sfida di scrittura con ezuccanigra

di NIKELMANN
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Parsec ***
Capitolo 2: *** La Fiera ***
Capitolo 2: *** La Pioggia ***
Capitolo 4: *** Il tetto ***
Capitolo 5: *** la foresta ***
Capitolo 6: *** lo specchio ***



Capitolo 1
*** Il Parsec ***


Elisa si sveglia, con la musica classica che cerca di rendere meno traumatico aprire quelle palpebre atrofizzate, quegli occhi incollati da un sonno troppo lungo. La culla biostatica le permetteva di mantenere la fase rem per periodi di tempo lunghissimi.

Probabilmente non tutti sogniamo nello stesso modo. Alcuni sono in grado di fare regolarmente dei sogni lucidi. Altri vanno completamente a caso. Alcuni rivivono in modo dettagliato parti della propria vita particolarmente sconvolgenti. Elisa aveva la sfortuna di fare sogni di questo tipo. Certo, non sempre. Però quando sogni per settimane, nel sonno artificiale in cui ti mette la capsula dell’astronave, ad un certo punto sognare è la tua principale attività, ed il sogno si disciplina. Una specie di loop infernale, nel quale riviveva tutta la propria vita.

Elisa si alza. Il macchinario si è preso cura dei suoi muscoli, facendo in modo che non fosse troppo traumatico muoversi. Prima del ritorno, una mirata cura ormonale e moderata attività fisica verranno svolte per assicurarsi che il suo organismo regga nuovamente la gravità terrestre.
Non che la vita di Elisa fosse stata tanto tremenda. È solo che ci sono delle cose che ha fatto, che vorrebbe poter correggere, cambiare un pochino. Del senno di poi sono piene le fosse, ovvio. Ma se rivivi la stessa vita ogni volta che vai a dormire, più e più volte, sempre identica, rivivendo ogni più piccolo errore, come fai ad andare avanti?

Elisa fissa i comandi, per un attimo. Il tachimetro relativistico indica 7. Il che significa che la velocità della navicella è ad un decimilionesimo in meno della velocità della luce. 0.9999999 c. Una velocità relativistica, ovvero il tempo all’interno della capsula è sensibilmente deformato. Sono mesi di viaggio per lei, ma sulla Terra sono passati già 14 anni. Parecchia gente che conosceva era già morta, forse. Sicuramente prima della fine del viaggio, la maggior parte lo sarebbe stata.

In termini assoluti la navicella accelerava di poco, ma continuava ad accelerare, grazie alle vele solari. Nessun oggetto umano aveva mai viaggiato tanto veloce. Quasi per caso abbassò lo sguardo sull’indicatore che mostrava la distanza attuale dalla Terra. 3,26 anni luce. Un Parsec. Pensate ad un filo di seta. Immaginate di mettervi ad una distanza tale dalla vostra porta di casa che quel filo di seta la copra per intero. Piuttosto lontano, vero? Bene, in pratica quel filo di seta, un secondo d’arco, deve coprire la distanza dalla Terra al sole. È una distanza inimmaginabile, impossibile da comprendere, assurda. Una distanza frutto di quello che gli uomini non possono nemmeno sognare razionalmente.

Un Parsec dalla Terra. Un Parsec dai suoi problemi. Eppure, ogni volta che tornava nella culla biostatica, come stava per fare, dopo il controllo di routine, eccoli lì. La luce ci mette 3 anni e 3 mesi e loro piombano su Elisa in un unico istante.

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Capitolo 2
*** La Fiera ***


Ely aveva passato tutta la giornata sul termosifone, appollaiata. Aveva guardato il suo padrone e la moglie aggirarsi per casa, preparare la colazione, poi il pranzo, la cena ed uscire negli intervalli di tempo tra i vari pasti. Si era allontanata da quel bel tepore solo per andare a spiluccare il cibo che gli umani le avevano dato, con aria annoiata.

Quella le aveva chiesto con aria carezzevole se le piacesse “la pappa”. No, guarda, la mangio perché mi fa schifo… bah, umani… la sera è molto piacevole addormentarsi sulle loro coperte per fare un pisolino, o meglio ancora sulle loro tastiere, così la smettono di fare tutto quel baccano schiacciando i tasti, ma per il resto sono davvero animali domestici di bassa lega.

Finalmente però erano andati tutti a dormire ed Ely poteva dedicarsi al lavoro. Si era rintanata sotto alla sedia della cucina, in silenzio. La fioca luce della strada era sufficiente ad illuminare a giorno la stanza ai suoi occhi felini: stava zitta e ferma, immobile, ad aspettare di sentire il piccolo battito del cuore del topo.

Lo aveva sentito il giorno prima dalla camera da letto, ma non aveva avuto voglia di alzarsi, si stava bene, rintanati sul piumone sopra la pancia di Quello. Andava su e giù lentamente ed era un movimento che la rassicurava, e poi bisogna ammettere che niente scalda la notte come un umano!

Quella sera però non poteva fare ancora la lavativa! Il richiamo della caccia, generazioni di generazioni di predatori che si erano susseguite nel suo corredo genetico la richiamavano al dovere: quel topo sarebbe stato suo!

In agguato, in silenzio, vide il topolino fare capolino lentamente da sotto un mobile: era quella la sua unica via di fuga, dove non avrebbe potuto inseguirlo. Trattenne il fiato con i polmoni pieni d’aria mentre quello annusava l’aria. Era cauto e prudente, ma lei era stata più furba, sentiva la corrente dell’aria della stanza venirle addosso, era controvento. Sapeva anche in quale punto avrebbe potuto catturarlo senza che questi avesse la possibilità di scappare. Attese senza fare un respiro, mentre il roditore faceva qualche passo avanti, muovendosi a scatti. Quasi lo sentiva chiedersi che cosa ci fosse di strano, quella sera. Si fermò a pochi centimetri dalla linea mentale che Ely stava tenendo d’occhio.

Era una guerra di logoramento: dal canto suo il topo aveva fretta di afferrare qualche bocconcino dalla dispensa dei padroni e tornare nella tana; invece Ely doveva trattenere il fiato o quelle orecchie oltremisura l’avrebbero sentita e la sua preda sarebbe scappata. I polmoni di Ely si stavano infiammando nell’attesa, ma la sua concentrazione era tale che quasi non se ne rendeva conto.

Il topolino fece un ennesimo balzo in avanti e, prima ancora che potesse guardarsi attorno, vide una sagoma grigia stagliarsi nella notte, vide le linee taglienti degli occhi, un lampo di pelo piombargli addosso con il tintinnio della campanella che aveva appesa al collo a battere la sua marcia funebre. La missione era compiuta, la preda era stata catturata!

La mattina seguente, per vantarsi del proprio operato, Ely fece in modo di farlo trovare a Quelli sul loro scendiletto. Quella aveva fatto persino un gridolino di gioia vedendolo! Umani… per quanto chiedano parecchie attenzioni, Ely voleva bene ai suoi umani!

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Capitolo 2
*** La Pioggia ***


-…e così, niente, sto aspettando la mia occasione per diventare un attore. Per ora ho fatto solo la comparsa ed un provino per uno spot, ma con un po’ di fortuna posso farcela!-

Elisa ascoltava prestando poca attenzione. Non è che fosse stata lei a chiedere la storia della vita di quel ragazzo, ma, quando sei costretto a stare tutto il giorno in un posto per fare la comparsa, diventa naturale parlare del più e del meno. Si può pensare che questo crei dei legami, ma invece non è così, il più delle volte. Si prende, si chiacchiera, si discute, alle volte sembra che qualcuno riveli ogni piccolo segreto della propria vita. Era un’occasione per sfogarsi, in fondo. Qualche volta ne aveva approfittato, ma mai su cose davvero importanti. Si chiese se fosse meglio isolarsi a leggere il libro che si era portata dietro, invece di continuare a chiacchierare con quel ragazzo. Stava ancora parlando, ma aveva perso il filo del discorso un paio di frasi prima. Probabilmente ad un certo punto le avrebbe chiesto il numero di telefono. Non era un brutto ragazzo, tutt’altro. Era molto magro, altezza media, capelli neri con gli occhi azzurri ed un pizzetto ben curato. Vestiva in maglietta e pantaloncini, con delle scarpe della Nike. Aveva un aspetto giovanile, tutto il contrario di lui.

Si accorse che le stava fissando le labbra ed un brivido le percorse la schiena. Tutto sapeva di dejà vu. I neuroni presero a collassare l’uno sull’altro come tessere di un domino, riaprendo scenari e conversazioni passate che la portavano al problema attuale, in modo inesorabile. Sentì la gola stringersi e la borsa farsi più pesante, come se non avesse energie in corpo. Non era quello il momento per crollare, non poteva permetterselo, era lì per lavoro.
Il cielo si stava rapidamente rannuvolando, però, e la maggior parte delle scene le avevano già girate. Elisa sentiva i suoni, ma le sembrava quasi di essere in un film muto. L’operatore che si avvicina, gesticolando per richiamare l’attenzione e la scritta bianco su nero, in caratteri vintage “Stiamo sgomberando, sta per piovere, potete andare!”. Il ragazzo che le si avvicina e le fa “senti, lasciami il tuo numero, ci andiamo a bere una cosa in settimana”.

La sua mente non funzionava granché bene, come se tutte le rotelle stessero lavorando a macinare quell’unico problema, senza andare da nessuna parte. Certo, le apparvero in mente un paio di risposte possibili: dargli un numero falso, per non dover dare spiegazioni, “no, non bevo, te l’ho già detto”, “no, non mi va di uscire con nessuno”. “No, ho il ragazzo”. Strano come fosse una risposta perfettamente logica da dare, eppure ancora non le sembrasse naturale. Gli venne in mente una cosa e fece un piccolo sorrisino. Scosse la testa, guardandolo negli occhi e si incamminò verso piazza Vittorio. Su schermo nero, in caratteri vintage bianchi, comparvero le scritte “No. Sai, non devi fare ginnastica, non ti mettere scarpe da ginnastica!”

Si incamminò in mezzo a tutti gli altri, di nuovo sola, ancora sola, confinata in quei muri che poteva vedere solo lei. La borsa ormai era piena di mattoni. Di piombo Di ghisa. Di neutrini. Cambiò la spalla su cui la teneva, mentre si ripeteva che non era quello il posto per crollare. Non era nemmeno il posto per piangere. Non si permetteva di piangere, non lì.

Ma poi, finalmente, cade la pioggia ed il cielo piange al posto suo, rigandole le guance di lacrime senza sale.

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Capitolo 4
*** Il tetto ***


Era la terza volta in vita sua che saliva sul tetto di casa. Uno può passare anni ed anni in una casa e non vedere mai il tetto, restando convinto che esista solo perché non si allargano pozzanghere di muffa sul soffitto quando piove.

La prima volta che ci era salita aveva aiutato suo padre a rimettere a posto la grondaia. Era poco più che una bambina, ma tutto quello che doveva fare era stare ferma seduta e passare gli strumenti al papà: si sentiva tanto importante, come doveva sentirsi il giovane aiutante di un supereroe, conscia di stare alleggerendo almeno in parte il protagonista da un duro lavoro.

La seconda volta era salita sul tetto per nascondersi. Voleva uscire di casa, non aveva assolutamente idea di dove andare, ma sentiva il bisogno di allontanarsi per qualche oretta dai futili litigi domestici. Si era chiesta, se lo fanno i gatti, perché non dovrei farlo io? Quella notte di autunno minacciava pioggia, quando ancora la pioggia di novembre non aveva alcun fascino. Si era pure portata il tabacco del fratello, che aveva dimenticato in camera, ma non sapeva bene come si girasse una sigaretta. E poi fumare era stupido, era così, tanto un’idea per passare il tempo. Alla fine aveva provato a girarne una, ma non le era riuscita granché bene e l’aveva abbandonata là sopra.

Erano passati quasi tre anni, mentre stava lì a fissare quella stessa sigaretta. Non era possibile, lo sapeva, eppure era lì. La pioggia avrebbe dovuto farla a pezzi, mangiarla millimetro per millimetro, fino a liberare il tabacco pressato contenuto all’interno, che sarebbe stato portato via da una raffica di vento. Il filtro sarebbe dovuto scivolare via per la grondaia, gonfiandosi d’acqua, restando al limite bloccato ed appiccicato da qualche parte lungo il percorso. Invece era lì, perfetta. Forse si sarebbe persino potuta accendere. Lentamente, per non volare via, Ely si abbassò verso il tetto della casa, fino a sedersi, portando le ginocchia al petto. Fissava l’acqua sospesa tutt’attorno a lei e pensava a come fosse ironico che avesse smesso di cadere dal cielo. Le era sempre sembrato assurdo il concetto della pioggia: acqua che cade dal cielo!

Beh, dal suo punto di vista ora non era più così. Sì mise a quattro zampe, sporgendosi appena oltre al bordo del tetto della casa che stava precipitando, guardando il suolo che si avvicinava sempre di più. Ridacchiò brevemente pensando alla balena di “Guida galattica per autostoppisti”, mentre si sdraiava a guardare il cielo: incredibile come la terra si stesse avvicinando e quello schermo grigio sembrasse perfettamente immobile. Chiuse gli occhi e si dimenticò di tutto, in attesa di svegliarsi.

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Capitolo 5
*** la foresta ***


La ragazza con la collana stava scappando. Il cuore le martellava talmente forte nel petto che non sapeva quanto a lungo avrebbe retto: aveva sempre evitato il caffè perché gliene bastava poco per andare in tachicardia, ma ora era grata che quel muscolo fosse tanto iperattivo, aveva bisogno di ogni molecola di ossigeno per fuggire.

Il rumore delle zampe nel fango, quel soffocato calpestio che significava morte, mentre i suoi piedi bianchi continuavano a correre, sbattendo gli alluci contro le radici ed ignorando piccoli sassolini che le si erano piantati nella suola.

Si fermò per un solo, breve istante a guardarsi attorno. La piccola radura in cui era capitata era di dimensioni talmente ridotte che lo spazio tra le fronde bastava a stento a far passare la luce del sole. Riconobbe un albero con le foglie rosse che aveva visto all’andata e lo oltrepassò di gran carriera, sentendo il rumore di rami che si spezzano e corteccia graffiata dal passaggio di quel mostro. Era sempre più vicino, ma lei era quasi al limitare del bosco. Quando ne uscì, finalmente, venne investita dalla luce del sole.

Si voltò verso la foresta ed indietreggiò di qualche passo. Attese quella che le sembrò un’eternità per avere conferma che qualcosa la avesse effettivamente inseguita fino a lì, ma non accadde nulla. All’improvviso si rese conto di essere fuori dalla foresta e di essere riuscita ad uscirne, proprio perché quella cosa l’aveva inseguita.

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Capitolo 6
*** lo specchio ***


Ely aveva appoggiato quello specchio al pavimento, inclinato quel tanto che bastava a non farlo cadere a terra. Il suo vecchio specchio non andava bene, ovviamente. Sdraiata sul letto, con il torcicollo, non poteva guardarlo per intero, ma non aveva voglia di muoversi. Non aveva un valido motivo per muoversi.
Però gli altri la aspettavano, così, morbidamente, si mise a sedere. Ora poteva vedere fuori dalla finestra da quello specchio. Un piccione frullò le ali nel suo angolo in alto a destra. Forse era un corvo. Il sole continuava ad abbassarsi, sia fuori dalla finestra, che dentro nello specchio.

Si mise un lungo vestito ad un solo pezzo, con quei pois, che a lei piacevano tanto. Per mettere in evidenza la propria vita stretta, ci abbinò una catenina dorata. Doveva solo mettersi il trucco, ma lo specchio era già troppo buio. Una cosa doveva fare e non la faceva. Indossò dei sandali con pesanti ed alte zeppe.

Prese i propri trucchi e fece per avviarsi al bagno, dove si sarebbe truccata. Esitò sulla porta, per un secondo le balenò per la testa il pensiero che non ci fosse un mondo oltre la porta, che l'universo si fermasse a quella soglia. Ritornò sui propri passi e fissò lo specchio. Si abbassò in modo da poterlo fissare dritto negli occhi, quello specchio opaco, patetico, buio e silenzioso. Si sollevò in piedi e, dall’alto della propria superbia, innalzata dai tacchi, sollevò un sandalo, per poi abbatterlo violentemente nel centro dello specchio.

Mentre stava uscendo dalla stanza, come vetri rotti dal gelo, le crepe continuavano ad estendersi lungo tutto l’oggetto, finché non fu altro che un pannello di compensato, intento a guardare i frammenti di sé sparsi sul pavimento, con aria rassegnata. In quella stanza, ora quasi completamente buia, non brillavano poi nemmeno tanto.

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