Astreya di Dusky Doll (/viewuser.php?uid=839328)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo- Gufi nella notte. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1- Le cripte ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2- La Tela di Aracne ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3- Ibrido in cella ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4- Consigli al chiaro di luna ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5- Affogando ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6- A pelle nuda ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7- I quattro Reggimenti ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Training ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9- Un ciclope con due occhi ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10- Figli del Vento ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11- Magna Teca ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12- Una spalla su cui piangere ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Il risveglio ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Aborto ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15- L'arte della guerra ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16- L'arte dell'amore ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17- Uno...due...tre...quattro ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18- Il vero mostro ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19- Nastri neri ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20- Devozione ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21- Medicamenta ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22- Benzina ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23- Gyps ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 - Epistassi ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25- Bug ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26- Un caloroso benvenuto ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27- Il re e la regina ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28 - Le due facce di un Debito ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29- Crisalide ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30- Tensione ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31- Aughènea ***
Capitolo 1 *** Prologo- Gufi nella notte. ***
PROLOGO...
La
vita in questo mondo è diventata un rischio. Non
c’è sicurezza, non c’è
speranza, solo desolazione, guerra e dolore. Non
c’è più
spazio per la compassione e la pietà, ma solo per
l’indifferenza e la
grettezza. Camminiamo tutti con mille occhi puntati addosso e noi
stessi ci guardiamo
le spalle come gufi nella notte. Abbiamo imparato a sopravvivere, ad
accumulare
beni di prima necessità come piccole formiche, a rubare e
fare nostre le
provviste altrui come gazze ladre. Siamo sempre affamati, di potere, di
denaro,
di sangue, di vita, di qualsiasi cosa non ci faccia ricordare che la
morte ci
toglierà tutto, senza alcuna eccezione. Vivere
così non è vita: è sopravvivenza
o, se vogliamo, esistenza senza scopo. Tuttavia è
l’unica possibilità che ci è stata
data, l’unico destino a cui possiamo e potremo mai
aggrapparci.
La
prima volta che arrivai a questa conclusione avevo
tredici anni ed ero appena stata venduta ad un Tempio, ovvero ad un
altro
prodotto di questi tempi bui, un focolare di credenze, violenza e
fanatismo. Vi
si venerano Dei malvagi, zoomorfi e vendicativi che disprezzano il
genere umano
e portano in dono a ciascuno sofferenza e dannazione per i peccati. E proprio grazie a questo, a
un simile clima
di terrore e oppressione spirituale, la Chiesa ha potuto espandersi in
breve
tempo e guadagnare un’influenza incredibile in un mondo
cinico, spietato e
razionale. Tuttavia nonostante il timore reverenziale che la Religione
esercita
sul popolo e sui vertici della società, il vero potere della
nuova Chiesa rimane
quello di essere in grado di gestire i rapporti economici e politici
fra le
varie parti, concedendo perdono, clemenza e misericordia in cambio di
ricchi
doni. Ma non tutti sono nati con lo spasmodico desiderio di conoscere
la vita
dopo la morte o gli Dei sopra la propria testa, perciò per
ingraziarsi anche
loro, il Tempio ha dovuto escogitare altri metodi: io stessa non ho mai
creduto
a nessuna delle leggende e delle dottrine con le quali avevano cercato
di
educarmi. Eppure l’offerta dei Templi per i propri fedeli
è talmente ghiotta da
riuscire ad attirare anche quella fetta della popolazione che di fede
non ne sa
assolutamente nulla. Una di queste proposte fu fatta a me anni fa e
grazie a
quella opportunità, mi sono, infine, resa conto che dietro
alla facciata
religiosa vi è un altro mondo, più oscuro e
affascinante: il mondo della magia.
Mi
avvicinai a questa realtà anni fa, spaventata e
turbata come ogni novizia, ma al contempo fortemente affascinata. Mi
accolsero
in un Istituto connesso al Tempio in cui ero cresciuta e mi iniziarono
alle
arti oscure, quelle che per millenni l’uomo pensava non
esistessero se non
nelle sue più remote fantasie. Mi fecero esami medici e mi
fecero assumere degli
psicofarmaci per rendere la mia mente un vaso vuoto da colmare e il mio
cervello un brulicante formicaio di idee. Li lasciai fare
perché non avevo
speranza, non avevo futuro e non avevo stima di ciò che ero
diventata al
Tempio. Non pensavo che sarebbe potuto succedere, che mi sarei
trasformata in
un mostro. Ma fu ciò che mi accadde. Iniezione dopo
iniezione, sofferenza dopo
sofferenza, dopo esercizi estenuanti e sudore, divenni una Custode del
Tempio.
Mi incensarono di onori ed offerte, mi regalarono vesti e gioielli, ma
erano
tutte cose che alla mia anima non interessavano più. Nel mio
cuore covava solo
la rabbia, la tristezza, il potere e l’afflato
all’oscurità. Temevo per la mia
anima, ma più di tutto temevo di tornare come ero prima, una
ragazzina persa e
abbandonata seduta su una panca del Tempio. Così mi adeguai
a quella vita e
mano a mano che le mie capacità aumentavano, divenni
cosciente di quello che
potevo fare e lo utilizzai per purgare almeno un po’ la mia
anima, ormai per
sempre proprietà del Tempio assieme al mio corpo.
Mi
chiamo Astreya e questa è la mia storia.
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Capitolo 2 *** Capitolo 1- Le cripte ***
Capitolo
1
Era
autunno. Il sole stava tramontando all’orizzonte infuocando
il cielo e
imbrunendo la vallata. Colsi gli ultimi fiori dal giardino e ritornai
sui miei
passi, tenendo la lunga veste sollevata. L’aria era ancora
calda, ma una lieve
brezza serale cominciava a soffiare sulla pelle ardente delle Custodi
che come
me affollavano il Tempio. Salii rapidamente gli scalini e varcai
l’imponente
arco. All’interno la polla d’acqua purificatrice
scintillava e si increspava
leggermente al tocco delicato del vento. Aspettai le altre Custodi e
poi
adagiammo i fiori sul pelo dell’acqua. Ci sedemmo in cerchio
osservando il
placido scorrere della vita mescolarsi con il misterioso galleggiare e
affogare
delle primizie colte. E quando anche l’ultimo petalo fu
inghiottito dall’acqua,
rompemmo il silenzio e ci dirigemmo a mani giunte verso le nostre
celle. Le mie
compagne indossavano il loro solito sorriso calmo e meditabondo e
camminavano
leggiadre come farfalle, mentre io avanzavo spedita senza alcuna
espressione, nemmeno
il benché minimo segno di vita sul volto. Qualcuna delle mie
Sorelle, quando
giunse di fronte alla sua stanza, mi salutò docilmente,
qualche altra mi
ignorò, finché non rimanemmo soltanto io e
Aracne, la più anziana del gruppo,
entrambe immobili nel mezzo del corridoio. Aracne mi fece un cenno con
il capo,
mantenendo la sua espressione serena, e assieme ci dirigemmo,
attraverso il
chiostro, alle sale che conducevano alle cripte.
-Come
ti senti, Aracne? – le domandai quando fummo inghiottite
dall’oscurità della
Terra. Flebili luci danzavano pigre aggrappate alle lanterne.
-
Sono ancora indolenzita, ma la colpa è soltanto della mia
salute cagionevole-,
disse, massaggiandosi la base del naso. Nonostante i suoi
trent’anni e la sua
salute precaria, Aracne era una delle donne più belle e
abili che avessi mai
conosciuto. Era Maestra delle Tele, un’arte che nemmeno io,
cresciuta in quel
luogo, conoscevo fino in fondo. I suoi occhi blu elettrico erano
profondi e
misteriosi come il potere che albergava nelle sue abili dita. Era stata
creata
per questo, lo sapevamo
tutte, ma ogni volta non potevamo fare a meno di stupirci.
-E
tu come stai, Astreya? -, mi domandò di rimando, gentile.
Sorrisi flebilmente,
il volto ricoperto da un sottile strato di sudore che lentamente mi
scivolava
negli occhi.
-Combatto
la mia battaglia, come sempre-, ribattei e lei mi pose delicatamente
una mano
sulla spalla.
-Un
giorno le tue sofferenze verranno ripagate e riceverai in dono il
potere più
glorioso di tutti-
Le
sorrisi con più convinzione, nonostante i miei innumerevoli
dubbi. Giungemmo
alla sala d’aspetto e lì ci inginocchiammo sulle
panche in pietra attendendo
con altre venti Custodi il nostro turno. Era proibito parlare,
perciò gli unici
rumori che si udivano erano le urla lontane delle pazienti e il
ticchettio
dell’acqua che picchiettava il pavimento. A prima vista
quello sembrava un
luogo di torture e sevizie, ma in realtà si trattava
banalmente di stanze di
Cura. Erano, cioè, piccole celle dove i medici del Tempio ci
iniettavano dei
farmaci in grado di sviluppare quelle capacità peculiari e
uniche che
albergavano in noi fin dalla nascita. Era un modo come un altro per
sbloccare i
nostri talenti, allenarli, domarli e poi utilizzarli per gli scopi del
Tempio. Era
un onore essere iniziate alla magia, un privilegio che veniva
consentito a
poche e dotate persone. Mi ero sentita bene la prima volta che mi ero
inginocchiata sulla panca in attesa del mio turno, certa di essere
speciale e
curiosa di scoprire cosa il Tempio avesse visto in me. E solo dopo aver
realizzato
quale fosse il mio talento, capii il grave errore che avevo commesso
nel lasciarmi
trasportare in fondo a quell’abisso. Ma ormai era troppo
tardi, e la brama di
avvicinarmi sempre più alla potenza di una
Divinità aveva fatto il resto. Un
medico alto e con un lungo naso curvo chiamò il mio nome e
io, come al solito,
mi alzai e mi diressi nella stanza che mi indicava. Dentro mi
attendevano la
solita poltrona e il solito ago appuntito. Mi sedetti e attesi che il
medico mi
desse nuove istruzioni.
-Mi
chiamo Iatro e sarò il tuo nuovo medico, come ben sai. Ora
che il tuo potere
sta crescendo e si sta espandendo, la Sacerdotessa ha ritenuto
opportuno
affidarti a me. Sono il Guaritore del Tempio-, disse. Sobbalzai sulla
poltrona.
Il Guaritore del Tempio solitamente compariva soltanto quando qualche
fedele
giungeva al cospetto della Sacerdotessa posseduto, ferito a morte,
straparlante
o in preda a qualche malattia sconosciuta, ma mai per trattare una
Custode. In
più in pubblico il suo ruolo gli imponeva di indossare una
maschera e una veste
nera, cosicché nessuno del mio misero rango aveva mai avuto
fin a quel momento
l’onore di conoscere il suo volto e la sua
identità. Ora con indosso solo un
saio e un paio di sandali, pareva un uomo normale. Mi inchinai
doverosamente e
lo salutai con reverenza, ma lui mi fece subito sollevare e con un
gesto deciso
mi respinse sulla poltrona.
-
Lasciamo i convenevoli per la prossima volta-, disse. Annuii
distrattamente e
sollevai la manica destra della veste. L’uomo
osservò il colore bluastro
dell’incavo del gomito, dove da anni mi iniettavano i
farmaci. Scosse la testa
mestamente e si voltò per preparare la siringa. Lo osservai
mentre abilmente
armeggiava con gli strumenti e con quale concentrazione si preparava.
Infilò i
guanti dopo essersi preventivamente lavato le mani, poi espulse
l’aria dalla
siringa e si avvicinò a me. Sistemò il laccio
emostatico così da evidenziare le
vene più facilmente e poi con un rapido gesto mi
iniettò il liquido nel sangue.
Immediatamente percepii il forte bruciore e la sensazione di rabbia che
solitamente mi invadevano, poi sopraggiunse il dolore cieco e il
pizzicore al
cranio. Lottai contro il desiderio di strapparmi i capelli e
l’insana voglia di
attaccare Iatro.
-Bene
così, bene così…- mormorò
lui, mentre mi legava mani e piedi alla poltrona.
Strinse le cinghie all’inverosimile, quasi temendo che
potessi scappare o fare
del male a qualcuno. Non lo avevano mai fatto con me e inizialmente
pensai si
trattasse di una precauzione. Solo quando vidi una nuova siringa
infilzarmi la
pelle, capii. Il liquido che mi scivolò denso fra le vene mi
costrinse a una
visione caleidoscopica e oblunga in cui colori e forme si accavallavano
impazzite. Cominciai a gridare, desiderando strapparmi gli occhi.
Strillai
disperata cercando di liberarmi, ma Iatro non faceva caso a me e al
contrario
annotava paziente le mie reazioni. Mi ripresi dallo stato di shock
solamente dopo
circa dieci minuti di totale agonia e perdita di me, per ritrovarmi
stremata e
aggrappata con le unghie alla poltrona. Ansimavo e sudavo freddo. La
vista non
era migliorata e al contrario avevo cominciato a vedere delle strane
ombre
longilinee ondeggiarmi attorno come giunchi al vento. Mi bruciavano gli
occhi e
avevo le pupille dilatate.
-Cosa
vedi? -, mi domandò Iatro con una voce distorta e
squillante. Deglutii un paio
di volte e sbattei le palpebre guardandomi attorno.
-Ombre-,
biascicai.
Iatro
annotò anche questo fatto, annuendo. Sembrava che avessi
soddisfatto le sue
aspettative perché un largo sorriso gli si dipinse sul
volto. Per un minuto mi
parve di vedere più fila di denti aguzzi fra le sue labbra,
ma poi la visione
scomparve, così come scomparvero lentamente anche le ombre.
Mi slegò
frettolosamente e mi aiutò ad alzarmi.
-Benissimo.
Oggi è un grande giorno, mia cara Astreya. Ci vediamo
settimana prossima alla
stessa ora, proporrei-.
Annuii.
-Certamente,
la ringrazio, molto-, dissi.
-Ti
prego, dammi del tu. Sono almeno cinquant’anni che mi danno
del lei e ora sono
stanco delle onorificenze-.
Si
carezzò la barba
lunga e ispida e poi mi porse la mano nodosa. La afferrai debolmente e
la
strinsi per quanto potei. Poi, accompagnata da un medico minore, mi
fecero
tornare nella mia cella. Non era niente di spettacolare e a malapena ci
stava
il letto, ma ogni volta che poggiavo la testa sul cuscino ruvido mi
sentivo
sempre un po’ più a casa.
Feci una
doccia fredda, così da liberarmi completamente del sudore e
del dolore, poi
indossai la vestaglia da notte e mi infilai sotto le coperte. Impiegai
ore ad
addormentarmi e anche quando lo feci, dormii sogni agitati.
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Capitolo 3 *** Capitolo 2- La Tela di Aracne ***
La
mattina seguente, nonostante un forte mal di testa, mi sentivo meglio.
Aracne
non poteva dire lo stesso: rimetteva in continuazione e aveva la
febbre, tanto che
durante la Preghiera della mattina venne rispedita nella propria cella
in
convalescenza. Riuscii ad andare a trovarla soltanto dopo cena quando
ormai gli
obblighi del pomeriggio erano stati portati a termine. La trovai stesa
sul
letto con i profondi occhi blu infossati in occhiaie livide e le membra
annegate nel sudore. Era sempre uno strazio vederla in quelle
condizioni, tanto
che la maggior parte delle volte non avevo nemmeno il coraggio di
passare da
lei.
-Come
stai? -. Era una domanda banale, ma non sapevo che altro dire. Presi
uno
sgabello e mi sedetti al suo fianco.
-
Mi riprenderò, non preoccuparti. Mi riprendo sempre-.
Sospirò e chiuse gli
occhi. Le accarezzai una mano cantandole una canzone del coro. Lei
amava
sentirmi cantare, nonostante non fossi bravissima. Così
quando stava male, mi
piaceva rallegrarla sacrificando la mia dignità canora.
Aracne ascoltò rapita
qualche minuto, poi si assopì di colpo, il respiro pesante e
rallentato. La
lasciai finalmente dormire e mi allontanai. Quella sera dovevo
partecipare al
Risanamento, per cui mi cambiai in fretta indossando la veste rossa in
stile
impero. Raccolsi i lunghi capelli in una treccia laterale e vi sistemai
la
tiara. Poi mi recai alla polla e mi unii alle altre Custodi schierate a
semicerchio dietro alla figura della Sacerdotessa. La donna era immersa
fino
alle ginocchia nello specchio d’acqua e il suo abito bianco
le galleggiava
attorno come una ninfea. Aveva le mani congiunte e i nivei capelli
sparsi
attorno a lei a guisa di bianche serpi marine. Ero sempre stata
attratta dalla
sua figura: infatti la convinzione e l’ossequio con i quali
la Sacerdotessa si
approcciava alla Religione mi incuriosivano e ogni giorno di
più mi spingevano
ad avvicinarmi di un ulteriore passo a lei. Emanava un oscuro ed
ancestrale
richiamo a cui nessuno avrebbe mai potuto resistere o a cui nessuno
avrebbe mai
potuto opporsi. E anche i fedeli che quella sera si presentarono da lei
arrossirono nel godere della bellezza del volto, piccolo e bianco con
profondi
occhi verde smeraldo. Era una donna anziana a quanto si diceva, ma
tutti, come
feci anch’io a mio tempo, si stupivano nel constatare che le
uniche rughe sul
suo viso erano due sottili linee al centro della fronte spaziosa. Dopo
una
fiumana di ammalati e di mutilati, comparve sulla soglia del Tempio un
uomo
imponente con un ampio petto muscoloso e spalle larghe. Indossava una
divisa
nera con dei distintivi luccicanti appesi a livello del cuore.
Inizialmente
pensai si trattasse di un militare, ma i lunghi capelli neri mi
convinsero del
contrario. Entrò con fare spavaldo e si inchinò
solamente pochi secondi, giusto
il tempo per non sembrare scortese. Poi guardò dritto verso
di me con gli occhi
scuri e cigliati socchiusi e umidi. Ero abituata agli sguardi dei
fedeli dal
momento che ero l’unica Custode alla quale gli psicofarmaci
non avessero decolorato
i capelli fino a fare assumere loro una tonalità fredda come
quella della neve.
Arricciai il naso e una gocciolina di sudore mi colò sul
collo ghiacciandomi la
pelle. L’uomo si inginocchiò di fronte alla polla,
sempre mantenendo lo sguardo
fisso su di me. Notai un lieve cenno del capo da parte della
Sacerdotessa.
-Bentrovata,
nostra amata-, cominciò l’uomo, molto
più lusinghiero e accomodante di quanto
non mi fosse apparso inizialmente.
-Cosa
la porta qui? -, domandò la Sacerdotessa con voce fredda e
profonda. L’acqua
della polla si increspò mentre l’uomo sogghignava.
Sembrava che fra i due vi
fosse una qualche sorta di relazione, ma la natura della stessa
sfuggiva alla
mia immaginazione.
-Sono
giunto da oltremare per prendere in mano la vecchia Caserma e
installarvi il
mio reggimento-esclamò l’uomo. La Sacerdotessa si
inginocchiò, lasciando che
l’acqua le lambisse il torace e facendo segno a noi Custodi
di circondarla.
Come agnellini obbedimmo al suo ordine, sprofondando anche noi nella
polla a
sostenerle le vesti. Tutte quelle cerimonie mi stancavano non poco, ma
almeno
essere così vicina all’autorità massima
del Tempio mi permetteva di ascoltare i
discorsi di quell’uomo misterioso.
-E’
qui per la mia approvazione? - Gli occhi liquidi della donna fissavano
quelli
dell’uomo con una strana espressione, quasi umana. Tuttavia
lui era molto più
concentrato a seguire il contorno scuro dei miei capelli, incuriosito e
forse
un po’ interessato alla loro storia. Stavolta ricambiai lo
sguardo, in maniera
fredda e decisa, finché lo straniero non fu costretto ad
abbassare gli occhi.
Mi sentivo la testa stranamente leggera e dalla nuca mi gocciolava il
sudore.
Non potevo muovermi per cui sopportai la sensazione di solletico che
questo mi
provocava.
-Sono
qui per recarle un messaggio-.
L’uomo
porse alla Sacerdotessa una lettera ricoperta da scritte scure e
inclinate. La
donna allungò un braccio pallido e strappò il
sigillo raffigurante un leone
ruggente. Lesse rapidamente il contenuto del messaggio, poi come fosse
un dono
votivo lo lasciò scivolare nelle acque chiare.
L’inchiostro, sfuggendo sul
fondo dello specchio, si sciolse liberando piccoli vortici neri.
Istintivamente
strinsi i denti desiderando come non mai sapere cosa fosse stato
scritto in
quella lettera. Tuttavia non mi chinai a raccoglierla
perché, lasciando le vesti
della Sacerdotessa, avrei commesso atto di empietà. Rimasi
semplicemente lì a
fissare la mia curiosità affondare con quella carta
giallastra.
-Spero
che trovi interessante la proposta-, ribadì l’uomo
inchinandosi di fronte alla
donna che era rimasta immobile, quasi pietrificata. I capelli neri
dell’individuo,
lunghi fino alle spalle, ondeggiavano scossi dal vento della sera e la
pelle
spessa e piena di cicatrici riluceva dei riflessi frammentati
dell’acqua. La
Sacerdotessa si risollevò e allargò le braccia.
Subito due delle Custodi accanto
a me si allontanarono e tornarono poco dopo portando il Vaso. La
osservai
intingere le dita nella tintura rosso rubino e dipingere sulla fronte
dell’uomo
un grande occhio spalancato. Le sue dita si muovevano rapide, sempre
aggraziate,
e il colore purpureo sui suoi polpastrelli risaltava proprio come
sangue sulla
neve. Lo straniero attese pazientemente che la Sacerdotessa finisse il
suo
lavoro, con gli occhi chiusi e le mani congiunte. Quando le dita si
staccarono
dalla sua fronte, spalancò gli occhi e li fissò
senza pudore in quelli della
donna. Lei lasciò cadere le mani nell’acqua,
colorandola di rosso.
-Questa
è una protezione, ma anche una minaccia. Lei sarà
i miei occhi e ciò che farà
io lo saprò. Se si verrà meno alla
bontà dello scopo, io stessa verrò a
prenderla. Siete tutti sotto la mia stretta sorveglianza-. Detto questo
tacque.
Lo straniero si promulgò in ringraziamenti sentiti, gli
occhi animati da una
nuova fiamma. Poi se ne andò come era venuto, lasciandomi
sola con le mie
congetture.
Quando
mi svegliai la mattina dopo, alle cinque, il Tempio giù
brulicava di gente.
Soldati, Sacerdoti e Custodi si riversavano nei corridoi, nel chiostro
e nei
giardini. Erano ovunque, si stringevano mani e si scambiavano sorrisi.
Mentre
passeggiavo sostenendo la debole Aracne non potevo fare a meno di
osservare
quel panorama umano. Erano persone molto diverse da noi: chiassose,
espansive,
un po’ irose e alcune rubiconde. I soldati avevano
un’aria più seria, ma anche
loro si scambiavano gesti di solidarietà e battute.
-Cosa
ci fa tutta questa gente al Tempio? -, domandò Aracne,
asciugandosi la fronte.
Le raccontai brevemente della lettera misteriosa ricevuta dalla
Sacerdotessa e
di come, però, non sapessi cosa vi fosse scritto
all’interno.
-Che
faccenda misteriosa-, commentò la Custode. –Potrei
intessere una Tela, se
questo non fosse estremamente contro le regole-.
Lo
diceva tanto per dire, ma nella mia testa cominciarono a frullare idee.
Se
Aracne avesse tessuto qualcosa, sicuramente avremmo potuto vedere anche
solo un
quadro sfocato di ciò che stava accadendo. Era strano, in
fin dei conti, che la
Sacerdotessa non ci avesse messo al corrente degli affari del Tempio,
dal
momento che la chiarezza e la trasparenza erano doti di lei che tutti
ammiravano. Non sapevo quanto avrei potuto spingere Aracne a infrangere
le
regole, ma sapevo che tentare non avrebbe nociuto a nessuna delle due.
-Forse
guardare una Tela non sarebbe male, non credi? -, buttai lì,
per non sembrare
eccessivamente cospiratoria. Aracne per risposta mi lanciò
un’occhiataccia
eloquente.
-Non
credo sia affatto una buona idea-.
Sbuffai.
-E
non sbuffare. Sai che con me non attacca-, mi rimproverò
agitandomi l’indice
davanti agli occhi.
Avanzammo
nei corridoi finché non sbucammo nei giardini.
Là, nascosti dai frondosi salici,
intravidi la Sacerdotessa e l’uomo del giorno prima
chiacchierare.
-Guarda
là, Aracne. E’ alquanto insolito per la
Sacerdotessa intrattenersi con un
fedele all’infuori delle funzioni. Ci deve essere proprio
qualcosa di grosso
sotto-.
Aracne
osservò la scena che si ritrovava davanti agli occhi e vidi
in lei una leggera
luce di cambiamento. Quando era così, sapevo che dovevo
soltanto dare un’ultima
spinta.
-Chi
sa cosa staranno dicendo…-
Aracne
si morse le labbra bianche, presa dalla curiosità di sapere
che cosa stesse
accadendo tra i due. E sapevo benissimo che la curiosità di
Aracne, quando
attivata, era irrefrenabile.
-So
già che me ne pentirò…-,
cominciò lei, sospirando. Le strinsi forte una mano
sorridendo e la ricondussi sui nostri passi, fremendo dalla voglia di
arrivare
nella stanza delle Tessiture il più velocemente possibile.
Aracne mi seguiva un
po’ intimidita, ma rosicchiata dalla curiosità.
Arrivammo al chiostro, dove ci
fermammo un momento. Discutemmo su come giustificare il nostro atto nel
caso
fossimo state scoperte, ma non trovando una scusa che fosse anche
minimamente
passabile, decidemmo che non farci scoprire era l’unica
alternativa possibile,
nonché l’unica possibilità di riuscita
del nostro piano. Tuttavia, proprio
mentre ci accingevamo a riprendere la via, ci si affiancò un
gruppetto di
soldati. Il primo a parlarci fu un ragazzo biondo con un viso curato e
un naso
schiacciato e storto.
-Salve,
Custodi! Sapete dove è il refettorio? –
Sorrideva
amichevole, tuttavia il modo irrispettoso con cui ci parlava
sembrò disturbare
Aracne che mi lasciò il braccio e fugacemente mi
salutò, dicendo che mi avrebbe
preceduto. Mi fece un segno inequivocabile e mi lasciò
lì. Sapeva che
nell’allontanare la gente ero molto più brava di
lei.
-
Seconda porta a destra, girando di là-, dissi brevemente. Il
ragazzo mi sorrise
cortese e fece un piccolo inchino, più scherzoso che dovuto.
I suoi compagni lo
sbeffeggiarono dandogli delle pacchette. Non comprendevo il
perché fossero così
su di giri, perciò mi azzardai a indagare un pochino.
-
Posso domandare il motivo della vostra contentezza? Dubito sia per una
semplice
visita al Tempio-.
Un
ragazzo di colore, alto sui due metri abbracciò il compagno
e si fece avanti.
-Corrono
voci che verrà stretta un’alleanza tra il Tempio e
l’Accademia. Siamo solo
ragazzi, ma siamo contenti di servire lo Stato e con la vostra
protezione
potremo essere ancora più forti-.
Sollevai
un sopracciglio, ritenendo la loro gioia una forma inutile di
patriottismo.
Improvvisamente la voglia di colpirli in faccia mi esplose nello
stomaco e
dovetti resistere all’impulso di gettare il ragazzo a terra.
Finsi un sorriso e
mi asciugai il collo: avevo ripreso a sudare. Uno del gruppetto,
rimasto fino
ad allora in silenzio, si fece largo fra i compagni e si
avvicinò
silenziosamente. Sentii prima i suoi passi ovattati e poi lo vidi. Era
molto
alto e aveva dei folti capelli neri scompigliati.
-Sta
bene, Custode? -, domandò. La sua espressione era enigmatica
e fin troppo
seria, vista l’atmosfera che lo circondava.
-
Certamente, la ringrazio per l’interesse. Ad ogni modo, al
momento non posso
attardarmi oltre, ho alcune faccende da sbrigare, scusate-, dissi,
decisa a
levarmi di torno il più velocemente possibile. Il giovane
che avevo davanti,
tuttavia, non sembrava condividere la mia fretta e rimase fermo di
fronte a me
occupando la strada. Mi squadrò da capo a piedi, mentre con
le dita giocava con
il bordo della maglietta nera. Sbirciai il nome inciso sulla piastrina
che
portava al collo e mi parve di leggervi il nome di Deimos.
-Desidera
dirmi qualcosa? – buttai lì studiando
l’espressione sul suo volto. Sembrava
sospettoso per un qualche motivo. Il giovane sbatté gli
occhi un paio di volte,
poi con estrema calma, disse: - I suoi capelli, Custode. Non vorrei
risultare
sgarbato, ma li trovo molto insoliti-.
Sospirai di sollievo. Ero
abituata ad
attenzioni di quel genere e sapevo ormai cosa rispondere ai fedeli
curiosi.
–Sono un difetto difficilmente correggibile, ma nulla che una
buona Custode non
possa espiare con la forza delle preghiere-.
Deimos
sorrise e le labbra carnose si tesero sui denti bianchissimi. Lo trovai
di una
bellezza spaventosa e mi venne una voglia improvvisa di correre via e
lasciarmi
quel gruppetto alle spalle. Ma questa era una cosa che anni di
indottrinamento
e allenamento non mi consentivano di fare. Era, infatti, preciso
compito di una
Custode rispettare le regole cortesi del colloquio.
-Sarei
molto curioso di conoscere la sua Dote, se non la disturba renderla
nota-.
Un
tuffo al cuore. Non potevo dirlo: avevo giurato. Tuttavia, temevo che
non
rivelando nulla a quell’uomo sarei finita nei guai. Avevo la
sensazione che
fosse qualcuno di importante nonostante la divisa semplice e la
mancanza di
medaglie al valore appuntate sul petto.
-Non
ha molta importanza in realtà. Ed essendo una Dote assai
irrilevante mi
vergognerei nel divulgarla, mi perdoni-. Feci un piccolo inchino e
deglutii
notando il luccichio della katana che pendeva al fianco del soldato.
Nel Tempio
erano vietate le armi da fuoco, ma quelle da taglio venivano consacrate
al
momento della loro forgiatura e pertanto potevano varcare le soglie dei
luoghi
sacri. Ciò non mi impediva comunque di sudare
incredibilmente alla vista di
quel genere di manufatti.
-Nessun
problema…- mormorò Deimos con una sorta di
luccichio negli occhi. Poi osservò
una gocciolina di sudore scivolarmi lungo il contorno del mento e sul
suo viso
comparve nuovamente un sorrisino beffardo. Con un gesto
allontanò, quindi, il
resto del gruppo che si sparpagliò nel chiacchiericcio
confuso del Tempio.
-
Vedo che la sua Dote la tiene impegnata parecchio…-
Mi
asciugai il sudore dal collo con uno scatto fulmineo, ma non fu
sufficiente a
distrarre Deimos né a confonderlo. Aveva capito che il mio
era un potere
leggermente diverso da quello degli altri e ora sembrava intenzionato a
farmi
sputare il rospo.
-Sì,
ci vuole sempre molto autocontrollo per possedere appieno i Doni degli
Dei,
qualunque essi siano-.
-Ci
scommetto-, disse. - Ad ogni modo desidererei moltissimo parlare con
lei in
privato questa sera, dopo cena. Verrà organizzato un
falò in onore dell’unione
tra Tempio ed Esercito e gradirei incontrarla e presentarle un mio
fedele
collaboratore. Chiedete pure del Generale Deimos e verrete condotta a
me.
Arrivederci-. Sparì subito dopo un lieve inchino, senza
neanche darmi
l’opportunità di declinare l’invito. Se
ne andò a passo svelto, lasciandomi
sola, persa nei miei pensieri e annegata nel sudore. Mi riscossi poco
alla
volta, lasciando che il pizzicore alla testa passasse e la
sensibilità alla
punta delle dita scivolasse verso valori normali. Poi, camminando a
passo lento
e barcollante, raggiunsi Aracne. La trovai già in trance.
Aveva gli occhi
completamente rivoltati all’indietro e i capelli biondissimi
fluttuavano
attorno al volto come raggi di un sole freddo. Le mani si muovevano
rapidamente,
come possedute, e la Tela andava formandosi. La stanza, piena di Telai,
era
buia e silenziosa e la pallida luce filtrava senza gioia dai finestroni
aciculari che arrivavano fino al soffitto. Girovagai qualche minuto,
osservando
rocchetti e aghi appuntiti, ma ben presto mi stancai e mi avvicinai ad
Aracne
per vedere come procedeva il suo lavoro. Esso mostrava un cielo color
cobalto
dalle sfumature viola con piccoli puntini bianchi a impreziosirlo e
sotto una
cittadina in rovina. Mano a mano che Aracne tesseva andarono ad
evidenziarsi
dei dettagli: gente che fuggiva dalle case che andavano a fuoco, esseri
mutilati che rotolavano per le strade e persone che si cibavano delle
carni
infette dei ratti. Soldati di fazioni diverse che lottavano gli uni
contro gli
altri e spari che distruggevano gli avversari. Poi si
evidenziò un’altra scena,
indipendente dalla prima. Dalle fiamme emergeva un essere enorme, alto
ed
emaciato con delle cicatrici bianche a ricoprirgli gran parte del
corpo. Il
volto era avvolto dal fumo e i lineamenti erano indistinguibili.
Cominciai a
rosicchiarmi le unghie, nervosa. Non avrei mai potuto immaginare un
futuro del
genere e forse Aracne aveva avuto ragione quando aveva sconsigliato di
interrogare le Tele senza permesso. Tuttavia ormai il danno era fatto,
e ad
ogni modo non sarei mai riuscita a distogliere lo sguardo
dall’intrico di fili.
Il disegno ormai andava completandosi. Alla creatura che troneggiava la
seconda
scena vennero aggiunte le braccia, tutte nervo, ricoperte e grondanti
di
sangue. Poi la visione di Aracne venne interrotta e la luce della
coscienza
tornò a illuminarle gli occhi. Guardò per qualche
secondo il mio viso
sconcertato, poi si rivolse verso quello che aveva intessuto. Rimase
sgomenta e
mormorò: - Non pensavamo a nulla del genere-.
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Capitolo 4 *** Capitolo 3- Ibrido in cella ***
Capitolo
3
Seguendo
un impulso poco religioso quale era la mia curiosità, mi
addentrai fra i bassi
edifici grigi. Dopo quello che Aracne aveva intessuto, mi pareva poco
intelligente non presentarmi al cospetto di Deimos, quando questi per
di più
pareva avere le risposte che andavo cercando. Così, lasciata
la mia amica al
dovuto riposo, indossai il mantello e seguii la strada che portava alla
città.
Quando la vidi sentii la consueta fitta al cuore: casermoni tutti
uguali si
susseguivano a vecchi edifici anneriti sotto l’occhio vigile
di moderne
telecamere. La gente camminava allegra e si dirigeva verso piazza
Olympia,
laddove era stata predisposta la pira per il falò. Erano
tutti vestiti
semplicemente, ma alcuni gridavano e sventolavano bandiere con
l’effigie di un
leone ruggente, lo stesso che avevo visto sulla lettera.
All’ingresso della
città c’erano due grossi automi, due Guardiani
alti almeno sei metri a cui era
stato impresso sul petto lo stesso simbolo. Questi si voltarono a
guardarmi non
appena fui loro vicina. Mi fermai, lasciando che le loro grosse teste a
forma
di toro si volgessero verso di me e mi illuminassero con le telecamere
che avevano
al posto degli occhi. Tuttavia già solo dopo pochi istanti
tornarono a
drizzarsi e guardare di fronte a loro: mi avevano riconosciuta e
lasciata
andare, per cui senza alcuna altra preoccupazione feci un passo avanti.
-Bei
bestioni vero? –
Il
ragazzo biondo che avevo incontrato il giorno prima al chiostro era
comparso al
mio fianco. Aveva lo stesso sorriso spensierato di quando lo avevo
visto la
prima volta, nonostante in questa occasione fosse armato fino ai denti.
Istintivamente mi salì il cuore in gola, ma lui non
sembrò accorgersi del mio
disagio e al contrario mi porse la mano, presentandosi.
-Mi
chiamo Eracleo, Caporale minore. Lei invece? –
Strinsi
la mano con poca forza.
-Astreya.
Ad ogni modo non sono bestioni-, brontolai. –Sono fedeli
rappresentazioni del
Dio Tauro-
L’uomo
sorrise e mi invitò a raccontargli di Tauro. Conoscevo a
menadito la sua storia
e il culto, quindi recitai a memoria ciò che mi era stato
insegnato. Gli
rivelai che si trattava della Divinità
preposta alla protezione della città e che si mostrava agli
uomini sotto le
sembianze di un glorioso toro per ricordare quanto fosse grande il suo
amore
per noi: infatti, il toro era da sempre considerato il simbolo del
sacrificio,
sacrificio che Tauro compiva, ad ogni sua reincarnazione, quando si
privava di
un frammento di anima per dare vita a un nuovo Guardiano. Ma nonostante
la sua
benevolenza, la Divinità non smentiva il comportamento
crudele del resto dei
suoi pari e relegava il genere umano al rango di semplice schiavo:
quello che,
infatti, rendeva Tauro un Dio temibile e spietato era il fatto che per
ognuno
di questi enormi titani portati alla luce, egli pretendeva un
sacrificio di
dodici uomini e dodici donne accusati di crimini contro
l’umanità.
Eracleo
mi guardava attento con una espressione mista tra coinvolgimento e
stupore.
Sapevo che i soldati erano i meno informati riguardo la Religione e
meno
credenti in aggiunta, visto che erano costretti in ogni battaglia a
fronteggiare spada contro spada la morte. Nonostante ciò,
però, mi sembravano
anche i più avidi di fede, di un qualche segno che facesse
capire loro che al
di là delle sofferenze e della loro morte un Dio li avrebbe
abbracciati e
cullati per l’eternità. Per cui non ebbi cuore di
dire che nonostante il Culto
di Battesimo dei Guardiani, essi erano poco più di una
prodezza ingegneristica.
Certo, la Sacerdotessa e i Religiosi di tutto il pianeta credevano
nella storia
di Tauro e della sua anima tormentata, ma io ero un filo più
razionale e me ne
facevo poco della leggenda.
-Che
storia interessante-, disse – Credo che questo avvicinamento
tra Esercito e
Tempio sancirà anche per noi l’inizio di una vita
migliore, sotto i dettami di
Divinità buone! –
Sorrisi
e lasciai che mi scortasse fino alla piazza, anche se dentro di me
ardeva il
fuoco della delusione: non esistevano Dei buoni e magnanimi, ma solo
Dei giusti
e nulla è più letale e terrificante del non
perdono. Strinsi i pugni e ignorai
la vocina dentro la mia testa.
-Eccoci
arrivati-, esclamò Eracleo, quando di fronte a noi si
stagliò la fiammeggiante
pira di fuoco. Splendeva già trionfante, animata dalle danze
degli uomini e
delle donne che vi roteavano attorno. C’erano fiumi di birra
e vini, animali
bardati a festa e venditori ambulanti di cibi e leccornie. Mi guardai
attorno,
alla ricerca di Deimos, il quale però non sembrava essere da
nessuna parte.
Strinsi i denti ignorando le ombre ballerine che si mescolavano alle
persone
nelle folli danze della serata. Era, infatti, la prima volta dopo
l’iniezione
che le vedevo così nitide, ma feci finta di nulla per non
destare sospetti in
Eracleo. Ciò nonostante il loro continuo baluginare e
arrotolarsi mi causava
conati di vomito incontrollabili.
-
Scusi Eracleo, non vorrei risultare sgarbata, ma posso permettermi di
chiederle
se può condurmi dal Generale Deimos? -.
Eracleo
sgranò gli occhi grattandosi il naso storto. –
Posso chiedere il motivo della
richiesta? -
Sapevo
che avrebbe opposto una qualche resistenza, per cui sfoggiai un sorriso
sereno
e feci spallucce.
-Saperlo
piacerebbe molto anche a me-, osservai, calcolando con accuratezza la
reazione
di Eracleo.
-Certamente,
lo vado immediatamente a cercare-, disse e lentamente, ancora turbato,
si
incamminò verso un folto gruppo di soldati. Mentre
l’uomo domandava loro
informazioni, ne approfittai e mi appoggiai alla fredda vetrina del
negozio
alle mie spalle. Il Dono che possedevo era qualcosa di così
doloroso che mi
costringeva a stare lontana da qualsiasi stimolo troppo forte, anche
una
gioiosa e rumorosa festa. Il fresco del vetro sembrò
sciogliere un po’ il
gomitolo di emozioni che mi si rivoltava nello stomaco, ma ebbe un
effetto
opposto sul mal di testa, acuendolo. Attesi a occhi chiusi per una
decina di
minuti, ascoltando il mio respiro pesante e il cuore che martellava nel
petto.
Solo quando questo parve rallentare di qualche battito, comparve di
fronte a me
l’imponente Deimos. Quella sera indossava una divisa nera
sontuosa con molte
medaglie appuntate sul torace.
-Buonasera,
Custode-, mi salutò. Poi mi fece segno di seguirlo. Alle sue
spalle Eracleo ci
guardava incuriosito. Lo superai a testa bassa, sentendomi in colpa per
aver reagito
con tanta freddezza al suo tentativo di stringere amicizia.
Però avevo una
scusante, ovvero scoprire se e come la Tela di Aracne si sarebbe
adattata alla
realtà. Nascosta dalla schiena imponente di Deimos, avanzai,
quindi, fino ad
una via laterale che imboccammo in tutta fretta.
La luce nel vicolo baluginava e numerosi
cassonetti erano stati accantonati al lato della strada. Cominciai a
temere un
agguato, che Deimos avesse cattive intenzioni, ma alla fine sbucammo di
fronte
a un enorme edificio di cemento grigio recintato da un reticolo di filo
spinato
e da fari azzurrognoli in continuo movimento.
-Li
chiamiamo Occhi di camaleonte-, commentò Deimos continuando
a camminare.
Nonostante mi avesse dato le spalle per tutto il tragitto, era comunque
riuscito
a tenermi d’occhio. Accelerai il passo e assieme
attraversammo un grande
cancello a sbarre. Le guardie all’ingresso alzarono lo
sguardo osservandomi, ma
appena videro Deimos i loro occhi vennero catturati da lui e tutte si
prodigarono in austeri saluti militari. Deimos non degnò
nessuno di uno
sguardo, ma con un breve cenno della mano sciolse le sentinelle
dall’obbligo di
restare in piedi con una mano sul petto. Entrammo, quindi, nella
struttura. Il
cortile interno era pieno zeppo di militari, scatoloni, attrezzature
ancora
imballate e macchine mobili. C’erano manipoli di soldati
ovunque: alcuni che
trasportavano armi e oggetti, altri che semplicemente attendevano
ordini. Fra
di essi attirò la mia attenzione un particolare gruppo di
soldati: stavano tutti
marciando all’unisono, con la stessa andatura e lo stesso
volto, incalzati
dalle urla dell’allenatore. Osservai quell’uomo
passarmi davanti con disgusto,
ricordando come anche al Tempio la collettività fosse sempre
stata molto più
importante delle esigenze individuali e delle sfumature di carattere.
Trovavo
ridicolo doversi spogliare di se stessi per trasformarsi in automi
efficienti,
ma sembrava che nel mondo solo io avessi maturato questo pensiero e che
al
contrario le alte sfere pensassero agli umani come a delle potenziali
macchine.
Distolsi lo sguardo
da quella scenetta
ridicola per seguire Deimos all’interno
dell’edificio principale. Passammo attraverso
varie stanze, tutte presidiate da almeno una guardia, superammo porte
blindate
con tessere magnetiche e sgusciammo dietro a vetri satinati che
nascondevano
chi sa quale segreto. Infine giungemmo in un braccio distaccato, dopo
un
cortile spoglio. La prima cosa che notai fu la quantità di
guardie
all’ingresso, e la seconda furono le misure di sicurezza.
C’erano sbarre,
recinzioni, altoparlanti e allarmi. C’erano filo spinato e
fucili puntati, cani
enormi e muscolosi e un drone che sorvolava la zona.
-
Cavallette,-, commentò Deimos indicando l’insetto
metallico- Ci dà una visione
panoramica ed è silenzioso-. Rimasi in silenzio, mentre le
grida gioiose della
festa andavano scemando alle mie spalle. Mi sentii improvvisamente a
disagio e
qualcosa si mosse saltando nei miei polmoni.
-Cosa
c’è là dietro? – domandai
sconcertata.
-Credo
sia la domanda sbagliata. Prima di tutto mi premetta di disegnarle un
quadro-.
Fece
una breve pausa per salutare alcuni Generali, poi tornò a
concentrarsi su di
me.
-L’unione
tra Tempio e Accademia non è un capriccio o una gentilezza
nata dal desiderio
di Cronyos, il nostro Stratega. E’ un matrimonio che giunge
qui dalla Capitale,
tanto per intenderci, ed è stato fortemente desiderato dalle
alte sfere-.
-Ecco
perché i Guardiani avevano impresso un sigillo che non
conoscevo-, mormorai
massaggiandomi il labbro. Sentivo lo strano impulso di morderlo e farmi
male.
-Esattamente.
Ci sono degli interessi comuni che sono andati nascendo in questi
ultimi tempi
e un’alleanza è fonte di guadagno per entrambe le
parti-.
Mi
gettò un’occhiata eloquente che non ignorai:
sapevamo entrambi che anche i
Templi erano corrotti e consumati da desideri terreni e non
c’era bisogno di
negare ciò che era evidente. Così, decisi di
porre in luce un aspetto più
interessante.
-Di
che interessi stiamo parlando esattamente? -.
Un
sorrisino compiaciuto tese le labbra carnose dell’uomo. Forse
provava piacere
nel constatare che anche una Custode fosse in grado di osservare
criticamente
le mosse del Tempio.
-Interessi
economici prevalentemente. Ma anche esigenze politiche-.
Capii
immediatamente che le esigenze economiche erano una copertura, per cui
affondai
il coltello nella ferita ancora calda.
-Parliamo
di politica-, lo incalzai.
Deimos
mi sollevò il cappuccio della mantella sul capo. Immaginai
fosse per i capelli,
ma scoprii subito dopo che era per rendermi anonima mentre
attraversavamo il
braccio di una prigione. Gli occhi dei prigionieri mi scrutavano
curiosi e le mani
si tendevano per afferrarmi le vesti.
-Le
cose vanno male ai piani alti…-, sibilò Deimos
mentre calpestava la mano di un
detenuto.
-
Male? – Non avevo idea di cosa stesse accadendo
all’infuori di Carthagyos.
Tossii.
-Male.
Ma non mi è concesso metterla al corrente di queste vicende,
dal momento che
nemmeno la stampa ne è informata. Sono questioni top secret
e ancora delicate-.
-Quindi
perché me ne sta parlando? –
-
Vorrei che lei capisse quanto sto per dirle. Una delle preoccupazioni
del
Governo è rinforzare l’Esercito, aumentando il
numero di matricole e rendendo i
militanti già presenti più forti di quanto
già non siano. Incrementare la
longevità dei soldati e non farli cadere come foglie senza
un allenamento
consentirà di creare braccia forti per una mente governativa
che stenta a
trattenere i governati-.
Cominciai
ad afferrare l’idea.
-Abbiamo
tentato di imparare la magia per conto nostro, al fine di renderla un
mezzo
offensivo contro il nemico, ma i risultati ottenuti sono stati scarsi:
gli Dei
hanno voluto punirci per la nostra tracotanza. Quindi ci siamo rivolti
a voi e
abbiamo supplicato il vostro aiuto-.
-
Il Tempio non consente che la violenza varchi le sue soglie. Il Dio
Krato non
lo permette, schiacciando chiunque osi essere impuro su terreno puro-,
recitai
senza troppa convinzione. Deimos rise.
-
E ciò le può dimostrare quanto sia difficile la
situazione. Per tutti-.
Arrivammo
di fronte a quello che pareva un appartamento. La porta era quella di
una
prigione, ma una luce calda e accogliente filtrava da dietro lo
spioncino
quadrato. Non capivo cosa stesse accadendo. Deimos si fermò,
la mano sospesa in
aria pronta a dare l’ordine di aprire.
-E
ora veniamo al punto. Il mio ruolo in questa missione è
quella di individuare
le Custodi e i Sacerdoti più dotati, se così
vogliamo dire, e avvicinarli al
mondo della guerra. Renderli compagni fedeli di noi soldati,
così saremo in due
a combattere sul campo: un uomo e il suo mago a proteggerlo-. Fece una
pausa e
mi lasciò assimilare il colpo. Pensai all’idea di
un soldato religioso e la
trovai disgustosa, ma trovavo altrettanto disgustoso convincere la
gente a
credere in Divinità indifferenti, se non anche crudeli.
Quindi non dissi niente
e mi limitai a sollevare le spalle.
-Immagino
quindi di essere stata scelta. Mi dispiace, ma credo che il mio Dono
sia
insignificante ai vostri scopi-, mentii. Nella mia mente, infatti,
sapevo di
non dover condividere informazioni esclusive del Tempio con estranei,
specie se
armati fino alle mutande.
Deimos
si mostrò più comprensivo del previsto, ma molto
più deciso di quanto non
pensassi.
-Non
prendiamoci in giro. I suoi capelli, Astreya, si fanno notare-.
Sottolineò il mio
nome con enfasi.
-Si
tratta solo di un difetto-, obiettai, certa che non sarebbe bastato.
Deimos
abbassò la mano e due braccia muscolose comparvero a
spalancare la pesante
porta. Il mio cuore sobbalzò e picchiò
terrorizzato contro lo sterno. Cominciai
ad agitarmi. Percepivo il sapore metallico della magia e il suo odore
sulfureo
dietro la soglia. Inspirai ed espirai cercando di calmare il tremore
alle mani.
-
Difetto che ha incuriosito me, e prima di me lo Stratega, giunto al
Tempio ieri
stesso-.
Ricordai
lo sguardo fisso dello straniero che era giunto per consegnare la
lettera alla
Sacerdotessa. Ci avevo visto lungo: non era un militare, ma uno
Stratega.
Entrammo
nella stanza e rimasi sorpresa nel ritrovarmi di fronte a una graziosa
camera
maschile. C’erano un letto rifatto, un elegante comodino, un
armadio in mogano,
un tavolo tondo con quattro sedie e un servizio da tè sopra.
Vidi persino un
divanetto e un cucinino. Non sembrava affatto una cella se non per le
pesanti
sbarre alla finestra e la porta blindata. Tuttavia seduto sul letto se
ne stava
proprio un carcerato come tanti altri con lunghi capelli neri, lisci e
lucidi.
Guardava a terra per cui facevo fatica a vedergli il volto, ma distinsi
una
catena che gli si avvolgeva sulle gambe come un serpente e gli si
avvinghiava
al collo laddove un ceppo gli mordeva la giugulare. Iniziai a tremare:
non
riuscivo a capire come un uomo potesse essere tenuto legato a quel
modo, o che
cosa avesse mai potuto fare per meritarsi una punizione così
dura. Non capivo
nemmeno perché lo tenessero in un posto così
accogliente se poi era costretto a
essere incatenato come un cane. Notai che la lunga catena era ancorata
al muro
tramite un grosso gancio e sperai di istinto di poterlo rompere,
frantumandolo.
-Fobos-,
chiosò Deimos, con voce tonante. Il nome non mi diceva
nulla, ma l’uomo seduto
al bordo della branda parve rianimarsi e si sollevò in piedi
puntando lo
sguardo verso di noi. La gola mi si seccò completamente e un
brivido di paura
mi scosse la colonna vertebrale. Non era umano, quella cosa non era
naturale,
era un mostro. Respirai a fondo, cercando di sembrare impassibile e per
niente
turbata, ma facendo questo piccolo tentativo inspirai a fondo
l’acre profumo
della magia e gli occhi cominciarono a lacrimarmi. Li asciugai con una
manica
della mantella e solo quando mi sentii pronta, abbassai il cappuccio e
tornai a
fissare il mostro che mi stava innanzi. Era un uomo come un altro a
prima
vista, ma c’erano alcune note storte nel suo aspetto, fuori
posto e sconnesse.
Chiunque sarebbe rimasto infastidito dalla sua fisicità e
tutti avrebbero capito
quanto poco di umano ci fosse in quella creatura. Deimos rimase in
completo
silenzio, lasciando che studiassi il prigioniero con calma. Era un uomo
giovane, di qualche anno più grande di me. Era alto
più di due metri e a
malapena gli arrivavo al busto. Indossava una divisa nera come quella
dei
soldati, quindi immaginai fosse un disertore. Era molto magro e la
pelle era
pallida all’inverosimile, quasi lunare. Le vene bluastre
irrigavano le braccia
come veleno, il che mi fece venir voglia di vomitare sul tappeto.
Sospirai e
alzai lo sguardo sul suo viso. Era scarno, mascolino e segnato da una
bianca
cicatrice sul contorno squadrato della mascella. Aveva due grandi occhi
scuri,
fissi e con pagliuzze ambrate, segno che in qualche modo la magia
albergava in
lui. C’erano poi le sopracciglia folte e nere, di cui una
scavata da una
cicatrice rosata, un naso dritto e un paio di labbra sottili quasi blu,
ai cui
angoli erano stati inseriti degli anellini di metallo luccicante. Ma
non era
tutto. Aveva le orecchie leggermente a punta, braccia lunghe e magre,
gomiti e
ginocchia innaturalmente appuntiti, mani gigantesche con unghie corte e
stranamente scure e spalle quasi disarticolate.
-Questo
è Fobos, Astreya. Fobos, lei è una Custode del
Tempio, Astreya-.
Sorrisi
debolmente e allungai una mano. La fronte di Fobos si
corrugò e le sopracciglia
si piegarono con rabbia fino quasi a toccarsi. Fissò per
qualche momento la mia
mano tesa, ma poi non la strinse. Passò a scrutare la mia
figura così come
avevo fatto io qualche istante prima e mio malgrado si
soffermò più del dovuto
sui miei capelli. Quando parlò quasi presi un infarto: aveva
la voce più
profonda e cavernosa che avessi mai sentito, tanto potente che fece
baluginare
la lampadina nuda che pendeva dal soffitto.
-Affiancala-,
disse e i denti un po’ appuntiti gli sfiorarono le labbra
cadaveriche. Mi
voltai verso Deimos, senza capire. Lui sorrideva tristemente e
annuì distratto.
-Fobos
ritiene che lei abbia le potenzialità giuste per ottemperare
all’impegno di cui
le parlavo. Per il resto, sta a lei decidere-. Ignorai il commento
inutile e
scontato di Deimos e tornai a Fobos. Era ancora in piedi di fronte a
me,
ondeggiando lentamente, con gli occhi spiritati. La catena
tintinnò un paio di
volte mentre spostava il peso da un piede all’altro. Notai
che oltre al collare
era tenuto immobile anche da due grosse catene legate ad un paio di
manette
troppo strette.
-Fobos,
lei è un manufatto magico, come me, non è vero?
-, domandai strizzando gli
occhi. L’odore della sua magia era particolarmente intenso e
dava le vertigini.
-
Non esattamente come lei-, mormorò e fece un passo avanti.
Si abbassò e
avvicinò il viso al mio per guardarmi meglio. –
Tuttavia abbiamo qualcosa in
comune- disse fra sé e sé, osservandomi
meditabondo.
-E
sarebbe? – domandai, deglutendo. Notai che le pagliuzze
dorate nei suoi occhi
luccicarono.
-
Fobos, come lei, può percepire la forza magica di una
persona, percepirne le
possibilità e le Doti. E’ un manufatto magico, di
tipo… differente-, sibilò.
Fobos
fece un ulteriore passo avanti, ma la catena scricchiolò e
si tese, facendo
quasi strozzare il mostro. Lui non diede segno di sofferenza, anzi
scrocchiò il
collo.
Deimos
lo squadrò con una nota di rimprovero, ma Fobos sostenne
fiero il suo sguardo.
-Differente
come? – domandai, ma ancor prima che uno dei due mi
rispondesse, avevo già
capito. Strabuzzai gli occhi e gridai: - Un Ibrido!!!- Deimos
scattò in avanti
e mi poggiò l’enorme mano sulla bocca.
-Falla
stare zitta-, esclamò Fobos, il viso contratto in una
smorfia animalesca. Gli
anellini tintinnarono, cupi.
-Deve
fare silenzio, Custode. I detenuti non sanno nulla della presenza di un
Ibrido
nel loro braccio. Potrebbero spaventarsi-, commentò Deimos,
lasciando scivolare
via la mano. Non urlai e non mi dimenai, ma cominciai a respirare
affannosamente, annaspando alla ricerca di aria. Era un attacco di
panico. Di
fronte a me avevo un abominio, un uomo trattato dalla magia senza
controllo.
Non pensavo nemmeno che gli Ibridi potessero esistere veramente, e
ritenevo al
contrario che potessero essere solo il prodotto fantasioso della paura
del
Tempio. Ma mi
sbagliavo di grosso e ora
avevo il peggiore incubo possibile materializzato sotto al naso.
-Portala
via. E’ sufficiente-, sbuffò Fobos, annoiato.
Ma
io non avevo intenzione di andarmene, avevo molte domande da fare.
-Quante
Custodi l’hanno vista? – domandai
all’Ibrido.
-A
parte lei, nessuna, Astreya-. Il suono del mio nome proveniente dalla
sua bocca
sembrava blasfemo.
-Non
abbiamo l’abitudine di portare le Custodi qui,- aggiunse
Deimos, al posto di
Fobos. –Lei è un’eccezione, come
già le ho spiegato. Tuttavia sarò franco e le
dirò la verità: tutti i Templi di questo pianeta
sono a conoscenza
dell’esistenza di Fobos e sono d’accordo nello
sfruttarlo a loro vantaggio.
Ucciderlo sarebbe un’empietà maggiore di quella
che fu fatta quando venne
forgiato dalla magia-.
Osservai
la reazione di Fobos e mi accorsi che stava affondando le unghie nelle
ginocchia, trattenendosi dal reagire a quella dichiarazione. Sentirsi
dire che
la propria esistenza era empia di certo non favoriva una rilassata
partnership
tra colleghi.
-Adesso
che siamo certi che il suo Dono è un vero talento, gradirei
che mi dicesse di
cosa si tratta. A meno che non preferisca che sia Fobos a rivelarcelo-,
continuò Deimos con un ghigno. Eccola, la trappola, ed ecco
il motivo per cui
ero stata portata al cospetto di quel mostro. Mi portai una mano alla
fronte e
spostai un ciuffo di capelli ribelle. Mi ero incastrata con le mie
stesse mani,
tuttavia non volevo essere io a parlare per prima. Deimos attese
qualche altro
secondo, ma non vedendo reazioni da parte mia, si rivolse a Fobos con
un gesto
frettoloso della mano. Il gigante si avvicinò nuovamente e
mi osservò dall’alto
al basso. Visto che avrebbe indagato nella mia anima, anche io avrei
fatto lo
stesso con la sua, per cui ancorai il mio sguardo al suo senza timore.
Inizialmente vidi una nube nera e un’ombra grande e deforme
appoggiata a zaino
sulla sua schiena. Poi la figura di Fobos parve sdoppiarsi in due
entità distinte,
una umana più sfumata e una mostruosa ed enorme,
più evidente. Deglutii e mi
spinsi oltre. Vidi un muro e percepii uno strano pizzicore alla gola.
-
Indistinto-, annunciò Fobos, distogliendo lo sguardo
rapidamente. Aveva
certamente capito che anche io lo stavo sondando. Mi scappò
un sorrisino; se
dovevo essere smascherata, almeno avrei tratto questo vantaggio sui
miei
nemici.
-Indistinto?
-, domandò Deimos, accigliato.
Fobos
annuì facendo attenzione al ceppo e alla catena che fendette
l’aria come una
spada.
-Significa
che è bloccato. Ma al contempo di alto livello. E’
un po’ come l’universo…. in
continua espansione, ma senza comunque occupare tutto lo spazio
disponibile-.
Non
capii esattamente a cosa alludesse, ma la sua espressione grave mi
costrinse a
considerare molto seriamente l’analisi che aveva fatto sul
mio Dono.
Deimos
sospirò e si voltò verso di me. Mi
supplicò di dirgli che Dono custodissi, ma
già sapeva che non avrei ceduto. Quindi ritenne opportuno
far chiamare lo
Stratega in persona, procurandomi una sorta di attacco cardiaco: se
stavano scomodando
i piani alti solo per una semplice Custode, allora la questione era
seria.
Tuttavia il mio rigore mi impedì qualsiasi azione: strinsi i
denti e finsi
indifferenza.
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Capitolo 5 *** Capitolo 4- Consigli al chiaro di luna ***
Capitolo
4
Quando
Cronyos arrivò, si fermò fuori dalla stanza
qualche secondo discorrendo con
Deimos, mentre io e Fobos rimanemmo uno di fronte all’altra,
soli nella cella.
Ci studiammo e annusammo come due animali selvatici che il Destino
aveva posto
l’uno contro l’altro, ma nessuno dei due si
azzardò a fare la prima mossa. Solo
alla fine Fobos si decise a parlare, facendomi scricchiolare le ossa e
vibrare
i nervi.
-Quando
avrai finito di guardare, gradirei ti levassi dai piedi-.
Non
capivo se si fosse offeso, se fosse semplicemente irrispettoso o
cinico, o se
fosse solo molto stanco di essere guardato, studiato, usato.
-Ti
guardo perché non so che altro fare-, dissi, decidendo di
venire meno all’etichetta
e dargli anche io del tu. Fobos mi indirizzò un sorrisino
metallico e la sua
risata gutturale rimbombò sulle pareti.
-Curioso,
davvero curioso…-.
-La
curiosità è peccato-, borbottai, ma Fobos stava
già guardando alle mie spalle.
Lo Stratega fece il suo ingresso nella camera, imponente e tenebroso
come la
prima volta che lo avevo visto. Deimos camminava al suo fianco,
statuario e
freddo. Mi voltai e mi prodigai in un saluto rispettoso, mentre
l’abominio alle
mie spalle non batteva nemmeno un ciglio.
-Signorina
Astreya devo presumere-, cominciò. – Deve essere
una donna molto cocciuta se mi
ha fatto scomodare dalla mia confortevole sedia-. Sorrideva, ma i suoi
occhi
erano gelidi e privi di comprensione; non gli diedi peso e finsi di non
avere
notato il suo sarcasmo.
-
Mi chiamo Cronyos e sono il nuovo Fondatore e Gestore
dell’Accademia-.
-Astreya,
Custode diciottesima della Sacerdotessa di Carthagyos-.
Fobos
sorrise emettendo una sorta di gorgoglio profondo, al contrario di
Deimos che
si limitò a sospirare chiudendo gli occhi.
-Piacere
di conoscerla, diciottesima Custode. Ora veniamo al problema: Deimos mi
ha
riferito che siete recalcitrante e che non collaborate. Lo devo
ritenere un
affronto a tutta la nostra comunità? –
domandò serrando la mascella. Quell’uomo
più lo guardavo e meno mi piaceva. Emanava
autorità e potere, ma anche
un’oscurità penetrante e pungente come il freddo
invernale. Dovevo cercare un
modo per scampare a quella situazione orribile, ma non avevo ancora in
mente un
piano e il tempo scorreva impietoso.
-Le
pare che dopo avere stipulato un’alleanza con la
Sacerdotessa, nostra
beneamata, potrei cospirare alle spalle di coloro che lei stessa
approva e
supporta? Avete una bassa stima di noi Custodi-.
Cronyos
si sedette pesantemente sulla sedia e indirizzò uno sguardo
pieno di disprezzo
a Deimos. Probabilmente lo riteneva un incapace e lo incolpava di
averlo
scomodato per una faccenda così da poco. Tuttavia il suo
sguardo rivelava anche
una certa frustrazione nei miei confronti. Probabilmente non si
aspettava che
una donna così giovane potesse dare del filo da torcere ad
uno Stratega,
eccellenza militare. Mi
squadrò in
silenzio qualche secondo, poi con un gesto della mano mi
invitò ad accomodarmi.
Obbedii, da brava Custode quale fingevo di essere, e mi posizionai di
fronte a
lui in modo tale da tenere sotto controllo qualsiasi movimento del viso
e del
corpo. Quando alzai lo sguardo i suoi occhi penetranti erano
già fissi nei
miei.
-Non
dubito della sua buona fede, Astreya, ma dopo un’alleanza non
ci dovrebbero
essere più segreti, non crede? Altrimenti che collaborazione
è se una delle due
parti nasconde informazioni? –.
Tossicchiai
e appoggiai le mani congiunte sul tavolo. Era iniziata la trattativa.
-Certe
informazioni possono essere condivise soltanto se la Sacerdotessa in
persona ce
lo consente-.
Errore.
Cronyos sorrise e fece entrare una giovane guardia dal cranio rasato.
La donna
mi pose innanzi una lettera vidimata con il sigillo del Tempio. La
aprii con le
mani tremanti, spezzando la carta e infischiandomene delle buone
maniere. La
lessi avidamente seguendo la calligrafia delicata e preziosa della
Sacerdotessa.
Con
la presente, dichiaro che qualsiasi
informazione riguardante la mia Diciottesima Custode, Astreya, figlia
di
Katakthonio, e di tutte le sue Compagne, potrà essere
rivelata all’Accademia,
in virtù della nostra nuova Alleanza di sangue, stipulata
per mano mia e delle
mie Sorelle.
Sorella Dyana
Mi
pietrificai. Non riuscii nemmeno ad alzare lo sguardo dalla carta
ruvida.
Un’accozzaglia di pensieri cominciò a navigare
nella mia mente, come un relitto
sballottato dalla tempesta. Perché la Sacerdotessa voleva
rivelare informazioni
segrete e suggellate da anni di voti a dei comuni mortali? Cosa stava
succedendo? L’apertura dell’Accademia aveva un
qualche significato più
profondo? Nessuna risposta.
-Ho
una lettera per ognuna delle Custodi della Sacerdotessa-,
commentò Cronyos, un
enorme sorriso stampato sul volto. A quel punto ogni mia opposizione,
anche
minima, sarebbe stata letta come tradimento alla patria, e non potevo
assolutamente permettermi un’accusa del genere.
-Credo
che la mia opposizione possa finire qui-, dissi allora. Abbassai la
lettera e
sospirai cercando di rallentare i battiti del cuore. Iniziavo
nuovamente a
sentire freddo e a rabbrividire. Strinsi le mani cercando di
controllarmi.
-
Il mio Dono è controverso. Non abbiamo idea di come possa
svilupparsi, ma ha
certamente a che fare con la sfera dell’Oscuro. Se desidera
maggiori
informazioni le consiglio di rivolgersi al Guaritore.
Lui certamente potrà soddisfare ogni sua
domanda-. Tacqui.
-Che
mi dice dei Doni? –
Osservai
con la coda dell’occhio Fobos.
Era
attento e rapito, come se le informazioni che stavo per rivelare
potessero
aiutare anche lui a comprendere qualcosa di sé.
-Esistono
sei tipologie di Dono, ad oggi conosciute-, commentai schiarendomi la
voce. La
conversazione si stava lentamente tramutando in un interrogatorio.
– Ci sono le
Tessitrici, che possono consultare il futuro intessendolo e filandolo;
le
Guaritrici e i Guaritori, che sfruttano le proprietà
energetiche e naturali per
risanare ferite fisiche e non; le Bendate, che offrendo la vista agli
Dei
acquisiscono il potere di osservare il Destino e di manovrare la Sorte;
le
Demoniache, che posseggono i riflessi e la forza di esseri
sovrannaturali; le
Silvane, che sono connesse con i fenomeni naturali e posseggono la
comprensione
dei cinque elementi, e le Oscure, che indagano i misteri di vita e
morte-.
-Tessitrici,
Guaritrici, Bendate, Demoniache, Silvane e Oscure-,
ricapitolò Cronyos. Annuì
più volte mentre rifletteva sulla domanda seguente.
-
Tu sei un’Oscura? –
-Esattamente-,
mentii. Non so ancora oggi cosa mi spinse a farlo: era falsa
testimonianza e una
inaccettabile contravvenzione ai dettami della Sacerdotessa. Tuttavia,
non
riuscii a trattenermi e mi convinsi che omettere la vera natura del mio
Dono
fosse strettamente necessario per la mia sopravvivenza.
Cronyos
si appoggiò allo schienale soddisfatto. Si stirò
le gambe e fece segno anche
agli altri due presenti di accomodarsi al tavolo. Fobos
tentò di sedersi
comodo, ma le ginocchia ci stavano a malapena per cui fu costretto ad
allungarle accanto a Deimos.
-Che
percentuale di ogni tipologia è presente attualmente al
Tempio, Astreya? –
Riflettei
un istante facendo mente locale, poi risposi: - Una Guaritrice, sedici
Silvane
e sei Bendate, una Tessitrice e quattro Demoniache. Tre Oscure-.
Trovai
strano che questi dati non fossero stati richiesti direttamente alla
Sacerdotessa, ma dallo sguardo di Cronyos capii che erano quesiti posti
solo
per capire se stessi continuando a mentire.
-Per
quanto riguarda la sua assunzione nell’Esercito,-
continuò poco dopo- vorrei
che prendesse sul serio la nostra proposta. Lei è
evidentemente unica nel suo genere
e sarebbe un peccato non far fruttare questa sua
originalità: siamo disposti a
contrattare e a venire incontro a tutte le sue eventuali richieste,
purché il
loro espletamento sia fattibile. Le ricordo, inoltre, che là
fuori il mondo non
è più un luogo sicuro e la paura serpeggia tra la
popolazione-.
Sollevai
un sopracciglio, senza capire il senso di quell’ultima
affermazione.
-
Intendo dire che se le cose peggiorassero, una Custode dai capelli
corvini
apparirebbe a tutti come un segno di malaugurio e tradimento. La gente
è
superstiziosa quando affoga nella disperazione, ma l’Esercito
sa offrire ottima
protezione a chi se la merita…-.
Annuii,
stupita dalla presunzione che traspirava da quell’uomo:
pensava di potermi
comprare semplicemente con la promessa di una protezione di cui non
avevo
assolutamente bisogno. Sollevai lo sguardo e una smorfia di disgusto mi
si
dipinse sul volto. Era chiaro che dalla mia bocca non sarebbe
fuoriuscita più
alcuna parola, perciò Cronyos si sollevò
pigramente e con breve cenno del capo
si accomiatò dai presenti.
-Bene,
la ringrazio molto per la collaborazione. La lascio con i miei
sottoposti…-.
Il
termine “sottoposti” mi sorprese, facendomi
sobbalzare: implicava forse che
Fobos in realtà non fosse né un prigioniero
né un disertore? Iniziai a riflette
su cosa potesse essere allora. Cronyos nel mentre si
allontanò e uscì dalla
stanza, lasciando dietro di sé una scia di profumo caldo che
sapeva di metallo
e sudore.
Non
appena fui scortata fuori dall’Accademia, cominciai a
correre, percorrendo le
vie scure con sempre maggior timore. I fumi della pira e le gioiose
canzoni
della festa mi parevano ormai cose lontane e dimenticate e il mio unico
pensiero era raggiungere il Tempio per parlare immediatamente con la
Sacerdotessa. Corsi con i polmoni in fiamme e le lacrime agli occhi per
via del
vento frizzante, ritrovandomi dopo solo qualche istante alle soglie del
Tempio.
Era tardi e sicuramente le altre Custodi stavano già
dormendo, per cui mi recai
direttamente alla polla d’acqua e con mani tremanti accesi un
cero. Lo
depositai in una lanterna di carta su cui scrissi il mio nome e lo
lasciai
andare, consegnandolo alle acque. Fissai la fiammella per
mezz’ora, tempo che
mi parve interminabile, poi questa si spense con un sibilo e le porte
interne
del Tempio si spalancarono per far entrare la Sacerdotessa. Aveva i
capelli
raccolti in una lunga treccia laterale e indossava una vestaglia bianca
e
dorata. Era scalza e profumava di gelsomino. Mi inchinai
rispettosamente mentre
la donna mi squadrava da capo a piedi, domandandosi cosa fosse successo
di
tanto urgente da obbligarmi a interrompere il suo sonno. Parlai
velocemente e
raccontai quanto più nei dettagli ciò che era
avvenuto. Notai che mi ascoltava
distrattamente, come se fossero notizie tutte già note.
-Non
devi assolutamente preoccuparti, mia cara Custode. La lettera e tutte
le
affermazioni fatte dallo Stratega e dal suo Generale sono veritiere.
Ora torna
nella tua cella a riposare e medita sulla proposta che hai ricevuto.
Onorerebbe
il Tempio e gli Dei-.
Sollevai
lo sguardo per la prima volta da quando era entrata e mi permisi di
osservarle
il viso. Vidi un leggero sdoppiamento e quella che mi parve una lingua
biforcuta
sfuggirle dalle labbra. L’emicrania era peggiorata e sentivo
le forze venirmi
meno, mentre le allucinazioni si facevano sempre più
intense. Ciò
non mi impedì, tuttavia, di sollevarmi in
piedi.
-Prenderò
in seria considerazione il suo suggerimento e chiedo immensamente
perdono per
il disturbo arrecatole-. Indietreggiai, con un enorme peso sul cuore,
certa che
qualcosa non andasse e che dietro all’apertura
dell’Accademia vi fosse qualcosa
di oscuro. La Sacerdotessa mi sorrise flebilmente e poi venne
inghiottita
dall’oscurità, lasciandomi sola con i miei
sospetti.
A
quel punto, abbandonata a me stessa e incapace anche solo di pensare di
poter dormire,
decisi di vagare un po’ per i corridoi rimuginando
più e più volte su quello
che era accaduto quella sera, ripercorrendo i miei passi e biasimandomi
per
tutti gli errori che mi pareva di aver commesso. Uscii nuovamente nel
giardino
e mi sedetti su una panca con il volto diretto verso la volta stellata
velata
da quel fiume verde e rosso di sudiciume a cui ormai eravamo tutti
abituati. Un
tempo il cielo doveva essere stato molto più bello e oscuro,
un manto
conturbante a coprire lo splendore delle stelle, ma ora era solo una
cortina di
fumi e polveri.
-
Buonasera, Astreya-.
Abbassai
il capo, individuando il Guaritore al centro di un campo di erbe
medicinali.
Era con una giovane Custode di nome Medeya. Avevano entrambi dei
cestini e una
falce.
-Buonasera,
Guaritore, e buonasera anche a te, Medeya-.
Medeya
mi salutò con un timido sorriso e tornò a
chinarsi per raccogliere alcune erbe
cespugliose; Iatro, invece, abbassò la falce e si
asciugò la fronte luccicante
che avanzava dal contorno della maschera nera.
-Stiamo
raccogliendo alcune erbe al chiaro di Luna, come va fatto-, disse- Tu?
Ti godi la
brezza? -, mi domandò con un sorriso giallo. Annuii e finsi
una serenità che
non conoscevo.
-Posso
chiederle di prestarmi orecchio per un istante? -, domandai poi, con
slancio.
Mi alzai e lo raggiunsi.
-
E’ a conoscenza di Fobos? -, chiesi in un fiato, gustandomi
lo sguardo stupito
dell’uomo nel sentire pronunciare quel nome.
-Mi
chiedo come tu possa conoscerlo, piuttosto-, rispose serio, mandando
Medeya a
raccogliere delle erbe un po’ più lontano, laddove
le nostre voci le paressero
soltanto una eco del vento. Lei obbedì da brava apprendista,
senza porre alcuna
domanda.
-
Mi hanno offerto un posto all’Accademia-, dissi certa di non
rivelare
informazioni che già non fossero note. Iatro si
aggrappò al mio braccio e mi
scortò verso un arbusto dalle bacche viola. Poi
cominciò a coglierle ad una ad
una incidendo il rametto con indice e pollice.
-Immaginavo
lo avrebbero chiesto a te per prima. Sei così
diversa…-, mormorò.
-Dovrei
accettare? Rifiutare? Dovrei sapere qualcosa? La sacerdotessa la
considera
un’ottima opportunità-, buttai lì.
Iatro si massaggiò la schiena pensieroso e
contò velocemente le bacche che aveva sistemato nel cestino.
-Veramente
è una scelta che spetta a te, Custode. Ad ogni modo non ci
vedo nulla di male
nell’onorare il Tempio in maniera diversa dal pregare-.
-Capisco-,
dissi, delusa da un consiglio così banale e scontato. Feci,
quindi, per
voltarmi ed andarmene, ma Iatro parlò nuovamente, stavolta
con voce più bassa e
roca: - Ma stai bene attenta a non rivelare troppo circa la tua Dote.
Non per
diffidenza lo dico, ma per saggezza: non si deve mai aprire la bocca
solo per
darle fiato, ma ricercare le parole, così da esprimere solo
ciò che va
strettamente detto. Chiaro? –
I
suoi occhi brillavano riflettendo il colore delle bacche. Annuii,
confusa. Lui
allora sorrise da dietro la maschera, come rasserenato, e
tornò al suo lavoro,
senza più aggiungere nulla. Sospirai e, salutata Medeya, mi
ritirai nella mia
cella. Avevo accresciuto i miei dubbi piuttosto che dissiparli.
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Capitolo 6 *** Capitolo 5- Affogando ***
Capitolo 5
La
mattina seguente mi alzai di buon’ora, contenta che fosse il
mio giorno di
riposo. Andai nel refettorio e scambiai due parole con Aracne, la quale
pareva
più stanca del solito.
-Stai
bene, Aracne? -, chiesi notando con che poca voglia masticasse il
tortino.
-Sono
preoccupata-, disse.
Mi
raccontò brevemente delle lettere che l’Accademia
aveva inviato al Tempio e di
come lei non ne avesse ricevuta nemmeno mezza.
-Lettere?
-, domandai, ripiombando nell’argomento come un falco in
vista della preda.
-Stamattina
con la posta sono giunte delle lettere di leva per
l’Accademia, non lo sapevi?
-.
Feci
segno di no con la testa mentre innaffiavo lo stomaco con una tisana
alla malva
e lavanda. Mentire a una delle poche amiche che avevo non mi piaceva
per
niente, ma volevo sapere che voci girassero per il Tempio.
-A
te non è arrivata alcuna richiesta? Pensavo che…-
-No,
nessuna. Solo una proposta a voce, ma nulla di serio-, dissi,
sentendomi
immediatamente meno in colpa rispetto a prima. I suoi occhi guizzarono
a me e
poi tornarono a rotolare sul tavolo, mesti.
-
Ecco, io speravo di essere inclusa in questo Programma Deus Ex Machina,
ma non
ho ricevuto alcuna proposta, nemmeno orale. Capisci? –
-Sinceramente
no, Aracne. Perché vorresti aderire? –
Aracne
si massaggiò la base del naso e sospirò.
-Pagano
veramente bene e potrei permettermi di mantenere la mia famiglia e al
contempo
occuparmi della mia salute. Tu non puoi capire quanto sia difficile
mantenere
due vecchi genitori e due sorelle. Dipendono da me-.
La
osservai mentre una lacrima le scivolava lenta sulla guancia e bagnava
il tozzo
di pane che teneva in mano. Non l’avevo mai vista
così e il cuore mi si sciolse
all’istante. Non avevo mai avuto una vera famiglia, ma avevo
visto quanto
calore ci fosse negli abbracci che riceveva Aracne dai suoi genitori
quando
venivano a trovarla, seppur malati, ogni mese. Lo vedevo, e ogni tanto
ne
provavo un’invidia pungente desiderando anche io un amore
simile, solo per me.
Peccavo di egoismo, lo sapevo, ma era la cosa più bella che
avessi mai provato,
anche se non sulla mia pelle, e sapevo bene che a me quel dono sarebbe
stato
precluso per sempre.
-Come
stanno? – domandai immediatamente, raschiando il fondo della
tazza con il
cucchiaio. Non riuscivo a guardare Aracne negli occhi, non quando
sapeva che a
me un posto era stato offerto.
-Male,
ma come sai non si lamentano. Lavorano ancora, nonostante tutto, ma la
fabbrica
dà loro pochissimo sapendo che non hanno la
possibilità di andarsene per
cercare di meglio. Le mie sorelle e io li aiutiamo come possiamo, ma
Penelopea
è incinta e suo marito è chi sa dove, per mare.
Non ha notizie di lui da mesi
ormai-.
Ingoiai
l’amarezza che mi si era aggrappata alla gola, mentre con la
coda dell’occhio
vedevo le mani di Aracne tremare senza controllo. La preoccupazione la
rendeva
più debole e magra, come una fragile canna di vetro. Chiusi
gli occhi e
deglutii.
-Me
lo stai chiedendo, vero? -, domandai senza guardarla. Aracne non
rispose
subito, ma sentii un gemito. Era troppo buona per chiedermelo
direttamente.
-Magari
mi arriverà la lettera-, cercò di dire, mentre
un’altra lacrima scivolava fra
le labbra tese nel sorriso più falso che le avessi visto.
-
Lo posso fare,- dissi mentre mi sentivo ardere dalla voglia di scappare
ed
essere semplicemente egoista.
-Non
posso chiedertelo-, commentò lei, gli occhi bassi. La
osservai qualche istante,
mentre si tormentava i capelli, sempre più bianchi e fini. I
suoi grandi occhi
marini erano cerchiati da profonde borse bluastre e le prime rughe le
trafiggevano la fronte di disperazione. Ripensai a sua madre, piccola e
rinsecchita, e la sua immagine si sovrappose a quella di Aracne,
già consumata
da una vita di esperimenti e sacrifici. Mi salì un conato di
vomito e un freddo
brivido mi schizzò lungo il collo, gelandomi il viso. Mi alzai quasi di scatto,
spaventandola.
-Lo
faccio-, annunciai e i suoi occhi divennero languidi e umidi come
quelli di un
cucciolo. Allungò le mani per afferrarmi la veste e
baciarla, ma non volevo che
si umiliasse a tal punto, né che pensasse di essere in
debito con me a vita,
quindi assunsi l’espressione più cruda che potevo
e la fissai intensamente.
-A
una condizione. Tu verrai con me e mi aiuterai come potrai. Per questo
prenderai parte del mio stipendio e potrai mandare un sostegno alla tua
famiglia.
Intese? -. Aracne annuì con un largo sorriso mentre il mio
lentamente si
spegneva. La salutai in fretta e furia e andai a comunicare
immediatamente la
mia decisione alla Sacerdotessa, la quale ponendomi una mano sul capo,
mi
benedisse e ringraziò per il servizio che andavo a svolgere
per lei.
La
mia vita era finita.
La
sera tardi, dopo aver fatto i bagagli, mi recai con Aracne
all’Accademia, dove
Deimos, informato dalla Sacerdotessa, ci stava attendendo. Alle sue
spalle
troneggiava l’imponente figura di Fobos. Questa volta non era
incatenato ad
alcunché e indossava una giacca in pelle logora che poco si
addiceva al clima
militare che si respirava.
-Buonasera,
Custodi-, salutò Deimos, con una punta di vittoria nella
voce.
-Salve-,
salutò radiosa Aracne, mentre osservava sbalordita il fisico
strano e slanciato
di Fobos. L’uomo guardò la mia compagna come fosse
un insetto schifoso e me
come fossi qualcosa più schifoso ancora di
quell’insetto, poi salutò
laconicamente con un cenno del capo.
-Bene,
seguitemi. Vi mostro la stanza in cui alloggerete e potrete lasciare i
vostri
effetti-. Detto questo, a grandi passi, cominciò a scortarci
per l’Accademia.
Aracne già dopo due metri aveva il fiatone e fui costretta a
rallentare anche
io per non lasciarla indietro. Fobos e Deimos continuavano a marciare a
qualche
manciata di passi da noi.
-Cosa
è quella… cosa? - domandò Aracne
indicandomi con lo sguardo Fobos.
-E’
un manufatto come noi-, risposi, tralasciando il piccolissimo e
insignificante
dettaglio che era un abominio creato dalle mani dell’uomo. In
effetti ci avevo
riflettuto parecchio ed ero arrivata alla conclusione che non me ne
poteva
fregare di meno di quello che era, dal momento che in fondo anche noi
Custodi
eravamo uno scherzo della Natura.
-Ma
è mostruoso! - esclamò. Probabilmente Fobos
l’aveva sentita, perché voltando
leggermente la testa, ci indirizzò una ben poco apprezzabile
occhiataccia.
Fissai il pavimento e rimproverai a bassa voce Aracne.
Giungemmo,
quindi, in un blocco distaccato e apparentemente nuovo. Si trattava di
un
edificio basso e cubico di cemento e vetro, molto moderno. Doveva
essere stato
ammodernato da poco visto che alcune impalcature erano ancora visibili.
Entrammo in fila indiana e Deimos ci condusse al secondo piano. Ci
consegnò le
chiavi e aprii la porta davanti alla quale ci fece fermare. Dentro
trovammo una
stanza asettica e spaziosa con due letti separati e un piccolo bagno.
Sia io
che Aracne gettammo i nostri zaini sul letto e ci voltammo attendendo
nuove
istruzioni.
-Bene,
siete le terze ad arrivare: nel primo pomeriggio ci hanno
già raggiunto le
Custodi Medeya e Dyte. Domani alle dieci verrete sottoposte entrambe ad
una
visita medica di routine, dopodiché per lei, Astreya, ci
sarà da prendere le
misure per la nuova uniforme. L’appuntamento è
nell’Ospedale alle dieci esatte-
Annuii sedendomi sul letto. Aracne era emozionatissima e dondolava da
un piede
all’altro senza riuscire a stare ferma.
-Ora
devo assentarmi per impegni più incombenti, ma vi lascio
nelle mani del mio
collega fidato, Fobos-, disse, infine, Deimos.
-Scusi,
ma sono turbata. Fobos non è un prigioniero? Quando
l’ho visto ieri sera mi
pareva parecchio incatenato-. La mia voce suonò arrogante e
sfacciata, ma ora
che non ero più al Tempio non me ne poteva importare di
meno. In un certo qual
senso mi ero sentita tradita dalla Sacerdotessa e abbandonare quella
che era
stata la mia casa per anni aveva nuovamente il sapore amaro
dell’abbandono.
Fobos
ruggì qualcosa che non capii, persa come ero nei miei
pensieri, per cui gli chiesi
gentilmente di ripetere.
-Ho
detto che ero incatenato per questioni di sicurezza che non la
riguardano. Ci
tengo a precisare tuttavia che sono un militare affidabile e non
pericoloso…-
Fece una breve pausa- …generalmente-.
Deimos
sorrise e diede una pacca sul gomito al gigante.
-Fobos,
non le intimorisca già dal primo giorno, per favore-.
-Non
era mia intenzione-, commentò lui, ed era serio.
-Bene,
ora vi devo proprio lasciare. Buon soggiorno-. Poi Deimos
sparì lasciandoci
nelle mani di un Ibrido collerico. Deglutii un paio di volte per
allontanare
l’odore di magia che lo avvolgeva, ma il pizzicore non
spariva.
-
Bene, vi illustrerò giusto un paio di regole-,
cominciò, mentre faceva segno a
entrambe di sederci. Notai che Aracne si sedette il più
lontano possibile da
lui, rimasto in piedi di fronte a noi, il capo quasi a sfiorare il
soffitto.
–Regola
numero 1: niente magia, se non durante
gli allenamenti e mai offensiva contro un militare di qualsiasi rango.
Regola
numero 2: non si può uscire dall’Accademia senza
un permesso e il suddetto deve
essere richiesto direttamente allo Stratega, durante gli orari
stabiliti.
Regola numero 3: non sono tollerate inadempienze ad ordini impartiti
dai propri
superiori-.
-
Sarà fatto-, mormorò Aracne, tutta un fremito.
Non aveva ancora capito che
quelle tre regole erano soltanto per me. Fobos la squadrò
con indifferenza, poi
si girò dalla mia parte.
-Domande?
–
-Un’infinità-,
ammisi.
-
Te ne concedo due, matricola-. La mancanza di riguardo per una donna
religiosa
mi fece andare su tutte le furie e scalpitare il mostro che mi
soffocava da
dentro. Vidi rosso per un secondo e il sangue nelle vene
cominciò a scorrermi
veloce e schiumoso.
-
Come mai hanno deciso di riaprire la Caserma? E seconda domanda: la
regola
sulla magia vale anche per lei? –
Gli
occhi di Fobos si tinsero di un nero intenso e le sopracciglia
schizzarono
verso il naso, ombreggiandogli il volto. Improvvisamente mi parve molto
minaccioso.
-Forse
non ti è chiara una cosa, matricola. Dal momento in cui hai
varcato quella
soglia, non sei più una religiosa né tantomeno
una donna. E si dia il caso che
la tua sorte di soldato Deus Ex Machina sia nelle mie mani e che tu mi
stia
particolarmente antipatica…-
Sentii
il richiamo del sangue nelle mani e percepii che lentamente stavo
perdendo il
controllo delle braccia e delle gambe. Fremevo, indignata per il
trattamento
che stavamo ricevendo, dopo aver accettato di aiutare gente stupida e
bellicosa, attaccata più alla propria arma che non al
cervello. Una vocina nella
mia testa mi disse di attaccare Fobos e distruggerlo prima che lui
potesse fare
lo stesso con me. La feci tacere solo grazie ad una morsicata alla
guancia.
-Non
ho intenzione di sforzarmi di essere simpatica. Mi pare che la simpatia
qui non
sia il forte di nessuno. E ora risponda per favore alle due domande che
ho
scelto di diritto-, dissi, ferma e statuaria. Sentii Aracne tirarmi la
manica
della veste per impedirmi di cacciarmi nei guai già il primo
giorno, ma ormai
era troppo tardi. Fobos aveva già preso la rincorsa e,
ignorando lo strillo
acuto di Aracne, mi aveva sollevato per le spalle, imprigionandomi con
le
enormi mani. Non mi dimenai e non cambiai di un accento la mia
espressione
seria.
-Cosa
vuole fare, picchiare una donna? -, domandai, sprezzante. Il viso di
Fobos era
a pochi centimetri dal mio, feroce e spigoloso. Vedevo il mio riflesso
nelle
sue iridi scure e fui fiera di come apparivo. Per niente debole. Poi
mentre lui
mi sibilava di restare al mio posto e non giocare con il fuoco, vidi
qualcosa
d’altro. Nei suoi occhi c’era un’ombra
appiccicosa, simile a quella che da anni
vedevo dentro i miei. Ammutolii all’improvviso e rilassai
completamente ogni
muscolo, stupita: Fobos si ritrovò così con le
mani strette attorno ad una
donna dallo sguardo perso che fissava qualcosa attraverso di lui. Con
uno
scatto e un ringhio mi posò a terra senza troppa leggerezza,
distogliendo lo
sguardo.
Dal
canto mio continuai a fissargli gli occhi ancora per qualche istante
cercando
di rintracciare quella macchia che avevo visto, ma sembrava si fosse
riassorbita.
Infine respiro dopo respiro ritrovai me stessa e la calma mi fece
sciogliere le
interiora e smettere di fischiare le orecchie. Mi resi subito conto che
avevo appena
osato sfidare una montagna d’uomo, anche se insolitamente
magro e scavato, e mi
vergognai. Non era il comportamento che Aracne, così fragile
e ora
terrorizzata, meritava di vedere da parte mia. Sapevo che potevo essere
migliore di così e che ogni volta che cedevo alla mia parte
sbagliata era una
sconfitta che pregiudicava i miei buoni risultati. Chiusi gli occhi.
-Mi
dispiace. Non so cosa mia sia preso, Aracne. Devo delle scuse a
entrambi-,
dissi con voce atona. Fobos, di fronte a me, sgranò gli
occhi e rimase un
momento perplesso a causa del mio repentino cambiamento di umore.
-
Per stavolta passi. Ma pulirai il refettorio domani sera dopo cena e
riassetterai tutto quanto da sola, disse con voce severa. Era ancora
visibilmente arrabbiato e ringraziai che non mi avesse malmenata. Se lo
avesse
fatto, probabilmente mi avrebbe uccisa con un solo pugno.
-Sì-.
-Sì-,
ripeté lui, più ad alta voce. Si
sistemò i lunghi capelli scuri dietro le
orecchie e si torturò uno dei due piercing al labbro. Stava
cercando di
controllare la rabbia.
-
E metto subito in chiaro che un comportamento del genere non
sarà più tollerato
e verrà punito in base alla mia discrezione-.
-Sì-,
dicemmo in coro io ed Aracne, la quale ancora non aveva smesso di
tremare e
guardava spaurita l’Ibrido.
-Infine
ti chiedo di seguirmi in bagno-, disse fissandomi. Trasalii senza
capire, ma
non mi opposi e lo seguii. Aracne rimase al suo posto, pietrificata
come un
sasso. Entrammo nella toilette e Fobos aprì il rubinetto,
facendo scorrere
l’acqua qualche secondo, poi tappò il lavabo
infilando nello scarico un
asciugamano. Aspettammo in silenzio che di fronte a noi si formasse un
piccolo
lago di acqua calcarea. Lo sguardo di Fobos aveva una sfumatura
particolare: era
sadismo, ma lo capii soltanto quando mi afferrò per i
capelli e mi infilò la
testa sott’acqua, tenendola giù. Cominciai
istintivamente a urlare e
divincolarmi, ma quel ragazzo aveva una forza incredibile e con la sola
mano mi
impediva qualsiasi movimento. Mi dibattei a più non posso,
spaventata, finché
attorno agli occhi non cominciarono a formarsi delle macchie scure.
Stavo per
svenire, stavo per perdere i sensi. Tuttavia un istante prima che il
mio corpo
e la mia mente cedessero alla molle incoscienza la mano di Fobos si
aggrappò
con più forza ai miei capelli e mi tirò su.
Annaspai, tossendo e rigurgitando
acqua. Sentivo ancora l’eco delle mie urla nelle orecchie e
il pianto rotto di
Aracne dall’altra parte del muro. Mentre ancora mi teneva il
capo, Fobos mi
costrinse a voltare il viso e guardarlo. Vedevo ancora tutto distorto e
le sue
labbra mi parevano muoversi al rallentatore.
-
Questo è quello che accade a chi non mi obbedisce. La mia
vendetta personale è
peggiore di qualsiasi altra punizione-, sputò fuori con
cieco furore. E giusto
per farmi capire chi davvero comandasse fra noi due, mi
ricacciò la testa
nell’acqua. Mi aggrappai ai bordi del lavandino, stavolta,
facendo pressione
per spingermi via, ma anche in quel caso fu tutto inutile. Cominciai
nuovamente
a vedere nero in breve tempo, mentre le bolle mi accarezzavano il viso,
sadiche. Strillai ancora, impotente, e spalancai gli occhi mentre Fobos
mi
strappava per la seconda volta alla morte. Annaspai tenendo le mani
aggrappate
al collo e caddi sul freddo pavimento, infreddolita e con i capelli
appiccicati
al viso. Avevo il volto in fiamme, congelato, e le labbra spellate e
tese a
forza di lottare. Fobos mi sovrastava con un sorrisetto diabolico, i
denti
appuntiti che sfioravano il labbro inferiore. Rimase a godersi lo
spettacolo
ancora qualche istante e poi sparì, lasciandomi senza forza
a terra. Aracne non
appena l’Ibrido fu scomparso
scattò verso di me e, trovandomi a terra immobile,
strillò come un animale.
Sollevai una mano e mugugnai che stavo bene. Allora lei si
chinò al mio fianco
e cominciò ad asciugarmi il viso, anche se ogni volta che
passava l’asciugamano
sul volto, subito dopo una lacrima cancellava il suo lavoro.
Quando
il mattino successivo giungemmo nel refettorio, mi prese lo sconforto.
Vi erano
più di un centinaio di persone che mangiavano e sporcavano,
urlavano e
brindavano. E mentre osservavo uno che si faceva scivolare la birra
lungo la
barba incitato dai compagni, realizzai che sarei stata io quella che
avrebbe
dovuto ripulire tutto. Aracne, nel frattempo, individuò le
nostre due compagne
e le salutò con una mano.
-Eccole-,
esclamò incamminandosi verso la tavolata isolata che
occupavano. Facemmo lo
slalom tra soldati allegri e cuochi indaffarati, finché non
ci ritrovammo di
fronte al tavolo dove stavano cenando Deimos, Fobos, Eracleo, il tizio
di
colore che avevo già visto e un altro paio di uomini che non
conoscevo.
Abbassai lo sguardo e mi fissai i sandali, nella speranza che nessuno
di loro
notasse il nostro passaggio. Ma non fu così: il tizio di
colore, infatti, alzò il
capo poco prima che uscissimo dal suo campo visivo.
-Buon
appetito-, esclamò. Rispondemmo entrambe con gentilezza.
Gettai una rapida
occhiata a Fobos per capire se avesse riferito a qualcuno quello che
era
successo. Quando mi resi conto che non avrebbe alzato il muso dal
piatto,
strinsi le labbra violacee e imprecai mentalmente.
-Che
cosa le è successo? E’ livida-, sentii dire ad
Eracleo mentre mi allontanavo.
Nessuno
che fosse seduto a quel tavolo, però, si premurò
di rispondergli.
Mi
sedetti rumorosamente al tavolo, mentre Aracne si accomodava di fronte
a me e
accanto a Medeya. L’altra Custode alla mia sinistra era Dyte.
Non ero stupita
che fosse lì, visto l’indole irosa e intollerante
che già da anni manifestava
nel e contro il Tempio. La salutai con un cenno, senza una parola:
sapevo,
infatti, che le Demoniache non amavano le chiacchiere a causa dei
continui
dolori ossei che le ossessionavano al risveglio dopo ore di
inattività. Medeya,
invece, era raggiante e masticava insistentemente un pezzettino di
formaggio.
Ispirata da lei, guardai il vassoio che mi venne depositato davanti da
un
inserviente, ma non avevo per niente fame e anche solo aprire un
po’ la bocca
mi faceva tendere le labbra indolenzite e morire di dolore.
Perciò mi limitai a
fissare il cibo e aspettare che le altre finissero di mangiare. E
mentre
deglutivo schifata un succo di arance pieno di conservanti, alle mie
spalle
giunse a lunghi passi Deimos.
-Salve,
Custodi. Oggi inizieremo il vostro addestramento,- cominciò
decantando frasi
che sembrava aver imparato a memoria: - Ma prima vi aspetta la visita
medica e
le misurazioni per le tute, che saranno disponibili già oggi
nel pomeriggio-.
-Perfetto-,
asserì senza inflessioni la meticolosa Dyte. Si
asciugò le mani nel tovagliolo
e indirizzò a Deimos un sorriso aguzzo. Noi altre, invece,
rimanemmo in
silenzio.
-Un’altra
cosa. Dopo quattro
settimane di
allenamento per le tecniche di base, dovrete scegliere in che
Reggimento
inserirvi, per cui conviene che vi informiate con anticipo sulle
mansioni dei
singoli gruppi per scegliere poi con maggiore cognizione di causa-.
Gli
occhi mi si dilatarono e cominciai a sentire il sangue pietrificarsi
nelle
vene. Strinsi i pugni e cercai di rilassarmi.
-In
quale Reggimento è inserito Fobos? –, chiesi
d’impulso, senza preoccuparmi di
sembrare terrorizzata, curiosa, fastidiosa o irriverente, o qualsiasi
altra
cosa potessi essere agli occhi di Deimos.
-
Reggimento dei Ruggenti, ma non vedo come questa informazione possa
condizionare la vostra scelta- Ma poteva eccome, dal momento che volevo
evitare
Fobos come la peste.
Dyte,
stanca delle chiacchiere, si alzò in piedi e il suo cranio
rasato e biondo
splendette come un sole illuminato da un fascio di luce. –
Vogliamo muoverci? -,
Deimos sorrise e immaginai che stesse pensando a come sarebbe stato
facile manipolare
una personalità già forte e guerriera come la
sua. Dyte si era rasata i capelli
subito dopo essere uscita dal Tempio come a volere lasciare la sua vita
alle
spalle, immaginai, e questo non poteva che piacere a
personalità autoritarie e
patriottiche come Deimos o Fobos. Mi alzai, più stanca di
quando mi ero seduta,
e ci dirigemmo verso il cortile dove l’Ibrido, comparso dal
nulla, ci aspettava
svettando come un cipresso in mezzo alle esercitazioni di piccoli
soldatini.
Deimos ci salutò freddamente, richiamato da un soldato
abbronzato che guidava
una marcia sostenuta, e Fobos ci accolse altrettanto gelidamente. Dyte
e Medeya
sembravano tranquille, ma io ero agitata e non riuscivo a contenere il
tremore
alle mani, nemmeno per fare coraggio ad Aracne.
-Forza,
seguitemi-, disse Fobos, tuonando. Non ce lo facemmo ripetere due volte
e ci
incamminammo dietro di lui, in fila indiana, come una silenziosa
processione.
Attraversammo il cortile, affogato in attrezzature da allenamento e
giovani
sudati e affaticati, per poi inoltrarci in un cubo di cemento bianco e
luminoso. L’interno era completamente asettico e metallico,
perfettamente
pulito, con robot che sfrecciavano per terra impazziti muniti di
spazzole e
liquidi disinfettanti. Ne scavalcai uno con un saltello, mentre una
infermiera
blaterava qualcosa circa le nostre cartelle cliniche.
-Ci
è stata inviata dalla Sacerdotessa la storia medica di
ciascuna di voi, con i
vostri profili psichici e fisiologici. Pertanto abbiamo deciso di
dividervi in
due coppie, così da facilitare il lavoro ai nostri dottori.
Medeya e Aracne
verrete con me, mentre Dyte ed Astreya proseguirete con Fobos-.
Appena
sentii che mi avevano abbinato a Dyte e che saremmo state seguite
dall’occhio
vigile dell’Ibrido, capii immediatamente che i dottori erano
preoccupati per il
carattere oscuro e imprevedibile delle nostre Doti. Ma ero preoccupata
anche io
per quanto era scritto nella mia cartella: non sapevo cosa e quanto
fosse stato
rivelato della mia condizione e a quali domande avrei potuto
rispondere.
-Muovetevi-,
borbottò Fobos guidandoci in stretti corridoi, mentre la mia
mente galoppava
senza freni. Giungemmo, sotto lo sguardo incuriosito di altri dottori,
ad una
doppia porta in metallo pesante con una sola finestrella di vetro.
Stampati
sopra di essa vi erano due simboli ben noti: rischio malattie infettive
e
scorie pericolose.
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Capitolo 7 *** Capitolo 6- A pelle nuda ***
Capitolo
6
Quando
Dyte uscì dalle pesanti porte della sala, mi sentii un
po’ meglio. Era ancora
in forze e aveva un colorito roseo decisamente sano. Mi fece
l’occhiolino e con
passo spedito si allontanò nel corridoio, lasciandomi sola
con il fiato di Fobos
sul collo. Seduta su quella seggiola di plastica sembravo minuscola al
suo
confronto, lui che torreggiava come una vedetta di fianco a me,
appoggiato con
la schiena al muro. Mi concessi di valutarne un po’
l’aspetto per capire quali
caratteristiche fisiche potessero essere state causate
dall’uso incapace della
magia. Di sicuro il colorito pallido e la consistenza simile a cuoio
della
pelle non erano affatto naturali. Sbirciai le braccia, così
lunghe e nervose,
ma quelle mi parvero completamente umane. Cosa che non si poteva,
invece, dire
per il viso, così magro ed emaciato da renderlo spigoloso e
duro. I denti
simili a quelli di un animale erano più adatti a masticare
brandelli di carne
sanguinolenta, piuttosto che il tortino ai mirtilli del refettorio. E
il colore
catramato degli occhi di certo non era suo, era troppo liquido e
cangiante per
poterlo essere.
-Signorina…-,
mi chiamò l’infermiera di turno, emersa da dentro
la sala. Mi guardava con uno
sguardo serio e professionale, ma nei suoi occhi leggevo eccitazione.
Probabilmente le apparivo come una meravigliosa cavia, tanto esotica da
non
riuscire a contenere la smania di poterla sezionare. – Fobos,
è richiesta anche
la sua presenza-.
Fobos
annuì serio e si staccò con un colpo di reni
dalla parete. Mi afferrò per un
braccio, con così tanta forza che sentii le ossa
scricchiolare, e mi sospinse
verso l’infermiera. Lo guardai piena d’ira, ma a
lui sembrava far solo che
piacere. Mi spintonò, quindi, in avanti e mi
gettò contro le porte dell’ambulatorio
che fecero appena in tempo ad aprirsi. Mi ritrovai in una specie di
cella di
decontaminazione con l’infermiera e l’Ibrido al mio
fianco, mentre una
nuvoletta bianca ci aleggiava attorno gelida e secca. Rimanemmo in
piedi,
immobili, per qualche secondo, finché si accese una lucetta
rossa di fronte a
noi e la porta si aprì automaticamente. Di fronte a me
c’era una sala
operatoria vuota con solo un tavolo da obitorio al centro, lucente e
inquietante. Feci un passo avanti senza che nessuno me lo dicesse e mi
guardai
attorno.
-Buongiorno,
Signorina Astreya-, disse un uomo alle mie spalle. Mi girai di
soprassalto e
notai una scrivania spoglia situata accanto alla porta, su una pedana
circolare. Sopra la scrivania vi era lo scheletro di un feto e dietro
un uomo molto
piccolo con due occhiali spessi. Scivolò giù
dalla sedia con estrema lentezza e
mi porse la mano. Mi arrivava poco più che al petto e io non
mi sono mai
considerata alta. Gli strinsi la mano piccola e pelosa e lui sorrise.
-Mi
chiamo Upokrates e sarò il tuo medico curante-. Il fatto che
mi trattasse come
una ragazza normale e che lasciasse stare i convenevoli mi fece calmare
un po’.
-Bene,
gradirei che ti spogliassi-, disse poi, senza nemmeno lasciarmi il
tempo di
capire il suo nome. Rimasi un momento interdetta, sapendo Fobos alle
mie
spalle. Tentennai e rimasi immobile.
-Non
temere, cara. Sono un medico-.
-Non
è di lei che ho timore-, bofonchiai gettando
un’occhiata di sottecchi
all’Ibrido. Upokrates seguì il mio sguardo
sbattendo gli occhioni chiari dietro
ai vetri e un sorriso comprensivo si dipinse sul suo volto.
-
Non preoccuparti, Fobos mi ha aiutato spesso nelle ricerche ed
è abituato ad
assistermi. Potremmo dire che anche lui è un medico-,
sorrise. Ma non me la
dava a bere. Sapevo che Fobos era lì soltanto per questioni
di sicurezza,
pronto a piantarmi una pallottola in testa se avessi dato fuori di
matto.
-
Non ho tempo da perdere-, ringhiò Fobos osservando il
gigantesco orologio
appeso alla parete.
Sospirai
e mi spogliai della veste che indossavo rimanendo in biancheria intima.
Nient’altro che un paio di slip e una canottiera. Mi sentivo
particolarmente a
disagio, con i buchi delle siringhe e i lividi esposti. Finsi, quindi,
di
essere di fronte a Iatro o ad un qualunque altro medico del Tempio e
rimasi più
calma di quanto pensassi.
-Bene, allora, iniziamo con
una prima visita
superficiale, poi dovrò chiederti di togliere tutto il
resto-. Annuii. L’infermiera
avanzò e mi prese gentilmente le misure, dicendomi che in
quel modo avrei
evitato di perdere altro tempo per la divisa, che ci avrebbe pensato
lei. Poi
mi fece salire su una bilancia e mi chiese di rimanere immobile: era la
prima
volta che mi pesavano e misuravano e questo mi diede
l’impressione di essere un
animale da allevamento, qualcosa di simile a una mucca o un maiale,
buona da
mangiare e nutrita solo per poi essere uccisa.
-Quaranta
cinque chilogrammi -.
Upokrates
segnò i dati diligentemente in una cartella dalla quale vidi
fuoriuscire la
foto che mi scattarono a tredici anni, quando arrivai al Tempio. Vidi
la mia
espressione arrabbiata e insensibile e mi resi conto che era ancora la
stessa.
-Per
favore scenda dalla bilancia e si spogli del resto-. Cominciai a
spogliarmi
senza dire nulla.
-Adesso
andrò ad applicarti degli elettrodi sul corpo
così da avere un quadro del
funzionamento del sistema nervoso. Ma prima bevi questa fiala-.
Quando
fui completamente nuda mi allungò una fiala di un colore
bluastro che puzzava
tremendamente. Fobos, annoiato, continuava a seguire lo scorrere della
lancetta
dei secondi, ma sul suo viso era comparso un insolito rossore.
-Che
cosa è? -, domandai agitando il denso contenuto della
provetta. Aveva la
consistenza del sangue raggrumato. – E’ un liquido
di contrasto. Entrato in
circolo colorerà i vasi sanguigni e con una macchinetta
vedremo anche il suo
sistema ematico. Per favore lo beva immediatamente-.
Lo
inghiottii senza riflettere sentendolo scorrere come olio lungo la
laringe.
Diedi un colpo di tosse e mi ripulii i denti con la lingua. Upokrates e
l’infermiera cominciarono quindi a spalmarmi addosso un gel
trasparente e ad
appiccicarvi sopra delle ventose collegate a una quantità
spaventosa di cavi.
Si attorcigliavano attorno a me come serpenti e me ne ritrovai almeno
dieci fra
i piedi. Tutti erano collegati a un computer.
-Intanto
che il computer elabora, ti porgerò qualche domanda.
Gradirei che rispondessi
con sincerità, visto che si parla della tua salute-.
Fobos
si staccò dalla porta e si sedette al posto del medico
osservandomi. – Fobos,
aiuta i miei poveri occhi e leggi le domande sul banco-. Fobos
afferrò il
foglio.
-Ha
mai sofferto di una di queste malattie? -.
Ne
nominò una sfilza, ma non mi ero mai ammalata se non qualche
linea di febbre,
quindi negai ogni volta sotto gli sguardi eccitato di Upokrates e
stupito di
Fobos.
-Ha
mai sofferto di depressione? –
-Ne
soffro tuttora-, risposi sinceramente anche se la mia non si poteva
proprio
definire depressione.
-
Soffre di qualche disturbo psichico o di natura mentale? Casi
precedenti nella
sua famiglia? -.
-Soffro
di disturbo bipolare dall’età di nove anni. E non
che io sappia-.
Fobos
rimase un attimo interdetto. In effetti ad una prima analisi potevo
sembrare
una normale ragazza, ma nessuno sapeva cosa covava
all’interno del mio corpo,
cosa mai nutrissi ogni giorno con rabbia e rancore. Sorrisi debolmente.
-Ha
mai fatto uso di droghe o abuso di alcool? -
-Sapete
benissimo che a noi Custodi non sono concessi vizi né tanto
meno atti di
egoismo e autolesionismo tendenti a forme di suicidio-.
Fobos
lesse la domanda successiva e un sorrisetto gli comparve sul volto.
-Ha
mai avuto rapporti sessuali? –
Sbuffai.
Lo sapevano tutti che le Sacerdotesse non erano tenute alla
castità, ma che si
mantenevano pure fintanto che non compivano la maggiore età
di trent’anni.
-Ovviamente
no-. Fobos ridacchiò facendo tintinnare gli anellini appesi
al labbro. Mi fece
altre domande, una dietro l’altra, mentre me ne stavo seduta
su un lettino da
obitorio, nuda. Era una situazione odiosa e il continuo bip bip del
computer mi
mandava fuori di testa. La bestia dentro di me cominciò ad
avvolgersi su se
stessa e mi punse con i suoi aculei velenosi. Osservai Fobos che ancora
derideva interiormente la mia vita dedita al lavoro e alla preghiera.
Osservai
il medico, leggermente distorto, mentre mi auscultava la schiena, e
osservai l’infermiera
con quei denti odiosi, così piccoli e macchiati di tabacco.
Cominciò a girarmi
la testa e la fronte mi si imperlò di sudore. Stavo uscendo
da me e non doveva
assolutamente succedere. Cominciai a contare in ordine decrescente a
partire da
mille. Il computer emise un suono strano e uno schermo
cominciò a scendere
cigolando lungo la parete alle mie spalle. Mi voltai a guardarlo giusto
in
tempo, mentre l’immagine del mio sistema nervoso prendeva
vita in quella
proiezione. Vedevo distintamente la mia figura ricoperta da un
labirinto di impulsi
elettrici impazziti con quelli che sembravano piccoli lampi che
rilucevano a
intermittenza come spie di emergenza. Era una luce blu elettrica. Il
dottore
balzò avanti e andò a osservare più da
vicino la mia immagine, a bocca aperta.
Persino Fobos si sollevò in piedi osservando quegli impulsi
elettrici
impazziti.
-Meraviglioso!
-, esclamò Upokrates correndo come un furetto a prendere una
macchinetta.
Cominciò a passarmela addosso come fosse una lastra e sullo
schermo andò a
formarsi l’immagine nitida del mio sistema ematico. Questo si
sovrappose al già
preesistente sistema nervoso, mostrando qualcosa che nemmeno io avevo
mai
visto. Anche il sangue scorreva in maniera innaturale, come fosse
più fluido e
dava l’impressione che dentro di me più che sangue
ci fosse acqua. Piano piano
impulsi elettrici e sangue cominciarono a sincronizzarsi e il cuore,
rappresentato da un rombo nero, cominciò a pompare
velocemente, battendo
all’impazzata. Avevo paura e questo stava avendo degli
effetti collaterali sul
mio mostro.
-Questa
cosa non è assolutamente normale-, mormorò Fobos,
superandomi senza degnarmi di
un’occhiata. Si accostò al dottore e assieme
cominciarono a discutere. Io nel
frattempo lottavo contro l’afasia e la pressione sotto la
nuca. I denti
digrignavano da soli e sentivo dell’amaro salirmi in gola.
L’infermiera,
rimastami vicina, mi osservava con le ciglia aggrottate e
un’espressione
confusa sul viso. Non so cosa pensò in quel momento
né perché agì senza
consultare il medico, ma la donna pensò bene di afferrare
una siringa,
riempirla in tutta fretta di un tranquillante molto forte e di
pugnalarmi la
coscia, mentre i miei occhi si annebbiavano e le mani si attanagliavano
al
lettino. Non la ringraziai mai abbastanza per aver sedato me, e con me
il
mostro. Vidi la siringa conficcata nella gamba e già dopo
pochi secondi tutto
quanto mi apparve sdoppiato e cominciò a muoversi al
rallentatore. Cominciai a
ondeggiare e infine caddi all’indietro distesa, come un
cadavere, a braccia
spalancate. Vedevo la luce accecante della lampada al neon e due figure
muoversi verso di me, le loro voci deformate e grottesche.
-
Cosa… fatto? –
-Stava….
Agitazione e confusione. Ho … Dovere-.
Sentivo
soltanto spezzoni di conversazione e per il resto lo sciacquio di un
mare
lontano. Girai gli occhi alla mia destra appoggiando
l’orecchio al freddo
metallo. Vidi una mano pallida e gigantesca di fronte a me, che ben
presto si
tramutò in un enorme ragno albino con tanti occhietti
verdognoli. Allungò una
zampa e mi sfiorò il polso, in mezzo all’intricato
labirinto delle vene. Sentii
un dolore lancinante irradiarmi fino agli occhi e la mia bocca
partorì un urlo
abominevole e disumano, come provenisse da un abisso lontano,
rimbombando di
echi. Il viso del dottore comparve nella mia visuale con una luce
attaccata
alla fronte e un paio di lenti simili a un binocolo. Mi calmai
istintivamente
respirando profondamente e concentrandomi sulla luce rotonda che mi
baluginava
davanti. Piano piano mi si chiusero gli occhi e i muscoli si
afflosciarono
sotto l’influsso del tranquillante. Mi addormentai
così, come un feto
disarticolato nel grembo freddo di una madre crudele, senza difese e
senza
protezione.
Mi
svegliai ancora su quel lettino con un dolore lancinante al braccio.
Sollevai
le mani, le rivoltai sotto la luce e vidi un cerotto quadrato sul
polso.
-Ben
tornata fra noi, Astreya-, mi salutò l’infermiera.
Mi chiese poi se la
riconoscessi e io annuii.
-C-cosa
mi è successo? -, domandai girando il volto a destra e
sinistra per guardarmi
attorno. Vidi Fobos, addormentato mezzo storto su uno sgabello
minuscolo, e il
dottore che analizzava dei dati al computer, seduto alla sua scrivania.
-
Il suo sistema stava andando in crash proprio come il mio computer. Gli
impulsi
erano troppi e troppo violenti perché il suo cervello
reggesse ed era come se
le fosse salito il sangue alla testa. Sconvolgente-.
-Sì,
ma il cerotto? Ho fatto del male a qualcuno? – dissi mentre
mi puntellavo sui
gomiti cercando di issarmi. In quel momento si alzò anche
Fobos, di colpo
sveglio.
-No.
Ti abbiamo inserito il chip di riconoscimento. Tutti i membri
dell’Accademia ne
hanno uno-, brontolò raggiungendo il medico dietro la
scrivania e osservando i
dati che scorrevano sullo schermo.
-
Capisco-. In realtà non capivo affatto. Secondo me era un
modo come un altro
per marcare il territorio, un po’ come fanno i cani. Ed ora
era ufficiale: ero
loro proprietà. Scacciai il pensiero e appoggiai i piedi a
terra. Il pavimento era
liscio e freddo e rabbrividii: nessuno si era premurato di coprirmi o
anche
solo di mettermi sopra uno straccio.
-I
miei vestiti? – domandai, strizzando gli occhi. La mia
visione era ancora
sfocata e leggermente sdoppiata, così attesi prima di
rimettermi in piedi.
-E’
appena arrivata la sua divisa, cara-, tubò
l’infermiera mostrandomi una pila di
indumenti su un carrellino.
-
Ha dormito per sei ore-
-Sei
ore? -, brontolai ancora troppo stordita per sorprendermi.
-La
qui presente-, disse Fobos indicando la donna con un certo sprezzo,- ha
pensato
che una dose da cavallo non potesse bastare e così ti ha
messa k.o.-
Guardai
prima lui e poi l’infermiera e infine i vestiti che
quest’ultima mi stava
porgendo. Indossai della biancheria bianca, sportiva, un paio di
pantaloni
aderenti e una canottiera neri. Infilai gli stivali alti al polpaccio e
strinsi
fermamente le fibbie. Infine calzai dei guanti di cuoio molto
flessibili e con
le dita spuntate. Osservai
Fobos e vidi
che era vestito esattamente come me, solo che lui era armato.
-Le
stanno bene, cara-, commentò l’infermiera e mi
venne una voglia tremenda di
sputarle in un occhio.
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Capitolo 8 *** Capitolo 7- I quattro Reggimenti ***
Capitolo
7
Fobos
mi guidò nuovamente nei corridoi, ma ero talmente debole e
intontita che
riuscivo a malapena a stargli dietro. Arrancai per un po’
finché non
raggiungemmo nuovamente il refettorio. Fobos entrò e
sparì nelle cucine senza
dire una parola. Rimasi sola. La stanza era vuota e un silenzio
innaturale
pesava sulle mie spalle come un macigno. Fuori si era fatto pomeriggio
e il
sole stava scivolando infuocato dietro le montagne brune, mentre il
Tempio in
lontananza si cominciava già a tingere di azzurro.
-Mangia-.
Sobbalzai. Fobos era ricomparso con la stessa velocità con
cui erano nuovamente
sparite le sue buone maniere. Mi gettò davanti, su un
tavolo, un vassoio con
del pane, del formaggio e un beverone che mi sembrava vino rosso.
Ignorai la
coppa e addentai il pane.
-Grazie-,
dissi tra un boccone e l’altro, mentre sentivo lo stomaco
riempirsi
piacevolmente. Fobos si sedette di fronte a me, alto e inquietante con
una luce
di fuoco a bruciargli i contorni. Intrecciò le mani.
-Che
razza di manufatto sei? -, domandò, penetrandomi con il suo
sguardo
iridescente. Era deciso e leggermente irritato, come se gli avessi
nascosto una
qualche informazione molto importante. Ma non era così dal
momento che nemmeno
io conoscevo la mia natura fino in fondo. Perciò mi limitai
a scrollare le
spalle. Lui, di fronte a quel gesto, chiuse gli occhi e
serrò le labbra
stringendosi i pugni fino a far diventare bianche le nocche: era
visibilmente
arrabbiato.
-Forse
non mi sono spiegato…-, cominciò, ma sapevo
già dove voleva andare a parare. E
io non avevo intenzione di farmi mettere nuovamente i piedi in testa e
lasciare
che la paura delle percosse mi sottomettesse. Osservai la piccola
cicatrice che
mi avevano lasciato sul polso e a quell’oggetto estraneo che
ormai era radicato
sotto la mia pelle e decisi che lì dentro sarei stata
solamente Astreya, non la
Custode, non la ragazzina venduta al Tempio e nemmeno la vittima.
Sollevai lo
sguardo e feci nuovamente spallucce.
-Forse
ti sei spiegato benissimo invece-, ringhiai. Fobos sorrise
sardonicamente
tendendo le labbra.
-Non
ti è bastata la lezione? –
-
Si dia il caso che tu non abbia alcun potere su di me-, sibilai
protendendomi
verso di lui,- Cosa puoi fare? Uccidermi? Mi faresti un favore e non
credo che
tu voglia darmi questa soddisfazione-.
Gli
occhi di Fobos brillavano mentre gli indirizzavo il mio più
profondo disgusto.
Poi rise fragorosamente.
-Oh
ma io non voglio ucciderti! Non ne avrei alcun motivo. Preferisco
consumarti
lentamente, arrivare a sapere ciò che voglio, usarti come
voglio e poi mandarti
in frantumi, un pezzo alla volta-.
Fece
una pausa voltandosi a guardare oltre la finestra alle mie spalle.
–Ci sono
mille modi per morire e fra questi non annovero la morte fisica-. Un
sorriso
malinconico distorse i suoi lineamenti duri e asciutti.
-Come
sei nato? -, domandai mentre i suoi occhi si trasformavano lentamente
in
spirali tenebrose. Dovetti sbattere le palpebre un paio di volte prima
che
sparissero. Fobos si voltò lentamente.
-
Non sono affari tuoi-.
Sospirai.
Di questo passo non avrei mai saputo niente su quel posto, sul
perché fosse
stato riaperto e su chi o cosa avesse generato il primo Ibrido.
-Ti
chiedo scusa-, cominciai sperando che per una volta le buone maniere
potessero
condurmi più lontano della forza. Fobos inarcò un
sopracciglio, vagamente
divertito per come si stava evolvendo quella conversazione. Ne
approfittai e
gli tesi una mano. Lui la strinse senza troppo interesse, ma con forza.
-Ad
ogni modo ho un’idea. Facciamo così: tu mi dici
come sei nato e io ti dirò
altrettanto-, buttai lì, certa che avrei trovato il modo per
rivelargli qualcosa
pur nascondendo ciò che veramente ritenevo importante. Fobos
rimase un attimo
in silenzio, quasi in ascolto, poi disse: - Per ora non se ne parla,
Custode-.
E
proprio nell’istante in cui terminò la frase,
quasi come per magia, comparvero
sulla soglia Upokrates e Deimos. Osservai Fobos stordita, ritenendo che
l’arrivo dei due uomini non fosse una coincidenza, ma lui
incrociò le braccia e
si voltò a salutarli naturalmente. Questi ricambiarono e
affiancarono Fobos
dall’altra parte del tavolo. Deimos aveva
un’espressione funerea.
-E’
successo qualcosa? -, domandai vedendo che nessuno dei due si decideva
ad
aprire bocca.
-Diciamo
di sì-, commentò Deimos, gli occhi verdi che
fissavano i miei. –Upokrates
riterrebbe molto utile aprire un fascicolo su di lei. Vede, le sue
potenzialità
hanno attirato la nostra attenzione e vorremmo che lei firmasse il
consenso per
il trattamento dei suoi dati…- Fece una pausa-. E per la
sperimentazione-.
Tacquero. Vidi un profondo alone di disagio avvolgere Fobos e
un’amarezza aguzza
infilarglisi come un pungiglione nel cuore.
-
Mi permetto di obiettare. Avete tutti sotto agli occhi il risultato di
esperimenti non voluti dagli Dei- e indicò sé
stesso. Upokrates tossicchiò
sollevando gli occhiali con la punta dell’indice. Vicino a
Deimos e Fobos
sembrava un nano.
-Non
è una questione che la riguardi, Fobos! - sputò
fuori Deimos mentre gli
indirizzava un’occhiataccia. – Il piano
è stato vidimato dallo Stratega ed è
stato da lui proposto. Inoltre presto la richiesta verrà
inviata al Ministro
Primario Delle Armate Elladiane e se approvato sarà solo
Astreya a potere
scegliere il suo destino-
Non
avrei mai accettato e lo sapevano. Dovevano avere un asso nella manica,
qualcosa che mi spingesse a firmare. Tuttavia nemmeno io sapevo cosa
potesse
essere.
-Attendiamo
la conferma del Ministro e il via libera dell’Organizzazione
Ospedaliera per il
trattamento di un soggetto umano-, rincarò Upokrates.
–Poi ti riproporremo la
questione. Tu pensaci intanto-.
-Scusate
ma io cosa ci guadagnerei? -, chiesi timidamente, incerta se
addentrarmi nel
discorso. Fobos scattò subito in piedi e con furia
risistemò la sua sedia. – Io
me ne vado-. Si allontanò così,
senz’altra spiegazione se non la sua
disapprovazione. Upokrates lo seguì con lo sguardo fino alla
porta, poi tornò a
guardare me.
-In
primo luogo verrai lautamente ricompensata dall’
Organizzazione per
l’opportunità concessaci e potrai sostentare anche
la tua famiglia-.
Istintivamente
pensai ad Aracne e a come avrei potuto regalarle quel sogno di famiglia
che io
non avrei mai coronato. E cominciai a calare le difese: mi stavo
vendendo.
-In
secondo luogo potremmo sviluppare le tue potenzialità e
cercare una soluzione
per il dolore. Mentre eri in stato onirico, nella fase che chiamiamo
REM, ho
analizzato lo stato del tuo cervello e questo è quello che
ne ho ricavato-.
Mi
mise sotto al naso una lastra di vetro trasparente che fungeva da
display e
sopra l’immagine computerizzata di un cervello. In alto con
caratteri anonimi
era scritto il mio nome.
-Vedi
quella zona rossa? –
La
vedevo. C’era una grossa zona rossa, quasi sanguinosa, sul
mio cervello, mentre
le altre ballavano tra il blu e il giallo.
-Sì,
cos’è? -, chiesi curiosa, mentre le sfioravo con
il polpastrello.
-Il
cervello non si spegne mai nemmeno mentre dormiamo, ma le sue
attività se
durante il giorno sono assimilabili a un mare in tempesta, durante il
sonno
sono come un placido lago. Ecco il perché delle zone blu e
gialle. Le zone
rosse indicano intensa attività cerebrale e sono anomale-.
Allungò
un dito nodoso e storto verso la macchia. – Questa
è la corteccia
somatoestesica primaria dove giungono in primo stadio le sensazioni
relative al
dolore. Il tuo corpo in sostanza invia molti segnali al cervello,
sovraffollandolo con un unico messaggio: “allarme
dolore”. Immagino che convivere
con questa sofferenza ogni giorno non sia facile ed è per
questo che il tuo
fisico è così magro e debilitato. In quanto
soldato, tuttavia, non possiamo
permetterti di essere malata, perciò vorremmo arrivare a
progettare un farmaco
sperimentale che ti aiuti a, diciamo, assopire le terminazioni nervose
sovreccitate e ad assopire questo disturbo-.
Ecco
un’altra proposta molto allettante.
Pulii
il refettorio come d’accordo con Fobos, riflettendo e
riflettendo nuovamente
sulla proposta che mi era stata fatta. Ogni qual volta pensavo di poter
giungere ad una decisione, una qualche altra domanda mi spuntava in
mente, come
un fungo velenoso. Le sue spore si spargevano qua e là e
altre questioni affioravano
ovunque. Una delle principali ragioni che mi spingevano a rifiutare la
proposta
era chiaramente quella che mi vedeva alla mercé di gente,
non solo sconosciuta
e senza scrupoli, ma anche senza morale. Sarei potuta venire fuori come
Fobos e
questo mi terrorizzava terribilmente. Dall’altra parte
però c’era il vantaggio
di guadagnare un bel po’ di soldi con i quali un giorno avrei
potuto campare
senza dover dipendere dall’Esercito o, ancora peggio,
nuovamente dal Tempio, e
con i quali aiutare Aracne ad avere una vita migliore. In
più avrei potuto
penetrare a fondo nel cuore dell’Accademia, indagare,
infiltrarmi e capire cosa
ci fosse sotto la riapertura della struttura. Perché secondo
me qualcosa c’era.
-Che
sta facendo ancora qui? –
La
voce di Eracleo mi riscosse dai miei pensieri.
-Pulisco
un po’-, riposi continuando a rassettare i tavoli ingombri di
piatti sporchi.
-Ma
sono le nove. Dovrebbe riposare dopo gli allenamenti-.
Sorrisi.
Non poteva sapere che al posto di allenarmi avevo dormito fino al
tramonto.
-Già,
ma una punizione è una punizione-.
Eracleo
si mostrò stupito, ma non indagò oltre. Si
sedette invece su una sedia e
accavallò le gambe.
-Vorrà
dire che le farò un po’ di compagnia-.
Mi
voltai a osservarlo. Era sereno e nel sorridere gli si formarono due
graziose
fossette.
-Dammi
del tu-.
Eracleo
annuì lentamente e con un’unghia
cominciò a disegnare cerchi seguendo le
nodosità del legno.
-Quindi…-,
cominciò cercando le parole adatte- Che tipo di Custode sei?
–
-Una
Oscura, ma non temere quello che dicono su di noi la maggior parte
delle volte
è falso-.
Sgranò
gli occhi e si protese verso di me, interessato. Forse avrei potuto
scucirgli
anche io qualche informazione.
-Tipo
il fatto che potremmo uccidere un uomo toccandogli per sette volte il
cuore-.
-Questo
è decisamente di grande conforto! -, esclamò lui,
battendo un pugno sul tavolo.
-Non cantare
vittoria così in fretta! -. Feci
una pausa studiando la mia domanda, così da non sembrare
curiosa e destare
sospetti. In fondo
Eracleo non mi sembrava
un tipo molto sveglio.
-E
tu? Mi hanno riferito che dovrò scegliere un Reggimento al
termine del
Training, ma ancora non mi hanno accennato alle possibilità
che ho-.
Eracleo
si allungò sulla sedia, come se si stesse imbarcando in una
lunga spiegazione.
-Ci
sono quattro Reggimenti soltanto, quindi non sarà una scelta
molto difficile.
Io sono inserito nel Reggimento degli Ulivi. Rappresentiamo un
po’ la
diplomazia, mediamo con la popolazione in caso di rivolte ed
eventualmente in
caso di conflitti fra altre potenze interveniamo per ristabilire
l’ordine.
Siamo un po’ la Sicurezza, se vogliamo metterla in questi
termini-.
-Sembra
un lavoro appagante-, provai a dire, cercando di farlo parlare ancora.
-Sì,
certamente. O se non ti soddisfa la mia scelta hai a disposizione il
Reggimento
dei Segugi, che si occupano di spionaggio, anche cibernetico, o il
Reggimento
dei Ruggenti, che sono i militari veri e propri, quelli che insomma
sono nati
per questa vita, e che sanno manipolare gli Esoscheletri-.
-Esoscheletri?
-, domandai.
-Sì,
sono armature biomeccaniche che, adattandosi tramite sensori agli
impulsi
elettrici del cervello, possono essere indossate come armi difensive od
offensive in combattimento. Sono anche utili durante le notturne
perché hanno la
tecnologia adatta a consentire la vittoria in ogni tipo di ambiente,
specie
quelli più critici come appunto
l’oscurità-.
-Sembra
affascinante, ma non credo faccia per me-, mormorai.
-Hai
ancora un’alternativa: il Reggimento dei Biotecnici. Si
occupano… beh, si
occupano di medicina e ricerca-.
Nel
sentire una certa resistenza e nel percepire una punta di disagio nella
sua
voce, capii immediatamente che Reggimento avrei scelto. A quanto potevo
congetturare in base alle mie conoscenze e al mio intuito, fra i
laboratori dei
Biotecnici era nascosto il segreto di tutta quanta la vicenda. Forse
stavano
creando armi di distruzione di massa ad impronta biologica, una qualche
forma
di virus o parassita. O cercavano di impiantare la magia in qualche
altro
soldato, sfruttando la nostra presenza nella struttura e studiandoci
come
cavie.
-Questo
mi sembra il più interessante-, dissi fingendomi entusiasta.
-Dici?
Io lo trovo molto noioso invece-, ridacchiò lui, nervoso.
Notai che si stava
mordendo il labbro inferiore, torturandolo impercettibilmente. La
bestia che
dormiva nella mia pancia ridacchiò facendomi tremare le ossa
e per una volta
non mi dispiacque, anzi mi esaltò molto di più.
-
Penso che anche a Medeya, la mia compagna, piacerebbe molto, a maggior
ragione
perché lei è una Guaritrice-.
Eracleo
si passò una mano sui capelli: - Non penso sia
così semplice. Il Reggimento dei
Biotecnici fa una scrematura molto consistente dei suoi candidati.
Naturalmente
soltanto persone molto colte e intelligenti possono accedervi e
lavorare su
questioni così importanti, quindi è stato
stabilito che venisse fatto un test
ai candidati-.
-Test?
-, domandai, aggrottando le sopracciglia.
-Sì
di natura medica, ingegneristica, informatica e chimica-.
-Direi
molto specifico, insomma-.
Eracleo
annuì e assunse un’espressione mortificata, come
se avesse infranto i miei
sogni di gloria. Ma quello che il povero Eracleo non sapeva
è che io avevo una
moneta di scambio. Una grossa moneta di scambio.
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Capitolo 9 *** Capitolo 8 - Training ***
Capitolo 8
-Non
penso che tu sappia quello che dici, Fobos-, commentò
Upokrates con una strana
luce di rimprovero negli occhi. Era seduto di sbieco sulla sua
scrivania, tra
un plico di fogli e l’altro. Sembrava che quella mattina non
fossi stata
l’unica a decidere di fare una visitina al dottore. Io e
Fobos avevamo avuto la
stessa idea, sebbene io l’avessi avuta in ritardo. Appena
giunta di fronte
all’uscio con la targhetta arrecante il nome del medico,
infatti, avevo sentito
delle voci famigliari provenire da dentro la stanza. Mi ero, quindi,
sistemata
in ombra vicino allo spiraglio e mi ero messa ad origliare la
conversazione.
-Io
so benissimo quello che dico. Parlo con cognizione di causa-,
sibilò Fobos. Da
dove ero non potevo vederlo, ma immaginai il suo volto aspro contratto
da una
smorfia di disappunto.
-
Credi che la tua condizione ti dia il diritto di porre un veto alle mie
scelte?
Io non credo proprio-, ghignò Upokrates. Per un istante mi
parve di vedere
attorno a lui una massa deforme di ombre, ma durò poco
più di qualche secondo,
e poi la visione scemò nell’aria.
-
Io non ho la presunzione di nascondermi dietro una cattedra con la
scusa di
fare della scienza. Rivendico soltanto il diritto di avere voce in
capitolo…
anche io ho sofferto per mano vostra-.
Upokrates
balzò giù dalla cattedra e voltò le
spalle all’Ibrido, perdendosi ad osservare
le coste ben spolverate dei suoi tomi di medicina.
-Fobos,
non ti immischiare in situazioni che non ti riguardano. La scienza
è qualcosa
che va di pari passo con la sperimentazione, è inevitabile.
Non avremmo potuto
redigere questi tomi, né salvare milioni di vite, se
qualcuno lungo la via non
si fosse sacrificato. Lo capisci questo? –.
Non
so se Fobos capisse o meno, ma io capivo. Era la stessa logica
collettivistica
con la quale mi avevano cresciuta al Tempio, sin dal mio arrivo. Il
bene
pubblico, quel misterioso bene che tutti noi dovevamo tutelare, era
qualcosa
che travalicava l’importanza delle nostre singole vite,
perché gli Dei ci
avevano messo al mondo, non per amore, ma per essere gli strumenti
mediante i
quali dar corpo al loro volere.
-Parli
così perché non hai vissuto ciò che
hanno vissuto i tuoi pazienti. Pensi sia
divertente fare da cavia? Pensi sia appagante essere trattati come topi
da
laboratorio e poi buttati via dentro un sacco nero? –
Upokrates
sfogliò un volume verdastro con una filigrana dorata che lo
rendeva quasi
luccicante. Aveva lo sguardo assorto dietro le pesanti lenti, e la
bocca
socchiusa in un sospiro meditabondo.
-Se
non fosse stato per noi, tu ora saresti dentro uno di quei sacchi, lo
sai vero?
Volente o nolente ci devi la vita. E sai perfettamente che avremmo
potuto farti
morire su quel lettino, senza alcuna remora. In quel momento non
è stata la
scienza a tenerti in vita, ma la misericordia umana-.
Fobos
scattò in avanti, invadendo il mio campo visivo. Era
trasfigurato dalla rabbia
e sembrava molto più imponente di quanto non mi fosse mai
apparso prima. Con
una manata spazzò via tutti i ninnoli che Upokrates aveva
diligentemente sistemato
sul tavolo e si protese in avanti.
-Misericordia?!-,
gridò quasi, facendo sobbalzare l’uomo di fronte a
lui-. Tu questa la chiami
misericordia? –
Lo
sguardo di Upokrates si era fatto serio e lentamente era scivolato
sulle pagine
ingiallite del suo prezioso tomo.
Non
sembrava aver intenzione di ribattere, né di dare corda alla
furia cieca che
aveva colto Fobos. Rimasero per qualche istante a fissarsi, i muscoli
dell’Ibrido tesi e pronti a guizzare. Poi il giovane
parlò di nuovo e la sua
voce ebbe il potere di riempire tutto lo spazio vuoto attorno a lui.
-Misericordia
sarebbe stata farmi crepare su quel lettino, quando invocavo la morte a
pieni
polmoni! -, disse.
Upokrates
sbatté sulla scrivania il tomo e una nuvola di polvere si
sollevò fra di loro,
spirito tangibile del mutuo disaccordo.
-E
a che cosa sarebbe servito lasciarti morire? Avremmo forse ottenuto
qualcosa?
Perché disprezzi il dono della vita che ti è
stato fatto?!-
-
Dono? Osi definire vita quella che mi avete donato?!-,
sbraitò il giovane,
battendo un pugno sul legno duro e antico della scrivania.
Upokrates
non si indignò per la violenza con cui l’Ibrido
gli rinfacciava eventi passati,
al contrario si risistemò gli occhiali e, con calma
ritrovata, fissò i suoi
occhi in quelli tenebrosi di Fobos.
-Vattene,
e tornatene quando sarai più calmo. Sono convinto che a ben
ripensarci, capirai
di essere nel torto-.
Fobos scosse la
testa mestamente. Sapeva che
da Upokrates non avrebbe mai potuto ottenere delle scuse, né
tantomeno un
ravvedimento. Sbuffò e si passò una mano fra i
lunghi capelli neri. Quello era
il momento giusto per fare il mio ingresso, c’era abbastanza
calma da
permettermi di entrare con naturalezza. Bussai un paio di volte,
cosicché mi
sentissero. Poi spinsi l’uscio e salutai educatamente
entrambi. Upokrates
ricambiò con cortesia, mentre Fobos si limitò a
indirizzarmi uno sguardo carico
di disprezzo.
-Disturbo
per caso? -, domandai imbarazzata. La tensione che aleggiava tra i due
era
ancora talmente consistente che si sarebbe potuta tagliare con un
coltello.
-No
assolutamente, Custode. Prego, entra. Immagino tu sia qui per discutere
la
nostra proposta anche se non mi aspettavo di rivederti così
presto-.
Avanzai
nella stanza e mi accomodai sulla poltrona che Upokrates mi
indicò. Era soffice
ed estremamente avvolgente. Fobos rimase in piedi qualche istante, poi
senza
salutare né aggiungere altro, uscì dalla stanza
con passo marziale. Io ed
Upokrates rimanemmo, quindi, soli, gli sguardi incatenati.
-Hai
già preso una decisione? -, mi domandò il medico,
soppesando lo spazio fra le
parole. Upokrates doveva essere un uomo meticoloso. Tutto sulla sua
scrivania
lo suggeriva: dalle matite perfettamente allineate in un angolo del
tavolo,
alla targhetta di ottone perfettamente lucidata. Persino il farfallino
che
indossava quella mattina era perfettamente annodato e sistemato sotto
il pomo
d’Adamo. Peccato che Fobos avesse mandato all’aria
tutto il suo ordine e che le
matite stessero ancora rotolando fra i miei piedi. Istintivamente, alla
vista
della targhetta ribaltata, ma pur sempre lucente, provai una sorta di
timore
reverenziale nei confronti di quel dottore e le parole mi scivolarono
sulla
punta della lingua, tremolanti e poco convinte.
-Vorrei
proporle un accordo, se me lo permette-.
Upokrates
incrociò le mani davanti al viso, sospirando. Probabilmente
non si aspettava
una mia possibile resistenza, non dopo che mi ero volontariamente unita
alle
loro fila.
-Non
c’è bisogno di essere così formale, mia
cara. Ti prego di trattarmi alla
stregua di un vecchio amico-.
C’era
qualcosa di estremamente ipocrita nel suo comportamento, nel modo
affettato con
cui sin dall’inizio si era rivolto a me. Eppure non riuscivo
a cogliere il
tranello dietro alle sue parole. Sembrava quasi che la sua fosse solo
cortesia,
o rispetto dell’etichetta.
Tossicchiai,
schiarendomi la voce.
-Di
quanto mi avete proposto desidero ben poco. Il dolore che mi porto
dentro è
così radicato in me che non sento nemmeno più il
bisogno di estirparlo dal
corpo. Non è questo che mi interessa-.
-Sono
i soldi, quindi? -, chiese Upokrates, un sorriso aguzzo allargato
dietro alle
dita intrecciate. Sperava di corrompermi con del vile denaro, come se
la mia
vita e la mia salute potessero avere un prezzo.
“Tutto ha un prezzo” avrebbe detto mio
padre se fosse stato ancora
presente nella mia vita, ma di fatto non c’era.
C’eravamo solo io e la mia
determinazione davanti a quel tavolo di scambio.
- Il denaro sarebbe
un ottimo supporto, e lo
accetto sempre con riconoscenza, ma anche i soldi non sono un problema.
Con
quello che mi fornirà l’Accademia sarò
bene in grado di provvedere a me stessa
e alla mia compagna-, annunciai, fiera nel notare un lampo di sorpresa
balenare
dietro le lenti dell’uomo. Upokrates si protese in avanti, il
collo rugoso teso
nello sforzo di avvicinare il suo viso al mio.
-
E allora cosa vuoi? -, chiese, facendo schioccare la lingua. Sembrava
divertito
da quella inaspettata contrattazione ed al contempo spaventato da un
mio
possibile diniego.
-Voglio
entrare nel Reggimento dei Biotecnici al termine
dell’addestramento-, sputai
fuori velocemente, come se le parole potessero risultare meno
sconvolgenti in
quel modo.
Il
dottore si lasciò cadere contro lo schienale della poltrona
e virò il suo
sguardo fuori dalla finestra. Sembrava ci stesse riflettendo
seriamente.
-Non
ti è vietato tentare quella strada. Perché mi
stai chiedendo il permesso? -.
-Sappiamo
entrambi che il test non è alla portata di nessuna di noi
Custodi-, cominciai,
raccogliendo da terra la testa di quella che doveva essere stata una
sirena di
porcellana. Fobos aveva davvero fatto un bel macello.
-Mi
stai chiedendo di farti ammettere con l’inganno? -,
domandò Upokrates. Forse
sperava di farmi sentire sporca nell’avanzare una richiesta
del genere, ma non
avrebbe funzionato. In fin dei conti anche lui mi aveva tentato con
proposte
allettanti affinché mi vendessi. Era stato lui il primo ad
essere scorretto e,
da quanto avevo origliato, non si poteva certo dire che
quell’uomo fosse in
generale un esempio di moralismo e rettitudine.
-
Quello che sto chiedendo è di ottenere una giusta ricompensa
per vendere il mio
corpo alle vostre sperimentazioni-.
Upokrates
fece scivolare gli occhiali lungo il naso, segno che stava calando le
sue
difese. Sapeva che la mia richiesta era più che legittima e
sapeva anche che
non avrei accettato ulteriori trattative: se dovevo rischiare di
rivelare la
mia natura a persone di cui non ero capace di fidarmi, perlomeno avrei
tirato
l’acqua al mio mulino.
-Perfetto.
Ne parlerò con il Generale Deimos e otterrai ciò
che desideri, oltre al denaro
che ti spetta ovviamente-.
Annuii
in silenzio, poi mi alzai, controllando l’orologio a pendolo
nell’angolo della
stanza. Era molto tardi.
-E’
stato un piacere. Arrivederci-, dissi frettolosamente, lasciando il
medico alle
sue occupazioni.
Dovevo
fare in fretta: l’allenamento stava per iniziare.
Congedatami
da Upokrates, mi diressi a grandi falcate verso il cortile nel quale
avremmo
iniziato l’addestramento. Davanti alla recinzione che
separava quest’ultimo dal
resto, vidi Aracne aggrappata alle maglie metalliche. Guardava le
matricole
che, arrivate prima, stavano scaldando i muscoli con una corsetta
moderata.
Aveva lo sguardo perso, come se desiderasse anche lei fare parte di
quel
gruppo.
-Buongiorno!
–la salutai, poggiandole una mano sulla spalla. La donna
rispose con un sorriso
forzato e mi strinse con forza il braccio.
-Buongiorno
a te, Astreya. La divisa ti sta molto bene-.
Non
era vero. La divisa era spaventosa: era nera come
l’inchiostro con inserti di
metallo lucido che mi facevano apparire come un soldato spietato e
senza cuore.
Quando la mattina mi ero guardata allo specchio, avevo provato un moto
di
disgusto verso me stessa e verso quel nuovo mondo che stavo per
scoprire. Avevo
provato odio per quei capelli lunghi e scuri che mi avevano portata
fino a lì,
tristezza per quel viso pallido che ben presto avrei visto tramutarsi
in quello
di un assassino e amarezza per essere riuscita a liberarmi del Tempio
solo per
ricadere poi in una nuova prigionia. Tuttavia avevo stretto i denti e
il mio
riflesso si era animato della luce della volontà, quella
volontà che mi avrebbe
spinto a sopravvivere, a volgere a mio favore tutti gli ostacoli che mi
sarei
trovata innanzi. Perché non avevo intenzione di arrendermi,
non finché il mio
corpo avesse avuto la forza per lottare e la mia mente la
lucidità di seguire
le mie membra.
-Grazie.
Vediamo un po’ come si combatte da queste parti. Sembra che
non bastino le
preghiere…- sorrisi, sforzandomi di alleviare le
preoccupazioni di Aracne. In
fondo ai suoi occhi, infatti, vedevo il senso di colpa per avermi
spinta,
sebbene involontariamente, ad abbracciare quella vita.
-Vorrei
poter esserci io al tuo posto-, mormorò mentre varcavo il
cancelletto che mi
avrebbe portato dentro quella gabbia da combattimento.
-Non
dirlo nemmeno per scherzo-, commentai seria, lasciandomela alle spalle.
La
osservai solo qualche istante mentre si allontanava. Avrei voluto
abbracciarla
e stringerla forte. Ma non potevo farlo, non ora che tutte le matricole
mi
stavano osservando. Sapevo che non sarei passata inosservata, con i
miei
capelli lunghi e il mio corpo magro, ma mai avrei creduto che quella
mattina
tutti gli occhi sarebbero stati puntati su di me. Dyte, già
arrivata sul luogo,
si era integrata perfettamente con il suo cranio accuratamente rasato e
la
muscolatura soda e guizzante tipica delle Demoniache. Aveva una luce
folle
negli occhi e riuscivo a percepire il suo desiderio di azione. Medeya,
invece,
non c’era. Salutai Dyte e, assieme a lei, cominciai a
riscaldare i muscoli. Fu
più difficile del previsto. Dopo anni di trattamenti e
privazioni, il mio corpo
era debole e rispondeva a fatica. Sentivo ogni singola articolazione
scricchiolare sinistra e il sudore imperlarmi il volto anche per il
minimo
sforzo.
-Sei
fuori forma-.
-Già-
ammisi- Erano anni che non facevo allenamento fisico-.
Dyte
si fermò e io feci lo stesso. Ci asciugammo il sudore dalla
fronte e ci
abbeverammo ad una piccola fontanella di acqua calcarea. Non aveva il
sapore
cristallino della fonte da cui attingeva il Tempio, ma almeno era
dissetante e
fresca.
-Dov’è
Medeya? -, domandai mentre con la coda dell’occhio osservavo
i movimenti delle
altre matricole. Ero brava a prendere spunto dalle mosse degli altri ed
imparavo in fretta. Saper osservare era il mio migliore pregio.
-
Arriva in ritardo. L’Accademia ha ritenuto giusto non
sradicarla completamente
da Iatro. In fondo, senza le sue lezioni, Medeya finirebbe con
l’essere una
Guaritrice come un’altra, una Custode senza grandi
potenzialità-.
Il
cinismo con cui parlava Dyte mi infastidì leggermente.
Sapevo che non era
intenzionale e che si trattava di semplici asserzioni oggettive, eppure
la
mancanza totale di coinvolgimento che mostrava mi faceva pensare che in
caso di
aiuto non avrei potuto contare su di lei.
Una
matricola si staccò dal gruppo e gentilmente ci corse
incontro. Ci informò che
la sirena stava per suonare e che avremmo dovuto allinearci per
assistere
all’ingresso dell’allenatore. Non ci facemmo
attendere e seguendo quella
recluta, ci posizionammo nelle retrovie. Accanto a me, Dyte pareva
eccitata.
-Vedrai
che tipetto l’allenatore-.
Me ne ero quasi scordata.
Avevo perso il mio
primo addestramento e con esso le premesse di tutto quanto il Training.
Non
avevo ancora conosciuto il mio istruttore né avevo potuto
familiarizzare con i
miei colleghi. Ero
rimasta indietro già
prima di cominciare, ma non avevo intenzione di restare in quella
situazione di
svantaggio ancora per molto: avrei acquisito l’esperienza che
mi mancava
osservando accuratamente ogni singola matricola ed avrei imparato da
loro quello
che avrei dovuto fare e come avrei dovuto farla. Per prima cosa studiai
i
sentimenti che agitavano i cuori dei giovani che si erano assiepati
ordinatamente nel cortile. Notai subito la serpeggiante angoscia che
infiammava
gli animi di coloro che mi stavano attorno. Dyte era l’unica
ad avere un’espressione
serena e questo mi fece supporre che il primo incontro con
l’allenatore fosse
stato traumatizzante per la maggior parte di loro. In secondo luogo,
osservai
la posizione che tutti i presenti avevano assunto: tutte le matricole
avevano
appoggiato una mano sul petto e avevano sollevato il mento. Mi
tornò alla mente
il saluto che i soldati nelle guardiole avevano riservato a Deimos la
prima
volta che avevo varcato i cancelli dell’Accademia e capii che
quello era il
saluto militare che avrei dovuto riservare ai miei superiori. Mi misi
nella
stessa posizione degli altri e attesi.
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Capitolo 10 *** Capitolo 9- Un ciclope con due occhi ***
Capitolo 9
Rimanemmo
immobili per una decina di minuti, mentre un vento sferzante ci
penetrava sotto
la divisa e ci raffreddava i muscoli. La bandiera con lo stemma del
leone
ruggente sbatacchiava impazzita contro il palo che la innalzava al
cielo.
Sembrava che l’unica altra cosa a muoversi fossero le nuvole
sopra le nostre
teste, che per il resto il tempo si fosse fermato.
Poi un gruppetto di quattro uomini uscì
dall’edificio principale di fronte a noi, rompendo quello
strano incantesimo ed
entrando nel nostro campo visivo. Erano tre uomini e una donna. Il
primo era
Deimos, lo avevo riconosciuto subito. Il secondo era un soldato basso e
tarchiato
con una lunga barba brizzolata attorcigliata in tre grosse trecce
spesse,
mentre il terzo era un uomo alto e muscoloso con i capelli corti e
bianchi.
Aveva il corpo completamente tatuato con raffigurazioni di quelli che
mi
sembravano dei draghi e al naso gli pendeva un anello di colore nero.
Rimaneva
solo la donna, in ombra dietro di loro. Non riuscivo a vederla e non
riuscivo
nemmeno a capire se ci stesse guardando o se fosse lì per
prendere appunti.
Vedevo soltanto il display traslucido che teneva in mano.
-Buongiorno,
soldati! -, esclamò l’uomo con i tatuaggi. Fece un
passo avanti, rivelandosi
alla luce della mattinata. Era veramente spaventoso. I suoi occhi erano
di un
azzurro ghiaccio e le sue labbra erano pallide e tese in un ghigno
sadico.
-
Questa mattina verrete iniziati al combattimento corpo a corpo. Ancor
prima di
imparare a imbracciare un fucile o una katana, infatti, dovrete saper
affrontare il nemico a quattr’occhi studiandone le reazioni e
lottando per la
vostra sopravvivenza. Spesso in guerra molti di noi si sono ritrovati
feriti e
disarmati, e solo allora i veri combattenti hanno dimostrato il loro
valore.
Quello che vedete di fronte ai vostri occhi è uno di quelli.
–
L’uomo
basso e tarchiato fece un passo avanti. Aveva gonfiato il petto e si
era
prodigato in un perfetto saluto militare. Sembrava orgoglioso della
presentazione che aveva ricevuto e nei suoi occhi aleggiava la fiamma
splendente del trionfo.
-Quest’uomo
è Efesto, maestro nell’arte delle Energie Libere-,
continuò il tizio tatuato e
un coro di “Oh” meravigliati attraversò
la folla. Doveva trattarsi di qualcuno
di conosciuto o non si sarebbe sparsa fra i miei compagni quella
indomita
euforia. Qualcuno addirittura fischiò, ma Deimos intervenne
subito per
zittirlo. Il benché minimo rumore era insubordinazione per
quel giovane.
-Buongiorno,
reclute. Oggi impareremo i primi rudimenti di questa antica arte. Sono
contento
di essere qui e di potervi mostrare quello che a mie spese ho appreso-,
disse
Efesto, mostrando al pubblico la gamba destra. Inizialmente non capii
cosa
volesse mostrarci, ma poi lo vidi. Dietro il pallido rosa della pelle
si
intravedeva un intrico di cavi e di minuscoli ingranaggi neri. Era una
gamba
meccanica di grande manifattura, una protesi di ultima generazione che
non
tutti avrebbero potuto permettersi.
-
Questo è ciò che mi è successo a
ventitré anni quando per la prima volta ho
partecipato alla battaglia. Non ero pronto, nessuno mi aveva insegnato
come
sopravvivere. Eppure sapevo che dovevo farcela e così mi
sono ribellato. Ho
ucciso il nemico, ma ho perso una gamba. Da allora ho studiato e ho
cercato di
imparare l’arte delle Energie Libere così che gli
avversari non fossero più in
grado di prendermi alla sprovvista-.
Il
racconto fuoriusciva ruvido e incalzante dalle sue labbra, mentre
l’uomo
passava ad uno ad uno i visi delle matricole. Quando i suoi occhi
incontrarono
i miei, ebbero un guizzo, un luccichio di eccitazione. Poi, come
riscosso dalle
sue riflessioni, Efesto avanzò fra di noi e
cominciò a descriverci cosa avremmo
potuto ottenere dalle tecniche che ci avrebbe mostrato.
Si
ripromise di insegnarci ad incanalare l’energia in una
precisa parte del corpo per
riuscire poi a sprigionarla all’esterno tramite
l’azione dei muscoli. Questo ci
avrebbe dato la possibilità di colpire il nemico con molta
più forza, senza
disperdere troppa energia in altre parti del corpo.
Nonostante
tutte le parole pronunciate avessero il sapore della novità
e dell’esotico al
primo ascolto, per me e per Dyte avevano ben poco dello straordinario:
con
quello che ci iniettavano al Tempio avevamo singolarmente il doppio
della forza
di tutte quante le altre reclute messe assieme. Istintivamente, quindi,
un
sorriso divertito mi si dipinse sul volto e le mani mi formicolarono di
piacere. Per una volta noi Custodi avremmo potuto dimostrare di valere
qualcosa
anche al di fuori del Tempio e delle preghiere.
La
teoria delle Energie Libere non la ascoltai nemmeno: conoscevo
perfettamente il
modo per incanalare la mia energia ed avevo già tutti gli
strumenti che mi
servivano per farlo. Vedevo meglio degli altri, sentivo meglio degli
altri e,
anche se non ero propriamente una Demoniaca, ero molto più
forte di quei
ragazzi. Il primo che mi ritrovai contro, infatti, durò
pochi minuti. Lo colpii
con un pugno sulla mascella e sentii le ossa sotto le mie dita
scricchiolare e
cedere. Cadde a terra e mi fece un cenno di resa. Rimase piegato sulle
ginocchia qualche istante, mentre si massaggiava il mento, poi venne
sollevato
in piedi da Deimos e accompagnato ad un angolo del cortile. Lo seguii
con lo
sguardo per tutto il tempo, finché si sedette a terra con il
capo reclinato.
Non avevo mai combattuto prima eppure il mio istinto sembrava essere in
grado
di guidarmi alla perfezione. Ero colta da una lucida follia,
l’istinto del sangue
alimentava i miei muscoli e non vedevo l’ora di trovarmi
innanzi qualcun altro
per riprovare la sensazione di vittoria che avevo appena assaporato.
Approfittai
del momento di calma per osservare i miei compagni. Dyte, poco lontana
da me,
stava lottando contro un ragazzo tutto nervi con una violenta epistassi
al
naso. Sudava e ansimava, ma stava decisamente avendo la meglio. Non era
ferita e,
anzi, rideva eccitata. A pochi passi da lei due ragazzi si stavano
picchiando a
terra, avvinghiati in un abbraccio feroce, e dietro di loro un ragazzo
magro si
stava arrendendo ad una donna muscolosa. Poco più distante,
infine, scorsi con
la coda dell’occhio anche Medeya, giunta chi sa quando.
Lottava contro un’altra
donna, ma non sembrava cavarsela altrettanto bene.
-Eccomi-.
Sobbalzai.
Un ragazzo con i capelli rossi rasati ai lati aveva preso il posto del
mio
precedente avversario. Era già ferito ad un labbro, per cui
ipotizzai fosse
uscito vincitore da un precedente scontro. In effetti, avevo notato che
il
numero di combattenti attorno a noi stava diminuendo a vista
d’occhio mentre le
fila dei ragazzi lividi e feriti aumentavano e occupavano ormai tutto
il perimetro
del cortile.
Mi
misi in guardia un secondo dopo che lo fece il rosso e iniziammo la
danza della
lotta. Ci squadrammo qualche istante in silenzio, osservandoci e
studiandoci.
Da come si muoveva e dalla sua aura indaco fiammeggiante, capii che
quel ragazzo
non era un uomo avventato e che come me amava comprendere la logica
dell’avversario prima di colpirlo. Perciò, dovevo
agire in maniera irrazionale
e prenderlo in contropiede prima che potesse interpretare le mie mosse.
Scattai, quindi, in avanti e, volontariamente, lasciai che il mio busto
si
protendesse eccessivamente verso di lui. Il pugno del soldato si
infranse con
forza contro il mio zigomo destro facendomi perdere
l’equilibrio. Sapevo che avrebbe
approfittato di quello sbilanciamento per colpirmi ad un fianco, per
cui lo
assecondai e finsi di scivolare a terra. Quando vidi il suo pugno
caricarsi e
partire, raccolsi un mucchietto di polvere e detriti e glielo lanciai
con forza
negli occhi. Era leale? Non mi importava. Il rosso
indietreggiò portandosi le
mani al viso e io colsi l’occasione per spazzargli le gambe e
farlo ruzzolare a
terra. Cadde con un tonfo sordo proprio mentre Efesto ci passava
accanto.
-Complimenti,
Custode. Il suo nome? –
-Astreya,
Signore! -, esclamai, rimanendo in piedi con la postura eretta. A
quanto ne
sapevo faceva sempre una buona impressione avere la schiena dritta e il
portamento fiero.
- Bene, molto bene.
Il prossimo! -, gridò di
riflesso l’uomo, quando il povero soldato dai capelli rossi
venne allontanato a
bordo campo. Eravamo rimasti in pochi e persino Dyte era stata
eliminata. La
intravidi fra due reclute, seduta con un tampone nel naso. Aveva del
sangue sia
sul viso che sul collo. Rabbrividii, ma non lo diedi a vedere.
Preferivo che
tutti lì pensassero a me come ad una combattente fredda e
spietata piuttosto
che come ad una religiosa senza altro scopo nella vita se non pregare e
piangere ai piedi degli Dei. Era scattato qualcosa dentro di me,
qualcosa di
ancestrale come la rabbia che covavo sin da piccola. C’era
una scintilla nel
mio stomaco che mi faceva tremare e vibrare come una corda di violino.
Sentivo
l’adrenalina scorrermi attraverso le vene e fluire attraverso
il corpo, preziosa
linfa vitale. Era come se mi stessi vendicando di tutti gli anni di
amarezze e
di tutte le delusioni che fino ad allora ero stata costretta ad
ingoiare.
Lottai
ancora una, due, tre, quattro volte. Non mi fermai mai più
di un minuto per
riprendere fiato tra un nemico e l’altro. Sentivo il mostro
dentro di me sempre
più affamato e la forza crescere a dismisura in tutto il
corpo. Mi stavo
drogando di violenza ed era una sensazione meravigliosa.
-Siete
rimasti soltanto voi due-
La
voce dell’allenatore, di nome Ares a quanto avevo sentito, mi
giunse lontana
come una eco sbiadita. Cominciavo
a
vedere sfocato e percepivo qualcosa salirmi dalle budella fin nella
gola.
Restare concentrata e mantenere il controllo si stavano rivelando due
azioni
più difficili del previsto. Sbattei gli occhi un paio di
volte cercando di allontanare
il sudore dalle ciglia. Poi tornai a guardare di fronte a me: non
c’era più lo
spiazzo libero del cortile, ma un uomo gigantesco, quasi ciclopico.
Muscoloso
come pochi, sembrava essere fatto di pura roccia. Aveva la pelle
coriacea e
scottata dal sole di chi lavora nei campi e il viso truce di chi ha
vissuto per
anni nella miseria e nella solitudine dell’egoismo altrui.
Non sembrava affatto
ferito: il sangue sulle nocche evidentemente non era il suo.
-Il
suo nome? -, chiese Efesto, leccandosi le labbra. Pregustava
già lo scontro.
-Polufemos-,
borbottò lui, osservandomi truce. Mi misi
d’impulso in guardia.
Ares,
comparso accanto al soldato, rise della mia mossa, gli diede una
pacchetta
sulla spalla e con voce tonante diede inizio allo scontro.
Non
ebbi nemmeno il tempo di formulare un pensiero razionale che
l’energumeno mi fu
addosso. Cercò di colpirmi con un montante, ma la bassa
statura e l’agilità mi
consentirono di schivare facilmente il pugno ruotando di lato. Mi ritrovai di fronte,
quasi fortuitamente,
il fianco scoperto dell’uomo, così attaccai con un
calcio laterale. Pensavo
sarebbe stato sufficiente per sbilanciarlo di quel tanto che bastava
per
spazzargli le gambe e farlo cadere a terra. Ma il mio piede
incontrò la strenua
e solida barriera dei suoi addominali laterali e venne respinto
indietro con
violenza. Fui, quindi, io a sbilanciarmi e per poco non finii con le
ginocchia
sull’asfalto rovinato. Lo vidi, quindi, caricarmi. Riuscii a
stabilizzarmi, non
persi tempo e mi preparai all’impatto. Raccolsi le braccia a
croce di fronte al
viso e attesi. Il colpo arrivò così impetuoso che
tutto il mio corpo ne
risentì. Scivolai qualche passo indietro, sospinta dal pugno
della matricola.
Imprecai: di quel passo non sarei mai riuscita a cavarmela. Quel
ragazzo
combatteva con la disperazione e la vendetta negli occhi. Non avrei mai
potuto
contrastare la sua motivazione e la sua prestanza fisica, dovevo
giocare di
astuzia. Per i primi minuti, interminabili, mi limitai a subire, parare
e
schivare, nel tentativo di fiaccarlo e di farlo cedere almeno un
po’. Poi,
cominciai a studiarlo: era lento, ma massiccio. Si muoveva goffamente,
ma
ragionava in fretta. I suoi colpi erano potenti, ma mancavano di
precisione,
precisione che invece io avevo in abbondanza. Riuscii, infatti, ad
individuare
quattro zone che avrei potuto provare a colpire per farlo capitolare:
inguine,
ascelle, tempie e collo. Insomma le parti molli. Dovevo,
però, evitare gli
attacchi pericolosi, come ci era stato richiesto, per cui esclusi
subito il
collo e le tempie. Sull’inguine avevo qualche riserva, ma se
avessi continuato
a depennare gli attacchi possibili mi sarei ritrovata nuovamente con un
pugno
di mosche in mano. Vidi il calcio partire prima che potesse cogliermi
di
sorpresa. Mi slanciai in avanti, scivolando sulle ginocchia, e
colpendogli
l’incavo della gamba con la nocca dell’indice. Il
gigante mugolò di dolore e fu
costretto a chinarsi. Ne approfittai e gli afferrai un braccio,
ruotandolo e
curvandoglielo dietro la schiena. Spinsi in avanti e gli balzai addosso
da
dietro, a piedi pari, dandogli la spinta che lo fece cadere di faccia.
Quando
fu a terra, non attesi un secondo di più e mi arrampicai
sulla schiena spaziosa
per immobilizzarlo. Lo vidi troppo tardi. Il soldato, probabilmente
spinto
dall’onta di una possibile sconfitta perpetrata da una
giovane donna senza
esperienza, aveva estratto dalla cinta dei pantaloni un pugnale dalla
lama
sghemba e si era voltato rapidamente per accoltellarmi. Scansai di
lato, con il
cuore che aveva preso a battermi all’impazzata, ma il filo
dell’arma riuscì
comunque a rigarmi una guancia. Sentii il sangue farsi largo nel solco
della
ferita e scivolarmi lento sulla pelle. Lo pulii in fretta con la mano.
-Toglietegli
quel coltello! -, gridò Dyte alle mie spalle. Si
unì a lei persino un timido
coro di reclute.
-E’
sleale! -, esclamò qualcuno.
Ares, a qualche
metro da noi, fece un passo
avanti per far terminare l’incontro, ma Efesto lo
fermò sbarrandogli la strada
con il braccio. – Lascia che proseguano-,
bisbigliò.
Due
secondi dopo l’elsa del pugnale di Polufemos mi
colpì il naso e mi scagliò di
lato, a ridosso degli spettatori. Iniziai ad annaspare, respirando e
inghiottendo il mio stesso sangue. Non vedevo più se non
qualche ombra: stavo
svenendo. Tra un fotogramma e l’altro, però, vidi
Polufemos correre nella mia
direzione e sentii un insieme di mani sollevarmi e spingermi in piedi.
Le
assecondai cercando di riprendermi in fretta.
-Attenta!
-, udii al mio fianco, così mi gettai a sinistra, in
direzione opposta. Il mio
avversario, infatti, aveva appena attaccato, ma era finito contro la
rete
metallica grazie al pronto intervento di qualcuno.
-
Eddai, ragnetto. Vieni qui-.
La
voce di Polufemos era viscida e disgustosa. C’era qualcosa di
febbricitante nel
suo sguardo, qualcosa che mi faceva tremare le viscere. Mi allontanai
in fretta
da lui, sforzandomi di pensare. Lo osservavo avvicinarsi, senza
riuscire a fare
nulla se non farmi prendere dal panico: non potevo competere se ero
disarmata.
Osservai il luccichio sinistro della lama e mi convinsi di non avere
altra
scelta. Comunicai silenziosamente con il mio piccolo mostro. Era da
tanto che
non lo lasciavo uscire temendo poi di non avere più il
coraggio di rispedirlo nell’oscurità
della mia gabbia toracica. Tuttavia ora non mi pareva di avere altre
scelte se
non quella. Inspirai.
-Arriva!
Spostati-.
Espirai.
-Ehi,
ti farai uccidere! –.
Rilassai
i muscoli.
-Fateli
smettere. Ve ne prego! –.
Incanalai
la mia forza nel braccio sinistro, il braccio preferito dal mostro.
-Ha
un coltello! –.
Sentii
la calma sciogliere ogni fibra nervosa e una glaciale sicurezza
carezzare il
mio cuore. Sentii la creatura che ospitavo aggrapparsi con forza a me e
spingere affinché cedessi e diventassimo una cosa sola.
-Forza
Polufemos! Sei tutti noi! -.
Cedetti
e sentii la sua forza unirsi alla mia ed esplodere in un desiderio
spietato di
distruzione e vittoria. Osservai, senza la benché minima
emozione, l’enorme
corpo di Polufemos avanzare verso di me con la minaccia della morte sul
filo
dell’acciaio. Quando fu abbastanza vicino sollevò
il pugnale sopra la mia testa
e fece per calarlo.
Qualcuno
gridò. Deimos cercò di scattare in avanti, ma
venne fermato da Efesto. Ares,
ancora immobile dietro al braccio del collega, aveva gli occhi
spalancati dal
terrore.
Dyte
si coprì il volto con le mani, incapace di muovere un passo.
Sorrisi.
Mi davano tutti per spacciata, nessuno avrebbe scommesso su di me.
Un
secondo prima che la punta del pugnale affondasse nella carne morbida
del mio
collo, però, riuscii ad abbassarmi, spostandomi di lato, e
con tutta la forza
di cui ero in possesso colpii le costole del soldato. Sentii le nocche
penetrare nella sua carne, reciderla, sfondare la resistenza dei
muscoli e
bagnarsi di sangue. Polufemos accusò il colpo malamente e si
ritrovò sbalzato
via, lui che era così massiccio e stabile. Si
sbilanciò all’indietro, tenendosi
il fianco, e io non esitai. Mi lanciai su di lui, intercettai la mano
armata e
la girai fino a farla scrocchiare. Il coltello cadde tintinnando a
terra. Lo
recuperai e mi avvicinai all’uomo, rimasto supino a terra.
Osservai
con immenso piacere la sua espressione di terrore e vergogna; quando
sollevai
il pugnale, chiuse gli occhi e una lacrima gli scivolò lungo
la guancia sporca
di sangue. Del mio sangue. Potevo fargli quello che lui aveva fatto a
me,
fargli provare quella sensazione di impotenza e di imminente fine. Ma
non lo
feci. Lasciai cadere il pugnale accanto al suo volto e mi voltai in
direzione
di Efesto.
-Può
bastare, Signore? -.
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 10- Figli del Vento ***
Capitolo 10
Dopo
l’incontro, Polufemos venne immediatamente allontanato dalla
donna con il
display e da Deimos stesso. Non ci furono applausi di commiato per lui,
a parte
qualche sommesso fischio. Sapevamo che per ciò che aveva
fatto gli spettava una
punizione esemplare e perciò, chi più chi meno,
eravamo tutti tesi. Non si
udiva alcun rumore attorno a noi. C’era chi rifletteva su
quanto aveva fatto
Polufemos, chi guardava me con terrore o con invidia, e c’era
anche chi
guardava Efesto con occhi di rimprovero e disprezzo. Efesto, dal canto
suo,
sembrava immune da tutti quegli occhi che lo osservavano e camminava
tranquillo
al centro del cortile, in direzione di una chiazza rosso sangue che
aveva
attirato la sua attenzione. Rise sommessamente quando raccolse il
coltello
insanguinato da terra. Ci chiese se qualcuno di noi fosse a conoscenza
del
fatto che Polufemos possedesse un’arma bastarda, non
autorizzata e per giunta
non del campo, ma nessuno si fece avanti per prendersi la colpa,
né Efesto si
aspettava davvero che qualcuno lo facesse.
Rigirò
qualche secondo la lama fra le dita, sfiorando con i polpastrelli la
lama
sghemba, poi la consegnò ad Ares. Chi sa che cosa ne
avrebbero fatto. Non era
un’arma santificata agli Dei, per cui presupposi che
l’avrebbero fusa e
avrebbero riutilizzato il metallo per altre applicazioni.
-Desidererei
un colloquio con lei. Subito-, sussurrò Efesto mentre mi
passava accanto. – Mi
segua-.
Ares,
ricomparso alle mie spalle, mi sospinse in avanti e mi
scortò fin dentro
l’edificio principale, come fossi una prigioniera. I suoi
occhi cerulei mi
pugnalavano la schiena con forza e la mano con cui mi sospingeva in
avanti
esitava incerta fra le mie scapole. Quando ci ritrovammo in un
corridoio lungo
e luminoso, Ares mi lasciò camminare sulle mie gambe e
raggiunse a grandi
falcate Efesto, lontano da noi solo di qualche passo. Cominciarono a
borbottare
fra loro, limitandosi solo a qualche occhiata fugace ed emozionata
nella mia
direzione.
Salimmo,
quindi, su un ascensore metallico senza specchi, ma con una luccicante
pulsantiera nera. Era la mia prima volta su una macchina di quel genere
e la
strana sensazione di vuoto sotto ai piedi mi terrorizzava
più di quanto non
facessero le due presenze maschili al mio fianco. Sarebbe bastato poco
per
scivolare in basso, nel vuoto. L’ascensore emise un trillo
quando arrivammo a
destinazione e mollemente ci depositò in un piccolo atrio
con il pavimento in
linoleum. La luce rifletteva sul pavimento irradiandosi nella stanzetta
con un
alone celeste, ultraterreno. Dalla finestra alla mia sinistra vedevo il
cortile
in cui avevo sconfitto il gigante.
-Per
di qua-.
Svoltammo
a destra, lasciandoci il cortile alle spalle, e di fronte a noi, dopo
un breve
corridoio, comparve una porta anonima. La targhetta accanto
all’uscio riportava
il nome di Ares. Accedemmo proprio grazie al badge di
quest’ultimo e facemmo il
nostro ingresso in uno studio spoglio, ma con una quantità
incredibile di armi
appese alle pareti.
Ares
andò alla sua scrivania, perfettamente lucida e,
probabilmente, mai usata. Si
accomodò di schianto e mostrò ad Efesto
un’altra comoda sedia accanto a lui. Io
rimasi in piedi di fronte a loro, come la vittima di una fucilazione.
Raccolsi
le mani dietro alla schiena e le strinsi in una morsa di autocontrollo.
-Polufemos
non riceverà alcuna punizione per quello che ha fatto-,
cominciò Efesto, mentre
ad Ares spuntava un sorriso sardonico sulle guance magre.
Annuii
perplessa e lasciai che l’uomo continuasse a parlare. Ma, al
posto che
rivolgersi a me, l’attenzione di Efesto si spostò
su Ares.
-Ottima
recita! Nemmeno il Generale Deimos ha sospettato qualcosa. Si
farà una grassa
risata quando leggerà il verbale…-
C’era
aria di presa in giro in quell’ufficio e una gocciolina di
sudore cominciò a
scivolarmi lenta lungo il profilo della mascella.
-Scusate,
desidererei poter essere messa al corrente della questione, o se non
sono qui
per questo, vorrei essere congedata-, commentai, certa che il mio tono
irritato
non fosse passato inosservato a nessuno dei due. Efesto
ridacchiò e cedette la
parola al suo collega.
-
Certamente. Quello che desidero dirle è che
l’esercitazione di oggi era mirata
a redigere una classifica delle dieci migliori promesse del gruppo.
Eravamo intenzionati
a mettere gli occhi su almeno cinque reclute, ma lei ha sbaragliato
ogni
aspettativa. Si è fatta terra bruciata attorno…-
-Lei
crede? -, dissi io, leggermente nervosa. –Io credo solo di
avere fatto il
necessario per sopravvivere-.
-No,
Signorina, non è così. Lei ha vinto, non
è sopravvissuta! -, si intromise
Efesto, protendendosi in avanti. – Sopravvivere è
quello che ho fatto io quando
mi sono ritrovato un moncherino al posto del polpaccio. Lei ha saputo
reagire
ad una situazione di pericolo imprevisto, situazione che nemmeno un
quarto di
quelle giovani matricole avrebbe potuto gestire. Ha compreso appieno il
senso
della mia lezione e si è dimostrata un’ottima
osservatrice-.
-Quel
giovanotto che avete affrontato-, continuò per lui Ares- era
il più piccolo dei
sei figli di Efesto. Era stato istruito fin dall’inizio
affinché al momento
dello scontro con l’ultimo avversario estraesse il coltello.
Sappiamo che
Polufemos ha doti fuori dal normale e si allena sin da quando aveva
cinque anni
nel padroneggiare le Energie Libere. Sapevamo con certezza che avrebbe
vinto,
ma volevamo vedere fino a che punto avrebbe lottato e resistito il suo
ultimo
rivale-.
Ripensai
al colpo che avevo sferrato a Polufemos per farlo capitolare e risentii
la sua
pelle aprirsi sotto le mie dita in una catena dolorosa di microferite e
abrasioni. Mi sentii ancora più in colpa: quel ragazzo era
stato costretto a
tirare fuori quel coltello, aveva solo rispettato gli ordini. Non aveva
mai
voluto farmi del male di proposito. Ancora una volta la sensazione di
essere
stata usata mi attanagliò lo stomaco facendomi rivoltare le
interiora.
-
Se avessi disarmato il soldato e attaccato io stessa con la sua arma,
avrei
potuto ucciderlo…-
Efesto
socchiuse gli occhi.
-Era
un rischio che dovevamo correre, tutti quanti-, mormorò. La
luce alle sue
spalle brillava dello stesso oro pallido di cui era intessuta la sua
aura colore
inchiostro. Sembrava avere la brace dentro e una sicurezza inumana.
-Lei
avrebbe sacrificato suo figlio? -, domandai, osservando la reazione di
Ares
alla mia domanda. Non pareva per nulla turbato, ma la piega delle
sopracciglia
folte mi faceva pensare di averlo irritato. Forse riteneva che non
fossi io a
dovere fare domande né tantomeno proferire giudizi. Eppure
non potevo fare a
meno di pensare che solo un uomo freddo e senza cuore avrebbe rischiato
la vita
del figlio in una banale esercitazione.
-
Alla fine arriva sempre il giorno in cui i genitori devono smettere di
prendersi cura dei figli, o essi cresceranno inetti e indifesi,
prostrati ai
piedi della morte ancora prima di essere vecchi. Il padre non ci
sarà per
sempre a proteggere la prole-.
Ares
annuiva in silenzio, tuttavia i suoi occhi erano velati di una grigia
tristezza.
-E
se qualcuno fosse intervenuto e avesse attaccato suo figlio? Lei
avrebbe posto
fine al combattimento? –
-
Avrei posto fine allo scontro solo se fossi stato certo della morte di
uno di
voi, ma non avrei impedito alle altre reclute di venire in tua o sua
difesa.
Quello che ho fatto è stato dare pari opportunità
a ciascuno di voi soldati
novelli, così da studiare il vostro carattere e le vostre
inclinazioni-.
-
Ma Polufemos era avvantaggiato-.
-
Lo è stato soltanto nel momento in cui ha estratto il
pugnale. Io amo mio
figlio e l’ho istruito come avrei voluto mi avesse istruito
mio padre. Finché
sarò io a spingerlo oltre il limite e a testarlo,
avrò la certezza che stia
diventando l’uomo che deve essere. Sarà, infatti,
lui un giorno a prendere il
mio posto e quando sarà il momento vorrei che avesse ancora
entrambe le gambe-.
Potevo
capire la logica secondo la quale quell’uomo parlava, ma non
riuscivo a
togliermi dalla mente la disperazione di Polufemos quando mi aveva
vista
troneggiare su di lui, la lama in pugno. Con un solo veloce colpo avrei
potuto
tagliargli la gola e suo padre non avrebbe nemmeno avuto il tempo di
porre fine
a quell’assassinio senza senso.
-Non
vorrei sembrarle un pazzo o, peggio, sconsiderato. Lavoro
già da molti anni per
l’Accademia e già da molto tempo seguo alcuni
degli allenamenti. Ho selezionato
più di mille valorosi soldati che in battaglia si sono
rivelati poi dei veri
eroi. La maggior parte di loro tuttavia è tornata in patria
sopra lo scudo,
morta. E’ un sacrificio necessario quello del soldato.
Bisogna essere pronti a
perdere persino i propri figli pur di salvaguardare l’intero
popolo-.
Deglutii.
In parte ciò che diceva era terribilmente vero. I giovani
che si allenavano al
mio fianco, ispirati dalla giustizia e dall’onore, non erano
come me. Loro avevano
una famiglia, delle mogli e dei figli. Eppure erano lì, con
le armi in mano, a
rischiare la vita per gente che non avevano nemmeno mai conosciuto. Era
terribile e al contempo grandioso. Mi sentii completamente sopraffatta
da
quella sensazione e dovetti appoggiarmi alla scrivania per non svenire.
-Spero
di averla ispirata con queste mie parole. Ora, però, devo
giungere al sodo.
Desidero che lei si unisca a me e alla mia causa. Si
allenerà con me e con i
miei allievi selezionati almeno una volta al mese per i successivi sei
mesi e
al termine dell’addestramento le verrà rilasciata
la sua prima qualifica-.
Ares
si sollevò e mostrò orgoglioso una spilla di
lucente acciaio appuntata sulla
spalla.
-Si
avvicini e la osservi-.
Obbedii
mentre quegli occhi di ghiaccio mi seguivano, irrequieti. La spilla era
un tondo
perfetto con all’interno l’effigie di una libellula
dagli occhi cremisi. Non
avevo mai visto due pietre preziose così scure; al Tempio
avevo conosciuto
soltanto minerali smaglianti e colorati, come zaffiri azzurri e
smeraldi. Ce li
donavano i fedeli come ringraziamento per le grazie ricevute. La
trovavo una
consuetudine davvero inutile, ma in fin dei conti quei manufatti erano
molto
belli e attraenti e resistere al loro fascino era difficile.
-Questo
è il simbolo dei Figli del Vento-, disse Efesto sollevando
il mento e mostrando
al di sotto delle folte trecce un tatuaggio scuro a forma di libellula.
Strabuzzai gli occhi sorpresa: non pensavo che sotto alla barba Efesto
nascondesse
un tale segreto.
-
Figli del Vento? -, domandai, tornando a concentrarmi sulle parole
dell’uomo.
-Esattamente.
Si tratta di una setta di giovani uomini e giovani donne le cui
capacità
militari si fondono con una personalità spiccata, una
velocità di apprendimento
fuori dalla norma e una capacità innata di controllare alla
perfezione corpo e
mente-.
Ares
avanzò nella stanza, superando la cattedra e andando a
recuperare un vecchio
tomo dallo scaffale della piccola libreria accanto alla porta.
Soffiò sulla
copertina in pelle blu cobalto e depositò
l’oggetto di fronte ai miei occhi.
Era strano vedere un libro in “carne ed ossa” in
quel luogo. Pensavo che
soltanto il Tempio conservasse ancora vivi quegli esemplari antichi e
misteriosi: in fondo ormai tutta la letteratura del mondo era
disponibile in
formato digitale sulla Rete della Magna Teca e non c’era
alcun bisogno di
abbattere altri alberi. Afferrai il tomo con reverenza e ne accarezzai
la
copertina in cuoio.
-Qui
c’è scritto tutto quello che deve sapere sulla
nostra setta, tutte informazioni
utili per la sua scelta. La preghiamo vivamente di non sottovalutare la
proposta del Signor Efesto. Poche opportunità sono concesse
alle reclute per
emergere-.
-
Non abusi della mia buona volontà. Non concederò
una seconda occasione a chi mi
volta le spalle. Perciò prenda il suo tempo per riflettere-.
Il
pomeriggio trascorse placido, nonostante le parole di Efesto mi
avessero scossa
e tormentata per almeno buona parte del giorno. Il parco dietro
l’Ospedale era
in fin dei conti accogliente e presentava una grande varietà
di fiori. Le
aiuole erano perfettamente curate e ordinate, ma facevano davvero uno
strano
effetto se paragonate all’immensa recinzione che le
spalleggiava. Colsi una
grossa margherita rosata e la rigirai tra le mani, pensierosa.
-Dovresti
proprio cominciare a dare un’occhiata a quel libro-, mi
rimproverò Aracne,
notando che mi ero cacciata il vecchio tomo sotto il sedere e
lì lo avevo
lasciato a svolgere il ruolo che gli competeva: fare sì che
la rugiada sulla
panchina non mi bagnasse la divisa. Era già stato un
problema scrostare le
macchie di sangue.
-Dovrei,
lo so. Ma a che scopo? Non credo che farei bene ad assecondare un uomo
che
baratterebbe la vita del figlio per uno spettacolo interessante-,
obiettai,
ironica. Aracne
accennò con la testa.
Aveva ascoltato il resoconto della mia mattinata con estrema attenzione
e il
suo sguardo preoccupato si era più volte soffermato sulle
ferite appena
medicate. Mi aveva sfiorato il viso e aveva sospirato. Sapevo che
Aracne
avrebbe voluto avere un fisico forte e robusto, ma ringraziai che gli
Dei le
avessero donato le delicate membra di una falena notturna. Almeno non
avrebbe sofferto
come avrei sofferto io.
-Credo
che dovresti prendere in considerazione ogni opportunità,
per te stessa. So
quanto il Tempio ti stesse stretto. Nemmeno tutti gli onori e le
regalie hanno
saputo piegarti-, disse sorridendo. Dietro a quel volto di porcellana
intravedevo il senso di colpa. Aracne amava la vita al Tempio e faceva
il
possibile per accaparrarsi vesti preziose o doni esotici. Li mandava a
casa
sua, dove le tre donne della sua famiglia li rivendevano a un buon
prezzo e si
garantivano una piccola scorta di provviste di emergenza. Non trovavo
ci fosse
nulla di cui vergognarsi, ma più di una volta, Aracne si era
definita ladra e
indegna.
-Ci
penserò in tal caso. E ti prometto che darò uno
sguardo al libro-.
Aracne
mi prese la mano fra le sue e, con gli occhi cerchiati da bianche e
sottili
rughette, mi augurò buona fortuna. Ne avrei avuto proprio un
gran bisogno.
Dopo
dei rapidi saluti ci separammo e io mi misi in cerca di una biblioteca
o di un
luogo tranquillo dove poter cominciare a leggere il testo. Vagai per
almeno
mezzora, tra un piano e l’altro del grande edificio
all’entrata del Campo, ma
per quanto domandassi e per quanto girassi non riuscii a trovare un
posto che
mi conciliasse la lettura. Tutto quel pesante cemento e
quell’acciaio brillante
mi angosciavano e mi davano la sensazione di essere lontana da
Carthagyos
milioni e milioni di chilometri. Mi dimenticavo sempre più
spesso che la città
era tutta attorno a noi.
Alla
fine mi ritrovai nuovamente di fronte all’Ospedale.
Notai
immediatamente una figura alta e scura uscire dall’ingresso,
ma con il
cappuccio della felpa calcato sul viso mi era impossibile riconoscerlo.
Solo
quando mi passò accanto, i miei sensi scattarono e
l’aroma aspro della magia mi
solleticò il naso, facendomi lacrimare.
-Fobos?
-, mormorai a me stessa.
La
figura incappucciata si voltò di scatto e i suoi lunghi
capelli neri frustarono
l’aria come serpenti letali all’attacco. Indossava
un vecchio paio di occhiali
da sole e teneva le braccia conserte. Non potevo minimamente pensare
che avesse
freddo, perché il suo corpo da Ibrido aveva la pelle troppo
spessa per
consentirgli il lusso di sentire il gelo, perciò immaginai
che il motivo fosse
un altro e mi incuriosii ancora di più.
-Che
diavolo ci fai tu qui? -, domandò sgarbato. Aveva la fronte
imperlata di sudore
e le sopracciglia aggrottate e raggrinzite. Le labbra erano
completamente
screpolate con minuscoli tagli rosso vivo.
-Stavo
cercando una sala per studiare o una biblioteca…-, buttai
lì. Fobos
si strappò con forza gli occhiali e li
infilò nella tasca dei pantaloni. Fu in quel preciso istante
che lo vidi: un
inquietante paio di manette che gli racchiudeva i polsi, fragili ossa
in una
morsa di acciaio. I due cerchi di metallo erano sufficientemente
distanziati da
permettergli i movimenti essenziali, ma non così tanto da
permettergli di stringermi
le mani al collo: c’erano, infatti, due pesanti lacci di
cuoio borchiati che
collegavano le manette alla cinta dei pantaloni.
Sollevando
entrambe le mani, con l’indice, mi indicò il
penitenziario alla nostra sinistra
laddove per la prima volta lo avevo incontrato.
-Là
dentro? -, domandai un po’ intimorita.
Fobos
sbuffò tornando ad incamminarsi.
–
Cosa credi? Che il campo sia un hotel di lusso? Qui nessuno ha tempo
per
leggere, a parte loro. Pertanto l’unica biblioteca esistente
qui dentro è
quella! -. Accelerai il passo per stargli dietro. Avrei tanto voluto
chiedergli
se anche lui passasse il tempo a leggere, e soprattutto
perché mai vivesse
rinchiuso in prigione. Perché fosse ammanettato di tanto in
tanto non volevo
saperlo, invece: temevo che fosse per un motivo molto oscuro ed era un
argomento che ancora non mi sentivo di affrontare. Ci avvicinammo alle
guardiole poste all’ingresso. Quando i due uomini
lì appostati per il turno
videro Fobos, lo salutarono rispettosamente, ma si allontanarono di
qualche
centimetro quando lui li sfiorò entrando. Sgattaiolai dietro
Fobos, forte del
timore reverenziale che l’uomo ispirava ai suoi colleghi e in
breve mi ritrovai
dentro, senza che mi fossero state poste domande o veti.
-E’
così semplice entrare qui? -, domandai di istinto, mentre
attraversavamo la
hall e una guardia magra ci apriva la prima di una lunga serie di
cancelli a
sbarre. Non ci fece domande e non alzò mai lo sguardo su
Fobos.
-Pensi
che tutta la sicurezza là fuori sia per evitare che qualcuno
entri? Devi essere
veramente un’idiota per pensarlo-.
Ammutolii.
Sapevo che Fobos era una creatura sgarbata e irascibile, ma ero io
quella che
era stata affogata in un lavandino e sempre io che avevo chiesto scusa
per ogni
mio insignificante scatto di nervi: non meritavo un trattamento del
genere. Non
avrei mai pensato che il carattere dell’Ibrido potesse essere
così ostile, né
tantomeno così indifferente a ciò che lo
circondava. Quasi non si accorse
dell’uomo che dalle sbarre allungò una mano per
afferrargli la caviglia.
-La
biblioteca è qui a sinistra-, mormorò, frenando
all’improvviso in vista di un
incrocio. Ma distratta come ero dai miei pensieri non mi accorsi che si
era
fermato e andai a sbattere dritta contro la sua schiena. Scivolai in
avanti,
sul pavimento lustro, e per non cadere dovetti per forza aggrapparmi a
lui. Stranamente
Fobos non si spostò, ma reagendo quasi di istinto, si
strozzò i polsi per
sostenermi le braccia. Lo guardai spaurita, ma i suoi occhi rimandavano
unicamente rabbia ed oscurità. Le pupille erano dilatate
dietro lo schermo
satinato degli occhiali. Quando li aveva rimessi? Non ricordavo.
Iniziai
a sentire una forte pressione attorno agli occhi e il suo sguardo
cominciò a
trasformarsi in una scia di fumo nero. La bocca di Fobos si
aprì per dire
qualcosa, ma non sentii nulla ed al contrario persino il ronzio alle
orecchie
che mi accompagnava da anni ammutolì. L’aria
attorno a me cominciò a mutare
mentre sentivo che la coscienza lentamente scivolava nel nulla. Mi aggrappai con forza
all’avambraccio di
Fobos distogliendo lo sguardo da quelle enormi manette accecanti.
Incominciai a
vedere nero e a tremare. Il tremore partiva direttamente dal punto di
contatto
tra la mia pelle e quella di Fobos. Avrei voluto staccare la mano, ma
qualcosa
me lo impediva. Il mostro dentro di me ruggì e poi caddi a
terra, svenuta.
Odio
camminare nei corridoi, tra
tutti questi malati. Odio il loro odore e le loro debolezze.
Vedo ovunque infermiere che corrono e
dottori che chiacchierano, sfaccendati. Cammino per inerzia e mi sento
sempre
più debole. Ecco il dottore, finalmente: mi conviene
accelerare il passo. Spero
che stavolta faccia in fretta, ma dubito che il suo sadismo mi
darà pace.
-Salve Fobos. Come stai quest’oggi? -
domanda Upokrates. Mi sembra una domanda stupida.
-Vieni entriamo subito, prima che la
gente si incuriosisca. Girano già strane voci fra le nuove
matricole-, continua,
notando in me una totale assenza di interesse per i suoi vacui
discorsi. Mi
conduce nella solita stanzetta piena di macchinari e fili elettrici.
Alcune
strumentazioni assomigliano a piccoli schermi televisivi e producono
dei suoni
acuti e pulsanti. Vedo la poltroncina con i lacci di cuoio che ormai
è la mia
seconda casa e, con un sospiro, mi siedo. Non ho nemmeno più
bisogno che sia
Upokrates a legarmi i lacci: è da anni che lo faccio da
solo. Ormai la mia
pelle conosce la sensazione del cuoio che si tende e mi lacera. Chiudo
le
cinghie al massimo, certo che il dolore al posto che migliorare stia
peggiorando. Upokrates dice che è per via della stanchezza,
che avrei bisogno
di riposo, ma io non ci credo. Per quanto rimanga a letto, steso come
in una
bara, il dolore non diminuisce. Al contrario aumentano la solitudine,
la rabbia
e la sensazione di essere già morto.
Mi
volto in direzione di Upokrates che mi fa un cenno. Prende le tre
siringhe e le
carica con i liquidi dai tre diversi colori. Non ho mai saputo cosa vi
fosse dentro,
ma il loro colore nero, verde e rosso mi attrae come la luce le falene. Entra improvvisamente
anche l’infermiera che
aiuterà Upokrates. E’ la stessa che lo ha
assistito con quella donna.
Istintivamente rivedo il volto di quella Custode. Mi viene in mente che
i suoi
capelli neri sono tanto simili ai miei; sono lunghi come i miei, ma i
suoi sono
più sottili, come fili di ragnatele. Sembra un corvo quella
donna.
Costantia, l’infermiera, mi sorride,
ma a me viene soltanto voglia di afferrare una siringa e pungerla sul
collo
tozzo, insufflandole nelle vene quell’aria letale. Ci vuole
così poco per
morire. Io stesso potrei morire da un momento all’altro.
Potrei morire adesso.
Provo a chiudere gli occhi per vedere come potrebbe essere la morte, ma
il
costante rumore delle macchine attorno a me, mi tiene ancorato alla
vita
insoddisfacente che ormai da anni conduco.
-Oggi doppia dose, vecchio cane-, mi
deride Upokrates. Ha preso a chiamarmi vecchio cane alla mia
cinquantesima
iniezione; ero poco più che un ragazzo.
Upokrates afferra la siringa e con un cenno indica a
Costantia di
sistemarsi dall’altro lato. Farà male, lo so bene,
ma non sono mai riuscito a
provare qualcosa negli istanti prima delle iniezioni. Spero solo che
sbaglino e
che mi sgozzino come un animale. Sarebbe una fine nettamente migliore
rispetto
a quella a cui andrò incontro. Eppure so di non poter
morire.
-Pronto? -, mi chiede Costantia.
Potrebbe assomigliare a mia madre se non fosse per la puzza di fumo e i
capelli
corti e brizzolati. Annuisco.
Sento gli aghi che mi pungono, uno
sul collo e uno sul polso. Quello sul braccio brucia da matti e mi
dà la
sensazione che il mio corpo stia andando a fuoco. Mi tengo alla
brandina,
mentre gli occhi cominciano a scaldarsi e a lacrimare. Vedo
l’espressione di
compassione dell’infermiera ed istintivamente salto su per
attaccarla. Le
cinghie mi tengono bloccato, però, e sono costretto a
guardare quella donna
disgustosa ciabattare fuori dalla sala. Rimaniamo soltanto io e
Upokrates. La
siringa è conficcata nel collo, ma il dottore deve attendere
ancora qualche
istante prima di espellere il primo liquido. Quando lo fa non sento
nulla.
Upokrates silenziosamente carica altre due fiale dell’ultimo
liquido rimasto,
quello nero. Oggi doppia razione: rido. Farà malissimo, ma
almeno mi ricorderà
i miei errori. Sento la prima fiala di liquido nero scivolare gelida
nelle
vene. E’ dolore puro, sordo e tremendo. Stringo i pugni e mi
mordo le labbra.
Gli occhi, non riesco più a muoverli. Il cuore comincia ad
accelerare i
battiti, dandomi la fastidiosa sensazione di annegare. Mi viene in
mente il
volto della ragazza che ho quasi affogato nel lavandino. Ha lottato
strenuamente, ma sono ancora io il più forte. Che peccato.
Aveva la pelle
bianchissima e sottile, così diversa dalla mia. Penso che
abbia paura di me e
questo mi piace. Sento il secondo carico troppo tardi. Un grido
disperato mi
sgorga dalla gola. La sofferenza è indicibile, ho il corpo
contratto in spasmi.
Grido di nuovo, mentre Upokrates mi osserva pensoso.
Mi dibatto, cerco di aggrapparmi a qualcosa.
Urlo talmente forte che le labbra si tirano fino a spezzarsi. Sento il
sangue
caldo e liscio. E’ rassicurante in un certo senso. Svengo. Mi
risveglio che sto
ancora urlando. Le vene spingono scure e piene contro la pelle. Sembro
un
demone. Mi sento un mostro.
Fobos
non mi lasciò nemmeno riprendere. Mi sollevò da
terra, con una forza sovrumana,
facendomi penzolare a peso morto.
-Che
cosa mi hai fatto? -, domandò. La potenza della sua aurea
pulsava di un colore
nero e minaccioso. Non sapevo cosa vedevo e cosa avevo visto un istante
prima.
Sembrava fossi stata catapultata nei pensieri di Fobos. Avevo subito
tutto
quello che aveva subito lui anche se non capivo come fosse stato
possibile. Non
era stata una scelta volontaria.
-Non
lo so. Non lo so! -, strillai.
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Capitolo 12 *** Capitolo 11- Magna Teca ***
Capitolo
11
Non
so esattamente come, ma riuscii a scappare dalle grinfie di Fobos. A
nulla
valsero i suoi tentativi di fermarmi: era troppo lento e affaticato per
starmi
dietro. Riuscii, perciò, a raggiungere indenne le porte
della biblioteca del penitenziario.
Queste si aprirono con un sibilo e io feci il mio ingresso
nell’enorme salone
vuoto, guardandomi attorno come un agnello smarrito. La biblioteca alla
fin dei
conti era una gigantesca stanza vuota con pochi scaffali, tutti
traboccanti di
display, e con un enorme schermo touch che consentiva
l’accesso alla Magna
Teca. Non c’era nulla che mi facesse pensare che quella fosse
una vera biblioteca,
se non il tomo che avevo sotto al naso. Non c’era nessun
detenuto nei paraggi, non
un’anima viva, e quindi potei scegliere la postazione che
più preferivo. Optai
per un tavolo di legno scuro appena sotto al finestrone che con la sua
luce
bianca e pulviscolare illuminava a giorno un’ampia zona della
biblioteca.
Aprire il libro fu un’operazione controversa: una parte di me
voleva
assolutamente leggere quelle pagine, ma l’altra parte sentiva
un’avversione
naturale per quel tomo e aveva la sensazione che se l’avesse
sfogliato, avrebbe
scoperchiato il vaso di Pandora. Ignorai quest’ultimo
presentimento, e con un
gesto secco spalancai il libro. Sfogliai le prime pagine con
indifferenza,
tralasciando la lettura della dedica, della prefazione e della breve
biografia
dell’autore, e mi concentrai sul titolo dell’opera:
“I Figli del Vento: la Setta degli
Eroi contemporanei”.
-Che
presuntuosi…-, mormorai, poi girai la pagina e mi tuffai
nella lettura.
I
Figli del Vento sono un’Istituzione
militare che ha come obiettivo il perfezionamento dell’Arte
della lotta in
tutte le sue forme più nobili. Spesso ci si riferisce a loro
come ad una setta
per svariati motivi. Inizialmente, fu l’illustre storico e
filologo Alkibiades
ad attribuire questo appellativo ai Figli del Vento, rifacendosi alla
radice
etimologica di setta, ovvero “sector” (rafforzativo
di “sequor”) che significa
seguire. L’Istituzione, infatti, pare sottostare ad
un’etica tutta sua e
possedere un’ampia lista di regole e dettami a cui tutti i
membri sono
soggetti, pena l’esclusione dal gruppo e vent’anni
di reclusione con l’accusa
di diserzione.
Una seconda interpretazione dell’utilizzo
del termine venne poi fornita, negli anni appena successivi alla
pubblicazione
delle ricerche di Alkibiades, da un membro ad honorem dei Figli del
Vento, il
Veterano Efesto, il quale fece, invece, derivare il termine setta da
“sector”,
tagliare. Questo perché l’Istituzione si dissocia
completamente da qualsiasi
contesto politico-economico della Società Moderna.
L’Istituzione, infatti,
giura solenne fedeltà soltanto ai propri compagni e possiede
un suo precipuo
Governo Interno, indipendente da quello di Elladia. “Questo
è stato fatto per
mantenere una certa integrità morale e di
pensiero” ha dichiarato Efesto,
membro Capo della setta da più di trent’anni.
“L’uso della tecnica delle
Energie Libere deve essere ad esclusivo appannaggio di soldati
indipendenti e
stabili mentalmente, con una forte predisposizione
all’iniziativa personale e
ai ragionamenti individuali. Si sa, in fondo, che gli edifici sono
resistenti non
solo se lo sono le fondamenta su cui crescono, ma anche se ogni singolo
mattone
riesce a trovare il suo posto nella struttura”.
Per quanto, invece, riguarda il nome
dell’Istituzione, esso deriva da un piccolo insetto volante
ormai praticamente
estinto: la libellula, appunto chiamata in alcune tradizioni
“figlia del vento”
in quanto con le sue sottilissime ali cangianti ella riesce a volare e
fendere
l’aria. La scelta di avere come simbolo una libellula nacque
da un’idea di uno
dei membri Capo dell’Istituzione, ossia il Guaritore e
Teologo Iatro…
Il
mio cuore ebbe un sussulto. Leggere fra quelle righe il nome di un uomo
della
mia cerchia, di un religioso che avrei persino definito fanatico, era
una cosa
che non mi sarei mai aspettata. Eppure, ripensando al mio ultimo
colloquio con
quell’uomo, non potevo fare a meno di ricordare il velato
consiglio che mi
aveva dato. Nonostante il patto di alleanza tra Esercito e Chiesa,
infatti,
Iatro mi aveva suggerito, contrariamente a quanto aveva fatto la
Sacerdotessa,
di non rivelare troppo su di me e di non spifferare ai quattro venti la
Natura
più profonda del mio Dono.
Mi
chiesi anche se Sorella Dyana sapesse dell’appartenenza di
Iatro ai Figli del
Vento, o se ne fosse all’oscuro. In quest’ultimo
caso, il beneamato Guaritore
del Tempio di Carthagyos sarebbe risultato essere un traditore della
Religione
e un sedizioso. Ma come nascondere un segreto talmente importante al
mondo? Mi
alzai istintivamente e mi diressi verso lo schermo touch al centro
della sala.
Lo guardai come si guarda il pelo dell’acqua di un lago
misterioso, poi vi
posai lentamente un dito. Immediatamente l’oggetto si
illuminò di una luce
azzurrina e una voce metallica mi introdusse all’archivio
della Magna Teca.
Prego, inserisca le
specifiche del
documento che sta cercando_
-I
Figli del Vento: la Setta degli Eroi contemporanei. Autore anonimo-,
declamai,
cercando di scandire bene le parole.
Di
fronte a me comparve l’ologramma di un enorme albero che
ruotava su se stesso.
Il sistema di ricerca era in caricamento e un cursore impazzito muoveva
i rami
a destra e sinistra in cerca del file che corrispondesse alle mie
indicazioni.
Poi, come un fulmine a ciel sereno, comparve un messaggio di errore e
il
sistema si dissolse repentinamente facendo esplodere l’albero
in una marea di
pixel.
Il sistema non
è stato in grado di
trovare il documento con le specifiche da Lei fornite. O il file non
è presente
nel nostro Database o titolo/autore del testo non sono stati
chiaramente
pronunciati.
Ci scusiamo per
il disagio. La
invitiamo a riprovare e le auguriamo una buona giornata_
Probabilmente
l’unica testimonianza dell’esistenza della setta
era quel libro, una sorta di
memoriale segreto tenuto sotto chiave dai membri dei Figli del Vento.
Quindi,
con ogni probabilità non tutti erano a conoscenza
dell’Istituzione e Iatro era
a rischio scomunica. Sospirai e tornai al mio tavolo, pronta a
riprendere la lettura
da dove l’avevo lasciata.
…il
quale afferma: “La Natura della
libellula è meravigliosa, non trovate? Una creatura
così piccola che passa gran
parte della sua vita come larva sul fondo della palude, riesce, infine,
ad
evolvere e trasformarsi in una creatura pura. E’
così che vedo i nostri
soldati: creature uniche e intelligenti che sguazzano nella
mediocrità solo per
abitudine, ma che grazie ai giusti allenamenti possono aspirare ad una
condizione fisica e mentale superiore. Inoltre, la libellula
è un animale
sacro, invita alla riflessione, all’elevazione spirituale
verso la Verità ed è
associata al cambiamento. Così deve essere un Figlio del
Vento. Deve essere
sicuro di sé e volare sull’abisso, ma non deve
dimenticarsi delle proprie
debolezze. Deve ricercare il cambiamento di sé se
necessario, essere libero di
pensiero e aperto alla saggezza. Libellula viene, infatti, dal latino
“libellum” (libricino) proprio a causa del moto
delle sue ali, simili alle
copertine di un tomo trasparente. Non si può ignorare,
quindi, che sia anche la
conoscenza e l’Arte del pensare a rendere il Figlio del Vento
un degno soldato,
e prima ancora un degno Uomo”.
Dei
rumori di sottofondo mi riscossero dalla lettura e avvistai una fila di
detenuti che venivano condotti da due secondini nella mia direzione.
Richiusi
in fretta e furia il tomo e uscii dalla stanza, tenendo un profilo
basso. Fuggii
rapida dal penitenziario e finalmente presi una boccata
d’aria.
-Eccoti!
-.
La
voce di Fobos mi esplose nelle orecchie e prima che potessi anche solo
pensare
di sfuggirgli di nuovo, l’Ibrido scattò in avanti
e me lo ritrovai a due
centimetri dal volto. Era visibilmente arrabbiato e nei suoi occhi
leggevo un
accenno di follia. La sua aura brillava di un color ruggine acceso e
fiammeggiava attorno a lui come un fuoco ardente.
-Che…-,
cominciai a dire, ma appena dopo sentii il terreno mancarmi da sotto i
piedi e
caddi rovinosamente di schiena, sovrastata dall’imponente
figura di Fobos. Il
libro era precipitato a qualche metro da me e alla mia stregua era
finito in
un’enorme pozza di fango.
-Non
so chi cazzo ti credi di essere…-, mi urlò lui,
furioso. –Ma se ti azzardi
nuovamente a entrarmi nella testa, ti sparo dritto in mezzo agli occhi!
-.
Cercai
di rotolare sul fianco e recuperare il tomo, ma Fobos, non ancora
soddisfatto,
mi afferrò per il bordo della canotta e mi
sollevò da terra. Le manette erano
ancora lì al loro posto, ma la supremazia fisica
dell’Ibrido era senza pari: mi
sentii una piuma per la facilità con cui mi
sollevò.
-Guardami
mentre ti parlo! -, urlò facendo voltare alcune matricole
che stavano
casualmente passando accanto a noi. Nessuna, tuttavia, si
fermò per darmi una
mano. Le cercai più volte con gli occhi, supplicandole e
ignorando ancora una
volta le parole di Fobos, ma lui in un secondo riuscì a
riportare la mia
attenzione su di lui. Mi afferrò il volto fra le mani,
schiacciandomi le guance
senza pietà e facendomi lacrimare. Mi costrinse a guardarlo
negli occhi, in
quelle misteriose pozze di inchiostro che riconoscevo essere animate
dalla
stessa malinconia che albergava in me.
-Non
l’ho fatto apposta-, mugugnai, più simile a un
pesce rosso che a un soldato.
Fobos strinse di più la presa e sentii la mandibola
scricchiolare. Cercai di
tirargli un calcio, ma lo mancai e il mostro ridacchiò
soddisfatto.
-Generale,
che sta facendo? -.
Ringraziai
gli Dei che qualcuno finalmente fosse venuto in mio soccorso. Fobos
mollò la
presa e io ricaddi a terra come un sacco di patate. Potevo respirare,
nonostante il dolore al viso, e questo era già un grande
traguardo. Di fronte a
me, come due giganti, si stagliavano Fobos ed Eracleo.
-E
lei chi è? -, chiese l’Ibrido, mentre con un gesto
secco indossava gli
occhiali da sole.
Eracleo
si presentò doverosamente con il saluto militare, mentre
nella mia testa la
parola “Generale” si diffondeva come un virus.
- Voi due vi
conoscete? -, indagò Fobos, la
cui aura aveva cominciato lentamente a ridimensionarsi. Sembrava
irritato dal
fatto che io ed Eracleo fossimo in buoni rapporti; forse non sopportava
che fra
un suo compagno e una religiosa scorresse buon sangue o forse gli
dispiaceva
essere stato interrotto sul più bello.
-
Sì, abbiamo avuto modo di parlare un paio di volte-, rispose
Eracleo, evasivo, tendendomi
una mano e aiutandomi a rialzarmi da terra. Poi sorrise affabile e mi
porse il
tomo infangato. Solo quando si accorse di quanto fosse sporco, me lo
richiese e
lo pulì con il bordo della sua divisa.
-Ecco,
tieni-.
Lo ringraziai
timidamente. Eracleo sorrise e
mi fece una breve carezza sul capo, scompigliandomi i capelli. A quel
tocco
avvampai e persino gli occhi di Fobos ebbero un guizzo. In
realtà non era che nutrissi
una qualche sorta di interesse amoroso per Eracleo, ma in quanto
Custode,
quello, fino ad allora, era stato l’unico contatto affettivo
mai avuto con un
uomo.
-Devi
essere stata davvero indisponente per aver fatto arrabbiare Fobos-,
aggiunse
poi, lanciando un’occhiata eloquente all’Ibrido.
Attorno a noi, infatti, senza
che me ne fossi nemmeno resa conto, si era creato un capannello di
curiosi che
con la scusa di dover svolgere delle mansioni nelle vicinanze gettavano
sguardi
curiosi su di noi. Fobos si apprestò a nascondere le manette
e i capelli lunghi
e setosi gli ricaddero sul viso come una cascata di inchiostro.
-
Posso rubargliela per un secondo, Generale? -, azzardò
quindi Eracleo,
consapevole che di fronte a degli spettatori, non avrebbe potuto
negargli
quella richiesta. Fobos, infatti, si rianimò
all’improvviso, quasi lo avessero
punto. Si girò pronto a sputare veleno come suo solito, ma
si rese conto che il
sottoposto mi aveva già afferrata per un braccio e mi stava
per trascinare via.
Mi voltai solo un istante, per godermi la smorfia di rabbia che avrebbe
dipinto
il volto di Fobos, ma ciò che scorsi quando mi girai, furono
un’espressione
incredula e una mano che si allungava nel tentativo di sfiorarmi le
dita. Solo
il clack delle manette gli impedì di toccarmi, e le sue mani
di conseguenza gli
ricaddero in grembo. Ci osservò un’ultima volta,
poi girò i tacchi e si
incamminò nella direzione opposta.
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Capitolo 13 *** Capitolo 12- Una spalla su cui piangere ***
Capitolo
12
Le
giornate passarono veloci, una dopo l’altra, tra allenamenti
inutili e lezioni
di strategia militare. Facemmo un paio di esercitazioni nei cortili e
ci
insegnarono a montare e smontare le armi. In pratica ci instillarono
tutte le
conoscenze necessarie per sopravvivere, fosse anche solo un giorno, nel
mondo
là fuori. Ares era tremendo e non mancava giorno nel quale
non ci ricordasse
quanto fossimo inetti e inadatti. Era umiliante lavorare con lui, ma
dovevo
ammettere che per molti soldati il suo sistema aveva funzionato alla
grande.
Mancava solo una settimana alla fine del Training e la maggior parte
delle
matricole del mio gruppo aveva già cambiato postura e messo
su un po’ di massa.
Soltanto io e un’altra ragazza eravamo rimaste praticamente
identiche. Era
imbarazzante allenarsi con tutti quei cadetti, che in un modo o
nell’altro
avevano già avuto una precedente istruzione militare o
discendevano comunque da
generazioni di Comandanti, Tenenti e Generali. Mi sentivo costantemente
fuori
posto e senza forze, e guardare l’espressione di convinzione
e grinta sui loro
volti tutti uguali mi metteva più angoscia di quanto non me
ne avesse trasmesso
l’aspetto di Fobos la prima volta che lo avevo incontrato.
Per il resto, la mia
vita scorreva nell’apatia totale e nel tempo libero combinavo
ben poco. Il
massimo che facevo era dormire e mangiare oppure leggere altre
informazioni
circa il mondo dei Figli del Vento, a cui peraltro dovevo ancora una
risposta.
Efesto si era momentaneamente trasferito fuori Carthagyos per ragioni a
me
sconosciute e dal giorno della proposta non avevo più avuto
la possibilità di
parlargli, mentre Ares pareva ignorarmi e non voler toccare
l’argomento. Il suo
modo di fare era deprecabile e ogni volta che tentavo di sollevare la
questione
durante l’allenamento, finiva per insultarmi con frasi del
tipo: - Ora che ha
finito di giocare, perchè la mezza checca religiosa che
c’è in te non richiama
il potere degli Dei e non ci fa vedere un bel pugno? –.
Quindi discutere con
lui mi sembrava fuori questione.
L’unico
che pareva essermi solidale era Eracleo. Era un ragazzo davvero gentile
e a
tratti fin troppo servizievole: mi aiutava con le tecniche di
combattimento anche
dopo gli allenamenti, fermandosi con me in cortile anche quando il
giorno dopo
doveva prestare servizio. Inoltre, venuto a conoscenza della condizione
economica
di Aracne, aveva liberamente scelto di devolvere un terzo del suo
stipendio a
lei e alla sua famiglia, per amore del prossimo. E tanto lui era buono
e
generoso, tanto Fobos era tremendo e glaciale. Lo avevo incontrato
più volte al
di fuori degli allenamenti, cui peraltro partecipava assieme a Deimos
per
deridere le matricole in difficoltà, ma non avevamo
più parlato dal giorno in
cui ero entrata nei suoi ricordi. E a me andava bene così.
Solo una volta i
nostri sguardi si erano incontrati, facendomi vibrare ogni fibra del
corpo. Era
accaduto in concomitanza con la mia prima sperimentazione medica,
proprio fuori
dal laboratorio di Upokrates, e ciò mi aveva fatto pensare
che il suo fosse uno
sguardo di rimprovero puro e semplice. Comprendevo perché
Fobos temesse la
sperimentazione umana e io stessa non amavo essere usata come una
cavia, ma ciò
non significava che potesse giudicarmi così facilmente. Non
sapeva niente di
me: non mi ero mai seriamente ammalata e da quanto avevo scoperto al
Tempio ero
immune da virus e tossine mortali. Il massimo che potevo prendermi era
il
raffreddore. Quindi cosa potevo mai rischiare?
Upokrates
mi diede il benvenuto nel suo ambulatorio con un saluto eccitato.
Pareva
trovare molto divertente le nostre sedute, specialmente
perché fino ad allora
aveva scoperto ben poco. La curiosità per lui era tutto e
più brancolava nel
buio, più desiderava svelare il mistero che si nascondeva
dietro la mia
esistenza. Osservai Fobos parlottare con Deimos dall’altra
parte del corridoio,
poi me li lasciai alle spalle e le porte si richiusero dietro di me.
-Sei
pronta? -, mi domandò il medico, mentre mi faceva accomodare
su uno strano
lettino mai visto prima. Annuii tranquillamente, poi Upokrates mi
prelevò di
fretta e furia una provetta di sangue: ero abituata a quelle procedure
visto
che anche al Tempio tenevano costantemente monitorati i nostri fluidi
vitali,
ma la quantità di sangue che Upokrates mi aveva tolto in
quel periodo era
davvero al limite del legale.
Lo
osservai mentre infilava la provetta rosso cremisi in una macchina
ronzante e
prendeva la siringa già carica appoggiata
sull’apposito supporto igienico. Quel
giorno pensavo mi avrebbe iniettato la mia solita Cura, quella che
ormai mi
aveva iniettato per la prima volta tempo fa e che il Tempio aveva
fornito all’Esercito
affinchè ci mantenesse in quello che veniva chiamato Stato
Evolutivo. La vera
differenza stava nel fatto che quel giorno Upokrates aveva inserito la
fiala in
una centrifuga e aveva separato i due componenti del liquido che mi
avrebbe
inoculato.
-Vedi?
– mi domandò, mostrandomi una fiala piena di un
fluido dal doppio colore, sotto
blu e sopra rosso. – La zona blu è il fluido di
ampliamento psichico, mentre la
parte rossa è l’Inibitore. Oggi ti
inietterò solo il fluido blu, così che il
tuo potere possa manifestarsi nella sua pienezza, senza altra
restrizione. Nel
qual caso la manifestazione diventi troppo violenta, ti
sparerò un sedativo e
conseguentemente ti inietterò anche l’Inibitore-.
Lo
ascoltai distrattamente, mentre l’ammonimento di Iatro mi
risuonava nelle
orecchie come il rintocco di una cupa campana. Sapevo che non avrei
dovuto
mostrare il mio potere in sé, ma ormai era tardi per tirarsi
indietro e
comunque, se avessero voluto, avrebbero potuto costringermi con la
forza a
partecipare a quelle sedute. Non avevo mai avuto veramente scelta.
-Bene-,
dissi mentre Upokrates mi legava al lettino, mani, piedi, collo e
busto, e lo
sollevava in posizione eretta. Quel lettino sembrava uno strumento di
tortura
ed era chiaro perché Upokrates lo tirasse fuori soltanto
quando doveva
servirsene. Strinsi gli occhi, mentre la spia luminosa di una
telecamera mi
accecava.
-Questa
servirà per filmare il tutto, cara-.
Annuii
nuovamente.
-Perfetto,
allora possiamo cominciare-.
Upokrates
mi si avvicinò e prelevò dalla fiala il liquido
blu. Ne espulse un po’
dall’ugello della siringa e con un colpo deciso me lo
conficcò nel collo.
Sobbalzai mordendomi le labbra e stringendo le dita di mani e piedi.
Sentii la
mano di Upokrates massaggiare la zona dove mi aveva colpito e poi lo
vidi
allontanarsi a passo svelto, fin dietro la telecamera. Lo seguii con lo
sguardo
mentre armeggiava con le apparecchiature fin tanto che un ronzio
strano, quasi
un ultrasuono, mi penetrò le orecchie. All’inizio
provai le stesse sensazioni
già sperimentate nella prima seduta di Cura con il
Guaritore, quando avevo subito
addirittura due Cure, poi quando pensai fossi lì
lì per giungere alla fine
della mia agonia, iniziai a vedere tutti i colori creparsi e formare
una specie
di vetrata davanti ai miei occhi. Vedevo strane figure appese a testa
in giù
dal soffitto, forse fantasmi, che bisbigliavano fra di loro, fissandomi
con
occhi vacui.
La
testa cominciò a rimbombare e la pressione mi fece fischiare
le orecchie come
un treno in corsa. Mi mancava l’aria e annaspavo alla ricerca
di ossigeno
fresco, mentre il sangue sembrava pietrificarmisi nelle vene. Vidi
altri volti
dietro a quello di Upokrates, malati e tristi, aggrappati e fusi nel
suo corpo,
cristallizzati. Mi parlavano, ma non capivo cosa dicevano. Ero
assordata dal
dolore e mi sentivo morire. Il mostro mi graffiava dentro e si
arpionava ai
miei organi per uscire da lì, dopo anni di prigionia. Cercai
disperatamente di
inghiottirlo di nuovo, ma quando un’ondata di calore mi
bruciò le vene, urlai e
il mostro mi uscì dalla bocca come un ragno liquido
prendendo il pieno possesso
di me. Mi lasciò cosciente così che sperimentassi
la sua condizione, la
costrizione e l’impotenza insita nell’abitare il
corpo di un altro. E
improvvisamente, vomitata l’anima malvagia che avevo dentro,
il dolore, le
visioni e i colori collassarono su loro stessi e la realtà
ricominciò a
risplendere di fronte a me. Sentii il sangue colarmi dal naso e
scivolarmi in
bocca, fra i denti, sulla lingua e nello stomaco. Il mostro si stava
abbeverando.
-Strano,-
disse Upokrates il quale pensava che l’effetto della fiala
fosse tutto lì.
Cominciò ad armeggiare con la telecamera, deluso, cercando
miseramente di
stopparla. Risi di gusto, ma ascoltando la mia stessa voce, quasi venni
meno.
Suonava fredda, quasi collerica, quasi come quella di Fobos. Sembrava
provenire
da dentro ed espellersi come veleno da ogni poro della pelle. Persino
Upokrates
sembrò esterrefatto e si trattenne ancora qualche momento
dallo spegnere la
macchina.
-Come
ti chiami? -, domandò serio, sospingendo gli occhiali su per
il setto. Si avvicinò
lentamente entrando nel campo della registrazione, ma rimanendo
comunque a
distanza di sicurezza. Lo trovai ridicolo.
-
Astreya-, risposi guardandomi attorno. In qualche modo vedevo il mondo
in
maniera più nitida e accelerata, come se inseguissi i
fotogrammi di un film.
-Che
giorno è oggi? -.
-
Guardi il calendario che c’è sulla scrivania e lo
scoprirà da solo-. Odiavo
quegli stupidi interrogatori medici. Mi sentivo una sciocca a
rispondere a
domande così inutili.
Upokrates,
invece, pareva perplesso e aggrottava le sopracciglia ogni sei secondi
virgola
sei. Era da tempo che non contavo le cose che mi circondavano e ora era
una
liberazione farlo, senza più freni.
-Come
ti senti? –
-Come
un salame-.
-Hai
sete? –
-No-,
risposi.
-Fame?
–
-No-.
-Riesci
a mostrarmi qualche tua nuova capacità? -. Stupido medico.
Categoria di
imbecilli i medici.
Guardai
dritto negli occhi di Upokrates e proiettai la mia energia su di lui,
infilandomi nei suoi occhi, nel naso e nelle piccole orecchie. Viaggiai
un po’
per tutto il suo corpo, sondando e studiando. Mi attaccai come un
parassita
alla sua colonna vertebrale e mi arrampicai fino a impiantarmi nel
cervello.
Faceva caldo lì dentro: quell’uomo pensava un
sacco. Poveretto. Infilai le dita
nel dolore, la mia zona preferita, e strizzai con quanta forza avessi
in corpo,
stringendo i denti e piegando la testa di lato. Sentii le sue urla
limpide e
cristalline e me ne beai completamente. Una piccola punizione per
quello che mi
stava facendo in fondo non era veramente una cattiveria. Lo vidi
accasciarsi a
terra, tenendosi la testa fra le mani e mormorando frasi sconnesse.
Cercò di
rialzarsi più volte, ma tutte le volte lo rifeci cadere,
manovrando la sua
mente come fosse un burattino. Risi, e infine, quando stava per svenire
lo lasciai
andare. Crollò sulle ginocchia, esausto. Ciò
nonostante gli avevo lasciato un
briciolo di forza, quella sufficiente a spararmi il sedativo. Ero in
preda al
mostro, ma ero ancora io. Gli lasciai il tempo per riprendersi, per
massaggiarsi le tempie e recuperare la vista: pensavo che allora
sarebbe stato
terrorizzato e che mi avrebbe osservato con gli occhi strabuzzati.
Invece,
quando Upokrates sollevò il viso nella mia direzione vidi
soltanto
un’eccitazione febbrile. Sorrise estasiato ed
applaudì, facendomi squassare il
cervello ad ogni schiocco delle sue mani. Non sembrava essersi reso
conto di
sanguinare dalle orecchie e dal naso, o forse ne era cosciente, ma non
gliene
importava nulla. Una rabbia funesta si impadronì nuovamente
del mio corpo. Mi sentivo
ridicolizzata, presa in giro e derisa. Non potevo sopportarlo. Se
quello
stupido trovava eccitante seguire passo passo la mia trasformazione in
mostro,
avrei dovuto solo fargli cambiare idea. E poi non si sarebbe potuto
più
lamentare, se fosse morto.
-Mi
dica, Upokrates…-, cominciai, tendendo le cinghie del
lettino fino allo stremo.
La mia voce rimbombò sulle pareti e le ombre che mi
assediavano baluginarono di
paura. – Ritiene che io sia un esperimento divertente? La
faccio ridere? -.
L’uomo
sollevò il mento. Aveva il volto trasfigurato e gli occhi
lucidi di follia.
Sembrava non rendersi conto del fatto che se avessi voluto, lo avrei
potuto
fare esplodere come un palloncino.
-Sì,
mia cara, mi sto divertendo come non mai. Sei la migliore cavia che
potessi
desiderare-.
Non
riuscivo a credere a quanto fosse stupido quell’umano: si
divertiva
nell’osservare le sofferenze altrui senza alcuno scrupolo
etico o pietà. Non
potevo lasciare in vita quel verme, a
maggior ragione perché era un vecchio senza morale.
-Va
bene…-, dissi solamente, poi urlai con tutto il fiato che
avevo in corpo, un
urlo selvaggio e liberatorio che attraversò
l’ospedale come una freccia
incandescente. Upokrates si tappò le orecchie mentre gli
strumenti alle sue
spalle esplodevano in mille frammenti cangianti e schizzavano in tutte
le
direzioni. Sentii uno di essi ferirmi il collo e questo mi fece ancora
più
imbestialire. Cominciai a spingere con tutte le mie forze: avrei dovuto
fare
ricorso a tutte le Doti del mostro per liberarmi e stringere le mie
mani
intorno al collo di Upokrates. Desideravo vederlo morire con i miei
occhi e che
lui ricambiasse il mio sguardo nell’esatto istante in cui
avrebbe esalato il
suo ultimo tormentato respiro. Ma per farlo prima dovevo liberarmi.
Mi
puntellai con i talloni e i gomiti, stirando i muscoli e il collo in
una sorta
di anelito alla libertà. Sentivo il cuoio tagliarmi la
pelle, le fibbie rodermi
i muscoli, ma questo mi dava solo una motivazione in più per
spingere, e in
breve riuscii a far saltare alcuni lacci.
-Piccola
ingrata…-, mugugnò Upokrates, lanciandosi verso
di me con l’ago luccicante
della siringa puntato al mio collo. Riuscì a infilzarmi
già dopo un paio di
tentativi, ma solo perché glielo concessi io. Volevo che
vedesse quanto fosse
stato stupido. Mi inoculò il liquido con forza e io lo
sentii sciabordare
veloce nel sangue. Era doloroso ed estenuante resistere, ma strinsi i
denti e
mi morsi a sangue la lingua.
-
Pensa davvero che una misera iniezione sia in grado di fermarmi? -,
mormorai,
osservando gli occhietti cisposi del dottore da dietro le lenti
schizzate di
sangue. Ora sì che erano terrorizzati. Ora sì che
coglievano la follia dietro
alle mie iridi insanguinate.
Tentò
di dire qualcosa, ma la mia mente lavorò più
veloce. Scrutai un paio di volti
fra la marea di spettri che si aggrappavano alla pelle coriacea
dell’uomo e
notai che uno, fra essi, era arrabbiato. Lo capivo
dall’energia che mi
trasmetteva, dal modo in cui fiammeggiava e rimaneva ancorato al collo
di
Upokrates. Ricorsi alle mie doti di Oscura e scoperchiai il velo
invisibile che
divideva il mondo dei vivi da quello dei morti.
-Candida
de nigris et de candentibus atra facere*-, esclamai, mentre la mia voce
modulava e si trasformava in una profonda voce degli abissi. Subito
l’ombra a
cui il mio invito era rivolto, ritrovò il suo spessore,
quello di un giovane
dagli occhi grigi e i capelli rasati. Sorrise con i denti leggermente
appuntiti
e in un solo brevissimo istante affondò le dita nel collo di
Upokrates
facendolo sgolare come un maiale al macello. L’uomo
cominciò, quindi, a contorcersi
sul pavimento, divorato dallo spettro iridescente, ghermito dalle sue
fauci e
dalle sue mani. Risi come mai prima di allora e la telecamera cadde
frantumandosi a terra. La osservai come si osserva un insetto
disgustoso, poi
ricominciai a tirare, incitata dalla sofferenza di Upokrates. Il
vecchio piangeva,
gridava e tentava di strapparsi gli occhi, ma senza alcun risultato.
Sapevo che
prima o poi qualcuno sarebbe venuto a soccorrerlo, forse
un’infermiera o peggio
uno squadrone di soldati, ma non me ne importava. Dovevo solo liberarmi
prima
che arrivassero i rinforzi e porre fine all’inutile vita di
Upokrates. E non
sarebbe stata nemmeno un’impresa impossibile se fosse
veramente andato tutto
secondo i miei piani. Ma Fobos irruppe di corsa nel laboratorio,
gridando a
qualcuno alle sue spalle di stare indietro. Non sembrava teso o
spaventato. Si
limitò a guardare Upokrates mentre si contorceva a terra e
me che cercavo, come
un animale impazzito, di liberarmi.
Mi
si avvicinò lentamente, gli occhi stretti a fessura e le
labbra tese fino a
diventare bianche.
Osservò
le cinghie che mi legavano, diventate così sottili da
cominciare a sfilacciarsi
e impregnarsi del mio sangue.
-
Sei un’idiota-, mi disse risoluto, puntandomi una katana
lunga e affilata alla
gola. Il suo sguardo era indifferente, giusto un po’
indispettito. Non c’era
tremore nella sua mano, né insicurezza nella sua voce. Era
pronto a porre fine
alla mia vita se fosse stato necessario.
-Pensi
di uccidermi? -, risi. Fobos sollevò appena gli occhi,
puntando le sue iridi
ambrate nelle mie.
-Penso
che tu sia stupida-.
La
sua provocazione e la sua freddezza alimentarono il mio mostro, il
quale
aggrappandosi come un ragno ai muscoli del mio viso, mi fece aprire la
bocca e
addentare la spada. Sentii il taglio della lama aprirmi delle ferite ai
lati
delle labbra e innaffiarmi la lingua di quella linfa vitale color
rubino che
amavo tanto. Stavo sfidando Fobos: o lui avrebbe ucciso me o io avrei
ucciso
lui e Upokrates.
L’Ibrido
sembrò pensarci un attimo, poi si avvicinò e con
le dita mi costrinse ad aprire
la bocca. Era difficile resistere alla sua forza fisica, ma
più volte riuscii a
morderlo e graffiarlo. Solo dopo estenuanti tentativi riuscì
a sfilarmi la
spada di bocca.
-Smettila.
Non andrai da nessuna parte così-.
La
sua voce atona mi irritava e mi faceva impazzire gli impulsi nervosi.
Gridai di
frustrazione mentre lo spettro incatenato al dottore gli affondava una
mano nel
cuore e lo faceva urlare disperatamente. Fobos lo ignorò,
senza battere ciglio
e tornò a guardarmi.
-Non
mi interessa se lo uccidi, ma sei sicura di volerlo fare? -,
domandò,
spostandosi leggermente dalla mia visuale per consentirmi di vedere
l’uomo nel
pieno della sua sofferenza. Aveva la bocca spalancata e gli occhi
riversi. Un
rivolo di bava mischiata a sangue gli scivolava lungo il mento.
Sì,
ero certa di volerlo uccidere.
Con
aria di sfida sorrisi a Fobos, poi cominciai nuovamente a dibattermi e
tirare,
pronta finalmente a liberarmi. Lui sospirò, si
lanciò in avanti, contro di me,
e con la spada tranciò tutti i lacci di cuoio. Si muoveva
veloce e preciso
recidendo ogni legaccio con un unico fluido gesto.
Il
mio corpo si ritrovò improvvisamente libero e senza peso.
Non riuscii a mantenere
l’equilibrio e caddi in avanti, fra le braccia di Fobos.
Subito,
nell’immediatezza del pericolo, lo morsicai sul collo e gli
affondai le unghie
nelle costole, strappandogli un gemito di dolore e brandelli di stoffa.
-Dibattiti
quanto vuoi-.
Lo
presi in parola e cominciai a colpirlo in ogni dove, con calci, morsi e
graffi.
Ad ogni mio passaggio la sua pelle si apriva come un fiore, rivelandomi
il
fiore cremisi della sua carne viva. Eppure Fobos non capitolava e ad
ogni nuovo
attacco mi stringeva più forte. Ero completamente circondata
dalle sue braccia
e attraverso il suo torace sentivo il suo cuore battere a una
velocità
incredibile. Aveva paura di morire? Mi fermai per un solo istante, ma
questo fu
sufficiente all’Ibrido per stringere il suo abbraccio ferreo
su di me e
intrappolarmi contro di lui. L’odore della sua magia mi
faceva prudere il naso
e gli occhi avevano cominciato a lacrimarmi, proprio come al nostro
primo
incontro.
-Sta
passando-, commentò Fobos, con voce stranamente gentile, e
oltre la sua spalla
vidi Upokrates svenuto a terra che respirava convulsamente, senza
più alcuno spettro
legato al cuore. Due grosse lacrime mi affiorarono agli occhi, mentre
osservavo
quel corpo sanguinante disteso sul pavimento a qualche metro da noi.
Cominciai
a sentire freddo e a tremare come una foglia. Vedevo sangue ovunque,
sulla mia
biancheria, sul corpo di Fobos e ovunque sul pavimento. Le mie mani
grondavano
sangue e grossi arrossamenti stavano lasciando spazio alla formazione
di
lividi.
-
Ora non entrare in panico. Conta fino a cento-.
La
voce di Fobos prese a cullarmi come una ninna nanna rassicurante e
successivamente lo sentii contare, lentamente, sussurrando i numeri
alle mie
orecchie. Scivolammo lentamente a terra e poi, stretta in quella morsa
fresca e
rassicurante che era il suo corpo, cominciai a rientrare completamente
in me.
-Venti…
ventuno… ventidue-.
Fobos
si staccò leggermente, continuando a contare, e
gettò un rapido sguardo a
Upokrates. Vide la sua cassa toracica alzarsi e abbassarsi e un sospiro
di
sollievo gli gonfiò il petto.
-Continua
a contare-, mi incitò, quando mi interruppi per osservarlo.
Era serio come al
solito, ma i suoi occhi rimandavano lampi di compassione e tenerezza.
-Trentacinque…
trentasei…-, lo assecondai.
-
Brava, stupida idiota-.
Mi
passò distrattamente una mano fra i capelli, come aveva
fatto tempo addietro
Eracleo, e spinta da quel gesto rassicurante, appoggiai il viso sulla
sua
spalla, nascondendolo fra i suoi capelli. Sentii un leggero tremore nel
suo
corpo, poi anche lui tornò a contare. Allungai quindi le
braccia dietro la sua schiena
e lo strinsi con forza: sentivo la testa girare terribilmente e i tagli
bruciavano più del fuoco. Mi ero dimenticata quanto fosse
doloroso richiudere
il mostro nelle profondità del mio stomaco.
-Sessantotto….
Sessantanove…-.
-
Manca poco-, commentò Fobos, riposizionandomi la spallina
del reggiseno e
accarezzandomi la schiena. Era una sensazione strana, ruvida sulla
pelle, ma in
qualche modo gratificante. Non avrei dovuto concedergli di toccarmi, ma
non
riuscivo ad oppormi. Lo lasciai fare e chiusi gli occhi. Entrai in una
sorta di
dormiveglia, a metà tra la vita e la morte, tra il dolore e
la pace.
Fu
solo quando stavo per abbandonarmi al sonno definitivamente che sentii
la voce
di Fobos chiamare qualcuno. Poi le sue mani mi scivolarono sulle gambe
e la
sensazione di non avere peso mi fece salire un conato di vomito. Cercai
di
capire se mi avesse preso in braccio, ma tutto ciò che
vedevo era il viso
dell’infermiera che il primo giorno mi aveva sedata. Il suo
nome era Costantia?
Non ricordavo.
-Dove
la porto? Ha bisogno di cure-, chiese Fobos, scostandomi i capelli dal
viso e
mostrando tutte le ferite che mi ero autoindotta.
Costantia
sussultò e, con un’espressione atterrita, propose
di legarmi a una barella e
trasportarmi in un’altra sala. Istintivamente mi aggrappai
alla schiena di
Fobos, come quando da bambina mi ero aggrappata alle vesti di mia madre
il
giorno in cui mi aveva venduta, e strinsi le cosce attorno al suo
corpo.
Avrebbero dovuto schiodarmi da lì con la forza. Sentii il
cuore di Fobos
accelerare leggermente e perdere il ritmo, poi lo udii parlare.
-Niente
barella, la porto io-.
*Trasformare
il nero in bianco e il bianco in nero.
|
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Capitolo 14 *** Capitolo 13 - Il risveglio ***
Capitolo 13
Mi
risvegliai di soprassalto, aprendo gli occhi di scatto e riemergendo da
un
incubo senza fine. Mi sentivo persa, ragionare mi costava fatica e
l’unica
certezza che avevo era che ero viva. Solo successivamente, piano piano,
le informazioni
mi tornarono alla mente, spuntando come fiori dal cemento. Purtroppo,
però,
assieme ai ricordi, riaffiorò anche il dolore, un male
così intenso da farmi
pulsare le tempie e bruciare il corpo.
Non ricordavo un giorno in cui fossi stata peggio, ma
forse semplicemente
lo avevo rimosso dalla coscienza. Cercai di guardarmi attorno, muovendo
appena
il capo, ma tutto ciò che riuscii a scorgere furono le
pareti bianche che mi
attorniavano. Negli spigoli di quel quadrato asfissiante in cui mi
avevano
rinchiusa erano state sistemate delle strane telecamere, molto diverse
dalle
Cavallette che ero abituata a vedere ronzare per l’Accademia.
Erano
semisferiche e trasparenti, con al loro interno un’iride
rosso fuoco che
seguiva ogni mio movimento. Era così che mi sarei immaginata
gli occhi degli
Dei se qualcuno me lo avesse chiesto: fissi, crudi e privi di reale
interesse.
Rimasi
ferma a guardare il soffitto per qualche minuto fintanto che la luce
della
lampada al neon sopra la mia testa non divenne accecante e tutto il mio
campo
visivo non venne ricoperto da macchie variopinte. Solo allora decisi di
sollevare il busto e puntellarmi sui gomiti. Fu un’impresa
epocale e
straziante, ma alla fine ce la feci. La stanza in cui mi trovavo era
una cella
di isolamento. L’avevo riconosciuta dal fatto che non
possedeva né porte né
finestre e che un sofisticato sistema di rilevamento del calore
corporeo mi
fissava assieme ad un’altra telecamera dalla parete di
fronte. Sospirai,
ricordando perfettamente cosa fosse accaduto: avevo attaccato Upokrates
e avevo
tentato di ucciderlo. Era stata colpa sua, era lui che aveva peccato di
superbia pensando di poter imbrigliare un potere che solo il Tempio
sapeva
gestire. Eppure non potevo fare a meno di sentirmi uno straccio. Avevo
fatto
del male ad un uomo, ad una creatura come me, e questo mi avrebbe
perseguitata
per il resto della mia vita. Sapevo che non era la logica giusta, o
perlomeno
non quella di un soldato, ma il mio stomaco non ne voleva sapere di
smettere di
contorcersi. Una fitta intensa mi colse impreparata anche
nell’istante in cui
la mia mente tornò a Fobos. Avevo attaccato anche lui, lo
avevo persino morso:
sicuramente me l’avrebbe fatta pagare cara. Sbuffai e mi
sistemai i capelli da
un lato. Ero collegata ad una miriade di fili e sensori, tutti facenti
capo ad
un’unica macchina alle mie spalle. Era
un’Incubatrice onirica, senza alcun
dubbio. Ne avevo vista una tempo fa, quando una delle matricole era
precipitata
dal torrione di guardia rimanendo in fin di vita. Ero andata a trovarla
più per
dovere religioso che altro, ma avevo avuto modo di scoprire un paio di
cose
sulla medicina. Noi al Tempio la rifuggivamo, non avendone bisogno e
ritenendola un atto empio nei confronti degli Dei. Ci limitavamo a
usare
unguenti, empiastri e cataplasmi, metodi naturali e pertanto legittimi.
Perciò
all’inizio ero rimasta sconvolta da quella enorme macchina,
simile a un armadio,
e l’avevo osservata con sospetto. Il suo funzionamento,
però, era affascinante
e miracoloso: l’Incubatrice, infatti, fa cadere il paziente
in uno stato
onirico, fungendo come una sorta di anestesia. Pare che durante il
sonno le
cellule del corpo umano si rinnovino, gli stimoli al dolore e il dolore
stesso
siano ridotti al minimo e che lo siano anche l’ormone della
fame e quello dello
stress (rispettivamente grelina e cortisolo). Il corpo produce
più globuli
bianchi, che generano anticorpi, e il sistema accumula energia per il
risveglio. Sfruttando il sonno, quindi, l’Incubatrice onirica
riesce a medicare
in fretta il paziente e a non fare affaticare il suo sistema con
riabilitazioni, medicine dannose o, peggio, droghe. Solo quando il
malato è in
grado di procedere con le sue gambe senza più rischi, la
macchina lo risveglia
inviando una dose di ipocretina, simpaticamente chiamata dai soldati
“dopo
sbornia”.
-E’
incuriosita dalle macchine? -, domandò una voce metallica,
dispersa nell’aria
come sabbia al vento. Mi guardai attorno e individuai
l’altoparlante: era posto
sul soffitto alla stregua di una minuscola presa d’aria. Mi
rivolsi proprio a
quella bocchetta mentre parlavo.
-No.
Dove sono? Chi parla? -.
-Sono
Efesto, mi riconosce? Ho richiesto di essere io il primo a parlare con
lei al
suo risveglio. Spero non le dispiaccia-.
Negai
e l’occhio della telecamera di sinistra ebbe un guizzo.
-Perfetto.
Mi consente di entrare? -.
Annuii
e in breve una porta si aprì dal nulla, facendo sparire un
muro. Le telecamere
si spensero tutte, ammosciandosi come corpi morti, e sulla soglia
comparve Efesto,
vestito di tutto punto e completamente disarmato. Aveva le mani alzate
in segno
di resa e sorrideva teso.
-Non
voglio farle del male-, annunciai, vendendo il colore della paura
inondare come
un cancro tutta la sua aura.
-Lo
so. Posso parlarle? -.
Era
così reverenziale e timoroso che in quel momento fra i due
potevo benissimo
essere io il capo e lui la matricola. Deglutii e annuii
contemporaneamente.
-Bene.
Ho visionato assieme ad alcuni miei colleghi il video che ha generato
Upokrates
durante l’esperimento. Il suo potere è davvero
sconfinato, Custode-.
Il
sorriso che mi rivolse non mi disturbò: non sembrava essere
interessato a
lucrare sulle mie capacità o a svendermi nuovamente a
qualcuno, perciò mi
rilassai.
-Sarebbe
davvero un onore per noi Figli del Vento averla nelle nostre fila-.
Rimasi
sgomenta. Nonostante quello che avevo fatto, nonostante la cattiveria
con cui
avevo attaccato Upokrates e nonostante potenzialmente fossi
un’assassina, loro
mi volevano comunque.
-Credo
di non capire-, ammisi.
-
Il suo Dono, Astreya, può essere una risorsa preziosa se
bene incanalato. E se
sarà disposta a offrirlo a noi, farò in modo che
tutta quanta questa faccenda
venga messa a tacere e che non ci siano ripercussioni sulla sua fedina.
Noi
Figli del Vento, come avrà capito, non amiamo dare del
mostro a qualcuno o fare
paternalismi. Riteniamo, per quanto sbagliato, che il fine giustifichi
i mezzi
e che in un mondo come questo bisogni tutelarsi. Ha visto quanto siamo
oggettivi nel compiere il nostro lavoro, quanto prendiamo sul serio le
nostre
scelte e come ce ne assumiamo la responsabilità. Noi andiamo
oltre ogni logica
e ogni ideologia, ogni partito e ogni casta. Noi ci occupiamo di
preservare
quel poco che abbiamo, con sacrificio e spirito. Facciamo quel che
è giusto,
non quel che è bene-.
Le
parole scorrevano come fiumi rinfrescanti dalle sue labbra e i suoi
occhi
sprizzavano scintille. Forse fare parte dei Figli del Vento non era una
cattiva
scelta, forse esisteva davvero un posto per me, un luogo che, sebbene
non fosse
fisico, mi avrebbe fatto provare quel senso di appartenenza di cui non
avevo esperienza.
Guardai Efesto di sottecchi, cercando di capire se stesse mentendo e se
la sua
proposta fosse solo uno specchietto per le allodole, ma la sua aura era
di un
verde chiaro rassicurante e baluginava serena.
-Potrei
accettare-.
Efesto
si illuminò improvvisamente e la sua barba fremette di
gioia. Allungò una mano
e me la appoggiò sulla spalla nel tentativo di mostrarmi la
sua contentezza, ma
con il solo risultato di farmi stringere i denti per il dolore.
-Sapevo
che aveva la stoffa, Astreya. E farò in modo che lei possa
ancora accedere al
Reggimento dei Biotecnici-.
Aggrottai
le sopracciglia. Nessuno sapeva della mia richiesta a Upokrates ad
esclusione
di pochissime persone. O Efesto aveva parlato con qualcuno di questi,
oppure aveva
delle spie davvero in gamba.
-La
ringrazio-, dissi, chinando il capo in segno di rispetto.
-
Non mi ringrazi. Lei
ci offrirà un
servizio la cui importanza nemmeno si immagina. Qualsiasi cosa lei
desideri,
sarà nostra premura fargliela pervenire-.
Detto
questo fece per allontanarsi, ma appena prima di uscire mi porse una
domanda
che non ottenne altra risposta se non lo stupore sul mio viso.
-Astreya,
si è mai chiesta perché l’Accademia
abbia riaperto? -.
A
due giorni dall’incidente, ancora non mi ero ripresa. Ero
completamente intontita,
in parte dal dolore in parte dalle parole di Efesto. Non riuscivo a
pensare, a
muovermi e a ragionare con lucidità. Quella maledetta
domanda mi assillava e
scavava cunicoli nella mia mente svuotandola di qualsiasi altro
pensiero.
-Guarda
chi si vede! -.
La
voce di Aracne mi riscosse con prepotenza dalle mie congetture.
-Scusate
il disturbo, ma volevo sapere come sta la paziente-.
Salutai
Eracleo con un sorriso, sinceramente contenta di vederlo: ormai per me
era
diventato un amico e un sostegno morale. Vederlo mi metteva di buon
umore e mi
faceva pensare che forse non tutti i soldati erano come Cronyos e non
tutte le
Custodi come sorella Dyana. Tentai di alzarmi per andargli incontro
quando
varcò la soglia, ma il giovane mi fermò prima che
potessi muovere anche solo un
dito e mi aiutò a sedere nuovamente sul letto.
-Mi
hanno raccontato del tuo incidente. Mi dispiace molto. Ecco tieni, ti
ho
portato questi per tirarti su di morale-.
Mi
depositò in mano una fine confezione da pasticceria: era
azzurra e verde con un
enorme fiocco rosa sopra. Ringraziai Eracleo, arrossendo, e scartai il
pacchetto.
Al suo interno, impreziosito da della carta dorata sottile come un
velo, erano
appoggiati dei dolcetti ricoperti di zucchero sul punto di esplodere.
Erano
belli e profumati, ciascuno decorato con un fiocchetto.
I
miei occhi erano talmente luminosi e sprizzanti gratitudine che Eracleo
ed
Aracne non poterono trattenere un risolino compiaciuto.
-Credo
ti piacciano. Assaggiane uno-, mi esortò il Caporale,
indicandomi il partito
più grosso e luccicante della scatola. Lo afferrai con le
dita, saggiandone la
consistenza, e poi con circospezione ne addentai uno. Era delizioso con
un
traboccante e ricco ripieno di crema.
-Ti
sarà costato una fortuna…-, biascicai, mentre
masticavo assorta. E in effetti la
verità era che da quando Elladia era sprofondata nei debiti
e nella povertà,
tutti i beni non di prima necessità o erano stati banditi o
erano stati
trasformati in beni di lusso per i ricchi sfruttatori del Paese.
-Niente
di ché. Piuttosto dimmi qualcosa in più
sull’incidente. Come è successo
esattamente? -.
Ripetei
la versione ufficiale che Ares mi aveva insegnato. Erano le stesse
parole che
avevo fornito a tutti, anche alla mia amata Aracne, e che avrei dovuto
ripetere
persino a Cronyos se lo avesse richiesto.
-Ero
in laboratorio con Upokrates per farmi somministrare la Cura quando
è scattato
il sistema di allarme di una macchina che stava lavorando a delle
analisi. Si
vede che c’era una perdita da qualche parte o qualcosa del
genere, perché in un
battibaleno è scoppiata in aria come un fuoco
d’artificio. Per fortuna il
laboratorio è progettato per resistere a incendi ed
esplosioni, altrimenti non
sarei qui a raccontarlo. Ci ha tratti in salvo Fobos-. Era una scusa
idiota, ma
in fin dei conti nessuno aveva motivo di dubitare di me, della vera
esplosione
innescata a copertura della menzogna, né tantomeno di un
medico di spicco come
Upokrates. Anche a lui, infatti, era stato imposto il silenzio circa il
vero
svolgimento dei fatti (e chi sa che somme di denaro aveva dovuto
elargire
Efesto per riuscire a convincerlo). Per lui c’erano in gioco
la perdita del
ruolo di medico e, in conseguenza, del suo buon nome, oltre che di una
marea di
denaro. Upokrates sarebbe morto piuttosto che parlare per cui potevo
ritenermi
in una botte di ferro. E anche se quel verme avesse continuato a
lavorare, io non
sarei più stata trattata da lui, grazie agli Dei.
-Scusate
il disturbo-.
La
voce di Fobos mi colpì come una secchiata di acqua fredda.
Era venuto per
farmela pagare? Non avevo nemmeno il coraggio di guardarlo in faccia.
Strinsi
con forza i lembi del lenzuolo e mi concentrai sulla fitta trama che lo
costituiva.
-Nessun
disturbo! Entri pure-, trillò Aracne, incredula e sgomenta.
Si sollevò dalla
sedia con uno scatto e accompagnò Fobos dall’uscio
fino al mio letto. Per
quanto mi riguardava, avrei preferito non fosse venuto: non solo non
volevo
vederlo, ma non volevo nemmeno sentirlo, non dopo quello che gli avevo
fatto.
Sollevai
lo sguardo su di lui solo perché nessuno si decideva a
parlare e certa che sarei
stata minacciata o qualcosa del genere, ma quando incontrai i suoi
occhi, notai
che non erano diretti verso di me. Fobos fissava Eracleo con le
sopracciglia
inclinate e una sorta di smorfia animalesca sul viso.
-Generale…-,
lo salutò il giovane, scompigliandosi la corta capigliatura
bionda.
Fobos
grugnì una risposta incomprensibile, poi finalmente si
voltò verso di me. Aveva
dei grossi lividi sul collo e delle medicazioni spray di colore nero
che
probabilmente coprivano i segni dei morsi che gli avevo inflitto.
Abbassai di
nuovo lo sguardo, afflitta. Era certamente lì per punirmi,
ora non avevo più
alcun dubbio.
-Buongiorno,
Fobos-, lo salutai seria, cercando di non far tremare la voce.
L’Ibrido,
tuttavia, mi stava completamente ignorando. Il suo sguardo era
incatenato alla
scatola di dolciumi che tenevo ancora in grembo e i suoi occhi si erano
oscurati fino a diventare pozzi di profonda oscurità.
-Come
stai? -, chiese laconico, mentre Eracleo ed Aracne lo fissavano in
silenzio.
Sembravano formiche rispetto a lui, che con la sua presenza riempiva la
stanza.
-Meglio…-,
cominciai, ma prima che potessi finire, Fobos si voltò di
scatto per avviarsi
alla porta.
-Bene.
Vado-.
Fulminea,
aggettivo migliore per descrivere la sua visita non c’era.
Lo
osservai mentre si allontanava, la schiena dritta e le contusioni scure
sulla
sua pelle incredibilmente chiara. Se soffriva, non lo dava certo a
vedere:
affrontava il dolore a maniera sua, ignorandolo e fingendo di essere
invincibile. Ma io avevo visto nella sua mente e sapevo a che cosa
andava
incontro durante le sedute con Upokrates. Anche lui era un uomo, alla
fine.
-Fobos-,
lo chiamai, poco prima che il suo piede superasse il limite del non
ritorno.
Non avevo idea di cosa avrei detto, ma mi sarei scusata come si deve.
Sarebbe
stato umiliante chiedere perdono all’uomo che aveva tentato
più volte di
mettermi le mani addosso, ma ciò non significava che non
fosse la cosa giusta
da fare. Non avrei mai pensato che anni di indottrinamento religioso mi
avrebbero fatto propendere per un’azione del genere, ma
evidentemente la logica
del Tempio mi era penetrata fino al midollo. Mi sollevai con attenzione
e,
scortata da Eracleo e Aracne fino all’uscio, mi aggrappai al
braccio di Fobos.
L’Ibrido mi osservò perplesso e sentii il suo
avambraccio contrarsi sotto il
mio tocco. Tutto di lui faceva trasparire imbarazzo e sorpresa.
-Possiamo
fare due passi? -, domandai sentendomi trapassare la schiena dalle
occhiatacce sbigottite
dei miei due compagni. Si stavano probabilmente chiedendo cosa mi
stesse
passando per la testa. E, beh, me lo stavo chiedendo anche io. Osservai
le
pagliuzze dorate che occhieggiavano dal mare di tenebra degli occhi di
Fobos e
le sopracciglia scure che gli davano quell’aria
disinteressata e apatica. Mi
stava osservando, o meglio, studiando: fra tutti, infatti, lui pareva
essere
quello con le idee meno chiare.
-
Andiamo? - azzardai, sollevando il volto per guardarlo. Fobos
accennò
impercettibilmente, salutò con rispetto gli altri presenti,
poi senza dire
nulla si incamminò per il corridoio, lasciando che la mia
mano rimanesse
stretta attorno al suo braccio. La sua aura aveva un colore che nemmeno
io
sapevo decifrare.
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Capitolo 15 *** Capitolo 14 - Aborto ***
Capitolo
14
Ci
stavamo osservando da una mezz’ora buona, senza parlare.
Fobos aveva scelto
come luogo del nostro incontro il parco alle spalle
dell’Ospedale, laddove i
pazienti in convalescenza potevano godersi un po’ di aria
fresca. Eravamo
seduti su una panchina, lui sul bordo quasi in bilico ed io al centro.
L’aria
era frizzante e il viso mi bruciava in corrispondenza dei punti in cui
mi ero
ferita. Annusai il profumo dell’inverno imminente e
istintivamente sentii
nostalgia del Tempio. Non pensavo che dopo l’infanzia
traumatizzante che avevo
subito, avrei rimpianto quel luogo. Eppure ora mi rendevo conto di che
cosa
significasse davvero combattere per vivere. Ogni allenamento, ogni
marcia sotto
la pioggia, ogni nuovo mistero mi stava prostrando più di
quanto avrei voluto.
Ma non dovevo fare altro che stringere i denti: in quel momento stavo
lottando
per qualcosa di molto più importante della mia
felicità. Stavo combattendo per
me stessa, per Aracne e per la verità. Che futuro avrei
avuto io in quel Tempio,
in fondo? Volevo davvero morire a quarant’anni, a causa delle
controindicazioni
della magia? Volevo che quella fine toccasse ad Aracne? No, dovevo
tenere duro.
Mi
voltai per affrontare Fobos, ma non lo trovai più al mio
fianco. Si era alzato
e aveva acceso una sigaretta. Ero quasi certa che fosse vietato fumare
nel
campo e che il fumo rientrasse nella lista delle merci di contrabbando.
Feci
una smorfia e sospirai.
-Che
cosa vuoi, Astreya? -.
Era
stato Fobos a parlare. Aveva scandito il mio nome con estrema calma e
lo aveva
rigettato dalle sue labbra in leggiadre volute di fumo. Da dietro
quella
cortina grigiastra i suoi occhi sembravano quelli dei cani randagi di
Carthagyos, vigili e pronti all’agguato.
-Per
prima cosa, volevo ringraziarti-, dissi tutto d’un fiato.
-Ti
ricordi tutto? -.
Fobos
non pareva di cattivo umore, ma notai che la sua aura era in continuo
mutamento. Sembrava che non riuscisse a pensare alla stessa cosa per
più di
pochi secondi. Il suo stato d’animo cambiava in continuazione
e i suoi occhi
cercavano qualcosa che nel paesaggio non c’era.
-Sì,
per questo ti sto ringraziando-.
-Non
devi ringraziarmi. Era mio dovere-.
Sospirai.
Iniziavamo veramente con il piede sbagliato: non voleva nemmeno
accettare le
mie scuse.
-C’è
altro? -, domandò poi, sapendo che non avrei aggiunto altro
e rispondendo al
saluto di una delle sentinelle che si era affacciata dalle mura.
-Hai
parlato con Efesto? Cosa ti ha detto? -.
-
Non sono affari tuoi. Ti ricordo, sottospecie di idiota, che sono un
tuo
superiore-.
Arricciai
il naso. Il suo odore mi raggiunse con violenza e la sua rabbia mi
schiaffeggiò
con forza.
-Senti,
guarda che io volevo solo scusarmi! -, esclamai, alzandomi e
puntandogli un
dito contro il petto. Glielo premetti sul torace con tutta la forza che
avevo in
corpo: se il pensiero avesse potuto tramutarsi in forza fisica, allora
gli
avrei spaccato lo sterno al minimo tocco.
-Che
cosa vorresti fare, scusa? -, commentò lui sollevando un
sopracciglio. Sembrava
che le sue labbra desiderassero tendersi in un sorrisino, ma il resto
della sua
faccia non fosse d’accordo.
-Vorrei
ringraziarti, e giurarti fedeltà, ma tu non me lo lasci
fare! -.
Per
poco la sigaretta non gli cadde di bocca.
-Giurarmi
cosa?! -, domandò con uno sgomento che non gli avevo mai
visto. La sua aura si
tinse di un rosso intenso, quasi bordeaux. Era stupenda: sembrava una
rosa
insanguinata. Doveva riflettere un sentimento molto bello, ma
altrettanto
doloroso.
-
Fedeltà-.
Fobos
mi afferrò per una spalla e cominciò a stringermi
con forza, come volessi
disarticolarmela. Strinsi i denti e affrontai il dolore. Se lui poteva
sopportare tutte quelle sofferenze, anche io potevo farlo.
-Senti,
non so cosa vi mettano in testa al Tempio, ma qui non teniamo
cagnolini-.
Lo
colpii senza nemmeno rendermene conto. La mano si mosse da sola e si
infranse
sulla sua mandibola. Si sentì uno schiocco sonoro e gli
occhi di Fobos si
allargarono per lo stupore. Non erano spaventati, ma furiosi.
-Sei
l’uomo meno ragionevole che abbia mai conosciuto.
Perché ti comporti così?!-.
Il
suo sguardo apatico mi fece scoppiare i nervi e stridere i denti. Avrei
dovuto
strappargli la carne a brandelli quando avrei potuto farlo. Il mostro
nel mio
stomaco fece una capriola.
Mi
voltai e cominciai a incamminarmi verso l’Ospedale, decisa ad
andarmene. Avevo
sbagliato a cercare di venire a patti con Fobos. Eppure, quando sentii
la sua
mano chiudersi attorno alla mia, non esitai a voltarmi.
-Che
c’è? -.
Lo
sguardo di Fobos era furente e i suoi occhi talmente liquidi da
sembrare oro
fuso.
-Se
ti azzardi a tradirmi, io ti uccido-, disse semplicemente, mentre una
brezza
gelida animava i suoi capelli corvini.
Mi
lasciò il polso solo quando vide che non avevo
più intenzione di fuggire. E
come avrei potuto del resto? Ero sbigottita: aveva accettato il mio
legame di
lealtà nei suoi confronti. Forse non aveva idea di cosa
significasse contrarre
un Debito con una Custode, forse facevo meglio a spiegarglielo.
-Hai
idea di che cosa sia un Debito, vero? -.
Fobos
si incamminò e dovetti allungare il passo per stargli
dietro. I capelli gli
ondeggiavano sulla schiena e si incatenavano alle katane nei foderi
obliqui.
-Una
vaga idea. Ma sono certo che vorrai tediarmi con una spiegazione-.
-
Beh, dovresti sapere cosa stai accettando-.
Fobos
attese che lo raggiunsi, poi procedemmo l’uno accanto
all’altra. Era una novità
per me, dal momento che fino ad allora avevo camminato alle sue spalle,
incapace di mantenere la sua andatura. Osservai le sue gambe magre
affondate
negli anfibi e mi resi conto che aveva notevolmente rallentano il passo.
Il
Debito era una antica forma di riconoscenza che le Custodi e i
Sacerdoti
concedevano a pochi e prescelti fedeli. In sostanza, non prevedeva
alcun
rituale, né alcuna donazione. Prevedeva soltanto che i due
contraenti fossero
entrambi disposti ad accettare un legame sacro sancito di fronte agli
Dei. Non
sapevo se Fobos fosse religioso o meno, ma era l’unica forma
di gratitudine che
potevo permettermi: avevo pochi soldi da parte per me e non potevo
concedermi
il lusso di fargli un dono migliore del mio servizio come Custode.
-Non
è che disprezzi la Religione, ma diciamo che non credo agli
Dei. Quindi, non mi
interessa niente dei dettagli sacri di questa cazzata che stai facendo-.
Il
suo tono era crudo e severo, sebbene la sua aura baluginasse tranquilla
alle
sue spalle. Fobos era di certo una contraddizione vivente. Pensava una
cosa e
ne diceva un’altra, tirava uno schiaffo, ma poi ti salvava la
vita. Era un uomo
decisamente confuso.
-Quindi?
-, domandai, raccogliendo una foglia rosso vivo e osservandola in
trasparenza.
Era meraviglioso vedere come la Natura ci somigliasse:
quell’intricato reticolo
di venature cremisi era in tutto e per tutto simile al mio sistema
circolatorio.
-Quindi,
ti ho posto la mia unica condizione. Credo che tu voglia qualcosa da
me, anche
se non riesco davvero a capire cosa sia. Perciò, ti
prenderò come allieva. Non
è quello che vuoi? -.
Sospirai,
alzando gli occhi al cielo. Fobos davvero non ci arrivava. Sospettai
che quel
giovane avesse avuto gran poco dalla vita e che non comprendesse cosa
fosse la
sincera gratitudine. Mi faceva innervosire, ma al contempo mi ispirava
tenerezza. Piano piano Fobos stava riuscendo a smuovere qualcosa in me:
curiosità, forse, o empatia. Questo ancora non lo sapevo con
certezza.
-Va
bene, pensala come vuoi-, sbuffai, poi lo afferrai per una ciocca di
capelli e
lo costrinsi ad abbassarsi verso di me. La sua aura cominciò
a ribellarsi,
espandendosi e contraendosi con forza, fino a farmi lacrimare gli occhi.
-
Exegi Monumentum aere perennius* -, pronunciai, disegnando un cerchio
con l’indice,
prima sulla sua fronte e poi sulla mia.
-Che
cosa stupida-, mormorò lui a patto ultimato, riprendendo a
camminare. Feci per
seguirlo, ma Fobos, salutandomi con la mano, mi pietrificò
come suo solito.
-
Non devi seguirmi ovunque come un cane. Ci si vede, matricola-.
Odiavo
quell’uomo.
-Amore,
non avere paura-.
Era la voce di mia madre. Spalancai
gli occhi e mi ritrovai di fronte il suo viso stanco e solcato da
rughe. Quella
donna aveva sempre avuto il brutto vizio di aggrottare le sopracciglia.
Ero
raggomitolata in un angolo, nella mia stanza di allora. Indossavo dei
pantaloni
troppo corti per la mia età e una maglietta unta con
disegnato sopra un
unicorno stinto. Capii immediatamente che giorno fosse e cominciai a
tremare.
Mia madre mi porse un bicchiere di acqua e me la fece scolare in un
unico
sorso. – Vedi? Ora va meglio-.
-Mamma-, sentii dirmi- Perché non mi
vuoi più? –
Nessuno rispose. Ma gli occhi della
donna che mi aveva partorito tredici anni prima si velarono di un tono
di
malinconia che non avevo mai scorto sino a quel momento. Le labbra le
tremavano
leggermente e non sapevo se fosse perché stava per parlare o
per qualche altro
motivo. Infine la donna si alzò e si diresse verso la
finestra che dava sul
Tempio. Era la mia finestra preferita perché da
lì si poteva vedere il giardino
delle Guaritrici, colorato da ciuffi lavanda e da folti cespugli.
-Vedi laggiù, amore? -, disse mia
mamma, mentre con l’indice indicava la figura del Tempio.
Sembrava un gigante
accovacciato sul pendio di una collina, a meditare. Mi alzai, osservai
qualche
istante la sua ombra allungarsi pigramente verso di noi, e poi annuii.
-E’ là che andrai. Vivrai bene,
tesoro. E anche io e papà-.
Mi aggrappai alla finestra, mentre
mamma finiva di preparare per l’ultima volta la mia valigia.
Era piccola,
perché non avevo ricordi, né effetti personali ad
esclusione del mio
spazzolino. Per un secondo immaginai di gettarmi giù dalla
finestra, sentire il
vento sferzarmi il viso, e poi spiccare il volo, ali spiegate. Allargai
le
braccia imitando un uccello. Se avessi potuto volare me ne sarei andata
in un
posto solitario, erboso e fresco.
-E’ ora di andare! -, esclamò mio
padre da sotto le scale. Sobbalzai, ma non opposi resistenza. Non
avrebbe avuto
alcun senso a quel punto. Scendemmo i gradini mano nella mano, io e mia
madre.
In realtà ormai la sua mano mi era estranea e non ricordavo
quando fosse stata
l’ultima volta che avevamo avuto un simile contatto. Ma
nonostante ciò sentivo
che se avessi mollato la presa sarei caduta e che il dolore che avrei
provato
sarebbe durato tutta la vita questa volta. Così strinsi
più forte le sue esili
dita, causandole un fremito in tutto il braccio.
Mio padre ci aspettava sulla porta,
già pronto a sbarazzarsi di me. Lui non provava rimorso, ma
liberazione. Mi
sospinse fuori di casa, con una lieve spinta, e togliendo dalle mani di
mamma
la valigia, la scaricò fra le mie braccia.
-Bene, ora ti accompagnerò nella tua
nuova casa-.
Vidi una macchina bianca che ci
attendeva nel vialetto e improvvisamente mi apparve come una bocca
spaventosa,
pronta a triturarmi se ci fossi entrata. Mi voltai in cerca degli occhi
blu
scuro di mia madre, ma lei era già scomparsa, troppo debole
per affrontare un
addio.
Un nuovo pizzicore e una nuova
scarica si irradiarono nel mio corpo nel momento in cui mio padre mi
cacciò in
macchina con la forza.
-Porti questo Aborto via da qui…-
Mi
svegliai di colpo, affogata in un mare di sudore e urlante. Aracne era
già al
mio fianco e mi teneva la mano stretta fra le sue. Erano passate delle
settimane dall’ultima volta che avevamo avuto un contatto,
precisamente dal
giorno in cui lei aveva tessuto quella Tela.
-Sto
bene era solo un incubo-.
Mi
sforzai di sorriderle e non mostrarle il mio turbamento. Fu
così difficile che
mi venne una specie di paralisi alle guance.
-Ti
porto un bicchiere d’acqua-, si propose la Custode e con dei
passetti veloci,
la vidi scivolare in bagno. La udii aprire il rubinetto e poi percepii
lo
scroscio rassicurante dell’acqua. Era da così
tanto che non avevo incubi, da
non ricordarmi nemmeno più la sensazione di soffocamento e
angoscia che
lasciavano al risveglio. Il nodo che avevo alla gola sembrò
sciogliersi solo
dopo aver tracannato l’acqua che Aracne mi aveva portato: era
calcarea e
leggermente calda, ma mi fece comunque un gran bene. Perlomeno ai miei
nervi.
-Ancora
lo stesso sogno? -, mi domandò, ma Aracne conosceva
già la mia risposta.
-Si
vede che non ho accettato ancora la mia Natura-, dissi, accendendo la
luce e invitando
la donna a infilarsi nella branda con me. Era un letto piccolo e corto,
ma se
stavamo vicine, potevamo condividerlo. Lei non si fece pregare e, come
faceva
ogni notte da quando ero arrivata al Tempio, piena di incubi e fobie,
prese ad
accarezzarmi i capelli lentamente, come se stesse intessendo una delle
sue
Tele.
-
Ricordati sempre che non importa da chi o dove nasci, ma quello che
scegli di
essere. Non farti definire dal termine Aborto-.
Gli
Aborti altri non erano che degli emarginati, dei poveri indesiderati a
cui la
Società si prefiggeva di trovare un posto nella vita. In
seguito all’aumento
della popolazione mondiale, infatti, era stata promulgata una nuova
legge, applicata
poi a tutta Elladia, la Abortion Law: i genitori che non potevano
mantenere un
figlio o che altresì sarebbero ricorsi all’aborto
avevano ottenuto la possibilità
di fare nascere il piccolo e allevarlo grazie a dei sussidi statali
fino all’età
stabilità di dieci anni.
A questo punto
il figlio poteva, infine, essere venduto all’Esercito, al
Tempio oppure ad
un’Ospedale, come cavia. In
sostanza, qualora i genitori fossero stati ancora gravati da
povertà o motivati
a sbarazzarsi del figlio, avrebbero potuto scegliere di venderlo a una
Organizzazione. I più sceglievano l’Esercito
perché pagava meglio e perché
spesso elargiva armi a poco prezzo, ma le bambine per lo più
venivano
consegnate ai vari Templi. E così era successo a me. Io ero
una di quelle
povere creature che non avevano scelto di nascere, ma che in un modo o
nell’altro
gli Dei avevano deciso di mettere al mondo. Ci sarebbe stato un futuro
per me?
O ero destinata a una vita di stenti e prigionia?
-Aracne,
non ti sarebbe piaciuto nascere libera? -, domandai di getto,
ripensando al
desiderio che covavo sin da quando ero piccola, quello di vedere il
mare.
-A
chi non sarebbe piaciuto, Astreya-, mormorò Aracne, con la
voce di chi sta
decisamente per cedere al sonno. Lasciai che scivolasse in una
piacevole
incoscienza e che il suo respiro si facesse pesante. Poi, mi scostai
dal suo
abbraccio, infilai la canottiera e i pantaloni della divisa e ciabattai
fuori
dalla stanza.
*
Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo.
|
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Capitolo 16 *** Capitolo 15- L'arte della guerra ***
Capitolo 15
L’Accademia
era stranamente silenziosa la mattina presto e solo pochi soldati
particolarmente mattinieri la rendevano viva. Quasi tutte le luci erano
ancora
spente, le camere chiuse e sbarrate, le porte presidiate da portinai
annoiati.
Tutto faceva pensare che le vere carceri non fossero quelle in cui
dormiva
Fobos.
-Insonnia?
–
Mi
voltai di scatto. Fobos era appollaiato sul corrimano delle scale e
aveva un
libro appoggiato in grembo.
-Oh,
sei tu. Non ti avevo visto-.
Il
viso di Fobos si piegò in una strana espressione e i suoi
denti
scricchiolarono.
-E
poi dicono che la gentilezza è donna-, borbottò
lui, aprendo nuovamente il
libro e ficcandoci dentro la faccia. Rimase in silenzio, gli occhi che
scorrevano liquidi da una riga all’altra, riempiti
dell’inchiostro che
riflettevano. Non aveva più intenzione di rivolgermi la
parola, eppure non si
era allontanato. Era rimasto lì in bilico, con i piedi
scalzi, i capelli
arruffati e una maglietta verde scura infilata nei jeans stinti.
Sembrava si
fosse appena svegliato.
-
E va bene,- sospirai, avvicinandomi. –Che stai leggendo?
–
Soppesai
l’altezza del corrimano, poi tentai l’impresa. Mi
parve di scorgere un mezzo
sorriso da parte di Fobos, mentre con la coda dell’occhio
seguiva i miei
movimenti. Forse la mia poca atleticità lo divertiva.
-
“L’arte della guerra” -,
mormorò poi, mostrandomi la copertina consunta. Quel
libro era un vecchio trattato, rieditato per secoli e destinato a
infoltire le
vuote biblioteche delle Accademie. Nessuno leggeva più
libri, tutto era
presente nella Magna Teca, a disposizione di tutte le nazioni sulla
faccia
della Terra, senza censure e senza abbellimenti propagandistici. Le
biblioteche
insomma erano diventate un vezzo di chi poteva permettersi il costo
esorbitante
di essere un collezionista di antichità. Ciò
nonostante trovavo affascinante
l’idea che un prodotto del futuro, come Fobos, trovasse
più intrigante una
vecchia pagina ingiallita dal lieve aroma di polvere di un lucido e
funzionale display.
-Sei
un nostalgico…-, osservai, sfiorando con il polpastrello la
filigrana della
copertina. Era ruvida e levigante come pietra pomice. Vidi i granelli
di
polvere sollevarsi nell’aria per danzare a ritmo dello
sferzante vento
mattutino che spirava da sotto gli infissi.
-Sì,
decisamente. Il peso del libro mi ricorda che dietro a delle semplici
parole
esiste sempre una persona con una certa consistenza-.
Mugugnai
un –Capisco…-, distratto e mi protesi per leggere
la pagina su cui si era
fermato lui. I suoi capelli fini e lucidi mi scivolarono sulle spalle e
percepii la loro consistenza setosa accarezzarmi le clavicole. Quasi
pizzicavano.
-Oh,
ma è scritto in una lingua antica-, commentai osservando un
alfabeto
completamente diverso dal mio, dal latino o dal Modern English.
C’era qualcosa
di misterioso in quelle lettere e in quei suoni dimenticati che mi
spinse
ancora più vicino al libro, quasi naso contro carta. Cercai
di leggere qualche
riga, di decifrare quei codici enigmatici, ma più ci provavo
più le lettere
assumevano forme diverse somigliando prima ad una parola e poi ad
un’altra.
Così mi staccai di qualche centimetro, giusto in tempo per
accorgermi dello
sguardo lievemente perso e corrucciato di Fobos. Aveva i muscoli delle
braccia
tesi e mi pareva tenesse il libro con un po’ troppa forza,
come volesse
strapparne le pagine. Inarcai un sopracciglio.
-Che
c’è? -, chiesi acida, arricciando il naso.
Fobos
chiuse gli occhi ed espirò: - Sei troppo vicina-.
Lo
disse molto lentamente, con un tono di voce talmente glaciale che
quella
mattinata mi parve di un calore tropicale al confronto. Arretrai
istintivamente
e scivolai un po’ più in basso sul corrimano.
-Ehm,
scusa-, dissi, stranamente a disagio. Lui mi ignorò
spostando lo sguardo
nuovamente sul libro e grattando un’incrostazione di muffa
all’angolo della
pagina.
-Ti
va di leggermi qualche riga? -, dissi poi. La sua aura aveva uno strano
colore,
a metà tra il colore del carbone e il rosso del sangue. Ero
incuriosita.
-Sei
noiosa. Ma non avrei comunque niente di meglio da fare,
perciò…-, disse lui, e
cominciò a leggere.
-
“La configurazione tattica eccellente, dal punto di vista
strategico, consiste
nell’essere privi di configurazione tattica, ossia nella
condizione “senza
forma”. Quando si è senza forma, neanche gli
agenti segreti più profondi sono
in grado di spiarci, né gli uomini più
intelligenti di tramare progetti” -,
citò.
-
Wow, lettura impegnata-, ridacchiai. E per tutta risposta mi beccai
un’occhiataccia.
-
Cosa pensavi, che oltre all’avermi reso una sorta di
disgustoso mostro pallido mi
avessero annichilito anche il cervello? -, commentò
infastidito e rabbioso.
-Disgustoso?
-, domandai scioccata. Era così che si vedeva? Certo il suo
aspetto era
terrificante e innaturale, ma non era vomitevole né
tantomeno raccapricciante
al punto dall’ essere infastiditi anche solo nel guardarlo.
– Non sei
disgustoso-.
Fobos
sospirò aggrottando le sopracciglia e passandosi una mano
sul viso. Si alzò di
scatto, spaventandomi, e in un sol colpo fece scrocchiare tutta la
colonna
vertebrale.
-Ti
conviene andare. Eracleo ti sta cercando-.
-Come?
-. Non stavo capendo più niente. – Come lo sai tu?
–.
Fobos
s’incamminò velocemente, senza fornirmi una
risposta. I pensieri cominciarono
ad accalcarsi l’uno sull’altro, spingendo contro la
parete cerebrale fino a
farmi chiudere gli occhi dal dolore. Allora quel giorno, quando Fobos
si era
interrotto in concomitanza dell’arrivo di Upokrates e Deimos,
non era stato un
caso. Gli Ibridi evidentemente avevano un udito molto più
sviluppato di quello
di un uomo comune. Cominciò a girarmi la testa, ma non
rallentai. Al contrario,
sospinta dalla frustrazione, mi costrinsi a togliermi una scarpa e
gliela
lanciai, colpendolo sulla nuca.
-Ehi,
ti vuoi fermare?!-, gli gridai dietro. Fobos fece retromarcia e come
una furia
mi travolse sollevandomi da terra per la canotta.
-Senti,
non voglio farti male, ma sembra quasi che tu lo faccia apposta a farmi
arrabbiare. Mi stai frustrando! -, disse, mostrandomi i canini
luccicanti.
-Cosa
ci facevi lì, fuori dalla mia stanza? -, domandai di
istinto. C’era un’idea che
mi frullava per la testa, leggera e impaurita come una falena accecata
dalla
luce. Fobos strinse la presa e, trascinandomi, mi fece schiantare
contro un
muro. Un paio di cadetti passarono alle nostre spalle, ma nascosti e
abbracciati dalle ombre come eravamo non ci videro e continuarono nella
loro
passeggiata.
-
Non sono affari tuoi, Custode-, sibilò Fobos quando furono
lontani, ma i suoi
occhi tradivano un certo disagio. C’era qualcosa che non
andava ed era più che
evidente. Fobos riusciva a malapena a bloccare la sua aura che si
gonfiava e
sgonfiava come una stella sul punto di esplodere, il suo colore
cambiava di
continuo e non riusciva a bloccarmi quando lo sondavo con i miei
poteri. Il
viso di un ragazzo rasato dagli occhi verde smeraldo fece capolino
dietro alle
sue ciglia.
-Esci
dalla mia testa! O mando a puttane il Debito –
imprecò, mentre la sua mano mi
teneva appesa al muro con forza. Tossicchiai.
-
Non volevi che incontrassi Eracleo! Perché? -, dissi, senza
perdermi nemmeno
una pagliuzza di sorpresa malcelata nelle tenebre elicoidali delle sue
iridi.
-Ero
lì per caso-, ribatté senza nemmeno lasciarmi
finire la frase.
-Non
eri lì per caso. O non saresti così agitato! -,
esclamai cercando di
assestargli un calcio nelle ginocchia. Lo mancai per poco.
-Tu,
piccola…! -, fece per insultarmi, ma il mio tallone
trovò la via per i suoi
stinchi e il dolore del colpo lo fece zittire per i successivi due
secondi.
-Perché
lo odi? Solo perché è gentile con me? Pensi che
tutti debbano odiarmi come fai
tu? -. Vedevo le difese di Fobos crollare e la sua frustrazione
crescere di
pari passo. Sembrava sul punto di esplodere. Con ferocia mi
bloccò le gambe con
le sue spingendomi ancora di più contro la parete gelida.
Sentivo le sue ossa
cozzare contro le mie e produrre una sorta di scricchiolio sinistro.
Era troppo
vicino.
Sentii
dei passi dietro di noi e udii anche alcune voci allegre. Feci per
chiedere
aiuto, ma la mano di Fobos mi tappò sia la bocca che il
naso, mandandomi in
apnea. Vidi i suoi occhi spostarsi alle sue spalle e osservare i
soldati
sorpassarci senza notare nulla. Era bravo davvero nel rendersi
invisibile.
Quando
tornò a guardarmi sembrava più nervoso di prima.
-Non
me ne frega un cazzo di quel fottutissimo Caporale, chiaro?!-
-Chiaro-.
-Bene-,
sentenziò lui, abbassando la guardia ed espirando tutta la
sua angoscia. La sua
presa mi lasciò uno spiffero di libertà
consentendomi di arrivare a sfiorare il
pavimento con la punta dello stivale. Respirai più aria
possibile perché non
sapevo per quanto sarei stata ancora in grado di farlo. I polmoni
stavano per
collassare dopo tutto quel tempo in apnea. Singhiozzai e annaspai, poi
piano
piano mi ripresi. Non ero ancora pronta ad arrendermi.
-
E allora cosa è tutto questo odio? Si sente sai?!-
-
Hai istinti suicidi allora! –
-No.
Ammettilo! - gli sibilai contro. Fobos fece un passo indietro come un
re
incalzato da un pedone sulla scacchiera. Eravamo ancora molto vicini
tanto da
riuscire a vedere la mia espressione soddisfatta riflessa sul suo viso.
Sentivo
il suo cuore battere contro la mia pelle e il freddo della fibbia della
cintura
che mi premeva contro la pancia. Tutto ad un tratto arrossii.
-Ammettere
cosa? Sei pazza per caso? -, rispose ironico. Ma non lo stavo
più ascoltando,
concentrata sul calore che emanavano le mie guance e sul colorito
rosato che
stavano assumendo. Era la prima volta che mi trovavo così
vicina ad un essere
umano. Nemmeno mia mamma mi aveva tenuto così stretta in
passato e il fatto che
Fobos fosse un uomo non faceva che peggiorare la situazione. Era una
situazione
inappropriata e disdicevole per una Custode. E io cominciavo seriamente
a
sentirmi a disagio e ipersensibile ad ogni minimo contatto.
-Ehi,
stai bene? -, chiese Fobos, notando che ormai fra le braccia aveva un
peso
morto. Si abbassò leggermente per guardarmi negli occhi e
capire se fossi svenuta
o meno.
-
Ti ho, ehm, spaventata? Ti ho fatto troppo male? Ti è
schizzato fuori il
cervello dalle orbite? Che hai, stronzetta? -, cominciò a
dire con un
sorrisetto.
-Lasciami
andare-, dissi a bassa voce, fissando senza alcuna espressione le
ciocche di
capelli corvini suoi e miei che si erano mescolate l’una
sull’altra e che si
erano aggrovigliate a metà strada fra i nostri corpi.
-Dopo
che mi hai assalito, che mi hai torturato con quella tua vocetta e
costretto a
smettere di leggere? No, grazie-.
-Ho
detto: lasciami andare-. Stavolta lo dissi con più veemenza,
cercando di
spingerlo via da me. Infilai le braccia fra di noi e con i pugni cercai
di
allontanarlo. Sentivo il calore del suo corpo sulle mie nocche e il suo
respiro
sui miei capelli. Avvampai e gli tirai un cazzotto.
-Ohi!
-, esclamò lui, ridendo e immobilizzandomi come un salame.
Probabilmente
trovava la situazione molto divertente. In fondo era sempre gioioso
quando era
in vantaggio su qualcuno, specialmente se quel qualcuno era la sua
preda preferita.
-
Si può sapere perché ti sei trasformata tutto
d’un tratto in una tarantola con
le convulsioni? –
Ammutolii,
ma tentai comunque di morderlo quando con le dita mi sollevò
il mento per
costringermi a guardarlo. Sapevo che se avesse incatenato il mio
sguardo al suo
avrebbe cominciato a sondarmi fino a scoprire il motivo del mio
imbarazzo.
Accadde circa sei secondi dopo, a discapito di tutti i miei tentativi
di
fuggire. Mi sentivo come la volpe braccata dai cani. Cercai di
bloccargli il
passaggio come lui aveva fatto con me, ma spingeva contro le barriere
con forza
incredibile, senza nemmeno una ruga di fatica sul volto. Sentivo le mie
difese
cedere secondo dopo secondo e sapevo anche se fosse entrato, cosa che
avrebbe
fatto, non si sarebbe limitato a scoprire perché fossi rossa
in volto e stessi
arrancando, ma avrebbe gironzolato nella mia anima fino a scoprire
qualsiasi
mio segreto. Era la cosa peggiore che potesse succedermi, che tutto
ciò per cui
avevo lottato, tutto ciò che avevo nascosto abilmente,
venisse sradicato da me
con la facilità di chi estrae una carota dal terreno. Pensai
in fretta ad un
accordo.
-Ehi,
ehi, tregua-, bofonchiai, mentre sentivo le sue dita scivolare poco
sotto il
mento. Iniziai ad avere paura e l’istinto di sopravvivenza mi
disse di
attaccarlo. Feci un
enorme sforzo per
mantenere il controllo.
-Le
tregue sono compromessi e i compromessi decisamente non mi piacciono.
Ma è
sgarbato non ascoltare una proposta di pace…-
Fece
una pausa e io ci infilai saggiamente la mia proposta: - Se mi lasci
andare,
non ti importunerò più per il resto della mia
misera esistenza. Non ti
rivolgerò più la parola, ti chiamerò
Generale e non sonderò più, nemmeno per
sbaglio, la tua aura. Rimarrà solo il Debito a legarci-.
Fobos
finse di pensarci, ma poi scosse la testa. – Noiosa. Non
accetto-.
Fece
una pausa, poi con un ghigno storto, avanzò la sua di
proposta.
-Io
ammetto quello che vuoi. Ma tu devi lasciarmi sondare la tua aura con
la
promessa che lo farò solo superficialmente. Inoltre, non
puoi muoverti. Sai,
non voglio dover sputare denti o ricevere altri cazzotti-.
-Se
non accetto? -, domandai osservandogli le spalle magre e la linea della
mascella.
-Sonderò
tutto quello che riesco a sondare. E farà male. Molto male-.
Deglutii.
– Accetto-.
Fobos
sorrise e una ciocca di capelli gli scivolò davanti al viso,
oscurando gli
occhi e affondandoli in un abisso di catrame.
-Bene.
Cominciamo da te-.
Sgranai
gli occhi.
-Non
è giusto! - ribattei, ma Fobos si limitò a
scrollare le spalle.
Mi
fissò negli occhi e lo sentii sondare la mia aura alla
ricerca di un colore o
di un odore che gli facesse capire cosa stessi provando. Scavava
insistentemente, senza delicatezza, intento nella sua ricerca. Non gli
facilitai le cose, ma come da patto non opposi resistenza. Mi limitai a
contare
da uno a cento nella speranza che questo scolorisse e rendesse
più blanda la
mia aura. Non funzionò molto bene. Quello che
percepì Fobos fu quello che
percepii anche io di me stessa. Il ticchettante battito del cuore, la
testa leggera
e la avviluppante confusione di fiamme che tingevano di rosso cremisi
la mia
aura. Mi sembrava di galleggiare in una vasca di petali di rosa e
sangue,
sballottata dall’imbarazzo, sospinta dalla paura, e incrinata
dal disagio. Le
pupille di Fobos continuavano ad allargarsi e stingersi, mentre
spostava gli
occhi leggermente per cogliere ogni sfumatura. Mi salii la nausea e lo
stomaco
si contorse come se avessi ricevuto un pugno. Solo dopo un tempo che mi
sembrò
infinito sentii Fobos dire: - Fatto-.
Sembrava
stranito e confuso. Non sapevo se avesse visto qualcosa di
più di quello che
gli avevo lasciato scrutare, ma dalla sua espressione sembrava proprio
di sì.
-Mmm…-
mugugnò.
-Che
cosa hai visto? Perché quel verso? – chiesi a
macchinetta. Dovetti sembrargli
molto tesa e spaventata perché questo lo fece sorridere. Era
la prima volta che
il suo viso severo si piegava in un sorriso solare, quasi normale. Era
qualcosa
che non mi sarei mai aspettata: era bello.
-
Allora?!-, lo incalzai esasperata.
Poi
accadde.
|
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Capitolo 17 *** Capitolo 16- L'arte dell'amore ***
Capitolo
16
Non
appena Fobos ebbe finito di leggermi come un libro, non
pronunciò molte parole
prima di zittirsi e rimanere immobile con una strana espressione negli
occhi.
Sembrava mi stesse studiando, ogni singolo e insignificante battito di
ciglia, ogni
respiro mozzato, ogni scatto delle dita e degli occhi. Mi guardava
dall’alto,
come un gufo su un ramo.
Feci
per dire qualcosa, qualsiasi cosa che potesse porre fine a quel
silenzio
opprimente che mi faceva esplodere le orecchie. Ma non ebbi nemmeno il
tempo di
dire una vocale che il volto di Fobos si era abbassato sul mio e le sue
labbra
si erano accostate alle mie orecchie. La pelle, là dove
giungeva il suo respiro
si scaldava nel giro di pochi secondi fino a scottare.
-Ti
prego… no-, mormorai socchiudendo gli occhi e pregando le
Divinità che non mi
facesse del male.
-Ti
hanno mai detto che pregare non serve a nulla? – mi
soffiò sul collo. Spalancai
gli occhi e smisi di respirare quando sentii i suoi denti stringermi
appena il
lobo dell’orecchio. Pensai di essermelo sognato o che stessi
impazzendo. Cercai
di scostarmi o di muovermi quel tanto che bastava per respirare, ma le
mani di
Fobos scivolarono sul mio collo e mi spostarono il viso lontano dal
suo, mentre
lui bisbigliava: - Hai promesso, non muoverti-. Obbedii, ma non sapevo
ancora
per quanto e fino a che punto avrei potuto mantenere fede alla tregua.
Mi
scostò i capelli dalle spalle con una delicatezza di cui non
pensavo fosse
nemmeno capace e mi sfiorò il collo con dei baci leggeri. Un
bacio dopo
l’altro, la mia pelle si ricoprì di pelle
d’oca. Era talmente evidente che
anche Fobos se ne era accorto e lo sentii sorridere. –
Incredibile! - disse,
prendendomi in giro. –Sei così sensibile? -.
Avvampai istantaneamente ed ebbi
un sussulto. Le dita di Fobos erano scivolate lungo la linea della mia
mandibola e mi accarezzavano il viso. Non riuscivo più a
ragionare e non potevo
credere che quel tocco delicato, quasi amorevole, fosse quello di chi
fino ad
allora era riuscito solo a mettermi le mani addosso per farmi soffrire.
Fobos
mi posò un bacio sulla pelle tesa della clavicola appena
sotto il bordo della
canotta, mi diede un leggero morso e, intrecciate le dita con quelle
della mia
mano, si portò il mio palmo alle labbra e anche
lì vi depositò un bacio impercettibile,
quasi trasparente. Quando mi lasciò, il braccio mi
scivolò lungo disteso sul
fianco, senza vita. Fobos si staccò leggermente lasciando
scivolare fra di noi
un sottile strato di aria gelida che, dopo il calore del suo corpo, mi
fece
rizzare i peli sulla nuca. Si godette per qualche istante la mia
espressione
sconvolta, poi infilò le dita pallide all’interno
dei passanti dei miei
pantaloni e mi trascinò letteralmente contro di lui. Fece
scivolare una mano
dietro la schiena, sollevò l’orlo della canotta e
si appoggiò sulla pelle nuda,
tenendomi stretta. Allungai le mani per tenerlo a distanza, in un
ultimo,
alquanto disperato e confuso tentativo, ma non potevo niente contro la
sua
presa salda. Mi accarezzò lievemente i capelli districando i
nodi mentre li
percorreva in lunghezza e scostò i ciuffi ribelli dal mio
volto. Ora il mio
viso era completamente esposto al suo volere e la sensazione era quella
di
essere nuda di fronte a lui. Fobos si prese il suo tempo, osservandomi
e
sorridendo con aria divertita. Sembrava indeciso anche lui, tuttavia:
incerto,
cioè, se compiere o meno quel gesto che gli frullava per la
testa e che si
riverberava nei suoi occhi sotto forma di una luminosa e oscura
scintilla.
Rimanemmo lì a fissarci per qualche istante, mentre il
silenzio ci circondava e
le ombre ci danzavano sui vestiti. Poi Fobos si chinò, quasi
al rallentatore, e
dopo un attimo di esitazione a fior di labbra, mi diede un bacio. La
sorpresa
mi congelò del tutto e non riuscii ad oppormi. Non sapevo
che pensare o cosa
provare. Fobos
aspettava una mia
reazione, con quella che mi parve una nota di ansia, ma non la ebbe.
Così si
piegò nuovamente e sostenendomi la testa con la mano
affondata e ancorata ai
miei capelli, mi piegò il viso in maniera tale da poter
premere con più forza
le sue labbra sulle mie. Fu una sensazione stranissima: sentii il
freddo dei
piercing e la loro consistenza liscia e metallica, poi fui scaldata
dalle sue
labbra, tiepide e morbide. Non era una brutta sensazione, anzi. Anche
Fobos sembrò
pensarlo perché non si staccò una seconda volta
per osservarmi, ma mi baciò più
e più volte, sempre lentamente e senza forzare. Mi stringeva
a sé, in maniera
quasi possessiva.
Non
potei impedire alle mie labbra di ricevere tutti quei baci, tuttavia
non li
corrisposi, perché la mia componente da Custode era ancora
sotto shock. Ad ogni
modo non mi voltai e non lo scostai, ma lo lasciai addirittura fare.
Ogni bacio
fu differente: il primo fu dolce come il miele e al contempo insistente
come la
pioggia, il secondo lieve come le nuvole, ma amaro come il
caffè. Il terzo fu
delicato e fragile, ma anche pungente. Il quarto e il quinto furono due
gemelli, l’uno in lotta con l’altro. Il sesto fu
più arrabbiato e scarno, quasi
una punizione. E infine giunse il settimo.
Fobos
si piegò e mi sollevò di peso facendomi emettere
un gridolino di sorpresa. Mi
appoggiò alla parete, tenendomi in braccio, mentre con le
mani gli circondavo
il collo per non scivolare. Era qualcosa di eccessivamente intimo per
me, ma
non riuscivo a muovere nemmeno un muscolo e se anche ci fossi riuscita
probabilmente sarei finita ancora più avvinghiata a Fobos.
Sospirai mentre,
sostenendomi il viso, mi dava l’ultimo bacio. Fu ruvido e
urgente. Mi morse il
labbro inferiore e mi torturò all’inverosimile,
cercando di farmi corrispondere
il suo bacio. Insistette talmente a lungo che quando si
scostò leggermente
sentii un dolore fisico, come se mi avessero strappato
un’unghia o i capelli.
Impercettibilmente mi ero avvicinata a lui, come ad inseguirlo. Fobos
mi
osservò qualche secondo e poi, come per regalarmi la
meritata e agognata fine
delle mie mortali sofferenze, mi diede quell’ultimo bacio,
appena accennato,
così che avrei dovuto essere stata nuovamente io a
rincorrerlo. Ma così come
era iniziato, finì tutto. Fobos si staccò
all’improvviso.
Rimasi
completamente interdetta, con gli occhi fissi su di lui e annegati
nella
sorpresa. L’Ibrido sfoggiò un sorriso sadico e,
facendomi scivolare nuovamente
sulle mie gambe, mi posò a terra. Fu un miracolo se entrambe
non cedettero di
schianto. Infine fece per andarsene, mani in tasca, senza alcun
pensiero ad
affliggerlo. Solo quando stava per svoltare l’angolo e
lasciarmi sola con i
miei crucci, si voltò e mi disse: - Ero geloso-. Sorrise e
sparì, lasciandomi a
me stessa.
Quando
riuscii a riprendermi dallo shock, uscii in cortile a prendere un
po’ di aria.
Avevo il volto in fiamme e sentivo caldo ovunque. Le labbra mi
bruciavano e
sentivo ancora le mani di Fobos su di me. Era una sensazione
stranissima,
qualcosa a cui evidentemente non avevo mai pensato. Mi salirono le
lacrime agli
occhi senza saperne il perché. Forse era perché
nessuno mi aveva mai avvicinata
a quel modo o forse perché speravo che a fare una cosa del
genere sarebbe stata
la persona che amavo. Non riuscivo a decifrare le intenzioni di Fobos,
a capire
se la sua esistenza si basasse sul scacciare la noia o se veramente
cominciasse
a provare del sentimento, anche solo affetto, nei miei confronti. I
dubbi
continuavano ad assalirmi, impietosi come sempre.
-Astreya!
Ti stavo cercando…- La voce gioiosa di Eracleo mi colse di
sorpresa,
costringendomi a strofinare gli occhi con fin troppa energia. Cercai,
quindi,
di stamparmi un sorriso credibile sul volto e lo salutai distrattamente
con la
mano.
-Buongiorno
Eracleo, sei in servizio? -.
Era
in divisa e trasportava una grossa quantità di armi tra cui
due lunghe katane
che gli spuntavano da dietro le spalle e un paio di mini mitragliette
appese al
fianco.
-Sì,
starò via una settimana circa, per cui non potrò
partecipare alla cerimonia del
tuo assegnamento. Mi dispiace-.
Era
sinceramente avvilito, lo percepivo chiaramente, ma c’era
anche qualcosa d’altro:
un malessere più profondo si celava dietro ai suoi occhi.
Era come se nelle
profondità della sua anima un gatto stesse giocando con il
gomitolo dei suoi
intestini.
C’era
qualcosa nell’aria e per quanto Eracleo fosse un
brav’uomo, di certo non era bravo
a bleffare. Così decisi di indagare un po’.
-Che sta succedendo?
Ti vedo preoccupato-,
provai, certa che la mia finta ingenuità fosse un buon
incentivo per farlo
parlare.
-Non
lo sappiamo. Lo Stratega ha inviato tutto il Reggimento degli Ulivi al
Vallum a
Nord. Non aveva mai stanziato così tanti uomini finora. Temo
ci siano delle
sedizioni-.
I
miei occhi si spalancarono per la sorpresa. Il Vallum era
l’enorme cinta
muraria che circondava la sede del Governo di Elladia.
Era una zona sicura: le truppe non vi
venivano mai inviate se non per partecipare a parate o eventi. Senza
aggiungere
il fatto che il Settore governativo era circondato non solo dalle
ciclopiche
mura di difesa, ma anche da una cupola energetica che impediva ai
velivoli
militari non autorizzati di atterrare sul suo terreno. Era impossibile
che
qualche manifestante si fosse arrischiato a prendere di mira un
bersaglio così
impenetrabile, non quando la popolazione che viveva ai piedi del Vallum
era
stata privata persino dell’elettricità. Tutta
l’energia della terra circostante
al Settore era stata, infatti, prosciugata per alimentare la cupola di
protezione ed elettrificare i camminamenti in cima alle mura, dove tra
l’altro
vigilavano gli enormi Molossi.
-Deve
essere successo qualcosa di grave-, mormorai, mordicchiandomi
un’unghia. Sarei
voluta partire anche io con Eracleo, ma la sfortuna aveva deciso che
anche
quella volta il mio Destino fosse deciso da altri. Forse se Fobos fosse
stato
chiamato in causa, avrei potuto fare appello al nostro Debito per
poterlo
seguire.
-
Lo credo anche io, Astreya. Ora devo andare. A presto-.
Si
sporse verso di me e mi strinse la mano con energia. Sentivo
l’odore della
paura e percepii il peso della sua angoscia. Non potevo fare molto per
farlo
stare meglio, né avevo intenzione di farlo. Doveva stare
concentrato, senza
pensare a chi lo aspettava al campo, ai suoi amici o alla sua famiglia.
Era
così che ero sopravvissuta anche io: senza pensare ad altro
che non fosse
ottenere ciò che volevo. Era egoista, ma necessario.
-Eracleo,
stringi i denti e saluta gli Dei-, gli dissi, usando la consueta
formula di
buon augurio di Elladia. Lui sorrise debolmente, sistemando sul petto
la
medaglia del leone ruggente che simboleggiava l’Accademia di
Carthagyos.
-Mi
farò onore-, disse, poi con una breve corsa raggiunse i suoi
compagni. Lo
guardai andare via con un senso di malinconia crescente: sapevo che
sarebbe
tornato, su questo non avevo dubbi, ma mi chiedevo che notizie avrebbe
portato
con sé. Mi concentrai sulla sua figura, tenendola
d’occhio finchè non fu
abbastanza lontana, un piccolo puntino nero in mezzo a un mare
d’inchiostro.
-E’
triste veder partire i proprio compagni, non trova? -.
Deimos
si era materializzato alle mie spalle come un fantasma. Era vestito a
festa,
con un abito grigio scuro e una cravatta blu come la notte. Ipotizzai
che si
stesse recando a una riunione e istintivamente mi venne logico pensare
che
anche Fobos vi avrebbe partecipato.
-E’
triste sapere che potrebbero non tornare-.
Deimos
puntò i suoi occhi verde brillante nei miei. Sembrava
intenzionato a studiarmi.
-Ho
discusso con Efesto e Upokrates circa la sua proposta. So che non
è il momento
migliore per parlarne, ma ultimamente sono stato molto impegnato-.
Una
Cavalletta ci volteggiò attorno curiosa, scansionando sia me
che Deimos. Quando
una lucina verde si accese in cima al suo capo, l’insetto
metallico volò via
soddisfatto e il Generale poté tornare a rivolgermi la sua
attenzione.
-Inoltre
mi è pervenuta una strana richiesta da parte di Fobos. Non
so se ne sia al
corrente-.
-No,
non ne so nulla-.
In
realtà avevo una vaga idea di cosa potesse trattarsi, ma non
volevo che il
Generale sospettasse che stessi cercando di ficcare il naso nelle
questioni
militari di Carthagyos.
-Ha
richiesto di poterti allenare personalmente, Custode. Vorrei sapere
cosa ne
pensa-.
-Non
ho nulla in contrario. Gli ordini dei miei Superiori sono legge ai miei
occhi-,
recitai, cercando di apparire più convinta di quanto non
fossi.
-Capisco.
In tal caso credo che approverò entrambe le richieste, a
maggior ragione perché
lo Stratega sembra intenzionato a monitorare i suoi progressi. Non
abbiamo
smesso di ritenerla il miglior acquisto fino ad ora. Le chiedo solo di
non
frequentare assiduamente Efesto. Per quanto prezioso, è
sempre stato un outsider
per così dire-.
La
mia attenzione si accese come una miccia.
-Che
vuole dire? -.
-Voglio
dire, Custode, che l’Esercito sfrutta Efesto e che Efesto
sfrutta l’Esercito.
E’ questo il genere di rapporto che intercorre tra
l’Accademia e quell’uomo. E’
senz’altro una personalità influente e di spicco,
a cui votiamo il nostro più
assoluto rispetto, tuttavia non dobbiamo dimenticarci che ognuno lavora
per il
suo interesse-.
Le
parole di Deimos dicevano molto meno di quanto facessero i suoi occhi.
Evidentemente ai piani alti si erano accorti che qualcosa non andava e
che
Efesto si era spinto ben oltre il limite consentito, intrattenendo
numerose conversazioni
private con me. In effetti in quelle condizioni sarebbe stato difficile
spacciare
i nostri colloqui per incontri casuali. Senza contare il fatto che le
mie
richieste, avanzate per bocca di quell’uomo, probabilmente
non avevano convinto
del tutto l’acuto intelletto di Cronyos. Sapevo che era un
uomo diffidente e
schivo, ma non immaginavo fino a che punto.
-Non
si deve preoccupare di nulla-.
Deimos
mi pose una mano sulla spalla e mi sorrise.
-Sono
contento che ci siamo chiariti-, disse.
Gli
mostrai il miglior saluto che potei, poi mi congedai da lui. Ero
provata e non
erano nemmeno le otto della mattina. Sperai che quel giorno non mi
riservasse
altre sorprese, altrimenti il mio cuore sarebbe esploso.
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Capitolo 18 *** Capitolo 17- Uno...due...tre...quattro ***
Capitolo 17
Il
giorno dell’assegnamento giunse più velocemente
del previsto. Dopo pochi giorni
di convalescenza dall’incidente, ero subito tornata al lavoro
e grazie al
sostegno dei miei compagni ero riuscita a recuperare le lezioni che
avevo
saltato. Ares e Dyte erano stati implacabili con me, mi avevano
costretto a
ripetere gli esercizi all’infinito, colpendomi e obbligandomi
a rialzarmi senza
posa. Persino
Aracne aveva dato il suo
contributo sopportando ogni singolo giorno le mie lamentele,
fasciandomi le
mani e curandomi le vesciche. Era un sostegno necessario per non
crollare. Le
giornate, infatti, trascorrevano monotone, non avevamo notizie di
Eracleo da
più di tre giorni e al telegiornale si parlava solo di
truppe accampate ai
piedi del Vallum. Nel campo si respirava un’atmosfera di
crescente angoscia e,
nonostante il clima di festa che serpeggiava fra le matricole, i
veterani erano
preoccupati per i loro compagni.
Fu
così che inevitabilmente giunse il momento di fare la mia
scelta.
La
cerimonia ebbe luogo nella Sala Meeting, una lussuosa camera circolare
con
delle poltroncine rosse disposte a semicerchio di fronte ad una
scrivania
ovale. Ci fecero entrare singolarmente, e ognuno di noi uscì
con un nuovo
marchio impresso sul taschino di cuoio della divisa.
Fine
della cerimonia. Non fu nulla di esaltante, né di
particolarmente spirituale.
Non aveva nulla a che vedere con i cerimoniali che svolgevamo al
Tempio, né con
le immense parate religiose che sin da piccola avevo visto sfilare per
le
strade di Lunedì, il giorno sacro agli Dei.
Ad
ogni modo, divenni un soldato del Reggimento dei Biotecnici e venni
finalmente
introdotta ai laboratori. A scortarci il primo giorno fu un certo
Galeno. Era
un uomo sulla quarantina con i capelli brizzolati e un camice
tutt’altro che
pulito. Fumava come un turco (continuavo a chiedermi da dove si
rifornissero
tutti quei soldati dal momento che il fumo era materiale di
contrabbando) e
spesso diceva parolacce blasfeme. Aveva decisamente un temperamento
irruente e
un modo di parlare colorito, ma sapeva decisamente il fatto suo.
Durante
la prima lezione di laboratorio ci aveva già riassunto tutto
il lavoro che
avremmo dovuto svolgere quell’anno e a me in particolare, che
di quelle cose
sapevo poco o niente, diede una marea di file da ricercare nella Magna
Teca.
Voleva che mi mettessi al pari degli altri il più in fretta
possibile e che non
obbligassi l’intero Reparto a rallentare le ricerche.
-Hai
cominciato a farti un’idea di come funzioni il corpo di un
essere vivente? -,
mi chiese al secondo incontro, dando per scontato che fossi partita a
studiare da
Anatomia. Con mia grande fortuna, noi Custodi eravamo donne istruite e
colte, con
un’infarinatura generale in tutti quasi i campi del sapere.
Perciò mentii, certa
che le nozioni base che avevo fossero sufficienti a salvarmi, almeno
per il
momento.
-Ho
cominciato a leggere qualcosa-.
Galeno
sorrise soddisfatto, ammirando il mio impegno, e mi pregò di
seguirlo ad un
tavolo da lavoro di pura e lucida ceramica.
-Bene.
Allora non dovresti aver problemi a sezionare questa Cavalletta.
E’ in tutto e
per tutto simile a un insetto vero, per cui non hai scuse-.
Si
scostò un ciuffo ribelle dagli occhi e con una mossa a dir
poco sbarazzina, mi
porse un cacciavite appuntito. -Per prima cosa apri il pannello
sull’addome-.
Obbedii,
rivoltando l’animale, fermandolo sul piano di lavoro secondo
le indicazioni del
mio superiore e puntando lo strumento sulle piccole viti incastrate
nell’esile
corpo d’acciaio. Svitai rapidamente e in un lampo la creatura
si aprì come un
bocciolo. All’interno, la Cavalletta si presentava
apparentemente come un
normalissimo essere vivente, con tanto di cuore, polmoni e apparato
digerente; solo
ad una seconda occhiata ci si accorgeva che in realtà tutti
gli organi erano
fatti di una sorta di materiale sintetico spugnoso irrorato e scavato
da
cavetti, led, microchip e schede di memoria.
-Bene,
ora prendi questo-, disse Galeno, poggiandomi sul palmo della mano uno
strumento bizzarro, una sorta di forbicina dal manico lunghissimo e
sottile.
Poi infilò una sonda nel corpo della Cavalletta e, dicendo
una parolaccia
dietro l’altra, spinse il cavo fino al cervello
dell’animale. Di fronte a noi,
come per magia, fuoriuscì dal tavolo un display. Questo si
accese da solo e
l’immagine del cervello dell’animale, un gomitolo
di circuiti elettrici e led,
si manifestò sulla sua superficie traslucida.
-Introduci
la tenaglia ed estrai quella scatola grigia che vedi al centro-.
Con
delicatezza infilai le tenaglie nel pannello aperto e, seguendone il
percorso
con l’ausilio delle immagini rimandate dalla sonda, mi
avvicinai al piccolo
oggetto.
-Bene,
adesso sfilala con attenzione. Quella è la sua memoria-,
annunciò Galeno,
applaudendo, quando con estrema fluidità riuscii ad estrarre
l’hard disk dal
corpo metallico della Cavalletta.
-
Cosa ne facciamo del resto? -, domandai, quindi, provando una sorta di
compassione per quel cadavere inanimato che giaceva spiattellato sul
tavolo con
le ali aperte e inchiodate al piano di lavoro.
-Lo
riprogrammiamo. Questo vecchio amico ha bisogno di una memoria nuova.
Tabula rasa,
Sorella-, ridacchiò.
Distrattamente
accarezzai il piccolo capo e le antenne della Cavalletta. Era fredda e
liscia,
proprio come mi sarei aspettata. – Ogni quanto tempo le
riprogrammate? -.
-Ogni
vent’anni. Hanno una memoria veramente eccezionale, queste
piccoline-.
Vent’anni.
Se fossi stata una Cavalletta avrei potuto cancellare
vent’anni della mia vita
con un colpo di spugna. Avrei fatto piazza pulita del dolore, della
tristezza,
dell’odio e di quell’amore che nonostante tutto
provavo ancora per quella
famiglia che non avevo mai avuto. Avrei davvero voluto una memoria
nuova,
concedermi il lusso di un nuovo inizio, ma la vita era diversa dalla
semplice esistenza
che poteva condurre un robot. Non c’era modo di tagliare i
brutti periodi e
prolungare quelli belli. Il tempo scorre sempre senza posa, che lo
vogliamo o
meno.
-Ora
dobbiamo inserire la sua memoria in questo strumento-.
Galeno
mi afferrò per un braccio e mi mostrò uno strano
mostro di metallo con una
bocca rettangolare e una massiccia corporatura.
-Questa
macchina legge in meno di una settimana tutti i vent’anni di
storia contenuti
nell’hard disk e segnala gli eventi importanti che verranno
schedati nei verbali.
Non lo trovi emozionante? -.
Gli
occhi di Galeno erano febbricitanti e il loro azzurro chiaro si era
trasformato
in un accecante grigio dato dal riverbero di tutto l’acciaio
e l’alluminio che
ci circondavano.
-Uno
spasso-, mormorai.
-Passami
la scheda, forza! -, mi incitò. Sbuffai annoiata e tornai al
tavolo di
ceramica, per raccattare l’hard disk. Quando lo toccai,
tuttavia, sentii un
ronzio invadermi le orecchie e persi leggermente
l’equilibrio. Le tempie
cominciarono a pulsare e la vista cominciò a sfocarsi.
Cercai di recuperare il
controllo, ma non riuscivo a comandare la mia mano: non ne voleva
sapere di
lasciare la scatoletta.
Mi
sostenni al tavolo, mentre la stanza vorticava a una
velocità incredibile e gli
alambicchi che sobbollivano rimandavano lampi di luce fluorescenti. Ero
certa
che prima i composti chimici che vi erano stati introdotti fossero
incolore.
Sbattei le palpebre ripetutamente cercando di allontanare da me quei
fuochi di
artificio variopinti, mentre da lontano la voce di Galeno mi
rimproverava per
la mia lentezza.
-Arrivo-,
riuscii a biascicare, mentre una lacrima di sudore mi scivolava rapida
lungo la
nuca.
Un
volto comparve riflesso nell’alambicco sulla mia sinistra e,
quasi urlai,
quando alle mie spalle vidi riflessa l’immagine di un bambino
dagli enormi
occhi verde smeraldo.
Il
bambino era seduto al centro di
una cella completamente bianca, priva di finestre e porte.
Aveva uno sguardo assente, come se
non vedesse ciò che gli stava innanzi. Era ricoperto da
ventose traslucide che
rimandavo piccoli bagliori azzurrini ogni volta che registravano
qualcosa di
interessante e ciocche di capelli scuri gli ricadevano sul volto,
sconfitte
dalla gravità.
Era completamente immobile, come una
statua: non si scompose nemmeno quando la Cavalletta che lo
perseguitava da chi
sa quanto tempo gli ronzò attorno producendo un sibilo
sinistro simile all’ululato
del vento. Quella cosa, infatti, registrava ogni suo singolo movimento
sin da
quando era stato rinchiuso là dentro, con la sola compagnia
di una branda e una
latrina. Perciò il bambino aveva deciso semplicemente di
rimanere immobile,
senza sbattere nemmeno le palpebre. In questo modo l’insetto
metallico forse
l’avrebbe lasciato in pace.
Attenzione
apertura della porta di
sicurezza in corso. Restare dietro la linea gialla fino ad avvenuta
operazione_
Lo
sguardo del prigioniero non si
spostò di un millimetro dal punto del muro che aveva scelto
di fissare quando
una parete sprofondò nel pavimento e uno sbuffo di polvere
si sollevò in aria,
ricadendogli sul capo come fine pioggia.
-Buongiorno. Ti ho portato la
colazione, piccolo-.
Upokrates entrò nel cubo e posizionò
sulla branda del detenuto un piatto contenente un bicchiere
d’acqua e del cibo
liofilizzato.
-Come ti senti, oggi? -, gli chiese
poi, notando che con l’avanzare del tempo la sua
predisposizione all’apatia
stava aumentando. Se fosse andato avanti così probabilmente
il suo
comportamento si sarebbe tramutato in inappetenza e successivamente
sarebbe
morto per inedia o disidratazione.
Il dottore decise di avvicinarsi a
quella creatura così debole e sola. Si chinò ad
osservarlo e con una luce gli
illuminò le pupille. Queste non ebbero alcuna reazione, non
si restrinsero né
tantomeno si allargarono, e il paziente non mutò espressione
nemmeno per un
singolo istante.
-Piccolo? -.
Il bimbo stese improvvisamente il
braccio in direzione di Upokrates mostrandogli l’incavo del
gomito. Si erano
formati dei grossi lividi a causa delle continue iniezioni, ma ora la
pelle si
stava ribellando a quel trattamento e aveva cominciato a mutare,
divenendo meno
sensibile, ma più coriacea. Era una sfortuna per lui:
avrebbe sofferto ancora
di più.
-Sono le sei e mezza. E’ ora
dell’iniezione-, disse il bambino, vedendo
l’espressione interrogativa
dell’unica persona che vedeva da più di due mesi.
-Bravo ragazzo. Non farà male-.
Mentiva, come sempre. Appena l’ago si
infilò nella carne del ragazzino, questo spalancò
gli occhi e con l’altra mano
si tappò la bocca con forza, soffocando un urlo disumano.
Upokrates lo guardò
esterrefatto. Il piccolo stava lottando per non sentire dolore, si
stava
ribellando a quegli impulsi primordiali che il cervello gli inviava.
Una
miriade di lucette blu elettrico si accesero a livello del suo capo,
quando il
liquido scuro cominciò a inondargli di catrame le vene e le
arterie.
-Uno… due… tre… quattro-.
Non aveva mai contato prima di
allora. Forse era un modo per concentrarsi su qualcosa che non fosse
quella
sofferenza senza fine. Upokrates ristette un po’ a guardarlo.
Era solo un
bambino di sei anni eppure si comportava come un adulto. Riusciva a
dominarsi
con una padronanza di sé incredibile.
-Passerà fra poco-, gli comunicò
Upokrates estraendo dal carrellino che aveva portato con sé
un altro farmaco.
Questo era il peggiore perché doveva essere iniettato
direttamente nel collo, e
rischiava di mandarlo in arresto cardiaco.
Il paziente abbassò il colletto del
camice che indossava e porse la giugulare al suo carnefice. Aveva gli
occhi
oscurati da una patina di indifferenza che lo rendeva mostruoso.
Upokrates
caricò la siringa, ma i dubbi cominciavano a farsi largo in
lui: sarebbero
davvero riusciti a ottenere un soldato in grado di padroneggiare la
magia a
quel modo? O anche lui come il primo paziente sarebbe morto
all’età di quindici
anni? Avevano pensato a tutto stavolta, lo stavano già
pretrattando da un anno,
da quando i genitori lo avevano venduto all’Ospedale
militare. Ma la domanda
era se gli steroidi fossero sufficienti a irrobustirlo per
ciò che lo avrebbe
atteso dopo.
Upokrates con un colpo secco centrò
il collo del paziente e con una spinta altrettanto decisa
inoculò il liquido
denso. Poi osservò la reazione del bambino. Questo come al
solito cominciò ad
iperventilare mentre le vene del collo gli si gonfiavano fino allo
spasmo
cercando di far passare quella sostanza estranea. Solo dopo, quando la
sensazione di morire lo travolse, il ragazzino si morse con forza le
piccole
labbra. Una goccia color rubino spuntò da sotto i denti
bianchi e come una
lacrima gli scivolò sul mento. Aveva preso a tremare di
nuovo, ma non poteva
cedere proprio ora. Upokrates gli porse il pasto che gli aveva portato,
quello
nel quale aveva mescolato gli steroidi.
Gli infilò in mano un cucchiaio
enorme e glielo riempì di quella sbobba. Due enormi lacrime
sporche rigarono le
guance del bambino che ingollò il cucchiaio senza fare una
piega.
Dopo che il dottore ebbe finito con
lui, il giovane si rannicchiò nuovamente
nell’angolo e si rimise a fissare il
vuoto. Non gli importava morire, diventare un mostro o qualsiasi altra
cosa,
eppure una rabbia cocente gli avvampava all’imboccatura dello
stomaco, così
dirompente da fargli venire la nausea. Era giusto provare odio per i
propri
genitori e per il proprio fratello? Era normale desiderare vivere per
ottenere
la vendetta tanto agognata sui suoi aguzzini? Era giusto affogare nel
dispiacere
e inacerbire il proprio cuore fino a renderlo di pietra? Il suo cuore
diceva
che era meglio morire, ma la sua testa non ne voleva sapere.
Grattò con le
unghie il pavimento, ricordando come fosse morbida la moquette di casa
sua, poi
sui suoi occhi ricadde quella cataratta di apatia che ormai indossava
ogni
giorno, in attesa di crescere. O di morire.
La mattina successiva fu nuovamente
Upokrates a svegliarlo, ma stavolta con una grossa sorpresa.
-E’ venuta una persona a trovarti-,
disse con voce entusiasta, sperando che vedere qualcuno della sua
famiglia avrebbe
reso il bambino di buonumore. Sapeva che i farmaci che gli stava
somministrando
causavano depressione, perciò quello era un modo come un
altro per mantenere il
paziente in uno stato psichico stabile.
-E’ venuto tuo padre…Upnos. Te lo
ricordi, piccolo? -.
Davanti al prigioniero apparve un
uomo distinto, vestito in giacca e cravatta, con un bel cappello in
mano. Era
invecchiato dall’ultima volta che lui e il figlio si erano
visti. Il piccolo
ricordava meno capelli bianchi e meno rughe.
-Ciao, tesoro-, disse l’uomo
abbassandosi e porgendo al bambino una piccola caramella al limone.
Erano le
sue preferite, perché una volta in bocca causavano un
pizzicore piacevole e
rinfrescante. Ciò nonostante non la prese e si
limitò a fissare quel dolciume,
quel frammento di ricordo perduto per sempre. La Cavalletta gli
ronzò sulla
testa e il piccolo la seguì con lo sguardo.
-Non parla? -, chiese il padre a
Upokrates. Il medico scrollò le spalle, come se il mutismo
del figlio fosse una
cosa da niente.
-Parla solo quando gli pare. E’ una
fase, la supererà-.
Il visitatore sorrise nervoso,
appoggiò la caramella sul bordo del lettino sfatto e fece
retromarcia.
Il bambino rimase nuovamente solo.
Allungò una mano verso le sbarre del letto e con cautela
prelevò la caramella.
La scartò con lentezza infinita godendosi ogni singolo
luccichio della carta
dorata che la avvolgeva. Infine si ritrovò di fronte una
sfera di zucchero
bianca, pura e lucida come il latte. Gli salì un conato di
vomito, ma lo
represse abilmente. Sapeva che se avesse vomitato nessuno lo avrebbe
pulito
fino alle sei e mezza, quando si sarebbero ricordati di lui.
Lanciò la caramella in aria, la
osservò volteggiare con il naso
all’insù e poi, con un unico colpo secco, la
colpì con il taglio della mano e la distrusse. La fece
esplodere in mille
granelli che ricaddero a terra, mescolandosi allo sporco, alla polvere
e al
linoleum. Era stato divertente distruggere quella piccola sfera
indifesa, dissolvere
anche l’ultimo legame che intrecciava la sua miserabile vita
a quella dell’uomo
che l’aveva abbandonato. Rise di gusto, come non mai,
finchè non gli mancò il
fiato e le lacrime gli spuntarono sulle ciglia. Poi, finalmente,
cullato dalla
solitudine e dal ronzare della sua Cavalletta, si addormentò.
-Buonanotte, Fobos-, disse Upokrates
tramite altoparlante, ma il piccolo ormai era sprofondato nuovamente
nei suoi
incubi.
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Capitolo 19 *** Capitolo 18- Il vero mostro ***
Capitolo 18
-Astreya?
-.
La
voce roca di Galeno mi riportò alla realtà.
-Astreya?
-, ripeté Medeya, avvicinandosi a me e poggiandomi una mano
sulla spalla. Mi
voltai lentamente, mentre pensieri oscuri e rischiosi cominciavano a
sgorgarmi
dal cuore come veleno. Stava succedendo di nuovo.
-Sto
bene, Medeya-, mentii, sentendo l’acre sapore della bile in
bocca.
-Che
cosa ti è successo? -.
-Credo
di aver avuto una visione…-, mormorai, lasciando andare
l’hard disk che ancora
stringevo con forza nella mano. Era diventato bollente, come del resto
lo era
diventata la mia rabbia.
Mi
passai una mano sul volto nel disperato tentativo di inghiottire
nuovamente il
ragno oscuro che si stava issando, zampa dopo zampa, su per la mia
gola. Solo
le Bendate potevano avere delle visioni. Come era possibile che ne
avessi avuta
una anche io? Perché dovevo essere costretta a riprovare
quella dolorosa
pressione al petto? Era uno scherzo, una tortura?
Medeya
doveva nutrire i miei stessi dubbi perché mi stava ancora
osservando, le fini
sopracciglia bionde a caduta libera sul naso leggermente adunco.
-Che
cosa stai combinando, Astreya? -, mi domandò con gli occhi
brillanti e pieni di
sconcerto.
Feci
spallucce. Ero sicura che qualcosa non andasse: sapevo che il mio Dono
era
molto particolare, ma stavolta era diverso.
Ripensai
alla tipologia di Dote che avevo sviluppato. Tutto era cominciato con
il mio
arrivo al Tempio. Dopo i primi studi e le prime analisi, si era reso
evidente
il fatto che, pur soddisfacendo le condizioni che il trattamento alla
magia
imponeva, non avevo alcuna propensione particolare per una tipologia di
Dono
piuttosto che per l’altra. Era indifferente, e il mio
potenziale vago. Così
Sorella Dyana aveva ben pensato di impormi il ruolo che riteneva
avrebbe
sviluppato al meglio le mie capacità, quello di Oscura. Mi
aveva detto,
infatti, che era molto difficile allevare una Custode abbastanza forte
da
sopportare il peso del legame che univa il mondo dei morti a quello dei
vivi,
ma che io sembravo fare al caso suo. E io, del resto, avevo accettato
tranquillamente dopo che su un piatto di argento mi era stata posta una
quantità di pietre preziose esorbitante. Tuttavia, mano a
mano che osservavo
Aracne tessere, Dyte volteggiare in aria senza il minimo sforzo e
alcune
Silvane allontanare una tempesta elettrica, avevo capito che essere
solo
un’Oscura non mi bastava. Così nel buio della mia
cella avevo cominciato ad
allenarmi. Rubavo i libri Sacri della Chiesa e li nascondevo sotto al
letto, in
attesa che calassero le tenebre. Solo allora li riesumavo dal loro
nascondiglio
e vi affondavo il naso, avida di conoscenze.
Ben
presto riuscii a controllare piccoli elementi naturali, a guarire le
code
mutilate delle lucertole e a bucare con un pugno le leggere doghe del
letto.
Osservavo le mie compagne durante le ore di lezione e ne imitavo i
gesti con
estrema facilità, divertendomi ad apprendere nuovi e superbi
trucchi di magia.
E sarebbe andato tutto per il meglio se un giorno non fossi stata
scoperta da
una delle Custodi anziane, Sorella Elettra. Da allora la mia
facilità di
apprendimento e la mia capacità di adattamento mi hanno resa
nota nell’ambiente
religioso come la Polivalente.
In
ogni caso rimaneva un pezzo del puzzle che non si incastrava alla
perfezione.
Non avevo amiche fra le Bendate, quindi non avevo mai appreso come
cavalcare le
onde del Fato e del Tempo. Come avevo fatto a riprodurre il meccanismo
che
scatenava in loro le visioni?
-Medeya,
torna al lavoro, o ci sgrideranno entrambe-, dissi, ancora immersa nei
miei
pensieri, per poi tornare al fianco di Galeno.
Cercai di riprendere il lavoro da dove lo avevamo lasciato
e di
concentrarmi su ogni gesto, ma non sembravo in grado di debellare dalla
mia
mente il volto di quel bambino, le sue lacrime di paura e la sua
abnegazione.
La situazione non accennava a migliorare: ero pallida e sudavo freddo.
Non riuscivo
a controllare il tremore alle mani e le immagini di quello che avevo
visto mi
tormentavano. Perché continuavo ad entrare e uscire dalla
mente e dal passato
di Fobos? Era davvero lui quella povera creatura che avevo visto,
torturata con
crudeltà da Upokrates? Non riuscivo a pensare ad altro se
non agli occhi di
quell’infelice bambino di appena sei anni, un Aborto come me.
L’espressione di
Fobos da allora non era cambiata per nulla: schivo, arrendevole, ma
stranamente
iroso e combattivo. Opposti sentimenti lo laceravano nel profondo e
sembrava
non essere in grado di superare il suo passato. Anche io ero stata
nella sua
stessa condizione un tempo, persa completamente nei meandri della mia
mente,
perduta in un mondo di fantasmi e angosce acuite dalla paura delle
percosse di
mio padre. Ma a differenza di Fobos io ero nata così; lui
avrebbe potuto avere
una vita spensierata, un futuro radioso se solo i suoi genitori non si
fossero
stancati di lui. Lo avevano trattato come una pezza da piedi, favorendo
un fratello
piuttosto dell’altro, facendolo sentire inutile e
rimpiazzabile
-Scusi,
posso assentarmi per prendere un po’ d’aria? -.
Galeno
sbattè le palpebre qualche istante, poi le sue labbra
carnose si tesero in un
sorriso di comprensione.
-Ma
certo, non preoccuparti. Prenditi tutto il tempo che vuoi-.
Non
me lo feci ripetere due volte e, come una furia, uscii dai laboratori.
Una
sensazione di nausea mi premeva contro l’esofago, bruciando e
graffiando. Non
riuscivo più a controllare la mia rabbia e la mia
frustrazione. Sapevo che gli
Aborti avevano vita difficile; l’avevo sperimentato
direttamente sulla mia
pelle. Ma nessuna vita al mondo sarebbe potuta essere tanto terribile
quanto
quella che era toccata in sorte a Fobos. Come aveva potuto sopravvivere
ad anni
di dolore e torture? Con che forza? Era solo un bambino, dannazione! Un
bambino
di sei anni appena.
Rapita
come ero dai miei cupi pensieri, tenebrosi come una notte senza stelle,
non mi
accorsi nemmeno di essere giunta alle porte dell’Ospedale. Inconsciamente sapevo
perché ero lì, anche se
non volevo ammetterlo. La mia mano si appoggiò alla fredda
impugnatura della
katana che portavo ancorata alle spalle. Ormai era diventata un
prolungamento
del mio braccio e la lama tagliente mi infondeva una calma disarmante,
simile a
quella della morte. Afferrai l’elsa, sentendo una scarica di
adrenalina
scorrermi lungo la colonna vertebrale. Poi sfoderai l’arma,
osservandone il
luccichio sinistro e ammaliante. Riflessi sul taglio lucido,
intravedevo i miei
occhi. Erano oscurati dall’ombra di un cattivo proposito, ma
al contempo
illuminati da una scintilla di follia. Le sopracciglia scure erano
inclinate e
attorno alle loro estremità si erano formate increspature di
rancore e collera.
Non
me ne sarei pentita, non questa volta. Lo avrei ucciso, sarei andata
fino in
fondo. Mi presi il mio tempo, cercando di distendere i nervi, e prima
di dare
il via al mio mostro diedi un ultimo sguardo alla facciata
dell’edificio,
lasciando che il vento mi scompigliasse la treccia e mi frustasse il
viso.
Inspirai a fondo, strinsi la presa sulla mia arma, e mossi il primo
passo con
un colossale sorriso sul viso. Era il momento di spedire agli Dei una
nuova
anima da divorare.
-Ohi!
-.
Mi
fermai di scatto, alzando appena lo sguardo. Di fronte a me era
comparso Fobos,
ammanettato e con delle bende spray incollate attorno ai gomiti.
Osservai la
piccola chiazza di sangue che si intravedeva al di sotto delle garze
bianche, e
la furia si impadronì completamente del mio corpo. Strinsi
la spada fino a che
la pelle delle nocche non si assottigliò e divenne bianca.
Non
volevo rispondere al saluto, altrimenti l’Ibrido avrebbe
certamente notato l’incrinatura
nella mia voce, intuendo qualcosa circa il mio piano. Per cui cercai di
superarlo, girandogli attorno come fosse un obelisco. Lui mi seguii con
lo
sguardo, immobile e circospetto. Vedevo i muscoli tesi e le gambe
pronte a
scattare. Percepivo il rumore agghiacciante della ghiaia che
scricchiolava
sotto i suoi piedi e percepivo i miei movimenti in ogni loro singolo
fotogramma. Era un duello silenzioso, che dovevo vincere per forza.
Perciò
quando vidi gli occhi caliginosi di Fobos saettare verso la katana,
scattai
come una saetta.
Lui
mi seguì a ruota e guizzò in avanti,
rincorrendomi per impedirmi di varcare la
soglia. I suoi muscoli scattarono come molle e in breve mi fu addosso.
Mi
afferrò per la vita con forza e in un attimo i miei occhi
passarono
dall’osservare bramosi l’entrata
dell’Ospedale al contemplare le nuvole dense
di pioggia. Sentii la schiena colpire l’asfalto e la botta mi
mozzò il fiato.
La katana schizzò lontano dal mio corpo, sotto lo sguardo
incuriosito di alcuni
soldati fuori servizio. Mi aggrappai al terreno nel disperato tentativo
di
raggiungerla, ma improvvisamente la vidi allontanarsi da me, come
accade spesso
negli incubi. Guardai cosa mi stesse trascinando via dalla mia unica
arma e,
come mi sarei aspettata, vidi le mani di Fobos strette attorno alla mia
gamba
destra. Raccolsi, pertanto, tutta la forza che mi era rimasta e,
sfruttando
quanto avevo imparato lottando contro Polufemos e contro i miei stessi
compagni, la incanalai nell’altra gamba. Con un colpo di
reni, riuscii a sollevarmi
quel tanto che mi basò per farla ruotare e assestargli un
calcio nello stomaco.
Questo
andò a colpo con precisione, facendo ringhiare Fobos come un
animale ferito e
costringendolo a indietreggiare di qualche passo. Ma a discapito della
forza
del mio calcio, la presa di Fobos non si era affatto allentata, anzi
andava
rafforzandosi nel tempo.
-Lasciami!
-, strillai, mentre un corteo di soldati e Cavallette accorrevano nella
nostra
direzione.
-Smettila
di dare spettacolo, dannazione! -, mi gridò di rimando
Fobos, trascinandomi a
sé come fossi una fune. Mi divincolai, disperata, tenendo
gli occhi fissi sulla
katana. Riuscii a colpirlo al volto, graffiandolo fino a farlo gemere,
ma non
riuscii a fargli mollare la gamba. Non volevo ferirlo, volevo salvarlo.
Perché
doveva ostacolarmi?
All’orizzonte
il manipolo di soldati si era schierato in formazione e puntava i
fucili su di
me. Avrebbero sparato, questo era ovvio, ma non sapevo se dalla canna
delle
loro armi sarebbero esplosi sedativi o proiettili. E
se volevo evitare di scoprirlo, dovevo
muovermi in fretta. Cercai di scattare in avanti nuovamente,
aggrappandomi con
forza al terreno e spingendo con i piedi contro il suolo friabile.
Fobos, però,
mi riacchiappò rapidamente e, stringendomi in una morsa, mi
sollevò in aria.
-Smettila,
o spareranno! -, mi implorò mentre i suoi occhi scrutavano
lo schieramento che avrebbe
eseguito la fucilazione.
-Che
lo facciano! -.
-Ti
prego, Astreya-.
La
voce di Fobos si era ridotta ad un sussurro implorante e teso. Il suo
sguardo
saettava da un uomo all’altro, probabilmente cercando di
scrutarne i volti e le
identità.
-Non
mi costringere ad uccidere i miei compagni-.
Un
colpo al cuore mi pietrificò istantaneamente e i miei occhi
si allargarono di
schianto. Vidi i soldati che ci circondavano, le loro dita che
attendevano
sfiorando il grilletto, la mano di Fobos che esitava ad un soffio dalla
fondina
della pistola, il braccio che mi teneva sospesa sulla sua spalla.
Avrei
dovuto uccidere anche loro? Erano innocenti e cercavano solamente di
proteggersi da me. Anche i miei genitori per proteggersi avevano deciso
di
abbandonarmi: avrebbero potuto ammazzarmi e farmi un favore, ma avevano
preferito farmi vivere come un oggetto, sfruttata da tutti. La rabbia
crebbe
ulteriormente in me, ma riuscii a trattenerla, arricciando il naso e
stringendo
i denti.
-Mi
arrendo…-, ammisi con la voce strozzata. Fobos
sospirò e le sue spalle si
rilassarono. La mano scivolò via dalla fondina e io mi
ritrovai appesa sulla
sua spalla come un salame. Non opposi alcuna resistenza, ma non riuscii
a non
fissare l’uomo che mi stava guardando da dietro la vetrata
del suo ufficio. Tra
la massa di curiosi che si era affollata dietro i finestroni bagnati
dal sole,
infatti, c’era anche Upokrates. Non poteva sapere che ero
lì per ucciderlo, per
porre fine ad un’esistenza a dir poco blasfema e
intollerabile, eppure desideravo
ardentemente, più dell’aria che respiravo, che lo
sapesse. Sollevai appena il
bacino e con un sorriso aguzzo gli mostrai il dito medio.
-Ti
verrò a prendere, non preoccuparti-, sillabai afona.
Non
so se il messaggio lo raggiunse davvero a quella distanza, ma vidi la
sua
figura indietreggiare e il riflesso dei suoi occhiali spessi sparire
nell’ombra.
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Capitolo 20 *** Capitolo 19- Nastri neri ***
Capitolo
19
-Cosa
pensavi di fare? - mi domandò Fobos, quando fummo finalmente
soli. Ci trovavamo
nella sua cella, seduti l’uno di fronte all’altra.
-
Upokrates deve morire-, ammisi, convinta della mia affermazione. Ero
sicura che
sarebbe successo, perché per una volta sia io che il mio
mostro eravamo
d’accordo.
-Non
puoi dire sul serio-.
-Ti
sembra che io stia scherzando? -, borbottai, una luce sinistra e
inquietante
negli occhi.
L’Ibrido
sbattè un pugno sul tavolo, facendo tremare persino la
lampadina del soffitto.
-Smettila
di essere così egoista! -.
La
forza della sua collera mi travolse come una colata di lava e la sua
aura esplose
come i lapilli di un vulcano, appuntita come un istrice e deforme come
un
incubo.
-Ero
disposto a uccidere i miei compagni per salvarti il culo, e tu non hai
nemmeno
una scusa plausibile? Che cosa ti ha spinta a tanto?!-.
Rimasi
in silenzio, fissandomi i piedi. Accecata come ero dalla mia furia, non
mi ero
resa conto che Fobos si era messo in pericolo per me. Si era parato
davanti a
degli uomini armati, pronto a tentare l’ultima disperata
difesa prima che tutti
e due fossimo diventati degli scolapasta.
-Guardami, per gli
Dei Benedetti! -, urlò, afferrandomi un braccio e
inginocchiandosi di fronte a
me. – E spiegami perché sei così
idiota-.
Alzai
appena il volto e per un istante i suoi occhi mi parvero verde
smeraldo. Non
c’era più traccia del bambino della visione nel
viso di Fobos se non in quella
scintilla, quella miccia che lo rendeva vivo e pronto a lottare. Non si
era mai
arreso nonostante tutto e non aveva mai fatto la vittima. Semplicemente
non si
era fatto mettere i piedi in testa dal Destino, come invece avevo fatto
io.
Improvvisamente, quel ragazzo mi appariva sotto una luce completamente
diversa
e cominciai a provare un profondo senso di rispetto nei suoi confronti.
-Ti
ringrazio per avermi giustificata, anche se non credo che la
passerò liscia-,
mormorai.
-Hai
solo avuto un crollo di nervi. Non chiederanno altro e nel caso ci
penserò io-,
mi ammutolì lui, attendendo ancora una risposta per la
precedente domanda. Non
riuscivo a sfuggirgli in alcun modo.
-Non
ti dirò perché ho tentato di fare quello che ho
fatto. Ma sappi che non ho
cambiato idea-.
Fobos
mi fulminò con i suoi occhi indagatori e, con un gesto che
mai mi sarei aspettata
da lui, allungò le braccia per quanto potè e
accolse il mio viso fra le sue
mani. Poi
accarezzò con il pollice una
ciocca di capelli scuri che gli scivolò lungo il polso,
attorcigliandosi al
braccio.
-Abbasserò
la guardia per un secondo, solo uno. Tu mi dirai tutto, e io non mi
arrabbierò-.
La
sua voce era brusca e i suoi modi rudi, eppure dal modo in cui mi aveva
protetta e mi toccava capii che avrebbe mantenuto fede alle sue parole.
Imposi
al mio viso di rimanere impassibile e ai miei occhi di non indugiare
sui graffi
che gli avevo lasciato sotto all’occhio destro.
Poi,
con calma, snocciolai i fatti. Fobos mi ascoltò
attentamente, senza scomporsi.
Nemmeno quando gli raccontai della mia visione e lo costrinsi a
rivivere il suo
incubo più grande, mostrò cosa stesse realmente
provando sotto il cuoio della
sua pelle. Si limitò a starmi a sentire, come un confessore.
-Come
puoi accettare che quell’uomo viva? Dopo quello che ti ha
fatto, deve morire.
Se la giustizia Divina non esiste, mi rifarò a quella umana-.
Fobos
rise piano appoggiando la fronte sulle mie gambe congiunte. Sentivo la
sua
pelle bruciare attraverso la stoffa dei pantaloni. Non lo avevo mai
visto così
privo di difese, con nessuno. Forse conoscere il suo passato mi aveva
dato la
chiave per accedere a lui, per non essere scansata via come tutti gli
altri.
-E
queste ti sembrano le parole di una donna di Religione? -.
Tra
le lacrime di rabbia che premevano per uscire, mi sfuggì un
sorriso.
-Non
ho mai detto di credere-, confessai. Era la prima volta che lo dicevo
ad alta
voce ed ebbi la sensazione che dopo aver pronunciato quelle sei parole
le
labbra mi fossero diventate ardenti.
-
Senti, non so se te ne sei accorta, ma sono un mostro alto due
metri…-
-Me
ne sono accorta-, risi, ricordando con una punta di amarezza il mio
primo
giorno in Accademia.
-
Pensi che se avessi voluto, non avrei ucciso io stesso quel medico con
le mie
mani? Pensi che non vorrei farlo ancora oggi, dopo che ha tentato di
sfruttare
anche te, sotto i miei occhi? -.
Le
sue labbra si muovevano discrete, ma le frasi che pronunciavano mi
paralizzavano come una tossina, come un veleno dolce e amaro assieme.
-E’
per questo che mi odi? Perché ti ricordo come eri? -,
sussurrai, incredula.
Fobos
si alzò, affondando le mani in tasca dopo essersi acceso
l’ennesima sigaretta.
-Ti
odio per molte ragioni-. Fece una pausa soffiando fuori il fumo dal
naso con un
gesto di stizza. – Ma di certo non ti odio per quello-.
Sospirai.
La macchina del caffè suonò facendoci sobbalzare
e Fobos accorse al cucinino
per versare quella bevanda dall’aroma intenso in due tazze.
Delle due mi porse
quella più bella, con un motivo geometrico accalappiante.
-Astreya,
quando ho accettato il Debito, l’ho fatto non solo per
liberarmi dalla tua
insistenza e da quella faccia da schiaffi che ti ritrovi, ma anche per
evitare
che cose come queste accadessero. Sei stata catapultata in un mondo che
decisamente non fa per te: qui siamo tutti corrotti, chi più
chi meno. Abbiamo
le mani macchiate di sangue e il cervello impalato da dottrine senza
senso. I
soldati sono carne morta alla fin della fiera. E io come loro. Per cui
Upokrates
non è peggiore né di me né di Cronyos,
Deimos o Eracleo. Non ho ragione di
credere che capirai il mio ragionamento, ma ti prego comunque di
riflettere. Se
tu avessi ucciso Upokrates, cosa avresti ottenuto se non rovinare solo
te
stessa? Vuoi davvero finire in una cella come questa e pentirti di quel
gesto
per la tua restante vita? -.
Ingurgitai
il caffè, senza pensarci. Era la prima volta che lo provavo
e pensai che fosse
amaro, amaro come l’odore che la magia di Fobos emanava.
-Non
pensi che sia una sofferenza maggiore vivere piuttosto che morire? -.
-
Fobos, tu pensi di conoscermi, ma non è così.
Capisco perfettamente la tua
posizione, ma non cambio idea. In un modo o nell’altro io
quell’uomo lo
ucciderò. Non sarà oggi, non sarà
domani, ma arriverà il giorno in cui mi farò
giustizia da sola. Non mi importa cosa penseranno gli Dei di me,
né che cosa
penserai tu. Solo quando avrò strappato il respiro a tutte
quelle bestie come
Upokrates avrò pace-.
Fobos
sollevò la tazza fumante, ma quando il suo sguardo
incontrò il suo riflesso nel
liquido scuro, decise di non bere e la riappoggiò sul suo
piattino. Riacciuffò
la sigaretta e la strinse fra i denti.
-Lo
faresti davvero, per me? -, mormorò lui, socchiudendo gli
occhi e nascondendo
le sue iridi cangianti fra le ciglia.
-Sì-,
ammisi.
-Perché?
Cosa te ne importa di me? In fondo non ci conosciamo nemmeno-.
Le
sue parole mi colsero alla sprovvista. Era vero: non sapevo nulla di
Fobos e
lui di me. Eravamo due estranei che lottavano ingenuamente
l’uno contro l’altro
mentre il mondo crollava davanti ai loro occhi. Che stupidi eravamo.
-Pensaci,
Astreya. Io sono l’uomo che ti ha spaventata a morte,
torturata e minacciata.
Sono il mostro che ti ha baciato con la forza e che ti ha rubato
l’innocenza.
Davvero vuoi arrivare ad uccidere per un uomo del genere? -.
Fece
una pausa, prima di mostrarmi il suo volto da lupo,
quell’espressione di
ferocia e dolore che ormai conoscevo bene. Il suo sorriso era
graffiante e
beffardo, pieno di sentimenti contrastanti e di un intenso desiderio di
spaventarmi a morte. Questa volta, però, non avrebbe
funzionato.
Nel
pomeriggio tornò il Reggimento che era stato inviato al
Vallum. Io e Aracne
avevamo sentito le sirene suonare appena dopo l’ora di pranzo
e ci eravamo
precipitate di fronte all’ingresso principale, dove le
guardie stavano
attendendo il ritorno dei loro uomini.
-Sono
certa che Eracleo stia bene-, affermò Aracne, annuendo
più a se stessa che a
me.
La
presi per mano e superammo alcuni gruppetti di soldati che si erano
formati
accanto a noi, e ci posizionammo lateralmente il più vicino
possibile alle
guardiole. Da lì avevamo un’ampia panoramica del
capo e potevo scorgere la scia
nera del Reggimento degli Ulivi che marciava per le vie di Carthagyos.
Sembravano spossati e i carri che li seguivano erano claudicanti, come
se
persino le ruote fossero stanche di camminare.
Un
senso di disagio mi attorcigliò lo stomaco e gettai una
rapida occhiata alle
espressioni dei miei commilitoni. Tra di essi individuai Ares, che mi
sorrise
debolmente. Alzai una mano per salutarlo e lui rispose con un cenno del
capo,
avvicinandosi lentamente.
-Buongiorno,
Custode-, disse semplicemente, porgendomi un orecchino da cui pendeva
un
piccolo pendente a forma di libellula. Era lucente e liscio, ed era il
mio
nuovo distintivo.
-Ti
è caduto-, aggiunse, quando notò lo sguardo
confuso della donna al mio fianco.
Aracne,
in effetti, lo stava fissando curiosa studiando la forma del monile che
mi era
stato appena donato. Era evidentemente perplessa di fronte a quel gesto
apparentemente senza senso, eppure non disse nulla, sapendo che per me
sarebbe
stato più semplice se non avesse ficcato il naso in quel
genere di affari.
Abbassò
il capo in segno reverenziale e, quando Ares si congedò, lo
salutò con rispetto
e reverenza.
-Grazie-,
le dissi, distrattamente, mentre scartavo uno degli orecchini
d’oro del Tempio
e appendevo al lobo il nuovo gioiello. Era inquietantemente pesante,
come se
accettando quel simbolo, avessi abbracciato qualcosa di molto
più grosso e
pesante, qualcosa che mi avrebbe trascinata a fondo.
-
Guarda, stanno arrivando-, annunciò Aracne, la quale non
aveva smesso nemmeno
un secondo di gettare occhiate apprensive al Reggimento in arrivo. La
sirena
suonò di nuovo, per tre volte, poi Cronyos fece la sua
comparsa, accompagnato
fedelmente da Deimos e Fobos. Camminavano lenti e portavano con loro
degli
strani vasi dai manici ad S.
Si
fermarono poco prima della guardiole, a qualche passo di distanza da
me. Erano
tutti vestiti con la divisa, ma erano disarmati e indossavano un nastro
nero
attorno al bicipite. Era il segno del lutto per noi Elladiani: non era
per
nulla di buon auspicio. Cominciai a chiedermi cosa fosse successo in
quella
settimana di assenza, cosa stesse accadendo nel mondo in cui vivevamo,
ma di
cui conoscevamo ben poco. Poi li vidi arrivare. Erano molti meno di
quando
erano partiti e sui carri erano avvoltolati dei corpi. Le lenzuola
sporche di
sangue spiccavano contro il nero luttuoso delle divise dei compagni,
reduci e
sopravvissuti da qualcosa che nemmeno immaginavo. Con un groppo in gola
mi
sporsi più avanti, invadendo lo spazio di un Generale
barbuto. Cercavo segni di
Eracleo, ma lui non si vedeva da nessuna parte. Lo intravidi solo
minuti dopo,
quando l’ansia ormai si era impadronita del mio corpo. Stava
trasportando un
cadavere al cospetto di Cronyos, aiutato da un compagno a me
sconosciuto.
-Ha
servito con onore la causa-, recitò lo Stratega con voce
solenne, e appose sul
petto dell’uomo una medaglia. Ecco a cosa servivano quei
vasi: erano i
contenitori dei riconoscimenti post mortem, quelli che venivano
conferiti ai
caduti per dare conforto alle loro famiglie, oltre che a loro stessi.
Infatti era
credenza comune che una volta morti, i guerrieri, al fine di dimostrare
di
avere ucciso ed essere morti nel nome del bene vero, mostrassero le
medaglie
conquistate in vita agli Dei e che questi, sazi di una tale sorta di
obolo,
accettassero di fare accedere l’anima
nell’Aldilà.
-Eracleo!
-, chiamai quando il giovane Caporale fu libero dalle sue mansioni. Era
pallido
ed emaciato e una grossa fasciatura nera gli avvolgeva la testa. Non
appena udì
la mia voce, si guardò attorno, a destra e sinistra,
cercando di individuarmi
fra i soldati radunati attorno a lui. Sollevai un braccio e lo
sventolai per
richiamarlo.
-Astreya…-,
chiamò quando mi vide, e con passo malfermo
cominciò a dirigersi verso di noi.
Gli
corsi incontro preoccupata. Che diavolo era successo? Perché
i carri erano
pieni di morti? Cominciai a sentire un pizzicore terribile agli occhi e
capii
che avevo paura, paura di un mondo in cui ero entrata per caso e di cui
non
sapevo nulla. Non avevo mai considerato il fatto che i soldati votavano
la
propria vita alla guerra, che ad ogni missione che intraprendevano
c’erano dei
caduti. Io non avevo pensato a queste cose e Fobos aveva ragione. La
realtà
dell’Esercito era molto più oscura e miserabile di
quanto pensassi.
Io
ed Eracleo ci incontrammo a metà strada, in un piccolo
spazio libero ad un
soffio dal cancello aperto. Vidi Cronyos gettare uno sguardo nella mia
direzione e sussurrare qualcosa all’orecchio di Deimos, forse
ripensando alla
scenata di fronte all’Ospedale. Fobos, invece,
voltò appena lo sguardo, mentre
recitava la formula di commiato per l’ennesimo cadavere.
-Caporale!
Meno male che sta bene! -, esclamai, prodigandomi nel consueto saluto
militare.
Eracleo mi fissò per qualche secondo, le mani strette
attorno al corpo. Poi,
fregandosene dell’etichetta, mi gettò le braccia
al collo, stringendomi con
energia. Sentii il lezzo del sangue e del sudore, oltre che della
polvere da
sparo e della morte.
-C’è
mancato poco che non tornassi-, mormorò affondando il viso
nel mio collo e
inspirando profondamente. – Non hai idea di cosa abbiamo
dovuto affrontare al
Vallum-.
Lo
afferrai per le spalle, certa che avessimo un milione di cose da
raccontarci:
volevo sapere tutto di quello che Eracleo aveva visto, nei minimi
dettagli. Ma
quello non era il momento adatto.
-Questo
è un giorno triste per la nostra Accademia, ma è
anche un nuovo inizio-, tuonò
Cronyos, inerpicatosi su un palchetto improvvisato. Parlava a voce
alta, con il
petto gonfio e un’espressione severa sul viso. –
Oggi abbiamo perso una
battaglia, e molti dei nostri amici sono caduti sul campo. Non ci
aspettavamo
nulla del genere, ma ora sappiamo come agire! Ci è servito
da lezione-.
Deimos
salì sulle casse di legno assieme allo Stratega e, con lo
sguardo di una
pantera, abbracciò tutto l’uditorio con gli occhi.
– Compagni, i funerali
avranno luogo tra due giorni, dopo che le salme saranno state
riconosciute e
portate al Tempio per la beatificazione. Le pire verranno accese la
sera stessa
e dopo il compianto funebre, come è tradizione
nell’Esercito di Elladia, ci
concederemo una serata di svago per inneggiare alla nuova e
meravigliosa vita
che attende i nostri uomini nell’Aldilà-
L’ultimo
salire sul piedistallo, dopo che Deimos ne fu sceso, fu Fobos che
squadrò il
circondario con aria assente. Spettava a lui la formula di rito finale.
-Fortuna
fortes metuit, ignavos premit*-, recitò, con la mano sul
petto e lo sguardo
diretto ai corpi fasciati che erano stesi, senza vita, sulle barelle.
Gli
astanti ripeterono la frase per tre volte e per tre volte si colpirono
il
petto. Poi Cronyos scivolò giù dal palco e
guardò nella mia direzione. Il suo
sguardo era una commistione di preoccupazione e apprensione, ma
c’era anche
qualcosa d’altro che si celava dietro le sue iridi
misteriose. Sbirciai la sua
aura senza che se ne accorgesse e mi stupii di ciò che vidi:
Cronyos non si
fidava affatto di me.
*La
Fortuna teme i forti, mentre schiaccia i paurosi.
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Capitolo 21 *** Capitolo 20- Devozione ***
Capitolo 20
Il
Tempio in breve si riempì di fedeli e tutto lo spazio
disponibile venne
occupato da uomini, donne e bambini urlanti, stipati lungo una
interminabile
fila che si chiudeva solo una volta raggiunta la fine del declivio su
cui era
stato eretto il Tempio stesso. Aspettavano, pazienti e logorati, il
proprio
turno per salutare le salme e per regalare loro un ultimo fiore, un
ultimo
bacio. Era presente, oltre al cospicuo numero di fedeli che Sorella
Dyana
annoverava tra le sue fila, anche gran parte dell’Esercito,
lasciato in congedo
apposta per l’occasione. Tutti i militari indossavano la
fascetta del lutto e avevano
disposto le proprie katane ai piedi delle barelle su cui erano adagiati
i
corpi. Era una visione estremamente toccante ed al contempo atroce,
qualcosa
che fino ad allora non avevo mai visto. La madre piangeva sommessamente
accanto
al figlio defunto, la moglie teneva per un’ultima volta le
mani pallide del suo
compagno e la prole accarezzava il viso esangue del padre. Li osservai
a lungo,
cercando di partecipare al loro dolore con preghiere sommesse e parole
di
conforto. Cercavo di comprendere cosa significasse avere una voragine
nel
cuore, quale sofferenza implicasse andarsene dopo il proprio amato o
prima di
un figlio. Ma non ci riuscivo. Non riuscivo nemmeno a figurarmi un
dolore così
intenso. Mi limitai, perciò, ad offrire quanto avevo e
quanto il mio ruolo di
Custode mi concedeva.
-La
vedova laggiù chiede se può avere un fiore-, mi
chiamò Medeya, indicandomi una
giovane donna dai lunghissimi capelli colore del rame. Sfiorava la mano
del suo
compagno con una dolcezza disarmante e i suoi occhi, asciutti per via
della
troppa stanchezza, vagavano senza posa lungo tutto il suo corpo, alla
ricerca
di un segno di vita o di un miracolo.
Non
volevo andare da quella donna, ma non avevo scelta. Era mio preciso
compito
quel giorno tornare ad essere una Custode in tutto e per tutto,
accudendo i
fedeli e piegandomi ad ogni loro richiesta. Era così che
aveva voluto
l’Esercito ed era così che aveva voluto la
Sacerdotessa.
Perciò
mi incamminai in direzione della donna, la quale vedendomi arrivare si
promulgò
in un sorriso cortese. Ricambiai, poi le porsi uno splendido girasole
dal mazzo
di fiori adagiato nel cestino.
-E’
il simbolo della devozione-, le dissi, porgendole il delicato dono e
posando
una mano sulla fronte di suo marito. – Si dice che ere fa,
quando ancora gli
Dei abitavano su questa terra, una donna mortale ebbe la sciagura di
innamorarsi del Dio più splendente di tutti, Apollyo, colui
che dorme nel Sole.
Ne era così innamorata che lo seguiva ovunque, accudendone i
cavalli e
ordinandogli il carro, aspettando che scendesse dal Sole quando faceva
notte e
accompagnandolo fin dove i suoi piedi mortali potevano arrivare al
sorgere
dell’alba. Tuttavia gli Dei non amano come amiamo noi umani.
Il loro affetto è
diverso, simile in tutto e per tutto a quello dei genitori verso la
progenie. Quindi
Apollyo non riuscì mai a contraccambiare l’amore
puro e dedito della donna
nella maniera in cui lei avrebbe desiderato. La giovane in questione,
tuttavia,
nutriva un sentimento di devozione talmente grande che, pur sapendo che
non
avrebbe mai potuto sfiorare il volto di Apollyo, quando giunse il
giorno della
sua morte pregò il Dio di trasformarla in un girasole,
così da poterlo seguire
per sempre-.
-E’
una storia molto bella-, mormorò la donna, adagiando il
girasole fra le mani
del suo giovane sposo. Poi sorrise amaramente: sapeva che quella era
l’ultima
occasione che aveva per salutarlo prima che la pira ne bruciasse i
resti e
consegnasse la sua anima agli Dei. Purtroppo per lei le cose non
sarebbero
andate come alla donna girasole della mia favoletta. Per lei la vita
finiva lì,
su quella barella assieme all’uomo che amava. La lasciai,
quindi, a se stessa
con la speranza che la mia storia avesse lenito almeno un po’
la sofferenza
sanguinosa del suo cuore.
Ciò
nonostante sentivo un peso premermi sulle costole mentre mi
allontanavo, come
se anche a me l’Esercito avesse strappato qualcuno dalle
braccia, come se il
mio cuore fosse stato calpestato dalla fila marciante di un Reggimento.
Se mi
fossi concessa il lusso di innamorarmi di un uomo, avrei saputo
affrontarne la
perdita? Istintivamente i miei occhi si mossero rapidi sulla folla
accorsa e
incontrarono lo sguardo spento di Fobos.
Era
accanto ad una delle barelle. Sul lenzuolo dorato era adagiato un
giovane magro
e dal viso fanciullesco, con una spruzzata di lentiggini sul naso.
Sembrava
serenamente addormentato, con le mani incrociate sul petto e la
medaglia al
valore che riluceva colpita dalla luce.
Mi
avvicinai a lui, silenziosa, e osservai la piega di dolore che le
sopracciglia
di Fobos avevano assunto. Percepivo la forza con cui stava serrando la
mandibola e l’insistenza con cui i suoi denti si graffiavano.
-Vuoi
un fiore per il tuo amico? -, domandai a bassa voce, porgendogli il
cestino
affinchè scegliesse il fiore che più gli piaceva.
Inizialmente mi guardò
perplesso, come fosse stato colto in fragrante a fare qualcosa di
strano o
bizzarro, poi sospirò e allungando le dita
afferrò un tulipano nero. Era interessante
come Fobos, fra tutti i fiori che avevo, avesse scelto
l’unica specie ibrida.
-
Era nel mio Reggimento-, mormorò, infilando il fiore tra le
dita rigide e
fredde del soldato. Lo guardò qualche istante, poi gli fece
il saluto militare
e, con gli occhi gonfi di dolore, tornò a concentrarsi su di
me. – Si
chiamava Ektor. Avrebbe dovuto sposarsi
il mese prossimo-.
Rimasi
interdetta a fissarlo, mentre quello che avrei creduto un uomo senza
cuore,
abbassava lo sguardo e lo puntava sui propri anfibi.
-Mi
dispiace molto-, risposi sinceramente, appoggiandogli una mano sul
petto. Lui
non si scostò né mi allontanò, anzi mi
afferrò il polso e mi ringraziò a bassa
voce.
-Ora
torna ai tuoi doveri, Custode-, disse, infine, puntando gli occhi su
qualcuno
alle mie spalle che da lontano ci guardava. Mi voltai e notai che Iatro
mi
stava osservando.
Era
vestito con un lungo saio viola, il colore del mistero divino, e le
mani e i
piedi gli erano stati dipinti di nero con della brace.
-Buongiorno,
Iatro-, lo salutai, avvicinandomi con fare incerto. Mi ero dimenticata
che
anche lui, in base a quanto diceva il libro dei Figli del Vento, era un
membro
della setta.
-Buongiorno
a te, creatura-, rispose con un sorriso contenuto.
Dovevo
assolutamente trovare un modo per intavolare il discorso, per
affrontare la
questione senza sembrare irriguardosa e senza che orecchie indiscrete
potessero
origliare le mie parole. Scelsi di lanciargli un indizio, sperando che
abboccasse. Cominciai, quindi, ad accarezzare l’orecchio dal
cui lobo pendeva
tintinnando la piccola libellula. Gli occhi del Guaritore seguirono le
mosse
delle mie dita e i suoi occhi guizzarono quando intravidero la forma
aerodinamica dell’insetto volante.
-Vedo
che le mie preoccupazioni erano infondate, dopotutto-, rise, osservando
dritto
davanti a sé.
-Che
cosa vuole dire? Sapeva che avrei scelto questa strada? -.
Iatro
annusò una splendida camelia, poi la lanciò nella
polla, lasciando che le sue
acque terse se la portassero via, sul fondo.
-Speravo
di conoscere abbastanza la tua indole per poterlo prevedere. Sei una
donna
pragmatica, Astreya cara, avresti certamente scelto il partito migliore
nel
ventaglio delle possibilità-.
Mi
guardai attorno, salutando alcuni commilitoni che come me un tempo
erano stati
uomini di Chiesa. Indossavano i loro umili sai ed erano disarmati,
scalzi e con
le mani giunte. Sembravano persone completamente diverse da come le
avevo
conosciute io.
-Perché
mi ha chiesto di mantenere segreta la vera potenzialità del
mio Dono? C’è qualcuno
che devo temere? -.
Iatro
si incamminò verso le colonne, laddove l’eco si
smorzava e il silenzio
troneggiava sovrano.
-E
me lo chiedi anche? -, disse, dopo essersi assicurato che
l’ombra dei pilastri
ci oscurasse alla vista di potenziali nemici. Mi prese dalle mani il
cestino e
lo depositò a terra malamente. Poi mi afferrò la
spalla e fece scivolare via la
maschera. Il suo volto era consumato, gli occhi arrossati e le labbra
screpolate: forse anche lui aveva perduto un ex-discepolo in quella
oscura
missione.
-Cosa
sa che io non so? -, domandai con un filo di voce.
-
So che quei soldati non dovevano trovarsi lì. So che sono
stati presi di
sorpresa durante il pasto serale. So che adesso
c’è una enorme breccia nel
Vallum e che la gente sta cercando di penetrarvi e arrivare al Settore
Governativo-.
Quelle
parole erano senza senso e davvero faticavo ad afferrarle. Mi appoggiai
alla
colonna alle mie spalle, nella speranza che il freddo della pietra mi
rinfrancasse.
-Una
breccia? Scusi, Iatro, ma non riesco ad afferrare-.
-
Ti hanno detto perché hanno stanziato dei soldati sul
perimetro del Vallum,
quando a guardia della cupola ci sono già i Molossi? -.
La
sua domanda nascondeva qualcosa di particolarmente oscuro.
-Ci
hanno riferito che i cittadini erano in rivolta a causa della
povertà a cui
sono ridotti da anni. Sembrava una delle consuete manifestazioni di
questo
periodo. Pare che, tuttavia, stavolta il numero dei ribelli fosse alto
e che
questi avessero comprato delle nuove armi al Mercato Mauriano-.
Stavo
ripetendo la versione che Eracleo mi aveva fornito, eppure nel
pronunciarla, io
stessa percepivo esserci qualcosa di sbagliato. Dei cittadini, seppur
numerosi,
avrebbero davvero potuto avere la meglio su dei soldati organizzati e
addestrati
alla guerra? Le armi comprate grazie ai predoni del Mercato Mauriano
erano
oggetti antichi, ritrovati sotto le sabbie del deserto al Sud, sulla
punta
estrema del confine Elladiano. Grazie a dei metal detector venivano
prelevati
sotto metri e metri di sabbia e venduti ai disperati che avevano
bisogno di
protezione o ai sediziosi. Le armi ormai non erano più
costituite da materiali
ferrosi, per cui sicuramente le armi acquistate dai ribelli dovevano
avere più
di cinquant’anni e di certo, inzaccherate dalla sabbia,
avevano più probabilità
di esplodere contro il cecchino che non sul bersaglio. Sospirai.
Ciò
significava che persino Eracleo mi aveva mentito. Non gliene facevo una
colpa:
era il suo mestiere mantenere top secret le sue missioni.
L’Esercito voleva
così e lui, in quanto suo membro, doveva rispettare la legge.
-Lo
hai capito, vero? E’ tutta una montatura. Anche noi Figli del
Vento ne sappiamo
ben poco-.
-
Crede che ci sia sotto un qualche complotto politico? -.
-
Ancora non lo sappiamo. Le notizie che ci sono state fornite provengono
tutte
dai quartieri poveri. E’ certo che ci sia stata una rivolta e
che l’Esercito
sia intervenuto per sedarla. Tuttavia, nonostante i nostri infiltrati
nel
Reggimento dei Segugi siano dei vecchi lupi e stiano lavorando
instancabilmente, abbiamo ottenuto poche risposte. I cittadini sono
recalcitranti a parlare e nessuno ha voluto spiegarci come è
stata aperta
quella feritoia nel Vallum. In più pensaci bene, i sediziosi
sono così poveri e
male istruiti che non sarebbero mai riusciti a contrattare con i
Mauriani e
uscirne vivi. Non hanno nemmeno le forze e i mezzi per raggiungere il
Deserto.
Qualcuno li deve avere aiutati. Per forza-.
-
Il Governo non parla? -, domandai, rosicchiandomi preoccupata
l’unghia del
mignolo. Era qualcosa che facevo solo quando ero davvero sul punto di
scoppiare. La paura mi avvolgeva le membra e l’angoscioso
incubo di un imminente
conflitto mi serpeggiava per tutta la colonna vertebrale come un
millepiedi
urticante.
-Il
Governo è barricato dentro alla sua Sede. Non mette il naso
fuori da giorni. Il
Reggimento del Sole non si aspettava un attacco di queste proporzioni e
quei
giovani soldati sono ormai rammolliti da anni di banchetti e turni
brevi: il
massimo che hanno potuto fare è stato portare in salvo i
membri del Governo-.
-
E i Molossi? -, chiesi, ricordandomi improvvisamente di quei bestioni.
-Disattivati.
Sono caduti a terra come pere e ora i cittadini li stanno smembrando
per le
strade alla ricerca di pezzi di valore da rivendere-.
Come
era possibile? I Molossi erano degli enormi robot, alti almeno tre
metri, con
uno scheletro di titanio anodizzato, e una muscolatura composta da
diversi
materiali, di cui un rivestimento in pre-impregnato di fibre di
carbonio Erano intelligenze
artificiali molto sveglie, create dalle migliori menti ingegneristiche
al
mondo, e in grado di gestire qualsiasi situazione, di utilizzare le
armi e di
trasformarsi loro stessi in un’arma. Non potevano essere
disattivati da
nessuno, se non dai membri del Governo.
-Ma
non ha senso! -.
Gli
occhi di Iatro brillarono come diamanti nella penombra del colonnato.
Aprì la
bocca e un sorriso inquietante gli si dipinse sul viso.
-E
invece ha senso… Sai chi fa parte del Concilium Governativo?
-, mi chiese, e
io, febbricitante, scossi con energia il capo.
L’uomo
fece, quindi, per parlare, ma la sua lingua si fermò a
metà, riavvolgendosi su
se stessa, e la maschera ritrovò rapidamente posto sul suo
viso.
-Buongiorno,
Stratega! -.
Mi
voltai appena e mi ritrovai gli occhi di Cronyos puntati addosso, fissi
sulla
mia nuca. Lo salutai rispettosamente mentre i suoi occhi gelidi mi
scannerizzavano il viso, alla ricerca di qualcosa. Non lo avevo nemmeno
sentito
arrivare. Sorrisi e lasciai che Iatro e l’uomo si
scambiassero i soliti
convenevoli.
-
Mi scuso per il disturbo, ma la Sacerdotessa richiede la sua presenza.
Ci sono
dei soldati feriti che vorrebbero uno dei suoi cataplasmi per il
dolore. Pare
funzionino meglio degli antidolorifici, per qualche strano motivo-.
Iatro
annuì, teso, e si allontanò, lanciandomi
un’ultima disperata occhiata.
-Custode,
di cosa stava parlando con il Guaritore? Spero che non abbia divulgato
informazioni riservate dell’Esercito. O forse stavate
discutendo del suo
piccolo crollo di nervi? -.
Il
suo tono era piatto e monocorde, ma tutto il suo fisico era rigido e
contratto.
Mi sembrava di avere di fronte una montagna invalicabile. Una
gocciolina di
sudore mi scivolò lungo la schiena, gelandomi la pelle.
-Sì,
parlavamo della mia crisi. Non riesco a capire a cosa sia dovuta-,
tentai,
fingendomi preoccupata.
-
Può succedere. Anche i soldati migliori sotto pressione
esplodono-, commentò,
mentre il suo sguardo abbracciava tutti i fedeli e i soldati presenti
attorno
alla polla, a qualche metro da noi.
-Non
ricapiterà. Sono convinta che allenarmi con Fobos sia stata
la scelta giusta.
Siamo simili-.
Cronyos
arricciò le labbra e corrugò la fronte.
– Simili? Quel ragazzo ha ben più che
semplici scatti di nervi. Assume così tante droghe da essere
più nervoso di un
cavallo. Ma se il suo appoggio può esserti
utile…-.
Con
l’indice e il pollice afferrò un ragno che
scivolava indisturbato sulla colonna
alle mie spalle. Lo osservò intensamente, studiando le
zampette arcuate, il
corpo tozzo e le tenaglie appena sotto gli occhietti lucidi.
-Peccato
che da settima prossima, anche Fobos entri in servizio-,
mormorò mentre un
sorriso aguzzo gli illuminava il volto. Cominciai ad annaspare in cerca
di
aria, senza nemmeno saperne il motivo. Fobos sarebbe partito per andare
al
Vallum. Potevo avanzare la richiesta di poter partire con lui? Non
volevo che
mi lasciasse indietro. Non volevo vederlo assolutamente tornare su una
barella.
Non potevo pensare di finire come quella donna, distrutta e affranta
per il
resto della mia vita.
Istintivamente
cominciai a guardarmi attorno per vedere dove fosse finito
l’Ibrido, Non lo
vidi e il livello di angoscia salì ulteriormente.
-Non
ti preoccupare per il Generale. Ha combattuto molte battaglie e se
l’è sempre
cavata-, commentò Cronyos, prima di premere con forza le
dita e spappolare il
piccolo corpo dell’aracnide.
-Ho
sempre odiato gli insetti-, bisbigliò poi, le iridi sazie
del sangue
dell’animale.
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Capitolo 22 *** Capitolo 21- Medicamenta ***
Capitolo 21
Finalmente
riuscii a trovarlo. Se ne stava in piedi di fronte alla pira ormai
spenta,
mentre il lento incresparsi delle onde trasportava a riva le ultime
lanterne
aranciate. C’era profumo di incenso e mirra
nell’aria e le lucciole
rischiaravano il blu profondo delle acque.
-Fobos!
-, gridai, lanciandomi verso di lui e afferrandomi alla manica della
sua giacca.
Mi facevano male i piedi e sentivo le ginocchia tremare. Avevo corso
per tutto
il tempo, zigzagando tra un volto famigliare e l’altro alla
ricerca degli occhi
del lupo. Ed ora eccoli lì, di fronte a me, che guardavano
le ceneri di una
vita che ormai non c’era più.
-Fobos,
che ci fai ancora qui? -.
L’Ibrido
si voltò nella mia direzione, con estrema lentezza come se
muovere il collo gli
costasse un immenso sforzo. In quel momento mi pareva distante mille
anni luce
da me, come se stessimo cercando di comunicare da due pianeti diversi.
-Dovresti
tornare in Accademia. Fa freddo-, commentò pacatamente,
mentre una densa
nuvoletta di vapore gli fuoriusciva dalle labbra.
-Quando
pensavi di dirmi che verrai spedito al Vallum? -.
Non
ero riuscita a trattenermi. Sentivo le guance arrossate e sferzate dal
vento
freddo, la lingua intorpidita e la vista oscurata da mille macchioline
colorate. Non riuscivo davvero a credere di aver corso così
tanto per cercare
una persona che evidentemente non voleva nemmeno vedermi.
-Non
pensavo affatto di dirtelo-, mormorò.
Mi
diede le spalle, facendo qualche passo in direzione del limaccio sulla
spiaggetta. Gli anfibi sprofondavano nel fango, nonostante la risacca
cercasse
di lavarli ad ogni passaggio.
-Stai
scherzando, vero? -, sputai fuori, avvelenata. Non sapevo
perché ma il suo
trascurarmi mi faceva innervosire e intristire allo stesso tempo. Tolsi
i
sandali e lo raggiunsi vicino alla sponda del fiume. Mi aggrappai al
ramo di un
albero precario e sollevai la veste fino alle ginocchia per evitare di
sporcarla. Era bianca e impalpabile come la lieve foschia che aveva
cominciato
ad aleggiare ad un nonnulla dallo specchio delle acque. Fobos
seguì con la coda
dell’occhio i miei movimenti, indugiando per un attimo di
troppo sul colorito
lunare delle mie gambe sottili e dalle caviglie strette. Poi
tornò nuovamente a
fissare di fronte a sé.
-Non
scherzo mai, matricola. Dovresti saperlo-.
-Non
puoi andartene-.
Fobos
rise appena, spaventando un gufo che con i suoi occhioni giallo limone
ci
spiava dalla cima di una betulla spoglia e contorta. Vidi gli aguzzi
denti
sfiorargli le labbra e il naso arricciarsi appena.
-E
cosa dovrei fare? Ignorare gli ordini? -.
-Dovresti
portarmi con te-, chiarii seria. Non poteva lasciarmi indietro. Noi
avevamo un
Debito ed ero intenzionata a farglielo rispettare che lui lo volesse o
meno.
Volevo scoprire cosa stesse accadendo al Vallum, quale segreto si
celasse
dietro alle parole di Iatro e chi fosse quel membro del Concilium di
cui non
avevo ancora scoperto il nome. E poi c’era quella parte di me
che non voleva
lasciare Fobos, che voleva trattenerlo per qualche inspiegabile motivo.
-Non
se ne parla. Questa è una faccenda seria-.
-Anche
io sono seria-, rimarcai. –Noi abbiamo un Debito-.
Fobos
sollevò il viso, lasciando che la Luna gli baciasse il volto
e lo illuminasse
di una luce quasi magica.
-Sei
fin troppo testarda. Allora, mettiamola così. Se ti portassi
con me, non
faresti altro che rallentarmi. Dovrei continuamente proteggerti e mi
distrarresti
dalla missione. Non potrei fare un passo senza controllarti, non un
respiro.
Vuoi davvero che ciò accada? Vuoi che muoia? -.
Non
risposi. Non avevo mai pensato che potessi essere un peso per Fobos,
non dopo
che mi aveva presa con sé come sua allieva. Pensavo avesse
visto anche solo un
accenno di potenziale in me, una scintilla di talento, e invece ora
scoprivo
che ero soltanto un fastidio.
-E
va bene, non rispondere. Non ce n’è bisogno-,
aggiunse lui, con voce
amareggiata.
Non
è che non volessi rispondere, è che non ci
riuscivo. Sentivo del filo spinato
nella gola e dei chiodi sulla lingua. Indietreggiai, senza dire una
parola,
infilando i sandali e facendo ridiscendere la veste fino a sfiorare la
terra.
Non mi importava cosa dicesse Fobos, io di certo sarei partita con lui.
Mi
sarei iscritta anche all’albo dei disertori se fosse stato
necessario.
-Me
ne vado. Buona fortuna per la missione. Se non ci vedremo al prossimo
allenamento, saprò che sei partito-.
Le
parole fuoriuscirono come ghiaccio dalle mia labbra, ustionanti eppure
così
fredde da sconvolgere persino me stessa. Sentii i passi di Fobos alle
mie
spalle. Avanzava nella mia direzione con le mani affondate nelle tasche
dei
pantaloni.
-Non
fare così-, disse poi, raggiungendomi e affiancandomi.
Evitai il suo sguardo e
sollevai il mento con sfrontatezza.
-Non
faccio proprio nulla. Ci si vede-, dissi ponendo la mano sul petto come
un
qualsiasi soldato alle sue dipendenze. In fondo era questo il
messaggio: io ero
uguale a qualunque altra matricola, non importava che i nostri occhi
fossero
così simili.
-
Ci si vede-, ripeté Fobos, abbassando il viso al mio
livello. Vidi i suoi
capelli scivolarmi sopra il capo e oscurarmi la visuale come una
pioggia di
smog. Poi le sue labbra sfiorarono appena la mia fronte increspata
dalla
frustrazione. Spalancai gli occhi e rimasi pietrificata, mentre
l’Ibrido
risaliva a lunghi passi la collina.
-Questa
sarebbe la sua richiesta? -.
Gli
occhi di Cronyos si illuminarono e le pupille si restrinsero fino a
diventare
come le capocchie di uno spillo.
Annuii,
statuaria e con la mano sul cuore mentre accanto a me Galeno faceva lo
stesso.
Eravamo
stati tutte e due convocati nell’ufficio dello Stratega dopo
la richiesta che
avevamo avanzato. L’idea era stata mia, ma Galeno mi aveva
sin da subito
appoggiata.
-Quindi
voi ritenete di poter costruire in loco dei sistemi di rinforzo della
breccia?
E’ questo che mi state dicendo? -.
Intrecciò
le dita di fronte al volto, con aria meditabonda. Probabilmente
dubitava di noi
e ne aveva assolutamente ragione. Almeno per quanto riguardava me.
-Il
nostro scopo è evitare che ci siano ulteriori attacchi visto
che il Vallum ora
è difeso solamente da uomini. Che ci riusciamo o meno, poco
conta. L’importante
è fare vedere ai sediziosi che si sta già
operando per arginarli. Senza contare
che degli uomini in più possono solo che aiutare in queste
situazioni. Possiamo,
inoltre, provvedere a recuperare i pezzi dei Molossi prima che vengano
intercettati dal Mercato Mauriano e sfruttarli per delle nostre
creazioni-.
La
voce di Galeno tremava appena. Era un uomo pacifico e quieto, per nulla
intenzionato a sfidare le alte sfere e con un profondo timore per
chiunque
avesse chiuso fra le mani il suo Destino. Non potevamo essere
più diversi.
Guardai Cronyos dritto negli occhi, sforzandomi per quanto potevo, di
sembrare
nel pieno delle mie capacità. Era il momento di giocarsela,
di dimostrare al
mondo che razza di guerriera io fossi.
Sorrisi
e appoggiai sulla scrivania dello Stratega l’Olomaker, un
banale apparecchio in
grado proiettare qualsiasi documento, immagine o video in tre
dimensioni.
Questi si sporse in avanti osservando un’ampia panoramica del
Vallum e dei suoi
quartieri esterni. Con il dito avvicinai la visuale e, con un risucchio
di
fronte ai suoi occhi, si materializzò la breccia.
-Solo
un’ultima cosa-. I miei occhi luccicarono, mentre mordevo
l’interno delle
guance. Quella era l’ultima spinta. Sapevo che Cronyos
attendeva solo di vedere
di cosa fossi capace per poi tramutarmi in un’arma a suo
vantaggio. Perciò,
lanciata l’esca, dovevo solo aspettare che il pesce
abboccasse.
-
Sono in grado di creare degli scudi energetici, sfruttando la materia e
la mia bioenergia.
E’ qualcosa che ho appreso al Tempio e ora credo possa
tornarci utile. Se ci
fosse un attacco potrei facilmente evitare che ulteriori nemici
attraversino la
feritoia minacciando la salute del Governo-.
-
Questo non è un potere che dovrebbero manifestare soltanto
le Silvane? -.
Inspirai: qui me la
giocavo del tutto. Stavo
per rivelare il mio segreto più grande, quello che persino
Iatro mi aveva
chiesto di tenere per me. Era la scelta giusta? Non potevo saperlo, ma
dovevo
tentare.
-Sono
in grado di fare quasi tutto quello che fanno le mie compagne, e non
solo le
Oscure. Ho una capacità di apprendimento innata per la
magia-.
Non
aggiunsi altro per evitare che la situazione portasse Cronyos in
vantaggio e me
in svantaggio.
Vidi
l’uomo riflette, mentre un lieve sorriso gli piegava gli
angoli della bocca.
Credo di sapere cosa stesse pensando in quel momento. Lui sapeva
già tramite la
Sacerdotessa che io ero una Polivalente, forse conosceva persino il mio
passato. C’era un accordo fra loro, lo avevo capito fin dal
primo giorno in cui
li avevo visti assieme. C’era una luce di intesa nei loro
occhi, una luce che
sembrava urlare alleanza. Quindi,
se
Cronyos sapeva di me fin dal principio, ma aveva taciuto, era
perché sperava
che fossi io stessa a rivelarmi. Solo allora avrebbe potuto dire che
ero sua,
che mi aveva ammaestrata e che mi ero trasformata in uno dei suoi
fedeli cani.
-Che
ne pensa? -, dissi infine, rendendo il mio tono di voce il
più servile
possibile.
-Credo
che lei e Galeno dobbiate assolutamente partire. Dispongo che con voi
venga
metà del Reggimento dei Biotecnici. Come pensate di
spostarvi? I carri e le
camionette disponibili sono state tutte assegnate ai Ruggenti-.
Era
chiaro che voleva testare la nostra preparazione. In quanto soldati
dovevamo
essere in grado di calcolare rapidamente le variabili della situazione,
non
indulgere in distrazioni inutili e fornire una soluzione a problemi che
nemmeno
ci eravamo posti. Grazie agli Dei, avevo una mente scattante e
dinamica.
-Le
moto-, dissi, prima che Galeno ci facesse fare la figura degli
incompetenti. -
Il Reggimento dei Segugi è quasi totalmente presente in
Accademia e non ha
alcuna missione in attivo. Potremmo prelevare i loro mezzi. A maggior
ragione,
essendo più veloci, in caso di un attacco da parte dei
Mauriani, potremmo
facilmente difendere le camionette con le armi e il combustibile, oltre
che i
convogli dei viveri-.
-Credo
che abbiate pensato a tutto. Vi do il via libera-.
Esultai
interiormente. Poi guardai Galeno e con gli occhi gli feci segno che
era ora di
andarsene.
-Ah,
Custode-, disse Cronyos poco prima che varcassimo di nuovo le porte del
suo
ufficio.
-Mi
dica…-.
-Lei
sarà a capo della missione. La chiameremo Operazione
Medicamenta ed avrà codice
arancione. Partirete entro due ore. -
Annuii,
seria. Poi finalmente evasi dalla sala circolare assieme a Galeno,
tirando un
enorme sospiro di sollievo. Mi sentivo euforica e soddisfatta. Non solo
ero
riuscita a farmi mandare in missione con Fobos, ma addirittura ero
stata messa
a capo di un’Operazione. Non vedevo l’ora.
-Sei
stata molto brava, davvero…-, mormorò Galeno
dandomi una sonora pacca sulla
schiena. Era veramente ammirato e camminava ad un passo dal suolo. In
effetti,
mi aveva rivelato che erano anni che non veniva mandato in spedizione,
a causa
del troppo lavoro nei laboratori. Si era dimenticato come era il mondo
là fuori
ed era rimasto intrappolato in un mondo fittizio di provette,
alambicchi e
Cavallette. Ora finalmente poteva tornare sul campo, scoprire come era
andata
avanti la Terra senza di lui e finalmente scorgere di nuovo quei
piccoli
miracoli della civiltà che lo avevano spinto a intraprendere
quel lavoro.
-Vado
a prendere un po’ di tamponi, attrezzature e provette. Poi
riferirò ai ragazzi
che verranno stanziati. Ne saranno felici-.
Annuii
con un sorriso, poi Galeno si congedò da me con il saluto
militare. Mi parve
una cosa molto strana essendo lui un mio superiore, ma forse, ora che
ero al
comando di una missione, potevo dettare le mie leggi.
Mentre
ero immersa nei miei pensieri, Dyte mi superò a passo
svelto, il volto serio e
una teca piena di esoscheletri alle sue spalle. Sembrò non
notarmi e dovetti
chiamarla più volte prima che si voltasse.
-Scusami,
Astreya, ma ero assorta nei miei pensieri. I preparativi ci stanno
prendendo
molto-.
Dyte
era l’unica fra le Custodi ad aver scelto il Reggimento dei
Ruggenti. Non aveva
avuto tentennamenti sul momento, né remore a posteriori. Si
era perfettamente
calata nel ruolo di soldato e, se non l’avessi conosciuta
prima, avrei
certamente detto che una donna del suo calibro e della sua tempra non
avrebbe
mai potuto essere una Custode.
-Rallenta.
Cronyos ha dato nuovi ordini. Ci uniamo anche noi alla missione-,
mormorai,
attendendo di scoprire che tipo di reazione avrebbe avuto. Per tutta
risposta,
Dyte, la Custode sempre distante e di malumore, si allungò
per abbracciarmi e
ridacchiò felice.
-Sapevo
che prima o poi avresti tirato fuori le palle! -.
Risi
anche io: era sempre così diretta che era impossibile
offendersi per le sue
considerazioni.
-Immaginavo
avresti apprezzato. Mi hanno messo a capo dell’Operazione
Medicamenta,
un’azione a vostro supporto. Cronyos ci farà avere
le moto tra qualche ora,
perciò non abbiate fretta e preparatevi con la dovuta calma-.
Dyte
sollevò la mano e la appoggiò al petto. Vedevo di
nuovo quella luce nei suoi
occhi, la stessa che avevo visto quando, finalmente libera dal Tempio,
si era
rasata i capelli da sola.
Le
risposi lievemente imbarazzata, poi mi allontanai per sbrigare le
ultime
faccende. Dovevo essere metodica e fare una check list di
ciò che dovevo
portare e ricordare. La prima voce del mio elenco era certamente
salutare
Aracne. Fu più difficile del previsto perché la
donna, quando seppe che sarei
stata stanziata al Vallum, scoppiò a piangere, pregandomi di
ripensarci e di
rimanere lì al sicuro. Non pretendevo che capisse il
desiderio da cui ero
spinta, quell’anelito all’avventura e alla
conoscenza che mi pressava, ma
davvero non potevo attendere la fine dei miei giorni là
dentro, tra ghiaia e
allenamenti. Per cui alla fine la Tessitrice dovette arrendersi,
abbassando il
capo e stringendomi le mani.
-Ricorda
l’immagine che ho intessuto. Voglio che ti rimanga bene di
fronte agli occhi-,
sussurrò, socchiudendo le ciglia e fissando la pallida
cicatrice che Upokrates
mi aveva disegnato sul polso al momento dell’inserimento del
chip.
-Lo
farò. A presto, Aracne-, la salutai e schizzai via per i
corridoi. Non avevo
nessun altro da salutare ad eccezione di Eracleo. Lo vidi seduto a uno
dei
tavoli del refettorio, ma non riuscii a muovere nemmeno un passo nella
sua
direzione. Se gli avessi detto cosa avevo fatto, quale contorto piano
avessi
organizzato, certamente non solo mi avrebbe rimproverata, ma avrebbe
tentato di
fermarmi.
Quindi,
decisi di non accomiatarmi da lui e, rapida, uscii nuovamente
dall’edificio, dirigendomi
verso il blocco dell’armeria. Al suo interno, fra teche e
teche di armi,
Galeno, sopraggiunto assieme a Deimos, stava leggendo le disposizioni
di
Cronyos. A quanto potevo vedere saremmo stati più che
armati. Due katane ultra
leggere da schiena, due piccole pistole da fondina e aghi avvelenati,
questi
ultimi generosa donazione dei Segugi.
-Astreya!
-, mi chiamò Deimos, facendomi segno di avvicinarmi a loro.
Li raggiunsi a
grandi passi, guardando a destra e sinistra il continuo via vai di
soldati.
Sembravano tutti eccitati, persino chi doveva solo aiutare a spostare
le moto o
armare i carri.
-
Sono molto fiero di lei. Lo Stratega mi ha messo al corrente della sua
brillante idea-.
-Grazie,
ma devo tutto alla disponibilità del qui presente-, ammisi,
indicando con
l’indice l’uomo accanto a me, imbarazzato.
-Ad
ogni modo sono contento che ci affiancherete. Siamo più
tranquilli così-.
Sorrisi,
provando una katana dal filo rosso e lucente. Era meravigliosa, con un
manico
intarsiato da fiori di ciliegio neri e una sutura color rubino che ne
sigillava
la guaina rivestita di seta.
-Posso
avere questa? -, chiesi, calamitata dalla bellezza di quella spada,
così
diversa da tutte le altre armi in quel bunker. Un po’ come me.
-Certamente.
Le consiglio, inoltre, di pensare alla distribuzione di uomini e carri
con il
capo dell’Operazione Diga-.
-
E chi sarebbe? -, domandai febbricitante, mentre attendevo che i due mi
dessero
una risposta. Purtroppo non ce ne fu bisogno, perché il capo
operazione si
presentò per conto suo, in maniera del tutto anomala e molto
colorita.
-Che
cosa ci fai tu, qui? -.
Non
appena udii la voce, alzai gli occhi al Cielo. Perché a me?
Perché?!
Fobos
era sopraggiunto alle nostre spalle come un ninja silenzioso. Indossava
uno
degli Esoscheletri di proprietà dell’Esercito e
con quello addosso sembrava davvero
un mostro. Era molto più imponente e sinistro, rafforzato da
una tuta in Kevlar
con inserti metallici e un’imbracatura a forma di costato
stretta attorno al
torace.
-Sono
il capo dell’Operazione Medicamenta, di supporto alla
vostra-, risposi seria,
osservando con sempre maggiore apprensione il tipo di scheletro che
Fobos
indossava. Sembrava molto più pesante rispetto alle altre
tute sostenitrici e
il volto del giovane era imperlato di sudore. Non doveva essere una
passeggiata
muoversi con quella cosa attaccata, anche perché per farla
funzionare a comando
cerebrale, bisognava che gli aghi lungo il sostegno della schiena
penetrassero
a fondo nel midollo, sfruttando il cervelletto e lo spazio fra le
vertebre.
Pensai alla schiena del bambino che avevo visto nella mia visione e mi
chiesi
se ora fosse ricoperta di cicatrici.
-
Impossibile-, disse Fobos semplicemente, spostando gli occhi da Galeno
a Deimos
e viceversa.
Nessuno
era intenzionato a rispondergli, forse erano spaventati
all’idea che l’Ibrido
potesse dare fuori di matto. Quindi ci pensai io.
-Possibile,
invece. In ogni caso credo che la soluzione migliore per il viaggio sia
disporre
un gruppo di biotecnici che funga da avanguardia e tenga sotto
controllo l’eventuale comparsa di nemici. Inoltre, dovremmo
prendere in considerazione anche una retrovia
e a questo proposito proporrei che sia Galeno, appoggiato da cinque
uomini
almeno, ad occupare quella posizione. Essendo vicino ai carri, nel caso
di
guasto o qualsiasi inconveniente, potrà rendersi subito
disponibile alla
riparazione o comunque sarà vicino alle attrezzature
necessarie-.
Deimos
mi guardava con gli occhi sgranati, mentre Galeno sorrideva sotto i
baffi. Mi
sentivo sottovalutata: pensavano che avessi dormito durante gli
allenamenti?
Avevo seguito tutto nei minimi dettagli, avevo preso appunti e fatto
persino
degli schizzi. Dovevo prepararmi ad un momento come questo. Dovevo
dimostrare
di essere non solo un donna capace, ma anche un soldato insostituibile.
-E
per i fianchi cosa consiglia? -. Deimos era intervenuto per darmi una
mano,
essendosi accorto dello sguardo furioso che Fobos mi stava
indirizzando. Era
impossibile non notarlo: le sue iridi incendiarie riflettevano il mio
volto,
stritolato da un mare di odio.
-Non
abbiamo uomini a sufficienza per coprire i fianchi, ma siamo abbastanza
veloci
da raggiungerli in caso di attacco. Propongo quindi che le camionette
trasportanti i membri del Reggimento dei Ruggenti si dispongano a
triangolo,
una figura che consentirà ai gruppi dietro di tenere sotto
controllo quelli di
fronte a loro, senza lasciare sguarnita di uomini la sezione di Galeno-
-E
tu, donna, dove starai? -, sibilò Fobos, facendo fischiare
l’aria fra i denti.
-Io
mi disporrò a capo dell’avanguardia, a qualche
chilometro da voi, così in caso
di attacco, sarò in grado di creare uno scudo energetico-.
Deimos
e Fobos mi guardarono confusi, poi l’Ibrido
scoppiò a ridere di gusto.
-Prima
di tutto devo ancora riuscire a figurarmi la tua persona che guida una
moto, e
seconda cosa, scudi energetici? Fai sul serio? -.
Sollevai
un sopracciglio irritata, ma per quanto volessi strozzare Fobos, non
potevo
fare altro che comprendere le sue perplessità. Mi decisi,
allora, a raccontare
la stessa solfa che avevo rifilato a Cronyos. Deimos sembrò
convinto alla fine
del mio discorso, mentre l’Ibrido pareva decisamente
più perplesso di prima.
-Non
mi importa se sai fare le bolle o sparare onde dal culo, quello che so
è che
non ti voglio lontana da me-.
Galeno
si intromise subito, prendendo le mie difese: - Scusi, Generale, ma non
credo
che Astreya sia un pericolo per noi. Ha mostrato attaccamento alla
causa e di
certo ha conquistato il favore dello Stratega-.
-Senta,
Galeno-, lo interruppe Fobos, puntandogli un dito contro il petto e
guardandolo
dall’alto al basso con un’espressione minacciosa.
– non so come funzioni dalle
sue parti, ma dalle mie non si lascia in cima alla piramide una
matricola
appena svezzata. Tempo cinque secondi e ci ritroveremo il suo cadavere
sotto le
ruote-.
Deimos
annuì serio. Per quanto poco ortodosso, il discorso di Fobos
era stato più
convincente del previsto. Peccato che io non volessi assolutamente
mollare l’osso.
-Non
ho intenzione di rimanere nella sua ombra, Generale. Non sono una
bambina e
nemmeno più una Custode ormai; non ho bisogno di attenzioni
particolari. E sono
certa che il mio cadavere non rotolerà da nessuna parte
senza un buon motivo, non
si preoccupi-.
Di
fronte a tanta veemenza anche Fobos poteva fare ben poco. Mi
seguì con lo
sguardo finchè non fui fuori, là dove mi
attendeva una lucida moto costituita
da celle fotovoltaiche azzurro cobalto. Ne accarezzai il profilo
sinuoso e ne
studiai le possenti ruote intagliate. Veicoli del genere non li avevo
mai
guidati se non all’interno di vaghe esercitazioni generali,
ma ero convinta che
io e quell’ammasso di tecnologia avremmo avuto un buon
feeling. Sorrisi e mi
sistemai le katane sulle spalle; quella rossa come i rubini la lasciai
esterna cosicché
mi distinguesse da qualunque altro soldato. Poi montai sulla moto,
posizionando
le mani e sentendo il manubrio scricchiolare sotto ai guanti in pelle.
Era una
sensazione di indipendenza e libertà che non avevo mai
provato e il mio mostro
se ne stava abbeverando smanioso, come fosse la dolce ambrosia degli
Dei. Feci
girare le chiavi e la moto cominciò a vibrare sotto di me,
famelica e pronta a
divorare la strada. Il suo rombo, nonostante si nutrisse di
elettricità, era
meraviglioso e il calore che irraggiava dalle celle mi fondeva la testa
come fosse
una droga.
Mi
mancava soltanto il casco da calzare, perciò cominciai a
raccogliere i capelli
e a intesserli in una treccia più stretta del solito.
Infine, posizionai la
sciarpa che mi avrebbe protetta dal vento e dal pietrisco, e sopra vi
adagiai
quella specie di elmo.
-Sei
una stupida-.
Fobos
mi aveva raggiunto e aveva posizionato le mani sul manubrio del
veicolo,
proprio di fronte a me. Indossava ancora quella mostruosità
e la sua voce
fremeva di rabbia. Eppure la sua aura era di un annichilente giallo
paglierino.
Il colore della paura.
-Non
puoi essere seria! Lo vuoi capire che là fuori tutti questi
uomini dipendono da
me?! Non potrò starti dietro! Non potrò
proteggerti! -.
Mi
sorpresi e per poco la moto non mi scivolò fra le mani.
Fobos era in panico.
-Lo
vuoi capire che anche io sono un soldato? -, mormorai, mentre gli occhi
cupi di
Fobos scivolavano lentamente attraverso la visiera iridescente del
casco e mi
trapassavano il cuore.
-Spero
tu sappia quello che fai…-, si limitò a dire. Poi
le sue nocche lentamente si
rilassarono, le sue mani mollarono la presa e tutto il suo corpo si
spostò a
lato, lasciandomi libera. Di fronte a me vedevo i Reggimenti schierarsi
nella
posizione che avevo suggerito, trepidanti e smaniosi di gloria. Vedevo
il
cancello aperto e le strade della mia città snocciolarsi
tortuose come un
miraggio di libertà e redenzione. Vedevo la mia via di fuga
da tutto, persino
da me stessa.
-Fobos-,
chiamai, e vidi il volto del ragazzo girarsi appena, mentre raccoglieva
i
capelli in una lunga coda morbida.
-Non
ti sarò di peso. Ti renderò orgoglioso di me-.
Il
volto di Fobos si deformò appena, mostrandomi
un’espressione che non pensavo i
suoi lineamenti potessero assumere. Era sorpreso e in qualche modo
lusingato. Intravedevo
un lieve rossore arrampicarglisi dal collo fin sulle orecchie,
nonostante la
sua espressione contenuta, cercasse di spegnerlo.
-Sei
arrossito-, ridacchiai, assaporandomi la vendetta.
Lui
digrignò i denti facendo scricchiolare gli
anellini. Poi, raccolta tutta la sua autostima perduta, se ne
andò imprecando, con
una sigaretta fra le labbra.
|
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Capitolo 23 *** Capitolo 22- Benzina ***
Capitolo 22
Arrivammo
in vista del Vallum la sera tardi. Il sole stava declinando dietro il
profilo
della città facendo rilucere gli edifici di un color grigio
spento. C’erano
case ovunque, arroccate sulle montagne brune e direttamente a ridosso
della cinta
muraria. Erano fatte di pietra e ricoperte da un sottile strato di
sabbia
rossa. Non sembravano edifici moderni, ma le antiche vestigia di una
civiltà
anteriore. Ci spostammo rapidi per le viuzze, mentre gli abitanti del
posto ci
scrutavano curiosi, ma timidi da finestre e crocicchi.
-Non
sono abituati a vedere così tanti soldati-,
mormorò Deimos, giungendo a piedi
accanto alla mia moto. Tolsi il casco e sciolsi i capelli, assaporando
la sensazione
del fresco della notte sulla pelle bollente. Era pieno inverno, eppure,
lassù a
Nord, di fronte al Vallum, faceva un caldo incredibile.
-
Meglio che capiscano chi comanda-, rispose un uomo sulla quarantina con
dei
corti capelli ricci e due occhiaie blu livide. – Io sono il
Generale Achileos,
piacere di conoscerla, Astreya-, disse poi, allungando una mano e
posandosela
sul petto. Annuii distrattamente mentre i miei occhi si spostavano
sull’enorme
breccia di fronte a noi. Era una sorta di gigantesca crepa in cui il
vento
ululava e dove le correnti di aria creavano mulinelli e risucchi.
C’erano delle
guardiole di fortuna posizionate ai lati della feritoia e alcuni uomini
in
divisa che le presidiavano. Dovevano essere membri del Reggimento del
Sole a giudicare
dal colorito nauseato dei loro volti e dalle occhiate impaurite che ci
lanciavano.
-Sarà
uno spasso-.
Fobos
mi passò accanto con la katana appoggiata alla spalla
destra. Sorrideva
divertito e, in fretta, si stava dirigendo verso i militari.
Parcheggiai la
moto a lato della strada, accanto a quella di Galeno. Poi a passo
svelto
raggiunsi l’Ibrido.
-
Sentite, sgomberate in fretta. Da adesso prendiamo noi il comando-, lo
sentii
dire serio. Mai avrei pensato che quei soldati avrebbero ceduto
così facilmente
e, invece, qualche insistenza più tardi, si stavano
già ritirando all’interno
della cupola, in una galleria esplosa di cavi elettrici e spie spente.
-Hanno
fatto un bel danno-, mormorai, scostando un cavo con il gomito.
- E’ vero.
Non ho mai visto un’esplosione di
queste proporzioni-, ammise Galeno, comparso dal nulla al mio fianco.
Studiava
estasiato il disastro che lo circondava, attento a non calpestare i
detriti e i
piccoli frammenti di cavi che si trovavano nascosti sulla
pavimentazione mezzo
annerita.
-
E’ evidente che i Mauriani li abbiano appoggiati. Questo
genere di armi non può
essere venduto a normali cittadini-, commentò perplesso
Fobos, mentre la placca
metallica che aveva sul braccio si accendeva rivelando un display.
Glielo vidi
maneggiare con un paio di tocchi e poi sulla patina lucida dello
schermo
comparve una carta geografica. Con una piccola x rossa erano segnati
due
luoghi. Mi avvicinai all’Ibrido, raccogliendo i capelli da un
lato e osservando
con lui quei segni. Le mete destinate erano il Deserto del profondo Sud
e il
Vallum stesso.
-
C’è parecchia strada da fare per raggiungere il
Deserto, da qui. E a ben
vedere, questa gente non mi sembra affatto in grado di sostenere un
simile
viaggio. Inoltre le strade che portano da qui a quell’inferno
di sabbia, sono
battute dai Gyps. Non credo che questi poveracci abbiano abbastanza
denaro per
convincere quegli accaparratori a farli passare-.
Fobos
era acuto come al solito. Io quelle considerazioni le avevo sentite da
Iatro,
un uomo fatto e finito con una lunga carriera alle spalle e un cervello
decisamente
brillante, non da un giovane ancora nel pieno dei suoi
vent’anni. Capii subito
perché era riuscito a diventare Generale prima dei trenta:
il suo era un
ragionare meticoloso e scrupoloso, oltre che raffinato come un setaccio
per la
farina.
-Bisognerebbe
interrogare i cittadini, per sapere qualcosa. Con metodi meno ortodossi
sono
certo che canterebbero come merli-, commentò Achileos,
già pregustandosi la
scena. Tuttavia, dovetti bloccare questo suo famelico desiderio sul
nascere.
-Non
siamo qui per torturare delle persone innocenti, fino a prova
contraria. Siamo
qui per proteggere il Vallum. A meno che non ci giungano ordini diversi
da
Carthagyos, noi qui ci limiteremo a condurre la missione secondo le
linee
generali prestabilite-.
Deimos
e Fobos annuirono persuasi, mentre Galeno, immobile, si perdeva tra
quella
marea di fili elettrici che brillavano come fuochi
d’artificio sopra le nostre
teste.
-Scusate
se vi interrompo-, disse poi il Biotecnico –Ma credo che se
non ci sbrighiamo,
questi cavi scoperti potrebbero creare un’esplosione senza
pari-.
Deimos
impallidì e Fobos digrignò i denti.
-L’elettricità
dovrebbe essere stata staccata-, commentò l’Ibrido
avvicinandosi a Galeno e
osservando con lui le fascette che stringevano gli enormi serpentoni di
PVC lì
attorno.
In
effetti sin da quando eravamo arrivati, c’eravamo accorti che
la Cupola era
stata disattivata, probabilmente perché malfunzionante, e
che le luci della
Sede Governativa erano tutte spente. Come poteva essere che, invece,
l’energia scorresse
ancora nei fili della zona colpita? Subito cominciammo a sudare freddo.
Qualcuno ci voleva morti: eravamo entrati in un valico in alta
tensione, su un
pavimento isolante malmesso e una serie di pozzanghere di acqua lurida
che
sobbollivano sotto le nostre suole riscaldate dal cocente tramonto
infuocato.
-Questa
è una dichiarazione di guerra in pieno ordine-,
esclamò Fobos, mentre il suo
viso si contorceva in una smorfia di disgusto e i suoi occhi spiavano i
volti
terrei della gente che ci stava spiando dalle finestre.
-
Ci deve essere attivo un generatore di emergenza da qualche parte-.
Galeno
aveva cominciato a spostare alcuni detriti accatastati a terra con fin
troppa
cura. Mi avvicinai per dargli una mano, afferrando lamiere e rifiuti
metallici,
ma Fobos mi scansò con un gesto brusco e si
accovacciò accanto a Galeno,
sollevando tre volte il peso che il Biotecnico cavava fuori di volta in
volta.
-Forza,
sbrighiamoci! -.
Scavarono
sotto le rovine ininterrottamente, imprecando contro le sentinelle che
non
avevano nemmeno notato di avere una bomba sotto ai piedi. Come potevano
non
essersi accorte che qualcuno ero sgattaiolato alle loro spalle,
passando
proprio sotto il loro naso?
Sotto
quelle carcasse di alluminio, titanio e ghisa trovammo una botola. Era
rettangolare e larga a sufficienza per far passare un uomo di media
corporatura. Deimos sollevò lo sportello, e noi tutti ci
sporgemmo per vedere
cosa ci aspettava là sotto. Di fronte a noi c’era
un enorme buco nero, con una
scaletta metallica a pioli che sprofondava nel buio, verso il centro
della Terra.
-Io
là sotto non ci vado-, mormorò Fobos, sollevando
un sopracciglio e incrociando
le braccia sul petto.
-Ce
ne occupiamo noi-, risposi allora io, annoverando nel team di
esploratori
soltanto me e Galeno.
-Non
se ne parla. E’ pericoloso. Se là sotto ci fossero
perdite d’acqua rimarreste
fulminati prima ancora di toccare terra con l’alluce-.
Il
tono di Fobos era perentorio e la sua mano, nascondendosi alla vista
altrui,
era schizzata attorno al mio polso stringendolo in una morsa
invincibile, a mo’
di tagliola.
-E
chi dovrebbe scendere se non un team di Biotecnici?
-, lo rimproverai, gettandogli
un’occhiataccia torva. Lui me la rimandò,
più malevola di quanto mi aspettassi,
e solo dopo, sbuffando, accettò di ascoltare le nostre
ragioni.
Galeno
pregò Fobos di attivare nuovamente il suo display e di
proiettare la cartina
della Sede Governativa. Sotto al piano su cui ci trovavamo
c’era, infatti, una
sorta di città sotterranea, una centrale geotermica immensa,
in grado di
alimentare gli otto generatori che gestivano l’illuminazione
e la sicurezza di
tutto il perimetro del Vallum.
-Come
potete vedere questo impianto è a ciclo binario. Questi sono
i condotti che
trasportano l’acqua bollente e questi quelli che, invece,
conducono isopentano.
Ed entrambi confluiscono nello scambiatore di calore. Qui abbiamo il
fenomeno
dell’evaporazione, e appena dopo… ecco la turbina.
Se troviamo la turbina siamo
a cavallo. Da qui infatti si dipartono le otto utenze, disposte a
stella e
tutte e otto indipendenti fra loro. Basterà seguire quella
in direzione Nord,
per raggiungere il nostro generatore e disattivarlo. Credo che
l’intera
centrale sia in fase di stallo, ogni sua parte risulterà
spenta. Quindi, la mia
ipotesi è che l’elettricità sia stata
reintegrata tramite un generatore di
emergenza a nafta collegato a un commutatore a sua volta allacciato al
quadro
elettrico-.
Guardai
Galeno assorta, sorprendendomi nel capire esattamente ciò
che stava dicendo.
-
Vuoi dire che qualcuno è sceso là sotto con un
generatore portatile e che
nessuno lo ha visto?-.
-Esattamente-,
commentò Galeno, mentre i suoi occhi mangiavano euforici
l’oscurità progressiva
della botola.
-Quindi
potreste trovare delle persone là sotto, o qualcosa pronto a
esplodere-.
Era
stato Fobos a parlare, gli occhi trasformati in fessure e uno sguardo
truce.
-Forse
è il caso che venga anche io là sotto-, aggiunse
Deimos, osservandoci
perplesso. Non sapeva esattamente cosa fosse accaduto e questo stava
minando la
sua capacità di gestire la situazione.
-No,
non penso che sia il caso. Basteremo io e Astreya là sotto.
Ricordiamoci che i
Biotecnici non sono solo scienziati, ma anche soldati-.
Lo
sguardo di Galeno non era più timoroso, ma acceso dalla
determinazione. Amava
gli enigmi e non vedeva l’ora di intrufolarsi in quel buco
nero ai suoi piedi.
-Molto
bene, allora-, si arrese Deimos, scrutando con i suoi occhi verdi il
volto
contratto di Fobos. – Prendete le torce e gli strumenti
necessari prima di
scendere-.
Io
e Galeno annuimmo, spostandoci verso le camionette parcheggiate nelle
viuzze.
-Bene,
Galeno. Vi daremo tempo due ore, dopodiché vi verremo a
cercare. Dubito che da
là sotto potrete comunicare con noi, perciò fate
molta attenzione-.
Le
parole di Deimos erano razionali e cautelative, ma la sfumatura di
preoccupazione della sua voce non passò inosservata a
nessuno di noi due. Ad
ogni modo non potevamo deconcentrarci iniziando a pensare a quali
trabocchetti
avrebbero potuto attenderci in quella bocca di lupo. Dovevamo
semplicemente
svolgere il nostro dovere, pronti a tutto, anche a morire. Mi caricai
uno zaino
rigido sulle spalle a cui legai le katane, e indossai attorno alle
cosce una
cinghia di aghi velenosi, utilissimi in situazioni come quelle. Infine
infilai
il guanto torcia e lo accesi, testandone la luminosità. Il
cerchio disegnato al
centro del palmo si illuminò di una luce azzurrognola che
pulsava lenta.
Perlomeno funzionava. Strinsi la mano un paio di volte e quella
lucciola
artificiale si spense del tutto.
-Sono
pronta-, urlai a Galeno, immerso nel retro di un carro poco distante da
me. Feci,
quindi, per voltarmi e dirigermi verso la botola, ma andai a sbattere
contro il
torace di Fobos, fermo e immobile alle mie spalle.
Abbassò
appena gli occhi per osservarvi con un’espressione
rannuvolata, poi mi disse: -
Non dovresti fare l’eroe. Ce ne sono già
abbastanza sulle pire-.
-Fobos,
che ti prende? Hai paura? -.
Il
pomo d’Adamo di Fobos collassò un istante,
deglutendo a vuoto.
-Io
non ho paura. Solo credo che ti farai ammazzare alla prima occasione-,
sputò
fuori, appoggiandosi a braccia conserte contro la fredda pelle della
camionetta. Lo guardai di sottecchi cercando di capire cosa volesse
comunicarmi. Forse era il suo modo per proteggermi e tenermi al sicuro?
O forse
semplicemente non gli andava che una donna potesse avere tutto quel
potere in
una missione?
Sbuffai
e feci per andarmene, ma Fobos allungò una mano e mi
trattenne. Il suo sguardo
era del tutto diverso dal solito: era serio e non c’era ombra
di sarcasmo nella
sua voce quando parlò.
-Metterò
da parte il mio orgoglio questa volta. Se vuoi che scenda
laggiù con te, basta
che tu me lo chieda. Passerò il comando della missione a
Deimos se si renderà
necessario-.
Lo
guardai dritto negli occhi, colta di sorpresa. Non sapevo cosa dire,
né se
accettare la proposta. Razionalmente era meglio se uno dei due capi
spedizione
fosse rimasto lì fuori, per disporre la difesa del Vallum,
ma al contempo non
ero più convinta di voler scendere da sola, improvvisamente
consapevole di
essermi messa in pericolo.
-Starò
bene-, dissi alla fine, sorridendo appena e voltandogli le spalle prima
di
poter cambiare idea.
Tornai
in tutta fretta alla botola e con passo malfermo, assicuratami che
Galeno fosse
alle mie spalle, scesi un piolo dopo l’altro, attenta a che
gli anfibi non
sdrucciolassero su di essi.
Scendemmo
per un tempo che mi parve infinito, ma alla fine, torce alla mano,
giungemmo in
quello che sembrava in tutto e per tutto un luna park abbandonato.
C’erano
relitti di macchine ovunque, un calore insopportabile e un quantitativo
di
passaggi e cavalcavia allucinanti. Trattenni il respiro qualche
istante,
abbracciando con lo sguardo quel panorama desolato e a me sconosciuto.
Galeno
appoggiò a terra il suo zaino e, toltosi la canottiera, la
posizionò al suo
interno.
-Fa
caldo qui-, ammise, strofinandosi la fronte con la mano. –
Dobbiamo sbrigarci o
i nostri livelli vitali scenderanno sotto ai piedi. Questo ci
porterebbe in
breve alla disidratazione-.
Annuii
e rapidamente mi misi davanti a lui, puntando la torcia verso il buio.
Di
fronte a noi c’erano numerose impalcature che si inerpicavano
verso il centro
dell’impianto, al livello appena superiore.
-Forse
se saliamo su quella piattaforma, avremo più fortuna-, dissi.
Galeno
non obiettò e ci arrampicammo sul nuovo piano, dove
l’aria sapeva meno di
zolfo.
Lì
sopra avevamo una panoramica perfetta di tutto l’assieme e il
lay out
dell’impianto si rivelò essere più
semplice di quanto previsto. Avanzammo
spediti, secondo il piano di Galeno, finchè non individuammo
il generatore
estraneo. Era un piccolo robot rettangolare abbandonato su un
carrellino con le
ruote divergenti
-Ci
impiegherò solo un attimo-, disse Galeno, avvicinandosi
cauto. Riuscii a fermarlo
prima che mettesse un piede in una enorme pozza acquosa lì
accanto. Il
generatore di emergenza ne era completamente immerso.
-Dannazione!
Questa è davvero una trappola mortale-, sospiro Galeno,
osservandomi annusare
l’aria.
-E’
molto peggio-, dissi. - Questo è carburante-.
Galeno
strabuzzò gli occhi. Sapevamo entrambi che il petrolio era
un bene di lusso,
custodito e centellinato dalla casta politica ormai da secoli. Ne
rimaneva
davvero poco sulla Terra e ormai veniva utilizzato solo quando
l’idrogeno,
l’elettricità o qualsiasi altra forma di energia
più sostenibile non era
disponibile. Non tutti i normali cittadini, quindi, potevano
permettersi di
sprecarlo per farci rischiare la morte.
-Sempre
più misteriosa la questione-, mormorò Galeno,
notando un paio di fili scoperti
sul pelo del combustibile. –Hanno persino rischiato il
malfunzionamento del
macchinario per aumentare le probabilità di farci saltare in
aria-.
Il
suo tono mesto mi fece capire che non aveva ancora elaborato un piano B
per la
disattivazione dell’oggetto.
-Ho
idea che prenderà fuoco in breve tempo. Guarda quei fili,
sono pericolosamente
vicini al pelo libero del liquido. Forse conviene tornare indietro ed
evacuare
tutta la zona prima che accada l’inevitabile-.
Aveva
ragione, ma se avessimo abbandonato il proposito e fosse davvero
divampato un
incendio là sotto sarebbe stato un completo disastro.
Eravamo incastrati
all’interno di una ragnatela di torrentelli di benzina, a un
soffio dalla
morte, e io non facevo altro che pensare che qualcuno stava tramando
alle
nostre spalle, qualcuno di molto furbo e bravo a nascondersi. Non
volevo che un
simile individuo l’avesse vinta così facilmente,
per cui iniziai a pensare
velocemente a una alternativa.
-Se
dovessi anche solo increspare la superficie del liquido, quei cavi
sarebbero
l’ultima cosa che vedremmo-, mormorai, perplessa.
–Però non vedo altra
soluzione-.
Galeno
mi scrutò interdetto, controllando l’orario sul
suo tecnologico orologio da
polso. Mancava davvero poco prima che altri uomini, ignari del
pericolo,
venissero a cercarci.
-Galeno,
lei deve uscire da qui. Posso provare a raggiungere il generatore
isolando con
uno scudo i cavi dal suolo, ma non ho mai provato a proiettare
esteriormente la
mia bioenergia ed è da quando siamo partiti che non mi
sottopongo alla
Cura. Perciò
devo essere certa che a
rischiare la vita sia solo io-.
Galeno
spalancò la bocca in una grande o. – Non posso
lasciare il capo missione qua
sotto. E’ contro il mio codice etico-.
-E’
un ordine-, ringhiai, prima di dargli il mio zaino e le mie armi. Gli
lasciai
tutto ciò che avrebbe potuto appesantirmi e deconcentrarmi,
poi lo congedai.
Galeno si oppose fino alla fine, ma di fronte alla prospettiva di
un’esplosione
senza pari, proveniente per di più dalle
profondità della Terra, era lampante
la necessità di avere un messo che portasse la notizia in
superficie. Non lasciare
lì sotto me, che avevo maggiori possibilità di
riuscire, sarebbe stato un
insulto all’intelligenza umana. Perciò alla fine
il Biotecnico fece
retromarcia, caricato anche delle mie attrezzature.
Rimasi
sola con il mio mostro come unica compagnia. Mi affidai a lui, certa
che
sarebbe stato in grado di conferirmi la forza che io, di mio, non
avevo; mi concentrai
sui fili scoperti e il pelo dell’acqua, cercando di colmare
con la mia energia
il sottile foglio di aria fra di loro. Cominciai a sudare, mentre il
caldo
della sala macchine mi invadeva le narici e mi faceva prudere la nuca.
Non
dovevo perdere il controllo, o avrei fallito ancora prima di
cominciare.
Avanzai titubante verso la pozza di benzina infilandovi dapprima la
punta e poi
tutta la scarpa. Inspirai ed espirai piano, concentrandomi sulla lama
di
energia che divideva non solo i cavi dal liquido, ma anche me dalla
morte.
Posizionai il secondo piede, mentre il mio mostro si aggrappava con
forza a me,
incollandosi alla mia colonna vertebrale come un parassita affamato. Lo
sentii
invadermi la mente e rafforzare le mie capacità. Lo scudo di
energia si fece
più forte: ero in grado di vedere le particelle distorte e
l’elettricità
scoppiettargli attorno in mille bolle di energia. Riuscii ad avanzare
di
qualche passo, stringendo i denti, mentre il sudore mi scivolava
ghiacciato
lungo la schiena, inzuppandomi la divisa. Il caldo stava diventando
insopportabile e sentivo il sangue pulsare nelle tempie: stavo
usufruendo degli
ultimi minuti di energia rimastami, poi sarei crollata e, infine, se
nessuno mi
avesse trovata e mi avesse iniettato la Cura, sarei morta. Era la dura
conseguenza di essere una Polivalente. Potevo sfruttare i poteri di
tutte le
tipologie di Custodi, ma non potevo farlo senza uno scotto da pagare. E
il
conto mi veniva presentato così, con la morte per
sovraeccitazione
nervosa. Giunsi con
la vista annebbiata
fino al generatore. Lo vedevo ondeggiare davanti a me. Allungai una
mano,
mentre il mostro mi stringeva i denti intorno alla giugulare per
regalarmi
l’ultimo guizzo di vita prima dell’incoscienza.
Premetti il pulsante e, con mia
grande gioia, vidi le spie del generatore spegnersi e quelle del quadro
elettrico opacizzarsi altrettanto velocemente.
Il
sollievo fu talmente enorme da farmi mancare la presa sul terreno e
cadere con
le ginocchia nella benzina. Le mani erano immerse in quel bitume
odoroso, e gli
occhi cominciarono a lacrimarmi. Dovevo uscire di lì in
fretta. Mi sollevai a
fatica, barcollando e reggendomi alla balaustra che dava sul centro
della
Terra. Ripercorsi a rilento la strada che avevo imboccato insieme a
Galeno, fino
a quando nell’oscurità non vidi qualcosa che non
avrebbe dovuto esserci.
Stropicciai gli occhi, piegata a metà sul corrimano: a
qualche metro da me
c’era una lucina rossa, simile alla brace delle sigarette o
alla fiammella di
un accendino. La vidi galleggiare dall’altro lato del
camminamento, dispersa
nell’oscurità come un occhio di fuoco.
C’era
qualcuno là sotto con me, era evidente. Cercai di rimanere
calma ed estrassi
uno degli aghi dal suo supporto. Avanzai ulteriormente senza mai
smettere di
mirare alla luce che filtrava tenue a metri e metri di distanza sopra
la mia
testa. Tenni sotto controllo quel lumino, finchè non lo vidi
lentamente
scivolare a terra, accompagnato da una risata sinistra. Istintivamente
cominciai a correre, spingendo i miei polmoni allo spasmo e facendo
scricchiolare le articolazioni. Corsi più veloce che potei,
ma senza che me ne
rendessi conto il fuoco era già divampato alle mie spalle e
il fumo mi stava
raggiungendo, seguito a ruota dall’esplosione e dai frammenti
di acciaio. Mi
lanciai giù dalla scala, senza nemmeno pensarci mentre le
fiamme mi lambivano
un fianco facendomi gridare.
-Corri,
animaletto! -, sentii esclamare a una voce maschile, poi atterrai sulle
caviglie. Sentii una scossa di calore irradiarsi da quella di destra e
dovetti
spingere tutto il peso sull’altra per riuscire nuovamente a
correre. Sentivo
dolori ovunque e cominciavo a domandarmi se ce l’avrei fatta.
Dai brucianti
anfratti dell’impianto udii nuovamente una risata malvagia,
poi la voce
dell’assalitore venne risucchiata dalle fiamme: probabilmente
quell’uomo aveva
sacrificato se stesso per uccidermi. Ignorai il senso di angoscia che
lentamente affiorava insieme alla paura e all’istinto di
sopravvivenza, e mi
augurai che Galeno fosse riuscito a convincere Fobos a evacuare la
zona. Mi
voltai solo una volta per vedere quanto grave fosse la situazione, e mi
accorsi
che ormai le strutture di acciaio erano avvolte dalle fiamme e che
scoppiettavano
pronte a collassare. Se non mi fossi sbrigata, sarei rimasta
là sotto per
l’eternità.
Perciò
quando raggiunsi la scala, mi parve di sprofondare in un incubo. Era
lì a pochi
centimetri dalle mie dita, ma ormai non avevo più energie e
il corpo mi stava
abbandonando. Cominciai a sperare nel miracolo e un po’
persino negli Dei,
certa che altrimenti sarei finita come un topo in trappola.
Presi
a tossire con violenza, mentre gli anfibi scivolavano sui primi pioli
della
scala, costringendomi a indietreggiare ad ogni singolo disperato
tentativo. Il
fumo cominciò a penetrarmi nel naso con insistenza e in
breve mi accorsi che
stavo per svenire. Da quell’istante in poi, la mia mente
iniziò a vacillare: ricordo
ben poco di quello che successe di lì a poco. Vidi delle
braccia prendermi da
sotto le ascelle e il volto di Fobos tra le volute di fumo che
serpeggiavano
fuori dalla botola.
-Dovete
scappare. Attentato… fuoco-, mugugnai, mentre
l’Ibrido richiudeva la botola con
un calcio e mi caricava in spalla.
-L’ho
detto che sei un’idiota-, mugugnò cominciando a
correre in direzione dell’unico
veicolo rimasto. La mia moto. Montammo rapidamente, poi Fobos
accelerò e fece
sgommare la ruota posteriore. Tutto attorno a noi echeggiava il tetro
rimbombo
dell’inferno che avvampava sotto i nostri piedi, ma la
città da quello che
potevo vedere era stata evacuata, almeno nella zona limitrofa.
Grazie
agli Dei non erano molti quelli abitavano a ridosso del Vallum.
Mi
addormentai sulla spalla di Fobos con ancora davanti agli occhi
l’immagine di
quell’accendino e nelle orecchie la risata di
quell’uomo. Era lì per noi, per
ucciderci nel qual caso non ci fosse riuscito il generatore di
emergenza.
Qualcuno sapeva di non doverci sottovalutare e aveva dei piani di
riserva.
Sicuramente non sarebbe stato l’ultimo attacco che avremmo
subito.
Quando
mi svegliai sentii il calore di un corpo accanto al mio. Era una
sensazione
strana, nuova e accogliente. Inizialmente pensai a mia madre, al suo
profumo e
alla sua pelle chiara, a quel ricordo ancestrale e primitivo che,
nonostante il
dolore e la delusione, mi faceva sempre tornare a lei. Schiusi gli
occhi e l’immagine
di una stanza austera mi comparve di fronte agli occhi. Cercai, quindi,
di
voltarmi, ancora in quello stato di dormiveglia che non mi faceva
rendere conto
con lucidità di ciò che mi stava accadendo. Non
ci riuscii perché qualcosa
premeva contro il mio stomaco e mi teneva bloccata in quella posizione.
Sentivo
della seta scorrermi sul viso, come la carezza della Dea Hera. Che
fossi morta
nella sonno e me ne stessi fra le braccia di una creatura divina?
Derisi
mentalmente quella mia stupida deduzione e imposi al mio corpo di
svegliarsi
del tutto. Sbadigliai, mi stropicciai gli occhi e infine lo vidi.
Quelli che
avevo scambiato per seta, in realtà, erano lunghi capelli
corvini, lisci e
sparsi su di me come un’esplosione di inchiostro. Quello che
avevo percepito
come un abbraccio celestiale era, invece, il braccio di un uomo
giovane,
ricoperto di piccole cicatrici bianche e di ferite appena rimarginate.
Il cuore
cominciò a battermi nel petto alla velocità della
luce, mentre il mio cervello
collegava gli indizi a uno a uno.
Non
poteva essere. Eppure quel calore e quel soffio leggero sulla mia nuca
erano
prove inconfutabili della presenza di un uomo nel mio letto. Arrossii
violentemente, forse per la situazione in sé, forse
perché avevo appena capito
chi fosse la creatura che dormiva abbracciata a me. Lentamente allentai
la sua
presa, forzando leggermente il suo abbraccio, e mi sollevai appena sui
gomiti,
per guardarlo. Lui se ne stava lì, assopito, con gli occhi
chiusi e il viso
addolcito dal sonno. Non sembrava così minaccioso mentre
dormiva, anzi,
assomigliava a ciò che avrebbe dovuto essere: un semplice
giovane uomo,
affascinante e accogliente. Indossava
dei jeans stinti e una felpa nera, mentre dell’uniforme non
c’era più traccia.
Guardai il suo braccio magro appoggiato sul mio grembo e, quando mi
resi conto di
indossare abiti che non erano i miei, per poco non urlai: qualcuno
doveva
avermi lavata e cambiata perché anche l’odore
della benzina se ne era andato. Mi
morsi in tempo le labbra e ammutolii il mio istinto di fuggire
dall’imbarazzo.
Scelsi, invece, di concentrarmi su altro, come ad esempio, il
rassicurante
colore bianco dell’aura di Fobos. Sembrava stesse sognando
qualcosa perché
talvolta sfumava in un colore rosato insolito e in netto contrasto con
l’oscuro
fascino che solitamente emanava. Aveva le lebbra tese nella sua solita
espressione seria, ma la fronte distesa gli conferiva un’aria
più giovane e
sognante, quasi normale a dire il vero. Un sorriso mi
increspò le labbra,
mentre con le dita iniziai a sciogliergli i nodi nei capelli. Erano
morbidi e
setosi, un vero piacere da accarezzare, per cui non fu una sorpresa
scoprire
che la mia mano, di sua volontà, era risalita lungo i suoi
crini per giungere
vicino al volto. Avevo un’occasione unica e che probabilmente
non mi sarebbe
mai più capitata, perciò non ci pensai due volte
e allungai un polpastrello a
sfiorargli gli zigomi magri. Tuttavia, non appena il mio tocco lo
raggiunse, i
suoi occhi si spalancarono e la sua mano mi attanagliò con
violenza il polso,
allontanandomi dal suo viso. Si tirò su con uno scatto
nervoso, come fosse
appena stato attaccato.
-Scusami,
non… non volevo svegliarti-, dissi. Fobos sollevò
gli occhi al cielo e si
lasciò nuovamente scivolare sul cuscino, i capelli
scompigliati attorno a lui
come i raggi di un sole nero.
-Perché
lo hai fatto allora? -, borbottò, mentre si schermava il
viso dalla luce che
filtrava attraverso il vetro. Dovevano essere circa le sei e in quel
posto
regnava ancora il silenzio della notte.
Mi
sedetti accanto a lui a gambe incrociate, afferrai un cuscino di forma
ovale e
lo stritolai come fosse un orsacchiotto. Era un ottimo antistress
mattutino ed
era un’abitudine che avevo conservato sin da quando ero una
bambina sola fra i
vicoli che rendevano Carthagyos un posto poco raccomandabile. Ripensai a quegli anni e a
come fossi
cambiata da allora, a come anche il resto del mondo fosse cambiato
senza che me
ne fossi mai resa conto del tutto. Era facile perdersi nella malinconia
di
quelle mattinate grigie, ma quel giorno avevo al mio fianco Fobos. E
Fobos mi
stava osservando fra le ciglia scure, rendendomi impossibile formulare
qualsiasi tipo di pensiero.
-Che
hai? -, domandò con la stessa noncuranza che ostentava da
quando lo conoscevo.
-Mi
domandavo dove siamo e perché condividiamo lo stesso
letto…-, buttai lì,
stringendo ancora più forte il cuscino. Lo stavo
praticamente arpionando, le
unghie conficcate nella stoffa e la gommapiuma che tentava di
esplodermi in
faccia. Lo sguardo di Fobos seguì la tensione nei miei
muscoli e si accorse
delle torture che stavo infliggendo al povero oggetto inanimato.
Sorrise, e si
allungò verso di me, con lo stesso sguardo con cui la prima
volta mi aveva
baciata. Arrossii ancora di più, incerta se volessi scappare
o meno. Ma lui,
con il suo sorriso tra il sadico e il dolce, non prese nemmeno in
considerazione la possibilità di farmi fuggire. Mi tolse
dagli artigli il
cuscino e lo gettò contrò il muro, poi mi
circondò con le braccia, stringendomi
con la stessa intensità con la quale io avevo stretto a me
il guanciale. Rimasi
un attimo interdetta, gli occhi spalancati e le braccia sollevate a
mezz’aria.
-Non
farmi mai più uno scherzo del genere. Se non fossi tornato a
prenderti, saresti
morta-.
-Grazie
per avermi salvata-, mormorai, ancora più sorpresa, mentre
la mano del ragazzo
mi scorreva fra i capelli e lungo la schiena in un turbinio di spirali.
Il
tutto durò solo pochi secondi e al termine di quel breve
lasso di tempo Fobos
si staccò da me di scatto come avesse ricevuto una scossa.
Il sole gli
illuminava gli occhi di una sfumatura colore del miele che risplendeva
come oro
in un mare tenebroso.
-Dove
siamo? -, gli chiesi, ricordandomi improvvisamente di tutta la catena
di eventi
del giorno prima. La stanza e il letto in cui ci trovavamo erano
estranei, così
come il panorama fuori dalla finestra.
-Dai
Gyps-, sorrise lui.
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Capitolo 24 *** Capitolo 23- Gyps ***
Capitolo 23
I
Gyps non erano assolutamente come me li ero aspettati. Erano uomini e
donne
estremamente snelli con costole sporgenti, capelli rasati fino alle
radici e
pelle bruciata dal sole. La maggior parte di loro aveva occhi azzurro
cielo o
grigio come le nuvole tempestose, ma c’era anche qualcuno i
cui occhi sfumavano
verso tonalità di un lilla misterioso.
-Non
mi fido a girare fra loro disarmata-, ammisi, mentre li osservavo
volare sopra
le nostre teste.
I
predoni avevano imparato a utilizzare i pezzi dei mezzi che attaccavano
per
costruire impalcature metalliche a forma di ali, sulle quali stendevano
delle
pelli, principalmente animali, che conciate secondo una loro antica
tradizione
donavano a quegli uomini la capacità di planare e librarsi
in aria. Il tutto
grazie alle forti correnti ascensionali e discensionali che spiravano
in
turbinii e tempeste dal Deserto fin su al Nord.
-Pensi
che abbia avuto scelta? E’ stato ciò che mi hanno
chiesto in cambio di
ospitalità-, fumò fuori Fobos, spegnendo poi la
sigaretta sulla fibbia dei
jeans.
Scelta.
L’Ibrido una scelta l’avrebbe potuta avere davvero.
Avrebbe potuto lasciarmi
morire nell’incendio, dandomi in pasto a quella risata
sinistra e meritandosi
un’altra medaglia al valore per aver evacuato con successo
tutti i cittadini
del Vallum. E
invece aveva scelto di
diventare un disertore al mio fianco, pur non avendo commesso alcun
crimine di
suo. Stava di fatto che, a quanto mi aveva raccontato Fobos,
l’Esercito
sospettava che avessi appiccato quell’incendio con dolo.
Pensava che avessi
allontanato Galeno con una scusa per condurre a termine i miei sporchi
piani e
che con sediziosa calma avessi agito da terrorista, facendomi saltare
in aria
per una causa che nemmeno io conoscevo. Fobos si era rifiutato di
credere a
questi sofismi e, conoscendo la mia mentalità primitiva e
acerba, aveva capito
che mi ero chiusa là sotto nel tentativo di salvare almeno
una vita.
-Non
ti ringrazierò mai abbastanza-, sospirai, capendo finalmente
come, dietro a
quella scorza dura che erano il suo atteggiamento e il suo
comportamento, Fobos
fosse una alleato prezioso e un uomo di onore. Allungai una mano,
lentamente,
quasi per paura, e la strinsi alla sua. Il suo braccio si contrasse e
le sue
spalle si immobilizzarono, mentre i suoi occhi saettarono in direzione
dell’intreccio
delle nostre dita.
-Avevamo
un Debito, no? -, mormorò, stringendo appena la presa sulla
mia mano.
Sorrisi,
ma lasciai andare le sue dita quasi immediatamente quando notai un uomo
venire
nella nostra direzione. Era di carnagione abbastanza scura con delle
pitture
argillose che gli decoravano il corpo come tatuaggi tribali. Doveva
essere
giovane, della stessa età di Fobos o qualche anno di
più.
Spostò
i suoi occhi plumbei su di noi, mostrandoci una fila di denti aguzzi,
come
affilati da lame.
-Ben
svegliati, stranieri! Avete dormito bene? -.
Subito
avvampai, nonostante negli occhi del ragazzo non vi fosse alcuna
malizia.
-Benissimo,
grazie Xerse-, rispose prontamente Fobos, allungando una mano e
stringendola a
quella del Gyps. Faceva uno strano effetto vedere le loro carnagioni
diverse unirsi
in una stretta di mano, eppure questo mi fece sentire molto
più tranquilla.
Rilassai i muscoli e mi presentai secondo l’etichetta.
-Bene, ora che anche
voi siete ufficialmente
dei fuorilegge, vorrei darvi alcuni consigli-.
Ci
incamminammo verso un edificio basso e diroccato con una tenda scura
simile
all’ala di un pipistrello come tetto. Era fresco e profumato
di menta al suo
interno, arredato con pochi oggetti, ma tutti visibilmente antichi.
Probabilmente erano il frutto del commercio con i Mauriani.
-Sediamoci
al tavolo-, ci invitò Xerse, incrociando le gambe su un
cuscino morbido ai
piedi di un tavolo basso. Io lo seguii a ruota, nonostante il dolore al
fianco,
mentre Fobos dovette fare numerosi tentativi per riuscire a sedersi in
maniera
civile, senza sembrare un gigante ingabbiato.
-Ebbene…-,
cominciò il ragazzo, estraendo una vecchia cartina sabbiosa.
– So che state
cercando di capire cosa stia accadendo al Vallum e che
perciò volete entrare in
territorio Mauriano-.
-Esattamente-,
mormorai osservando l’enorme macchia rosso sangue che
capeggiava all’estremo
Sud della cartina.
-Sono
cinquanta giorni di viaggio, non voglio mentirvi. Venti se decidete di
volare-.
L’espressione
di Fobos sconfinò nel fastidio più totale. Forse
sperava che raggiungere i
Mauriani fosse più semplice che attraversare a piedi
l’intero Deserto.
-Ad
ogni modo, ora il Mercato Mauriano è stanziato proprio qui,
al centro del
Sandpit, la grande fossa di sabbia. E’ una zona altamente
fortificata, quindi
non pensate nemmeno di scavalcare le recinzioni senza un piano a prova
di
Segugio-.
Gli
occhi di Xerse si illuminarono quando una donna anziana con gli occhi
velati di
bianco fece il suo ingresso in sala, depositando sul tavolo un servizio
da tè
molto raffinato.
-Questa
è mia nonna, Lakesi. E’ una donna molto saggia e
potrà consigliarvi meglio di
un giovane come me-.
Osservai
la nonna di Xerse con attenzione. C’era qualcosa di
estremamente famigliare in
lei e anche qualcosa di stranamente sbagliato. Scrutai i suoi lunghi e
fini capelli
bianchi, la carnagione decisamente più chiara del nipote,
con chiazze scure qua
e là affondate nella carne rugosa. Sembrava sofferente, con
quell’espressione
profondamente severa che la contraddistingueva.
-Benvenuti
tra i Gyps, alleati. So che siete in cerca di risposte e che le state
cercando
nel Deserto-.
Fece
una pausa per servirci il tè. Non una goccia
fuoriuscì dalle tazze sbeccate
nonostante la sua cecità.
-Questo
è il nostro tonico per eccellenza. Lo chiamiamo
Oruktà e ve ne servirà
parecchio per non rimanere seccati dal forte sole del deserto. So cosa
pensate
voi cittadini dei nostri rimedi, ma garantisco che questa bevanda
è più
nutriente di qualsiasi acqua filtrata abbiate mai bevuto-.
Fobos,
decisamente diffidente, osservò il pelo di quella brodaglia
nerastra e si
astenne dal portarla alle labbra. Io, invece, dopo una prima ancestrale
forma
di reticenza, ne inghiottii qualche goccia, sentendomi subito meglio e
refrigerata. Non so perché, ma la stanchezza e i cerchi alla
testa dovuti alla
mancanza della Cura si assopirono e il mio stomaco fu riempito da una
sensazione appagante di pienezza.
Gli
occhi mi si allargarono per lo stupore.
-E’
davvero fantastico-, dissi, sorseggiandone un altro po’.
-Bene.
Questo è solo l’inizio. Il vostro corpo
è troppo muscoloso e pesante per poter
volare. Inoltre, senza l’esperienza di anni di addestramento
le correnti
ventose potrebbero allontanarvi ulteriormente dall’obiettivo
costringendovi ad
una morte lenta e dolorosa-.
Deglutii.
-Che
speranza abbiamo, quindi? -.
La
donna sorrise, mostrandomi gli stessi denti aguzzi del nipote.
-Se
ci vendeste la moto, potremmo rimediarvi un passaggio sul Tachiforo -.
-Che
cosa è un Tachiforo? -, chiesi, curiosa come una bambina
piccola.
-E’
una nostra invenzione. Si tratta di un treno merci che viaggia su delle
rotaie
sopraelevate a una velocità incredibile. Si può
dire quasi che voli-.
Le
sopracciglia di Fobos si aggrottarono, puntando verso il naso.
Cominciò a
torturare il bordo della tazza, indeciso o meno se fidarsi di quella
gente.
C’erano delle domande appena nate che si dibattevano come
farfalle sull’increspatura
della sua fronte.
-Come
può essere? Non voglio dubitare di voi, ma conosco molto
bene la tecnologia-.
-
Elettromagnetismo! -, esclamò Xerse, talmente entusiasta da
non riuscire a
contenere la sua euforia. – Abbiamo trovato alcuni antichi
testi che spiegavano
come già nelle civiltà precedenti vi fossero
treni in grado di levitare su
binari magnetici. Abbiamo preso spunto dai loro progetti per sviluppare
il
Tachiforo. Si tratta di un qualcosa di talmente primitivo da averci
colti impreparati:
non ci era venuto in mente nulla di simile prima di allora-.
Fobos
puntò i suoi occhi dritti in quelli del ragazzo,
scrutandogli persino l’anima.
-Non
mi fido di voi, questo è evidente a tutti, come del resto so
che anche voi non
vi fidate di noi. Ma pare che questo Tachiforo sia l’unica
chance che abbiamo
per raggiungere celermente i Mauriani al Sandpit-, sospirò,
allungando una mano
e porgendola alla donna cieca di fronte a lui. Un largo sorriso si
allargò sul
volto di Lakesi, mentre le sue labbra si arricciavano.
-La
moto è vostra-, sentenziò infine Fobos la mano
stretta ferreamente in quella
della donna. Rimasero qualche secondo così, con i muscoli
delle braccia tese,
poi vidi gli occhi di Fobos diventare enormi, e i muscoli degli
avambracci
guizzare per sottrarsi a quel contatto. Fece una smorfia di dolore e
con uno
strattone scampò alla ferrea morsa della donna, cadendo con
la schiena a terra.
Subito, senza nemmeno dubitare del giudizio di Fobos, afferrai il
pugnale che
Xerse portava alla cinta e, con un balzo, oltrepassai il tavolo e
puntai il
coltello al collo rugoso della vecchia. Vidi il mio viso contratto
dalla rabbia
riflesso nei suoi occhi bianchi, e notai che il mio volto era
nuovamente
cambiato: scarno, scavato, con gli occhi ambrati enormi appesantiti
dalla
furiosa piega delle sopracciglia, un ringhio animalesco sulle labbra e
una
fierezza intrinseca. Stentavo a riconoscermi. Tuttavia, non una singola
particella del mio corpo esitò e la lama rimase posizionata
a fil di gola.
-Vecchia,
non ti azzardare-, ruggii, mentre con lo sguardo tenevo sotto controllo
anche
Xerse, immobile. Tremava come una foglia: sicuramente Lakesi ricopriva
un ruolo
di certa importanza per quei Gyps, e io la stavo per sgozzare. Strinsi
i denti
per trattenere il mio mostro e non urlare a causa del dolore al fianco.
Nel
frattempo, Fobos si era alzato e osservava la scena sconcertato. Non si
aspettava che avrei preso le sue difese senza alcun motivo logico, ma
lo avevo
fatto, e ora i miei muscoli erano pronti e assetati. Mi sentivo come un
predatore in agguato.
Lakesi
deglutì appena abbassando stentatamente il filo del pugnale
e facendolo
brillare.
-Quell’uomo,
quell’uomo è un mostro. L’ ho capito fin
da subito, ma non potevo esserne
certa. Dovrebbe essere morto, non capisco! Custode, parla! Dimmi
perché ti accompagni
a un simile errore della Natura-.
L’aura
di Fobos si espanse facendomi lacrimare gli occhi, ma non era nulla
paragonata alla
mia rabbia. Allungai una mano e afferrai il collo della vecchia,
guardandola dritta negli occhi, dall’alto al basso.
-Come
sai che sono una Custode? -, sibilai. Lakesi rise.
-Non
riconosci più una tua simile quando la vedi? Mi hai appena
vista scrutare nel
passato del tuo uomo e ancora hai dubbi? -.
Senza
pensarci le tirai uno schiaffo, costringendola a voltare il viso
nell’altra direzione.
Poi mi alzai in piedi sul tavolino e gettai il pugnale in direzione di
Xerse,
piantandoglielo a due centimetri dallo zigomo destro.
-Astreya,
calmati-.
La
voce di Fobos era rassegnata, come la mia quando avevo mentito a mia
madre
dicendo che non mi importava essere venduta, perché avevano
ragione: ero un
mostro e qualcosa nel mio cervello non andava. Mi morsi la lingua,
finchè non
sentii il famigliare sapore del sangue. Forse per Fobos le parole di
Lakesi
erano solo una vaga offesa, un incubo ricorrente o uno sprone per
vedere di che
pasta fossimo fatti. Io la vedevo come la sua condanna a morte. Nessuno
poteva
puntare il dito e dare del mostro a qualcuno in mia presenza!
-Non
mi interessa se sei stata una Bendata, se sei diventata un guru
spirituale e ti
bevi questo tonico al posto della Cura. Tu hai perso la testa: non
riconosci
più i veri mostri. Perché non è di
quell’uomo che devi avere paura, ma di me-.
Tirai
un calcio al servizio da tè, mandandolo a sfracellare contro
il muro.
-Smettila,
Astreya. La reazione di Lakesi era comprensibile-.
Fulminai
Fobos con lo sguardo, rivolgendomi poi a Xerse.
-Tu
hai davvero intenzione di aiutarci, o sei qui solo per sputare
sentenze? In tal
caso, leva le tende. Noi non abbiamo tempo da perdere-.
Gli
occhi chiari del giovane si puntarono in quelli dell’Ibrido,
cercando di capire
fino a che punto fosse disposto a lasciarmi sfogare. Fobos, in risposta
alle
sue aspettative, si sollevò in tutta la sua altezza
proiettando la sagoma
dinoccolata della sua ombra sul corpo minuto della Bendata.
Si
fece avanti posandomi una mano sulla testa e, stringendola bruscamente,
mi
pregò di smetterla.
-Stai
peggiorando la situazione. Dobbiamo solo guadagnarci un passaggio su
quel
treno. Non dobbiamo fare amicizia-.
Lakesi
sollevò appena il mento e lo indirizzò verso
Fobos, quasi potesse vederlo.
-Non
comprendo davvero perché questa donna voglia starti accanto.
La stai rendendo
un mostro come te. Guardala, è più un animale che
un umano-.
-Nonna!
-.
La
voce di Xerse era imperiosa e il suo tono non tradì la
minima emozione. Mi voltai
verso di lui, mentre la mano di Fobos scivolava sul mio fianco,
costringendomi
a sé con forza. Sapeva che sarei scattata e che lo avrei
fatto quando meno se
lo aspettava, perciò mi aveva trattenuta prima che fosse
troppo tardi. Capivo
la necessità di fare buon viso a cattivo gioco, ma non
comprendevo in alcun
modo la fredda tranquillità dell’Ibrido. Lo spiai
da sotto le ciglia e il suo
mare ambrato per un secondo incontrò il mio sguardo. Era
decisamente teso, ma
non lo dava a vedere.
-Nonna,
questi soldati si sono dimostrati accomodanti con noi. Ci hanno fornito
nuove e
preziose risorse, armi e un Esoscheletro. Che importa chi o cosa sono?
-.
Lakesi
abbassò il volto e i capelli candidi gli scivolarono sul
volto, leggiadri come
ragnatele.
-Xerse,
non dire alla testa del corpo dei Gyps come agire. Il nostro legame di
sangue
non conta nulla di fronte alla mia autorità, ricordalo-.
Un’altra
donna infeconda, una creatura il cui amore era sterile e senza frutti.
Disprezzai Lakesi con tutta me stessa, schierandomi affianco di quel
giovane di
più ampie vedute. Xerse meritava il trono più di
quella cariatide, senza ombra
di dubbio.
-Senta,
Lakesi. Io non pretendo che lei accetti la mia Natura,
perché nemmeno io l’ho
ancora completamente accettata. Tuttavia, crede davvero di essere un
buon capo?
Non sottovaluti mai il potere di un mostro come me. Non può
vedermi, ma le
assicuro che potrei farle raggelare il sangue nelle vene-.
Il
viso di Fobos si avvicinò a quello della vecchia,
scostandole una ciocca di
capelli dagli occhi. Poi sussurrò al suo orecchio: - Vuole
mercanteggiare con
noi, o no? Dei suoi giudizi me ne faccio ben poco. Se vuole quella
moto, ne
possiamo discutere. Altrimenti quel biglietto per il Sandpit ce lo
prenderemo
con la forza, ricordandoci una volta arrivati alla fossa di dire ai
Mauriani
come abbiate sostenuto solertemente l’Esercito e di come
abbiate nascosto i
frutti materiali della nostra contrattazione. Sono certo che si
fionderebbero
qui per poter avere le briciole della tecnologia che vi abbiamo
gentilmente
donato-.
Lakesi
si sollevò, titubante, il volto pallido e una goccia di
sudore appesa alla
tempia. – Mio nipote sembra davvero essere in grado di
comprendervi più di
quanto non lo sia io, perciò lascerò a lui il
verdetto-.
Xerse
gonfiò il petto, quando Fobos si rivolse direttamente a lui.
Allungò una mano e
la pose, trattenendo il respiro, sulla spalla dell’Ibrido.
Attese, infine, che
Lakesi se ne fosse andata poi sputò fuori tutto quello che
pensava.
-Non
ho mai visto una donna come quella-, commentò, lanciandomi
uno sguardo gonfio
di ammirazione. – Né una creatura intelligente
come te. Sono sicuro di aver fatto
bene a non avervi ucciso, quando vi abbiamo trovati. Meritate una
chance da
questo mondo. Perciò che diritto ho io di mettervi i bastoni
fra le ruote?
Patto accettato-.
-Sei
un uomo di parola, Xerse. Hai detto che ci avresti aiutati e lo stai
facendo. Spero
che un giorno i Gyps riconoscano il tuo potenziale-.
Le
parole di Fobos fecero imbarazzare il giovane che, con un grugnito di
sorpresa,
si schermì il volto. Quindi, tracannò la sua
tazza di Oruktà e ci spiegò i
dettagli del nostro prossimo viaggio. I Gyps ci avrebbero fornito degli
zaini
di tela leggera e degli abiti adatti al Deserto. All’interno
delle sacche avremmo
trovato acqua, un coltello, una quantità abbondante del loro
tonico in polvere
e uno strano strumento per estrarre il liquido potabile contenuto nelle
piante
grasse che puntellavano le distese sabbiose. Il Tachiforo avrebbe
atteso il
nostro arrivo per la partenza prevista alle sei della mattina e ci
avrebbe
depositati ad una trentina di chilometri dal Sandpit. Una volta
là avremmo
dovuto contare solo su noi stessi.
Ascoltammo
con attenzione le indicazioni, sfruttando le conoscenze di Xerse per
farci
un’idea di ciò che avremmo trovato là
fuori una volta rimasti senza l’appoggio
del suo popolo.
Quando
uscimmo dall’edificio il sole scottava ancora sulle nostre
pelli e le spalle di
Fobos stavano assumendo il colorito rosato di chi sta decisamente per
ustionarsi. Il suo corpo era già segnato dalle privazioni e
dalla fame, sarebbe
riuscito a sopravvivere all’arsura e alla calura del Deserto?
Se già soffriva appena
poco più a Sud del Vallum, la sua pelle sarebbe stata un
grosso ostacolo per
noi nell’aridità del Sandpit.
-Sei
stata avventata, prima-, mormorò mentre osservavamo il
nostro unico mezzo
venirci sottratto. La moto mi sarebbe decisamente mancata.
-Quella
donna non aveva diritto di parlare. Non ti conosce nemmeno-, borbottai,
riprendendo
il cammino per dirigermi verso la stanza che ci era stata assegnata.
Xerse ci
aveva detto che ci era stata servita la cena, e io avevo una fame
incredibile.
Lo stomaco mi brontolava come pentola di fagioli e la mente continuava
a fare
cilecca.
-Nemmeno
tu mi conosci-.
-Questo
perché tu non me lo permetti-, obiettai, guardandolo da
sotto in su a braccia
conserte, nella posa che lui stesso era solito assumere con me. Fobos
inspirò e
osservò la gabbia di Apollyo sanguinare fiammeggiate nel
cielo rossastro.
-Vorresti
davvero sapere tutto di me? -.
Annuii.
L’Ibrido rimase per qualche secondo in silenzio, poi raccolse
la mia mano fra
le sue e distendendo tutto il suo essere, rilasciò la sua
aura, facendomi
pizzicare gli occhi.
-Dovrebbe
funzionare. L’ultima volta ci sei riuscita-.
Sgranai
gli occhi, mentre il mostro appiccicoso che vedevo sempre appeso alle
sue
scapole prendeva la mesta forma di un ragazzino pallido, con enormi
occhi verdi
e un fisico estremamente magro.
-Perché?
- riuscii a chiedere, prima di cadere vorticosamente in una sorta di
trance,
una specie di viaggio onirico nei meandri dell’anima di
Fobos. Non riuscii a
trattenere la mia mente dal raggiungere ogni angolo del suo corpo
completamente
privo di difese, e in breve fui non solo nella sua testa, ma anche nel
suo
cuore.
-Fobos!
Fobos, svegliati. O farai
tardi-.
Pigramente mi alzai dal letto, la
testa pesante e le ossa che scricchiolavano come le giunture di un
vecchio. Mi
trascinai in bagno, dove Achileos mi stava attendendo. Mi
sollevò il mento con fare
preoccupato, osservando i lividi bluastri che erano comparsi sotto agli
occhi e
ai lati della bocca. Sembravo più un cadavere che un ragazzo
di quindici anni,
ma non me ne poteva importare di meno.
-Laviamoci questa faccia-, sorrise
mesto il Caporale, senza riuscire a distogliere lo sguardo dalle mie
cicatrici,
dal mio dolore e dai miei occhi indolenti, senza vita. Cercai di
sbloccare la
manopola del lavandino, ma non ci riuscii. Mi avevano inoculato un
siero anti
ipnotico che da giorni mi teneva sveglio. Persino la notte non riuscivo
a
dormire, nemmeno quando il mio corpo e il mio cervello urlavano di
farlo,
perché sovraccarichi di stimoli e di dolore.
Achileos si allungò verso di me,
aprendomi l’acqua, gelida e pungente come una lama affilata,
e, senza dire
nulla, mi infilò la testa sotto al getto freddo. Le gocce di
quella pioggia
sporca mi lavarono via un po’ di stanchezza, ma mi ferirono
ulteriormente il volto
tumefatto dalla magia e dalle sperimentazioni. Mi morsi le labbra,
stringendo
gli occhi e ancorandomi al bordo del lavabo, finchè quella
tortura non ebbe
fine e Achileos mi lanciò un asciugamano umido in testa.
-Forza ragazzo. Sii forte-, mi
implorò, con la voce di chi non può fare altro
che guardare un parente, un
figlio o un amico morire. Era uno sguardo che odiavo, perché
mi ricordava
quanto fossi diverso da loro. Perciò mi imposi di ripetere
quello che Upokrates
mi cantilenava ogni giorno e che ormai era diventato il mio mantra.
-Io sono già forte. I soldati veri
non dormono, non mangiano e non provano paura. E io non
proverò più nessuna di
queste cose-.
La mia voce risultò piatta e
monotona, come se stessi leggendo un normale catalogo di articoli
domestici.
Storsi il naso e tornai nel dormitorio per vestirmi. C’era un
brusio
insopportabile e una miriade di ragazzi che sciamava di qua e di
là cercando
uno stivale o le fondine.
-Ehi, Fobos, che brutta cera-.
Deimos, appena tredicenne, era
apparso alle mie spalle con aria sgomenta. La spalla, laddove si era
posata la
sua mano, bruciava come il foro di un proiettile. Era sangue del mio
sangue quella
creatura, ma non potevo fare a meno di odiarla. Perché aveva
scelto la stessa
vita che i nostri genitori avevano imposto a me? Io avrei ucciso per
essere
libero e lui si era appena immatricolato, spinto dal puro e semplice
desiderio
di fama e gloria. Era ripugnante, eppure in qualche modo non potevo
impedirmi
di volergli bene.
-Smamma, piattola-.
- Ma come? Non trattarmi così, mezza
sega scorbutica! -, ridacchiò il ragazzino, ancora troppo
magro affinchè la
divisa gli calzasse bene. Nemmeno i sarti del campo avevano potuto fare
un
lavoro migliore di quello.
Istintivamente, osservai per
differenza il mio corpo. Avevamo solo un paio di anni di differenza
eppure il
mio fisico era già quello di un uomo, magro e liso, ma pur
sempre scolpito e
con le spalle larghe. Mi aggrappai alla spalliera del letto per non
vomitare.
Un altro attacco di sonno, o fame, o qualsiasi istinto fosse, mi
catturò le
budella, facendole contorcere.
-Chiamo Upokrates? -.
-No-, biascicai, cominciando a
boccheggiare sotto lo sguardo di tutti i presenti. Sentivo i loro
sguardi
trapassarmi, giudicarmi, sussurrarmi che ero un mostro. Leggevo la
paura nella
fissità delle loro pupille, un timore quasi sacrale verso i
lividi e le
cicatrici del mio corpo.
Li odiavo, li odiavo tutti. Sapevo
che quella rabbia non era tutta mia, che parte mi era stata imposta dai
trattamenti, ma davvero era impossibile ormai scindere il ragazzino che
ero
stato dall’uomo malvagio e distrutto che stavo diventando.
Che senso aveva
resistere? Che senso aveva opporsi a un Destino già scritto?
Mi morsi con
estrema violenza il polso, finchè il sangue non
cominciò a gocciolarmi sulla
punta degli anfibi, appagando il mio profondo desiderio di dolore e
morte.
-Fobos…-, mormorò Deimos alle mie
spalle, indietreggiando appena, gli occhi velati dalle lacrime. Anche
lui si
allontanava da me, quando perdevo il controllo. Fra loro non
c’era nessuno che
potesse tenere il mio passo, che potesse diventare abbastanza forte da
camminare al mio fianco, da sostenermi in battaglia e diventare davvero
sangue
del mio sangue. Non avrei mai potuto toccare una donna senza il timore
di
desiderarne la morte, né abbracciare un figlio senza il
rischio di frantumargli
le ossa nel mio abbraccio. E allora che senso aveva vivere? Morsi
ancora, con
più forza, lasciando che le punte dei canini trovassero la
loro via attraverso
la carne ruvida delle mie braccia.
-Smettila, abominio! -, commentò
qualcuno. Un ragazzino biondo con dei profondi occhi colore
dell’ebano. Lo
attaccai senza nemmeno pensarci, scattando come un predatore e
ringhiando come
un animale. Ma poco prima di riuscire ad afferrargli il collo, il mio
mento
sbattè rovinosamente contro il pavimento e mi ritrovai lungo
disteso sul linoleum.
Mi voltai, pronto a lottare, e vidi Achileos che mi tratteneva per un
piede,
nonostante stessi calciando come una bestia indomita.
-Dei benedetti, scusami, ragazzo-, mi
pregò e, detto questo, mi colpì alla testa con
l’impugnatura della sua katana.
Vidi tutto nero, poi i suoni si smorzarono. Collassai, ma rimasi
sveglio, cosciente
e mezzo morto.
Perché non mi lasciavano dormire?
Mi
svegliai. Mi ero nuovamente
addormentato con il viso nella zuppa del refettorio. Gli altri soldati
non
avevano osato svegliarmi e ora mi ritrovavo i capelli inzuppati di
brodo.
-Vado a fare una doccia-, annunciai
atono, alzandomi con un immenso sforzo. Mano a mano che crescevo, il
mio corpo aveva
cominciato ad abituarsi alla continua sofferenza e ormai non ci facevo
più
caso. Quello che ancora mi urtava, invece, erano i commenti della gente
e i
loro bisbigli sommessi. Mi allontanai il più in fretta
possibile, trascinando i
piedi, e salutando i pochi volti che ancora mi concedevano il saluto.
Feci una doccia gelida. Svolsi con
cura tutte le bende che mi ricoprivano braccia, gambe e persino il
busto. Là
sotto c’era un macello incredibile che mi disgustava ogni
giorno di più.
Vomitai nel lavandino, percependo un tremendo dolore al basso ventre.
Accarezzai la pelle appena sotto l’ombelico, soffermandomi
sulle piccole
cicatrici delle siringhe. Poi sospirai, tirando un pugno allo specchio.
I
frammenti scivolarono a terra, cangianti, ferendomi le mani e le gambe.
Diciassette anni e nessuna
probabilità di avere figli. Upokrates diceva che un soldato
era molto più
efficiente se non aveva distrazioni, ma avendo già provato,
senza troppo
successi, a privarmi del cibo e del sonno, ora non gli rimaneva altro
che
attentare alla mia virilità. Speravo che anche in quel caso
le sue
sperimentazioni fallissero miseramente.
Allontanai con i piedi quel pattume
di vetri e mi infilai nella doccia, curvando la schiena per godermi la
sensazione di freschezza sul dorso. Mi ripulii in fretta e furia, senza
pensare
ad alcunché. Lasciai che le lacrime mi scorressero lungo gli
zigomi sempre più
magri, e semplicemente finsi che fossero acqua.
Attaccavo con cattiveria. Non miravo
a disarmare i miei avversari come chiedevano gli allenatori: io miravo
a
distruggerli. Annientarli. Non mi importava di sentire le loro urla,
né di
essere colpito. La sensazione di fare del male era troppo appagante.
-Basta. Cambio-.
Mi allontanai dal mio avversario,
riverso a terra con il naso sanguinante, e mi sedetti sugli spalti
della
palestra. Sciolsi i capelli e li tamponai con l’asciugamano.
-Stai esagerando-.
Deimos. Perché dovevo trovarmelo
sempre accanto? Perché semplicemente non poteva sparire?
-Non mi interessa-.
-E cosa sono quelle cose appese al
tuo labbro? -.
Quasi senza pensarci sfiorai gli
anellini appesi metallici appesi blandamente al mio viso. Non so
perché li
avessi fatti, ma mi ricordavano un po’ i canini dei lupi.
-Piercing-, risposi soprappensiero,
mentre osservavo i miei compagni allenarsi. Era evidente come loro
fossero un
branco male assortito eppure estremamente funzionale. Ognuno di loro
aveva un
ruolo da ricoprire ed ognuno di loro era indispensabile ai compagni. E
poi, e
poi c’ero io. Quello diverso, quello alto il doppio degli
altri ragazzi, quello
violento che spesso come un cane infedele si rivoltava contro la sua
stessa
famiglia. Quello che non accettava le regole, ma che si sottometteva al
padrone, scodinzolando come un cucciolo. Quello che piangeva solo
quando non
c’era nessuno nei paraggi, ma che non faceva nulla per
nascondere i segni delle
violenze che subiva. Qual era il mio posto in quel branco?
-Ehi! -.
Mi riscossi, quasi senza volerlo,
quando vidi il braccio di Deimos agitarsi nell’aria. Stava
salutando una
ragazza dai corti capelli biondi che correva nella nostra direzione.
Non
ricordavo chi fosse, ma il suo viso mi era noto. Si fermò
proprio di fronte a
noi, bevendo dell’acqua fresca dalla fontanella ai piedi
degli spalti.
-Come stai, Estya? -, domandò Deimos,
dandomi un leggero colpetto con il gomito. Sollevai gli occhi al cielo
e, senza
dire nulla, cominciai a spruzzare sulle nocche il cerotto liquido. Non
volevo
coltivare quel genere di amicizie. Erano sterili e improduttive.
-Oh alla grande, ragazzi! Che sudata.
Tu come stai, Fobos? -.
Sollevai lo sguardo infastidito, ma
risposi comunque cortesemente alla sua domanda, forse con un pizzico di
ironia.
-Alla grande-.
La giovane fece una smorfia di
disappunto, arrampicandosi lungo i gradoni e sedendosi proprio di
fianco a me.
Il suo braccio toccò il mio, e a me venne la nausea.
Quella
donna era diversa da qualunque
altra creatura avessi mai visto. Era minuta e fragile; avrei potuto
spazzarla
via con un dito, eppure in qualche modo era più combattiva
di un alligatore. Se
ne stava seduta di fronte a me, con gli enormi occhi colore del miele
che mi
fissavano indispettiti.
Avevamo gli stessi occhi, la stessa
sfumatura guerrafondaia in fondo alla retina, la stessa reticenza nel
contare
sugli altri.
Non avevo mai desiderato veramente
una donna; le avevo sempre avvicinate per convenienza. Eppure nel
guardare
quella ragazza tremare di fronte a me, collegata a mille elettrodi e
con i
capelli scuri a coprirle il seno, non potevo fare altro che volerla.
Finsi indifferenza e cominciai a
farle una serie di domande.
Lei rispondeva con quel suo tono di
voce sprezzante, lanciandomi occhiatacce e nascondendosi il
più possibile ai
miei occhi. L’avevo trattata male, e persino traumatizzata
forse. Allora perché
non cedeva? Perché continuava a sfidarmi con gli occhi?
Decisamente non era una del branco.
Era un lupo come me e i suoi occhi giallo lucente ne erano la prova.
Forse
questa Custode, Astreya, poteva diventare il compagno che Deimos o
chiunque
altro non ero riuscito ad essere. Poteva essere l’unica donna
ad attrarmi
psicologicamente e l’unica a essere abbastanza forte da stare
al mio passo. O
forse ero ammattito.
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Capitolo 25 *** Capitolo 24 - Epistassi ***
Capitolo
24
-Deimos
è tuo fratello?!-, esclamai, afferrando la maglia di Fobos e
avvicinandolo a
me. Lui sorrise mestamente, annuendo come un condannato a morte.
-Sì,
ma ti prego di non dirglielo. Non credo che lui ne sia al corrente. I
nostri
genitori non avrebbero mai sopportato l’idea di rivelare al
figlio prediletto
di essersi sbarazzati del fratello maggiore-.
Le
mie nocche si strinsero attorno alla stoffa, raggrinzendola e tirandone
le
fibre. Quanto era stato crudele il Destino con Fobos? Capivo
perché ora mi
ritrovavo al suo fianco: eravamo davvero simili e solo un altro Aborto
come me
avrebbe potuto sostenere la crudezza e la spietatezza della sua
esistenza.
-La
tua vita è stata… terribile-.
Fobos
sorrise, graffiandosi le labbra con le punta acute dei denti. Era un
sorriso
amaro quello che gli tese il volto, ma non di certo autocommiserativo.
-E’
stata utile, direi. Utile per capire di chi potermi fidare, per
diventare più
forte e per poter capire come muovermi in questo mondo. Terribile,
perché spietata,
certo, ma non così diversa dalla tua-.
-Forse
hai ragione. Ma la differenza fra me e te è che io sono nata
con questo mostro
nel mio stomaco, con questa propensione per la magia. Tu no, invece-.
Fobos
si mosse rapido, schivando un uomo alto e mingherlino che correva
sbattendo le
ali.
-
Astreya, i tuoi genitori sono in tutto e per tutto simili ai miei. Ci
ritengono
difettosi per vari motivi, ma hanno comunque individuato in noi un gene
estraneo, qualunque esso sia-.
Aveva
ragione. Effettivamente non importava che io fossi una disturbata e lui
un
indesiderato. Entrambi eravamo delle anomalie in questo mondo, piccoli
parassiti che non sarebbero mai dovuti esistere. Ma eravamo anche di
più:
eravamo curiosi, svegli, indipendenti e con una personalità
spiccata. Non ci
adattavamo alle altre persone, ma cercavamo di adattare loro a noi. Un
po’ come
un cancro infettavamo tutto ciò che ci circondava,
tramutando la realtà degli
altri nella nostra realtà, lottando per contagiare un mondo
asettico abitato da
antibiotici ambulanti.
-Credo
di capire il tuo ragionamento. Prego solo che questo viaggio non si
concluda
con la nostra morte. Siamo già stati annientati dal mondo
anni fa e non voglio
assolutamente che una cosa del genere ricapiti-.
Ero
convinta che la nostra missione fosse fin troppo rischiosa e temeraria
per due
rifiuti come noi, ma forse proprio perché andavamo contro
ogni previsione e
logica umane, potevamo arrischiarci ad affrontare
quell’imprevedibile viaggio.
-Forza,
non abbatterti. Siamo arrivati fin qui-, commentò Fobos,
accarezzandomi i
capelli e osservando i Gyps librarsi sopra le nostre teste come
avvoltoi.
Allungai
la mano, sfidando la luce del sole, e chiudendo un occhio per mirare
meglio,
avvolsi con le dita quegli uomini, così piccoli visti da
dove eravamo noi.
Sembravano zanzare silenziose o farfalle libere di esplorare il mondo,
senza
alcuna regola, senza alcuna morale da seguire se non quella dettata dal
loro cervello.
Era un mondo che a me era completamente estraneo e che non mi sarebbe
mai
appartenuto, però in qualche modo era affascinante. Lo amavo
e lo odiavo al
tempo stesso perché sapevo di non poterlo avere. Strinsi le
dita attorno alla
figura di uno di quei volatili umani, fingendo di schiacciarlo. Dopo un
breve
istante nel quale la sua immagine sparì fra le mie dita
assieme al sole, il
piccolo insetto schizzò via, avvolgendosi in spirali ed
evoluzioni. Ero io la
prigioniera, non loro.
-Dai
andiamo a mangiare, che domani ci attende una giornata pesante-.
Tornammo
alla stanza, dove ci attendeva un pasto caldo. Xerse era riuscito a
rimediarci
qualche borraccia di acqua, estratta dai pozzi che circondavano il
villaggio,
una razione di formaggio stagionato e due pani raffermi, di quelli che
probabilmente rubavano agli sfortunati viandanti.
-Stiamo
mangiando del cibo trafugato-, commentai disgustata, osservando i
piatti
davanti a noi come fossero avvelenati. Fobos afferrò il
tozzo di pane e, con
una scrollata di spalle, cominciò a rosicchiarlo.
-
Tu mangia il resto. Io sono progettato per resistere con pochissimo
cibo, per
cui…-
-E’
cibo rubato! Magari hanno anche ucciso per averlo-, ripetei,
sconcertata dalla
poca reattività di Fobos alle mie parole.
-E
con questo? Fuori dal Tempio, Astreya, vince la legge del
più forte. Dovresti
saperlo. E poi, dai, seriamente, pensi che non mangiando riporterai in
vita
quei morti? -.
Incrociai
le braccia davanti al petto e cominciai a dondolare sulla sedia,
imponendomi di
non toccare nemmeno una mollica di quel pane. Chiusi gli occhi e
sollevai il
mento.
-Ma
quanti anni hai? Due?!-, borbottò Fobos facendo strisciare
la sua sedia verso
la mia.
-Tre-,
obiettai piccata, socchiudendo un occhio per capire che espressione
stesse
colorando il volto di Fobos. Nervosismo: si stava massaggiando la base
del
naso, il sopracciglio sollevato e una smorfia di estremo fastidio sul
viso.
Le
sue dita si chiusero con forza attorno alla fetta di pane e con un
gesto
talmente rapido da non essere nemmeno visibile a occhio nudo, me lo
ficcò in
bocca, premendo con rabbia per cacciarmelo giù a forza.
Cominciai a tossire,
stupita da una mossa tanto inattesa e bevvi avidamente
l’acqua che, dopo
qualche istante Fobos, mi porse.
-Non
fare più cazzate del genere! Non quando non sono sotto
iniezioni-.
Annuii
e deglutii in fretta il cibo. Mangiai in silenzio il resto della cena,
pregando Fobos di addentare almeno un pezzetto di formaggio, ma fu
irremovibile. Rimase a guardarmi per tutto il tempo, assicurandosi che
mi nutrissi adeguatamente e solo quando ebbi finito tutto quello che
c'era nel piatto, scivolò a letto. Io lo seguii a ruota, gli
occhi pesanti e la pancia piena.
La
mattina successiva fu Fobos a svegliarmi. Dolcemente.Con una gomitata
nelle costole.
Riuscii soltanto a mugugnare qualcosa prima di cadere dal letto con
tutte le
lenzuola annesse.
–Mister
gentilezza si è svegliato-, mi lamentai afferrando il bordo
del letto e
tirandomi in piedi. Sentivo
la fronte
bollente e la testa leggera. Il mio corpo sudava e mi sentivo scossa da
brividi.
-Zitta,
gallina-.
La
voce di Fobos era ancora impastata dal sonno e il viso era affondato
fra i
capelli aggrovigliati come tentacoli di un mostro marino. Mi sedetti sul bordo del
materasso,
passandomi una mano sulla fronte e al contempo spiando il ragazzo
accanto a me.
Aveva il respiro pesante e la luce che filtrava dalla finestra
proiettava
l’ombra delle ciglia sulle sue guance. Sembrava una pantera
durante la
pennichella: le fauci ancora sporche di sangue, ma per il resto
sonnolenta e
pacifica.
-Vado
a farmi una doccia-, annunciai, ma Fobos non rispose. Era sveglio, lo
sapevo,
ma probabilmente dopo avermi rivelato il suo passato e aver confessato
di
provare attrazione nei miei confronti, non aveva voglia di parlarmi. Quindi, sgattaiolai in
bagno, aprendo il
rubinetto della doccia e spogliandomi. Feci attenzione a non farmi del
male,
studiando il movimento delle stoffe ed evitando che venissero in
contatto con
le bruciature. Fu un’impresa difficile, ma alla fine riuscii.
Scivolai
sotto l’acqua fredda, ispirando a fondo quando il getto
colpì tutte le mie
ammaccature. Facevano male e bruciavano, ancora in preda alle fiamme.
Mi
sentivo debole e spossata, e come sempre, quando non mi veniva
somministrata la
Cura, iniziavo a vedere oltre lo specchio della mia realtà
quelle ombre
danzanti. Iniziai a vedere storto, a percepire l’acqua come
artigli affamati
della mia carne. Gemetti.
-Tutto
bene? -.
La
voce di Fobos era incredibilmente vicina e, voltandomi, intravidi la
sua sagoma
oltre la tenda del bagno. Avvampai e indietreggiai, con il risultato di
conficcarmi il rubinetto nel fianco. Percepii un dolore talmente
lancinante che
non riuscii a stare in silenzio e un singhiozzo mi sfuggì
dalle labbra.
Scivolai
a terra con gli occhi chiusi, stringendo la parte lesa, imponendomi di
non fare
alcun verso e di ignorare le ombre che zigzagavano tra le gocce di
quella
pioggia calcarea.
Avrei
voluto che Fobos si allontanasse il prima possibile, ma lui
sembrò pensarla
diversamente. Spalancò, infatti, la tenda, incurante del
fatto che fossi nuda
e, calatosi i jeans per non bagnarli, entrò nella doccia.
-Ti
sei fatta male? -, domandò, sfiorandomi appena il fianco. Lo
guardai negli
occhi, mentre lui controllava le bruciature, rigirandomi braccia e
gambe. I
capelli, appesantiti dallo scroscio del soffione sopra le nostre teste,
gli si
erano appiccicati al torace e dei rivoletti di acqua gli si infilavano
nelle
cavità del corpo e fra le labbra. Era già
completamente bagnato, eccezion fatta
per i suoi occhi; quelli erano infuocati come sempre e sembravano
respingere il
vapore impalpabile attorno a noi.
-Hai
la febbre-, disse alla fine, sollevandomi i capelli dalla fronte e
poggiando il
palmo fresco sulla mia pelle. Mi lasciai scappare un sospiro, poi mi
aggrappai
alle spalle di Fobos, e dopo che ebbe contato fino a tre, ci sollevammo
entrambi. Era strano stare così vicini: sentivo il mio cuore
battere contro il
suo e la mia pelle bruciare la sua.
-Ce
la fai a stare in piedi? -, mi chiese senza veramente lasciarmi andare.
Annuii
distrattamente osservando le sue spalle ricoperte di cicatrici e i
fiumi neri
dei suoi capelli.
Mi
rimisi in posizione eretta, barcollando leggermente.
-Brava
ragazza-, sorrise lui, passandomi una mano fra i capelli fradici. Poi
con
delicatezza spostò le dita sul mio fianco, osservando la
bruciatura con
attenzione.
-
Dopo averla pulita, mettici su l’unguento che ci hanno dato,
e fasciala per
bene-, mormorò senza distogliere lo sguardo dai miei occhi.
Si stava sforzando
di non farmi sentire a disagio, di non farmi imbarazzare di fronte ai
suoi
occhi che percorrevano ogni centimetro del mio corpo. Era gentile a
modo suo,
ma mi dava anche fastidio. Dopo aver scoperto cosa realmente Fobos
pensasse di
me, non potevo fare a meno di chiedermi cosa avrebbe fatto se ora mi
fossi
buttata fra le sue braccia. Se in qualche modo avesse reagito, se per
caso non
avesse cambiato idea su di me. In fondo che male c’era ad
affidarsi a lui per
una volta? Avevo davvero bisogno di una spalla su cui riposare, di una
mano che
mi accarezzasse la schiena. La stanchezza di quei giorni mi era caduta
addosso
come un macigno e mi aveva trasportata via come una corrente impetuosa.
Perciò,
assecondando i miei pensieri, feci qualche passo in direzione di Fobos,
il
quale, sorpreso, indietreggiò fino ad incontrare la parete
con la schiena. Non
potendo più scappare, si limitò a guardare da
un’altra parte, distendendo le
braccia lungo i fianchi.
-Che
fai? -, domandò titubante, scostandosi i capelli dalle
labbra e continuando a
ignorarmi.
Perché
lo faceva? In fondo erano suoi i pensieri che avevo scandagliato, sue
le
immagini che i miei occhi avevano visto. E allora perché io,
fra tutte,
sembravo fargli paura?
Appoggiai
il capo sul suo petto, lasciando che l’acqua mi frustasse la
nuca, e le mie
mani si aggrapparono alla sua schiena, così magra che potevo
contare le
vertebre a una a una.
Fobos
per un istante smise di respirare, poi, capendo che non mi sarei
scostata, mi
sfiorò le spalle con le mani, facendole scorrere lungo le
mie braccia, e
intrecciandole, per finire, ai capelli incollati sul dorso. Inspirai il
profumo
della sua pelle e mi strinsi ancor di più a lui,
schiacciandolo contro le
fredde piastrelle sbeccate.
-Astreya…-
Mugugnai
qualcosa contro il suo petto, ma non mi scostai. Era piacevole essere
abbracciati; me ne ero quasi dimenticata, ma ora, dopo anni, potevo
godermi
ancora quell’insperato calore.
-Astreya,
spostati-, sussurrò Fobos, proteggendomi il viso
dall’acqua quando sollevai lo
sguardo. Ero circondata dalla cascata nera dei suoi capelli che si
confondevano
con i miei, ricadendomi scomposti sulle spalle.
-Perché?
-.
-Perché
sono un uomo. E tu sei nuda-.
-Scusami,
hai ragione. Però davvero non riesco a…-,
cominciai a dire, rassegnata all’idea
che le mie ginocchia non volessero collaborare. Poi lentamente scivolai
lungo
il busto di Fobos. Mi sentivo svenire e lo scroscio della doccia mi
rimbombava
nelle orecchie come una tempesta senza fine. Fobos fu rapido. Mi prese
in
braccio e cautamente uscì dalla doccia, avvolgendomi in un
asciugamano ruvido e
riscaldato dai raggi mattutini del sole. Infine si sedette sul letto,
tenendomi
in braccio e cullandomi piano piano.
-Adesso
ti disinfetto le ustioni. E poi berrai quell’intruglio, visto
che sembra che a
quella Bendata abbia concesso di sopravvivere senza il Tempio-.
Annuii,
riuscendo a visualizzare soltanto la scia dorata dei suoi occhi. Mi
sentivo nuovamente
bambina, al caldo e protetta. Non dovevo preoccuparmi delle ombre che
mi
ghermivano gli occhi o di quelle che mi stritolavano il cranio. Ora
avevo
qualcuno che badava a me.
Lasciai
che Fobos mi scoprisse il fianco e analizzasse la pelle bruciata. Era
rossa e
pulsante, ricoperta da piccole, ma dolorose piaghe. Presi a tremare
violentemente e a sbattere i denti, quando Fobos mi scoprì
ulteriormente per
analizzare il resto del corpo.
-E’
l’astinenza. Anche io ci sono passato. Ti sembra di morire,
vero? -.
Annuii,
mentre mi abbracciavo il busto cercando di mantenere intatto il mio
fisico
distrutto.
-Sei
così minuta…-.
-Non
lo sono-, obiettai, mordendomi il labbro. Il disinfettante bruciava da
morire e
la sensazione che mi dava era quella di essere stata contagiata dal
veleno di
un serpente.
Fobos
cominciò a tamponarmi la ferita, inzuppando la punta
cotonata in un liquido
semitrasparente con dei riflessi violacei.
-Io
ti ho mostrato praticamente tutto del mio passato, ma tu rimani un
mistero per
me-.
Mi
aggrappai con forza al suo braccio, quando sentii le bende avvolgermi
strette,
grattando contro la pelle danneggiata.
Le ombre avevano cominciato a riavvicinarsi terribilmente,
allungando i
loro runcigli su di me, cercando di strapparmi gli occhi e mordendomi
le ossa.
Cominciai ad avere paura, circondata da un mondo pieno di spettri che
non avevo
mai visto nella sua interezza.
Fobos
alzò un sopracciglio quando vide i miei occhi riempirsi di
terrore e il mio
corpo ricominciò a sussultare convulsamente. Non sapeva che
lentamente quei
mostri, attirati dalla mia vista, mi stavano trascinando nella loro
realtà,
quel posto al quale sapevo che la mia parte più profonda
apparteneva. Dovevo
uscirne, al più presto. Eppure non riuscivo a parlare;
riuscivo soltanto a
lottare contro l’inesorabile declino della mia mente,
mantenendomi lucida il
più a lungo possibile e presente a me stessa.
Fobos
sembrò non capire cosa mi stesse accadendo, ma constatando
la forza con cui
stringevo i denti e mi tenevo a lui, fece la scelta giusta. Prese
l’Oruktà dal
comodino accanto al letto e senza pensarci due volte mi costrinse a
ingerire
l’intera borraccia. Sentii immediatamente un freddo
raggelante dentro di me e
il mio mostro fuggire verso i meandri nascosti del mio corpo, laddove
non
sarebbe potuto essere debellato. Le ombre baluginarono in aria come ali
di
pipistrello impazzite e schizzarono via, allungandosi sui muri,
disperdendosi
sotto al letto e sbrodolando tra le fessure dei muri e degli infissi.
Sospirai,
mentre i battiti del mio cuore rallentavano.
-Grazie-,
ansimai, mentre le goccioline di acqua rimaste incastrate fra i miei
capelli e
sul mio corpo evaporavano, friggendo come olio sulla pelle.
-Di
nulla.-.
Il
Tachiforo si presentò a noi come un ammasso caotico di
rottami e detriti,
cuciti assieme da saldature e bullonature a dir poco caserecce. Non
c’erano
vetri ai finestrini e questi si aprivano come occhi spalancati sul
paesaggio
brullo che ci circondava. Il mezzo, in sostanza, ricordava un pasciuto
e lucido
lombrico che si librava sulle rotaie come un fachiro in pensione,
appesantito
dagli anni e stanco di essere punzecchiato.
-Ma
noi dobbiamo salire là sopra? -, fu la mia obiezione quando
vidi il treno merci
che ci avrebbe trasportato attraverso il Deserto e
l’imponente catena di rotaie
ondeggianti su cui quest’ultimo sarebbe corso, simili in
tutto e per tutto a
scheletri di dromedari e cammelli.
Xerse,
che aveva accompagnato me e Fobos alla stazione, sogghignò
divertito.
-Sarà
un bel giretto. Queste grosse strutture sono state ricavate
dall’ex-colonia di
Freakland-.
-La
città luna park? -, bofonchiò Fobos, il quale
nonostante la temperatura torrida
di quella mattina, indossava una felpa nera pesante.
-Sì,
ormai è stata smantellata. Quando hanno capito che si
trattava di uno strumento
per incamerare soldi e lucrare sul desiderio di evasione della povera
gente,
alcune brigate di sediziosi hanno cominciato a sbrindellare tutte le
attrazione, riguadagnandosi in tal modo tutti quegli arretrati
pecuniari che lo
Stato si era intascato incassando la parcella dei ticket-.
Cercai
di figurarmi una città nata per il divertimento,
così artificiosa e mirabolante
da apparire alternativamente come un paese dei balocchi e come un
incubo
distorto. Era davvero inquietante pensare ad una città
carosello, abitata da
tutti e da nessuno.
-Beh,
credo che da qui le nostre strade si dividano, Xerse-,
esclamò Fobos,
stringendo la mano al Gyps. –Mi dispiace di averti creato dei
problemi, in
special modo con Lakesi, e ti ringrazio di aver scelto di
mercanteggiare con
noi-.
Xerse
sorrise mentre una lieve folata di vento e sabbia ci spettinava i
capelli.
-Dovere.
Non amo l’Esercito e non mi fido dei Religiosi,
perciò accolgo con piacere
chiunque abbracci la causa dell’indipendenza-.
Per
la prima volta nella mia vita mi sentii una ribelle, non più
una qualunque
pecora del gregge.
E
anche se non sapevo ancora se essere associata ai sediziosi mi piacesse
o meno
(specialmente dopo che avevo svolto ossequiosamente i miei compiti da
soldato,
rischiando la vita), vedere quella scintilla di ammirazione negli occhi
del
predone mi rinfrancò lo spirito più di qualunque
altro tonico.
-Fate
buon viaggio, alleati. E che la Sorte vi assista. Ricordatevi, una
volta giunti
al Sandpit, di chiedere di Alpha-1 e Gamma-x. Loro sono gli unici che
possono
davvero aiutarvi-.
Fobos
lo ringraziò cortesemente, poi mi sospinse sul treno. Non
vedevo l’ora di
partire e di giungere dai Mauriani. Da loro avremmo finalmente trovato
le
risposte alle nostre domande.
Ci
imbarcammo rapidamente, trovando posto fra delle enormi casse di legno,
malamente imballate. Il Tachiforo non era molto spazioso, per cui
dovemmo
sederci il più vicini possibile, nascondendoci alla vista di
chiunque non fosse
a conoscenza della nostra presenza su quel cargo.
-Si
parte-, commentai, quando un altoparlante gracchiò una serie
di parole
sconnesse. Il mezzo cominciò lentamente ad avanzare e ben
presto acquistò
velocità.
-Sembra
quasi di volare-, risi, notando il colorito molto poco roseo di Fobos.
Si
teneva stretto lo stomaco e fissava un punto qualsiasi di fronte a lui.
Soffocai una risata: fino a qualche ora prima ero io ad essere stata
male e ora
anche lui sembrava sul punto di vomitare. Cominciai quindi a pensare ad
una
battuta divertente per farlo infuriare o perlomeno per distrarlo dalle
continue
salite e discese di quelle mirabolanti montagne russe, ma quando vidi
una densa
scia di sangue scivolargli dal naso lungo il prolabio e le sue dita
bianche
tingersi di rosso per arrestarlo, la mia espressione mutò
repentinamente e una
cieca paura mi fece contorcere le budella.
-Stai
bene, Fobos? -.
Il
mio tono preoccupato non sfuggì all’Ibrido, il
quale si voltò verso di me
ripulendosi malamente l’epistassi.
-Astinenza.
Purtroppo su di me quell’intruglio non funziona. Sono immune
a ogni tipo di
tossina o medicinale che non siano le iniezioni che Upokrates mi faceva
al
campo-.
Portai
istintivamente la mano alla bocca. Presa come ero dalle mie sofferenze
non
avevo minimamente pensato che Fobos potesse stare male come stavo io.
Ero stata
egoista e non avevo pensato a nessun altro all’infuori di me.
Invece lui aveva
disertato senza pensare alle conseguenze e mi aveva cullato mentre
stavo male
ignorando il suo stesso malessere, anteponendo me a lui.
Grazie
agli Dei, però, potevo aiutarlo. Conoscevo Medeya e durante
gli allenamenti con
i Biotecnici avevo imparato molte cose. Di certo non avevo scoperto i
segreti
dell’Accademia, ma osservando l’altra Custode
all’opera avevo acquisito nuove
doti, doti che ora mi sarebbero tornate utili.
-Guardami,
Fobos-, gli dissi, stringendo gli occhi e girandogli dolcemente il
volto.
Sembrava un animale ferito con quella macchia rossastra appena sopra il
labbro
e quegli occhi vulnerabili e imbarazzati. Mi concentrai su di lui, sul
suo
corpo che stava soffrendo e sulle sue molecole che tremavano impazzite
sobbalzando di qua e di là. Poi immaginai che quello stato,
quella energia
consumata e quelle ossa distrutte appartenessero a me. Trasportai parte
del suo
malessere nel mio campo, appesantendomi la mente e vacillando io
stessa. Era
questo il dolore che Fobos doveva sopportare ogni giorno? No, questo
era solo
la metà di quello che lui realmente pativa.
Cominciai
a sentire gli occhi bruciare e le articolazioni sgretolarsi sotto il
peso dei
muscoli in perenne contrattura. Un cerchio alla testa mi colse
impreparata
cingendomi le tempie come una corona di spine e un lungo tremore mi
squassò la
colonna vertebrale. Feci appello alle mie povere doti di Demoniaca per
rafforzare il mio scheletro e sostenere la sua malattia.
Poi
sollevai gli occhi su Fobos. Aveva le iridi scure come la pece e
collose come
il petrolio. Muoveva lo sguardo a destra e a sinistra, cercando di
capire a
cosa dovesse quel lieve sollievo che sentiva. Il palliativo ero io e lo
capì
ben presto, non appena anche a me cominciò a sanguinare il
naso. Il mio sangue
era più chiaro di quello di Fobos e anche più
liquido. Scivolò lento sulle mie
labbra per poi riflettere la sua sfumatura mortale nelle pupille
dell’uomo che
mi stava di fronte.
-Cosa
stai facendo? -, sussurrò sconvolto, cercando di liberare il
volto dalle mie
mani. Ma io non ero ancora pronta a lasciarlo andare, potevo ancora
sostenere
un briciolo della sua sofferenza. Ancora un po’, un ultimo
sforzo. Solo quando
raggiunsi il limite e l’aria cominciò a sfuggirmi
dai polmoni lo liberai,
ansimando e sudando.
-
Stai meglio? -.
-Non
dovevi farlo! Devi rimanere in forze-, mi sgridò il giovane,
allungando il
pollice e strisciandolo sul mio arco di Cupido. Sentii la consistenza
vischiosa
del sangue essere trascinata via dalla ruvidezza dei suoi polpastrelli
e il suo
respiro caldo a pochi centimetri dal mio volto.
-
Fobos, anche tu devi rimanere in forze! Ricordati che abbiamo un Debito
e che
non possiamo separarci. Mai. Io dipendo completamente da te e tu da me.
Che ti
piaccia o no. E ora stai zitto che mi dai sui nervi-.
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Capitolo 26 *** Capitolo 25- Bug ***
Capitolo
25
Il
Sandpit era un immenso cratere in mezzo al Deserto, una incredibile
voragine
creatasi chi sa come, forse da una frattura della Terra, forse
dall’impatto con
un meteorite. Stava di fatto che il canyon che ci si stagliava di
fronte era
qualcosa di sorprendente. La sabbia, sospinta da feroci raffiche di
vento, pioveva
dai bordi frastagliati in cascate d’oro, mentre i puntuti
tralicci delle torri
petrolifere resistevano all’assalto di quella marea di
cavalloni. C’erano
almeno una decina di jack-up attorno alla circonferenza immensa del
canyon e
tutti poggiavano su un unico deck sostenuto da tre tralicci. Erano
strutture
tipicamente progettate per un impiego diverso da quello che stavano
svolgendo,
ovvero per piattaforme offshore, in mare. Ma dal momento che la Terra
non aveva
molti idrocarburi rimasti da sfruttare, la nostra fame nera ci aveva
spinto a
smantellare gli impianti petroliferi infecondi e a rivenderli a
qualcuno che,
come i Mauriani, sapeva cosa farci. In fondo il moto della sabbia non
era così
diverso da quello dell’Oceano ed era bastato giusto qualche
accorgimento
ingegneristico per mettere in piedi quello zoo di giraffe metalliche e
quella
selva di derrik, piramidi scheletrite e tetre.
Avanzammo
in direzione del baratro, coprendoci gli occhi con le sciarpe e
lottando contro
la sabbia che ci scivolava da sotto le suole lise degli anfibi. Era
davvero una
fortuna aver raggiunto il Sandpit alle prime ore dell’alba
quando il sole
ancora non era alto nel cielo, altrimenti saremmo morti disidratati:
non ci
rimaneva nemmeno un dito d’acqua nelle borracce e non vi era
l’ombra di piante
grasse nel raggio di chilometri.
-Guarda-,
mi disse Fobos, appoggiando a terra lo zaino e indicandomi la
città ai nostri
piedi.
Mi
spinsi sull’orlo della voragine, piegandomi leggermente per
proteggermi dalle
sferzate di sabbia e vento.
Sulle
pareti rocciose del Sandpit, rosso scuro e color terra bruciata, erano
state
scavate delle gallerie spiraliformi che stritolavano l’intero
canyon come le
spire di un serpente. Sembrava che una tarma gigante avesse intarsiato
quel
vecchio mobile, ottenendone un pizzo delicato e alquanto fragile.
Sul
fondo, invece, si trovavano degli edifici bassi ricoperti da quelli che
sembravano essere pannelli solari, un grosso palazzo bianco latte a
forma di
piramide, e molti, moltissimi ingressi sotterranei. C’erano
fessurazioni enormi
nella terra, troppo precise e calcolate per essere unicamente un
labirinto di
aridità scavato e seccato dai raggi del sole. Quelli erano
cunicoli e quelle
larve bianche che fin da lassù vedevo altro non erano che
impalcature,
camminamenti e scale; probabilmente farle in metallo avrebbe
significato
ustionare metà della popolazione. Quella meno intelligente,
diciamo.
-E’
sorprendente, non credi? -.
Fobos
sollevò le spalle, sedendosi nella sabbia e asciugandosi il
sudore dalla
fronte. La benda che portava attorcigliata al polso era ancora intrisa
di
sangue e il suo colorito non era migliorato. Confrontandolo con il mio
di
polso, sulle cui garze vedevo solo una vecchia macchia raggrumata, mi
resi
conto di quanto Fobos necessitasse una cura. Non so cosa mi era saltato
in
mente quando l’Ibrido mi aveva proposto di estrarre
chirurgicamente dal polso
il chip di riconoscimento. Forse la speranza di non essere rintracciati
dall’Esercito,
o forse il senso di libertà che dava liberarsi di quella
maledetta cimice. Sta
di fatto, che ci eravamo scavati un solco nella pelle pur di espellere
quell’oggettino e per farlo avevamo usato solo acqua bollente
e un coltello
arrugginito. Era chiaro che ora Fobos stava male. Lui non era come me,
in fondo
era pur sempre un umano.
-Fa
male? –
Fobos
mi indirizzò uno sguardo confuso, come se non capisse a cosa
mi riferivo.
Dovetti indicargli il polso per fargli prendere visione di quella garza
suppurante
sangue.
-Ah,
non me ne ero nemmeno accorto. Spero solo di non perdere il braccio. Mi
dispiacerebbe, ci sono affezionato-, ridacchiò lui,
rivoltando la testa
all’indietro. Non lo trovavo per nulla spassoso, anzi.
-
Tu e il tuo umorismo del cazzo. Ecco perché non mi sei mai
piaciuto-,
gracchiai, afferrandolo per un gomito e cercando di rimetterlo in piedi.
Fobos
pigramente assecondò i miei movimenti e in un attimo fu di
nuovo al mio fianco.
Contemplò qualche istante il labirinto di cunicoli sul fondo
del Sandpit, poi
con tutta la tranquillità del mondo mi domandò: -
E noi come ci arriviamo là
sotto? -.
Sollevai
le spalle. Non avevo idea di come avremmo raggiunto il fondale di
quell’abisso,
ma una cosa la sapevo. Dovevamo sbrigarci.
-Dovrebbe
esserci un accesso da qualche parte, a meno che i Mauriani non escano
mai dalla
loro buca-.
Osservai
Fobos con la coda dell’occhio. Il suo comportamento era
davvero fuori dal
comune e rasentava l’isteria. Non lo avevo mai sentito fare
battute del genere,
né ridere di fronte a situazioni che di divertente avevano
davvero ben poco. Non
sapevo effettivamente come le iniezioni
infierissero sul suo corpo e la sua mente, ma cominciavo a farmene una
vaga
idea.
-Senti,
tu rimani qui. Io vado a farmi un giretto-, tentai, certa che mi sarei
mossa
più velocemente senza di lui. In un certo senso mi
dispiaceva abbandonarlo lì, in
mezzo a quella desolazione e a quelle torri di ferro, ma che altra
scelta
avevo? Appoggiai lo zaino a terra e presi unicamente le cose che
pensavo mi sarebbero
servite, più un coltello per ogni evenienza. Gli ultimi
residui di acqua,
invece, li lasciai a Fobos, sperando non facesse l’eroe e la
bevesse in caso di
bisogno.
-
Non pensavo mi avresti abbandonato nel Deserto-, mormorò
lui, quando ormai ero
pronta per cominciare la mia esplorazione del periplo. Mi voltai con
gli occhi
strabuzzati: non potevo credere alle mie orecchie. Fobos se ne stava in
piedi
alle mie spalle con le braccia stese lungo i fianchi e
un’espressione tra
l’andato e il ferito. Non sopportavo il fatto di doverlo
vedere così.
-Non
voglio lasciarti qui! Sei ammattito?! Avrei fatto prima a farti fuori
nel
Deserto se avessi voluto, brutto idiota-, urlai, prima di tirare un
calcio alla
sabbia.
-E
allora vengo con te. Sei così magra che una folata di vento
potrebbe farti
precipitare nel Sandpit-.
Sbuffai.
Perché doveva essere così fastidioso? Ignorai il
suo commento: speravo,
infatti, che desistesse non appena si fosse accorto che il suo fisico
non
avrebbe retto un metro di camminata in più. Purtroppo, la
testardaggine di
Fobos ebbe la meglio, e passo dopo passo mi seguì per tutto
il percorso,
ciondolando e traballando come un vecchio giunco storto.
Per
quanto mi riguardava, ora avevo una complicazione in più:
dovevo, infatti,
portare a termine due compiti al posto di uno solo. Dovevo, per prima
cosa,
assicurarmi che il mio compagno non schiattasse improvvisamente,
affondando
nella sabbia come un blocco di cemento, e, in secondo luogo, dovevo
trovare un
camminamento che ci conducesse all’interno della
città dei Mauriani. Niente di
più semplice.
Scrutai
ogni singola pendenza della roccia, ogni friabile appiglio, ogni
nervatura di
diverso colore, ogni stupido sasso. Ma il canyon sembrava
irraggiungibile.
-Stupidi
imbecilli-, imprecai, asciugandomi il sudore dalla fronte. Il sole
ormai si era
alzato e la sabbia iniziava a scottare. Fobos, accanto a me, con lo
sguardo
perso, boccheggiava e la sua pelle era ricoperta da un sottile strato
di
sudore. Sembrava respirare a fatica e, appena sotto la canotta,
intravedevo i
segni di quella che sembrava un’ustione abbastanza importante.
-Forza,
sediamoci -, lo chiamai, indicandogli l’ombra bucherellata di
un vecchio
traliccio crollato. Sembrava la carcassa di un rettile enorme da dove
eravamo e
mi ispirava tutto tranne che fiducia, però era
l’unico oggetto nel nostro
raggio di azione ad avere un cono d’ombra sufficiente ad
ospitare entrambi.
Scivolammo, quindi, in direzione del relitto, fiacchi e affamati.
Raggiungemmo
in breve i primi resti, spazzati via dal vento e corrosi dai granelli
di
sabbia, per poi dirigerci a rapidi passi verso il corpo centrale. Fu
solo a
qualche passo da quest’ultimo che Fobos si arrestò
di colpo, bloccandomi una
spalla con la mano. Mi voltai, indispettita, certa che mi avesse
trattenuta per
qualcosa di estremamente stupido e, invece, notai che le sue orecchie
erano
tese come quelle di un segugio, in ascolto, e che un nuovo rivoletto di
sangue
gli stava scivolando lento dal naso.
-Non
siamo soli. Meglio nasconderci-, sussurrò, indicandomi una
lamiera d’acciaio
impalata nel terreno a qualche metro da noi. Ci accovacciammo come
animali e
serpeggiammo in mezzo a quel cimitero di resti fino alla lastra, dietro
la
quale ci nascondemmo.
-
Quanti sono? -, domandai, sporgendomi appena dal bordo per cercare di
individuare gli estranei.
-Non
lo so. Faccio fatica a concentrarmi-, ringhiò Fobos,
tenendosi la testa fra le
mani nel disperato tentativo di isolare i disturbi e ricevere meglio i
segnali
che lo circondavano.
Notai
che l’epistassi non si era ancora arrestata e che, anzi,
sembrava farsi sempre
più copiosa. Persino la benda sul polso ormai non era altro
che un fazzoletto
macilento intriso di rosso.
Non
potevo farmi scrupoli a questo punto. Non importava più chi
fossero le persone
là fuori: erano il nostro unico lasciapassare per la
città. Non
importava nemmeno più se fossero persone
buone o innocue. Io dovevo tutelare Fobos, e anche me stessa,
perciò quello era
il momento giusto per essere egoisti.
-Tu
resti qui, capito? Non voglio sentire storie. Al momento non sei in
grado di
fare nemmeno la più piccola cosa-.
Lo
sguardo di Fobos si fece incendiario e la sua aura mi
schiaffeggiò con forza,
avvampando di rabbia.
-E
dovrei stare qui a guardare una donna battersi per me? -,
sputò fuori,
scandendo con tremenda lentezza ogni singola parola.
-
Preferisci aspettare di morire qui? No, perché sto perdendo
la pazienza-,
obiettai, spingendolo con le spalle contro la lamiera bollente. Al
giovane
sfuggì un gemito di dolore. -Lo
vedi, non riesci nemmeno a respingermi. Quindi stai qui buono-.
Non
gli diedi nemmeno il tempo di rispondere. Rapidamente mi spostai in
avanti e
con un balzo superai la lamiera di acciaio.
Attorno a me, c’erano soltanto sabbia, sabbia a
perdita d’occhio, e
qualche nascondiglio metallico. Niente di più: non si
udivano voci e l’aria era
pregna dell’ululare tetro del vento.
Mi
concentrai, aprendo uno spiraglio al mio mostro e mandando in visibilio
tutte
le mie terminazioni nervose. Dovevo ricorrere a tutto ciò
che avevo imparato
sia come Custode, sia come soldato, sia come Polivalente. Camminai a lungo,
cominciando a dubitare
dell’udito di Fobos, e infine mi ritrovai di fronte una
struttura enorme
ricoperta e tempestata dalla sabbia. Era una fixed platform, o meglio
quello
che ne rimaneva. Sentivo i lugubri scricchiolii della travatura
reticolare e il
tremolante ondeggiare dell’edificio fatiscente; non
promettevano nulla di buono.
Mi intrufolai all’interno della struttura, seguendo un
impulso poco razionale. Dovevo
riuscire a isolarmi da tutto il resto e percepire nitidamente
ciò che mi
circondava, o mi avrebbero scoperto prima che potessi muovere anche
solo un
muscolo.
Un
cigolio appena accennato mi fece saettare verso destra, dietro a un
traliccio
divelto. Un uomo si stava avvicinando nella mia direzione, spuntato
all’improvviso da dietro una specie di cartellone
pubblicitario. Era un
rettangolo arrugginito, mezzo accartocciato e conficcato nella sabbia.
Sopra,
con una calligrafia asettica e per nulla accattivante, si leggeva
solamente un
nome. SeaXpetroleum. Doveva essere il nome dell’azienda che
gestiva i pozzi
prima che andassero in malora. Questo, tuttavia, non mi diceva nulla
sulla
figura che avanzava nella mia direzione. La spiai cauta dal mio
nascondiglio
improvvisato. Si trattava di un uomo sulla trentina con barba e capelli
color
verde brillante e una quantità di tatuaggi davvero
incredibile. Era armato,
notai; indossava una imbracatura dentro la quale era adagiato un
sottile fucile
e ai fianchi portava appeso un cercapersone. L’unico
vantaggio che mi era
offerto dal Destino era il fatto che le mani dell’uomo
fossero occupate nel
sostenere una specie di metal detector e che questo emettesse dei bip
acuti ogni
secondo esatto. Mi
appoggiai con la schiena
al pilastro ed estrassi il pugnare dal laccio che aveva legato alla
caviglia.
Avrei dovuto pregare forse, pregare di riuscire a cavarmela senza
ucciderlo o
pregare di ucciderlo e non venire attaccata da altri suoi compagni. Ma
la mia
mente si rifiutava di ragionare, assordata dai battiti del mio cuore.
Non era
la prima volta che cacciavo qualcosa, ma al Tempio si era trattato
perlopiù di
gatti. Li avevo sfruttati per mettere a punto le mie doti di Demoniaca
vista la
loro agilità innata.
Cacciare
un umano non doveva essere troppo diverso, giusto? Con un piccolo balzo
mi
aggrappai ad una trave mezza andata e mi issai con le braccia, sperando
mi
sostenesse. Una volta sopra la ripercorsi in lunghezza, correndo
silenziosamente,
per poi lanciarmi su quella successiva. Vi atterrai sopra con un
leggero tonfo
che, però, non raggiunse l’uomo sotto di me.
Probabilmente l’apparecchiatura
con cui stava lavorando produceva abbastanza rumore da riuscire a non
farmi
scoprire. Allora mi accovacciai in attesa che il tizio tatuato
raggiungesse il
punto dal quale avrei potuto colpirlo, ma proprio quando era a pochi
passi da
me, udii una seconda voce e l’uomo si bloccò.
Immediatamente mi appiattii sul
traliccio, mentre una donna raggiungeva lo sconosciuto. Era alta e
muscolosa
con lunghi capelli viola fluorescente rasati ai lati. Anche lei era
tatuata e
dei luccichii metallici mi fecero capire che era un’amante
dei piercing.
-Ehi,
Ro-5! Hai trovato qualcosa? -.
-Zitta
che se no non sento-, la rimproverò l’uomo,
tappandosi un orecchio e
controllando il rumore del metal detector. Un bip più lungo
dei precedenti fece
vibrare la macchina e su un piccolo schermo legato al polso del
Mauriano
comparve un’immagine luminosa.
-Cazzo,
un altro cazzo di tappo! -, imprecò lui, passandosi una mano
fra i capelli
ricci e lunghi. La donna fece una smorfia e tornò a
guardarsi attorno brandendo
la stessa tipologia di fucile che aveva Ro-5.
-
Non ti perdere d’animo. Le Lucertole hanno rilevato la
presenza di molto
metallo sotterrato da queste parti, perciò si tratta solo di
trovare il punto
giusto-.
L’uomo
sollevò le spalle, scuotendo il polso e spegnendo il piccolo
display.
-Piuttosto-,
aggiunse poi, mentre la ragazza lo superava e controllava che dietro i
pilastri
non li attendesse un agguato. Grazie agli Dei, mi ero rifugiata
lì sopra prima
che fosse troppo tardi.
-Piuttosto?
-.
-Ci
sono Sciacalli in zona? -.
Affinai
l’udito: dovevo scoprire quali pericoli ci attendevano oltre
ai Mauriani.
Sciacalli e Lucertole per ora erano solo parole alle mie orecchie, e
ciò non
andava affatto bene. Avevo bisogno di renderle creature concrete, prima
di
poter loro infilare il pugnale in gola.
-Nessuno
al momento, ma stamattina sono stati trovati due chip nel Deserto,
sotterrati
malamente sotto la sabbia. C’erano tracce ematiche
utilizzabili, credono, ma i
dati contenuti erano stati cancellati dal caldo e dalla sabbia-.
Deglutii;
per l’ennesima volta stavamo rischiando che ci facessero le
scarpe ancora prima
di presentarci. Imprecai silenziosamente, seguendo le mosse dei due
sotto ai
miei piedi.
-Beh,
se sono nei dintorni li scoviamo di sicuro. Dopo una passeggiata nel
Deserto si
è lucidi quanto un pazzo al manicomio-, rise la donna,
saltellando estasiata al
solo pensiero.
-Sì,
ma se avevano dei chip, significa che erano soldati. E ora sono
disertori. Ciò
vuol dire che o sono dei disperati o sono dei rifiuti umani, di quelli
violenti
e pronti a sbranare per soldi-.
La
ragazza scrollò le spalle.
-Se
sono passati sotto i Gyps, significa che non hanno più
nemmeno un’arma. E forse
nemmeno le mutande-, rise.
Anche
l’uomo si voltò e scoppiò in una
fragorosa risata. Osservai il pugnale che
avevo fra le mani e la sua linea lucente. Se dovevo farlo quello era il
momento
giusto. Strinsi le dita attorno all’elsa del pugnale e senza
pensarci due
volte, piombai su di loro, atterrando alle spalle dell’uomo e
puntandogli il
coltello alla gola.
-Se
ti muovi, lo sgozzo-, commentai atona, mentre da dietro la spalla di
Ro-5 studiavo
la reazione della donna. La giovane mi stava guardando terrorizzata con
gli
occhi azzurri spalancati e le labbra tremule. Era in posizione di
guardia, con
il fucile puntato verso terra. Era stata colta talmente alla sprovvista
che non
aveva nemmeno avuto tempo di sparare o anche solo puntarmi contro
l’arma.
-Chi
sei? -, mi chiese titubante, mentre il mio mostro assaporava la
sensazione del
coltello affilato sul collo barbuto del Mauriano. Una goccia di sudore
mi scivolò
ghiacciata lungo la schiena.
-Non
ha importanza-, ringhiai, indicandole con il mento il fucile.
– Mettilo a terra
e calcialo nella mia direzione. Se starete buoni, non vi
farò niente. Voglio
solo parlare-.
La
donna afferrò il fucile, sollevandolo appena da terra.
Avvicinai la lama al
collo dell’uomo strappandogli un gemito e una gocciolina di
sangue.
-Mettilo
giù-.
-Tu
sei una di loro, vero? Una dei soldati senza chip…-,
sibilò, calciando il
fucile con estrema lentezza. Alzò lentamente le mani, mentre
il suo compagno
continuava a divincolarsi come una tarantola. Forse non aveva ancora
capito
quanto fossi più forte di lui o forse non lo voleva
ammettere.
-Esattamente.
Siamo giunti qui grazie a Xerse dei Gyps e stiamo cercando due persone.
Alpha-1
e Gamma-x-.
La
ragazza ebbe un guizzo e il suo sguardo ricadde sul compagno. Non
volevo che in
qualche modo comunicassero, non quando ero in minoranza numerica.
Perciò gli
falciai le gambe con la punta dello stivale e lo faci cadere con il
sedere
sulla sabbia.
-Dannazione!
-, strillò lui, quando lo afferrai malamente per i capelli.
-
Non fatemelo ripetere, non ho tempo-. Decisi di giocarmi la carta della
compassione. –Il mio compagno sta male e ha bisogno di cure.
Non abbiamo soldi
con noi, e come avrete capito non stiamo nemmeno più dalla
parte
dell’Esercito-.
Ro-5
tossì un paio di volte, prima che con un calcio lo spedissi
dritto ai piedi
della sua compagna. La donna mi guardò esterrefatta, poi con
un sorriso tra il
felino e il predatorio mi fu addosso. Non avevo messo in conto una
reazione del
genere, ma ora non avevo più remore. Avevo tentato un
approccio amichevole e
non aveva funzionato. Forse una scarica di adrenalina era
l’unico modo per
penetrare la corazza di quelle persone. Intercettai il suo pugno senza
grossi
problemi. Era veloce e agile come una gazzella, eppure io ero anni luce
superiore a lei. Dovevo ringraziare unicamente il mio mostro e Dyte,
osservando
la qualche avevo imparato molti trucchetti divertenti. Proprio come
quello che
stavo per mettere in atto. Sfruttai la velocità del colpo
della mia avversaria
per trascinarla contro di me, attirando il suo pugno verso la mia
guardia. Poi
quando fu a tiro le assestai una ginocchiata dritta alla bocca dello
stomaco.
-Non
sono qui per lottare. Voglio soltanto parlare con quelle persone-, le
gridai,
mentre, dopo essere caduta a terra, allungava una mano per recuperare
il
fucile. Sentii uno sparo fischiare accanto al mio orecchio e la canna
del
fucile di Ro-5 mirare alla mia testa. Quei due non scherzavano. Rotolai
verso
destra scampando alla seconda pallottola e mi riparai dietro dei
rottami
bollenti.
-Perché
vuoi parlare con i nostri Diarchi? -, ringhiò
l’uomo sparando nuovamente e
costringendomi a spostarmi ancora, stavolta dietro un pilastro.
-Porto
notizie dal Vallum-, azzardai, uscendo allo scoperto e lanciando il
pugnale
contro Ro-5. Lui, come da piano, riuscì a schivarlo, ma non
abbastanza
rapidamente da intercettare il mio montante che lo colpì con
forza sotto alla
mascella. Sentii il suo corpo sollevarsi insieme al mio pugno, poi un
gemito mi
accarezzò le orecchie, mandandomi in visibilio. Lo
colpì con l’altro pugno allo
stomaco e l’uomo si ritrovò catapultato contro un
traliccio. Urlò di dolore
quando la sua schiena impattò contro il lucente acciaio.
-Non
voglio lottare, ma mi costringete a farlo. Ragionate, se siamo qui solo
in due,
che minaccia potremmo mai essere per una città? -.
Schivai
la presa della ragazza, lanciandola contro il compagno e correndo a
riprendermi
il pugnale. Quando mi voltai avevo nuovamente un fucile puntato alla
testa e
una combattente pronta a farmi le scarpe.
-I
tuoi occhi. Tu non sei umana e non sei nemmeno una Custode, non con
quei
capelli-.
Era
arguta. Ma non abbastanza da spingermi a raccontarle la mia vita. Cosa
pensava?
Che con quella provocazione le avrei raccontato ogni mio segreto?
-Non
ti basta sapere cosa non sono per accettare di aiutarmi? -, obiettai,
osservando il lucido foro del fucile e il dito dell’uomo
appoggiato nervosamente
sul grilletto. Quando notai il live tremore dell’indice,
pronto a colpire, mi
accovacciai a terra e schivai di lato, arrampicandomi come un ragno su
un
pilatro e cominciando a correre sui tralicci sospesi sulle loro teste.
-E
il tuo compagno? Anche lui è un bug come te? -,
sbottò la donna, inferocita, cercando
di raggiungere il reticolato sopra di lei. Ci voleva più
della semplice agilità
per fare ciò che facevo io e finalmente quei due se ne
stavano rendendo conto.
Saltai
giù alle loro spalle, gli occhi febbricitanti, e un gran
desiderio di farli
fuori e proseguire il viaggio. Mi stavano facendo perdere del tempo
prezioso,
minuti in cui non potevo assicurarmi che Fobos stesse bene. Ringhiai e,
senza
nemmeno pensarci, piegai Ro-5 sulle ginocchia, tenendogli la testa fra
le mani.
Solo una piccola pressione e gliel’avrei spiccata dal collo.
Forse quei due
strambi combattenti avevano ragione, forse ero solo una disperata, ma
avrei
fatto sì che ricordassero per sempre la luce di afflizione
che mi accendeva di
fiamme le pupille, strette come quelle di un gatto.
-Non
so cosa siano questi bug, ma immagino di non dovervi dire nulla, dal
momento
che qui si tratta di me o voi-, abbaiai, afferrando il fucile
dell’uomo e
puntandolo addosso all’avversaria con una mano soltanto. Era
incredibilmente leggero,
nero come la notte e con una fitta trama di fibre a ricoprirne la
rifinitura
lucida e trasparente.
-Come
ti chiami? -, chiesi alla ragazza, la quale, ancora una volta, si
ritrovava con
le spalle al muro. Le assestai un colpo alle ginocchia con la canna del
fucile,
giusto per motivarla a parlare. Non è che volessi essere
cattiva, era che il
mio mostro ne aveva piene le palle di quei due giocherelloni.
-Ti
ho fatto una domanda. Ti assicuro che il collo del tuo amico non
è fatto di
fibra di carbonio-, la sbeffeggiai poi, beandomi della sua espressione
indignata.
-
Sigma-x …-, annunciò lei, gonfiando il petto e
osservando con la coda
dell’occhio Ro-5.
-Bene,
io mi chiamo Astreya-, concessi. Non volevo che pensassero fossi una di
quegli
esaltati che dopo aver disertato partono alla volta del mondo per
uccidere
tutti quelli che hanno il viso più pulito del loro. Era una
cosa che non
sopportavo. La violenza fine a se stessa, perpetrata solo
perché non si sapeva
fare altro, mi disgustava. Perciò, facendo attenzione alle
mosse di entrambi,
sganciai di qualche millimetro la presa sul capo di
quell’uomo.
-
Che cosa vuoi dai Mauriani? -, domandò, quindi, Sigma-x,
ancora allerta e con
gli occhi fissi sull’amico. Li squadrai: più che
compagni, quei due sembravano
una coppia.
-
Quello che ho detto. Voglio parlare. Abbiamo motivo di credere che ci
siano interessi
in comuni tra noi al tavolo delle trattative-.
La
donna abbassò finalmente la guardia e si avvicinò
di qualche passo per
osservarmi dritta negli occhi, incuriosita dal colore delle mie iridi e
dalle
sfumature cobalto nella pece dei miei capelli.
-Ro-5
non potrebbero essere bug per davvero? Forse dovremmo portarli indietro
con
noi. Ci sono grosse ricompense per le anomalie-, sussurrò
lei, allungando una
mano per raggiungermi il viso. Istintivamente mi scostai, parandole la
mano e
allontanandola con il fucile.
-
Che diavolo sono questi bug? -, domandai, facendo scricchiolare i
denti. Stavo
perdendo la pazienza e le mie mani fremevano dal desiderio di
giustiziare quell’uomo
inginocchiato ai miei piedi.
-
Di certo non lo vengo a dire a te-, mi schernì la ragazza,
passandosi una mano
sui capelli rasati ai lati del cranio.
-Va
bene, ma poi lo spieghi tu ai tuoi come è morto questo qui.
“Stavo ridendo,
mentre il bug gli staccava la testa a mani nude, per cui non sono
riuscita a
salvarlo”. Che dici, suona bene? –.
Sigma-x
deglutì a vuoto. Finalmente iniziava a capire quanto fossi
disperata.
-Ho
capito, ho capito. I bug sono persone anomale, degli individui che la
Società
riconosce come non appartenenti alla sua cerchia e che, quindi, vengono
sganciati, senza pensarci, dal tessuto sociale in cui vivono. I bug
crescono,
pertanto, privi di ogni inibizione morale e al di fuori di ogni logica
civilistica. Non hanno idea del concetto di bene comune né
di collettività. Si
tratta di abili pensatori o semplicemente di mine vaganti. Noi li
prendiamo e
facciamo covare loro l’odio che provano verso il sistema da
cui sono stati
cagati fuori, facendone nostri strumenti-.
-E
se vi esplodessero fra le mani? -, risi nonostante la descrizione di
Sigma-x
rappresentasse alla perfezione la condizione mia e di Fobos.
-E’
un rischio necessario. I bug hanno storie molto particolari e posso
diventare
armi davvero fenomenali. Vale qualche sacrificio, no? -.
Il
ragionamento di quella donna rasentava il fanatismo guerrafondaio e
bombarolo.
Era evidente che i Mauriani non fossero affatto gente pacifica,
né semplici
mercanti di porto.
-Ammettiamo
che io e il mio collega siamo dei bug. Cosa succederebbe se ci
consegnassimo a
voi? -.
Fu
l’uomo a rispondermi, i muscoli del collo tesi e le corde
vocali vibranti sotto
le mie dita. Sentivo il pomo d’Adamo muoversi su e
giù mentre quel poveretto
faticava a parlare.
-Vi
porteremmo da Alpha-1 per giudicare la vostra utilità o meno
alla nostra
causa-.
Stava
mentendo? La strada per raggiungere quella persona era davvero
così semplice
come appariva? Non avevo tempo per preoccuparmi della
veridicità delle parole
che Ro-5 stava sbrodolando sotto tortura. Quindi decisi di dare loro
credito.
-Quindi
se vi dico cosa siamo io e il mio compagno, ci porterete dai Diarchi? -.
Sigma-x
annuì timidamente.
-Bene,
ed eviterete di tentare di farmi fuori se lascio andare la presa? Ci
tengo
particolarmente a precisare che lo dico per voi-.
Ro-5
annuì lievemente e per tutta risposta sollevò le
braccia. Anche la donna,
seguendo il suo esempio, alzò le mani, portandole sopra il
capo. Ora iniziavano
a ragionare. Lasciai andare l’uomo, spingendolo in avanti con
il tacco del
piede, poi saettai all’indietro, mettendo una certa distanza
di sicurezza fra
me e loro.
-Che
genere di bug sei? -.
Ro-5
si sollevò massaggiandosi il collo e virando i suoi occhi
verde scuro verso di
me. Studiò il mio fisico, i miei capelli e tutte le garze
che mi ricoprivano
bruciature e ferite. Non stava cercando i miei punti deboli per
attaccarmi
nuovamente; semplicemente era incuriosito dalla mia presenza.
-Nel
senso, è evidente che sei un soldato molto dotato, ma non mi
è chiara da dove
giunge questa dote-.
Sorrisi
ampiamente, pregustandomi la loro faccia stupita una volta che avessi
vuotato
il sacco.
-Sono
stata una disturbata, un Aborto, una Custode uscita male, una cavia da
laboratorio, un soldato, un disertore e una ribelle. Può
bastare per essere
definita un bug? -.
Eccola
là l’espressione di immensa sorpresa che volevo.
Due paia di occhi, uno azzurro
e l’altro verde petrolio, mi osservavano colpiti e quasi
ammirati.
-Sei
una Demoniaca, quindi? -, domandò Sigma-x, avvicinandosi di
un passo prima che
io con lo sguardo la incenerissi e le mostrassi il profilo affilato del
mio
pugnale.
-
Non sono nulla di quello che credi. Ho detto che sono una Custode, ma
solo
perché il Tempio mi ritiene tale. Il mio Dono, beh, quello
è un’altra storia.
Ne discuterò solo con i vostri capi. Nessun altro-.
La
donna sembrò pensarci un istante, poi seguendo il contorno
della mia treccia,
mi porse un’ulteriore domanda.
-E
il tuo compagno? -.
-Ibrido-.
Mi
voltai di scatto, fremendo dalla rabbia. Che cosa ci faceva
lì Fobos? Gli avevo
dato indicazioni precise: avrebbe dovuto attendermi nascosto, senza
sforzare il
fisico emaciato. Gli avrei volentieri tirato un pugno in faccia se non
avessi
notato la scia slavata che si intravedeva agli angoli delle labbra.
Volevo
corrergli incontro, ma non potevo farlo, non con quei due estranei
presenti.
Cominciai, quindi, a tremare violentemente, incapace di distogliere lo
sguardo
da quell’alone rosso chiaro, quasi rosa, e le lacrime mi
spuntarono senza
permesso fra le ciglia.
-Dei,
Fobos! Ti avevo detto di rimanere nascosto! -, strillai, mentre lui mi
indirizzava un sorriso canzonatorio. Nonostante la sofferenza era
sempre lo
stesso.
-E
perdermi lo spettacolo? -.
Mi
superò sfiorandomi appena il braccio e raccolse dalle cinte
dei due ostaggi i
cercapersone. Me ne passò uno e poi assicurò
l’altro ai suoi jeans. I suoi
occhi scrutavano i visi terrorizzati dei Mauriani; probabilmente era la
prima
volta che da quelle parti (od ovunque in effetti) si vedeva una
creatura, quasi
mitologica, come Fobos. Sentii Ro-5 inspirare a fondo quando
l’Ibrido gli si
fece vicino e gli studiò capelli e tatuaggi.
-Chi
sono questi? -, domandò poi, prendendomi l’arma di
mano e indicando con la
canna del fucile il petto del tizio dai capelli verdi. Gli comunicai
rapidamente i loro nomi e, in breve, gli descrissi la situazione.
-
Bene, ora che ci avete fatto il terzo grado, muovete il culo o vi devo
dare una
spinta? -.
Il
comportamento iroso di Fobos non preoccupò soltanto i due
ostaggi, ma anche me.
Quegli sbalzi di umore decisamente non erano normali. Dovevamo
accelerare i
tempi, prima che il corpo dell’Ibrido si ribellasse del tutto.
Ro-5
e Sigma-x ci guidarono per una serie di strutture dimesse, guardinghi e
con le
terminazioni nervose sprizzanti scintille, finchè non
raggiungemmo una torre
gigantesca, sul pelo del precipizio. Si trattava di quello che rimaneva
di una
piattaforma di trivellazione, sul cui pavimento giaceva
l’orlo frastagliato di
un tubo tagliato malamente. Là sotto il buio era totale e un
colpo al cuore mi fece
sobbalzare all’indietro. Mi ricordava terribilmente il
cunicolo nel quale mi
ero infilata insieme a Galeno tempo prima, cunicolo nel quale tra
l’altro avevo
incontrato la morte faccia a faccia.
-Ditemi
che non dobbiamo scendere-, si bloccò Fobos, osservando la
cavità nel buio come
fosse una bocca famelica pronto a triturarlo. Ro-5 annuì,
divertito
dall’espressione nauseata della creatura che lo sovrastava in
altezza.
-
Se volete scendere questo è l’unico modo-, si
lamentò la ragazza dai capelli
viola. Poi schiacciò un tasto su una pulsantiera
lì accanto e un trabiccolo
simile a un montacarichi cominciò a risalire verso di noi
gracchiando. Ci
salimmo, cautamente, mentre la piattaforma trasparente sotto ai nostri
piedi
dondolava.
E lì
cominciò la nostra discesa verso il
basso.
-
Questo era un vecchio pozzo-, commentò Ro-5, indicando le
pareti metalliche che
ci circondavano e che mano a mano mi facevano sentire asfissiata e
circondata.
Avevo i sensi allerta, pronta a reagire a qualsiasi attacco a sorpresa
da parte
di quei due, il pugnale stretto fra le dita.
-
Estraevate petrolio? -.
Fobos
si guardava attorno teso, i muscoli contratti sotto il velo sottile
della
canotta.
-No,
questo impianto era troppo rovinato per funzionare, ma siamo riusciti a
trovargli
un secondo utilizzo-.
Il
montacarichi si fermò sobbalzando, mentre di fronte a noi
compariva una volta
di cemento armato e un cunicolo ampio, ma basso. Fobos dovette chinarsi
fino
quasi a inginocchiarsi per potervi seguire in quel labirinto. Appoggiai
le mani
alla roccia fredda che ci avvolgeva e sentire il fresco del sottosuolo
mi fece
piacevolmente accapponare la pelle.
-E’
da molto che vivete qui? -, domandai, osservando la grande pulizia del
posto e
i segnali di pittura gialla che indicavano le varie direzioni.
-Sì,
io ci sono nato. Abbiamo tirato su tutto dal niente e abbiamo fatto in
modo di
rimanere isolati dal resto del mondo. Abbiamo trovato il nostro
equilibrio,
adattandoci ad un terreno arido e a temperature torride-.
Osservai
i loro corpi muscolosi e abbronzati e non potei fare altro che dare
loro
ragione.
-Perché
avete disertato? -, mi domandò all’improvviso
Sigma-x, svoltando a un
crocicchio e imboccando una scala stretta e umida. La luce al neon
baluginava
pigra sul soffitto curvo.
-
Non avevamo alternative. Quando sei un bug, come dite voi, non hai
molta
scelta. Puoi fare tutto quello che è in tuo potere per farti
credere, ma gli
altri nutriranno sempre una sorta di diffidenza nei tuoi confronti. Mi
hanno
accusata di ammutinamento e diserzione loro stessi, obbligandomi a
fuggire-.
-La
trovo una scelta stupida. Saresti la loro migliore arma-,
pensò a voce alta la
ragazza, mentre apriva una pesante porta di metallo grazie alla sua
impronta
digitale.
-
E’ quello che penso anche io. Ed è per questo che
sono qui. Ci sono molte cose
che non capiamo, molti atteggiamenti e persone che non comprendiamo. Ma
tutti
gli indizi che abbiamo trovato ci hanno condotto fin qui, al torsolo
della
mela-.
Sigma-x
sorrise. Poi con un clangore metallico, la pesante porta scomparve nel
muro,
mentre davanti a noi compariva la sorprendente visione dei ballatoi
intarsiati
che io e Fobos avevamo visto dall’alto. Il giovane, dimentico
di avere in
ostaggio due ottimi combattenti, schizzò fra alcuni Mauriani
sorpresi e colorati,
e si fiondò alla balconata. I capelli si animarono
improvvisamente quando il
vento fece volare giù una impalpabile cascata di sabbia.
-E’
sorprendente! -, esclamò, felice come un bambino di fronte
ad una pecora
volante.
NdA:
per chi desideri rimanere informato sugli sviluppi della storia,
leggere qualcosa di nuovo, condividere link, post e disegni
di vario tema, allego il link della pagina Facebook che gestisco in
collaborazione con l'autrice di efp Kaleido Illusion. Buona lettura e
grazie!
https://www.facebook.com/pages/Black-Signs/917414278320549?fref=ts
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Capitolo 27 *** Capitolo 26- Un caloroso benvenuto ***
Capitolo 26
Il
palazzo piramidale si ergeva imponente di fronte a noi. Era diverso da
come me
lo ero figurato dall’alto del Sandpit. Era bianco come la
neve, a causa di
grosse piastrelle di ceramica isolante appiccicate alla facciata, ma al
contempo manteneva un aspetto vetroso per via delle inserzioni di
strisce
fotovoltaiche che si intervallavano al materiale coibente. Ricordava
vagamente
una coperta patchwork sebbene il risultato finale fosse un ottimo
amalgama fra
i due diversi materiali e la struttura apparisse come un
tutt’uno omogeneo, tra
un grigio polvere, un azzurro slavato e un candido bianco marmoreo.
-Questo
è la sede della Diarchia, uno dei pochi edifici del Sandpit
ad avere
un’espansione verticale, a partire dalla superficie-,
spiegò fiera Sigma-x,
avanzando verso le due vasche di sabbia che delimitavano il
camminamento
centrale della piazza. Erano delle sorte di aiuole dove qualcuno, forse
dei
giardinieri, o forse dei pazzi maniaci, aveva disegnato con un
rastrello delle
circonferenze concentriche, degli ovali e delle spirali, in un
intricato decoro
che la sabbia che pioveva dal cielo stava già cancellando.
Avanzai lenta,
sostenendo il peso del corpo di Fobos: infatti, dopo il primo
entusiasmo
iniziale, dove i suoi occhi si erano mossi senza posa da una casa
all’altra e
dove le sue gambe si erano avventurate tra una fessurazione, un
ponteggio e
svariate scalinate dell’entroterra, l’Ibrido aveva
cominciato ad incedere
sempre più faticosamente, fino a doversi fermare
più volte, appoggiato alle
ginocchia, con gli occhi chiusi e le unghie affondate nella carne. Il
tutto
solo per non perdere i sensi. Per un po’ mi ero limitata a
tornare indietro e
forzarlo ad alzarsi, ma quando persino le sue spalle avevano cominciato
a
tremare, avevo capito che non potevo spingerlo oltre. Lo avevo, quindi,
aiutato
ad alzarsi e in seguito lo avevo costretto a circondarmi le spalle con
il
braccio affinchè cedesse alle mie ginocchia un po’
del suo peso. Lui si era
chiaramente lamentato fino alla completa afonia, ed ancora adesso i
suoi occhi
rimandavano lampi di umiliazione e imbarazzo, ma almeno aveva smesso di
boccheggiare e tutti noi avevamo potuto accelerare il passo e giungere
alla
sede governativa di quel posto.
-
Benvenuti al Rhind, stranieri-, rise la ragazza dai capelli viola,
quando un
piccolo manipolo di soldati bardati di bianco ci venne incontro con
delle
strane creature.
-Chi
diavolo sono quei latticini? -, inveì Fobos, sollevando
l’arma e puntandola
verso il nutrito gruppetto di Mauriani. Ro-5 lo fermò prima
che facesse una
strage, ponendo la mano sulla canna dell’arma e obbligandolo
ad abbassarla.
-
Non osare fare cazzate del genere, quelli sono i membri della Guardia-.
Fobos
roteò gli occhi, con fare visibilmente annoiato. Poi
rilassò le spalle e con la
coda dell’occhio mi fece segno di avvicinarmi ulteriormente a
lui. Si chinò,
fino a quando non fu alla mia altezza, e infine mi sussurrò
poche parole
all’orecchio.
-Credo
che quelli non siano un comitato di benvenuto. Ho come
l’impressione che ci
stessero aspettando anche se non ne comprendo il motivo. Vediamo di non
farci
rincorrere anche da questi qui. L’Esercito basta-.
Annuii
convinta. Aveva ragione.
-Per
una volta hai detto la cosa giusta-, mormorai con lo sguardo fisso
sugli uomini
che ci venivano incontro. Erano estremamente seri, con le divise
inamidate e la
mano destra legata a una sorta di braccialetto ad onde radio.
Probabilmente
serviva a comandare le enormi Lucertole che li seguivano con il collo
rugoso
stritolato in un una sorta di ghigliottina di lampi blu. Ecco cosa
erano le
Lucertole di cui Sigma-x e Ro-5 avevano discusso sotto il rudere di
metallo.
Erano creature davvero mostruose con occhi vitrei e inespressivi, zampe
tozze
che ricordavano quelle degli alligatori e la pelle rinsecchita dal
sole.
Dovevano per forza essere state modificate geneticamente o non mi sarei
riuscita a spiegare le loro dimensioni abnormi.
-Tu
sai cosa sono quelle cose? -, mi domandò Fobos, mentre
avanzavamo a rilento
verso le loro bocche fameliche. Scossi la testa, scurendomi in volto e
abbassando gli occhi. Non sapevo perché, ma avevo la
sensazione che quelle
guardie sapessero esattamente chi fossimo e perché fossimo
lì.
-Sono
Lucertole. Li abbiamo creati in laboratorio, appositamente per
ricercare
reperti metallici nel Deserto. Troviamo molte cose interessanti quando
le dune
si spostano, ma le più redditizie sono le lamiere e gli
scarti elettrici.
Valgono una fortuna, e queste bestiole le cercano come i porci i
tartufi-.
-Come
fanno? -, chiese disgustato Fobos, osservando quegli strani animali e
provando
pietà per loro.
-Li
nutriamo con polvere di ferro sin da quando si schiudono le uova. Poi
li
affamiamo e li liberiamo nel Deserto. Il resto potete immaginarlo. Sono
davvero
utili anche come cani da guardia ovviamente. Sentono l’odore
del ferro nel
nostro sangue: infatti, se non avessero quel collare, ci avrebbero
già sbranati
da un pezzo-, rise Ro-5, il viso illuminato dal riverbero dei pannelli
solari
ormai a qualche metro sopra le nostre teste.
-Conferite,
Fratelli-, urlò una guardia, quando fummo abbastanza vicini
da risultare
evidentemente fuori posto. Fu Sigma-x a intervenire, alzando la voce
per
sovrastare l’ululato del vento caldo.
-
Siamo Sigma-x e Ro-5, di ritorno dalla Ronda-, dichiarò
tesa. Uno dei ragazzi
più bassi si staccò dal gruppo di formaggini e
scivolò nella nostra direzione
su quelli che mi sembravano pattini. Non mi ero effettivamente resa
conto di
quanto fosse liscia la pavimentazione sotto ai nostri piedi. Mi ci
potevo quasi
specchiare.
-E
i due stranieri? C’è una multa salata per chi
introduce gli Sciacalli in
città-.
Ro-5
si fece avanti, porgendo anche lui il dito per la verifica
identificativa delle
impronte digitali.
-Non
sono Sciacalli. Sono i bug di cui abbiamo trovato i chip nel Deserto, a
Sud
della Stazione di Borderhedge-.
Una
Lucertola ci sfrecciò accanto, sibilando e passandoci la
lingua biforcuta sulle
gambe bollenti.
L’Ibrido
fece scricchiolare i denti e, quando il rettile cercò di
inerpicarsi lungo il
polpaccio in direzione del ginocchio, gli stampò la suola
della scarpa in mezzo
agli occhi, senza pietà. La Lucertola per tutta risposta
spalancò la bocca
producendo un rumore simile al risucchio della breccia nel Vallum.
Istintivamente rabbrividii.
-Dichiaratevi-,
urlò un uomo nerboruto con una folta capigliatura giallo
limone e dei baffi neri
come la notte. Si fece avanti con una sorta di piccola pistola a dardi
elettrici che scoppiettava minacce.
Fobos
lo guardò scocciato, tirando fuori quel poco di soldato che
era rimasto in lui.
Lo sovrastò con la sua altezza e lo guardò con
quel suo sguardo ardente e
inquisitorio che tanto mi aveva terrorizzata, oltre che indispettita, i
primi
tempi.
-Mi
chiamo Fobos, sono Generale in secondo grado dell’Accademia
di Carthagyos. Lei
è la mia sottoposta, nonché Custode,
Astreya-.
Il
biondo squadrò da cima a fondo l’Ibrido,
appuntando tutti nostri dati. Non che
fossero molto più che parole all’aria per loro.
Io, di mio, stavo perdendo la
pazienza, desiderando decapitare con un’unica falciata tutti
i presenti per poi
correre all’interno di quella piramide ignobile. Iniziai a
fantasticare,
riscuotendomi soltanto quando vidi Ro-5 trattenere Fobos per le
braccia. Vidi
la mano dell’Ibrido stringere con forza la giacca della
guardia che ci aveva
interpellati, e i suoi denti digrignare producendo uno stridio
sinistro. Le
Lucertole gli stavano mordendo gli anfibi, mentre Sigma-x, preoccupata,
cercava
di trattare con una delle sentinelle.
-Non
è un Deadly Child! Siete voi i malati! -, strillava Fobos,
ruggendo in faccia
al tipo come un leone rabbioso. Non sapevo che cosa fosse successo, ma
non
avevo mai visto Fobos così irato. Probabilmente se non fosse
stato così debole,
la Guardia sarebbe già stramazzata al suolo. Morta.
Corsi
da Fobos, appendendomi al suo gomito e insultandolo per essere
contravvenuto ai
suoi stessi consigli. Prima mi diceva di stare calma e contenuta e poi
lui
metteva in piedi tutto quel macello. Che fine aveva fatto il Generale
serafico
che avevo conosciuto? Beh, forse se ne era andato assieme al suo
cervello. Gli
assestai un calcio sui reni e finalmente, strozzando un singulto, Fobos
perse
la presa sulla sua malcapitata vittima. Stavo giusto per strigliare
quel
gigante idiota, quando un’altra guardia, una donna agile e
scattante, schizzò
nella direzione di Fobos per neutralizzarlo. Subito mi mossi,
indispettita e
anche un po’ annoiata, e prima che il pugno della rossa
impattasse sul petto di
Fobos, le spazzai la gamba, posizionandole un piede sulla testa e
facendole
assaggiare quel pavimento lucido simile a burro. Poi, con la rabbia che
mi
esplodeva dentro e con la frustrazione appesa al cuore, le tirai un
calcio
nell’addome facendole scivolare di mano la piccola pistola.
Fobos la raccolse
e, senza nemmeno ringraziarmi, sparò un dardo contro il
biondo dai baffi neri
che nel frattempo aveva dato ordine alle Lucertole di attaccare. Ro-5 e
Sigma-x
rimasero in disparte preoccupati per le conseguenze che le nostre
azioni
avrebbero potuto avere su di loro, una volta terminato lo scontro.
-Bella
idea quella di attaccare un manipolo armato-, mi lamentai, colpendo un
uomo al
costato e accusando il calcio di un altro. Fobos menava a destra e a
manca,
muovendosi rapido e sinuoso come l’angelo della Morte.
-
Ti hanno chiamata Deadly Child. Sanno molto più di quello
che dicono-, borbottò
lui, gettando a terra la pistola a dardi e impugnando il fucile.
Puntò la fila
di uomini che si stavano fiondando su di noi e questi si fermarono di
istinto,
bloccando gli strani pattini che indossavano con un colpo di tacco.
-
Se sparo, potrò aggiungere fucilazione alla lista dei
desideri realizzati-,
scherzò Fobos, con la luce della follia che sprizzava da
ogni pagliuzza dorata
dei suoi occhi.
-Smettila
di fare il cretino, brutto mostro-, gli urlai, lanciandogli contro il
corpo
svenuto dell’ennesima Guardia. Lui lo schivò,
colpendo involontariamente il
naso di Ro-5, capitato nella mischia quasi per caso.
-
Mi sa ma siamo spacciati-, commentai quando notai il nugolo nero che il
Rhind
stava vomitando in piazza. Era una mandria di rettili seguiti da
altrettante
guardie armate.
-No,
dico, complimenti, Fobos. Sei il solito rincoglionito-.
Fobos
rise. – Vorrei tanto una sigaretta-.
Dopo
la bravata dell’Ibrido, il mio geniale quanto andato compagno
di viaggio, fummo
catturati e costretti alla resa. E ora, stanchi ed affamati, ce ne
stavamo
seduti sul pavimento sudicio di una cella, con quattro tizi poco
raccomandabili
dall’altra parte del corridoio che ci fissavano estasiati.
Con i nostri capelli
neri e la carnagione chiara dovevamo sembrare loro delle gustose
mozzarelle.
-Sei
contento, Fobos? -, ringhiai, mentre uno dei carcerati di fronte mi
indirizzava
dei baci decisamente lascivi. L’Ibrido alzò il
dito medio e glielo stampò in
faccia, allungando il braccio fra le sbarre.
-Ehi,
ragazzina. Perché non ti fai un giro nella nostra cella? Hai
l’aria di una che
non ha mai toccato un uomo-.
-
E tu, lurido pezzo di merda, hai l’aria di uno che ha il buco
del culo al posto
della bocca-, inveì Fobos, scagliandosi contro le sbarre e
lanciando uno dei
suoi stivali in direzione dei quattro pervertiti. Ansimava ancora e i
segni
della battaglia cominciavano a rendersi visibili, prendendo la forma di
lividi
scuri e violacei.
-La
smetti di litigare con quei relitti? Gradirei mi spiegassi che cavolo
ti è
preso-.
Ero
nervosa, sentivo ogni fibra del mio corpo implorarmi di schiaffeggiare
il viso
spigoloso di quel pazzo scatenato che era diventato Fobos. Se la
Guardia non
gli avesse sparato una decina di sedativi, il giovane avrebbe
sicuramente
premuto il grilletto e cominciato a mietere vittime a caso. Si sarebbe
fatto
uccidere, annebbiato dagli sbalzi di umore e dall’astinenza
che ormai lo faceva
muovere a scatti.
-Beh,
ci serviva un posto dove dormire, no? -.
Mi
tolsi gli anfibi, sospirando, e incrociai le gambe sulla brandina. La
cella
puzzava di urina e sudore. La gente gemeva e qualche pazzo straparlava
dalle
celle accanto. Avremmo davvero passato una fantastica nottata
lì dentro.
Chiusi
gli occhi e sospirai, sperando ardentemente che Fobos tornasse se
stesso o che
perlomeno la piantasse di avere i nervi così a fior di
pelle. Sentii il peso
del ragazzo al mio fianco e il calore del suo corpo accanto al mio. Mi
voltai a
guardarlo: fissava gli altri detenuti e muoveva gli occhi come una
tigre in
gabbia. Almeno aveva richiuso le zanne in bocca e le sopracciglia erano
tornate
ad essere due linee dritte al centro della fronte.
-Seriamente
Fobos, non vedo l’ora di riaverti indietro-.
-Come?
-, chiese lui stupito, mentre la sua aurea virava su un grigio spento.
Abbassò
gli occhi e scrutò gli angoli sporchi della nostra gabbia,
lordata dagli
escrementi dei topi che ogni tanto cadevano intontiti dalle pietre
sporgenti.
Quelle celle dovevano essere davvero antiche.
-
Mi stai snervando con tutti questi cambi di umore. Si vede che non sei
lucido e
ci stai cacciando seriamente nei guai-, lo rimproverai con
l’intento di farlo
sentire in colpa. Lo vidi riflettere sulle mie parole, silenzioso e
apatico.
Poi le sue spalle scivolarono di lato e il suo viso si
appoggiò al mio collo.
Mi irrigidii del tutto, contraendo muscoli che non pensavo nemmeno di
avere.
-
Mi dispiace. Mi sarebbe piaciuto conoscerti quando ancora ero io. O in
un’altra
realtà, dove avrei potuto mostrarmi per il ragazzo semplice
che ero -.
Il
suo tono di voce era cantilenante e mezzo sonnolento, ma la carica
emotiva
delle sue parole mi sciolse il nodo di collera in cui si era
trasformato il mio
stomaco. Perché doveva avere quei momenti di
lucidità disarmanti?
-Non
ci pensare-, dissi, dandogli una leggera pacca sulla spalla. Non aveva
senso
deprimerlo, non ora che la sua mente vacillava. Cercai, quindi, di
cambiare
discorso nel disperato tentativo di rilassarlo, ma non abbastanza da
farlo
dormire. Temevo, infatti, che se avesse ceduto al sonno, non si sarebbe
più
risvegliato.
-E’
sottosopra questa città, hai visto? -, commentai, ricordando
il momento in cui
ci avevano trascinato in quelle segrete. Come la maggior parte delle
case, esse
si trovavano nel sottosuolo della città, probabilmente dopo
essere state
rinvenute nel Deserto e trasportate là sotto mattone dopo
mattone. Questo
perché il Paese dei Mauriani era stato costruito a partire
dalla terra per poi
inoltrarsi in una specie di enorme bolla d’aria sotterranea,
dove tutti i
passaggi erano sospesi e le abitazioni che non avevano trovato strada
nella
roccia pendevano come nidi di rondine o come alveari rettangolari. Era
una
visione veramente spettacolare, a maggior ragione perché i
piani che emergevano
dalla terra come funghi altro non erano che delle mansarde o degli
esercizi che
avevano il preciso scopo di intercettare la luce del sole che
flagellava il
Sandpit e rimandarla sotto forma di energia a quel brulicante formicaio
di
costruzioni che si espandeva specularmente alla cittadina superiore.
Persino le
cisterne di acqua erano dei bozzoli appesi al soffitto, lasciate ai
livelli più
profondi e umidi laddove il freddo avrebbe conservato la freschezza di
quel
bene prezioso.
-Sì,
mi viene il mal di mare al solo pensarci-, mormorò Fobos,
tornato
improvvisamente serio. Teneva gli occhi socchiusi e lo sguardo
indirizzato
verso i detenuti di fronte a noi, a qualche passo di distanza oltre la
passatoia dei secondini.
-
Quei lardosi pezzi di merda non la smettono di fissarti-,
ringhiò poi,
osservando uno degli uomini raccogliere il suo stivale e indossarlo con
aria
soddisfatta. Sbuffai.
-E
tu non farci caso. Abbiamo cose più importanti a cui
pensare. Tipo come convincere
i Diarchi a non fucilarci o alternativamente a come scappare da qui-.
-Beh,
di scappare non se ne parla, non dopo la nostra scampagnata nel
Deserto.
Inoltre ormai siamo qui, tanto vale tentare di scoprire qualcosa sugli
eventi
che hanno coinvolto il Vallum, non trovi? -.
Annuii,
mentre afferravo la razione di cibo liofilizzato che una guardia bassa
e
muscolosa ci porgeva attraverso le sbarre. Il vassoio constava di una
bacinella
di acqua e due buste simili alle sacche di una flebo. Guardai il corpo
emaciato
di Fobos e le ossa sporgenti delle anche che gli riaffioravano dai
pantaloni e,
senza nemmeno pensarci, gli allungai entrambe le razioni. Lui mi
guardò
confuso, tenendo in mano il vassoio come fosse il corpo di una farfalla
delicata.
-Devi
mangiare. Sei pelle e ossa. Non so nemmeno se i Mauriani accetteranno
di
curarti; devi mantenerti in forze perché da sola non ce la
faccio-.
Fobos
aprì le buste con una smorfia, sciogliendole in acqua e
lasciando che il loro
contenuto insaporisse il liquido incolore.
Bevve
avidamente da un lato della ciotola, mentre il liquido per la foga gli
scivolava lungo il mento e gli macchiava la canotta già
sporca di sangue e
sabbia. Lo raggiunsi e mi sedetti nuovamente accanto a lui, meditando
sulle
nostre mosse successive.
-Mi
hanno chiamata Deadly Child, hai detto. Ciò significa che
pensano io sia un
esperimento come te. Forse anche peggio dal momento che i DC sono tutti
degli
schizzati-.
Fobos
staccò le labbra dalla bacinella e mi porse quel liquame che
puzzava di erba.
Scossi il capo allontanandolo.
-Se
sanno della tua condizione psicologica, sicuramente sanno anche molto
altro.
Qui credo ci sia in ballo qualcosa di molto più grosso di un
atto di ribellione
di quei poveracci del Vallum-.
Deadly
Child. Non avevo mai pensato che qualcuno mi avrebbe ricollegato a
loro. Si
trattava di un progetto militare nato almeno una decade prima per
svuotare i
Sanitaria. Durante la Legislatura del Presidente Dyonisus, infatti,
molti
avversari politici, dissidenti civili e propagandisti accaniti vennero
rinchiusi nei manicomi tramite prelievo coatto e fatti sparire dalla
società.
Tutto aveva funzionato perfettamente finchè gli oppositori
di Dyonisus avevano
superato in numero i sostenitori e i Sanitaria di tutta Elladia si
erano
riempiti di clienti del tutto normali. Una volta decaduto il mandato
del
Presidente, quindi, il suo successore Lykurgo, aveva promulgato la
Restoration
Law, la quale prevedeva che lentamente, nel decorso del suo mandato,
Sanitarium
dopo Sanitarium, chi fosse risultato adatto in base alle perizie
psichiatriche,
fosse reintegrato come soggetto medico per la sperimentazione. In
sostanza
mancavano cavie per i farmaci. O almeno questo era quello che era stato
velatamente dichiarato nei fascicoli che erano stati poi inviati
tramite
computer ad ogni dispositivo tecnologico di Elladia e ad ogni
Displayfesto, gli
enormi schermi delle piazze che rimandavano ventiquattr’ore
su ventiquattro il
canale politico della Sede.
La
realtà che si era fatta largo a sgomitate tra la folla era,
invece, di tutt’
altra natura. Si diceva che l’Esercito stesse lavorando a una
sperimentazione
nuova e che avesse bisogno di “volontari”. E chi
era meglio di persone incapaci
di intendere e volere, spinte solo dal desiderio di sfuggire alle
quattro mura
che li intrappolavano da anni? E poi, si sapeva che i militari erano
alla
ricerca del segreto che permetteva al Tempio di individuare nei propri
fedeli
quelli con la scintilla della magia. In qualche modo era trapelato che
i
soggetti migliori erano in realtà quelli danneggiati, quelli
il cui cervello si
era mantenuto in uno stato più primitivo, immaginifico e
infantile, ma che
possedevano un corpo robusto e sano. Chiedevano la mente di un bambino
nel
corpo di un individuo maturo.
Queste
persone erano state, pertanto, prelevate e torturate, ma nessuna prima
di Fobos
era riuscita a sopravvivere e la razza Ibrida si era già
estinta prima di
essere stata creata. Un vero peccato.
Ma
Lykurgo non era tipo da arrendersi al primo ostacolo,
perciò, forte dei suoi
studi biologici ed ingegneristici, aveva pianificato la creazione del
Deadly
Child.
In
sostanza la sua idea era quella di prelevare un bambino con disturbi di
personalità, ad esempio affetto da disturbo della
personalità borderline, e
trasformarlo in una sorta di bomba ad orologeria, una sacrificabile
arma di
distruzione di massa senza amor proprio. Conoscevo perfettamente il
tipo di
malattia perché io stessa ne ero affetta. Sbalzi di umore,
dissociazione dalla
realtà e sdoppiamento di personalità, il tutto
associato a manie ed ossessioni
oltre che a scatti di nervi e rabbia. Borderline, invece, indicava la
peculiarità del disturbo, ossia quello di essere coscienti
del proprio stato
allucinato. Per esempio, io pensavo di avere un mostro incollato allo
sterno
che stringeva con i suoi artigli ossei il mio cuore, e pur sapendo che
la sua
esistenza non era reale, continuavo a sentirne il peso fisico, come una
palla
al piede.
Ad
ogni modo questa condizione psichica era la migliore per il trattamento
pensato
da Lykurgo: infatti, il soggetto sarebbe stato abbastanza lucido da
comprendere
ciò che gli stava accadendo e da agire coscientemente
secondo gli ordini
assegnati, ma al contempo la sua mente instabile avrebbe garantito al
paziente
di essere elaborato e testato senza che questi si opponesse. Si dice in
qualche
documento sibillino della Magna Teca che un soggetto simile, alla fine,
sia
stato davvero portato alla luce, ma che vista la violenza sulla Natura
da cui
era stato generato, gli Dei abbiano deciso di eliminarlo infondendogli
istinti
suicidi. Da allora il termine Deadly Child viene usato per indicare
persone
disturbate come me che in qualche modo manifestano poco spirito di
autoconservazione e decisamente troppo spirito di iniziativa.
E’ ancora oggi
una sorta di insulto, alla stessa maniera della parola Ibrido per
quanto
riguarda Fobos.
Venni
riscossa dai miei pensieri proprio dall’Ibrido che,
inginocchiatosi di fronte a
me e reggendomi la nuca, cercava di farmi ingurgitare parte della
brodaglia che
lui aveva lasciato.
La
guardai disgustata mentre un moto di repulsione mi spingeva contro il
muro, le
spalle a contatto con la nuda pietra.
-Bevila.
Sarai il mio braccio, e forse anche la mia mente in effetti, quindi
anche tu
devi restare in forze-.
-
Io non la bevo quella sbobba-, mi lamentai, mentre il bordo di plastica
della
ciotola mi sfiorava le labbra. Inutile dire che alla fine mi ritrovai a
deglutire forzatamente quello schifo, con le dita di Fobos che mi
premevano sul
collo nel tentativo di farmi ingoiare il cibo liquido e insapore senza
rimetterlo.
-Stavo
pensando a una cosa-, disse poi mentre con la mano mi ripuliva
goffamente le
labbra. Era una cosa che si faceva con i bambini non con le persone
adulte, perciò
la situazione mi parve assai bizzarra. Arrossii involontariamente e
invitai
Fobos a proseguire nel suo discorso.
-
Dovremmo far loro credere che tu sia davvero un Deadly Child. In questo
modo
potremmo avere un’arma di convincimento più unica
che rara. In fondo si tratta
solo di una mezza bugia-.
Ci
pensai seriamente, appoggiando il mento al palmo della mano.
-In
effetti anche nei documenti che hai redatto insieme a Upokrates
è stato
confermato il mio disturbo. Ci sarebbero prove tangibili della mia
Natura-.
Fobos
sorrise, autocompiacendosi della sua idea geniale.
-Se
riusciamo a convincerli che siamo dalla loro parte e che vogliamo
aiutare
quelli del Vallum ad assaltare la Sede Governativa, forse in cambio ci
cederanno qualche utile informazione-, aggiunse, poi, mentre con lo
sguardo
acceso mi fissava negli occhi.
-Sei
un genio… allora è rimasto un briciolo di
intelligenza in quel cervello
bacato-, risi sincera, ammirando la prontezza di ragionamento
dell’Ibrido. Gli
diedi un leggero spintone sulle spalle, ma visto che i talloni di Fobos
non
erano ben piazzati a terra, questi scivolò
all’indietro trascinandomi con sé.
Ci ritrovammo distesi sul pavimento, l’una
sopra l’altro, ridendo come due completi imbecilli. Non so
nemmeno perché trovassimo
la situazione così divertente. In fondo eravamo imprigionati
in territorio
ostile, con la tremenda possibilità di essere giustiziati il
giorno seguente.
Forse stavamo sfogando il nervosismo che ci aveva accompagnati dal
Vallum sino
al Sandpit, o forse semplicemente eravamo impazziti a causa del caldo.
Mi
accorsi solo alcuni istanti dopo che quella era la prima volta in cui
vedevo
Fobos ridere di gusto, senza ombra di sadismo o cinismo sul volto.
Pensai che
forse in passato, quando i suoi occhi erano ancora del colore brillante
dell’erba, il suo sorriso doveva persino essere stato
più bello e innocente.
Non che ora fosse da meno: vederlo così a suo agio, scosso
dalle risa, lo
rendeva ancor più affascinante ai miei occhi. Gli passai
distrattamente una
mano fra i capelli, districando la lunga coda bruna e osservando
intensamente
gli angoli ancora arricciati delle sue labbra.
-Astreya-.
La
sua voce profonda e gutturale come l’eco di un tuono mi colse
alla sprovvista,
facendomi accelerare i battiti del cuore fino al limite dello scoppio.
Non
c’era più nemmeno l’ombra di quella
serenità che avevo visto riverberarsi in
tutto il suo corpo qualche secondo prima. Ora c’erano
soltanto perplessità e
stupore.
Mi
chinai, quasi al rallentatore, trattenendo il fiato e facendo il conto
alla
rovescia. Era come se una calamita mi stesse attirando verso il volto
pallido
di Fobos, lasciandomi giusto il tempo di assaporare la vicinanza
bollente del
suo respiro alle mie labbra. Mi sembrava di essere impazzita: eravamo
in un
carcere puzzolente, con poco più dei nostri vestiti e
quattro detenuti che ci
fissavano senza ritegno, eppure non potevo fare altro che avvicinarmi
sempre di
più, calando la cappa nera dei miei capelli sulla fronte e
il profilo
dell’Ibrido. Solo quando le punte dei nostri nasi si
sfiorarono, Fobos si decise
a reagire, spostando appena il viso di lato.
-Stranieri!
-, ci interruppe una voce, facendoci immediatamente scattare
sull’attenti. Un
secondino alto con pochi capelli sulla cocuzza lucente ci spiava
dall’altro
lato delle sbarre, gli occhi piccoli e stranamente chiari. –
Il Segretario è
venuto a farvi visita-.
Un
uomo robusto con delle spalle larghe strette in un completo gessato
viola e
nero comparve da dietro la parete, infilando le dita inanellate di
acciaio tra
le fessure delle sbarre. Era abbastanza giovane, non doveva superare la
quarantina, e portava i lunghi capelli viola raccolti in un codino alla
base
del cranio. Sorrise famelico quando il suo sguardo incontrò
il nostro. Eravamo
ancora seduti a terra, ma ci eravamo talmente distanziati
l’uno dall’altra che
fra di noi si era ricreato il solito abisso.
-Vedo
che vi state adattando alla nuova sistemazione. Io sono il Segretario
del
Sandpit, Colossus -, si presentò laconicamente, porgendoci
la mano attraverso i
pali di metallo. Entrambi ci allungammo per stringerla, io forse con un
po’
troppa forza, e di rimando rivelammo i nostri nomi e la nostra
provenienza.
-Lei
non è originario di questo posto, sbaglio? -, domandai quasi
subito, certa che
Colossus non rientrasse nella forchetta dei nomi adottata dai Mauriani.
Loro
per scelta avevano deciso di distaccarsi dall’utilizzo
Elladiano di appellativi
storici, ricavati da quei reperti e papiri che per anni avevamo
riportato alla
luce e ristrutturato. Perciò si chiamavano accostando
semplicemente lettere e numeri,
in maniera tale da rendere tutti uguali, con lo stesso potenziale di
partenza.
Niente discriminazioni, era il motto del Sandpit. Solo la nuda forza
interiore
era in grado di mettere in luce od oscurare un individuo.
Gli
occhi di Colossus si trasformarono in una tempesta elettrica,
sorridendo
nuovamente con quei denti piccoli e luccicanti.
-Vedo
che non le sfugge nulla. Ebbene sì, io sono Mauriano di
adozione: infatti, provengo
dal vostro stesso mondo. Solo ho deciso che non faceva più
per me e, quindi,
sono venuto qui. I Mauriani mi hanno accolto alla stessa maniera con
cui hanno
accolto voi, ma ben presto hanno scoperto qualcosa di me che era
indispensabile
per loro. Il mio intelletto-.
-Quindi
lei è qui per aiutarci? -, azzardò Fobos,
avvicinandosi all’uomo e chinandosi
appena per osservarne i lineamenti con maggiore attenzione. Colossus
annuì
impercettibilmente, quasi non ne fosse sicuro.
-In
un certo qual senso. Mi hanno incaricato di seguirvi durante la vostra
permanenza qui, dal momento che come voi io sono un bug. Tuttavia il
mio
giudizio su di voi sarà imparziale, del tutto imparziale,
quindi non credo che
otterrete il tipo di aiuto che desiderate-.
La
voce melliflua di Colossus mi fece accapponare la pelle. Ero certa che
quell’uomo fosse un lupo travestito da agnello, un individuo
tanto
indispensabile, quanto imprevedibile.
-Vogliamo
solo parlare con i Diarchi-, ammisi fronteggiando l’uomo. Lui
si limitò a
guardarmi pigramente i capelli nel loro fluire sulle spalle, scomposti
e mezzo
fuggiti dalla treccia.
-
Non è quello che ho pensato vedendo i filmati di sicurezza
del Rhind-, ribatté
lui, alludendo all’attacco di fronte al palazzo piramidale.
-
La responsabilità di quell’increscioso incidente
è completamente mia. Quello
che mi affligge è un problema di tipo medico, quindi spero
abbiate almeno la
clemenza di ascoltare, oltre alle nostre considerazioni, anche le mie
scuse-.
Fobos,
come al solito, era impeccabile. Spalle rigide, incedere fiero e
sguardo
rassicurante. Stava riuscendo a trattenere la sua malattia (se
così potevo
chiamarla), mostrando il Generale rispettoso che era davvero, o
perlomeno
fingendo alla grande.
-Sono
certo che i Diarchi abbiano molti argomenti di cui discutere con voi
quattro-.
Gli
occhi di Fobos ebbero un guizzo e il mio cuore perse un battito.
-Quattro?
-, chiedemmo all’unisono.
-Non
siete i soli ad essere giunti qui, nell’ultimo periodo-,
sogghignò lui, prima
di andarsene soddisfatto, le mani incrociate dietro la schiena e le
gambe
impegnate in lunghe falcate. Solo prima di imboccare la galleria di
uscita si
voltò, indicandoci con la punta affilata
dell’indice. –In effetti, vi stavamo
aspettando-.
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Capitolo 28 *** Capitolo 27- Il re e la regina ***
Ci
sono persone che odiamo a pelle, che ci fanno storcere il naso e
pensare che
tutta l’umanità sia malandata, oppressa dal peso
del suo putrefacente e
deteriorante modo di agire. Ci capitano tra capo e collo come una
pugnalata
nella schiena, di cui ci rendiamo conto troppo tardi o di cui non ci
curiamo
finchè il sangue non comincia a inzupparci i calzini. Per me
quella persona,
quella macchia marcescente del pianeta, era Alpha-1. La odiai non
appena la
vidi. Era alta e austera con un viso severo e gli zigomi sporgenti.
Portava i
capelli raccolti in una strana acconciatura, simile a dei dread pieni
di
anellini metallici, pezzi meccanici, viti, bulloncini e, giuro,
frammenti di
ossa e denti di non so quale essere vivente. Ci accolse al piano
più alto del Rhind,
un ufficio a forma di piramide con base triangolare completamente in
vetro, da
dietro una scrivania di lucida pietra nera. Poggiava i gomiti sul
tavolo e i
suoi occhi dal taglio a mandorla ci fissavano da dietro le mani
congiunte.
Io
e Fobos avanzammo titubanti, scortati da due secondini, Ro-5, la sua
compagna e
Colossus. Fu quest’ultimo a gettarci fuori
dall’ascensore a forma di plico che
ci aveva accompagnati, silenzioso come un pesce, fin lassù.
-Benvenuti,
stranieri. Voialtri, lasciateci soli-, mormorò la donna, con
voce fin troppo
suadente per i miei gusti. Le
sentinelle,
come ipnotizzate dal comando, risalirono a passo svelto sul
montacarichi e
lentamente sprofondarono nel pavimento assieme a Ro-5 e Sigma-x.
Una
volta che il plico venne letteralmente inghiottito dal pavimento in
vetro,
tornai a concentrarmi su quello che stava accadendo
nell’ufficio. Osservai
Fobos lanciare alla donna occhiate incuriosite mentre il suo sguardo si
perdeva
fra i decori dei suoi capelli biondo cenere. Era molto debole ed era
provato
dalla nottataccia passata in cella, al mio fianco: per tutto il tempo,
infatti,
aveva stretto i denti nel disperato tentativo di mettere a dormire
anche i
dolori articolari che l’umidità di quel luogo gli
aveva causato. Eppure i suoi
occhi erano innaturalmente svegli, come se di fronte a lui fosse
comparsa una
specie di leggenda o un mostro degli abissi. Sbattei le palpebre un
paio di
volte e tornai a concentrarmi sulla donna. Si era alzata e si era
accomodata a
gambe incrociate sulla scrivania, la sagoma del suo corpo allenato
riflesso
dalle sfumature specchiate del piano nero.
-Ci
si rivede, Fobos! Non hai di certo un bell’aspetto,
però-, scherzò la donna,
mentre il mio sguardo furioso virava sul volto dell’Ibrido.
Lui conosceva
quella donna? Perché non me lo aveva detto e aveva taciuto?
Cominciai a
innervosirmi. Mi sentivo la pedina di turno, il soldato semplice in
mezzo a
Generali pluripremiati. E la cosa non mi piaceva per niente. Quasi
senza
accorgermene, il mio mostro cominciò ad agitarsi dibattendo
le sue ali
spettrali all’interno del mio stomaco. Lo sentivo arpionarmi
la carne e
affondare i denti appuntiti nel fegato.
Fobos
non mi degnò di una spiegazione, né tantomeno di
uno sguardo. Semplicemente,
colto da un improvviso ascesso di tosse, sputò tante piccole
goccioline rosso
lucido sul pavimento attraverso il quale potevamo vedere gli uffici
sottostanti. Sembrava di stare in un enorme acquario.
-Già.
Sei decisamente declinato, piccolo mio-.
La
donna avanzò nella nostra direzione, squadrando lui e
trascurando me. Gli passò
le dita sottili sul profilo della mascella e sfiorò con le
sue labbra scarlatte
la pelle candida della sua mandibola.
-Non
pensavo ti accompagnassi con le Custodi-, sussurrò,
spostando le sue iridi
argentate nella mia direzione. Mi fissò intensamente, quasi
con ammirazione,
come se fossi un succulento pasto. Poi mi sorrise scoprendo un paio di
canini estremamente
aguzzi e dorati. Era la cosa più eccentrica che avessi mai
visto, ma in fondo
il Sandpit era noto per le sue stranezze.
-Tu
devi essere quella donna. Efesto mi ha parlato a lungo di te, con tanto
di
documenti alla mano-.
-Efesto?!-,
sbottai, mentre la mia mano correva rapida al lobo
dell’orecchio.
-Già,
immagino che il nostro soldatino qui non ti abbia detto di appartenere
alla
setta, vero? -.
Il
mio volto si contrasse dalla rabbia, mentre i pugni si stringevano allo
spasmo
sulla stoffa sdrucita dei miei jeans. Senza curarmi
dell’altrui pensiero,
afferrai Fobos per i capelli e lo obbligai a guardarmi dritto negli
occhi.
-Tu
hai visto il mio orecchino. Lo sapevi, ma non mi hai comunque detto
nulla-,
ringhiai.
Il
suo sguardo opaco si perse sul mio viso, deciso, ma al contempo
annebbiato
dalla sofferenza. – Ordini-, si limitò a dire,
strappandomi la mano dai suoi crini
e tornando a sovrastare in altezza i presenti in sala.
-Che
tristezza. Ti comporti ancora come un disadattato-, commentò
di nuovo Alpha-1,
euforica come non mai.
-Non
sapevo che ti avessero eletta Diarca-, si decise a parlare Fobos,
allungando il
collo in direzione della targhetta di ottone accanto alla cabina
dell’ascensore
trasparente.
– Quanti
culi hai dovuto leccare per arrivare
fin qui? -.
Il
tono di voce di Fobos era ruvido e infastidito, quello di lei, invece,
divertito e trionfante.
-Solo
quelli strettamente necessari. Comunque mi chiamo Alpha-1, membro
decennale dei
Figli del Vento. E tu devi essere Astreya, Custode diciottesima di
Katakthonio,
e soldato semplice del Reggimento dei Biotecnici. Polivalente-.
Strabuzzai
gli occhi. Se lei sapeva della mia Natura certamente doveva essere un
pezzo
grosso. E anche Fobos, vista la mancanza di sorpresa nei suoi occhi al
sentire
pronunciare quell’appellativo.
-Come
fa…-, cominciai, lanciando occhiate a tutti i presenti, in
maniera sospetta.
Colossus
si fece avanti e affiancò Alpha-1.
-Conosciamo
tutto di te. Abbiamo ampiamente pagato il Tempio affinchè
consegnasse solo a
noi l’esclusiva sulla tua Natura. Ci sono cose che soltanto
noi sappiamo-.
Incominciai
a indietreggiare: improvvisamente mi sentivo intrappolata, con occhi
serpentini
a fissarmi e denti pronti a ghermirmi. Mai come in quel momento, mi
sentii
indifesa e inerme. Ero disarmata, in balia delle parole di due persone
che
sembravano conoscermi meglio di quanto io non conoscessi me stessa. E
per di
più l’unico di cui mi ero fidata fino ad allora,
l’unico con cui avevo
condiviso il mio percorso, si era scoperto essere un traditore. Certo,
nemmeno
io ero andata a raccontargli dei Figli del Vento, ma almeno avrebbe
potuto
rivelarmi quanto sapeva circa la mia Natura. In qualche modo sentivo
che me lo
doveva.
-Non
avere paura, dolce bug…-.
Vidi
Fobos avanzare e afferrare per il bavero della camicia bianca Alpha-1.
Aveva i
denti scoperti come un cane inferocito e lo sguardo di un leone. Senza
il
minimo sforzo la sollevò da terra, lasciandole solo la punta
degli scarponi a
sfiorare il pavimento. Colossus trangugiò aria a vuoto,
senza muovere un
muscolo.
-Perché
tu sei qui? Cosa significa tutto questo, il casino al
Vallum… E’ tutta opera
tua? Hai stretto patti con i ribelli? -.
Alpha-1,
con il viscidume di una serpe, sgusciò via dalla presa di
Fobos, incatenando
fra le sue dita ciocche di capelli scuri. Li guardai disgustata qualche
secondo, sentendo un rigurgito acido rodermi il fegato.
Perché Fobos si faceva
toccare da quella donna? Perché là dentro
parlavano tutti di me, ma ero la sola
ad essere ignorata?
-Non
siamo qui per discutere a che fazione apparteniamo, o quante bugie ci
raccontiamo. Io voglio sapere cosa sta succedendo al Vallum e
perché
l’Accademia di Carthagyos è stata riaperta-,
sbottai, preferendo riferirmi
all’uomo dai capelli color melanzana piuttosto che alla
bionda. Lui sorrise
appena, mordendosi in maniera affettata e artificiosa
l’unghia appuntita del
mignolo.
-Quindi
non ti interessa conoscere nei dettagli il tuo vero e unico passato? -,
sibilò,
tentandomi.
Sapevo
che la mia infanzia era costellata da buchi, come un panno rosicchiato
dalle
tarme, ma questo non significava che avrei desiderato sostituire la mia
tovaglia con una male rattoppata da altri. Non volevo sprofondare
nuovamente
nella depressione, non volevo pensare che la mia identità
fosse qualcosa che
gli altri avevano costruito attorno al mio fragile nucleo. Io ero una
combattente ormai. Ero fredda, cinica e sempre vigile, indecisa su me
stessa e
incapace di contare sugli altri. E così dovevo rimanere,
senza permettere al
vaso della mia mente di esplodere in frammenti acuminati.
-So
perfettamente chi sono. Tutto quello che devo sapere su di me, lo so. E
tanto
mi basta-.
-Ma
non basta a noi, ragazzina-, mormorò Alpha-1, pigiando il
bottone rosso rubino
appena sotto il bordo del tavolo che apriva le porte scorrevoli
dell’ascensore.
Subito il montacarichi tintinnò, rivelando un uomo alle
nostre spalle. Era
nerboruto e a petto nudo, con il torace costellato dai tatuaggi
più disparati.
Era ricoperto di sabbia e, appoggiati sul capo tra i capelli colore del
miele,
vi erano degli occhiali antichi, simili a quelli che si narrava
possedessero i
primi aviatori.
-Spero
che tu mi abbia chiamato per un valido motivo. Stavo lavorando-,
cominciò
l’uomo, prima che i suoi occhi neri si posassero sulla mia
persona. Fobos,
quasi di scatto, si mise in guardia, la mano tesa fra noi due a
dividerci.
-Stai
calmo cagnolino. Non mordere-, lo derise lui, prendendogli
l’intero viso con la
mano e rispingendolo malignamente all’indietro.
-
Questo è il mio gemello, Gamma-x. Sicuramente quella bocca
larga di Xerse vi
avrà mandato da noi. Comunque, se preferisci chiamarci con i
nostri nomi
Elladiani, noi siamo Ysmen e Chastor-.
La
presentazione era chiaramente per me, visto che Fobos pareva conoscere
entrambi. Osservai le vene scure solcare la pelle abbronzata e lucida
di
Chastor e capii che con lui di fronte alla mia unica via di fuga non
sarei
andata molto lontana.
-Anche
voi non siete Mauriani di nascita? -.
-
Lo siamo, ma siamo anche associati ai Figli del Vento. Questi ci hanno
dato
l’opportunità di entrare nell’Esercito,
fornendoci due identità fittizie-.
Fobos
si rialzò appena in tempo per beccarsi un altro pugno,
questa volta nello
stomaco, che lo fece piegare in due dal dolore. Ysmen lo guardava
divertita,
socchiudendo appena le labbra quando un nuovo colpo si abbatteva su di
lui.
-Che
cosa volete da noi? Cosa vogliono i Figli del Vento? -, strillai,
portandomi le
mani alla bocca quando vidi le labbra di Fobos sanguinare copiosamente.
-Noi
vogliamo solo che vi uniate alla nostra causa. Un Ibrido dalla forza
sovrumana
e dalla rabbia incandescente e una donna unica, un’arma a
doppio taglio per
l’umanità-, commentò Chastor mentre la
gemella ricalcava le sue parole mimandone
il labiale. Sembrava una sorta di litania, una smaniosa e fanatica
cantilena di
follia.
-Se
lo lascerete morire, non avrete altro che un duo scoppiato-, tentai,
mentre
Chastor premeva il suo piede sulla marea nera dei capelli di Fobos. Ero
certa
che se avessi detto qualcosa di sbagliato o qualcosa di troppo,
quell’energumeno gli avrebbe schiacciato la testa come una
nocciolina.
-
Non è lui l’elemento fondamentale della nostra
ricerca, ma tu. Paragonandovi
agli scacchi, tu saresti la regina, il pezzo unico, il pezzo della
vittoria; e
lui il re, la pedina senza la quale la regina non si muoverebbe
nemmeno. Solo
che, a differenza degli scacchi, che sono un gioco dalle regole
basilari, qui
il re è una pedina del tutto sacrificabile-,
mormorò Ysmen avvicinandosi al
corpo riverso di Fobos e chinandosi a sollevargli il mento. Il volto
dell’Ibrido era rigato da lacrime di sangue laddove la testa
aveva battuto sul
pavimento. Eppure la sua espressione non tradiva alcun dolore, alcuna
sofferenza. Semplicemente Fobos non riusciva a reagire, il corpo non
rispondeva
più al suo controllo.
-Io
non sono un’arma…-, tentennai, indietreggiando
ulteriormente. Quella situazione
era irreale.
-Non
lo sei? Io la vedo diversamente, mia piccola Polivalente. E altrettanto
diversamente
la vedono i Figli del Vento. Per tutti questi anni ti abbiamo seguita,
studiata
e allenata. Dall’ombra, senza che tu nemmeno te ne
accorgessi. Tutti noi
ricopriamo il ruolo che ricopriamo per causa tua, o nel nostro caso,
grazie a
te. Io e Chastor siamo a capo di un immenso regno grazie a te, per
colpa tua
Fobos ha disertato e ha scelto questa vita di morte, per te il Tempio e
l’Esercito si sono uniti in un'unica
realtà… Non capisci che tutto il mondo che
ti circonda altro non è che una scacchiera predisposta allo
scacco matto della
regina-.
Gli
occhi di Ysmen erano tempestosi, nuvole nere cariche di pioggia e
solcate da
sprazzi azzurri di fulmini elettrici. La sua bocca dipinta di rosso si
muoveva
sensuale e perfida di fronte ai miei occhi, colpendomi e lusingandomi
contemporaneamente, senza che io davvero potessi aggrapparmi al
significato di
quelle parole oscure.
-Io
voglio solo sapere cosa sta accadendo al Vallum, chi ha venduto le armi
ai ribelli
e perché minate il Governo. Il resto è dare aria
alla bocca-, risposi stizzita,
bloccando con la mano il braccio di Chastor, sospeso a pugno sul volto
di
Fobos. Per quanto il ragazzo mi avesse ferita, nascondendomi la
verità e
raggirandomi come il peggiore dei cani infedeli, mi sentivo ancora in
debito con
lui, per quello che aveva fatto per me durante il nostro viaggio
solitario.
Vedere Gamma-x picchiarlo non mi avrebbe dato alcuna soddisfazione e
tantomeno
avrebbe ricucito la mia fiducia tradita.
Chastor
sorrise estasiato, fissando il suo sguardo allucinato sulla mia mano.
Sembrava euforico
mentre tendeva i muscoli sotto il mio tocco, con le pupille dilatate e
la
cornea opaca.
-Il
Deadly Child mi ha toccato, mi ha toccato! -, esclamò lui,
felice come un
bambino. Per tutta risposta Ysmen si schiodò dalla scrivania
e viaggiò quasi
svolazzando verso di me. Si fermò a qualche centimetro dal
mio viso,
sospirandomi il suo alito che sapeva di alcool sulla fronte.
-Come
puoi pretendere di capire i piani di Prometheo se nemmeno conosci il
tuo
passato, la tua provenienza? Come puoi anche solo pensare di capire il
gioco se
non leggi il libretto di istruzioni? - .
Quei
due erano completamente matti. Cominciai a temere che quello che si
vociferava
sui Mauriani fosse vero, ossia che fossero tutti dei drogati e degli
esaltati.
-Sentite,
noi non abbiamo tempo da perdere. Non mi interessano le storielle,
né altre
ciance. Cosa devo fare per convincervi ad aiutare Fobos? -, domandai
atona,
mentre l’Ibrido si rialzava tenendosi lo stomaco.
-Piantala,
Astreya-, disse lui, appoggiandosi con la mano alla mia spalla. Senza
nemmeno
pensarci mi scostai. Non volevo che l’uomo che Ysmen aveva
contaminato con il
suo tocco sporcasse anche me. Era evidente che la loro relazione in
passato si
fosse spinta oltre.
-Tu
non devi nemmeno rivolgermi la parola, chiaro? Non una sillaba,
altrimenti al
posto di una cura, ti servirà una bara-, ringhiai nervosa.
Ormai la testa mi
girava e mi sentivo circondata da avvoltoi affamati. Aspettavano solo
che
crollassi, ma non lo avrei fatto, no di certo.
-
L’Esercito e il Tempio si sono alleati per eseguire il
perfetto colpo di Stato.
Cronyos ci ha pagato una bella somma di denaro per vendere le armi ai
ribelli,
cosicché una volta giunti al Vallum la rappresaglia si
potesse svolgere come
effettivamente ha fatto. Solo in questo modo la Sede Governativa
avrebbe
richiesto l’invio di truppe dalla città
più vicina, proprio Carthagyos…-,
sputò
fuori Colossus.
Inspirai
a fondo, ignorando lo sguardo penetrante di Ysmen. Sapeva che il mio
cervello
si era messo in moto, che stava ragionando su tutta quanta la questione
e la
stava trovando talmente inconsistente da ricordare una forma di
groviera.
-I
Molossi da chi sono stati disattivati? -, domandai a bruciapelo,
cercando di
capire perché la loro versione dei fatti non mi convincesse.
-Ti
dice niente il nome Deimos? E’ membro giovane del Concilium
da circa due anni,
come spalla del vecchio Ministro della Guerra. Coincidenza? -.
Strabuzzai
gli occhi.
-E’
vero?!-, gridai a Fobos, resistendo all’impulso di colpirlo
io stessa.
Chastor
sorrise ferino nel constatare quanta rabbia mi stesse fluendo
attraverso le
membra in quel momento. Provavo la stessa furia animalesca che
probabilmente
provava lui, rinchiuso in quell’enorme corpo da gorilla.
Fobos,
di fronte alla mia domanda, chinò la testa, annuendo appena.
-Bene,
almeno su questo non pare stiate mentendo. Ora ditemi,
perché tutto questo
piano? Perché semplicemente non sfruttare la rabbia della
gente, rendersela
amica e sfondare il Vallum assieme? Perché tutta questa
segretezza? -.
Fu
proprio Chastor a rispondermi, dimostrando a tutti quanto un fisico
scolpito
dalla palestra non fosse indice di una piccola intelligenza.
-Beh,
mi pare ovvio. Se avessero semplicemente attaccato il Governo che cosa
avrebbe
pensato la gente? Che i Religiosi fossero tutti corrotti? Che
l’Esercito fosse
il nuovo tiranno? Pensa alla paura, dopo la presa di potere. Pensa ai
piccoli
cittadini che si sentono minacciati proprio da quelle persone che li
proteggono. Prendendo il Governo con la forza, l’Esercito si
mostrerebbe come
un organismo instabile, soggetto alle mode e alle ideologie. Che
fiducia
avrebbe mai il popolo in una Istituzione del genere? Forse al momento
del colpo
di Stato i consensi fioccherebbero, ma a pace fatta la situazione
sarebbe ben
diversa-.
-Certamente,
il modo di agire dell’Esercito è sibillino, pieno
di sotterfugi, come il
nostro. Ma per fortuna i Figli del Vento hanno adepti ovunque e siamo
in grado
di prevedere le mosse future con poco sforzo. Il Tempio stesso pullula
di
nostri uomini che affermano come Esercito e Chiesa siano ora
strettamente
correlati. Colpo di Stato dell’Esercito più potere
al Tempio uguale Teocrazia a
braccio armato. Uno spasso, vero? E’ questo che vogliamo? -.
I
capelli di Ysmen tintinnarono quando smise di parlare, lasciando cadere
attorno
a sé un silenzio irreale, quasi sacro. Lo interruppi
comunque, troppo affamata
di notizie per restarmene buona e accettare passivamente quelle
congetture. Non
volevo nemmeno pensare di aver passato tutta la mia vita a seguire e
servire i
“cattivi”.
-Voi
li avete aiutati. Siete pessimi quanto lo sono loro. Avete fornito armi
per un
massacro oltre ad aver appoggiato un’azione ignobile. Siete
solo dei mercenari.
Che ha questo a che vedere con la logica dei Figli del Vento? Loro non
avrebbero mai permesso che una cosa simile accadesse. Hai detto tu
stessa che
ciò che è accaduto al Vallum è
spregevole-.
Ysmen
si arrabbiò, battendo i pugni sul tavolo e ringhiandomi
contro.
-Sei
tu quella che non capisce. Prometheo sa esattamente cosa sta facendo.
Il suo
piano è superiore a qualsiasi nostra logica. Lui vede la
scacchiera dall’alto,
sa quali pedine sono sacrificabili e quali no. Lui si muove per un fine
superiore, per scongiurare questa crisi-.
-
Chi è Prometheo? -, domandai.
-E’
lo Stratega dei Figli del Vento, l’antagonista anonimo di
Cronyos-, mi rispose
Colossus, l’unico che mi pareva mantenere un briciolo di
lucidità lì dentro.
-
E’ colui che ci sta manovrando. Che manovra me, mia sorella,
il Segretario e
persino voi due. Siete così assoggettati ai Figli che siete
arrivati fin qui
senza sapere l’uno dell’altra…-,
ridacchiò Chastor, obbligando Fobos sulle
ginocchia e sospingendogli i capelli da un lato. Sulla sua nuca,
scheletrica e
pallida, vi era il tatuaggio nero di una libellula con un’ala
spezzata. Aprii
la bocca per la sorpresa, ma mi trattenni da qualsiasi commento.
-Io
sapevo solo di doverti seguire e addestrare una volta giunta in
Accademia, non
sapevo nulla di più di te, Astreya…-,
obiettò Fobos, implorandomi con gli occhi
di credergli.
Non
lo feci e arricciai il naso di fronte alla sua penosa supplica.
-
Sapevi cosa ero e questo è già di per
sé sufficiente. E
poi ti ho già detto che ciò che hai da dire
non mi interessa-.
-Dovrebbe,
invece. Il fatto che il Generale non sappia assolutamente nulla di
ciò che sta
accadendo attorno lui è indice del suo status di semplice
pedina. Prometheo non
lo ritiene abbastanza importante. E’ un pezzo sacrificabile-,
sogghignò Ysmen,
guardando Fobos con odio mal celato.
-Un
vero peccato. Baci davvero bene-, aggiunse poi.
Sentii
una furia omicida montarmi dentro, difficilmente controllabile. Avevo
voglia di
colpire sia Alpha-1 che Fobos, ma non ne abbi il tempo. Con la
velocità di un
ghepardo, Colossus si mise in mezzo, accendendo un display e
mostrandomi delle
immagini sfocate. Probabilmente, vista la scarsa qualità
delle riprese, doveva
trattarsi di un video di sorveglianza. Fissai il mio sguardo sulla sala
che il
display mostrava: un salotto minimal scosso da continue interferenze. Al suo interno
c’erano due figure sedute su
un divano. Mi tappai la bocca con le mani, trattenendo un urlo. Aracne
ed
Eracleo?! Cosa ci facevano loro in quel posto? Allungai il polpastrello
per
sfiorare i loro volti, ma Colossus mi strappò lo schermo
dalle mani, facendo
qualche passo indietro.
-
Se accetterai di aiutarci, se accetterai i misteriosi piani di
Prometheo, li
lasceremo liberi e cureremo l’Ibrido-.
Un
singhiozzo mi esplose in gola. Tutta quella faccenda era strana. Chi
era questo
Prometheo, come riusciva a controllarci tutti, a usarci sussurrando a
ciascuno
parole diverse e allettanti? Come poteva mandare avanti due Mauriani
esaltati,
attirarci lì con l’inganno e far rischiare la vita
a Fobos? Che senso aveva
avuto farmi avvicinare da Iatro il giorno dei funerali? Non capivo
perché
questa persona non potesse semplicemente farsi avanti.
-Non
mi è ancora chiara la faccenda. Che cosa c’entro
io con tutto questo? -.
La
luce sinistra negli occhi di Ysmen mi colpì come una
freccia.
-Tu
sei la regina, Astreya-, mormorò, per poi chinarsi e
poggiare delicatamente le
sue labbra su quelle di Fobos.
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Capitolo 29 *** Capitolo 28 - Le due facce di un Debito ***
Capitolo
28
Non
appena Fobos percepì le labbra di Ysmen sulle sue
cercò di sottrarsi, ma la
donna gli artigliò con le unghie affilate il volto scarno e
lo costrinse a
subire la sua violenza.
-Pensi
di farmi del male, così? -, le chiesi, stupendomi io stessa
di quanto il mio
tono risultasse fermo e deciso. La realtà era ben diversa da
ciò che stavo
mostrando ai presenti: dentro stavo avvampando di rabbia ed era stato
assai
arduo anche solo decidere di aprire la bocca per parlare.
-No,
era solo qualcosa che mi sentivo di fare-, bisbigliò lei,
lasciando andare di
colpo Fobos. Il ragazzo cadde a terra, pulendosi le labbra e imprecando
pesantemente.
-
Guardalo, non è un bellissimo re? Eppure quando stava con
me, aveva decisamente
un colorito migliore-.
La
bile mi sgorgò dal fegato e un dolore sordo mi diede il
colpo di grazia.
Estrassi la pistola dalla fondina di Colossus, troppo molle e fiacco
per
accorgersi dei miei movimenti rapidi, e con
l’agilità di una pantera la puntai
alla tempia di Chastor. Lui sgranò gli occhi e una goccia di
sudore gli scivolò
lungo il collo perdendosi nell’intricato labirinto dei
tatuaggi.
-Che
diavolo, fai?!-, strillò Ysmen, improvvisamente meno incline
a scherzare.
Sorrisi e indicai con il mento il suo enorme gemello.
-Era
solo qualcosa che mi sentivo di fare-, la scimmiottai e premetti con
forza la
canna contro la pelle dell’uomo. – Allora cosa
vogliamo fare, Alpha-1? Mi
spieghi esattamente cosa ci faccio qui, nei minimi dettagli, e poi
aiuti Fobos…
o sparo al tuo stesso sangue? -.
Colossus
pose una mano sulla spalla di Ysmen, le cui labbra tremavano per la
furia e la
paura. I suoi dread tintinnarono quando sollevò lo sguardo,
fiera.
-Sei
proprio una DC-, mi concesse, tornando alla scrivania ed estraendo un
fascicolo
spesso e cartaceo. Era da anni che non vedevo un file in carne e ossa;
era
quasi antiquariato.
-Qui
ci sono le specifiche che ci sono state date da Prometheo. Puoi
leggerlo se
vuoi. Ci sono tutte le informazioni a noi note-.
Colossus
sorrise, poi raccolse la risma di fogli e me la porse.
-Carta?
-, commentò Fobos, il quale, proprio come me si stava
ponendo molte domande.
-
Oggi come oggi è più sorvegliata la rete Wi-Fi
universale che non la carta.
Persino la rete pirata è soggetta a virus o hacker. Chi mai
penserebbe, invece,
che messaggi importanti vengano ancora spediti con un corriere? -.
Non
potevamo darle altro che ragione. Afferrai quel ciarpame e velocemente
gli
diedi una sfogliata. Vidi una foto mia e qualcuna di Fobos, ma nessun
foglio in
particolare attirò la mia attenzione.
-Quindi
presuppongo che nonostante la vostra accoglienza di merda, voi siate da
considerare
alleati-, commentò l’Ibrido, strappandomi il file
di mano e analizzandolo lui
stesso. Stava male e si vedeva, ma il suo temperamento combattivo non
gli permetteva
di fidarsi del mio giudizio e restarsene in disparte.
-Solo
se la regina accetterà il ruolo che Prometheo le ha
riservato-.
-
Non sono forse già votata alla causa dei Figli del Vento? -,
sussurrai,
movimentando l’orecchino appeso al mio lobo.
Ysmen
accennò piano, come se le costasse una fatica immensa.
-Non
sono certa sia il caso di fidarmi, in fondo sei una anomalia. Eppure
per
qualche motivo Prometheo sta muovendo mari e monti per te, persino il
Deserto
intero; per qualche motivo lui si fida. Accetterò le tue
parole, ma da donna
diffidente ti chiedo un Debito. Nulla di troppo impegnativo-.
Strinsi
i denti e Fobos scosse il capo impercettibilmente, chiedendomi di
ignorare la
donna. Anche lui nutriva dei dubbi sulla nostra setta, anche lui
sospettava che
in quel fascicolo ci fossero informazioni che avremmo dovuto leggere
prima di
accettare qualsiasi accordo.
Eppure,
se non avessi accettato immediatamente, che fine avremmo fatto io e
Fobos? Lui
sicuramente si sarebbe spento come una candela.
-D’accordo.
Consideralo fatto-, dissi fissandole la schiena con rabbia.
-Ottimo,
era qui che volevamo arrivare-, commentò lei, ridendo con
quei canini
artificiali.
-Ma
stai scherzando?!- strillò invece Fobos, urlando contro di
me tutta la sua
rabbia. Sapeva che, per quanto lo stessi odiando, la mia scelta era
stata presa
principalmente per lui, per salvarlo, e questo non gli andava
giù. Odiava
essere la causa per la quale io stavo accettando un simile compromesso.
-Non
scherzo. E ora taci-, lo ammonii, ma non feci nemmeno in tempo a finire
la
frase che le ginocchia di Fobos crollarono e il giovane, portandosi una
mano al
volto, cadde a terra. Cominciò a vomitare sangue, tantissimo
sangue, e nemmeno
la mia mano fu in grado di fermare quel fiume scarlatto che
scivolò come una
serpe sul pavimento trasparente. Poi l’Ibrido perse
definitivamente conoscenza.
-Fobos!
-, lo chiamai scuotendolo, mentre la voce di Colossus chiamava il
personale del
pronto soccorso. Ysmen rimase a fissarmi per tutto il tempo, senza
muovere un muscolo.
Vide scorrermi le lacrime sulle guance e il sangue sulle mani, mi
sentì urlare
e imprecare, ma non fece nulla. Mi osservò incuriosita,
cercando di capire cosa
provassi, perché stessi così male. Ma
né lei né Chastor potevano anche solo
immaginare la sofferenza che provavo in quel momento. Mi sentivo
dilaniare il
petto, sbrindellare l’anima e il mio mostro piangeva con me,
implorandomi di
morire se fosse morto anche quel volto da ragazzo che stringevo
convulsamente
fra le braccia, bagnate del suo sangue scuro.
Pareva che Fobos non avesse
mentito quando
aveva detto di essere immune ad ogni sorta di medicina o tossina. Lo
era a tal
punto che i medici giunti nell’ufficio di Ysmen per salvarlo
non avevano
riscontrato alcun effetto nell’iniettargli
l’adrenalina dritta nel petto. Non
era successo assolutamente nulla, mandandomi nel panico più
totale. Erano
riusciti a rianimarlo solo con il defibrillatore, ad un soffio dalla
morte, e
da allora si limitavano a nutrirlo e farlo respirare artificialmente,
legato a
un lettino con mille tubi e una mascherina per l’ossigeno. I
sintomi erano
quelli dell’overdose, ma al contrario. Il suo corpo, non
sopportando più
l’astinenza cui era stato costretto, si era ribellato e aveva
deciso di
lasciarsi morire, portando il padrone a una morte silenziosa e
fulminante. Ma grazie
agli Dei, i medici non avevano tardato a scoprire cosa lo rendesse
invulnerabile ai farmaci.
-Il
suo sistema sanguigno è percorso da dei Nanobot-, mi aveva
spiegato
l’infermiera che lo stava assistendo, paziente di fronte al
mio viso stravolto.
–Sono piccoli robot programmati per inglobare e sciogliere
tutte le sostanze
estranee che non siano la cura somministrata dal suo medico.
E’ stato difficile
capire come disattivarli senza usare altre sostanze, ma alla fine il
dottor
Omega-g è riuscito a ricreare in laboratorio dei Femtobot in
grado di
disattivare i piccoli intrusi nel suo corpo. Il loro funzionamento
è semplice.
Essendo ordini di grandezza più piccoli, essi sono in grado
di circondare i
Nanobot e spezzettarli in minuscoli frammenti che poi vengono filtrati
tramite
delle macchine collegate al sistema depurativo dei reni del paziente.
Una volta
terminata la loro missione i Femtobot procedono con
l’esecuzione di un check-up
completo dei tessuti e laddove si sono aperte ulcere o emorragie
sintetizzano
un bio-tessuto in grado di fare da cerotto a quelle piaghe aperte e
integrarsi
perfettamente con il sistema biologico dell’Ibrido-.
Erano
parole che non avevano alcun senso per me. Io vedevo solo un Fobos
estremamente
giovane, steso nudo in un tubo di vetro, isolato dal mondo e con gli
occhi
chiusi. Non ero riuscita a tollerare quella visione per più
di pochi minuti e,
quindi, ero scappata via alla prima occasione. Mi ero concentrata su
altro: sul
fascicolo, su Aracne ed Eracleo e soprattutto su me stessa. La prima
cosa che
avevo fatto dopo essermi assicurata che Fobos fosse in buone mani, era
stata
riunirmi con i miei due compagni. Avevo scoperto che erano stati
catturati nel
Deserto poco prima che le loro scorte di acqua finissero e che, come
noi,
avevano scelto la via della diserzione. Mi raccontarono che Cronyos
aveva dato
il via a una strenua caccia all’uomo, ponendo una taglia
sulle nostre teste,
sulla mia e su quella di Fobos. Eravamo accusati di ammutinamento,
sedizione,
favoreggiamento del nemico e concorso in atto terroristico
ingiustificato.
Insomma, eravamo sulla bocca di tutti e sulla piattaforma internet dei
Wanted.Inc, i cacciatori di taglie. Avevo anche saputo che Galeno era
stato
imprigionato con l’accusa di complicità in atto
terroristico e favoreggiamento,
e che al momento era in attesa di giudizio. Erano tutti fermamente
convinti che
fossi stata io la causa di quell’esplosione e che sempre io
avessi convinto
Fobos a sostenere la mia causa. Ero diventata il baluardo dei ribelli,
tanto
che questi adesso inneggiavano a me come alla loro eroina guida.
Pensavano che
avessi dato ordine a Galeno di evacuare la zona per amore loro, dei
miei fedeli
proseliti, e che volessi colpire solo le frange dell’Esercito
presenti fuori e
dentro il Vallum, allargando ulteriormente la breccia. Mi avevano
idealizzata e
tramutata in un bug a tutti gli effetti. Ma non me ne fregava nulla di
quello
che pensavano; quello che mi tormentava era stato scoprire quello che
avevano
subito i miei due amici per avermi creduta innocente tutto quel tempo.
Erano
stati accusati entrambi di sedizione ed erano stati costretti a
lanciarsi in quella
nuova e imprevista avventura.
Eracleo,
in particolare, mi era parso provato. Aveva dovuto provvedere a
sé stesso e ad
un’altra donna per tutto quel tempo, e quando mi aveva
trovato era stato
talmente felice di vedermi che mi aveva stritolato in un abbraccio
soffocante e
mi aveva baciato la fronte più e più volte. Aveva
ringraziato gli Dei,
inginocchiandosi a terra, e aveva giurato che se non fosse stato per la
sua
fede nelle Divinità e in me, a quell’ora sia lui
che Aracne sarebbero stati già
in mani nemiche. Io
non avevo creduto a
tutte quelle panzane religiose e mi ero discostata dal loro
atteggiamento
euforico e sollevato. Non capivano che la vera guerra era iniziata e
che ora,
con loro tra i piedi e non più al sicuro, dovevo
preoccuparmi di altre due
persone. Non potevo tollerare che anche a loro accadesse qualcosa di
simile a
quello che era toccato a Fobos. E non potevo nemmeno più
guardarli in faccia,
essendo io la colpa di tutto quanto. Perciò, sebbene i
Diarchi ci avessero
assegnati allo stesso appartamento, io me ne stavo per i fatti miei,
chiusa in
uno sgabuzzino della palazzina, sotto una nuda lampadina e accovacciata
su un
secchio a fissare il fascicolo che Alpha-1 mi aveva consegnato. Non ero
riuscita ad aprirlo, nemmeno una pagina. Non mi sembrava giusto
sverginare
quelle informazioni preziose senza Fobos, senza colui con il quale
avevo
iniziato la mia nuova vita. E di fronte a quel cartone giallastro avevo
realizzato finalmente due cose. La prima era che ero libera, che
adesso, pur
nella solitudine dell’assenza di Fobos, avevo in mano la mia
vita e tutto
sarebbe dipeso dalle mie scelte. La seconda era che forse Alpha-1 non
aveva
avuto tutti i torti a chiamarmi Deadly Child. In un certo senso lo ero
davvero:
non avevo paura di morire, non avevo paura di sacrificarmi per una
causa, per
un’idea. L’unico punto su cui non transigevo era,
però, la motivazione. Per
lottare e dare tutta me stessa dovevo avere la certezza di essere nel
giusto,
che il mio fine giustificasse davvero i mezzi e che alla fin della
fiera mi
sarei sentita bene e non un veterano con un disturbo post traumatico da
stress.
Per
cui la scelta era stata quella di non poltrire e di affrontare
l’angoscia
emotiva che aumentava ogni giorno di più. E come fare?
Correndo, andando in palestra
e fissando il fascicolo. Mi ero messa alla prova, studiando strategie
militari
con Colossus, storie di complotti e ribellioni con Sigma-x, che di
questo
argomento era davvero esperta, e praticando esercizi di magia visto che
le Cure
mi erano precluse.
Volevo
essere pronta per quel fascicolo una volta che Fobos fosse uscito da
quel
maledetto tubo. Perché lui sarebbe uscito da lì,
con le sue gambe.
Occupai
così i miei giorni, fino a quando un medico non
chiamò nel nostro appartamento
e comunicò ad Aracne che Fobos si era risvegliato e che era
stato spostato dal
reparto di terapia intensiva a quello di degenza. Era ancora debole e
si stava
abituando alla sua nuova condizione. Avevano dovuto fargli almeno una
dozzina
di iniezioni tra vaccini e antibiotici, tutti allo scopo di aiutare il
suo
sistema immunitario. Ero felice che stesse bene, ma non volli comunque
andare a
trovarlo. Non ci riuscivo. Stavo male al solo pensiero di rivedere quei
tubi,
quel corpo debole e quegli occhi sottili e spruzzati d’oro.
Ma sapevo anche che
non avrei potuto procrastinare a lungo perché le nostre
strade non erano ancora
pronte per dividersi. Presi quindi la decisione più
difficile della mia vita:
sarei andata dall’Ibrido quando avessi avuto il coraggio di
leggere almeno il
titolo del fascicolo.
Inutile
dire che mi ci volle ancora qualche giorno, qualche notte insonne e
almeno due
litri di caffè nero. Ci riuscii una mattina, dopo essermi
svegliata coperta
dalla giacca di Eracleo.
Fascicolo#
caso 1. La falena notturna
Sospirai
quando lo lessi e, senza ripensarci, chiusi il plico, fiondandomi fuori
casa.
-Qual
è il problema, Astreya? Hai detto che non mi avresti
più parlato, eppure sei
qui di fronte a me, con quel broncio e quella ridicola espressione-.
Depositai
il mazzo di girasoli accanto al suo lettino, attenta a non
schiacciarli, poi
avvicinai uno sgabello a Fobos e mi sedetti in silenzio. Ero ancora
arrabbiata
con lui, ero ancora ferita dalle sue omissioni. Mi ero fidata di Fobos
e,
contro ogni aspettativa, mi ero persino affezionata a quel mostro
pallido,
eppure lui era distante da me anni luce, o meglio io ero distante dal
suo
cuore. Per Fobos si era sempre e solo trattato di ordini: gli avevano
detto di
seguirmi e proteggermi e lui, lui lo aveva fatto. Era doloroso, ma
potevo
davvero rimproverarglielo?
-Come
stai? -.
-Bene,
ti ringrazio-.
Fobos era attento ad
ogni mio singolo
movimento, ad ogni mia singola reazione. Sembrava un cervo,
così vigile e
sempre pronto a sfuggire al lupo. Mi passai una mano fra i capelli,
sciolti
blandamente lungo la schiena e arrotolati attorno alla spalla destra in
un
groviglio di nodi e preoccupazioni. Non mi ero nemmeno pettinata, prima
di
andare lì.
-So
che ti ho chiesto di non parlarmi, che ti ho detto di non volerti
più nemmeno
vedere, ma non è così. Capisco perfettamente le
tue ragioni in realtà e forse,
in fondo, lo sapevo fin dall’inizio che per te si trattava
unicamente di
lavoro…-, vomitai, raccogliendo tutto il coraggio che gli
Dei mi avevano
fornito. Ripensai ad Eracleo e Aracne, a quanto fosse semplice per me
comunicare con loro, trasmettere loro le mie emozioni. Con Fobos era
pressoché
impossibile: mi mancava il fiato ogni volta che i suoi occhi glaciali
incontravano i miei. Persino il mio mostro non sapeva che cosa fare in
sua
presenza. Lui, in una sola parola, era disarmante ai miei occhi.
-Non
lo era-.
Cosa?
La voce di Fobos era più profonda del solito e malinconica.
Sollevai il capo,
riuscendo finalmente a distogliere lo sguardo dai miei stivali
sbrindellati, e
lo vidi fissare le folate di sabbia aranciata fuori dalla finestra, i
lunghi
capelli a incorniciargli il viso.
-Non
lo era? -, ripetei senza capire. Ero così smarrita nel mio
mondo che avevo
perso il filo del discorso.
-Non
si è mai trattato solo di lavoro per me-.
Fobos
si voltò nella mia direzione, le labbra tese e le occhiaie
livide. Senza
piercing e con i capelli scostati dal viso mi rendevo finalmente conto
di
quanto fosse giovane. Era sempre lui, con il suo cipiglio severo e la
sua
espressione funerea, ma in qualche modo sembrava più umano.
Osservò a lungo i
girasoli, sperando probabilmente che dicessi qualcosa, ma la mia bocca
era
serrata, i denti fermamente incollati fra loro e la lingua secca e
dolorante.
-E
quella donna, Ysmen, per me non ha contato nulla. E’ stata
solo una donna
adulta che ha mostrato dell’interesse per un ragazzino fuori
dai ranghi-.
-Non
me ne importa nulla di questo. Sono affari tuoi e di quella Mauriana-,
risposi
piccata.
Fobos
sospirò, annuendo appena e tornando con lo sguardo a
spaziare per la stanza.
Non capivo perché fosse così serio,
così laconico. Ero abituata al suo fare
energico, al suo rispondere per le rime, al suo agire senza nemmeno
pensare. E
non parlavo del periodo di astinenza che aveva dovuto superare; parlavo
del
Fobos che avevo conosciuto prima, in Accademia. Il suo spirito
combattivo
sembrava momentaneamente sparito, dissolto nell’aria come i
granelli di sabbia
che stava insistentemente fissando pur di ignorarmi.
Sentii
gli occhi pizzicare. Li stropicciai furiosamente con la mano, ignorando
il
bruciore che questo mi provocò. Quindi mi alzai, mani in
tasca e sguardo basso.
-Beh,
io vado. Spero tu ti riprenda presto-.
Sfiorai
un’ultima volta i fiori colorati che avevo comprato in
piazza, resistendo alla
tentazione di svaligiare il negozio intero, e con un mezzo sorriso feci
per
avviarmi alla porta. Solo quando le mie dita sfiorarono il freddo
acciaio della
maniglia tonda, Fobos si voltò a guardarmi, penetrandomi la
schiena con quei
suoi occhi da rapace.
-Questi
fiori sono gli stessi che hai regalato a quella donna al Tempio,
durante i
funerali…-
Arrossii
fino alle orecchie, nascondendomi nei capelli ed evitando di voltarmi.
Lasciai
solo che la mia mano mollasse la presa sul pomello e scivolasse lunga
distesa
lungo il fianco.
-Già.
Sono colorati e mi ricordano i tuoi occhi-, dissi atona, cercando di
mascherare
il mio imbarazzo. Ripensavo costantemente alle dita di Ysmen che si
intrecciavano ai capelli di Fobos, alle sue labbra scarlatte che
sfioravano la
pelle tesa della sua mandibola. E più ci pensavo
più mi sentivo male.
-
Ho sentito anche la storia che le hai raccontato-, ammise sollevandosi
appena
con una smorfia di dolore. Il ticchettio delle macchine e il continuo
fluire del
liquido contenuto nella flebo del ragazzo cominciarono a rimbombarmi
nelle
tempie sommati alla cavalcata infernale del mio cuore. Di questo passo,
avrei
avuto un attacco di panico.
-
E’ solo una storiella-, ridacchiai tesa, voltandomi appena
per fargli vedere il
mio sorriso. Così avrebbe capito una volta per tutte che si
trattava solo ed
unicamente di un regalo di pronta guarigione, nulla di più.
-
Certo, ma è anche il motivo per cui ti ho seguita fin qui-.
Il
mio cuore produsse un rumore anomalo, simile a un crack. Mi portai la
mano al
petto, cercando di tenere insieme i pezzi di quel piccolo organo
pulsante,
ormai praticamente impazzito.
-Devozione,
no? Penso si possa chiamare anche così. Non sono un uomo
affettuoso o
sentimentale, per questo non ho mai pensato di dovertelo dire. Ma il
motivo per
il quale ti ho seguita fino a qui è stato principalmente il
mio affetto nei
tuoi confronti. Gli ordini sono stati solo un utile pretesto. Ti avrei
seguita
a prescindere-.
I
suoi occhi mi fissavano fermi, senza la minima incertezza. Teneva un
girasole
fra le mani e ne accarezzava i petali come fossero di vetro, fragili e
tremendamente belli.
-Non
so cosa dirti-, ammisi, combattuta. Ero straziata dal desiderio di
abbracciarlo, picchiarlo, baciarlo. Non sapevo cosa fare, cosa provare.
Volevo
non provare più nulla, non provare rancore, non sentire quel
blocco di cemento
sullo stomaco. Eppure non potevo: stare con lui era come vivere
perennemente
sopra le montagne russe dei Gyps.
-Non
devi dirmi niente. Volevo solo che lo sapessi-.
Potevo
veramente andarmene ora? Non sapevo se il mio corpo ne sarebbe stato in
grado,
non ora che Fobos mi attirava a sé come una calamita. Che
razza di potere aveva
quell’uomo? Come poteva disgustarmi e attrarmi a lui
contemporaneamente?
Presi
la mia decisione senza nemmeno pensarci. Mi staccai dalla porta,
girando i
tacchi, e con passo svelto raggiunsi il ragazzo. Gli circondai le
spalle con le
braccia, stringendole al camice grigio scuro che indossava, e affogai
il viso
fra i suoi capelli. Profumava di disinfettante e sapone, ma
l’aroma della sua
magia mi raggiungeva comunque, famigliare e rassicurante. Non era
più così
nauseante per me.
-Stai
bene? -, lo sentii chiedermi, mentre il suo corpo si irrigidiva sotto
il mio
abbraccio.
Annuii
muovendo il capo, poi lo strinsi più forte. Volevo dirgli
che nonostante lo
avessi odiato e non mi fidassi più di lui, mi ero
preoccupata da morire, che
nonostante mi fossi sentita tradita, non avevo mai avuto intenzione di
lasciarlo. Ma non ci riuscivo: se lo avessi fatto oltre alla voce mi
sarebbero
sfuggite anche le lacrime. E nonostante tutto, io non volevo ancora
mostrarmi
così debole di fronte a qualcuno.
Mi
morsi il labbro, quando per la prima volta, Fobos ricambiò
il mio sentimento,
sollevando il braccio e circondandomi la vita. Sentii il calore
febbricitante
del suo abbraccio trapassare la stoffa della canotta e incendiarmi la
pelle.
Era da anni che nessuno mi teneva stretta a quel modo, con
così tanta forza da
non farmi nemmeno respirare.
Sembrava
che dovessimo unirci per tenere assieme i frammenti delle nostre vite,
per
mantenerci sani e lucidi in un mondo che correva verso il traguardo
della
pazzia.
-Posso
continuare a seguirti? -, mi sussurrò Fobos
all’orecchio, passando le dita tra
i nodi nei miei capelli e sciogliendoli dolcemente ad ogni passata.
Appoggiai
la fronte alla sua spalla, godendomi quel momento certa che il futuro
non ce ne
avrebbe riservati molti altri.
-Puoi
fare quello che vuoi-.
-Davvero?
-.
-Sì,
certo. Abbiamo ancora il nostro Debito-, dissi convinta, senza
realmente
accorgermi delle implicazioni logiche delle mie parole. Fobos mi
sollevò il
mento con l’indice, fissandomi negli occhi con
intensità. Rimase così qualche
secondo, come in attesa qualcosa, poi premette le sue labbra sulle mie.
Inizialmente mi venne istintivo ritrarmi, ma alla fine non resistetti e
mi
abbandonai completamente al suo bacio. Non era per nulla tenero,
né timido. Era
semplicemente frustrato, represso e tremendamente urgente. Non mi
lasciava il
tempo di respirare. Non riuscii nemmeno ad allontanarmi quando le
nostre labbra
cominciarono a scottare: Fobos mi afferrò la nuca con la
mano, lasciandomi solo
qualche istante di riposo, poi tornò a tormentarmi le
labbra, mordendole appena
e stringendole con quei canini appuntiti che avevo già
conosciuto.
Mi
sorresse il volto con le mani bollenti, mentre il suo corpo si
avvicinava al
mio, in un abbraccio di lava. Mi sfiorò con la punta del suo
naso, poi, con
delicatezza mi posò un bacio sul lato della bocca, leggero e
impalpabile.
-E
questo cosa vorrebbe dire? -, domandai con tono troppo squillante.
Sembravo io
ora quella ubriaca o in astinenza.
-Vuole
dire che volevo baciarti. E l’ho fatto. A volte anche a me
viene voglia, come a
qualsiasi altro essere maschile…-.
Storsi
il naso. Odiavo quel suo modo di fare sfrontato e disincantato. Anche
io non
credevo nel vero amore (nel nostro mondo non c’era spazio per
smancerie del
genere, né ce n’era bisogno), ma non per questo
andavo in giro a baciare ogni
uomo che avesse un bel viso o un corpo desiderabile.
-Sei
disgustoso-, mugugnai ferita, asciugandomi le labbra con il polso. Non
provavo
davvero ribrezzo, solo volevo cancellare l’impronta delle sue
labbra dalle mie,
fare evaporare il suo respiro dalla mia pelle.
-
Non mi hai nemmeno lasciato finire di parlare-, si lamentò
lui con un sorriso
infelice. Poi continuò: - La prima volta che ti ho baciata
l’ho fatto un po’
per egoismo, un po’ per vendetta. Lo ammetto: sono un essere
spregevole. Ma
dopo quei baci, non ho potuto fare a meno di desiderarti nuovamente.
Non mi era
mai successo. Mai-.
Sospirai,
giocando con le stringe sfibrate dei miei scarponi. Non capivo dove
volesse
arrivare e ogni parola che mi diceva non faceva altro che tormentarmi
ancora di
più.
-Per
me, starti vicino, toccarti, baciarti o semplicemente parlarti
è… un’esigenza
fisica. Non ha nulla a che vedere con l’istinto. E’
la mia testa che mi impone
di baciarti, non solo il mio basso ventre-.
Sollevai
lo sguardo per fulminarlo. Erano le parole meno dolci e meno romantiche
che
avrebbe mai potuto inventarsi. Tuttavia sembravano vere e questo
addolcì
perlomeno la curvatura severa delle mie sopracciglia.
-Sei
veramente diretto… non indori certo la pillola-.
-E
perché dovrei? Ti sembro tipo da cioccolatini e mazzi di
fiori? -, si oppose
lui, sollevando un sopracciglio.
No,
decisamente no. Mi sembrava più il genere di uomo che ti usa
una notte e poi ti
getta nella spazzatura, tra lische di pesce e lattuga marcia. Tossico,
ecco
come lo si poteva definire un uomo come lui.
-Mi
sembra che tu non voglia bene a nessuno, nemmeno a te stesso-, dissi,
stendendo
le lenzuola bianche con le dita. Non volevo guardarlo negli occhi,
perché ero
conscia di quanto gli avrebbe fatto male sentirsi dire una cosa del
genere.
Avevo visto con i miei occhi quello che Fobos aveva passato, sin da
piccolo, e
sapevo che parte del suo mutismo e della sua apatia derivavano dallo
stile di
vita malato che aveva condotto. Nonostante ciò non potevo
fare a meno di
constatare quanto poco interesse nutrisse per il prossimo.
-
Io ti voglio bene, Astreya-.
Mi
ingozzai con l’aria, tossendo ripetute volte. Le lacrime mi
offuscarono la
vista, mentre la mano di Fobos mi colpiva leggermente la schiena.
-Non
morire-, ridacchiò lui.
-Tu
cosa?!-, strillai, coprendo l’incessante gocciolio della
flebo.
-Non
farmelo ripetere, per favore-.
Mi
passai una mano sul volto per nascondere il rossore che lentamente
aveva preso
a colorirmi le guance. Dovevo dargli una risposta? Si aspettava che gli
dicessi
qualcosa in cambio? Ero una Custode, non avevo mai dovuto preoccuparmi
di tutto
quello che caratterizza una storia romantica, né avevo mai
pensato ad un uomo
in questi termini.
-Sarebbe
carino se almeno mi dicessi che non mi odi-.
Era
ovvio che lo odiavo. Come potevo non odiarlo? Era l’unico
uomo in grado di
farmi infuriare, gioire e preoccupare al tempo stesso.
-Sei
sopportabile… a volte-.
Fobos
rise, tenendosi il torace magro per non farlo squassare. Poi quando il sorriso
sfumò nell’aria, la sua
mano si mosse rapida verso la mia e la imprigionò nella sua.
La portò alle
labbra e mi baciò le nocche bianche.
-Farò
in modo di farti innamorare di me-, mormorò, muovendo appena
le labbra sulla
mia pelle. Poi mi morse un dito, le iridi incandescenti che risaltavano
nella
penombra della stanza.
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Capitolo 30 *** Capitolo 29- Crisalide ***
Capitolo
29
Sbattei
il fascicolo sul tavolino sghembo sollevando uno sbuffo di polvere, e
Fobos
starnutì, lasciando che una dorata folata pulviscolare gli
si appoggiasse ai
capelli.
-E
così questo è il famoso fascicolo, giusto? -, mi
chiese, sfiorando con i
polpastrelli la carta ruvida della copertina. Le sue iridi brillarono,
esaltate
dalla luce rossastra che penetrava dagli abbaini.
-Esatto-.
Fobos
si sporse in avanti per prendere il cartaceo e la camicia bianca che
indossava
scivolò lentamente sulle spalle, facendomi intravedere il
petto magro. Mi si
strinse il cuore quando scorsi le cicatrici che il defibrillatore gli
aveva
lasciato, ulteriore marchio sulla sua pelle già provata. Da
combattente.
-Sei
sicuro di non voler riposare? -, gli domandai nuovamente, allungando
una mano e
sfiorandogli il braccio.
-Non
pensi abbia già dormito abbastanza durante il coma? -,
sorrise lui, mostrandomi
quel luccichio che tanto mi era mancato. Non lo avrei mai ammesso, ma
ero
sollevata e davvero felice di averlo di nuovo al mio fianco.
-Già-,
ammisi. Poi mi sedetti di fronte a lui incrociando le gambe e
allungandomi per
appoggiare i gomiti sul tavolo.
-Mi
hai aspettato per leggerlo. Immagino ti mancassi davvero molto-,
sogghignò lui,
aprendo il fascicolo e leggendo distrattamente il titolo. Io arricciai
il naso,
fingendomi infastidita, e con un cenno gli feci capire che volevo
leggesse lui
il contenuto del file.
-Va
bene, vediamo un po’-, mormorò quindi, avvicinando
i fogli al viso e
immergendosi nella lettura. La sua voce profonda cominciò a
dare vita alle
battiture della macchina da scrivere e lentamente il contenuto di quel
plico di
fogli prese vita di fronte a noi.
Il
presente file
raccoglie tutte le informazioni a disposizione circa il progetto FALENA
NOTTURNA. Ogni materiale ivi contenuto è
proprietà esclusiva della Setta e in
caso di fuga di notizie verranno presi seri provvedimenti contro i
colpevoli.
Paragrafo1:
Deadly
Child #2
Data:
22/11/anno
5000 dalla discesa di Aion
Oggi
è nato il
secondo Deadly Child. Il soggetto è una femmina di sei anni
con disturbo della
personalità borderline.
L’esemplare
si è
mostrato recettivo all’esame
dell’EyeRetractor.
Posizionato di
fronte allo schermo a luci pulsanti, con utilizzo del divaricatore per
occhi e
camicia di forza, il soggetto non ha patito ed ha eseguito gli ordini
del
medico (K.) con completo disinteresse verso la sua condizione.
Data:
22/12/anno 5000
dalla discesa di Aion
Il
Deadly Child comincia
le visite psicologiche di accrescimento spirituale presso il Sanitarium
“Sora
Hera”
di Carthagyos. Il
paziente mostra un’intelligenza
sopra la media, una grande
propensione all’oscurità
e un gusto spiccato per la violenza.
Data: 22/01/anno
5003 dalla discesa di Aion
Il
Deadly Child ha
distrutto la camera di studio ed è stato sedato. Mostra
completo disinteresse
verso la propria esistenza e rimuove gli eventi interni al Sanitarium
opponendosi agli ordini. Per evitare l’incidente
DC#1
verrà somministrato al paziente una dose di Resurrection.
Data:11/09/anno
5007 dalla discesa di Aion
Il
Deadly Child
non risponde agli ordini del medico(K.). Tentato assalto alla madre e
al padre
biologici. Tentato suicidio alle ore 22:22.
Il
paziente è
stato prelevato dalla famiglia per richiesta del genitore maschile, in
pieno
possesso della facoltà podestarile.
Acquirente
designato: Cronyos, Accademia di Cypris
Testimone: Sorella
Dyana, Tempio di Carthagyos
Conversazione
privata# 001
K:<’aiuta
a
sopravvivere>>.
Efesto:<<
Che cosa intende con condizione medica, dottore?>>
…
Efesto:<<
Dottore, non si preoccupi non diremo a nessuno di questa nostra
conversazione
privata. Non tema>>.
K:<<
La
bambina è nata da un parto gemellare>>.
Efesto:<<
E
la gemella?>>.
K:<<
Morta.
Non si è nemmeno formata. La sua perdita, tuttavia, ha
innescato una serie di
eventi a catena. La bambina ha maturato un disturbo dovuto a qualche
strana
connessione psicologica con la sorella. Una sorta di trauma prenatale,
se ne
parla molto nelle ricerche odierne, sa?>>.
Efesto:<<
Ne
ho sentito parlare, in effetti. Prosegua>>.
K:<<
La sua
personalità è unica, ma le sue
potenzialità sono scisse. E’
come se qualcosa
della gemella fosse rimasto, una sorta di embrione marcio che infetta
la mente
della paziente fino a farle sviluppare il disturbo per il quale ci
siamo
interessati a lei. Forza spirituale doppia per sostenere la
gravità del
trattamento>>.
Efesto:<<
E’
un progetto dell’Esercito?
O del
Tempio?>>.
…
Efesto:<<
Le
pongo la domanda in maniera differente. Da chi è stato
pagato per operare il
trattamento Deadly Child sul paziente femmina#2?>>.
K:<<
Molte
persone sono coinvolte, lo ammetto. Ma il progetto è stato
sostenuto
finanziariamente dall’Accademia
di Cypris>>.
Efesto:<<
Dottore, perché allora la bambina è stata
dirottata al Tempio di Sorella Dyana?
Come se lo spiega?>>.
K:<<
E lei
come fa a saperlo?>>.
Efesto:<<
Ho
conoscenze al Tempio, e anche nell’Esercito,
diciamo>>.
K:<<
Non mi
è stata comunicata la reale intenzione dei sottoscriventi il
contratto di
vendita, ma so che lo psicologo clinico e lo psichiatra infantile hanno
giudicato la paziente idonea per l’addestramento.
Mago e soldato assieme, solo un Deadly Child può riuscirci.
Almeno
credo>>.
Efesto:<<
Sappiamo che la ragazzina ha un timer. A quanto è stato
impostato?>>
…
Efesto:<<
Il
timer è fisicamente accessibile? E’
passibile di
manomissione?>>.
…
Efesto:<<
E’
destinata a
compiere la missione per la quale è stata programmata senza
scarti?!>>
K:<<
Ahahahah. Non mi dica che adesso ha paura, Efesto? Lei è un
soldato>>.
Efesto:<<
E
questo cosa significa?>>.
K:<<
Conosce
Upokrates?>>.
Efesto:<<
Naturalmente.
Fedele collaboratore dell’Esercito
e creatore dello
Scandalo>>.
…
Efesto:<<
C’entra
qualcosa lo
Scandalo in tutto questo?! E’
così?>>.
K:<<
Touché…>>.
Efesto:<<
E’
lui il
timer?>>.
K:<<
Sì, ma
non solo. Lui è qualcosa di più. Lui è
la sua “metà
mancante”.
Molto poetico
non trova? Così lo ha definito Upokrates…>>
Rapporto
#008
Luogo:
Accademia
di Cypris
Data:
22/09/5007
dalla discesa di Aion
Mittente:
Cronyos
Destinatario:
Tempio di Carthagyos.
Intercettato.
Sorella,
sono
contento di
comunicarle di persona che il soggetto è ancora in vita.
Nonostante gli sforzi
della Natura per toglierlo di mezzo, la razza umana oggi ha ottenuto
una grande
vittoria.
Il soggetto ha
superato la notte. Mancano solo pochi trattamenti e sarà
pronto.
Come diciamo
sempre circa la nostra preziosa coppia:<< Che il corpo
possa essere
presto ricollegato alla sua anima>>.
G.
Cronyos
-Memento
di
Prometheo all’Assemblea
dei Figli.
Trascrizione
di:
Perseus, Segretario.
Prometheo:<<
Che il corpo possa essere presto ricollegato alla sua
anima>>. Frase
concetto della Chiesa, da sempre rappresenta il legame tra
corporeità e aldilà.
Si pensa che il soggetto DC e il soggetto Scandalo siano da ricollegare
come
due pezzi non autosufficienti. Chi sia il corpo e chi l’anima
è presto
detto. Se Scandalo è nell’
Esercito e DC nel Tempio, chiaramente l’uno
sarà il corpo
dell’altra.
Forza
fisica e controllo mentale, unite in un esplosivo miscuglio. Nessuno di
noi
immaginava che un umano fosse in grado di sopportare tante
sperimentazioni,
senza alcuna “modifica”
oltretutto. Ma questo ragazzo ce l’ha
fatta. Vedete
questa foto? Capelli neri, occhi gialli. Nient’altro
che un uomo?
Guardate meglio…
Ah, ecco. Altezza sovrumana, forza sovrumana, rabbia
incendiaria. Guardate il filmato di questo addestramento.
Impressionante, no?
Bene, vi presento il compagno predestinato della nostra DC, Fobos.
Astreya e
Fobos. La coppia che ci seppellirà tutti se non riusciremo a
portarli dalla
nostra parte.
Quando
Fobos finì di leggere, i suoi occhi erano pieni di sconcerto
e il suo torace si
alzava ed abbassava in cerca di aria. Sollevò lo sguardo su
di me e per un
istante temetti di leggervi paura, paura per quello che aveva letto,
per aver
capito che lui era il mio interruttore e che io potevo in qualche modo
usarlo
come una marionetta. E invece, ciò che vi lessi fu
esclusivamente sorpresa.
Le
sue labbra si schiusero appena e i suoi occhi dal taglio feroce
divennero
grandi e liquidi, come catrame. Quasi ispirata dal suo sguardo, mi
sfiorai le
guance con i polpastrelli e mi accorsi che erano bagnate. Di lacrime.
Non mi
ero nemmeno resa conto di aver cominciato a piangere.
Ma in fondo come avrei potuto evitarlo? Tutto
il mio mondo di certezze era crollato e mi ritrovavo con solo della
sabbia fra
le mani. Tutto volava via, a partire dai miei ricordi. Non rimembravo
nulla
dell’assalto ai miei genitori, delle sedute. Nessun nome mi
era famigliare, non
sapevo chi fosse quel fantomatico K, né avevo idea di essere
orfana di sorella.
Il mostro che avevo dentro era lei, era un disturbo? Perché
Ysmen doveva avere
ragione su di me? Perché dovevo essere il Deadly Child? Mi
morsi un labbro,
cercando di frenare le lacrime, ma fu tutto inutile. Non ricordavo di
avere una
missione nella vita, né di essere un mostro. Non fin nel
profondo almeno. Ero
un’arma.
Lentamente
i miei occhi si fecero opachi e si sollevarono a osservare nuovamente
Fobos,
una creatura torturata per colpa mia. Mi guardava con quegli occhi
ambrati che
tanto avevano sofferto, forse chiedendosi perché, forse
domandandosi che cosa
avesse fatto di male per meritarsi che una tale piaga si abbattesse su
di lui.
-Hai
paura di me? -, gli domandai, la voce che tremava e le lacrime che
scorrevano
sulla curva magra del mio collo. Non riuscivo a impedirmi di essere
scossa da
fremiti, ma potevo mantenere un atteggiamento freddo e controllato.
Serviva
alla mia mente per non vacillare.
-Paura?
-, sussurrò Fobos aggrottando le sopracciglia. Non capiva.
Mi
morsi l’interno delle guance finchè non lo sentii
sanguinare, in attesa che
comprendesse da solo. Ci mise solo qualche istante, lo capii da un
evidente
cambio di luce nei suoi occhi. E quando ebbe la certezza di
ciò che la mia
domanda gli suggeriva picchiò con forza il pugno sul tavolo,
facendomi
rimbombare le ossa e tremare il cuore. Singhiozzai non appena lo vidi
issarsi
sul tavolino e il fiume d’olio nero dei suoi capelli
oscurargli il viso
pallido.
Mi
portai la mano alla bocca, terrorizzata. Fobos con un ampio gesto della
mano,
gettò il fascicolo in aria. Vidi pagine e pagine volare,
piovere dal soffitto
quasi al rallentatore mentre il ragazzo si scavava una via fra di loro.
In un
battito di ciglia mi fu addosso, gli occhi incendiati di una sfumatura
aranciata simile a fuoco. Chiusi gli occhi, aspettandomi uno schiaffo o
un
pugno, e parai con le braccia a croce di fronte al viso. Ma non accadde
nulla.
Sentii solo delle braccia circondarmi e il calore di un respiro
solleticarmi il
collo. Spalancai gli occhi con forza, scollando le ciglia umide, e vidi
le
braccia di Fobos circondarmi. Stringeva con forza, con rabbia, fino a
farmi
male. Lo sentivo artigliarmi la pelle e ringhiare appena.
-Non
potrei mai avere paura di te-, sussurrò. Sentii il cuore
esplodermi come una
mina, e involontariamente la mia fronte si appoggiò alla sua
spalla.
–
Ho solo paura di perderti-, aggiunse mentre le mie mani si aggrappavano
alla
sua camicia, stropicciandola senza pietà.
Rimanemmo
così a lungo, con il mio pianto come unica colonna sonora
per la nostra
disperazione. E forse saremmo rimasti così in eterno se
Eracleo non fosse
entrato nello stanzino, bussando più per
formalità che per altro. Subito Fobos,
come punto da un tafano, drizzò la schiena e
oscurò il suo sguardo. Si chinò a
raccogliere dei fogli con nonchalance salutando con un unico grugnito
il nuovo
arrivato.
-Tutto
bene? -, chiese circospetto Eracleo, osservando alternativamente il mio
viso e
quello di Fobos. Non gli sfuggirono le mie ciglia umide e le iridi
lucide.
Si
abbassò appena appoggiandomi la mano sulla spalla e
scostandomi i capelli
scuri. Le pupille di Fobos saettarono nella sua direzione e una sorta
di
elettricità attraversò l’aria. Era
evidente che Eracleo per lui era qualcosa di
più di un commilitone, anche se in senso negativo.
-Sì,
stiamo bene-, risposi, sfregandomi gli occhi e dando una pacchetta alle
dita di
Eracleo affinchè le spostasse. Lui mi sorrise affabile e ci
aiutò a raccogliere
tutta quella inutile carta in un mazzo scombinato e disordinato. Poi ci
dirigemmo nel nostro appartamento, in colonna come dei prigionieri. Io
stringevo ancora il fascicolo tra le mani, continuando a percepire lo
sguardo
di Fobos sulla schiena. Sembrava volesse trapassarmi.
-Dovremmo
raccontare loro cosa abbiamo scoperto? -, gli sussurrai, assicurandomi
che
Eracleo non ci sentisse. Fobos mi afferrò il polso e mi
trattenne un attimo,
lasciando che il Caporale ci precedesse sulle scale.
-E’
ovvio che ci seguiranno una volta abbandonato il Sandpit,
perciò non credo sia
saggio tenerli all’oscuro di tutto-, sospirò.
–Tuttavia, credo anche sia il
caso di edulcorare loro la faccenda. Raccontiamo essenzialmente solo
quello che
devono sapere per non farsi ammazzare-.
Annuii,
convinta che fosse la scelta giusta, e a grandi passi raggiunsi Eracleo
sul
pianerottolo.
Entrammo
nel salotto dove Aracne stava preparando il caffè.
L’aroma speziato di
quell’oro nero mi raggiunse le narici, facendomi brontolare
la pancia.
-Che
cosa succede? -, sorrise, pettinandosi la treccia quando ci vide tutti
sulla
soglia. –Avete una tale faccia -.
Fobos
non disse nulla, ma si diresse a grandi passi verso il divano. Vi
sprofondò con
un tonfo sordo e si accese l’ennesima sigaretta. Era chiaro
che stesse
meditando su cosa dire, su che parte del fascicolo soffermarsi.
-Abbiamo
scoperto un po’ di cose da quella merda…-,
cominciò aspirando il fumo fino a
far incendiare la punta della sigaretta. –A partire dal fatto
che in qualche
modo io ed Astreya siamo collegati-.
Fobos
raccontò brevemente la storia del Deadly Child e tutte le
congetture che ci
avevano spinti ad intraprendere il nostro viaggio nel Sandpit. Poi
verso la
fine, aggiunse qualcosa di suo, qualcosa che nemmeno io sapevo.
-Ora
il punto della questione è: cosa facciamo? A mio avviso le
strade sono due.
Possiamo cercare K, il dottore del fascicolo, oppure possiamo cercare
Prometheo-.
Eracleo
ingollò una buona dose di caffè, poi si sporse
verso di me.
-Tu
cosa ne pensi, Astreya? -.
Io
non pensavo. Non avevo idea di qualche fossa la scelta migliore, ma
sapevo che
dovevo fare i conti con le intenzioni di Ysmen. In fondo con i Figli
del Vento
avevo contratto un Debito e non potevo andarmene senza sapere cosa loro
intendessero farmi fare ora che il mio armadio si era riempito di
scheletri.
-Io
credo che dovremmo prendere in considerazione anche quello che i
Diarchi hanno
pensato per me. Ora che so che il nostro arrivo al Sandpit non
è stato casuale,
devo saperne di più. Devo capire cosa sta succedendo al
Vallum, che cosa vuole
dire essere un DC, ma soprattutto devo comprendere chi ha tentato di
farmi
saltare in aria sotto la breccia-.
Il
mio monologo colpì i presenti come una sferzata di vento sul
costone di un
promontorio. Persino Fobos era sorpreso dalle mie parole: mi ero
dimenticata di
non aver raccontato a nessuno dell’uomo che mi aveva quasi
ammazzata nel
sottosuolo.
Spiegai,
quindi, rapidamente cosa era accaduto e mi accorsi che
l’espressione dei
presenti si era fatta seria, quasi impaurita.
-Non
è sicuro per te andare in giro a cercare indizi. Potrebbero
tentare nuovamente
di ucciderti-, disse Eracleo, passandosi una mano fra i capelli e
sospirando. –
In fondo non sappiamo ancora cosa voglia da te la setta. Forse sarebbe
il caso
di incontrare Prometheo prima di procedere oltre-.
Fobos
si mosse appena sulla sedia, allargando le gambe e appoggiandovi sopra
i gomiti
spigolosi.
-Non
credo che entrare nella tana dei Figli del Vento sia così
“sicuro”, Caporale-.
Eracleo
fissò intensamente Fobos, sollevando il sopracciglio e
ingobbendosi. Sembrava
che tra quei due fosse in corso una sorta di guerra fredda. Aracne
interruppe
il filamento elettrico che li collegava versando a entrambi la seconda
dose di
caffè nero.
-E
allora cosa proponi, Fobos? Rimanere qui ed aspettare che
l’Esercito ci trovi?
-.
Fobos
si alzò e fece qualche passo per la stanza, meditando su una
soluzione. Lo
guardai attentamente per cercare di sondare le sue emozioni, ma a parte
un
alone di frustrazione, la sua aurea brillava tranquilla. Fobos stava
calcolando
le nostre future mosse con la dovizia e la serietà di un
vero Generale. Perciò sapevo
che avrei potuto fidarmi ciecamente del piano che la sua mente avrebbe
partorito.
-Vorrei
solo intervenire riguardo un punto…-.
La
voce flebile, ma decisa di Aracne squarciò l’aria
come il fendente di una
katana, attirando la mia attenzione quanto quella
dell’Ibrido, il quale con un
gesto secco ruotò gli occhi in direzione della donna.
-Hai
qualche idea? -, chiese gentilmente Eracleo, mentre il caffè
gli fumava davanti
agli occhi, annebbiandolo.
Aracne
scosse la testa e mi guardò intensamente. Non avevo mai
visto i suoi occhi
assumere una tonalità così scura di blu.
-Prima
di entrare in Accademia io ed Astreya abbiamo violato le leggi del
Tempio e
nella sala della Tessitura ho …-.
La
bloccai immediatamente.
-Quello
non è niente di importante… Sorvoliamo-.
Non
volevo che parlasse della Tela di fronte a Fobos. Ora che era chiaro il
legame
che ci univa, la forma umana che avevo visto emergere dalla trama
ordita da
Aracne aveva assunto una precisa identità. Il ricamo che la
Tessitrice aveva creato
di fronte ai miei occhi era rimasto senza volto perché io
ancora non avevo
conosciuto Fobos. Ma ora che ci pensavo seriamente, quale altro umano
avrebbe
potuto emergere dalle tenebre ricoperto di sangue e con i lunghi
capelli neri
al vento? La verità mi brillava davanti agli occhi, ma solo
ora, con il
fascicolo fra le mani, ero riuscita ad accettare l’idea che
il mostro assassino
della visione di Aracne fosse l’uomo che avevo innanzi. E,
pertanto, meno Fobos
sapeva, meno avrei dovuto coinvolgerlo nella mia vita. Così
facendo, forse gli
avrei risparmiato lo strazio di diventare un mostro alle mie
dipendenze.
Per
quanto riguardava me, invece, non sapevo esattamente cosa aspettarmi.
Per il
momento ero in grado di gestirmi tranquillamente, ma il futuro
è imprevedibile
e non sapevo ancora cosa dovermi aspettare.
-Se
Aracne desidera parlare, dovrebbe essere libera di farlo-, mi
fulminò Fobos con
un’espressione sospettosa. Mi voltai verso Aracne e
assecondando Fobos le feci
cenno di parlare: sapevo che non mi avrebbe tradita e che avrebbe
addirittura
mentito per me.
Lei,
infatti, mi indirizzò uno sguardo complice e timidamente
disse: - No, niente.
Nella Tela abbiamo visto che qualcosa sta cambiando. Un paesaggio
turbolento e
una guerra in vista. Suggerivo solamente di considerare la
possibilità che le
nostre azioni portino a una guerra. Le decisioni andranno pertanto
prese con
grande cautela-.
Fobos
era palesemente insoddisfatto dalla risposta che aveva ottenuto, ma in
ogni
caso non disse niente e tornò a riflettere.
Inspirò altro fumo e ingollò del
caffè, socchiudendo gli occhi per visualizzare meglio il
piano che lentamente
andava delineandosi nella sua mente.
-Forse
sarebbe il caso di dividerci. Io ed Astreya potremmo consultare i
Diarchi e
cercare di capire se ciò che ci chiederanno di fare sia
fattibile o meno.
Mentre voi potreste recarvi al Sanitarium di “Sora
Hera” e chiedere di K. La
presenza di una Custode dovrebbe intenerire le guardie-.
Eracleo
sgranò gli occhi e si alzò di scatto, gettando
malamente la chicchera sul suo
piattino.
-Sei
impazzito? Siamo ricercati a Carthagyos! Non voglio ritrovarmi di nuovo
in quel
focolaio-, sbottò avvicinandosi a grandi passi a Fobos e
prendendogli il
colletto della camicia. L’Ibrido si lasciò fare,
dimostrando tutta l’apatia di
cui era capace.
-Preferisci
che ci vada Astreya? Con la taglia che pende sulla sua testa non
sopravvivrebbe
nemmeno due ore in pieno centro. Tu devi essere completamente matto-.
Mi
alzai anche io e, scocciata, mi avvicinai ai due contendenti. Non solo
odiavo i
litigi, ma odiavo particolarmente il modo in quei due si piccavano. Lo
trovavo
davvero stupido in un momento come quello, oltre che completamente
inutile.
Afferrai,
quindi, la mano di Eracleo e con forza gli scollai le dita. Lo
allontanai con
uno spintone, poi tolsi la sigaretta di bocca a Fobos e gliela spensi
con
rabbia nel caffè.
-Non
so dove pensiate di essere, ma questo non è un salotto da
tè. Qui stiamo
discutendo della nostra vita o della nostra morte. E’
evidente che né io né
Fobos possiamo tornare a Carthagyos, tuttavia Aracne ha ancora il
diritto d’asilo
nel Tempio. Se tornasse sotto la protezione di Sorella Dyana potremmo
affidare
a lei le ricerche sul dottor K. Basterebbe far credere che è
stata rapita da
Eracleo, ma che è riuscita a scappare-.
Fobos
sorrise, compiaciuto dal mio acume. Poi continuò per me.
-Sì,
in questo modo noi tre potremo proseguire indisturbati e occuparci del
resto.
La trovo una buona idea…-.
Guardai
Eracleo per capire se anche lui fosse d’accordo, ma sul suo
volto vedevo
soltanto un’ombra, una sorta di colla oleosa che corroborava
l’alone di feroce
rancore della sua aurea. Perché fosse così
arrabbiato non riuscivo a capirlo.
-Beh,
io non sono d’accordo. Credo che voi due non dobbiate
viaggiare assieme.
Riflettete, se veramente Fobos è il tuo timer, Astreya,
sarebbe saggio
affiancarsi a lui per più del tempo strettamente necessario?
Io penso che Fobos
debba consegnarsi all’Esercito, così da essere
imprigionato e isolato. Solo
così tu sarai libera di portare a termine la tua indagine.
Non voglio che a
causa della testardaggine di un Generale tu metta a repentaglio la tua
stessa
esistenza-.
Guardai
Eracleo con serietà. Per me era inaccettabile mandare Fobos
al patibolo, ma
almeno finsi di scandagliare anche la sua proposta. L’Ibrido
dal canto suo
rimase immobile massaggiandosi la base del naso, infastidito. Cercava
di
resistere alla tentazione di prendere per il collo il Caporale, ma non
gli
stava riuscendo. Infatti, non molti secondi dopo, scattò in
avanti e gettò la
tazzina nel lavabo, fissando il liquido scuro che vorticava nello
scarico come
fosse sangue.
-E
tu pensi davvero di poterla proteggere come farei io? -,
sibilò poi, puntando
su Eracleo uno sguardo che non avevo mai visto in vita mia. Era
esplosivo e
rabbioso. Non c’era altro nei suoi occhi se non traboccante
violenza. Ebbi
improvvisamente paura e indietreggiai.
-Io
sono un soldato tanto quanto te-, mormorò Eracleo,
più remissivo di quanto mi
aspettassi. Stava studiando Fobos come un domatore il leone. Sapeva che
stava
per esplodere e che lo stava provocando, ma non sembrava intenzionato a
ritirarsi
dal conflitto.
-
Bene, allora. Se ne sei convinto, lascerò che sia Astreya a
scegliere-.
Voltò
le iridi nella mia direzione e con nonchalance mi fece gesto di
prendere la mia
scelta. Probabilmente sapevano entrambi che avrei scelto Fobos, ma
negli occhi
del Caporale leggevo la speranza. Non volevo deluderlo, ma ero convinta
che il
cammino che io e l’Ibrido avevamo intrapreso dovesse essere
un cammino
solitario. Chiunque ci avesse seguito avrebbe rischiato la vita, e io
non
volevo assolutamente prendermene la responsabilità. Ripensai
alla donna cui
avevo regalato un girasole e mi ritrovai a meditare sulla possibile
dipartita
di Eracleo o Aracne: era insostenibile per me pensare di essere la
causa della
morte di altre persone.
-Fobos
ha ragione-, mormorai. – Credo che tu, Eracleo, dovresti
tornare al Vallum e
scoprire qualcosa in più sui ribelli. Sappiamo che Deimos
potrebbe essere
coinvolto nella disattivazione dei Molossi, quindi potresti cominciare
la tua
ricerca da lì-.
Fobos,
ancora in piedi di fronte al lavabo, annuì appena, mentre
Eracleo inghiottì a
vuoto.
-Volete
tagliarmi fuori?! -, sbottò, perdendo totalmente la
compostezza che lo
caratterizzava.
-Non
è questo, Eracleo-, gli spiegai prontamente o almeno ci
provai. – Si tratta
della vostra sicurezza e poi saperti accanto ad Aracne per parte del
viaggio di
ritorno, mi darebbe la forza di riuscire a lasciarla-.
Il
volto di Eracleo si oscurò e i suoi occhi virarono sul
sorriso che increspava
appena le labbra dell’Ibrido. Non so perché Fobos
trovasse divertente quella
scena, ma io ero più che tesa. Sentivo che stavo tradendo la
mia amicizia con
Eracleo per allontanarmi assieme ad un uomo che potenzialmente era la
mia
miccia. Non credevo che quella fosse la scelta giusta, ma
l’unica possibile.
-Allora
è deciso, Caporale-, disse Fobos appoggiandosi con la
schiena al muro. –
Proseguiremo io e Astreya e vi terremo informati se sarà il
caso-.
Eracleo
avanzò deciso, fronteggiando la montagna d’uomo
che aveva innanzi. Sia io che
Aracne cominciammo a sudare freddo perché nonostante Fobos
ora stesse guarendo,
era ancora emotivamente instabile.
-
Se sarà il caso? Stai spingendo Astreya in un vicolo cieco,
esponendola a
rischi enormi-, sbottò afferrandogli con rabbia la camicia.
L’Ibrido lo fissò
con tale astio che percepii la pelle di Eracleo sciogliersi sotto
l’acidità di
quegli occhi alcalini.
-
Senti, microcefalo, nessuno ha chiesto la tua opinione. Ci sei capitato
tra
capo e collo per caso, quindi per favore non crearci altri problemi-.
Afferrò
la pistola che gli pendeva al fianco e la puntò al centro
della fronte di
Eracleo. L’indice tentennava sul grilletto, mentre il suo
braccio si tendeva
fino a spingere il foro circolare dell’arma nella carne del
Caporale. Aracne
strillò quando vide lo sguardo di Fobos indurirsi e il suo
busto protendersi in
avanti. Anche io mi
spaventai e l’unica
cosa che riuscii a fare fu appendermi al braccio di Fobos prima che
compisse
l’ennesimo folle gesto.
E
adesso questa che cazzo vuole? I
suoi pensieri mi raggiunsero con la violenza di un uragano,
implodendomi nella
testa con un ronzio metallico. Non so se si fosse accorto che ero
nuovamente
entrata nella sua testa senza permesso, ma intento come era a
minacciare di
morte il compagno, probabilmente non ci aveva fatto caso.
-Fobos,
piantala. Non vale la pena litigare, non in questo momento. Eracleo, tu
non
mettere in discussione le mie scelte. Ho appoggiato io stessa la
proposta di
Fobos, quindi non recriminargli nulla-.
Eracleo
sgranò gli occhi, solitamente così pacati e
allegri. L’espressione che il suo
volto assunse fu simile a quella di una cocente sconfitta e le mani si
mossero
da sole. Allontanò la pistola dalla sua fronte e, facendosi
sotto come Davide
contro Golia nella nota favola, afferrò il bavero della
camicia di Fobos. Il
ragazzo, dall’alto dei suoi due metri, resistette alla
tentazione di colpirlo.
Gli afferrò le dita e le fece scricchiolare nella ferrea
morsa delle sue.
-Cosa
le hai fatto? L’hai trasformata in una…in una cosa
come te! -, urlò, facendomi
accapponare la pelle. Non avevo mai visto Eracleo così
arrabbiato, né Fobos
così tremendamente calmo.
-
Senti imbecille, mi hai già stancato. So che non ti piaccio,
e ti assicuro che
la cosa è reciproca, ma non è colpa mia se non
riesci a ragionare. Ti stai
facendo guidare dalle parti basse-, sibilò Fobos
afferrandogli i capelli e
costringendolo a guardare me, rimasta al fianco dell’Ibrido
per tutto il tempo.
Vidi la vergogna e l’imbarazzo farsi largo sul viso di
Eracleo, mentre le sue
iridi scure baluginavano riflettendo la luce della lampadina spoglia
che
illuminava il soggiorno. Un rossore intenso gli macchiò la
pelle bianca e lo
costrinse ad abbassare gli occhi, mordendosi rabbiosamente il labbro
inferiore.
Ero ammutolita e non sapevo che dire. Persino Aracne, che come paciere
era
sempre stata bravissima, non sapeva cosa fare e se ne restava
imbambolata al
tavolo con le mani aggrappate alla tovaglia di plastica bianca.
-Smettila,
Fobos-, mormorai, gli occhi sgranati e la mano ancora appoggiata sul
suo
avambraccio.
Sì,
come no! Davvero, tu mi dici di
smettere? Tu che nemmeno ti accorgi di uno che ti spoglia con gli occhi
e che
ti segue la gonnella come un cane in calore?! Che pena.
-Proprio
tu mi dici certe cose? -, udii dire al Caporale, in riferimento
all’insulto
indirizzatogli prima dal commilitone.
La
risata ironica e incattivita di Eracleo interruppe il flusso dei
pensieri di
Fobos, obbligandolo a voltarsi e fissare la sua ambra negli occhi
catramati di
Eracleo.
-Che
vuoi dire? -, tuonò il giovane, spingendo via
l’altro. Questi inciampò nei suoi
stessi piedi, frenando la caduta solo grazie al mobiletto della cucina
alle sue
spalle. Aveva lo sguardo ferito e oltraggiato, i palmi delle mani
premuti con
forza contro il ripiano. Non riusciva più nemmeno a
guardarmi negli occhi.
-Che
almeno io ho ancora potere sulle mie parti basse! -, gridò
mentre i suoi
lineamenti cambiavano e diventavano quasi grotteschi.
Non
potevo credere a ciò che aveva detto Eracleo, non potevo
pensare che la sua
persona, così dolce e disponibile, avesse osato riportare a
galla un segreto
così intimo e privato solo per vendetta.
Mi
voltai terrorizzata verso Fobos, chiedendomi quale sarebbe stata la sua
reazione, ora che la situazione era definitivamente precipitata.
L’Ibrido
schizzò avanti come una furia, caricando il compagno e
colpendolo con forza al
mento. Sentii un rumore di ossa spezzate e il gorgoglio del sangue
nella gola
del soldato. Feci per intervenire, ma non riuscii a staccare Fobos dal
ragazzo,
ormai ridotto a una maschera sanguinante.
-Dai,
ripetilo. Ripetilo se hai coraggio-, gli urlava l’Ibrido,
scagliando su di lui
una raffica di pugni.
Non
riuscivo ad avvicinarmi a quel groviglio di carne e capelli. Non
riuscivo più
nemmeno a distinguere chi fosse l’uno e chi fosse
l’altro. Riuscii solo ad
afferrare l’orlo della camicia bianca di Fobos che,
però, a causa di un nuovo
attacco del giovane, mi rimase in mano.
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Capitolo 31 *** Capitolo 30- Tensione ***
Capitolo
30
Balzai
di fronte a Fobos prima che decidesse di colpire nuovamente il
sottoposto a
terra, ancora rantolante, e con tutta la forza che possedevo lo
allontanai con
un pugno nello stomaco. Fobos non sentì alcun dolore, ma la
sorpresa lo fece
sbilanciare e arretrare di qualche passo. Rimasi ferma, in posizione di
guardia, certa che non fosse finita lì. Fissavo intensamente
la figura di
Fobos, cercando di percepire anche la più piccola intenzione
di movimento, ma
più lo guardavo più lui sembrava immobile.
Passò un’infinità di tempo
effettivamente
prima che sollevasse il capo e mi guardasse.
C’erano
sorpresa e delusione affogate nei due pozzi catramati che erano i suoi
occhi,
ma fu il sentimento che colorava la sua aura a farmi cedere e lasciare
la
posizione di guardia. Tradimento.
Non
volevo affrontare Fobos, non in quello stato d’animo. Per
cui, mentre Aracne
soccorreva il povero Eracleo, io mi defilai e abbandonai
l’appartamento temendo
una possibile reazione dell’Ibrido. Non avrebbe mai capito
che non amavo
Eracleo e che avevo agito solo per evitare un disastro annunciato, in
nome di
una semplice amicizia. Imprecai, scansando un Mauriano e schizzando
via, in
corridoio. Maledissi
Fobos e la sua
possessività; mi ero ormai convinta che fosse un uomo
pericoloso, eppure,
mentre fuggivo arrancando per i corridoi della palazzina, non riuscivo
a
togliermi dalla testa il suo sguardo ferito e il colore arrossato delle
nocche
della sua mano.
-Dove
cazzo è, quella stronza…-.
La sua voce
risultò quasi un grido, rimbalzata
dalle pareti in una eco infinita di cori. Non appena giunse alle mie
orecchie,
quasi mi ribaltai e dovetti concentrarmi per non darmi ad una fuga
selvaggia.
Scivolai giù, quasi a terra, certa che se mi fossi fatta
piccola piccola, quel
gigante cattivo non mi avrebbe scovata. Ma si sa, le cose che si vedono
nei
film o nei cartoni non sono mai ciò che poi succede nella
realtà, per cui non
feci tempo nemmeno a nutrire una magra speranza che una mano dalle dita
lunghe
e bianche mi afferrò per i passanti dei pantaloni e mi fece
stramazzare a
terra. Accusai il colpo trattenendo il fiato e chiusi gli occhi appena
prima
che una lacrima mi sfuggisse fra le ciglia. Poi Fobos mi fece rialzare
e senza
alcuna esitazione mi trascinò di peso fuori
dall’edificio. Chiesi aiuto agli
spettatori di quell’incredibile scena, ma nessuno di loro
allungò una mano per
trattenermi, certi che Fobos non fosse tipo cui era il caso di opporsi.
Mi
bastò, infatti, fissare la scia di gomma nera lasciata dai
miei stivali sul
pavimento scadente del corridoio per rendermi conto di quanto debole
fossi e
quanto inutile sarebbe stato qualsiasi tentativo di sfuggire alla presa
ferrea
di un Ibrido. Così rilassai i muscoli e mi arresi, lasciando
che Fobos mi
conducesse di fronte al mio giudice supremo: il Destino. I presenti si
limitarono quindi a fissarmi per tutto il tragitto che mi
portò, urlante e
scalciante, fuori dalla struttura.
-Sei
impazzito?!-, gridai, quando mi lanciò sul pavimento.
-Mi
hai rotto! -, urlò di rimando lui, avvicinandosi lentamente.
– Quando tutta
questa storia sarà finita mi rinchiuderanno in Sanitarium
per colpa vostra-.
-Avrebbero
già dovuto farlo da tempo-, lo rimbeccai, ma il giovane mi
ignorò
completamente, oltrepassandomi con un’unica falcata.
-Fobos!
-, strillai, puntando i piedi in mezzo alla stanza. -Fobos! -.
-Che
c’è! -, strillò lui di rimando,
girandosi con uno strano ringhio sul volto.
Aveva i pugni stretti e una goccia di sudore gli scivolava lungo il
collo.
-Perché
lo hai fatto?! Non ce n’era bisogno-.
-Mi
hai tradito! -, gridò lui, la furia incontrollata che si
disperdeva in scariche
elettriche lungo tutto il suo corpo.
Avanzai
decisa, prendendo la rincorsa, e quando lo raggiunsi lo schiaffeggiai
con
forza. Doveva rientrare in sé stesso.
-Smettila!
Non ti ho tradito! Volevo solo fermarvi! –
Le
pupille di Fobos si restrinsero, cercando di capire se ciò
che stavo dicendo
era la verità. Rimanemmo in piedi, l’uno di fronte
all’altra, per un tempo che
mi parve infinito, studiandoci.
-
Non ti ho tradito. Sono in Debito con te-, ammisi, certa che
ricordargli del
Debito lo avrebbe calmato. Ma Fobos, al contrario, ne parve turbato.
Era come
se tutte le sue sicurezze e la sua algida freddezza fossero crollate
come un
castello di sabbia.
Arricciò
il naso e, lentamente, mi raggiunse. Sollevai il mento per riuscire a
guardarlo
negli occhi. Da lui emanava un calore disumano, cocente come le fiamme
degli
Inferi.
-
Tu non vuoi capire, Astreya-, mi disse, con la voce incrinata dalla
rabbia che
lentamente scemava in tristezza.
-
Che il Debito si fotta. Tu non hai più bisogno di me: ti ho
insegnato tutto ciò
che sapevo-, aggiunse, con un mezzo sorriso. Mi carezzò
fugacemente i capelli e
poi fece per andarsene.
Sentii
un sapore amaro in bocca e, mentre lo osservavo uscire dalla mia vita,
qualcosa
si bloccò a livello del mio stomaco. Un peso così
opprimente da impedirmi
persino di deglutire. Tutto il mio corpo si ribellò alla
decisione di Fobos, e
il mio cuore finalmente esplose. Non me ne ero mai resa conto. Non mi
ero mai
accorta di quanto fossi diventata fredda e cinica nel corso degli anni.
Dove
era stato il mio cuore per tutto questo tempo? Mi ero dimenticata
quanto
facesse male essere abbandonati, lasciati indietro a dire addio a una
schiena
senza volto. Lacrime di frustrazione mi salirono alle ciglia, facendole
risplendere come madreperle.
-
Dove pensi di andare! -, urlai, imponendo ai miei piedi di muoversi.
-
Ma si può sapere cosa diavolo vuoi da me? -,
borbottò Fobos, quando lo
raggiunsi e mi appesi ai passanti dei suoi pantaloni nel disperato
tentativo di
bloccarlo. Puntai cocciutamente i piedi a terra, costringendolo a
trascinarmi
di peso sulla ghiaia. Una
cortina di polvere si sollevò da sotto i miei anfibi, mentre
con le nocche
strette attorno alla stoffa della sua divisa, tiravo con tutta la forza
che
avevo. Alla fine, esausto, Fobos si fermò massaggiandosi la
base del naso. Era
ancora arrabbiato, ma almeno non mi stava più urlando
contro. - Non puoi
sparire dalla mia vita così! -, gli urlai in faccia,
sorprendendolo. Lo
afferrai per i capelli e lo costrinsi a guardarmi negli occhi.
-Non
voglio più vederti. Levati dalla mia vista-,
sputò fuori lui, mentre la sua
aurea lentamente sanguinava lucide lacrime nere.
-
Perché?!-, lo implorai e la mia voce di spezzò a
metà, rimanendo bloccata in
gola. Le lacrime cominciarono a scorrere lente sulle mie guance di
fronte allo sguardo
impietoso di Fobos.
-Perché?
-, mi riprese lui, guardando attraverso di me nel tentativo di ignorare
il mio
pianto.
-Perché
mi fai soffrire. Non riesco a pensare, non riesco a mangiare. Devo
seguirti
ovunque per evitare che tu corra fra le braccia di qualcun altro. Ho
sempre
cercato di proteggerti e tu non l’hai mai capito. Forse
l’ho fatto con i modi
sbagliati, d’accordo, ma volevo che tu diventassi un soldato
e una donna
abbastanza forte da potermi stare accanto-.
Caddi
sulle ginocchia, tremando di paura.
-Ti
prego-, lo implorai mentre le lacrime deflagravano come piccole bombe
sulle mie
mani sporche di sabbia e ghiaia. – Non mi lasciare. Non anche
tu-.
Sentii
Fobos contrarsi e i suoi stivali premere nervosi sul suolo. Si
inginocchiò di
fronte a me e mi sollevò i capelli quel tanto che bastava
per osservare il mio
volto consumato dal dolore e dalla paura.
-Non
posso continuare a inseguirti, Astreya. Ho un cuore anche io-.
I
miei occhi divennero enormi e le mie labbra si schiusero per la
sorpresa. Fobos
abbassò lo sguardo, imbarazzato. Non avrei mai immaginato
che quella bocca
blasfema e tagliente potesse pronunciare delle simili parole.
-Che
vuoi dire? –.
- Che ti amo-.
Rimasi
completamente di sasso, con il cuore che batteva così veloce
che avrebbe potuto
esplodere da un momento all’altro. Sentivo il desiderio di
piangere, di
prenderlo a pugni e di ridere selvaggiamente, tutto assieme. I miei
occhi si
spostavano senza posa su tutto il suo viso, così serio e
tetro da rendermi
difficile resistere alla tentazione di ricoprirlo di baci. E le mie
mani
prudevano dal desiderio di afferrarlo e attirarlo a me.
-Adesso
che lo sai, puoi anche girare i tacchi-, commentò, apatico.
-
Anche io mi sono innamorata di te-.
Silenzio. Il
sole dietro
alle mie spalle mi scottava la pelle nuda e il vento ululava tetro
annodandomi
i capelli.
-Dimmi
qualcosa-. Il suo silenzio mi stava uccidendo. Fobos pareva bloccato e
solo
dopo degli interminabili minuti riuscì a parlare.
-Stavolta
ti chiederò il permesso. Posso baciarti? -, mi
domandò, una luce di desiderio
malcelato negli occhi. Non mi stava guardando in maniera diversa dal
solito. I
suoi occhi erano sempre imperscrutabili, oscuri e sbagliati, ma era
ciò che vi
vedevo dentro ad essere decisamente cambiato. Quelle macchie nere e
appiccicose
affogate nell’iride, vestigia di un doloroso cammino di
redenzione, avevano
lasciato posto a una disperata richiesta di amore.
Mi
allungai istintivamente verso di lui e lasciai che le punte dei nostri
nasi si
sfiorassero in una dolce carezza. Gli occhi di Fobos ebbero un guizzo
di
sorpresa che, seppur breve e fugace, riuscii a cogliere in tutta la sua
bellezza.
-Devi
scegliere me-, mormorò poi, aggrottando le sopracciglia e
stringendomi con
eccessiva forza il polso. Temeva che me ne sarei andata? Che sarebbe
nuovamente
rimasto solo?
-
L’ho già fatto…-, risposi scostandogli
una ciocca di capelli scuri dagli occhi.
Il suo viso, nonostante le contaminazioni della magia, o forse proprio
grazie a
quelle, era di una bellezza disarmante. Sembrava un lupo con quegli
occhi dal
taglio affilato e quelle lucenti zanne che già in precedenza
avevano divorato
le mie labbra. Gli sorrisi, sentendomi catturata da
quell’uomo più che mai. Per
me Fobos era come la nebbia, tanto misteriosa e avvolgente, quanto
illusoria e
impalpabile. Non volevo essere ferita e perdermi nei suoi meandri,
eppure non
sembravo desiderare altro.
-
Sei ancora in tempo per ripensarci-, ringhiò, spaventato
dall’eventualità che
accettassi di gettarmi fra le braccia di Eracleo solo per convenienza.
Non
riusciva ancora a capirmi. Eravamo totalmente incomprensibili
l’uno agli occhi
dell’altra e la maggior parte delle volte fra di noi scorreva
un’alta carica di
odio, pericolosa come un corto circuito. Eppure eravamo così
diversi da tutti gli
altri da riuscire anche ad amarci in qualche modo.
-Non
cambierò idea-.
Fobos
si stese verso di me e con un sospiro mi diede un lieve bacio. Fu
delicato e
ruvido, ma anche così dolce che sentii immediatamente la
mancanza delle sue
labbra quando si scostò per osservare la mia reazione. Vide
che i miei occhi
rispecchiavano il suo desiderio, che le mie dita temporeggiavano sul
suo viso e
che il mio volto era arrossito. Vide tutte le debolezze che avevo
cercato di
nascondere e tutto il malessere che covava dentro si sciolse come
ghiaccio al
sole. Era quello
che principalmente
riuscivamo a fare: cancellavamo il dolore e le sofferenze
dell’altro, dandoci
affetto senza averne mai ricevuto e senza che qualcuno ci avesse mai
insegnato
come fare. Avevamo un nostro equilibrio.
Puntellandosi
sui talloni, Fobos spostò improvvisamente il suo peso in
avanti, cingendomi con
le braccia e facendomi quasi cadere a terra. Mi strinse così
forte che quasi mi
soffocò. Non voleva che gli sfuggissi di nuovo, non dopo che
aveva fatto tanta
fatica a rimuovere il catrame che per anni gli aveva immobilizzato il
cuore e
congelato i sentimenti. Gli accarezzai il capo, perdendomi nella
morbidezza e
lucentezza dei suoi capelli.
-Astreya…-,
mi chiamò lui, quando la mia mano passò a
sfiorare il suo viso. La mia pelle
avvampò laddove la sua voce mi raggiunse con il suo calore e
biascicai parole
senza senso. – …Da adesso sei mia-.
Quando
partimmo a salutarci vennero soltanto Aracne e Sigma-x, oltre
naturalmente ai
due Diarchi. Eracleo preferì non venire, non dopo che il suo
viso era stato
maciullato da uno scatto d’ira di Fobos. Non potevo
biasimarlo e anzi mi
sentivo in colpa: in fondo non mi ero ancora scusata con lui per aver
scelto di
seguire l’Ibrido, ma ormai era tardi per rimuginare. I
Diarchi, infatti,
avevano approvato la nostra idea di raggiungere i Figli del Vento,
incontrare
di persona Prometheo e capire che piani avesse in mente per noi. In
particolare
Chastor si era offerto di guidarci, mettendoci a disposizione una jeep
nuova di
zecca e all’ultimo grido della tecnologia, oltre ad un ben
nutrito numero di
armi e munizioni. Sembrava
eccitato
all’idea di conoscere il suo capo dopo tutti gli anni di
servizio, talmente
contento da apparire quasi un esaltato.
-Non
vedo l’ora di partire-, disse, asciugandosi il sudore dalla
fronte e dando un
calcio all’enorme ruota del fuoristrada. Era ricoperto di
sabbia e polvere e i
muscoli delle braccia brillavano sotto ai forti e caldi raggi di sole.
-
Mai vista una persona più felice di te…-,
mugugnò, invece, Fobos, che per
qualche motivo si era risvegliato con un potente raffreddore.
Soffiò il naso
imprecando e montò sulla macchina dal lato del guidatore.
-Ehi,
quello è il mio posto! -, si lamentò Chastor, ma
dopo un’occhiataccia da parte
dell’Ibrido, si arrese all’evidenza e si
rassegnò ad essere il navigatore del
nostro trio.
Io
caricai le poche cose che avevo nel retro del veicolo, accomodandomi
sulla
panca in freddo acciaio e rimuginando su tutto ciò che era
accaduto fino a quel
momento. Mi trovavo in una sorta di tempesta emotiva dopo la notte
appena
trascorsa. Viaggiavo tra sentimenti di affetto e turbamento per la
dichiarazione che Fobos mi aveva dedicato, ma al contempo ero
preoccupata e
angosciata. Ero, infatti, convinta di aver fatto una pessima scelta
nell’avvicinare ulteriormente il Generale; era come se in
qualche modo fosse
davvero scattato un timer in me, e più Fobos mi stava
accanto, più mi sentivo
in obbligo di proteggerlo, da me stessa o dagli altri ancora non lo
sapevo.
-Piccola,
stai attenta là fuori…-, mi appellò
Ysmen facendo capolino dal retro della jeep
e aiutando Aracne a issarsi sul cassone assieme a me.
-E
fai buon viaggio…-, mi augurò la Custode con le
lacrime agli occhi. Sembrava
stessi per partire per la guerra, e invece stavo solo andando a trovare
colui
che conosceva la mia Natura più di chiunque altro.
-
Sono certa che Prometheo saprà svelare tutta la nebbia che
ti avvolge. Noi
abbiamo fatto il possibile e, sapendoti ora alleata dei Mauriani, non
possiamo
fare altro che sostenerti e fornirti tutto l’aiuto
possibile…-, soggiunse
Ysmen, allungandomi uno strano orologio. Lo guardai perplessa e feci
per
metterlo nello zaino. Tuttavia la Diarca mi afferrò il polso
prima che potessi
anche solo muovere il mignolo e mi fissò intensamente negli
occhi.
-Quello
non è un orologio. E’ un Pigeon, un sistema di
comunicazione criptato che ti
permetterà di intercettare soltanto la linea dei Mauriani e
dei Gyps. La
Custode e l’altro soldato ci invieranno dei messaggi tramite
questi gioiellini
e noi li rimanderemo a voi, così da tenervi aggiornati sulla
guerra in corso-.
-Guerra?
-, domandai corrucciata, mentre Fobos mi passava accanto ricoperto di
armi. Sospirò
e appoggiò tutto quanto nel cassone, accanto a me.
-Stanotte
il Reggimento dei Ruggenti ha assaltato il Reggimento del
Sole…-, ringhiò
quasi, rivelando informazioni che probabilmente riteneva fonte di
vergogna. I
Ruggenti in fin dei conti erano il suo Reggimento e lui si reputava
ancora un
soldato a tutti gli effetti.
-Perché?!-,
domandai stupefatta.
-Non
lo sappiamo-.
Era
la voce di Eracleo. Sollevai lo sguardo di scatto e la sua figura
comparve nel
mio campo visivo, gli occhi gonfi e un taglio appena ricucito attorno
al naso.
Fobos non lo salutò minimamente, ancora ferito dalle sue
parole, e con rabbia
si appoggiò a braccia conserte contro il bollente ferro
della jeep. Il Caporale
non ci fece minimamente caso e avanzò zoppicante verso di me.
-Sembra
che l’Accademia stia davvero tramando qualcosa, alla fine.
Sono giunte poche
notizie, ma quelle che ho potuto intercettare le ho subito rivelate ai
Diarchi.
Ho pochi rudimenti nel campo dei Segugi, ma ho dei buoni amici che,
come me,
vorrebbero disertare, hanno solo troppa paura delle conseguenze. Stanno
conducendo strane ricerche nei laboratori dei Biotecnici. Galeno ormai
è
fuorigioco e il nuovo allenatore del Reggimento non è
bendisposto verso il
Governo attuale, né verso i ribelli-.
Fobos
interruppe il suo discorso con un’alzata di mano. Eracleo lo
guardò apatico,
poggiandosi alla spalla di Aracne per non pesare troppo sulla gamba
malandata.
-Che
tipo di ricerche? -.
-Armi
di distruzione di massa, di carattere biologico. Galeno sospettava da
tempo che
Cronyos stesse finanziando delle simili ricerche, per questo ho cercato
di far
desistere Astreya dall’invischiarsi con quel gruppo.
Tuttavia, forse adesso,
con le conoscenze che hai conseguito…-, ammise, virando lo
sguardo su di me.
Nonostante tutto vi lessi ancora una profonda ammirazione. -
… potremmo
avanzare una controffensiva. I miei uomini stanno cercando di capire
cosa stia
esattamente progettando Cronyos. Tornerò per dare loro una
mano, in segreto, e
appena saprò che programmi ci sono, manderò un
report-.
Fobos
lo squadrò qualche secondo dall’alto al basso,
accendendosi una sigaretta e
aspirandone profondamente il fumo. Lo soffiò fuori con uno
sbuffo, poi si
avvicinò al commilitone.
-Evapora.
Hai un compito adesso. Vedi di non deludermi-, gli disse rabbioso, ma
negli
occhi di Eracleo vidi una scintilla che prima di allora non avevo
nemmeno
minimamente scorto. Non seppi cosa fosse finchè, a viaggio
intrapreso, non
trovai il coraggio di domandarlo direttamente all’Ibrido.
Eravamo seduti
attorno un bivacco, con le armi in mano e le orecchie tese. Il Deserto
era
ancora tutto attorno a noi e il vento soffiava lento fra i nostri
capelli.
Chastor dormiva tranquillo, steso sulle panche della jeep mentre io e
Fobos
montavamo di Guardia. Era già passata una settimana da
quando eravamo partiti.
-
Eracleo se la starà cavando bene? -, buttai lì,
incerta.
Fobos
sollevò lo sguardo al cielo studiando il lento luccicare
delle stelle.
-Che
cosa te ne frega? -.
-Ne
va della nostra missione. E poi non nego di essere in pena per lui.
Alla fine è
comunque un mio caro amico-, mormorai, certa di scatenare la furia di
Fobos.
Lui, invece, si mostrò più paziente del previsto.
-
Eracleo e io ci conosciamo da lungo tempo ormai. E’ un uomo
debole e ipocrita,
sempre con quel falso sorriso sulle labbra. E’ stato con me
alla base di Cypris
per qualche anno, ma poi non ha retto la pressione e se ne è
andato…-, cominciò
allungandomi una borraccia di Oruktà. Ne ingollai un
po’ avidamente e subito le
ombre che mi danzavano attorno svanirono in ondeggianti spirali.
-
… Però proprio grazie alla sua doppia faccia, se
la caverà. Ho sempre pensato
che avrebbe scelto i Segugi viste le sue doti, ma probabilmente per lui
era un
po’ troppo-.
-
Perché lo hai incoraggiato prima di partire? Non me
l’aspettavo-.
-Prima
che uomo, Astreya, io sono Generale. Ed Eracleo è un mio
soldato. Devo
proteggerlo anche se lo odio, anche se il solo guardarlo mi fa
vomitare. Lui è
una mia responsabilità come lo sono tutti gli altri soldati-.
La
maturità di Fobos mi sconvolse, a tal punto che volli sapere
di più, indagando
sul rapporto teso ed elettrico che fin da quando li avevo incontrati
scorreva
fra i due uomini.
-Siete
sempre stati nemici? -.
-Dobbiamo
proprio parlarne? -, sbuffò Fobos, appoggiandosi con i palmi
delle mani a
terra, mezzo sdraiato. Non risposi, ma l’Ibrido, dopo una
breve pausa di
silenzio, mi accontentò.
-
Eracleo è l’ultimo figlio di una famiglia molto
numerosa. I suoi lo hanno
cacciato a calci in culo quando ha compiuto dieci anni e lui
è finito a vivere
sotto i ponti. Durante una ronda di controllo del Reggimento degli
Ulivi, cui
sfortunatamente partecipavo anche io, Achileos trovò questo
ragazzetto
puzzolente che dormiva in un cassonetto dei rifiuti. Se ne
impietosì e se lo
portò in Accademia, spacciandolo per suo nipote e
integrandolo come nuova
matricola. L’ho conosciuto così.
All’inizio ci frequentavamo e lo allenavo io
stesso. Non mi fece domande sul perché un ragazzo
più o meno della sua stessa
età avesse l’autorità di istruirlo, ma
poi qualcuno gli spifferò qualcosa ed
Eracleo cominciò a cambiare. Mi disprezzava ogni giorno di
più e lo beccai più
volte a chiamarmi “mostro”. Non lo ressi
più e, come hai potuto vedere in una
delle mie visioni, lo attaccai brutalmente-.
Ripensai
al ragazzino biondo dei ricordi di Fobos e mi venne un colpo. Non avevo
riconosciuto il volto e la zazzera di capelli biondi di Eracleo forse
perché il
suo naso non era stato ancora modificato dalla nocche di Fobos o forse
perché
la sua voce era ancora immatura.
-Quando
tornò a Cypris, alcuni anni dopo, decidemmo semplicemente di
ignorarci, anche
perché io allora ero già Generale e lui un mio
subordinato. Fingemmo di non
esserci riconosciuti e andammo avanti. E’ stata dura per lui
abbassare la testa
di fronte a me, e per me è stata una tortura subire il suo
sguardo disgustato
ogni giorno, ma i miei doveri vengono prima di qualsiasi
cosa…-
Mi
dispiaceva sinceramente per Fobos, per quel ragazzino iroso che non
aveva
nessun amico al mondo e per l’uomo schivo e diffidente che
era diventato.
Eppure anche così, non potevo che essere felice del ragazzo
che ora avevo al
mio fianco.
-Dai,
vai un po’ a dormire. Ci penso io qui…-, gli dissi
allora, e Fobos pigramente
si sollevò da terra.
-Non
strafare-, mi disse semplicemente, passandomi una mano fra i capelli
scuri. Poi
se ne andò, lasciandomi sola a contemplare le fiamme
rossastre del nostro
piccolo bivacco.
La
mattina seguente fu Chastor a svegliarmi, con uno strattone decisamente
violento. Mi ridestai come da un lungo letargo con la mente ancora
annebbiata e
una strana sensazione appesa alla bocca dello stomaco. Nausea.
-Perché
ci stiamo già muovendo? -, domandai, rendendomi conto solo
in quel momento che
Fobos era già alla guida e che noi stavamo macinando
chilometri già da un po’.
Il paesaggio era completamente cambiato e al posto della distesa brulla
di
rocce e arbusti stecchiti, ci trovavamo innanzi a uno spettacolo
mozzafiato.
Una
vera oasi, con palme rigogliose e rivoli di acqua cristallina,
disegnava un
panorama quasi soprannaturale con un piccolo paese bianco latte
abbarbicato su
un promontorio. Sollevai lo sguardo quando vidi l’enorme
Tempio che sovrastava
la punta del precipizio, lì dove un’enorme e
scrociante cascata cadeva a rotta
di collo nel tormentato lago ai suoi piedi.
-Non
ditemi che siamo già arrivati! -, esclamai meravigliata,
balzando in piedi e
spingendo Chastor contro il finestrino per fiondarmi a guardare.
-Sì,
abbiamo deciso di accelerare così da arrivare prima del
mezzogiorno. Fobos
ritiene che un po’ di anticipo ti faccia capire cosa stiano
preparando
realmente i tuoi ospiti, si tratti di un banchetto o di una
fucilazione-.
Annuii,
mentre l’Ibrido parcheggiava poco distante dal primo
casolare. Non c’erano
recinzioni, guardie o cani, niente di niente. La vita lì
sembrava scorrere
tranquilla, vigilata a malapena dagli occhi vitrei delle Cavallette.
-Fischia!
Mi aspettavo una base militare con i contro cazzi e invece, guardate
qui-.
Fobos
spense il motore e, issandosi oltre il finestrino, osservò
la folla di persone
che stavano scivolando come un miasma nero dalle viuzze.
-Dicevi,
coglione?!-, esclamò, con un sorriso inquietante e aguzzo.
Era eccitato dal
fatto che ci stessero già aspettando e dalla
possibilità non troppo remota che,
vista la quantità di forze dispiegate, ci temessero
incredibilmente.
Chastor
afferrò le armi che ci eravamo portati. Scelse per
sé un fucile da cecchino,
per me un paio di pistole e a Fobos lanciò una katana e una
piccola mitraglia.
-Io
vado sul tettuccio a tenerli sotto mira-, annunciò issandosi
sulla jeep con un
movimento degno di un serpente. Io, invece, caricai le mie pistole con
tutta
calma. L’Astreya che temeva le armi e viveva al Tempio, non
c’era più.
-Non
credo vogliano farci fuori. Hanno fatto di tutto per farci arrivare
qui,
persino assumere quei disagiati dei Mauriani. Qui si tratta di una
guerra
fredda…-, mormorò Fobos, aprendo la portiera e
scendendo lentamente, come un
assassino beccato sulla scena del delitto. Lo seguii anche io,
scivolando giù
dal cassone con un balzo; il ragazzo estrasse prontamente la
katana e io stinsi saldamente le pistole, pronti a
essere minacciati. Quello che accadde, invece, fu incredibile. A
riversarsi di
fronte a noi non furono frotte di soldati o uomini in divisa, ma
ministri di
culto e fedeli. Erano tutti vestiti con toghe bianche e portavano il
cranio rasato, sia
uomini che donne.
Non
appena giunsero di fronte a noi, scalzi e con numerosi tatuaggi di
libellule,
si inchinarono e cominciarono a recitare preghiere. Terrorizzata,
cominciai a
indietreggiare, il naso arricciato e gli occhi a fessure. Se
c’era una cosa che
temevo più delle armi erano i pazzi esaltati.
-E
chi cazzo sono questi? -, domandò Chastor, confermando la
mia ipotesi: davvero
Prometheo era riuscito a manovrare i Diarchi senza rivelare loro
alcunché.
-Non
ne ho idea, ma se continuano a strisciare verso di noi, io taglio loro
la
testa-, rispose Fobos, allontanando con la punta dello stivale il
cranio lucido
di sudore di un uomo anziano. Lo guardò con disgusto, ma
anche con crescente
preoccupazione.
Tuttavia
gli occhi di quella gente non sembravano per nulla pericolosi o
malintenzionati. Riflettevano più qualcosa come la sorpresa
dell’uomo di fronte
all’epifania di un Dio.
-Nostra
Salvatrice! Nostra guida, tocca i nostri capi e benedici le nostre
mosse…-,
disse una donna gravida avanzando in ginocchio. Mi guardai attorno per
capire a
chi diavolo stesse parlando, mentre altri ragazzetti avanzavano
correndo,
richiamati dal trambusto del nostro arrivo. Ormai di fronte a noi si
erano
radunate almeno un centinaio di persone.
Poi
improvvisamente la donna fece un passo più lungo e si
afferrò alla mia canotta,
tirandola verso il basso e cercando di poggiare il suo cranio sotto la
mia
testa. Mi mostrò fiera il tatuaggio a libellula che aveva
sulla nuca e a me
venne quasi da vomitare. Era con me che parlava? Per chi mi avevano
scambiata?
Cominciai
ad annaspare, mentre tra la folla accorsa iniziavano a comparire volti
distorti
e ombre longilinee e danzanti. Il mio mostro impazzì
all’istanti e, con un urlo
disumano, mi scaricò un brivido lungo tutta la colonna
vertebrale. Rimasi senza
respiro, con le mani ancora strette attorno alle pistole.
La
donna mi abbracciò i fianchi e mi rivolse parole traboccanti
di amore. Erano le
stesse preghiere che si riservavano agli Dei e questo mi fece sentire
ancora
più sbagliata ed empia. Mi voltai verso Fobos, in cerca di
supporto, ma anche
lui era stato circondato da degli uomini che gli toccavano le vesti, le
braccia
o i piedi. Fobos ringhiava a tutti e li allontanava con la custodia
della
katana.
-O
venerabile compagno! Che la tua benedizione ci porti tanta fortuna e
una prole
degna del vostro operato-, gli sussurrò un vecchietto e
Fobos per poco non lo
decapitò con lo sguardo.
-Compagno?!
Compagno di cosa? -, domandò quindi, sollevando
l’uomo per la tunica e
portandolo all’altezza dei suoi occhi.
-Compagno
del Deadly Child, della nostra Prescelta! -.
Al
suono di quelle parole vomitai a terra, piegandomi in due.
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Capitolo 32 *** Capitolo 31- Aughènea ***
Capitolo
31
-Benvenuti,
stranieri. Miei fedeli,
scostatevi e lasciatemi passare-.
Una
voce si fece largo fra la folla, cantilenante e giovanile. Era sottile,
ma non
in modo piacevole: il suo suono ricordava il graffiare delle unghie sui
vetri e
faceva accapponare la pelle. Non era una voce umana, era qualcosa di
tremendamente distorto.
Mi
sollevai subito, pistole alle mani, asciugandomi la bocca con il
braccio.
Fobos
accanto a me era teso, sentivo ogni singolo nervo, ogni singolo impulso
elettrico percorrergli la pelle come se si trattasse della mia.
Sbattei
un paio di volte gli occhi, mettendo a fuoco una figura bassa, molto
magra ed
emaciata.
Si
trattava di un ragazzino, un giovane di quattordici anni nemmeno.
Indossava una
divisa nera rinforzata da un giubbotto anti proiettile. Al centro,
proprio sul
petto, emergeva il ricamo di una libellula tagliata a metà.
Mi
guardava fisso, fra quelle ciglia bianco latte e attraverso quelle
ciocche di
capelli impalpabili come ragnatele. Un’iride rosso sangue,
solcata da striature
nere come la notte, mi fissava esaltata affiorando
dall’ammasso di ricci che
gli ricadevano sul viso.
Sorrise
quando si accorse che i miei occhi lo stavano studiando con timore,
quasi come
avessi di fronte a me l’incarnazione del mio mostro. I suoi
denti erano aguzzi,
corrosi da qualcosa che li aveva resi appuntiti come frammenti di
cristallo
zigrinati.
-Non
mi riconosci, Astreya? E’ da tanto
che non ci vediamo, non e’ vero? -.
-Io
non ti conosco…-, esclamai, ma le mani
cominciarono a tremarmi mentre quegli occhi da demone mi fissavano; le
labbra erano
tese in un sorriso maniacale, quasi distorto. La sua aurea non
esisteva, dietro
di lui stagnava soltanto un pozzo vuoto e silenzioso.
-Non
ci
conosciamo dici?
-,
commentò lui, avvicinandosi a me. Stava sfidando le mie
dita, traballanti sul
grilletto. Perché non volevano farmi sparare?
Perché il mio mostro sentiva che
quella creatura che avevo davanti era famigliare?
Fobos accanto a me scattò, frapponendosi fra me
e il mostro. I suoi capelli neri mi schermarono per qualche istante
dalle
pupille a spillo del ragazzino, scorrendomi di fronte alla visuale come
fili di
seta. Tese la katana dritta di fronte a sé, puntandola al
collo scheletrico del
nemico. Aveva uno sguardo apatico e freddo come al solito, ma la sua
aurea si
era avvolta tutt’attorno a me come una gabbia. Fobos temeva a
tal punto quella
persona da desiderare di proteggermi con tutto se stesso.
-Se avanzi, ti trapasso-, sillabò Fobos e la
sua voce mi fece tremare le ossa. Era così cavernosa che
sembrava provenire da
un altro mondo.
- Sei
cresciuto bene, Fobos. Anche se non ci conosciamo di persona, ho
sentito molto
parlare di te-.
-Chi
sei? -.
I fedeli si erano allontanati creando un
semicerchio attorno al ragazzino e avevano tutti portato
l’indice alla testa.
Sembravano in trance o perlomeno congelati nel tempo. Solo il lento
sospiro dei
loro respiri e lo sbattere delle ciglia mi ricordavano che fino a un
momento
prima erano vivi e vegeti.
-Io?
Non
vi pare ovvio? Siete venuti qui per conoscermi… Io sono
Prometheo-,
si presentò lui, facendo un piccolo inchino
e lasciando che la lama affilata dell’arma di Fobos gli
disegnasse un piccolo
taglio sotto la giugulare.
Chastor, che fino ad allora era rimasto in
silenzio, scese con un salto dalla jeep e si gettò ai piedi
del ragazzo,
baciandogli gli stivali, supplice. La visione mi disgustò a
tal punto che un
nuovo conato mi squassò le costole, facendomi tremare
l’anima. Perché Prometheo
era sbagliato? Perché non era la persona illuminata che mi
ero aspettata di
incontrare?
Prometheo pose una mano sulla testa di Chastor,
ringraziandolo per l’ottimo lavoro svolto e incensandolo di
complimenti. Era
disturbante vedere una montagna d’uomo inchinarsi a terra e
piangere come un
bambino di fronte a chi un bambino lo era ancora. Un idolo, ecco come
mi
appariva Prometheo. Un idolo. Blasfemo.
Non so cosa mi prese, non so nemmeno se la mia
mente fosse lucida in quel momento, ma, lottando contro il mio mostro,
decisi
di agire. Sollevai la pistola destra, gli occhi brucianti di lacrime di
paura e
terrore e puntai l’arma al centro della fronte di Prometheo,
pronta a colpirlo
fra gli occhi a sangue freddo.
E ce l’avrei fatta se, nel preciso istante in
cui l’indice indugiò sul grilletto, il ragazzino
non si fosse voltato
sorridendo.
-Dimentica,
Astreya. Dimentica quello che ti fanno. Io sono al tuo fianco e ti
guidero’òverso
la luce-.
Quella frase. Quelle parole cantilenati come
una ninna nanna. Quel suono ronzante nelle note basse della sua voce
infantile.
Tutto mi riportò indietro nel tempo, a quando ero bambina.
Il mio mostro
cominciò a grattare con forza sui ricordi, spolverando via
tutto il catrame che
ero riuscita a depositarvi sopra. E improvvisamente cominciai a
sanguinare, a
discendere in un abisso di ricordi e dolore. Urlai così
forte da assordarmi e
da spaventare Fobos. Le lacrime mi schizzarono dalle ciglia come perle
invisibili e si sparsero nell’aria attorno, mescolate al
fiume di rabbia che
riversavo dalla gola.
I ricordi mi infiammarono la mente, corrodendo
tutta l’armatura che mi ero costruita addosso per stare in
piedi e distruggendo
completamente l’ultimo briciolo di sanità mentale
che mi era rimasta cucita
addosso. Cominciai a vedere dei lampi di luce e delle interferenze
nell’aria.
Ombre strane cominciarono ad arrampicarmisi lungo le gambe, scorrendo
come
fiumi di sangue al contrario. Mi tenni la testa fra le mani, tappando
le
orecchie e lasciando che le pistole cadessero a terra con un clangore
metallico.
Subito Fobos, notando il mio stato pietoso e
confusionario, si lanciò contro Prometheo brandendo la
katana come se fosse un
prolungamento del suo braccio. Fendette l’aria a un soffio
dal suo viso
recidendogli una ciocca di capelli.
-Vuoi
farmi del male, alleato? Io sono qui solo per aiutarla…-,
ridacchiò il ragazzino, puntando i suoi occhi
color sangue in quelli altrettanto bollenti di Fobos.
- Cosa le stai facendo? -, ringhiò l’Ibrido,
mentre la sua voce andava e veniva nella mia testa con un rimbombo
assordante.
I ricordi stavano ribollendo nella mia testa in una sorta di brodo
primordiale
dimenticato da tempo.
-Io
niente. Sta solo ricordando. Sta spazzando via anni di Inibitori e si
sta
risvegliando. In fondo un Deadly Child come lei non puo’
dormire per sempre-.
-
Ricordare? Ricordare cosa… abbiamo letto
tutto il fascicolo Falena Notturna. Sappiamo già tutto! -,
si lamentò Fobos,
mentre una goccia ghiacciata di sudore gli scivolava lungo il Pomo
d’Adamo.
-
No, Fobos. Solo quando si ricorderà
di me, tornerà ad essere se stessa…-,
rincarò Prometheo, mentre mi accasciavo a terra e cercavo di
ingoiare
aria. Le immagini che mi si annidavano nella mente erano troppo vivide
e
dolorose per non essere vere. Vedevo anni di esperimenti che avevo
scordato,
due occhi di sangue che mi scrutavano dall’ombra e un uomo,
un dottore con una
siringa in mano. Chi era? Era K.?
-Forza,
vieni avanti paziente 1-, disse una voce fuori campo, da qualche parte
nella
nebbia delle mie memorie. Mi guardai attorno e vidi il ragazzo sui
tredici,
quattordici anni che mi avevano affiancato. Era più magro di
quanto mi
ricordassi e i suoi capelli erano sbiancati, fino ad assumere la stessa
consistenza delle ragnatele. Mi osservò con la coda
dell’occhio nel superarmi e
si sedette sulla sedia che aveva di fronte. Sul tavolo erano state
posate tre
carte voltate. Vedevo le loro schiene damascate e le loro curve
taglienti.
-Scegli
una carta…-.
Il
ragazzo annuì e pose la mano sulla carta a sinistra, quella
con l’angolo
leggermente sbeccato.
-Paziente
numero due-, dichiarò la voce, facendo tremare la telecamera
sopra le nostre
teste.
Avanzai
verso il mio nuovo compagno di giochi. Ero piccola e il mondo era
ancora di
difficile comprensione per me, ma quando mi sedetti sulla sedia accanto
al
ragazzo e questo mi sorrise, tutte le preoccupazioni e le paure del
mondo
parvero sparire.
-Scegli
una carta-.
Non
sapevo cosa fare. Ero piccola e impaurita, non vedevo la mia mamma e il
mio
papà da nessuna parte e quelle carte cominciavano a muoversi
assumendo le
sembianze di disgustosi ragni pelosi. Vidi quello intrappolato sotto le
dita
del ragazzo scalpitare per fuggire e dovetti trattenere un gridolino.
-Sono
solo incubi ad occhi aperti… non li guardare. Guarda me, e
scegli una carta-,
mi disse lui con un sorriso, mentre la presa sul corpo del ragno si
faceva
ferrea, quasi mortale per la creatura. Annuii convinta, e posai
l’indice sul
ragno-carta di destra.
-Girate
le carte-, disse la voce.
Subito
voltai la carta e quello che vidi fu un pagliaccio. Un jolly. Guardai
in
direzione del mio amico e fra le sue dita tremanti vidi una carta
bianca. Il
suo sguardo era incendiato di rabbia e il naso arricciato in maniera
ferina.
-Hai
sbagliato-.
Notando
quanto stesse male per la scelta della carta sbagliata, decisi di
porgergli la
mia. Gliela allungai senza pensarci lasciando che le maniche della
tunica mi
scivolassero all’indietro fino a mostrare i tagli che
segnavano le mie braccia.
Il
ragazzo li guardò perplesso, fissando poi la carta con
incredulità crescente.
-Cosa
ci stanno facendo? -, mormorò sconfitto, rifiutando la mia
offerta e passando
il polpastrello sulle cicatrici bianche in rilievo vicino ai miei
gomiti.
-Su
una bambina così piccola…-, aggiunse, puntando i
suoi occhi castano rossi nei
miei.
-Mamma
dice che questa gente può curarmi e che io posso salvare la
mia famiglia-,
ripetei. Erano le parole che mia madre ripeteva piangendo, quando mio
padre
minacciava di sbarazzarsi di me una volta per tutte. Voleva vendermi a
qualche
Istituzione e guadagnarci qualche denaro.
Il
ragazzino sbattè le palpebre un paio di volte, poi mentre la
porta dietro noi
si apriva, si inginocchiò davanti ai miei piedi.
-Noi
siamo speciali, ma io sono sbagliato. Non mi faranno
vivere…-, mi spiegò
ponendomi in mano la carta bianca. –Per questo tu devi
sopravvivere al posto mio. Tu sei la predestinata. Tu devi scappare da
qui-.
Poi
prese la carta con sopra il jolly e la stracciò a
metà.
Non
appena il ragazzo smise di parlare e si voltò verso lo
stuolo di medici e
infermieri che lo puntavano, uno dei dottori, un uomo magro e alto,
cieco da un
occhio, venne scaraventato contro la parete. La sua colonna vertebrale
emise un
suono orrendo quando impattò contro il freddo cemento del
muro e una scia di sangue
colloso lo trascinò verso il basso, preludio della sua
morte.
Il
giovane poi indirizzò il suo sguardo verso una delle
infermiere che lo
minacciava con un sedativo alla mano.
-Non
ti avvicinare a noi-, sibilò il ragazzino, stringendo i
pugni e aggrottando le
sopracciglia. Puntò un braccio contro la donna e notai
immediatamente i
numerosi tagli che portava incisi sulla pelle. Erano tutti autoinflitti
e
recavano una scritta. Mentre la donna volteggiava in aria e finiva a
terra,
immobile con gli occhi riversi, approfittai della distrazione del
ragazzino per
leggere quanto si era inciso nella pelle.
-Sarò
un Figlio del Vento…-, mormorai e in quel momento la testa
dell’ennesimo
dottore esplose, lasciandomi una scia di sangue su tutto il viso,
spolverizzato
come farina.
Non ne
rimasi sconvolta e non provai nulla. Mi limitai a osservare il sorriso
aguzzo
del giovane. I suoi
denti sembravano
quelli di uno squalo.
-Ricordati,
piccina, che non sarai mai sola…-.
Un
dottore colpì il mio nuovo amico con una scarica elettrica e
lui si lasciò
fare, imperterrito di fronte ai lievi spasmi che il suo corpo
cominciava a
subire.
-
Dimentica,
Astreya. Dimentica quello che ti fanno. Io sono al tuo fianco e ti
guiderò verso
la luce-, aggiunse poi, mentre l’equipe del Sanitarium lo
immobilizzava ai miei
piedi e lo stringeva in una camicia di forza.
Rimasi
a osservarlo per tutto il tempo, mentre i suoi occhi rossi si
guardavano
attorno impazziti, mentre lo ammutolivano con una specie di morso da
cavallo,
mentre lo legavano ad una sedia a rotelle e gli immobilizzavano la
testa. Lo
spinsero via in tutta urgenza, lasciandomi sola e sporca di sangue in
mezzo a
tutti quei cadaveri. Rimase con me un unico medico, nerboruto e con una
folta
barba nera. I suoi occhialetti tondi erano oscurati dalla polvere e dal
pulviscolo.
-Vieni,
bambina. Non hai paura a stare in mezzo ai morti? -, mi
domandò, accucciandosi
e tendendomi una mano.
-Paura?
Sono morti. I morti non possono più muoversi. Anche io un
giorno non mi muoverò
più-, commentai atona, avanzando in mezzo allo scempio e
raccogliendo da terra
la carta bianca del ragazzino killer. – Posso tenerla? -,
chiesi, e il dottore
manifestò tutta la sua sorpresa con uno sguardo preoccupato.
-Perché
vuoi tenere la carta sbagliata? -.
Osservai
il bordo insanguinato di quell’oggetto sottile e tagliente e
vi scorsi il dito.
Sentii un lieve dolore al polpastrello mentre una linea di sangue
affiorava
dalla mia impronta digitale.
-Perché
spesso è una mossa sbagliata a far vincere la partita-,
sorrisi, certa che in
quel momento fosse il mio mostro a parlare.
- Quel
ragazzo non è un esempio per te. Lui non ce la
farà. E’ matto…-, cercò di
convincermi il medico, ma io lo ignorai, infilandomi la carta nella
tasca
sdrucita della mia felpa rosa.
-Anche
lo scacco è matto. Ma è la fine della partita-,
mormorai, mentre un sorriso
aguzzo mi si disegnava sul viso.
Quando
mi ripresi, Fobos e Prometheo erano
ancora intenti a fronteggiarsi in uno scontro silenzioso. Era un duello
teso e
tutto il pubblico aveva il fiato sospeso. Guardai in direzione del capo
dei
Figli del Vento e, senza nemmeno cercare di ingabbiare il mio mostro,
avanzai
nella sua direzione. Abbassai le armi e le lasciai scivolare a terra
quando gli
fui di fronte. Poi lo guardai dritto negli occhi: erano più
rossi e brillanti
di quando lo avevo conosciuto, ma la speranza che tigrava i suoi occhi
di nero
era ancora lì, in quella spirale scura di redenzione e
accettazione di sé. La
sua forza e la sua sicurezza, oltre alla sua promessa, mi avevano
tenuta in
vita durante i duri anni della sperimentazione, durante tutti quegli
anni in
cui mi avevano fatto credere che quello che era stato il unico compagno
e
fratello fosse morto suicida.
-Fratello…-, mormorai, prima di lanciarmi su di
lui e abbracciarlo. Era strano sentirlo così piccolo e magro
fra le mie
braccia, quando anni prima era stato lui a consolarmi, ma la sensazione
era
decisamente quella di essere tornata a casa.
- Mia
piccola sorella. Finalmente ti ricordi di me…-,
commentò lui ricambiando il mio abbraccio
mentre la folla attorno a noi esplodeva in un boato di gioia e in un
ruggito di
gloria.
Anche Fobos rilassò i muscoli e calò la katana,
rimanendo in disparte per gestire la situazione. Fu Prometheo a
chiamarlo a sé
quando ci sciogliemmo dall’abbraccio.
-Vieni
anche tu, creatura. Se io fossi stato idoneo saresti stato tu il mio
compagno,
soldato. Abbraccia il tuo fratello sconosciuto-.
Fobos tentennò, ma alla fine si accostò anche
lui a noi, formando un trio. Prometheo rispettò il desiderio
di non essere
toccato dell’Ibrido e gli pose solo una mano sulla spalla.
-La
mia
famiglia ora è riunita, finalmente. Dopo tutto questo tempo…-,
gioì il
ragazzo, per nulla invecchiato da come lo avevo rivisto nella mia
mente. – Venite
nella mia dimora-.
Quando io, Fobos e Chastor entrammo nel Tempio
in cima al promontorio restammo senza fiato. L’interno della
struttura aveva un
soffitto che si espandeva in altezza a perdita d’occhio, con
grandi matronei
occupati da soldati e fedeli di ogni genere ed età. Ci
fissavano con le mani
congiunte e una candela di luce nera fra le mani. La navata di fronte a
noi era
buia e rischiarata solo dall’arcobaleno di colori che le
vetrate rimandavano,
colpite dalla luce accecante che regnava fuori da quel luogo di tenebra.
Ma ciò che mi sconvolgeva di più era
l’enorme
statua che spalancava le sue braccia di fronte a noi, come volesse
accoglierci
con la sua espressione austera e il suo busto da scheletro. Aveva il
viso
abbassato verso di noi, per cui la luce non risaltava i suoi tratti e
il volto
rimaneva nascosto nella semi penombra; eppure non potevo fare a meno di
notare
una certa somiglianza con i lineamenti del mio viso.
Di fronte a noi, infine, si ergeva un altare in
pietra, tondo e cosparso da ninfee bianche. Mi fermai di fronte ai
piccoli
scalini smussati che ci distanziavano dall’ara sacro e mi
inginocchiai
rispettosamente di fronte alla statua enorme che ci sovrastava.
-Cosa
fai, Astreya?
- mi
chiese Prometheo, con sguardo perplesso ed estasiato assieme.
– Ti
inchini di fronte a te stessa? -.
-Come?
-, chiesi perplessa, mentre Fobos
strizzava gli occhi per ritrovare i miei tratti in quelli scolpiti
nella
pietra.
- Non
vedi? Quella creatura celeste sei tu. Noi ti veneriamo come Dea in
Terra e ti
adoriamo con il nome di Astreya la Duplice, per via di Ate, tua gemella-.
-Non ho idea di chi sia questa Ate di cui
parli-, biascicai avvicinandomi al volto della statua, proteso verso di
me come
il muso di un animale pronto a farsi accarezzare. Sfiorai le guance
gelide
della mia gemella e subito provai una scossa lungo la colonna
vertebrale, come
fossi stata fulminata da una scarica elettrica.
- Ate è
il motivo per cui tu sei la predestinata e io non lo sono. E’
grazie alla
sinergia fra la tua mente e quella della tua defunta metà
che sei qui. Dopo
essere riuscito a scappare dal Sanitarium in cui ci hanno rinchiuso per
anni,
ho scelto di unirmi ai Figli del Vento e, con grande fatica, li ho
convinti a
seguirmi, ad attendere il momento in cui tu saresti tornata.
Perché come puoi
vedere l’Umanità è corrotta.
E’ arrivata a sperimentare su bambini, a cercare
armi laddove ci doveva essere solo innocenza. L’Esercito, che
doveva
proteggerci, sta al contrario manipolando vite umane per sostenere una
squadriglia
corrotta di Sacerdoti. Una vergogna. E noi, poveri esseri semplici e
moralmente
corretti, assistiamo al completo sfacelo. Ma non lo faremo senza
intervenire.
Noi dobbiamo assolutamente lottare-.
Le parole di Prometheo erano incendiate da una
passione che non vedevo da anni. Continuava ad avere un aspetto poco
rassicurante
ai miei occhi e, nonostante il nostro passato, non riuscivo ancora a
fidarmi di
lui. Eppure ero certa che sapesse cosa stava facendo, che la sua mente
fosse in
grado di prevedere cose che noialtri potevamo solo sognarci. Per cui,
mentre
delle voci spettrali cantavano canzoni sacre accompagnate dalle note di
un
organo baritonale, seguii il guru fino a una cappella lì
vicina, abbarbicata
nella roccia e illuminata da candelabri neri come la notte. Un mosaico
si
dispiegava di fronte ai nostri occhi, dorato e nero come un sole in
piena
esplosione.
Mi mancò il fiato. Era la stessa identica scena
che Aracne aveva intessuto il giorno in cui era cominciata la mia
discesa agli
Inferi. Rividi i tratti oscurati di Fobos, le persone e le fiamme, i
ratti e il
cielo bruno. Era tutto esattamente come la Tela ci aveva mostrato.
Mi voltai per capire che reazione Fobos stesse
avendo di fronte a un immagine tanto terribile di sé, ma il
suo viso era
impassibile e la sua espressione gelida. Unico segno del suo disagio
era un
lieve tremore delle sopracciglia, così tese da sembrare di
velluto nero.
-Voi
sarete la nostra Apocalisse, la nostra rivalsa su questo mondo orrendo.
Dobbiamo estirpare la corruzione che ci ammorba, ma per farlo dobbiamo
sporcarci le mani, dobbiamo lordarci come vermi nella terra e corrodere
le
fondamenta delle Istituzioni…-
Il dito di Prometheo scorse sulle tessere rosso
rubino che ricoprivano le braccia di Fobos, brillanti come del sangue
vero.
-Quando
fingendo il suicidio sono riuscito a scappare, ho cominciato a pensare
che
talvolta essere invisibili al mondo potesse essere un gran vantaggio.
Potevo
fare il burattinaio ed evitare che anche tu diventassi un
“esperimento fallito”.
Per questo ho pagato i Mauriani per unirsi a noi, per vendere armi ai
rivoltosi. Ho tenuto stretti i nemici e ancor più strette le
spie come Iatro.
Ho lasciato che mi tradisse, inoculandoti Inibitori su Inibitori. Ho
fatto
credere di non essere perfetto, così da passare inosservato
come un virus
letale. Ho fatto molti errori, ma tutti di proposito. Ho persino
mandato un mio
uomo al Vallum per tentare di ucciderti, pur sapendo che sarebbe stato
lui a
perdere la vita. Efesto si è sacrificato per testare le tue
capacità, per
spingerti volontariamente fra le mie braccia…-
Il volto di Efesto e l’immagine della sua gamba
robotica mi scorsero di fronte agli occhi, atterrendomi. Lui che era
disposto a
sacrificare la vita del figlio per me, alla fine aveva sacrificato
anche se
stesso, uccidendosi in un’esplosione e rimanendo insepolto
per sempre. Quanta
gente era disposta a morire per me, per Prometheo? Chi eravamo noi per
chiedere
un simile sacrificio? Più Prometheo parlava e più
capivo che c’era qualcosa di
estremamente distorto nella sua mente. Forse la prima impressione che
avevo
avuto di lui era stata quella giusta.
-L’Esercito
e il Tempio sanno chi sono e cosa faccio, ma non mi temono. Mi hanno
lasciato
entrare fra le loro fila come una serpe in seno, ignari che sarebbe
giunto il
giorno in cui li avrei avvelenati. Mi ci è voluto molto per
allontanarti dall’Esercito,
per costringere Iatro, l’ultimo tuo giorno al Tempio, ad
avvelenarti il sangue
con un Espansore potente che riportasse in auge tutti i tuoi poteri.
E’ stato
altrettanto difficile allontanarti da loro sacrificando un mio
fedelissimo e
preparandomi a far saltare in aria anche quei rivoltosi, quei poveri
uomini che
non sanno di essere usati da entrambe le parti. Ma alla fine ce
l’ho fatta e le
due armi più potenti ora sono nelle mie mani, pronte a
mondare l’Umanità sotto
la mia guida illuminata. E una volta che tutto questo sarà
finito, non solo distruggeremo
anche il Governo, ma butteremo giù quella cupola e
trasporteremo là la nostra
base per creare una nuova vita, un nuovo Stato. Aughènea, la
Nuova Alba…-
Sorrisi, mentre nella mia testa le idee si
univano fra loro come fili di una matassa. Eppure non formarono un
groviglio
confuso di pensieri, ma un perfetto ricamo circolare. Tanto perfetto da
vederne
il centro con la massima chiarezza.
-Prometheo, sapevo che non mi avresti lasciata
sola. Vedo il tuo piano e lo ammiro, lo trovo profondamente corretto,
tanto
smagliante e limpido da sembrare ispirato direttamente dagli Dei. Hai
mantenuto
la promessa di starmi sempre accanto e condurmi alla luce e di questo
ti sono
immensamente grata. Non vedo l’ora di assisterti nel tuo
piano e diventare il
tuo strumento di vittoria eterna-, dissi, prendendo fra le mie le
piccole mani
bianche del ragazzino.
-Sono
orgoglioso di te, mia piccola sorella. E lo sarebbe anche Ate-.
Abbassai il capo in segno supplice e subito
dopo tornai al centro del Tempio, illuminata dai vetri variopinti del
sacrario.
Gli occhi dei fedeli erano puntati su di me e le loro voci si spensero
quando
sollevai le mani verso di loro.
-Fedeli, Prometheo mi ha aperto gli occhi! E’
ora di distruggere la Teocrazia nascente con la forza delle nostre
anime e il sacrificio
del nostro sangue! -, esclamai, sotto lo sguardo sbigottito di Fobos.
Un boato eruppe dai matronei facendomi
esplodere il cuore e lacrimare gli occhi.
Il mio piano aveva finalmente avuto inizio.
-Cosa
diavolo stai pensando di fare? Quello è
solo un esaltato-, mi sgridò Fobos non appena fummo soli.
Prometheo ci aveva
riservato un alloggio d’eccezione, un piccolo appartamento
con terrazza che
dava sullo strapiombo della cascata. Ero lì sul balcone ad
osservare la polvere
del Deserto danzare in lontananza, quando Fobos finalmente si decise a
parlarmi.
-Non sono un’idiota…-, mi difesi a spada
tratta. – Stavo recitando. E ora ho la certezza di essere
risultata credibile-.
Gli occhi di Fobos si rilassarono così come la
sua aurea. Si appoggiò allo stipite della porta finestra e
sospirò.
-Che cosa hai in mente? -.
Guardai istintivamente il Pigeon. Sul suo
schermo brillava ancora il messaggio che Eracleo mi aveva mandato
appena
qualche ora prima. Diceva che Galeno era stato giustiziato, decapitato
in
piazza per sedizione. Avevano scoperto che ero fuggita nel Deserto e
che ero
associata ai Figli del Vento. E per questo lui aveva pagato con la
vita. Ma non
era l’unica notizia raccapricciante.
-Ho in mente di lottare…-, mormorai, ripensando
alla comunicazione del Caporale, quella che mi aveva scosso fino a
farmi
tremare.
“Avevamo ragione. Armi biologiche. Usate contro
il Reggimento del Sole. Sede Governativa scoperta. Attacco
imminente.”
Mi voltai lasciando che il sole infuocato del
tramonto mi scaldasse la schiena, pugnalata più e
più volte da tutte le
Istituzioni, pronte a usarmi e sfruttarmi, a vantare diritti
inesistenti sulla
mia esistenza.
-Non odio Prometheo. Non riesco ad odiarlo. In
fondo la sua idea non è sbagliata. Sono i mezzi ad esserlo.
Non credo che il
suo Governo sarebbe meglio di una Teocrazia armata, perciò
non vedo altra
scelta se non quella di non appartenere ad alcuna fazione-.
Fobos si passò una mano sul viso. Era molto
stanco e leggevo un certo nervosismo nei suoi movimenti.
-Cosa pensi che potremmo fare da soli? Io e te?
-.
Sbuffai, dirigendo il mio sguardo altrove. Non
volevo guardare negli occhi Fobos dal momento che non avevo alcuna
garanzia di
successo per il mio piano.
-Non so se finiremo bene, io e te. Ma non posso
nascondere la testa sotto la sabbia. L’ho fatto per troppi
anni e ora sono
stanca. Voglio dare un senso alla mia vita, al mio passato e a quello
che sono.
E per farlo ho bisogno che Prometheo mi insegni, che mi rafforzi. Solo
lui è
così intelligente da modificarmi per farmi diventare davvero
un DC. E solo
allora, quando sarò un mostro vero e proprio,
potrò sferrare il mio attacco-.
Fobos avanzò verso di me, si appoggiò alla
balaustra trincerandomi fra le sue braccia, e disse:
-Credo che alla fine siamo giunti al capitolo
finale. Combatterò al tuo fianco, timer o non timer.
Cercherò di fare del mio
meglio, anche se non sappiamo ancora chi erediterà il frutto
del nostro
lavoro-.
Sorrisi mestamente, mentre il popolo devoto di
Prometheo attingeva acqua alla polla formata dalla cascata.
-Io dico che dovrebbe essere la povera gente.
Quella che ha in mano armi che non sa nemmeno usare. Voglio che tutti
capiscano
di essere stati presi in giro, su tutti i fronti. Nessuno si preoccupa
davvero
di governare, tutti si preoccupano solo di quanto potere possono
assorbire.
Voglio mandare in onda la caduta delle Istituzioni e svegliare Elladia.
Qualsiasi Governo nasca da questa presa di potere sarà un
degno punto di
partenza per la vera Aughènea…-
Fobos sorrise fra i miei capelli, mentre la sua
aurea mi accarezzava la pelle e si incendiava di orgoglio.
-Si proprio un’idealista-, sdrammatizzò con un
sorriso, prima che tornassi in casa.
Decisi di fare una doccia calda per distendere
i nervi e ritrovare la me stessa decisa e forte che avevo sempre amato
ostentare, poi scivolai in un paio di pantaloni e in una camicia
pulita. Tornai
in salotto, ma Fobos non c’era, così mi diressi in
camera.
L’Ibrido
era placidamente steso sul letto con le braccia dietro al capo e i
piedi mezzi
fuori dal materasso. Aveva gli occhi socchiusi e i capelli corvini
sparpagliati
attorno al capo e sul petto. Respirava appena, sollevando il torace e
facendo
affiorare le costole ad ogni respiro. Le cicatrici che gli ricoprivano
i
fianchi e le braccia risplendevano di un lucore quasi lattiginoso e gli
anellini alle sue labbra riflettevano il loro colore cangiante su tutto
il suo
corpo. Era strano vederlo così immobile e tranquillo, con la
guardia abbassata.
Osservai i nervi delle braccia e il lento pulsare delle vene sul collo:
se lo
avessi attaccato, lo avrei sopraffatto in men che non si dica. Scivolai
con lo
sguardo lungo lo sterno, seguendo il contorno dei suoi addominali
accennati e
poi finendo ad osservare le cicatrici lungo i fianchi e
l’ombelico, in tutto e
per tutto simile al mio. Mi accorsi che aveva calciato via gli anfibi e
slacciato i pantaloni. Osservai il bordo dei jeans, i lembi di tessuto
scostati
e il bianco della pelle che vi scivolava dentro.
Mi
domandai perché fossi così attratta da lui, ma
non trovai alcuna risposta.
-Che
hai? Il gatto ti ha mangiato la lingua? -, ridacchiò Fobos,
così abituato a
sentirmi parlare, da trovare strano il mio improvviso silenzio. Aveva
appena
schiuso le ciglia, lasciando che l’ambra dei suoi occhi si
tingesse della
tonalità aranciata della lanterna che bruciava indisturbata.
Mi guardava senza
cattiveria, ma solo con una disarmante fissità. Non sembrava
imbarazzarsi nel
fissare le persone negli occhi, dritto nell’anima, ma di
questo non me ne
stupivo affatto. Fobos era schietto e diretto in tutto ciò
che diceva e faceva:
la disillusione e il raziocinio, infatti, facevano intrinsecamente
parte della
sua Natura.
Lo ignorai e mi sedetti sul bordo opposto del
letto, pettinandomi lentamente i lunghi capelli ancora fradici. Li
stavo giusto
spostando di lato per facilitarmi il compito quando sentii Fobos
avvicinarsi e
posarmi un bacio appena dietro l’orecchio.
Mi
irrigidii istantaneamente, ma ancora una volta non mi spostai. Lasciai
che
Fobos mi sfiorasse il collo con la punta della lingua e mi prosciugasse
i
piccoli torrenti disegnati dalle goccioline di acqua, scostando i
capelli con i
denti quando quelle serpi nere intralciavano il suo cammino.
Risalì fino alle
orecchie, poi si staccò un istante, giusto il tempo per
sussurrarmi qualcosa.
-Hai
le orecchie bordeaux-.
Lo
sentii sorridere vicino al mio viso, poi i suoi denti appuntiti si
strinsero
delicatamente attorno al lobo del mio orecchio. Sobbalzai, colta alla
sprovvista. Avevo gli occhi spalancati, le guance in fiamme e il
respiro corto.
Che cosa mi stava facendo Fobos? Stava usando una qualche sorta di
incantamento
su di me?
-Non
ti farò nulla se non vorrai-, mormorò, quando
quel gioco sembrò non bastargli
più.
Mi
afferrò per un braccio e, senza troppi preamboli, mi fece
stendere sul letto. Sentii
le lenzuola cedere sotto il peso del ragazzo e, in un battibaleno,
l’Ibrido si
sistemò a cavalcioni sopra di me. Si reggeva sulle braccia,
premendo le mani
contro il cuscino e usando gli avambracci come sbarre per impedirmi di
sfuggire
ad un suo eventuale bacio.
Deglutii,
nervosa. Sembrava un lupo affamato con quei capelli neri che mi
ricadevano sul
seno e quel sorriso appuntito, eppure i suoi occhi risplendevano di una
luce
diversa, di una dolcezza malcelata e un po’ indomita.
-Cosa
vuoi farmi? -, balbettai, osservandomi attorno in cerca di una via di
fuga.
-Secondo
te? -.
I
miei occhi si spalancarono per l’imbarazzo quando Fobos
staccò una mano dal
cuscino sdrucito e la appoggiò sul mio ginocchio.
-In
fin dei conti sono un uomo. Che cosa ti aspettavi da me? -,
ghignò, facendo
tintinnare i due anellini ancorati alle labbra. Il mio cuore ebbe un
sussulto:
la sua mano si era spostata senza che me ne fossi accorta e mi stava
accarezzando la gamba. Sentivo il calore del suo tocco attraverso la
stoffa dei
pantaloni; stava risalendo verso le cosce, pizzicandomi la pelle di
tanto in
tanto e causandomi fremiti in tutto il corpo.
Sollevai il viso per osservarlo, per capire
cosa Fobos stesse pensando, quali emozioni colorassero la sua aurea. Ed
i
suoi occhi non mentivano. Avrebbe preso l’unica cosa preziosa
che mi era
rimasta. Avrei potuto donare me stessa ad un uomo diverso, ad un uomo
che
magari avrei sposato e con cui avrei avuto una famiglia un giorno. Era
quello
che ogni donna auspicava per se stessa, no? L’Amore. Ma io
non mi auguravo
minimamente nulla del genere. Cosa me ne facevo di un sogno simile
quando
l’uomo che desideravo avrebbe potuto morire in qualsiasi
momento? Quando io
stessa ero imprigionata in una realtà che non aveva spazio
per una come me?
Desideravo solamente completare l’oscurità di
Fobos, dimenticare le nostre
differenze e azzerare la nostra distanza. Sentivo che c’era
qualcosa in quel
ragazzo che era stato creato appositamente per me, che io ero
l’unica persona
al mondo che avrebbe mai potuto stare al suo fianco. Potevo essere
forte,
potevo raggiungerlo e potevo guardarlo da pari. Potevo, per una notte,
smettere
di odiare i suoi difetti e scoprire quella bellezza che sapevo
nascondersi nel
suo cuore. Così
alla fine cedetti di
fronte alla sua presa di posizione.
Le
sue mani non indugiarono oltre.
Scivolarono lungo il profilo dei seni, proseguirono lungo
il costato,
sulla traiettoria dell’ombelico e infine si soffermarono
sulla pelle che
scompariva al di sotto della cinta dei pantaloni. Inspirai a fondo. Non
ero più
lucida e il mio cuore stava esplodendo cercando di tenere il ritmo dei
miei
respiri. Anche Fobos sembrava perso, con gli occhi lucidi e le labbra
socchiuse. Stava armeggiando già da qualche istante con il
bottone dei miei
pantaloni, cercando di sbloccarlo d’asola, ma questo opponeva
l’ultima strenua
resistenza, cercando di preservarmi da quell’amore bizzarro e
pericoloso. Solo
grazie all’insistenza di Fobos, questo cedette, scoprendo la
biancheria
sottostante e facendo lentamente scivolare verso il basso la zip. Nel frattempo anche le mie
mani avevano preso
vita propria e avevano cominciato ad esplorare il corpo di Fobos,
analizzando ogni
muscolo e ogni sporgenza del suo fisico asciutto. E infine, quando le
mie mani
ebbero percorso tutta la cartina del suo corpo, gli posai un bacio
sulla
cicatrice rosata che gli adornava la clavicola destra. Lui
sussultò
leggermente, deglutendo a vuoto, poi mi restituì il favore
mordendomi con
leggerezza uno zigomo. Il suo respiro mi fece sciogliere completamente
e in
breve tutto il mio corpo vibrò come la corda di un violino.
Forse
quella sarebbe l’unica chance per noi, forse non avremmo
avuto un’altra
occasione. Avrei dovuto essere triste di fronte a una così
cupa prospettiva,
eppure il modo in cui Fobos mi baciava e mi spogliava non faceva altro
che
farmi desiderare di vincere quella guerra, di salvare la mia anima e la
sua da
quel rogo visto nel mosaico, dalla povertà delle strade e
dalla disperazione di
quel mondo che ci aveva vomitati per scherzo. E io non volevo
rinunciare a
quella sensazione di invincibilità. Per nulla al mondo.
Fobos
si chinò sul mio corpo, lasciando che le punte sottili dei
capelli mi
solleticassero il seno e i fianchi, e per ogni sospiro che
lasciò le mie
labbra, lui mi regalò un bacio, un morso o una carezza, come
per convincermi
definitivamente che il mio posto era al suo fianco. E così
alla fine cedetti
definitivamente alle sue lusinghe.
Non
avevo mai pensato a cosa significasse fare l’amore con un
uomo né mi era mai
passato per la testa che un giorno anche io sarei stata in grado di
affezionarmi a tal punto ad una persona da concederle tutto, anima e
corpo. Ma
era successo e anche se Fobos era la persona più
improbabile, ero felice. La
sua dolcezza un po’ feroce e la sua urgenza mi avevano
rapito, il suo modo di
guardarmi e tenermi stretta mi aveva stupito e la mia
capacità di stargli
accanto e amarlo mi aveva svegliata. Tutte queste cose mi avevano fatto
capire
quanto avessi sbagliato a pensare che sarei potuta sopravvivere da
sola, che
avrei potuto smettere di soffrire. Perché proprio adesso che
rischiavo di
perdere tutto, sentivo il desiderio di ancorarmi alla vita.
Perché solo mentre
Fobos aderiva a me, il mio mostro era tranquillo. Perché
nonostante fossimo
mostri, quando lottavamo assieme diventavamo invincibili e determinati.
Perché alla
fine se dovevo morire, volevo almeno salvare la migliore parte di me.
Quella
che lui amava e ammirava.
Probabilmente per questo non
chiusi mai gli occhi
durante il nostro piccolo momento di intimità, forse per
questo non mi
dimenticai nemmeno per un secondo che ci stavamo amando sullo sfondo di
una
guerra, con la Morte dietro l’angolo. Forse per questo volevo
ricordarmi ogni
singolo fotogramma dei nostri baci, della motivazione per la quale
dovevo
andare avanti. Ero egoista, ma volevo per la prima volta dopo tanti
anni
regalarmi un futuro. Un sogno.
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