarmente credente, però rivolse ugualmente una muta preghiera di ringraziamento: era arrivato.
Con un gesto deciso si sfilò la treccina dal dito e la gettò nell'acqua: ormai non gli serviva più. Si rendeva conto che il dolore di quel momento non era niente rispetto a quello che aveva passato; un giorno avrebbe dimenticato, chissà, forse anche perdonato... ma non adesso.
Attraversò a piedi il fiumiciattolo, ignorando l'acqua gelida che gli entrava dalle scarpe ormai sfondate e... fu allora che lo vide: un uomo sulla sessantina in mezzo al campo, con la vanga in mano. Il volto di Lele s'illuminò, mentre il cuore gli iniziava a battere furiosamente nel petto.
Iniziò a correre verso di lui, mentre l'uomo interrompeva il suo lavoro e guardava attonito quello sconosciuto sbracciarsi e chiamarlo "babbo" .
Lele si fermò ansante solo quando gli fu davanti, e i suoi occhi grigi si posarono sul volto incredulo dell'uomo, segnato dal sole e dalla fatica.
"Chi sei? Cosa vuoi?" gli domandò sospettoso l'uomo.
"Babbo, ma non mi riconoscete?" si meravigliò il povero Lele.
L'uomo osservò meglio quel giovane forestiero dai capelli cortissimi e dal viso triste, che indossava un cappotto troppo grande per lui. Sembrava uno spaventapasseri, ma quella voce... quegli occhi...
"Ma che sei Lele?" domandò con la voce rotta dall'emozione.
"Sì, babbo, sono io! Sono Lele!" balbettò il giovane con le lacrime agli occhi, e gli si buttò fra le braccia.
Il padre lo strinse a sé come non aveva mai fatto, e per la prima volta in vita sua pianse. Pianse di gioia per quel figlio che aveva creduto morto e che era tornato, pianse di dolore per le sofferenze e gli stenti che doveva aver patito... il suo Lele, così bello e forte, ridotto ad uno scricciolo, ad un mucchietto d'ossa. Pianse il buon Salvatore, asciugando poi i suoi occhi e quelli del figlio con il tocco ruvido ma delicato della sua grande mano callosa. Mano di contadino, ma mai carezza fu più dolce per il cuore di Lele.
Commossi si staccarono e Lele lo guardò... c'era una muta domanda nei suoi occhi, che non aveva tuttavia il coraggio di pronunciare.
Il padre sorrise e gli posò un braccio sulle spalle esili.
"Andiamo a casa, figlio mio. Stanno tutti bene, mancavi solo tu".  
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N.d.A. E qui finisce il viaggio di Lele, che, ammetto mi mancherà un po'. Forse il finale avrà deluso qualcuno, ma ci tenevo a concludere questa storia con l'episodio, reale, dell'incontro con il padre, perché è stato proprio questo episodio ad ispirarmi. "Lele" è vissuto veramente e questo è un piccolo omaggio alla sua memoria, alle sue pene: perché il vero Lele è stato davvero nei campi di concentramento, aveva davvero un'Anna ad aspettarlo (con gli esiti che ora sappiamo) e una "Julia" che aveva rifiutato...
Per chi fosse curioso di conoscere il seguito, nella realtà Lele si sposò con un'altra donna, ma non ebbe figli; Anna si sposò col "Contini" e purtroppo per Lele divenne una di famiglia, in quanto sorella della cognata di Lele (la moglie del fratello Giuseppe). Quello che si dice i casi della vita...
Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito, silenziosi e non, in particolare la mia amica Arianna e le mie "supporters" Alga, SabrinaSala, Lucy71 ed Emerald77. Dedicato a tutte voi!
 
 
 
 

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