Astreya

di Dusky Doll
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo- Gufi nella notte. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1- Le cripte ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2- La Tela di Aracne ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3- Ibrido in cella ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4- Consigli al chiaro di luna ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5- Affogando ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6- A pelle nuda ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7- I quattro Reggimenti ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Training ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9- Un ciclope con due occhi ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10- Figli del Vento ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11- Magna Teca ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12- Una spalla su cui piangere ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Il risveglio ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Aborto ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15- L'arte della guerra ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16- L'arte dell'amore ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17- Uno...due...tre...quattro ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18- Il vero mostro ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19- Nastri neri ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20- Devozione ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21- Medicamenta ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22- Benzina ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23- Gyps ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 - Epistassi ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25- Bug ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26- Un caloroso benvenuto ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27- Il re e la regina ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28 - Le due facce di un Debito ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29- Crisalide ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30- Tensione ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31- Aughènea ***



Capitolo 1
*** Prologo- Gufi nella notte. ***


PROLOGO...

La vita in questo mondo è diventata un rischio. Non c’è sicurezza, non c’è speranza, solo desolazione, guerra e dolore. Non c’è più spazio per la compassione e la pietà, ma solo per l’indifferenza e la grettezza. Camminiamo tutti con mille occhi puntati addosso e noi stessi ci guardiamo le spalle come gufi nella notte. Abbiamo imparato a sopravvivere, ad accumulare beni di prima necessità come piccole formiche, a rubare e fare nostre le provviste altrui come gazze ladre. Siamo sempre affamati, di potere, di denaro, di sangue, di vita, di qualsiasi cosa non ci faccia ricordare che la morte ci toglierà tutto, senza alcuna eccezione. Vivere così non è vita: è sopravvivenza o, se vogliamo, esistenza senza scopo. Tuttavia è l’unica possibilità che ci è stata data, l’unico destino a cui possiamo e potremo mai aggrapparci.

La prima volta che arrivai a questa conclusione avevo tredici anni ed ero appena stata venduta ad un Tempio, ovvero ad un altro prodotto di questi tempi bui, un focolare di credenze, violenza e fanatismo. Vi si venerano Dei malvagi, zoomorfi e vendicativi che disprezzano il genere umano e portano in dono a ciascuno sofferenza e dannazione per i peccati.  E proprio grazie a questo, a un simile clima di terrore e oppressione spirituale, la Chiesa ha potuto espandersi in breve tempo e guadagnare un’influenza incredibile in un mondo cinico, spietato e razionale. Tuttavia nonostante il timore reverenziale che la Religione esercita sul popolo e sui vertici della società, il vero potere della nuova Chiesa rimane quello di essere in grado di gestire i rapporti economici e politici fra le varie parti, concedendo perdono, clemenza e misericordia in cambio di ricchi doni. Ma non tutti sono nati con lo spasmodico desiderio di conoscere la vita dopo la morte o gli Dei sopra la propria testa, perciò per ingraziarsi anche loro, il Tempio ha dovuto escogitare altri metodi: io stessa non ho mai creduto a nessuna delle leggende e delle dottrine con le quali avevano cercato di educarmi. Eppure l’offerta dei Templi per i propri fedeli è talmente ghiotta da riuscire ad attirare anche quella fetta della popolazione che di fede non ne sa assolutamente nulla. Una di queste proposte fu fatta a me anni fa e grazie a quella opportunità, mi sono, infine, resa conto che dietro alla facciata religiosa vi è un altro mondo, più oscuro e affascinante: il mondo della magia.

Mi avvicinai a questa realtà anni fa, spaventata e turbata come ogni novizia, ma al contempo fortemente affascinata. Mi accolsero in un Istituto connesso al Tempio in cui ero cresciuta e mi iniziarono alle arti oscure, quelle che per millenni l’uomo pensava non esistessero se non nelle sue più remote fantasie. Mi fecero esami medici e mi fecero assumere degli psicofarmaci per rendere la mia mente un vaso vuoto da colmare e il mio cervello un brulicante formicaio di idee. Li lasciai fare perché non avevo speranza, non avevo futuro e non avevo stima di ciò che ero diventata al Tempio. Non pensavo che sarebbe potuto succedere, che mi sarei trasformata in un mostro. Ma fu ciò che mi accadde. Iniezione dopo iniezione, sofferenza dopo sofferenza, dopo esercizi estenuanti e sudore, divenni una Custode del Tempio. Mi incensarono di onori ed offerte, mi regalarono vesti e gioielli, ma erano tutte cose che alla mia anima non interessavano più. Nel mio cuore covava solo la rabbia, la tristezza, il potere e l’afflato all’oscurità. Temevo per la mia anima, ma più di tutto temevo di tornare come ero prima, una ragazzina persa e abbandonata seduta su una panca del Tempio. Così mi adeguai a quella vita e mano a mano che le mie capacità aumentavano, divenni cosciente di quello che potevo fare e lo utilizzai per purgare almeno un po’ la mia anima, ormai per sempre proprietà del Tempio assieme al mio corpo.

Mi chiamo Astreya e questa è la mia storia.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1- Le cripte ***


Capitolo 1

Era autunno. Il sole stava tramontando all’orizzonte infuocando il cielo e imbrunendo la vallata. Colsi gli ultimi fiori dal giardino e ritornai sui miei passi, tenendo la lunga veste sollevata. L’aria era ancora calda, ma una lieve brezza serale cominciava a soffiare sulla pelle ardente delle Custodi che come me affollavano il Tempio. Salii rapidamente gli scalini e varcai l’imponente arco. All’interno la polla d’acqua purificatrice scintillava e si increspava leggermente al tocco delicato del vento. Aspettai le altre Custodi e poi adagiammo i fiori sul pelo dell’acqua. Ci sedemmo in cerchio osservando il placido scorrere della vita mescolarsi con il misterioso galleggiare e affogare delle primizie colte. E quando anche l’ultimo petalo fu inghiottito dall’acqua, rompemmo il silenzio e ci dirigemmo a mani giunte verso le nostre celle. Le mie compagne indossavano il loro solito sorriso calmo e meditabondo e camminavano leggiadre come farfalle, mentre io avanzavo spedita senza alcuna espressione, nemmeno il benché minimo segno di vita sul volto. Qualcuna delle mie Sorelle, quando giunse di fronte alla sua stanza, mi salutò docilmente, qualche altra mi ignorò, finché non rimanemmo soltanto io e Aracne, la più anziana del gruppo, entrambe immobili nel mezzo del corridoio. Aracne mi fece un cenno con il capo, mantenendo la sua espressione serena, e assieme ci dirigemmo, attraverso il chiostro, alle sale che conducevano alle cripte.
-Come ti senti, Aracne? – le domandai quando fummo inghiottite dall’oscurità della Terra. Flebili luci danzavano pigre aggrappate alle lanterne.
- Sono ancora indolenzita, ma la colpa è soltanto della mia salute cagionevole-, disse, massaggiandosi la base del naso. Nonostante i suoi trent’anni e la sua salute precaria, Aracne era una delle donne più belle e abili che avessi mai conosciuto. Era Maestra delle Tele, un’arte che nemmeno io, cresciuta in quel luogo, conoscevo fino in fondo. I suoi occhi blu elettrico erano profondi e misteriosi come il potere che albergava nelle sue abili dita. Era stata creata per questo, lo sapevamo tutte, ma ogni volta non potevamo fare a meno di stupirci.
-E tu come stai, Astreya? -, mi domandò di rimando, gentile. Sorrisi flebilmente, il volto ricoperto da un sottile strato di sudore che lentamente mi scivolava negli occhi.
-Combatto la mia battaglia, come sempre-, ribattei e lei mi pose delicatamente una mano sulla spalla.
-Un giorno le tue sofferenze verranno ripagate e riceverai in dono il potere più glorioso di tutti-
Le sorrisi con più convinzione, nonostante i miei innumerevoli dubbi. Giungemmo alla sala d’aspetto e lì ci inginocchiammo sulle panche in pietra attendendo con altre venti Custodi il nostro turno. Era proibito parlare, perciò gli unici rumori che si udivano erano le urla lontane delle pazienti e il ticchettio dell’acqua che picchiettava il pavimento. A prima vista quello sembrava un luogo di torture e sevizie, ma in realtà si trattava banalmente di stanze di Cura. Erano, cioè, piccole celle dove i medici del Tempio ci iniettavano dei farmaci in grado di sviluppare quelle capacità peculiari e uniche che albergavano in noi fin dalla nascita. Era un modo come un altro per sbloccare i nostri talenti, allenarli, domarli e poi utilizzarli per gli scopi del Tempio. Era un onore essere iniziate alla magia, un privilegio che veniva consentito a poche e dotate persone. Mi ero sentita bene la prima volta che mi ero inginocchiata sulla panca in attesa del mio turno, certa di essere speciale e curiosa di scoprire cosa il Tempio avesse visto in me. E solo dopo aver realizzato quale fosse il mio talento, capii il grave errore che avevo commesso nel lasciarmi trasportare in fondo a quell’abisso. Ma ormai era troppo tardi, e la brama di avvicinarmi sempre più alla potenza di una Divinità aveva fatto il resto. Un medico alto e con un lungo naso curvo chiamò il mio nome e io, come al solito, mi alzai e mi diressi nella stanza che mi indicava. Dentro mi attendevano la solita poltrona e il solito ago appuntito. Mi sedetti e attesi che il medico mi desse nuove istruzioni.
-Mi chiamo Iatro e sarò il tuo nuovo medico, come ben sai. Ora che il tuo potere sta crescendo e si sta espandendo, la Sacerdotessa ha ritenuto opportuno affidarti a me. Sono il Guaritore del Tempio-, disse. Sobbalzai sulla poltrona. Il Guaritore del Tempio solitamente compariva soltanto quando qualche fedele giungeva al cospetto della Sacerdotessa posseduto, ferito a morte, straparlante o in preda a qualche malattia sconosciuta, ma mai per trattare una Custode. In più in pubblico il suo ruolo gli imponeva di indossare una maschera e una veste nera, cosicché nessuno del mio misero rango aveva mai avuto fin a quel momento l’onore di conoscere il suo volto e la sua identità. Ora con indosso solo un saio e un paio di sandali, pareva un uomo normale. Mi inchinai doverosamente e lo salutai con reverenza, ma lui mi fece subito sollevare e con un gesto deciso mi respinse sulla poltrona.
- Lasciamo i convenevoli per la prossima volta-, disse. Annuii distrattamente e sollevai la manica destra della veste. L’uomo osservò il colore bluastro dell’incavo del gomito, dove da anni mi iniettavano i farmaci. Scosse la testa mestamente e si voltò per preparare la siringa. Lo osservai mentre abilmente armeggiava con gli strumenti e con quale concentrazione si preparava. Infilò i guanti dopo essersi preventivamente lavato le mani, poi espulse l’aria dalla siringa e si avvicinò a me. Sistemò il laccio emostatico così da evidenziare le vene più facilmente e poi con un rapido gesto mi iniettò il liquido nel sangue. Immediatamente percepii il forte bruciore e la sensazione di rabbia che solitamente mi invadevano, poi sopraggiunse il dolore cieco e il pizzicore al cranio. Lottai contro il desiderio di strapparmi i capelli e l’insana voglia di attaccare Iatro.
-Bene così, bene così…- mormorò lui, mentre mi legava mani e piedi alla poltrona. Strinse le cinghie all’inverosimile, quasi temendo che potessi scappare o fare del male a qualcuno. Non lo avevano mai fatto con me e inizialmente pensai si trattasse di una precauzione. Solo quando vidi una nuova siringa infilzarmi la pelle, capii. Il liquido che mi scivolò denso fra le vene mi costrinse a una visione caleidoscopica e oblunga in cui colori e forme si accavallavano impazzite. Cominciai a gridare, desiderando strapparmi gli occhi. Strillai disperata cercando di liberarmi, ma Iatro non faceva caso a me e al contrario annotava paziente le mie reazioni. Mi ripresi dallo stato di shock solamente dopo circa dieci minuti di totale agonia e perdita di me, per ritrovarmi stremata e aggrappata con le unghie alla poltrona. Ansimavo e sudavo freddo. La vista non era migliorata e al contrario avevo cominciato a vedere delle strane ombre longilinee ondeggiarmi attorno come giunchi al vento. Mi bruciavano gli occhi e avevo le pupille dilatate.
-Cosa vedi? -, mi domandò Iatro con una voce distorta e squillante. Deglutii un paio di volte e sbattei le palpebre guardandomi attorno.
-Ombre-, biascicai.
Iatro annotò anche questo fatto, annuendo. Sembrava che avessi soddisfatto le sue aspettative perché un largo sorriso gli si dipinse sul volto. Per un minuto mi parve di vedere più fila di denti aguzzi fra le sue labbra, ma poi la visione scomparve, così come scomparvero lentamente anche le ombre. Mi slegò frettolosamente e mi aiutò ad alzarmi.
-Benissimo. Oggi è un grande giorno, mia cara Astreya. Ci vediamo settimana prossima alla stessa ora, proporrei-.
 Annuii.
-Certamente, la ringrazio, molto-, dissi.
-Ti prego, dammi del tu. Sono almeno cinquant’anni che mi danno del lei e ora sono stanco delle onorificenze-.

Si carezzò la barba lunga e ispida e poi mi porse la mano nodosa. La afferrai debolmente e la strinsi per quanto potei. Poi, accompagnata da un medico minore, mi fecero tornare nella mia cella. Non era niente di spettacolare e a malapena ci stava il letto, ma ogni volta che poggiavo la testa sul cuscino ruvido mi sentivo sempre un po’ più a casa.  Feci una doccia fredda, così da liberarmi completamente del sudore e del dolore, poi indossai la vestaglia da notte e mi infilai sotto le coperte. Impiegai ore ad addormentarmi e anche quando lo feci, dormii sogni agitati.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2- La Tela di Aracne ***


La mattina seguente, nonostante un forte mal di testa, mi sentivo meglio. Aracne non poteva dire lo stesso: rimetteva in continuazione e aveva la febbre, tanto che durante la Preghiera della mattina venne rispedita nella propria cella in convalescenza. Riuscii ad andare a trovarla soltanto dopo cena quando ormai gli obblighi del pomeriggio erano stati portati a termine. La trovai stesa sul letto con i profondi occhi blu infossati in occhiaie livide e le membra annegate nel sudore. Era sempre uno strazio vederla in quelle condizioni, tanto che la maggior parte delle volte non avevo nemmeno il coraggio di passare da lei.
-Come stai? -. Era una domanda banale, ma non sapevo che altro dire. Presi uno sgabello e mi sedetti al suo fianco.
- Mi riprenderò, non preoccuparti. Mi riprendo sempre-. Sospirò e chiuse gli occhi. Le accarezzai una mano cantandole una canzone del coro. Lei amava sentirmi cantare, nonostante non fossi bravissima. Così quando stava male, mi piaceva rallegrarla sacrificando la mia dignità canora. Aracne ascoltò rapita qualche minuto, poi si assopì di colpo, il respiro pesante e rallentato. La lasciai finalmente dormire e mi allontanai. Quella sera dovevo partecipare al Risanamento, per cui mi cambiai in fretta indossando la veste rossa in stile impero. Raccolsi i lunghi capelli in una treccia laterale e vi sistemai la tiara. Poi mi recai alla polla e mi unii alle altre Custodi schierate a semicerchio dietro alla figura della Sacerdotessa. La donna era immersa fino alle ginocchia nello specchio d’acqua e il suo abito bianco le galleggiava attorno come una ninfea. Aveva le mani congiunte e i nivei capelli sparsi attorno a lei a guisa di bianche serpi marine. Ero sempre stata attratta dalla sua figura: infatti la convinzione e l’ossequio con i quali la Sacerdotessa si approcciava alla Religione mi incuriosivano e ogni giorno di più mi spingevano ad avvicinarmi di un ulteriore passo a lei. Emanava un oscuro ed ancestrale richiamo a cui nessuno avrebbe mai potuto resistere o a cui nessuno avrebbe mai potuto opporsi. E anche i fedeli che quella sera si presentarono da lei arrossirono nel godere della bellezza del volto, piccolo e bianco con profondi occhi verde smeraldo. Era una donna anziana a quanto si diceva, ma tutti, come feci anch’io a mio tempo, si stupivano nel constatare che le uniche rughe sul suo viso erano due sottili linee al centro della fronte spaziosa. Dopo una fiumana di ammalati e di mutilati, comparve sulla soglia del Tempio un uomo imponente con un ampio petto muscoloso e spalle larghe. Indossava una divisa nera con dei distintivi luccicanti appesi a livello del cuore. Inizialmente pensai si trattasse di un militare, ma i lunghi capelli neri mi convinsero del contrario. Entrò con fare spavaldo e si inchinò solamente pochi secondi, giusto il tempo per non sembrare scortese. Poi guardò dritto verso di me con gli occhi scuri e cigliati socchiusi e umidi. Ero abituata agli sguardi dei fedeli dal momento che ero l’unica Custode alla quale gli psicofarmaci non avessero decolorato i capelli fino a fare assumere loro una tonalità fredda come quella della neve. Arricciai il naso e una gocciolina di sudore mi colò sul collo ghiacciandomi la pelle. L’uomo si inginocchiò di fronte alla polla, sempre mantenendo lo sguardo fisso su di me. Notai un lieve cenno del capo da parte della Sacerdotessa.
-Bentrovata, nostra amata-, cominciò l’uomo, molto più lusinghiero e accomodante di quanto non mi fosse apparso inizialmente.
-Cosa la porta qui? -, domandò la Sacerdotessa con voce fredda e profonda. L’acqua della polla si increspò mentre l’uomo sogghignava. Sembrava che fra i due vi fosse una qualche sorta di relazione, ma la natura della stessa sfuggiva alla mia immaginazione.
-Sono giunto da oltremare per prendere in mano la vecchia Caserma e installarvi il mio reggimento-esclamò l’uomo. La Sacerdotessa si inginocchiò, lasciando che l’acqua le lambisse il torace e facendo segno a noi Custodi di circondarla. Come agnellini obbedimmo al suo ordine, sprofondando anche noi nella polla a sostenerle le vesti. Tutte quelle cerimonie mi stancavano non poco, ma almeno essere così vicina all’autorità massima del Tempio mi permetteva di ascoltare i discorsi di quell’uomo misterioso.
-E’ qui per la mia approvazione? - Gli occhi liquidi della donna fissavano quelli dell’uomo con una strana espressione, quasi umana. Tuttavia lui era molto più concentrato a seguire il contorno scuro dei miei capelli, incuriosito e forse un po’ interessato alla loro storia. Stavolta ricambiai lo sguardo, in maniera fredda e decisa, finché lo straniero non fu costretto ad abbassare gli occhi. Mi sentivo la testa stranamente leggera e dalla nuca mi gocciolava il sudore. Non potevo muovermi per cui sopportai la sensazione di solletico che questo mi provocava.
-Sono qui per recarle un messaggio-.
L’uomo porse alla Sacerdotessa una lettera ricoperta da scritte scure e inclinate. La donna allungò un braccio pallido e strappò il sigillo raffigurante un leone ruggente. Lesse rapidamente il contenuto del messaggio, poi come fosse un dono votivo lo lasciò scivolare nelle acque chiare. L’inchiostro, sfuggendo sul fondo dello specchio, si sciolse liberando piccoli vortici neri. Istintivamente strinsi i denti desiderando come non mai sapere cosa fosse stato scritto in quella lettera. Tuttavia non mi chinai a raccoglierla perché, lasciando le vesti della Sacerdotessa, avrei commesso atto di empietà. Rimasi semplicemente lì a fissare la mia curiosità affondare con quella carta giallastra.
-Spero che trovi interessante la proposta-, ribadì l’uomo inchinandosi di fronte alla donna che era rimasta immobile, quasi pietrificata. I capelli neri dell’individuo, lunghi fino alle spalle, ondeggiavano scossi dal vento della sera e la pelle spessa e piena di cicatrici riluceva dei riflessi frammentati dell’acqua. La Sacerdotessa si risollevò e allargò le braccia. Subito due delle Custodi accanto a me si allontanarono e tornarono poco dopo portando il Vaso. La osservai intingere le dita nella tintura rosso rubino e dipingere sulla fronte dell’uomo un grande occhio spalancato. Le sue dita si muovevano rapide, sempre aggraziate, e il colore purpureo sui suoi polpastrelli risaltava proprio come sangue sulla neve. Lo straniero attese pazientemente che la Sacerdotessa finisse il suo lavoro, con gli occhi chiusi e le mani congiunte. Quando le dita si staccarono dalla sua fronte, spalancò gli occhi e li fissò senza pudore in quelli della donna. Lei lasciò cadere le mani nell’acqua, colorandola di rosso.
-Questa è una protezione, ma anche una minaccia. Lei sarà i miei occhi e ciò che farà io lo saprò. Se si verrà meno alla bontà dello scopo, io stessa verrò a prenderla. Siete tutti sotto la mia stretta sorveglianza-. Detto questo tacque. Lo straniero si promulgò in ringraziamenti sentiti, gli occhi animati da una nuova fiamma. Poi se ne andò come era venuto, lasciandomi sola con le mie congetture.
Quando mi svegliai la mattina dopo, alle cinque, il Tempio giù brulicava di gente. Soldati, Sacerdoti e Custodi si riversavano nei corridoi, nel chiostro e nei giardini. Erano ovunque, si stringevano mani e si scambiavano sorrisi. Mentre passeggiavo sostenendo la debole Aracne non potevo fare a meno di osservare quel panorama umano. Erano persone molto diverse da noi: chiassose, espansive, un po’ irose e alcune rubiconde. I soldati avevano un’aria più seria, ma anche loro si scambiavano gesti di solidarietà e battute.
-Cosa ci fa tutta questa gente al Tempio? -, domandò Aracne, asciugandosi la fronte. Le raccontai brevemente della lettera misteriosa ricevuta dalla Sacerdotessa e di come, però, non sapessi cosa vi fosse scritto all’interno.
-Che faccenda misteriosa-, commentò la Custode. –Potrei intessere una Tela, se questo non fosse estremamente contro le regole-.
Lo diceva tanto per dire, ma nella mia testa cominciarono a frullare idee. Se Aracne avesse tessuto qualcosa, sicuramente avremmo potuto vedere anche solo un quadro sfocato di ciò che stava accadendo. Era strano, in fin dei conti, che la Sacerdotessa non ci avesse messo al corrente degli affari del Tempio, dal momento che la chiarezza e la trasparenza erano doti di lei che tutti ammiravano. Non sapevo quanto avrei potuto spingere Aracne a infrangere le regole, ma sapevo che tentare non avrebbe nociuto a nessuna delle due.
-Forse guardare una Tela non sarebbe male, non credi? -, buttai lì, per non sembrare eccessivamente cospiratoria. Aracne per risposta mi lanciò un’occhiataccia eloquente.
-Non credo sia affatto una buona idea-.
Sbuffai.
-E non sbuffare. Sai che con me non attacca-, mi rimproverò agitandomi l’indice davanti agli occhi.
Avanzammo nei corridoi finché non sbucammo nei giardini. Là, nascosti dai frondosi salici, intravidi la Sacerdotessa e l’uomo del giorno prima chiacchierare.
-Guarda là, Aracne. E’ alquanto insolito per la Sacerdotessa intrattenersi con un fedele all’infuori delle funzioni. Ci deve essere proprio qualcosa di grosso sotto-.
Aracne osservò la scena che si ritrovava davanti agli occhi e vidi in lei una leggera luce di cambiamento. Quando era così, sapevo che dovevo soltanto dare un’ultima spinta.
-Chi sa cosa staranno dicendo…-
Aracne si morse le labbra bianche, presa dalla curiosità di sapere che cosa stesse accadendo tra i due. E sapevo benissimo che la curiosità di Aracne, quando attivata, era irrefrenabile.
-So già che me ne pentirò…-, cominciò lei, sospirando. Le strinsi forte una mano sorridendo e la ricondussi sui nostri passi, fremendo dalla voglia di arrivare nella stanza delle Tessiture il più velocemente possibile. Aracne mi seguiva un po’ intimidita, ma rosicchiata dalla curiosità. Arrivammo al chiostro, dove ci fermammo un momento. Discutemmo su come giustificare il nostro atto nel caso fossimo state scoperte, ma non trovando una scusa che fosse anche minimamente passabile, decidemmo che non farci scoprire era l’unica alternativa possibile, nonché l’unica possibilità di riuscita del nostro piano. Tuttavia, proprio mentre ci accingevamo a riprendere la via, ci si affiancò un gruppetto di soldati. Il primo a parlarci fu un ragazzo biondo con un viso curato e un naso schiacciato e storto.
-Salve, Custodi! Sapete dove è il refettorio? –
Sorrideva amichevole, tuttavia il modo irrispettoso con cui ci parlava sembrò disturbare Aracne che mi lasciò il braccio e fugacemente mi salutò, dicendo che mi avrebbe preceduto. Mi fece un segno inequivocabile e mi lasciò lì. Sapeva che nell’allontanare la gente ero molto più brava di lei.
- Seconda porta a destra, girando di là-, dissi brevemente. Il ragazzo mi sorrise cortese e fece un piccolo inchino, più scherzoso che dovuto. I suoi compagni lo sbeffeggiarono dandogli delle pacchette. Non comprendevo il perché fossero così su di giri, perciò mi azzardai a indagare un pochino.
- Posso domandare il motivo della vostra contentezza? Dubito sia per una semplice visita al Tempio-.
Un ragazzo di colore, alto sui due metri abbracciò il compagno e si fece avanti.
-Corrono voci che verrà stretta un’alleanza tra il Tempio e l’Accademia. Siamo solo ragazzi, ma siamo contenti di servire lo Stato e con la vostra protezione potremo essere ancora più forti-.
Sollevai un sopracciglio, ritenendo la loro gioia una forma inutile di patriottismo. Improvvisamente la voglia di colpirli in faccia mi esplose nello stomaco e dovetti resistere all’impulso di gettare il ragazzo a terra. Finsi un sorriso e mi asciugai il collo: avevo ripreso a sudare. Uno del gruppetto, rimasto fino ad allora in silenzio, si fece largo fra i compagni e si avvicinò silenziosamente. Sentii prima i suoi passi ovattati e poi lo vidi. Era molto alto e aveva dei folti capelli neri scompigliati.
-Sta bene, Custode? -, domandò. La sua espressione era enigmatica e fin troppo seria, vista l’atmosfera che lo circondava.
- Certamente, la ringrazio per l’interesse. Ad ogni modo, al momento non posso attardarmi oltre, ho alcune faccende da sbrigare, scusate-, dissi, decisa a levarmi di torno il più velocemente possibile. Il giovane che avevo davanti, tuttavia, non sembrava condividere la mia fretta e rimase fermo di fronte a me occupando la strada. Mi squadrò da capo a piedi, mentre con le dita giocava con il bordo della maglietta nera. Sbirciai il nome inciso sulla piastrina che portava al collo e mi parve di leggervi il nome di Deimos.
-Desidera dirmi qualcosa? – buttai lì studiando l’espressione sul suo volto. Sembrava sospettoso per un qualche motivo. Il giovane sbatté gli occhi un paio di volte, poi con estrema calma, disse: - I suoi capelli, Custode. Non vorrei risultare sgarbato, ma li trovo molto insoliti-.
Sospirai di sollievo. Ero abituata ad attenzioni di quel genere e sapevo ormai cosa rispondere ai fedeli curiosi. –Sono un difetto difficilmente correggibile, ma nulla che una buona Custode non possa espiare con la forza delle preghiere-.
Deimos sorrise e le labbra carnose si tesero sui denti bianchissimi. Lo trovai di una bellezza spaventosa e mi venne una voglia improvvisa di correre via e lasciarmi quel gruppetto alle spalle. Ma questa era una cosa che anni di indottrinamento e allenamento non mi consentivano di fare. Era, infatti, preciso compito di una Custode rispettare le regole cortesi del colloquio.
-Sarei molto curioso di conoscere la sua Dote, se non la disturba renderla nota-.
Un tuffo al cuore. Non potevo dirlo: avevo giurato. Tuttavia, temevo che non rivelando nulla a quell’uomo sarei finita nei guai. Avevo la sensazione che fosse qualcuno di importante nonostante la divisa semplice e la mancanza di medaglie al valore appuntate sul petto.
-Non ha molta importanza in realtà. Ed essendo una Dote assai irrilevante mi vergognerei nel divulgarla, mi perdoni-. Feci un piccolo inchino e deglutii notando il luccichio della katana che pendeva al fianco del soldato. Nel Tempio erano vietate le armi da fuoco, ma quelle da taglio venivano consacrate al momento della loro forgiatura e pertanto potevano varcare le soglie dei luoghi sacri. Ciò non mi impediva comunque di sudare incredibilmente alla vista di quel genere di manufatti.
-Nessun problema…- mormorò Deimos con una sorta di luccichio negli occhi. Poi osservò una gocciolina di sudore scivolarmi lungo il contorno del mento e sul suo viso comparve nuovamente un sorrisino beffardo. Con un gesto allontanò, quindi, il resto del gruppo che si sparpagliò nel chiacchiericcio confuso del Tempio.
- Vedo che la sua Dote la tiene impegnata parecchio…-
Mi asciugai il sudore dal collo con uno scatto fulmineo, ma non fu sufficiente a distrarre Deimos né a confonderlo. Aveva capito che il mio era un potere leggermente diverso da quello degli altri e ora sembrava intenzionato a farmi sputare il rospo.
-Sì, ci vuole sempre molto autocontrollo per possedere appieno i Doni degli Dei, qualunque essi siano-.
-Ci scommetto-, disse. - Ad ogni modo desidererei moltissimo parlare con lei in privato questa sera, dopo cena. Verrà organizzato un falò in onore dell’unione tra Tempio ed Esercito e gradirei incontrarla e presentarle un mio fedele collaboratore. Chiedete pure del Generale Deimos e verrete condotta a me. Arrivederci-. Sparì subito dopo un lieve inchino, senza neanche darmi l’opportunità di declinare l’invito. Se ne andò a passo svelto, lasciandomi sola, persa nei miei pensieri e annegata nel sudore. Mi riscossi poco alla volta, lasciando che il pizzicore alla testa passasse e la sensibilità alla punta delle dita scivolasse verso valori normali. Poi, camminando a passo lento e barcollante, raggiunsi Aracne. La trovai già in trance. Aveva gli occhi completamente rivoltati all’indietro e i capelli biondissimi fluttuavano attorno al volto come raggi di un sole freddo. Le mani si muovevano rapidamente, come possedute, e la Tela andava formandosi. La stanza, piena di Telai, era buia e silenziosa e la pallida luce filtrava senza gioia dai finestroni aciculari che arrivavano fino al soffitto. Girovagai qualche minuto, osservando rocchetti e aghi appuntiti, ma ben presto mi stancai e mi avvicinai ad Aracne per vedere come procedeva il suo lavoro. Esso mostrava un cielo color cobalto dalle sfumature viola con piccoli puntini bianchi a impreziosirlo e sotto una cittadina in rovina. Mano a mano che Aracne tesseva andarono ad evidenziarsi dei dettagli: gente che fuggiva dalle case che andavano a fuoco, esseri mutilati che rotolavano per le strade e persone che si cibavano delle carni infette dei ratti. Soldati di fazioni diverse che lottavano gli uni contro gli altri e spari che distruggevano gli avversari. Poi si evidenziò un’altra scena, indipendente dalla prima. Dalle fiamme emergeva un essere enorme, alto ed emaciato con delle cicatrici bianche a ricoprirgli gran parte del corpo. Il volto era avvolto dal fumo e i lineamenti erano indistinguibili. Cominciai a rosicchiarmi le unghie, nervosa. Non avrei mai potuto immaginare un futuro del genere e forse Aracne aveva avuto ragione quando aveva sconsigliato di interrogare le Tele senza permesso. Tuttavia ormai il danno era fatto, e ad ogni modo non sarei mai riuscita a distogliere lo sguardo dall’intrico di fili. Il disegno ormai andava completandosi. Alla creatura che troneggiava la seconda scena vennero aggiunte le braccia, tutte nervo, ricoperte e grondanti di sangue. Poi la visione di Aracne venne interrotta e la luce della coscienza tornò a illuminarle gli occhi. Guardò per qualche secondo il mio viso sconcertato, poi si rivolse verso quello che aveva intessuto. Rimase sgomenta e mormorò: - Non pensavamo a nulla del genere-.

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3- Ibrido in cella ***


Capitolo 3

Seguendo un impulso poco religioso quale era la mia curiosità, mi addentrai fra i bassi edifici grigi. Dopo quello che Aracne aveva intessuto, mi pareva poco intelligente non presentarmi al cospetto di Deimos, quando questi per di più pareva avere le risposte che andavo cercando. Così, lasciata la mia amica al dovuto riposo, indossai il mantello e seguii la strada che portava alla città. Quando la vidi sentii la consueta fitta al cuore: casermoni tutti uguali si susseguivano a vecchi edifici anneriti sotto l’occhio vigile di moderne telecamere. La gente camminava allegra e si dirigeva verso piazza Olympia, laddove era stata predisposta la pira per il falò. Erano tutti vestiti semplicemente, ma alcuni gridavano e sventolavano bandiere con l’effigie di un leone ruggente, lo stesso che avevo visto sulla lettera. All’ingresso della città c’erano due grossi automi, due Guardiani alti almeno sei metri a cui era stato impresso sul petto lo stesso simbolo. Questi si voltarono a guardarmi non appena fui loro vicina. Mi fermai, lasciando che le loro grosse teste a forma di toro si volgessero verso di me e mi illuminassero con le telecamere che avevano al posto degli occhi. Tuttavia già solo dopo pochi istanti tornarono a drizzarsi e guardare di fronte a loro: mi avevano riconosciuta e lasciata andare, per cui senza alcuna altra preoccupazione feci un passo avanti.
-Bei bestioni vero? –
Il ragazzo biondo che avevo incontrato il giorno prima al chiostro era comparso al mio fianco. Aveva lo stesso sorriso spensierato di quando lo avevo visto la prima volta, nonostante in questa occasione fosse armato fino ai denti. Istintivamente mi salì il cuore in gola, ma lui non sembrò accorgersi del mio disagio e al contrario mi porse la mano, presentandosi.
-Mi chiamo Eracleo, Caporale minore. Lei invece? –
Strinsi la mano con poca forza.
-Astreya. Ad ogni modo non sono bestioni-, brontolai. –Sono fedeli rappresentazioni del Dio Tauro-
L’uomo sorrise e mi invitò a raccontargli di Tauro. Conoscevo a menadito la sua storia e il culto, quindi recitai a memoria ciò che mi era stato insegnato.  Gli rivelai che si trattava della Divinità preposta alla protezione della città e che si mostrava agli uomini sotto le sembianze di un glorioso toro per ricordare quanto fosse grande il suo amore per noi: infatti, il toro era da sempre considerato il simbolo del sacrificio, sacrificio che Tauro compiva, ad ogni sua reincarnazione, quando si privava di un frammento di anima per dare vita a un nuovo Guardiano. Ma nonostante la sua benevolenza, la Divinità non smentiva il comportamento crudele del resto dei suoi pari e relegava il genere umano al rango di semplice schiavo: quello che, infatti, rendeva Tauro un Dio temibile e spietato era il fatto che per ognuno di questi enormi titani portati alla luce, egli pretendeva un sacrificio di dodici uomini e dodici donne accusati di crimini contro l’umanità.
Eracleo mi guardava attento con una espressione mista tra coinvolgimento e stupore. Sapevo che i soldati erano i meno informati riguardo la Religione e meno credenti in aggiunta, visto che erano costretti in ogni battaglia a fronteggiare spada contro spada la morte. Nonostante ciò, però, mi sembravano anche i più avidi di fede, di un qualche segno che facesse capire loro che al di là delle sofferenze e della loro morte un Dio li avrebbe abbracciati e cullati per l’eternità. Per cui non ebbi cuore di dire che nonostante il Culto di Battesimo dei Guardiani, essi erano poco più di una prodezza ingegneristica. Certo, la Sacerdotessa e i Religiosi di tutto il pianeta credevano nella storia di Tauro e della sua anima tormentata, ma io ero un filo più razionale e me ne facevo poco della leggenda.
-Che storia interessante-, disse – Credo che questo avvicinamento tra Esercito e Tempio sancirà anche per noi l’inizio di una vita migliore, sotto i dettami di Divinità buone! –
Sorrisi e lasciai che mi scortasse fino alla piazza, anche se dentro di me ardeva il fuoco della delusione: non esistevano Dei buoni e magnanimi, ma solo Dei giusti e nulla è più letale e terrificante del non perdono. Strinsi i pugni e ignorai la vocina dentro la mia testa.
-Eccoci arrivati-, esclamò Eracleo, quando di fronte a noi si stagliò la fiammeggiante pira di fuoco. Splendeva già trionfante, animata dalle danze degli uomini e delle donne che vi roteavano attorno. C’erano fiumi di birra e vini, animali bardati a festa e venditori ambulanti di cibi e leccornie. Mi guardai attorno, alla ricerca di Deimos, il quale però non sembrava essere da nessuna parte. Strinsi i denti ignorando le ombre ballerine che si mescolavano alle persone nelle folli danze della serata. Era, infatti, la prima volta dopo l’iniezione che le vedevo così nitide, ma feci finta di nulla per non destare sospetti in Eracleo. Ciò nonostante il loro continuo baluginare e arrotolarsi mi causava conati di vomito incontrollabili.
- Scusi Eracleo, non vorrei risultare sgarbata, ma posso permettermi di chiederle se può condurmi dal Generale Deimos? -.
Eracleo sgranò gli occhi grattandosi il naso storto. – Posso chiedere il motivo della richiesta? -
Sapevo che avrebbe opposto una qualche resistenza, per cui sfoggiai un sorriso sereno e feci spallucce.
-Saperlo piacerebbe molto anche a me-, osservai, calcolando con accuratezza la reazione di Eracleo.
-Certamente, lo vado immediatamente a cercare-, disse e lentamente, ancora turbato, si incamminò verso un folto gruppo di soldati. Mentre l’uomo domandava loro informazioni, ne approfittai e mi appoggiai alla fredda vetrina del negozio alle mie spalle. Il Dono che possedevo era qualcosa di così doloroso che mi costringeva a stare lontana da qualsiasi stimolo troppo forte, anche una gioiosa e rumorosa festa. Il fresco del vetro sembrò sciogliere un po’ il gomitolo di emozioni che mi si rivoltava nello stomaco, ma ebbe un effetto opposto sul mal di testa, acuendolo. Attesi a occhi chiusi per una decina di minuti, ascoltando il mio respiro pesante e il cuore che martellava nel petto. Solo quando questo parve rallentare di qualche battito, comparve di fronte a me l’imponente Deimos. Quella sera indossava una divisa nera sontuosa con molte medaglie appuntate sul torace.
-Buonasera, Custode-, mi salutò. Poi mi fece segno di seguirlo. Alle sue spalle Eracleo ci guardava incuriosito. Lo superai a testa bassa, sentendomi in colpa per aver reagito con tanta freddezza al suo tentativo di stringere amicizia. Però avevo una scusante, ovvero scoprire se e come la Tela di Aracne si sarebbe adattata alla realtà. Nascosta dalla schiena imponente di Deimos, avanzai, quindi, fino ad una via laterale che imboccammo in tutta fretta.  La luce nel vicolo baluginava e numerosi cassonetti erano stati accantonati al lato della strada. Cominciai a temere un agguato, che Deimos avesse cattive intenzioni, ma alla fine sbucammo di fronte a un enorme edificio di cemento grigio recintato da un reticolo di filo spinato e da fari azzurrognoli in continuo movimento.
-Li chiamiamo Occhi di camaleonte-, commentò Deimos continuando a camminare. Nonostante mi avesse dato le spalle per tutto il tragitto, era comunque riuscito a tenermi d’occhio. Accelerai il passo e assieme attraversammo un grande cancello a sbarre. Le guardie all’ingresso alzarono lo sguardo osservandomi, ma appena videro Deimos i loro occhi vennero catturati da lui e tutte si prodigarono in austeri saluti militari. Deimos non degnò nessuno di uno sguardo, ma con un breve cenno della mano sciolse le sentinelle dall’obbligo di restare in piedi con una mano sul petto. Entrammo, quindi, nella struttura. Il cortile interno era pieno zeppo di militari, scatoloni, attrezzature ancora imballate e macchine mobili. C’erano manipoli di soldati ovunque: alcuni che trasportavano armi e oggetti, altri che semplicemente attendevano ordini. Fra di essi attirò la mia attenzione un particolare gruppo di soldati: stavano tutti marciando all’unisono, con la stessa andatura e lo stesso volto, incalzati dalle urla dell’allenatore. Osservai quell’uomo passarmi davanti con disgusto, ricordando come anche al Tempio la collettività fosse sempre stata molto più importante delle esigenze individuali e delle sfumature di carattere. Trovavo ridicolo doversi spogliare di se stessi per trasformarsi in automi efficienti, ma sembrava che nel mondo solo io avessi maturato questo pensiero e che al contrario le alte sfere pensassero agli umani come a delle potenziali macchine.
 Distolsi lo sguardo da quella scenetta ridicola per seguire Deimos all’interno dell’edificio principale. Passammo attraverso varie stanze, tutte presidiate da almeno una guardia, superammo porte blindate con tessere magnetiche e sgusciammo dietro a vetri satinati che nascondevano chi sa quale segreto. Infine giungemmo in un braccio distaccato, dopo un cortile spoglio. La prima cosa che notai fu la quantità di guardie all’ingresso, e la seconda furono le misure di sicurezza. C’erano sbarre, recinzioni, altoparlanti e allarmi. C’erano filo spinato e fucili puntati, cani enormi e muscolosi e un drone che sorvolava la zona.
- Cavallette,-, commentò Deimos indicando l’insetto metallico- Ci dà una visione panoramica ed è silenzioso-. Rimasi in silenzio, mentre le grida gioiose della festa andavano scemando alle mie spalle. Mi sentii improvvisamente a disagio e qualcosa si mosse saltando nei miei polmoni.
-Cosa c’è là dietro? – domandai sconcertata.
-Credo sia la domanda sbagliata. Prima di tutto mi premetta di disegnarle un quadro-.
Fece una breve pausa per salutare alcuni Generali, poi tornò a concentrarsi su di me.
-L’unione tra Tempio e Accademia non è un capriccio o una gentilezza nata dal desiderio di Cronyos, il nostro Stratega. E’ un matrimonio che giunge qui dalla Capitale, tanto per intenderci, ed è stato fortemente desiderato dalle alte sfere-.
-Ecco perché i Guardiani avevano impresso un sigillo che non conoscevo-, mormorai massaggiandomi il labbro. Sentivo lo strano impulso di morderlo e farmi male.
-Esattamente. Ci sono degli interessi comuni che sono andati nascendo in questi ultimi tempi e un’alleanza è fonte di guadagno per entrambe le parti-.
Mi gettò un’occhiata eloquente che non ignorai: sapevamo entrambi che anche i Templi erano corrotti e consumati da desideri terreni e non c’era bisogno di negare ciò che era evidente. Così, decisi di porre in luce un aspetto più interessante.
-Di che interessi stiamo parlando esattamente? -.
Un sorrisino compiaciuto tese le labbra carnose dell’uomo. Forse provava piacere nel constatare che anche una Custode fosse in grado di osservare criticamente le mosse del Tempio.
-Interessi economici prevalentemente. Ma anche esigenze politiche-.
Capii immediatamente che le esigenze economiche erano una copertura, per cui affondai il coltello nella ferita ancora calda.
-Parliamo di politica-, lo incalzai.
Deimos mi sollevò il cappuccio della mantella sul capo. Immaginai fosse per i capelli, ma scoprii subito dopo che era per rendermi anonima mentre attraversavamo il braccio di una prigione. Gli occhi dei prigionieri mi scrutavano curiosi e le mani si tendevano per afferrarmi le vesti.
-Le cose vanno male ai piani alti…-, sibilò Deimos mentre calpestava la mano di un detenuto.
- Male? – Non avevo idea di cosa stesse accadendo all’infuori di Carthagyos. Tossii.
-Male. Ma non mi è concesso metterla al corrente di queste vicende, dal momento che nemmeno la stampa ne è informata. Sono questioni top secret e ancora delicate-.
-Quindi perché me ne sta parlando? –
- Vorrei che lei capisse quanto sto per dirle. Una delle preoccupazioni del Governo è rinforzare l’Esercito, aumentando il numero di matricole e rendendo i militanti già presenti più forti di quanto già non siano. Incrementare la longevità dei soldati e non farli cadere come foglie senza un allenamento consentirà di creare braccia forti per una mente governativa che stenta a trattenere i governati-.
Cominciai ad afferrare l’idea.
-Abbiamo tentato di imparare la magia per conto nostro, al fine di renderla un mezzo offensivo contro il nemico, ma i risultati ottenuti sono stati scarsi: gli Dei hanno voluto punirci per la nostra tracotanza. Quindi ci siamo rivolti a voi e abbiamo supplicato il vostro aiuto-.
- Il Tempio non consente che la violenza varchi le sue soglie. Il Dio Krato non lo permette, schiacciando chiunque osi essere impuro su terreno puro-, recitai senza troppa convinzione. Deimos rise.
- E ciò le può dimostrare quanto sia difficile la situazione. Per tutti-.
Arrivammo di fronte a quello che pareva un appartamento. La porta era quella di una prigione, ma una luce calda e accogliente filtrava da dietro lo spioncino quadrato. Non capivo cosa stesse accadendo. Deimos si fermò, la mano sospesa in aria pronta a dare l’ordine di aprire.
-E ora veniamo al punto. Il mio ruolo in questa missione è quella di individuare le Custodi e i Sacerdoti più dotati, se così vogliamo dire, e avvicinarli al mondo della guerra. Renderli compagni fedeli di noi soldati, così saremo in due a combattere sul campo: un uomo e il suo mago a proteggerlo-. Fece una pausa e mi lasciò assimilare il colpo. Pensai all’idea di un soldato religioso e la trovai disgustosa, ma trovavo altrettanto disgustoso convincere la gente a credere in Divinità indifferenti, se non anche crudeli. Quindi non dissi niente e mi limitai a sollevare le spalle.
-Immagino quindi di essere stata scelta. Mi dispiace, ma credo che il mio Dono sia insignificante ai vostri scopi-, mentii. Nella mia mente, infatti, sapevo di non dover condividere informazioni esclusive del Tempio con estranei, specie se armati fino alle mutande.
Deimos si mostrò più comprensivo del previsto, ma molto più deciso di quanto non pensassi.
-Non prendiamoci in giro. I suoi capelli, Astreya, si fanno notare-. Sottolineò il mio nome con enfasi.
-Si tratta solo di un difetto-, obiettai, certa che non sarebbe bastato. Deimos abbassò la mano e due braccia muscolose comparvero a spalancare la pesante porta. Il mio cuore sobbalzò e picchiò terrorizzato contro lo sterno. Cominciai ad agitarmi. Percepivo il sapore metallico della magia e il suo odore sulfureo dietro la soglia. Inspirai ed espirai cercando di calmare il tremore alle mani.
- Difetto che ha incuriosito me, e prima di me lo Stratega, giunto al Tempio ieri stesso-.
Ricordai lo sguardo fisso dello straniero che era giunto per consegnare la lettera alla Sacerdotessa. Ci avevo visto lungo: non era un militare, ma uno Stratega.
Entrammo nella stanza e rimasi sorpresa nel ritrovarmi di fronte a una graziosa camera maschile. C’erano un letto rifatto, un elegante comodino, un armadio in mogano, un tavolo tondo con quattro sedie e un servizio da tè sopra. Vidi persino un divanetto e un cucinino. Non sembrava affatto una cella se non per le pesanti sbarre alla finestra e la porta blindata. Tuttavia seduto sul letto se ne stava proprio un carcerato come tanti altri con lunghi capelli neri, lisci e lucidi. Guardava a terra per cui facevo fatica a vedergli il volto, ma distinsi una catena che gli si avvolgeva sulle gambe come un serpente e gli si avvinghiava al collo laddove un ceppo gli mordeva la giugulare. Iniziai a tremare: non riuscivo a capire come un uomo potesse essere tenuto legato a quel modo, o che cosa avesse mai potuto fare per meritarsi una punizione così dura. Non capivo nemmeno perché lo tenessero in un posto così accogliente se poi era costretto a essere incatenato come un cane. Notai che la lunga catena era ancorata al muro tramite un grosso gancio e sperai di istinto di poterlo rompere, frantumandolo.
-Fobos-, chiosò Deimos, con voce tonante. Il nome non mi diceva nulla, ma l’uomo seduto al bordo della branda parve rianimarsi e si sollevò in piedi puntando lo sguardo verso di noi. La gola mi si seccò completamente e un brivido di paura mi scosse la colonna vertebrale. Non era umano, quella cosa non era naturale, era un mostro. Respirai a fondo, cercando di sembrare impassibile e per niente turbata, ma facendo questo piccolo tentativo inspirai a fondo l’acre profumo della magia e gli occhi cominciarono a lacrimarmi. Li asciugai con una manica della mantella e solo quando mi sentii pronta, abbassai il cappuccio e tornai a fissare il mostro che mi stava innanzi. Era un uomo come un altro a prima vista, ma c’erano alcune note storte nel suo aspetto, fuori posto e sconnesse. Chiunque sarebbe rimasto infastidito dalla sua fisicità e tutti avrebbero capito quanto poco di umano ci fosse in quella creatura. Deimos rimase in completo silenzio, lasciando che studiassi il prigioniero con calma. Era un uomo giovane, di qualche anno più grande di me. Era alto più di due metri e a malapena gli arrivavo al busto. Indossava una divisa nera come quella dei soldati, quindi immaginai fosse un disertore. Era molto magro e la pelle era pallida all’inverosimile, quasi lunare. Le vene bluastre irrigavano le braccia come veleno, il che mi fece venir voglia di vomitare sul tappeto. Sospirai e alzai lo sguardo sul suo viso. Era scarno, mascolino e segnato da una bianca cicatrice sul contorno squadrato della mascella. Aveva due grandi occhi scuri, fissi e con pagliuzze ambrate, segno che in qualche modo la magia albergava in lui. C’erano poi le sopracciglia folte e nere, di cui una scavata da una cicatrice rosata, un naso dritto e un paio di labbra sottili quasi blu, ai cui angoli erano stati inseriti degli anellini di metallo luccicante. Ma non era tutto. Aveva le orecchie leggermente a punta, braccia lunghe e magre, gomiti e ginocchia innaturalmente appuntiti, mani gigantesche con unghie corte e stranamente scure e spalle quasi disarticolate.
-Questo è Fobos, Astreya. Fobos, lei è una Custode del Tempio, Astreya-.
Sorrisi debolmente e allungai una mano. La fronte di Fobos si corrugò e le sopracciglia si piegarono con rabbia fino quasi a toccarsi. Fissò per qualche momento la mia mano tesa, ma poi non la strinse. Passò a scrutare la mia figura così come avevo fatto io qualche istante prima e mio malgrado si soffermò più del dovuto sui miei capelli. Quando parlò quasi presi un infarto: aveva la voce più profonda e cavernosa che avessi mai sentito, tanto potente che fece baluginare la lampadina nuda che pendeva dal soffitto.
-Affiancala-, disse e i denti un po’ appuntiti gli sfiorarono le labbra cadaveriche. Mi voltai verso Deimos, senza capire. Lui sorrideva tristemente e annuì distratto.
-Fobos ritiene che lei abbia le potenzialità giuste per ottemperare all’impegno di cui le parlavo. Per il resto, sta a lei decidere-. Ignorai il commento inutile e scontato di Deimos e tornai a Fobos. Era ancora in piedi di fronte a me, ondeggiando lentamente, con gli occhi spiritati. La catena tintinnò un paio di volte mentre spostava il peso da un piede all’altro. Notai che oltre al collare era tenuto immobile anche da due grosse catene legate ad un paio di manette troppo strette.
-Fobos, lei è un manufatto magico, come me, non è vero? -, domandai strizzando gli occhi. L’odore della sua magia era particolarmente intenso e dava le vertigini.
- Non esattamente come lei-, mormorò e fece un passo avanti. Si abbassò e avvicinò il viso al mio per guardarmi meglio. – Tuttavia abbiamo qualcosa in comune- disse fra sé e sé, osservandomi meditabondo.
-E sarebbe? – domandai, deglutendo. Notai che le pagliuzze dorate nei suoi occhi luccicarono.
- Fobos, come lei, può percepire la forza magica di una persona, percepirne le possibilità e le Doti. E’ un manufatto magico, di tipo… differente-, sibilò.
Fobos fece un ulteriore passo avanti, ma la catena scricchiolò e si tese, facendo quasi strozzare il mostro. Lui non diede segno di sofferenza, anzi scrocchiò il collo.
Deimos lo squadrò con una nota di rimprovero, ma Fobos sostenne fiero il suo sguardo.
-Differente come? – domandai, ma ancor prima che uno dei due mi rispondesse, avevo già capito. Strabuzzai gli occhi e gridai: - Un Ibrido!!!- Deimos scattò in avanti e mi poggiò l’enorme mano sulla bocca.
-Falla stare zitta-, esclamò Fobos, il viso contratto in una smorfia animalesca. Gli anellini tintinnarono, cupi.
-Deve fare silenzio, Custode. I detenuti non sanno nulla della presenza di un Ibrido nel loro braccio. Potrebbero spaventarsi-, commentò Deimos, lasciando scivolare via la mano. Non urlai e non mi dimenai, ma cominciai a respirare affannosamente, annaspando alla ricerca di aria. Era un attacco di panico. Di fronte a me avevo un abominio, un uomo trattato dalla magia senza controllo. Non pensavo nemmeno che gli Ibridi potessero esistere veramente, e ritenevo al contrario che potessero essere solo il prodotto fantasioso della paura del Tempio.  Ma mi sbagliavo di grosso e ora avevo il peggiore incubo possibile materializzato sotto al naso.
-Portala via. E’ sufficiente-, sbuffò Fobos, annoiato.
Ma io non avevo intenzione di andarmene, avevo molte domande da fare.
-Quante Custodi l’hanno vista? – domandai all’Ibrido.
-A parte lei, nessuna, Astreya-. Il suono del mio nome proveniente dalla sua bocca sembrava blasfemo.
-Non abbiamo l’abitudine di portare le Custodi qui,- aggiunse Deimos, al posto di Fobos. –Lei è un’eccezione, come già le ho spiegato. Tuttavia sarò franco e le dirò la verità: tutti i Templi di questo pianeta sono a conoscenza dell’esistenza di Fobos e sono d’accordo nello sfruttarlo a loro vantaggio. Ucciderlo sarebbe un’empietà maggiore di quella che fu fatta quando venne forgiato dalla magia-.
Osservai la reazione di Fobos e mi accorsi che stava affondando le unghie nelle ginocchia, trattenendosi dal reagire a quella dichiarazione. Sentirsi dire che la propria esistenza era empia di certo non favoriva una rilassata partnership tra colleghi.
-Adesso che siamo certi che il suo Dono è un vero talento, gradirei che mi dicesse di cosa si tratta. A meno che non preferisca che sia Fobos a rivelarcelo-, continuò Deimos con un ghigno. Eccola, la trappola, ed ecco il motivo per cui ero stata portata al cospetto di quel mostro. Mi portai una mano alla fronte e spostai un ciuffo di capelli ribelle. Mi ero incastrata con le mie stesse mani, tuttavia non volevo essere io a parlare per prima. Deimos attese qualche altro secondo, ma non vedendo reazioni da parte mia, si rivolse a Fobos con un gesto frettoloso della mano. Il gigante si avvicinò nuovamente e mi osservò dall’alto al basso. Visto che avrebbe indagato nella mia anima, anche io avrei fatto lo stesso con la sua, per cui ancorai il mio sguardo al suo senza timore. Inizialmente vidi una nube nera e un’ombra grande e deforme appoggiata a zaino sulla sua schiena. Poi la figura di Fobos parve sdoppiarsi in due entità distinte, una umana più sfumata e una mostruosa ed enorme, più evidente. Deglutii e mi spinsi oltre. Vidi un muro e percepii uno strano pizzicore alla gola.
- Indistinto-, annunciò Fobos, distogliendo lo sguardo rapidamente. Aveva certamente capito che anche io lo stavo sondando. Mi scappò un sorrisino; se dovevo essere smascherata, almeno avrei tratto questo vantaggio sui miei nemici.
-Indistinto? -, domandò Deimos, accigliato.  Fobos annuì facendo attenzione al ceppo e alla catena che fendette l’aria come una spada.
-Significa che è bloccato. Ma al contempo di alto livello. E’ un po’ come l’universo…. in continua espansione, ma senza comunque occupare tutto lo spazio disponibile-.
Non capii esattamente a cosa alludesse, ma la sua espressione grave mi costrinse a considerare molto seriamente l’analisi che aveva fatto sul mio Dono.
Deimos sospirò e si voltò verso di me. Mi supplicò di dirgli che Dono custodissi, ma già sapeva che non avrei ceduto. Quindi ritenne opportuno far chiamare lo Stratega in persona, procurandomi una sorta di attacco cardiaco: se stavano scomodando i piani alti solo per una semplice Custode, allora la questione era seria. Tuttavia il mio rigore mi impedì qualsiasi azione: strinsi i denti e finsi indifferenza.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4- Consigli al chiaro di luna ***


Capitolo 4

Quando Cronyos arrivò, si fermò fuori dalla stanza qualche secondo discorrendo con Deimos, mentre io e Fobos rimanemmo uno di fronte all’altra, soli nella cella. Ci studiammo e annusammo come due animali selvatici che il Destino aveva posto l’uno contro l’altro, ma nessuno dei due si azzardò a fare la prima mossa. Solo alla fine Fobos si decise a parlare, facendomi scricchiolare le ossa e vibrare i nervi.
-Quando avrai finito di guardare, gradirei ti levassi dai piedi-.
Non capivo se si fosse offeso, se fosse semplicemente irrispettoso o cinico, o se fosse solo molto stanco di essere guardato, studiato, usato.
-Ti guardo perché non so che altro fare-, dissi, decidendo di venire meno all’etichetta e dargli anche io del tu. Fobos mi indirizzò un sorrisino metallico e la sua risata gutturale rimbombò sulle pareti.
-Curioso, davvero curioso…-.
-La curiosità è peccato-, borbottai, ma Fobos stava già guardando alle mie spalle. Lo Stratega fece il suo ingresso nella camera, imponente e tenebroso come la prima volta che lo avevo visto. Deimos camminava al suo fianco, statuario e freddo. Mi voltai e mi prodigai in un saluto rispettoso, mentre l’abominio alle mie spalle non batteva nemmeno un ciglio.
-Signorina Astreya devo presumere-, cominciò. – Deve essere una donna molto cocciuta se mi ha fatto scomodare dalla mia confortevole sedia-. Sorrideva, ma i suoi occhi erano gelidi e privi di comprensione; non gli diedi peso e finsi di non avere notato il suo sarcasmo.
- Mi chiamo Cronyos e sono il nuovo Fondatore e Gestore dell’Accademia-.
-Astreya, Custode diciottesima della Sacerdotessa di Carthagyos-.
Fobos sorrise emettendo una sorta di gorgoglio profondo, al contrario di Deimos che si limitò a sospirare chiudendo gli occhi.
-Piacere di conoscerla, diciottesima Custode. Ora veniamo al problema: Deimos mi ha riferito che siete recalcitrante e che non collaborate. Lo devo ritenere un affronto a tutta la nostra comunità? – domandò serrando la mascella. Quell’uomo più lo guardavo e meno mi piaceva. Emanava autorità e potere, ma anche un’oscurità penetrante e pungente come il freddo invernale. Dovevo cercare un modo per scampare a quella situazione orribile, ma non avevo ancora in mente un piano e il tempo scorreva impietoso.
-Le pare che dopo avere stipulato un’alleanza con la Sacerdotessa, nostra beneamata, potrei cospirare alle spalle di coloro che lei stessa approva e supporta? Avete una bassa stima di noi Custodi-.
Cronyos si sedette pesantemente sulla sedia e indirizzò uno sguardo pieno di disprezzo a Deimos. Probabilmente lo riteneva un incapace e lo incolpava di averlo scomodato per una faccenda così da poco. Tuttavia il suo sguardo rivelava anche una certa frustrazione nei miei confronti. Probabilmente non si aspettava che una donna così giovane potesse dare del filo da torcere ad uno Stratega, eccellenza militare.  Mi squadrò in silenzio qualche secondo, poi con un gesto della mano mi invitò ad accomodarmi. Obbedii, da brava Custode quale fingevo di essere, e mi posizionai di fronte a lui in modo tale da tenere sotto controllo qualsiasi movimento del viso e del corpo. Quando alzai lo sguardo i suoi occhi penetranti erano già fissi nei miei.
-Non dubito della sua buona fede, Astreya, ma dopo un’alleanza non ci dovrebbero essere più segreti, non crede? Altrimenti che collaborazione è se una delle due parti nasconde informazioni? –.
Tossicchiai e appoggiai le mani congiunte sul tavolo. Era iniziata la trattativa.
-Certe informazioni possono essere condivise soltanto se la Sacerdotessa in persona ce lo consente-.
Errore. Cronyos sorrise e fece entrare una giovane guardia dal cranio rasato. La donna mi pose innanzi una lettera vidimata con il sigillo del Tempio. La aprii con le mani tremanti, spezzando la carta e infischiandomene delle buone maniere. La lessi avidamente seguendo la calligrafia delicata e preziosa della Sacerdotessa.

 Con la presente, dichiaro che qualsiasi informazione riguardante la mia Diciottesima Custode, Astreya, figlia di Katakthonio, e di tutte le sue Compagne, potrà essere rivelata all’Accademia, in virtù della nostra nuova Alleanza di sangue, stipulata per mano mia e delle mie Sorelle.

                                                                                                                   Sorella Dyana

 

Mi pietrificai. Non riuscii nemmeno ad alzare lo sguardo dalla carta ruvida. Un’accozzaglia di pensieri cominciò a navigare nella mia mente, come un relitto sballottato dalla tempesta. Perché la Sacerdotessa voleva rivelare informazioni segrete e suggellate da anni di voti a dei comuni mortali? Cosa stava succedendo? L’apertura dell’Accademia aveva un qualche significato più profondo? Nessuna risposta.
-Ho una lettera per ognuna delle Custodi della Sacerdotessa-, commentò Cronyos, un enorme sorriso stampato sul volto. A quel punto ogni mia opposizione, anche minima, sarebbe stata letta come tradimento alla patria, e non potevo assolutamente permettermi un’accusa del genere.
-Credo che la mia opposizione possa finire qui-, dissi allora. Abbassai la lettera e sospirai cercando di rallentare i battiti del cuore. Iniziavo nuovamente a sentire freddo e a rabbrividire. Strinsi le mani cercando di controllarmi.
- Il mio Dono è controverso. Non abbiamo idea di come possa svilupparsi, ma ha certamente a che fare con la sfera dell’Oscuro. Se desidera maggiori informazioni le consiglio di rivolgersi al Guaritore.  Lui certamente potrà soddisfare ogni sua domanda-. Tacqui.
-Che mi dice dei Doni? –
Osservai con la coda dell’occhio Fobos.  Era attento e rapito, come se le informazioni che stavo per rivelare potessero aiutare anche lui a comprendere qualcosa di sé.
-Esistono sei tipologie di Dono, ad oggi conosciute-, commentai schiarendomi la voce. La conversazione si stava lentamente tramutando in un interrogatorio. – Ci sono le Tessitrici, che possono consultare il futuro intessendolo e filandolo; le Guaritrici e i Guaritori, che sfruttano le proprietà energetiche e naturali per risanare ferite fisiche e non; le Bendate, che offrendo la vista agli Dei acquisiscono il potere di osservare il Destino e di manovrare la Sorte; le Demoniache, che posseggono i riflessi e la forza di esseri sovrannaturali; le Silvane, che sono connesse con i fenomeni naturali e posseggono la comprensione dei cinque elementi, e le Oscure, che indagano i misteri di vita e morte-.
-Tessitrici, Guaritrici, Bendate, Demoniache, Silvane e Oscure-, ricapitolò Cronyos. Annuì più volte mentre rifletteva sulla domanda seguente.
- Tu sei un’Oscura? –
-Esattamente-, mentii. Non so ancora oggi cosa mi spinse a farlo: era falsa testimonianza e una inaccettabile contravvenzione ai dettami della Sacerdotessa. Tuttavia, non riuscii a trattenermi e mi convinsi che omettere la vera natura del mio Dono fosse strettamente necessario per la mia sopravvivenza.
Cronyos si appoggiò allo schienale soddisfatto. Si stirò le gambe e fece segno anche agli altri due presenti di accomodarsi al tavolo. Fobos tentò di sedersi comodo, ma le ginocchia ci stavano a malapena per cui fu costretto ad allungarle accanto a Deimos.
-Che percentuale di ogni tipologia è presente attualmente al Tempio, Astreya? –
Riflettei un istante facendo mente locale, poi risposi: - Una Guaritrice, sedici Silvane e sei Bendate, una Tessitrice e quattro Demoniache. Tre Oscure-.
Trovai strano che questi dati non fossero stati richiesti direttamente alla Sacerdotessa, ma dallo sguardo di Cronyos capii che erano quesiti posti solo per capire se stessi continuando a mentire.
-Per quanto riguarda la sua assunzione nell’Esercito,- continuò poco dopo- vorrei che prendesse sul serio la nostra proposta. Lei è evidentemente unica nel suo genere e sarebbe un peccato non far fruttare questa sua originalità: siamo disposti a contrattare e a venire incontro a tutte le sue eventuali richieste, purché il loro espletamento sia fattibile. Le ricordo, inoltre, che là fuori il mondo non è più un luogo sicuro e la paura serpeggia tra la popolazione-.
Sollevai un sopracciglio, senza capire il senso di quell’ultima affermazione.
- Intendo dire che se le cose peggiorassero, una Custode dai capelli corvini apparirebbe a tutti come un segno di malaugurio e tradimento. La gente è superstiziosa quando affoga nella disperazione, ma l’Esercito sa offrire ottima protezione a chi se la merita…-.
Annuii, stupita dalla presunzione che traspirava da quell’uomo: pensava di potermi comprare semplicemente con la promessa di una protezione di cui non avevo assolutamente bisogno. Sollevai lo sguardo e una smorfia di disgusto mi si dipinse sul volto. Era chiaro che dalla mia bocca non sarebbe fuoriuscita più alcuna parola, perciò Cronyos si sollevò pigramente e con breve cenno del capo si accomiatò dai presenti.
-Bene, la ringrazio molto per la collaborazione. La lascio con i miei sottoposti…-.
Il termine “sottoposti” mi sorprese, facendomi sobbalzare: implicava forse che Fobos in realtà non fosse né un prigioniero né un disertore? Iniziai a riflette su cosa potesse essere allora. Cronyos nel mentre si allontanò e uscì dalla stanza, lasciando dietro di sé una scia di profumo caldo che sapeva di metallo e sudore.
Non appena fui scortata fuori dall’Accademia, cominciai a correre, percorrendo le vie scure con sempre maggior timore. I fumi della pira e le gioiose canzoni della festa mi parevano ormai cose lontane e dimenticate e il mio unico pensiero era raggiungere il Tempio per parlare immediatamente con la Sacerdotessa. Corsi con i polmoni in fiamme e le lacrime agli occhi per via del vento frizzante, ritrovandomi dopo solo qualche istante alle soglie del Tempio. Era tardi e sicuramente le altre Custodi stavano già dormendo, per cui mi recai direttamente alla polla d’acqua e con mani tremanti accesi un cero. Lo depositai in una lanterna di carta su cui scrissi il mio nome e lo lasciai andare, consegnandolo alle acque. Fissai la fiammella per mezz’ora, tempo che mi parve interminabile, poi questa si spense con un sibilo e le porte interne del Tempio si spalancarono per far entrare la Sacerdotessa. Aveva i capelli raccolti in una lunga treccia laterale e indossava una vestaglia bianca e dorata. Era scalza e profumava di gelsomino. Mi inchinai rispettosamente mentre la donna mi squadrava da capo a piedi, domandandosi cosa fosse successo di tanto urgente da obbligarmi a interrompere il suo sonno. Parlai velocemente e raccontai quanto più nei dettagli ciò che era avvenuto. Notai che mi ascoltava distrattamente, come se fossero notizie tutte già note.
-Non devi assolutamente preoccuparti, mia cara Custode. La lettera e tutte le affermazioni fatte dallo Stratega e dal suo Generale sono veritiere. Ora torna nella tua cella a riposare e medita sulla proposta che hai ricevuto. Onorerebbe il Tempio e gli Dei-.
Sollevai lo sguardo per la prima volta da quando era entrata e mi permisi di osservarle il viso. Vidi un leggero sdoppiamento e quella che mi parve una lingua biforcuta sfuggirle dalle labbra. L’emicrania era peggiorata e sentivo le forze venirmi meno, mentre le allucinazioni si facevano sempre più intense.  Ciò non mi impedì, tuttavia, di sollevarmi in piedi.
-Prenderò in seria considerazione il suo suggerimento e chiedo immensamente perdono per il disturbo arrecatole-. Indietreggiai, con un enorme peso sul cuore, certa che qualcosa non andasse e che dietro all’apertura dell’Accademia vi fosse qualcosa di oscuro. La Sacerdotessa mi sorrise flebilmente e poi venne inghiottita dall’oscurità, lasciandomi sola con i miei sospetti.
A quel punto, abbandonata a me stessa e incapace anche solo di pensare di poter dormire, decisi di vagare un po’ per i corridoi rimuginando più e più volte su quello che era accaduto quella sera, ripercorrendo i miei passi e biasimandomi per tutti gli errori che mi pareva di aver commesso. Uscii nuovamente nel giardino e mi sedetti su una panca con il volto diretto verso la volta stellata velata da quel fiume verde e rosso di sudiciume a cui ormai eravamo tutti abituati. Un tempo il cielo doveva essere stato molto più bello e oscuro, un manto conturbante a coprire lo splendore delle stelle, ma ora era solo una cortina di fumi e polveri.
- Buonasera, Astreya-.
Abbassai il capo, individuando il Guaritore al centro di un campo di erbe medicinali. Era con una giovane Custode di nome Medeya. Avevano entrambi dei cestini e una falce.
-Buonasera, Guaritore, e buonasera anche a te, Medeya-.
Medeya mi salutò con un timido sorriso e tornò a chinarsi per raccogliere alcune erbe cespugliose; Iatro, invece, abbassò la falce e si asciugò la fronte luccicante che avanzava dal contorno della maschera nera.
-Stiamo raccogliendo alcune erbe al chiaro di Luna, come va fatto-, disse- Tu? Ti godi la brezza? -, mi domandò con un sorriso giallo. Annuii e finsi una serenità che non conoscevo.
-Posso chiederle di prestarmi orecchio per un istante? -, domandai poi, con slancio. Mi alzai e lo raggiunsi.
- E’ a conoscenza di Fobos? -, chiesi in un fiato, gustandomi lo sguardo stupito dell’uomo nel sentire pronunciare quel nome.
-Mi chiedo come tu possa conoscerlo, piuttosto-, rispose serio, mandando Medeya a raccogliere delle erbe un po’ più lontano, laddove le nostre voci le paressero soltanto una eco del vento. Lei obbedì da brava apprendista, senza porre alcuna domanda.
- Mi hanno offerto un posto all’Accademia-, dissi certa di non rivelare informazioni che già non fossero note. Iatro si aggrappò al mio braccio e mi scortò verso un arbusto dalle bacche viola. Poi cominciò a coglierle ad una ad una incidendo il rametto con indice e pollice.
-Immaginavo lo avrebbero chiesto a te per prima. Sei così diversa…-, mormorò.
-Dovrei accettare? Rifiutare? Dovrei sapere qualcosa? La sacerdotessa la considera un’ottima opportunità-, buttai lì. Iatro si massaggiò la schiena pensieroso e contò velocemente le bacche che aveva sistemato nel cestino.
-Veramente è una scelta che spetta a te, Custode. Ad ogni modo non ci vedo nulla di male nell’onorare il Tempio in maniera diversa dal pregare-.
-Capisco-, dissi, delusa da un consiglio così banale e scontato. Feci, quindi, per voltarmi ed andarmene, ma Iatro parlò nuovamente, stavolta con voce più bassa e roca: - Ma stai bene attenta a non rivelare troppo circa la tua Dote. Non per diffidenza lo dico, ma per saggezza: non si deve mai aprire la bocca solo per darle fiato, ma ricercare le parole, così da esprimere solo ciò che va strettamente detto. Chiaro? –
I suoi occhi brillavano riflettendo il colore delle bacche. Annuii, confusa. Lui allora sorrise da dietro la maschera, come rasserenato, e tornò al suo lavoro, senza più aggiungere nulla. Sospirai e, salutata Medeya, mi ritirai nella mia cella. Avevo accresciuto i miei dubbi piuttosto che dissiparli.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5- Affogando ***


Capitolo 5


La mattina seguente mi alzai di buon’ora, contenta che fosse il mio giorno di riposo. Andai nel refettorio e scambiai due parole con Aracne, la quale pareva più stanca del solito.
-Stai bene, Aracne? -, chiesi notando con che poca voglia masticasse il tortino.
-Sono preoccupata-, disse.
Mi raccontò brevemente delle lettere che l’Accademia aveva inviato al Tempio e di come lei non ne avesse ricevuta nemmeno mezza.
-Lettere? -, domandai, ripiombando nell’argomento come un falco in vista della preda.
-Stamattina con la posta sono giunte delle lettere di leva per l’Accademia, non lo sapevi? -.
Feci segno di no con la testa mentre innaffiavo lo stomaco con una tisana alla malva e lavanda. Mentire a una delle poche amiche che avevo non mi piaceva per niente, ma volevo sapere che voci girassero per il Tempio.
-A te non è arrivata alcuna richiesta? Pensavo che…-
-No, nessuna. Solo una proposta a voce, ma nulla di serio-, dissi, sentendomi immediatamente meno in colpa rispetto a prima. I suoi occhi guizzarono a me e poi tornarono a rotolare sul tavolo, mesti.
- Ecco, io speravo di essere inclusa in questo Programma Deus Ex Machina, ma non ho ricevuto alcuna proposta, nemmeno orale. Capisci? –
-Sinceramente no, Aracne. Perché vorresti aderire? –
Aracne si massaggiò la base del naso e sospirò.
-Pagano veramente bene e potrei permettermi di mantenere la mia famiglia e al contempo occuparmi della mia salute. Tu non puoi capire quanto sia difficile mantenere due vecchi genitori e due sorelle. Dipendono da me-.
La osservai mentre una lacrima le scivolava lenta sulla guancia e bagnava il tozzo di pane che teneva in mano. Non l’avevo mai vista così e il cuore mi si sciolse all’istante. Non avevo mai avuto una vera famiglia, ma avevo visto quanto calore ci fosse negli abbracci che riceveva Aracne dai suoi genitori quando venivano a trovarla, seppur malati, ogni mese. Lo vedevo, e ogni tanto ne provavo un’invidia pungente desiderando anche io un amore simile, solo per me. Peccavo di egoismo, lo sapevo, ma era la cosa più bella che avessi mai provato, anche se non sulla mia pelle, e sapevo bene che a me quel dono sarebbe stato precluso per sempre.
-Come stanno? – domandai immediatamente, raschiando il fondo della tazza con il cucchiaio. Non riuscivo a guardare Aracne negli occhi, non quando sapeva che a me un posto era stato offerto.
-Male, ma come sai non si lamentano. Lavorano ancora, nonostante tutto, ma la fabbrica dà loro pochissimo sapendo che non hanno la possibilità di andarsene per cercare di meglio. Le mie sorelle e io li aiutiamo come possiamo, ma Penelopea è incinta e suo marito è chi sa dove, per mare. Non ha notizie di lui da mesi ormai-.
Ingoiai l’amarezza che mi si era aggrappata alla gola, mentre con la coda dell’occhio vedevo le mani di Aracne tremare senza controllo. La preoccupazione la rendeva più debole e magra, come una fragile canna di vetro. Chiusi gli occhi e deglutii.
-Me lo stai chiedendo, vero? -, domandai senza guardarla. Aracne non rispose subito, ma sentii un gemito. Era troppo buona per chiedermelo direttamente.
-Magari mi arriverà la lettera-, cercò di dire, mentre un’altra lacrima scivolava fra le labbra tese nel sorriso più falso che le avessi visto.
- Lo posso fare,- dissi mentre mi sentivo ardere dalla voglia di scappare ed essere semplicemente egoista.
-Non posso chiedertelo-, commentò lei, gli occhi bassi. La osservai qualche istante, mentre si tormentava i capelli, sempre più bianchi e fini. I suoi grandi occhi marini erano cerchiati da profonde borse bluastre e le prime rughe le trafiggevano la fronte di disperazione. Ripensai a sua madre, piccola e rinsecchita, e la sua immagine si sovrappose a quella di Aracne, già consumata da una vita di esperimenti e sacrifici. Mi salì un conato di vomito e un freddo brivido mi schizzò lungo il collo, gelandomi il viso.  Mi alzai quasi di scatto, spaventandola.
-Lo faccio-, annunciai e i suoi occhi divennero languidi e umidi come quelli di un cucciolo. Allungò le mani per afferrarmi la veste e baciarla, ma non volevo che si umiliasse a tal punto, né che pensasse di essere in debito con me a vita, quindi assunsi l’espressione più cruda che potevo e la fissai intensamente.
-A una condizione. Tu verrai con me e mi aiuterai come potrai. Per questo prenderai parte del mio stipendio e potrai mandare un sostegno alla tua famiglia. Intese? -. Aracne annuì con un largo sorriso mentre il mio lentamente si spegneva. La salutai in fretta e furia e andai a comunicare immediatamente la mia decisione alla Sacerdotessa, la quale ponendomi una mano sul capo, mi benedisse e ringraziò per il servizio che andavo a svolgere per lei.
La mia vita era finita.

 

La sera tardi, dopo aver fatto i bagagli, mi recai con Aracne all’Accademia, dove Deimos, informato dalla Sacerdotessa, ci stava attendendo. Alle sue spalle troneggiava l’imponente figura di Fobos. Questa volta non era incatenato ad alcunché e indossava una giacca in pelle logora che poco si addiceva al clima militare che si respirava.
-Buonasera, Custodi-, salutò Deimos, con una punta di vittoria nella voce.
-Salve-, salutò radiosa Aracne, mentre osservava sbalordita il fisico strano e slanciato di Fobos. L’uomo guardò la mia compagna come fosse un insetto schifoso e me come fossi qualcosa più schifoso ancora di quell’insetto, poi salutò laconicamente con un cenno del capo.
-Bene, seguitemi. Vi mostro la stanza in cui alloggerete e potrete lasciare i vostri effetti-. Detto questo, a grandi passi, cominciò a scortarci per l’Accademia. Aracne già dopo due metri aveva il fiatone e fui costretta a rallentare anche io per non lasciarla indietro. Fobos e Deimos continuavano a marciare a qualche manciata di passi da noi.
-Cosa è quella… cosa? - domandò Aracne indicandomi con lo sguardo Fobos.
-E’ un manufatto come noi-, risposi, tralasciando il piccolissimo e insignificante dettaglio che era un abominio creato dalle mani dell’uomo. In effetti ci avevo riflettuto parecchio ed ero arrivata alla conclusione che non me ne poteva fregare di meno di quello che era, dal momento che in fondo anche noi Custodi eravamo uno scherzo della Natura.
-Ma è mostruoso! - esclamò. Probabilmente Fobos l’aveva sentita, perché voltando leggermente la testa, ci indirizzò una ben poco apprezzabile occhiataccia. Fissai il pavimento e rimproverai a bassa voce Aracne.
Giungemmo, quindi, in un blocco distaccato e apparentemente nuovo. Si trattava di un edificio basso e cubico di cemento e vetro, molto moderno. Doveva essere stato ammodernato da poco visto che alcune impalcature erano ancora visibili. Entrammo in fila indiana e Deimos ci condusse al secondo piano. Ci consegnò le chiavi e aprii la porta davanti alla quale ci fece fermare. Dentro trovammo una stanza asettica e spaziosa con due letti separati e un piccolo bagno. Sia io che Aracne gettammo i nostri zaini sul letto e ci voltammo attendendo nuove istruzioni.
-Bene, siete le terze ad arrivare: nel primo pomeriggio ci hanno già raggiunto le Custodi Medeya e Dyte. Domani alle dieci verrete sottoposte entrambe ad una visita medica di routine, dopodiché per lei, Astreya, ci sarà da prendere le misure per la nuova uniforme. L’appuntamento è nell’Ospedale alle dieci esatte- Annuii sedendomi sul letto. Aracne era emozionatissima e dondolava da un piede all’altro senza riuscire a stare ferma.
-Ora devo assentarmi per impegni più incombenti, ma vi lascio nelle mani del mio collega fidato, Fobos-, disse, infine, Deimos.
-Scusi, ma sono turbata. Fobos non è un prigioniero? Quando l’ho visto ieri sera mi pareva parecchio incatenato-. La mia voce suonò arrogante e sfacciata, ma ora che non ero più al Tempio non me ne poteva importare di meno. In un certo qual senso mi ero sentita tradita dalla Sacerdotessa e abbandonare quella che era stata la mia casa per anni aveva nuovamente il sapore amaro dell’abbandono.
Fobos ruggì qualcosa che non capii, persa come ero nei miei pensieri, per cui gli chiesi gentilmente di ripetere.
-Ho detto che ero incatenato per questioni di sicurezza che non la riguardano. Ci tengo a precisare tuttavia che sono un militare affidabile e non pericoloso…- Fece una breve pausa- …generalmente-.
Deimos sorrise e diede una pacca sul gomito al gigante.
-Fobos, non le intimorisca già dal primo giorno, per favore-.
-Non era mia intenzione-, commentò lui, ed era serio.
-Bene, ora vi devo proprio lasciare. Buon soggiorno-. Poi Deimos sparì lasciandoci nelle mani di un Ibrido collerico. Deglutii un paio di volte per allontanare l’odore di magia che lo avvolgeva, ma il pizzicore non spariva.
- Bene, vi illustrerò giusto un paio di regole-, cominciò, mentre faceva segno a entrambe di sederci. Notai che Aracne si sedette il più lontano possibile da lui, rimasto in piedi di fronte a noi, il capo quasi a sfiorare il soffitto.
 –Regola numero 1: niente magia, se non durante gli allenamenti e mai offensiva contro un militare di qualsiasi rango. Regola numero 2: non si può uscire dall’Accademia senza un permesso e il suddetto deve essere richiesto direttamente allo Stratega, durante gli orari stabiliti. Regola numero 3: non sono tollerate inadempienze ad ordini impartiti dai propri superiori-.
- Sarà fatto-, mormorò Aracne, tutta un fremito. Non aveva ancora capito che quelle tre regole erano soltanto per me. Fobos la squadrò con indifferenza, poi si girò dalla mia parte.
-Domande? –
-Un’infinità-, ammisi.
- Te ne concedo due, matricola-. La mancanza di riguardo per una donna religiosa mi fece andare su tutte le furie e scalpitare il mostro che mi soffocava da dentro. Vidi rosso per un secondo e il sangue nelle vene cominciò a scorrermi veloce e schiumoso.
- Come mai hanno deciso di riaprire la Caserma? E seconda domanda: la regola sulla magia vale anche per lei? –
Gli occhi di Fobos si tinsero di un nero intenso e le sopracciglia schizzarono verso il naso, ombreggiandogli il volto. Improvvisamente mi parve molto minaccioso.
-Forse non ti è chiara una cosa, matricola. Dal momento in cui hai varcato quella soglia, non sei più una religiosa né tantomeno una donna. E si dia il caso che la tua sorte di soldato Deus Ex Machina sia nelle mie mani e che tu mi stia particolarmente antipatica…-
Sentii il richiamo del sangue nelle mani e percepii che lentamente stavo perdendo il controllo delle braccia e delle gambe. Fremevo, indignata per il trattamento che stavamo ricevendo, dopo aver accettato di aiutare gente stupida e bellicosa, attaccata più alla propria arma che non al cervello. Una vocina nella mia testa mi disse di attaccare Fobos e distruggerlo prima che lui potesse fare lo stesso con me. La feci tacere solo grazie ad una morsicata alla guancia.
-Non ho intenzione di sforzarmi di essere simpatica. Mi pare che la simpatia qui non sia il forte di nessuno. E ora risponda per favore alle due domande che ho scelto di diritto-, dissi, ferma e statuaria. Sentii Aracne tirarmi la manica della veste per impedirmi di cacciarmi nei guai già il primo giorno, ma ormai era troppo tardi. Fobos aveva già preso la rincorsa e, ignorando lo strillo acuto di Aracne, mi aveva sollevato per le spalle, imprigionandomi con le enormi mani. Non mi dimenai e non cambiai di un accento la mia espressione seria.
-Cosa vuole fare, picchiare una donna? -, domandai, sprezzante. Il viso di Fobos era a pochi centimetri dal mio, feroce e spigoloso. Vedevo il mio riflesso nelle sue iridi scure e fui fiera di come apparivo. Per niente debole. Poi mentre lui mi sibilava di restare al mio posto e non giocare con il fuoco, vidi qualcosa d’altro. Nei suoi occhi c’era un’ombra appiccicosa, simile a quella che da anni vedevo dentro i miei. Ammutolii all’improvviso e rilassai completamente ogni muscolo, stupita: Fobos si ritrovò così con le mani strette attorno ad una donna dallo sguardo perso che fissava qualcosa attraverso di lui. Con uno scatto e un ringhio mi posò a terra senza troppa leggerezza, distogliendo lo sguardo.
Dal canto mio continuai a fissargli gli occhi ancora per qualche istante cercando di rintracciare quella macchia che avevo visto, ma sembrava si fosse riassorbita. Infine respiro dopo respiro ritrovai me stessa e la calma mi fece sciogliere le interiora e smettere di fischiare le orecchie. Mi resi subito conto che avevo appena osato sfidare una montagna d’uomo, anche se insolitamente magro e scavato, e mi vergognai. Non era il comportamento che Aracne, così fragile e ora terrorizzata, meritava di vedere da parte mia. Sapevo che potevo essere migliore di così e che ogni volta che cedevo alla mia parte sbagliata era una sconfitta che pregiudicava i miei buoni risultati. Chiusi gli occhi.
-Mi dispiace. Non so cosa mia sia preso, Aracne. Devo delle scuse a entrambi-, dissi con voce atona. Fobos, di fronte a me, sgranò gli occhi e rimase un momento perplesso a causa del mio repentino cambiamento di umore.
- Per stavolta passi. Ma pulirai il refettorio domani sera dopo cena e riassetterai tutto quanto da sola, disse con voce severa. Era ancora visibilmente arrabbiato e ringraziai che non mi avesse malmenata. Se lo avesse fatto, probabilmente mi avrebbe uccisa con un solo pugno.
-Sì-.
-Sì-, ripeté lui, più ad alta voce. Si sistemò i lunghi capelli scuri dietro le orecchie e si torturò uno dei due piercing al labbro. Stava cercando di controllare la rabbia.
- E metto subito in chiaro che un comportamento del genere non sarà più tollerato e verrà punito in base alla mia discrezione-.
-Sì-, dicemmo in coro io ed Aracne, la quale ancora non aveva smesso di tremare e guardava spaurita l’Ibrido.
-Infine ti chiedo di seguirmi in bagno-, disse fissandomi. Trasalii senza capire, ma non mi opposi e lo seguii. Aracne rimase al suo posto, pietrificata come un sasso. Entrammo nella toilette e Fobos aprì il rubinetto, facendo scorrere l’acqua qualche secondo, poi tappò il lavabo infilando nello scarico un asciugamano. Aspettammo in silenzio che di fronte a noi si formasse un piccolo lago di acqua calcarea. Lo sguardo di Fobos aveva una sfumatura particolare: era sadismo, ma lo capii soltanto quando mi afferrò per i capelli e mi infilò la testa sott’acqua, tenendola giù. Cominciai istintivamente a urlare e divincolarmi, ma quel ragazzo aveva una forza incredibile e con la sola mano mi impediva qualsiasi movimento. Mi dibattei a più non posso, spaventata, finché attorno agli occhi non cominciarono a formarsi delle macchie scure. Stavo per svenire, stavo per perdere i sensi. Tuttavia un istante prima che il mio corpo e la mia mente cedessero alla molle incoscienza la mano di Fobos si aggrappò con più forza ai miei capelli e mi tirò su. Annaspai, tossendo e rigurgitando acqua. Sentivo ancora l’eco delle mie urla nelle orecchie e il pianto rotto di Aracne dall’altra parte del muro. Mentre ancora mi teneva il capo, Fobos mi costrinse a voltare il viso e guardarlo. Vedevo ancora tutto distorto e le sue labbra mi parevano muoversi al rallentatore.
- Questo è quello che accade a chi non mi obbedisce. La mia vendetta personale è peggiore di qualsiasi altra punizione-, sputò fuori con cieco furore. E giusto per farmi capire chi davvero comandasse fra noi due, mi ricacciò la testa nell’acqua. Mi aggrappai ai bordi del lavandino, stavolta, facendo pressione per spingermi via, ma anche in quel caso fu tutto inutile. Cominciai nuovamente a vedere nero in breve tempo, mentre le bolle mi accarezzavano il viso, sadiche. Strillai ancora, impotente, e spalancai gli occhi mentre Fobos mi strappava per la seconda volta alla morte. Annaspai tenendo le mani aggrappate al collo e caddi sul freddo pavimento, infreddolita e con i capelli appiccicati al viso. Avevo il volto in fiamme, congelato, e le labbra spellate e tese a forza di lottare. Fobos mi sovrastava con un sorrisetto diabolico, i denti appuntiti che sfioravano il labbro inferiore. Rimase a godersi lo spettacolo ancora qualche istante e poi sparì, lasciandomi senza forza a terra.  Aracne non appena l’Ibrido fu scomparso scattò verso di me e, trovandomi a terra immobile, strillò come un animale. Sollevai una mano e mugugnai che stavo bene. Allora lei si chinò al mio fianco e cominciò ad asciugarmi il viso, anche se ogni volta che passava l’asciugamano sul volto, subito dopo una lacrima cancellava il suo lavoro.

 
Quando il mattino successivo giungemmo nel refettorio, mi prese lo sconforto. Vi erano più di un centinaio di persone che mangiavano e sporcavano, urlavano e brindavano. E mentre osservavo uno che si faceva scivolare la birra lungo la barba incitato dai compagni, realizzai che sarei stata io quella che avrebbe dovuto ripulire tutto. Aracne, nel frattempo, individuò le nostre due compagne e le salutò con una mano.
-Eccole-, esclamò incamminandosi verso la tavolata isolata che occupavano. Facemmo lo slalom tra soldati allegri e cuochi indaffarati, finché non ci ritrovammo di fronte al tavolo dove stavano cenando Deimos, Fobos, Eracleo, il tizio di colore che avevo già visto e un altro paio di uomini che non conoscevo. Abbassai lo sguardo e mi fissai i sandali, nella speranza che nessuno di loro notasse il nostro passaggio. Ma non fu così: il tizio di colore, infatti, alzò il capo poco prima che uscissimo dal suo campo visivo.
-Buon appetito-, esclamò. Rispondemmo entrambe con gentilezza. Gettai una rapida occhiata a Fobos per capire se avesse riferito a qualcuno quello che era successo. Quando mi resi conto che non avrebbe alzato il muso dal piatto, strinsi le labbra violacee e imprecai mentalmente.
-Che cosa le è successo? E’ livida-, sentii dire ad Eracleo mentre mi allontanavo.
Nessuno che fosse seduto a quel tavolo, però, si premurò di rispondergli.
Mi sedetti rumorosamente al tavolo, mentre Aracne si accomodava di fronte a me e accanto a Medeya. L’altra Custode alla mia sinistra era Dyte. Non ero stupita che fosse lì, visto l’indole irosa e intollerante che già da anni manifestava nel e contro il Tempio. La salutai con un cenno, senza una parola: sapevo, infatti, che le Demoniache non amavano le chiacchiere a causa dei continui dolori ossei che le ossessionavano al risveglio dopo ore di inattività. Medeya, invece, era raggiante e masticava insistentemente un pezzettino di formaggio. Ispirata da lei, guardai il vassoio che mi venne depositato davanti da un inserviente, ma non avevo per niente fame e anche solo aprire un po’ la bocca mi faceva tendere le labbra indolenzite e morire di dolore. Perciò mi limitai a fissare il cibo e aspettare che le altre finissero di mangiare. E mentre deglutivo schifata un succo di arance pieno di conservanti, alle mie spalle giunse a lunghi passi Deimos.
-Salve, Custodi. Oggi inizieremo il vostro addestramento,- cominciò decantando frasi che sembrava aver imparato a memoria: - Ma prima vi aspetta la visita medica e le misurazioni per le tute, che saranno disponibili già oggi nel pomeriggio-.
-Perfetto-, asserì senza inflessioni la meticolosa Dyte. Si asciugò le mani nel tovagliolo e indirizzò a Deimos un sorriso aguzzo. Noi altre, invece, rimanemmo in silenzio.
-Un’altra cosa.  Dopo quattro settimane di allenamento per le tecniche di base, dovrete scegliere in che Reggimento inserirvi, per cui conviene che vi informiate con anticipo sulle mansioni dei singoli gruppi per scegliere poi con maggiore cognizione di causa-.
Gli occhi mi si dilatarono e cominciai a sentire il sangue pietrificarsi nelle vene. Strinsi i pugni e cercai di rilassarmi.
-In quale Reggimento è inserito Fobos? –, chiesi d’impulso, senza preoccuparmi di sembrare terrorizzata, curiosa, fastidiosa o irriverente, o qualsiasi altra cosa potessi essere agli occhi di Deimos.
- Reggimento dei Ruggenti, ma non vedo come questa informazione possa condizionare la vostra scelta- Ma poteva eccome, dal momento che volevo evitare Fobos come la peste.
Dyte, stanca delle chiacchiere, si alzò in piedi e il suo cranio rasato e biondo splendette come un sole illuminato da un fascio di luce. – Vogliamo muoverci? -, Deimos sorrise e immaginai che stesse pensando a come sarebbe stato facile manipolare una personalità già forte e guerriera come la sua. Dyte si era rasata i capelli subito dopo essere uscita dal Tempio come a volere lasciare la sua vita alle spalle, immaginai, e questo non poteva che piacere a personalità autoritarie e patriottiche come Deimos o Fobos. Mi alzai, più stanca di quando mi ero seduta, e ci dirigemmo verso il cortile dove l’Ibrido, comparso dal nulla, ci aspettava svettando come un cipresso in mezzo alle esercitazioni di piccoli soldatini. Deimos ci salutò freddamente, richiamato da un soldato abbronzato che guidava una marcia sostenuta, e Fobos ci accolse altrettanto gelidamente. Dyte e Medeya sembravano tranquille, ma io ero agitata e non riuscivo a contenere il tremore alle mani, nemmeno per fare coraggio ad Aracne.
-Forza, seguitemi-, disse Fobos, tuonando. Non ce lo facemmo ripetere due volte e ci incamminammo dietro di lui, in fila indiana, come una silenziosa processione. Attraversammo il cortile, affogato in attrezzature da allenamento e giovani sudati e affaticati, per poi inoltrarci in un cubo di cemento bianco e luminoso. L’interno era completamente asettico e metallico, perfettamente pulito, con robot che sfrecciavano per terra impazziti muniti di spazzole e liquidi disinfettanti. Ne scavalcai uno con un saltello, mentre una infermiera blaterava qualcosa circa le nostre cartelle cliniche.
-Ci è stata inviata dalla Sacerdotessa la storia medica di ciascuna di voi, con i vostri profili psichici e fisiologici. Pertanto abbiamo deciso di dividervi in due coppie, così da facilitare il lavoro ai nostri dottori. Medeya e Aracne verrete con me, mentre Dyte ed Astreya proseguirete con Fobos-.
Appena sentii che mi avevano abbinato a Dyte e che saremmo state seguite dall’occhio vigile dell’Ibrido, capii immediatamente che i dottori erano preoccupati per il carattere oscuro e imprevedibile delle nostre Doti. Ma ero preoccupata anche io per quanto era scritto nella mia cartella: non sapevo cosa e quanto fosse stato rivelato della mia condizione e a quali domande avrei potuto rispondere.
-Muovetevi-, borbottò Fobos guidandoci in stretti corridoi, mentre la mia mente galoppava senza freni. Giungemmo, sotto lo sguardo incuriosito di altri dottori, ad una doppia porta in metallo pesante con una sola finestrella di vetro. Stampati sopra di essa vi erano due simboli ben noti: rischio malattie infettive e scorie pericolose.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6- A pelle nuda ***


Capitolo 6


Quando Dyte uscì dalle pesanti porte della sala, mi sentii un po’ meglio. Era ancora in forze e aveva un colorito roseo decisamente sano. Mi fece l’occhiolino e con passo spedito si allontanò nel corridoio, lasciandomi sola con il fiato di Fobos sul collo. Seduta su quella seggiola di plastica sembravo minuscola al suo confronto, lui che torreggiava come una vedetta di fianco a me, appoggiato con la schiena al muro. Mi concessi di valutarne un po’ l’aspetto per capire quali caratteristiche fisiche potessero essere state causate dall’uso incapace della magia. Di sicuro il colorito pallido e la consistenza simile a cuoio della pelle non erano affatto naturali. Sbirciai le braccia, così lunghe e nervose, ma quelle mi parvero completamente umane. Cosa che non si poteva, invece, dire per il viso, così magro ed emaciato da renderlo spigoloso e duro. I denti simili a quelli di un animale erano più adatti a masticare brandelli di carne sanguinolenta, piuttosto che il tortino ai mirtilli del refettorio. E il colore catramato degli occhi di certo non era suo, era troppo liquido e cangiante per poterlo essere.
-Signorina…-, mi chiamò l’infermiera di turno, emersa da dentro la sala. Mi guardava con uno sguardo serio e professionale, ma nei suoi occhi leggevo eccitazione. Probabilmente le apparivo come una meravigliosa cavia, tanto esotica da non riuscire a contenere la smania di poterla sezionare. – Fobos, è richiesta anche la sua presenza-.
Fobos annuì serio e si staccò con un colpo di reni dalla parete. Mi afferrò per un braccio, con così tanta forza che sentii le ossa scricchiolare, e mi sospinse verso l’infermiera. Lo guardai piena d’ira, ma a lui sembrava far solo che piacere. Mi spintonò, quindi, in avanti e mi gettò contro le porte dell’ambulatorio che fecero appena in tempo ad aprirsi. Mi ritrovai in una specie di cella di decontaminazione con l’infermiera e l’Ibrido al mio fianco, mentre una nuvoletta bianca ci aleggiava attorno gelida e secca. Rimanemmo in piedi, immobili, per qualche secondo, finché si accese una lucetta rossa di fronte a noi e la porta si aprì automaticamente. Di fronte a me c’era una sala operatoria vuota con solo un tavolo da obitorio al centro, lucente e inquietante. Feci un passo avanti senza che nessuno me lo dicesse e mi guardai attorno.
-Buongiorno, Signorina Astreya-, disse un uomo alle mie spalle. Mi girai di soprassalto e notai una scrivania spoglia situata accanto alla porta, su una pedana circolare. Sopra la scrivania vi era lo scheletro di un feto e dietro un uomo molto piccolo con due occhiali spessi. Scivolò giù dalla sedia con estrema lentezza e mi porse la mano. Mi arrivava poco più che al petto e io non mi sono mai considerata alta. Gli strinsi la mano piccola e pelosa e lui sorrise.
-Mi chiamo Upokrates e sarò il tuo medico curante-. Il fatto che mi trattasse come una ragazza normale e che lasciasse stare i convenevoli mi fece calmare un po’.
-Bene, gradirei che ti spogliassi-, disse poi, senza nemmeno lasciarmi il tempo di capire il suo nome. Rimasi un momento interdetta, sapendo Fobos alle mie spalle. Tentennai e rimasi immobile.
-Non temere, cara. Sono un medico-.
-Non è di lei che ho timore-, bofonchiai gettando un’occhiata di sottecchi all’Ibrido. Upokrates seguì il mio sguardo sbattendo gli occhioni chiari dietro ai vetri e un sorriso comprensivo si dipinse sul suo volto.
- Non preoccuparti, Fobos mi ha aiutato spesso nelle ricerche ed è abituato ad assistermi. Potremmo dire che anche lui è un medico-, sorrise. Ma non me la dava a bere. Sapevo che Fobos era lì soltanto per questioni di sicurezza, pronto a piantarmi una pallottola in testa se avessi dato fuori di matto.
- Non ho tempo da perdere-, ringhiò Fobos osservando il gigantesco orologio appeso alla parete.
Sospirai e mi spogliai della veste che indossavo rimanendo in biancheria intima. Nient’altro che un paio di slip e una canottiera. Mi sentivo particolarmente a disagio, con i buchi delle siringhe e i lividi esposti. Finsi, quindi, di essere di fronte a Iatro o ad un qualunque altro medico del Tempio e rimasi più calma di quanto pensassi.
-Bene, allora, iniziamo con una prima visita superficiale, poi dovrò chiederti di togliere tutto il resto-. Annuii. L’infermiera avanzò e mi prese gentilmente le misure, dicendomi che in quel modo avrei evitato di perdere altro tempo per la divisa, che ci avrebbe pensato lei. Poi mi fece salire su una bilancia e mi chiese di rimanere immobile: era la prima volta che mi pesavano e misuravano e questo mi diede l’impressione di essere un animale da allevamento, qualcosa di simile a una mucca o un maiale, buona da mangiare e nutrita solo per poi essere uccisa.
-Quaranta cinque chilogrammi -.
Upokrates segnò i dati diligentemente in una cartella dalla quale vidi fuoriuscire la foto che mi scattarono a tredici anni, quando arrivai al Tempio. Vidi la mia espressione arrabbiata e insensibile e mi resi conto che era ancora la stessa.
-Per favore scenda dalla bilancia e si spogli del resto-. Cominciai a spogliarmi senza dire nulla.
-Adesso andrò ad applicarti degli elettrodi sul corpo così da avere un quadro del funzionamento del sistema nervoso. Ma prima bevi questa fiala-.
Quando fui completamente nuda mi allungò una fiala di un colore bluastro che puzzava tremendamente. Fobos, annoiato, continuava a seguire lo scorrere della lancetta dei secondi, ma sul suo viso era comparso un insolito rossore.
-Che cosa è? -, domandai agitando il denso contenuto della provetta. Aveva la consistenza del sangue raggrumato. – E’ un liquido di contrasto. Entrato in circolo colorerà i vasi sanguigni e con una macchinetta vedremo anche il suo sistema ematico. Per favore lo beva immediatamente-.
Lo inghiottii senza riflettere sentendolo scorrere come olio lungo la laringe. Diedi un colpo di tosse e mi ripulii i denti con la lingua. Upokrates e l’infermiera cominciarono quindi a spalmarmi addosso un gel trasparente e ad appiccicarvi sopra delle ventose collegate a una quantità spaventosa di cavi. Si attorcigliavano attorno a me come serpenti e me ne ritrovai almeno dieci fra i piedi. Tutti erano collegati a un computer.
-Intanto che il computer elabora, ti porgerò qualche domanda. Gradirei che rispondessi con sincerità, visto che si parla della tua salute-.
Fobos si staccò dalla porta e si sedette al posto del medico osservandomi. – Fobos, aiuta i miei poveri occhi e leggi le domande sul banco-. Fobos afferrò il foglio.
-Ha mai sofferto di una di queste malattie? -.
Ne nominò una sfilza, ma non mi ero mai ammalata se non qualche linea di febbre, quindi negai ogni volta sotto gli sguardi eccitato di Upokrates e stupito di Fobos.
-Ha mai sofferto di depressione? –
-Ne soffro tuttora-, risposi sinceramente anche se la mia non si poteva proprio definire depressione.
- Soffre di qualche disturbo psichico o di natura mentale? Casi precedenti nella sua famiglia? -.
-Soffro di disturbo bipolare dall’età di nove anni. E non che io sappia-.
Fobos rimase un attimo interdetto. In effetti ad una prima analisi potevo sembrare una normale ragazza, ma nessuno sapeva cosa covava all’interno del mio corpo, cosa mai nutrissi ogni giorno con rabbia e rancore. Sorrisi debolmente.
-Ha mai fatto uso di droghe o abuso di alcool? -
-Sapete benissimo che a noi Custodi non sono concessi vizi né tanto meno atti di egoismo e autolesionismo tendenti a forme di suicidio-.
Fobos lesse la domanda successiva e un sorrisetto gli comparve sul volto.
-Ha mai avuto rapporti sessuali? –
Sbuffai. Lo sapevano tutti che le Sacerdotesse non erano tenute alla castità, ma che si mantenevano pure fintanto che non compivano la maggiore età di trent’anni.
-Ovviamente no-. Fobos ridacchiò facendo tintinnare gli anellini appesi al labbro. Mi fece altre domande, una dietro l’altra, mentre me ne stavo seduta su un lettino da obitorio, nuda. Era una situazione odiosa e il continuo bip bip del computer mi mandava fuori di testa. La bestia dentro di me cominciò ad avvolgersi su se stessa e mi punse con i suoi aculei velenosi. Osservai Fobos che ancora derideva interiormente la mia vita dedita al lavoro e alla preghiera. Osservai il medico, leggermente distorto, mentre mi auscultava la schiena, e osservai l’infermiera con quei denti odiosi, così piccoli e macchiati di tabacco. Cominciò a girarmi la testa e la fronte mi si imperlò di sudore. Stavo uscendo da me e non doveva assolutamente succedere. Cominciai a contare in ordine decrescente a partire da mille. Il computer emise un suono strano e uno schermo cominciò a scendere cigolando lungo la parete alle mie spalle. Mi voltai a guardarlo giusto in tempo, mentre l’immagine del mio sistema nervoso prendeva vita in quella proiezione. Vedevo distintamente la mia figura ricoperta da un labirinto di impulsi elettrici impazziti con quelli che sembravano piccoli lampi che rilucevano a intermittenza come spie di emergenza. Era una luce blu elettrica. Il dottore balzò avanti e andò a osservare più da vicino la mia immagine, a bocca aperta. Persino Fobos si sollevò in piedi osservando quegli impulsi elettrici impazziti.
-Meraviglioso! -, esclamò Upokrates correndo come un furetto a prendere una macchinetta. Cominciò a passarmela addosso come fosse una lastra e sullo schermo andò a formarsi l’immagine nitida del mio sistema ematico. Questo si sovrappose al già preesistente sistema nervoso, mostrando qualcosa che nemmeno io avevo mai visto. Anche il sangue scorreva in maniera innaturale, come fosse più fluido e dava l’impressione che dentro di me più che sangue ci fosse acqua. Piano piano impulsi elettrici e sangue cominciarono a sincronizzarsi e il cuore, rappresentato da un rombo nero, cominciò a pompare velocemente, battendo all’impazzata. Avevo paura e questo stava avendo degli effetti collaterali sul mio mostro.
-Questa cosa non è assolutamente normale-, mormorò Fobos, superandomi senza degnarmi di un’occhiata. Si accostò al dottore e assieme cominciarono a discutere. Io nel frattempo lottavo contro l’afasia e la pressione sotto la nuca. I denti digrignavano da soli e sentivo dell’amaro salirmi in gola. L’infermiera, rimastami vicina, mi osservava con le ciglia aggrottate e un’espressione confusa sul viso. Non so cosa pensò in quel momento né perché agì senza consultare il medico, ma la donna pensò bene di afferrare una siringa, riempirla in tutta fretta di un tranquillante molto forte e di pugnalarmi la coscia, mentre i miei occhi si annebbiavano e le mani si attanagliavano al lettino. Non la ringraziai mai abbastanza per aver sedato me, e con me il mostro. Vidi la siringa conficcata nella gamba e già dopo pochi secondi tutto quanto mi apparve sdoppiato e cominciò a muoversi al rallentatore. Cominciai a ondeggiare e infine caddi all’indietro distesa, come un cadavere, a braccia spalancate. Vedevo la luce accecante della lampada al neon e due figure muoversi verso di me, le loro voci deformate e grottesche.
- Cosa… fatto? –
-Stava…. Agitazione e confusione. Ho … Dovere-.
Sentivo soltanto spezzoni di conversazione e per il resto lo sciacquio di un mare lontano. Girai gli occhi alla mia destra appoggiando l’orecchio al freddo metallo. Vidi una mano pallida e gigantesca di fronte a me, che ben presto si tramutò in un enorme ragno albino con tanti occhietti verdognoli. Allungò una zampa e mi sfiorò il polso, in mezzo all’intricato labirinto delle vene. Sentii un dolore lancinante irradiarmi fino agli occhi e la mia bocca partorì un urlo abominevole e disumano, come provenisse da un abisso lontano, rimbombando di echi. Il viso del dottore comparve nella mia visuale con una luce attaccata alla fronte e un paio di lenti simili a un binocolo. Mi calmai istintivamente respirando profondamente e concentrandomi sulla luce rotonda che mi baluginava davanti. Piano piano mi si chiusero gli occhi e i muscoli si afflosciarono sotto l’influsso del tranquillante. Mi addormentai così, come un feto disarticolato nel grembo freddo di una madre crudele, senza difese e senza protezione.

 

Mi svegliai ancora su quel lettino con un dolore lancinante al braccio. Sollevai le mani, le rivoltai sotto la luce e vidi un cerotto quadrato sul polso.
-Ben tornata fra noi, Astreya-, mi salutò l’infermiera. Mi chiese poi se la riconoscessi e io annuii.
-C-cosa mi è successo? -, domandai girando il volto a destra e sinistra per guardarmi attorno. Vidi Fobos, addormentato mezzo storto su uno sgabello minuscolo, e il dottore che analizzava dei dati al computer, seduto alla sua scrivania.
- Il suo sistema stava andando in crash proprio come il mio computer. Gli impulsi erano troppi e troppo violenti perché il suo cervello reggesse ed era come se le fosse salito il sangue alla testa. Sconvolgente-.
-Sì, ma il cerotto? Ho fatto del male a qualcuno? – dissi mentre mi puntellavo sui gomiti cercando di issarmi. In quel momento si alzò anche Fobos, di colpo sveglio.
-No. Ti abbiamo inserito il chip di riconoscimento. Tutti i membri dell’Accademia ne hanno uno-, brontolò raggiungendo il medico dietro la scrivania e osservando i dati che scorrevano sullo schermo.
- Capisco-. In realtà non capivo affatto. Secondo me era un modo come un altro per marcare il territorio, un po’ come fanno i cani. Ed ora era ufficiale: ero loro proprietà. Scacciai il pensiero e appoggiai i piedi a terra. Il pavimento era liscio e freddo e rabbrividii: nessuno si era premurato di coprirmi o anche solo di mettermi sopra uno straccio.
-I miei vestiti? – domandai, strizzando gli occhi. La mia visione era ancora sfocata e leggermente sdoppiata, così attesi prima di rimettermi in piedi.
-E’ appena arrivata la sua divisa, cara-, tubò l’infermiera mostrandomi una pila di indumenti su un carrellino.
- Ha dormito per sei ore-
-Sei ore? -, brontolai ancora troppo stordita per sorprendermi.
-La qui presente-, disse Fobos indicando la donna con un certo sprezzo,- ha pensato che una dose da cavallo non potesse bastare e così ti ha messa k.o.-
Guardai prima lui e poi l’infermiera e infine i vestiti che quest’ultima mi stava porgendo. Indossai della biancheria bianca, sportiva, un paio di pantaloni aderenti e una canottiera neri. Infilai gli stivali alti al polpaccio e strinsi fermamente le fibbie. Infine calzai dei guanti di cuoio molto flessibili e con le dita spuntate.  Osservai Fobos e vidi che era vestito esattamente come me, solo che lui era armato.
-Le stanno bene, cara-, commentò l’infermiera e mi venne una voglia tremenda di sputarle in un occhio.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7- I quattro Reggimenti ***


Capitolo 7

Fobos mi guidò nuovamente nei corridoi, ma ero talmente debole e intontita che riuscivo a malapena a stargli dietro. Arrancai per un po’ finché non raggiungemmo nuovamente il refettorio. Fobos entrò e sparì nelle cucine senza dire una parola. Rimasi sola. La stanza era vuota e un silenzio innaturale pesava sulle mie spalle come un macigno. Fuori si era fatto pomeriggio e il sole stava scivolando infuocato dietro le montagne brune, mentre il Tempio in lontananza si cominciava già a tingere di azzurro.
-Mangia-. Sobbalzai. Fobos era ricomparso con la stessa velocità con cui erano nuovamente sparite le sue buone maniere. Mi gettò davanti, su un tavolo, un vassoio con del pane, del formaggio e un beverone che mi sembrava vino rosso. Ignorai la coppa e addentai il pane.
-Grazie-, dissi tra un boccone e l’altro, mentre sentivo lo stomaco riempirsi piacevolmente. Fobos si sedette di fronte a me, alto e inquietante con una luce di fuoco a bruciargli i contorni. Intrecciò le mani.
-Che razza di manufatto sei? -, domandò, penetrandomi con il suo sguardo iridescente. Era deciso e leggermente irritato, come se gli avessi nascosto una qualche informazione molto importante. Ma non era così dal momento che nemmeno io conoscevo la mia natura fino in fondo. Perciò mi limitai a scrollare le spalle. Lui, di fronte a quel gesto, chiuse gli occhi e serrò le labbra stringendosi i pugni fino a far diventare bianche le nocche: era visibilmente arrabbiato.
-Forse non mi sono spiegato…-, cominciò, ma sapevo già dove voleva andare a parare. E io non avevo intenzione di farmi mettere nuovamente i piedi in testa e lasciare che la paura delle percosse mi sottomettesse. Osservai la piccola cicatrice che mi avevano lasciato sul polso e a quell’oggetto estraneo che ormai era radicato sotto la mia pelle e decisi che lì dentro sarei stata solamente Astreya, non la Custode, non la ragazzina venduta al Tempio e nemmeno la vittima. Sollevai lo sguardo e feci nuovamente spallucce.
-Forse ti sei spiegato benissimo invece-, ringhiai. Fobos sorrise sardonicamente tendendo le labbra.
-Non ti è bastata la lezione? –
- Si dia il caso che tu non abbia alcun potere su di me-, sibilai protendendomi verso di lui,- Cosa puoi fare? Uccidermi? Mi faresti un favore e non credo che tu voglia darmi questa soddisfazione-.
Gli occhi di Fobos brillavano mentre gli indirizzavo il mio più profondo disgusto. Poi rise fragorosamente.
-Oh ma io non voglio ucciderti! Non ne avrei alcun motivo. Preferisco consumarti lentamente, arrivare a sapere ciò che voglio, usarti come voglio e poi mandarti in frantumi, un pezzo alla volta-.
Fece una pausa voltandosi a guardare oltre la finestra alle mie spalle. –Ci sono mille modi per morire e fra questi non annovero la morte fisica-. Un sorriso malinconico distorse i suoi lineamenti duri e asciutti.
-Come sei nato? -, domandai mentre i suoi occhi si trasformavano lentamente in spirali tenebrose. Dovetti sbattere le palpebre un paio di volte prima che sparissero. Fobos si voltò lentamente.
- Non sono affari tuoi-.
Sospirai. Di questo passo non avrei mai saputo niente su quel posto, sul perché fosse stato riaperto e su chi o cosa avesse generato il primo Ibrido.
-Ti chiedo scusa-, cominciai sperando che per una volta le buone maniere potessero condurmi più lontano della forza. Fobos inarcò un sopracciglio, vagamente divertito per come si stava evolvendo quella conversazione. Ne approfittai e gli tesi una mano. Lui la strinse senza troppo interesse, ma con forza.
-Ad ogni modo ho un’idea. Facciamo così: tu mi dici come sei nato e io ti dirò altrettanto-, buttai lì, certa che avrei trovato il modo per rivelargli qualcosa pur nascondendo ciò che veramente ritenevo importante. Fobos rimase un attimo in silenzio, quasi in ascolto, poi disse: - Per ora non se ne parla, Custode-.
E proprio nell’istante in cui terminò la frase, quasi come per magia, comparvero sulla soglia Upokrates e Deimos. Osservai Fobos stordita, ritenendo che l’arrivo dei due uomini non fosse una coincidenza, ma lui incrociò le braccia e si voltò a salutarli naturalmente. Questi ricambiarono e affiancarono Fobos dall’altra parte del tavolo. Deimos aveva un’espressione funerea.
-E’ successo qualcosa? -, domandai vedendo che nessuno dei due si decideva ad aprire bocca.
-Diciamo di sì-, commentò Deimos, gli occhi verdi che fissavano i miei. –Upokrates riterrebbe molto utile aprire un fascicolo su di lei. Vede, le sue potenzialità hanno attirato la nostra attenzione e vorremmo che lei firmasse il consenso per il trattamento dei suoi dati…- Fece una pausa-. E per la sperimentazione-. Tacquero. Vidi un profondo alone di disagio avvolgere Fobos e un’amarezza aguzza infilarglisi come un pungiglione nel cuore.
- Mi permetto di obiettare. Avete tutti sotto agli occhi il risultato di esperimenti non voluti dagli Dei- e indicò sé stesso. Upokrates tossicchiò sollevando gli occhiali con la punta dell’indice. Vicino a Deimos e Fobos sembrava un nano.
-Non è una questione che la riguardi, Fobos! - sputò fuori Deimos mentre gli indirizzava un’occhiataccia. – Il piano è stato vidimato dallo Stratega ed è stato da lui proposto. Inoltre presto la richiesta verrà inviata al Ministro Primario Delle Armate Elladiane e se approvato sarà solo Astreya a potere scegliere il suo destino-
Non avrei mai accettato e lo sapevano. Dovevano avere un asso nella manica, qualcosa che mi spingesse a firmare. Tuttavia nemmeno io sapevo cosa potesse essere.
-Attendiamo la conferma del Ministro e il via libera dell’Organizzazione Ospedaliera per il trattamento di un soggetto umano-, rincarò Upokrates. –Poi ti riproporremo la questione. Tu pensaci intanto-.
-Scusate ma io cosa ci guadagnerei? -, chiesi timidamente, incerta se addentrarmi nel discorso. Fobos scattò subito in piedi e con furia risistemò la sua sedia. – Io me ne vado-. Si allontanò così, senz’altra spiegazione se non la sua disapprovazione. Upokrates lo seguì con lo sguardo fino alla porta, poi tornò a guardare me.
-In primo luogo verrai lautamente ricompensata dall’ Organizzazione per l’opportunità concessaci e potrai sostentare anche la tua famiglia-.
Istintivamente pensai ad Aracne e a come avrei potuto regalarle quel sogno di famiglia che io non avrei mai coronato. E cominciai a calare le difese: mi stavo vendendo.
-In secondo luogo potremmo sviluppare le tue potenzialità e cercare una soluzione per il dolore. Mentre eri in stato onirico, nella fase che chiamiamo REM, ho analizzato lo stato del tuo cervello e questo è quello che ne ho ricavato-.
Mi mise sotto al naso una lastra di vetro trasparente che fungeva da display e sopra l’immagine computerizzata di un cervello. In alto con caratteri anonimi era scritto il mio nome.
-Vedi quella zona rossa? –
La vedevo. C’era una grossa zona rossa, quasi sanguinosa, sul mio cervello, mentre le altre ballavano tra il blu e il giallo.
-Sì, cos’è? -, chiesi curiosa, mentre le sfioravo con il polpastrello.
-Il cervello non si spegne mai nemmeno mentre dormiamo, ma le sue attività se durante il giorno sono assimilabili a un mare in tempesta, durante il sonno sono come un placido lago. Ecco il perché delle zone blu e gialle. Le zone rosse indicano intensa attività cerebrale e sono anomale-.
Allungò un dito nodoso e storto verso la macchia. – Questa è la corteccia somatoestesica primaria dove giungono in primo stadio le sensazioni relative al dolore. Il tuo corpo in sostanza invia molti segnali al cervello, sovraffollandolo con un unico messaggio: “allarme dolore”. Immagino che convivere con questa sofferenza ogni giorno non sia facile ed è per questo che il tuo fisico è così magro e debilitato. In quanto soldato, tuttavia, non possiamo permetterti di essere malata, perciò vorremmo arrivare a progettare un farmaco sperimentale che ti aiuti a, diciamo, assopire le terminazioni nervose sovreccitate e ad assopire questo disturbo-.
Ecco un’altra proposta molto allettante.

 

Pulii il refettorio come d’accordo con Fobos, riflettendo e riflettendo nuovamente sulla proposta che mi era stata fatta. Ogni qual volta pensavo di poter giungere ad una decisione, una qualche altra domanda mi spuntava in mente, come un fungo velenoso. Le sue spore si spargevano qua e là e altre questioni affioravano ovunque. Una delle principali ragioni che mi spingevano a rifiutare la proposta era chiaramente quella che mi vedeva alla mercé di gente, non solo sconosciuta e senza scrupoli, ma anche senza morale. Sarei potuta venire fuori come Fobos e questo mi terrorizzava terribilmente. Dall’altra parte però c’era il vantaggio di guadagnare un bel po’ di soldi con i quali un giorno avrei potuto campare senza dover dipendere dall’Esercito o, ancora peggio, nuovamente dal Tempio, e con i quali aiutare Aracne ad avere una vita migliore. In più avrei potuto penetrare a fondo nel cuore dell’Accademia, indagare, infiltrarmi e capire cosa ci fosse sotto la riapertura della struttura. Perché secondo me qualcosa c’era.
-Che sta facendo ancora qui? –
La voce di Eracleo mi riscosse dai miei pensieri.
-Pulisco un po’-, riposi continuando a rassettare i tavoli ingombri di piatti sporchi.
-Ma sono le nove. Dovrebbe riposare dopo gli allenamenti-.
Sorrisi. Non poteva sapere che al posto di allenarmi avevo dormito fino al tramonto.
-Già, ma una punizione è una punizione-.
Eracleo si mostrò stupito, ma non indagò oltre. Si sedette invece su una sedia e accavallò le gambe.
-Vorrà dire che le farò un po’ di compagnia-.
Mi voltai a osservarlo. Era sereno e nel sorridere gli si formarono due graziose fossette.
-Dammi del tu-.
Eracleo annuì lentamente e con un’unghia cominciò a disegnare cerchi seguendo le nodosità del legno.
-Quindi…-, cominciò cercando le parole adatte- Che tipo di Custode sei? –
-Una Oscura, ma non temere quello che dicono su di noi la maggior parte delle volte è falso-.
Sgranò gli occhi e si protese verso di me, interessato. Forse avrei potuto scucirgli anche io qualche informazione.
-Tipo il fatto che potremmo uccidere un uomo toccandogli per sette volte il cuore-.
-Questo è decisamente di grande conforto! -, esclamò lui, battendo un pugno sul tavolo.
 -Non cantare vittoria così in fretta! -. Feci una pausa studiando la mia domanda, così da non sembrare curiosa e destare sospetti.  In fondo Eracleo non mi sembrava un tipo molto sveglio.
-E tu? Mi hanno riferito che dovrò scegliere un Reggimento al termine del Training, ma ancora non mi hanno accennato alle possibilità che ho-.
Eracleo si allungò sulla sedia, come se si stesse imbarcando in una lunga spiegazione.
-Ci sono quattro Reggimenti soltanto, quindi non sarà una scelta molto difficile. Io sono inserito nel Reggimento degli Ulivi. Rappresentiamo un po’ la diplomazia, mediamo con la popolazione in caso di rivolte ed eventualmente in caso di conflitti fra altre potenze interveniamo per ristabilire l’ordine. Siamo un po’ la Sicurezza, se vogliamo metterla in questi termini-.
-Sembra un lavoro appagante-, provai a dire, cercando di farlo parlare ancora.
-Sì, certamente. O se non ti soddisfa la mia scelta hai a disposizione il Reggimento dei Segugi, che si occupano di spionaggio, anche cibernetico, o il Reggimento dei Ruggenti, che sono i militari veri e propri, quelli che insomma sono nati per questa vita, e che sanno manipolare gli Esoscheletri-.
-Esoscheletri? -, domandai.
-Sì, sono armature biomeccaniche che, adattandosi tramite sensori agli impulsi elettrici del cervello, possono essere indossate come armi difensive od offensive in combattimento. Sono anche utili durante le notturne perché hanno la tecnologia adatta a consentire la vittoria in ogni tipo di ambiente, specie quelli più critici come appunto l’oscurità-.
-Sembra affascinante, ma non credo faccia per me-, mormorai.
-Hai ancora un’alternativa: il Reggimento dei Biotecnici. Si occupano… beh, si occupano di medicina e ricerca-.
Nel sentire una certa resistenza e nel percepire una punta di disagio nella sua voce, capii immediatamente che Reggimento avrei scelto. A quanto potevo congetturare in base alle mie conoscenze e al mio intuito, fra i laboratori dei Biotecnici era nascosto il segreto di tutta quanta la vicenda. Forse stavano creando armi di distruzione di massa ad impronta biologica, una qualche forma di virus o parassita. O cercavano di impiantare la magia in qualche altro soldato, sfruttando la nostra presenza nella struttura e studiandoci come cavie.
-Questo mi sembra il più interessante-, dissi fingendomi entusiasta.
-Dici? Io lo trovo molto noioso invece-, ridacchiò lui, nervoso. Notai che si stava mordendo il labbro inferiore, torturandolo impercettibilmente. La bestia che dormiva nella mia pancia ridacchiò facendomi tremare le ossa e per una volta non mi dispiacque, anzi mi esaltò molto di più.
- Penso che anche a Medeya, la mia compagna, piacerebbe molto, a maggior ragione perché lei è una Guaritrice-.
Eracleo si passò una mano sui capelli: - Non penso sia così semplice. Il Reggimento dei Biotecnici fa una scrematura molto consistente dei suoi candidati. Naturalmente soltanto persone molto colte e intelligenti possono accedervi e lavorare su questioni così importanti, quindi è stato stabilito che venisse fatto un test ai candidati-.
-Test? -, domandai, aggrottando le sopracciglia.
-Sì di natura medica, ingegneristica, informatica e chimica-.
-Direi molto specifico, insomma-.
Eracleo annuì e assunse un’espressione mortificata, come se avesse infranto i miei sogni di gloria. Ma quello che il povero Eracleo non sapeva è che io avevo una moneta di scambio. Una grossa moneta di scambio.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Training ***



Capitolo 8

-Non penso che tu sappia quello che dici, Fobos-, commentò Upokrates con una strana luce di rimprovero negli occhi. Era seduto di sbieco sulla sua scrivania, tra un plico di fogli e l’altro. Sembrava che quella mattina non fossi stata l’unica a decidere di fare una visitina al dottore. Io e Fobos avevamo avuto la stessa idea, sebbene io l’avessi avuta in ritardo. Appena giunta di fronte all’uscio con la targhetta arrecante il nome del medico, infatti, avevo sentito delle voci famigliari provenire da dentro la stanza. Mi ero, quindi, sistemata in ombra vicino allo spiraglio e mi ero messa ad origliare la conversazione.
-Io so benissimo quello che dico. Parlo con cognizione di causa-, sibilò Fobos. Da dove ero non potevo vederlo, ma immaginai il suo volto aspro contratto da una smorfia di disappunto.
- Credi che la tua condizione ti dia il diritto di porre un veto alle mie scelte? Io non credo proprio-, ghignò Upokrates. Per un istante mi parve di vedere attorno a lui una massa deforme di ombre, ma durò poco più di qualche secondo, e poi la visione scemò nell’aria.
- Io non ho la presunzione di nascondermi dietro una cattedra con la scusa di fare della scienza. Rivendico soltanto il diritto di avere voce in capitolo… anche io ho sofferto per mano vostra-.
Upokrates balzò giù dalla cattedra e voltò le spalle all’Ibrido, perdendosi ad osservare le coste ben spolverate dei suoi tomi di medicina.
-Fobos, non ti immischiare in situazioni che non ti riguardano. La scienza è qualcosa che va di pari passo con la sperimentazione, è inevitabile. Non avremmo potuto redigere questi tomi, né salvare milioni di vite, se qualcuno lungo la via non si fosse sacrificato. Lo capisci questo? –.
Non so se Fobos capisse o meno, ma io capivo. Era la stessa logica collettivistica con la quale mi avevano cresciuta al Tempio, sin dal mio arrivo. Il bene pubblico, quel misterioso bene che tutti noi dovevamo tutelare, era qualcosa che travalicava l’importanza delle nostre singole vite, perché gli Dei ci avevano messo al mondo, non per amore, ma per essere gli strumenti mediante i quali dar corpo al loro volere.
-Parli così perché non hai vissuto ciò che hanno vissuto i tuoi pazienti. Pensi sia divertente fare da cavia? Pensi sia appagante essere trattati come topi da laboratorio e poi buttati via dentro un sacco nero? –
Upokrates sfogliò un volume verdastro con una filigrana dorata che lo rendeva quasi luccicante. Aveva lo sguardo assorto dietro le pesanti lenti, e la bocca socchiusa in un sospiro meditabondo.
-Se non fosse stato per noi, tu ora saresti dentro uno di quei sacchi, lo sai vero? Volente o nolente ci devi la vita. E sai perfettamente che avremmo potuto farti morire su quel lettino, senza alcuna remora. In quel momento non è stata la scienza a tenerti in vita, ma la misericordia umana-.
Fobos scattò in avanti, invadendo il mio campo visivo. Era trasfigurato dalla rabbia e sembrava molto più imponente di quanto non mi fosse mai apparso prima. Con una manata spazzò via tutti i ninnoli che Upokrates aveva diligentemente sistemato sul tavolo e si protese in avanti.
-Misericordia?!-, gridò quasi, facendo sobbalzare l’uomo di fronte a lui-. Tu questa la chiami misericordia? –
Lo sguardo di Upokrates si era fatto serio e lentamente era scivolato sulle pagine ingiallite del suo prezioso tomo.  Non sembrava aver intenzione di ribattere, né di dare corda alla furia cieca che aveva colto Fobos. Rimasero per qualche istante a fissarsi, i muscoli dell’Ibrido tesi e pronti a guizzare. Poi il giovane parlò di nuovo e la sua voce ebbe il potere di riempire tutto lo spazio vuoto attorno a lui.
-Misericordia sarebbe stata farmi crepare su quel lettino, quando invocavo la morte a pieni polmoni! -, disse.
Upokrates sbatté sulla scrivania il tomo e una nuvola di polvere si sollevò fra di loro, spirito tangibile del mutuo disaccordo.
-E a che cosa sarebbe servito lasciarti morire? Avremmo forse ottenuto qualcosa? Perché disprezzi il dono della vita che ti è stato fatto?!-
- Dono? Osi definire vita quella che mi avete donato?!-, sbraitò il giovane, battendo un pugno sul legno duro e antico della scrivania.
Upokrates non si indignò per la violenza con cui l’Ibrido gli rinfacciava eventi passati, al contrario si risistemò gli occhiali e, con calma ritrovata, fissò i suoi occhi in quelli tenebrosi di Fobos.
-Vattene, e tornatene quando sarai più calmo. Sono convinto che a ben ripensarci, capirai di essere nel torto-.
 Fobos scosse la testa mestamente. Sapeva che da Upokrates non avrebbe mai potuto ottenere delle scuse, né tantomeno un ravvedimento. Sbuffò e si passò una mano fra i lunghi capelli neri. Quello era il momento giusto per fare il mio ingresso, c’era abbastanza calma da permettermi di entrare con naturalezza. Bussai un paio di volte, cosicché mi sentissero. Poi spinsi l’uscio e salutai educatamente entrambi. Upokrates ricambiò con cortesia, mentre Fobos si limitò a indirizzarmi uno sguardo carico di disprezzo.
-Disturbo per caso? -, domandai imbarazzata. La tensione che aleggiava tra i due era ancora talmente consistente che si sarebbe potuta tagliare con un coltello.
-No assolutamente, Custode. Prego, entra. Immagino tu sia qui per discutere la nostra proposta anche se non mi aspettavo di rivederti così presto-.
Avanzai nella stanza e mi accomodai sulla poltrona che Upokrates mi indicò. Era soffice ed estremamente avvolgente. Fobos rimase in piedi qualche istante, poi senza salutare né aggiungere altro, uscì dalla stanza con passo marziale. Io ed Upokrates rimanemmo, quindi, soli, gli sguardi incatenati.
-Hai già preso una decisione? -, mi domandò il medico, soppesando lo spazio fra le parole. Upokrates doveva essere un uomo meticoloso. Tutto sulla sua scrivania lo suggeriva: dalle matite perfettamente allineate in un angolo del tavolo, alla targhetta di ottone perfettamente lucidata. Persino il farfallino che indossava quella mattina era perfettamente annodato e sistemato sotto il pomo d’Adamo. Peccato che Fobos avesse mandato all’aria tutto il suo ordine e che le matite stessero ancora rotolando fra i miei piedi. Istintivamente, alla vista della targhetta ribaltata, ma pur sempre lucente, provai una sorta di timore reverenziale nei confronti di quel dottore e le parole mi scivolarono sulla punta della lingua, tremolanti e poco convinte.
-Vorrei proporle un accordo, se me lo permette-.
Upokrates incrociò le mani davanti al viso, sospirando. Probabilmente non si aspettava una mia possibile resistenza, non dopo che mi ero volontariamente unita alle loro fila.
-Non c’è bisogno di essere così formale, mia cara. Ti prego di trattarmi alla stregua di un vecchio amico-.
C’era qualcosa di estremamente ipocrita nel suo comportamento, nel modo affettato con cui sin dall’inizio si era rivolto a me. Eppure non riuscivo a cogliere il tranello dietro alle sue parole. Sembrava quasi che la sua fosse solo cortesia, o rispetto dell’etichetta.
Tossicchiai, schiarendomi la voce.
-Di quanto mi avete proposto desidero ben poco. Il dolore che mi porto dentro è così radicato in me che non sento nemmeno più il bisogno di estirparlo dal corpo. Non è questo che mi interessa-.
-Sono i soldi, quindi? -, chiese Upokrates, un sorriso aguzzo allargato dietro alle dita intrecciate. Sperava di corrompermi con del vile denaro, come se la mia vita e la mia salute potessero avere un prezzo.  “Tutto ha un prezzo” avrebbe detto mio padre se fosse stato ancora presente nella mia vita, ma di fatto non c’era. C’eravamo solo io e la mia determinazione davanti a quel tavolo di scambio.
 - Il denaro sarebbe un ottimo supporto, e lo accetto sempre con riconoscenza, ma anche i soldi non sono un problema. Con quello che mi fornirà l’Accademia sarò bene in grado di provvedere a me stessa e alla mia compagna-, annunciai, fiera nel notare un lampo di sorpresa balenare dietro le lenti dell’uomo. Upokrates si protese in avanti, il collo rugoso teso nello sforzo di avvicinare il suo viso al mio.
- E allora cosa vuoi? -, chiese, facendo schioccare la lingua. Sembrava divertito da quella inaspettata contrattazione ed al contempo spaventato da un mio possibile diniego.
-Voglio entrare nel Reggimento dei Biotecnici al termine dell’addestramento-, sputai fuori velocemente, come se le parole potessero risultare meno sconvolgenti in quel modo.
Il dottore si lasciò cadere contro lo schienale della poltrona e virò il suo sguardo fuori dalla finestra. Sembrava ci stesse riflettendo seriamente.
-Non ti è vietato tentare quella strada. Perché mi stai chiedendo il permesso? -.
-Sappiamo entrambi che il test non è alla portata di nessuna di noi Custodi-, cominciai, raccogliendo da terra la testa di quella che doveva essere stata una sirena di porcellana. Fobos aveva davvero fatto un bel macello.
-Mi stai chiedendo di farti ammettere con l’inganno? -, domandò Upokrates. Forse sperava di farmi sentire sporca nell’avanzare una richiesta del genere, ma non avrebbe funzionato. In fin dei conti anche lui mi aveva tentato con proposte allettanti affinché mi vendessi. Era stato lui il primo ad essere scorretto e, da quanto avevo origliato, non si poteva certo dire che quell’uomo fosse in generale un esempio di moralismo e rettitudine.
- Quello che sto chiedendo è di ottenere una giusta ricompensa per vendere il mio corpo alle vostre sperimentazioni-.
Upokrates fece scivolare gli occhiali lungo il naso, segno che stava calando le sue difese. Sapeva che la mia richiesta era più che legittima e sapeva anche che non avrei accettato ulteriori trattative: se dovevo rischiare di rivelare la mia natura a persone di cui non ero capace di fidarmi, perlomeno avrei tirato l’acqua al mio mulino.
-Perfetto. Ne parlerò con il Generale Deimos e otterrai ciò che desideri, oltre al denaro che ti spetta ovviamente-.
Annuii in silenzio, poi mi alzai, controllando l’orologio a pendolo nell’angolo della stanza. Era molto tardi.
-E’ stato un piacere. Arrivederci-, dissi frettolosamente, lasciando il medico alle sue occupazioni.
Dovevo fare in fretta: l’allenamento stava per iniziare.  

 

 

Congedatami da Upokrates, mi diressi a grandi falcate verso il cortile nel quale avremmo iniziato l’addestramento. Davanti alla recinzione che separava quest’ultimo dal resto, vidi Aracne aggrappata alle maglie metalliche. Guardava le matricole che, arrivate prima, stavano scaldando i muscoli con una corsetta moderata. Aveva lo sguardo perso, come se desiderasse anche lei fare parte di quel gruppo.
-Buongiorno! –la salutai, poggiandole una mano sulla spalla. La donna rispose con un sorriso forzato e mi strinse con forza il braccio.
-Buongiorno a te, Astreya. La divisa ti sta molto bene-.
Non era vero. La divisa era spaventosa: era nera come l’inchiostro con inserti di metallo lucido che mi facevano apparire come un soldato spietato e senza cuore. Quando la mattina mi ero guardata allo specchio, avevo provato un moto di disgusto verso me stessa e verso quel nuovo mondo che stavo per scoprire. Avevo provato odio per quei capelli lunghi e scuri che mi avevano portata fino a lì, tristezza per quel viso pallido che ben presto avrei visto tramutarsi in quello di un assassino e amarezza per essere riuscita a liberarmi del Tempio solo per ricadere poi in una nuova prigionia. Tuttavia avevo stretto i denti e il mio riflesso si era animato della luce della volontà, quella volontà che mi avrebbe spinto a sopravvivere, a volgere a mio favore tutti gli ostacoli che mi sarei trovata innanzi. Perché non avevo intenzione di arrendermi, non finché il mio corpo avesse avuto la forza per lottare e la mia mente la lucidità di seguire le mie membra.
-Grazie. Vediamo un po’ come si combatte da queste parti. Sembra che non bastino le preghiere…- sorrisi, sforzandomi di alleviare le preoccupazioni di Aracne. In fondo ai suoi occhi, infatti, vedevo il senso di colpa per avermi spinta, sebbene involontariamente, ad abbracciare quella vita.
-Vorrei poter esserci io al tuo posto-, mormorò mentre varcavo il cancelletto che mi avrebbe portato dentro quella gabbia da combattimento.
-Non dirlo nemmeno per scherzo-, commentai seria, lasciandomela alle spalle. La osservai solo qualche istante mentre si allontanava. Avrei voluto abbracciarla e stringerla forte. Ma non potevo farlo, non ora che tutte le matricole mi stavano osservando. Sapevo che non sarei passata inosservata, con i miei capelli lunghi e il mio corpo magro, ma mai avrei creduto che quella mattina tutti gli occhi sarebbero stati puntati su di me. Dyte, già arrivata sul luogo, si era integrata perfettamente con il suo cranio accuratamente rasato e la muscolatura soda e guizzante tipica delle Demoniache. Aveva una luce folle negli occhi e riuscivo a percepire il suo desiderio di azione. Medeya, invece, non c’era. Salutai Dyte e, assieme a lei, cominciai a riscaldare i muscoli. Fu più difficile del previsto. Dopo anni di trattamenti e privazioni, il mio corpo era debole e rispondeva a fatica. Sentivo ogni singola articolazione scricchiolare sinistra e il sudore imperlarmi il volto anche per il minimo sforzo.
-Sei fuori forma-.
-Già- ammisi- Erano anni che non facevo allenamento fisico-.
Dyte si fermò e io feci lo stesso. Ci asciugammo il sudore dalla fronte e ci abbeverammo ad una piccola fontanella di acqua calcarea. Non aveva il sapore cristallino della fonte da cui attingeva il Tempio, ma almeno era dissetante e fresca.
-Dov’è Medeya? -, domandai mentre con la coda dell’occhio osservavo i movimenti delle altre matricole. Ero brava a prendere spunto dalle mosse degli altri ed imparavo in fretta. Saper osservare era il mio migliore pregio.
- Arriva in ritardo. L’Accademia ha ritenuto giusto non sradicarla completamente da Iatro. In fondo, senza le sue lezioni, Medeya finirebbe con l’essere una Guaritrice come un’altra, una Custode senza grandi potenzialità-.
Il cinismo con cui parlava Dyte mi infastidì leggermente. Sapevo che non era intenzionale e che si trattava di semplici asserzioni oggettive, eppure la mancanza totale di coinvolgimento che mostrava mi faceva pensare che in caso di aiuto non avrei potuto contare su di lei.
Una matricola si staccò dal gruppo e gentilmente ci corse incontro. Ci informò che la sirena stava per suonare e che avremmo dovuto allinearci per assistere all’ingresso dell’allenatore. Non ci facemmo attendere e seguendo quella recluta, ci posizionammo nelle retrovie. Accanto a me, Dyte pareva eccitata.
-Vedrai che tipetto l’allenatore-.
Me ne ero quasi scordata. Avevo perso il mio primo addestramento e con esso le premesse di tutto quanto il Training. Non avevo ancora conosciuto il mio istruttore né avevo potuto familiarizzare con i miei colleghi.  Ero rimasta indietro già prima di cominciare, ma non avevo intenzione di restare in quella situazione di svantaggio ancora per molto: avrei acquisito l’esperienza che mi mancava osservando accuratamente ogni singola matricola ed avrei imparato da loro quello che avrei dovuto fare e come avrei dovuto farla. Per prima cosa studiai i sentimenti che agitavano i cuori dei giovani che si erano assiepati ordinatamente nel cortile. Notai subito la serpeggiante angoscia che infiammava gli animi di coloro che mi stavano attorno. Dyte era l’unica ad avere un’espressione serena e questo mi fece supporre che il primo incontro con l’allenatore fosse stato traumatizzante per la maggior parte di loro. In secondo luogo, osservai la posizione che tutti i presenti avevano assunto: tutte le matricole avevano appoggiato una mano sul petto e avevano sollevato il mento. Mi tornò alla mente il saluto che i soldati nelle guardiole avevano riservato a Deimos la prima volta che avevo varcato i cancelli dell’Accademia e capii che quello era il saluto militare che avrei dovuto riservare ai miei superiori. Mi misi nella stessa posizione degli altri e attesi.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9- Un ciclope con due occhi ***



Capitolo 9

Rimanemmo immobili per una decina di minuti, mentre un vento sferzante ci penetrava sotto la divisa e ci raffreddava i muscoli. La bandiera con lo stemma del leone ruggente sbatacchiava impazzita contro il palo che la innalzava al cielo. Sembrava che l’unica altra cosa a muoversi fossero le nuvole sopra le nostre teste, che per il resto il tempo si fosse fermato.  Poi un gruppetto di quattro uomini uscì dall’edificio principale di fronte a noi, rompendo quello strano incantesimo ed entrando nel nostro campo visivo. Erano tre uomini e una donna. Il primo era Deimos, lo avevo riconosciuto subito. Il secondo era un soldato basso e tarchiato con una lunga barba brizzolata attorcigliata in tre grosse trecce spesse, mentre il terzo era un uomo alto e muscoloso con i capelli corti e bianchi. Aveva il corpo completamente tatuato con raffigurazioni di quelli che mi sembravano dei draghi e al naso gli pendeva un anello di colore nero.
Rimaneva solo la donna, in ombra dietro di loro. Non riuscivo a vederla e non riuscivo nemmeno a capire se ci stesse guardando o se fosse lì per prendere appunti. Vedevo soltanto il display traslucido che teneva in mano.
-Buongiorno, soldati! -, esclamò l’uomo con i tatuaggi. Fece un passo avanti, rivelandosi alla luce della mattinata. Era veramente spaventoso. I suoi occhi erano di un azzurro ghiaccio e le sue labbra erano pallide e tese in un ghigno sadico.
- Questa mattina verrete iniziati al combattimento corpo a corpo. Ancor prima di imparare a imbracciare un fucile o una katana, infatti, dovrete saper affrontare il nemico a quattr’occhi studiandone le reazioni e lottando per la vostra sopravvivenza. Spesso in guerra molti di noi si sono ritrovati feriti e disarmati, e solo allora i veri combattenti hanno dimostrato il loro valore. Quello che vedete di fronte ai vostri occhi è uno di quelli. –
L’uomo basso e tarchiato fece un passo avanti. Aveva gonfiato il petto e si era prodigato in un perfetto saluto militare. Sembrava orgoglioso della presentazione che aveva ricevuto e nei suoi occhi aleggiava la fiamma splendente del trionfo.
-Quest’uomo è Efesto, maestro nell’arte delle Energie Libere-, continuò il tizio tatuato e un coro di “Oh” meravigliati attraversò la folla. Doveva trattarsi di qualcuno di conosciuto o non si sarebbe sparsa fra i miei compagni quella indomita euforia. Qualcuno addirittura fischiò, ma Deimos intervenne subito per zittirlo. Il benché minimo rumore era insubordinazione per quel giovane.
-Buongiorno, reclute. Oggi impareremo i primi rudimenti di questa antica arte. Sono contento di essere qui e di potervi mostrare quello che a mie spese ho appreso-, disse Efesto, mostrando al pubblico la gamba destra. Inizialmente non capii cosa volesse mostrarci, ma poi lo vidi. Dietro il pallido rosa della pelle si intravedeva un intrico di cavi e di minuscoli ingranaggi neri. Era una gamba meccanica di grande manifattura, una protesi di ultima generazione che non tutti avrebbero potuto permettersi.
- Questo è ciò che mi è successo a ventitré anni quando per la prima volta ho partecipato alla battaglia. Non ero pronto, nessuno mi aveva insegnato come sopravvivere. Eppure sapevo che dovevo farcela e così mi sono ribellato. Ho ucciso il nemico, ma ho perso una gamba. Da allora ho studiato e ho cercato di imparare l’arte delle Energie Libere così che gli avversari non fossero più in grado di prendermi alla sprovvista-.
Il racconto fuoriusciva ruvido e incalzante dalle sue labbra, mentre l’uomo passava ad uno ad uno i visi delle matricole. Quando i suoi occhi incontrarono i miei, ebbero un guizzo, un luccichio di eccitazione. Poi, come riscosso dalle sue riflessioni, Efesto avanzò fra di noi e cominciò a descriverci cosa avremmo potuto ottenere dalle tecniche che ci avrebbe mostrato.
Si ripromise di insegnarci ad incanalare l’energia in una precisa parte del corpo per riuscire poi a sprigionarla all’esterno tramite l’azione dei muscoli. Questo ci avrebbe dato la possibilità di colpire il nemico con molta più forza, senza disperdere troppa energia in altre parti del corpo.
Nonostante tutte le parole pronunciate avessero il sapore della novità e dell’esotico al primo ascolto, per me e per Dyte avevano ben poco dello straordinario: con quello che ci iniettavano al Tempio avevamo singolarmente il doppio della forza di tutte quante le altre reclute messe assieme. Istintivamente, quindi, un sorriso divertito mi si dipinse sul volto e le mani mi formicolarono di piacere. Per una volta noi Custodi avremmo potuto dimostrare di valere qualcosa anche al di fuori del Tempio e delle preghiere.
La teoria delle Energie Libere non la ascoltai nemmeno: conoscevo perfettamente il modo per incanalare la mia energia ed avevo già tutti gli strumenti che mi servivano per farlo. Vedevo meglio degli altri, sentivo meglio degli altri e, anche se non ero propriamente una Demoniaca, ero molto più forte di quei ragazzi. Il primo che mi ritrovai contro, infatti, durò pochi minuti. Lo colpii con un pugno sulla mascella e sentii le ossa sotto le mie dita scricchiolare e cedere. Cadde a terra e mi fece un cenno di resa. Rimase piegato sulle ginocchia qualche istante, mentre si massaggiava il mento, poi venne sollevato in piedi da Deimos e accompagnato ad un angolo del cortile. Lo seguii con lo sguardo per tutto il tempo, finché si sedette a terra con il capo reclinato. Non avevo mai combattuto prima eppure il mio istinto sembrava essere in grado di guidarmi alla perfezione. Ero colta da una lucida follia, l’istinto del sangue alimentava i miei muscoli e non vedevo l’ora di trovarmi innanzi qualcun altro per riprovare la sensazione di vittoria che avevo appena assaporato. Approfittai del momento di calma per osservare i miei compagni. Dyte, poco lontana da me, stava lottando contro un ragazzo tutto nervi con una violenta epistassi al naso. Sudava e ansimava, ma stava decisamente avendo la meglio. Non era ferita e, anzi, rideva eccitata. A pochi passi da lei due ragazzi si stavano picchiando a terra, avvinghiati in un abbraccio feroce, e dietro di loro un ragazzo magro si stava arrendendo ad una donna muscolosa. Poco più distante, infine, scorsi con la coda dell’occhio anche Medeya, giunta chi sa quando. Lottava contro un’altra donna, ma non sembrava cavarsela altrettanto bene.
-Eccomi-.
Sobbalzai. Un ragazzo con i capelli rossi rasati ai lati aveva preso il posto del mio precedente avversario. Era già ferito ad un labbro, per cui ipotizzai fosse uscito vincitore da un precedente scontro. In effetti, avevo notato che il numero di combattenti attorno a noi stava diminuendo a vista d’occhio mentre le fila dei ragazzi lividi e feriti aumentavano e occupavano ormai tutto il perimetro del cortile.
Mi misi in guardia un secondo dopo che lo fece il rosso e iniziammo la danza della lotta. Ci squadrammo qualche istante in silenzio, osservandoci e studiandoci. Da come si muoveva e dalla sua aura indaco fiammeggiante, capii che quel ragazzo non era un uomo avventato e che come me amava comprendere la logica dell’avversario prima di colpirlo. Perciò, dovevo agire in maniera irrazionale e prenderlo in contropiede prima che potesse interpretare le mie mosse. Scattai, quindi, in avanti e, volontariamente, lasciai che il mio busto si protendesse eccessivamente verso di lui. Il pugno del soldato si infranse con forza contro il mio zigomo destro facendomi perdere l’equilibrio. Sapevo che avrebbe approfittato di quello sbilanciamento per colpirmi ad un fianco, per cui lo assecondai e finsi di scivolare a terra. Quando vidi il suo pugno caricarsi e partire, raccolsi un mucchietto di polvere e detriti e glielo lanciai con forza negli occhi. Era leale? Non mi importava. Il rosso indietreggiò portandosi le mani al viso e io colsi l’occasione per spazzargli le gambe e farlo ruzzolare a terra. Cadde con un tonfo sordo proprio mentre Efesto ci passava accanto.
-Complimenti, Custode. Il suo nome? –
-Astreya, Signore! -, esclamai, rimanendo in piedi con la postura eretta. A quanto ne sapevo faceva sempre una buona impressione avere la schiena dritta e il portamento fiero.
 - Bene, molto bene. Il prossimo! -, gridò di riflesso l’uomo, quando il povero soldato dai capelli rossi venne allontanato a bordo campo. Eravamo rimasti in pochi e persino Dyte era stata eliminata. La intravidi fra due reclute, seduta con un tampone nel naso. Aveva del sangue sia sul viso che sul collo. Rabbrividii, ma non lo diedi a vedere. Preferivo che tutti lì pensassero a me come ad una combattente fredda e spietata piuttosto che come ad una religiosa senza altro scopo nella vita se non pregare e piangere ai piedi degli Dei. Era scattato qualcosa dentro di me, qualcosa di ancestrale come la rabbia che covavo sin da piccola. C’era una scintilla nel mio stomaco che mi faceva tremare e vibrare come una corda di violino. Sentivo l’adrenalina scorrermi attraverso le vene e fluire attraverso il corpo, preziosa linfa vitale. Era come se mi stessi vendicando di tutti gli anni di amarezze e di tutte le delusioni che fino ad allora ero stata costretta ad ingoiare.
Lottai ancora una, due, tre, quattro volte. Non mi fermai mai più di un minuto per riprendere fiato tra un nemico e l’altro. Sentivo il mostro dentro di me sempre più affamato e la forza crescere a dismisura in tutto il corpo. Mi stavo drogando di violenza ed era una sensazione meravigliosa.
-Siete rimasti soltanto voi due-
La voce dell’allenatore, di nome Ares a quanto avevo sentito, mi giunse lontana come una eco sbiadita.  Cominciavo a vedere sfocato e percepivo qualcosa salirmi dalle budella fin nella gola. Restare concentrata e mantenere il controllo si stavano rivelando due azioni più difficili del previsto. Sbattei gli occhi un paio di volte cercando di allontanare il sudore dalle ciglia. Poi tornai a guardare di fronte a me: non c’era più lo spiazzo libero del cortile, ma un uomo gigantesco, quasi ciclopico. Muscoloso come pochi, sembrava essere fatto di pura roccia. Aveva la pelle coriacea e scottata dal sole di chi lavora nei campi e il viso truce di chi ha vissuto per anni nella miseria e nella solitudine dell’egoismo altrui. Non sembrava affatto ferito: il sangue sulle nocche evidentemente non era il suo.
-Il suo nome? -, chiese Efesto, leccandosi le labbra. Pregustava già lo scontro.
-Polufemos-, borbottò lui, osservandomi truce. Mi misi d’impulso in guardia.
Ares, comparso accanto al soldato, rise della mia mossa, gli diede una pacchetta sulla spalla e con voce tonante diede inizio allo scontro.
Non ebbi nemmeno il tempo di formulare un pensiero razionale che l’energumeno mi fu addosso. Cercò di colpirmi con un montante, ma la bassa statura e l’agilità mi consentirono di schivare facilmente il pugno ruotando di lato.  Mi ritrovai di fronte, quasi fortuitamente, il fianco scoperto dell’uomo, così attaccai con un calcio laterale. Pensavo sarebbe stato sufficiente per sbilanciarlo di quel tanto che bastava per spazzargli le gambe e farlo cadere a terra. Ma il mio piede incontrò la strenua e solida barriera dei suoi addominali laterali e venne respinto indietro con violenza. Fui, quindi, io a sbilanciarmi e per poco non finii con le ginocchia sull’asfalto rovinato. Lo vidi, quindi, caricarmi. Riuscii a stabilizzarmi, non persi tempo e mi preparai all’impatto. Raccolsi le braccia a croce di fronte al viso e attesi. Il colpo arrivò così impetuoso che tutto il mio corpo ne risentì. Scivolai qualche passo indietro, sospinta dal pugno della matricola. Imprecai: di quel passo non sarei mai riuscita a cavarmela. Quel ragazzo combatteva con la disperazione e la vendetta negli occhi. Non avrei mai potuto contrastare la sua motivazione e la sua prestanza fisica, dovevo giocare di astuzia. Per i primi minuti, interminabili, mi limitai a subire, parare e schivare, nel tentativo di fiaccarlo e di farlo cedere almeno un po’. Poi, cominciai a studiarlo: era lento, ma massiccio. Si muoveva goffamente, ma ragionava in fretta. I suoi colpi erano potenti, ma mancavano di precisione, precisione che invece io avevo in abbondanza. Riuscii, infatti, ad individuare quattro zone che avrei potuto provare a colpire per farlo capitolare: inguine, ascelle, tempie e collo. Insomma le parti molli. Dovevo, però, evitare gli attacchi pericolosi, come ci era stato richiesto, per cui esclusi subito il collo e le tempie. Sull’inguine avevo qualche riserva, ma se avessi continuato a depennare gli attacchi possibili mi sarei ritrovata nuovamente con un pugno di mosche in mano. Vidi il calcio partire prima che potesse cogliermi di sorpresa. Mi slanciai in avanti, scivolando sulle ginocchia, e colpendogli l’incavo della gamba con la nocca dell’indice. Il gigante mugolò di dolore e fu costretto a chinarsi. Ne approfittai e gli afferrai un braccio, ruotandolo e curvandoglielo dietro la schiena. Spinsi in avanti e gli balzai addosso da dietro, a piedi pari, dandogli la spinta che lo fece cadere di faccia. Quando fu a terra, non attesi un secondo di più e mi arrampicai sulla schiena spaziosa per immobilizzarlo. Lo vidi troppo tardi. Il soldato, probabilmente spinto dall’onta di una possibile sconfitta perpetrata da una giovane donna senza esperienza, aveva estratto dalla cinta dei pantaloni un pugnale dalla lama sghemba e si era voltato rapidamente per accoltellarmi. Scansai di lato, con il cuore che aveva preso a battermi all’impazzata, ma il filo dell’arma riuscì comunque a rigarmi una guancia. Sentii il sangue farsi largo nel solco della ferita e scivolarmi lento sulla pelle. Lo pulii in fretta con la mano.
-Toglietegli quel coltello! -, gridò Dyte alle mie spalle. Si unì a lei persino un timido coro di reclute.
-E’ sleale! -, esclamò qualcuno.
 Ares, a qualche metro da noi, fece un passo avanti per far terminare l’incontro, ma Efesto lo fermò sbarrandogli la strada con il braccio. – Lascia che proseguano-, bisbigliò.
Due secondi dopo l’elsa del pugnale di Polufemos mi colpì il naso e mi scagliò di lato, a ridosso degli spettatori. Iniziai ad annaspare, respirando e inghiottendo il mio stesso sangue. Non vedevo più se non qualche ombra: stavo svenendo. Tra un fotogramma e l’altro, però, vidi Polufemos correre nella mia direzione e sentii un insieme di mani sollevarmi e spingermi in piedi. Le assecondai cercando di riprendermi in fretta.
-Attenta! -, udii al mio fianco, così mi gettai a sinistra, in direzione opposta. Il mio avversario, infatti, aveva appena attaccato, ma era finito contro la rete metallica grazie al pronto intervento di qualcuno.
- Eddai, ragnetto. Vieni qui-.
La voce di Polufemos era viscida e disgustosa. C’era qualcosa di febbricitante nel suo sguardo, qualcosa che mi faceva tremare le viscere. Mi allontanai in fretta da lui, sforzandomi di pensare. Lo osservavo avvicinarsi, senza riuscire a fare nulla se non farmi prendere dal panico: non potevo competere se ero disarmata. Osservai il luccichio sinistro della lama e mi convinsi di non avere altra scelta. Comunicai silenziosamente con il mio piccolo mostro. Era da tanto che non lo lasciavo uscire temendo poi di non avere più il coraggio di rispedirlo nell’oscurità della mia gabbia toracica. Tuttavia ora non mi pareva di avere altre scelte se non quella. Inspirai.
-Arriva! Spostati-.
Espirai.
-Ehi, ti farai uccidere! –.
Rilassai i muscoli.
-Fateli smettere. Ve ne prego! –.
Incanalai la mia forza nel braccio sinistro, il braccio preferito dal mostro.
-Ha un coltello! –.
Sentii la calma sciogliere ogni fibra nervosa e una glaciale sicurezza carezzare il mio cuore. Sentii la creatura che ospitavo aggrapparsi con forza a me e spingere affinché cedessi e diventassimo una cosa sola.
-Forza Polufemos! Sei tutti noi! -.
Cedetti e sentii la sua forza unirsi alla mia ed esplodere in un desiderio spietato di distruzione e vittoria. Osservai, senza la benché minima emozione, l’enorme corpo di Polufemos avanzare verso di me con la minaccia della morte sul filo dell’acciaio. Quando fu abbastanza vicino sollevò il pugnale sopra la mia testa e fece per calarlo.
Qualcuno gridò. Deimos cercò di scattare in avanti, ma venne fermato da Efesto. Ares, ancora immobile dietro al braccio del collega, aveva gli occhi spalancati dal terrore.
Dyte si coprì il volto con le mani, incapace di muovere un passo.
Sorrisi. Mi davano tutti per spacciata, nessuno avrebbe scommesso su di me.
Un secondo prima che la punta del pugnale affondasse nella carne morbida del mio collo, però, riuscii ad abbassarmi, spostandomi di lato, e con tutta la forza di cui ero in possesso colpii le costole del soldato. Sentii le nocche penetrare nella sua carne, reciderla, sfondare la resistenza dei muscoli e bagnarsi di sangue. Polufemos accusò il colpo malamente e si ritrovò sbalzato via, lui che era così massiccio e stabile. Si sbilanciò all’indietro, tenendosi il fianco, e io non esitai. Mi lanciai su di lui, intercettai la mano armata e la girai fino a farla scrocchiare. Il coltello cadde tintinnando a terra. Lo recuperai e mi avvicinai all’uomo, rimasto supino a terra.
Osservai con immenso piacere la sua espressione di terrore e vergogna; quando sollevai il pugnale, chiuse gli occhi e una lacrima gli scivolò lungo la guancia sporca di sangue. Del mio sangue. Potevo fargli quello che lui aveva fatto a me, fargli provare quella sensazione di impotenza e di imminente fine. Ma non lo feci. Lasciai cadere il pugnale accanto al suo volto e mi voltai in direzione di Efesto. 
-Può bastare, Signore? -.


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Capitolo 11
*** Capitolo 10- Figli del Vento ***


Capitolo 10

Dopo l’incontro, Polufemos venne immediatamente allontanato dalla donna con il display e da Deimos stesso. Non ci furono applausi di commiato per lui, a parte qualche sommesso fischio. Sapevamo che per ciò che aveva fatto gli spettava una punizione esemplare e perciò, chi più chi meno, eravamo tutti tesi. Non si udiva alcun rumore attorno a noi. C’era chi rifletteva su quanto aveva fatto Polufemos, chi guardava me con terrore o con invidia, e c’era anche chi guardava Efesto con occhi di rimprovero e disprezzo. Efesto, dal canto suo, sembrava immune da tutti quegli occhi che lo osservavano e camminava tranquillo al centro del cortile, in direzione di una chiazza rosso sangue che aveva attirato la sua attenzione. Rise sommessamente quando raccolse il coltello insanguinato da terra. Ci chiese se qualcuno di noi fosse a conoscenza del fatto che Polufemos possedesse un’arma bastarda, non autorizzata e per giunta non del campo, ma nessuno si fece avanti per prendersi la colpa, né Efesto si aspettava davvero che qualcuno lo facesse.
Rigirò qualche secondo la lama fra le dita, sfiorando con i polpastrelli la lama sghemba, poi la consegnò ad Ares. Chi sa che cosa ne avrebbero fatto. Non era un’arma santificata agli Dei, per cui presupposi che l’avrebbero fusa e avrebbero riutilizzato il metallo per altre applicazioni.
-Desidererei un colloquio con lei. Subito-, sussurrò Efesto mentre mi passava accanto. – Mi segua-.
Ares, ricomparso alle mie spalle, mi sospinse in avanti e mi scortò fin dentro l’edificio principale, come fossi una prigioniera. I suoi occhi cerulei mi pugnalavano la schiena con forza e la mano con cui mi sospingeva in avanti esitava incerta fra le mie scapole. Quando ci ritrovammo in un corridoio lungo e luminoso, Ares mi lasciò camminare sulle mie gambe e raggiunse a grandi falcate Efesto, lontano da noi solo di qualche passo. Cominciarono a borbottare fra loro, limitandosi solo a qualche occhiata fugace ed emozionata nella mia direzione.
Salimmo, quindi, su un ascensore metallico senza specchi, ma con una luccicante pulsantiera nera. Era la mia prima volta su una macchina di quel genere e la strana sensazione di vuoto sotto ai piedi mi terrorizzava più di quanto non facessero le due presenze maschili al mio fianco. Sarebbe bastato poco per scivolare in basso, nel vuoto. L’ascensore emise un trillo quando arrivammo a destinazione e mollemente ci depositò in un piccolo atrio con il pavimento in linoleum. La luce rifletteva sul pavimento irradiandosi nella stanzetta con un alone celeste, ultraterreno. Dalla finestra alla mia sinistra vedevo il cortile in cui avevo sconfitto il gigante.
-Per di qua-.
Svoltammo a destra, lasciandoci il cortile alle spalle, e di fronte a noi, dopo un breve corridoio, comparve una porta anonima. La targhetta accanto all’uscio riportava il nome di Ares. Accedemmo proprio grazie al badge di quest’ultimo e facemmo il nostro ingresso in uno studio spoglio, ma con una quantità incredibile di armi appese alle pareti.
Ares andò alla sua scrivania, perfettamente lucida e, probabilmente, mai usata. Si accomodò di schianto e mostrò ad Efesto un’altra comoda sedia accanto a lui. Io rimasi in piedi di fronte a loro, come la vittima di una fucilazione. Raccolsi le mani dietro alla schiena e le strinsi in una morsa di autocontrollo.
-Polufemos non riceverà alcuna punizione per quello che ha fatto-, cominciò Efesto, mentre ad Ares spuntava un sorriso sardonico sulle guance magre.
Annuii perplessa e lasciai che l’uomo continuasse a parlare. Ma, al posto che rivolgersi a me, l’attenzione di Efesto si spostò su Ares.
-Ottima recita! Nemmeno il Generale Deimos ha sospettato qualcosa. Si farà una grassa risata quando leggerà il verbale…-
C’era aria di presa in giro in quell’ufficio e una gocciolina di sudore cominciò a scivolarmi lenta lungo il profilo della mascella.
-Scusate, desidererei poter essere messa al corrente della questione, o se non sono qui per questo, vorrei essere congedata-, commentai, certa che il mio tono irritato non fosse passato inosservato a nessuno dei due. Efesto ridacchiò e cedette la parola al suo collega.
- Certamente. Quello che desidero dirle è che l’esercitazione di oggi era mirata a redigere una classifica delle dieci migliori promesse del gruppo. Eravamo intenzionati a mettere gli occhi su almeno cinque reclute, ma lei ha sbaragliato ogni aspettativa. Si è fatta terra bruciata attorno…-
-Lei crede? -, dissi io, leggermente nervosa. –Io credo solo di avere fatto il necessario per sopravvivere-.
-No, Signorina, non è così. Lei ha vinto, non è sopravvissuta! -, si intromise Efesto, protendendosi in avanti. – Sopravvivere è quello che ho fatto io quando mi sono ritrovato un moncherino al posto del polpaccio. Lei ha saputo reagire ad una situazione di pericolo imprevisto, situazione che nemmeno un quarto di quelle giovani matricole avrebbe potuto gestire. Ha compreso appieno il senso della mia lezione e si è dimostrata un’ottima osservatrice-.
-Quel giovanotto che avete affrontato-, continuò per lui Ares- era il più piccolo dei sei figli di Efesto. Era stato istruito fin dall’inizio affinché al momento dello scontro con l’ultimo avversario estraesse il coltello. Sappiamo che Polufemos ha doti fuori dal normale e si allena sin da quando aveva cinque anni nel padroneggiare le Energie Libere. Sapevamo con certezza che avrebbe vinto, ma volevamo vedere fino a che punto avrebbe lottato e resistito il suo ultimo rivale-.
Ripensai al colpo che avevo sferrato a Polufemos per farlo capitolare e risentii la sua pelle aprirsi sotto le mie dita in una catena dolorosa di microferite e abrasioni. Mi sentii ancora più in colpa: quel ragazzo era stato costretto a tirare fuori quel coltello, aveva solo rispettato gli ordini. Non aveva mai voluto farmi del male di proposito. Ancora una volta la sensazione di essere stata usata mi attanagliò lo stomaco facendomi rivoltare le interiora.
- Se avessi disarmato il soldato e attaccato io stessa con la sua arma, avrei potuto ucciderlo…-
Efesto socchiuse gli occhi.
-Era un rischio che dovevamo correre, tutti quanti-, mormorò. La luce alle sue spalle brillava dello stesso oro pallido di cui era intessuta la sua aura colore inchiostro. Sembrava avere la brace dentro e una sicurezza inumana.
-Lei avrebbe sacrificato suo figlio? -, domandai, osservando la reazione di Ares alla mia domanda. Non pareva per nulla turbato, ma la piega delle sopracciglia folte mi faceva pensare di averlo irritato. Forse riteneva che non fossi io a dovere fare domande né tantomeno proferire giudizi. Eppure non potevo fare a meno di pensare che solo un uomo freddo e senza cuore avrebbe rischiato la vita del figlio in una banale esercitazione.
- Alla fine arriva sempre il giorno in cui i genitori devono smettere di prendersi cura dei figli, o essi cresceranno inetti e indifesi, prostrati ai piedi della morte ancora prima di essere vecchi. Il padre non ci sarà per sempre a proteggere la prole-.
Ares annuiva in silenzio, tuttavia i suoi occhi erano velati di una grigia tristezza.
-E se qualcuno fosse intervenuto e avesse attaccato suo figlio? Lei avrebbe posto fine al combattimento? –
- Avrei posto fine allo scontro solo se fossi stato certo della morte di uno di voi, ma non avrei impedito alle altre reclute di venire in tua o sua difesa. Quello che ho fatto è stato dare pari opportunità a ciascuno di voi soldati novelli, così da studiare il vostro carattere e le vostre inclinazioni-.
- Ma Polufemos era avvantaggiato-.
- Lo è stato soltanto nel momento in cui ha estratto il pugnale. Io amo mio figlio e l’ho istruito come avrei voluto mi avesse istruito mio padre. Finché sarò io a spingerlo oltre il limite e a testarlo, avrò la certezza che stia diventando l’uomo che deve essere. Sarà, infatti, lui un giorno a prendere il mio posto e quando sarà il momento vorrei che avesse ancora entrambe le gambe-.
Potevo capire la logica secondo la quale quell’uomo parlava, ma non riuscivo a togliermi dalla mente la disperazione di Polufemos quando mi aveva vista troneggiare su di lui, la lama in pugno. Con un solo veloce colpo avrei potuto tagliargli la gola e suo padre non avrebbe nemmeno avuto il tempo di porre fine a quell’assassinio senza senso.
-Non vorrei sembrarle un pazzo o, peggio, sconsiderato. Lavoro già da molti anni per l’Accademia e già da molto tempo seguo alcuni degli allenamenti. Ho selezionato più di mille valorosi soldati che in battaglia si sono rivelati poi dei veri eroi. La maggior parte di loro tuttavia è tornata in patria sopra lo scudo, morta. E’ un sacrificio necessario quello del soldato. Bisogna essere pronti a perdere persino i propri figli pur di salvaguardare l’intero popolo-.
Deglutii. In parte ciò che diceva era terribilmente vero. I giovani che si allenavano al mio fianco, ispirati dalla giustizia e dall’onore, non erano come me. Loro avevano una famiglia, delle mogli e dei figli. Eppure erano lì, con le armi in mano, a rischiare la vita per gente che non avevano nemmeno mai conosciuto. Era terribile e al contempo grandioso. Mi sentii completamente sopraffatta da quella sensazione e dovetti appoggiarmi alla scrivania per non svenire.
-Spero di averla ispirata con queste mie parole. Ora, però, devo giungere al sodo. Desidero che lei si unisca a me e alla mia causa. Si allenerà con me e con i miei allievi selezionati almeno una volta al mese per i successivi sei mesi e al termine dell’addestramento le verrà rilasciata la sua prima qualifica-.
Ares si sollevò e mostrò orgoglioso una spilla di lucente acciaio appuntata sulla spalla.
-Si avvicini e la osservi-.
Obbedii mentre quegli occhi di ghiaccio mi seguivano, irrequieti. La spilla era un tondo perfetto con all’interno l’effigie di una libellula dagli occhi cremisi. Non avevo mai visto due pietre preziose così scure; al Tempio avevo conosciuto soltanto minerali smaglianti e colorati, come zaffiri azzurri e smeraldi. Ce li donavano i fedeli come ringraziamento per le grazie ricevute. La trovavo una consuetudine davvero inutile, ma in fin dei conti quei manufatti erano molto belli e attraenti e resistere al loro fascino era difficile.
-Questo è il simbolo dei Figli del Vento-, disse Efesto sollevando il mento e mostrando al di sotto delle folte trecce un tatuaggio scuro a forma di libellula. Strabuzzai gli occhi sorpresa: non pensavo che sotto alla barba Efesto nascondesse un tale segreto.
- Figli del Vento? -, domandai, tornando a concentrarmi sulle parole dell’uomo.
-Esattamente. Si tratta di una setta di giovani uomini e giovani donne le cui capacità militari si fondono con una personalità spiccata, una velocità di apprendimento fuori dalla norma e una capacità innata di controllare alla perfezione corpo e mente-.
Ares avanzò nella stanza, superando la cattedra e andando a recuperare un vecchio tomo dallo scaffale della piccola libreria accanto alla porta. Soffiò sulla copertina in pelle blu cobalto e depositò l’oggetto di fronte ai miei occhi. Era strano vedere un libro in “carne ed ossa” in quel luogo. Pensavo che soltanto il Tempio conservasse ancora vivi quegli esemplari antichi e misteriosi: in fondo ormai tutta la letteratura del mondo era disponibile in formato digitale sulla Rete della Magna Teca e non c’era alcun bisogno di abbattere altri alberi. Afferrai il tomo con reverenza e ne accarezzai la copertina in cuoio.
-Qui c’è scritto tutto quello che deve sapere sulla nostra setta, tutte informazioni utili per la sua scelta. La preghiamo vivamente di non sottovalutare la proposta del Signor Efesto. Poche opportunità sono concesse alle reclute per emergere-.
- Non abusi della mia buona volontà. Non concederò una seconda occasione a chi mi volta le spalle. Perciò prenda il suo tempo per riflettere-.

 

 

Il pomeriggio trascorse placido, nonostante le parole di Efesto mi avessero scossa e tormentata per almeno buona parte del giorno. Il parco dietro l’Ospedale era in fin dei conti accogliente e presentava una grande varietà di fiori. Le aiuole erano perfettamente curate e ordinate, ma facevano davvero uno strano effetto se paragonate all’immensa recinzione che le spalleggiava. Colsi una grossa margherita rosata e la rigirai tra le mani, pensierosa.
-Dovresti proprio cominciare a dare un’occhiata a quel libro-, mi rimproverò Aracne, notando che mi ero cacciata il vecchio tomo sotto il sedere e lì lo avevo lasciato a svolgere il ruolo che gli competeva: fare sì che la rugiada sulla panchina non mi bagnasse la divisa. Era già stato un problema scrostare le macchie di sangue.
-Dovrei, lo so. Ma a che scopo? Non credo che farei bene ad assecondare un uomo che baratterebbe la vita del figlio per uno spettacolo interessante-, obiettai, ironica.  Aracne accennò con la testa. Aveva ascoltato il resoconto della mia mattinata con estrema attenzione e il suo sguardo preoccupato si era più volte soffermato sulle ferite appena medicate. Mi aveva sfiorato il viso e aveva sospirato. Sapevo che Aracne avrebbe voluto avere un fisico forte e robusto, ma ringraziai che gli Dei le avessero donato le delicate membra di una falena notturna. Almeno non avrebbe sofferto come avrei sofferto io.
-Credo che dovresti prendere in considerazione ogni opportunità, per te stessa. So quanto il Tempio ti stesse stretto. Nemmeno tutti gli onori e le regalie hanno saputo piegarti-, disse sorridendo. Dietro a quel volto di porcellana intravedevo il senso di colpa. Aracne amava la vita al Tempio e faceva il possibile per accaparrarsi vesti preziose o doni esotici. Li mandava a casa sua, dove le tre donne della sua famiglia li rivendevano a un buon prezzo e si garantivano una piccola scorta di provviste di emergenza. Non trovavo ci fosse nulla di cui vergognarsi, ma più di una volta, Aracne si era definita ladra e indegna.
-Ci penserò in tal caso. E ti prometto che darò uno sguardo al libro-.
Aracne mi prese la mano fra le sue e, con gli occhi cerchiati da bianche e sottili rughette, mi augurò buona fortuna. Ne avrei avuto proprio un gran bisogno.
Dopo dei rapidi saluti ci separammo e io mi misi in cerca di una biblioteca o di un luogo tranquillo dove poter cominciare a leggere il testo. Vagai per almeno mezzora, tra un piano e l’altro del grande edificio all’entrata del Campo, ma per quanto domandassi e per quanto girassi non riuscii a trovare un posto che mi conciliasse la lettura. Tutto quel pesante cemento e quell’acciaio brillante mi angosciavano e mi davano la sensazione di essere lontana da Carthagyos milioni e milioni di chilometri. Mi dimenticavo sempre più spesso che la città era tutta attorno a noi.
Alla fine mi ritrovai nuovamente di fronte all’Ospedale.
Notai immediatamente una figura alta e scura uscire dall’ingresso, ma con il cappuccio della felpa calcato sul viso mi era impossibile riconoscerlo. Solo quando mi passò accanto, i miei sensi scattarono e l’aroma aspro della magia mi solleticò il naso, facendomi lacrimare.
-Fobos? -, mormorai a me stessa.
La figura incappucciata si voltò di scatto e i suoi lunghi capelli neri frustarono l’aria come serpenti letali all’attacco. Indossava un vecchio paio di occhiali da sole e teneva le braccia conserte. Non potevo minimamente pensare che avesse freddo, perché il suo corpo da Ibrido aveva la pelle troppo spessa per consentirgli il lusso di sentire il gelo, perciò immaginai che il motivo fosse un altro e mi incuriosii ancora di più.
-Che diavolo ci fai tu qui? -, domandò sgarbato. Aveva la fronte imperlata di sudore e le sopracciglia aggrottate e raggrinzite. Le labbra erano completamente screpolate con minuscoli tagli rosso vivo.
-Stavo cercando una sala per studiare o una biblioteca…-, buttai lì.  Fobos si strappò con forza gli occhiali e li infilò nella tasca dei pantaloni. Fu in quel preciso istante che lo vidi: un inquietante paio di manette che gli racchiudeva i polsi, fragili ossa in una morsa di acciaio. I due cerchi di metallo erano sufficientemente distanziati da permettergli i movimenti essenziali, ma non così tanto da permettergli di stringermi le mani al collo: c’erano, infatti, due pesanti lacci di cuoio borchiati che collegavano le manette alla cinta dei pantaloni.
Sollevando entrambe le mani, con l’indice, mi indicò il penitenziario alla nostra sinistra laddove per la prima volta lo avevo incontrato.
-Là dentro? -, domandai un po’ intimorita.
Fobos sbuffò tornando ad incamminarsi.
– Cosa credi? Che il campo sia un hotel di lusso? Qui nessuno ha tempo per leggere, a parte loro. Pertanto l’unica biblioteca esistente qui dentro è quella! -. Accelerai il passo per stargli dietro. Avrei tanto voluto chiedergli se anche lui passasse il tempo a leggere, e soprattutto perché mai vivesse rinchiuso in prigione. Perché fosse ammanettato di tanto in tanto non volevo saperlo, invece: temevo che fosse per un motivo molto oscuro ed era un argomento che ancora non mi sentivo di affrontare. Ci avvicinammo alle guardiole poste all’ingresso. Quando i due uomini lì appostati per il turno videro Fobos, lo salutarono rispettosamente, ma si allontanarono di qualche centimetro quando lui li sfiorò entrando. Sgattaiolai dietro Fobos, forte del timore reverenziale che l’uomo ispirava ai suoi colleghi e in breve mi ritrovai dentro, senza che mi fossero state poste domande o veti.
-E’ così semplice entrare qui? -, domandai di istinto, mentre attraversavamo la hall e una guardia magra ci apriva la prima di una lunga serie di cancelli a sbarre. Non ci fece domande e non alzò mai lo sguardo su Fobos.
-Pensi che tutta la sicurezza là fuori sia per evitare che qualcuno entri? Devi essere veramente un’idiota per pensarlo-.
Ammutolii. Sapevo che Fobos era una creatura sgarbata e irascibile, ma ero io quella che era stata affogata in un lavandino e sempre io che avevo chiesto scusa per ogni mio insignificante scatto di nervi: non meritavo un trattamento del genere. Non avrei mai pensato che il carattere dell’Ibrido potesse essere così ostile, né tantomeno così indifferente a ciò che lo circondava. Quasi non si accorse dell’uomo che dalle sbarre allungò una mano per afferrargli la caviglia.
-La biblioteca è qui a sinistra-, mormorò, frenando all’improvviso in vista di un incrocio. Ma distratta come ero dai miei pensieri non mi accorsi che si era fermato e andai a sbattere dritta contro la sua schiena. Scivolai in avanti, sul pavimento lustro, e per non cadere dovetti per forza aggrapparmi a lui. Stranamente Fobos non si spostò, ma reagendo quasi di istinto, si strozzò i polsi per sostenermi le braccia. Lo guardai spaurita, ma i suoi occhi rimandavano unicamente rabbia ed oscurità. Le pupille erano dilatate dietro lo schermo satinato degli occhiali. Quando li aveva rimessi? Non ricordavo.
Iniziai a sentire una forte pressione attorno agli occhi e il suo sguardo cominciò a trasformarsi in una scia di fumo nero. La bocca di Fobos si aprì per dire qualcosa, ma non sentii nulla ed al contrario persino il ronzio alle orecchie che mi accompagnava da anni ammutolì. L’aria attorno a me cominciò a mutare mentre sentivo che la coscienza lentamente scivolava nel nulla.  Mi aggrappai con forza all’avambraccio di Fobos distogliendo lo sguardo da quelle enormi manette accecanti. Incominciai a vedere nero e a tremare. Il tremore partiva direttamente dal punto di contatto tra la mia pelle e quella di Fobos. Avrei voluto staccare la mano, ma qualcosa me lo impediva. Il mostro dentro di me ruggì e poi caddi a terra, svenuta.

 

Odio camminare nei corridoi, tra tutti questi malati. Odio il loro odore e le loro debolezze.
Vedo ovunque infermiere che corrono e dottori che chiacchierano, sfaccendati. Cammino per inerzia e mi sento sempre più debole. Ecco il dottore, finalmente: mi conviene accelerare il passo. Spero che stavolta faccia in fretta, ma dubito che il suo sadismo mi darà pace.
-Salve Fobos. Come stai quest’oggi? - domanda Upokrates. Mi sembra una domanda stupida.
-Vieni entriamo subito, prima che la gente si incuriosisca. Girano già strane voci fra le nuove matricole-, continua, notando in me una totale assenza di interesse per i suoi vacui discorsi. Mi conduce nella solita stanzetta piena di macchinari e fili elettrici. Alcune strumentazioni assomigliano a piccoli schermi televisivi e producono dei suoni acuti e pulsanti. Vedo la poltroncina con i lacci di cuoio che ormai è la mia seconda casa e, con un sospiro, mi siedo. Non ho nemmeno più bisogno che sia Upokrates a legarmi i lacci: è da anni che lo faccio da solo. Ormai la mia pelle conosce la sensazione del cuoio che si tende e mi lacera. Chiudo le cinghie al massimo, certo che il dolore al posto che migliorare stia peggiorando. Upokrates dice che è per via della stanchezza, che avrei bisogno di riposo, ma io non ci credo. Per quanto rimanga a letto, steso come in una bara, il dolore non diminuisce. Al contrario aumentano la solitudine, la rabbia e la sensazione di essere già morto.  Mi volto in direzione di Upokrates che mi fa un cenno. Prende le tre siringhe e le carica con i liquidi dai tre diversi colori. Non ho mai saputo cosa vi fosse dentro, ma il loro colore nero, verde e rosso mi attrae come la luce le falene.  Entra improvvisamente anche l’infermiera che aiuterà Upokrates. E’ la stessa che lo ha assistito con quella donna. Istintivamente rivedo il volto di quella Custode. Mi viene in mente che i suoi capelli neri sono tanto simili ai miei; sono lunghi come i miei, ma i suoi sono più sottili, come fili di ragnatele. Sembra un corvo quella donna.
Costantia, l’infermiera, mi sorride, ma a me viene soltanto voglia di afferrare una siringa e pungerla sul collo tozzo, insufflandole nelle vene quell’aria letale. Ci vuole così poco per morire. Io stesso potrei morire da un momento all’altro. Potrei morire adesso. Provo a chiudere gli occhi per vedere come potrebbe essere la morte, ma il costante rumore delle macchine attorno a me, mi tiene ancorato alla vita insoddisfacente che ormai da anni conduco.
-Oggi doppia dose, vecchio cane-, mi deride Upokrates. Ha preso a chiamarmi vecchio cane alla mia cinquantesima iniezione; ero poco più che un ragazzo.  Upokrates afferra la siringa e con un cenno indica a Costantia di sistemarsi dall’altro lato. Farà male, lo so bene, ma non sono mai riuscito a provare qualcosa negli istanti prima delle iniezioni. Spero solo che sbaglino e che mi sgozzino come un animale. Sarebbe una fine nettamente migliore rispetto a quella a cui andrò incontro. Eppure so di non poter morire.
-Pronto? -, mi chiede Costantia. Potrebbe assomigliare a mia madre se non fosse per la puzza di fumo e i capelli corti e brizzolati.  Annuisco.
Sento gli aghi che mi pungono, uno sul collo e uno sul polso. Quello sul braccio brucia da matti e mi dà la sensazione che il mio corpo stia andando a fuoco. Mi tengo alla brandina, mentre gli occhi cominciano a scaldarsi e a lacrimare. Vedo l’espressione di compassione dell’infermiera ed istintivamente salto su per attaccarla. Le cinghie mi tengono bloccato, però, e sono costretto a guardare quella donna disgustosa ciabattare fuori dalla sala. Rimaniamo soltanto io e Upokrates. La siringa è conficcata nel collo, ma il dottore deve attendere ancora qualche istante prima di espellere il primo liquido. Quando lo fa non sento nulla. Upokrates silenziosamente carica altre due fiale dell’ultimo liquido rimasto, quello nero. Oggi doppia razione: rido. Farà malissimo, ma almeno mi ricorderà i miei errori. Sento la prima fiala di liquido nero scivolare gelida nelle vene. E’ dolore puro, sordo e tremendo. Stringo i pugni e mi mordo le labbra. Gli occhi, non riesco più a muoverli. Il cuore comincia ad accelerare i battiti, dandomi la fastidiosa sensazione di annegare. Mi viene in mente il volto della ragazza che ho quasi affogato nel lavandino. Ha lottato strenuamente, ma sono ancora io il più forte. Che peccato. Aveva la pelle bianchissima e sottile, così diversa dalla mia. Penso che abbia paura di me e questo mi piace. Sento il secondo carico troppo tardi. Un grido disperato mi sgorga dalla gola. La sofferenza è indicibile, ho il corpo contratto in spasmi. Grido di nuovo, mentre Upokrates mi osserva pensoso.  Mi dibatto, cerco di aggrapparmi a qualcosa. Urlo talmente forte che le labbra si tirano fino a spezzarsi. Sento il sangue caldo e liscio. E’ rassicurante in un certo senso. Svengo. Mi risveglio che sto ancora urlando. Le vene spingono scure e piene contro la pelle. Sembro un demone. Mi sento un mostro.

 

 Fobos non mi lasciò nemmeno riprendere. Mi sollevò da terra, con una forza sovrumana, facendomi penzolare a peso morto.
-Che cosa mi hai fatto? -, domandò. La potenza della sua aurea pulsava di un colore nero e minaccioso. Non sapevo cosa vedevo e cosa avevo visto un istante prima. Sembrava fossi stata catapultata nei pensieri di Fobos. Avevo subito tutto quello che aveva subito lui anche se non capivo come fosse stato possibile. Non era stata una scelta volontaria.
-Non lo so. Non lo so! -, strillai.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 11- Magna Teca ***


Capitolo 11

Non so esattamente come, ma riuscii a scappare dalle grinfie di Fobos. A nulla valsero i suoi tentativi di fermarmi: era troppo lento e affaticato per starmi dietro. Riuscii, perciò, a raggiungere indenne le porte della biblioteca del penitenziario. Queste si aprirono con un sibilo e io feci il mio ingresso nell’enorme salone vuoto, guardandomi attorno come un agnello smarrito. La biblioteca alla fin dei conti era una gigantesca stanza vuota con pochi scaffali, tutti traboccanti di display, e con un enorme schermo touch che consentiva l’accesso alla Magna Teca. Non c’era nulla che mi facesse pensare che quella fosse una vera biblioteca, se non il tomo che avevo sotto al naso. Non c’era nessun detenuto nei paraggi, non un’anima viva, e quindi potei scegliere la postazione che più preferivo. Optai per un tavolo di legno scuro appena sotto al finestrone che con la sua luce bianca e pulviscolare illuminava a giorno un’ampia zona della biblioteca. Aprire il libro fu un’operazione controversa: una parte di me voleva assolutamente leggere quelle pagine, ma l’altra parte sentiva un’avversione naturale per quel tomo e aveva la sensazione che se l’avesse sfogliato, avrebbe scoperchiato il vaso di Pandora. Ignorai quest’ultimo presentimento, e con un gesto secco spalancai il libro. Sfogliai le prime pagine con indifferenza, tralasciando la lettura della dedica, della prefazione e della breve biografia dell’autore, e mi concentrai sul titolo dell’opera: “I Figli del Vento: la Setta degli Eroi contemporanei”.
-Che presuntuosi…-, mormorai, poi girai la pagina e mi tuffai nella lettura.

 I Figli del Vento sono un’Istituzione militare che ha come obiettivo il perfezionamento dell’Arte della lotta in tutte le sue forme più nobili. Spesso ci si riferisce a loro come ad una setta per svariati motivi. Inizialmente, fu l’illustre storico e filologo Alkibiades ad attribuire questo appellativo ai Figli del Vento, rifacendosi alla radice etimologica di setta, ovvero “sector” (rafforzativo di “sequor”) che significa seguire. L’Istituzione, infatti, pare sottostare ad un’etica tutta sua e possedere un’ampia lista di regole e dettami a cui tutti i membri sono soggetti, pena l’esclusione dal gruppo e vent’anni di reclusione con l’accusa di diserzione.
Una seconda interpretazione dell’utilizzo del termine venne poi fornita, negli anni appena successivi alla pubblicazione delle ricerche di Alkibiades, da un membro ad honorem dei Figli del Vento, il Veterano Efesto, il quale fece, invece, derivare il termine setta da “sector”, tagliare. Questo perché l’Istituzione si dissocia completamente da qualsiasi contesto politico-economico della Società Moderna. L’Istituzione, infatti, giura solenne fedeltà soltanto ai propri compagni e possiede un suo precipuo Governo Interno, indipendente da quello di Elladia. “Questo è stato fatto per mantenere una certa integrità morale e di pensiero” ha dichiarato Efesto, membro Capo della setta da più di trent’anni. “L’uso della tecnica delle Energie Libere deve essere ad esclusivo appannaggio di soldati indipendenti e stabili mentalmente, con una forte predisposizione all’iniziativa personale e ai ragionamenti individuali. Si sa, in fondo, che gli edifici sono resistenti non solo se lo sono le fondamenta su cui crescono, ma anche se ogni singolo mattone riesce a trovare il suo posto nella struttura”.
Per quanto, invece, riguarda il nome dell’Istituzione, esso deriva da un piccolo insetto volante ormai praticamente estinto: la libellula, appunto chiamata in alcune tradizioni “figlia del vento” in quanto con le sue sottilissime ali cangianti ella riesce a volare e fendere l’aria. La scelta di avere come simbolo una libellula nacque da un’idea di uno dei membri Capo dell’Istituzione, ossia il Guaritore e Teologo Iatro…

Il mio cuore ebbe un sussulto. Leggere fra quelle righe il nome di un uomo della mia cerchia, di un religioso che avrei persino definito fanatico, era una cosa che non mi sarei mai aspettata. Eppure, ripensando al mio ultimo colloquio con quell’uomo, non potevo fare a meno di ricordare il velato consiglio che mi aveva dato. Nonostante il patto di alleanza tra Esercito e Chiesa, infatti, Iatro mi aveva suggerito, contrariamente a quanto aveva fatto la Sacerdotessa, di non rivelare troppo su di me e di non spifferare ai quattro venti la Natura più profonda del mio Dono.

Mi chiesi anche se Sorella Dyana sapesse dell’appartenenza di Iatro ai Figli del Vento, o se ne fosse all’oscuro. In quest’ultimo caso, il beneamato Guaritore del Tempio di Carthagyos sarebbe risultato essere un traditore della Religione e un sedizioso. Ma come nascondere un segreto talmente importante al mondo? Mi alzai istintivamente e mi diressi verso lo schermo touch al centro della sala. Lo guardai come si guarda il pelo dell’acqua di un lago misterioso, poi vi posai lentamente un dito. Immediatamente l’oggetto si illuminò di una luce azzurrina e una voce metallica mi introdusse all’archivio della Magna Teca.

 

Prego, inserisca le specifiche del documento che sta cercando_

 

-I Figli del Vento: la Setta degli Eroi contemporanei. Autore anonimo-, declamai, cercando di scandire bene le parole.

Di fronte a me comparve l’ologramma di un enorme albero che ruotava su se stesso. Il sistema di ricerca era in caricamento e un cursore impazzito muoveva i rami a destra e sinistra in cerca del file che corrispondesse alle mie indicazioni. Poi, come un fulmine a ciel sereno, comparve un messaggio di errore e il sistema si dissolse repentinamente facendo esplodere l’albero in una marea di pixel.

 

Il sistema non è stato in grado di trovare il documento con le specifiche da Lei fornite. O il file non è presente nel nostro Database o titolo/autore del testo non sono stati chiaramente pronunciati.

Ci scusiamo per il disagio. La invitiamo a riprovare e le auguriamo una buona giornata_

Probabilmente l’unica testimonianza dell’esistenza della setta era quel libro, una sorta di memoriale segreto tenuto sotto chiave dai membri dei Figli del Vento. Quindi, con ogni probabilità non tutti erano a conoscenza dell’Istituzione e Iatro era a rischio scomunica. Sospirai e tornai al mio tavolo, pronta a riprendere la lettura da dove l’avevo lasciata.

 

…il quale afferma: “La Natura della libellula è meravigliosa, non trovate? Una creatura così piccola che passa gran parte della sua vita come larva sul fondo della palude, riesce, infine, ad evolvere e trasformarsi in una creatura pura. E’ così che vedo i nostri soldati: creature uniche e intelligenti che sguazzano nella mediocrità solo per abitudine, ma che grazie ai giusti allenamenti possono aspirare ad una condizione fisica e mentale superiore. Inoltre, la libellula è un animale sacro, invita alla riflessione, all’elevazione spirituale verso la Verità ed è associata al cambiamento. Così deve essere un Figlio del Vento. Deve essere sicuro di sé e volare sull’abisso, ma non deve dimenticarsi delle proprie debolezze. Deve ricercare il cambiamento di sé se necessario, essere libero di pensiero e aperto alla saggezza. Libellula viene, infatti, dal latino “libellum” (libricino) proprio a causa del moto delle sue ali, simili alle copertine di un tomo trasparente. Non si può ignorare, quindi, che sia anche la conoscenza e l’Arte del pensare a rendere il Figlio del Vento un degno soldato, e prima ancora un degno Uomo”.

 

Dei rumori di sottofondo mi riscossero dalla lettura e avvistai una fila di detenuti che venivano condotti da due secondini nella mia direzione. Richiusi in fretta e furia il tomo e uscii dalla stanza, tenendo un profilo basso. Fuggii rapida dal penitenziario e finalmente presi una boccata d’aria.
-Eccoti! -.
La voce di Fobos mi esplose nelle orecchie e prima che potessi anche solo pensare di sfuggirgli di nuovo, l’Ibrido scattò in avanti e me lo ritrovai a due centimetri dal volto. Era visibilmente arrabbiato e nei suoi occhi leggevo un accenno di follia. La sua aura brillava di un color ruggine acceso e fiammeggiava attorno a lui come un fuoco ardente.
-Che…-, cominciai a dire, ma appena dopo sentii il terreno mancarmi da sotto i piedi e caddi rovinosamente di schiena, sovrastata dall’imponente figura di Fobos. Il libro era precipitato a qualche metro da me e alla mia stregua era finito in un’enorme pozza di fango.
-Non so chi cazzo ti credi di essere…-, mi urlò lui, furioso. –Ma se ti azzardi nuovamente a entrarmi nella testa, ti sparo dritto in mezzo agli occhi! -. 
Cercai di rotolare sul fianco e recuperare il tomo, ma Fobos, non ancora soddisfatto, mi afferrò per il bordo della canotta e mi sollevò da terra. Le manette erano ancora lì al loro posto, ma la supremazia fisica dell’Ibrido era senza pari: mi sentii una piuma per la facilità con cui mi sollevò.
-Guardami mentre ti parlo! -, urlò facendo voltare alcune matricole che stavano casualmente passando accanto a noi. Nessuna, tuttavia, si fermò per darmi una mano. Le cercai più volte con gli occhi, supplicandole e ignorando ancora una volta le parole di Fobos, ma lui in un secondo riuscì a riportare la mia attenzione su di lui. Mi afferrò il volto fra le mani, schiacciandomi le guance senza pietà e facendomi lacrimare. Mi costrinse a guardarlo negli occhi, in quelle misteriose pozze di inchiostro che riconoscevo essere animate dalla stessa malinconia che albergava in me.
-Non l’ho fatto apposta-, mugugnai, più simile a un pesce rosso che a un soldato. Fobos strinse di più la presa e sentii la mandibola scricchiolare. Cercai di tirargli un calcio, ma lo mancai e il mostro ridacchiò soddisfatto.
-Generale, che sta facendo? -.
Ringraziai gli Dei che qualcuno finalmente fosse venuto in mio soccorso. Fobos mollò la presa e io ricaddi a terra come un sacco di patate. Potevo respirare, nonostante il dolore al viso, e questo era già un grande traguardo. Di fronte a me, come due giganti, si stagliavano Fobos ed Eracleo.
-E lei chi è? -, chiese l’Ibrido, mentre con un gesto secco indossava gli occhiali da sole.
Eracleo si presentò doverosamente con il saluto militare, mentre nella mia testa la parola “Generale” si diffondeva come un virus.
 - Voi due vi conoscete? -, indagò Fobos, la cui aura aveva cominciato lentamente a ridimensionarsi. Sembrava irritato dal fatto che io ed Eracleo fossimo in buoni rapporti; forse non sopportava che fra un suo compagno e una religiosa scorresse buon sangue o forse gli dispiaceva essere stato interrotto sul più bello.
- Sì, abbiamo avuto modo di parlare un paio di volte-, rispose Eracleo, evasivo, tendendomi una mano e aiutandomi a rialzarmi da terra. Poi sorrise affabile e mi porse il tomo infangato. Solo quando si accorse di quanto fosse sporco, me lo richiese e lo pulì con il bordo della sua divisa.
-Ecco, tieni-.
 Lo ringraziai timidamente. Eracleo sorrise e mi fece una breve carezza sul capo, scompigliandomi i capelli. A quel tocco avvampai e persino gli occhi di Fobos ebbero un guizzo. In realtà non era che nutrissi una qualche sorta di interesse amoroso per Eracleo, ma in quanto Custode, quello, fino ad allora, era stato l’unico contatto affettivo mai avuto con un uomo.
-Devi essere stata davvero indisponente per aver fatto arrabbiare Fobos-, aggiunse poi, lanciando un’occhiata eloquente all’Ibrido. Attorno a noi, infatti, senza che me ne fossi nemmeno resa conto, si era creato un capannello di curiosi che con la scusa di dover svolgere delle mansioni nelle vicinanze gettavano sguardi curiosi su di noi. Fobos si apprestò a nascondere le manette e i capelli lunghi e setosi gli ricaddero sul viso come una cascata di inchiostro.
- Posso rubargliela per un secondo, Generale? -, azzardò quindi Eracleo, consapevole che di fronte a degli spettatori, non avrebbe potuto negargli quella richiesta. Fobos, infatti, si rianimò all’improvviso, quasi lo avessero punto. Si girò pronto a sputare veleno come suo solito, ma si rese conto che il sottoposto mi aveva già afferrata per un braccio e mi stava per trascinare via. Mi voltai solo un istante, per godermi la smorfia di rabbia che avrebbe dipinto il volto di Fobos, ma ciò che scorsi quando mi girai, furono un’espressione incredula e una mano che si allungava nel tentativo di sfiorarmi le dita. Solo il clack delle manette gli impedì di toccarmi, e le sue mani di conseguenza gli ricaddero in grembo. Ci osservò un’ultima volta, poi girò i tacchi e si incamminò nella direzione opposta.

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12- Una spalla su cui piangere ***


Capitolo 12


Le giornate passarono veloci, una dopo l’altra, tra allenamenti inutili e lezioni di strategia militare. Facemmo un paio di esercitazioni nei cortili e ci insegnarono a montare e smontare le armi. In pratica ci instillarono tutte le conoscenze necessarie per sopravvivere, fosse anche solo un giorno, nel mondo là fuori. Ares era tremendo e non mancava giorno nel quale non ci ricordasse quanto fossimo inetti e inadatti. Era umiliante lavorare con lui, ma dovevo ammettere che per molti soldati il suo sistema aveva funzionato alla grande. Mancava solo una settimana alla fine del Training e la maggior parte delle matricole del mio gruppo aveva già cambiato postura e messo su un po’ di massa. Soltanto io e un’altra ragazza eravamo rimaste praticamente identiche. Era imbarazzante allenarsi con tutti quei cadetti, che in un modo o nell’altro avevano già avuto una precedente istruzione militare o discendevano comunque da generazioni di Comandanti, Tenenti e Generali. Mi sentivo costantemente fuori posto e senza forze, e guardare l’espressione di convinzione e grinta sui loro volti tutti uguali mi metteva più angoscia di quanto non me ne avesse trasmesso l’aspetto di Fobos la prima volta che lo avevo incontrato. Per il resto, la mia vita scorreva nell’apatia totale e nel tempo libero combinavo ben poco. Il massimo che facevo era dormire e mangiare oppure leggere altre informazioni circa il mondo dei Figli del Vento, a cui peraltro dovevo ancora una risposta. Efesto si era momentaneamente trasferito fuori Carthagyos per ragioni a me sconosciute e dal giorno della proposta non avevo più avuto la possibilità di parlargli, mentre Ares pareva ignorarmi e non voler toccare l’argomento. Il suo modo di fare era deprecabile e ogni volta che tentavo di sollevare la questione durante l’allenamento, finiva per insultarmi con frasi del tipo: - Ora che ha finito di giocare, perchè la mezza checca religiosa che c’è in te non richiama il potere degli Dei e non ci fa vedere un bel pugno? –. Quindi discutere con lui mi sembrava fuori questione.
L’unico che pareva essermi solidale era Eracleo. Era un ragazzo davvero gentile e a tratti fin troppo servizievole: mi aiutava con le tecniche di combattimento anche dopo gli allenamenti, fermandosi con me in cortile anche quando il giorno dopo doveva prestare servizio. Inoltre, venuto a conoscenza della condizione economica di Aracne, aveva liberamente scelto di devolvere un terzo del suo stipendio a lei e alla sua famiglia, per amore del prossimo. E tanto lui era buono e generoso, tanto Fobos era tremendo e glaciale. Lo avevo incontrato più volte al di fuori degli allenamenti, cui peraltro partecipava assieme a Deimos per deridere le matricole in difficoltà, ma non avevamo più parlato dal giorno in cui ero entrata nei suoi ricordi. E a me andava bene così. Solo una volta i nostri sguardi si erano incontrati, facendomi vibrare ogni fibra del corpo. Era accaduto in concomitanza con la mia prima sperimentazione medica, proprio fuori dal laboratorio di Upokrates, e ciò mi aveva fatto pensare che il suo fosse uno sguardo di rimprovero puro e semplice. Comprendevo perché Fobos temesse la sperimentazione umana e io stessa non amavo essere usata come una cavia, ma ciò non significava che potesse giudicarmi così facilmente. Non sapeva niente di me: non mi ero mai seriamente ammalata e da quanto avevo scoperto al Tempio ero immune da virus e tossine mortali. Il massimo che potevo prendermi era il raffreddore. Quindi cosa potevo mai rischiare?
Upokrates mi diede il benvenuto nel suo ambulatorio con un saluto eccitato. Pareva trovare molto divertente le nostre sedute, specialmente perché fino ad allora aveva scoperto ben poco. La curiosità per lui era tutto e più brancolava nel buio, più desiderava svelare il mistero che si nascondeva dietro la mia esistenza. Osservai Fobos parlottare con Deimos dall’altra parte del corridoio, poi me li lasciai alle spalle e le porte si richiusero dietro di me.
-Sei pronta? -, mi domandò il medico, mentre mi faceva accomodare su uno strano lettino mai visto prima. Annuii tranquillamente, poi Upokrates mi prelevò di fretta e furia una provetta di sangue: ero abituata a quelle procedure visto che anche al Tempio tenevano costantemente monitorati i nostri fluidi vitali, ma la quantità di sangue che Upokrates mi aveva tolto in quel periodo era davvero al limite del legale.
Lo osservai mentre infilava la provetta rosso cremisi in una macchina ronzante e prendeva la siringa già carica appoggiata sull’apposito supporto igienico. Quel giorno pensavo mi avrebbe iniettato la mia solita Cura, quella che ormai mi aveva iniettato per la prima volta tempo fa e che il Tempio aveva fornito all’Esercito affinchè ci mantenesse in quello che veniva chiamato Stato Evolutivo. La vera differenza stava nel fatto che quel giorno Upokrates aveva inserito la fiala in una centrifuga e aveva separato i due componenti del liquido che mi avrebbe inoculato.
-Vedi? – mi domandò, mostrandomi una fiala piena di un fluido dal doppio colore, sotto blu e sopra rosso. – La zona blu è il fluido di ampliamento psichico, mentre la parte rossa è l’Inibitore. Oggi ti inietterò solo il fluido blu, così che il tuo potere possa manifestarsi nella sua pienezza, senza altra restrizione. Nel qual caso la manifestazione diventi troppo violenta, ti sparerò un sedativo e conseguentemente ti inietterò anche l’Inibitore-.
Lo ascoltai distrattamente, mentre l’ammonimento di Iatro mi risuonava nelle orecchie come il rintocco di una cupa campana. Sapevo che non avrei dovuto mostrare il mio potere in sé, ma ormai era tardi per tirarsi indietro e comunque, se avessero voluto, avrebbero potuto costringermi con la forza a partecipare a quelle sedute. Non avevo mai avuto veramente scelta.
-Bene-, dissi mentre Upokrates mi legava al lettino, mani, piedi, collo e busto, e lo sollevava in posizione eretta. Quel lettino sembrava uno strumento di tortura ed era chiaro perché Upokrates lo tirasse fuori soltanto quando doveva servirsene. Strinsi gli occhi, mentre la spia luminosa di una telecamera mi accecava.
-Questa servirà per filmare il tutto, cara-.
Annuii nuovamente.
-Perfetto, allora possiamo cominciare-.
Upokrates mi si avvicinò e prelevò dalla fiala il liquido blu. Ne espulse un po’ dall’ugello della siringa e con un colpo deciso me lo conficcò nel collo. Sobbalzai mordendomi le labbra e stringendo le dita di mani e piedi. Sentii la mano di Upokrates massaggiare la zona dove mi aveva colpito e poi lo vidi allontanarsi a passo svelto, fin dietro la telecamera. Lo seguii con lo sguardo mentre armeggiava con le apparecchiature fin tanto che un ronzio strano, quasi un ultrasuono, mi penetrò le orecchie. All’inizio provai le stesse sensazioni già sperimentate nella prima seduta di Cura con il Guaritore, quando avevo subito addirittura due Cure, poi quando pensai fossi lì lì per giungere alla fine della mia agonia, iniziai a vedere tutti i colori creparsi e formare una specie di vetrata davanti ai miei occhi. Vedevo strane figure appese a testa in giù dal soffitto, forse fantasmi, che bisbigliavano fra di loro, fissandomi con occhi vacui.
La testa cominciò a rimbombare e la pressione mi fece fischiare le orecchie come un treno in corsa. Mi mancava l’aria e annaspavo alla ricerca di ossigeno fresco, mentre il sangue sembrava pietrificarmisi nelle vene. Vidi altri volti dietro a quello di Upokrates, malati e tristi, aggrappati e fusi nel suo corpo, cristallizzati. Mi parlavano, ma non capivo cosa dicevano. Ero assordata dal dolore e mi sentivo morire. Il mostro mi graffiava dentro e si arpionava ai miei organi per uscire da lì, dopo anni di prigionia. Cercai disperatamente di inghiottirlo di nuovo, ma quando un’ondata di calore mi bruciò le vene, urlai e il mostro mi uscì dalla bocca come un ragno liquido prendendo il pieno possesso di me. Mi lasciò cosciente così che sperimentassi la sua condizione, la costrizione e l’impotenza insita nell’abitare il corpo di un altro. E improvvisamente, vomitata l’anima malvagia che avevo dentro, il dolore, le visioni e i colori collassarono su loro stessi e la realtà ricominciò a risplendere di fronte a me. Sentii il sangue colarmi dal naso e scivolarmi in bocca, fra i denti, sulla lingua e nello stomaco. Il mostro si stava abbeverando.
-Strano,- disse Upokrates il quale pensava che l’effetto della fiala fosse tutto lì. Cominciò ad armeggiare con la telecamera, deluso, cercando miseramente di stopparla. Risi di gusto, ma ascoltando la mia stessa voce, quasi venni meno. Suonava fredda, quasi collerica, quasi come quella di Fobos. Sembrava provenire da dentro ed espellersi come veleno da ogni poro della pelle. Persino Upokrates sembrò esterrefatto e si trattenne ancora qualche momento dallo spegnere la macchina.
-Come ti chiami? -, domandò serio, sospingendo gli occhiali su per il setto. Si avvicinò lentamente entrando nel campo della registrazione, ma rimanendo comunque a distanza di sicurezza. Lo trovai ridicolo.
- Astreya-, risposi guardandomi attorno. In qualche modo vedevo il mondo in maniera più nitida e accelerata, come se inseguissi i fotogrammi di un film.
-Che giorno è oggi? -.
- Guardi il calendario che c’è sulla scrivania e lo scoprirà da solo-. Odiavo quegli stupidi interrogatori medici. Mi sentivo una sciocca a rispondere a domande così inutili.
Upokrates, invece, pareva perplesso e aggrottava le sopracciglia ogni sei secondi virgola sei. Era da tempo che non contavo le cose che mi circondavano e ora era una liberazione farlo, senza più freni.
-Come ti senti? –
-Come un salame-.
-Hai sete? –
-No-, risposi.
-Fame? –
-No-.
-Riesci a mostrarmi qualche tua nuova capacità? -. Stupido medico. Categoria di imbecilli i medici.
Guardai dritto negli occhi di Upokrates e proiettai la mia energia su di lui, infilandomi nei suoi occhi, nel naso e nelle piccole orecchie. Viaggiai un po’ per tutto il suo corpo, sondando e studiando. Mi attaccai come un parassita alla sua colonna vertebrale e mi arrampicai fino a impiantarmi nel cervello. Faceva caldo lì dentro: quell’uomo pensava un sacco. Poveretto. Infilai le dita nel dolore, la mia zona preferita, e strizzai con quanta forza avessi in corpo, stringendo i denti e piegando la testa di lato. Sentii le sue urla limpide e cristalline e me ne beai completamente. Una piccola punizione per quello che mi stava facendo in fondo non era veramente una cattiveria. Lo vidi accasciarsi a terra, tenendosi la testa fra le mani e mormorando frasi sconnesse. Cercò di rialzarsi più volte, ma tutte le volte lo rifeci cadere, manovrando la sua mente come fosse un burattino. Risi, e infine, quando stava per svenire lo lasciai andare. Crollò sulle ginocchia, esausto. Ciò nonostante gli avevo lasciato un briciolo di forza, quella sufficiente a spararmi il sedativo. Ero in preda al mostro, ma ero ancora io. Gli lasciai il tempo per riprendersi, per massaggiarsi le tempie e recuperare la vista: pensavo che allora sarebbe stato terrorizzato e che mi avrebbe osservato con gli occhi strabuzzati. Invece, quando Upokrates sollevò il viso nella mia direzione vidi soltanto un’eccitazione febbrile. Sorrise estasiato ed applaudì, facendomi squassare il cervello ad ogni schiocco delle sue mani. Non sembrava essersi reso conto di sanguinare dalle orecchie e dal naso, o forse ne era cosciente, ma non gliene importava nulla. Una rabbia funesta si impadronì nuovamente del mio corpo. Mi sentivo ridicolizzata, presa in giro e derisa. Non potevo sopportarlo. Se quello stupido trovava eccitante seguire passo passo la mia trasformazione in mostro, avrei dovuto solo fargli cambiare idea. E poi non si sarebbe potuto più lamentare, se fosse morto.
-Mi dica, Upokrates…-, cominciai, tendendo le cinghie del lettino fino allo stremo. La mia voce rimbombò sulle pareti e le ombre che mi assediavano baluginarono di paura. – Ritiene che io sia un esperimento divertente? La faccio ridere? -.
L’uomo sollevò il mento. Aveva il volto trasfigurato e gli occhi lucidi di follia. Sembrava non rendersi conto del fatto che se avessi voluto, lo avrei potuto fare esplodere come un palloncino.
-Sì, mia cara, mi sto divertendo come non mai. Sei la migliore cavia che potessi desiderare-.
Non riuscivo a credere a quanto fosse stupido quell’umano: si divertiva nell’osservare le sofferenze altrui senza alcuno scrupolo etico o pietà.  Non potevo lasciare in vita quel verme, a maggior ragione perché era un vecchio senza morale.
-Va bene…-, dissi solamente, poi urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, un urlo selvaggio e liberatorio che attraversò l’ospedale come una freccia incandescente. Upokrates si tappò le orecchie mentre gli strumenti alle sue spalle esplodevano in mille frammenti cangianti e schizzavano in tutte le direzioni. Sentii uno di essi ferirmi il collo e questo mi fece ancora più imbestialire. Cominciai a spingere con tutte le mie forze: avrei dovuto fare ricorso a tutte le Doti del mostro per liberarmi e stringere le mie mani intorno al collo di Upokrates. Desideravo vederlo morire con i miei occhi e che lui ricambiasse il mio sguardo nell’esatto istante in cui avrebbe esalato il suo ultimo tormentato respiro. Ma per farlo prima dovevo liberarmi.
Mi puntellai con i talloni e i gomiti, stirando i muscoli e il collo in una sorta di anelito alla libertà. Sentivo il cuoio tagliarmi la pelle, le fibbie rodermi i muscoli, ma questo mi dava solo una motivazione in più per spingere, e in breve riuscii a far saltare alcuni lacci.
-Piccola ingrata…-, mugugnò Upokrates, lanciandosi verso di me con l’ago luccicante della siringa puntato al mio collo. Riuscì a infilzarmi già dopo un paio di tentativi, ma solo perché glielo concessi io. Volevo che vedesse quanto fosse stato stupido. Mi inoculò il liquido con forza e io lo sentii sciabordare veloce nel sangue. Era doloroso ed estenuante resistere, ma strinsi i denti e mi morsi a sangue la lingua.
- Pensa davvero che una misera iniezione sia in grado di fermarmi? -, mormorai, osservando gli occhietti cisposi del dottore da dietro le lenti schizzate di sangue. Ora sì che erano terrorizzati. Ora sì che coglievano la follia dietro alle mie iridi insanguinate.
Tentò di dire qualcosa, ma la mia mente lavorò più veloce. Scrutai un paio di volti fra la marea di spettri che si aggrappavano alla pelle coriacea dell’uomo e notai che uno, fra essi, era arrabbiato. Lo capivo dall’energia che mi trasmetteva, dal modo in cui fiammeggiava e rimaneva ancorato al collo di Upokrates. Ricorsi alle mie doti di Oscura e scoperchiai il velo invisibile che divideva il mondo dei vivi da quello dei morti.
-Candida de nigris et de candentibus atra facere*-, esclamai, mentre la mia voce modulava e si trasformava in una profonda voce degli abissi. Subito l’ombra a cui il mio invito era rivolto, ritrovò il suo spessore, quello di un giovane dagli occhi grigi e i capelli rasati. Sorrise con i denti leggermente appuntiti e in un solo brevissimo istante affondò le dita nel collo di Upokrates facendolo sgolare come un maiale al macello. L’uomo cominciò, quindi, a contorcersi sul pavimento, divorato dallo spettro iridescente, ghermito dalle sue fauci e dalle sue mani. Risi come mai prima di allora e la telecamera cadde frantumandosi a terra. La osservai come si osserva un insetto disgustoso, poi ricominciai a tirare, incitata dalla sofferenza di Upokrates. Il vecchio piangeva, gridava e tentava di strapparsi gli occhi, ma senza alcun risultato. Sapevo che prima o poi qualcuno sarebbe venuto a soccorrerlo, forse un’infermiera o peggio uno squadrone di soldati, ma non me ne importava. Dovevo solo liberarmi prima che arrivassero i rinforzi e porre fine all’inutile vita di Upokrates. E non sarebbe stata nemmeno un’impresa impossibile se fosse veramente andato tutto secondo i miei piani. Ma Fobos irruppe di corsa nel laboratorio, gridando a qualcuno alle sue spalle di stare indietro. Non sembrava teso o spaventato. Si limitò a guardare Upokrates mentre si contorceva a terra e me che cercavo, come un animale impazzito, di liberarmi.
Mi si avvicinò lentamente, gli occhi stretti a fessura e le labbra tese fino a diventare bianche.
Osservò le cinghie che mi legavano, diventate così sottili da cominciare a sfilacciarsi e impregnarsi del mio sangue.
- Sei un’idiota-, mi disse risoluto, puntandomi una katana lunga e affilata alla gola. Il suo sguardo era indifferente, giusto un po’ indispettito. Non c’era tremore nella sua mano, né insicurezza nella sua voce. Era pronto a porre fine alla mia vita se fosse stato necessario.
-Pensi di uccidermi? -, risi. Fobos sollevò appena gli occhi, puntando le sue iridi ambrate nelle mie.
-Penso che tu sia stupida-.
La sua provocazione e la sua freddezza alimentarono il mio mostro, il quale aggrappandosi come un ragno ai muscoli del mio viso, mi fece aprire la bocca e addentare la spada. Sentii il taglio della lama aprirmi delle ferite ai lati delle labbra e innaffiarmi la lingua di quella linfa vitale color rubino che amavo tanto. Stavo sfidando Fobos: o lui avrebbe ucciso me o io avrei ucciso lui e Upokrates.
L’Ibrido sembrò pensarci un attimo, poi si avvicinò e con le dita mi costrinse ad aprire la bocca. Era difficile resistere alla sua forza fisica, ma più volte riuscii a morderlo e graffiarlo. Solo dopo estenuanti tentativi riuscì a sfilarmi la spada di bocca.
-Smettila. Non andrai da nessuna parte così-.
La sua voce atona mi irritava e mi faceva impazzire gli impulsi nervosi. Gridai di frustrazione mentre lo spettro incatenato al dottore gli affondava una mano nel cuore e lo faceva urlare disperatamente. Fobos lo ignorò, senza battere ciglio e tornò a guardarmi.
-Non mi interessa se lo uccidi, ma sei sicura di volerlo fare? -, domandò, spostandosi leggermente dalla mia visuale per consentirmi di vedere l’uomo nel pieno della sua sofferenza. Aveva la bocca spalancata e gli occhi riversi. Un rivolo di bava mischiata a sangue gli scivolava lungo il mento.
Sì, ero certa di volerlo uccidere.
Con aria di sfida sorrisi a Fobos, poi cominciai nuovamente a dibattermi e tirare, pronta finalmente a liberarmi. Lui sospirò, si lanciò in avanti, contro di me, e con la spada tranciò tutti i lacci di cuoio. Si muoveva veloce e preciso recidendo ogni legaccio con un unico fluido gesto.
Il mio corpo si ritrovò improvvisamente libero e senza peso. Non riuscii a mantenere l’equilibrio e caddi in avanti, fra le braccia di Fobos. Subito, nell’immediatezza del pericolo, lo morsicai sul collo e gli affondai le unghie nelle costole, strappandogli un gemito di dolore e brandelli di stoffa.
-Dibattiti quanto vuoi-.
Lo presi in parola e cominciai a colpirlo in ogni dove, con calci, morsi e graffi. Ad ogni mio passaggio la sua pelle si apriva come un fiore, rivelandomi il fiore cremisi della sua carne viva. Eppure Fobos non capitolava e ad ogni nuovo attacco mi stringeva più forte. Ero completamente circondata dalle sue braccia e attraverso il suo torace sentivo il suo cuore battere a una velocità incredibile. Aveva paura di morire? Mi fermai per un solo istante, ma questo fu sufficiente all’Ibrido per stringere il suo abbraccio ferreo su di me e intrappolarmi contro di lui. L’odore della sua magia mi faceva prudere il naso e gli occhi avevano cominciato a lacrimarmi, proprio come al nostro primo incontro.
-Sta passando-, commentò Fobos, con voce stranamente gentile, e oltre la sua spalla vidi Upokrates svenuto a terra che respirava convulsamente, senza più alcuno spettro legato al cuore. Due grosse lacrime mi affiorarono agli occhi, mentre osservavo quel corpo sanguinante disteso sul pavimento a qualche metro da noi. Cominciai a sentire freddo e a tremare come una foglia. Vedevo sangue ovunque, sulla mia biancheria, sul corpo di Fobos e ovunque sul pavimento. Le mie mani grondavano sangue e grossi arrossamenti stavano lasciando spazio alla formazione di lividi.
- Ora non entrare in panico. Conta fino a cento-.
La voce di Fobos prese a cullarmi come una ninna nanna rassicurante e successivamente lo sentii contare, lentamente, sussurrando i numeri alle mie orecchie. Scivolammo lentamente a terra e poi, stretta in quella morsa fresca e rassicurante che era il suo corpo, cominciai a rientrare completamente in me.
-Venti… ventuno… ventidue-.
Fobos si staccò leggermente, continuando a contare, e gettò un rapido sguardo a Upokrates. Vide la sua cassa toracica alzarsi e abbassarsi e un sospiro di sollievo gli gonfiò il petto.
-Continua a contare-, mi incitò, quando mi interruppi per osservarlo. Era serio come al solito, ma i suoi occhi rimandavano lampi di compassione e tenerezza.
-Trentacinque… trentasei…-, lo assecondai.
- Brava, stupida idiota-.
Mi passò distrattamente una mano fra i capelli, come aveva fatto tempo addietro Eracleo, e spinta da quel gesto rassicurante, appoggiai il viso sulla sua spalla, nascondendolo fra i suoi capelli. Sentii un leggero tremore nel suo corpo, poi anche lui tornò a contare. Allungai quindi le braccia dietro la sua schiena e lo strinsi con forza: sentivo la testa girare terribilmente e i tagli bruciavano più del fuoco. Mi ero dimenticata quanto fosse doloroso richiudere il mostro nelle profondità del mio stomaco.
-Sessantotto…. Sessantanove…-.
- Manca poco-, commentò Fobos, riposizionandomi la spallina del reggiseno e accarezzandomi la schiena. Era una sensazione strana, ruvida sulla pelle, ma in qualche modo gratificante. Non avrei dovuto concedergli di toccarmi, ma non riuscivo ad oppormi. Lo lasciai fare e chiusi gli occhi. Entrai in una sorta di dormiveglia, a metà tra la vita e la morte, tra il dolore e la pace.
Fu solo quando stavo per abbandonarmi al sonno definitivamente che sentii la voce di Fobos chiamare qualcuno. Poi le sue mani mi scivolarono sulle gambe e la sensazione di non avere peso mi fece salire un conato di vomito. Cercai di capire se mi avesse preso in braccio, ma tutto ciò che vedevo era il viso dell’infermiera che il primo giorno mi aveva sedata. Il suo nome era Costantia? Non ricordavo.
-Dove la porto? Ha bisogno di cure-, chiese Fobos, scostandomi i capelli dal viso e mostrando tutte le ferite che mi ero autoindotta.
Costantia sussultò e, con un’espressione atterrita, propose di legarmi a una barella e trasportarmi in un’altra sala. Istintivamente mi aggrappai alla schiena di Fobos, come quando da bambina mi ero aggrappata alle vesti di mia madre il giorno in cui mi aveva venduta, e strinsi le cosce attorno al suo corpo. Avrebbero dovuto schiodarmi da lì con la forza. Sentii il cuore di Fobos accelerare leggermente e perdere il ritmo, poi lo udii parlare.
-Niente barella, la porto io-.

 

 

 

*Trasformare il nero in bianco e il bianco in nero.

 

 

 

 

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 - Il risveglio ***


Capitolo 13

Mi risvegliai di soprassalto, aprendo gli occhi di scatto e riemergendo da un incubo senza fine. Mi sentivo persa, ragionare mi costava fatica e l’unica certezza che avevo era che ero viva. Solo successivamente, piano piano, le informazioni mi tornarono alla mente, spuntando come fiori dal cemento. Purtroppo, però, assieme ai ricordi, riaffiorò anche il dolore, un male così intenso da farmi pulsare le tempie e bruciare il corpo.  Non ricordavo un giorno in cui fossi stata peggio, ma forse semplicemente lo avevo rimosso dalla coscienza. Cercai di guardarmi attorno, muovendo appena il capo, ma tutto ciò che riuscii a scorgere furono le pareti bianche che mi attorniavano. Negli spigoli di quel quadrato asfissiante in cui mi avevano rinchiusa erano state sistemate delle strane telecamere, molto diverse dalle Cavallette che ero abituata a vedere ronzare per l’Accademia. Erano semisferiche e trasparenti, con al loro interno un’iride rosso fuoco che seguiva ogni mio movimento. Era così che mi sarei immaginata gli occhi degli Dei se qualcuno me lo avesse chiesto: fissi, crudi e privi di reale interesse.
Rimasi ferma a guardare il soffitto per qualche minuto fintanto che la luce della lampada al neon sopra la mia testa non divenne accecante e tutto il mio campo visivo non venne ricoperto da macchie variopinte. Solo allora decisi di sollevare il busto e puntellarmi sui gomiti. Fu un’impresa epocale e straziante, ma alla fine ce la feci. La stanza in cui mi trovavo era una cella di isolamento. L’avevo riconosciuta dal fatto che non possedeva né porte né finestre e che un sofisticato sistema di rilevamento del calore corporeo mi fissava assieme ad un’altra telecamera dalla parete di fronte. Sospirai, ricordando perfettamente cosa fosse accaduto: avevo attaccato Upokrates e avevo tentato di ucciderlo. Era stata colpa sua, era lui che aveva peccato di superbia pensando di poter imbrigliare un potere che solo il Tempio sapeva gestire. Eppure non potevo fare a meno di sentirmi uno straccio. Avevo fatto del male ad un uomo, ad una creatura come me, e questo mi avrebbe perseguitata per il resto della mia vita. Sapevo che non era la logica giusta, o perlomeno non quella di un soldato, ma il mio stomaco non ne voleva sapere di smettere di contorcersi. Una fitta intensa mi colse impreparata anche nell’istante in cui la mia mente tornò a Fobos. Avevo attaccato anche lui, lo avevo persino morso: sicuramente me l’avrebbe fatta pagare cara. Sbuffai e mi sistemai i capelli da un lato. Ero collegata ad una miriade di fili e sensori, tutti facenti capo ad un’unica macchina alle mie spalle. Era un’Incubatrice onirica, senza alcun dubbio. Ne avevo vista una tempo fa, quando una delle matricole era precipitata dal torrione di guardia rimanendo in fin di vita. Ero andata a trovarla più per dovere religioso che altro, ma avevo avuto modo di scoprire un paio di cose sulla medicina. Noi al Tempio la rifuggivamo, non avendone bisogno e ritenendola un atto empio nei confronti degli Dei. Ci limitavamo a usare unguenti, empiastri e cataplasmi, metodi naturali e pertanto legittimi. Perciò all’inizio ero rimasta sconvolta da quella enorme macchina, simile a un armadio, e l’avevo osservata con sospetto. Il suo funzionamento, però, era affascinante e miracoloso: l’Incubatrice, infatti, fa cadere il paziente in uno stato onirico, fungendo come una sorta di anestesia. Pare che durante il sonno le cellule del corpo umano si rinnovino, gli stimoli al dolore e il dolore stesso siano ridotti al minimo e che lo siano anche l’ormone della fame e quello dello stress (rispettivamente grelina e cortisolo). Il corpo produce più globuli bianchi, che generano anticorpi, e il sistema accumula energia per il risveglio. Sfruttando il sonno, quindi, l’Incubatrice onirica riesce a medicare in fretta il paziente e a non fare affaticare il suo sistema con riabilitazioni, medicine dannose o, peggio, droghe. Solo quando il malato è in grado di procedere con le sue gambe senza più rischi, la macchina lo risveglia inviando una dose di ipocretina, simpaticamente chiamata dai soldati “dopo sbornia”.
-E’ incuriosita dalle macchine? -, domandò una voce metallica, dispersa nell’aria come sabbia al vento. Mi guardai attorno e individuai l’altoparlante: era posto sul soffitto alla stregua di una minuscola presa d’aria. Mi rivolsi proprio a quella bocchetta mentre parlavo.
-No. Dove sono? Chi parla? -.                                                                                                   
-Sono Efesto, mi riconosce? Ho richiesto di essere io il primo a parlare con lei al suo risveglio. Spero non le dispiaccia-.
Negai e l’occhio della telecamera di sinistra ebbe un guizzo.
-Perfetto. Mi consente di entrare? -.
Annuii e in breve una porta si aprì dal nulla, facendo sparire un muro. Le telecamere si spensero tutte, ammosciandosi come corpi morti, e sulla soglia comparve Efesto, vestito di tutto punto e completamente disarmato. Aveva le mani alzate in segno di resa e sorrideva teso.
-Non voglio farle del male-, annunciai, vendendo il colore della paura inondare come un cancro tutta la sua aura.
-Lo so. Posso parlarle? -.
Era così reverenziale e timoroso che in quel momento fra i due potevo benissimo essere io il capo e lui la matricola. Deglutii e annuii contemporaneamente.
-Bene. Ho visionato assieme ad alcuni miei colleghi il video che ha generato Upokrates durante l’esperimento. Il suo potere è davvero sconfinato, Custode-.
Il sorriso che mi rivolse non mi disturbò: non sembrava essere interessato a lucrare sulle mie capacità o a svendermi nuovamente a qualcuno, perciò mi rilassai.
-Sarebbe davvero un onore per noi Figli del Vento averla nelle nostre fila-.
Rimasi sgomenta. Nonostante quello che avevo fatto, nonostante la cattiveria con cui avevo attaccato Upokrates e nonostante potenzialmente fossi un’assassina, loro mi volevano comunque.
-Credo di non capire-, ammisi.
- Il suo Dono, Astreya, può essere una risorsa preziosa se bene incanalato. E se sarà disposta a offrirlo a noi, farò in modo che tutta quanta questa faccenda venga messa a tacere e che non ci siano ripercussioni sulla sua fedina. Noi Figli del Vento, come avrà capito, non amiamo dare del mostro a qualcuno o fare paternalismi. Riteniamo, per quanto sbagliato, che il fine giustifichi i mezzi e che in un mondo come questo bisogni tutelarsi. Ha visto quanto siamo oggettivi nel compiere il nostro lavoro, quanto prendiamo sul serio le nostre scelte e come ce ne assumiamo la responsabilità. Noi andiamo oltre ogni logica e ogni ideologia, ogni partito e ogni casta. Noi ci occupiamo di preservare quel poco che abbiamo, con sacrificio e spirito. Facciamo quel che è giusto, non quel che è bene-.
Le parole scorrevano come fiumi rinfrescanti dalle sue labbra e i suoi occhi sprizzavano scintille. Forse fare parte dei Figli del Vento non era una cattiva scelta, forse esisteva davvero un posto per me, un luogo che, sebbene non fosse fisico, mi avrebbe fatto provare quel senso di appartenenza di cui non avevo esperienza. Guardai Efesto di sottecchi, cercando di capire se stesse mentendo e se la sua proposta fosse solo uno specchietto per le allodole, ma la sua aura era di un verde chiaro rassicurante e baluginava serena.
-Potrei accettare-.
Efesto si illuminò improvvisamente e la sua barba fremette di gioia. Allungò una mano e me la appoggiò sulla spalla nel tentativo di mostrarmi la sua contentezza, ma con il solo risultato di farmi stringere i denti per il dolore.
-Sapevo che aveva la stoffa, Astreya. E farò in modo che lei possa ancora accedere al Reggimento dei Biotecnici-.
Aggrottai le sopracciglia. Nessuno sapeva della mia richiesta a Upokrates ad esclusione di pochissime persone. O Efesto aveva parlato con qualcuno di questi, oppure aveva delle spie davvero in gamba.
-La ringrazio-, dissi, chinando il capo in segno di rispetto.
- Non mi ringrazi.  Lei ci offrirà un servizio la cui importanza nemmeno si immagina. Qualsiasi cosa lei desideri, sarà nostra premura fargliela pervenire-.
Detto questo fece per allontanarsi, ma appena prima di uscire mi porse una domanda che non ottenne altra risposta se non lo stupore sul mio viso.
-Astreya, si è mai chiesta perché l’Accademia abbia riaperto? -.

 

 

A due giorni dall’incidente, ancora non mi ero ripresa. Ero completamente intontita, in parte dal dolore in parte dalle parole di Efesto. Non riuscivo a pensare, a muovermi e a ragionare con lucidità. Quella maledetta domanda mi assillava e scavava cunicoli nella mia mente svuotandola di qualsiasi altro pensiero.
-Guarda chi si vede! -.
La voce di Aracne mi riscosse con prepotenza dalle mie congetture.
-Scusate il disturbo, ma volevo sapere come sta la paziente-.
Salutai Eracleo con un sorriso, sinceramente contenta di vederlo: ormai per me era diventato un amico e un sostegno morale. Vederlo mi metteva di buon umore e mi faceva pensare che forse non tutti i soldati erano come Cronyos e non tutte le Custodi come sorella Dyana. Tentai di alzarmi per andargli incontro quando varcò la soglia, ma il giovane mi fermò prima che potessi muovere anche solo un dito e mi aiutò a sedere nuovamente sul letto.
-Mi hanno raccontato del tuo incidente. Mi dispiace molto. Ecco tieni, ti ho portato questi per tirarti su di morale-.
Mi depositò in mano una fine confezione da pasticceria: era azzurra e verde con un enorme fiocco rosa sopra. Ringraziai Eracleo, arrossendo, e scartai il pacchetto. Al suo interno, impreziosito da della carta dorata sottile come un velo, erano appoggiati dei dolcetti ricoperti di zucchero sul punto di esplodere. Erano belli e profumati, ciascuno decorato con un fiocchetto.
I miei occhi erano talmente luminosi e sprizzanti gratitudine che Eracleo ed Aracne non poterono trattenere un risolino compiaciuto.
-Credo ti piacciano. Assaggiane uno-, mi esortò il Caporale, indicandomi il partito più grosso e luccicante della scatola. Lo afferrai con le dita, saggiandone la consistenza, e poi con circospezione ne addentai uno. Era delizioso con un traboccante e ricco ripieno di crema.
-Ti sarà costato una fortuna…-, biascicai, mentre masticavo assorta. E in effetti la verità era che da quando Elladia era sprofondata nei debiti e nella povertà, tutti i beni non di prima necessità o erano stati banditi o erano stati trasformati in beni di lusso per i ricchi sfruttatori del Paese.
-Niente di ché. Piuttosto dimmi qualcosa in più sull’incidente. Come è successo esattamente? -.
Ripetei la versione ufficiale che Ares mi aveva insegnato. Erano le stesse parole che avevo fornito a tutti, anche alla mia amata Aracne, e che avrei dovuto ripetere persino a Cronyos se lo avesse richiesto.
-Ero in laboratorio con Upokrates per farmi somministrare la Cura quando è scattato il sistema di allarme di una macchina che stava lavorando a delle analisi. Si vede che c’era una perdita da qualche parte o qualcosa del genere, perché in un battibaleno è scoppiata in aria come un fuoco d’artificio. Per fortuna il laboratorio è progettato per resistere a incendi ed esplosioni, altrimenti non sarei qui a raccontarlo. Ci ha tratti in salvo Fobos-. Era una scusa idiota, ma in fin dei conti nessuno aveva motivo di dubitare di me, della vera esplosione innescata a copertura della menzogna, né tantomeno di un medico di spicco come Upokrates. Anche a lui, infatti, era stato imposto il silenzio circa il vero svolgimento dei fatti (e chi sa che somme di denaro aveva dovuto elargire Efesto per riuscire a convincerlo). Per lui c’erano in gioco la perdita del ruolo di medico e, in conseguenza, del suo buon nome, oltre che di una marea di denaro. Upokrates sarebbe morto piuttosto che parlare per cui potevo ritenermi in una botte di ferro. E anche se quel verme avesse continuato a lavorare, io non sarei più stata trattata da lui, grazie agli Dei.
-Scusate il disturbo-.
La voce di Fobos mi colpì come una secchiata di acqua fredda. Era venuto per farmela pagare? Non avevo nemmeno il coraggio di guardarlo in faccia. Strinsi con forza i lembi del lenzuolo e mi concentrai sulla fitta trama che lo costituiva.
-Nessun disturbo! Entri pure-, trillò Aracne, incredula e sgomenta. Si sollevò dalla sedia con uno scatto e accompagnò Fobos dall’uscio fino al mio letto. Per quanto mi riguardava, avrei preferito non fosse venuto: non solo non volevo vederlo, ma non volevo nemmeno sentirlo, non dopo quello che gli avevo fatto.
Sollevai lo sguardo su di lui solo perché nessuno si decideva a parlare e certa che sarei stata minacciata o qualcosa del genere, ma quando incontrai i suoi occhi, notai che non erano diretti verso di me. Fobos fissava Eracleo con le sopracciglia inclinate e una sorta di smorfia animalesca sul viso.
-Generale…-, lo salutò il giovane, scompigliandosi la corta capigliatura bionda.
Fobos grugnì una risposta incomprensibile, poi finalmente si voltò verso di me. Aveva dei grossi lividi sul collo e delle medicazioni spray di colore nero che probabilmente coprivano i segni dei morsi che gli avevo inflitto. Abbassai di nuovo lo sguardo, afflitta. Era certamente lì per punirmi, ora non avevo più alcun dubbio.
-Buongiorno, Fobos-, lo salutai seria, cercando di non far tremare la voce. L’Ibrido, tuttavia, mi stava completamente ignorando. Il suo sguardo era incatenato alla scatola di dolciumi che tenevo ancora in grembo e i suoi occhi si erano oscurati fino a diventare pozzi di profonda oscurità.
-Come stai? -, chiese laconico, mentre Eracleo ed Aracne lo fissavano in silenzio. Sembravano formiche rispetto a lui, che con la sua presenza riempiva la stanza.
-Meglio…-, cominciai, ma prima che potessi finire, Fobos si voltò di scatto per avviarsi alla porta.
-Bene. Vado-.
Fulminea, aggettivo migliore per descrivere la sua visita non c’era.
Lo osservai mentre si allontanava, la schiena dritta e le contusioni scure sulla sua pelle incredibilmente chiara. Se soffriva, non lo dava certo a vedere: affrontava il dolore a maniera sua, ignorandolo e fingendo di essere invincibile. Ma io avevo visto nella sua mente e sapevo a che cosa andava incontro durante le sedute con Upokrates. Anche lui era un uomo, alla fine.
-Fobos-, lo chiamai, poco prima che il suo piede superasse il limite del non ritorno. Non avevo idea di cosa avrei detto, ma mi sarei scusata come si deve. Sarebbe stato umiliante chiedere perdono all’uomo che aveva tentato più volte di mettermi le mani addosso, ma ciò non significava che non fosse la cosa giusta da fare. Non avrei mai pensato che anni di indottrinamento religioso mi avrebbero fatto propendere per un’azione del genere, ma evidentemente la logica del Tempio mi era penetrata fino al midollo. Mi sollevai con attenzione e, scortata da Eracleo e Aracne fino all’uscio, mi aggrappai al braccio di Fobos. L’Ibrido mi osservò perplesso e sentii il suo avambraccio contrarsi sotto il mio tocco. Tutto di lui faceva trasparire imbarazzo e sorpresa.
-Possiamo fare due passi? -, domandai sentendomi trapassare la schiena dalle occhiatacce sbigottite dei miei due compagni. Si stavano probabilmente chiedendo cosa mi stesse passando per la testa. E, beh, me lo stavo chiedendo anche io. Osservai le pagliuzze dorate che occhieggiavano dal mare di tenebra degli occhi di Fobos e le sopracciglia scure che gli davano quell’aria disinteressata e apatica. Mi stava osservando, o meglio, studiando: fra tutti, infatti, lui pareva essere quello con le idee meno chiare.
- Andiamo? - azzardai, sollevando il volto per guardarlo. Fobos accennò impercettibilmente, salutò con rispetto gli altri presenti, poi senza dire nulla si incamminò per il corridoio, lasciando che la mia mano rimanesse stretta attorno al suo braccio. La sua aura aveva un colore che nemmeno io sapevo decifrare.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 - Aborto ***


Capitolo 14

Ci stavamo osservando da una mezz’ora buona, senza parlare. Fobos aveva scelto come luogo del nostro incontro il parco alle spalle dell’Ospedale, laddove i pazienti in convalescenza potevano godersi un po’ di aria fresca. Eravamo seduti su una panchina, lui sul bordo quasi in bilico ed io al centro. L’aria era frizzante e il viso mi bruciava in corrispondenza dei punti in cui mi ero ferita. Annusai il profumo dell’inverno imminente e istintivamente sentii nostalgia del Tempio. Non pensavo che dopo l’infanzia traumatizzante che avevo subito, avrei rimpianto quel luogo. Eppure ora mi rendevo conto di che cosa significasse davvero combattere per vivere. Ogni allenamento, ogni marcia sotto la pioggia, ogni nuovo mistero mi stava prostrando più di quanto avrei voluto. Ma non dovevo fare altro che stringere i denti: in quel momento stavo lottando per qualcosa di molto più importante della mia felicità. Stavo combattendo per me stessa, per Aracne e per la verità. Che futuro avrei avuto io in quel Tempio, in fondo? Volevo davvero morire a quarant’anni, a causa delle controindicazioni della magia? Volevo che quella fine toccasse ad Aracne? No, dovevo tenere duro.
Mi voltai per affrontare Fobos, ma non lo trovai più al mio fianco. Si era alzato e aveva acceso una sigaretta. Ero quasi certa che fosse vietato fumare nel campo e che il fumo rientrasse nella lista delle merci di contrabbando. Feci una smorfia e sospirai.
-Che cosa vuoi, Astreya? -.
Era stato Fobos a parlare. Aveva scandito il mio nome con estrema calma e lo aveva rigettato dalle sue labbra in leggiadre volute di fumo. Da dietro quella cortina grigiastra i suoi occhi sembravano quelli dei cani randagi di Carthagyos, vigili e pronti all’agguato.
-Per prima cosa, volevo ringraziarti-, dissi tutto d’un fiato.
-Ti ricordi tutto? -.
Fobos non pareva di cattivo umore, ma notai che la sua aura era in continuo mutamento. Sembrava che non riuscisse a pensare alla stessa cosa per più di pochi secondi. Il suo stato d’animo cambiava in continuazione e i suoi occhi cercavano qualcosa che nel paesaggio non c’era.
-Sì, per questo ti sto ringraziando-.
-Non devi ringraziarmi. Era mio dovere-.
Sospirai. Iniziavamo veramente con il piede sbagliato: non voleva nemmeno accettare le mie scuse.
-C’è altro? -, domandò poi, sapendo che non avrei aggiunto altro e rispondendo al saluto di una delle sentinelle che si era affacciata dalle mura.
-Hai parlato con Efesto? Cosa ti ha detto? -.
- Non sono affari tuoi. Ti ricordo, sottospecie di idiota, che sono un tuo superiore-.
Arricciai il naso. Il suo odore mi raggiunse con violenza e la sua rabbia mi schiaffeggiò con forza.
-Senti, guarda che io volevo solo scusarmi! -, esclamai, alzandomi e puntandogli un dito contro il petto. Glielo premetti sul torace con tutta la forza che avevo in corpo: se il pensiero avesse potuto tramutarsi in forza fisica, allora gli avrei spaccato lo sterno al minimo tocco.
-Che cosa vorresti fare, scusa? -, commentò lui sollevando un sopracciglio. Sembrava che le sue labbra desiderassero tendersi in un sorrisino, ma il resto della sua faccia non fosse d’accordo.
-Vorrei ringraziarti, e giurarti fedeltà, ma tu non me lo lasci fare! -.
Per poco la sigaretta non gli cadde di bocca.
-Giurarmi cosa?! -, domandò con uno sgomento che non gli avevo mai visto. La sua aura si tinse di un rosso intenso, quasi bordeaux. Era stupenda: sembrava una rosa insanguinata. Doveva riflettere un sentimento molto bello, ma altrettanto doloroso.
- Fedeltà-.
Fobos mi afferrò per una spalla e cominciò a stringermi con forza, come volessi disarticolarmela. Strinsi i denti e affrontai il dolore. Se lui poteva sopportare tutte quelle sofferenze, anche io potevo farlo.
-Senti, non so cosa vi mettano in testa al Tempio, ma qui non teniamo cagnolini-.
Lo colpii senza nemmeno rendermene conto. La mano si mosse da sola e si infranse sulla sua mandibola. Si sentì uno schiocco sonoro e gli occhi di Fobos si allargarono per lo stupore. Non erano spaventati, ma furiosi.
-Sei l’uomo meno ragionevole che abbia mai conosciuto. Perché ti comporti così?!-.
Il suo sguardo apatico mi fece scoppiare i nervi e stridere i denti. Avrei dovuto strappargli la carne a brandelli quando avrei potuto farlo. Il mostro nel mio stomaco fece una capriola.
Mi voltai e cominciai a incamminarmi verso l’Ospedale, decisa ad andarmene. Avevo sbagliato a cercare di venire a patti con Fobos. Eppure, quando sentii la sua mano chiudersi attorno alla mia, non esitai a voltarmi.
-Che c’è? -.
Lo sguardo di Fobos era furente e i suoi occhi talmente liquidi da sembrare oro fuso.
-Se ti azzardi a tradirmi, io ti uccido-, disse semplicemente, mentre una brezza gelida animava i suoi capelli corvini.
Mi lasciò il polso solo quando vide che non avevo più intenzione di fuggire. E come avrei potuto del resto? Ero sbigottita: aveva accettato il mio legame di lealtà nei suoi confronti. Forse non aveva idea di cosa significasse contrarre un Debito con una Custode, forse facevo meglio a spiegarglielo.
-Hai idea di che cosa sia un Debito, vero? -.
Fobos si incamminò e dovetti allungare il passo per stargli dietro. I capelli gli ondeggiavano sulla schiena e si incatenavano alle katane nei foderi obliqui.
-Una vaga idea. Ma sono certo che vorrai tediarmi con una spiegazione-.
- Beh, dovresti sapere cosa stai accettando-.
Fobos attese che lo raggiunsi, poi procedemmo l’uno accanto all’altra. Era una novità per me, dal momento che fino ad allora avevo camminato alle sue spalle, incapace di mantenere la sua andatura. Osservai le sue gambe magre affondate negli anfibi e mi resi conto che aveva notevolmente rallentano il passo.
Il Debito era una antica forma di riconoscenza che le Custodi e i Sacerdoti concedevano a pochi e prescelti fedeli. In sostanza, non prevedeva alcun rituale, né alcuna donazione. Prevedeva soltanto che i due contraenti fossero entrambi disposti ad accettare un legame sacro sancito di fronte agli Dei. Non sapevo se Fobos fosse religioso o meno, ma era l’unica forma di gratitudine che potevo permettermi: avevo pochi soldi da parte per me e non potevo concedermi il lusso di fargli un dono migliore del mio servizio come Custode.
-Non è che disprezzi la Religione, ma diciamo che non credo agli Dei. Quindi, non mi interessa niente dei dettagli sacri di questa cazzata che stai facendo-.
Il suo tono era crudo e severo, sebbene la sua aura baluginasse tranquilla alle sue spalle. Fobos era di certo una contraddizione vivente. Pensava una cosa e ne diceva un’altra, tirava uno schiaffo, ma poi ti salvava la vita. Era un uomo decisamente confuso.
-Quindi? -, domandai, raccogliendo una foglia rosso vivo e osservandola in trasparenza. Era meraviglioso vedere come la Natura ci somigliasse: quell’intricato reticolo di venature cremisi era in tutto e per tutto simile al mio sistema circolatorio.
-Quindi, ti ho posto la mia unica condizione. Credo che tu voglia qualcosa da me, anche se non riesco davvero a capire cosa sia. Perciò, ti prenderò come allieva. Non è quello che vuoi? -.
Sospirai, alzando gli occhi al cielo. Fobos davvero non ci arrivava. Sospettai che quel giovane avesse avuto gran poco dalla vita e che non comprendesse cosa fosse la sincera gratitudine. Mi faceva innervosire, ma al contempo mi ispirava tenerezza. Piano piano Fobos stava riuscendo a smuovere qualcosa in me: curiosità, forse, o empatia. Questo ancora non lo sapevo con certezza.
-Va bene, pensala come vuoi-, sbuffai, poi lo afferrai per una ciocca di capelli e lo costrinsi ad abbassarsi verso di me. La sua aura cominciò a ribellarsi, espandendosi e contraendosi con forza, fino a farmi lacrimare gli occhi.
- Exegi Monumentum aere perennius* -, pronunciai, disegnando un cerchio con l’indice, prima sulla sua fronte e poi sulla mia.
-Che cosa stupida-, mormorò lui a patto ultimato, riprendendo a camminare. Feci per seguirlo, ma Fobos, salutandomi con la mano, mi pietrificò come suo solito.
- Non devi seguirmi ovunque come un cane. Ci si vede, matricola-.
Odiavo quell’uomo.

 

 

 

-Amore, non avere paura-.
Era la voce di mia madre. Spalancai gli occhi e mi ritrovai di fronte il suo viso stanco e solcato da rughe. Quella donna aveva sempre avuto il brutto vizio di aggrottare le sopracciglia. Ero raggomitolata in un angolo, nella mia stanza di allora. Indossavo dei pantaloni troppo corti per la mia età e una maglietta unta con disegnato sopra un unicorno stinto. Capii immediatamente che giorno fosse e cominciai a tremare. Mia madre mi porse un bicchiere di acqua e me la fece scolare in un unico sorso. – Vedi? Ora va meglio-.
-Mamma-, sentii dirmi- Perché non mi vuoi più? –
Nessuno rispose. Ma gli occhi della donna che mi aveva partorito tredici anni prima si velarono di un tono di malinconia che non avevo mai scorto sino a quel momento. Le labbra le tremavano leggermente e non sapevo se fosse perché stava per parlare o per qualche altro motivo. Infine la donna si alzò e si diresse verso la finestra che dava sul Tempio. Era la mia finestra preferita perché da lì si poteva vedere il giardino delle Guaritrici, colorato da ciuffi lavanda e da folti cespugli.
-Vedi laggiù, amore? -, disse mia mamma, mentre con l’indice indicava la figura del Tempio. Sembrava un gigante accovacciato sul pendio di una collina, a meditare. Mi alzai, osservai qualche istante la sua ombra allungarsi pigramente verso di noi, e poi annuii.
-E’ là che andrai. Vivrai bene, tesoro. E anche io e papà-.
Mi aggrappai alla finestra, mentre mamma finiva di preparare per l’ultima volta la mia valigia. Era piccola, perché non avevo ricordi, né effetti personali ad esclusione del mio spazzolino. Per un secondo immaginai di gettarmi giù dalla finestra, sentire il vento sferzarmi il viso, e poi spiccare il volo, ali spiegate. Allargai le braccia imitando un uccello. Se avessi potuto volare me ne sarei andata in un posto solitario, erboso e fresco.
-E’ ora di andare! -, esclamò mio padre da sotto le scale. Sobbalzai, ma non opposi resistenza. Non avrebbe avuto alcun senso a quel punto. Scendemmo i gradini mano nella mano, io e mia madre. In realtà ormai la sua mano mi era estranea e non ricordavo quando fosse stata l’ultima volta che avevamo avuto un simile contatto. Ma nonostante ciò sentivo che se avessi mollato la presa sarei caduta e che il dolore che avrei provato sarebbe durato tutta la vita questa volta. Così strinsi più forte le sue esili dita, causandole un fremito in tutto il braccio.
Mio padre ci aspettava sulla porta, già pronto a sbarazzarsi di me. Lui non provava rimorso, ma liberazione. Mi sospinse fuori di casa, con una lieve spinta, e togliendo dalle mani di mamma la valigia, la scaricò fra le mie braccia.
-Bene, ora ti accompagnerò nella tua nuova casa-.
Vidi una macchina bianca che ci attendeva nel vialetto e improvvisamente mi apparve come una bocca spaventosa, pronta a triturarmi se ci fossi entrata. Mi voltai in cerca degli occhi blu scuro di mia madre, ma lei era già scomparsa, troppo debole per affrontare un addio.
Un nuovo pizzicore e una nuova scarica si irradiarono nel mio corpo nel momento in cui mio padre mi cacciò in macchina con la forza.
-Porti questo Aborto via da qui…-

Mi svegliai di colpo, affogata in un mare di sudore e urlante. Aracne era già al mio fianco e mi teneva la mano stretta fra le sue. Erano passate delle settimane dall’ultima volta che avevamo avuto un contatto, precisamente dal giorno in cui lei aveva tessuto quella Tela.
-Sto bene era solo un incubo-.
Mi sforzai di sorriderle e non mostrarle il mio turbamento. Fu così difficile che mi venne una specie di paralisi alle guance.
-Ti porto un bicchiere d’acqua-, si propose la Custode e con dei passetti veloci, la vidi scivolare in bagno. La udii aprire il rubinetto e poi percepii lo scroscio rassicurante dell’acqua. Era da così tanto che non avevo incubi, da non ricordarmi nemmeno più la sensazione di soffocamento e angoscia che lasciavano al risveglio. Il nodo che avevo alla gola sembrò sciogliersi solo dopo aver tracannato l’acqua che Aracne mi aveva portato: era calcarea e leggermente calda, ma mi fece comunque un gran bene. Perlomeno ai miei nervi.
-Ancora lo stesso sogno? -, mi domandò, ma Aracne conosceva già la mia risposta.
-Si vede che non ho accettato ancora la mia Natura-, dissi, accendendo la luce e invitando la donna a infilarsi nella branda con me. Era un letto piccolo e corto, ma se stavamo vicine, potevamo condividerlo. Lei non si fece pregare e, come faceva ogni notte da quando ero arrivata al Tempio, piena di incubi e fobie, prese ad accarezzarmi i capelli lentamente, come se stesse intessendo una delle sue Tele.
- Ricordati sempre che non importa da chi o dove nasci, ma quello che scegli di essere. Non farti definire dal termine Aborto-.
Gli Aborti altri non erano che degli emarginati, dei poveri indesiderati a cui la Società si prefiggeva di trovare un posto nella vita. In seguito all’aumento della popolazione mondiale, infatti, era stata promulgata una nuova legge, applicata poi a tutta Elladia, la Abortion Law: i genitori che non potevano mantenere un figlio o che altresì sarebbero ricorsi all’aborto avevano ottenuto la possibilità di fare nascere il piccolo e allevarlo grazie a dei sussidi statali fino all’età stabilità di dieci anni.  A questo punto il figlio poteva, infine, essere venduto all’Esercito, al Tempio oppure ad un’Ospedale, come cavia.
 In sostanza, qualora i genitori fossero stati ancora gravati da povertà o motivati a sbarazzarsi del figlio, avrebbero potuto scegliere di venderlo a una Organizzazione. I più sceglievano l’Esercito perché pagava meglio e perché spesso elargiva armi a poco prezzo, ma le bambine per lo più venivano consegnate ai vari Templi. E così era successo a me. Io ero una di quelle povere creature che non avevano scelto di nascere, ma che in un modo o nell’altro gli Dei avevano deciso di mettere al mondo. Ci sarebbe stato un futuro per me? O ero destinata a una vita di stenti e prigionia?
-Aracne, non ti sarebbe piaciuto nascere libera? -, domandai di getto, ripensando al desiderio che covavo sin da quando ero piccola, quello di vedere il mare.
-A chi non sarebbe piaciuto, Astreya-, mormorò Aracne, con la voce di chi sta decisamente per cedere al sonno. Lasciai che scivolasse in una piacevole incoscienza e che il suo respiro si facesse pesante. Poi, mi scostai dal suo abbraccio, infilai la canottiera e i pantaloni della divisa e ciabattai fuori dalla stanza.

* Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15- L'arte della guerra ***


Capitolo 15




L’Accademia era stranamente silenziosa la mattina presto e solo pochi soldati particolarmente mattinieri la rendevano viva. Quasi tutte le luci erano ancora spente, le camere chiuse e sbarrate, le porte presidiate da portinai annoiati. Tutto faceva pensare che le vere carceri non fossero quelle in cui dormiva Fobos.
-Insonnia? –
Mi voltai di scatto. Fobos era appollaiato sul corrimano delle scale e aveva un libro appoggiato in grembo.
-Oh, sei tu. Non ti avevo visto-.
Il viso di Fobos si piegò in una strana espressione e i suoi denti scricchiolarono.
-E poi dicono che la gentilezza è donna-, borbottò lui, aprendo nuovamente il libro e ficcandoci dentro la faccia. Rimase in silenzio, gli occhi che scorrevano liquidi da una riga all’altra, riempiti dell’inchiostro che riflettevano. Non aveva più intenzione di rivolgermi la parola, eppure non si era allontanato. Era rimasto lì in bilico, con i piedi scalzi, i capelli arruffati e una maglietta verde scura infilata nei jeans stinti. Sembrava si fosse appena svegliato.
- E va bene,- sospirai, avvicinandomi. –Che stai leggendo? –
Soppesai l’altezza del corrimano, poi tentai l’impresa. Mi parve di scorgere un mezzo sorriso da parte di Fobos, mentre con la coda dell’occhio seguiva i miei movimenti. Forse la mia poca atleticità lo divertiva.
- “L’arte della guerra” -, mormorò poi, mostrandomi la copertina consunta. Quel libro era un vecchio trattato, rieditato per secoli e destinato a infoltire le vuote biblioteche delle Accademie. Nessuno leggeva più libri, tutto era presente nella Magna Teca, a disposizione di tutte le nazioni sulla faccia della Terra, senza censure e senza abbellimenti propagandistici. Le biblioteche insomma erano diventate un vezzo di chi poteva permettersi il costo esorbitante di essere un collezionista di antichità. Ciò nonostante trovavo affascinante l’idea che un prodotto del futuro, come Fobos, trovasse più intrigante una vecchia pagina ingiallita dal lieve aroma di polvere di un lucido e funzionale display.
-Sei un nostalgico…-, osservai, sfiorando con il polpastrello la filigrana della copertina. Era ruvida e levigante come pietra pomice. Vidi i granelli di polvere sollevarsi nell’aria per danzare a ritmo dello sferzante vento mattutino che spirava da sotto gli infissi.
-Sì, decisamente. Il peso del libro mi ricorda che dietro a delle semplici parole esiste sempre una persona con una certa consistenza-.
Mugugnai un –Capisco…-, distratto e mi protesi per leggere la pagina su cui si era fermato lui. I suoi capelli fini e lucidi mi scivolarono sulle spalle e percepii la loro consistenza setosa accarezzarmi le clavicole. Quasi pizzicavano.
-Oh, ma è scritto in una lingua antica-, commentai osservando un alfabeto completamente diverso dal mio, dal latino o dal Modern English. C’era qualcosa di misterioso in quelle lettere e in quei suoni dimenticati che mi spinse ancora più vicino al libro, quasi naso contro carta. Cercai di leggere qualche riga, di decifrare quei codici enigmatici, ma più ci provavo più le lettere assumevano forme diverse somigliando prima ad una parola e poi ad un’altra. Così mi staccai di qualche centimetro, giusto in tempo per accorgermi dello sguardo lievemente perso e corrucciato di Fobos. Aveva i muscoli delle braccia tesi e mi pareva tenesse il libro con un po’ troppa forza, come volesse strapparne le pagine. Inarcai un sopracciglio.
-Che c’è? -, chiesi acida, arricciando il naso.
Fobos chiuse gli occhi ed espirò: - Sei troppo vicina-.
Lo disse molto lentamente, con un tono di voce talmente glaciale che quella mattinata mi parve di un calore tropicale al confronto. Arretrai istintivamente e scivolai un po’ più in basso sul corrimano.
-Ehm, scusa-, dissi, stranamente a disagio. Lui mi ignorò spostando lo sguardo nuovamente sul libro e grattando un’incrostazione di muffa all’angolo della pagina.
-Ti va di leggermi qualche riga? -, dissi poi. La sua aura aveva uno strano colore, a metà tra il colore del carbone e il rosso del sangue. Ero incuriosita.
-Sei noiosa. Ma non avrei comunque niente di meglio da fare, perciò…-, disse lui, e cominciò a leggere.
- “La configurazione tattica eccellente, dal punto di vista strategico, consiste nell’essere privi di configurazione tattica, ossia nella condizione “senza forma”. Quando si è senza forma, neanche gli agenti segreti più profondi sono in grado di spiarci, né gli uomini più intelligenti di tramare progetti” -, citò.
- Wow, lettura impegnata-, ridacchiai. E per tutta risposta mi beccai un’occhiataccia.
- Cosa pensavi, che oltre all’avermi reso una sorta di disgustoso mostro pallido mi avessero annichilito anche il cervello? -, commentò infastidito e rabbioso.
-Disgustoso? -, domandai scioccata. Era così che si vedeva? Certo il suo aspetto era terrificante e innaturale, ma non era vomitevole né tantomeno raccapricciante al punto dall’ essere infastiditi anche solo nel guardarlo. – Non sei disgustoso-.
Fobos sospirò aggrottando le sopracciglia e passandosi una mano sul viso. Si alzò di scatto, spaventandomi, e in un sol colpo fece scrocchiare tutta la colonna vertebrale.
-Ti conviene andare. Eracleo ti sta cercando-.
-Come? -. Non stavo capendo più niente. – Come lo sai tu? –.
Fobos s’incamminò velocemente, senza fornirmi una risposta. I pensieri cominciarono ad accalcarsi l’uno sull’altro, spingendo contro la parete cerebrale fino a farmi chiudere gli occhi dal dolore. Allora quel giorno, quando Fobos si era interrotto in concomitanza dell’arrivo di Upokrates e Deimos, non era stato un caso. Gli Ibridi evidentemente avevano un udito molto più sviluppato di quello di un uomo comune. Cominciò a girarmi la testa, ma non rallentai. Al contrario, sospinta dalla frustrazione, mi costrinsi a togliermi una scarpa e gliela lanciai, colpendolo sulla nuca.
-Ehi, ti vuoi fermare?!-, gli gridai dietro. Fobos fece retromarcia e come una furia mi travolse sollevandomi da terra per la canotta.
-Senti, non voglio farti male, ma sembra quasi che tu lo faccia apposta a farmi arrabbiare. Mi stai frustrando! -, disse, mostrandomi i canini luccicanti.
-Cosa ci facevi lì, fuori dalla mia stanza? -, domandai di istinto. C’era un’idea che mi frullava per la testa, leggera e impaurita come una falena accecata dalla luce. Fobos strinse la presa e, trascinandomi, mi fece schiantare contro un muro. Un paio di cadetti passarono alle nostre spalle, ma nascosti e abbracciati dalle ombre come eravamo non ci videro e continuarono nella loro passeggiata.
- Non sono affari tuoi, Custode-, sibilò Fobos quando furono lontani, ma i suoi occhi tradivano un certo disagio. C’era qualcosa che non andava ed era più che evidente. Fobos riusciva a malapena a bloccare la sua aura che si gonfiava e sgonfiava come una stella sul punto di esplodere, il suo colore cambiava di continuo e non riusciva a bloccarmi quando lo sondavo con i miei poteri. Il viso di un ragazzo rasato dagli occhi verde smeraldo fece capolino dietro alle sue ciglia.
-Esci dalla mia testa! O mando a puttane il Debito – imprecò, mentre la sua mano mi teneva appesa al muro con forza. Tossicchiai.
- Non volevi che incontrassi Eracleo! Perché? -, dissi, senza perdermi nemmeno una pagliuzza di sorpresa malcelata nelle tenebre elicoidali delle sue iridi.
-Ero lì per caso-, ribatté senza nemmeno lasciarmi finire la frase.
-Non eri lì per caso. O non saresti così agitato! -, esclamai cercando di assestargli un calcio nelle ginocchia. Lo mancai per poco.
-Tu, piccola…! -, fece per insultarmi, ma il mio tallone trovò la via per i suoi stinchi e il dolore del colpo lo fece zittire per i successivi due secondi. 
-Perché lo odi? Solo perché è gentile con me? Pensi che tutti debbano odiarmi come fai tu? -. Vedevo le difese di Fobos crollare e la sua frustrazione crescere di pari passo. Sembrava sul punto di esplodere. Con ferocia mi bloccò le gambe con le sue spingendomi ancora di più contro la parete gelida. Sentivo le sue ossa cozzare contro le mie e produrre una sorta di scricchiolio sinistro. Era troppo vicino.
Sentii dei passi dietro di noi e udii anche alcune voci allegre. Feci per chiedere aiuto, ma la mano di Fobos mi tappò sia la bocca che il naso, mandandomi in apnea. Vidi i suoi occhi spostarsi alle sue spalle e osservare i soldati sorpassarci senza notare nulla. Era bravo davvero nel rendersi invisibile.
Quando tornò a guardarmi sembrava più nervoso di prima.
-Non me ne frega un cazzo di quel fottutissimo Caporale, chiaro?!-
-Chiaro-.
-Bene-, sentenziò lui, abbassando la guardia ed espirando tutta la sua angoscia. La sua presa mi lasciò uno spiffero di libertà consentendomi di arrivare a sfiorare il pavimento con la punta dello stivale. Respirai più aria possibile perché non sapevo per quanto sarei stata ancora in grado di farlo. I polmoni stavano per collassare dopo tutto quel tempo in apnea. Singhiozzai e annaspai, poi piano piano mi ripresi. Non ero ancora pronta ad arrendermi.
- E allora cosa è tutto questo odio? Si sente sai?!-
- Hai istinti suicidi allora! –
-No. Ammettilo! - gli sibilai contro. Fobos fece un passo indietro come un re incalzato da un pedone sulla scacchiera. Eravamo ancora molto vicini tanto da riuscire a vedere la mia espressione soddisfatta riflessa sul suo viso. Sentivo il suo cuore battere contro la mia pelle e il freddo della fibbia della cintura che mi premeva contro la pancia. Tutto ad un tratto arrossii.
-Ammettere cosa? Sei pazza per caso? -, rispose ironico. Ma non lo stavo più ascoltando, concentrata sul calore che emanavano le mie guance e sul colorito rosato che stavano assumendo. Era la prima volta che mi trovavo così vicina ad un essere umano. Nemmeno mia mamma mi aveva tenuto così stretta in passato e il fatto che Fobos fosse un uomo non faceva che peggiorare la situazione. Era una situazione inappropriata e disdicevole per una Custode. E io cominciavo seriamente a sentirmi a disagio e ipersensibile ad ogni minimo contatto.
-Ehi, stai bene? -, chiese Fobos, notando che ormai fra le braccia aveva un peso morto. Si abbassò leggermente per guardarmi negli occhi e capire se fossi svenuta o meno.
- Ti ho, ehm, spaventata? Ti ho fatto troppo male? Ti è schizzato fuori il cervello dalle orbite? Che hai, stronzetta? -, cominciò a dire con un sorrisetto.
-Lasciami andare-, dissi a bassa voce, fissando senza alcuna espressione le ciocche di capelli corvini suoi e miei che si erano mescolate l’una sull’altra e che si erano aggrovigliate a metà strada fra i nostri corpi.
-Dopo che mi hai assalito, che mi hai torturato con quella tua vocetta e costretto a smettere di leggere? No, grazie-.
-Ho detto: lasciami andare-. Stavolta lo dissi con più veemenza, cercando di spingerlo via da me. Infilai le braccia fra di noi e con i pugni cercai di allontanarlo. Sentivo il calore del suo corpo sulle mie nocche e il suo respiro sui miei capelli. Avvampai e gli tirai un cazzotto.
-Ohi! -, esclamò lui, ridendo e immobilizzandomi come un salame. Probabilmente trovava la situazione molto divertente. In fondo era sempre gioioso quando era in vantaggio su qualcuno, specialmente se quel qualcuno era la sua preda preferita.
- Si può sapere perché ti sei trasformata tutto d’un tratto in una tarantola con le convulsioni? –
Ammutolii, ma tentai comunque di morderlo quando con le dita mi sollevò il mento per costringermi a guardarlo. Sapevo che se avesse incatenato il mio sguardo al suo avrebbe cominciato a sondarmi fino a scoprire il motivo del mio imbarazzo. Accadde circa sei secondi dopo, a discapito di tutti i miei tentativi di fuggire. Mi sentivo come la volpe braccata dai cani. Cercai di bloccargli il passaggio come lui aveva fatto con me, ma spingeva contro le barriere con forza incredibile, senza nemmeno una ruga di fatica sul volto. Sentivo le mie difese cedere secondo dopo secondo e sapevo anche se fosse entrato, cosa che avrebbe fatto, non si sarebbe limitato a scoprire perché fossi rossa in volto e stessi arrancando, ma avrebbe gironzolato nella mia anima fino a scoprire qualsiasi mio segreto. Era la cosa peggiore che potesse succedermi, che tutto ciò per cui avevo lottato, tutto ciò che avevo nascosto abilmente, venisse sradicato da me con la facilità di chi estrae una carota dal terreno. Pensai in fretta ad un accordo.
-Ehi, ehi, tregua-, bofonchiai, mentre sentivo le sue dita scivolare poco sotto il mento. Iniziai ad avere paura e l’istinto di sopravvivenza mi disse di attaccarlo.  Feci un enorme sforzo per mantenere il controllo.
-Le tregue sono compromessi e i compromessi decisamente non mi piacciono. Ma è sgarbato non ascoltare una proposta di pace…-
Fece una pausa e io ci infilai saggiamente la mia proposta: - Se mi lasci andare, non ti importunerò più per il resto della mia misera esistenza. Non ti rivolgerò più la parola, ti chiamerò Generale e non sonderò più, nemmeno per sbaglio, la tua aura. Rimarrà solo il Debito a legarci-.
Fobos finse di pensarci, ma poi scosse la testa. – Noiosa. Non accetto-.
Fece una pausa, poi con un ghigno storto, avanzò la sua di proposta.
-Io ammetto quello che vuoi. Ma tu devi lasciarmi sondare la tua aura con la promessa che lo farò solo superficialmente. Inoltre, non puoi muoverti. Sai, non voglio dover sputare denti o ricevere altri cazzotti-.
-Se non accetto? -, domandai osservandogli le spalle magre e la linea della mascella.
-Sonderò tutto quello che riesco a sondare. E farà male. Molto male-.
Deglutii. – Accetto-.
Fobos sorrise e una ciocca di capelli gli scivolò davanti al viso, oscurando gli occhi e affondandoli in un abisso di catrame.
-Bene. Cominciamo da te-.
Sgranai gli occhi.
-Non è giusto! - ribattei, ma Fobos si limitò a scrollare le spalle.
Mi fissò negli occhi e lo sentii sondare la mia aura alla ricerca di un colore o di un odore che gli facesse capire cosa stessi provando. Scavava insistentemente, senza delicatezza, intento nella sua ricerca. Non gli facilitai le cose, ma come da patto non opposi resistenza. Mi limitai a contare da uno a cento nella speranza che questo scolorisse e rendesse più blanda la mia aura. Non funzionò molto bene. Quello che percepì Fobos fu quello che percepii anche io di me stessa. Il ticchettante battito del cuore, la testa leggera e la avviluppante confusione di fiamme che tingevano di rosso cremisi la mia aura. Mi sembrava di galleggiare in una vasca di petali di rosa e sangue, sballottata dall’imbarazzo, sospinta dalla paura, e incrinata dal disagio. Le pupille di Fobos continuavano ad allargarsi e stingersi, mentre spostava gli occhi leggermente per cogliere ogni sfumatura. Mi salii la nausea e lo stomaco si contorse come se avessi ricevuto un pugno. Solo dopo un tempo che mi sembrò infinito sentii Fobos dire: - Fatto-.
Sembrava stranito e confuso. Non sapevo se avesse visto qualcosa di più di quello che gli avevo lasciato scrutare, ma dalla sua espressione sembrava proprio di sì.
-Mmm…- mugugnò.
-Che cosa hai visto? Perché quel verso? – chiesi a macchinetta. Dovetti sembrargli molto tesa e spaventata perché questo lo fece sorridere. Era la prima volta che il suo viso severo si piegava in un sorriso solare, quasi normale. Era qualcosa che non mi sarei mai aspettata: era bello.
- Allora?!-, lo incalzai esasperata.
Poi accadde.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16- L'arte dell'amore ***


Capitolo 16

Non appena Fobos ebbe finito di leggermi come un libro, non pronunciò molte parole prima di zittirsi e rimanere immobile con una strana espressione negli occhi. Sembrava mi stesse studiando, ogni singolo e insignificante battito di ciglia, ogni respiro mozzato, ogni scatto delle dita e degli occhi. Mi guardava dall’alto, come un gufo su un ramo.
Feci per dire qualcosa, qualsiasi cosa che potesse porre fine a quel silenzio opprimente che mi faceva esplodere le orecchie. Ma non ebbi nemmeno il tempo di dire una vocale che il volto di Fobos si era abbassato sul mio e le sue labbra si erano accostate alle mie orecchie. La pelle, là dove giungeva il suo respiro si scaldava nel giro di pochi secondi fino a scottare.
-Ti prego… no-, mormorai socchiudendo gli occhi e pregando le Divinità che non mi facesse del male.
-Ti hanno mai detto che pregare non serve a nulla? – mi soffiò sul collo. Spalancai gli occhi e smisi di respirare quando sentii i suoi denti stringermi appena il lobo dell’orecchio. Pensai di essermelo sognato o che stessi impazzendo. Cercai di scostarmi o di muovermi quel tanto che bastava per respirare, ma le mani di Fobos scivolarono sul mio collo e mi spostarono il viso lontano dal suo, mentre lui bisbigliava: - Hai promesso, non muoverti-. Obbedii, ma non sapevo ancora per quanto e fino a che punto avrei potuto mantenere fede alla tregua. Mi scostò i capelli dalle spalle con una delicatezza di cui non pensavo fosse nemmeno capace e mi sfiorò il collo con dei baci leggeri. Un bacio dopo l’altro, la mia pelle si ricoprì di pelle d’oca. Era talmente evidente che anche Fobos se ne era accorto e lo sentii sorridere. – Incredibile! - disse, prendendomi in giro. –Sei così sensibile? -. Avvampai istantaneamente ed ebbi un sussulto. Le dita di Fobos erano scivolate lungo la linea della mia mandibola e mi accarezzavano il viso. Non riuscivo più a ragionare e non potevo credere che quel tocco delicato, quasi amorevole, fosse quello di chi fino ad allora era riuscito solo a mettermi le mani addosso per farmi soffrire. Fobos mi posò un bacio sulla pelle tesa della clavicola appena sotto il bordo della canotta, mi diede un leggero morso e, intrecciate le dita con quelle della mia mano, si portò il mio palmo alle labbra e anche lì vi depositò un bacio impercettibile, quasi trasparente. Quando mi lasciò, il braccio mi scivolò lungo disteso sul fianco, senza vita. Fobos si staccò leggermente lasciando scivolare fra di noi un sottile strato di aria gelida che, dopo il calore del suo corpo, mi fece rizzare i peli sulla nuca. Si godette per qualche istante la mia espressione sconvolta, poi infilò le dita pallide all’interno dei passanti dei miei pantaloni e mi trascinò letteralmente contro di lui. Fece scivolare una mano dietro la schiena, sollevò l’orlo della canotta e si appoggiò sulla pelle nuda, tenendomi stretta. Allungai le mani per tenerlo a distanza, in un ultimo, alquanto disperato e confuso tentativo, ma non potevo niente contro la sua presa salda. Mi accarezzò lievemente i capelli districando i nodi mentre li percorreva in lunghezza e scostò i ciuffi ribelli dal mio volto. Ora il mio viso era completamente esposto al suo volere e la sensazione era quella di essere nuda di fronte a lui. Fobos si prese il suo tempo, osservandomi e sorridendo con aria divertita. Sembrava indeciso anche lui, tuttavia: incerto, cioè, se compiere o meno quel gesto che gli frullava per la testa e che si riverberava nei suoi occhi sotto forma di una luminosa e oscura scintilla. Rimanemmo lì a fissarci per qualche istante, mentre il silenzio ci circondava e le ombre ci danzavano sui vestiti. Poi Fobos si chinò, quasi al rallentatore, e dopo un attimo di esitazione a fior di labbra, mi diede un bacio. La sorpresa mi congelò del tutto e non riuscii ad oppormi. Non sapevo che pensare o cosa provare.  Fobos aspettava una mia reazione, con quella che mi parve una nota di ansia, ma non la ebbe. Così si piegò nuovamente e sostenendomi la testa con la mano affondata e ancorata ai miei capelli, mi piegò il viso in maniera tale da poter premere con più forza le sue labbra sulle mie. Fu una sensazione stranissima: sentii il freddo dei piercing e la loro consistenza liscia e metallica, poi fui scaldata dalle sue labbra, tiepide e morbide. Non era una brutta sensazione, anzi. Anche Fobos sembrò pensarlo perché non si staccò una seconda volta per osservarmi, ma mi baciò più e più volte, sempre lentamente e senza forzare. Mi stringeva a sé, in maniera quasi possessiva.
Non potei impedire alle mie labbra di ricevere tutti quei baci, tuttavia non li corrisposi, perché la mia componente da Custode era ancora sotto shock. Ad ogni modo non mi voltai e non lo scostai, ma lo lasciai addirittura fare. Ogni bacio fu differente: il primo fu dolce come il miele e al contempo insistente come la pioggia, il secondo lieve come le nuvole, ma amaro come il caffè. Il terzo fu delicato e fragile, ma anche pungente. Il quarto e il quinto furono due gemelli, l’uno in lotta con l’altro. Il sesto fu più arrabbiato e scarno, quasi una punizione. E infine giunse il settimo.
Fobos si piegò e mi sollevò di peso facendomi emettere un gridolino di sorpresa. Mi appoggiò alla parete, tenendomi in braccio, mentre con le mani gli circondavo il collo per non scivolare. Era qualcosa di eccessivamente intimo per me, ma non riuscivo a muovere nemmeno un muscolo e se anche ci fossi riuscita probabilmente sarei finita ancora più avvinghiata a Fobos. Sospirai mentre, sostenendomi il viso, mi dava l’ultimo bacio. Fu ruvido e urgente. Mi morse il labbro inferiore e mi torturò all’inverosimile, cercando di farmi corrispondere il suo bacio. Insistette talmente a lungo che quando si scostò leggermente sentii un dolore fisico, come se mi avessero strappato un’unghia o i capelli. Impercettibilmente mi ero avvicinata a lui, come ad inseguirlo. Fobos mi osservò qualche secondo e poi, come per regalarmi la meritata e agognata fine delle mie mortali sofferenze, mi diede quell’ultimo bacio, appena accennato, così che avrei dovuto essere stata nuovamente io a rincorrerlo. Ma così come era iniziato, finì tutto. Fobos si staccò all’improvviso.
Rimasi completamente interdetta, con gli occhi fissi su di lui e annegati nella sorpresa. L’Ibrido sfoggiò un sorriso sadico e, facendomi scivolare nuovamente sulle mie gambe, mi posò a terra. Fu un miracolo se entrambe non cedettero di schianto. Infine fece per andarsene, mani in tasca, senza alcun pensiero ad affliggerlo. Solo quando stava per svoltare l’angolo e lasciarmi sola con i miei crucci, si voltò e mi disse: - Ero geloso-. Sorrise e sparì, lasciandomi a me stessa.

 

Quando riuscii a riprendermi dallo shock, uscii in cortile a prendere un po’ di aria. Avevo il volto in fiamme e sentivo caldo ovunque. Le labbra mi bruciavano e sentivo ancora le mani di Fobos su di me. Era una sensazione stranissima, qualcosa a cui evidentemente non avevo mai pensato. Mi salirono le lacrime agli occhi senza saperne il perché. Forse era perché nessuno mi aveva mai avvicinata a quel modo o forse perché speravo che a fare una cosa del genere sarebbe stata la persona che amavo. Non riuscivo a decifrare le intenzioni di Fobos, a capire se la sua esistenza si basasse sul scacciare la noia o se veramente cominciasse a provare del sentimento, anche solo affetto, nei miei confronti. I dubbi continuavano ad assalirmi, impietosi come sempre.
-Astreya! Ti stavo cercando…- La voce gioiosa di Eracleo mi colse di sorpresa, costringendomi a strofinare gli occhi con fin troppa energia. Cercai, quindi, di stamparmi un sorriso credibile sul volto e lo salutai distrattamente con la mano.
-Buongiorno Eracleo, sei in servizio? -.
Era in divisa e trasportava una grossa quantità di armi tra cui due lunghe katane che gli spuntavano da dietro le spalle e un paio di mini mitragliette appese al fianco.
-Sì, starò via una settimana circa, per cui non potrò partecipare alla cerimonia del tuo assegnamento. Mi dispiace-.
Era sinceramente avvilito, lo percepivo chiaramente, ma c’era anche qualcosa d’altro: un malessere più profondo si celava dietro ai suoi occhi. Era come se nelle profondità della sua anima un gatto stesse giocando con il gomitolo dei suoi intestini.
C’era qualcosa nell’aria e per quanto Eracleo fosse un brav’uomo, di certo non era bravo a bleffare. Così decisi di indagare un po’.
 -Che sta succedendo? Ti vedo preoccupato-, provai, certa che la mia finta ingenuità fosse un buon incentivo per farlo parlare.
-Non lo sappiamo. Lo Stratega ha inviato tutto il Reggimento degli Ulivi al Vallum a Nord. Non aveva mai stanziato così tanti uomini finora. Temo ci siano delle sedizioni-.
I miei occhi si spalancarono per la sorpresa. Il Vallum era l’enorme cinta muraria che circondava la sede del Governo di Elladia.  Era una zona sicura: le truppe non vi venivano mai inviate se non per partecipare a parate o eventi. Senza aggiungere il fatto che il Settore governativo era circondato non solo dalle ciclopiche mura di difesa, ma anche da una cupola energetica che impediva ai velivoli militari non autorizzati di atterrare sul suo terreno. Era impossibile che qualche manifestante si fosse arrischiato a prendere di mira un bersaglio così impenetrabile, non quando la popolazione che viveva ai piedi del Vallum era stata privata persino dell’elettricità. Tutta l’energia della terra circostante al Settore era stata, infatti, prosciugata per alimentare la cupola di protezione ed elettrificare i camminamenti in cima alle mura, dove tra l’altro vigilavano gli enormi Molossi.
-Deve essere successo qualcosa di grave-, mormorai, mordicchiandomi un’unghia. Sarei voluta partire anche io con Eracleo, ma la sfortuna aveva deciso che anche quella volta il mio Destino fosse deciso da altri. Forse se Fobos fosse stato chiamato in causa, avrei potuto fare appello al nostro Debito per poterlo seguire.
- Lo credo anche io, Astreya. Ora devo andare. A presto-.
Si sporse verso di me e mi strinse la mano con energia. Sentivo l’odore della paura e percepii il peso della sua angoscia. Non potevo fare molto per farlo stare meglio, né avevo intenzione di farlo. Doveva stare concentrato, senza pensare a chi lo aspettava al campo, ai suoi amici o alla sua famiglia. Era così che ero sopravvissuta anche io: senza pensare ad altro che non fosse ottenere ciò che volevo. Era egoista, ma necessario.
-Eracleo, stringi i denti e saluta gli Dei-, gli dissi, usando la consueta formula di buon augurio di Elladia. Lui sorrise debolmente, sistemando sul petto la medaglia del leone ruggente che simboleggiava l’Accademia di Carthagyos.
-Mi farò onore-, disse, poi con una breve corsa raggiunse i suoi compagni. Lo guardai andare via con un senso di malinconia crescente: sapevo che sarebbe tornato, su questo non avevo dubbi, ma mi chiedevo che notizie avrebbe portato con sé. Mi concentrai sulla sua figura, tenendola d’occhio finchè non fu abbastanza lontana, un piccolo puntino nero in mezzo a un mare d’inchiostro.
-E’ triste veder partire i proprio compagni, non trova? -.
Deimos si era materializzato alle mie spalle come un fantasma. Era vestito a festa, con un abito grigio scuro e una cravatta blu come la notte. Ipotizzai che si stesse recando a una riunione e istintivamente mi venne logico pensare che anche Fobos vi avrebbe partecipato.
-E’ triste sapere che potrebbero non tornare-.
Deimos puntò i suoi occhi verde brillante nei miei. Sembrava intenzionato a studiarmi.
-Ho discusso con Efesto e Upokrates circa la sua proposta. So che non è il momento migliore per parlarne, ma ultimamente sono stato molto impegnato-.
Una Cavalletta ci volteggiò attorno curiosa, scansionando sia me che Deimos. Quando una lucina verde si accese in cima al suo capo, l’insetto metallico volò via soddisfatto e il Generale poté tornare a rivolgermi la sua attenzione.
-Inoltre mi è pervenuta una strana richiesta da parte di Fobos. Non so se ne sia al corrente-.
-No, non ne so nulla-.
In realtà avevo una vaga idea di cosa potesse trattarsi, ma non volevo che il Generale sospettasse che stessi cercando di ficcare il naso nelle questioni militari di Carthagyos.
-Ha richiesto di poterti allenare personalmente, Custode. Vorrei sapere cosa ne pensa-.
-Non ho nulla in contrario. Gli ordini dei miei Superiori sono legge ai miei occhi-, recitai, cercando di apparire più convinta di quanto non fossi.
-Capisco. In tal caso credo che approverò entrambe le richieste, a maggior ragione perché lo Stratega sembra intenzionato a monitorare i suoi progressi. Non abbiamo smesso di ritenerla il miglior acquisto fino ad ora. Le chiedo solo di non frequentare assiduamente Efesto. Per quanto prezioso, è sempre stato un outsider per così dire-.
La mia attenzione si accese come una miccia.
-Che vuole dire? -.
-Voglio dire, Custode, che l’Esercito sfrutta Efesto e che Efesto sfrutta l’Esercito. E’ questo il genere di rapporto che intercorre tra l’Accademia e quell’uomo. E’ senz’altro una personalità influente e di spicco, a cui votiamo il nostro più assoluto rispetto, tuttavia non dobbiamo dimenticarci che ognuno lavora per il suo interesse-.
Le parole di Deimos dicevano molto meno di quanto facessero i suoi occhi. Evidentemente ai piani alti si erano accorti che qualcosa non andava e che Efesto si era spinto ben oltre il limite consentito, intrattenendo numerose conversazioni private con me. In effetti in quelle condizioni sarebbe stato difficile spacciare i nostri colloqui per incontri casuali. Senza contare il fatto che le mie richieste, avanzate per bocca di quell’uomo, probabilmente non avevano convinto del tutto l’acuto intelletto di Cronyos. Sapevo che era un uomo diffidente e schivo, ma non immaginavo fino a che punto.
-Non si deve preoccupare di nulla-.
Deimos mi pose una mano sulla spalla e mi sorrise.
-Sono contento che ci siamo chiariti-, disse.
Gli mostrai il miglior saluto che potei, poi mi congedai da lui. Ero provata e non erano nemmeno le otto della mattina. Sperai che quel giorno non mi riservasse altre sorprese, altrimenti il mio cuore sarebbe esploso.

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Capitolo 18
*** Capitolo 17- Uno...due...tre...quattro ***


Capitolo 17

Il giorno dell’assegnamento giunse più velocemente del previsto. Dopo pochi giorni di convalescenza dall’incidente, ero subito tornata al lavoro e grazie al sostegno dei miei compagni ero riuscita a recuperare le lezioni che avevo saltato. Ares e Dyte erano stati implacabili con me, mi avevano costretto a ripetere gli esercizi all’infinito, colpendomi e obbligandomi a rialzarmi senza posa.  Persino Aracne aveva dato il suo contributo sopportando ogni singolo giorno le mie lamentele, fasciandomi le mani e curandomi le vesciche. Era un sostegno necessario per non crollare. Le giornate, infatti, trascorrevano monotone, non avevamo notizie di Eracleo da più di tre giorni e al telegiornale si parlava solo di truppe accampate ai piedi del Vallum. Nel campo si respirava un’atmosfera di crescente angoscia e, nonostante il clima di festa che serpeggiava fra le matricole, i veterani erano preoccupati per i loro compagni.
Fu così che inevitabilmente giunse il momento di fare la mia scelta.
La cerimonia ebbe luogo nella Sala Meeting, una lussuosa camera circolare con delle poltroncine rosse disposte a semicerchio di fronte ad una scrivania ovale. Ci fecero entrare singolarmente, e ognuno di noi uscì con un nuovo marchio impresso sul taschino di cuoio della divisa.
Fine della cerimonia. Non fu nulla di esaltante, né di particolarmente spirituale. Non aveva nulla a che vedere con i cerimoniali che svolgevamo al Tempio, né con le immense parate religiose che sin da piccola avevo visto sfilare per le strade di Lunedì, il giorno sacro agli Dei.
Ad ogni modo, divenni un soldato del Reggimento dei Biotecnici e venni finalmente introdotta ai laboratori. A scortarci il primo giorno fu un certo Galeno. Era un uomo sulla quarantina con i capelli brizzolati e un camice tutt’altro che pulito. Fumava come un turco (continuavo a chiedermi da dove si rifornissero tutti quei soldati dal momento che il fumo era materiale di contrabbando) e spesso diceva parolacce blasfeme. Aveva decisamente un temperamento irruente e un modo di parlare colorito, ma sapeva decisamente il fatto suo.
Durante la prima lezione di laboratorio ci aveva già riassunto tutto il lavoro che avremmo dovuto svolgere quell’anno e a me in particolare, che di quelle cose sapevo poco o niente, diede una marea di file da ricercare nella Magna Teca. Voleva che mi mettessi al pari degli altri il più in fretta possibile e che non obbligassi l’intero Reparto a rallentare le ricerche.
-Hai cominciato a farti un’idea di come funzioni il corpo di un essere vivente? -, mi chiese al secondo incontro, dando per scontato che fossi partita a studiare da Anatomia. Con mia grande fortuna, noi Custodi eravamo donne istruite e colte, con un’infarinatura generale in tutti quasi i campi del sapere. Perciò mentii, certa che le nozioni base che avevo fossero sufficienti a salvarmi, almeno per il momento.
-Ho cominciato a leggere qualcosa-.
Galeno sorrise soddisfatto, ammirando il mio impegno, e mi pregò di seguirlo ad un tavolo da lavoro di pura e lucida ceramica.
-Bene. Allora non dovresti aver problemi a sezionare questa Cavalletta. E’ in tutto e per tutto simile a un insetto vero, per cui non hai scuse-.
Si scostò un ciuffo ribelle dagli occhi e con una mossa a dir poco sbarazzina, mi porse un cacciavite appuntito. -Per prima cosa apri il pannello sull’addome-.
Obbedii, rivoltando l’animale, fermandolo sul piano di lavoro secondo le indicazioni del mio superiore e puntando lo strumento sulle piccole viti incastrate nell’esile corpo d’acciaio. Svitai rapidamente e in un lampo la creatura si aprì come un bocciolo. All’interno, la Cavalletta si presentava apparentemente come un normalissimo essere vivente, con tanto di cuore, polmoni e apparato digerente; solo ad una seconda occhiata ci si accorgeva che in realtà tutti gli organi erano fatti di una sorta di materiale sintetico spugnoso irrorato e scavato da cavetti, led, microchip e schede di memoria.
-Bene, ora prendi questo-, disse Galeno, poggiandomi sul palmo della mano uno strumento bizzarro, una sorta di forbicina dal manico lunghissimo e sottile. Poi infilò una sonda nel corpo della Cavalletta e, dicendo una parolaccia dietro l’altra, spinse il cavo fino al cervello dell’animale. Di fronte a noi, come per magia, fuoriuscì dal tavolo un display. Questo si accese da solo e l’immagine del cervello dell’animale, un gomitolo di circuiti elettrici e led, si manifestò sulla sua superficie traslucida.
-Introduci la tenaglia ed estrai quella scatola grigia che vedi al centro-.
Con delicatezza infilai le tenaglie nel pannello aperto e, seguendone il percorso con l’ausilio delle immagini rimandate dalla sonda, mi avvicinai al piccolo oggetto.
-Bene, adesso sfilala con attenzione. Quella è la sua memoria-, annunciò Galeno, applaudendo, quando con estrema fluidità riuscii ad estrarre l’hard disk dal corpo metallico della Cavalletta.
- Cosa ne facciamo del resto? -, domandai, quindi, provando una sorta di compassione per quel cadavere inanimato che giaceva spiattellato sul tavolo con le ali aperte e inchiodate al piano di lavoro.
-Lo riprogrammiamo. Questo vecchio amico ha bisogno di una memoria nuova. Tabula rasa, Sorella-, ridacchiò.
Distrattamente accarezzai il piccolo capo e le antenne della Cavalletta. Era fredda e liscia, proprio come mi sarei aspettata. – Ogni quanto tempo le riprogrammate? -.
-Ogni vent’anni. Hanno una memoria veramente eccezionale, queste piccoline-.
Vent’anni. Se fossi stata una Cavalletta avrei potuto cancellare vent’anni della mia vita con un colpo di spugna. Avrei fatto piazza pulita del dolore, della tristezza, dell’odio e di quell’amore che nonostante tutto provavo ancora per quella famiglia che non avevo mai avuto. Avrei davvero voluto una memoria nuova, concedermi il lusso di un nuovo inizio, ma la vita era diversa dalla semplice esistenza che poteva condurre un robot. Non c’era modo di tagliare i brutti periodi e prolungare quelli belli. Il tempo scorre sempre senza posa, che lo vogliamo o meno.
-Ora dobbiamo inserire la sua memoria in questo strumento-.
Galeno mi afferrò per un braccio e mi mostrò uno strano mostro di metallo con una bocca rettangolare e una massiccia corporatura.
-Questa macchina legge in meno di una settimana tutti i vent’anni di storia contenuti nell’hard disk e segnala gli eventi importanti che verranno schedati nei verbali. Non lo trovi emozionante? -.
Gli occhi di Galeno erano febbricitanti e il loro azzurro chiaro si era trasformato in un accecante grigio dato dal riverbero di tutto l’acciaio e l’alluminio che ci circondavano.
-Uno spasso-, mormorai.
-Passami la scheda, forza! -, mi incitò. Sbuffai annoiata e tornai al tavolo di ceramica, per raccattare l’hard disk. Quando lo toccai, tuttavia, sentii un ronzio invadermi le orecchie e persi leggermente l’equilibrio. Le tempie cominciarono a pulsare e la vista cominciò a sfocarsi. Cercai di recuperare il controllo, ma non riuscivo a comandare la mia mano: non ne voleva sapere di lasciare la scatoletta.
Mi sostenni al tavolo, mentre la stanza vorticava a una velocità incredibile e gli alambicchi che sobbollivano rimandavano lampi di luce fluorescenti. Ero certa che prima i composti chimici che vi erano stati introdotti fossero incolore. Sbattei le palpebre ripetutamente cercando di allontanare da me quei fuochi di artificio variopinti, mentre da lontano la voce di Galeno mi rimproverava per la mia lentezza.
-Arrivo-, riuscii a biascicare, mentre una lacrima di sudore mi scivolava rapida lungo la nuca.
Un volto comparve riflesso nell’alambicco sulla mia sinistra e, quasi urlai, quando alle mie spalle vidi riflessa l’immagine di un bambino dagli enormi occhi verde smeraldo.

 

Il bambino era seduto al centro di una cella completamente bianca, priva di finestre e porte.
Aveva uno sguardo assente, come se non vedesse ciò che gli stava innanzi. Era ricoperto da ventose traslucide che rimandavo piccoli bagliori azzurrini ogni volta che registravano qualcosa di interessante e ciocche di capelli scuri gli ricadevano sul volto, sconfitte dalla gravità.
Era completamente immobile, come una statua: non si scompose nemmeno quando la Cavalletta che lo perseguitava da chi sa quanto tempo gli ronzò attorno producendo un sibilo sinistro simile all’ululato del vento. Quella cosa, infatti, registrava ogni suo singolo movimento sin da quando era stato rinchiuso là dentro, con la sola compagnia di una branda e una latrina. Perciò il bambino aveva deciso semplicemente di rimanere immobile, senza sbattere nemmeno le palpebre. In questo modo l’insetto metallico forse l’avrebbe lasciato in pace.

Attenzione apertura della porta di sicurezza in corso. Restare dietro la linea gialla fino ad avvenuta operazione_

Lo sguardo del prigioniero non si spostò di un millimetro dal punto del muro che aveva scelto di fissare quando una parete sprofondò nel pavimento e uno sbuffo di polvere si sollevò in aria, ricadendogli sul capo come fine pioggia.
-Buongiorno. Ti ho portato la colazione, piccolo-.
Upokrates entrò nel cubo e posizionò sulla branda del detenuto un piatto contenente un bicchiere d’acqua e del cibo liofilizzato.
-Come ti senti, oggi? -, gli chiese poi, notando che con l’avanzare del tempo la sua predisposizione all’apatia stava aumentando. Se fosse andato avanti così probabilmente il suo comportamento si sarebbe tramutato in inappetenza e successivamente sarebbe morto per inedia o disidratazione.
Il dottore decise di avvicinarsi a quella creatura così debole e sola. Si chinò ad osservarlo e con una luce gli illuminò le pupille. Queste non ebbero alcuna reazione, non si restrinsero né tantomeno si allargarono, e il paziente non mutò espressione nemmeno per un singolo istante.
-Piccolo? -.
Il bimbo stese improvvisamente il braccio in direzione di Upokrates mostrandogli l’incavo del gomito. Si erano formati dei grossi lividi a causa delle continue iniezioni, ma ora la pelle si stava ribellando a quel trattamento e aveva cominciato a mutare, divenendo meno sensibile, ma più coriacea. Era una sfortuna per lui: avrebbe sofferto ancora di più.
-Sono le sei e mezza. E’ ora dell’iniezione-, disse il bambino, vedendo l’espressione interrogativa dell’unica persona che vedeva da più di due mesi.
-Bravo ragazzo. Non farà male-.
Mentiva, come sempre. Appena l’ago si infilò nella carne del ragazzino, questo spalancò gli occhi e con l’altra mano si tappò la bocca con forza, soffocando un urlo disumano. Upokrates lo guardò esterrefatto. Il piccolo stava lottando per non sentire dolore, si stava ribellando a quegli impulsi primordiali che il cervello gli inviava. Una miriade di lucette blu elettrico si accesero a livello del suo capo, quando il liquido scuro cominciò a inondargli di catrame le vene e le arterie.
-Uno… due… tre… quattro-.
Non aveva mai contato prima di allora. Forse era un modo per concentrarsi su qualcosa che non fosse quella sofferenza senza fine. Upokrates ristette un po’ a guardarlo. Era solo un bambino di sei anni eppure si comportava come un adulto. Riusciva a dominarsi con una padronanza di sé incredibile.
-Passerà fra poco-, gli comunicò Upokrates estraendo dal carrellino che aveva portato con sé un altro farmaco. Questo era il peggiore perché doveva essere iniettato direttamente nel collo, e rischiava di mandarlo in arresto cardiaco.
Il paziente abbassò il colletto del camice che indossava e porse la giugulare al suo carnefice. Aveva gli occhi oscurati da una patina di indifferenza che lo rendeva mostruoso. Upokrates caricò la siringa, ma i dubbi cominciavano a farsi largo in lui: sarebbero davvero riusciti a ottenere un soldato in grado di padroneggiare la magia a quel modo? O anche lui come il primo paziente sarebbe morto all’età di quindici anni? Avevano pensato a tutto stavolta, lo stavano già pretrattando da un anno, da quando i genitori lo avevano venduto all’Ospedale militare. Ma la domanda era se gli steroidi fossero sufficienti a irrobustirlo per ciò che lo avrebbe atteso dopo.
Upokrates con un colpo secco centrò il collo del paziente e con una spinta altrettanto decisa inoculò il liquido denso. Poi osservò la reazione del bambino. Questo come al solito cominciò ad iperventilare mentre le vene del collo gli si gonfiavano fino allo spasmo cercando di far passare quella sostanza estranea. Solo dopo, quando la sensazione di morire lo travolse, il ragazzino si morse con forza le piccole labbra. Una goccia color rubino spuntò da sotto i denti bianchi e come una lacrima gli scivolò sul mento. Aveva preso a tremare di nuovo, ma non poteva cedere proprio ora. Upokrates gli porse il pasto che gli aveva portato, quello nel quale aveva mescolato gli steroidi.
Gli infilò in mano un cucchiaio enorme e glielo riempì di quella sbobba. Due enormi lacrime sporche rigarono le guance del bambino che ingollò il cucchiaio senza fare una piega.
Dopo che il dottore ebbe finito con lui, il giovane si rannicchiò nuovamente nell’angolo e si rimise a fissare il vuoto. Non gli importava morire, diventare un mostro o qualsiasi altra cosa, eppure una rabbia cocente gli avvampava all’imboccatura dello stomaco, così dirompente da fargli venire la nausea. Era giusto provare odio per i propri genitori e per il proprio fratello? Era normale desiderare vivere per ottenere la vendetta tanto agognata sui suoi aguzzini? Era giusto affogare nel dispiacere e inacerbire il proprio cuore fino a renderlo di pietra? Il suo cuore diceva che era meglio morire, ma la sua testa non ne voleva sapere. Grattò con le unghie il pavimento, ricordando come fosse morbida la moquette di casa sua, poi sui suoi occhi ricadde quella cataratta di apatia che ormai indossava ogni giorno, in attesa di crescere. O di morire.
La mattina successiva fu nuovamente Upokrates a svegliarlo, ma stavolta con una grossa sorpresa.
-E’ venuta una persona a trovarti-, disse con voce entusiasta, sperando che vedere qualcuno della sua famiglia avrebbe reso il bambino di buonumore. Sapeva che i farmaci che gli stava somministrando causavano depressione, perciò quello era un modo come un altro per mantenere il paziente in uno stato psichico stabile.
-E’ venuto tuo padre…Upnos. Te lo ricordi, piccolo? -.
Davanti al prigioniero apparve un uomo distinto, vestito in giacca e cravatta, con un bel cappello in mano. Era invecchiato dall’ultima volta che lui e il figlio si erano visti. Il piccolo ricordava meno capelli bianchi e meno rughe.
-Ciao, tesoro-, disse l’uomo abbassandosi e porgendo al bambino una piccola caramella al limone. Erano le sue preferite, perché una volta in bocca causavano un pizzicore piacevole e rinfrescante. Ciò nonostante non la prese e si limitò a fissare quel dolciume, quel frammento di ricordo perduto per sempre. La Cavalletta gli ronzò sulla testa e il piccolo la seguì con lo sguardo.
-Non parla? -, chiese il padre a Upokrates. Il medico scrollò le spalle, come se il mutismo del figlio fosse una cosa da niente.
-Parla solo quando gli pare. E’ una fase, la supererà-.
Il visitatore sorrise nervoso, appoggiò la caramella sul bordo del lettino sfatto e fece retromarcia.
Il bambino rimase nuovamente solo. Allungò una mano verso le sbarre del letto e con cautela prelevò la caramella. La scartò con lentezza infinita godendosi ogni singolo luccichio della carta dorata che la avvolgeva. Infine si ritrovò di fronte una sfera di zucchero bianca, pura e lucida come il latte. Gli salì un conato di vomito, ma lo represse abilmente. Sapeva che se avesse vomitato nessuno lo avrebbe pulito fino alle sei e mezza, quando si sarebbero ricordati di lui.
Lanciò la caramella in aria, la osservò volteggiare con il naso all’insù e poi, con un unico colpo secco, la colpì con il taglio della mano e la distrusse. La fece esplodere in mille granelli che ricaddero a terra, mescolandosi allo sporco, alla polvere e al linoleum. Era stato divertente distruggere quella piccola sfera indifesa, dissolvere anche l’ultimo legame che intrecciava la sua miserabile vita a quella dell’uomo che l’aveva abbandonato. Rise di gusto, come non mai, finchè non gli mancò il fiato e le lacrime gli spuntarono sulle ciglia. Poi, finalmente, cullato dalla solitudine e dal ronzare della sua Cavalletta, si addormentò.
-Buonanotte, Fobos-, disse Upokrates tramite altoparlante, ma il piccolo ormai era sprofondato nuovamente nei suoi incubi.

 

 

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18- Il vero mostro ***


Capitolo 18

 

-Astreya? -.
La voce roca di Galeno mi riportò alla realtà.
-Astreya? -, ripeté Medeya, avvicinandosi a me e poggiandomi una mano sulla spalla. Mi voltai lentamente, mentre pensieri oscuri e rischiosi cominciavano a sgorgarmi dal cuore come veleno. Stava succedendo di nuovo.
-Sto bene, Medeya-, mentii, sentendo l’acre sapore della bile in bocca.
-Che cosa ti è successo? -.
-Credo di aver avuto una visione…-, mormorai, lasciando andare l’hard disk che ancora stringevo con forza nella mano. Era diventato bollente, come del resto lo era diventata la mia rabbia.
Mi passai una mano sul volto nel disperato tentativo di inghiottire nuovamente il ragno oscuro che si stava issando, zampa dopo zampa, su per la mia gola. Solo le Bendate potevano avere delle visioni. Come era possibile che ne avessi avuta una anche io? Perché dovevo essere costretta a riprovare quella dolorosa pressione al petto? Era uno scherzo, una tortura?
Medeya doveva nutrire i miei stessi dubbi perché mi stava ancora osservando, le fini sopracciglia bionde a caduta libera sul naso leggermente adunco.
-Che cosa stai combinando, Astreya? -, mi domandò con gli occhi brillanti e pieni di sconcerto.
Feci spallucce. Ero sicura che qualcosa non andasse: sapevo che il mio Dono era molto particolare, ma stavolta era diverso.
Ripensai alla tipologia di Dote che avevo sviluppato. Tutto era cominciato con il mio arrivo al Tempio. Dopo i primi studi e le prime analisi, si era reso evidente il fatto che, pur soddisfacendo le condizioni che il trattamento alla magia imponeva, non avevo alcuna propensione particolare per una tipologia di Dono piuttosto che per l’altra. Era indifferente, e il mio potenziale vago. Così Sorella Dyana aveva ben pensato di impormi il ruolo che riteneva avrebbe sviluppato al meglio le mie capacità, quello di Oscura. Mi aveva detto, infatti, che era molto difficile allevare una Custode abbastanza forte da sopportare il peso del legame che univa il mondo dei morti a quello dei vivi, ma che io sembravo fare al caso suo. E io, del resto, avevo accettato tranquillamente dopo che su un piatto di argento mi era stata posta una quantità di pietre preziose esorbitante. Tuttavia, mano a mano che osservavo Aracne tessere, Dyte volteggiare in aria senza il minimo sforzo e alcune Silvane allontanare una tempesta elettrica, avevo capito che essere solo un’Oscura non mi bastava. Così nel buio della mia cella avevo cominciato ad allenarmi. Rubavo i libri Sacri della Chiesa e li nascondevo sotto al letto, in attesa che calassero le tenebre. Solo allora li riesumavo dal loro nascondiglio e vi affondavo il naso, avida di conoscenze.
Ben presto riuscii a controllare piccoli elementi naturali, a guarire le code mutilate delle lucertole e a bucare con un pugno le leggere doghe del letto. Osservavo le mie compagne durante le ore di lezione e ne imitavo i gesti con estrema facilità, divertendomi ad apprendere nuovi e superbi trucchi di magia. E sarebbe andato tutto per il meglio se un giorno non fossi stata scoperta da una delle Custodi anziane, Sorella Elettra. Da allora la mia facilità di apprendimento e la mia capacità di adattamento mi hanno resa nota nell’ambiente religioso come la Polivalente.
In ogni caso rimaneva un pezzo del puzzle che non si incastrava alla perfezione. Non avevo amiche fra le Bendate, quindi non avevo mai appreso come cavalcare le onde del Fato e del Tempo. Come avevo fatto a riprodurre il meccanismo che scatenava in loro le visioni?
-Medeya, torna al lavoro, o ci sgrideranno entrambe-, dissi, ancora immersa nei miei pensieri, per poi tornare al fianco di Galeno.  Cercai di riprendere il lavoro da dove lo avevamo lasciato e di concentrarmi su ogni gesto, ma non sembravo in grado di debellare dalla mia mente il volto di quel bambino, le sue lacrime di paura e la sua abnegazione. La situazione non accennava a migliorare: ero pallida e sudavo freddo. Non riuscivo a controllare il tremore alle mani e le immagini di quello che avevo visto mi tormentavano. Perché continuavo ad entrare e uscire dalla mente e dal passato di Fobos? Era davvero lui quella povera creatura che avevo visto, torturata con crudeltà da Upokrates? Non riuscivo a pensare ad altro se non agli occhi di quell’infelice bambino di appena sei anni, un Aborto come me. L’espressione di Fobos da allora non era cambiata per nulla: schivo, arrendevole, ma stranamente iroso e combattivo. Opposti sentimenti lo laceravano nel profondo e sembrava non essere in grado di superare il suo passato. Anche io ero stata nella sua stessa condizione un tempo, persa completamente nei meandri della mia mente, perduta in un mondo di fantasmi e angosce acuite dalla paura delle percosse di mio padre. Ma a differenza di Fobos io ero nata così; lui avrebbe potuto avere una vita spensierata, un futuro radioso se solo i suoi genitori non si fossero stancati di lui. Lo avevano trattato come una pezza da piedi, favorendo un fratello piuttosto dell’altro, facendolo sentire inutile e rimpiazzabile
-Scusi, posso assentarmi per prendere un po’ d’aria? -.
Galeno sbattè le palpebre qualche istante, poi le sue labbra carnose si tesero in un sorriso di comprensione.
-Ma certo, non preoccuparti. Prenditi tutto il tempo che vuoi-.

Non me lo feci ripetere due volte e, come una furia, uscii dai laboratori. Una sensazione di nausea mi premeva contro l’esofago, bruciando e graffiando. Non riuscivo più a controllare la mia rabbia e la mia frustrazione. Sapevo che gli Aborti avevano vita difficile; l’avevo sperimentato direttamente sulla mia pelle. Ma nessuna vita al mondo sarebbe potuta essere tanto terribile quanto quella che era toccata in sorte a Fobos. Come aveva potuto sopravvivere ad anni di dolore e torture? Con che forza? Era solo un bambino, dannazione! Un bambino di sei anni appena.
Rapita come ero dai miei cupi pensieri, tenebrosi come una notte senza stelle, non mi accorsi nemmeno di essere giunta alle porte dell’Ospedale.  Inconsciamente sapevo perché ero lì, anche se non volevo ammetterlo. La mia mano si appoggiò alla fredda impugnatura della katana che portavo ancorata alle spalle. Ormai era diventata un prolungamento del mio braccio e la lama tagliente mi infondeva una calma disarmante, simile a quella della morte. Afferrai l’elsa, sentendo una scarica di adrenalina scorrermi lungo la colonna vertebrale. Poi sfoderai l’arma, osservandone il luccichio sinistro e ammaliante. Riflessi sul taglio lucido, intravedevo i miei occhi. Erano oscurati dall’ombra di un cattivo proposito, ma al contempo illuminati da una scintilla di follia. Le sopracciglia scure erano inclinate e attorno alle loro estremità si erano formate increspature di rancore e collera.
Non me ne sarei pentita, non questa volta. Lo avrei ucciso, sarei andata fino in fondo. Mi presi il mio tempo, cercando di distendere i nervi, e prima di dare il via al mio mostro diedi un ultimo sguardo alla facciata dell’edificio, lasciando che il vento mi scompigliasse la treccia e mi frustasse il viso. Inspirai a fondo, strinsi la presa sulla mia arma, e mossi il primo passo con un colossale sorriso sul viso. Era il momento di spedire agli Dei una nuova anima da divorare.
-Ohi! -.
Mi fermai di scatto, alzando appena lo sguardo. Di fronte a me era comparso Fobos, ammanettato e con delle bende spray incollate attorno ai gomiti. Osservai la piccola chiazza di sangue che si intravedeva al di sotto delle garze bianche, e la furia si impadronì completamente del mio corpo. Strinsi la spada fino a che la pelle delle nocche non si assottigliò e divenne bianca.
Non volevo rispondere al saluto, altrimenti l’Ibrido avrebbe certamente notato l’incrinatura nella mia voce, intuendo qualcosa circa il mio piano. Per cui cercai di superarlo, girandogli attorno come fosse un obelisco. Lui mi seguii con lo sguardo, immobile e circospetto. Vedevo i muscoli tesi e le gambe pronte a scattare. Percepivo il rumore agghiacciante della ghiaia che scricchiolava sotto i suoi piedi e percepivo i miei movimenti in ogni loro singolo fotogramma. Era un duello silenzioso, che dovevo vincere per forza.
Perciò quando vidi gli occhi caliginosi di Fobos saettare verso la katana, scattai come una saetta.
Lui mi seguì a ruota e guizzò in avanti, rincorrendomi per impedirmi di varcare la soglia. I suoi muscoli scattarono come molle e in breve mi fu addosso. Mi afferrò per la vita con forza e in un attimo i miei occhi passarono dall’osservare bramosi l’entrata dell’Ospedale al contemplare le nuvole dense di pioggia. Sentii la schiena colpire l’asfalto e la botta mi mozzò il fiato. La katana schizzò lontano dal mio corpo, sotto lo sguardo incuriosito di alcuni soldati fuori servizio. Mi aggrappai al terreno nel disperato tentativo di raggiungerla, ma improvvisamente la vidi allontanarsi da me, come accade spesso negli incubi. Guardai cosa mi stesse trascinando via dalla mia unica arma e, come mi sarei aspettata, vidi le mani di Fobos strette attorno alla mia gamba destra. Raccolsi, pertanto, tutta la forza che mi era rimasta e, sfruttando quanto avevo imparato lottando contro Polufemos e contro i miei stessi compagni, la incanalai nell’altra gamba. Con un colpo di reni, riuscii a sollevarmi quel tanto che mi basò per farla ruotare e assestargli un calcio nello stomaco.  
Questo andò a colpo con precisione, facendo ringhiare Fobos come un animale ferito e costringendolo a indietreggiare di qualche passo. Ma a discapito della forza del mio calcio, la presa di Fobos non si era affatto allentata, anzi andava rafforzandosi nel tempo.
-Lasciami! -, strillai, mentre un corteo di soldati e Cavallette accorrevano nella nostra direzione.
-Smettila di dare spettacolo, dannazione! -, mi gridò di rimando Fobos, trascinandomi a sé come fossi una fune. Mi divincolai, disperata, tenendo gli occhi fissi sulla katana. Riuscii a colpirlo al volto, graffiandolo fino a farlo gemere, ma non riuscii a fargli mollare la gamba. Non volevo ferirlo, volevo salvarlo. Perché doveva ostacolarmi?
All’orizzonte il manipolo di soldati si era schierato in formazione e puntava i fucili su di me. Avrebbero sparato, questo era ovvio, ma non sapevo se dalla canna delle loro armi sarebbero esplosi sedativi o proiettili.  E se volevo evitare di scoprirlo, dovevo muovermi in fretta. Cercai di scattare in avanti nuovamente, aggrappandomi con forza al terreno e spingendo con i piedi contro il suolo friabile. Fobos, però, mi riacchiappò rapidamente e, stringendomi in una morsa, mi sollevò in aria.
-Smettila, o spareranno! -, mi implorò mentre i suoi occhi scrutavano lo schieramento che avrebbe eseguito la fucilazione.
-Che lo facciano! -.
-Ti prego, Astreya-.
La voce di Fobos si era ridotta ad un sussurro implorante e teso. Il suo sguardo saettava da un uomo all’altro, probabilmente cercando di scrutarne i volti e le identità.
-Non mi costringere ad uccidere i miei compagni-.
Un colpo al cuore mi pietrificò istantaneamente e i miei occhi si allargarono di schianto. Vidi i soldati che ci circondavano, le loro dita che attendevano sfiorando il grilletto, la mano di Fobos che esitava ad un soffio dalla fondina della pistola, il braccio che mi teneva sospesa sulla sua spalla.
Avrei dovuto uccidere anche loro? Erano innocenti e cercavano solamente di proteggersi da me. Anche i miei genitori per proteggersi avevano deciso di abbandonarmi: avrebbero potuto ammazzarmi e farmi un favore, ma avevano preferito farmi vivere come un oggetto, sfruttata da tutti. La rabbia crebbe ulteriormente in me, ma riuscii a trattenerla, arricciando il naso e stringendo i denti.
-Mi arrendo…-, ammisi con la voce strozzata. Fobos sospirò e le sue spalle si rilassarono. La mano scivolò via dalla fondina e io mi ritrovai appesa sulla sua spalla come un salame. Non opposi alcuna resistenza, ma non riuscii a non fissare l’uomo che mi stava guardando da dietro la vetrata del suo ufficio. Tra la massa di curiosi che si era affollata dietro i finestroni bagnati dal sole, infatti, c’era anche Upokrates. Non poteva sapere che ero lì per ucciderlo, per porre fine ad un’esistenza a dir poco blasfema e intollerabile, eppure desideravo ardentemente, più dell’aria che respiravo, che lo sapesse. Sollevai appena il bacino e con un sorriso aguzzo gli mostrai il dito medio.
-Ti verrò a prendere, non preoccuparti-, sillabai afona.
Non so se il messaggio lo raggiunse davvero a quella distanza, ma vidi la sua figura indietreggiare e il riflesso dei suoi occhiali spessi sparire nell’ombra.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19- Nastri neri ***


Capitolo 19

-Cosa pensavi di fare? - mi domandò Fobos, quando fummo finalmente soli. Ci trovavamo nella sua cella, seduti l’uno di fronte all’altra.
- Upokrates deve morire-, ammisi, convinta della mia affermazione. Ero sicura che sarebbe successo, perché per una volta sia io che il mio mostro eravamo d’accordo.
-Non puoi dire sul serio-.
-Ti sembra che io stia scherzando? -, borbottai, una luce sinistra e inquietante negli occhi.
L’Ibrido sbattè un pugno sul tavolo, facendo tremare persino la lampadina del soffitto.
-Smettila di essere così egoista! -.
La forza della sua collera mi travolse come una colata di lava e la sua aura esplose come i lapilli di un vulcano, appuntita come un istrice e deforme come un incubo.
-Ero disposto a uccidere i miei compagni per salvarti il culo, e tu non hai nemmeno una scusa plausibile? Che cosa ti ha spinta a tanto?!-.
Rimasi in silenzio, fissandomi i piedi. Accecata come ero dalla mia furia, non mi ero resa conto che Fobos si era messo in pericolo per me. Si era parato davanti a degli uomini armati, pronto a tentare l’ultima disperata difesa prima che tutti e due fossimo diventati degli scolapasta.
-Guardami, per gli Dei Benedetti! -, urlò, afferrandomi un braccio e inginocchiandosi di fronte a me. – E spiegami perché sei così idiota-.
Alzai appena il volto e per un istante i suoi occhi mi parvero verde smeraldo. Non c’era più traccia del bambino della visione nel viso di Fobos se non in quella scintilla, quella miccia che lo rendeva vivo e pronto a lottare. Non si era mai arreso nonostante tutto e non aveva mai fatto la vittima. Semplicemente non si era fatto mettere i piedi in testa dal Destino, come invece avevo fatto io. Improvvisamente, quel ragazzo mi appariva sotto una luce completamente diversa e cominciai a provare un profondo senso di rispetto nei suoi confronti.
-Ti ringrazio per avermi giustificata, anche se non credo che la passerò liscia-, mormorai.
-Hai solo avuto un crollo di nervi. Non chiederanno altro e nel caso ci penserò io-, mi ammutolì lui, attendendo ancora una risposta per la precedente domanda. Non riuscivo a sfuggirgli in alcun modo.
-Non ti dirò perché ho tentato di fare quello che ho fatto. Ma sappi che non ho cambiato idea-.
Fobos mi fulminò con i suoi occhi indagatori e, con un gesto che mai mi sarei aspettata da lui, allungò le braccia per quanto potè e accolse il mio viso fra le sue mani.  Poi accarezzò con il pollice una ciocca di capelli scuri che gli scivolò lungo il polso, attorcigliandosi al braccio.
-Abbasserò la guardia per un secondo, solo uno. Tu mi dirai tutto, e io non mi arrabbierò-.
La sua voce era brusca e i suoi modi rudi, eppure dal modo in cui mi aveva protetta e mi toccava capii che avrebbe mantenuto fede alle sue parole. Imposi al mio viso di rimanere impassibile e ai miei occhi di non indugiare sui graffi che gli avevo lasciato sotto all’occhio destro.
Poi, con calma, snocciolai i fatti. Fobos mi ascoltò attentamente, senza scomporsi. Nemmeno quando gli raccontai della mia visione e lo costrinsi a rivivere il suo incubo più grande, mostrò cosa stesse realmente provando sotto il cuoio della sua pelle. Si limitò a starmi a sentire, come un confessore.
-Come puoi accettare che quell’uomo viva? Dopo quello che ti ha fatto, deve morire. Se la giustizia Divina non esiste, mi rifarò a quella umana-.
Fobos rise piano appoggiando la fronte sulle mie gambe congiunte. Sentivo la sua pelle bruciare attraverso la stoffa dei pantaloni. Non lo avevo mai visto così privo di difese, con nessuno. Forse conoscere il suo passato mi aveva dato la chiave per accedere a lui, per non essere scansata via come tutti gli altri.
-E queste ti sembrano le parole di una donna di Religione? -.
Tra le lacrime di rabbia che premevano per uscire, mi sfuggì un sorriso.
-Non ho mai detto di credere-, confessai. Era la prima volta che lo dicevo ad alta voce ed ebbi la sensazione che dopo aver pronunciato quelle sei parole le labbra mi fossero diventate ardenti.
- Senti, non so se te ne sei accorta, ma sono un mostro alto due metri…-
-Me ne sono accorta-, risi, ricordando con una punta di amarezza il mio primo giorno in Accademia.
- Pensi che se avessi voluto, non avrei ucciso io stesso quel medico con le mie mani? Pensi che non vorrei farlo ancora oggi, dopo che ha tentato di sfruttare anche te, sotto i miei occhi? -.
Le sue labbra si muovevano discrete, ma le frasi che pronunciavano mi paralizzavano come una tossina, come un veleno dolce e amaro assieme.
-E’ per questo che mi odi? Perché ti ricordo come eri? -, sussurrai, incredula.
Fobos si alzò, affondando le mani in tasca dopo essersi acceso l’ennesima sigaretta.
-Ti odio per molte ragioni-. Fece una pausa soffiando fuori il fumo dal naso con un gesto di stizza. – Ma di certo non ti odio per quello-.
Sospirai. La macchina del caffè suonò facendoci sobbalzare e Fobos accorse al cucinino per versare quella bevanda dall’aroma intenso in due tazze. Delle due mi porse quella più bella, con un motivo geometrico accalappiante.
-Astreya, quando ho accettato il Debito, l’ho fatto non solo per liberarmi dalla tua insistenza e da quella faccia da schiaffi che ti ritrovi, ma anche per evitare che cose come queste accadessero. Sei stata catapultata in un mondo che decisamente non fa per te: qui siamo tutti corrotti, chi più chi meno. Abbiamo le mani macchiate di sangue e il cervello impalato da dottrine senza senso. I soldati sono carne morta alla fin della fiera. E io come loro. Per cui Upokrates non è peggiore né di me né di Cronyos, Deimos o Eracleo. Non ho ragione di credere che capirai il mio ragionamento, ma ti prego comunque di riflettere. Se tu avessi ucciso Upokrates, cosa avresti ottenuto se non rovinare solo te stessa? Vuoi davvero finire in una cella come questa e pentirti di quel gesto per la tua restante vita? -.
Ingurgitai il caffè, senza pensarci. Era la prima volta che lo provavo e pensai che fosse amaro, amaro come l’odore che la magia di Fobos emanava.
-Non pensi che sia una sofferenza maggiore vivere piuttosto che morire? -.
- Fobos, tu pensi di conoscermi, ma non è così. Capisco perfettamente la tua posizione, ma non cambio idea. In un modo o nell’altro io quell’uomo lo ucciderò. Non sarà oggi, non sarà domani, ma arriverà il giorno in cui mi farò giustizia da sola. Non mi importa cosa penseranno gli Dei di me, né che cosa penserai tu. Solo quando avrò strappato il respiro a tutte quelle bestie come Upokrates avrò pace-.
Fobos sollevò la tazza fumante, ma quando il suo sguardo incontrò il suo riflesso nel liquido scuro, decise di non bere e la riappoggiò sul suo piattino. Riacciuffò la sigaretta e la strinse fra i denti.
-Lo faresti davvero, per me? -, mormorò lui, socchiudendo gli occhi e nascondendo le sue iridi cangianti fra le ciglia.
-Sì-, ammisi.
-Perché? Cosa te ne importa di me? In fondo non ci conosciamo nemmeno-.
Le sue parole mi colsero alla sprovvista. Era vero: non sapevo nulla di Fobos e lui di me. Eravamo due estranei che lottavano ingenuamente l’uno contro l’altro mentre il mondo crollava davanti ai loro occhi. Che stupidi eravamo.
-Pensaci, Astreya. Io sono l’uomo che ti ha spaventata a morte, torturata e minacciata. Sono il mostro che ti ha baciato con la forza e che ti ha rubato l’innocenza. Davvero vuoi arrivare ad uccidere per un uomo del genere? -.
Fece una pausa, prima di mostrarmi il suo volto da lupo, quell’espressione di ferocia e dolore che ormai conoscevo bene. Il suo sorriso era graffiante e beffardo, pieno di sentimenti contrastanti e di un intenso desiderio di spaventarmi a morte. Questa volta, però, non avrebbe funzionato.

 

Nel pomeriggio tornò il Reggimento che era stato inviato al Vallum. Io e Aracne avevamo sentito le sirene suonare appena dopo l’ora di pranzo e ci eravamo precipitate di fronte all’ingresso principale, dove le guardie stavano attendendo il ritorno dei loro uomini.
-Sono certa che Eracleo stia bene-, affermò Aracne, annuendo più a se stessa che a me.
La presi per mano e superammo alcuni gruppetti di soldati che si erano formati accanto a noi, e ci posizionammo lateralmente il più vicino possibile alle guardiole. Da lì avevamo un’ampia panoramica del capo e potevo scorgere la scia nera del Reggimento degli Ulivi che marciava per le vie di Carthagyos. Sembravano spossati e i carri che li seguivano erano claudicanti, come se persino le ruote fossero stanche di camminare.
Un senso di disagio mi attorcigliò lo stomaco e gettai una rapida occhiata alle espressioni dei miei commilitoni. Tra di essi individuai Ares, che mi sorrise debolmente. Alzai una mano per salutarlo e lui rispose con un cenno del capo, avvicinandosi lentamente.
-Buongiorno, Custode-, disse semplicemente, porgendomi un orecchino da cui pendeva un piccolo pendente a forma di libellula. Era lucente e liscio, ed era il mio nuovo distintivo.
-Ti è caduto-, aggiunse, quando notò lo sguardo confuso della donna al mio fianco.
Aracne, in effetti, lo stava fissando curiosa studiando la forma del monile che mi era stato appena donato. Era evidentemente perplessa di fronte a quel gesto apparentemente senza senso, eppure non disse nulla, sapendo che per me sarebbe stato più semplice se non avesse ficcato il naso in quel genere di affari.
Abbassò il capo in segno reverenziale e, quando Ares si congedò, lo salutò con rispetto e reverenza.
-Grazie-, le dissi, distrattamente, mentre scartavo uno degli orecchini d’oro del Tempio e appendevo al lobo il nuovo gioiello. Era inquietantemente pesante, come se accettando quel simbolo, avessi abbracciato qualcosa di molto più grosso e pesante, qualcosa che mi avrebbe trascinata a fondo.
- Guarda, stanno arrivando-, annunciò Aracne, la quale non aveva smesso nemmeno un secondo di gettare occhiate apprensive al Reggimento in arrivo. La sirena suonò di nuovo, per tre volte, poi Cronyos fece la sua comparsa, accompagnato fedelmente da Deimos e Fobos. Camminavano lenti e portavano con loro degli strani vasi dai manici ad S.
Si fermarono poco prima della guardiole, a qualche passo di distanza da me. Erano tutti vestiti con la divisa, ma erano disarmati e indossavano un nastro nero attorno al bicipite. Era il segno del lutto per noi Elladiani: non era per nulla di buon auspicio. Cominciai a chiedermi cosa fosse successo in quella settimana di assenza, cosa stesse accadendo nel mondo in cui vivevamo, ma di cui conoscevamo ben poco. Poi li vidi arrivare. Erano molti meno di quando erano partiti e sui carri erano avvoltolati dei corpi. Le lenzuola sporche di sangue spiccavano contro il nero luttuoso delle divise dei compagni, reduci e sopravvissuti da qualcosa che nemmeno immaginavo. Con un groppo in gola mi sporsi più avanti, invadendo lo spazio di un Generale barbuto. Cercavo segni di Eracleo, ma lui non si vedeva da nessuna parte. Lo intravidi solo minuti dopo, quando l’ansia ormai si era impadronita del mio corpo. Stava trasportando un cadavere al cospetto di Cronyos, aiutato da un compagno a me sconosciuto.
-Ha servito con onore la causa-, recitò lo Stratega con voce solenne, e appose sul petto dell’uomo una medaglia. Ecco a cosa servivano quei vasi: erano i contenitori dei riconoscimenti post mortem, quelli che venivano conferiti ai caduti per dare conforto alle loro famiglie, oltre che a loro stessi. Infatti era credenza comune che una volta morti, i guerrieri, al fine di dimostrare di avere ucciso ed essere morti nel nome del bene vero, mostrassero le medaglie conquistate in vita agli Dei e che questi, sazi di una tale sorta di obolo, accettassero di fare accedere l’anima nell’Aldilà.
-Eracleo! -, chiamai quando il giovane Caporale fu libero dalle sue mansioni. Era pallido ed emaciato e una grossa fasciatura nera gli avvolgeva la testa. Non appena udì la mia voce, si guardò attorno, a destra e sinistra, cercando di individuarmi fra i soldati radunati attorno a lui. Sollevai un braccio e lo sventolai per richiamarlo.
-Astreya…-, chiamò quando mi vide, e con passo malfermo cominciò a dirigersi verso di noi.
Gli corsi incontro preoccupata. Che diavolo era successo? Perché i carri erano pieni di morti? Cominciai a sentire un pizzicore terribile agli occhi e capii che avevo paura, paura di un mondo in cui ero entrata per caso e di cui non sapevo nulla. Non avevo mai considerato il fatto che i soldati votavano la propria vita alla guerra, che ad ogni missione che intraprendevano c’erano dei caduti. Io non avevo pensato a queste cose e Fobos aveva ragione. La realtà dell’Esercito era molto più oscura e miserabile di quanto pensassi.
Io ed Eracleo ci incontrammo a metà strada, in un piccolo spazio libero ad un soffio dal cancello aperto. Vidi Cronyos gettare uno sguardo nella mia direzione e sussurrare qualcosa all’orecchio di Deimos, forse ripensando alla scenata di fronte all’Ospedale. Fobos, invece, voltò appena lo sguardo, mentre recitava la formula di commiato per l’ennesimo cadavere.
-Caporale! Meno male che sta bene! -, esclamai, prodigandomi nel consueto saluto militare. Eracleo mi fissò per qualche secondo, le mani strette attorno al corpo. Poi, fregandosene dell’etichetta, mi gettò le braccia al collo, stringendomi con energia. Sentii il lezzo del sangue e del sudore, oltre che della polvere da sparo e della morte.
-C’è mancato poco che non tornassi-, mormorò affondando il viso nel mio collo e inspirando profondamente. – Non hai idea di cosa abbiamo dovuto affrontare al Vallum-.
Lo afferrai per le spalle, certa che avessimo un milione di cose da raccontarci: volevo sapere tutto di quello che Eracleo aveva visto, nei minimi dettagli. Ma quello non era il momento adatto.
-Questo è un giorno triste per la nostra Accademia, ma è anche un nuovo inizio-, tuonò Cronyos, inerpicatosi su un palchetto improvvisato. Parlava a voce alta, con il petto gonfio e un’espressione severa sul viso. – Oggi abbiamo perso una battaglia, e molti dei nostri amici sono caduti sul campo. Non ci aspettavamo nulla del genere, ma ora sappiamo come agire! Ci è servito da lezione-.
Deimos salì sulle casse di legno assieme allo Stratega e, con lo sguardo di una pantera, abbracciò tutto l’uditorio con gli occhi. – Compagni, i funerali avranno luogo tra due giorni, dopo che le salme saranno state riconosciute e portate al Tempio per la beatificazione. Le pire verranno accese la sera stessa e dopo il compianto funebre, come è tradizione nell’Esercito di Elladia, ci concederemo una serata di svago per inneggiare alla nuova e meravigliosa vita che attende i nostri uomini nell’Aldilà-
L’ultimo salire sul piedistallo, dopo che Deimos ne fu sceso, fu Fobos che squadrò il circondario con aria assente. Spettava a lui la formula di rito finale.
-Fortuna fortes metuit, ignavos premit*-, recitò, con la mano sul petto e lo sguardo diretto ai corpi fasciati che erano stesi, senza vita, sulle barelle.
Gli astanti ripeterono la frase per tre volte e per tre volte si colpirono il petto. Poi Cronyos scivolò giù dal palco e guardò nella mia direzione. Il suo sguardo era una commistione di preoccupazione e apprensione, ma c’era anche qualcosa d’altro che si celava dietro le sue iridi misteriose. Sbirciai la sua aura senza che se ne accorgesse e mi stupii di ciò che vidi: Cronyos non si fidava affatto di me.

 

*La Fortuna teme i forti, mentre schiaccia i paurosi.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20- Devozione ***


Capitolo 20



 

Il Tempio in breve si riempì di fedeli e tutto lo spazio disponibile venne occupato da uomini, donne e bambini urlanti, stipati lungo una interminabile fila che si chiudeva solo una volta raggiunta la fine del declivio su cui era stato eretto il Tempio stesso. Aspettavano, pazienti e logorati, il proprio turno per salutare le salme e per regalare loro un ultimo fiore, un ultimo bacio. Era presente, oltre al cospicuo numero di fedeli che Sorella Dyana annoverava tra le sue fila, anche gran parte dell’Esercito, lasciato in congedo apposta per l’occasione. Tutti i militari indossavano la fascetta del lutto e avevano disposto le proprie katane ai piedi delle barelle su cui erano adagiati i corpi. Era una visione estremamente toccante ed al contempo atroce, qualcosa che fino ad allora non avevo mai visto. La madre piangeva sommessamente accanto al figlio defunto, la moglie teneva per un’ultima volta le mani pallide del suo compagno e la prole accarezzava il viso esangue del padre. Li osservai a lungo, cercando di partecipare al loro dolore con preghiere sommesse e parole di conforto. Cercavo di comprendere cosa significasse avere una voragine nel cuore, quale sofferenza implicasse andarsene dopo il proprio amato o prima di un figlio. Ma non ci riuscivo. Non riuscivo nemmeno a figurarmi un dolore così intenso. Mi limitai, perciò, ad offrire quanto avevo e quanto il mio ruolo di Custode mi concedeva.

-La vedova laggiù chiede se può avere un fiore-, mi chiamò Medeya, indicandomi una giovane donna dai lunghissimi capelli colore del rame. Sfiorava la mano del suo compagno con una dolcezza disarmante e i suoi occhi, asciutti per via della troppa stanchezza, vagavano senza posa lungo tutto il suo corpo, alla ricerca di un segno di vita o di un miracolo.
Non volevo andare da quella donna, ma non avevo scelta. Era mio preciso compito quel giorno tornare ad essere una Custode in tutto e per tutto, accudendo i fedeli e piegandomi ad ogni loro richiesta. Era così che aveva voluto l’Esercito ed era così che aveva voluto la Sacerdotessa.
Perciò mi incamminai in direzione della donna, la quale vedendomi arrivare si promulgò in un sorriso cortese. Ricambiai, poi le porsi uno splendido girasole dal mazzo di fiori adagiato nel cestino.
-E’ il simbolo della devozione-, le dissi, porgendole il delicato dono e posando una mano sulla fronte di suo marito. – Si dice che ere fa, quando ancora gli Dei abitavano su questa terra, una donna mortale ebbe la sciagura di innamorarsi del Dio più splendente di tutti, Apollyo, colui che dorme nel Sole. Ne era così innamorata che lo seguiva ovunque, accudendone i cavalli e ordinandogli il carro, aspettando che scendesse dal Sole quando faceva notte e accompagnandolo fin dove i suoi piedi mortali potevano arrivare al sorgere dell’alba. Tuttavia gli Dei non amano come amiamo noi umani. Il loro affetto è diverso, simile in tutto e per tutto a quello dei genitori verso la progenie. Quindi Apollyo non riuscì mai a contraccambiare l’amore puro e dedito della donna nella maniera in cui lei avrebbe desiderato. La giovane in questione, tuttavia, nutriva un sentimento di devozione talmente grande che, pur sapendo che non avrebbe mai potuto sfiorare il volto di Apollyo, quando giunse il giorno della sua morte pregò il Dio di trasformarla in un girasole, così da poterlo seguire per sempre-.
-E’ una storia molto bella-, mormorò la donna, adagiando il girasole fra le mani del suo giovane sposo. Poi sorrise amaramente: sapeva che quella era l’ultima occasione che aveva per salutarlo prima che la pira ne bruciasse i resti e consegnasse la sua anima agli Dei. Purtroppo per lei le cose non sarebbero andate come alla donna girasole della mia favoletta. Per lei la vita finiva lì, su quella barella assieme all’uomo che amava. La lasciai, quindi, a se stessa con la speranza che la mia storia avesse lenito almeno un po’ la sofferenza sanguinosa del suo cuore.
Ciò nonostante sentivo un peso premermi sulle costole mentre mi allontanavo, come se anche a me l’Esercito avesse strappato qualcuno dalle braccia, come se il mio cuore fosse stato calpestato dalla fila marciante di un Reggimento. Se mi fossi concessa il lusso di innamorarmi di un uomo, avrei saputo affrontarne la perdita? Istintivamente i miei occhi si mossero rapidi sulla folla accorsa e incontrarono lo sguardo spento di Fobos.
Era accanto ad una delle barelle. Sul lenzuolo dorato era adagiato un giovane magro e dal viso fanciullesco, con una spruzzata di lentiggini sul naso. Sembrava serenamente addormentato, con le mani incrociate sul petto e la medaglia al valore che riluceva colpita dalla luce.
Mi avvicinai a lui, silenziosa, e osservai la piega di dolore che le sopracciglia di Fobos avevano assunto. Percepivo la forza con cui stava serrando la mandibola e l’insistenza con cui i suoi denti si graffiavano.
-Vuoi un fiore per il tuo amico? -, domandai a bassa voce, porgendogli il cestino affinchè scegliesse il fiore che più gli piaceva. Inizialmente mi guardò perplesso, come fosse stato colto in fragrante a fare qualcosa di strano o bizzarro, poi sospirò e allungando le dita afferrò un tulipano nero. Era interessante come Fobos, fra tutti i fiori che avevo, avesse scelto l’unica specie ibrida.
- Era nel mio Reggimento-, mormorò, infilando il fiore tra le dita rigide e fredde del soldato. Lo guardò qualche istante, poi gli fece il saluto militare e, con gli occhi gonfi di dolore, tornò a concentrarsi su di me.  – Si chiamava Ektor. Avrebbe dovuto sposarsi il mese prossimo-.
Rimasi interdetta a fissarlo, mentre quello che avrei creduto un uomo senza cuore, abbassava lo sguardo e lo puntava sui propri anfibi.
-Mi dispiace molto-, risposi sinceramente, appoggiandogli una mano sul petto. Lui non si scostò né mi allontanò, anzi mi afferrò il polso e mi ringraziò a bassa voce.
-Ora torna ai tuoi doveri, Custode-, disse, infine, puntando gli occhi su qualcuno alle mie spalle che da lontano ci guardava. Mi voltai e notai che Iatro mi stava osservando.
Era vestito con un lungo saio viola, il colore del mistero divino, e le mani e i piedi gli erano stati dipinti di nero con della brace.
-Buongiorno, Iatro-, lo salutai, avvicinandomi con fare incerto. Mi ero dimenticata che anche lui, in base a quanto diceva il libro dei Figli del Vento, era un membro della setta.
-Buongiorno a te, creatura-, rispose con un sorriso contenuto.
Dovevo assolutamente trovare un modo per intavolare il discorso, per affrontare la questione senza sembrare irriguardosa e senza che orecchie indiscrete potessero origliare le mie parole. Scelsi di lanciargli un indizio, sperando che abboccasse. Cominciai, quindi, ad accarezzare l’orecchio dal cui lobo pendeva tintinnando la piccola libellula. Gli occhi del Guaritore seguirono le mosse delle mie dita e i suoi occhi guizzarono quando intravidero la forma aerodinamica dell’insetto volante.
-Vedo che le mie preoccupazioni erano infondate, dopotutto-, rise, osservando dritto davanti a sé.
-Che cosa vuole dire? Sapeva che avrei scelto questa strada? -.
Iatro annusò una splendida camelia, poi la lanciò nella polla, lasciando che le sue acque terse se la portassero via, sul fondo.
-Speravo di conoscere abbastanza la tua indole per poterlo prevedere. Sei una donna pragmatica, Astreya cara, avresti certamente scelto il partito migliore nel ventaglio delle possibilità-.
Mi guardai attorno, salutando alcuni commilitoni che come me un tempo erano stati uomini di Chiesa. Indossavano i loro umili sai ed erano disarmati, scalzi e con le mani giunte. Sembravano persone completamente diverse da come le avevo conosciute io.
-Perché mi ha chiesto di mantenere segreta la vera potenzialità del mio Dono? C’è qualcuno che devo temere? -.
Iatro si incamminò verso le colonne, laddove l’eco si smorzava e il silenzio troneggiava sovrano.
-E me lo chiedi anche? -, disse, dopo essersi assicurato che l’ombra dei pilastri ci oscurasse alla vista di potenziali nemici. Mi prese dalle mani il cestino e lo depositò a terra malamente. Poi mi afferrò la spalla e fece scivolare via la maschera. Il suo volto era consumato, gli occhi arrossati e le labbra screpolate: forse anche lui aveva perduto un ex-discepolo in quella oscura missione.
-Cosa sa che io non so? -, domandai con un filo di voce.
- So che quei soldati non dovevano trovarsi lì. So che sono stati presi di sorpresa durante il pasto serale. So che adesso c’è una enorme breccia nel Vallum e che la gente sta cercando di penetrarvi e arrivare al Settore Governativo-.
Quelle parole erano senza senso e davvero faticavo ad afferrarle. Mi appoggiai alla colonna alle mie spalle, nella speranza che il freddo della pietra mi rinfrancasse.
-Una breccia? Scusi, Iatro, ma non riesco ad afferrare-.
- Ti hanno detto perché hanno stanziato dei soldati sul perimetro del Vallum, quando a guardia della cupola ci sono già i Molossi? -.
La sua domanda nascondeva qualcosa di particolarmente oscuro.
-Ci hanno riferito che i cittadini erano in rivolta a causa della povertà a cui sono ridotti da anni. Sembrava una delle consuete manifestazioni di questo periodo. Pare che, tuttavia, stavolta il numero dei ribelli fosse alto e che questi avessero comprato delle nuove armi al Mercato Mauriano-.
Stavo ripetendo la versione che Eracleo mi aveva fornito, eppure nel pronunciarla, io stessa percepivo esserci qualcosa di sbagliato. Dei cittadini, seppur numerosi, avrebbero davvero potuto avere la meglio su dei soldati organizzati e addestrati alla guerra? Le armi comprate grazie ai predoni del Mercato Mauriano erano oggetti antichi, ritrovati sotto le sabbie del deserto al Sud, sulla punta estrema del confine Elladiano. Grazie a dei metal detector venivano prelevati sotto metri e metri di sabbia e venduti ai disperati che avevano bisogno di protezione o ai sediziosi. Le armi ormai non erano più costituite da materiali ferrosi, per cui sicuramente le armi acquistate dai ribelli dovevano avere più di cinquant’anni e di certo, inzaccherate dalla sabbia, avevano più probabilità di esplodere contro il cecchino che non sul bersaglio. Sospirai. Ciò significava che persino Eracleo mi aveva mentito. Non gliene facevo una colpa: era il suo mestiere mantenere top secret le sue missioni. L’Esercito voleva così e lui, in quanto suo membro, doveva rispettare la legge.
-Lo hai capito, vero? E’ tutta una montatura. Anche noi Figli del Vento ne sappiamo ben poco-.
- Crede che ci sia sotto un qualche complotto politico? -.
- Ancora non lo sappiamo. Le notizie che ci sono state fornite provengono tutte dai quartieri poveri. E’ certo che ci sia stata una rivolta e che l’Esercito sia intervenuto per sedarla. Tuttavia, nonostante i nostri infiltrati nel Reggimento dei Segugi siano dei vecchi lupi e stiano lavorando instancabilmente, abbiamo ottenuto poche risposte. I cittadini sono recalcitranti a parlare e nessuno ha voluto spiegarci come è stata aperta quella feritoia nel Vallum. In più pensaci bene, i sediziosi sono così poveri e male istruiti che non sarebbero mai riusciti a contrattare con i Mauriani e uscirne vivi. Non hanno nemmeno le forze e i mezzi per raggiungere il Deserto. Qualcuno li deve avere aiutati. Per forza-.
- Il Governo non parla? -, domandai, rosicchiandomi preoccupata l’unghia del mignolo. Era qualcosa che facevo solo quando ero davvero sul punto di scoppiare. La paura mi avvolgeva le membra e l’angoscioso incubo di un imminente conflitto mi serpeggiava per tutta la colonna vertebrale come un millepiedi urticante.
-Il Governo è barricato dentro alla sua Sede. Non mette il naso fuori da giorni. Il Reggimento del Sole non si aspettava un attacco di queste proporzioni e quei giovani soldati sono ormai rammolliti da anni di banchetti e turni brevi: il massimo che hanno potuto fare è stato portare in salvo i membri del Governo-.
- E i Molossi? -, chiesi, ricordandomi improvvisamente di quei bestioni.
-Disattivati. Sono caduti a terra come pere e ora i cittadini li stanno smembrando per le strade alla ricerca di pezzi di valore da rivendere-.
Come era possibile? I Molossi erano degli enormi robot, alti almeno tre metri, con uno scheletro di titanio anodizzato, e una muscolatura composta da diversi materiali, di cui un rivestimento in pre-impregnato di fibre di carbonio Erano intelligenze artificiali molto sveglie, create dalle migliori menti ingegneristiche al mondo, e in grado di gestire qualsiasi situazione, di utilizzare le armi e di trasformarsi loro stessi in un’arma. Non potevano essere disattivati da nessuno, se non dai membri del Governo.
-Ma non ha senso! -.
Gli occhi di Iatro brillarono come diamanti nella penombra del colonnato. Aprì la bocca e un sorriso inquietante gli si dipinse sul viso.
-E invece ha senso… Sai chi fa parte del Concilium Governativo? -, mi chiese, e io, febbricitante, scossi con energia il capo.
L’uomo fece, quindi, per parlare, ma la sua lingua si fermò a metà, riavvolgendosi su se stessa, e la maschera ritrovò rapidamente posto sul suo viso.
-Buongiorno, Stratega! -.
Mi voltai appena e mi ritrovai gli occhi di Cronyos puntati addosso, fissi sulla mia nuca. Lo salutai rispettosamente mentre i suoi occhi gelidi mi scannerizzavano il viso, alla ricerca di qualcosa. Non lo avevo nemmeno sentito arrivare. Sorrisi e lasciai che Iatro e l’uomo si scambiassero i soliti convenevoli.
- Mi scuso per il disturbo, ma la Sacerdotessa richiede la sua presenza. Ci sono dei soldati feriti che vorrebbero uno dei suoi cataplasmi per il dolore. Pare funzionino meglio degli antidolorifici, per qualche strano motivo-.
Iatro annuì, teso, e si allontanò, lanciandomi un’ultima disperata occhiata.
-Custode, di cosa stava parlando con il Guaritore? Spero che non abbia divulgato informazioni riservate dell’Esercito. O forse stavate discutendo del suo piccolo crollo di nervi? -.
Il suo tono era piatto e monocorde, ma tutto il suo fisico era rigido e contratto. Mi sembrava di avere di fronte una montagna invalicabile. Una gocciolina di sudore mi scivolò lungo la schiena, gelandomi la pelle.
-Sì, parlavamo della mia crisi. Non riesco a capire a cosa sia dovuta-, tentai, fingendomi preoccupata.
- Può succedere. Anche i soldati migliori sotto pressione esplodono-, commentò, mentre il suo sguardo abbracciava tutti i fedeli e i soldati presenti attorno alla polla, a qualche metro da noi.
-Non ricapiterà. Sono convinta che allenarmi con Fobos sia stata la scelta giusta. Siamo simili-.
Cronyos arricciò le labbra e corrugò la fronte. – Simili? Quel ragazzo ha ben più che semplici scatti di nervi. Assume così tante droghe da essere più nervoso di un cavallo. Ma se il suo appoggio può esserti utile…-.
Con l’indice e il pollice afferrò un ragno che scivolava indisturbato sulla colonna alle mie spalle. Lo osservò intensamente, studiando le zampette arcuate, il corpo tozzo e le tenaglie appena sotto gli occhietti lucidi.
-Peccato che da settima prossima, anche Fobos entri in servizio-, mormorò mentre un sorriso aguzzo gli illuminava il volto. Cominciai ad annaspare in cerca di aria, senza nemmeno saperne il motivo. Fobos sarebbe partito per andare al Vallum. Potevo avanzare la richiesta di poter partire con lui? Non volevo che mi lasciasse indietro. Non volevo vederlo assolutamente tornare su una barella. Non potevo pensare di finire come quella donna, distrutta e affranta per il resto della mia vita.
Istintivamente cominciai a guardarmi attorno per vedere dove fosse finito l’Ibrido, Non lo vidi e il livello di angoscia salì ulteriormente.
-Non ti preoccupare per il Generale. Ha combattuto molte battaglie e se l’è sempre cavata-, commentò Cronyos, prima di premere con forza le dita e spappolare il piccolo corpo dell’aracnide.
-Ho sempre odiato gli insetti-, bisbigliò poi, le iridi sazie del sangue dell’animale.

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Capitolo 22
*** Capitolo 21- Medicamenta ***


Capitolo 21


Finalmente riuscii a trovarlo. Se ne stava in piedi di fronte alla pira ormai spenta, mentre il lento incresparsi delle onde trasportava a riva le ultime lanterne aranciate. C’era profumo di incenso e mirra nell’aria e le lucciole rischiaravano il blu profondo delle acque.
-Fobos! -, gridai, lanciandomi verso di lui e afferrandomi alla manica della sua giacca. Mi facevano male i piedi e sentivo le ginocchia tremare. Avevo corso per tutto il tempo, zigzagando tra un volto famigliare e l’altro alla ricerca degli occhi del lupo. Ed ora eccoli lì, di fronte a me, che guardavano le ceneri di una vita che ormai non c’era più.
-Fobos, che ci fai ancora qui? -.
L’Ibrido si voltò nella mia direzione, con estrema lentezza come se muovere il collo gli costasse un immenso sforzo. In quel momento mi pareva distante mille anni luce da me, come se stessimo cercando di comunicare da due pianeti diversi.
-Dovresti tornare in Accademia. Fa freddo-, commentò pacatamente, mentre una densa nuvoletta di vapore gli fuoriusciva dalle labbra.
-Quando pensavi di dirmi che verrai spedito al Vallum? -.
Non ero riuscita a trattenermi. Sentivo le guance arrossate e sferzate dal vento freddo, la lingua intorpidita e la vista oscurata da mille macchioline colorate. Non riuscivo davvero a credere di aver corso così tanto per cercare una persona che evidentemente non voleva nemmeno vedermi.
-Non pensavo affatto di dirtelo-, mormorò.
Mi diede le spalle, facendo qualche passo in direzione del limaccio sulla spiaggetta. Gli anfibi sprofondavano nel fango, nonostante la risacca cercasse di lavarli ad ogni passaggio.
-Stai scherzando, vero? -, sputai fuori, avvelenata. Non sapevo perché ma il suo trascurarmi mi faceva innervosire e intristire allo stesso tempo. Tolsi i sandali e lo raggiunsi vicino alla sponda del fiume. Mi aggrappai al ramo di un albero precario e sollevai la veste fino alle ginocchia per evitare di sporcarla. Era bianca e impalpabile come la lieve foschia che aveva cominciato ad aleggiare ad un nonnulla dallo specchio delle acque. Fobos seguì con la coda dell’occhio i miei movimenti, indugiando per un attimo di troppo sul colorito lunare delle mie gambe sottili e dalle caviglie strette. Poi tornò nuovamente a fissare di fronte a sé.
-Non scherzo mai, matricola. Dovresti saperlo-.
-Non puoi andartene-.
Fobos rise appena, spaventando un gufo che con i suoi occhioni giallo limone ci spiava dalla cima di una betulla spoglia e contorta. Vidi gli aguzzi denti sfiorargli le labbra e il naso arricciarsi appena.
-E cosa dovrei fare? Ignorare gli ordini? -.
-Dovresti portarmi con te-, chiarii seria. Non poteva lasciarmi indietro. Noi avevamo un Debito ed ero intenzionata a farglielo rispettare che lui lo volesse o meno. Volevo scoprire cosa stesse accadendo al Vallum, quale segreto si celasse dietro alle parole di Iatro e chi fosse quel membro del Concilium di cui non avevo ancora scoperto il nome. E poi c’era quella parte di me che non voleva lasciare Fobos, che voleva trattenerlo per qualche inspiegabile motivo.
-Non se ne parla. Questa è una faccenda seria-.
-Anche io sono seria-, rimarcai. –Noi abbiamo un Debito-.
Fobos sollevò il viso, lasciando che la Luna gli baciasse il volto e lo illuminasse di una luce quasi magica.
-Sei fin troppo testarda. Allora, mettiamola così. Se ti portassi con me, non faresti altro che rallentarmi. Dovrei continuamente proteggerti e mi distrarresti dalla missione. Non potrei fare un passo senza controllarti, non un respiro. Vuoi davvero che ciò accada? Vuoi che muoia? -.
Non risposi. Non avevo mai pensato che potessi essere un peso per Fobos, non dopo che mi aveva presa con sé come sua allieva. Pensavo avesse visto anche solo un accenno di potenziale in me, una scintilla di talento, e invece ora scoprivo che ero soltanto un fastidio.
-E va bene, non rispondere. Non ce n’è bisogno-, aggiunse lui, con voce amareggiata.
Non è che non volessi rispondere, è che non ci riuscivo. Sentivo del filo spinato nella gola e dei chiodi sulla lingua. Indietreggiai, senza dire una parola, infilando i sandali e facendo ridiscendere la veste fino a sfiorare la terra. Non mi importava cosa dicesse Fobos, io di certo sarei partita con lui. Mi sarei iscritta anche all’albo dei disertori se fosse stato necessario.
-Me ne vado. Buona fortuna per la missione. Se non ci vedremo al prossimo allenamento, saprò che sei partito-.
Le parole fuoriuscirono come ghiaccio dalle mia labbra, ustionanti eppure così fredde da sconvolgere persino me stessa. Sentii i passi di Fobos alle mie spalle. Avanzava nella mia direzione con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni.
-Non fare così-, disse poi, raggiungendomi e affiancandomi. Evitai il suo sguardo e sollevai il mento con sfrontatezza.
-Non faccio proprio nulla. Ci si vede-, dissi ponendo la mano sul petto come un qualsiasi soldato alle sue dipendenze. In fondo era questo il messaggio: io ero uguale a qualunque altra matricola, non importava che i nostri occhi fossero così simili.
- Ci si vede-, ripeté Fobos, abbassando il viso al mio livello. Vidi i suoi capelli scivolarmi sopra il capo e oscurarmi la visuale come una pioggia di smog. Poi le sue labbra sfiorarono appena la mia fronte increspata dalla frustrazione. Spalancai gli occhi e rimasi pietrificata, mentre l’Ibrido risaliva a lunghi passi la collina.

 

 

 

-Questa sarebbe la sua richiesta? -.
Gli occhi di Cronyos si illuminarono e le pupille si restrinsero fino a diventare come le capocchie di uno spillo.
Annuii, statuaria e con la mano sul cuore mentre accanto a me Galeno faceva lo stesso.
Eravamo stati tutte e due convocati nell’ufficio dello Stratega dopo la richiesta che avevamo avanzato. L’idea era stata mia, ma Galeno mi aveva sin da subito appoggiata.
-Quindi voi ritenete di poter costruire in loco dei sistemi di rinforzo della breccia? E’ questo che mi state dicendo? -.
Intrecciò le dita di fronte al volto, con aria meditabonda. Probabilmente dubitava di noi e ne aveva assolutamente ragione. Almeno per quanto riguardava me.
-Il nostro scopo è evitare che ci siano ulteriori attacchi visto che il Vallum ora è difeso solamente da uomini. Che ci riusciamo o meno, poco conta. L’importante è fare vedere ai sediziosi che si sta già operando per arginarli. Senza contare che degli uomini in più possono solo che aiutare in queste situazioni. Possiamo, inoltre, provvedere a recuperare i pezzi dei Molossi prima che vengano intercettati dal Mercato Mauriano e sfruttarli per delle nostre creazioni-.
La voce di Galeno tremava appena. Era un uomo pacifico e quieto, per nulla intenzionato a sfidare le alte sfere e con un profondo timore per chiunque avesse chiuso fra le mani il suo Destino. Non potevamo essere più diversi. Guardai Cronyos dritto negli occhi, sforzandomi per quanto potevo, di sembrare nel pieno delle mie capacità. Era il momento di giocarsela, di dimostrare al mondo che razza di guerriera io fossi.
Sorrisi e appoggiai sulla scrivania dello Stratega l’Olomaker, un banale apparecchio in grado proiettare qualsiasi documento, immagine o video in tre dimensioni. Questi si sporse in avanti osservando un’ampia panoramica del Vallum e dei suoi quartieri esterni. Con il dito avvicinai la visuale e, con un risucchio di fronte ai suoi occhi, si materializzò la breccia.
-Solo un’ultima cosa-. I miei occhi luccicarono, mentre mordevo l’interno delle guance. Quella era l’ultima spinta. Sapevo che Cronyos attendeva solo di vedere di cosa fossi capace per poi tramutarmi in un’arma a suo vantaggio. Perciò, lanciata l’esca, dovevo solo aspettare che il pesce abboccasse.
- Sono in grado di creare degli scudi energetici, sfruttando la materia e la mia bioenergia. E’ qualcosa che ho appreso al Tempio e ora credo possa tornarci utile. Se ci fosse un attacco potrei facilmente evitare che ulteriori nemici attraversino la feritoia minacciando la salute del Governo-.
- Questo non è un potere che dovrebbero manifestare soltanto le Silvane? -.
 Inspirai: qui me la giocavo del tutto. Stavo per rivelare il mio segreto più grande, quello che persino Iatro mi aveva chiesto di tenere per me. Era la scelta giusta? Non potevo saperlo, ma dovevo tentare.
-Sono in grado di fare quasi tutto quello che fanno le mie compagne, e non solo le Oscure. Ho una capacità di apprendimento innata per la magia-.
Non aggiunsi altro per evitare che la situazione portasse Cronyos in vantaggio e me in svantaggio.
Vidi l’uomo riflette, mentre un lieve sorriso gli piegava gli angoli della bocca. Credo di sapere cosa stesse pensando in quel momento. Lui sapeva già tramite la Sacerdotessa che io ero una Polivalente, forse conosceva persino il mio passato. C’era un accordo fra loro, lo avevo capito fin dal primo giorno in cui li avevo visti assieme. C’era una luce di intesa nei loro occhi, una luce che sembrava urlare alleanza.  Quindi, se Cronyos sapeva di me fin dal principio, ma aveva taciuto, era perché sperava che fossi io stessa a rivelarmi. Solo allora avrebbe potuto dire che ero sua, che mi aveva ammaestrata e che mi ero trasformata in uno dei suoi fedeli cani.
-Che ne pensa? -, dissi infine, rendendo il mio tono di voce il più servile possibile.
-Credo che lei e Galeno dobbiate assolutamente partire. Dispongo che con voi venga metà del Reggimento dei Biotecnici. Come pensate di spostarvi? I carri e le camionette disponibili sono state tutte assegnate ai Ruggenti-.
Era chiaro che voleva testare la nostra preparazione. In quanto soldati dovevamo essere in grado di calcolare rapidamente le variabili della situazione, non indulgere in distrazioni inutili e fornire una soluzione a problemi che nemmeno ci eravamo posti. Grazie agli Dei, avevo una mente scattante e dinamica.
-Le moto-, dissi, prima che Galeno ci facesse fare la figura degli incompetenti. - Il Reggimento dei Segugi è quasi totalmente presente in Accademia e non ha alcuna missione in attivo. Potremmo prelevare i loro mezzi. A maggior ragione, essendo più veloci, in caso di un attacco da parte dei Mauriani, potremmo facilmente difendere le camionette con le armi e il combustibile, oltre che i convogli dei viveri-.
-Credo che abbiate pensato a tutto. Vi do il via libera-.
Esultai interiormente. Poi guardai Galeno e con gli occhi gli feci segno che era ora di andarsene.
-Ah, Custode-, disse Cronyos poco prima che varcassimo di nuovo le porte del suo ufficio.
-Mi dica…-.
-Lei sarà a capo della missione. La chiameremo Operazione Medicamenta ed avrà codice arancione. Partirete entro due ore. -
Annuii, seria. Poi finalmente evasi dalla sala circolare assieme a Galeno, tirando un enorme sospiro di sollievo. Mi sentivo euforica e soddisfatta. Non solo ero riuscita a farmi mandare in missione con Fobos, ma addirittura ero stata messa a capo di un’Operazione. Non vedevo l’ora.
-Sei stata molto brava, davvero…-, mormorò Galeno dandomi una sonora pacca sulla schiena. Era veramente ammirato e camminava ad un passo dal suolo. In effetti, mi aveva rivelato che erano anni che non veniva mandato in spedizione, a causa del troppo lavoro nei laboratori. Si era dimenticato come era il mondo là fuori ed era rimasto intrappolato in un mondo fittizio di provette, alambicchi e Cavallette. Ora finalmente poteva tornare sul campo, scoprire come era andata avanti la Terra senza di lui e finalmente scorgere di nuovo quei piccoli miracoli della civiltà che lo avevano spinto a intraprendere quel lavoro.
-Vado a prendere un po’ di tamponi, attrezzature e provette. Poi riferirò ai ragazzi che verranno stanziati. Ne saranno felici-.
Annuii con un sorriso, poi Galeno si congedò da me con il saluto militare. Mi parve una cosa molto strana essendo lui un mio superiore, ma forse, ora che ero al comando di una missione, potevo dettare le mie leggi.
Mentre ero immersa nei miei pensieri, Dyte mi superò a passo svelto, il volto serio e una teca piena di esoscheletri alle sue spalle. Sembrò non notarmi e dovetti chiamarla più volte prima che si voltasse.
-Scusami, Astreya, ma ero assorta nei miei pensieri. I preparativi ci stanno prendendo molto-.
Dyte era l’unica fra le Custodi ad aver scelto il Reggimento dei Ruggenti. Non aveva avuto tentennamenti sul momento, né remore a posteriori. Si era perfettamente calata nel ruolo di soldato e, se non l’avessi conosciuta prima, avrei certamente detto che una donna del suo calibro e della sua tempra non avrebbe mai potuto essere una Custode.
-Rallenta. Cronyos ha dato nuovi ordini. Ci uniamo anche noi alla missione-, mormorai, attendendo di scoprire che tipo di reazione avrebbe avuto. Per tutta risposta, Dyte, la Custode sempre distante e di malumore, si allungò per abbracciarmi e ridacchiò felice.
-Sapevo che prima o poi avresti tirato fuori le palle! -.
Risi anche io: era sempre così diretta che era impossibile offendersi per le sue considerazioni.
-Immaginavo avresti apprezzato. Mi hanno messo a capo dell’Operazione Medicamenta, un’azione a vostro supporto. Cronyos ci farà avere le moto tra qualche ora, perciò non abbiate fretta e preparatevi con la dovuta calma-.
Dyte sollevò la mano e la appoggiò al petto. Vedevo di nuovo quella luce nei suoi occhi, la stessa che avevo visto quando, finalmente libera dal Tempio, si era rasata i capelli da sola.
Le risposi lievemente imbarazzata, poi mi allontanai per sbrigare le ultime faccende. Dovevo essere metodica e fare una check list di ciò che dovevo portare e ricordare. La prima voce del mio elenco era certamente salutare Aracne. Fu più difficile del previsto perché la donna, quando seppe che sarei stata stanziata al Vallum, scoppiò a piangere, pregandomi di ripensarci e di rimanere lì al sicuro. Non pretendevo che capisse il desiderio da cui ero spinta, quell’anelito all’avventura e alla conoscenza che mi pressava, ma davvero non potevo attendere la fine dei miei giorni là dentro, tra ghiaia e allenamenti. Per cui alla fine la Tessitrice dovette arrendersi, abbassando il capo e stringendomi le mani.
-Ricorda l’immagine che ho intessuto. Voglio che ti rimanga bene di fronte agli occhi-, sussurrò, socchiudendo le ciglia e fissando la pallida cicatrice che Upokrates mi aveva disegnato sul polso al momento dell’inserimento del chip.
-Lo farò. A presto, Aracne-, la salutai e schizzai via per i corridoi. Non avevo nessun altro da salutare ad eccezione di Eracleo. Lo vidi seduto a uno dei tavoli del refettorio, ma non riuscii a muovere nemmeno un passo nella sua direzione. Se gli avessi detto cosa avevo fatto, quale contorto piano avessi organizzato, certamente non solo mi avrebbe rimproverata, ma avrebbe tentato di fermarmi.
Quindi, decisi di non accomiatarmi da lui e, rapida, uscii nuovamente dall’edificio, dirigendomi verso il blocco dell’armeria. Al suo interno, fra teche e teche di armi, Galeno, sopraggiunto assieme a Deimos, stava leggendo le disposizioni di Cronyos. A quanto potevo vedere saremmo stati più che armati. Due katane ultra leggere da schiena, due piccole pistole da fondina e aghi avvelenati, questi ultimi generosa donazione dei Segugi.
-Astreya! -, mi chiamò Deimos, facendomi segno di avvicinarmi a loro. Li raggiunsi a grandi passi, guardando a destra e sinistra il continuo via vai di soldati. Sembravano tutti eccitati, persino chi doveva solo aiutare a spostare le moto o armare i carri.
- Sono molto fiero di lei. Lo Stratega mi ha messo al corrente della sua brillante idea-.
-Grazie, ma devo tutto alla disponibilità del qui presente-, ammisi, indicando con l’indice l’uomo accanto a me, imbarazzato.
-Ad ogni modo sono contento che ci affiancherete. Siamo più tranquilli così-.
Sorrisi, provando una katana dal filo rosso e lucente. Era meravigliosa, con un manico intarsiato da fiori di ciliegio neri e una sutura color rubino che ne sigillava la guaina rivestita di seta.
-Posso avere questa? -, chiesi, calamitata dalla bellezza di quella spada, così diversa da tutte le altre armi in quel bunker. Un po’ come me.
-Certamente. Le consiglio, inoltre, di pensare alla distribuzione di uomini e carri con il capo dell’Operazione Diga-.
- E chi sarebbe? -, domandai febbricitante, mentre attendevo che i due mi dessero una risposta. Purtroppo non ce ne fu bisogno, perché il capo operazione si presentò per conto suo, in maniera del tutto anomala e molto colorita.
-Che cosa ci fai tu, qui? -.
Non appena udii la voce, alzai gli occhi al Cielo. Perché a me? Perché?!
Fobos era sopraggiunto alle nostre spalle come un ninja silenzioso. Indossava uno degli Esoscheletri di proprietà dell’Esercito e con quello addosso sembrava davvero un mostro. Era molto più imponente e sinistro, rafforzato da una tuta in Kevlar con inserti metallici e un’imbracatura a forma di costato stretta attorno al torace.
-Sono il capo dell’Operazione Medicamenta, di supporto alla vostra-, risposi seria, osservando con sempre maggiore apprensione il tipo di scheletro che Fobos indossava. Sembrava molto più pesante rispetto alle altre tute sostenitrici e il volto del giovane era imperlato di sudore. Non doveva essere una passeggiata muoversi con quella cosa attaccata, anche perché per farla funzionare a comando cerebrale, bisognava che gli aghi lungo il sostegno della schiena penetrassero a fondo nel midollo, sfruttando il cervelletto e lo spazio fra le vertebre. Pensai alla schiena del bambino che avevo visto nella mia visione e mi chiesi se ora fosse ricoperta di cicatrici.
- Impossibile-, disse Fobos semplicemente, spostando gli occhi da Galeno a Deimos e viceversa.
Nessuno era intenzionato a rispondergli, forse erano spaventati all’idea che l’Ibrido potesse dare fuori di matto. Quindi ci pensai io.
-Possibile, invece. In ogni caso credo che la soluzione migliore per il viaggio sia disporre un gruppo di biotecnici che funga da avanguardia e tenga sotto controllo l’eventuale comparsa di nemici. Inoltre, dovremmo prendere in considerazione anche una retrovia e a questo proposito proporrei che sia Galeno, appoggiato da cinque uomini almeno, ad occupare quella posizione. Essendo vicino ai carri, nel caso di guasto o qualsiasi inconveniente, potrà rendersi subito disponibile alla riparazione o comunque sarà vicino alle attrezzature necessarie-.
Deimos mi guardava con gli occhi sgranati, mentre Galeno sorrideva sotto i baffi. Mi sentivo sottovalutata: pensavano che avessi dormito durante gli allenamenti? Avevo seguito tutto nei minimi dettagli, avevo preso appunti e fatto persino degli schizzi. Dovevo prepararmi ad un momento come questo. Dovevo dimostrare di essere non solo un donna capace, ma anche un soldato insostituibile.
-E per i fianchi cosa consiglia? -. Deimos era intervenuto per darmi una mano, essendosi accorto dello sguardo furioso che Fobos mi stava indirizzando. Era impossibile non notarlo: le sue iridi incendiarie riflettevano il mio volto, stritolato da un mare di odio.
-Non abbiamo uomini a sufficienza per coprire i fianchi, ma siamo abbastanza veloci da raggiungerli in caso di attacco. Propongo quindi che le camionette trasportanti i membri del Reggimento dei Ruggenti si dispongano a triangolo, una figura che consentirà ai gruppi dietro di tenere sotto controllo quelli di fronte a loro, senza lasciare sguarnita di uomini la sezione di Galeno-
-E tu, donna, dove starai? -, sibilò Fobos, facendo fischiare l’aria fra i denti.
-Io mi disporrò a capo dell’avanguardia, a qualche chilometro da voi, così in caso di attacco, sarò in grado di creare uno scudo energetico-.
Deimos e Fobos mi guardarono confusi, poi l’Ibrido scoppiò a ridere di gusto.
-Prima di tutto devo ancora riuscire a figurarmi la tua persona che guida una moto, e seconda cosa, scudi energetici? Fai sul serio? -.
Sollevai un sopracciglio irritata, ma per quanto volessi strozzare Fobos, non potevo fare altro che comprendere le sue perplessità. Mi decisi, allora, a raccontare la stessa solfa che avevo rifilato a Cronyos. Deimos sembrò convinto alla fine del mio discorso, mentre l’Ibrido pareva decisamente più perplesso di prima.
-Non mi importa se sai fare le bolle o sparare onde dal culo, quello che so è che non ti voglio lontana da me-.
Galeno si intromise subito, prendendo le mie difese: - Scusi, Generale, ma non credo che Astreya sia un pericolo per noi. Ha mostrato attaccamento alla causa e di certo ha conquistato il favore dello Stratega-.
-Senta, Galeno-, lo interruppe Fobos, puntandogli un dito contro il petto e guardandolo dall’alto al basso con un’espressione minacciosa. – non so come funzioni dalle sue parti, ma dalle mie non si lascia in cima alla piramide una matricola appena svezzata. Tempo cinque secondi e ci ritroveremo il suo cadavere sotto le ruote-.
Deimos annuì serio. Per quanto poco ortodosso, il discorso di Fobos era stato più convincente del previsto. Peccato che io non volessi assolutamente mollare l’osso.
-Non ho intenzione di rimanere nella sua ombra, Generale. Non sono una bambina e nemmeno più una Custode ormai; non ho bisogno di attenzioni particolari. E sono certa che il mio cadavere non rotolerà da nessuna parte senza un buon motivo, non si preoccupi-.
Di fronte a tanta veemenza anche Fobos poteva fare ben poco. Mi seguì con lo sguardo finchè non fui fuori, là dove mi attendeva una lucida moto costituita da celle fotovoltaiche azzurro cobalto. Ne accarezzai il profilo sinuoso e ne studiai le possenti ruote intagliate. Veicoli del genere non li avevo mai guidati se non all’interno di vaghe esercitazioni generali, ma ero convinta che io e quell’ammasso di tecnologia avremmo avuto un buon feeling. Sorrisi e mi sistemai le katane sulle spalle; quella rossa come i rubini la lasciai esterna cosicché mi distinguesse da qualunque altro soldato. Poi montai sulla moto, posizionando le mani e sentendo il manubrio scricchiolare sotto ai guanti in pelle. Era una sensazione di indipendenza e libertà che non avevo mai provato e il mio mostro se ne stava abbeverando smanioso, come fosse la dolce ambrosia degli Dei. Feci girare le chiavi e la moto cominciò a vibrare sotto di me, famelica e pronta a divorare la strada. Il suo rombo, nonostante si nutrisse di elettricità, era meraviglioso e il calore che irraggiava dalle celle mi fondeva la testa come fosse una droga.
Mi mancava soltanto il casco da calzare, perciò cominciai a raccogliere i capelli e a intesserli in una treccia più stretta del solito. Infine, posizionai la sciarpa che mi avrebbe protetta dal vento e dal pietrisco, e sopra vi adagiai quella specie di elmo.  
-Sei una stupida-.
Fobos mi aveva raggiunto e aveva posizionato le mani sul manubrio del veicolo, proprio di fronte a me. Indossava ancora quella mostruosità e la sua voce fremeva di rabbia. Eppure la sua aura era di un annichilente giallo paglierino. Il colore della paura.
-Non puoi essere seria! Lo vuoi capire che là fuori tutti questi uomini dipendono da me?! Non potrò starti dietro! Non potrò proteggerti! -.
Mi sorpresi e per poco la moto non mi scivolò fra le mani. Fobos era in panico.
-Lo vuoi capire che anche io sono un soldato? -, mormorai, mentre gli occhi cupi di Fobos scivolavano lentamente attraverso la visiera iridescente del casco e mi trapassavano il cuore.
-Spero tu sappia quello che fai…-, si limitò a dire. Poi le sue nocche lentamente si rilassarono, le sue mani mollarono la presa e tutto il suo corpo si spostò a lato, lasciandomi libera. Di fronte a me vedevo i Reggimenti schierarsi nella posizione che avevo suggerito, trepidanti e smaniosi di gloria. Vedevo il cancello aperto e le strade della mia città snocciolarsi tortuose come un miraggio di libertà e redenzione. Vedevo la mia via di fuga da tutto, persino da me stessa.
-Fobos-, chiamai, e vidi il volto del ragazzo girarsi appena, mentre raccoglieva i capelli in una lunga coda morbida.
-Non ti sarò di peso. Ti renderò orgoglioso di me-.
Il volto di Fobos si deformò appena, mostrandomi un’espressione che non pensavo i suoi lineamenti potessero assumere. Era sorpreso e in qualche modo lusingato. Intravedevo un lieve rossore arrampicarglisi dal collo fin sulle orecchie, nonostante la sua espressione contenuta, cercasse di spegnerlo.
-Sei arrossito-, ridacchiai, assaporandomi la vendetta.
 Lui digrignò i denti facendo scricchiolare gli anellini. Poi, raccolta tutta la sua autostima perduta, se ne andò imprecando, con una sigaretta fra le labbra.

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Capitolo 23
*** Capitolo 22- Benzina ***


Capitolo 22

Arrivammo in vista del Vallum la sera tardi. Il sole stava declinando dietro il profilo della città facendo rilucere gli edifici di un color grigio spento. C’erano case ovunque, arroccate sulle montagne brune e direttamente a ridosso della cinta muraria. Erano fatte di pietra e ricoperte da un sottile strato di sabbia rossa. Non sembravano edifici moderni, ma le antiche vestigia di una civiltà anteriore. Ci spostammo rapidi per le viuzze, mentre gli abitanti del posto ci scrutavano curiosi, ma timidi da finestre e crocicchi.
-Non sono abituati a vedere così tanti soldati-, mormorò Deimos, giungendo a piedi accanto alla mia moto. Tolsi il casco e sciolsi i capelli, assaporando la sensazione del fresco della notte sulla pelle bollente. Era pieno inverno, eppure, lassù a Nord, di fronte al Vallum, faceva un caldo incredibile.
- Meglio che capiscano chi comanda-, rispose un uomo sulla quarantina con dei corti capelli ricci e due occhiaie blu livide. – Io sono il Generale Achileos, piacere di conoscerla, Astreya-, disse poi, allungando una mano e posandosela sul petto. Annuii distrattamente mentre i miei occhi si spostavano sull’enorme breccia di fronte a noi. Era una sorta di gigantesca crepa in cui il vento ululava e dove le correnti di aria creavano mulinelli e risucchi. C’erano delle guardiole di fortuna posizionate ai lati della feritoia e alcuni uomini in divisa che le presidiavano. Dovevano essere membri del Reggimento del Sole a giudicare dal colorito nauseato dei loro volti e dalle occhiate impaurite che ci lanciavano.
-Sarà uno spasso-.
Fobos mi passò accanto con la katana appoggiata alla spalla destra. Sorrideva divertito e, in fretta, si stava dirigendo verso i militari. Parcheggiai la moto a lato della strada, accanto a quella di Galeno. Poi a passo svelto raggiunsi l’Ibrido.
- Sentite, sgomberate in fretta. Da adesso prendiamo noi il comando-, lo sentii dire serio. Mai avrei pensato che quei soldati avrebbero ceduto così facilmente e, invece, qualche insistenza più tardi, si stavano già ritirando all’interno della cupola, in una galleria esplosa di cavi elettrici e spie spente.
-Hanno fatto un bel danno-, mormorai, scostando un cavo con il gomito.
 - E’ vero. Non ho mai visto un’esplosione di queste proporzioni-, ammise Galeno, comparso dal nulla al mio fianco. Studiava estasiato il disastro che lo circondava, attento a non calpestare i detriti e i piccoli frammenti di cavi che si trovavano nascosti sulla pavimentazione mezzo annerita.
- E’ evidente che i Mauriani li abbiano appoggiati. Questo genere di armi non può essere venduto a normali cittadini-, commentò perplesso Fobos, mentre la placca metallica che aveva sul braccio si accendeva rivelando un display. Glielo vidi maneggiare con un paio di tocchi e poi sulla patina lucida dello schermo comparve una carta geografica. Con una piccola x rossa erano segnati due luoghi. Mi avvicinai all’Ibrido, raccogliendo i capelli da un lato e osservando con lui quei segni. Le mete destinate erano il Deserto del profondo Sud e il Vallum stesso.
- C’è parecchia strada da fare per raggiungere il Deserto, da qui. E a ben vedere, questa gente non mi sembra affatto in grado di sostenere un simile viaggio. Inoltre le strade che portano da qui a quell’inferno di sabbia, sono battute dai Gyps. Non credo che questi poveracci abbiano abbastanza denaro per convincere quegli accaparratori a farli passare-.
Fobos era acuto come al solito. Io quelle considerazioni le avevo sentite da Iatro, un uomo fatto e finito con una lunga carriera alle spalle e un cervello decisamente brillante, non da un giovane ancora nel pieno dei suoi vent’anni. Capii subito perché era riuscito a diventare Generale prima dei trenta: il suo era un ragionare meticoloso e scrupoloso, oltre che raffinato come un setaccio per la farina.
-Bisognerebbe interrogare i cittadini, per sapere qualcosa. Con metodi meno ortodossi sono certo che canterebbero come merli-, commentò Achileos, già pregustandosi la scena. Tuttavia, dovetti bloccare questo suo famelico desiderio sul nascere.
-Non siamo qui per torturare delle persone innocenti, fino a prova contraria. Siamo qui per proteggere il Vallum. A meno che non ci giungano ordini diversi da Carthagyos, noi qui ci limiteremo a condurre la missione secondo le linee generali prestabilite-.
Deimos e Fobos annuirono persuasi, mentre Galeno, immobile, si perdeva tra quella marea di fili elettrici che brillavano come fuochi d’artificio sopra le nostre teste.
-Scusate se vi interrompo-, disse poi il Biotecnico –Ma credo che se non ci sbrighiamo, questi cavi scoperti potrebbero creare un’esplosione senza pari-.
Deimos impallidì e Fobos digrignò i denti.
-L’elettricità dovrebbe essere stata staccata-, commentò l’Ibrido avvicinandosi a Galeno e osservando con lui le fascette che stringevano gli enormi serpentoni di PVC lì attorno.
In effetti sin da quando eravamo arrivati, c’eravamo accorti che la Cupola era stata disattivata, probabilmente perché malfunzionante, e che le luci della Sede Governativa erano tutte spente. Come poteva essere che, invece, l’energia scorresse ancora nei fili della zona colpita? Subito cominciammo a sudare freddo. Qualcuno ci voleva morti: eravamo entrati in un valico in alta tensione, su un pavimento isolante malmesso e una serie di pozzanghere di acqua lurida che sobbollivano sotto le nostre suole riscaldate dal cocente tramonto infuocato.
-Questa è una dichiarazione di guerra in pieno ordine-, esclamò Fobos, mentre il suo viso si contorceva in una smorfia di disgusto e i suoi occhi spiavano i volti terrei della gente che ci stava spiando dalle finestre.
- Ci deve essere attivo un generatore di emergenza da qualche parte-.
Galeno aveva cominciato a spostare alcuni detriti accatastati a terra con fin troppa cura. Mi avvicinai per dargli una mano, afferrando lamiere e rifiuti metallici, ma Fobos mi scansò con un gesto brusco e si accovacciò accanto a Galeno, sollevando tre volte il peso che il Biotecnico cavava fuori di volta in volta.
-Forza, sbrighiamoci! -.
Scavarono sotto le rovine ininterrottamente, imprecando contro le sentinelle che non avevano nemmeno notato di avere una bomba sotto ai piedi. Come potevano non essersi accorte che qualcuno ero sgattaiolato alle loro spalle, passando proprio sotto il loro naso?
Sotto quelle carcasse di alluminio, titanio e ghisa trovammo una botola. Era rettangolare e larga a sufficienza per far passare un uomo di media corporatura. Deimos sollevò lo sportello, e noi tutti ci sporgemmo per vedere cosa ci aspettava là sotto. Di fronte a noi c’era un enorme buco nero, con una scaletta metallica a pioli che sprofondava nel buio, verso il centro della Terra.
-Io là sotto non ci vado-, mormorò Fobos, sollevando un sopracciglio e incrociando le braccia sul petto.
-Ce ne occupiamo noi-, risposi allora io, annoverando nel team di esploratori soltanto me e Galeno.
-Non se ne parla. E’ pericoloso. Se là sotto ci fossero perdite d’acqua rimarreste fulminati prima ancora di toccare terra con l’alluce-.
Il tono di Fobos era perentorio e la sua mano, nascondendosi alla vista altrui, era schizzata attorno al mio polso stringendolo in una morsa invincibile, a mo’ di tagliola.
-E chi dovrebbe scendere se non un team di Biotecnici?  -, lo rimproverai, gettandogli un’occhiataccia torva. Lui me la rimandò, più malevola di quanto mi aspettassi, e solo dopo, sbuffando, accettò di ascoltare le nostre ragioni.
Galeno pregò Fobos di attivare nuovamente il suo display e di proiettare la cartina della Sede Governativa. Sotto al piano su cui ci trovavamo c’era, infatti, una sorta di città sotterranea, una centrale geotermica immensa, in grado di alimentare gli otto generatori che gestivano l’illuminazione e la sicurezza di tutto il perimetro del Vallum.
-Come potete vedere questo impianto è a ciclo binario. Questi sono i condotti che trasportano l’acqua bollente e questi quelli che, invece, conducono isopentano. Ed entrambi confluiscono nello scambiatore di calore. Qui abbiamo il fenomeno dell’evaporazione, e appena dopo… ecco la turbina. Se troviamo la turbina siamo a cavallo. Da qui infatti si dipartono le otto utenze, disposte a stella e tutte e otto indipendenti fra loro. Basterà seguire quella in direzione Nord, per raggiungere il nostro generatore e disattivarlo. Credo che l’intera centrale sia in fase di stallo, ogni sua parte risulterà spenta. Quindi, la mia ipotesi è che l’elettricità sia stata reintegrata tramite un generatore di emergenza a nafta collegato a un commutatore a sua volta allacciato al quadro elettrico-.
Guardai Galeno assorta, sorprendendomi nel capire esattamente ciò che stava dicendo.
- Vuoi dire che qualcuno è sceso là sotto con un generatore portatile e che nessuno lo ha visto?-.
-Esattamente-, commentò Galeno, mentre i suoi occhi mangiavano euforici l’oscurità progressiva della botola.
-Quindi potreste trovare delle persone là sotto, o qualcosa pronto a esplodere-.
Era stato Fobos a parlare, gli occhi trasformati in fessure e uno sguardo truce.
-Forse è il caso che venga anche io là sotto-, aggiunse Deimos, osservandoci perplesso. Non sapeva esattamente cosa fosse accaduto e questo stava minando la sua capacità di gestire la situazione.
-No, non penso che sia il caso. Basteremo io e Astreya là sotto. Ricordiamoci che i Biotecnici non sono solo scienziati, ma anche soldati-.
Lo sguardo di Galeno non era più timoroso, ma acceso dalla determinazione. Amava gli enigmi e non vedeva l’ora di intrufolarsi in quel buco nero ai suoi piedi.
-Molto bene, allora-, si arrese Deimos, scrutando con i suoi occhi verdi il volto contratto di Fobos. – Prendete le torce e gli strumenti necessari prima di scendere-.
Io e Galeno annuimmo, spostandoci verso le camionette parcheggiate nelle viuzze.
-Bene, Galeno. Vi daremo tempo due ore, dopodiché vi verremo a cercare. Dubito che da là sotto potrete comunicare con noi, perciò fate molta attenzione-.
Le parole di Deimos erano razionali e cautelative, ma la sfumatura di preoccupazione della sua voce non passò inosservata a nessuno di noi due. Ad ogni modo non potevamo deconcentrarci iniziando a pensare a quali trabocchetti avrebbero potuto attenderci in quella bocca di lupo. Dovevamo semplicemente svolgere il nostro dovere, pronti a tutto, anche a morire. Mi caricai uno zaino rigido sulle spalle a cui legai le katane, e indossai attorno alle cosce una cinghia di aghi velenosi, utilissimi in situazioni come quelle. Infine infilai il guanto torcia e lo accesi, testandone la luminosità. Il cerchio disegnato al centro del palmo si illuminò di una luce azzurrognola che pulsava lenta. Perlomeno funzionava. Strinsi la mano un paio di volte e quella lucciola artificiale si spense del tutto.
-Sono pronta-, urlai a Galeno, immerso nel retro di un carro poco distante da me. Feci, quindi, per voltarmi e dirigermi verso la botola, ma andai a sbattere contro il torace di Fobos, fermo e immobile alle mie spalle.
Abbassò appena gli occhi per osservarvi con un’espressione rannuvolata, poi mi disse: - Non dovresti fare l’eroe. Ce ne sono già abbastanza sulle pire-.
-Fobos, che ti prende? Hai paura? -.
Il pomo d’Adamo di Fobos collassò un istante, deglutendo a vuoto.
-Io non ho paura. Solo credo che ti farai ammazzare alla prima occasione-, sputò fuori, appoggiandosi a braccia conserte contro la fredda pelle della camionetta. Lo guardai di sottecchi cercando di capire cosa volesse comunicarmi. Forse era il suo modo per proteggermi e tenermi al sicuro? O forse semplicemente non gli andava che una donna potesse avere tutto quel potere in una missione?
Sbuffai e feci per andarmene, ma Fobos allungò una mano e mi trattenne. Il suo sguardo era del tutto diverso dal solito: era serio e non c’era ombra di sarcasmo nella sua voce quando parlò.
-Metterò da parte il mio orgoglio questa volta. Se vuoi che scenda laggiù con te, basta che tu me lo chieda. Passerò il comando della missione a Deimos se si renderà necessario-.
Lo guardai dritto negli occhi, colta di sorpresa. Non sapevo cosa dire, né se accettare la proposta. Razionalmente era meglio se uno dei due capi spedizione fosse rimasto lì fuori, per disporre la difesa del Vallum, ma al contempo non ero più convinta di voler scendere da sola, improvvisamente consapevole di essermi messa in pericolo.
-Starò bene-, dissi alla fine, sorridendo appena e voltandogli le spalle prima di poter cambiare idea.
Tornai in tutta fretta alla botola e con passo malfermo, assicuratami che Galeno fosse alle mie spalle, scesi un piolo dopo l’altro, attenta a che gli anfibi non sdrucciolassero su di essi.
Scendemmo per un tempo che mi parve infinito, ma alla fine, torce alla mano, giungemmo in quello che sembrava in tutto e per tutto un luna park abbandonato. C’erano relitti di macchine ovunque, un calore insopportabile e un quantitativo di passaggi e cavalcavia allucinanti. Trattenni il respiro qualche istante, abbracciando con lo sguardo quel panorama desolato e a me sconosciuto.
Galeno appoggiò a terra il suo zaino e, toltosi la canottiera, la posizionò al suo interno.
-Fa caldo qui-, ammise, strofinandosi la fronte con la mano. – Dobbiamo sbrigarci o i nostri livelli vitali scenderanno sotto ai piedi. Questo ci porterebbe in breve alla disidratazione-.
Annuii e rapidamente mi misi davanti a lui, puntando la torcia verso il buio. Di fronte a noi c’erano numerose impalcature che si inerpicavano verso il centro dell’impianto, al livello appena superiore.
-Forse se saliamo su quella piattaforma, avremo più fortuna-, dissi.
Galeno non obiettò e ci arrampicammo sul nuovo piano, dove l’aria sapeva meno di zolfo.
Lì sopra avevamo una panoramica perfetta di tutto l’assieme e il lay out dell’impianto si rivelò essere più semplice di quanto previsto. Avanzammo spediti, secondo il piano di Galeno, finchè non individuammo il generatore estraneo. Era un piccolo robot rettangolare abbandonato su un carrellino con le ruote divergenti
-Ci impiegherò solo un attimo-, disse Galeno, avvicinandosi cauto. Riuscii a fermarlo prima che mettesse un piede in una enorme pozza acquosa lì accanto. Il generatore di emergenza ne era completamente immerso.
-Dannazione! Questa è davvero una trappola mortale-, sospiro Galeno, osservandomi annusare l’aria.
-E’ molto peggio-, dissi. - Questo è carburante-.
Galeno strabuzzò gli occhi. Sapevamo entrambi che il petrolio era un bene di lusso, custodito e centellinato dalla casta politica ormai da secoli. Ne rimaneva davvero poco sulla Terra e ormai veniva utilizzato solo quando l’idrogeno, l’elettricità o qualsiasi altra forma di energia più sostenibile non era disponibile. Non tutti i normali cittadini, quindi, potevano permettersi di sprecarlo per farci rischiare la morte.
-Sempre più misteriosa la questione-, mormorò Galeno, notando un paio di fili scoperti sul pelo del combustibile. –Hanno persino rischiato il malfunzionamento del macchinario per aumentare le probabilità di farci saltare in aria-.
Il suo tono mesto mi fece capire che non aveva ancora elaborato un piano B per la disattivazione dell’oggetto.
-Ho idea che prenderà fuoco in breve tempo. Guarda quei fili, sono pericolosamente vicini al pelo libero del liquido. Forse conviene tornare indietro ed evacuare tutta la zona prima che accada l’inevitabile-.
Aveva ragione, ma se avessimo abbandonato il proposito e fosse davvero divampato un incendio là sotto sarebbe stato un completo disastro. Eravamo incastrati all’interno di una ragnatela di torrentelli di benzina, a un soffio dalla morte, e io non facevo altro che pensare che qualcuno stava tramando alle nostre spalle, qualcuno di molto furbo e bravo a nascondersi. Non volevo che un simile individuo l’avesse vinta così facilmente, per cui iniziai a pensare velocemente a una alternativa.
-Se dovessi anche solo increspare la superficie del liquido, quei cavi sarebbero l’ultima cosa che vedremmo-, mormorai, perplessa. –Però non vedo altra soluzione-.
Galeno mi scrutò interdetto, controllando l’orario sul suo tecnologico orologio da polso. Mancava davvero poco prima che altri uomini, ignari del pericolo, venissero a cercarci.
-Galeno, lei deve uscire da qui. Posso provare a raggiungere il generatore isolando con uno scudo i cavi dal suolo, ma non ho mai provato a proiettare esteriormente la mia bioenergia ed è da quando siamo partiti che non mi sottopongo alla Cura.  Perciò devo essere certa che a rischiare la vita sia solo io-.
Galeno spalancò la bocca in una grande o. – Non posso lasciare il capo missione qua sotto. E’ contro il mio codice etico-.
-E’ un ordine-, ringhiai, prima di dargli il mio zaino e le mie armi. Gli lasciai tutto ciò che avrebbe potuto appesantirmi e deconcentrarmi, poi lo congedai. Galeno si oppose fino alla fine, ma di fronte alla prospettiva di un’esplosione senza pari, proveniente per di più dalle profondità della Terra, era lampante la necessità di avere un messo che portasse la notizia in superficie. Non lasciare lì sotto me, che avevo maggiori possibilità di riuscire, sarebbe stato un insulto all’intelligenza umana. Perciò alla fine il Biotecnico fece retromarcia, caricato anche delle mie attrezzature.
Rimasi sola con il mio mostro come unica compagnia. Mi affidai a lui, certa che sarebbe stato in grado di conferirmi la forza che io, di mio, non avevo; mi concentrai sui fili scoperti e il pelo dell’acqua, cercando di colmare con la mia energia il sottile foglio di aria fra di loro. Cominciai a sudare, mentre il caldo della sala macchine mi invadeva le narici e mi faceva prudere la nuca. Non dovevo perdere il controllo, o avrei fallito ancora prima di cominciare. Avanzai titubante verso la pozza di benzina infilandovi dapprima la punta e poi tutta la scarpa. Inspirai ed espirai piano, concentrandomi sulla lama di energia che divideva non solo i cavi dal liquido, ma anche me dalla morte. Posizionai il secondo piede, mentre il mio mostro si aggrappava con forza a me, incollandosi alla mia colonna vertebrale come un parassita affamato. Lo sentii invadermi la mente e rafforzare le mie capacità. Lo scudo di energia si fece più forte: ero in grado di vedere le particelle distorte e l’elettricità scoppiettargli attorno in mille bolle di energia. Riuscii ad avanzare di qualche passo, stringendo i denti, mentre il sudore mi scivolava ghiacciato lungo la schiena, inzuppandomi la divisa. Il caldo stava diventando insopportabile e sentivo il sangue pulsare nelle tempie: stavo usufruendo degli ultimi minuti di energia rimastami, poi sarei crollata e, infine, se nessuno mi avesse trovata e mi avesse iniettato la Cura, sarei morta. Era la dura conseguenza di essere una Polivalente. Potevo sfruttare i poteri di tutte le tipologie di Custodi, ma non potevo farlo senza uno scotto da pagare. E il conto mi veniva presentato così, con la morte per sovraeccitazione nervosa.  Giunsi con la vista annebbiata fino al generatore. Lo vedevo ondeggiare davanti a me. Allungai una mano, mentre il mostro mi stringeva i denti intorno alla giugulare per regalarmi l’ultimo guizzo di vita prima dell’incoscienza. Premetti il pulsante e, con mia grande gioia, vidi le spie del generatore spegnersi e quelle del quadro elettrico opacizzarsi altrettanto velocemente.
Il sollievo fu talmente enorme da farmi mancare la presa sul terreno e cadere con le ginocchia nella benzina. Le mani erano immerse in quel bitume odoroso, e gli occhi cominciarono a lacrimarmi. Dovevo uscire di lì in fretta. Mi sollevai a fatica, barcollando e reggendomi alla balaustra che dava sul centro della Terra. Ripercorsi a rilento la strada che avevo imboccato insieme a Galeno, fino a quando nell’oscurità non vidi qualcosa che non avrebbe dovuto esserci. Stropicciai gli occhi, piegata a metà sul corrimano: a qualche metro da me c’era una lucina rossa, simile alla brace delle sigarette o alla fiammella di un accendino. La vidi galleggiare dall’altro lato del camminamento, dispersa nell’oscurità come un occhio di fuoco.
C’era qualcuno là sotto con me, era evidente. Cercai di rimanere calma ed estrassi uno degli aghi dal suo supporto. Avanzai ulteriormente senza mai smettere di mirare alla luce che filtrava tenue a metri e metri di distanza sopra la mia testa. Tenni sotto controllo quel lumino, finchè non lo vidi lentamente scivolare a terra, accompagnato da una risata sinistra. Istintivamente cominciai a correre, spingendo i miei polmoni allo spasmo e facendo scricchiolare le articolazioni. Corsi più veloce che potei, ma senza che me ne rendessi conto il fuoco era già divampato alle mie spalle e il fumo mi stava raggiungendo, seguito a ruota dall’esplosione e dai frammenti di acciaio. Mi lanciai giù dalla scala, senza nemmeno pensarci mentre le fiamme mi lambivano un fianco facendomi gridare.
-Corri, animaletto! -, sentii esclamare a una voce maschile, poi atterrai sulle caviglie. Sentii una scossa di calore irradiarsi da quella di destra e dovetti spingere tutto il peso sull’altra per riuscire nuovamente a correre. Sentivo dolori ovunque e cominciavo a domandarmi se ce l’avrei fatta. Dai brucianti anfratti dell’impianto udii nuovamente una risata malvagia, poi la voce dell’assalitore venne risucchiata dalle fiamme: probabilmente quell’uomo aveva sacrificato se stesso per uccidermi. Ignorai il senso di angoscia che lentamente affiorava insieme alla paura e all’istinto di sopravvivenza, e mi augurai che Galeno fosse riuscito a convincere Fobos a evacuare la zona. Mi voltai solo una volta per vedere quanto grave fosse la situazione, e mi accorsi che ormai le strutture di acciaio erano avvolte dalle fiamme e che scoppiettavano pronte a collassare. Se non mi fossi sbrigata, sarei rimasta là sotto per l’eternità.
Perciò quando raggiunsi la scala, mi parve di sprofondare in un incubo. Era lì a pochi centimetri dalle mie dita, ma ormai non avevo più energie e il corpo mi stava abbandonando. Cominciai a sperare nel miracolo e un po’ persino negli Dei, certa che altrimenti sarei finita come un topo in trappola.
Presi a tossire con violenza, mentre gli anfibi scivolavano sui primi pioli della scala, costringendomi a indietreggiare ad ogni singolo disperato tentativo. Il fumo cominciò a penetrarmi nel naso con insistenza e in breve mi accorsi che stavo per svenire. Da quell’istante in poi, la mia mente iniziò a vacillare: ricordo ben poco di quello che successe di lì a poco. Vidi delle braccia prendermi da sotto le ascelle e il volto di Fobos tra le volute di fumo che serpeggiavano fuori dalla botola.
-Dovete scappare. Attentato… fuoco-, mugugnai, mentre l’Ibrido richiudeva la botola con un calcio e mi caricava in spalla.
-L’ho detto che sei un’idiota-, mugugnò cominciando a correre in direzione dell’unico veicolo rimasto. La mia moto. Montammo rapidamente, poi Fobos accelerò e fece sgommare la ruota posteriore. Tutto attorno a noi echeggiava il tetro rimbombo dell’inferno che avvampava sotto i nostri piedi, ma la città da quello che potevo vedere era stata evacuata, almeno nella zona limitrofa.
Grazie agli Dei non erano molti quelli abitavano a ridosso del Vallum.
Mi addormentai sulla spalla di Fobos con ancora davanti agli occhi l’immagine di quell’accendino e nelle orecchie la risata di quell’uomo. Era lì per noi, per ucciderci nel qual caso non ci fosse riuscito il generatore di emergenza. Qualcuno sapeva di non doverci sottovalutare e aveva dei piani di riserva. Sicuramente non sarebbe stato l’ultimo attacco che avremmo subito.

 

 

Quando mi svegliai sentii il calore di un corpo accanto al mio. Era una sensazione strana, nuova e accogliente. Inizialmente pensai a mia madre, al suo profumo e alla sua pelle chiara, a quel ricordo ancestrale e primitivo che, nonostante il dolore e la delusione, mi faceva sempre tornare a lei. Schiusi gli occhi e l’immagine di una stanza austera mi comparve di fronte agli occhi. Cercai, quindi, di voltarmi, ancora in quello stato di dormiveglia che non mi faceva rendere conto con lucidità di ciò che mi stava accadendo. Non ci riuscii perché qualcosa premeva contro il mio stomaco e mi teneva bloccata in quella posizione. Sentivo della seta scorrermi sul viso, come la carezza della Dea Hera. Che fossi morta nella sonno e me ne stessi fra le braccia di una creatura divina? Derisi mentalmente quella mia stupida deduzione e imposi al mio corpo di svegliarsi del tutto. Sbadigliai, mi stropicciai gli occhi e infine lo vidi. Quelli che avevo scambiato per seta, in realtà, erano lunghi capelli corvini, lisci e sparsi su di me come un’esplosione di inchiostro. Quello che avevo percepito come un abbraccio celestiale era, invece, il braccio di un uomo giovane, ricoperto di piccole cicatrici bianche e di ferite appena rimarginate. Il cuore cominciò a battermi nel petto alla velocità della luce, mentre il mio cervello collegava gli indizi a uno a uno.  Non poteva essere. Eppure quel calore e quel soffio leggero sulla mia nuca erano prove inconfutabili della presenza di un uomo nel mio letto. Arrossii violentemente, forse per la situazione in sé, forse perché avevo appena capito chi fosse la creatura che dormiva abbracciata a me. Lentamente allentai la sua presa, forzando leggermente il suo abbraccio, e mi sollevai appena sui gomiti, per guardarlo. Lui se ne stava lì, assopito, con gli occhi chiusi e il viso addolcito dal sonno. Non sembrava così minaccioso mentre dormiva, anzi, assomigliava a ciò che avrebbe dovuto essere: un semplice giovane uomo, affascinante e accogliente.  Indossava dei jeans stinti e una felpa nera, mentre dell’uniforme non c’era più traccia. Guardai il suo braccio magro appoggiato sul mio grembo e, quando mi resi conto di indossare abiti che non erano i miei, per poco non urlai: qualcuno doveva avermi lavata e cambiata perché anche l’odore della benzina se ne era andato. Mi morsi in tempo le labbra e ammutolii il mio istinto di fuggire dall’imbarazzo. Scelsi, invece, di concentrarmi su altro, come ad esempio, il rassicurante colore bianco dell’aura di Fobos. Sembrava stesse sognando qualcosa perché talvolta sfumava in un colore rosato insolito e in netto contrasto con l’oscuro fascino che solitamente emanava. Aveva le lebbra tese nella sua solita espressione seria, ma la fronte distesa gli conferiva un’aria più giovane e sognante, quasi normale a dire il vero. Un sorriso mi increspò le labbra, mentre con le dita iniziai a sciogliergli i nodi nei capelli. Erano morbidi e setosi, un vero piacere da accarezzare, per cui non fu una sorpresa scoprire che la mia mano, di sua volontà, era risalita lungo i suoi crini per giungere vicino al volto. Avevo un’occasione unica e che probabilmente non mi sarebbe mai più capitata, perciò non ci pensai due volte e allungai un polpastrello a sfiorargli gli zigomi magri. Tuttavia, non appena il mio tocco lo raggiunse, i suoi occhi si spalancarono e la sua mano mi attanagliò con violenza il polso, allontanandomi dal suo viso. Si tirò su con uno scatto nervoso, come fosse appena stato attaccato.
-Scusami, non… non volevo svegliarti-, dissi. Fobos sollevò gli occhi al cielo e si lasciò nuovamente scivolare sul cuscino, i capelli scompigliati attorno a lui come i raggi di un sole nero.
-Perché lo hai fatto allora? -, borbottò, mentre si schermava il viso dalla luce che filtrava attraverso il vetro. Dovevano essere circa le sei e in quel posto regnava ancora il silenzio della notte.
Mi sedetti accanto a lui a gambe incrociate, afferrai un cuscino di forma ovale e lo stritolai come fosse un orsacchiotto. Era un ottimo antistress mattutino ed era un’abitudine che avevo conservato sin da quando ero una bambina sola fra i vicoli che rendevano Carthagyos un posto poco raccomandabile.  Ripensai a quegli anni e a come fossi cambiata da allora, a come anche il resto del mondo fosse cambiato senza che me ne fossi mai resa conto del tutto. Era facile perdersi nella malinconia di quelle mattinate grigie, ma quel giorno avevo al mio fianco Fobos. E Fobos mi stava osservando fra le ciglia scure, rendendomi impossibile formulare qualsiasi tipo di pensiero.
-Che hai? -, domandò con la stessa noncuranza che ostentava da quando lo conoscevo.
-Mi domandavo dove siamo e perché condividiamo lo stesso letto…-, buttai lì, stringendo ancora più forte il cuscino. Lo stavo praticamente arpionando, le unghie conficcate nella stoffa e la gommapiuma che tentava di esplodermi in faccia. Lo sguardo di Fobos seguì la tensione nei miei muscoli e si accorse delle torture che stavo infliggendo al povero oggetto inanimato. Sorrise, e si allungò verso di me, con lo stesso sguardo con cui la prima volta mi aveva baciata. Arrossii ancora di più, incerta se volessi scappare o meno. Ma lui, con il suo sorriso tra il sadico e il dolce, non prese nemmeno in considerazione la possibilità di farmi fuggire. Mi tolse dagli artigli il cuscino e lo gettò contrò il muro, poi mi circondò con le braccia, stringendomi con la stessa intensità con la quale io avevo stretto a me il guanciale. Rimasi un attimo interdetta, gli occhi spalancati e le braccia sollevate a mezz’aria.
-Non farmi mai più uno scherzo del genere. Se non fossi tornato a prenderti, saresti morta-.
-Grazie per avermi salvata-, mormorai, ancora più sorpresa, mentre la mano del ragazzo mi scorreva fra i capelli e lungo la schiena in un turbinio di spirali. Il tutto durò solo pochi secondi e al termine di quel breve lasso di tempo Fobos si staccò da me di scatto come avesse ricevuto una scossa. Il sole gli illuminava gli occhi di una sfumatura colore del miele che risplendeva come oro in un mare tenebroso.
-Dove siamo? -, gli chiesi, ricordandomi improvvisamente di tutta la catena di eventi del giorno prima. La stanza e il letto in cui ci trovavamo erano estranei, così come il panorama fuori dalla finestra.
-Dai Gyps-, sorrise lui.

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Capitolo 24
*** Capitolo 23- Gyps ***


Capitolo 23

 

I Gyps non erano assolutamente come me li ero aspettati. Erano uomini e donne estremamente snelli con costole sporgenti, capelli rasati fino alle radici e pelle bruciata dal sole. La maggior parte di loro aveva occhi azzurro cielo o grigio come le nuvole tempestose, ma c’era anche qualcuno i cui occhi sfumavano verso tonalità di un lilla misterioso.
-Non mi fido a girare fra loro disarmata-, ammisi, mentre li osservavo volare sopra le nostre teste.
I predoni avevano imparato a utilizzare i pezzi dei mezzi che attaccavano per costruire impalcature metalliche a forma di ali, sulle quali stendevano delle pelli, principalmente animali, che conciate secondo una loro antica tradizione donavano a quegli uomini la capacità di planare e librarsi in aria. Il tutto grazie alle forti correnti ascensionali e discensionali che spiravano in turbinii e tempeste dal Deserto fin su al Nord.
-Pensi che abbia avuto scelta? E’ stato ciò che mi hanno chiesto in cambio di ospitalità-, fumò fuori Fobos, spegnendo poi la sigaretta sulla fibbia dei jeans.
Scelta. L’Ibrido una scelta l’avrebbe potuta avere davvero. Avrebbe potuto lasciarmi morire nell’incendio, dandomi in pasto a quella risata sinistra e meritandosi un’altra medaglia al valore per aver evacuato con successo tutti i cittadini del Vallum.  E invece aveva scelto di diventare un disertore al mio fianco, pur non avendo commesso alcun crimine di suo. Stava di fatto che, a quanto mi aveva raccontato Fobos, l’Esercito sospettava che avessi appiccato quell’incendio con dolo. Pensava che avessi allontanato Galeno con una scusa per condurre a termine i miei sporchi piani e che con sediziosa calma avessi agito da terrorista, facendomi saltare in aria per una causa che nemmeno io conoscevo. Fobos si era rifiutato di credere a questi sofismi e, conoscendo la mia mentalità primitiva e acerba, aveva capito che mi ero chiusa là sotto nel tentativo di salvare almeno una vita.
-Non ti ringrazierò mai abbastanza-, sospirai, capendo finalmente come, dietro a quella scorza dura che erano il suo atteggiamento e il suo comportamento, Fobos fosse una alleato prezioso e un uomo di onore. Allungai una mano, lentamente, quasi per paura, e la strinsi alla sua. Il suo braccio si contrasse e le sue spalle si immobilizzarono, mentre i suoi occhi saettarono in direzione dell’intreccio delle nostre dita.
-Avevamo un Debito, no? -, mormorò, stringendo appena la presa sulla mia mano.
Sorrisi, ma lasciai andare le sue dita quasi immediatamente quando notai un uomo venire nella nostra direzione. Era di carnagione abbastanza scura con delle pitture argillose che gli decoravano il corpo come tatuaggi tribali. Doveva essere giovane, della stessa età di Fobos o qualche anno di più.
Spostò i suoi occhi plumbei su di noi, mostrandoci una fila di denti aguzzi, come affilati da lame.
-Ben svegliati, stranieri! Avete dormito bene? -.
Subito avvampai, nonostante negli occhi del ragazzo non vi fosse alcuna malizia.
-Benissimo, grazie Xerse-, rispose prontamente Fobos, allungando una mano e stringendola a quella del Gyps. Faceva uno strano effetto vedere le loro carnagioni diverse unirsi in una stretta di mano, eppure questo mi fece sentire molto più tranquilla. Rilassai i muscoli e mi presentai secondo l’etichetta.
 -Bene, ora che anche voi siete ufficialmente dei fuorilegge, vorrei darvi alcuni consigli-.
Ci incamminammo verso un edificio basso e diroccato con una tenda scura simile all’ala di un pipistrello come tetto. Era fresco e profumato di menta al suo interno, arredato con pochi oggetti, ma tutti visibilmente antichi. Probabilmente erano il frutto del commercio con i Mauriani.
-Sediamoci al tavolo-, ci invitò Xerse, incrociando le gambe su un cuscino morbido ai piedi di un tavolo basso. Io lo seguii a ruota, nonostante il dolore al fianco, mentre Fobos dovette fare numerosi tentativi per riuscire a sedersi in maniera civile, senza sembrare un gigante ingabbiato.
-Ebbene…-, cominciò il ragazzo, estraendo una vecchia cartina sabbiosa. – So che state cercando di capire cosa stia accadendo al Vallum e che perciò volete entrare in territorio Mauriano-.
-Esattamente-, mormorai osservando l’enorme macchia rosso sangue che capeggiava all’estremo Sud della cartina.
-Sono cinquanta giorni di viaggio, non voglio mentirvi. Venti se decidete di volare-.
L’espressione di Fobos sconfinò nel fastidio più totale. Forse sperava che raggiungere i Mauriani fosse più semplice che attraversare a piedi l’intero Deserto.
-Ad ogni modo, ora il Mercato Mauriano è stanziato proprio qui, al centro del Sandpit, la grande fossa di sabbia. E’ una zona altamente fortificata, quindi non pensate nemmeno di scavalcare le recinzioni senza un piano a prova di Segugio-.
Gli occhi di Xerse si illuminarono quando una donna anziana con gli occhi velati di bianco fece il suo ingresso in sala, depositando sul tavolo un servizio da tè molto raffinato.
-Questa è mia nonna, Lakesi. E’ una donna molto saggia e potrà consigliarvi meglio di un giovane come me-.
Osservai la nonna di Xerse con attenzione. C’era qualcosa di estremamente famigliare in lei e anche qualcosa di stranamente sbagliato. Scrutai i suoi lunghi e fini capelli bianchi, la carnagione decisamente più chiara del nipote, con chiazze scure qua e là affondate nella carne rugosa. Sembrava sofferente, con quell’espressione profondamente severa che la contraddistingueva.
-Benvenuti tra i Gyps, alleati. So che siete in cerca di risposte e che le state cercando nel Deserto-.
Fece una pausa per servirci il tè. Non una goccia fuoriuscì dalle tazze sbeccate nonostante la sua cecità.
-Questo è il nostro tonico per eccellenza. Lo chiamiamo Oruktà e ve ne servirà parecchio per non rimanere seccati dal forte sole del deserto. So cosa pensate voi cittadini dei nostri rimedi, ma garantisco che questa bevanda è più nutriente di qualsiasi acqua filtrata abbiate mai bevuto-.
Fobos, decisamente diffidente, osservò il pelo di quella brodaglia nerastra e si astenne dal portarla alle labbra. Io, invece, dopo una prima ancestrale forma di reticenza, ne inghiottii qualche goccia, sentendomi subito meglio e refrigerata. Non so perché, ma la stanchezza e i cerchi alla testa dovuti alla mancanza della Cura si assopirono e il mio stomaco fu riempito da una sensazione appagante di pienezza.
Gli occhi mi si allargarono per lo stupore.
-E’ davvero fantastico-, dissi, sorseggiandone un altro po’.
-Bene. Questo è solo l’inizio. Il vostro corpo è troppo muscoloso e pesante per poter volare. Inoltre, senza l’esperienza di anni di addestramento le correnti ventose potrebbero allontanarvi ulteriormente dall’obiettivo costringendovi ad una morte lenta e dolorosa-.
Deglutii.
-Che speranza abbiamo, quindi? -.
La donna sorrise, mostrandomi gli stessi denti aguzzi del nipote.
-Se ci vendeste la moto, potremmo rimediarvi un passaggio sul Tachiforo -.
-Che cosa è un Tachiforo? -, chiesi, curiosa come una bambina piccola.
-E’ una nostra invenzione. Si tratta di un treno merci che viaggia su delle rotaie sopraelevate a una velocità incredibile. Si può dire quasi che voli-.
Le sopracciglia di Fobos si aggrottarono, puntando verso il naso. Cominciò a torturare il bordo della tazza, indeciso o meno se fidarsi di quella gente. C’erano delle domande appena nate che si dibattevano come farfalle sull’increspatura della sua fronte.
-Come può essere? Non voglio dubitare di voi, ma conosco molto bene la tecnologia-.
- Elettromagnetismo! -, esclamò Xerse, talmente entusiasta da non riuscire a contenere la sua euforia. – Abbiamo trovato alcuni antichi testi che spiegavano come già nelle civiltà precedenti vi fossero treni in grado di levitare su binari magnetici. Abbiamo preso spunto dai loro progetti per sviluppare il Tachiforo. Si tratta di un qualcosa di talmente primitivo da averci colti impreparati: non ci era venuto in mente nulla di simile prima di allora-.
Fobos puntò i suoi occhi dritti in quelli del ragazzo, scrutandogli persino l’anima.
-Non mi fido di voi, questo è evidente a tutti, come del resto so che anche voi non vi fidate di noi. Ma pare che questo Tachiforo sia l’unica chance che abbiamo per raggiungere celermente i Mauriani al Sandpit-, sospirò, allungando una mano e porgendola alla donna cieca di fronte a lui. Un largo sorriso si allargò sul volto di Lakesi, mentre le sue labbra si arricciavano.
-La moto è vostra-, sentenziò infine Fobos la mano stretta ferreamente in quella della donna. Rimasero qualche secondo così, con i muscoli delle braccia tese, poi vidi gli occhi di Fobos diventare enormi, e i muscoli degli avambracci guizzare per sottrarsi a quel contatto. Fece una smorfia di dolore e con uno strattone scampò alla ferrea morsa della donna, cadendo con la schiena a terra. Subito, senza nemmeno dubitare del giudizio di Fobos, afferrai il pugnale che Xerse portava alla cinta e, con un balzo, oltrepassai il tavolo e puntai il coltello al collo rugoso della vecchia. Vidi il mio viso contratto dalla rabbia riflesso nei suoi occhi bianchi, e notai che il mio volto era nuovamente cambiato: scarno, scavato, con gli occhi ambrati enormi appesantiti dalla furiosa piega delle sopracciglia, un ringhio animalesco sulle labbra e una fierezza intrinseca. Stentavo a riconoscermi. Tuttavia, non una singola particella del mio corpo esitò e la lama rimase posizionata a fil di gola.
-Vecchia, non ti azzardare-, ruggii, mentre con lo sguardo tenevo sotto controllo anche Xerse, immobile. Tremava come una foglia: sicuramente Lakesi ricopriva un ruolo di certa importanza per quei Gyps, e io la stavo per sgozzare. Strinsi i denti per trattenere il mio mostro e non urlare a causa del dolore al fianco.
Nel frattempo, Fobos si era alzato e osservava la scena sconcertato. Non si aspettava che avrei preso le sue difese senza alcun motivo logico, ma lo avevo fatto, e ora i miei muscoli erano pronti e assetati. Mi sentivo come un predatore in agguato.
Lakesi deglutì appena abbassando stentatamente il filo del pugnale e facendolo brillare.
-Quell’uomo, quell’uomo è un mostro. L’ ho capito fin da subito, ma non potevo esserne certa. Dovrebbe essere morto, non capisco! Custode, parla! Dimmi perché ti accompagni a un simile errore della Natura-.
L’aura di Fobos si espanse facendomi lacrimare gli occhi, ma non era nulla paragonata alla mia rabbia. Allungai una mano e afferrai il collo della vecchia, guardandola dritta negli occhi, dall’alto al basso.
-Come sai che sono una Custode? -, sibilai. Lakesi rise.
-Non riconosci più una tua simile quando la vedi? Mi hai appena vista scrutare nel passato del tuo uomo e ancora hai dubbi? -.
Senza pensarci le tirai uno schiaffo, costringendola a voltare il viso nell’altra direzione. Poi mi alzai in piedi sul tavolino e gettai il pugnale in direzione di Xerse, piantandoglielo a due centimetri dallo zigomo destro.
-Astreya, calmati-.
La voce di Fobos era rassegnata, come la mia quando avevo mentito a mia madre dicendo che non mi importava essere venduta, perché avevano ragione: ero un mostro e qualcosa nel mio cervello non andava. Mi morsi la lingua, finchè non sentii il famigliare sapore del sangue. Forse per Fobos le parole di Lakesi erano solo una vaga offesa, un incubo ricorrente o uno sprone per vedere di che pasta fossimo fatti. Io la vedevo come la sua condanna a morte. Nessuno poteva puntare il dito e dare del mostro a qualcuno in mia presenza!
-Non mi interessa se sei stata una Bendata, se sei diventata un guru spirituale e ti bevi questo tonico al posto della Cura. Tu hai perso la testa: non riconosci più i veri mostri. Perché non è di quell’uomo che devi avere paura, ma di me-.
Tirai un calcio al servizio da tè, mandandolo a sfracellare contro il muro.
-Smettila, Astreya. La reazione di Lakesi era comprensibile-.
Fulminai Fobos con lo sguardo, rivolgendomi poi a Xerse.
-Tu hai davvero intenzione di aiutarci, o sei qui solo per sputare sentenze? In tal caso, leva le tende. Noi non abbiamo tempo da perdere-.
Gli occhi chiari del giovane si puntarono in quelli dell’Ibrido, cercando di capire fino a che punto fosse disposto a lasciarmi sfogare. Fobos, in risposta alle sue aspettative, si sollevò in tutta la sua altezza proiettando la sagoma dinoccolata della sua ombra sul corpo minuto della Bendata.
Si fece avanti posandomi una mano sulla testa e, stringendola bruscamente, mi pregò di smetterla.
-Stai peggiorando la situazione. Dobbiamo solo guadagnarci un passaggio su quel treno. Non dobbiamo fare amicizia-.
Lakesi sollevò appena il mento e lo indirizzò verso Fobos, quasi potesse vederlo.
-Non comprendo davvero perché questa donna voglia starti accanto. La stai rendendo un mostro come te. Guardala, è più un animale che un umano-.
-Nonna! -.
La voce di Xerse era imperiosa e il suo tono non tradì la minima emozione. Mi voltai verso di lui, mentre la mano di Fobos scivolava sul mio fianco, costringendomi a sé con forza. Sapeva che sarei scattata e che lo avrei fatto quando meno se lo aspettava, perciò mi aveva trattenuta prima che fosse troppo tardi. Capivo la necessità di fare buon viso a cattivo gioco, ma non comprendevo in alcun modo la fredda tranquillità dell’Ibrido. Lo spiai da sotto le ciglia e il suo mare ambrato per un secondo incontrò il mio sguardo. Era decisamente teso, ma non lo dava a vedere.
-Nonna, questi soldati si sono dimostrati accomodanti con noi. Ci hanno fornito nuove e preziose risorse, armi e un Esoscheletro. Che importa chi o cosa sono? -.
Lakesi abbassò il volto e i capelli candidi gli scivolarono sul volto, leggiadri come ragnatele.
-Xerse, non dire alla testa del corpo dei Gyps come agire. Il nostro legame di sangue non conta nulla di fronte alla mia autorità, ricordalo-.
Un’altra donna infeconda, una creatura il cui amore era sterile e senza frutti. Disprezzai Lakesi con tutta me stessa, schierandomi affianco di quel giovane di più ampie vedute. Xerse meritava il trono più di quella cariatide, senza ombra di dubbio.
-Senta, Lakesi. Io non pretendo che lei accetti la mia Natura, perché nemmeno io l’ho ancora completamente accettata. Tuttavia, crede davvero di essere un buon capo? Non sottovaluti mai il potere di un mostro come me. Non può vedermi, ma le assicuro che potrei farle raggelare il sangue nelle vene-.
Il viso di Fobos si avvicinò a quello della vecchia, scostandole una ciocca di capelli dagli occhi. Poi sussurrò al suo orecchio: - Vuole mercanteggiare con noi, o no? Dei suoi giudizi me ne faccio ben poco. Se vuole quella moto, ne possiamo discutere. Altrimenti quel biglietto per il Sandpit ce lo prenderemo con la forza, ricordandoci una volta arrivati alla fossa di dire ai Mauriani come abbiate sostenuto solertemente l’Esercito e di come abbiate nascosto i frutti materiali della nostra contrattazione. Sono certo che si fionderebbero qui per poter avere le briciole della tecnologia che vi abbiamo gentilmente donato-.
Lakesi si sollevò, titubante, il volto pallido e una goccia di sudore appesa alla tempia. – Mio nipote sembra davvero essere in grado di comprendervi più di quanto non lo sia io, perciò lascerò a lui il verdetto-.
Xerse gonfiò il petto, quando Fobos si rivolse direttamente a lui. Allungò una mano e la pose, trattenendo il respiro, sulla spalla dell’Ibrido. Attese, infine, che Lakesi se ne fosse andata poi sputò fuori tutto quello che pensava.
-Non ho mai visto una donna come quella-, commentò, lanciandomi uno sguardo gonfio di ammirazione. – Né una creatura intelligente come te. Sono sicuro di aver fatto bene a non avervi ucciso, quando vi abbiamo trovati. Meritate una chance da questo mondo. Perciò che diritto ho io di mettervi i bastoni fra le ruote? Patto accettato-.
-Sei un uomo di parola, Xerse. Hai detto che ci avresti aiutati e lo stai facendo. Spero che un giorno i Gyps riconoscano il tuo potenziale-.
Le parole di Fobos fecero imbarazzare il giovane che, con un grugnito di sorpresa, si schermì il volto. Quindi, tracannò la sua tazza di Oruktà e ci spiegò i dettagli del nostro prossimo viaggio. I Gyps ci avrebbero fornito degli zaini di tela leggera e degli abiti adatti al Deserto. All’interno delle sacche avremmo trovato acqua, un coltello, una quantità abbondante del loro tonico in polvere e uno strano strumento per estrarre il liquido potabile contenuto nelle piante grasse che puntellavano le distese sabbiose. Il Tachiforo avrebbe atteso il nostro arrivo per la partenza prevista alle sei della mattina e ci avrebbe depositati ad una trentina di chilometri dal Sandpit. Una volta là avremmo dovuto contare solo su noi stessi.
Ascoltammo con attenzione le indicazioni, sfruttando le conoscenze di Xerse per farci un’idea di ciò che avremmo trovato là fuori una volta rimasti senza l’appoggio del suo popolo.

 

 

Quando uscimmo dall’edificio il sole scottava ancora sulle nostre pelli e le spalle di Fobos stavano assumendo il colorito rosato di chi sta decisamente per ustionarsi. Il suo corpo era già segnato dalle privazioni e dalla fame, sarebbe riuscito a sopravvivere all’arsura e alla calura del Deserto? Se già soffriva appena poco più a Sud del Vallum, la sua pelle sarebbe stata un grosso ostacolo per noi nell’aridità del Sandpit.
-Sei stata avventata, prima-, mormorò mentre osservavamo il nostro unico mezzo venirci sottratto. La moto mi sarebbe decisamente mancata.
-Quella donna non aveva diritto di parlare. Non ti conosce nemmeno-, borbottai, riprendendo il cammino per dirigermi verso la stanza che ci era stata assegnata. Xerse ci aveva detto che ci era stata servita la cena, e io avevo una fame incredibile. Lo stomaco mi brontolava come pentola di fagioli e la mente continuava a fare cilecca.
-Nemmeno tu mi conosci-.
-Questo perché tu non me lo permetti-, obiettai, guardandolo da sotto in su a braccia conserte, nella posa che lui stesso era solito assumere con me. Fobos inspirò e osservò la gabbia di Apollyo sanguinare fiammeggiate nel cielo rossastro.
-Vorresti davvero sapere tutto di me? -.
Annuii. L’Ibrido rimase per qualche secondo in silenzio, poi raccolse la mia mano fra le sue e distendendo tutto il suo essere, rilasciò la sua aura, facendomi pizzicare gli occhi.
-Dovrebbe funzionare. L’ultima volta ci sei riuscita-.
Sgranai gli occhi, mentre il mostro appiccicoso che vedevo sempre appeso alle sue scapole prendeva la mesta forma di un ragazzino pallido, con enormi occhi verdi e un fisico estremamente magro.
-Perché? - riuscii a chiedere, prima di cadere vorticosamente in una sorta di trance, una specie di viaggio onirico nei meandri dell’anima di Fobos. Non riuscii a trattenere la mia mente dal raggiungere ogni angolo del suo corpo completamente privo di difese, e in breve fui non solo nella sua testa, ma anche nel suo cuore.

 

-Fobos! Fobos, svegliati. O farai tardi-.
Pigramente mi alzai dal letto, la testa pesante e le ossa che scricchiolavano come le giunture di un vecchio. Mi trascinai in bagno, dove Achileos mi stava attendendo. Mi sollevò il mento con fare preoccupato, osservando i lividi bluastri che erano comparsi sotto agli occhi e ai lati della bocca. Sembravo più un cadavere che un ragazzo di quindici anni, ma non me ne poteva importare di meno.
-Laviamoci questa faccia-, sorrise mesto il Caporale, senza riuscire a distogliere lo sguardo dalle mie cicatrici, dal mio dolore e dai miei occhi indolenti, senza vita. Cercai di sbloccare la manopola del lavandino, ma non ci riuscii. Mi avevano inoculato un siero anti ipnotico che da giorni mi teneva sveglio. Persino la notte non riuscivo a dormire, nemmeno quando il mio corpo e il mio cervello urlavano di farlo, perché sovraccarichi di stimoli e di dolore.
Achileos si allungò verso di me, aprendomi l’acqua, gelida e pungente come una lama affilata, e, senza dire nulla, mi infilò la testa sotto al getto freddo. Le gocce di quella pioggia sporca mi lavarono via un po’ di stanchezza, ma mi ferirono ulteriormente il volto tumefatto dalla magia e dalle sperimentazioni. Mi morsi le labbra, stringendo gli occhi e ancorandomi al bordo del lavabo, finchè quella tortura non ebbe fine e Achileos mi lanciò un asciugamano umido in testa.
-Forza ragazzo. Sii forte-, mi implorò, con la voce di chi non può fare altro che guardare un parente, un figlio o un amico morire. Era uno sguardo che odiavo, perché mi ricordava quanto fossi diverso da loro. Perciò mi imposi di ripetere quello che Upokrates mi cantilenava ogni giorno e che ormai era diventato il mio mantra.
-Io sono già forte. I soldati veri non dormono, non mangiano e non provano paura. E io non proverò più nessuna di queste cose-.
La mia voce risultò piatta e monotona, come se stessi leggendo un normale catalogo di articoli domestici. Storsi il naso e tornai nel dormitorio per vestirmi. C’era un brusio insopportabile e una miriade di ragazzi che sciamava di qua e di là cercando uno stivale o le fondine.
-Ehi, Fobos, che brutta cera-.
Deimos, appena tredicenne, era apparso alle mie spalle con aria sgomenta. La spalla, laddove si era posata la sua mano, bruciava come il foro di un proiettile. Era sangue del mio sangue quella creatura, ma non potevo fare a meno di odiarla. Perché aveva scelto la stessa vita che i nostri genitori avevano imposto a me? Io avrei ucciso per essere libero e lui si era appena immatricolato, spinto dal puro e semplice desiderio di fama e gloria. Era ripugnante, eppure in qualche modo non potevo impedirmi di volergli bene.
-Smamma, piattola-.
- Ma come? Non trattarmi così, mezza sega scorbutica! -, ridacchiò il ragazzino, ancora troppo magro affinchè la divisa gli calzasse bene. Nemmeno i sarti del campo avevano potuto fare un lavoro migliore di quello.
Istintivamente, osservai per differenza il mio corpo. Avevamo solo un paio di anni di differenza eppure il mio fisico era già quello di un uomo, magro e liso, ma pur sempre scolpito e con le spalle larghe. Mi aggrappai alla spalliera del letto per non vomitare. Un altro attacco di sonno, o fame, o qualsiasi istinto fosse, mi catturò le budella, facendole contorcere.
-Chiamo Upokrates? -.
-No-, biascicai, cominciando a boccheggiare sotto lo sguardo di tutti i presenti. Sentivo i loro sguardi trapassarmi, giudicarmi, sussurrarmi che ero un mostro. Leggevo la paura nella fissità delle loro pupille, un timore quasi sacrale verso i lividi e le cicatrici del mio corpo.
Li odiavo, li odiavo tutti. Sapevo che quella rabbia non era tutta mia, che parte mi era stata imposta dai trattamenti, ma davvero era impossibile ormai scindere il ragazzino che ero stato dall’uomo malvagio e distrutto che stavo diventando. Che senso aveva resistere? Che senso aveva opporsi a un Destino già scritto? Mi morsi con estrema violenza il polso, finchè il sangue non cominciò a gocciolarmi sulla punta degli anfibi, appagando il mio profondo desiderio di dolore e morte.
-Fobos…-, mormorò Deimos alle mie spalle, indietreggiando appena, gli occhi velati dalle lacrime. Anche lui si allontanava da me, quando perdevo il controllo. Fra loro non c’era nessuno che potesse tenere il mio passo, che potesse diventare abbastanza forte da camminare al mio fianco, da sostenermi in battaglia e diventare davvero sangue del mio sangue. Non avrei mai potuto toccare una donna senza il timore di desiderarne la morte, né abbracciare un figlio senza il rischio di frantumargli le ossa nel mio abbraccio. E allora che senso aveva vivere? Morsi ancora, con più forza, lasciando che le punte dei canini trovassero la loro via attraverso la carne ruvida delle mie braccia.
-Smettila, abominio! -, commentò qualcuno. Un ragazzino biondo con dei profondi occhi colore dell’ebano. Lo attaccai senza nemmeno pensarci, scattando come un predatore e ringhiando come un animale. Ma poco prima di riuscire ad afferrargli il collo, il mio mento sbattè rovinosamente contro il pavimento e mi ritrovai lungo disteso sul linoleum. Mi voltai, pronto a lottare, e vidi Achileos che mi tratteneva per un piede, nonostante stessi calciando come una bestia indomita.
-Dei benedetti, scusami, ragazzo-, mi pregò e, detto questo, mi colpì alla testa con l’impugnatura della sua katana. Vidi tutto nero, poi i suoni si smorzarono. Collassai, ma rimasi sveglio, cosciente e mezzo morto.
Perché non mi lasciavano dormire?

 

 

Mi svegliai. Mi ero nuovamente addormentato con il viso nella zuppa del refettorio. Gli altri soldati non avevano osato svegliarmi e ora mi ritrovavo i capelli inzuppati di brodo.
-Vado a fare una doccia-, annunciai atono, alzandomi con un immenso sforzo. Mano a mano che crescevo, il mio corpo aveva cominciato ad abituarsi alla continua sofferenza e ormai non ci facevo più caso. Quello che ancora mi urtava, invece, erano i commenti della gente e i loro bisbigli sommessi. Mi allontanai il più in fretta possibile, trascinando i piedi, e salutando i pochi volti che ancora mi concedevano il saluto.
Feci una doccia gelida. Svolsi con cura tutte le bende che mi ricoprivano braccia, gambe e persino il busto. Là sotto c’era un macello incredibile che mi disgustava ogni giorno di più. Vomitai nel lavandino, percependo un tremendo dolore al basso ventre. Accarezzai la pelle appena sotto l’ombelico, soffermandomi sulle piccole cicatrici delle siringhe. Poi sospirai, tirando un pugno allo specchio. I frammenti scivolarono a terra, cangianti, ferendomi le mani e le gambe.
Diciassette anni e nessuna probabilità di avere figli. Upokrates diceva che un soldato era molto più efficiente se non aveva distrazioni, ma avendo già provato, senza troppo successi, a privarmi del cibo e del sonno, ora non gli rimaneva altro che attentare alla mia virilità. Speravo che anche in quel caso le sue sperimentazioni fallissero miseramente.
Allontanai con i piedi quel pattume di vetri e mi infilai nella doccia, curvando la schiena per godermi la sensazione di freschezza sul dorso. Mi ripulii in fretta e furia, senza pensare ad alcunché. Lasciai che le lacrime mi scorressero lungo gli zigomi sempre più magri, e semplicemente finsi che fossero acqua.

 

 
Attaccavo con cattiveria. Non miravo a disarmare i miei avversari come chiedevano gli allenatori: io miravo a distruggerli. Annientarli. Non mi importava di sentire le loro urla, né di essere colpito. La sensazione di fare del male era troppo appagante.
-Basta. Cambio-.
Mi allontanai dal mio avversario, riverso a terra con il naso sanguinante, e mi sedetti sugli spalti della palestra. Sciolsi i capelli e li tamponai con l’asciugamano.
-Stai esagerando-.
Deimos. Perché dovevo trovarmelo sempre accanto? Perché semplicemente non poteva sparire?
-Non mi interessa-.
-E cosa sono quelle cose appese al tuo labbro? -.
Quasi senza pensarci sfiorai gli anellini appesi metallici appesi blandamente al mio viso. Non so perché li avessi fatti, ma mi ricordavano un po’ i canini dei lupi.
-Piercing-, risposi soprappensiero, mentre osservavo i miei compagni allenarsi. Era evidente come loro fossero un branco male assortito eppure estremamente funzionale. Ognuno di loro aveva un ruolo da ricoprire ed ognuno di loro era indispensabile ai compagni. E poi, e poi c’ero io. Quello diverso, quello alto il doppio degli altri ragazzi, quello violento che spesso come un cane infedele si rivoltava contro la sua stessa famiglia. Quello che non accettava le regole, ma che si sottometteva al padrone, scodinzolando come un cucciolo. Quello che piangeva solo quando non c’era nessuno nei paraggi, ma che non faceva nulla per nascondere i segni delle violenze che subiva. Qual era il mio posto in quel branco?
-Ehi! -.
Mi riscossi, quasi senza volerlo, quando vidi il braccio di Deimos agitarsi nell’aria. Stava salutando una ragazza dai corti capelli biondi che correva nella nostra direzione. Non ricordavo chi fosse, ma il suo viso mi era noto. Si fermò proprio di fronte a noi, bevendo dell’acqua fresca dalla fontanella ai piedi degli spalti.
-Come stai, Estya? -, domandò Deimos, dandomi un leggero colpetto con il gomito. Sollevai gli occhi al cielo e, senza dire nulla, cominciai a spruzzare sulle nocche il cerotto liquido. Non volevo coltivare quel genere di amicizie. Erano sterili e improduttive.
-Oh alla grande, ragazzi! Che sudata. Tu come stai, Fobos? -.
Sollevai lo sguardo infastidito, ma risposi comunque cortesemente alla sua domanda, forse con un pizzico di ironia.
-Alla grande-.
La giovane fece una smorfia di disappunto, arrampicandosi lungo i gradoni e sedendosi proprio di fianco a me. Il suo braccio toccò il mio, e a me venne la nausea.

 

 

Quella donna era diversa da qualunque altra creatura avessi mai visto. Era minuta e fragile; avrei potuto spazzarla via con un dito, eppure in qualche modo era più combattiva di un alligatore. Se ne stava seduta di fronte a me, con gli enormi occhi colore del miele che mi fissavano indispettiti.
Avevamo gli stessi occhi, la stessa sfumatura guerrafondaia in fondo alla retina, la stessa reticenza nel contare sugli altri.
Non avevo mai desiderato veramente una donna; le avevo sempre avvicinate per convenienza. Eppure nel guardare quella ragazza tremare di fronte a me, collegata a mille elettrodi e con i capelli scuri a coprirle il seno, non potevo fare altro che volerla.
Finsi indifferenza e cominciai a farle una serie di domande.
Lei rispondeva con quel suo tono di voce sprezzante, lanciandomi occhiatacce e nascondendosi il più possibile ai miei occhi. L’avevo trattata male, e persino traumatizzata forse. Allora perché non cedeva? Perché continuava a sfidarmi con gli occhi?
Decisamente non era una del branco. Era un lupo come me e i suoi occhi giallo lucente ne erano la prova. Forse questa Custode, Astreya, poteva diventare il compagno che Deimos o chiunque altro non ero riuscito ad essere. Poteva essere l’unica donna ad attrarmi psicologicamente e l’unica a essere abbastanza forte da stare al mio passo. O forse ero ammattito.

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 - Epistassi ***


Capitolo 24



-Deimos è tuo fratello?!-, esclamai, afferrando la maglia di Fobos e avvicinandolo a me. Lui sorrise mestamente, annuendo come un condannato a morte.
-Sì, ma ti prego di non dirglielo. Non credo che lui ne sia al corrente. I nostri genitori non avrebbero mai sopportato l’idea di rivelare al figlio prediletto di essersi sbarazzati del fratello maggiore-.
Le mie nocche si strinsero attorno alla stoffa, raggrinzendola e tirandone le fibre. Quanto era stato crudele il Destino con Fobos? Capivo perché ora mi ritrovavo al suo fianco: eravamo davvero simili e solo un altro Aborto come me avrebbe potuto sostenere la crudezza e la spietatezza della sua esistenza.
-La tua vita è stata… terribile-.
Fobos sorrise, graffiandosi le labbra con le punta acute dei denti. Era un sorriso amaro quello che gli tese il volto, ma non di certo autocommiserativo.
-E’ stata utile, direi. Utile per capire di chi potermi fidare, per diventare più forte e per poter capire come muovermi in questo mondo. Terribile, perché spietata, certo, ma non così diversa dalla tua-.
-Forse hai ragione. Ma la differenza fra me e te è che io sono nata con questo mostro nel mio stomaco, con questa propensione per la magia. Tu no, invece-.
Fobos si mosse rapido, schivando un uomo alto e mingherlino che correva sbattendo le ali.
- Astreya, i tuoi genitori sono in tutto e per tutto simili ai miei. Ci ritengono difettosi per vari motivi, ma hanno comunque individuato in noi un gene estraneo, qualunque esso sia-.
Aveva ragione. Effettivamente non importava che io fossi una disturbata e lui un indesiderato. Entrambi eravamo delle anomalie in questo mondo, piccoli parassiti che non sarebbero mai dovuti esistere. Ma eravamo anche di più: eravamo curiosi, svegli, indipendenti e con una personalità spiccata. Non ci adattavamo alle altre persone, ma cercavamo di adattare loro a noi. Un po’ come un cancro infettavamo tutto ciò che ci circondava, tramutando la realtà degli altri nella nostra realtà, lottando per contagiare un mondo asettico abitato da antibiotici ambulanti.
-Credo di capire il tuo ragionamento. Prego solo che questo viaggio non si concluda con la nostra morte. Siamo già stati annientati dal mondo anni fa e non voglio assolutamente che una cosa del genere ricapiti-.
Ero convinta che la nostra missione fosse fin troppo rischiosa e temeraria per due rifiuti come noi, ma forse proprio perché andavamo contro ogni previsione e logica umane, potevamo arrischiarci ad affrontare quell’imprevedibile viaggio.
-Forza, non abbatterti. Siamo arrivati fin qui-, commentò Fobos, accarezzandomi i capelli e osservando i Gyps librarsi sopra le nostre teste come avvoltoi.
Allungai la mano, sfidando la luce del sole, e chiudendo un occhio per mirare meglio, avvolsi con le dita quegli uomini, così piccoli visti da dove eravamo noi. Sembravano zanzare silenziose o farfalle libere di esplorare il mondo, senza alcuna regola, senza alcuna morale da seguire se non quella dettata dal loro cervello. Era un mondo che a me era completamente estraneo e che non mi sarebbe mai appartenuto, però in qualche modo era affascinante. Lo amavo e lo odiavo al tempo stesso perché sapevo di non poterlo avere. Strinsi le dita attorno alla figura di uno di quei volatili umani, fingendo di schiacciarlo. Dopo un breve istante nel quale la sua immagine sparì fra le mie dita assieme al sole, il piccolo insetto schizzò via, avvolgendosi in spirali ed evoluzioni. Ero io la prigioniera, non loro.
-Dai andiamo a mangiare, che domani ci attende una giornata pesante-.
Tornammo alla stanza, dove ci attendeva un pasto caldo. Xerse era riuscito a rimediarci qualche borraccia di acqua, estratta dai pozzi che circondavano il villaggio, una razione di formaggio stagionato e due pani raffermi, di quelli che probabilmente rubavano agli sfortunati viandanti.
-Stiamo mangiando del cibo trafugato-, commentai disgustata, osservando i piatti davanti a noi come fossero avvelenati. Fobos afferrò il tozzo di pane e, con una scrollata di spalle, cominciò a rosicchiarlo.
- Tu mangia il resto. Io sono progettato per resistere con pochissimo cibo, per cui…-
-E’ cibo rubato! Magari hanno anche ucciso per averlo-, ripetei, sconcertata dalla poca reattività di Fobos alle mie parole.
-E con questo? Fuori dal Tempio, Astreya, vince la legge del più forte. Dovresti saperlo. E poi, dai, seriamente, pensi che non mangiando riporterai in vita quei morti? -.
Incrociai le braccia davanti al petto e cominciai a dondolare sulla sedia, imponendomi di non toccare nemmeno una mollica di quel pane. Chiusi gli occhi e sollevai il mento.
-Ma quanti anni hai? Due?!-, borbottò Fobos facendo strisciare la sua sedia verso la mia.
-Tre-, obiettai piccata, socchiudendo un occhio per capire che espressione stesse colorando il volto di Fobos. Nervosismo: si stava massaggiando la base del naso, il sopracciglio sollevato e una smorfia di estremo fastidio sul viso.
Le sue dita si chiusero con forza attorno alla fetta di pane e con un gesto talmente rapido da non essere nemmeno visibile a occhio nudo, me lo ficcò in bocca, premendo con rabbia per cacciarmelo giù a forza. Cominciai a tossire, stupita da una mossa tanto inattesa e bevvi avidamente l’acqua che, dopo qualche istante Fobos, mi porse.
-Non fare più cazzate del genere! Non quando non sono sotto iniezioni-.
Annuii e deglutii in fretta il cibo. Mangiai in silenzio il resto della cena, pregando Fobos di addentare almeno un pezzetto di formaggio, ma fu irremovibile. Rimase a guardarmi per tutto il tempo, assicurandosi che mi nutrissi adeguatamente e solo quando ebbi finito tutto quello che c'era nel piatto, scivolò a letto. Io lo seguii a ruota, gli occhi pesanti e la pancia piena. 
La mattina successiva fu Fobos a svegliarmi. Dolcemente.Con una gomitata nelle costole. Riuscii soltanto a mugugnare qualcosa prima di cadere dal letto con tutte le lenzuola annesse. 
–Mister gentilezza si è svegliato-, mi lamentai afferrando il bordo del letto e tirandomi in piedi.  Sentivo la fronte bollente e la testa leggera. Il mio corpo sudava e mi sentivo scossa da brividi.
-Zitta, gallina-.
La voce di Fobos era ancora impastata dal sonno e il viso era affondato fra i capelli aggrovigliati come tentacoli di un mostro marino.  Mi sedetti sul bordo del materasso, passandomi una mano sulla fronte e al contempo spiando il ragazzo accanto a me. Aveva il respiro pesante e la luce che filtrava dalla finestra proiettava l’ombra delle ciglia sulle sue guance. Sembrava una pantera durante la pennichella: le fauci ancora sporche di sangue, ma per il resto sonnolenta e pacifica.
-Vado a farmi una doccia-, annunciai, ma Fobos non rispose. Era sveglio, lo sapevo, ma probabilmente dopo avermi rivelato il suo passato e aver confessato di provare attrazione nei miei confronti, non aveva voglia di parlarmi.  Quindi, sgattaiolai in bagno, aprendo il rubinetto della doccia e spogliandomi. Feci attenzione a non farmi del male, studiando il movimento delle stoffe ed evitando che venissero in contatto con le bruciature. Fu un’impresa difficile, ma alla fine riuscii.
Scivolai sotto l’acqua fredda, ispirando a fondo quando il getto colpì tutte le mie ammaccature. Facevano male e bruciavano, ancora in preda alle fiamme.
Mi sentivo debole e spossata, e come sempre, quando non mi veniva somministrata la Cura, iniziavo a vedere oltre lo specchio della mia realtà quelle ombre danzanti. Iniziai a vedere storto, a percepire l’acqua come artigli affamati della mia carne. Gemetti.
-Tutto bene? -.
La voce di Fobos era incredibilmente vicina e, voltandomi, intravidi la sua sagoma oltre la tenda del bagno. Avvampai e indietreggiai, con il risultato di conficcarmi il rubinetto nel fianco. Percepii un dolore talmente lancinante che non riuscii a stare in silenzio e un singhiozzo mi sfuggì dalle labbra. 
Scivolai a terra con gli occhi chiusi, stringendo la parte lesa, imponendomi di non fare alcun verso e di ignorare le ombre che zigzagavano tra le gocce di quella pioggia calcarea.
Avrei voluto che Fobos si allontanasse il prima possibile, ma lui sembrò pensarla diversamente. Spalancò, infatti, la tenda, incurante del fatto che fossi nuda e, calatosi i jeans per non bagnarli, entrò nella doccia.
-Ti sei fatta male? -, domandò, sfiorandomi appena il fianco. Lo guardai negli occhi, mentre lui controllava le bruciature, rigirandomi braccia e gambe. I capelli, appesantiti dallo scroscio del soffione sopra le nostre teste, gli si erano appiccicati al torace e dei rivoletti di acqua gli si infilavano nelle cavità del corpo e fra le labbra. Era già completamente bagnato, eccezion fatta per i suoi occhi; quelli erano infuocati come sempre e sembravano respingere il vapore impalpabile attorno a noi.
-Hai la febbre-, disse alla fine, sollevandomi i capelli dalla fronte e poggiando il palmo fresco sulla mia pelle. Mi lasciai scappare un sospiro, poi mi aggrappai alle spalle di Fobos, e dopo che ebbe contato fino a tre, ci sollevammo entrambi. Era strano stare così vicini: sentivo il mio cuore battere contro il suo e la mia pelle bruciare la sua.
-Ce la fai a stare in piedi? -, mi chiese senza veramente lasciarmi andare. Annuii distrattamente osservando le sue spalle ricoperte di cicatrici e i fiumi neri dei suoi capelli.
Mi rimisi in posizione eretta, barcollando leggermente.
-Brava ragazza-, sorrise lui, passandomi una mano fra i capelli fradici. Poi con delicatezza spostò le dita sul mio fianco, osservando la bruciatura con attenzione.
- Dopo averla pulita, mettici su l’unguento che ci hanno dato, e fasciala per bene-, mormorò senza distogliere lo sguardo dai miei occhi. Si stava sforzando di non farmi sentire a disagio, di non farmi imbarazzare di fronte ai suoi occhi che percorrevano ogni centimetro del mio corpo. Era gentile a modo suo, ma mi dava anche fastidio. Dopo aver scoperto cosa realmente Fobos pensasse di me, non potevo fare a meno di chiedermi cosa avrebbe fatto se ora mi fossi buttata fra le sue braccia. Se in qualche modo avesse reagito, se per caso non avesse cambiato idea su di me. In fondo che male c’era ad affidarsi a lui per una volta? Avevo davvero bisogno di una spalla su cui riposare, di una mano che mi accarezzasse la schiena. La stanchezza di quei giorni mi era caduta addosso come un macigno e mi aveva trasportata via come una corrente impetuosa.
Perciò, assecondando i miei pensieri, feci qualche passo in direzione di Fobos, il quale, sorpreso, indietreggiò fino ad incontrare la parete con la schiena. Non potendo più scappare, si limitò a guardare da un’altra parte, distendendo le braccia lungo i fianchi.
-Che fai? -, domandò titubante, scostandosi i capelli dalle labbra e continuando a ignorarmi.
Perché lo faceva? In fondo erano suoi i pensieri che avevo scandagliato, sue le immagini che i miei occhi avevano visto. E allora perché io, fra tutte, sembravo fargli paura?
Appoggiai il capo sul suo petto, lasciando che l’acqua mi frustasse la nuca, e le mie mani si aggrapparono alla sua schiena, così magra che potevo contare le vertebre a una a una.
Fobos per un istante smise di respirare, poi, capendo che non mi sarei scostata, mi sfiorò le spalle con le mani, facendole scorrere lungo le mie braccia, e intrecciandole, per finire, ai capelli incollati sul dorso. Inspirai il profumo della sua pelle e mi strinsi ancor di più a lui, schiacciandolo contro le fredde piastrelle sbeccate.
-Astreya…-
Mugugnai qualcosa contro il suo petto, ma non mi scostai. Era piacevole essere abbracciati; me ne ero quasi dimenticata, ma ora, dopo anni, potevo godermi ancora quell’insperato calore.
-Astreya, spostati-, sussurrò Fobos, proteggendomi il viso dall’acqua quando sollevai lo sguardo. Ero circondata dalla cascata nera dei suoi capelli che si confondevano con i miei, ricadendomi scomposti sulle spalle.
-Perché? -.
-Perché sono un uomo. E tu sei nuda-.
-Scusami, hai ragione. Però davvero non riesco a…-, cominciai a dire, rassegnata all’idea che le mie ginocchia non volessero collaborare. Poi lentamente scivolai lungo il busto di Fobos. Mi sentivo svenire e lo scroscio della doccia mi rimbombava nelle orecchie come una tempesta senza fine. Fobos fu rapido. Mi prese in braccio e cautamente uscì dalla doccia, avvolgendomi in un asciugamano ruvido e riscaldato dai raggi mattutini del sole. Infine si sedette sul letto, tenendomi in braccio e cullandomi piano piano.
-Adesso ti disinfetto le ustioni. E poi berrai quell’intruglio, visto che sembra che a quella Bendata abbia concesso di sopravvivere senza il Tempio-.
Annuii, riuscendo a visualizzare soltanto la scia dorata dei suoi occhi. Mi sentivo nuovamente bambina, al caldo e protetta. Non dovevo preoccuparmi delle ombre che mi ghermivano gli occhi o di quelle che mi stritolavano il cranio. Ora avevo qualcuno che badava a me.
Lasciai che Fobos mi scoprisse il fianco e analizzasse la pelle bruciata. Era rossa e pulsante, ricoperta da piccole, ma dolorose piaghe. Presi a tremare violentemente e a sbattere i denti, quando Fobos mi scoprì ulteriormente per analizzare il resto del corpo.
-E’ l’astinenza. Anche io ci sono passato. Ti sembra di morire, vero? -.
Annuii, mentre mi abbracciavo il busto cercando di mantenere intatto il mio fisico distrutto.
-Sei così minuta…-.
-Non lo sono-, obiettai, mordendomi il labbro. Il disinfettante bruciava da morire e la sensazione che mi dava era quella di essere stata contagiata dal veleno di un serpente.
Fobos cominciò a tamponarmi la ferita, inzuppando la punta cotonata in un liquido semitrasparente con dei riflessi violacei.
-Io ti ho mostrato praticamente tutto del mio passato, ma tu rimani un mistero per me-.
Mi aggrappai con forza al suo braccio, quando sentii le bende avvolgermi strette, grattando contro la pelle danneggiata.  Le ombre avevano cominciato a riavvicinarsi terribilmente, allungando i loro runcigli su di me, cercando di strapparmi gli occhi e mordendomi le ossa. Cominciai ad avere paura, circondata da un mondo pieno di spettri che non avevo mai visto nella sua interezza.
Fobos alzò un sopracciglio quando vide i miei occhi riempirsi di terrore e il mio corpo ricominciò a sussultare convulsamente. Non sapeva che lentamente quei mostri, attirati dalla mia vista, mi stavano trascinando nella loro realtà, quel posto al quale sapevo che la mia parte più profonda apparteneva. Dovevo uscirne, al più presto. Eppure non riuscivo a parlare; riuscivo soltanto a lottare contro l’inesorabile declino della mia mente, mantenendomi lucida il più a lungo possibile e presente a me stessa.
Fobos sembrò non capire cosa mi stesse accadendo, ma constatando la forza con cui stringevo i denti e mi tenevo a lui, fece la scelta giusta. Prese l’Oruktà dal comodino accanto al letto e senza pensarci due volte mi costrinse a ingerire l’intera borraccia. Sentii immediatamente un freddo raggelante dentro di me e il mio mostro fuggire verso i meandri nascosti del mio corpo, laddove non sarebbe potuto essere debellato. Le ombre baluginarono in aria come ali di pipistrello impazzite e schizzarono via, allungandosi sui muri, disperdendosi sotto al letto e sbrodolando tra le fessure dei muri e degli infissi. Sospirai, mentre i battiti del mio cuore rallentavano.
-Grazie-, ansimai, mentre le goccioline di acqua rimaste incastrate fra i miei capelli e sul mio corpo evaporavano, friggendo come olio sulla pelle.
-Di nulla.-.
 

 

 

Il Tachiforo si presentò a noi come un ammasso caotico di rottami e detriti, cuciti assieme da saldature e bullonature a dir poco caserecce. Non c’erano vetri ai finestrini e questi si aprivano come occhi spalancati sul paesaggio brullo che ci circondava. Il mezzo, in sostanza, ricordava un pasciuto e lucido lombrico che si librava sulle rotaie come un fachiro in pensione, appesantito dagli anni e stanco di essere punzecchiato.
-Ma noi dobbiamo salire là sopra? -, fu la mia obiezione quando vidi il treno merci che ci avrebbe trasportato attraverso il Deserto e l’imponente catena di rotaie ondeggianti su cui quest’ultimo sarebbe corso, simili in tutto e per tutto a scheletri di dromedari e cammelli.
Xerse, che aveva accompagnato me e Fobos alla stazione, sogghignò divertito.
-Sarà un bel giretto. Queste grosse strutture sono state ricavate dall’ex-colonia di Freakland-.
-La città luna park? -, bofonchiò Fobos, il quale nonostante la temperatura torrida di quella mattina, indossava una felpa nera pesante.
-Sì, ormai è stata smantellata. Quando hanno capito che si trattava di uno strumento per incamerare soldi e lucrare sul desiderio di evasione della povera gente, alcune brigate di sediziosi hanno cominciato a sbrindellare tutte le attrazione, riguadagnandosi in tal modo tutti quegli arretrati pecuniari che lo Stato si era intascato incassando la parcella dei ticket-.
Cercai di figurarmi una città nata per il divertimento, così artificiosa e mirabolante da apparire alternativamente come un paese dei balocchi e come un incubo distorto. Era davvero inquietante pensare ad una città carosello, abitata da tutti e da nessuno.
-Beh, credo che da qui le nostre strade si dividano, Xerse-, esclamò Fobos, stringendo la mano al Gyps. –Mi dispiace di averti creato dei problemi, in special modo con Lakesi, e ti ringrazio di aver scelto di mercanteggiare con noi-.
Xerse sorrise mentre una lieve folata di vento e sabbia ci spettinava i capelli.
-Dovere. Non amo l’Esercito e non mi fido dei Religiosi, perciò accolgo con piacere chiunque abbracci la causa dell’indipendenza-.
Per la prima volta nella mia vita mi sentii una ribelle, non più una qualunque pecora del gregge.
E anche se non sapevo ancora se essere associata ai sediziosi mi piacesse o meno (specialmente dopo che avevo svolto ossequiosamente i miei compiti da soldato, rischiando la vita), vedere quella scintilla di ammirazione negli occhi del predone mi rinfrancò lo spirito più di qualunque altro tonico.
-Fate buon viaggio, alleati. E che la Sorte vi assista. Ricordatevi, una volta giunti al Sandpit, di chiedere di Alpha-1 e Gamma-x. Loro sono gli unici che possono davvero aiutarvi-.
Fobos lo ringraziò cortesemente, poi mi sospinse sul treno. Non vedevo l’ora di partire e di giungere dai Mauriani. Da loro avremmo finalmente trovato le risposte alle nostre domande.
Ci imbarcammo rapidamente, trovando posto fra delle enormi casse di legno, malamente imballate. Il Tachiforo non era molto spazioso, per cui dovemmo sederci il più vicini possibile, nascondendoci alla vista di chiunque non fosse a conoscenza della nostra presenza su quel cargo.
-Si parte-, commentai, quando un altoparlante gracchiò una serie di parole sconnesse. Il mezzo cominciò lentamente ad avanzare e ben presto acquistò velocità.
-Sembra quasi di volare-, risi, notando il colorito molto poco roseo di Fobos. Si teneva stretto lo stomaco e fissava un punto qualsiasi di fronte a lui. Soffocai una risata: fino a qualche ora prima ero io ad essere stata male e ora anche lui sembrava sul punto di vomitare. Cominciai quindi a pensare ad una battuta divertente per farlo infuriare o perlomeno per distrarlo dalle continue salite e discese di quelle mirabolanti montagne russe, ma quando vidi una densa scia di sangue scivolargli dal naso lungo il prolabio e le sue dita bianche tingersi di rosso per arrestarlo, la mia espressione mutò repentinamente e una cieca paura mi fece contorcere le budella.
-Stai bene, Fobos? -.
Il mio tono preoccupato non sfuggì all’Ibrido, il quale si voltò verso di me ripulendosi malamente l’epistassi.
-Astinenza. Purtroppo su di me quell’intruglio non funziona. Sono immune a ogni tipo di tossina o medicinale che non siano le iniezioni che Upokrates mi faceva al campo-.
Portai istintivamente la mano alla bocca. Presa come ero dalle mie sofferenze non avevo minimamente pensato che Fobos potesse stare male come stavo io. Ero stata egoista e non avevo pensato a nessun altro all’infuori di me. Invece lui aveva disertato senza pensare alle conseguenze e mi aveva cullato mentre stavo male ignorando il suo stesso malessere, anteponendo me a lui.
Grazie agli Dei, però, potevo aiutarlo. Conoscevo Medeya e durante gli allenamenti con i Biotecnici avevo imparato molte cose. Di certo non avevo scoperto i segreti dell’Accademia, ma osservando l’altra Custode all’opera avevo acquisito nuove doti, doti che ora mi sarebbero tornate utili.
-Guardami, Fobos-, gli dissi, stringendo gli occhi e girandogli dolcemente il volto. Sembrava un animale ferito con quella macchia rossastra appena sopra il labbro e quegli occhi vulnerabili e imbarazzati. Mi concentrai su di lui, sul suo corpo che stava soffrendo e sulle sue molecole che tremavano impazzite sobbalzando di qua e di là. Poi immaginai che quello stato, quella energia consumata e quelle ossa distrutte appartenessero a me. Trasportai parte del suo malessere nel mio campo, appesantendomi la mente e vacillando io stessa. Era questo il dolore che Fobos doveva sopportare ogni giorno? No, questo era solo la metà di quello che lui realmente pativa.
Cominciai a sentire gli occhi bruciare e le articolazioni sgretolarsi sotto il peso dei muscoli in perenne contrattura. Un cerchio alla testa mi colse impreparata cingendomi le tempie come una corona di spine e un lungo tremore mi squassò la colonna vertebrale. Feci appello alle mie povere doti di Demoniaca per rafforzare il mio scheletro e sostenere la sua malattia.
Poi sollevai gli occhi su Fobos. Aveva le iridi scure come la pece e collose come il petrolio. Muoveva lo sguardo a destra e a sinistra, cercando di capire a cosa dovesse quel lieve sollievo che sentiva. Il palliativo ero io e lo capì ben presto, non appena anche a me cominciò a sanguinare il naso. Il mio sangue era più chiaro di quello di Fobos e anche più liquido. Scivolò lento sulle mie labbra per poi riflettere la sua sfumatura mortale nelle pupille dell’uomo che mi stava di fronte.
-Cosa stai facendo? -, sussurrò sconvolto, cercando di liberare il volto dalle mie mani. Ma io non ero ancora pronta a lasciarlo andare, potevo ancora sostenere un briciolo della sua sofferenza. Ancora un po’, un ultimo sforzo. Solo quando raggiunsi il limite e l’aria cominciò a sfuggirmi dai polmoni lo liberai, ansimando e sudando.
- Stai meglio? -.
-Non dovevi farlo! Devi rimanere in forze-, mi sgridò il giovane, allungando il pollice e strisciandolo sul mio arco di Cupido. Sentii la consistenza vischiosa del sangue essere trascinata via dalla ruvidezza dei suoi polpastrelli e il suo respiro caldo a pochi centimetri dal mio volto.
- Fobos, anche tu devi rimanere in forze! Ricordati che abbiamo un Debito e che non possiamo separarci. Mai. Io dipendo completamente da te e tu da me. Che ti piaccia o no. E ora stai zitto che mi dai sui nervi-.

 

 

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Capitolo 26
*** Capitolo 25- Bug ***


Capitolo 25

Il Sandpit era un immenso cratere in mezzo al Deserto, una incredibile voragine creatasi chi sa come, forse da una frattura della Terra, forse dall’impatto con un meteorite. Stava di fatto che il canyon che ci si stagliava di fronte era qualcosa di sorprendente. La sabbia, sospinta da feroci raffiche di vento, pioveva dai bordi frastagliati in cascate d’oro, mentre i puntuti tralicci delle torri petrolifere resistevano all’assalto di quella marea di cavalloni. C’erano almeno una decina di jack-up attorno alla circonferenza immensa del canyon e tutti poggiavano su un unico deck sostenuto da tre tralicci. Erano strutture tipicamente progettate per un impiego diverso da quello che stavano svolgendo, ovvero per piattaforme offshore, in mare. Ma dal momento che la Terra non aveva molti idrocarburi rimasti da sfruttare, la nostra fame nera ci aveva spinto a smantellare gli impianti petroliferi infecondi e a rivenderli a qualcuno che, come i Mauriani, sapeva cosa farci. In fondo il moto della sabbia non era così diverso da quello dell’Oceano ed era bastato giusto qualche accorgimento ingegneristico per mettere in piedi quello zoo di giraffe metalliche e quella selva di derrik, piramidi scheletrite e tetre.
Avanzammo in direzione del baratro, coprendoci gli occhi con le sciarpe e lottando contro la sabbia che ci scivolava da sotto le suole lise degli anfibi. Era davvero una fortuna aver raggiunto il Sandpit alle prime ore dell’alba quando il sole ancora non era alto nel cielo, altrimenti saremmo morti disidratati: non ci rimaneva nemmeno un dito d’acqua nelle borracce e non vi era l’ombra di piante grasse nel raggio di chilometri.
-Guarda-, mi disse Fobos, appoggiando a terra lo zaino e indicandomi la città ai nostri piedi.
Mi spinsi sull’orlo della voragine, piegandomi leggermente per proteggermi dalle sferzate di sabbia e vento.
Sulle pareti rocciose del Sandpit, rosso scuro e color terra bruciata, erano state scavate delle gallerie spiraliformi che stritolavano l’intero canyon come le spire di un serpente. Sembrava che una tarma gigante avesse intarsiato quel vecchio mobile, ottenendone un pizzo delicato e alquanto fragile.
Sul fondo, invece, si trovavano degli edifici bassi ricoperti da quelli che sembravano essere pannelli solari, un grosso palazzo bianco latte a forma di piramide, e molti, moltissimi ingressi sotterranei. C’erano fessurazioni enormi nella terra, troppo precise e calcolate per essere unicamente un labirinto di aridità scavato e seccato dai raggi del sole. Quelli erano cunicoli e quelle larve bianche che fin da lassù vedevo altro non erano che impalcature, camminamenti e scale; probabilmente farle in metallo avrebbe significato ustionare metà della popolazione. Quella meno intelligente, diciamo.
-E’ sorprendente, non credi? -.
Fobos sollevò le spalle, sedendosi nella sabbia e asciugandosi il sudore dalla fronte. La benda che portava attorcigliata al polso era ancora intrisa di sangue e il suo colorito non era migliorato. Confrontandolo con il mio di polso, sulle cui garze vedevo solo una vecchia macchia raggrumata, mi resi conto di quanto Fobos necessitasse una cura. Non so cosa mi era saltato in mente quando l’Ibrido mi aveva proposto di estrarre chirurgicamente dal polso il chip di riconoscimento. Forse la speranza di non essere rintracciati dall’Esercito, o forse il senso di libertà che dava liberarsi di quella maledetta cimice. Sta di fatto, che ci eravamo scavati un solco nella pelle pur di espellere quell’oggettino e per farlo avevamo usato solo acqua bollente e un coltello arrugginito. Era chiaro che ora Fobos stava male. Lui non era come me, in fondo era pur sempre un umano.
-Fa male? –
Fobos mi indirizzò uno sguardo confuso, come se non capisse a cosa mi riferivo. Dovetti indicargli il polso per fargli prendere visione di quella garza suppurante sangue.
-Ah, non me ne ero nemmeno accorto. Spero solo di non perdere il braccio. Mi dispiacerebbe, ci sono affezionato-, ridacchiò lui, rivoltando la testa all’indietro. Non lo trovavo per nulla spassoso, anzi.
- Tu e il tuo umorismo del cazzo. Ecco perché non mi sei mai piaciuto-, gracchiai, afferrandolo per un gomito e cercando di rimetterlo in piedi.
Fobos pigramente assecondò i miei movimenti e in un attimo fu di nuovo al mio fianco. Contemplò qualche istante il labirinto di cunicoli sul fondo del Sandpit, poi con tutta la tranquillità del mondo mi domandò: - E noi come ci arriviamo là sotto? -.
Sollevai le spalle. Non avevo idea di come avremmo raggiunto il fondale di quell’abisso, ma una cosa la sapevo. Dovevamo sbrigarci.
-Dovrebbe esserci un accesso da qualche parte, a meno che i Mauriani non escano mai dalla loro buca-.
Osservai Fobos con la coda dell’occhio. Il suo comportamento era davvero fuori dal comune e rasentava l’isteria. Non lo avevo mai sentito fare battute del genere, né ridere di fronte a situazioni che di divertente avevano davvero ben poco.  Non sapevo effettivamente come le iniezioni infierissero sul suo corpo e la sua mente, ma cominciavo a farmene una vaga idea.
-Senti, tu rimani qui. Io vado a farmi un giretto-, tentai, certa che mi sarei mossa più velocemente senza di lui. In un certo senso mi dispiaceva abbandonarlo lì, in mezzo a quella desolazione e a quelle torri di ferro, ma che altra scelta avevo? Appoggiai lo zaino a terra e presi unicamente le cose che pensavo mi sarebbero servite, più un coltello per ogni evenienza. Gli ultimi residui di acqua, invece, li lasciai a Fobos, sperando non facesse l’eroe e la bevesse in caso di bisogno.
- Non pensavo mi avresti abbandonato nel Deserto-, mormorò lui, quando ormai ero pronta per cominciare la mia esplorazione del periplo. Mi voltai con gli occhi strabuzzati: non potevo credere alle mie orecchie. Fobos se ne stava in piedi alle mie spalle con le braccia stese lungo i fianchi e un’espressione tra l’andato e il ferito. Non sopportavo il fatto di doverlo vedere così.
-Non voglio lasciarti qui! Sei ammattito?! Avrei fatto prima a farti fuori nel Deserto se avessi voluto, brutto idiota-, urlai, prima di tirare un calcio alla sabbia.
-E allora vengo con te. Sei così magra che una folata di vento potrebbe farti precipitare nel Sandpit-.
Sbuffai. Perché doveva essere così fastidioso? Ignorai il suo commento: speravo, infatti, che desistesse non appena si fosse accorto che il suo fisico non avrebbe retto un metro di camminata in più. Purtroppo, la testardaggine di Fobos ebbe la meglio, e passo dopo passo mi seguì per tutto il percorso, ciondolando e traballando come un vecchio giunco storto.
Per quanto mi riguardava, ora avevo una complicazione in più: dovevo, infatti, portare a termine due compiti al posto di uno solo. Dovevo, per prima cosa, assicurarmi che il mio compagno non schiattasse improvvisamente, affondando nella sabbia come un blocco di cemento, e, in secondo luogo, dovevo trovare un camminamento che ci conducesse all’interno della città dei Mauriani. Niente di più semplice.
Scrutai ogni singola pendenza della roccia, ogni friabile appiglio, ogni nervatura di diverso colore, ogni stupido sasso. Ma il canyon sembrava irraggiungibile.
-Stupidi imbecilli-, imprecai, asciugandomi il sudore dalla fronte. Il sole ormai si era alzato e la sabbia iniziava a scottare. Fobos, accanto a me, con lo sguardo perso, boccheggiava e la sua pelle era ricoperta da un sottile strato di sudore. Sembrava respirare a fatica e, appena sotto la canotta, intravedevo i segni di quella che sembrava un’ustione abbastanza importante.
-Forza, sediamoci -, lo chiamai, indicandogli l’ombra bucherellata di un vecchio traliccio crollato. Sembrava la carcassa di un rettile enorme da dove eravamo e mi ispirava tutto tranne che fiducia, però era l’unico oggetto nel nostro raggio di azione ad avere un cono d’ombra sufficiente ad ospitare entrambi. Scivolammo, quindi, in direzione del relitto, fiacchi e affamati.
Raggiungemmo in breve i primi resti, spazzati via dal vento e corrosi dai granelli di sabbia, per poi dirigerci a rapidi passi verso il corpo centrale. Fu solo a qualche passo da quest’ultimo che Fobos si arrestò di colpo, bloccandomi una spalla con la mano. Mi voltai, indispettita, certa che mi avesse trattenuta per qualcosa di estremamente stupido e, invece, notai che le sue orecchie erano tese come quelle di un segugio, in ascolto, e che un nuovo rivoletto di sangue gli stava scivolando lento dal naso.
-Non siamo soli. Meglio nasconderci-, sussurrò, indicandomi una lamiera d’acciaio impalata nel terreno a qualche metro da noi. Ci accovacciammo come animali e serpeggiammo in mezzo a quel cimitero di resti fino alla lastra, dietro la quale ci nascondemmo.
- Quanti sono? -, domandai, sporgendomi appena dal bordo per cercare di individuare gli estranei.
-Non lo so. Faccio fatica a concentrarmi-, ringhiò Fobos, tenendosi la testa fra le mani nel disperato tentativo di isolare i disturbi e ricevere meglio i segnali che lo circondavano.
Notai che l’epistassi non si era ancora arrestata e che, anzi, sembrava farsi sempre più copiosa. Persino la benda sul polso ormai non era altro che un fazzoletto macilento intriso di rosso.
Non potevo farmi scrupoli a questo punto. Non importava più chi fossero le persone là fuori: erano il nostro unico lasciapassare per la città.  Non importava nemmeno più se fossero persone buone o innocue. Io dovevo tutelare Fobos, e anche me stessa, perciò quello era il momento giusto per essere egoisti.
-Tu resti qui, capito? Non voglio sentire storie. Al momento non sei in grado di fare nemmeno la più piccola cosa-.
Lo sguardo di Fobos si fece incendiario e la sua aura mi schiaffeggiò con forza, avvampando di rabbia.
-E dovrei stare qui a guardare una donna battersi per me? -, sputò fuori, scandendo con tremenda lentezza ogni singola parola.
- Preferisci aspettare di morire qui? No, perché sto perdendo la pazienza-, obiettai, spingendolo con le spalle contro la lamiera bollente. Al giovane sfuggì un gemito di dolore. -Lo vedi, non riesci nemmeno a respingermi. Quindi stai qui buono-.
Non gli diedi nemmeno il tempo di rispondere. Rapidamente mi spostai in avanti e con un balzo superai la lamiera di acciaio.  Attorno a me, c’erano soltanto sabbia, sabbia a perdita d’occhio, e qualche nascondiglio metallico. Niente di più: non si udivano voci e l’aria era pregna dell’ululare tetro del vento.
Mi concentrai, aprendo uno spiraglio al mio mostro e mandando in visibilio tutte le mie terminazioni nervose. Dovevo ricorrere a tutto ciò che avevo imparato sia come Custode, sia come soldato, sia come Polivalente.  Camminai a lungo, cominciando a dubitare dell’udito di Fobos, e infine mi ritrovai di fronte una struttura enorme ricoperta e tempestata dalla sabbia. Era una fixed platform, o meglio quello che ne rimaneva. Sentivo i lugubri scricchiolii della travatura reticolare e il tremolante ondeggiare dell’edificio fatiscente; non promettevano nulla di buono. Mi intrufolai all’interno della struttura, seguendo un impulso poco razionale. Dovevo riuscire a isolarmi da tutto il resto e percepire nitidamente ciò che mi circondava, o mi avrebbero scoperto prima che potessi muovere anche solo un muscolo.
Un cigolio appena accennato mi fece saettare verso destra, dietro a un traliccio divelto. Un uomo si stava avvicinando nella mia direzione, spuntato all’improvviso da dietro una specie di cartellone pubblicitario. Era un rettangolo arrugginito, mezzo accartocciato e conficcato nella sabbia. Sopra, con una calligrafia asettica e per nulla accattivante, si leggeva solamente un nome. SeaXpetroleum. Doveva essere il nome dell’azienda che gestiva i pozzi prima che andassero in malora. Questo, tuttavia, non mi diceva nulla sulla figura che avanzava nella mia direzione. La spiai cauta dal mio nascondiglio improvvisato. Si trattava di un uomo sulla trentina con barba e capelli color verde brillante e una quantità di tatuaggi davvero incredibile. Era armato, notai; indossava una imbracatura dentro la quale era adagiato un sottile fucile e ai fianchi portava appeso un cercapersone. L’unico vantaggio che mi era offerto dal Destino era il fatto che le mani dell’uomo fossero occupate nel sostenere una specie di metal detector e che questo emettesse dei bip acuti ogni secondo esatto.  Mi appoggiai con la schiena al pilastro ed estrassi il pugnare dal laccio che aveva legato alla caviglia. Avrei dovuto pregare forse, pregare di riuscire a cavarmela senza ucciderlo o pregare di ucciderlo e non venire attaccata da altri suoi compagni. Ma la mia mente si rifiutava di ragionare, assordata dai battiti del mio cuore. Non era la prima volta che cacciavo qualcosa, ma al Tempio si era trattato perlopiù di gatti. Li avevo sfruttati per mettere a punto le mie doti di Demoniaca vista la loro agilità innata.
Cacciare un umano non doveva essere troppo diverso, giusto? Con un piccolo balzo mi aggrappai ad una trave mezza andata e mi issai con le braccia, sperando mi sostenesse. Una volta sopra la ripercorsi in lunghezza, correndo silenziosamente, per poi lanciarmi su quella successiva. Vi atterrai sopra con un leggero tonfo che, però, non raggiunse l’uomo sotto di me. Probabilmente l’apparecchiatura con cui stava lavorando produceva abbastanza rumore da riuscire a non farmi scoprire. Allora mi accovacciai in attesa che il tizio tatuato raggiungesse il punto dal quale avrei potuto colpirlo, ma proprio quando era a pochi passi da me, udii una seconda voce e l’uomo si bloccò. Immediatamente mi appiattii sul traliccio, mentre una donna raggiungeva lo sconosciuto. Era alta e muscolosa con lunghi capelli viola fluorescente rasati ai lati. Anche lei era tatuata e dei luccichii metallici mi fecero capire che era un’amante dei piercing.
-Ehi, Ro-5! Hai trovato qualcosa? -.
-Zitta che se no non sento-, la rimproverò l’uomo, tappandosi un orecchio e controllando il rumore del metal detector. Un bip più lungo dei precedenti fece vibrare la macchina e su un piccolo schermo legato al polso del Mauriano comparve un’immagine luminosa.
-Cazzo, un altro cazzo di tappo! -, imprecò lui, passandosi una mano fra i capelli ricci e lunghi. La donna fece una smorfia e tornò a guardarsi attorno brandendo la stessa tipologia di fucile che aveva Ro-5.
- Non ti perdere d’animo. Le Lucertole hanno rilevato la presenza di molto metallo sotterrato da queste parti, perciò si tratta solo di trovare il punto giusto-.
L’uomo sollevò le spalle, scuotendo il polso e spegnendo il piccolo display.
-Piuttosto-, aggiunse poi, mentre la ragazza lo superava e controllava che dietro i pilastri non li attendesse un agguato. Grazie agli Dei, mi ero rifugiata lì sopra prima che fosse troppo tardi.
-Piuttosto? -.
-Ci sono Sciacalli in zona? -.
Affinai l’udito: dovevo scoprire quali pericoli ci attendevano oltre ai Mauriani. Sciacalli e Lucertole per ora erano solo parole alle mie orecchie, e ciò non andava affatto bene. Avevo bisogno di renderle creature concrete, prima di poter loro infilare il pugnale in gola.
-Nessuno al momento, ma stamattina sono stati trovati due chip nel Deserto, sotterrati malamente sotto la sabbia. C’erano tracce ematiche utilizzabili, credono, ma i dati contenuti erano stati cancellati dal caldo e dalla sabbia-.
Deglutii; per l’ennesima volta stavamo rischiando che ci facessero le scarpe ancora prima di presentarci. Imprecai silenziosamente, seguendo le mosse dei due sotto ai miei piedi.
-Beh, se sono nei dintorni li scoviamo di sicuro. Dopo una passeggiata nel Deserto si è lucidi quanto un pazzo al manicomio-, rise la donna, saltellando estasiata al solo pensiero.
-Sì, ma se avevano dei chip, significa che erano soldati. E ora sono disertori. Ciò vuol dire che o sono dei disperati o sono dei rifiuti umani, di quelli violenti e pronti a sbranare per soldi-.
La ragazza scrollò le spalle.
-Se sono passati sotto i Gyps, significa che non hanno più nemmeno un’arma. E forse nemmeno le mutande-, rise.
Anche l’uomo si voltò e scoppiò in una fragorosa risata. Osservai il pugnale che avevo fra le mani e la sua linea lucente. Se dovevo farlo quello era il momento giusto. Strinsi le dita attorno all’elsa del pugnale e senza pensarci due volte, piombai su di loro, atterrando alle spalle dell’uomo e puntandogli il coltello alla gola.
-Se ti muovi, lo sgozzo-, commentai atona, mentre da dietro la spalla di Ro-5 studiavo la reazione della donna. La giovane mi stava guardando terrorizzata con gli occhi azzurri spalancati e le labbra tremule. Era in posizione di guardia, con il fucile puntato verso terra. Era stata colta talmente alla sprovvista che non aveva nemmeno avuto tempo di sparare o anche solo puntarmi contro l’arma.
-Chi sei? -, mi chiese titubante, mentre il mio mostro assaporava la sensazione del coltello affilato sul collo barbuto del Mauriano. Una goccia di sudore mi scivolò ghiacciata lungo la schiena.
-Non ha importanza-, ringhiai, indicandole con il mento il fucile. – Mettilo a terra e calcialo nella mia direzione. Se starete buoni, non vi farò niente. Voglio solo parlare-.
La donna afferrò il fucile, sollevandolo appena da terra. Avvicinai la lama al collo dell’uomo strappandogli un gemito e una gocciolina di sangue.
-Mettilo giù-.
-Tu sei una di loro, vero? Una dei soldati senza chip…-, sibilò, calciando il fucile con estrema lentezza. Alzò lentamente le mani, mentre il suo compagno continuava a divincolarsi come una tarantola. Forse non aveva ancora capito quanto fossi più forte di lui o forse non lo voleva ammettere.
-Esattamente. Siamo giunti qui grazie a Xerse dei Gyps e stiamo cercando due persone. Alpha-1 e Gamma-x-.
La ragazza ebbe un guizzo e il suo sguardo ricadde sul compagno. Non volevo che in qualche modo comunicassero, non quando ero in minoranza numerica. Perciò gli falciai le gambe con la punta dello stivale e lo faci cadere con il sedere sulla sabbia.
-Dannazione! -, strillò lui, quando lo afferrai malamente per i capelli.
- Non fatemelo ripetere, non ho tempo-. Decisi di giocarmi la carta della compassione. –Il mio compagno sta male e ha bisogno di cure. Non abbiamo soldi con noi, e come avrete capito non stiamo nemmeno più dalla parte dell’Esercito-.
Ro-5 tossì un paio di volte, prima che con un calcio lo spedissi dritto ai piedi della sua compagna. La donna mi guardò esterrefatta, poi con un sorriso tra il felino e il predatorio mi fu addosso. Non avevo messo in conto una reazione del genere, ma ora non avevo più remore. Avevo tentato un approccio amichevole e non aveva funzionato. Forse una scarica di adrenalina era l’unico modo per penetrare la corazza di quelle persone. Intercettai il suo pugno senza grossi problemi. Era veloce e agile come una gazzella, eppure io ero anni luce superiore a lei. Dovevo ringraziare unicamente il mio mostro e Dyte, osservando la qualche avevo imparato molti trucchetti divertenti. Proprio come quello che stavo per mettere in atto. Sfruttai la velocità del colpo della mia avversaria per trascinarla contro di me, attirando il suo pugno verso la mia guardia. Poi quando fu a tiro le assestai una ginocchiata dritta alla bocca dello stomaco.
-Non sono qui per lottare. Voglio soltanto parlare con quelle persone-, le gridai, mentre, dopo essere caduta a terra, allungava una mano per recuperare il fucile. Sentii uno sparo fischiare accanto al mio orecchio e la canna del fucile di Ro-5 mirare alla mia testa. Quei due non scherzavano. Rotolai verso destra scampando alla seconda pallottola e mi riparai dietro dei rottami bollenti.
-Perché vuoi parlare con i nostri Diarchi? -, ringhiò l’uomo sparando nuovamente e costringendomi a spostarmi ancora, stavolta dietro un pilastro.
-Porto notizie dal Vallum-, azzardai, uscendo allo scoperto e lanciando il pugnale contro Ro-5. Lui, come da piano, riuscì a schivarlo, ma non abbastanza rapidamente da intercettare il mio montante che lo colpì con forza sotto alla mascella. Sentii il suo corpo sollevarsi insieme al mio pugno, poi un gemito mi accarezzò le orecchie, mandandomi in visibilio. Lo colpì con l’altro pugno allo stomaco e l’uomo si ritrovò catapultato contro un traliccio. Urlò di dolore quando la sua schiena impattò contro il lucente acciaio.
-Non voglio lottare, ma mi costringete a farlo. Ragionate, se siamo qui solo in due, che minaccia potremmo mai essere per una città? -.
Schivai la presa della ragazza, lanciandola contro il compagno e correndo a riprendermi il pugnale. Quando mi voltai avevo nuovamente un fucile puntato alla testa e una combattente pronta a farmi le scarpe.
-I tuoi occhi. Tu non sei umana e non sei nemmeno una Custode, non con quei capelli-.
Era arguta. Ma non abbastanza da spingermi a raccontarle la mia vita. Cosa pensava? Che con quella provocazione le avrei raccontato ogni mio segreto?
-Non ti basta sapere cosa non sono per accettare di aiutarmi? -, obiettai, osservando il lucido foro del fucile e il dito dell’uomo appoggiato nervosamente sul grilletto. Quando notai il live tremore dell’indice, pronto a colpire, mi accovacciai a terra e schivai di lato, arrampicandomi come un ragno su un pilatro e cominciando a correre sui tralicci sospesi sulle loro teste.
-E il tuo compagno? Anche lui è un bug come te? -, sbottò la donna, inferocita, cercando di raggiungere il reticolato sopra di lei. Ci voleva più della semplice agilità per fare ciò che facevo io e finalmente quei due se ne stavano rendendo conto.
Saltai giù alle loro spalle, gli occhi febbricitanti, e un gran desiderio di farli fuori e proseguire il viaggio. Mi stavano facendo perdere del tempo prezioso, minuti in cui non potevo assicurarmi che Fobos stesse bene. Ringhiai e, senza nemmeno pensarci, piegai Ro-5 sulle ginocchia, tenendogli la testa fra le mani. Solo una piccola pressione e gliel’avrei spiccata dal collo. Forse quei due strambi combattenti avevano ragione, forse ero solo una disperata, ma avrei fatto sì che ricordassero per sempre la luce di afflizione che mi accendeva di fiamme le pupille, strette come quelle di un gatto.
-Non so cosa siano questi bug, ma immagino di non dovervi dire nulla, dal momento che qui si tratta di me o voi-, abbaiai, afferrando il fucile dell’uomo e puntandolo addosso all’avversaria con una mano soltanto. Era incredibilmente leggero, nero come la notte e con una fitta trama di fibre a ricoprirne la rifinitura lucida e trasparente.
-Come ti chiami? -, chiesi alla ragazza, la quale, ancora una volta, si ritrovava con le spalle al muro. Le assestai un colpo alle ginocchia con la canna del fucile, giusto per motivarla a parlare. Non è che volessi essere cattiva, era che il mio mostro ne aveva piene le palle di quei due giocherelloni.
-Ti ho fatto una domanda. Ti assicuro che il collo del tuo amico non è fatto di fibra di carbonio-, la sbeffeggiai poi, beandomi della sua espressione indignata.
- Sigma-x …-, annunciò lei, gonfiando il petto e osservando con la coda dell’occhio Ro-5.
-Bene, io mi chiamo Astreya-, concessi. Non volevo che pensassero fossi una di quegli esaltati che dopo aver disertato partono alla volta del mondo per uccidere tutti quelli che hanno il viso più pulito del loro. Era una cosa che non sopportavo. La violenza fine a se stessa, perpetrata solo perché non si sapeva fare altro, mi disgustava. Perciò, facendo attenzione alle mosse di entrambi, sganciai di qualche millimetro la presa sul capo di quell’uomo.
- Che cosa vuoi dai Mauriani? -, domandò, quindi, Sigma-x, ancora allerta e con gli occhi fissi sull’amico. Li squadrai: più che compagni, quei due sembravano una coppia.
- Quello che ho detto. Voglio parlare. Abbiamo motivo di credere che ci siano interessi in comuni tra noi al tavolo delle trattative-.
La donna abbassò finalmente la guardia e si avvicinò di qualche passo per osservarmi dritta negli occhi, incuriosita dal colore delle mie iridi e dalle sfumature cobalto nella pece dei miei capelli.
-Ro-5 non potrebbero essere bug per davvero? Forse dovremmo portarli indietro con noi. Ci sono grosse ricompense per le anomalie-, sussurrò lei, allungando una mano per raggiungermi il viso. Istintivamente mi scostai, parandole la mano e allontanandola con il fucile.
- Che diavolo sono questi bug? -, domandai, facendo scricchiolare i denti. Stavo perdendo la pazienza e le mie mani fremevano dal desiderio di giustiziare quell’uomo inginocchiato ai miei piedi.
- Di certo non lo vengo a dire a te-, mi schernì la ragazza, passandosi una mano sui capelli rasati ai lati del cranio.
-Va bene, ma poi lo spieghi tu ai tuoi come è morto questo qui. “Stavo ridendo, mentre il bug gli staccava la testa a mani nude, per cui non sono riuscita a salvarlo”. Che dici, suona bene? –.
Sigma-x deglutì a vuoto. Finalmente iniziava a capire quanto fossi disperata.
-Ho capito, ho capito. I bug sono persone anomale, degli individui che la Società riconosce come non appartenenti alla sua cerchia e che, quindi, vengono sganciati, senza pensarci, dal tessuto sociale in cui vivono. I bug crescono, pertanto, privi di ogni inibizione morale e al di fuori di ogni logica civilistica. Non hanno idea del concetto di bene comune né di collettività. Si tratta di abili pensatori o semplicemente di mine vaganti. Noi li prendiamo e facciamo covare loro l’odio che provano verso il sistema da cui sono stati cagati fuori, facendone nostri strumenti-.
-E se vi esplodessero fra le mani? -, risi nonostante la descrizione di Sigma-x rappresentasse alla perfezione la condizione mia e di Fobos.
-E’ un rischio necessario. I bug hanno storie molto particolari e posso diventare armi davvero fenomenali. Vale qualche sacrificio, no? -.
Il ragionamento di quella donna rasentava il fanatismo guerrafondaio e bombarolo. Era evidente che i Mauriani non fossero affatto gente pacifica, né semplici mercanti di porto.
-Ammettiamo che io e il mio collega siamo dei bug. Cosa succederebbe se ci consegnassimo a voi? -.
Fu l’uomo a rispondermi, i muscoli del collo tesi e le corde vocali vibranti sotto le mie dita. Sentivo il pomo d’Adamo muoversi su e giù mentre quel poveretto faticava a parlare.
-Vi porteremmo da Alpha-1 per giudicare la vostra utilità o meno alla nostra causa-.
Stava mentendo? La strada per raggiungere quella persona era davvero così semplice come appariva? Non avevo tempo per preoccuparmi della veridicità delle parole che Ro-5 stava sbrodolando sotto tortura. Quindi decisi di dare loro credito.
-Quindi se vi dico cosa siamo io e il mio compagno, ci porterete dai Diarchi? -.
Sigma-x annuì timidamente.
-Bene, ed eviterete di tentare di farmi fuori se lascio andare la presa? Ci tengo particolarmente a precisare che lo dico per voi-.
Ro-5 annuì lievemente e per tutta risposta sollevò le braccia. Anche la donna, seguendo il suo esempio, alzò le mani, portandole sopra il capo. Ora iniziavano a ragionare. Lasciai andare l’uomo, spingendolo in avanti con il tacco del piede, poi saettai all’indietro, mettendo una certa distanza di sicurezza fra me e loro.
-Che genere di bug sei? -.
Ro-5 si sollevò massaggiandosi il collo e virando i suoi occhi verde scuro verso di me. Studiò il mio fisico, i miei capelli e tutte le garze che mi ricoprivano bruciature e ferite. Non stava cercando i miei punti deboli per attaccarmi nuovamente; semplicemente era incuriosito dalla mia presenza.
-Nel senso, è evidente che sei un soldato molto dotato, ma non mi è chiara da dove giunge questa dote-.
Sorrisi ampiamente, pregustandomi la loro faccia stupita una volta che avessi vuotato il sacco.
-Sono stata una disturbata, un Aborto, una Custode uscita male, una cavia da laboratorio, un soldato, un disertore e una ribelle. Può bastare per essere definita un bug? -.
Eccola là l’espressione di immensa sorpresa che volevo. Due paia di occhi, uno azzurro e l’altro verde petrolio, mi osservavano colpiti e quasi ammirati.
-Sei una Demoniaca, quindi? -, domandò Sigma-x, avvicinandosi di un passo prima che io con lo sguardo la incenerissi e le mostrassi il profilo affilato del mio pugnale.
- Non sono nulla di quello che credi. Ho detto che sono una Custode, ma solo perché il Tempio mi ritiene tale. Il mio Dono, beh, quello è un’altra storia. Ne discuterò solo con i vostri capi. Nessun altro-.
La donna sembrò pensarci un istante, poi seguendo il contorno della mia treccia, mi porse un’ulteriore domanda.
-E il tuo compagno? -.
-Ibrido-.
Mi voltai di scatto, fremendo dalla rabbia. Che cosa ci faceva lì Fobos? Gli avevo dato indicazioni precise: avrebbe dovuto attendermi nascosto, senza sforzare il fisico emaciato. Gli avrei volentieri tirato un pugno in faccia se non avessi notato la scia slavata che si intravedeva agli angoli delle labbra. Volevo corrergli incontro, ma non potevo farlo, non con quei due estranei presenti. Cominciai, quindi, a tremare violentemente, incapace di distogliere lo sguardo da quell’alone rosso chiaro, quasi rosa, e le lacrime mi spuntarono senza permesso fra le ciglia.
-Dei, Fobos! Ti avevo detto di rimanere nascosto! -, strillai, mentre lui mi indirizzava un sorriso canzonatorio. Nonostante la sofferenza era sempre lo stesso.
-E perdermi lo spettacolo? -.
Mi superò sfiorandomi appena il braccio e raccolse dalle cinte dei due ostaggi i cercapersone. Me ne passò uno e poi assicurò l’altro ai suoi jeans. I suoi occhi scrutavano i visi terrorizzati dei Mauriani; probabilmente era la prima volta che da quelle parti (od ovunque in effetti) si vedeva una creatura, quasi mitologica, come Fobos. Sentii Ro-5 inspirare a fondo quando l’Ibrido gli si fece vicino e gli studiò capelli e tatuaggi.
-Chi sono questi? -, domandò poi, prendendomi l’arma di mano e indicando con la canna del fucile il petto del tizio dai capelli verdi. Gli comunicai rapidamente i loro nomi e, in breve, gli descrissi la situazione.
- Bene, ora che ci avete fatto il terzo grado, muovete il culo o vi devo dare una spinta? -.
Il comportamento iroso di Fobos non preoccupò soltanto i due ostaggi, ma anche me. Quegli sbalzi di umore decisamente non erano normali. Dovevamo accelerare i tempi, prima che il corpo dell’Ibrido si ribellasse del tutto. 
Ro-5 e Sigma-x ci guidarono per una serie di strutture dimesse, guardinghi e con le terminazioni nervose sprizzanti scintille, finchè non raggiungemmo una torre gigantesca, sul pelo del precipizio. Si trattava di quello che rimaneva di una piattaforma di trivellazione, sul cui pavimento giaceva l’orlo frastagliato di un tubo tagliato malamente. Là sotto il buio era totale e un colpo al cuore mi fece sobbalzare all’indietro. Mi ricordava terribilmente il cunicolo nel quale mi ero infilata insieme a Galeno tempo prima, cunicolo nel quale tra l’altro avevo incontrato la morte faccia a faccia.
-Ditemi che non dobbiamo scendere-, si bloccò Fobos, osservando la cavità nel buio come fosse una bocca famelica pronto a triturarlo. Ro-5 annuì, divertito dall’espressione nauseata della creatura che lo sovrastava in altezza.
- Se volete scendere questo è l’unico modo-, si lamentò la ragazza dai capelli viola. Poi schiacciò un tasto su una pulsantiera lì accanto e un trabiccolo simile a un montacarichi cominciò a risalire verso di noi gracchiando. Ci salimmo, cautamente, mentre la piattaforma trasparente sotto ai nostri piedi dondolava.
 E lì cominciò la nostra discesa verso il basso.
- Questo era un vecchio pozzo-, commentò Ro-5, indicando le pareti metalliche che ci circondavano e che mano a mano mi facevano sentire asfissiata e circondata. Avevo i sensi allerta, pronta a reagire a qualsiasi attacco a sorpresa da parte di quei due, il pugnale stretto fra le dita.
- Estraevate petrolio? -.
Fobos si guardava attorno teso, i muscoli contratti sotto il velo sottile della canotta.
-No, questo impianto era troppo rovinato per funzionare, ma siamo riusciti a trovargli un secondo utilizzo-.
Il montacarichi si fermò sobbalzando, mentre di fronte a noi compariva una volta di cemento armato e un cunicolo ampio, ma basso. Fobos dovette chinarsi fino quasi a inginocchiarsi per potervi seguire in quel labirinto. Appoggiai le mani alla roccia fredda che ci avvolgeva e sentire il fresco del sottosuolo mi fece piacevolmente accapponare la pelle.
-E’ da molto che vivete qui? -, domandai, osservando la grande pulizia del posto e i segnali di pittura gialla che indicavano le varie direzioni.
-Sì, io ci sono nato. Abbiamo tirato su tutto dal niente e abbiamo fatto in modo di rimanere isolati dal resto del mondo. Abbiamo trovato il nostro equilibrio, adattandoci ad un terreno arido e a temperature torride-.
Osservai i loro corpi muscolosi e abbronzati e non potei fare altro che dare loro ragione.
-Perché avete disertato? -, mi domandò all’improvviso Sigma-x, svoltando a un crocicchio e imboccando una scala stretta e umida. La luce al neon baluginava pigra sul soffitto curvo.
- Non avevamo alternative. Quando sei un bug, come dite voi, non hai molta scelta. Puoi fare tutto quello che è in tuo potere per farti credere, ma gli altri nutriranno sempre una sorta di diffidenza nei tuoi confronti. Mi hanno accusata di ammutinamento e diserzione loro stessi, obbligandomi a fuggire-.
-La trovo una scelta stupida. Saresti la loro migliore arma-, pensò a voce alta la ragazza, mentre apriva una pesante porta di metallo grazie alla sua impronta digitale.
- E’ quello che penso anche io. Ed è per questo che sono qui. Ci sono molte cose che non capiamo, molti atteggiamenti e persone che non comprendiamo. Ma tutti gli indizi che abbiamo trovato ci hanno condotto fin qui, al torsolo della mela-.
Sigma-x sorrise. Poi con un clangore metallico, la pesante porta scomparve nel muro, mentre davanti a noi compariva la sorprendente visione dei ballatoi intarsiati che io e Fobos avevamo visto dall’alto. Il giovane, dimentico di avere in ostaggio due ottimi combattenti, schizzò fra alcuni Mauriani sorpresi e colorati, e si fiondò alla balconata. I capelli si animarono improvvisamente quando il vento fece volare giù una impalpabile cascata di sabbia.
-E’ sorprendente! -, esclamò, felice come un bambino di fronte ad una pecora volante.

NdA: per chi desideri rimanere informato sugli sviluppi della storia, leggere qualcosa di nuovo, condividere link,  post e disegni di vario tema, allego il link della pagina Facebook che gestisco in collaborazione con l'autrice di efp Kaleido Illusion. Buona lettura e grazie!

https://www.facebook.com/pages/Black-Signs/917414278320549?fref=ts

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Capitolo 27
*** Capitolo 26- Un caloroso benvenuto ***


Capitolo 26


Il palazzo piramidale si ergeva imponente di fronte a noi. Era diverso da come me lo ero figurato dall’alto del Sandpit. Era bianco come la neve, a causa di grosse piastrelle di ceramica isolante appiccicate alla facciata, ma al contempo manteneva un aspetto vetroso per via delle inserzioni di strisce fotovoltaiche che si intervallavano al materiale coibente. Ricordava vagamente una coperta patchwork sebbene il risultato finale fosse un ottimo amalgama fra i due diversi materiali e la struttura apparisse come un tutt’uno omogeneo, tra un grigio polvere, un azzurro slavato e un candido bianco marmoreo.
-Questo è la sede della Diarchia, uno dei pochi edifici del Sandpit ad avere un’espansione verticale, a partire dalla superficie-, spiegò fiera Sigma-x, avanzando verso le due vasche di sabbia che delimitavano il camminamento centrale della piazza. Erano delle sorte di aiuole dove qualcuno, forse dei giardinieri, o forse dei pazzi maniaci, aveva disegnato con un rastrello delle circonferenze concentriche, degli ovali e delle spirali, in un intricato decoro che la sabbia che pioveva dal cielo stava già cancellando. Avanzai lenta, sostenendo il peso del corpo di Fobos: infatti, dopo il primo entusiasmo iniziale, dove i suoi occhi si erano mossi senza posa da una casa all’altra e dove le sue gambe si erano avventurate tra una fessurazione, un ponteggio e svariate scalinate dell’entroterra, l’Ibrido aveva cominciato ad incedere sempre più faticosamente, fino a doversi fermare più volte, appoggiato alle ginocchia, con gli occhi chiusi e le unghie affondate nella carne. Il tutto solo per non perdere i sensi. Per un po’ mi ero limitata a tornare indietro e forzarlo ad alzarsi, ma quando persino le sue spalle avevano cominciato a tremare, avevo capito che non potevo spingerlo oltre. Lo avevo, quindi, aiutato ad alzarsi e in seguito lo avevo costretto a circondarmi le spalle con il braccio affinchè cedesse alle mie ginocchia un po’ del suo peso. Lui si era chiaramente lamentato fino alla completa afonia, ed ancora adesso i suoi occhi rimandavano lampi di umiliazione e imbarazzo, ma almeno aveva smesso di boccheggiare e tutti noi avevamo potuto accelerare il passo e giungere alla sede governativa di quel posto.
- Benvenuti al Rhind, stranieri-, rise la ragazza dai capelli viola, quando un piccolo manipolo di soldati bardati di bianco ci venne incontro con delle strane creature.
-Chi diavolo sono quei latticini? -, inveì Fobos, sollevando l’arma e puntandola verso il nutrito gruppetto di Mauriani. Ro-5 lo fermò prima che facesse una strage, ponendo la mano sulla canna dell’arma e obbligandolo ad abbassarla.
- Non osare fare cazzate del genere, quelli sono i membri della Guardia-.
Fobos roteò gli occhi, con fare visibilmente annoiato. Poi rilassò le spalle e con la coda dell’occhio mi fece segno di avvicinarmi ulteriormente a lui. Si chinò, fino a quando non fu alla mia altezza, e infine mi sussurrò poche parole all’orecchio.
-Credo che quelli non siano un comitato di benvenuto. Ho come l’impressione che ci stessero aspettando anche se non ne comprendo il motivo. Vediamo di non farci rincorrere anche da questi qui. L’Esercito basta-.
Annuii convinta. Aveva ragione.
-Per una volta hai detto la cosa giusta-, mormorai con lo sguardo fisso sugli uomini che ci venivano incontro. Erano estremamente seri, con le divise inamidate e la mano destra legata a una sorta di braccialetto ad onde radio. Probabilmente serviva a comandare le enormi Lucertole che li seguivano con il collo rugoso stritolato in un una sorta di ghigliottina di lampi blu. Ecco cosa erano le Lucertole di cui Sigma-x e Ro-5 avevano discusso sotto il rudere di metallo. Erano creature davvero mostruose con occhi vitrei e inespressivi, zampe tozze che ricordavano quelle degli alligatori e la pelle rinsecchita dal sole. Dovevano per forza essere state modificate geneticamente o non mi sarei riuscita a spiegare le loro dimensioni abnormi.
-Tu sai cosa sono quelle cose? -, mi domandò Fobos, mentre avanzavamo a rilento verso le loro bocche fameliche. Scossi la testa, scurendomi in volto e abbassando gli occhi. Non sapevo perché, ma avevo la sensazione che quelle guardie sapessero esattamente chi fossimo e perché fossimo lì.
-Sono Lucertole. Li abbiamo creati in laboratorio, appositamente per ricercare reperti metallici nel Deserto. Troviamo molte cose interessanti quando le dune si spostano, ma le più redditizie sono le lamiere e gli scarti elettrici. Valgono una fortuna, e queste bestiole le cercano come i porci i tartufi-.
-Come fanno? -, chiese disgustato Fobos, osservando quegli strani animali e provando pietà per loro.
-Li nutriamo con polvere di ferro sin da quando si schiudono le uova. Poi li affamiamo e li liberiamo nel Deserto. Il resto potete immaginarlo. Sono davvero utili anche come cani da guardia ovviamente. Sentono l’odore del ferro nel nostro sangue: infatti, se non avessero quel collare, ci avrebbero già sbranati da un pezzo-, rise Ro-5, il viso illuminato dal riverbero dei pannelli solari ormai a qualche metro sopra le nostre teste.
-Conferite, Fratelli-, urlò una guardia, quando fummo abbastanza vicini da risultare evidentemente fuori posto. Fu Sigma-x a intervenire, alzando la voce per sovrastare l’ululato del vento caldo.
- Siamo Sigma-x e Ro-5, di ritorno dalla Ronda-, dichiarò tesa. Uno dei ragazzi più bassi si staccò dal gruppo di formaggini e scivolò nella nostra direzione su quelli che mi sembravano pattini. Non mi ero effettivamente resa conto di quanto fosse liscia la pavimentazione sotto ai nostri piedi. Mi ci potevo quasi specchiare.
-E i due stranieri? C’è una multa salata per chi introduce gli Sciacalli in città-.
Ro-5 si fece avanti, porgendo anche lui il dito per la verifica identificativa delle impronte digitali.
-Non sono Sciacalli. Sono i bug di cui abbiamo trovato i chip nel Deserto, a Sud della Stazione di Borderhedge-.
Una Lucertola ci sfrecciò accanto, sibilando e passandoci la lingua biforcuta sulle gambe bollenti.
L’Ibrido fece scricchiolare i denti e, quando il rettile cercò di inerpicarsi lungo il polpaccio in direzione del ginocchio, gli stampò la suola della scarpa in mezzo agli occhi, senza pietà. La Lucertola per tutta risposta spalancò la bocca producendo un rumore simile al risucchio della breccia nel Vallum. Istintivamente rabbrividii.
-Dichiaratevi-, urlò un uomo nerboruto con una folta capigliatura giallo limone e dei baffi neri come la notte. Si fece avanti con una sorta di piccola pistola a dardi elettrici che scoppiettava minacce.
Fobos lo guardò scocciato, tirando fuori quel poco di soldato che era rimasto in lui. Lo sovrastò con la sua altezza e lo guardò con quel suo sguardo ardente e inquisitorio che tanto mi aveva terrorizzata, oltre che indispettita, i primi tempi.
-Mi chiamo Fobos, sono Generale in secondo grado dell’Accademia di Carthagyos.  Lei è la mia sottoposta, nonché Custode, Astreya-.
Il biondo squadrò da cima a fondo l’Ibrido, appuntando tutti nostri dati. Non che fossero molto più che parole all’aria per loro. Io, di mio, stavo perdendo la pazienza, desiderando decapitare con un’unica falciata tutti i presenti per poi correre all’interno di quella piramide ignobile. Iniziai a fantasticare, riscuotendomi soltanto quando vidi Ro-5 trattenere Fobos per le braccia. Vidi la mano dell’Ibrido stringere con forza la giacca della guardia che ci aveva interpellati, e i suoi denti digrignare producendo uno stridio sinistro. Le Lucertole gli stavano mordendo gli anfibi, mentre Sigma-x, preoccupata, cercava di trattare con una delle sentinelle.
-Non è un Deadly Child! Siete voi i malati! -, strillava Fobos, ruggendo in faccia al tipo come un leone rabbioso. Non sapevo che cosa fosse successo, ma non avevo mai visto Fobos così irato. Probabilmente se non fosse stato così debole, la Guardia sarebbe già stramazzata al suolo. Morta.
Corsi da Fobos, appendendomi al suo gomito e insultandolo per essere contravvenuto ai suoi stessi consigli. Prima mi diceva di stare calma e contenuta e poi lui metteva in piedi tutto quel macello. Che fine aveva fatto il Generale serafico che avevo conosciuto? Beh, forse se ne era andato assieme al suo cervello. Gli assestai un calcio sui reni e finalmente, strozzando un singulto, Fobos perse la presa sulla sua malcapitata vittima. Stavo giusto per strigliare quel gigante idiota, quando un’altra guardia, una donna agile e scattante, schizzò nella direzione di Fobos per neutralizzarlo. Subito mi mossi, indispettita e anche un po’ annoiata, e prima che il pugno della rossa impattasse sul petto di Fobos, le spazzai la gamba, posizionandole un piede sulla testa e facendole assaggiare quel pavimento lucido simile a burro. Poi, con la rabbia che mi esplodeva dentro e con la frustrazione appesa al cuore, le tirai un calcio nell’addome facendole scivolare di mano la piccola pistola. Fobos la raccolse e, senza nemmeno ringraziarmi, sparò un dardo contro il biondo dai baffi neri che nel frattempo aveva dato ordine alle Lucertole di attaccare. Ro-5 e Sigma-x rimasero in disparte preoccupati per le conseguenze che le nostre azioni avrebbero potuto avere su di loro, una volta terminato lo scontro.
-Bella idea quella di attaccare un manipolo armato-, mi lamentai, colpendo un uomo al costato e accusando il calcio di un altro. Fobos menava a destra e a manca, muovendosi rapido e sinuoso come l’angelo della Morte.
- Ti hanno chiamata Deadly Child. Sanno molto più di quello che dicono-, borbottò lui, gettando a terra la pistola a dardi e impugnando il fucile. Puntò la fila di uomini che si stavano fiondando su di noi e questi si fermarono di istinto, bloccando gli strani pattini che indossavano con un colpo di tacco.
- Se sparo, potrò aggiungere fucilazione alla lista dei desideri realizzati-, scherzò Fobos, con la luce della follia che sprizzava da ogni pagliuzza dorata dei suoi occhi.
-Smettila di fare il cretino, brutto mostro-, gli urlai, lanciandogli contro il corpo svenuto dell’ennesima Guardia. Lui lo schivò, colpendo involontariamente il naso di Ro-5, capitato nella mischia quasi per caso.
- Mi sa ma siamo spacciati-, commentai quando notai il nugolo nero che il Rhind stava vomitando in piazza. Era una mandria di rettili seguiti da altrettante guardie armate.
-No, dico, complimenti, Fobos. Sei il solito rincoglionito-.
Fobos rise. – Vorrei tanto una sigaretta-.  

 

Dopo la bravata dell’Ibrido, il mio geniale quanto andato compagno di viaggio, fummo catturati e costretti alla resa. E ora, stanchi ed affamati, ce ne stavamo seduti sul pavimento sudicio di una cella, con quattro tizi poco raccomandabili dall’altra parte del corridoio che ci fissavano estasiati. Con i nostri capelli neri e la carnagione chiara dovevamo sembrare loro delle gustose mozzarelle.
-Sei contento, Fobos? -, ringhiai, mentre uno dei carcerati di fronte mi indirizzava dei baci decisamente lascivi. L’Ibrido alzò il dito medio e glielo stampò in faccia, allungando il braccio fra le sbarre.
-Ehi, ragazzina. Perché non ti fai un giro nella nostra cella? Hai l’aria di una che non ha mai toccato un uomo-.
- E tu, lurido pezzo di merda, hai l’aria di uno che ha il buco del culo al posto della bocca-, inveì Fobos, scagliandosi contro le sbarre e lanciando uno dei suoi stivali in direzione dei quattro pervertiti. Ansimava ancora e i segni della battaglia cominciavano a rendersi visibili, prendendo la forma di lividi scuri e violacei.
-La smetti di litigare con quei relitti? Gradirei mi spiegassi che cavolo ti è preso-.
Ero nervosa, sentivo ogni fibra del mio corpo implorarmi di schiaffeggiare il viso spigoloso di quel pazzo scatenato che era diventato Fobos. Se la Guardia non gli avesse sparato una decina di sedativi, il giovane avrebbe sicuramente premuto il grilletto e cominciato a mietere vittime a caso. Si sarebbe fatto uccidere, annebbiato dagli sbalzi di umore e dall’astinenza che ormai lo faceva muovere a scatti.
-Beh, ci serviva un posto dove dormire, no? -.
Mi tolsi gli anfibi, sospirando, e incrociai le gambe sulla brandina. La cella puzzava di urina e sudore. La gente gemeva e qualche pazzo straparlava dalle celle accanto. Avremmo davvero passato una fantastica nottata lì dentro.
Chiusi gli occhi e sospirai, sperando ardentemente che Fobos tornasse se stesso o che perlomeno la piantasse di avere i nervi così a fior di pelle. Sentii il peso del ragazzo al mio fianco e il calore del suo corpo accanto al mio. Mi voltai a guardarlo: fissava gli altri detenuti e muoveva gli occhi come una tigre in gabbia. Almeno aveva richiuso le zanne in bocca e le sopracciglia erano tornate ad essere due linee dritte al centro della fronte.
-Seriamente Fobos, non vedo l’ora di riaverti indietro-.
-Come? -, chiese lui stupito, mentre la sua aurea virava su un grigio spento. Abbassò gli occhi e scrutò gli angoli sporchi della nostra gabbia, lordata dagli escrementi dei topi che ogni tanto cadevano intontiti dalle pietre sporgenti. Quelle celle dovevano essere davvero antiche.
- Mi stai snervando con tutti questi cambi di umore. Si vede che non sei lucido e ci stai cacciando seriamente nei guai-, lo rimproverai con l’intento di farlo sentire in colpa. Lo vidi riflettere sulle mie parole, silenzioso e apatico. Poi le sue spalle scivolarono di lato e il suo viso si appoggiò al mio collo. Mi irrigidii del tutto, contraendo muscoli che non pensavo nemmeno di avere.
- Mi dispiace. Mi sarebbe piaciuto conoscerti quando ancora ero io. O in un’altra realtà, dove avrei potuto mostrarmi per il ragazzo semplice che ero -.
Il suo tono di voce era cantilenante e mezzo sonnolento, ma la carica emotiva delle sue parole mi sciolse il nodo di collera in cui si era trasformato il mio stomaco. Perché doveva avere quei momenti di lucidità disarmanti?
-Non ci pensare-, dissi, dandogli una leggera pacca sulla spalla. Non aveva senso deprimerlo, non ora che la sua mente vacillava. Cercai, quindi, di cambiare discorso nel disperato tentativo di rilassarlo, ma non abbastanza da farlo dormire. Temevo, infatti, che se avesse ceduto al sonno, non si sarebbe più risvegliato.
-E’ sottosopra questa città, hai visto? -, commentai, ricordando il momento in cui ci avevano trascinato in quelle segrete. Come la maggior parte delle case, esse si trovavano nel sottosuolo della città, probabilmente dopo essere state rinvenute nel Deserto e trasportate là sotto mattone dopo mattone. Questo perché il Paese dei Mauriani era stato costruito a partire dalla terra per poi inoltrarsi in una specie di enorme bolla d’aria sotterranea, dove tutti i passaggi erano sospesi e le abitazioni che non avevano trovato strada nella roccia pendevano come nidi di rondine o come alveari rettangolari. Era una visione veramente spettacolare, a maggior ragione perché i piani che emergevano dalla terra come funghi altro non erano che delle mansarde o degli esercizi che avevano il preciso scopo di intercettare la luce del sole che flagellava il Sandpit e rimandarla sotto forma di energia a quel brulicante formicaio di costruzioni che si espandeva specularmente alla cittadina superiore. Persino le cisterne di acqua erano dei bozzoli appesi al soffitto, lasciate ai livelli più profondi e umidi laddove il freddo avrebbe conservato la freschezza di quel bene prezioso.
-Sì, mi viene il mal di mare al solo pensarci-, mormorò Fobos, tornato improvvisamente serio. Teneva gli occhi socchiusi e lo sguardo indirizzato verso i detenuti di fronte a noi, a qualche passo di distanza oltre la passatoia dei secondini.
- Quei lardosi pezzi di merda non la smettono di fissarti-, ringhiò poi, osservando uno degli uomini raccogliere il suo stivale e indossarlo con aria soddisfatta. Sbuffai.
-E tu non farci caso. Abbiamo cose più importanti a cui pensare. Tipo come convincere i Diarchi a non fucilarci o alternativamente a come scappare da qui-.
-Beh, di scappare non se ne parla, non dopo la nostra scampagnata nel Deserto. Inoltre ormai siamo qui, tanto vale tentare di scoprire qualcosa sugli eventi che hanno coinvolto il Vallum, non trovi? -.
Annuii, mentre afferravo la razione di cibo liofilizzato che una guardia bassa e muscolosa ci porgeva attraverso le sbarre. Il vassoio constava di una bacinella di acqua e due buste simili alle sacche di una flebo. Guardai il corpo emaciato di Fobos e le ossa sporgenti delle anche che gli riaffioravano dai pantaloni e, senza nemmeno pensarci, gli allungai entrambe le razioni. Lui mi guardò confuso, tenendo in mano il vassoio come fosse il corpo di una farfalla delicata.
-Devi mangiare. Sei pelle e ossa. Non so nemmeno se i Mauriani accetteranno di curarti; devi mantenerti in forze perché da sola non ce la faccio-.
Fobos aprì le buste con una smorfia, sciogliendole in acqua e lasciando che il loro contenuto insaporisse il liquido incolore.
Bevve avidamente da un lato della ciotola, mentre il liquido per la foga gli scivolava lungo il mento e gli macchiava la canotta già sporca di sangue e sabbia. Lo raggiunsi e mi sedetti nuovamente accanto a lui, meditando sulle nostre mosse successive.
-Mi hanno chiamata Deadly Child, hai detto. Ciò significa che pensano io sia un esperimento come te. Forse anche peggio dal momento che i DC sono tutti degli schizzati-.
Fobos staccò le labbra dalla bacinella e mi porse quel liquame che puzzava di erba. Scossi il capo allontanandolo.
-Se sanno della tua condizione psicologica, sicuramente sanno anche molto altro. Qui credo ci sia in ballo qualcosa di molto più grosso di un atto di ribellione di quei poveracci del Vallum-.
Deadly Child. Non avevo mai pensato che qualcuno mi avrebbe ricollegato a loro. Si trattava di un progetto militare nato almeno una decade prima per svuotare i Sanitaria. Durante la Legislatura del Presidente Dyonisus, infatti, molti avversari politici, dissidenti civili e propagandisti accaniti vennero rinchiusi nei manicomi tramite prelievo coatto e fatti sparire dalla società. Tutto aveva funzionato perfettamente finchè gli oppositori di Dyonisus avevano superato in numero i sostenitori e i Sanitaria di tutta Elladia si erano riempiti di clienti del tutto normali. Una volta decaduto il mandato del Presidente, quindi, il suo successore Lykurgo, aveva promulgato la Restoration Law, la quale prevedeva che lentamente, nel decorso del suo mandato, Sanitarium dopo Sanitarium, chi fosse risultato adatto in base alle perizie psichiatriche, fosse reintegrato come soggetto medico per la sperimentazione. In sostanza mancavano cavie per i farmaci. O almeno questo era quello che era stato velatamente dichiarato nei fascicoli che erano stati poi inviati tramite computer ad ogni dispositivo tecnologico di Elladia e ad ogni Displayfesto, gli enormi schermi delle piazze che rimandavano ventiquattr’ore su ventiquattro il canale politico della Sede.
La realtà che si era fatta largo a sgomitate tra la folla era, invece, di tutt’ altra natura. Si diceva che l’Esercito stesse lavorando a una sperimentazione nuova e che avesse bisogno di “volontari”. E chi era meglio di persone incapaci di intendere e volere, spinte solo dal desiderio di sfuggire alle quattro mura che li intrappolavano da anni? E poi, si sapeva che i militari erano alla ricerca del segreto che permetteva al Tempio di individuare nei propri fedeli quelli con la scintilla della magia. In qualche modo era trapelato che i soggetti migliori erano in realtà quelli danneggiati, quelli il cui cervello si era mantenuto in uno stato più primitivo, immaginifico e infantile, ma che possedevano un corpo robusto e sano. Chiedevano la mente di un bambino nel corpo di un individuo maturo.
Queste persone erano state, pertanto, prelevate e torturate, ma nessuna prima di Fobos era riuscita a sopravvivere e la razza Ibrida si era già estinta prima di essere stata creata. Un vero peccato.
Ma Lykurgo non era tipo da arrendersi al primo ostacolo, perciò, forte dei suoi studi biologici ed ingegneristici, aveva pianificato la creazione del Deadly Child.
In sostanza la sua idea era quella di prelevare un bambino con disturbi di personalità, ad esempio affetto da disturbo della personalità borderline, e trasformarlo in una sorta di bomba ad orologeria, una sacrificabile arma di distruzione di massa senza amor proprio. Conoscevo perfettamente il tipo di malattia perché io stessa ne ero affetta. Sbalzi di umore, dissociazione dalla realtà e sdoppiamento di personalità, il tutto associato a manie ed ossessioni oltre che a scatti di nervi e rabbia. Borderline, invece, indicava la peculiarità del disturbo, ossia quello di essere coscienti del proprio stato allucinato. Per esempio, io pensavo di avere un mostro incollato allo sterno che stringeva con i suoi artigli ossei il mio cuore, e pur sapendo che la sua esistenza non era reale, continuavo a sentirne il peso fisico, come una palla al piede.
Ad ogni modo questa condizione psichica era la migliore per il trattamento pensato da Lykurgo: infatti, il soggetto sarebbe stato abbastanza lucido da comprendere ciò che gli stava accadendo e da agire coscientemente secondo gli ordini assegnati, ma al contempo la sua mente instabile avrebbe garantito al paziente di essere elaborato e testato senza che questi si opponesse. Si dice in qualche documento sibillino della Magna Teca che un soggetto simile, alla fine, sia stato davvero portato alla luce, ma che vista la violenza sulla Natura da cui era stato generato, gli Dei abbiano deciso di eliminarlo infondendogli istinti suicidi. Da allora il termine Deadly Child viene usato per indicare persone disturbate come me che in qualche modo manifestano poco spirito di autoconservazione e decisamente troppo spirito di iniziativa. E’ ancora oggi una sorta di insulto, alla stessa maniera della parola Ibrido per quanto riguarda Fobos.
Venni riscossa dai miei pensieri proprio dall’Ibrido che, inginocchiatosi di fronte a me e reggendomi la nuca, cercava di farmi ingurgitare parte della brodaglia che lui aveva lasciato.
La guardai disgustata mentre un moto di repulsione mi spingeva contro il muro, le spalle a contatto con la nuda pietra.
-Bevila. Sarai il mio braccio, e forse anche la mia mente in effetti, quindi anche tu devi restare in forze-.
- Io non la bevo quella sbobba-, mi lamentai, mentre il bordo di plastica della ciotola mi sfiorava le labbra. Inutile dire che alla fine mi ritrovai a deglutire forzatamente quello schifo, con le dita di Fobos che mi premevano sul collo nel tentativo di farmi ingoiare il cibo liquido e insapore senza rimetterlo.
-Stavo pensando a una cosa-, disse poi mentre con la mano mi ripuliva goffamente le labbra. Era una cosa che si faceva con i bambini non con le persone adulte, perciò la situazione mi parve assai bizzarra. Arrossii involontariamente e invitai Fobos a proseguire nel suo discorso.
- Dovremmo far loro credere che tu sia davvero un Deadly Child. In questo modo potremmo avere un’arma di convincimento più unica che rara. In fondo si tratta solo di una mezza bugia-.
Ci pensai seriamente, appoggiando il mento al palmo della mano.
-In effetti anche nei documenti che hai redatto insieme a Upokrates è stato confermato il mio disturbo. Ci sarebbero prove tangibili della mia Natura-.
Fobos sorrise, autocompiacendosi della sua idea geniale.
-Se riusciamo a convincerli che siamo dalla loro parte e che vogliamo aiutare quelli del Vallum ad assaltare la Sede Governativa, forse in cambio ci cederanno qualche utile informazione-, aggiunse, poi, mentre con lo sguardo acceso mi fissava negli occhi.
-Sei un genio… allora è rimasto un briciolo di intelligenza in quel cervello bacato-, risi sincera, ammirando la prontezza di ragionamento dell’Ibrido. Gli diedi un leggero spintone sulle spalle, ma visto che i talloni di Fobos non erano ben piazzati a terra, questi scivolò all’indietro trascinandomi con sé.  Ci ritrovammo distesi sul pavimento, l’una sopra l’altro, ridendo come due completi imbecilli. Non so nemmeno perché trovassimo la situazione così divertente. In fondo eravamo imprigionati in territorio ostile, con la tremenda possibilità di essere giustiziati il giorno seguente. Forse stavamo sfogando il nervosismo che ci aveva accompagnati dal Vallum sino al Sandpit, o forse semplicemente eravamo impazziti a causa del caldo.
Mi accorsi solo alcuni istanti dopo che quella era la prima volta in cui vedevo Fobos ridere di gusto, senza ombra di sadismo o cinismo sul volto. Pensai che forse in passato, quando i suoi occhi erano ancora del colore brillante dell’erba, il suo sorriso doveva persino essere stato più bello e innocente. Non che ora fosse da meno: vederlo così a suo agio, scosso dalle risa, lo rendeva ancor più affascinante ai miei occhi. Gli passai distrattamente una mano fra i capelli, districando la lunga coda bruna e osservando intensamente gli angoli ancora arricciati delle sue labbra.
-Astreya-.
La sua voce profonda e gutturale come l’eco di un tuono mi colse alla sprovvista, facendomi accelerare i battiti del cuore fino al limite dello scoppio.
Non c’era più nemmeno l’ombra di quella serenità che avevo visto riverberarsi in tutto il suo corpo qualche secondo prima. Ora c’erano soltanto perplessità e stupore.
Mi chinai, quasi al rallentatore, trattenendo il fiato e facendo il conto alla rovescia. Era come se una calamita mi stesse attirando verso il volto pallido di Fobos, lasciandomi giusto il tempo di assaporare la vicinanza bollente del suo respiro alle mie labbra. Mi sembrava di essere impazzita: eravamo in un carcere puzzolente, con poco più dei nostri vestiti e quattro detenuti che ci fissavano senza ritegno, eppure non potevo fare altro che avvicinarmi sempre di più, calando la cappa nera dei miei capelli sulla fronte e il profilo dell’Ibrido. Solo quando le punte dei nostri nasi si sfiorarono, Fobos si decise a reagire, spostando appena il viso di lato.
-Stranieri! -, ci interruppe una voce, facendoci immediatamente scattare sull’attenti. Un secondino alto con pochi capelli sulla cocuzza lucente ci spiava dall’altro lato delle sbarre, gli occhi piccoli e stranamente chiari. – Il Segretario è venuto a farvi visita-.
Un uomo robusto con delle spalle larghe strette in un completo gessato viola e nero comparve da dietro la parete, infilando le dita inanellate di acciaio tra le fessure delle sbarre. Era abbastanza giovane, non doveva superare la quarantina, e portava i lunghi capelli viola raccolti in un codino alla base del cranio. Sorrise famelico quando il suo sguardo incontrò il nostro. Eravamo ancora seduti a terra, ma ci eravamo talmente distanziati l’uno dall’altra che fra di noi si era ricreato il solito abisso.
-Vedo che vi state adattando alla nuova sistemazione. Io sono il Segretario del Sandpit, Colossus -, si presentò laconicamente, porgendoci la mano attraverso i pali di metallo. Entrambi ci allungammo per stringerla, io forse con un po’ troppa forza, e di rimando rivelammo i nostri nomi e la nostra provenienza.
-Lei non è originario di questo posto, sbaglio? -, domandai quasi subito, certa che Colossus non rientrasse nella forchetta dei nomi adottata dai Mauriani. Loro per scelta avevano deciso di distaccarsi dall’utilizzo Elladiano di appellativi storici, ricavati da quei reperti e papiri che per anni avevamo riportato alla luce e ristrutturato. Perciò si chiamavano accostando semplicemente lettere e numeri, in maniera tale da rendere tutti uguali, con lo stesso potenziale di partenza. Niente discriminazioni, era il motto del Sandpit. Solo la nuda forza interiore era in grado di mettere in luce od oscurare un individuo.
Gli occhi di Colossus si trasformarono in una tempesta elettrica, sorridendo nuovamente con quei denti piccoli e luccicanti.
-Vedo che non le sfugge nulla. Ebbene sì, io sono Mauriano di adozione: infatti, provengo dal vostro stesso mondo. Solo ho deciso che non faceva più per me e, quindi, sono venuto qui. I Mauriani mi hanno accolto alla stessa maniera con cui hanno accolto voi, ma ben presto hanno scoperto qualcosa di me che era indispensabile per loro. Il mio intelletto-.
-Quindi lei è qui per aiutarci? -, azzardò Fobos, avvicinandosi all’uomo e chinandosi appena per osservarne i lineamenti con maggiore attenzione. Colossus annuì impercettibilmente, quasi non ne fosse sicuro.
-In un certo qual senso. Mi hanno incaricato di seguirvi durante la vostra permanenza qui, dal momento che come voi io sono un bug. Tuttavia il mio giudizio su di voi sarà imparziale, del tutto imparziale, quindi non credo che otterrete il tipo di aiuto che desiderate-.
La voce melliflua di Colossus mi fece accapponare la pelle. Ero certa che quell’uomo fosse un lupo travestito da agnello, un individuo tanto indispensabile, quanto imprevedibile.
-Vogliamo solo parlare con i Diarchi-, ammisi fronteggiando l’uomo. Lui si limitò a guardarmi pigramente i capelli nel loro fluire sulle spalle, scomposti e mezzo fuggiti dalla treccia.
- Non è quello che ho pensato vedendo i filmati di sicurezza del Rhind-, ribatté lui, alludendo all’attacco di fronte al palazzo piramidale.
- La responsabilità di quell’increscioso incidente è completamente mia. Quello che mi affligge è un problema di tipo medico, quindi spero abbiate almeno la clemenza di ascoltare, oltre alle nostre considerazioni, anche le mie scuse-.
Fobos, come al solito, era impeccabile. Spalle rigide, incedere fiero e sguardo rassicurante. Stava riuscendo a trattenere la sua malattia (se così potevo chiamarla), mostrando il Generale rispettoso che era davvero, o perlomeno fingendo alla grande.
-Sono certo che i Diarchi abbiano molti argomenti di cui discutere con voi quattro-.
Gli occhi di Fobos ebbero un guizzo e il mio cuore perse un battito.
-Quattro? -, chiedemmo all’unisono.
-Non siete i soli ad essere giunti qui, nell’ultimo periodo-, sogghignò lui, prima di andarsene soddisfatto, le mani incrociate dietro la schiena e le gambe impegnate in lunghe falcate. Solo prima di imboccare la galleria di uscita si voltò, indicandoci con la punta affilata dell’indice. –In effetti, vi stavamo aspettando-.

 

 

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Capitolo 28
*** Capitolo 27- Il re e la regina ***


Ci sono persone che odiamo a pelle, che ci fanno storcere il naso e pensare che tutta l’umanità sia malandata, oppressa dal peso del suo putrefacente e deteriorante modo di agire. Ci capitano tra capo e collo come una pugnalata nella schiena, di cui ci rendiamo conto troppo tardi o di cui non ci curiamo finchè il sangue non comincia a inzupparci i calzini. Per me quella persona, quella macchia marcescente del pianeta, era Alpha-1. La odiai non appena la vidi. Era alta e austera con un viso severo e gli zigomi sporgenti. Portava i capelli raccolti in una strana acconciatura, simile a dei dread pieni di anellini metallici, pezzi meccanici, viti, bulloncini e, giuro, frammenti di ossa e denti di non so quale essere vivente. Ci accolse al piano più alto del Rhind, un ufficio a forma di piramide con base triangolare completamente in vetro, da dietro una scrivania di lucida pietra nera. Poggiava i gomiti sul tavolo e i suoi occhi dal taglio a mandorla ci fissavano da dietro le mani congiunte.
Io e Fobos avanzammo titubanti, scortati da due secondini, Ro-5, la sua compagna e Colossus. Fu quest’ultimo a gettarci fuori dall’ascensore a forma di plico che ci aveva accompagnati, silenzioso come un pesce, fin lassù.
-Benvenuti, stranieri. Voialtri, lasciateci soli-, mormorò la donna, con voce fin troppo suadente per i miei gusti.  Le sentinelle, come ipnotizzate dal comando, risalirono a passo svelto sul montacarichi e lentamente sprofondarono nel pavimento assieme a Ro-5 e Sigma-x.
Una volta che il plico venne letteralmente inghiottito dal pavimento in vetro, tornai a concentrarmi su quello che stava accadendo nell’ufficio. Osservai Fobos lanciare alla donna occhiate incuriosite mentre il suo sguardo si perdeva fra i decori dei suoi capelli biondo cenere. Era molto debole ed era provato dalla nottataccia passata in cella, al mio fianco: per tutto il tempo, infatti, aveva stretto i denti nel disperato tentativo di mettere a dormire anche i dolori articolari che l’umidità di quel luogo gli aveva causato. Eppure i suoi occhi erano innaturalmente svegli, come se di fronte a lui fosse comparsa una specie di leggenda o un mostro degli abissi. Sbattei le palpebre un paio di volte e tornai a concentrarmi sulla donna. Si era alzata e si era accomodata a gambe incrociate sulla scrivania, la sagoma del suo corpo allenato riflesso dalle sfumature specchiate del piano nero.
-Ci si rivede, Fobos! Non hai di certo un bell’aspetto, però-, scherzò la donna, mentre il mio sguardo furioso virava sul volto dell’Ibrido. Lui conosceva quella donna? Perché non me lo aveva detto e aveva taciuto? Cominciai a innervosirmi. Mi sentivo la pedina di turno, il soldato semplice in mezzo a Generali pluripremiati. E la cosa non mi piaceva per niente. Quasi senza accorgermene, il mio mostro cominciò ad agitarsi dibattendo le sue ali spettrali all’interno del mio stomaco. Lo sentivo arpionarmi la carne e affondare i denti appuntiti nel fegato.
Fobos non mi degnò di una spiegazione, né tantomeno di uno sguardo. Semplicemente, colto da un improvviso ascesso di tosse, sputò tante piccole goccioline rosso lucido sul pavimento attraverso il quale potevamo vedere gli uffici sottostanti. Sembrava di stare in un enorme acquario.
-Già. Sei decisamente declinato, piccolo mio-.
La donna avanzò nella nostra direzione, squadrando lui e trascurando me. Gli passò le dita sottili sul profilo della mascella e sfiorò con le sue labbra scarlatte la pelle candida della sua mandibola.
-Non pensavo ti accompagnassi con le Custodi-, sussurrò, spostando le sue iridi argentate nella mia direzione. Mi fissò intensamente, quasi con ammirazione, come se fossi un succulento pasto. Poi mi sorrise scoprendo un paio di canini estremamente aguzzi e dorati. Era la cosa più eccentrica che avessi mai visto, ma in fondo il Sandpit era noto per le sue stranezze.
-Tu devi essere quella donna. Efesto mi ha parlato a lungo di te, con tanto di documenti alla mano-.
-Efesto?!-, sbottai, mentre la mia mano correva rapida al lobo dell’orecchio.
-Già, immagino che il nostro soldatino qui non ti abbia detto di appartenere alla setta, vero? -.
Il mio volto si contrasse dalla rabbia, mentre i pugni si stringevano allo spasmo sulla stoffa sdrucita dei miei jeans. Senza curarmi dell’altrui pensiero, afferrai Fobos per i capelli e lo obbligai a guardarmi dritto negli occhi.
-Tu hai visto il mio orecchino. Lo sapevi, ma non mi hai comunque detto nulla-, ringhiai.
Il suo sguardo opaco si perse sul mio viso, deciso, ma al contempo annebbiato dalla sofferenza. – Ordini-, si limitò a dire, strappandomi la mano dai suoi crini e tornando a sovrastare in altezza i presenti in sala.
-Che tristezza. Ti comporti ancora come un disadattato-, commentò di nuovo Alpha-1, euforica come non mai.
-Non sapevo che ti avessero eletta Diarca-, si decise a parlare Fobos, allungando il collo in direzione della targhetta di ottone accanto alla cabina dell’ascensore trasparente.
 – Quanti culi hai dovuto leccare per arrivare fin qui? -.
Il tono di voce di Fobos era ruvido e infastidito, quello di lei, invece, divertito e trionfante.
-Solo quelli strettamente necessari. Comunque mi chiamo Alpha-1, membro decennale dei Figli del Vento. E tu devi essere Astreya, Custode diciottesima di Katakthonio, e soldato semplice del Reggimento dei Biotecnici. Polivalente-.
Strabuzzai gli occhi. Se lei sapeva della mia Natura certamente doveva essere un pezzo grosso. E anche Fobos, vista la mancanza di sorpresa nei suoi occhi al sentire pronunciare quell’appellativo.
-Come fa…-, cominciai, lanciando occhiate a tutti i presenti, in maniera sospetta.
Colossus si fece avanti e affiancò Alpha-1.
-Conosciamo tutto di te. Abbiamo ampiamente pagato il Tempio affinchè consegnasse solo a noi l’esclusiva sulla tua Natura. Ci sono cose che soltanto noi sappiamo-.
Incominciai a indietreggiare: improvvisamente mi sentivo intrappolata, con occhi serpentini a fissarmi e denti pronti a ghermirmi. Mai come in quel momento, mi sentii indifesa e inerme. Ero disarmata, in balia delle parole di due persone che sembravano conoscermi meglio di quanto io non conoscessi me stessa. E per di più l’unico di cui mi ero fidata fino ad allora, l’unico con cui avevo condiviso il mio percorso, si era scoperto essere un traditore. Certo, nemmeno io ero andata a raccontargli dei Figli del Vento, ma almeno avrebbe potuto rivelarmi quanto sapeva circa la mia Natura. In qualche modo sentivo che me lo doveva.
-Non avere paura, dolce bug…-.
Vidi Fobos avanzare e afferrare per il bavero della camicia bianca Alpha-1. Aveva i denti scoperti come un cane inferocito e lo sguardo di un leone. Senza il minimo sforzo la sollevò da terra, lasciandole solo la punta degli scarponi a sfiorare il pavimento. Colossus trangugiò aria a vuoto, senza muovere un muscolo.
-Perché tu sei qui? Cosa significa tutto questo, il casino al Vallum… E’ tutta opera tua? Hai stretto patti con i ribelli? -.
Alpha-1, con il viscidume di una serpe, sgusciò via dalla presa di Fobos, incatenando fra le sue dita ciocche di capelli scuri. Li guardai disgustata qualche secondo, sentendo un rigurgito acido rodermi il fegato. Perché Fobos si faceva toccare da quella donna? Perché là dentro parlavano tutti di me, ma ero la sola ad essere ignorata?
-Non siamo qui per discutere a che fazione apparteniamo, o quante bugie ci raccontiamo. Io voglio sapere cosa sta succedendo al Vallum e perché l’Accademia di Carthagyos è stata riaperta-, sbottai, preferendo riferirmi all’uomo dai capelli color melanzana piuttosto che alla bionda. Lui sorrise appena, mordendosi in maniera affettata e artificiosa l’unghia appuntita del mignolo.
-Quindi non ti interessa conoscere nei dettagli il tuo vero e unico passato? -, sibilò, tentandomi.
Sapevo che la mia infanzia era costellata da buchi, come un panno rosicchiato dalle tarme, ma questo non significava che avrei desiderato sostituire la mia tovaglia con una male rattoppata da altri. Non volevo sprofondare nuovamente nella depressione, non volevo pensare che la mia identità fosse qualcosa che gli altri avevano costruito attorno al mio fragile nucleo. Io ero una combattente ormai. Ero fredda, cinica e sempre vigile, indecisa su me stessa e incapace di contare sugli altri. E così dovevo rimanere, senza permettere al vaso della mia mente di esplodere in frammenti acuminati.
-So perfettamente chi sono. Tutto quello che devo sapere su di me, lo so. E tanto mi basta-.
-Ma non basta a noi, ragazzina-, mormorò Alpha-1, pigiando il bottone rosso rubino appena sotto il bordo del tavolo che apriva le porte scorrevoli dell’ascensore. Subito il montacarichi tintinnò, rivelando un uomo alle nostre spalle. Era nerboruto e a petto nudo, con il torace costellato dai tatuaggi più disparati. Era ricoperto di sabbia e, appoggiati sul capo tra i capelli colore del miele, vi erano degli occhiali antichi, simili a quelli che si narrava possedessero i primi aviatori.
-Spero che tu mi abbia chiamato per un valido motivo. Stavo lavorando-, cominciò l’uomo, prima che i suoi occhi neri si posassero sulla mia persona. Fobos, quasi di scatto, si mise in guardia, la mano tesa fra noi due a dividerci.
-Stai calmo cagnolino. Non mordere-, lo derise lui, prendendogli l’intero viso con la mano e rispingendolo malignamente all’indietro.
- Questo è il mio gemello, Gamma-x. Sicuramente quella bocca larga di Xerse vi avrà mandato da noi. Comunque, se preferisci chiamarci con i nostri nomi Elladiani, noi siamo Ysmen e Chastor-.
La presentazione era chiaramente per me, visto che Fobos pareva conoscere entrambi. Osservai le vene scure solcare la pelle abbronzata e lucida di Chastor e capii che con lui di fronte alla mia unica via di fuga non sarei andata molto lontana.
-Anche voi non siete Mauriani di nascita? -.
- Lo siamo, ma siamo anche associati ai Figli del Vento. Questi ci hanno dato l’opportunità di entrare nell’Esercito, fornendoci due identità fittizie-.
Fobos si rialzò appena in tempo per beccarsi un altro pugno, questa volta nello stomaco, che lo fece piegare in due dal dolore. Ysmen lo guardava divertita, socchiudendo appena le labbra quando un nuovo colpo si abbatteva su di lui.
-Che cosa volete da noi? Cosa vogliono i Figli del Vento? -, strillai, portandomi le mani alla bocca quando vidi le labbra di Fobos sanguinare copiosamente.
-Noi vogliamo solo che vi uniate alla nostra causa. Un Ibrido dalla forza sovrumana e dalla rabbia incandescente e una donna unica, un’arma a doppio taglio per l’umanità-, commentò Chastor mentre la gemella ricalcava le sue parole mimandone il labiale. Sembrava una sorta di litania, una smaniosa e fanatica cantilena di follia.
-Se lo lascerete morire, non avrete altro che un duo scoppiato-, tentai, mentre Chastor premeva il suo piede sulla marea nera dei capelli di Fobos. Ero certa che se avessi detto qualcosa di sbagliato o qualcosa di troppo, quell’energumeno gli avrebbe schiacciato la testa come una nocciolina.
- Non è lui l’elemento fondamentale della nostra ricerca, ma tu. Paragonandovi agli scacchi, tu saresti la regina, il pezzo unico, il pezzo della vittoria; e lui il re, la pedina senza la quale la regina non si muoverebbe nemmeno. Solo che, a differenza degli scacchi, che sono un gioco dalle regole basilari, qui il re è una pedina del tutto sacrificabile-, mormorò Ysmen avvicinandosi al corpo riverso di Fobos e chinandosi a sollevargli il mento. Il volto dell’Ibrido era rigato da lacrime di sangue laddove la testa aveva battuto sul pavimento. Eppure la sua espressione non tradiva alcun dolore, alcuna sofferenza. Semplicemente Fobos non riusciva a reagire, il corpo non rispondeva più al suo controllo.
-Io non sono un’arma…-, tentennai, indietreggiando ulteriormente. Quella situazione era irreale.
-Non lo sei? Io la vedo diversamente, mia piccola Polivalente. E altrettanto diversamente la vedono i Figli del Vento. Per tutti questi anni ti abbiamo seguita, studiata e allenata. Dall’ombra, senza che tu nemmeno te ne accorgessi. Tutti noi ricopriamo il ruolo che ricopriamo per causa tua, o nel nostro caso, grazie a te. Io e Chastor siamo a capo di un immenso regno grazie a te, per colpa tua Fobos ha disertato e ha scelto questa vita di morte, per te il Tempio e l’Esercito si sono uniti in un'unica realtà… Non capisci che tutto il mondo che ti circonda altro non è che una scacchiera predisposta allo scacco matto della regina-.
Gli occhi di Ysmen erano tempestosi, nuvole nere cariche di pioggia e solcate da sprazzi azzurri di fulmini elettrici. La sua bocca dipinta di rosso si muoveva sensuale e perfida di fronte ai miei occhi, colpendomi e lusingandomi contemporaneamente, senza che io davvero potessi aggrapparmi al significato di quelle parole oscure.
-Io voglio solo sapere cosa sta accadendo al Vallum, chi ha venduto le armi ai ribelli e perché minate il Governo. Il resto è dare aria alla bocca-, risposi stizzita, bloccando con la mano il braccio di Chastor, sospeso a pugno sul volto di Fobos. Per quanto il ragazzo mi avesse ferita, nascondendomi la verità e raggirandomi come il peggiore dei cani infedeli, mi sentivo ancora in debito con lui, per quello che aveva fatto per me durante il nostro viaggio solitario. Vedere Gamma-x picchiarlo non mi avrebbe dato alcuna soddisfazione e tantomeno avrebbe ricucito la mia fiducia tradita.
Chastor sorrise estasiato, fissando il suo sguardo allucinato sulla mia mano. Sembrava euforico mentre tendeva i muscoli sotto il mio tocco, con le pupille dilatate e la cornea opaca.
-Il Deadly Child mi ha toccato, mi ha toccato! -, esclamò lui, felice come un bambino. Per tutta risposta Ysmen si schiodò dalla scrivania e viaggiò quasi svolazzando verso di me. Si fermò a qualche centimetro dal mio viso, sospirandomi il suo alito che sapeva di alcool sulla fronte.
-Come puoi pretendere di capire i piani di Prometheo se nemmeno conosci il tuo passato, la tua provenienza? Come puoi anche solo pensare di capire il gioco se non leggi il libretto di istruzioni? - .
Quei due erano completamente matti. Cominciai a temere che quello che si vociferava sui Mauriani fosse vero, ossia che fossero tutti dei drogati e degli esaltati.
-Sentite, noi non abbiamo tempo da perdere. Non mi interessano le storielle, né altre ciance. Cosa devo fare per convincervi ad aiutare Fobos? -, domandai atona, mentre l’Ibrido si rialzava tenendosi lo stomaco.
-Piantala, Astreya-, disse lui, appoggiandosi con la mano alla mia spalla. Senza nemmeno pensarci mi scostai. Non volevo che l’uomo che Ysmen aveva contaminato con il suo tocco sporcasse anche me. Era evidente che la loro relazione in passato si fosse spinta oltre.
-Tu non devi nemmeno rivolgermi la parola, chiaro? Non una sillaba, altrimenti al posto di una cura, ti servirà una bara-, ringhiai nervosa. Ormai la testa mi girava e mi sentivo circondata da avvoltoi affamati. Aspettavano solo che crollassi, ma non lo avrei fatto, no di certo.
- L’Esercito e il Tempio si sono alleati per eseguire il perfetto colpo di Stato. Cronyos ci ha pagato una bella somma di denaro per vendere le armi ai ribelli, cosicché una volta giunti al Vallum la rappresaglia si potesse svolgere come effettivamente ha fatto. Solo in questo modo la Sede Governativa avrebbe richiesto l’invio di truppe dalla città più vicina, proprio Carthagyos…-, sputò fuori Colossus.
Inspirai a fondo, ignorando lo sguardo penetrante di Ysmen. Sapeva che il mio cervello si era messo in moto, che stava ragionando su tutta quanta la questione e la stava trovando talmente inconsistente da ricordare una forma di groviera.
-I Molossi da chi sono stati disattivati? -, domandai a bruciapelo, cercando di capire perché la loro versione dei fatti non mi convincesse.
-Ti dice niente il nome Deimos? E’ membro giovane del Concilium da circa due anni, come spalla del vecchio Ministro della Guerra. Coincidenza? -.
Strabuzzai gli occhi.
-E’ vero?!-, gridai a Fobos, resistendo all’impulso di colpirlo io stessa.
Chastor sorrise ferino nel constatare quanta rabbia mi stesse fluendo attraverso le membra in quel momento. Provavo la stessa furia animalesca che probabilmente provava lui, rinchiuso in quell’enorme corpo da gorilla.
Fobos, di fronte alla mia domanda, chinò la testa, annuendo appena.
-Bene, almeno su questo non pare stiate mentendo. Ora ditemi, perché tutto questo piano? Perché semplicemente non sfruttare la rabbia della gente, rendersela amica e sfondare il Vallum assieme? Perché tutta questa segretezza? -.
Fu proprio Chastor a rispondermi, dimostrando a tutti quanto un fisico scolpito dalla palestra non fosse indice di una piccola intelligenza.
-Beh, mi pare ovvio. Se avessero semplicemente attaccato il Governo che cosa avrebbe pensato la gente? Che i Religiosi fossero tutti corrotti? Che l’Esercito fosse il nuovo tiranno? Pensa alla paura, dopo la presa di potere. Pensa ai piccoli cittadini che si sentono minacciati proprio da quelle persone che li proteggono. Prendendo il Governo con la forza, l’Esercito si mostrerebbe come un organismo instabile, soggetto alle mode e alle ideologie. Che fiducia avrebbe mai il popolo in una Istituzione del genere? Forse al momento del colpo di Stato i consensi fioccherebbero, ma a pace fatta la situazione sarebbe ben diversa-.
-Certamente, il modo di agire dell’Esercito è sibillino, pieno di sotterfugi, come il nostro. Ma per fortuna i Figli del Vento hanno adepti ovunque e siamo in grado di prevedere le mosse future con poco sforzo. Il Tempio stesso pullula di nostri uomini che affermano come Esercito e Chiesa siano ora strettamente correlati. Colpo di Stato dell’Esercito più potere al Tempio uguale Teocrazia a braccio armato. Uno spasso, vero? E’ questo che vogliamo? -.
I capelli di Ysmen tintinnarono quando smise di parlare, lasciando cadere attorno a sé un silenzio irreale, quasi sacro. Lo interruppi comunque, troppo affamata di notizie per restarmene buona e accettare passivamente quelle congetture. Non volevo nemmeno pensare di aver passato tutta la mia vita a seguire e servire i “cattivi”.
-Voi li avete aiutati. Siete pessimi quanto lo sono loro. Avete fornito armi per un massacro oltre ad aver appoggiato un’azione ignobile. Siete solo dei mercenari. Che ha questo a che vedere con la logica dei Figli del Vento? Loro non avrebbero mai permesso che una cosa simile accadesse. Hai detto tu stessa che ciò che è accaduto al Vallum è spregevole-.
Ysmen si arrabbiò, battendo i pugni sul tavolo e ringhiandomi contro.
-Sei tu quella che non capisce. Prometheo sa esattamente cosa sta facendo. Il suo piano è superiore a qualsiasi nostra logica. Lui vede la scacchiera dall’alto, sa quali pedine sono sacrificabili e quali no. Lui si muove per un fine superiore, per scongiurare questa crisi-.
- Chi è Prometheo? -, domandai.
-E’ lo Stratega dei Figli del Vento, l’antagonista anonimo di Cronyos-, mi rispose Colossus, l’unico che mi pareva mantenere un briciolo di lucidità lì dentro.
- E’ colui che ci sta manovrando. Che manovra me, mia sorella, il Segretario e persino voi due. Siete così assoggettati ai Figli che siete arrivati fin qui senza sapere l’uno dell’altra…-, ridacchiò Chastor, obbligando Fobos sulle ginocchia e sospingendogli i capelli da un lato. Sulla sua nuca, scheletrica e pallida, vi era il tatuaggio nero di una libellula con un’ala spezzata. Aprii la bocca per la sorpresa, ma mi trattenni da qualsiasi commento.
-Io sapevo solo di doverti seguire e addestrare una volta giunta in Accademia, non sapevo nulla di più di te, Astreya…-, obiettò Fobos, implorandomi con gli occhi di credergli.
Non lo feci e arricciai il naso di fronte alla sua penosa supplica.
- Sapevi cosa ero e questo è già di per sé sufficiente.  E poi ti ho già detto che ciò che hai da dire non mi interessa-.
-Dovrebbe, invece. Il fatto che il Generale non sappia assolutamente nulla di ciò che sta accadendo attorno lui è indice del suo status di semplice pedina. Prometheo non lo ritiene abbastanza importante. E’ un pezzo sacrificabile-, sogghignò Ysmen, guardando Fobos con odio mal celato.
-Un vero peccato. Baci davvero bene-, aggiunse poi.
Sentii una furia omicida montarmi dentro, difficilmente controllabile. Avevo voglia di colpire sia Alpha-1 che Fobos, ma non ne abbi il tempo. Con la velocità di un ghepardo, Colossus si mise in mezzo, accendendo un display e mostrandomi delle immagini sfocate. Probabilmente, vista la scarsa qualità delle riprese, doveva trattarsi di un video di sorveglianza. Fissai il mio sguardo sulla sala che il display mostrava: un salotto minimal scosso da continue interferenze.  Al suo interno c’erano due figure sedute su un divano. Mi tappai la bocca con le mani, trattenendo un urlo. Aracne ed Eracleo?! Cosa ci facevano loro in quel posto? Allungai il polpastrello per sfiorare i loro volti, ma Colossus mi strappò lo schermo dalle mani, facendo qualche passo indietro.
- Se accetterai di aiutarci, se accetterai i misteriosi piani di Prometheo, li lasceremo liberi e cureremo l’Ibrido-.
Un singhiozzo mi esplose in gola. Tutta quella faccenda era strana. Chi era questo Prometheo, come riusciva a controllarci tutti, a usarci sussurrando a ciascuno parole diverse e allettanti? Come poteva mandare avanti due Mauriani esaltati, attirarci lì con l’inganno e far rischiare la vita a Fobos? Che senso aveva avuto farmi avvicinare da Iatro il giorno dei funerali? Non capivo perché questa persona non potesse semplicemente farsi avanti.
-Non mi è ancora chiara la faccenda. Che cosa c’entro io con tutto questo? -.
La luce sinistra negli occhi di Ysmen mi colpì come una freccia.
-Tu sei la regina, Astreya-, mormorò, per poi chinarsi e poggiare delicatamente le sue labbra su quelle di Fobos.
 

 

 

 

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Capitolo 29
*** Capitolo 28 - Le due facce di un Debito ***


Capitolo 28

Non appena Fobos percepì le labbra di Ysmen sulle sue cercò di sottrarsi, ma la donna gli artigliò con le unghie affilate il volto scarno e lo costrinse a subire la sua violenza.
-Pensi di farmi del male, così? -, le chiesi, stupendomi io stessa di quanto il mio tono risultasse fermo e deciso. La realtà era ben diversa da ciò che stavo mostrando ai presenti: dentro stavo avvampando di rabbia ed era stato assai arduo anche solo decidere di aprire la bocca per parlare.
-No, era solo qualcosa che mi sentivo di fare-, bisbigliò lei, lasciando andare di colpo Fobos. Il ragazzo cadde a terra, pulendosi le labbra e imprecando pesantemente.
- Guardalo, non è un bellissimo re? Eppure quando stava con me, aveva decisamente un colorito migliore-.
La bile mi sgorgò dal fegato e un dolore sordo mi diede il colpo di grazia. Estrassi la pistola dalla fondina di Colossus, troppo molle e fiacco per accorgersi dei miei movimenti rapidi, e con l’agilità di una pantera la puntai alla tempia di Chastor. Lui sgranò gli occhi e una goccia di sudore gli scivolò lungo il collo perdendosi nell’intricato labirinto dei tatuaggi.
-Che diavolo, fai?!-, strillò Ysmen, improvvisamente meno incline a scherzare. Sorrisi e indicai con il mento il suo enorme gemello.
-Era solo qualcosa che mi sentivo di fare-, la scimmiottai e premetti con forza la canna contro la pelle dell’uomo. – Allora cosa vogliamo fare, Alpha-1? Mi spieghi esattamente cosa ci faccio qui, nei minimi dettagli, e poi aiuti Fobos… o sparo al tuo stesso sangue? -.
Colossus pose una mano sulla spalla di Ysmen, le cui labbra tremavano per la furia e la paura. I suoi dread tintinnarono quando sollevò lo sguardo, fiera.
-Sei proprio una DC-, mi concesse, tornando alla scrivania ed estraendo un fascicolo spesso e cartaceo. Era da anni che non vedevo un file in carne e ossa; era quasi antiquariato.
-Qui ci sono le specifiche che ci sono state date da Prometheo. Puoi leggerlo se vuoi. Ci sono tutte le informazioni a noi note-.
Colossus sorrise, poi raccolse la risma di fogli e me la porse.
-Carta? -, commentò Fobos, il quale, proprio come me si stava ponendo molte domande.
- Oggi come oggi è più sorvegliata la rete Wi-Fi universale che non la carta. Persino la rete pirata è soggetta a virus o hacker. Chi mai penserebbe, invece, che messaggi importanti vengano ancora spediti con un corriere? -.
Non potevamo darle altro che ragione. Afferrai quel ciarpame e velocemente gli diedi una sfogliata. Vidi una foto mia e qualcuna di Fobos, ma nessun foglio in particolare attirò la mia attenzione.
-Quindi presuppongo che nonostante la vostra accoglienza di merda, voi siate da considerare alleati-, commentò l’Ibrido, strappandomi il file di mano e analizzandolo lui stesso. Stava male e si vedeva, ma il suo temperamento combattivo non gli permetteva di fidarsi del mio giudizio e restarsene in disparte.
-Solo se la regina accetterà il ruolo che Prometheo le ha riservato-.
- Non sono forse già votata alla causa dei Figli del Vento? -, sussurrai, movimentando l’orecchino appeso al mio lobo.
Ysmen accennò piano, come se le costasse una fatica immensa.
-Non sono certa sia il caso di fidarmi, in fondo sei una anomalia. Eppure per qualche motivo Prometheo sta muovendo mari e monti per te, persino il Deserto intero; per qualche motivo lui si fida. Accetterò le tue parole, ma da donna diffidente ti chiedo un Debito. Nulla di troppo impegnativo-.
Strinsi i denti e Fobos scosse il capo impercettibilmente, chiedendomi di ignorare la donna. Anche lui nutriva dei dubbi sulla nostra setta, anche lui sospettava che in quel fascicolo ci fossero informazioni che avremmo dovuto leggere prima di accettare qualsiasi accordo.
Eppure, se non avessi accettato immediatamente, che fine avremmo fatto io e Fobos? Lui sicuramente si sarebbe spento come una candela.
-D’accordo. Consideralo fatto-, dissi fissandole la schiena con rabbia.
-Ottimo, era qui che volevamo arrivare-, commentò lei, ridendo con quei canini artificiali.
-Ma stai scherzando?!- strillò invece Fobos, urlando contro di me tutta la sua rabbia. Sapeva che, per quanto lo stessi odiando, la mia scelta era stata presa principalmente per lui, per salvarlo, e questo non gli andava giù. Odiava essere la causa per la quale io stavo accettando un simile compromesso.
-Non scherzo. E ora taci-, lo ammonii, ma non feci nemmeno in tempo a finire la frase che le ginocchia di Fobos crollarono e il giovane, portandosi una mano al volto, cadde a terra. Cominciò a vomitare sangue, tantissimo sangue, e nemmeno la mia mano fu in grado di fermare quel fiume scarlatto che scivolò come una serpe sul pavimento trasparente. Poi l’Ibrido perse definitivamente conoscenza.
-Fobos! -, lo chiamai scuotendolo, mentre la voce di Colossus chiamava il personale del pronto soccorso. Ysmen rimase a fissarmi per tutto il tempo, senza muovere un muscolo. Vide scorrermi le lacrime sulle guance e il sangue sulle mani, mi sentì urlare e imprecare, ma non fece nulla. Mi osservò incuriosita, cercando di capire cosa provassi, perché stessi così male. Ma né lei né Chastor potevano anche solo immaginare la sofferenza che provavo in quel momento. Mi sentivo dilaniare il petto, sbrindellare l’anima e il mio mostro piangeva con me, implorandomi di morire se fosse morto anche quel volto da ragazzo che stringevo convulsamente fra le braccia, bagnate del suo sangue scuro.

 

 

 

 Pareva che Fobos non avesse mentito quando aveva detto di essere immune ad ogni sorta di medicina o tossina. Lo era a tal punto che i medici giunti nell’ufficio di Ysmen per salvarlo non avevano riscontrato alcun effetto nell’iniettargli l’adrenalina dritta nel petto. Non era successo assolutamente nulla, mandandomi nel panico più totale. Erano riusciti a rianimarlo solo con il defibrillatore, ad un soffio dalla morte, e da allora si limitavano a nutrirlo e farlo respirare artificialmente, legato a un lettino con mille tubi e una mascherina per l’ossigeno. I sintomi erano quelli dell’overdose, ma al contrario. Il suo corpo, non sopportando più l’astinenza cui era stato costretto, si era ribellato e aveva deciso di lasciarsi morire, portando il padrone a una morte silenziosa e fulminante. Ma grazie agli Dei, i medici non avevano tardato a scoprire cosa lo rendesse invulnerabile ai farmaci.
-Il suo sistema sanguigno è percorso da dei Nanobot-, mi aveva spiegato l’infermiera che lo stava assistendo, paziente di fronte al mio viso stravolto. –Sono piccoli robot programmati per inglobare e sciogliere tutte le sostanze estranee che non siano la cura somministrata dal suo medico. E’ stato difficile capire come disattivarli senza usare altre sostanze, ma alla fine il dottor Omega-g è riuscito a ricreare in laboratorio dei Femtobot in grado di disattivare i piccoli intrusi nel suo corpo. Il loro funzionamento è semplice. Essendo ordini di grandezza più piccoli, essi sono in grado di circondare i Nanobot e spezzettarli in minuscoli frammenti che poi vengono filtrati tramite delle macchine collegate al sistema depurativo dei reni del paziente. Una volta terminata la loro missione i Femtobot procedono con l’esecuzione di un check-up completo dei tessuti e laddove si sono aperte ulcere o emorragie sintetizzano un bio-tessuto in grado di fare da cerotto a quelle piaghe aperte e integrarsi perfettamente con il sistema biologico dell’Ibrido-.
Erano parole che non avevano alcun senso per me. Io vedevo solo un Fobos estremamente giovane, steso nudo in un tubo di vetro, isolato dal mondo e con gli occhi chiusi. Non ero riuscita a tollerare quella visione per più di pochi minuti e, quindi, ero scappata via alla prima occasione. Mi ero concentrata su altro: sul fascicolo, su Aracne ed Eracleo e soprattutto su me stessa. La prima cosa che avevo fatto dopo essermi assicurata che Fobos fosse in buone mani, era stata riunirmi con i miei due compagni. Avevo scoperto che erano stati catturati nel Deserto poco prima che le loro scorte di acqua finissero e che, come noi, avevano scelto la via della diserzione. Mi raccontarono che Cronyos aveva dato il via a una strenua caccia all’uomo, ponendo una taglia sulle nostre teste, sulla mia e su quella di Fobos. Eravamo accusati di ammutinamento, sedizione, favoreggiamento del nemico e concorso in atto terroristico ingiustificato. Insomma, eravamo sulla bocca di tutti e sulla piattaforma internet dei Wanted.Inc, i cacciatori di taglie. Avevo anche saputo che Galeno era stato imprigionato con l’accusa di complicità in atto terroristico e favoreggiamento, e che al momento era in attesa di giudizio. Erano tutti fermamente convinti che fossi stata io la causa di quell’esplosione e che sempre io avessi convinto Fobos a sostenere la mia causa. Ero diventata il baluardo dei ribelli, tanto che questi adesso inneggiavano a me come alla loro eroina guida. Pensavano che avessi dato ordine a Galeno di evacuare la zona per amore loro, dei miei fedeli proseliti, e che volessi colpire solo le frange dell’Esercito presenti fuori e dentro il Vallum, allargando ulteriormente la breccia. Mi avevano idealizzata e tramutata in un bug a tutti gli effetti. Ma non me ne fregava nulla di quello che pensavano; quello che mi tormentava era stato scoprire quello che avevano subito i miei due amici per avermi creduta innocente tutto quel tempo. Erano stati accusati entrambi di sedizione ed erano stati costretti a lanciarsi in quella nuova e imprevista avventura.
Eracleo, in particolare, mi era parso provato. Aveva dovuto provvedere a sé stesso e ad un’altra donna per tutto quel tempo, e quando mi aveva trovato era stato talmente felice di vedermi che mi aveva stritolato in un abbraccio soffocante e mi aveva baciato la fronte più e più volte. Aveva ringraziato gli Dei, inginocchiandosi a terra, e aveva giurato che se non fosse stato per la sua fede nelle Divinità e in me, a quell’ora sia lui che Aracne sarebbero stati già in mani nemiche.  Io non avevo creduto a tutte quelle panzane religiose e mi ero discostata dal loro atteggiamento euforico e sollevato. Non capivano che la vera guerra era iniziata e che ora, con loro tra i piedi e non più al sicuro, dovevo preoccuparmi di altre due persone. Non potevo tollerare che anche a loro accadesse qualcosa di simile a quello che era toccato a Fobos. E non potevo nemmeno più guardarli in faccia, essendo io la colpa di tutto quanto. Perciò, sebbene i Diarchi ci avessero assegnati allo stesso appartamento, io me ne stavo per i fatti miei, chiusa in uno sgabuzzino della palazzina, sotto una nuda lampadina e accovacciata su un secchio a fissare il fascicolo che Alpha-1 mi aveva consegnato. Non ero riuscita ad aprirlo, nemmeno una pagina. Non mi sembrava giusto sverginare quelle informazioni preziose senza Fobos, senza colui con il quale avevo iniziato la mia nuova vita. E di fronte a quel cartone giallastro avevo realizzato finalmente due cose. La prima era che ero libera, che adesso, pur nella solitudine dell’assenza di Fobos, avevo in mano la mia vita e tutto sarebbe dipeso dalle mie scelte. La seconda era che forse Alpha-1 non aveva avuto tutti i torti a chiamarmi Deadly Child. In un certo senso lo ero davvero: non avevo paura di morire, non avevo paura di sacrificarmi per una causa, per un’idea. L’unico punto su cui non transigevo era, però, la motivazione. Per lottare e dare tutta me stessa dovevo avere la certezza di essere nel giusto, che il mio fine giustificasse davvero i mezzi e che alla fin della fiera mi sarei sentita bene e non un veterano con un disturbo post traumatico da stress.
Per cui la scelta era stata quella di non poltrire e di affrontare l’angoscia emotiva che aumentava ogni giorno di più. E come fare? Correndo, andando in palestra e fissando il fascicolo. Mi ero messa alla prova, studiando strategie militari con Colossus, storie di complotti e ribellioni con Sigma-x, che di questo argomento era davvero esperta, e praticando esercizi di magia visto che le Cure mi erano precluse.
Volevo essere pronta per quel fascicolo una volta che Fobos fosse uscito da quel maledetto tubo. Perché lui sarebbe uscito da lì, con le sue gambe.
Occupai così i miei giorni, fino a quando un medico non chiamò nel nostro appartamento e comunicò ad Aracne che Fobos si era risvegliato e che era stato spostato dal reparto di terapia intensiva a quello di degenza. Era ancora debole e si stava abituando alla sua nuova condizione. Avevano dovuto fargli almeno una dozzina di iniezioni tra vaccini e antibiotici, tutti allo scopo di aiutare il suo sistema immunitario. Ero felice che stesse bene, ma non volli comunque andare a trovarlo. Non ci riuscivo. Stavo male al solo pensiero di rivedere quei tubi, quel corpo debole e quegli occhi sottili e spruzzati d’oro. Ma sapevo anche che non avrei potuto procrastinare a lungo perché le nostre strade non erano ancora pronte per dividersi. Presi quindi la decisione più difficile della mia vita: sarei andata dall’Ibrido quando avessi avuto il coraggio di leggere almeno il titolo del fascicolo.
Inutile dire che mi ci volle ancora qualche giorno, qualche notte insonne e almeno due litri di caffè nero. Ci riuscii una mattina, dopo essermi svegliata coperta dalla giacca di Eracleo.

Fascicolo# caso 1. La falena notturna
Sospirai quando lo lessi e, senza ripensarci, chiusi il plico, fiondandomi fuori casa.

 

 

 

 

-Qual è il problema, Astreya? Hai detto che non mi avresti più parlato, eppure sei qui di fronte a me, con quel broncio e quella ridicola espressione-.
Depositai il mazzo di girasoli accanto al suo lettino, attenta a non schiacciarli, poi avvicinai uno sgabello a Fobos e mi sedetti in silenzio. Ero ancora arrabbiata con lui, ero ancora ferita dalle sue omissioni. Mi ero fidata di Fobos e, contro ogni aspettativa, mi ero persino affezionata a quel mostro pallido, eppure lui era distante da me anni luce, o meglio io ero distante dal suo cuore. Per Fobos si era sempre e solo trattato di ordini: gli avevano detto di seguirmi e proteggermi e lui, lui lo aveva fatto. Era doloroso, ma potevo davvero rimproverarglielo?
-Come stai? -.
-Bene, ti ringrazio-.
 Fobos era attento ad ogni mio singolo movimento, ad ogni mia singola reazione. Sembrava un cervo, così vigile e sempre pronto a sfuggire al lupo. Mi passai una mano fra i capelli, sciolti blandamente lungo la schiena e arrotolati attorno alla spalla destra in un groviglio di nodi e preoccupazioni. Non mi ero nemmeno pettinata, prima di andare lì.
-So che ti ho chiesto di non parlarmi, che ti ho detto di non volerti più nemmeno vedere, ma non è così. Capisco perfettamente le tue ragioni in realtà e forse, in fondo, lo sapevo fin dall’inizio che per te si trattava unicamente di lavoro…-, vomitai, raccogliendo tutto il coraggio che gli Dei mi avevano fornito. Ripensai ad Eracleo e Aracne, a quanto fosse semplice per me comunicare con loro, trasmettere loro le mie emozioni. Con Fobos era pressoché impossibile: mi mancava il fiato ogni volta che i suoi occhi glaciali incontravano i miei. Persino il mio mostro non sapeva che cosa fare in sua presenza. Lui, in una sola parola, era disarmante ai miei occhi.
-Non lo era-.
Cosa? La voce di Fobos era più profonda del solito e malinconica. Sollevai il capo, riuscendo finalmente a distogliere lo sguardo dai miei stivali sbrindellati, e lo vidi fissare le folate di sabbia aranciata fuori dalla finestra, i lunghi capelli a incorniciargli il viso.
-Non lo era? -, ripetei senza capire. Ero così smarrita nel mio mondo che avevo perso il filo del discorso.
-Non si è mai trattato solo di lavoro per me-.
Fobos si voltò nella mia direzione, le labbra tese e le occhiaie livide. Senza piercing e con i capelli scostati dal viso mi rendevo finalmente conto di quanto fosse giovane. Era sempre lui, con il suo cipiglio severo e la sua espressione funerea, ma in qualche modo sembrava più umano. Osservò a lungo i girasoli, sperando probabilmente che dicessi qualcosa, ma la mia bocca era serrata, i denti fermamente incollati fra loro e la lingua secca e dolorante.
-E quella donna, Ysmen, per me non ha contato nulla. E’ stata solo una donna adulta che ha mostrato dell’interesse per un ragazzino fuori dai ranghi-.
-Non me ne importa nulla di questo. Sono affari tuoi e di quella Mauriana-, risposi piccata.
Fobos sospirò, annuendo appena e tornando con lo sguardo a spaziare per la stanza. Non capivo perché fosse così serio, così laconico. Ero abituata al suo fare energico, al suo rispondere per le rime, al suo agire senza nemmeno pensare. E non parlavo del periodo di astinenza che aveva dovuto superare; parlavo del Fobos che avevo conosciuto prima, in Accademia. Il suo spirito combattivo sembrava momentaneamente sparito, dissolto nell’aria come i granelli di sabbia che stava insistentemente fissando pur di ignorarmi.
Sentii gli occhi pizzicare. Li stropicciai furiosamente con la mano, ignorando il bruciore che questo mi provocò. Quindi mi alzai, mani in tasca e sguardo basso.
-Beh, io vado. Spero tu ti riprenda presto-.
Sfiorai un’ultima volta i fiori colorati che avevo comprato in piazza, resistendo alla tentazione di svaligiare il negozio intero, e con un mezzo sorriso feci per avviarmi alla porta. Solo quando le mie dita sfiorarono il freddo acciaio della maniglia tonda, Fobos si voltò a guardarmi, penetrandomi la schiena con quei suoi occhi da rapace.
-Questi fiori sono gli stessi che hai regalato a quella donna al Tempio, durante i funerali…-
Arrossii fino alle orecchie, nascondendomi nei capelli ed evitando di voltarmi. Lasciai solo che la mia mano mollasse la presa sul pomello e scivolasse lunga distesa lungo il fianco.
-Già. Sono colorati e mi ricordano i tuoi occhi-, dissi atona, cercando di mascherare il mio imbarazzo. Ripensavo costantemente alle dita di Ysmen che si intrecciavano ai capelli di Fobos, alle sue labbra scarlatte che sfioravano la pelle tesa della sua mandibola. E più ci pensavo più mi sentivo male.
- Ho sentito anche la storia che le hai raccontato-, ammise sollevandosi appena con una smorfia di dolore. Il ticchettio delle macchine e il continuo fluire del liquido contenuto nella flebo del ragazzo cominciarono a rimbombarmi nelle tempie sommati alla cavalcata infernale del mio cuore. Di questo passo, avrei avuto un attacco di panico.
- E’ solo una storiella-, ridacchiai tesa, voltandomi appena per fargli vedere il mio sorriso. Così avrebbe capito una volta per tutte che si trattava solo ed unicamente di un regalo di pronta guarigione, nulla di più.
- Certo, ma è anche il motivo per cui ti ho seguita fin qui-.
Il mio cuore produsse un rumore anomalo, simile a un crack. Mi portai la mano al petto, cercando di tenere insieme i pezzi di quel piccolo organo pulsante, ormai praticamente impazzito.
-Devozione, no? Penso si possa chiamare anche così. Non sono un uomo affettuoso o sentimentale, per questo non ho mai pensato di dovertelo dire. Ma il motivo per il quale ti ho seguita fino a qui è stato principalmente il mio affetto nei tuoi confronti. Gli ordini sono stati solo un utile pretesto. Ti avrei seguita a prescindere-.
I suoi occhi mi fissavano fermi, senza la minima incertezza. Teneva un girasole fra le mani e ne accarezzava i petali come fossero di vetro, fragili e tremendamente belli.
-Non so cosa dirti-, ammisi, combattuta. Ero straziata dal desiderio di abbracciarlo, picchiarlo, baciarlo. Non sapevo cosa fare, cosa provare. Volevo non provare più nulla, non provare rancore, non sentire quel blocco di cemento sullo stomaco. Eppure non potevo: stare con lui era come vivere perennemente sopra le montagne russe dei Gyps.
-Non devi dirmi niente. Volevo solo che lo sapessi-.
Potevo veramente andarmene ora? Non sapevo se il mio corpo ne sarebbe stato in grado, non ora che Fobos mi attirava a sé come una calamita. Che razza di potere aveva quell’uomo? Come poteva disgustarmi e attrarmi a lui contemporaneamente?
Presi la mia decisione senza nemmeno pensarci. Mi staccai dalla porta, girando i tacchi, e con passo svelto raggiunsi il ragazzo. Gli circondai le spalle con le braccia, stringendole al camice grigio scuro che indossava, e affogai il viso fra i suoi capelli. Profumava di disinfettante e sapone, ma l’aroma della sua magia mi raggiungeva comunque, famigliare e rassicurante. Non era più così nauseante per me.
-Stai bene? -, lo sentii chiedermi, mentre il suo corpo si irrigidiva sotto il mio abbraccio.
Annuii muovendo il capo, poi lo strinsi più forte. Volevo dirgli che nonostante lo avessi odiato e non mi fidassi più di lui, mi ero preoccupata da morire, che nonostante mi fossi sentita tradita, non avevo mai avuto intenzione di lasciarlo. Ma non ci riuscivo: se lo avessi fatto oltre alla voce mi sarebbero sfuggite anche le lacrime. E nonostante tutto, io non volevo ancora mostrarmi così debole di fronte a qualcuno.
Mi morsi il labbro, quando per la prima volta, Fobos ricambiò il mio sentimento, sollevando il braccio e circondandomi la vita. Sentii il calore febbricitante del suo abbraccio trapassare la stoffa della canotta e incendiarmi la pelle. Era da anni che nessuno mi teneva stretta a quel modo, con così tanta forza da non farmi nemmeno respirare.
Sembrava che dovessimo unirci per tenere assieme i frammenti delle nostre vite, per mantenerci sani e lucidi in un mondo che correva verso il traguardo della pazzia.
-Posso continuare a seguirti? -, mi sussurrò Fobos all’orecchio, passando le dita tra i nodi nei miei capelli e sciogliendoli dolcemente ad ogni passata.
Appoggiai la fronte alla sua spalla, godendomi quel momento certa che il futuro non ce ne avrebbe riservati molti altri.
-Puoi fare quello che vuoi-.
-Davvero? -.
-Sì, certo. Abbiamo ancora il nostro Debito-, dissi convinta, senza realmente accorgermi delle implicazioni logiche delle mie parole. Fobos mi sollevò il mento con l’indice, fissandomi negli occhi con intensità. Rimase così qualche secondo, come in attesa qualcosa, poi premette le sue labbra sulle mie. Inizialmente mi venne istintivo ritrarmi, ma alla fine non resistetti e mi abbandonai completamente al suo bacio. Non era per nulla tenero, né timido. Era semplicemente frustrato, represso e tremendamente urgente. Non mi lasciava il tempo di respirare. Non riuscii nemmeno ad allontanarmi quando le nostre labbra cominciarono a scottare: Fobos mi afferrò la nuca con la mano, lasciandomi solo qualche istante di riposo, poi tornò a tormentarmi le labbra, mordendole appena e stringendole con quei canini appuntiti che avevo già conosciuto.
Mi sorresse il volto con le mani bollenti, mentre il suo corpo si avvicinava al mio, in un abbraccio di lava. Mi sfiorò con la punta del suo naso, poi, con delicatezza mi posò un bacio sul lato della bocca, leggero e impalpabile.
-E questo cosa vorrebbe dire? -, domandai con tono troppo squillante. Sembravo io ora quella ubriaca o in astinenza.
-Vuole dire che volevo baciarti. E l’ho fatto. A volte anche a me viene voglia, come a qualsiasi altro essere maschile…-.
Storsi il naso. Odiavo quel suo modo di fare sfrontato e disincantato. Anche io non credevo nel vero amore (nel nostro mondo non c’era spazio per smancerie del genere, né ce n’era bisogno), ma non per questo andavo in giro a baciare ogni uomo che avesse un bel viso o un corpo desiderabile.
-Sei disgustoso-, mugugnai ferita, asciugandomi le labbra con il polso. Non provavo davvero ribrezzo, solo volevo cancellare l’impronta delle sue labbra dalle mie, fare evaporare il suo respiro dalla mia pelle.
- Non mi hai nemmeno lasciato finire di parlare-, si lamentò lui con un sorriso infelice. Poi continuò: - La prima volta che ti ho baciata l’ho fatto un po’ per egoismo, un po’ per vendetta. Lo ammetto: sono un essere spregevole. Ma dopo quei baci, non ho potuto fare a meno di desiderarti nuovamente. Non mi era mai successo. Mai-.
Sospirai, giocando con le stringe sfibrate dei miei scarponi. Non capivo dove volesse arrivare e ogni parola che mi diceva non faceva altro che tormentarmi ancora di più.
-Per me, starti vicino, toccarti, baciarti o semplicemente parlarti è… un’esigenza fisica. Non ha nulla a che vedere con l’istinto. E’ la mia testa che mi impone di baciarti, non solo il mio basso ventre-.
Sollevai lo sguardo per fulminarlo. Erano le parole meno dolci e meno romantiche che avrebbe mai potuto inventarsi. Tuttavia sembravano vere e questo addolcì perlomeno la curvatura severa delle mie sopracciglia.
-Sei veramente diretto… non indori certo la pillola-.
-E perché dovrei? Ti sembro tipo da cioccolatini e mazzi di fiori? -, si oppose lui, sollevando un sopracciglio.
No, decisamente no. Mi sembrava più il genere di uomo che ti usa una notte e poi ti getta nella spazzatura, tra lische di pesce e lattuga marcia. Tossico, ecco come lo si poteva definire un uomo come lui.
-Mi sembra che tu non voglia bene a nessuno, nemmeno a te stesso-, dissi, stendendo le lenzuola bianche con le dita. Non volevo guardarlo negli occhi, perché ero conscia di quanto gli avrebbe fatto male sentirsi dire una cosa del genere. Avevo visto con i miei occhi quello che Fobos aveva passato, sin da piccolo, e sapevo che parte del suo mutismo e della sua apatia derivavano dallo stile di vita malato che aveva condotto. Nonostante ciò non potevo fare a meno di constatare quanto poco interesse nutrisse per il prossimo.
- Io ti voglio bene, Astreya-.
Mi ingozzai con l’aria, tossendo ripetute volte. Le lacrime mi offuscarono la vista, mentre la mano di Fobos mi colpiva leggermente la schiena.
-Non morire-, ridacchiò lui.
-Tu cosa?!-, strillai, coprendo l’incessante gocciolio della flebo.
-Non farmelo ripetere, per favore-.
Mi passai una mano sul volto per nascondere il rossore che lentamente aveva preso a colorirmi le guance. Dovevo dargli una risposta? Si aspettava che gli dicessi qualcosa in cambio? Ero una Custode, non avevo mai dovuto preoccuparmi di tutto quello che caratterizza una storia romantica, né avevo mai pensato ad un uomo in questi termini.
-Sarebbe carino se almeno mi dicessi che non mi odi-.
Era ovvio che lo odiavo. Come potevo non odiarlo? Era l’unico uomo in grado di farmi infuriare, gioire e preoccupare al tempo stesso.
-Sei sopportabile… a volte-.
Fobos rise, tenendosi il torace magro per non farlo squassare.  Poi quando il sorriso sfumò nell’aria, la sua mano si mosse rapida verso la mia e la imprigionò nella sua. La portò alle labbra e mi baciò le nocche bianche.
-Farò in modo di farti innamorare di me-, mormorò, muovendo appena le labbra sulla mia pelle. Poi mi morse un dito, le iridi incandescenti che risaltavano nella penombra della stanza.

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Capitolo 30
*** Capitolo 29- Crisalide ***


Capitolo 29

Sbattei il fascicolo sul tavolino sghembo sollevando uno sbuffo di polvere, e Fobos starnutì, lasciando che una dorata folata pulviscolare gli si appoggiasse ai capelli.
-E così questo è il famoso fascicolo, giusto? -, mi chiese, sfiorando con i polpastrelli la carta ruvida della copertina. Le sue iridi brillarono, esaltate dalla luce rossastra che penetrava dagli abbaini.
-Esatto-.
Fobos si sporse in avanti per prendere il cartaceo e la camicia bianca che indossava scivolò lentamente sulle spalle, facendomi intravedere il petto magro. Mi si strinse il cuore quando scorsi le cicatrici che il defibrillatore gli aveva lasciato, ulteriore marchio sulla sua pelle già provata. Da combattente.
-Sei sicuro di non voler riposare? -, gli domandai nuovamente, allungando una mano e sfiorandogli il braccio.
-Non pensi abbia già dormito abbastanza durante il coma? -, sorrise lui, mostrandomi quel luccichio che tanto mi era mancato. Non lo avrei mai ammesso, ma ero sollevata e davvero felice di averlo di nuovo al mio fianco.
-Già-, ammisi. Poi mi sedetti di fronte a lui incrociando le gambe e allungandomi per appoggiare i gomiti sul tavolo.
-Mi hai aspettato per leggerlo. Immagino ti mancassi davvero molto-, sogghignò lui, aprendo il fascicolo e leggendo distrattamente il titolo. Io arricciai il naso, fingendomi infastidita, e con un cenno gli feci capire che volevo leggesse lui il contenuto del file.
-Va bene, vediamo un po’-, mormorò quindi, avvicinando i fogli al viso e immergendosi nella lettura. La sua voce profonda cominciò a dare vita alle battiture della macchina da scrivere e lentamente il contenuto di quel plico di fogli prese vita di fronte a noi.

 

 Il presente file raccoglie tutte le informazioni a disposizione circa il progetto FALENA NOTTURNA. Ogni materiale ivi contenuto è proprietà esclusiva della Setta e in caso di fuga di notizie verranno presi seri provvedimenti contro i colpevoli.

 

Paragrafo1: Deadly Child #2

Data: 22/11/anno 5000 dalla discesa di Aion

Oggi è nato il secondo Deadly Child. Il soggetto è una femmina di sei anni con disturbo della personalità borderline.
L
esemplare si è mostrato recettivo allesame dellEyeRetractor.
Posizionato di fronte allo schermo a luci pulsanti, con utilizzo del divaricatore per occhi e camicia di forza, il soggetto non ha patito ed ha eseguito gli ordini del medico (K.) con completo disinteresse verso la sua condizione.

 

Data: 22/12/anno 5000 dalla discesa di Aion

Il Deadly Child comincia le visite psicologiche di accrescimento spirituale presso il Sanitarium Sora Hera di Carthagyos. Il paziente mostra unintelligenza sopra la media, una grande propensione alloscurità e un gusto spiccato per la violenza.

 

 
Data: 22/01/anno 5003 dalla discesa di Aion

Il Deadly Child ha distrutto la camera di studio ed è stato sedato. Mostra completo disinteresse verso la propria esistenza e rimuove gli eventi interni al Sanitarium opponendosi agli ordini. Per evitare lincidente DC#1 verrà somministrato al paziente una dose di Resurrection.

 

Data:11/09/anno 5007 dalla discesa di Aion

Il Deadly Child non risponde agli ordini del medico(K.). Tentato assalto alla madre e al padre biologici. Tentato suicidio alle ore 22:22.

Il paziente è stato prelevato dalla famiglia per richiesta del genitore maschile, in pieno possesso della facoltà podestarile.
Acquirente designato: Cronyos, Accademia di Cypris
Testimone: Sorella Dyana, Tempio di Carthagyos

 

 
Conversazione privata# 001

K:<aiuta a sopravvivere>>.

Efesto:<< Che cosa intende con condizione medica, dottore?>>

Efesto:<< Dottore, non si preoccupi non diremo a nessuno di questa nostra conversazione privata. Non tema>>.

K:<< La bambina è nata da un parto gemellare>>.

Efesto:<< E la gemella?>>.

K:<< Morta. Non si è nemmeno formata. La sua perdita, tuttavia, ha innescato una serie di eventi a catena. La bambina ha maturato un disturbo dovuto a qualche strana connessione psicologica con la sorella. Una sorta di trauma prenatale, se ne parla molto nelle ricerche odierne, sa?>>.

Efesto:<< Ne ho sentito parlare, in effetti. Prosegua>>.

K:<< La sua personalità è unica, ma le sue potenzialità sono scisse. E come se qualcosa della gemella fosse rimasto, una sorta di embrione marcio che infetta la mente della paziente fino a farle sviluppare il disturbo per il quale ci siamo interessati a lei. Forza spirituale doppia per sostenere la gravità del trattamento>>.

Efesto:<< E un progetto dellEsercito? O del Tempio?>>.

Efesto:<< Le pongo la domanda in maniera differente. Da chi è stato pagato per operare il trattamento Deadly Child sul paziente femmina#2?>>.

K:<< Molte persone sono coinvolte, lo ammetto. Ma il progetto è stato sostenuto finanziariamente dallAccademia di Cypris>>.

Efesto:<< Dottore, perché allora la bambina è stata dirottata al Tempio di Sorella Dyana? Come se lo spiega?>>.

K:<< E lei come fa a saperlo?>>.

Efesto:<< Ho conoscenze al Tempio, e anche nellEsercito, diciamo>>.

K:<< Non mi è stata comunicata la reale intenzione dei sottoscriventi il contratto di vendita, ma so che lo psicologo clinico e lo psichiatra infantile hanno giudicato la paziente idonea per laddestramento. Mago e soldato assieme, solo un Deadly Child può riuscirci. Almeno credo>>.

Efesto:<< Sappiamo che la ragazzina ha un timer. A quanto è stato impostato?>>

Efesto:<< Il timer è fisicamente accessibile? E passibile di manomissione?>>.

Efesto:<< E destinata a compiere la missione per la quale è stata programmata senza scarti?!>>

K:<< Ahahahah. Non mi dica che adesso ha paura, Efesto? Lei è un soldato>>.

Efesto:<< E questo cosa significa?>>.

K:<< Conosce Upokrates?>>.

Efesto:<< Naturalmente. Fedele collaboratore dellEsercito e creatore dello Scandalo>>.

Efesto:<< Centra qualcosa lo Scandalo in tutto questo?! E così?>>.

K:<< Touché>>.

Efesto:<< E lui il timer?>>.

K:<< Sì, ma non solo. Lui è qualcosa di più. Lui è la sua metà mancante. Molto poetico non trova? Così lo ha definito Upokrates>>

 

 

Rapporto #008

Luogo: Accademia di Cypris

Data: 22/09/5007 dalla discesa di Aion

Mittente: Cronyos

Destinatario: Tempio di Carthagyos.

Intercettato.

 

Sorella,

sono contento di comunicarle di persona che il soggetto è ancora in vita. Nonostante gli sforzi della Natura per toglierlo di mezzo, la razza umana oggi ha ottenuto una grande vittoria.
Il soggetto ha superato la notte. Mancano solo pochi trattamenti e sarà pronto.
Come diciamo sempre circa la nostra preziosa coppia:<< Che il corpo possa essere presto ricollegato alla sua anima>>.

G. Cronyos

 

-Memento di Prometheo allAssemblea dei Figli.

Trascrizione di: Perseus, Segretario.

Prometheo:<< Che il corpo possa essere presto ricollegato alla sua anima>>. Frase concetto della Chiesa, da sempre rappresenta il legame tra corporeità e aldilà. Si pensa che il soggetto DC e il soggetto Scandalo siano da ricollegare come due pezzi non autosufficienti. Chi sia il corpo e chi lanima è presto detto. Se Scandalo è nell Esercito e DC nel Tempio, chiaramente luno sarà il corpo dellaltra. Forza fisica e controllo mentale, unite in un esplosivo miscuglio. Nessuno di noi immaginava che un umano fosse in grado di sopportare tante sperimentazioni, senza alcuna modifica oltretutto. Ma questo ragazzo ce lha fatta. Vedete questa foto? Capelli neri, occhi gialli. Nientaltro che un uomo? Guardate meglio Ah, ecco. Altezza sovrumana, forza sovrumana, rabbia incendiaria. Guardate il filmato di questo addestramento. Impressionante, no? Bene, vi presento il compagno predestinato della nostra DC, Fobos. Astreya e Fobos. La coppia che ci seppellirà tutti se non riusciremo a portarli dalla nostra parte.

 

 

 

Quando Fobos finì di leggere, i suoi occhi erano pieni di sconcerto e il suo torace si alzava ed abbassava in cerca di aria. Sollevò lo sguardo su di me e per un istante temetti di leggervi paura, paura per quello che aveva letto, per aver capito che lui era il mio interruttore e che io potevo in qualche modo usarlo come una marionetta. E invece, ciò che vi lessi fu esclusivamente sorpresa.
Le sue labbra si schiusero appena e i suoi occhi dal taglio feroce divennero grandi e liquidi, come catrame. Quasi ispirata dal suo sguardo, mi sfiorai le guance con i polpastrelli e mi accorsi che erano bagnate. Di lacrime. Non mi ero nemmeno resa conto di aver cominciato a piangere.  Ma in fondo come avrei potuto evitarlo? Tutto il mio mondo di certezze era crollato e mi ritrovavo con solo della sabbia fra le mani. Tutto volava via, a partire dai miei ricordi. Non rimembravo nulla dell’assalto ai miei genitori, delle sedute. Nessun nome mi era famigliare, non sapevo chi fosse quel fantomatico K, né avevo idea di essere orfana di sorella. Il mostro che avevo dentro era lei, era un disturbo? Perché Ysmen doveva avere ragione su di me? Perché dovevo essere il Deadly Child? Mi morsi un labbro, cercando di frenare le lacrime, ma fu tutto inutile. Non ricordavo di avere una missione nella vita, né di essere un mostro. Non fin nel profondo almeno. Ero un’arma.
Lentamente i miei occhi si fecero opachi e si sollevarono a osservare nuovamente Fobos, una creatura torturata per colpa mia. Mi guardava con quegli occhi ambrati che tanto avevano sofferto, forse chiedendosi perché, forse domandandosi che cosa avesse fatto di male per meritarsi che una tale piaga si abbattesse su di lui.
-Hai paura di me? -, gli domandai, la voce che tremava e le lacrime che scorrevano sulla curva magra del mio collo. Non riuscivo a impedirmi di essere scossa da fremiti, ma potevo mantenere un atteggiamento freddo e controllato. Serviva alla mia mente per non vacillare.
-Paura? -, sussurrò Fobos aggrottando le sopracciglia. Non capiva.
Mi morsi l’interno delle guance finchè non lo sentii sanguinare, in attesa che comprendesse da solo. Ci mise solo qualche istante, lo capii da un evidente cambio di luce nei suoi occhi. E quando ebbe la certezza di ciò che la mia domanda gli suggeriva picchiò con forza il pugno sul tavolo, facendomi rimbombare le ossa e tremare il cuore. Singhiozzai non appena lo vidi issarsi sul tavolino e il fiume d’olio nero dei suoi capelli oscurargli il viso pallido.
Mi portai la mano alla bocca, terrorizzata. Fobos con un ampio gesto della mano, gettò il fascicolo in aria. Vidi pagine e pagine volare, piovere dal soffitto quasi al rallentatore mentre il ragazzo si scavava una via fra di loro. In un battito di ciglia mi fu addosso, gli occhi incendiati di una sfumatura aranciata simile a fuoco. Chiusi gli occhi, aspettandomi uno schiaffo o un pugno, e parai con le braccia a croce di fronte al viso. Ma non accadde nulla. Sentii solo delle braccia circondarmi e il calore di un respiro solleticarmi il collo. Spalancai gli occhi con forza, scollando le ciglia umide, e vidi le braccia di Fobos circondarmi. Stringeva con forza, con rabbia, fino a farmi male. Lo sentivo artigliarmi la pelle e ringhiare appena.
-Non potrei mai avere paura di te-, sussurrò. Sentii il cuore esplodermi come una mina, e involontariamente la mia fronte si appoggiò alla sua spalla.
– Ho solo paura di perderti-, aggiunse mentre le mie mani si aggrappavano alla sua camicia, stropicciandola senza pietà.
Rimanemmo così a lungo, con il mio pianto come unica colonna sonora per la nostra disperazione. E forse saremmo rimasti così in eterno se Eracleo non fosse entrato nello stanzino, bussando più per formalità che per altro. Subito Fobos, come punto da un tafano, drizzò la schiena e oscurò il suo sguardo. Si chinò a raccogliere dei fogli con nonchalance salutando con un unico grugnito il nuovo arrivato.
-Tutto bene? -, chiese circospetto Eracleo, osservando alternativamente il mio viso e quello di Fobos. Non gli sfuggirono le mie ciglia umide e le iridi lucide.
Si abbassò appena appoggiandomi la mano sulla spalla e scostandomi i capelli scuri. Le pupille di Fobos saettarono nella sua direzione e una sorta di elettricità attraversò l’aria. Era evidente che Eracleo per lui era qualcosa di più di un commilitone, anche se in senso negativo.
-Sì, stiamo bene-, risposi, sfregandomi gli occhi e dando una pacchetta alle dita di Eracleo affinchè le spostasse. Lui mi sorrise affabile e ci aiutò a raccogliere tutta quella inutile carta in un mazzo scombinato e disordinato. Poi ci dirigemmo nel nostro appartamento, in colonna come dei prigionieri. Io stringevo ancora il fascicolo tra le mani, continuando a percepire lo sguardo di Fobos sulla schiena. Sembrava volesse trapassarmi.
-Dovremmo raccontare loro cosa abbiamo scoperto? -, gli sussurrai, assicurandomi che Eracleo non ci sentisse. Fobos mi afferrò il polso e mi trattenne un attimo, lasciando che il Caporale ci precedesse sulle scale.
-E’ ovvio che ci seguiranno una volta abbandonato il Sandpit, perciò non credo sia saggio tenerli all’oscuro di tutto-, sospirò. –Tuttavia, credo anche sia il caso di edulcorare loro la faccenda. Raccontiamo essenzialmente solo quello che devono sapere per non farsi ammazzare-.
Annuii, convinta che fosse la scelta giusta, e a grandi passi raggiunsi Eracleo sul pianerottolo.
Entrammo nel salotto dove Aracne stava preparando il caffè. L’aroma speziato di quell’oro nero mi raggiunse le narici, facendomi brontolare la pancia.
-Che cosa succede? -, sorrise, pettinandosi la treccia quando ci vide tutti sulla soglia. –Avete una tale faccia -.
Fobos non disse nulla, ma si diresse a grandi passi verso il divano. Vi sprofondò con un tonfo sordo e si accese l’ennesima sigaretta. Era chiaro che stesse meditando su cosa dire, su che parte del fascicolo soffermarsi.
-Abbiamo scoperto un po’ di cose da quella merda…-, cominciò aspirando il fumo fino a far incendiare la punta della sigaretta. –A partire dal fatto che in qualche modo io ed Astreya siamo collegati-.
Fobos raccontò brevemente la storia del Deadly Child e tutte le congetture che ci avevano spinti ad intraprendere il nostro viaggio nel Sandpit. Poi verso la fine, aggiunse qualcosa di suo, qualcosa che nemmeno io sapevo.
-Ora il punto della questione è: cosa facciamo? A mio avviso le strade sono due. Possiamo cercare K, il dottore del fascicolo, oppure possiamo cercare Prometheo-.
Eracleo ingollò una buona dose di caffè, poi si sporse verso di me.
-Tu cosa ne pensi, Astreya? -.
Io non pensavo. Non avevo idea di qualche fossa la scelta migliore, ma sapevo che dovevo fare i conti con le intenzioni di Ysmen. In fondo con i Figli del Vento avevo contratto un Debito e non potevo andarmene senza sapere cosa loro intendessero farmi fare ora che il mio armadio si era riempito di scheletri.
-Io credo che dovremmo prendere in considerazione anche quello che i Diarchi hanno pensato per me. Ora che so che il nostro arrivo al Sandpit non è stato casuale, devo saperne di più. Devo capire cosa sta succedendo al Vallum, che cosa vuole dire essere un DC, ma soprattutto devo comprendere chi ha tentato di farmi saltare in aria sotto la breccia-.
Il mio monologo colpì i presenti come una sferzata di vento sul costone di un promontorio. Persino Fobos era sorpreso dalle mie parole: mi ero dimenticata di non aver raccontato a nessuno dell’uomo che mi aveva quasi ammazzata nel sottosuolo.
Spiegai, quindi, rapidamente cosa era accaduto e mi accorsi che l’espressione dei presenti si era fatta seria, quasi impaurita.
-Non è sicuro per te andare in giro a cercare indizi. Potrebbero tentare nuovamente di ucciderti-, disse Eracleo, passandosi una mano fra i capelli e sospirando. – In fondo non sappiamo ancora cosa voglia da te la setta. Forse sarebbe il caso di incontrare Prometheo prima di procedere oltre-.
Fobos si mosse appena sulla sedia, allargando le gambe e appoggiandovi sopra i gomiti spigolosi.
-Non credo che entrare nella tana dei Figli del Vento sia così “sicuro”, Caporale-.
Eracleo fissò intensamente Fobos, sollevando il sopracciglio e ingobbendosi. Sembrava che tra quei due fosse in corso una sorta di guerra fredda. Aracne interruppe il filamento elettrico che li collegava versando a entrambi la seconda dose di caffè nero.
-E allora cosa proponi, Fobos? Rimanere qui ed aspettare che l’Esercito ci trovi? -.
Fobos si alzò e fece qualche passo per la stanza, meditando su una soluzione. Lo guardai attentamente per cercare di sondare le sue emozioni, ma a parte un alone di frustrazione, la sua aurea brillava tranquilla. Fobos stava calcolando le nostre future mosse con la dovizia e la serietà di un vero Generale. Perciò sapevo che avrei potuto fidarmi ciecamente del piano che la sua mente avrebbe partorito.
-Vorrei solo intervenire riguardo un punto…-.
La voce flebile, ma decisa di Aracne squarciò l’aria come il fendente di una katana, attirando la mia attenzione quanto quella dell’Ibrido, il quale con un gesto secco ruotò gli occhi in direzione della donna.
-Hai qualche idea? -, chiese gentilmente Eracleo, mentre il caffè gli fumava davanti agli occhi, annebbiandolo.
Aracne scosse la testa e mi guardò intensamente. Non avevo mai visto i suoi occhi assumere una tonalità così scura di blu.
-Prima di entrare in Accademia io ed Astreya abbiamo violato le leggi del Tempio e nella sala della Tessitura ho …-.
La bloccai immediatamente.
-Quello non è niente di importante… Sorvoliamo-.
Non volevo che parlasse della Tela di fronte a Fobos. Ora che era chiaro il legame che ci univa, la forma umana che avevo visto emergere dalla trama ordita da Aracne aveva assunto una precisa identità. Il ricamo che la Tessitrice aveva creato di fronte ai miei occhi era rimasto senza volto perché io ancora non avevo conosciuto Fobos. Ma ora che ci pensavo seriamente, quale altro umano avrebbe potuto emergere dalle tenebre ricoperto di sangue e con i lunghi capelli neri al vento? La verità mi brillava davanti agli occhi, ma solo ora, con il fascicolo fra le mani, ero riuscita ad accettare l’idea che il mostro assassino della visione di Aracne fosse l’uomo che avevo innanzi. E, pertanto, meno Fobos sapeva, meno avrei dovuto coinvolgerlo nella mia vita. Così facendo, forse gli avrei risparmiato lo strazio di diventare un mostro alle mie dipendenze.
Per quanto riguardava me, invece, non sapevo esattamente cosa aspettarmi. Per il momento ero in grado di gestirmi tranquillamente, ma il futuro è imprevedibile e non sapevo ancora cosa dovermi aspettare.
-Se Aracne desidera parlare, dovrebbe essere libera di farlo-, mi fulminò Fobos con un’espressione sospettosa. Mi voltai verso Aracne e assecondando Fobos le feci cenno di parlare: sapevo che non mi avrebbe tradita e che avrebbe addirittura mentito per me.
Lei, infatti, mi indirizzò uno sguardo complice e timidamente disse: - No, niente. Nella Tela abbiamo visto che qualcosa sta cambiando. Un paesaggio turbolento e una guerra in vista. Suggerivo solamente di considerare la possibilità che le nostre azioni portino a una guerra. Le decisioni andranno pertanto prese con grande cautela-.
Fobos era palesemente insoddisfatto dalla risposta che aveva ottenuto, ma in ogni caso non disse niente e tornò a riflettere. Inspirò altro fumo e ingollò del caffè, socchiudendo gli occhi per visualizzare meglio il piano che lentamente andava delineandosi nella sua mente.
-Forse sarebbe il caso di dividerci. Io ed Astreya potremmo consultare i Diarchi e cercare di capire se ciò che ci chiederanno di fare sia fattibile o meno. Mentre voi potreste recarvi al Sanitarium di “Sora Hera” e chiedere di K. La presenza di una Custode dovrebbe intenerire le guardie-.
Eracleo sgranò gli occhi e si alzò di scatto, gettando malamente la chicchera sul suo piattino.
-Sei impazzito? Siamo ricercati a Carthagyos! Non voglio ritrovarmi di nuovo in quel focolaio-, sbottò avvicinandosi a grandi passi a Fobos e prendendogli il colletto della camicia. L’Ibrido si lasciò fare, dimostrando tutta l’apatia di cui era capace.
-Preferisci che ci vada Astreya? Con la taglia che pende sulla sua testa non sopravvivrebbe nemmeno due ore in pieno centro. Tu devi essere completamente matto-.
Mi alzai anche io e, scocciata, mi avvicinai ai due contendenti. Non solo odiavo i litigi, ma odiavo particolarmente il modo in quei due si piccavano. Lo trovavo davvero stupido in un momento come quello, oltre che completamente inutile.
Afferrai, quindi, la mano di Eracleo e con forza gli scollai le dita. Lo allontanai con uno spintone, poi tolsi la sigaretta di bocca a Fobos e gliela spensi con rabbia nel caffè.
-Non so dove pensiate di essere, ma questo non è un salotto da tè. Qui stiamo discutendo della nostra vita o della nostra morte. E’ evidente che né io né Fobos possiamo tornare a Carthagyos, tuttavia Aracne ha ancora il diritto d’asilo nel Tempio. Se tornasse sotto la protezione di Sorella Dyana potremmo affidare a lei le ricerche sul dottor K. Basterebbe far credere che è stata rapita da Eracleo, ma che è riuscita a scappare-.
Fobos sorrise, compiaciuto dal mio acume. Poi continuò per me.
-Sì, in questo modo noi tre potremo proseguire indisturbati e occuparci del resto. La trovo una buona idea…-.
Guardai Eracleo per capire se anche lui fosse d’accordo, ma sul suo volto vedevo soltanto un’ombra, una sorta di colla oleosa che corroborava l’alone di feroce rancore della sua aurea. Perché fosse così arrabbiato non riuscivo a capirlo.
-Beh, io non sono d’accordo. Credo che voi due non dobbiate viaggiare assieme. Riflettete, se veramente Fobos è il tuo timer, Astreya, sarebbe saggio affiancarsi a lui per più del tempo strettamente necessario? Io penso che Fobos debba consegnarsi all’Esercito, così da essere imprigionato e isolato. Solo così tu sarai libera di portare a termine la tua indagine. Non voglio che a causa della testardaggine di un Generale tu metta a repentaglio la tua stessa esistenza-.
Guardai Eracleo con serietà. Per me era inaccettabile mandare Fobos al patibolo, ma almeno finsi di scandagliare anche la sua proposta. L’Ibrido dal canto suo rimase immobile massaggiandosi la base del naso, infastidito. Cercava di resistere alla tentazione di prendere per il collo il Caporale, ma non gli stava riuscendo. Infatti, non molti secondi dopo, scattò in avanti e gettò la tazzina nel lavabo, fissando il liquido scuro che vorticava nello scarico come fosse sangue.
-E tu pensi davvero di poterla proteggere come farei io? -, sibilò poi, puntando su Eracleo uno sguardo che non avevo mai visto in vita mia. Era esplosivo e rabbioso. Non c’era altro nei suoi occhi se non traboccante violenza. Ebbi improvvisamente paura e indietreggiai.
-Io sono un soldato tanto quanto te-, mormorò Eracleo, più remissivo di quanto mi aspettassi. Stava studiando Fobos come un domatore il leone. Sapeva che stava per esplodere e che lo stava provocando, ma non sembrava intenzionato a ritirarsi dal conflitto.
- Bene, allora. Se ne sei convinto, lascerò che sia Astreya a scegliere-.
Voltò le iridi nella mia direzione e con nonchalance mi fece gesto di prendere la mia scelta. Probabilmente sapevano entrambi che avrei scelto Fobos, ma negli occhi del Caporale leggevo la speranza. Non volevo deluderlo, ma ero convinta che il cammino che io e l’Ibrido avevamo intrapreso dovesse essere un cammino solitario. Chiunque ci avesse seguito avrebbe rischiato la vita, e io non volevo assolutamente prendermene la responsabilità. Ripensai alla donna cui avevo regalato un girasole e mi ritrovai a meditare sulla possibile dipartita di Eracleo o Aracne: era insostenibile per me pensare di essere la causa della morte di altre persone.
-Fobos ha ragione-, mormorai. – Credo che tu, Eracleo, dovresti tornare al Vallum e scoprire qualcosa in più sui ribelli. Sappiamo che Deimos potrebbe essere coinvolto nella disattivazione dei Molossi, quindi potresti cominciare la tua ricerca da lì-.
Fobos, ancora in piedi di fronte al lavabo, annuì appena, mentre Eracleo inghiottì a vuoto.
-Volete tagliarmi fuori?! -, sbottò, perdendo totalmente la compostezza che lo caratterizzava.
-Non è questo, Eracleo-, gli spiegai prontamente o almeno ci provai. – Si tratta della vostra sicurezza e poi saperti accanto ad Aracne per parte del viaggio di ritorno, mi darebbe la forza di riuscire a lasciarla-.
Il volto di Eracleo si oscurò e i suoi occhi virarono sul sorriso che increspava appena le labbra dell’Ibrido. Non so perché Fobos trovasse divertente quella scena, ma io ero più che tesa. Sentivo che stavo tradendo la mia amicizia con Eracleo per allontanarmi assieme ad un uomo che potenzialmente era la mia miccia. Non credevo che quella fosse la scelta giusta, ma l’unica possibile.
-Allora è deciso, Caporale-, disse Fobos appoggiandosi con la schiena al muro. – Proseguiremo io e Astreya e vi terremo informati se sarà il caso-.
Eracleo avanzò deciso, fronteggiando la montagna d’uomo che aveva innanzi. Sia io che Aracne cominciammo a sudare freddo perché nonostante Fobos ora stesse guarendo, era ancora emotivamente instabile.
- Se sarà il caso? Stai spingendo Astreya in un vicolo cieco, esponendola a rischi enormi-, sbottò afferrandogli con rabbia la camicia. L’Ibrido lo fissò con tale astio che percepii la pelle di Eracleo sciogliersi sotto l’acidità di quegli occhi alcalini.
- Senti, microcefalo, nessuno ha chiesto la tua opinione. Ci sei capitato tra capo e collo per caso, quindi per favore non crearci altri problemi-.
Afferrò la pistola che gli pendeva al fianco e la puntò al centro della fronte di Eracleo. L’indice tentennava sul grilletto, mentre il suo braccio si tendeva fino a spingere il foro circolare dell’arma nella carne del Caporale. Aracne strillò quando vide lo sguardo di Fobos indurirsi e il suo busto protendersi in avanti.  Anche io mi spaventai e l’unica cosa che riuscii a fare fu appendermi al braccio di Fobos prima che compisse l’ennesimo folle gesto.

E adesso questa che cazzo vuole? I suoi pensieri mi raggiunsero con la violenza di un uragano, implodendomi nella testa con un ronzio metallico. Non so se si fosse accorto che ero nuovamente entrata nella sua testa senza permesso, ma intento come era a minacciare di morte il compagno, probabilmente non ci aveva fatto caso.
-Fobos, piantala. Non vale la pena litigare, non in questo momento. Eracleo, tu non mettere in discussione le mie scelte. Ho appoggiato io stessa la proposta di Fobos, quindi non recriminargli nulla-.
Eracleo sgranò gli occhi, solitamente così pacati e allegri. L’espressione che il suo volto assunse fu simile a quella di una cocente sconfitta e le mani si mossero da sole. Allontanò la pistola dalla sua fronte e, facendosi sotto come Davide contro Golia nella nota favola, afferrò il bavero della camicia di Fobos. Il ragazzo, dall’alto dei suoi due metri, resistette alla tentazione di colpirlo. Gli afferrò le dita e le fece scricchiolare nella ferrea morsa delle sue.
-Cosa le hai fatto? L’hai trasformata in una…in una cosa come te! -, urlò, facendomi accapponare la pelle. Non avevo mai visto Eracleo così arrabbiato, né Fobos così tremendamente calmo.
- Senti imbecille, mi hai già stancato. So che non ti piaccio, e ti assicuro che la cosa è reciproca, ma non è colpa mia se non riesci a ragionare. Ti stai facendo guidare dalle parti basse-, sibilò Fobos afferrandogli i capelli e costringendolo a guardare me, rimasta al fianco dell’Ibrido per tutto il tempo. Vidi la vergogna e l’imbarazzo farsi largo sul viso di Eracleo, mentre le sue iridi scure baluginavano riflettendo la luce della lampadina spoglia che illuminava il soggiorno. Un rossore intenso gli macchiò la pelle bianca e lo costrinse ad abbassare gli occhi, mordendosi rabbiosamente il labbro inferiore. Ero ammutolita e non sapevo che dire. Persino Aracne, che come paciere era sempre stata bravissima, non sapeva cosa fare e se ne restava imbambolata al tavolo con le mani aggrappate alla tovaglia di plastica bianca.
-Smettila, Fobos-, mormorai, gli occhi sgranati e la mano ancora appoggiata sul suo avambraccio.

Sì, come no! Davvero, tu mi dici di smettere? Tu che nemmeno ti accorgi di uno che ti spoglia con gli occhi e che ti segue la gonnella come un cane in calore?! Che pena.
-Proprio tu mi dici certe cose? -, udii dire al Caporale, in riferimento all’insulto indirizzatogli prima dal commilitone.
La risata ironica e incattivita di Eracleo interruppe il flusso dei pensieri di Fobos, obbligandolo a voltarsi e fissare la sua ambra negli occhi catramati di Eracleo.
-Che vuoi dire? -, tuonò il giovane, spingendo via l’altro. Questi inciampò nei suoi stessi piedi, frenando la caduta solo grazie al mobiletto della cucina alle sue spalle. Aveva lo sguardo ferito e oltraggiato, i palmi delle mani premuti con forza contro il ripiano. Non riusciva più nemmeno a guardarmi negli occhi.
-Che almeno io ho ancora potere sulle mie parti basse! -, gridò mentre i suoi lineamenti cambiavano e diventavano quasi grotteschi.
Non potevo credere a ciò che aveva detto Eracleo, non potevo pensare che la sua persona, così dolce e disponibile, avesse osato riportare a galla un segreto così intimo e privato solo per vendetta.
Mi voltai terrorizzata verso Fobos, chiedendomi quale sarebbe stata la sua reazione, ora che la situazione era definitivamente precipitata.
L’Ibrido schizzò avanti come una furia, caricando il compagno e colpendolo con forza al mento. Sentii un rumore di ossa spezzate e il gorgoglio del sangue nella gola del soldato. Feci per intervenire, ma non riuscii a staccare Fobos dal ragazzo, ormai ridotto a una maschera sanguinante.
-Dai, ripetilo. Ripetilo se hai coraggio-, gli urlava l’Ibrido, scagliando su di lui una raffica di pugni.
Non riuscivo ad avvicinarmi a quel groviglio di carne e capelli. Non riuscivo più nemmeno a distinguere chi fosse l’uno e chi fosse l’altro. Riuscii solo ad afferrare l’orlo della camicia bianca di Fobos che, però, a causa di un nuovo attacco del giovane, mi rimase in mano.

 

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Capitolo 31
*** Capitolo 30- Tensione ***


Capitolo 30

Balzai di fronte a Fobos prima che decidesse di colpire nuovamente il sottoposto a terra, ancora rantolante, e con tutta la forza che possedevo lo allontanai con un pugno nello stomaco. Fobos non sentì alcun dolore, ma la sorpresa lo fece sbilanciare e arretrare di qualche passo. Rimasi ferma, in posizione di guardia, certa che non fosse finita lì. Fissavo intensamente la figura di Fobos, cercando di percepire anche la più piccola intenzione di movimento, ma più lo guardavo più lui sembrava immobile. Passò un’infinità di tempo effettivamente prima che sollevasse il capo e mi guardasse.
C’erano sorpresa e delusione affogate nei due pozzi catramati che erano i suoi occhi, ma fu il sentimento che colorava la sua aura a farmi cedere e lasciare la posizione di guardia. Tradimento.
Non volevo affrontare Fobos, non in quello stato d’animo. Per cui, mentre Aracne soccorreva il povero Eracleo, io mi defilai e abbandonai l’appartamento temendo una possibile reazione dell’Ibrido. Non avrebbe mai capito che non amavo Eracleo e che avevo agito solo per evitare un disastro annunciato, in nome di una semplice amicizia. Imprecai, scansando un Mauriano e schizzando via, in corridoio.  Maledissi Fobos e la sua possessività; mi ero ormai convinta che fosse un uomo pericoloso, eppure, mentre fuggivo arrancando per i corridoi della palazzina, non riuscivo a togliermi dalla testa il suo sguardo ferito e il colore arrossato delle nocche della sua mano.
-Dove cazzo è, quella stronza…-.
 La sua voce risultò quasi un grido, rimbalzata dalle pareti in una eco infinita di cori. Non appena giunse alle mie orecchie, quasi mi ribaltai e dovetti concentrarmi per non darmi ad una fuga selvaggia. Scivolai giù, quasi a terra, certa che se mi fossi fatta piccola piccola, quel gigante cattivo non mi avrebbe scovata. Ma si sa, le cose che si vedono nei film o nei cartoni non sono mai ciò che poi succede nella realtà, per cui non feci tempo nemmeno a nutrire una magra speranza che una mano dalle dita lunghe e bianche mi afferrò per i passanti dei pantaloni e mi fece stramazzare a terra. Accusai il colpo trattenendo il fiato e chiusi gli occhi appena prima che una lacrima mi sfuggisse fra le ciglia. Poi Fobos mi fece rialzare e senza alcuna esitazione mi trascinò di peso fuori dall’edificio. Chiesi aiuto agli spettatori di quell’incredibile scena, ma nessuno di loro allungò una mano per trattenermi, certi che Fobos non fosse tipo cui era il caso di opporsi. Mi bastò, infatti, fissare la scia di gomma nera lasciata dai miei stivali sul pavimento scadente del corridoio per rendermi conto di quanto debole fossi e quanto inutile sarebbe stato qualsiasi tentativo di sfuggire alla presa ferrea di un Ibrido. Così rilassai i muscoli e mi arresi, lasciando che Fobos mi conducesse di fronte al mio giudice supremo: il Destino. I presenti si limitarono quindi a fissarmi per tutto il tragitto che mi portò, urlante e scalciante, fuori dalla struttura.
-Sei impazzito?!-, gridai, quando mi lanciò sul pavimento.
-Mi hai rotto! -, urlò di rimando lui, avvicinandosi lentamente. – Quando tutta questa storia sarà finita mi rinchiuderanno in Sanitarium per colpa vostra-.
-Avrebbero già dovuto farlo da tempo-, lo rimbeccai, ma il giovane mi ignorò completamente, oltrepassandomi con un’unica falcata.
-Fobos! -, strillai, puntando i piedi in mezzo alla stanza. -Fobos! -.
-Che c’è! -, strillò lui di rimando, girandosi con uno strano ringhio sul volto. Aveva i pugni stretti e una goccia di sudore gli scivolava lungo il collo.
-Perché lo hai fatto?! Non ce n’era bisogno-.
-Mi hai tradito! -, gridò lui, la furia incontrollata che si disperdeva in scariche elettriche lungo tutto il suo corpo.
Avanzai decisa, prendendo la rincorsa, e quando lo raggiunsi lo schiaffeggiai con forza. Doveva rientrare in sé stesso.
-Smettila! Non ti ho tradito! Volevo solo fermarvi! –
Le pupille di Fobos si restrinsero, cercando di capire se ciò che stavo dicendo era la verità. Rimanemmo in piedi, l’uno di fronte all’altra, per un tempo che mi parve infinito, studiandoci.
- Non ti ho tradito. Sono in Debito con te-, ammisi, certa che ricordargli del Debito lo avrebbe calmato. Ma Fobos, al contrario, ne parve turbato. Era come se tutte le sue sicurezze e la sua algida freddezza fossero crollate come un castello di sabbia.
Arricciò il naso e, lentamente, mi raggiunse. Sollevai il mento per riuscire a guardarlo negli occhi. Da lui emanava un calore disumano, cocente come le fiamme degli Inferi.
- Tu non vuoi capire, Astreya-, mi disse, con la voce incrinata dalla rabbia che lentamente scemava in tristezza.
- Che il Debito si fotta. Tu non hai più bisogno di me: ti ho insegnato tutto ciò che sapevo-, aggiunse, con un mezzo sorriso. Mi carezzò fugacemente i capelli e poi fece per andarsene.
Sentii un sapore amaro in bocca e, mentre lo osservavo uscire dalla mia vita, qualcosa si bloccò a livello del mio stomaco. Un peso così opprimente da impedirmi persino di deglutire. Tutto il mio corpo si ribellò alla decisione di Fobos, e il mio cuore finalmente esplose. Non me ne ero mai resa conto. Non mi ero mai accorta di quanto fossi diventata fredda e cinica nel corso degli anni. Dove era stato il mio cuore per tutto questo tempo? Mi ero dimenticata quanto facesse male essere abbandonati, lasciati indietro a dire addio a una schiena senza volto. Lacrime di frustrazione mi salirono alle ciglia, facendole risplendere come madreperle.
- Dove pensi di andare! -, urlai, imponendo ai miei piedi di muoversi.
- Ma si può sapere cosa diavolo vuoi da me? -, borbottò Fobos, quando lo raggiunsi e mi appesi ai passanti dei suoi pantaloni nel disperato tentativo di bloccarlo. Puntai cocciutamente i piedi a terra, costringendolo a trascinarmi di peso sulla ghiaia.
Una cortina di polvere si sollevò da sotto i miei anfibi, mentre con le nocche strette attorno alla stoffa della sua divisa, tiravo con tutta la forza che avevo. Alla fine, esausto, Fobos si fermò massaggiandosi la base del naso. Era ancora arrabbiato, ma almeno non mi stava più urlando contro. - Non puoi sparire dalla mia vita così! -, gli urlai in faccia, sorprendendolo. Lo afferrai per i capelli e lo costrinsi a guardarmi negli occhi.
-Non voglio più vederti. Levati dalla mia vista-, sputò fuori lui, mentre la sua aurea lentamente sanguinava lucide lacrime nere.
- Perché?!-, lo implorai e la mia voce di spezzò a metà, rimanendo bloccata in gola. Le lacrime cominciarono a scorrere lente sulle mie guance di fronte allo sguardo impietoso di Fobos.
-Perché? -, mi riprese lui, guardando attraverso di me nel tentativo di ignorare il mio pianto.
-Perché mi fai soffrire. Non riesco a pensare, non riesco a mangiare. Devo seguirti ovunque per evitare che tu corra fra le braccia di qualcun altro. Ho sempre cercato di proteggerti e tu non l’hai mai capito. Forse l’ho fatto con i modi sbagliati, d’accordo, ma volevo che tu diventassi un soldato e una donna abbastanza forte da potermi stare accanto-.
Caddi sulle ginocchia, tremando di paura.
-Ti prego-, lo implorai mentre le lacrime deflagravano come piccole bombe sulle mie mani sporche di sabbia e ghiaia. – Non mi lasciare. Non anche tu-.
Sentii Fobos contrarsi e i suoi stivali premere nervosi sul suolo. Si inginocchiò di fronte a me e mi sollevò i capelli quel tanto che bastava per osservare il mio volto consumato dal dolore e dalla paura.
-Non posso continuare a inseguirti, Astreya. Ho un cuore anche io-.
I miei occhi divennero enormi e le mie labbra si schiusero per la sorpresa. Fobos abbassò lo sguardo, imbarazzato. Non avrei mai immaginato che quella bocca blasfema e tagliente potesse pronunciare delle simili parole.
-Che vuoi dire? –.
- Che ti amo-.
Rimasi completamente di sasso, con il cuore che batteva così veloce che avrebbe potuto esplodere da un momento all’altro. Sentivo il desiderio di piangere, di prenderlo a pugni e di ridere selvaggiamente, tutto assieme. I miei occhi si spostavano senza posa su tutto il suo viso, così serio e tetro da rendermi difficile resistere alla tentazione di ricoprirlo di baci. E le mie mani prudevano dal desiderio di afferrarlo e attirarlo a me.
-Adesso che lo sai, puoi anche girare i tacchi-, commentò, apatico.
- Anche io mi sono innamorata di te-.
Silenzio.
Il sole dietro alle mie spalle mi scottava la pelle nuda e il vento ululava tetro annodandomi i capelli.
-Dimmi qualcosa-. Il suo silenzio mi stava uccidendo. Fobos pareva bloccato e solo dopo degli interminabili minuti riuscì a parlare.
-Stavolta ti chiederò il permesso. Posso baciarti? -, mi domandò, una luce di desiderio malcelato negli occhi. Non mi stava guardando in maniera diversa dal solito. I suoi occhi erano sempre imperscrutabili, oscuri e sbagliati, ma era ciò che vi vedevo dentro ad essere decisamente cambiato. Quelle macchie nere e appiccicose affogate nell’iride, vestigia di un doloroso cammino di redenzione, avevano lasciato posto a una disperata richiesta di amore.
Mi allungai istintivamente verso di lui e lasciai che le punte dei nostri nasi si sfiorassero in una dolce carezza. Gli occhi di Fobos ebbero un guizzo di sorpresa che, seppur breve e fugace, riuscii a cogliere in tutta la sua bellezza.
-Devi scegliere me-, mormorò poi, aggrottando le sopracciglia e stringendomi con eccessiva forza il polso. Temeva che me ne sarei andata? Che sarebbe nuovamente rimasto solo?
- L’ho già fatto…-, risposi scostandogli una ciocca di capelli scuri dagli occhi. Il suo viso, nonostante le contaminazioni della magia, o forse proprio grazie a quelle, era di una bellezza disarmante. Sembrava un lupo con quegli occhi dal taglio affilato e quelle lucenti zanne che già in precedenza avevano divorato le mie labbra. Gli sorrisi, sentendomi catturata da quell’uomo più che mai. Per me Fobos era come la nebbia, tanto misteriosa e avvolgente, quanto illusoria e impalpabile. Non volevo essere ferita e perdermi nei suoi meandri, eppure non sembravo desiderare altro.
- Sei ancora in tempo per ripensarci-, ringhiò, spaventato dall’eventualità che accettassi di gettarmi fra le braccia di Eracleo solo per convenienza. Non riusciva ancora a capirmi. Eravamo totalmente incomprensibili l’uno agli occhi dell’altra e la maggior parte delle volte fra di noi scorreva un’alta carica di odio, pericolosa come un corto circuito. Eppure eravamo così diversi da tutti gli altri da riuscire anche ad amarci in qualche modo.
-Non cambierò idea-.
Fobos si stese verso di me e con un sospiro mi diede un lieve bacio. Fu delicato e ruvido, ma anche così dolce che sentii immediatamente la mancanza delle sue labbra quando si scostò per osservare la mia reazione. Vide che i miei occhi rispecchiavano il suo desiderio, che le mie dita temporeggiavano sul suo viso e che il mio volto era arrossito. Vide tutte le debolezze che avevo cercato di nascondere e tutto il malessere che covava dentro si sciolse come ghiaccio al sole.  Era quello che principalmente riuscivamo a fare: cancellavamo il dolore e le sofferenze dell’altro, dandoci affetto senza averne mai ricevuto e senza che qualcuno ci avesse mai insegnato come fare. Avevamo un nostro equilibrio.
Puntellandosi sui talloni, Fobos spostò improvvisamente il suo peso in avanti, cingendomi con le braccia e facendomi quasi cadere a terra. Mi strinse così forte che quasi mi soffocò. Non voleva che gli sfuggissi di nuovo, non dopo che aveva fatto tanta fatica a rimuovere il catrame che per anni gli aveva immobilizzato il cuore e congelato i sentimenti. Gli accarezzai il capo, perdendomi nella morbidezza e lucentezza dei suoi capelli.
-Astreya…-, mi chiamò lui, quando la mia mano passò a sfiorare il suo viso. La mia pelle avvampò laddove la sua voce mi raggiunse con il suo calore e biascicai parole senza senso. – …Da adesso sei mia-.

 

 

 

 

Quando partimmo a salutarci vennero soltanto Aracne e Sigma-x, oltre naturalmente ai due Diarchi. Eracleo preferì non venire, non dopo che il suo viso era stato maciullato da uno scatto d’ira di Fobos. Non potevo biasimarlo e anzi mi sentivo in colpa: in fondo non mi ero ancora scusata con lui per aver scelto di seguire l’Ibrido, ma ormai era tardi per rimuginare. I Diarchi, infatti, avevano approvato la nostra idea di raggiungere i Figli del Vento, incontrare di persona Prometheo e capire che piani avesse in mente per noi. In particolare Chastor si era offerto di guidarci, mettendoci a disposizione una jeep nuova di zecca e all’ultimo grido della tecnologia, oltre ad un ben nutrito numero di armi e munizioni.  Sembrava eccitato all’idea di conoscere il suo capo dopo tutti gli anni di servizio, talmente contento da apparire quasi un esaltato.
-Non vedo l’ora di partire-, disse, asciugandosi il sudore dalla fronte e dando un calcio all’enorme ruota del fuoristrada. Era ricoperto di sabbia e polvere e i muscoli delle braccia brillavano sotto ai forti e caldi raggi di sole.
- Mai vista una persona più felice di te…-, mugugnò, invece, Fobos, che per qualche motivo si era risvegliato con un potente raffreddore. Soffiò il naso imprecando e montò sulla macchina dal lato del guidatore.
-Ehi, quello è il mio posto! -, si lamentò Chastor, ma dopo un’occhiataccia da parte dell’Ibrido, si arrese all’evidenza e si rassegnò ad essere il navigatore del nostro trio.
Io caricai le poche cose che avevo nel retro del veicolo, accomodandomi sulla panca in freddo acciaio e rimuginando su tutto ciò che era accaduto fino a quel momento. Mi trovavo in una sorta di tempesta emotiva dopo la notte appena trascorsa. Viaggiavo tra sentimenti di affetto e turbamento per la dichiarazione che Fobos mi aveva dedicato, ma al contempo ero preoccupata e angosciata. Ero, infatti, convinta di aver fatto una pessima scelta nell’avvicinare ulteriormente il Generale; era come se in qualche modo fosse davvero scattato un timer in me, e più Fobos mi stava accanto, più mi sentivo in obbligo di proteggerlo, da me stessa o dagli altri ancora non lo sapevo.
-Piccola, stai attenta là fuori…-, mi appellò Ysmen facendo capolino dal retro della jeep e aiutando Aracne a issarsi sul cassone assieme a me.
-E fai buon viaggio…-, mi augurò la Custode con le lacrime agli occhi. Sembrava stessi per partire per la guerra, e invece stavo solo andando a trovare colui che conosceva la mia Natura più di chiunque altro.
- Sono certa che Prometheo saprà svelare tutta la nebbia che ti avvolge. Noi abbiamo fatto il possibile e, sapendoti ora alleata dei Mauriani, non possiamo fare altro che sostenerti e fornirti tutto l’aiuto possibile…-, soggiunse Ysmen, allungandomi uno strano orologio. Lo guardai perplessa e feci per metterlo nello zaino. Tuttavia la Diarca mi afferrò il polso prima che potessi anche solo muovere il mignolo e mi fissò intensamente negli occhi.
-Quello non è un orologio. E’ un Pigeon, un sistema di comunicazione criptato che ti permetterà di intercettare soltanto la linea dei Mauriani e dei Gyps. La Custode e l’altro soldato ci invieranno dei messaggi tramite questi gioiellini e noi li rimanderemo a voi, così da tenervi aggiornati sulla guerra in corso-.
-Guerra? -, domandai corrucciata, mentre Fobos mi passava accanto ricoperto di armi. Sospirò e appoggiò tutto quanto nel cassone, accanto a me.
-Stanotte il Reggimento dei Ruggenti ha assaltato il Reggimento del Sole…-, ringhiò quasi, rivelando informazioni che probabilmente riteneva fonte di vergogna. I Ruggenti in fin dei conti erano il suo Reggimento e lui si reputava ancora un soldato a tutti gli effetti.
-Perché?!-, domandai stupefatta.
-Non lo sappiamo-.
Era la voce di Eracleo. Sollevai lo sguardo di scatto e la sua figura comparve nel mio campo visivo, gli occhi gonfi e un taglio appena ricucito attorno al naso. Fobos non lo salutò minimamente, ancora ferito dalle sue parole, e con rabbia si appoggiò a braccia conserte contro il bollente ferro della jeep. Il Caporale non ci fece minimamente caso e avanzò zoppicante verso di me.
-Sembra che l’Accademia stia davvero tramando qualcosa, alla fine. Sono giunte poche notizie, ma quelle che ho potuto intercettare le ho subito rivelate ai Diarchi. Ho pochi rudimenti nel campo dei Segugi, ma ho dei buoni amici che, come me, vorrebbero disertare, hanno solo troppa paura delle conseguenze. Stanno conducendo strane ricerche nei laboratori dei Biotecnici. Galeno ormai è fuorigioco e il nuovo allenatore del Reggimento non è bendisposto verso il Governo attuale, né verso i ribelli-.
Fobos interruppe il suo discorso con un’alzata di mano. Eracleo lo guardò apatico, poggiandosi alla spalla di Aracne per non pesare troppo sulla gamba malandata.
-Che tipo di ricerche? -.
-Armi di distruzione di massa, di carattere biologico. Galeno sospettava da tempo che Cronyos stesse finanziando delle simili ricerche, per questo ho cercato di far desistere Astreya dall’invischiarsi con quel gruppo. Tuttavia, forse adesso, con le conoscenze che hai conseguito…-, ammise, virando lo sguardo su di me. Nonostante tutto vi lessi ancora una profonda ammirazione. - … potremmo avanzare una controffensiva. I miei uomini stanno cercando di capire cosa stia esattamente progettando Cronyos. Tornerò per dare loro una mano, in segreto, e appena saprò che programmi ci sono, manderò un report-.
Fobos lo squadrò qualche secondo dall’alto al basso, accendendosi una sigaretta e aspirandone profondamente il fumo. Lo soffiò fuori con uno sbuffo, poi si avvicinò al commilitone.
-Evapora. Hai un compito adesso. Vedi di non deludermi-, gli disse rabbioso, ma negli occhi di Eracleo vidi una scintilla che prima di allora non avevo nemmeno minimamente scorto. Non seppi cosa fosse finchè, a viaggio intrapreso, non trovai il coraggio di domandarlo direttamente all’Ibrido. Eravamo seduti attorno un bivacco, con le armi in mano e le orecchie tese. Il Deserto era ancora tutto attorno a noi e il vento soffiava lento fra i nostri capelli. Chastor dormiva tranquillo, steso sulle panche della jeep mentre io e Fobos montavamo di Guardia. Era già passata una settimana da quando eravamo partiti.
- Eracleo se la starà cavando bene? -, buttai lì, incerta.
Fobos sollevò lo sguardo al cielo studiando il lento luccicare delle stelle.
-Che cosa te ne frega? -.
-Ne va della nostra missione. E poi non nego di essere in pena per lui. Alla fine è comunque un mio caro amico-, mormorai, certa di scatenare la furia di Fobos. Lui, invece, si mostrò più paziente del previsto.
- Eracleo e io ci conosciamo da lungo tempo ormai. E’ un uomo debole e ipocrita, sempre con quel falso sorriso sulle labbra. E’ stato con me alla base di Cypris per qualche anno, ma poi non ha retto la pressione e se ne è andato…-, cominciò allungandomi una borraccia di Oruktà. Ne ingollai un po’ avidamente e subito le ombre che mi danzavano attorno svanirono in ondeggianti spirali.
- … Però proprio grazie alla sua doppia faccia, se la caverà. Ho sempre pensato che avrebbe scelto i Segugi viste le sue doti, ma probabilmente per lui era un po’ troppo-.
- Perché lo hai incoraggiato prima di partire? Non me l’aspettavo-.
-Prima che uomo, Astreya, io sono Generale. Ed Eracleo è un mio soldato. Devo proteggerlo anche se lo odio, anche se il solo guardarlo mi fa vomitare. Lui è una mia responsabilità come lo sono tutti gli altri soldati-.
La maturità di Fobos mi sconvolse, a tal punto che volli sapere di più, indagando sul rapporto teso ed elettrico che fin da quando li avevo incontrati scorreva fra i due uomini.
-Siete sempre stati nemici? -.
-Dobbiamo proprio parlarne? -, sbuffò Fobos, appoggiandosi con i palmi delle mani a terra, mezzo sdraiato. Non risposi, ma l’Ibrido, dopo una breve pausa di silenzio, mi accontentò.
- Eracleo è l’ultimo figlio di una famiglia molto numerosa. I suoi lo hanno cacciato a calci in culo quando ha compiuto dieci anni e lui è finito a vivere sotto i ponti. Durante una ronda di controllo del Reggimento degli Ulivi, cui sfortunatamente partecipavo anche io, Achileos trovò questo ragazzetto puzzolente che dormiva in un cassonetto dei rifiuti. Se ne impietosì e se lo portò in Accademia, spacciandolo per suo nipote e integrandolo come nuova matricola. L’ho conosciuto così. All’inizio ci frequentavamo e lo allenavo io stesso. Non mi fece domande sul perché un ragazzo più o meno della sua stessa età avesse l’autorità di istruirlo, ma poi qualcuno gli spifferò qualcosa ed Eracleo cominciò a cambiare. Mi disprezzava ogni giorno di più e lo beccai più volte a chiamarmi “mostro”. Non lo ressi più e, come hai potuto vedere in una delle mie visioni, lo attaccai brutalmente-.
Ripensai al ragazzino biondo dei ricordi di Fobos e mi venne un colpo. Non avevo riconosciuto il volto e la zazzera di capelli biondi di Eracleo forse perché il suo naso non era stato ancora modificato dalla nocche di Fobos o forse perché la sua voce era ancora immatura.
-Quando tornò a Cypris, alcuni anni dopo, decidemmo semplicemente di ignorarci, anche perché io allora ero già Generale e lui un mio subordinato. Fingemmo di non esserci riconosciuti e andammo avanti. E’ stata dura per lui abbassare la testa di fronte a me, e per me è stata una tortura subire il suo sguardo disgustato ogni giorno, ma i miei doveri vengono prima di qualsiasi cosa…-
Mi dispiaceva sinceramente per Fobos, per quel ragazzino iroso che non aveva nessun amico al mondo e per l’uomo schivo e diffidente che era diventato. Eppure anche così, non potevo che essere felice del ragazzo che ora avevo al mio fianco.
-Dai, vai un po’ a dormire. Ci penso io qui…-, gli dissi allora, e Fobos pigramente si sollevò da terra.
-Non strafare-, mi disse semplicemente, passandomi una mano fra i capelli scuri. Poi se ne andò, lasciandomi sola a contemplare le fiamme rossastre del nostro piccolo bivacco.
La mattina seguente fu Chastor a svegliarmi, con uno strattone decisamente violento. Mi ridestai come da un lungo letargo con la mente ancora annebbiata e una strana sensazione appesa alla bocca dello stomaco. Nausea.
-Perché ci stiamo già muovendo? -, domandai, rendendomi conto solo in quel momento che Fobos era già alla guida e che noi stavamo macinando chilometri già da un po’. Il paesaggio era completamente cambiato e al posto della distesa brulla di rocce e arbusti stecchiti, ci trovavamo innanzi a uno spettacolo mozzafiato.
Una vera oasi, con palme rigogliose e rivoli di acqua cristallina, disegnava un panorama quasi soprannaturale con un piccolo paese bianco latte abbarbicato su un promontorio. Sollevai lo sguardo quando vidi l’enorme Tempio che sovrastava la punta del precipizio, lì dove un’enorme e scrociante cascata cadeva a rotta di collo nel tormentato lago ai suoi piedi.
-Non ditemi che siamo già arrivati! -, esclamai meravigliata, balzando in piedi e spingendo Chastor contro il finestrino per fiondarmi a guardare.
-Sì, abbiamo deciso di accelerare così da arrivare prima del mezzogiorno. Fobos ritiene che un po’ di anticipo ti faccia capire cosa stiano preparando realmente i tuoi ospiti, si tratti di un banchetto o di una fucilazione-.
Annuii, mentre l’Ibrido parcheggiava poco distante dal primo casolare. Non c’erano recinzioni, guardie o cani, niente di niente. La vita lì sembrava scorrere tranquilla, vigilata a malapena dagli occhi vitrei delle Cavallette.
-Fischia! Mi aspettavo una base militare con i contro cazzi e invece, guardate qui-.
Fobos spense il motore e, issandosi oltre il finestrino, osservò la folla di persone che stavano scivolando come un miasma nero dalle viuzze.
-Dicevi, coglione?!-, esclamò, con un sorriso inquietante e aguzzo. Era eccitato dal fatto che ci stessero già aspettando e dalla possibilità non troppo remota che, vista la quantità di forze dispiegate, ci temessero incredibilmente.
Chastor afferrò le armi che ci eravamo portati. Scelse per sé un fucile da cecchino, per me un paio di pistole e a Fobos lanciò una katana e una piccola mitraglia.
-Io vado sul tettuccio a tenerli sotto mira-, annunciò issandosi sulla jeep con un movimento degno di un serpente. Io, invece, caricai le mie pistole con tutta calma. L’Astreya che temeva le armi e viveva al Tempio, non c’era più.
-Non credo vogliano farci fuori. Hanno fatto di tutto per farci arrivare qui, persino assumere quei disagiati dei Mauriani. Qui si tratta di una guerra fredda…-, mormorò Fobos, aprendo la portiera e scendendo lentamente, come un assassino beccato sulla scena del delitto. Lo seguii anche io, scivolando giù dal cassone con un balzo;  il ragazzo estrasse prontamente la katana e io stinsi saldamente le pistole, pronti a essere minacciati. Quello che accadde, invece, fu incredibile. A riversarsi di fronte a noi non furono frotte di soldati o uomini in divisa, ma ministri di culto e fedeli. Erano tutti vestiti con toghe bianche e portavano il cranio rasato, sia uomini che donne.
Non appena giunsero di fronte a noi, scalzi e con numerosi tatuaggi di libellule, si inchinarono e cominciarono a recitare preghiere. Terrorizzata, cominciai a indietreggiare, il naso arricciato e gli occhi a fessure. Se c’era una cosa che temevo più delle armi erano i pazzi esaltati.
-E chi cazzo sono questi? -, domandò Chastor, confermando la mia ipotesi: davvero Prometheo era riuscito a manovrare i Diarchi senza rivelare loro alcunché.
-Non ne ho idea, ma se continuano a strisciare verso di noi, io taglio loro la testa-, rispose Fobos, allontanando con la punta dello stivale il cranio lucido di sudore di un uomo anziano. Lo guardò con disgusto, ma anche con crescente preoccupazione.
Tuttavia gli occhi di quella gente non sembravano per nulla pericolosi o malintenzionati. Riflettevano più qualcosa come la sorpresa dell’uomo di fronte all’epifania di un Dio.
-Nostra Salvatrice! Nostra guida, tocca i nostri capi e benedici le nostre mosse…-, disse una donna gravida avanzando in ginocchio. Mi guardai attorno per capire a chi diavolo stesse parlando, mentre altri ragazzetti avanzavano correndo, richiamati dal trambusto del nostro arrivo. Ormai di fronte a noi si erano radunate almeno un centinaio di persone.
Poi improvvisamente la donna fece un passo più lungo e si afferrò alla mia canotta, tirandola verso il basso e cercando di poggiare il suo cranio sotto la mia testa. Mi mostrò fiera il tatuaggio a libellula che aveva sulla nuca e a me venne quasi da vomitare. Era con me che parlava? Per chi mi avevano scambiata?
Cominciai ad annaspare, mentre tra la folla accorsa iniziavano a comparire volti distorti e ombre longilinee e danzanti. Il mio mostro impazzì all’istanti e, con un urlo disumano, mi scaricò un brivido lungo tutta la colonna vertebrale. Rimasi senza respiro, con le mani ancora strette attorno alle pistole.
La donna mi abbracciò i fianchi e mi rivolse parole traboccanti di amore. Erano le stesse preghiere che si riservavano agli Dei e questo mi fece sentire ancora più sbagliata ed empia. Mi voltai verso Fobos, in cerca di supporto, ma anche lui era stato circondato da degli uomini che gli toccavano le vesti, le braccia o i piedi. Fobos ringhiava a tutti e li allontanava con la custodia della katana.
-O venerabile compagno! Che la tua benedizione ci porti tanta fortuna e una prole degna del vostro operato-, gli sussurrò un vecchietto e Fobos per poco non lo decapitò con lo sguardo.
-Compagno?! Compagno di cosa? -, domandò quindi, sollevando l’uomo per la tunica e portandolo all’altezza dei suoi occhi.
-Compagno del Deadly Child, della nostra Prescelta! -.
Al suono di quelle parole vomitai a terra, piegandomi in due.

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Capitolo 32
*** Capitolo 31- Aughènea ***


Capitolo 31

 

-Benvenuti, stranieri. Miei fedeli, scostatevi e lasciatemi passare-.
Una voce si fece largo fra la folla, cantilenante e giovanile. Era sottile, ma non in modo piacevole: il suo suono ricordava il graffiare delle unghie sui vetri e faceva accapponare la pelle. Non era una voce umana, era qualcosa di tremendamente distorto.
Mi sollevai subito, pistole alle mani, asciugandomi la bocca con il braccio.
Fobos accanto a me era teso, sentivo ogni singolo nervo, ogni singolo impulso elettrico percorrergli la pelle come se si trattasse della mia.
Sbattei un paio di volte gli occhi, mettendo a fuoco una figura bassa, molto magra ed emaciata.
Si trattava di un ragazzino, un giovane di quattordici anni nemmeno. Indossava una divisa nera rinforzata da un giubbotto anti proiettile. Al centro, proprio sul petto, emergeva il ricamo di una libellula tagliata a metà.
Mi guardava fisso, fra quelle ciglia bianco latte e attraverso quelle ciocche di capelli impalpabili come ragnatele. Un’iride rosso sangue, solcata da striature nere come la notte, mi fissava esaltata affiorando dall’ammasso di ricci che gli ricadevano sul viso.
Sorrise quando si accorse che i miei occhi lo stavano studiando con timore, quasi come avessi di fronte a me l’incarnazione del mio mostro. I suoi denti erano aguzzi, corrosi da qualcosa che li aveva resi appuntiti come frammenti di cristallo zigrinati.
-
Non mi riconosci, Astreya? E’ da tanto che non ci vediamo, non e’ vero? -.
-Io non ti conosco…-, esclamai, ma le mani cominciarono a tremarmi mentre quegli occhi da demone mi fissavano; le labbra erano tese in un sorriso maniacale, quasi distorto. La sua aurea non esisteva, dietro di lui stagnava soltanto un pozzo vuoto e silenzioso.
-
Non ci conosciamo dici? -, commentò lui, avvicinandosi a me. Stava sfidando le mie dita, traballanti sul grilletto. Perché non volevano farmi sparare? Perché il mio mostro sentiva che quella creatura che avevo davanti era famigliare?
Fobos accanto a me scattò, frapponendosi fra me e il mostro. I suoi capelli neri mi schermarono per qualche istante dalle pupille a spillo del ragazzino, scorrendomi di fronte alla visuale come fili di seta. Tese la katana dritta di fronte a sé, puntandola al collo scheletrico del nemico. Aveva uno sguardo apatico e freddo come al solito, ma la sua aurea si era avvolta tutt’attorno a me come una gabbia. Fobos temeva a tal punto quella persona da desiderare di proteggermi con tutto se stesso.
-Se avanzi, ti trapasso-, sillabò Fobos e la sua voce mi fece tremare le ossa. Era così cavernosa che sembrava provenire da un altro mondo.
-
Sei cresciuto bene, Fobos. Anche se non ci conosciamo di persona, ho sentito molto parlare di te-.
-Chi sei? -.
I fedeli si erano allontanati creando un semicerchio attorno al ragazzino e avevano tutti portato l’indice alla testa. Sembravano in trance o perlomeno congelati nel tempo. Solo il lento sospiro dei loro respiri e lo sbattere delle ciglia mi ricordavano che fino a un momento prima erano vivi e vegeti.
-
Io? Non vi pare ovvio? Siete venuti qui per conoscermi… Io sono Prometheo-, si presentò lui, facendo un piccolo inchino e lasciando che la lama affilata dell’arma di Fobos gli disegnasse un piccolo taglio sotto la giugulare.
Chastor, che fino ad allora era rimasto in silenzio, scese con un salto dalla jeep e si gettò ai piedi del ragazzo, baciandogli gli stivali, supplice. La visione mi disgustò a tal punto che un nuovo conato mi squassò le costole, facendomi tremare l’anima. Perché Prometheo era sbagliato? Perché non era la persona illuminata che mi ero aspettata di incontrare?
Prometheo pose una mano sulla testa di Chastor, ringraziandolo per l’ottimo lavoro svolto e incensandolo di complimenti. Era disturbante vedere una montagna d’uomo inchinarsi a terra e piangere come un bambino di fronte a chi un bambino lo era ancora. Un idolo, ecco come mi appariva Prometheo. Un idolo. Blasfemo.
Non so cosa mi prese, non so nemmeno se la mia mente fosse lucida in quel momento, ma, lottando contro il mio mostro, decisi di agire. Sollevai la pistola destra, gli occhi brucianti di lacrime di paura e terrore e puntai l’arma al centro della fronte di Prometheo, pronta a colpirlo fra gli occhi a sangue freddo.
E ce l’avrei fatta se, nel preciso istante in cui l’indice indugiò sul grilletto, il ragazzino non si fosse voltato sorridendo.
-
Dimentica, Astreya. Dimentica quello che ti fanno. Io sono al tuo fianco e ti guidero’òverso la luce-.
Quella frase. Quelle parole cantilenati come una ninna nanna. Quel suono ronzante nelle note basse della sua voce infantile. Tutto mi riportò indietro nel tempo, a quando ero bambina. Il mio mostro cominciò a grattare con forza sui ricordi, spolverando via tutto il catrame che ero riuscita a depositarvi sopra. E improvvisamente cominciai a sanguinare, a discendere in un abisso di ricordi e dolore. Urlai così forte da assordarmi e da spaventare Fobos. Le lacrime mi schizzarono dalle ciglia come perle invisibili e si sparsero nell’aria attorno, mescolate al fiume di rabbia che riversavo dalla gola.
I ricordi mi infiammarono la mente, corrodendo tutta l’armatura che mi ero costruita addosso per stare in piedi e distruggendo completamente l’ultimo briciolo di sanità mentale che mi era rimasta cucita addosso. Cominciai a vedere dei lampi di luce e delle interferenze nell’aria. Ombre strane cominciarono ad arrampicarmisi lungo le gambe, scorrendo come fiumi di sangue al contrario. Mi tenni la testa fra le mani, tappando le orecchie e lasciando che le pistole cadessero a terra con un clangore metallico.
Subito Fobos, notando il mio stato pietoso e confusionario, si lanciò contro Prometheo brandendo la katana come se fosse un prolungamento del suo braccio. Fendette l’aria a un soffio dal suo viso recidendogli una ciocca di capelli.
-
Vuoi farmi del male, alleato? Io sono qui solo per aiutarla…-, ridacchiò il ragazzino, puntando i suoi occhi color sangue in quelli altrettanto bollenti di Fobos.
- Cosa le stai facendo? -, ringhiò l’Ibrido, mentre la sua voce andava e veniva nella mia testa con un rimbombo assordante. I ricordi stavano ribollendo nella mia testa in una sorta di brodo primordiale dimenticato da tempo.
-
Io niente. Sta solo ricordando. Sta spazzando via anni di Inibitori e si sta risvegliando. In fondo un Deadly Child come lei non puo’ dormire per sempre-.
- Ricordare? Ricordare cosa… abbiamo letto tutto il fascicolo Falena Notturna. Sappiamo già tutto! -, si lamentò Fobos, mentre una goccia ghiacciata di sudore gli scivolava lungo il Pomo d’Adamo.
- No, Fobos. Solo quando si ricorderà di me, tornerà ad essere se stessa…-, rincarò Prometheo, mentre mi accasciavo a terra e cercavo di ingoiare aria. Le immagini che mi si annidavano nella mente erano troppo vivide e dolorose per non essere vere. Vedevo anni di esperimenti che avevo scordato, due occhi di sangue che mi scrutavano dall’ombra e un uomo, un dottore con una siringa in mano. Chi era? Era K.?

 
-Forza, vieni avanti paziente 1-, disse una voce fuori campo, da qualche parte nella nebbia delle mie memorie. Mi guardai attorno e vidi il ragazzo sui tredici, quattordici anni che mi avevano affiancato. Era più magro di quanto mi ricordassi e i suoi capelli erano sbiancati, fino ad assumere la stessa consistenza delle ragnatele. Mi osservò con la coda dell’occhio nel superarmi e si sedette sulla sedia che aveva di fronte. Sul tavolo erano state posate tre carte voltate. Vedevo le loro schiene damascate e le loro curve taglienti.
-Scegli una carta…-.
Il ragazzo annuì e pose la mano sulla carta a sinistra, quella con l’angolo leggermente sbeccato.
-Paziente numero due-, dichiarò la voce, facendo tremare la telecamera sopra le nostre teste.
Avanzai verso il mio nuovo compagno di giochi. Ero piccola e il mondo era ancora di difficile comprensione per me, ma quando mi sedetti sulla sedia accanto al ragazzo e questo mi sorrise, tutte le preoccupazioni e le paure del mondo parvero sparire.
-Scegli una carta-.
Non sapevo cosa fare. Ero piccola e impaurita, non vedevo la mia mamma e il mio papà da nessuna parte e quelle carte cominciavano a muoversi assumendo le sembianze di disgustosi ragni pelosi. Vidi quello intrappolato sotto le dita del ragazzo scalpitare per fuggire e dovetti trattenere un gridolino.
-Sono solo incubi ad occhi aperti… non li guardare. Guarda me, e scegli una carta-, mi disse lui con un sorriso, mentre la presa sul corpo del ragno si faceva ferrea, quasi mortale per la creatura. Annuii convinta, e posai l’indice sul ragno-carta di destra.
-Girate le carte-, disse la voce.
Subito voltai la carta e quello che vidi fu un pagliaccio. Un jolly. Guardai in direzione del mio amico e fra le sue dita tremanti vidi una carta bianca. Il suo sguardo era incendiato di rabbia e il naso arricciato in maniera ferina.
-Hai sbagliato-.
Notando quanto stesse male per la scelta della carta sbagliata, decisi di porgergli la mia. Gliela allungai senza pensarci lasciando che le maniche della tunica mi scivolassero all’indietro fino a mostrare i tagli che segnavano le mie braccia.
Il ragazzo li guardò perplesso, fissando poi la carta con incredulità crescente.
-Cosa ci stanno facendo? -, mormorò sconfitto, rifiutando la mia offerta e passando il polpastrello sulle cicatrici bianche in rilievo vicino ai miei gomiti.
-Su una bambina così piccola…-, aggiunse, puntando i suoi occhi castano rossi nei miei.
-Mamma dice che questa gente può curarmi e che io posso salvare la mia famiglia-, ripetei. Erano le parole che mia madre ripeteva piangendo, quando mio padre minacciava di sbarazzarsi di me una volta per tutte. Voleva vendermi a qualche Istituzione e guadagnarci qualche denaro.
Il ragazzino sbattè le palpebre un paio di volte, poi mentre la porta dietro noi si apriva, si inginocchiò davanti ai miei piedi.
-Noi siamo speciali, ma io sono sbagliato. Non mi faranno vivere…-, mi spiegò ponendomi in mano la carta bianca. –Per questo tu devi sopravvivere al posto mio. Tu sei la predestinata. Tu devi scappare da qui-.
Poi prese la carta con sopra il jolly e la stracciò a metà.
Non appena il ragazzo smise di parlare e si voltò verso lo stuolo di medici e infermieri che lo puntavano, uno dei dottori, un uomo magro e alto, cieco da un occhio, venne scaraventato contro la parete. La sua colonna vertebrale emise un suono orrendo quando impattò contro il freddo cemento del muro e una scia di sangue colloso lo trascinò verso il basso, preludio della sua morte.
Il giovane poi indirizzò il suo sguardo verso una delle infermiere che lo minacciava con un sedativo alla mano.
-Non ti avvicinare a noi-, sibilò il ragazzino, stringendo i pugni e aggrottando le sopracciglia. Puntò un braccio contro la donna e notai immediatamente i numerosi tagli che portava incisi sulla pelle. Erano tutti autoinflitti e recavano una scritta. Mentre la donna volteggiava in aria e finiva a terra, immobile con gli occhi riversi, approfittai della distrazione del ragazzino per leggere quanto si era inciso nella pelle.
-Sarò un Figlio del Vento…-, mormorai e in quel momento la testa dell’ennesimo dottore esplose, lasciandomi una scia di sangue su tutto il viso, spolverizzato come farina.  
Non ne rimasi sconvolta e non provai nulla. Mi limitai a osservare il sorriso aguzzo del giovane.  I suoi denti sembravano quelli di uno squalo.
-Ricordati, piccina, che non sarai mai sola…-.
Un dottore colpì il mio nuovo amico con una scarica elettrica e lui si lasciò fare, imperterrito di fronte ai lievi spasmi che il suo corpo cominciava a subire.
-
Dimentica, Astreya. Dimentica quello che ti fanno. Io sono al tuo fianco e ti guiderò verso la luce-, aggiunse poi, mentre l’equipe del Sanitarium lo immobilizzava ai miei piedi e lo stringeva in una camicia di forza.
Rimasi a osservarlo per tutto il tempo, mentre i suoi occhi rossi si guardavano attorno impazziti, mentre lo ammutolivano con una specie di morso da cavallo, mentre lo legavano ad una sedia a rotelle e gli immobilizzavano la testa. Lo spinsero via in tutta urgenza, lasciandomi sola e sporca di sangue in mezzo a tutti quei cadaveri. Rimase con me un unico medico, nerboruto e con una folta barba nera. I suoi occhialetti tondi erano oscurati dalla polvere e dal pulviscolo.
-Vieni, bambina. Non hai paura a stare in mezzo ai morti? -, mi domandò, accucciandosi e tendendomi una mano.
-Paura? Sono morti. I morti non possono più muoversi. Anche io un giorno non mi muoverò più-, commentai atona, avanzando in mezzo allo scempio e raccogliendo da terra la carta bianca del ragazzino killer. – Posso tenerla? -, chiesi, e il dottore manifestò tutta la sua sorpresa con uno sguardo preoccupato.
-Perché vuoi tenere la carta sbagliata? -.
Osservai il bordo insanguinato di quell’oggetto sottile e tagliente e vi scorsi il dito. Sentii un lieve dolore al polpastrello mentre una linea di sangue affiorava dalla mia impronta digitale.
-Perché spesso è una mossa sbagliata a far vincere la partita-, sorrisi, certa che in quel momento fosse il mio mostro a parlare.
- Quel ragazzo non è un esempio per te. Lui non ce la farà. E’ matto…-, cercò di convincermi il medico, ma io lo ignorai, infilandomi la carta nella tasca sdrucita della mia felpa rosa.
-Anche lo scacco è matto. Ma è la fine della partita-, mormorai, mentre un sorriso aguzzo mi si disegnava sul viso.

 

 Quando mi ripresi, Fobos e Prometheo erano ancora intenti a fronteggiarsi in uno scontro silenzioso. Era un duello teso e tutto il pubblico aveva il fiato sospeso. Guardai in direzione del capo dei Figli del Vento e, senza nemmeno cercare di ingabbiare il mio mostro, avanzai nella sua direzione. Abbassai le armi e le lasciai scivolare a terra quando gli fui di fronte. Poi lo guardai dritto negli occhi: erano più rossi e brillanti di quando lo avevo conosciuto, ma la speranza che tigrava i suoi occhi di nero era ancora lì, in quella spirale scura di redenzione e accettazione di sé. La sua forza e la sua sicurezza, oltre alla sua promessa, mi avevano tenuta in vita durante i duri anni della sperimentazione, durante tutti quegli anni in cui mi avevano fatto credere che quello che era stato il unico compagno e fratello fosse morto suicida.
-Fratello…-, mormorai, prima di lanciarmi su di lui e abbracciarlo. Era strano sentirlo così piccolo e magro fra le mie braccia, quando anni prima era stato lui a consolarmi, ma la sensazione era decisamente quella di essere tornata a casa.
-
Mia piccola sorella. Finalmente ti ricordi di me…-, commentò lui ricambiando il mio abbraccio mentre la folla attorno a noi esplodeva in un boato di gioia e in un ruggito di gloria.
Anche Fobos rilassò i muscoli e calò la katana, rimanendo in disparte per gestire la situazione. Fu Prometheo a chiamarlo a sé quando ci sciogliemmo dall’abbraccio.
-
Vieni anche tu, creatura. Se io fossi stato idoneo saresti stato tu il mio compagno, soldato. Abbraccia il tuo fratello sconosciuto-.
Fobos tentennò, ma alla fine si accostò anche lui a noi, formando un trio. Prometheo rispettò il desiderio di non essere toccato dell’Ibrido e gli pose solo una mano sulla spalla.
-
La mia famiglia ora è riunita, finalmente. Dopo tutto questo tempo…-, gioì il ragazzo, per nulla invecchiato da come lo avevo rivisto nella mia mente. – Venite nella mia dimora-.
Quando io, Fobos e Chastor entrammo nel Tempio in cima al promontorio restammo senza fiato. L’interno della struttura aveva un soffitto che si espandeva in altezza a perdita d’occhio, con grandi matronei occupati da soldati e fedeli di ogni genere ed età. Ci fissavano con le mani congiunte e una candela di luce nera fra le mani. La navata di fronte a noi era buia e rischiarata solo dall’arcobaleno di colori che le vetrate rimandavano, colpite dalla luce accecante che regnava fuori da quel luogo di tenebra.
Ma ciò che mi sconvolgeva di più era l’enorme statua che spalancava le sue braccia di fronte a noi, come volesse accoglierci con la sua espressione austera e il suo busto da scheletro. Aveva il viso abbassato verso di noi, per cui la luce non risaltava i suoi tratti e il volto rimaneva nascosto nella semi penombra; eppure non potevo fare a meno di notare una certa somiglianza con i lineamenti del mio viso.
Di fronte a noi, infine, si ergeva un altare in pietra, tondo e cosparso da ninfee bianche. Mi fermai di fronte ai piccoli scalini smussati che ci distanziavano dall’ara sacro e mi inginocchiai rispettosamente di fronte alla statua enorme che ci sovrastava.
-
Cosa fai, Astreya? - mi chiese Prometheo, con sguardo perplesso ed estasiato assieme. – Ti inchini di fronte a te stessa? -.
-Come? -, chiesi perplessa, mentre Fobos strizzava gli occhi per ritrovare i miei tratti in quelli scolpiti nella pietra.
-
Non vedi? Quella creatura celeste sei tu. Noi ti veneriamo come Dea in Terra e ti adoriamo con il nome di Astreya la Duplice, per via di Ate, tua gemella-.
-Non ho idea di chi sia questa Ate di cui parli-, biascicai avvicinandomi al volto della statua, proteso verso di me come il muso di un animale pronto a farsi accarezzare. Sfiorai le guance gelide della mia gemella e subito provai una scossa lungo la colonna vertebrale, come fossi stata fulminata da una scarica elettrica.
- Ate è il motivo per cui tu sei la predestinata e io non lo sono. E’ grazie alla sinergia fra la tua mente e quella della tua defunta metà che sei qui. Dopo essere riuscito a scappare dal Sanitarium in cui ci hanno rinchiuso per anni, ho scelto di unirmi ai Figli del Vento e, con grande fatica, li ho convinti a seguirmi, ad attendere il momento in cui tu saresti tornata. Perché come puoi vedere l’Umanità è corrotta. E’ arrivata a sperimentare su bambini, a cercare armi laddove ci doveva essere solo innocenza. L’Esercito, che doveva proteggerci, sta al contrario manipolando vite umane per sostenere una squadriglia corrotta di Sacerdoti. Una vergogna. E noi, poveri esseri semplici e moralmente corretti, assistiamo al completo sfacelo. Ma non lo faremo senza intervenire. Noi dobbiamo assolutamente lottare-.
Le parole di Prometheo erano incendiate da una passione che non vedevo da anni. Continuava ad avere un aspetto poco rassicurante ai miei occhi e, nonostante il nostro passato, non riuscivo ancora a fidarmi di lui. Eppure ero certa che sapesse cosa stava facendo, che la sua mente fosse in grado di prevedere cose che noialtri potevamo solo sognarci. Per cui, mentre delle voci spettrali cantavano canzoni sacre accompagnate dalle note di un organo baritonale, seguii il guru fino a una cappella lì vicina, abbarbicata nella roccia e illuminata da candelabri neri come la notte. Un mosaico si dispiegava di fronte ai nostri occhi, dorato e nero come un sole in piena esplosione.
Mi mancò il fiato. Era la stessa identica scena che Aracne aveva intessuto il giorno in cui era cominciata la mia discesa agli Inferi. Rividi i tratti oscurati di Fobos, le persone e le fiamme, i ratti e il cielo bruno. Era tutto esattamente come la Tela ci aveva mostrato.
Mi voltai per capire che reazione Fobos stesse avendo di fronte a un immagine tanto terribile di sé, ma il suo viso era impassibile e la sua espressione gelida. Unico segno del suo disagio era un lieve tremore delle sopracciglia, così tese da sembrare di velluto nero.
-Voi sarete la nostra Apocalisse, la nostra rivalsa su questo mondo orrendo. Dobbiamo estirpare la corruzione che ci ammorba, ma per farlo dobbiamo sporcarci le mani, dobbiamo lordarci come vermi nella terra e corrodere le fondamenta delle Istituzioni…-
Il dito di Prometheo scorse sulle tessere rosso rubino che ricoprivano le braccia di Fobos, brillanti come del sangue vero.
-Quando fingendo il suicidio sono riuscito a scappare, ho cominciato a pensare che talvolta essere invisibili al mondo potesse essere un gran vantaggio. Potevo fare il burattinaio ed evitare che anche tu diventassi un “esperimento fallito”. Per questo ho pagato i Mauriani per unirsi a noi, per vendere armi ai rivoltosi. Ho tenuto stretti i nemici e ancor più strette le spie come Iatro. Ho lasciato che mi tradisse, inoculandoti Inibitori su Inibitori. Ho fatto credere di non essere perfetto, così da passare inosservato come un virus letale. Ho fatto molti errori, ma tutti di proposito. Ho persino mandato un mio uomo al Vallum per tentare di ucciderti, pur sapendo che sarebbe stato lui a perdere la vita. Efesto si è sacrificato per testare le tue capacità, per spingerti volontariamente fra le mie braccia…-
Il volto di Efesto e l’immagine della sua gamba robotica mi scorsero di fronte agli occhi, atterrendomi. Lui che era disposto a sacrificare la vita del figlio per me, alla fine aveva sacrificato anche se stesso, uccidendosi in un’esplosione e rimanendo insepolto per sempre. Quanta gente era disposta a morire per me, per Prometheo? Chi eravamo noi per chiedere un simile sacrificio? Più Prometheo parlava e più capivo che c’era qualcosa di estremamente distorto nella sua mente. Forse la prima impressione che avevo avuto di lui era stata quella giusta.
-L’Esercito e il Tempio sanno chi sono e cosa faccio, ma non mi temono. Mi hanno lasciato entrare fra le loro fila come una serpe in seno, ignari che sarebbe giunto il giorno in cui li avrei avvelenati. Mi ci è voluto molto per allontanarti dall’Esercito, per costringere Iatro, l’ultimo tuo giorno al Tempio, ad avvelenarti il sangue con un Espansore potente che riportasse in auge tutti i tuoi poteri. E’ stato altrettanto difficile allontanarti da loro sacrificando un mio fedelissimo e preparandomi a far saltare in aria anche quei rivoltosi, quei poveri uomini che non sanno di essere usati da entrambe le parti. Ma alla fine ce l’ho fatta e le due armi più potenti ora sono nelle mie mani, pronte a mondare l’Umanità sotto la mia guida illuminata. E una volta che tutto questo sarà finito, non solo distruggeremo anche il Governo, ma butteremo giù quella cupola e trasporteremo là la nostra base per creare una nuova vita, un nuovo Stato. Aughènea, la Nuova Alba…-
Sorrisi, mentre nella mia testa le idee si univano fra loro come fili di una matassa. Eppure non formarono un groviglio confuso di pensieri, ma un perfetto ricamo circolare. Tanto perfetto da vederne il centro con la massima chiarezza.
-Prometheo, sapevo che non mi avresti lasciata sola. Vedo il tuo piano e lo ammiro, lo trovo profondamente corretto, tanto smagliante e limpido da sembrare ispirato direttamente dagli Dei. Hai mantenuto la promessa di starmi sempre accanto e condurmi alla luce e di questo ti sono immensamente grata. Non vedo l’ora di assisterti nel tuo piano e diventare il tuo strumento di vittoria eterna-, dissi, prendendo fra le mie le piccole mani bianche del ragazzino.
-Sono orgoglioso di te, mia piccola sorella. E lo sarebbe anche Ate-.
Abbassai il capo in segno supplice e subito dopo tornai al centro del Tempio, illuminata dai vetri variopinti del sacrario. Gli occhi dei fedeli erano puntati su di me e le loro voci si spensero quando sollevai le mani verso di loro.
-Fedeli, Prometheo mi ha aperto gli occhi! E’ ora di distruggere la Teocrazia nascente con la forza delle nostre anime e il sacrificio del nostro sangue! -, esclamai, sotto lo sguardo sbigottito di Fobos.
Un boato eruppe dai matronei facendomi esplodere il cuore e lacrimare gli occhi.
Il mio piano aveva finalmente avuto inizio.

 

 

 

 

-Cosa diavolo stai pensando di fare? Quello è solo un esaltato-, mi sgridò Fobos non appena fummo soli. Prometheo ci aveva riservato un alloggio d’eccezione, un piccolo appartamento con terrazza che dava sullo strapiombo della cascata. Ero lì sul balcone ad osservare la polvere del Deserto danzare in lontananza, quando Fobos finalmente si decise a parlarmi.
-Non sono un’idiota…-, mi difesi a spada tratta. – Stavo recitando. E ora ho la certezza di essere risultata credibile-.
Gli occhi di Fobos si rilassarono così come la sua aurea. Si appoggiò allo stipite della porta finestra e sospirò.
-Che cosa hai in mente? -.
Guardai istintivamente il Pigeon. Sul suo schermo brillava ancora il messaggio che Eracleo mi aveva mandato appena qualche ora prima. Diceva che Galeno era stato giustiziato, decapitato in piazza per sedizione. Avevano scoperto che ero fuggita nel Deserto e che ero associata ai Figli del Vento. E per questo lui aveva pagato con la vita. Ma non era l’unica notizia raccapricciante.
-Ho in mente di lottare…-, mormorai, ripensando alla comunicazione del Caporale, quella che mi aveva scosso fino a farmi tremare.
“Avevamo ragione. Armi biologiche. Usate contro il Reggimento del Sole. Sede Governativa scoperta. Attacco imminente.”
Mi voltai lasciando che il sole infuocato del tramonto mi scaldasse la schiena, pugnalata più e più volte da tutte le Istituzioni, pronte a usarmi e sfruttarmi, a vantare diritti inesistenti sulla mia esistenza.
-Non odio Prometheo. Non riesco ad odiarlo. In fondo la sua idea non è sbagliata. Sono i mezzi ad esserlo. Non credo che il suo Governo sarebbe meglio di una Teocrazia armata, perciò non vedo altra scelta se non quella di non appartenere ad alcuna fazione-.
Fobos si passò una mano sul viso. Era molto stanco e leggevo un certo nervosismo nei suoi movimenti.
-Cosa pensi che potremmo fare da soli? Io e te? -.
Sbuffai, dirigendo il mio sguardo altrove. Non volevo guardare negli occhi Fobos dal momento che non avevo alcuna garanzia di successo per il mio piano.
-Non so se finiremo bene, io e te. Ma non posso nascondere la testa sotto la sabbia. L’ho fatto per troppi anni e ora sono stanca. Voglio dare un senso alla mia vita, al mio passato e a quello che sono. E per farlo ho bisogno che Prometheo mi insegni, che mi rafforzi. Solo lui è così intelligente da modificarmi per farmi diventare davvero un DC. E solo allora, quando sarò un mostro vero e proprio, potrò sferrare il mio attacco-.
Fobos avanzò verso di me, si appoggiò alla balaustra trincerandomi fra le sue braccia, e disse:
-Credo che alla fine siamo giunti al capitolo finale. Combatterò al tuo fianco, timer o non timer. Cercherò di fare del mio meglio, anche se non sappiamo ancora chi erediterà il frutto del nostro lavoro-.
Sorrisi mestamente, mentre il popolo devoto di Prometheo attingeva acqua alla polla formata dalla cascata.
-Io dico che dovrebbe essere la povera gente. Quella che ha in mano armi che non sa nemmeno usare. Voglio che tutti capiscano di essere stati presi in giro, su tutti i fronti. Nessuno si preoccupa davvero di governare, tutti si preoccupano solo di quanto potere possono assorbire. Voglio mandare in onda la caduta delle Istituzioni e svegliare Elladia. Qualsiasi Governo nasca da questa presa di potere sarà un degno punto di partenza per la vera Aughènea…-
Fobos sorrise fra i miei capelli, mentre la sua aurea mi accarezzava la pelle e si incendiava di orgoglio.
-Si proprio un’idealista-, sdrammatizzò con un sorriso, prima che tornassi in casa.
Decisi di fare una doccia calda per distendere i nervi e ritrovare la me stessa decisa e forte che avevo sempre amato ostentare, poi scivolai in un paio di pantaloni e in una camicia pulita. Tornai in salotto, ma Fobos non c’era, così mi diressi in camera.
L’Ibrido era placidamente steso sul letto con le braccia dietro al capo e i piedi mezzi fuori dal materasso. Aveva gli occhi socchiusi e i capelli corvini sparpagliati attorno al capo e sul petto. Respirava appena, sollevando il torace e facendo affiorare le costole ad ogni respiro. Le cicatrici che gli ricoprivano i fianchi e le braccia risplendevano di un lucore quasi lattiginoso e gli anellini alle sue labbra riflettevano il loro colore cangiante su tutto il suo corpo. Era strano vederlo così immobile e tranquillo, con la guardia abbassata. Osservai i nervi delle braccia e il lento pulsare delle vene sul collo: se lo avessi attaccato, lo avrei sopraffatto in men che non si dica. Scivolai con lo sguardo lungo lo sterno, seguendo il contorno dei suoi addominali accennati e poi finendo ad osservare le cicatrici lungo i fianchi e l’ombelico, in tutto e per tutto simile al mio. Mi accorsi che aveva calciato via gli anfibi e slacciato i pantaloni. Osservai il bordo dei jeans, i lembi di tessuto scostati e il bianco della pelle che vi scivolava dentro.
Mi domandai perché fossi così attratta da lui, ma non trovai alcuna risposta.
-Che hai? Il gatto ti ha mangiato la lingua? -, ridacchiò Fobos, così abituato a sentirmi parlare, da trovare strano il mio improvviso silenzio. Aveva appena schiuso le ciglia, lasciando che l’ambra dei suoi occhi si tingesse della tonalità aranciata della lanterna che bruciava indisturbata. Mi guardava senza cattiveria, ma solo con una disarmante fissità. Non sembrava imbarazzarsi nel fissare le persone negli occhi, dritto nell’anima, ma di questo non me ne stupivo affatto. Fobos era schietto e diretto in tutto ciò che diceva e faceva: la disillusione e il raziocinio, infatti, facevano intrinsecamente parte della sua Natura.
Lo ignorai e mi sedetti sul bordo opposto del letto, pettinandomi lentamente i lunghi capelli ancora fradici. Li stavo giusto spostando di lato per facilitarmi il compito quando sentii Fobos avvicinarsi e posarmi un bacio appena dietro l’orecchio.
Mi irrigidii istantaneamente, ma ancora una volta non mi spostai. Lasciai che Fobos mi sfiorasse il collo con la punta della lingua e mi prosciugasse i piccoli torrenti disegnati dalle goccioline di acqua, scostando i capelli con i denti quando quelle serpi nere intralciavano il suo cammino. Risalì fino alle orecchie, poi si staccò un istante, giusto il tempo per sussurrarmi qualcosa.
-Hai le orecchie bordeaux-.
Lo sentii sorridere vicino al mio viso, poi i suoi denti appuntiti si strinsero delicatamente attorno al lobo del mio orecchio. Sobbalzai, colta alla sprovvista. Avevo gli occhi spalancati, le guance in fiamme e il respiro corto. Che cosa mi stava facendo Fobos? Stava usando una qualche sorta di incantamento su di me?
-Non ti farò nulla se non vorrai-, mormorò, quando quel gioco sembrò non bastargli più.
Mi afferrò per un braccio e, senza troppi preamboli, mi fece stendere sul letto. Sentii le lenzuola cedere sotto il peso del ragazzo e, in un battibaleno, l’Ibrido si sistemò a cavalcioni sopra di me. Si reggeva sulle braccia, premendo le mani contro il cuscino e usando gli avambracci come sbarre per impedirmi di sfuggire ad un suo eventuale bacio.
Deglutii, nervosa. Sembrava un lupo affamato con quei capelli neri che mi ricadevano sul seno e quel sorriso appuntito, eppure i suoi occhi risplendevano di una luce diversa, di una dolcezza malcelata e un po’ indomita.
-Cosa vuoi farmi? -, balbettai, osservandomi attorno in cerca di una via di fuga.
-Secondo te? -.
I miei occhi si spalancarono per l’imbarazzo quando Fobos staccò una mano dal cuscino sdrucito e la appoggiò sul mio ginocchio.
-In fin dei conti sono un uomo. Che cosa ti aspettavi da me? -, ghignò, facendo tintinnare i due anellini ancorati alle labbra. Il mio cuore ebbe un sussulto: la sua mano si era spostata senza che me ne fossi accorta e mi stava accarezzando la gamba. Sentivo il calore del suo tocco attraverso la stoffa dei pantaloni; stava risalendo verso le cosce, pizzicandomi la pelle di tanto in tanto e causandomi fremiti in tutto il corpo.
Sollevai il viso per osservarlo, per capire cosa Fobos stesse pensando, quali emozioni colorassero la sua aurea. Ed i
suoi occhi non mentivano. Avrebbe preso l’unica cosa preziosa che mi era rimasta. Avrei potuto donare me stessa ad un uomo diverso, ad un uomo che magari avrei sposato e con cui avrei avuto una famiglia un giorno. Era quello che ogni donna auspicava per se stessa, no? L’Amore. Ma io non mi auguravo minimamente nulla del genere. Cosa me ne facevo di un sogno simile quando l’uomo che desideravo avrebbe potuto morire in qualsiasi momento? Quando io stessa ero imprigionata in una realtà che non aveva spazio per una come me? Desideravo solamente completare l’oscurità di Fobos, dimenticare le nostre differenze e azzerare la nostra distanza. Sentivo che c’era qualcosa in quel ragazzo che era stato creato appositamente per me, che io ero l’unica persona al mondo che avrebbe mai potuto stare al suo fianco. Potevo essere forte, potevo raggiungerlo e potevo guardarlo da pari. Potevo, per una notte, smettere di odiare i suoi difetti e scoprire quella bellezza che sapevo nascondersi nel suo cuore.  Così alla fine cedetti di fronte alla sua presa di posizione.
Le sue mani non indugiarono oltre.  Scivolarono lungo il profilo dei seni, proseguirono lungo il costato, sulla traiettoria dell’ombelico e infine si soffermarono sulla pelle che scompariva al di sotto della cinta dei pantaloni. Inspirai a fondo. Non ero più lucida e il mio cuore stava esplodendo cercando di tenere il ritmo dei miei respiri. Anche Fobos sembrava perso, con gli occhi lucidi e le labbra socchiuse. Stava armeggiando già da qualche istante con il bottone dei miei pantaloni, cercando di sbloccarlo d’asola, ma questo opponeva l’ultima strenua resistenza, cercando di preservarmi da quell’amore bizzarro e pericoloso. Solo grazie all’insistenza di Fobos, questo cedette, scoprendo la biancheria sottostante e facendo lentamente scivolare verso il basso la zip.  Nel frattempo anche le mie mani avevano preso vita propria e avevano cominciato ad esplorare il corpo di Fobos, analizzando ogni muscolo e ogni sporgenza del suo fisico asciutto. E infine, quando le mie mani ebbero percorso tutta la cartina del suo corpo, gli posai un bacio sulla cicatrice rosata che gli adornava la clavicola destra. Lui sussultò leggermente, deglutendo a vuoto, poi mi restituì il favore mordendomi con leggerezza uno zigomo. Il suo respiro mi fece sciogliere completamente e in breve tutto il mio corpo vibrò come la corda di un violino.
Forse quella sarebbe l’unica chance per noi, forse non avremmo avuto un’altra occasione. Avrei dovuto essere triste di fronte a una così cupa prospettiva, eppure il modo in cui Fobos mi baciava e mi spogliava non faceva altro che farmi desiderare di vincere quella guerra, di salvare la mia anima e la sua da quel rogo visto nel mosaico, dalla povertà delle strade e dalla disperazione di quel mondo che ci aveva vomitati per scherzo. E io non volevo rinunciare a quella sensazione di invincibilità. Per nulla al mondo.

Fobos si chinò sul mio corpo, lasciando che le punte sottili dei capelli mi solleticassero il seno e i fianchi, e per ogni sospiro che lasciò le mie labbra, lui mi regalò un bacio, un morso o una carezza, come per convincermi definitivamente che il mio posto era al suo fianco. E così alla fine cedetti definitivamente alle sue lusinghe.
Non avevo mai pensato a cosa significasse fare l’amore con un uomo né mi era mai passato per la testa che un giorno anche io sarei stata in grado di affezionarmi a tal punto ad una persona da concederle tutto, anima e corpo. Ma era successo e anche se Fobos era la persona più improbabile, ero felice. La sua dolcezza un po’ feroce e la sua urgenza mi avevano rapito, il suo modo di guardarmi e tenermi stretta mi aveva stupito e la mia capacità di stargli accanto e amarlo mi aveva svegliata. Tutte queste cose mi avevano fatto capire quanto avessi sbagliato a pensare che sarei potuta sopravvivere da sola, che avrei potuto smettere di soffrire. Perché proprio adesso che rischiavo di perdere tutto, sentivo il desiderio di ancorarmi alla vita. Perché solo mentre Fobos aderiva a me, il mio mostro era tranquillo. Perché nonostante fossimo mostri, quando lottavamo assieme diventavamo invincibili e determinati. Perché alla fine se dovevo morire, volevo almeno salvare la migliore parte di me. Quella che lui amava e ammirava.
Probabilmente per questo non chiusi mai gli occhi durante il nostro piccolo momento di intimità, forse per questo non mi dimenticai nemmeno per un secondo che ci stavamo amando sullo sfondo di una guerra, con la Morte dietro l’angolo. Forse per questo volevo ricordarmi ogni singolo fotogramma dei nostri baci, della motivazione per la quale dovevo andare avanti. Ero egoista, ma volevo per la prima volta dopo tanti anni regalarmi un futuro. Un sogno.

 

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