Le cronache dei draghi e dei re - L'apprendista di fuoco

di Rossini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il mostro di Cabuk ***
Capitolo 2: *** Il Piromante ***
Capitolo 3: *** Andalo ***
Capitolo 4: *** Maoleth Gawen Gahenna ***
Capitolo 5: *** L'ultimo Concilio ***
Capitolo 6: *** Ghiaccio, Morte, Terra, Fuoco e Metamorfosi ***
Capitolo 7: *** Ritorno dall'Ovest ***
Capitolo 8: *** Prede e predatori ***
Capitolo 9: *** La guerra dei draghi ***
Capitolo 10: *** Il volo della chimera ***
Capitolo 11: *** Doppia aggressione ***
Capitolo 12: *** La notte della rivolta ***
Capitolo 13: *** Prigionieri ***
Capitolo 14: *** Il primo giorno di un Gran Maestro ***
Capitolo 15: *** L'uomo del deserto ***
Capitolo 16: *** Vecchi e nuovi demoni ***
Capitolo 17: *** La puttana e il guerriero-ombra ***
Capitolo 18: *** La baia dei Sayun ***
Capitolo 19: *** Guerre imminenti ***
Capitolo 20: *** Valyria ***
Capitolo 21: *** La giostra della morte ***
Capitolo 22: *** La battaglia di Cowain ***
Capitolo 23: *** La forza della fede ***
Capitolo 24: *** Magia del fuoco, magia del ghiaccio ***
Capitolo 25: *** Amori infranti ***
Capitolo 26: *** Ancora guerre imminenti ***
Capitolo 27: *** Rocce e fiamme ***
Capitolo 28: *** Il demone delle ombre ***
Capitolo 29: *** La casata estinta ***
Capitolo 30: *** Nuove corone ***



Capitolo 1
*** Il mostro di Cabuk ***


Capitolo 1
IL MOSTRO DI CABUK
 
 
                «Cordell! Cordell!» esclamò Daniel di Cowain, ma il suo anziano servo continuava a fingere di non sentirlo: lo faceva ormai da diversi minuti. E per l’ennesima volta, il principe Daniel fu costretto a spronare quell’onagro pulcioso che gli avevano affidato al villaggio, affinché raggiungesse il suo simile sulla cui groppa dondolava quella vecchia carampana irrispettosa di Cordell.
                Al villaggio di Dunwark, l’ultimo delle centinaia – forse migliaia – che si erano lasciati alle spalle, gli avevano detto che quelle creature simili a cavalli, ma molto più piccole e pelose, erano le tipiche cavalcature delle isole dell’estremo nord e che sarebbero state in grado, con pochissima acqua, cibo e pochissimo riposo, di salire fin su alla cima del monte Cabuk e ridiscendere senza problemi. Ma Cordell e il principe marciavano da circa due ore; e gli asinelli parevano già stremati. Forse che quell’oste giù a Dunwark aveva osato rifilargli cavalcature inferme? Forse non sapeva che aveva a che fare con il principe Daniel di Cowain, terzo in linea di successione al trono e – per gli dèi! – figlio del suo re?
                Ma che diamine! Che gli era preso? Adesso parlava come i suoi fratelli e sorelle… Vero: lui era Daniel, principe di Cowain e terzo in linea di successione eccetera eccetera eccetera. Ma quelle erano le terre dell’estremo nord: lì per secoli un re non dovevano neanche averlo mai visto. Erano i luoghi bagnati da quell’oceano, cuore di Actonon, che marcava la linea di separazione tra il mondo che si conosceva e quello a tutti ignoto. Un blu intenso che non aveva fine, attraversato il quale gli uomini… Normalmente non tornavano. E lì, in quell’arcipelago di ghiaccio, sulla maggiore delle isole, sorgeva il monte Cabuk: la vetta più alta del mondo conosciuto. E proprio sulla cima di quel monte, Daniel e il suo fedele servo Cordell si stavano recando.
                Gli uomini e le donne di Dunwark, così come gli uomini e le donne di almeno le ultime due dozzine di villaggi che Daniel e Cordell avevano dietro di loro, fondamentalmente erano tutti coltivatori di tuberi, scavatori di montagne e – i più fortunati di loro – mercanti all’ingrosso di metalli, leghe e pietre preziose. Per la gran parte erano governati da signorotti locali, sulla carta fedeli al re, ma in pratica quasi sempre liberi di determinare il bello e il cattivo tempo sulla vita dei loro poveri e analfabeti sudditi con pochissime aspettative. Da un paio di giorni il principe rifletteva che se fosse stato il re, se mai gli fosse capitato, uno dei suoi sogni che avrebbe cercato di realizzare – anche se sarebbe stato complesso pure per il re – sarebbe stato garantire un’istruzione anche minima a qualsiasi suo suddito, di qualsiasi regno o territorio che facesse capo alla sua autorità. Un’utopia più che un programma politico, certo, ma d’altronde lui non sarebbe mai stato re.
                Era proprio per questo che da circa un anno, con i mezzi più vari ed eventuali, marciava senza sosta verso Cabuk, con la sola compagnia del suo affezionato ma un po’ rincitrullito servo. Da che mondo è mondo, il figlio secondogenito del re marcia per Cabuk. Anche se forse – Daniel non era sicuro – non era mai capitato nella storia che un principe partisse perfino fin giù da Cowain. Probabilmente, se mai sarebbe stato ricordato, lui sarebbe stato ricordato come il principe che per fare il suo dovere, per eseguire gli ordini di suo padre, che a loro volta derivavano da una tra le più sacre tradizioni su cui si fondava il regno intero, aveva fatto il viaggio più lungo. Se fosse partito dalla Capitale, senza dubbio si sarebbe risparmiato metà della trafila. Ma quando aveva quindici anni, il suo caro ed affezionatissimo padre – nonché il re – gli aveva affidato il governo di una delle dipendenze più a sud dell’intero regno, per l’appunto il principato di Cowain, che mai, fino ad allora, era stato retto da un erede al trono. Per certi versi, la sua cara Cowain ricordava a Daniel le inospitali isole del nord. Anche a Cowain l’autorità reale era perlopiù sconosciuta, e anche a Cowain, quelli che campavano, campavano di commercio. Solo che a Cowain era sempre estate. E questo ora si stava rivelando un bel problema! A Cowain Daniel poteva fare il bagno nella baia personale del principe, senza mai rischiare di morire assiderato, cosa invece che sicuramente sarebbe accaduta se mai si fosse sognato di immergere anche solo una falange nelle acque del cuore di Actonon. A Cowain, tutto era sempre caldo: il mare era sempre caldo, il clima era sempre caldo, il cibo era sempre caldo e la gente era sempre calda. Per non parlare poi delle donne…
                Lì nel nord, se non era necessario, non parlava mai nessuno. E nessuno sorrideva mai, tanto che alla decima volta che il principe Daniel cercò di farlo con un tizio che gli stava dando delle informazioni, si sentì talmente un idiota che decise di non azzardarsi mai più: comunque, non fin quando sarebbe ridisceso, maturo e completamente rinnovato, giù dal pendio della Montagna. Contava che avrebbe passato lassù, se tutto sarebbe andato per il verso giusto, non meno di un lustro. E se qualcosa fosse andato male, anche più d’uno. Non gli andava: odiava il fatto che gliel’avessero imposto, odiava la ragione per cui gliel’avevano imposto, e ad ogni modo odiava chi gliel’aveva imposto. Odiava l’aver lasciato Cowain, odiava la gente di quel luogo, sempre così frigida e sottomessa, e soprattutto odiava quel clima. Sempre rannicchiato, coperto da pelli e pelli di animali mai sufficienti, sempre a soffiarsi le mani, come vano tentativo di riscaldarsi le nocche sempre gelate: dal suo fiato non usciva più calore da mesi ormai, solo ghiaccio. Neve e ghiaccio in ogni dove. Questa sarebbe stata una tortura per tutti gli uomini al di fuori di quelle dannate isole, figurarsi per lui che riusciva ad avvertire un certo freddino anche nella brevissima stagione autunnale di Cowain, che non durava mai più di un paio di settimane.
                All’origine, quando per il suo quindicesimo anno d’età, suo padre gli disse dinanzi a tutta la corte che per lui aveva scelto Cowain, Daniel aveva pianto. Non davanti a tutti, naturalmente: queste sono le basi del costume della casa reale, che lui aveva appreso fin da bambino: un lord non piange mai in pubblico! Ma alla sera, con Cordell, si sfogò e pianse fin quando trovò il sonno. Che il principe secondogenito dovesse lasciare la casa reale all’età di quindici anni per governare un territorio del re lontano dalla Capitale, lo sapeva da sempre: era la legge ad imporlo. Ma che il re avesse scelto per lui proprio il luogo possibile più distante, questo lo considerò uno sgarbo. Come detto prima, non era mai successo che un sovrano confinasse il proprio figlio fin giù a Cowain! A Cowain né i sudditi, ma nemmeno le autorità locali, erano abituate a lasciarsi comandare da qualcuno che aveva sul petto il vessillo del re. E questo significava che, magari, Daniel stava mettendo in gioco molto più che il proprio prestigio, o quello della sua casata… Lì ne andava della sua vita. Andare in un regno di uomini liberi, con la sola compagnia di Cordell e di un manipolo di cavalieri al soldo di suo padre, e dire: “bene signori, da questo momento qui comando io”, non gli pareva né onesto, né saggio, e tantomeno sicuro. Suo zio Constant, fratello del re e divenuto quinto in ordine di successione da quando il fratello maggiore di Daniel aveva avuto un frugoletto la primavera precedente, al tempo dei suoi quindici anni era stato mandato nel regno praticamente più prossimo alla Capitale! E così anche per Duhenlar, fratello del padre del re. Perché per lui Cowain?! Non si era forse dimostrato fedele al suo limitato fratello, al suo dispotico padre, alla sua maledetta casata?
                Tutti sapevano che la ragione per cui la legge imponeva l’allontanamento dei figli maschi dalla Capitale una volta raggiunto il quindicesimo anno d’età, era che in qualche modo si voleva evitare un ritorno all’epoca delle grandi guerre, in cui troppi sovrani si dividevano un regno stanco e insanguinato, uccidendosi tra fratelli e cugini. Da circa un millennio, ormai questo non accadeva più perché a tutti i membri della casa reale veniva garantito per legge un luogo in cui, con le dovute misure, poter essere sovrani. Serviti, riveriti, rispettati, temuti, amati. In cambio la legge imponeva ai lord eredi la fedeltà al re di tutti i regni e quindi, in buona sostanza, la non belligeranza. Col passare dei secoli, la norma scritta su un pezzo di carta divenne prima costume, poi tradizione e infine leggenda. E quando lo fece, alla ragione dovuta agli agi di cui i lord erano satolli nei regni dei quali erano sovrani, si aggiunse quella del rispetto, quasi del timore, per l’usanza divenuta mito. Tutti cominciarono a dire: “nessuno prima di me ha mai violato quella norma, perciò non sarò io a farlo”, e così le istituzioni del regno unificato erano sopravvissute nel corso dei secoli. Tremando qualche volta, vacillando magari. Ma mai veramente cadendo, come accaduto nei tempi remoti.
                La ragione della norma era per Daniel cristallina: aveva studiato per intero tutti i costumi, le leggi, le tradizioni del regno fin dalla sua infanzia. Ne aveva studiata la storia, e quindi conosceva anche le ragioni che si celavano dietro a quelle norme. Ma che il re, pur nel rispetto dei suoi poteri, violasse un costume saldo d’un ottantennio, di non spedire mai un secondogenito troppo distante dalla Capitale, questo il principe non riusciva a spiegarselo. Non aveva l’ambizione di destituire suo fratello, a essere franchi con se stesso avrebbe detto che conservava anche un certo timore per la carica di sovrano di tutti regni, e di certo non aveva mai dato adito di credere a nessuno che lui fosse interessato a quella carica. Dunque, non riusciva a spiegarsi Cowain in nessun modo, in nessun’altro se non quello che sospettava, avvertiva, sentiva dentro di sé fin da quand’era un soldo di cacio… Non aveva capito mai il perché, ma a questo punto gli fu chiaro come non mai che il re lo odiava. Non tanto fino ad assicurargli una morte certa, ma… Abbastanza per fargliela rischiare.
                E i primi tempi a Cowain furono duri per il principe Daniel: sommerso da tutta una serie di costumi non scritti che regolavano però nella sostanza la vita e la politica della cittadina dove è sempre estate, il secondogenito del re avvertì come non mai la lontananza di sua madre, e dei suoi fratelli e sorelle, coi quali peraltro i rapporti non erano mai stati idilliaci, ma… Cowain riuscì a fargli rimpiangere anche quello, all’inizio. Dopodiché si abituò al clima in primis, e poi alle donne. Quelle furono le porte per un nuovo mondo, il mondo dell’ottimismo. Un mondo in cui tutti erano cordiali e simpatici, e gli lasciavano fare quel che voleva, se lui lasciava fare a loro quello che loro volevano. Solo che di quel mondo, e a differenza di quello da cui proveniva, lui era il re. In fin dei conti, si ritenne fortunato. Continuò a pensare che ci fosse stata della malizia nella scelta di suo padre di fare di lui il principe di Cowain. Ma la verità era che più si guardava intorno più si rendeva conto di essere sovrano di un paradiso e di conseguenza anche i cattivi pensieri finirono per abbandonarlo. Provò solo un po’ di tristezza nel sapere dove il re avesse deciso di mandare, due anni dopo, suo fratello Marcus, anche lui al compimento del quindicesimo anno d’età. Povero, povero Marcus… Anche se questo, in fin dei conti, non poté che consolare il principe di Cowain poiché se anche Marcus era finito così, voleva dire che dunque loro padre non ce l’aveva con Daniel. Almeno, non esclusivamente.
                Ma la legge del regno non aveva ancora cessato di importunare la vita del figlio secondogenito del re, quello che Daniel cominciò a considerare per tradizione sempre il più malaugurato della dinastia. Sì, perché la legge prevedeva che l’erede primogenito doveva essere il nuovo sovrano del regno, il governatore assoluto in capo al quale sarebbero risiedute tutte le decisioni. Ma il secondogenito ne doveva essere il custode, il primo tra i protettori. Il più fedele tra quei lord sovrani dei vari regni che alla corona centrale dovevano giurare la propria fedeltà. E quindi il capo di tutta la guardia o, come enunciava nello specifico l’arcaico testo della normativa… Il primo cavaliere.
                Nel testo si prescriveva dunque che una volta maturato il quindicenne secondo erede dopo un periodo di governo di un qualche regno o città importante, allargatasi la sua mente e tempratosi il suo carattere, all’età di ventuno anni egli sarebbe stato pronto per un nuovo viaggio alla volta di un tipo di istruzione esclusivamente riservata ai primi cavalieri del re. Un istruzione che andava ben al di là, della legge, tradizione e storia che Daniel aveva studiate fino a quel momento. Un’istruzione segreta, tramandata solo da pochi, e che concerneva arti più simili a quelle degli dèi che a quelle degli uomini. Nessuno tranne questa riservatissima casta di prescritti ne conosceva gli arcani. E questa era da sempre stata una delle poche cose che a Daniel di Cowain in qualche modo facevano rivalutare in positivo il suo ruolo di secondo in linea di successione. Il brutto era che per apprendere tali misteriose arti, da secoli ormai bisognava recarsi nelle isole dell’estremo nord, fin su alla montagna che reggeva il cielo, l’inospitale, glaciale, vetta di Cabuk. Già suo zio Constant aveva fatto quel viaggio, e così suo prozio Duhenlar prima di lui. Ma poi basta: nessun altro che Daniel avesse mai conosciuto personalmente. Solo nomi dimenticati in vecchi tomi della biblioteca del palazzo reale: perfino certi re, qualche rarissima volta, erano stati in grado di usare le arti degli déi. Ma quelle erano le eccezioni: la magia era cosa da protettori del regno, non da suoi sovrani.
                Daniel aveva compiuto ventuno anni da un anno, e nel corso di tutto quell’anno aveva viaggiato: da Cowain a Cabuk. Dall’estate all’inverno. E quello era il giorno del suo ventiduesimo compleanno.
                Galoppando con passo un po’ più veloce verso il suo servo che lo precedeva, il signore di Cowain lo raggiunse e gli disse: «Hey, Cordell…»
                «Sì, signore?» rispose quello, voce fiacca come un sospiro, sguardo fisso sulla strada. Il principe continuò: «Non ti paiono stremati questi animali?»
                «Sì, signore»
                «Ma l’oste… L’oste giù a Dunwark ci aveva detto che avrebbero marciato fino in cima!»
                «Sì, signore»
                «Senza stancarsi!»
                «Constatazione brillante, signore, ma non utile»
                «Che cosa intendi?»
                «Non possiamo tornare indietro»
                «Sì, lo so. Sarebbe vano: gli asinelli morirebbero comunque di stanchezza e noi… Perderemmo un altro giorno di viaggio»
                «Signore, vorrà dire che faremo una pausa a metà tragitto e… Riprenderemo domattina col sole alto. Ma non mi pare il caso di ridiscendere a valle»
                «No, nemmeno a me, in effetti». Ricominciarono a marciare. Per Daniel fu irresistibile, socchiuse per un momento gli occhi e ripensò a Cowain, al sole, al mare… Al seno sodo di Xalandra, la puttana che aveva nominato reggente durante il periodo della sua assenza. Sospirando con delusione, disse: «Ah, che bel compleanno! Di questi tempi, l’anno scorso ero alla mia bella baia… I raggi caldi che mi accarezzavano il viso, la spuma delle onde che mi massaggiava i piedi… E Xalandra china ad occuparsi del mio…»
                «Signore, la malinconia è futile in alta montagna. Si consigliano mantelli robusti, calzoni doppi e… Una razione di sano ottimismo»
                «Ah! Sano ottimismo!» rise Daniel, sarcastico; e incalzò il suo servo: «Per esempio?»
                «Beh per esempio perché non pensate a dove vi troverete di questi tempi nel vostro futuro, anziché dove vi trovavate di questi tempi nel vostro passato?»
                «Illuminami mio attempato e saccente servitore: dove sarò di questi tempi nel mio futuro?»
                «Sarete alla Capitale, al fianco di vostro fratello. E sarete uno degli uomini più potenti del regno, e di sicuro il più temuto. Colto, savio: i più importanti tra gli uomini del regno ambiranno al vostro consiglio, e voi potrete farvelo pagare a peso d’oro o… In qualsiasi altro modo desideriate. E se sono le peripatetiche quello che più vi manca, considerate che godrete della bellezza di quelle della vostra corte signorile: più bionde di quelle di Cowain, più alte»
                «Io le donne le preferisco more…»
                «E assolutamente gratuite»
                «Davvero?»
                «Certo, signore»
                «Parli… Per esperienza personale, vecchio imbroglione? Ahah», il principe Daniel non poté trattenersi: troppo poche erano state le occasioni di ridere nel corso di quel viaggio e lui, che normalmente era un individuo allegro, non voleva lasciarsene scappare neanche una. Cordell, invece non era un tipo dalla risata facile, e neanche quella volta deluse il suo signore. Il principe cambiò argomento: «Senti, io non ho prestato molta attenzione, ma tu… Non credi che magari ci siamo già imbattuti nella Grande Quercia e siamo semplicemente andati avanti come se niente fosse?»
                «Impossibile, signore…»
                «Perché?»
                «Beh, vedete la Grande Quercia… È veramente molto grande!»
                «Molto grande quanto?»
                «Non potremo evitare di vederla quando la troveremo: le sue radici ci sbarreranno la strada!»
                «Così grande?»
                «Sì, signore».
                Il vento si era alzato. E con esso anche la nebbia e il freddo. All’orizzonte, Daniel di Cowain non riusciva più a scorgere nient’altro se non Cordell in groppa al suo asinello peloso. E più si alzava il vento, più il morale del principe ereditario scendeva. Aveva sperato, perché così tutte le teorie gli avevano detto, che in quel giorno – pur sfinendo se stesso e il suo destriero – sarebbe riuscito a raggiungere la vetta. E ci sarebbe arrivato entro la mezzanotte del giorno del suo compleanno! Ma con quel tempo, volenti o nolenti, lui e Cordell avrebbero dovuto fermarsi o gli onagri sarebbero morti sul serio. Prese una decisione e decise di gridarla al suo inserviente, distante da lui un paio di metri: «Cordell!». Cordell non rispose, e Daniel sforzò la gola: «CORDELL!!». Non riuscì a distinguere se il vecchio si fosse fermato o meno, ma di sicuro fu lui a rispondere: «Sì?!»
                «CERCHIAMO UN LUOGO RIPARATO DOVE RIPOSARE?»
                «SÌ!». Stavolta lo distinse chiaramente: il suo servo si era fermato. Con il vento contrario, cercò di avvicinarglisi ma… C’era qualcosa. Qualcosa si era materializzato a metà tra il punto dove si trovava Cordell e quello dove si trovava lui. Si muoveva; era una figura antropomorfa. Un brivido, non di freddo, corse lungo la schiena del sovrano di Cowain quando si rese conto che la creatura aveva scelto di avvicinarsi a lui. Inizialmente, Daniel rimase immobile cercando di capire di chi o di che cosa si trattasse… Realizzò che non era umano. Non riusciva a capire se fosse a causa della nebbia, ma era come se le braccia, le gambe e il volto di quel viso non fossero fatti di carne, ma di aria e ghiaccio. Oh di sicuro aveva una veste, grigia, particolarmente leggera per le vette più alte del mondo. E di sicuro aveva guanti, e stivali… Aveva come dei capelli lisci e lunghi, ma non erano capelli… Erano neve.
                L’istinto, consigliò al principe di Cowain di voltarsi e scappare. Niente da fare: l’uomo di ghiaccio gli comparì davanti, molto più vicino di quanto non fosse stato prima, anzi: a pochi centimetri. Daniel era impietrito. Il mostro fece qualche passo, e allungò il guanto verso la cavalcatura del principe. Daniel osservò che la punta di quelle dita di pelle era come composta da degli affilati cristalli di ghiaccio. Al solo tocco della creatura, l’animale divenne immantinente una statua. Inorridito, il signore di Cowain cadde e fece per strisciare verso la direzione opposta, quindi nuovamente alla volta di Cordell, e della vetta di Cabuk. Inutile, tutto inutile: gli stivali del mostro gli sbarrarono ancora la strada. Lo afferrò per il collo del mantello, sollevandolo… E Daniel vide con orrore un’immagine che avrebbe continuato a perseguitarlo per il resto della sua vita, se fosse sopravvissuto: un teschio sorridente. E nero. Stava per fare qualcosa; Daniel non aveva idea di che cosa, ma era sicuro che quel sorriso significava per lui l’inizio della fine. O forse, non era esattamente così?
                Una lama trafisse il petto dello scheletro di ghiaccio. La cosa sorprese anche il mostro, a giudicare dalla sua espressione, se “espressione” avrebbe mai potuto definirsi quella smorfia di morte che aveva sulla superficie della faccia. E, come se ancora non avesse visto niente, Daniel assistette a un’altra diavoleria: al posto della mandibola del teschio comparve la sua nuca, al posto dei suoi avambracci i suoi gomiti, e al posto del suo petto le sue spalle. Adesso era di schiena.
                La lama che aveva trafitto lo scheletro di ghiaccio, naturalmente, apparteneva alla spada di Cordell. Cordell era stato capo della guardia del palazzo reale un tempo e a quel tempo era stato un abile spadaccino: non molto resistente, ma agile, silenzioso e letale. Era anziano, ma Daniel di Cowain continuava ad avere rispetto, e un po’ di timore, per la sua maestria. Non aveva mai dubitato dell’altissima qualità di Cordell come sua personale guardia del corpo, eppure quello era un nemico contro il quale alcuna mano umana poteva essere efficace: questo ormai era chiaro. Il mostro scaraventò Cordell a metri da loro, con un pugno che quando fu alzato sollevò con sé anche la forza del vento. Cordell praticamente scomparve, e di nuovo il mostro di ghiaccio rivolse tutte le sue attenzione a Daniel di Cowain. Lui cominciò a chiedersi che diavolo volesse da lui: aveva pietrificato il suo onagro in quattro e quattr’otto, se avesse voluto farlo anche con lui… Poteva farlo. Invece, per qualche ragione… Lo contemplava. Era chiaro che il suo interesse per il figlio secondogenito della casa reale non si limitava alla mera ricerca di cibo, o diletto.
                Daniel cominciò a smettere di porsi delle domande, quando il mostro decise di trafiggere anche lui con i suoi artigli di ghiaccio. Il freddo più intenso che il principe avesse mai avvertito. Un dolore lancinante: come se le lame non fossero cinque, ma mille. Eppure, lui non divenne ghiaccio seduta stante, come il suo asino. Questo non parve sorprendere più di tanto il demonio bianco e nero, che dal canto suo continuò a inserire i suoi cristalli nelle carni del povero principe che, a poco a poco, per il dolore, la stanchezza, e la paura, stava cominciando a perdere i sensi. La sua vista iniziò a farsi sempre più appannata, sempre più appannata, sempre più appannata… Fino a quando, il signore di Cowain non udì giungere un suono. Una profonda voce baritonale, robusta e impetuosa, si alzava dalla montagna…
                «Maoleth Gawen Gahenna! Maoleth Gawen Gahenna! Maoleth Gawen Gahenna!». Questo, per qualche motivo, causò l’irritazione del demonio. Mentre la voce non cessava di ripetere sempre la stessa formula, il mostro si limitò a estratte i suoi artigli dal fianco di Daniel, e a cacciare un urlo, acutissimo e simile allo strillo di un uccello deforme. E un uccello deforme, osseo e senza piume, planò dall’alto e si presentò al cospetto del demone antropomorfo dai capelli di neve. Era enorme. Il demone salì sulla creatura e scomparve. Il vento si quietò tutto insieme, e Daniel riuscì a chiudere gli occhi.
                Li riaprì. Come se per quel giorno non ne avesse già viste abbastanza di strane creature, e nonostante una vista un po’ a intermittenza, riuscì a distinguere due sagome… La prima, fu riconosciuta subito: il principe gli era troppo affezionato; era quella del vecchio bacucco ex spadaccino che da anni era il suo migliore amico: Cordell. L’altra, era quella del più basso degli uomini che Daniel avesse mai visto. Non era un nano: Daniel ne aveva visti diversi a corte, e quello non era un nano né un goblin. Era un uomo: ma un uomo di statura decisamente infima. Curvo, con foltissime sopracciglia bianche e una corona di capelli tutt’attorno a una boccia centrale pelata: doveva avere almeno cent’anni!
                Tutto innervosito, il nanerottolo si rivolse a Cordell: «Ma che diavolo era quell’affare?». Stupito almeno quanto Daniel stesso, l’anziano servitore rispose pacatamente: «Lo chiedete voi a me
                «Certo! Lo chiedo io al vostro brutto ceffo forestiero!»
                «Non ne ho la più pallida idea, signore… Noi saliamo da Dunwark per incontrare…»
                «Non s’era mai visto nulla di simile qui a Cabuk! Fidati di me, figliolo: abito qui da molti più anni di quanti me ne piaccia ricordare! Di qualsiasi cosa si trattasse, l’avete portata voi!»
                «Neanch’io l’avevo mai vista!».
                A questo punto, il vecchietto (che aveva chiamato l’ultracinquantenne Cordell “figliolo”), si avvicinò direttamente a Daniel, fino ad allora rimasto in silenzio e comunque dubbioso sul fatto di avere la forza di parlare. «E tu, ragazzo?» gli disse dunque il vecchio, piano «L’avevi mai veduta quella strana… Cosa?». Poi rivolto a Cordell: «Questo qui sta molto male! Bisogna medicargli la ferità al più presto!». Una pausa a effetto e infine: «Mi seguirete alla mia dimora! Chi siete, comunque?»
                «Io sono Sir Cordell dei Piani di Steel» rispose Cordell «E quegli è Daniel di Cowain, secondogenito della casa reale e terzo in linea di successione al trono»
                «Come?!» fece stupito l’anziano bassotto «Quello è un secondogenito della casa reale?»
                «Sissignore. Siamo partiti fin da Cowain per…»
                «Non ho idea di dove si trovi Cowain, e comunque poco me ne importa. Non oltrepasserete la Grande Quercia!»
                «È necessario»
                «Io non ho ricevuto alcun ordine, né informazione che sarebbe arrivato un secondogenito, perciò non passerete!»
                «Per forza che non l’avete ricevuta: la missiva è qui con me» Cordell si frugò nelle tasche e ne trasse una piccola pergamena; continuò: «Sua maestà riteneva l’argomento di una natura troppo delicata perché fosse affidato ad araldi che avrebbero dovuto comunque attraversare mezzo regno! Ha creduto più utile far viaggiare la lettera insieme all’oggetto della sua informazione, di modo da poterne garantire meglio l’avvenuto recapito»
                «Questo è… Davvero poco ortodosso! E non so fino a che punto potrà essere ritenuto accettabile…»
                «Signore… Mi duole ricordarvi che il volere di un re è ordine»
                «E a me duole ricordarvi, signore, che dietro quella cima è l’unico posto al mondo in cui se si rispetterà mai il volere del re, potrà essere solo una questione di stima. Mai una questione di timore!» il vecchio sorrise maliardo, dietro a quei suoi foltissimi baffoni bianchi. Riprese: «Posso vedere la lettera?»; Cordell gliela porse, ma l’uomo non l’aprì, si limitò ad osservarne il sigillo di cera rossa. Infine concluse: «Mi seguirete fino alla Grande Quercia e lì medicherò il ragazzo. Dopodiché tornerete a Dunwark, messere dei Piani di Steel. Il secondogenito riprenderà l’itinerario, da solo»
                «E questo non è forse “davvero poco ortodosso”?»
                «Probabilmente sì: ma è già assai spiacevole un solo ospite senza preavviso; figuratevi due! Questa montagna, messer cavaliere, è il luogo più freddo e inospitale del mondo: non c’è cibo per i convitati. Né acqua! E io di certo non rinuncerò alla mia razione giornaliera di zuppa calda per darla a voi…». Cordell rimase in silenzio per qualche secondo. Dunque rispose: «Vi seguirò alla vostra dimora»
                «E poi?» sorrise il centenario. Cordell decise di assecondarlo: «Poi ridiscenderò a Dunwark. Il principe proseguirà il viaggio da solo»
                «Bravo: così mi piacete, caro il mio cavaliere del re» e dicendo questo il vecchio dall’infima statura si avvolse nel suo massiccio mantello di pesante sacco, e riprese la strada. Cercando come meglio poteva di caricare Daniel sulla groppa dell’unico onagro rimastogli, il servo Cordell rispose: «Io non sono un cavaliere del re. Non più, ormai». E anche i due cittadini del sud ripresero la loro marcia, alla volta della Grande Quercia.
                Ma Daniel non stava bene: nonostante tutto al di fuori di lui gli sembrasse gelido come la morte, sentiva la sua pelle scottare: la febbre lo stava prendendo; una febbre anomala, causata dalla ferita che quell’essere altrettanto anomalo gli aveva aperto sul fianco destro. Sentiva che non sarebbe stato facile curare quei tagli… Non se non si fosse adoperata la magia: il vecchietto che li stava guidando ne era forse in grado? Era magia quella voce che pronunciando parole oscure aveva scacciato il mostro di ghiaccio? E soprattutto apparteneva a lui? Mai come ora il principe di Cowain si era sentito in pericolo di vita; mai aveva provato un timore così disperato, né un dolore così lancinante che, nonostante la dipartita del mostro che gliel’aveva causato, non si decideva a diminuire d’intensità. Decise che, se lo avesse salvato, avrebbe considerato quel basso vecchio montanaro suo creditore per la vita. E, checché ne dicessero suo padre e i suoi fratelli, un leone ruggente scintillava inciso anche sul vessillo che Daniel aveva al proprio petto. In fin dei conti era un Lannister anche lui; e un Lannister paga sempre i suoi debiti.
 
 

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Capitolo 2
*** Il Piromante ***


Capitolo 2
IL PIROMANTE
 
 

                La ferita continuava a bruciare e la febbre ad aumentare, e non ci volle molto prima che Daniel cadde in un sonno profondo. E vide Cowain, e la baia con le onde, e il sole che lo riscaldava,oh quanto era bello, e Xalandra che lo coccolava; vide tutto ciò che nella sua sventurata vita si era poi rivelato il luogo più ameno di sempre. Aveva forse raggiunto la fine della sua vita? Le storie narrano da sempre che chi è in procinto di morte riveda in un baleno tutta la propria vita, generalmente tutti gli avvenimenti più belli, e stranamente non lo sorprese di non aver avuto alcuna visione su suo padre,o sua madre e i suoi fratelli,o di tutti quei bugiardi ruffiani di corte. Beh,quantomeno il dolore sembrava cessato... forse una volta e per tutte. Ma qualcuno lo stava chiamando,qualcuno stava tentando di riportarlo a quella brutta e gelida realtà...e il dolore riprese;si stava svegliando...chi mai poteva volergli così male?
                «Signore,svegliatevi!Svegliatevi, vi prego!» disse Cordell dando qualche sberla sulla guancia di Daniel. «S-Sono... vivo?» chiese Daniel riaprendo,con un pizzico di amarezza,gli occhi stanchi.
                Ciò che vide però non fu la bufera,la neve e il ghiaccio tipici del monte Cabuk: si trovava in un edificio di modeste dimensioni, vecchio e malandato, una catapecchia insomma; di sicuro non una delle sue camere lussuose giù a Cowain,ma certamente era meglio che restare fuori tra la neve. Al centro di quella dimora c’era un fuoco acceso sul quale era posto un piccolo pentolone che emanava un profumino niente male. Daniel era disteso su un lettino ed era quasi interamente nudo; alla sua sinistra c’era Cordell che sfoggiava una smorfia in volto, un misto tra un sorriso e quella espressione sempre seria tipica del suo servitore; alla sua destra il suo vecchio salvatore era ricurvo sulla ferita al fianco, armeggiando con bende e strane lozioni.
                Il dolore riapparve e con esso anche il calore in testa causato dalla febbre.
                «Cosa era quella creatura? Non avevo mai visto nulla del genere prima d’ora» disse Daniel ricordando con disgusto e paura i lineamenti di quel demone. «Non lo sappiamo» dissero all’unisono Cordell e l’uomo anziano. Daniel parve chiaramente insoddisfatto dalla risposta.
                «Siete un Gran Maestro?» chiese Daniel speranzoso al vecchio che sembrava sapere il fatto suo con quei medicamenti. «No, giovanotto, mi spiace... non riuscirò a guarire quella ferita, è una ferita magica...». Daniel fu pervaso dalla rabbia; stava morendo e non sapeva nemmeno per colpa di chi o cosa.
                «E allora perché mi state guarendo?» urlò al vecchio. «Perché non è importante che io vi guarisca del tutto,cosa che non so davvero fare, è importante che vi tenga in vita e in forze fino a che voi non siate in grado di arrivare da solo alla Grande Quercia»
                «E per quale motivo? Non posso nemmeno scegliere dove morire? Non andrò a quella stramaledettissima Grande Quercia...voglio morire qui,vicino al fuoco...»
                «E questo dovrebbe diventare un primo cavaliere?» disse il vecchio a Cordell che parve non avere alcuna risposta a quella domanda. Poi continuò: «Ragazzo, se arriverai alla Grande Quercia, il Piromante potrà guarirti; lui sono sicuro che ne abbia tutte le capacità»
                «Il Piromante? Chi è costui? È un Gran Maestro?» disse Daniel, nuovamente speranzoso «Mi salverà? Se lo farà gli farò avere il doppio del suo peso in oro come riconoscenza! Non voglio morire qui: voglio tornare a Cowain!»
                «Figliolo,il Piromante sarà colui che ti inizierà sulla strada del Primo Cavaliere, esattamente come fece con tutti i tuoi predecessori... è un individuo pieno di conoscenza e saggezza».
                Daniel ritrovò un po’ di ottimismo, poteva ancora salvarsi, diventare Primo Cavaliere e fare la bella vita senza che nessuno potesse più dirgli cosa fare; al di fuori del re certamente. Ma chi poteva mai opporsi al Primo Cavaliere? Possedere tutti quei segreti e conoscenze e quelle arti divine doveva certamente incutere timore in ogni persona con un po’ di sale in zucca, re incluso.
                «Bene, quanto dista la Grande Quercia? Mi auguro che quantomeno, mentre ero impegnato a morire, ci siamo avvicinati un bel po’» disse Daniel al suo servitore con un po’ di ironia. «Sì signore, la Grande Quercia è proprio qui fuori» rispose Cordell repentinamente. «Bene, allora sono pronto ad andare... prima finiamo, meglio è per tutti quanti; fammi strada Cordell» disse Daniel alzandosi dal letto. «Ragazzo, il tuo servitore non ti seguirà,come pattuito in precedenza» intervenne il vecchio.«Ogni primo cavaliere, da tempi immemori, fa il viaggio da solo, incontra il Piromante da solo, si allena e apprende da lui da solo e scende giù dal monte Cabuk da solo; e non ci saranno cambiamenti o eccezioni alla regola, perché il Piromante è sì saggio e disciplinato ma conosce, come tutti quanti, la rabbia e l’oltraggio, e poiché tiene al rispetto delle tradizioni, l’infrangerle potrebbe certamente causarne l’ira». Cordell non parve stupito da quelle parole, probabilmente il vecchio doveva avergliele ripetute una infinità di volte mentre Daniel era svenuto.
                «Deve essere un tipo interessante questo Piromante... ma quanti anni ha? È da secoli che praticamente addestra i primi cavalieri... e anche voi non scherzate... quanti anni avete,vecchio?». L’anziano uomo parve indaffarato a ricordare, come se davvero fosse difficilissimo dare risposta a quelle domande. Dopo una pausa, perso tra i suoi pensieri o ricordi, l’anziano uomo rispose «Non saprei, effettivamente non so rispondere alle tue domande, ragazzo». Daniel parve contrariato. La grinta ritrovata era presto svanita di fronte all’ignoranza di quel vecchio che sì lo aveva salvato, anche se solo in parte, ma che anche non aveva dato risposte soddisfacenti a tutte le sue domande.
                «Davvero non sai quanti anni abbia questo Piromante? Ma lo hai mai visto? Come è fatto? E come è possibile che tu non sappia la tua età? Sai almeno come ti chiami?» incalzò Daniel con altre domande, convinto che forse avrebbe ottenuto risposte se avesse continuato ad insistere. Poi un briciolo di buon senso prese il sopravvento, forse quell’uomo, chiaramente troppo vecchio, non era davvero in grado di rispondere, doveva essere un demente ultracentenario, magari la sua testa giocava brutti scherzi e la sua memoria lo aveva abbandonato.
                Daniel si calmò, abbassò i toni e cominciò a rivestirsi, ormai convinto che quell’uomo non potesse più dargli alcuna risposta; ed infatti l’anziano uomo sembrava nuovamente perso tra i suoi pensieri, impegnato forse a ricordare qualcosa che non sapeva più. Daniel scambiò uno sguardo col suo servitore: anche Cordell sembrava aver capito che quell’uomo era strano, ma la cosa non lo aveva turbato tanto quanto facesse con Daniel. Allo sguardo, Cordell rispose con il tipico gesto della mano che si usa quando ci si riferisce a chi deve avere problemi con la testa. Poi il vecchio parve ritornare alla realtà e rispose: «Ragazzo, non ho mai visto il Piromante, solo i futuri primi cavalieri lo incontrano di presenza...e non conosco la sua età, è lì da sempre, è li da prima che io diventassi il guardiano della Grande Quercia, la sua dimora, ma ti assicuro che è sempre la stessa persona...la sua voce infatti la riconoscerei ovunque: eseguo il suo volere sentendola nel vento, nel fuoco e oltre le porte...»
                «Di che porte parli?» lo interruppe Daniel.
                Il vecchio riprese: «Giù, dentro la Grande Quercia, risiede il Piromante, oltre enormi porte in acciaio di Valyria... solo i primi cavalieri le oltrepassano... io posso solo eseguire il suo volere ascoltando la sua voce proveniente dall’altra parte».
                Se prima l’idea di incontrare il Piromante sembrava allettante, la conoscenza di quei dettagli cominciò ad incutere un po’ di timore anche in Daniel. Effettivamente, pensò, qualcuno che insegna arti divine non doveva essere di questo mondo. Il vecchio proseguì: «Io.. .non ricordo più il mio nome, forse non l’ho mai avuto, non che qualcuno qui avesse mai avuto bisogno di usarlo in ogni caso, sono solo... e non ricordo più cosa c’era nella mia vita prima di aver udito la voce del Piromante ed eseguito il suo volere... so soltanto che son qui per servirlo e per condurre i futuri primi cavalieri al suo cospetto».
                Quel discorso rattristò Daniel: doveva essere davvero dura e deprimente vivere e parlare da soli e morire sperduto tra la neve in solitudine, senza qualcuno pronto a versare qualche lacrima o anche solo dire qualche parola sul tuo cadavere. Il vecchio si alzò, andò verso un armadio posto in un angolo della baracca, lo aprì e cercò tra il pentolame qualcosa; ne estrasse una lunga torcia di legno – sembrava pregiato – si avvicinò nuovamente al fuoco e la accese, infine la porse a Daniel dicendo: «Questo legno è sacro, è preso dalla Grande Quercia, ti illuminerà la strada e ti indicherà la via fino al Piromante. Prendilo».
                Daniel lo afferrò, la fiamma danzava e crepitava come fosse alimentata dalla magia, era un piccolo fuocherello ma illuminava forse più del fuoco acceso al centro della stanza, e sicuramente emanava più calore. Daniel Lannister fu subito ammaliato da tanto splendore e quel calore riaccese in lui il desiderio di possedere quei meravigliosi poteri da Primo Cavaliere. Il fuoco – Daniel ne era quasi certo – stava anche rinvigorendo il suo corpo: la ferita al fianco faceva molto meno male e la febbre sembrava essersi abbassata in un attimo.
                «Non lasciare che si spenga prima di aver incontrato il Piromante» aggiunse il vecchio.
                «Perché? Cosa succede se si spegne?» chiese Cordell. Anche Daniel parve interessato alla domanda,ma molto più alla risposta.
                «Non lo so, non ho mai permesso che si spegnesse» rispose il vecchio mostrando un brutto sorriso soddisfatto. Se quel vecchio voleva impaurire il secondogenito della casa reale ci stava certamente riuscendo: il possedere quel ramoscello infuocato, che fino a qualche secondo prima era auspicio di grandi cose, adesso gli metteva ansia e paura. Cordell, che leggeva Daniel come un libro aperto, intervenne per rassicurarlo: «Non capiterà nulla, è solo una torcia». Ma Daniel sapeva di non avere in mano una torcia qualsiasi, quella fiamma gli metteva paura: era magia, e con la magia non c’era da scherzare; fino a qualche minuto prima era quasi morto a causa di una ferita magica.
                Era inutile perdere altro tempo, tanto quel viaggio doveva essere portato comunque a termine, e passare altro tempo in compagnia di quel vecchio non lo rassicurava per niente; così Daniel andò alla porta, facendo molta attenzione a che la torcia non si spegnesse, e la aprì.
                Si ritrovò in cima al monte Cabuk: di fronte si stagliava un’enorme quercia, era davvero grande, forse era la cosa più grande mai vista da Daniel fino a quel momento, neppure i più grandi palazzi nobiliari della capitale erano così grandi. E stranamente non era spoglia, come ci si aspetterebbe da qualsiasi quercia in mezzo alla neve e al ghiaccio, ma aveva un mucchio di foglie colorate, rosse, gialle, arancio, come se per quella quercia non fosse ancora arrivato l’inverno, ma fosse soltanto autunno. Dalla cima non si riusciva a vedere nulla guardando in giù: la nebbia copriva tutto; lasciava solo emergere la casetta del vecchio, un po’ di neve e la Grande Quercia.
                «Entra nella Grande Quercia, segui le radici che, nel corso dei secoli, hanno scavato nel monte Cabuk la strada verso il Piromante e giunto alle porte d’acciaio porgigli i tuoi omaggi» disse il vecchio varcando verso l’esterno l’uscio di casa propria. Daniel si rivolse al suo servitore: «Cordell, spero di rivederti un giorno... se non dovessi fare ritorno, grazie di tutto; sei stato un fedele servitore. E un buon amico»
                «Oh non dite così, Signore... farete certamente ritorno, esattamente come tutti i Primi Cavalieri prima di voi, vostro zio Constant incluso... certo lui non era ferito come voi quando facemmo il viaggio insieme, ma riuscì comunque a completare il viaggio da solo» disse Cordell. «Cosa? Tu eri lì con lui? Lo hai accompagnato nel suo viaggio? Perchè non me lo hai mai detto?»
                «Signore, voi non me lo avete mai chiesto... e vostro zio Constant, dopo aver scalato metà monte e aver visto in lontananza la Grande Quercia volle proseguire da solo, e mi rimandò alla Capitale. Quindi, posso garantirvi che tecnicamente non ero mai arrivato in cima»
                «Come riuscì a vedere la Grande Quercia in lontananza, se a malapena io riuscivo a vedere te e il tuo asino a pochi metri di distanza?»
«Stranamente,quel giorno non ci fu né la nebbia né la bufera... sembrava quasi un bel viaggio in mezzo alla neve». Daniel non fu troppo sorpreso, ormai stava cominciando a farci l’abitudine con gli eventi sfortunati che lo perseguitavano nella sua vita: prima l’esilio giù a Cowain,poi il viaggio più lungo e faticoso della storia dei Primi Cavalieri, poi la bufera proprio nel giorno della scalata del monte Cabuk, poi il demone che attentava alla sua vita e infine il vecchio rimbambito…
Daniel si voltò senza dire una parola né a Cordell né al vecchio e si diresse verso la Grande Quercia.
La Grande Quercia aveva un’enorme apertura al centro, come se fosse chiaramente designata per esserne l’ingresso. Daniel entrò: dentro doveva essere buio pesto, ma la torcia che aveva in mano illuminava tutto quanto nel raggio di circa cinque metri; c’erano solo grosse radici che si avvolgevano su se stesse e che scavavano nella terra una sorta di tunnel verso il cuore del monte Cabuk. Il tunnel certamente non era stato scavato da uomini e chiaramente molte parti di questo erano difficilmente percorribili: molte volte Daniel dovette cercare un appoggio lungo la parete scavata scoscesa e molte volte dovette aggrapparsi a qualche grossa radice, ma la cosa che più lo preoccupava non era il dover fare attenzione a dove mettesse i piedi, piuttosto la paura di dover fare tutte quelle cose senza che quella torcia si spegnesse. Perché sì, quel maledettissimo vecchio, che pure gli aveva salvato la vita e che meritava la sua riconoscenza, gli aveva messo una paura indescrivibile. Ed effettivamente Daniel si rese conto che probabilmente sarebbe morto davvero senza quella torcia, perché il buio era così fitto che uscire da lì o proseguire in avanti, tra le radici e i terrazzamenti,era praticamente impossibile.
La ferita aveva ripreso a fare molto male e la febbre ad aumentare e, cosa non del tutto inaspettata, anche la fiamma nella torcia stava cominciando lentamente ad affievolirsi. Daniel capì che bisognava accelerare il passo, perché morire da solo al buio, agonizzante e dentro un albero era l’ultimo dei suoi desideri. Scese quello che sembrava l’ultimo terrazzamento e raggiunse una zona piana, che faceva ben sperare in un percorso un po’ più comodo e pianeggiante. E così fu: le radici iniziarono a scomparire dentro la roccia,la terra si appianò e divenne un enorme spiazzo. Ed eccole lì, di fronte a lui c’erano davvero quelle enormi porte in acciaio Valyriano di cui quel vecchio pazzo gli aveva parlato. Erano altissime, quasi un terzo di tutta la Grande Quercia; avevano delle incisioni lungo tutta la lunghezza in un carattere che Daniel non conosceva, doveva essere qualche lingua antica, ed erano circondate da tantissime torce spente. Subito Daniel corse ad accenderle una per una, prima che quella che teneva in mano lo abbandonasse nell’oscurità. L’enorme luce che si scaturì rassicurò l’animo del Lannister e placò il dolore alla ferita. «Una cosa è certa,da ora in poi porterò sempre con me qualche ramoscello di questo albero, così, per ogni evenienza, non si sa mai con la fortuna che mi ritrovo» disse Daniel che sembrava ormai sicuro che la sua vita dipendesse da quelle torce.
Poi una profonda voce baritonale, robusta e impetuosa, la stessa che aveva pronunciato quelle strane parole che avevano scacciato il demone del monte Cabuk echeggiò in quella specie di caverna e fece trasalire Daniel. Da oltre le porte fu chiaramente udibile: «Chi si presenta al mio cospetto?».
«Daniel Lannister, secondogenito della casata reale e terzo in linea di successione al trono, aspirante Primo Cavaliere» rispose immediatamente Daniel intimorito da quella voce, così grave e decisa. Daniel si aspettava altre domande che però non arrivarono. Poi aggiunse ancora in tono impaurito: «Sto parlando con il Piromante?». La voce rispose: «È così che una volta un Primo Cavaliere, Ser Gilligan Alonne di Forte Roccioso, decise di chiamarmi, ed è da allora che gli uomini si riferiscono a me con quel nome, il Piromante». Nuovamente ci fu una pausa che sembrò un’eternità. Poi la voce oltre le porte disse «Entra». Per Daniel più che un invito sembrò un ordine, ma sicuramente in ogni caso non si sarebbe sognato minimamente di disobbedire.
Le gigantesche porte d’acciaio cominciarono ad aprirsi nel mezzo come se fossero tirate dall’interno; Daniel valutò che sarebbe stata necessaria come minimo una cinquantina di uomini per smuovere quelle porte, o quantomeno un marchingegno ben costruito; o forse chiunque si nascondesse oltre quelle porte era così forte da riuscire a farcela da solo, o stava usando la magia… Il timore cominciò a scomparire e subentrò la curiosità: voleva vedere il fantomatico Piromante. Le porte non si aprirono completamente, l’apertura permetteva il passaggio di due, massimo tre uomini; Daniel sbirciò oltre le due porte e vide una enorme fenditura nella parete rocciosa che dava su uno strapiombo; doveva essere un fianco del monte Cabuk. In ogni caso da lì non si riusciva a vedere quasi nulla perché, e c’era da aspettarselo, la nebbia oscurava la vista di quello che doveva essere un bel paesaggio di montagna. Al centro di quell’antro un grande fuoco, il più grande mai veduto, alto circa sei metri, scoppiettava e illuminava l’area circostante. Daniel oltrepassò le porte, curioso di vedere in faccia il possessore di quella voce terrificante e ieratica allo stesso tempo, si voltò in cerca del Piromante e lo vide; tutto poteva aspettarsi tranne che quello. Era una belva enorme, ricoperta di scaglie cremisi, occhi da rettile, quattro zampe artigliate e denti aguzzi, due grosse ali richiuse adornavano la sua schiena mentre un paio di corna la sua testa: quello era chiaramente un drago, un drago come quelli che si narrano nelle grandi leggende o nelle storie per bambini. La reazione di Daniel fu spontanea: un urlo acuto e incontrollato, come fanno le ragazzine quando vedono per la prima volta la decapitazione di un malvivente, uscì alla vista di quell’imponente belva; le gambe presero a correre da sole in cerca di una via di fuga. Daniel corse il più velocemente possibile indietro verso il tunnel nella Grande Quercia, superò le porte e passò l’atrio lasciandosi alle spalle la luce delle torce e del grande falò, raggiunse l’ultimo terrazzamento del tunnel ormai immerso nell’oscurità e cominciò ad arrampicarsi alla cieca, non riuscendo chiaramente a superarlo. E così la curiosità divenne terrore, e la paura di morire solo e agonizzante dentro la Grande Quercia divenne quasi un desiderio rispetto al pensiero di quello che invece gli sarebbe toccato cadendo tra le grinfie di quel drago.
«CORDELL! AIUTO! CORDEEEELL!» urlò Daniel in cerca del suo servitore; sperava che l’eco del tunnel riuscisse a portare la sua voce su fino all’apertura nella Grande Quercia, dove forse ancora Cordell lo stava aspettando. Ma Cordell non lo stava aspettando, probabilmente aveva già iniziato a scendere il monte Cabuk. Poi la voce del drago raggiunse il Lannister impietrito e rannicchiato sotto il terrazzamento, avvolto dal suo mantello e dall’oscurità. «Quando hai finito di frignare, torna qui al falò così potrò guarire quella brutta ferita».
Quello era un drago, un drago vero in scaglie ed ossa, ed era enorme e rosso e parlava. E parlava! I draghi non parlavano mai nelle storie e nelle leggende, perché mai quello parlava? Forse era diverso, forse non era aggressivo o carnivoro...ma sì che era carnivoro! Aveva i denti, ed erano aguzzi e affilati come le spade delle Guardie Reali. Ma sembrava stranamente educato, gentile, forse, anche se a modo suo, e si stava offrendo di curargli la ferita. In fin dei conti, Daniel che scelta aveva? Non poteva di certo tornare su. Daniel ritornò lentamente verso le porte illuminate, non era certo che fosse il coraggio a farlo camminare, doveva essere la disperazione; le raggiunse, si appoggiò sulla porta di sinistra e allungò la testa; cercò con lo sguardo il drago nel punto dove lo aveva visto la prima volta e lì lo trovo, accovacciato come in attesa.
«Su avanti, entra» disse il drago. Ma Daniel non si mosse, restò immobile ancora terrificato in mezzo alle due porte. Il drago si alzò e si avvicinò alle porte, poi proseguì «O dentro o fuori, se stai lì in mezzo non posso chiuderle». Daniel si lasciò persuadere ed entrò nella spelonca. Il drago, con neppure troppo sforzo, usando le zampe anteriori e la testa, spinse le porte richiudendole. Calò il silenzio, e ciò era un male, perché la tensione e l’ansia aumentarono e il terrore di essere divorato cominciò a prendere il sopravvento dentro Daniel.
«Suvvia, calmati» disse il drago cercando di calmare il giovane futuro primo cavaliere. «Ti prego: risparmiami e ti ripagherò il doppio del tuo peso in oro, e devo dire che, notando la tua stazza, la cifra non sarà indifferente» disse il Lannister cercando di persuadere il drago. «E cosa ci faccio col tuo oro? Calmati, calmati, non ho intenzioni malvagie, non ti mangerò. Sono il Piromante, sono qui per mostrarti la via del Primo Cavaliere»
«SEI UN DRAGO!»
«Piromante. Da adesso vorrei essere chiamato Piromante, o Maestro se preferisci, non mi piace
essere chiamato con il termine generico di quelli della mia specie, non mi riferirò a te dandoti dell’umano o della scimmia e gradirei che tu mi porgessi la stessa delicatezza. Hai detto di chiamarti Daniel, giusto?». Daniel annuì, poi aggiunse: «Ma sei un drago! E i draghi non si erano forse estinti secoli fa, con la morte della Madre dei Draghi, quella Daenerys Targaryen?». Il drago parve infastidito e anche un po’ annoiato da quelle domande, forse ogni Primo Cavaliere giunto in sua presenza nel corso dei secoli gliele faceva. Poi rispose: «Morti, tutti morti. Sono Nidhogg Targaryen, il Primo del mio nome e della mia dinastia e, con tutta probabilità, anche l’ultimo drago vivente in questo continente, ma per te sarò sempre e soltanto il Piromante, il Maestro che ti inizierà, attraverso l’uso e la conoscenza della Piromanzia, sulla gloriosa via del Primo Cavaliere»
«Piromanzia?» chiese Daniel che intanto aveva ritrovato un briciolo di calma, poiché il drago non sembrava davvero avere delle intenzioni malvagie. «La Piromanzia è l’arte segreta di chi sa maneggiare e controllare il fuoco e il calore; la fiamma crea, la fiamma guarisce e la fiamma distrugge!» rispose Nidhogg,e mentre diceva quelle parole il grande falò al centro della caverna divampò raggiungendo quasi il soffitto, mentre la ferita al fianco del giovane Lannister cominciava lentamente a rimarginarsi.

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Capitolo 3
*** Andalo ***


Capitolo 3
ANDALO
 
 
                «Hey, Andalo! Capisco che spalare la merda non si confaccia alle tue consuete “nobili abitudini”, ma sei alla Valle del Leone da un po’ ormai: avrai capito come funziona! Certe volte… c’è da spalare la merda»
                «Signore… non capisco quale sia il problema»
                «Te lo spiego subito! Vedi quei sacchi lì?»; l’Andalo si volse a guardare i sacchi ancora da riempire: ma Sir Cleghorn non stava indicando in quella direzione. Dunque, il giovane rivolse il proprio sguardo a quelli che aveva già riempito; ma ancora non riuscì a riscontrare alcuna anomalia. Probabilmente percependolo, il comandante decise di specificare: «La merda va messa dentro i sacchi! Non accanto. Tienilo bene a mente, perché se non riterrò il vostro un buon lavoro, potrebbe venirmi la voglia di togliervi di mano quelle pale e costringervi a farlo con la lingua. È tutto chiaro?»
                «Sì» rispose l’Andalo, sguardo basso, tono decisamente poco convincente. Ancora una volta, la cosa venne notata da Cleghorn, il quale per questo genere di cose aveva il fiuto di un metalupo. Il vecchio si ripeté: «Ho detto: È TUTTO CHIARO?!». A quel punto, l’Andalo e anche Dylan, che stava spalando insieme a lui, risposero in coro: «Sissignore»
                «Bene» si compiacque il comandante, poi fece dietrofront e sparì, lasciando svolazzare il lungo e pesante mantello di pelle di montone. Senza alzare troppo la voce, l’Andalo decise di sfogarsi con il compagno: «Cioè, praticamente è venuto a provocare…»
                «È venuto… a spronarci» fece Dylan, che era un ragazzo molto buono e assolutamente mai malizioso. «Ma dài! Che razza d’incoraggiamento è, Dylan! È evidente che se ne è caduta un po’ dal sacco, l’avremmo ripresa e rimessa dentro! Ma insomma! No, senti: era da tanto che non mi dava una bella strigliata e… Lui semplicemente non resiste! Sta male se non viene a provocarmi una volta tanto. Ce l’ha con me!»
                «Non ce l’ha con te»
                «Senti, quante volte ti è capitato di essere rimproverato da lui mentre eri con Dunstan? Eh? E quante mentre eri con Jacobs o Carlyle?»
                «Beh, poche ma…»
                «Ah sì? E quante mentre eri con me?»
                «Senti, Andalo… Sir Cleghorn è il nostro preparatore. Sarà un po’ ruvido a volte, ma è il suo mestiere. Se fosse buono e gentile, non ci formeremmo mai come si deve!»
                «Ah, risparmiami la manfrina del duro ma saggio tutore, Dylan: quello ce l’ha con me e basta! Non so: penserà che qualcuno dei nostri su alla Capitale gli avrà fatto un qualche torto una trentina d’anni fa! Oppure sarà semplicemente invidioso del fatto che nessuno guardandolo penserebbe mai in alcun modo a qualcosa di anche solo vagamente “nobile”, se un giorno per pura fortuna non avesse messo le chiappe sulla schiena di una chimera! Diamine, non parla neanche bene: ci hai mai fatto caso? Da dove viene veramente? Pampasterra? Corno Orientale? Non vengono tutti dal Corno quelli che hanno “horn” nel cognome?»
                «Hey, sh! Basta!» s’allarmò Dylan «Se dovesse sentirti…»
                «Che fa?» gli rispose dunque l’Andalo, sprezzante «Se dovesse sentirmi?». Dylan restò in silenzio: naturalmente non aveva una risposta. Ma il silenzio del giovane fu riempito da qualcun altro… Qualcun altro, dopo Winston Cleghorn, stava attraversando la Gola delle Belve, il lungo corridoio che secava l’intera struttura che conteneva le gabbie delle chimere e che conduceva allo smaltitoio, al centro del quale ora Dylan e l’Andalo si trovavano. Lo smaltitoio era invece il luogo dove finivano tutti “gli scarti” degli animali che, con la cadenza minima di una volta a settimana, dovevano essere raccolti e messi in dei sacchi, per poi eventualmente essere adoperati come concime.
                «HEY ANDALO! HEY ANDALO!» iniziò a urlare l’uomo, fin dalla metà della Gola delle Belve. Dopo qualche secondo, l’Andalo lo riconobbe: era Sir Merrin. Merrin era a capo della “divisione ospedaliera” della Valle. E questo includeva tra le sue mansioni la cura e la prevenzione dei mali degli uomini… E la cura e la prevenzione dei mali delle bestie. «Andalo», Merrin arrivò allo smaltitoio.
                «Sir Merrin» salutò l’Andalo. «Vieni!» esclamò Merrin, imperioso, «È il momento…». Sinceramente confuso sul dafarsi, il giovane Andalo decise di dire al suo superiore: «Signore, so che ho solennemente promesso che sarei venuto a dare un’occhiata un giorno, ma… Sir Cleghorn ci ha messo a spalare e…»
                «Il tuo amico potrà continuare il lavoro da solo: ci metterà il doppio del tempo ma… Hey: siamo alla Valle del Leone, è dura la vita quaggiù, lo sanno tutti»
                «Signore…»
                «Figliolo: parlerò io con Cleghorn e farò in modo che, qualunque cosa succeda, lui non prenda alcun provvedimento punitivo né nei tuoi confronti, né in quelli di…». In un breve silenzio l’Andalo e Dylan si scambiarono sguardi perplessi: era una domanda quella di Sir Merrin? E a chi era rivolta? Dylan decise di rischiare: «Dylan Clermont»
                «Perfetto!» annuì Merrin «Né in quelli di Dylan Clermont. Ma non dire “signore” un’altra volta! Sta’ zitto e seguimi»
                «Sissignore…» rispose dunque l’Andalo, tutto contento, «Ehm… volevo dire… Sì, Sir Merrin» si corresse; dopodiché andò a posare la pala nell’armadio degli attrezzi e si avviò verso le scale che conducevano alla Gola. Nel farlo, lanciò qualche occhiata veloce a Dylan, sentendosi un po’ in colpa per lui che, anche se non avrebbe ricevuto punizioni (quindi poteva anche prendersela comoda), comunque sarebbe restato lì da solo in compagnia della merda di chimera per almeno un altro paio d’ore. Originariamente, lo sguardo di risposta del compagno Clermont gli parve uno sguardo colmo d’invidia. Ma quando per un’ultima volta l’Andalo guardò Dylan prima di dargli le spalle e avviarsi definitivamente con Sir Merrin, quello sguardo d’invidia era diventato uno sguardo di amicizia, come a dire: “fuggi almeno tu, visto che te ne viene data la possibilità”. E l’Andalo ovviamente non se lo lasciò ripetere.
                «Sir Merrin» fece ancora l’Andalo rivolto all’uomo che lo aveva liberato dalle grinfie di Cleghorn, per quella sera. «Sir Merrin!», aveva appena raggiunto la cima delle scale. «È Rabastan, figliolo», gli sorrise quello. «Come dite?»
                «Rabastan è il mio nome» insistette il superiore, «Lo so: non è molto meglio di Merrin, anzi per la verità forse è un po’ peggio. Ma è più confidenziale: mia madre mi chiamava Rabastan, mica Sir Merrin!»
                «Ma…» provò ad intromettersi l’Andalo; Sir Merrin non lo fece neanche cominciare: «E avremo necessariamente bisogno di maggiore confidenza, se diverrai mio collaboratore»
                «V-vostro collaboratore, signore?» balbettò l’Andalo. Merrin lo corresse di nuovo: «Rabastan»
                «Sì, perdonatemi… Sir Rabastan»
                «Certamente: mio collaboratore. E affretta il passo, ragazzo, Shirley non aspetta mica noi per partorire. Tu hai esperienza di medicina, no?»
                «Mi è capitato di… Leggere qualche testo, in gioventù…»
                «In gioventù! Ma quanti anni hai?»
                «Venti, Sir Rabastan…. Ma… Si trattava della materia umana… Io… Non ho mai letto nulla sulle chimere!»
                «È uguale! Meno massa cerebrale, più arti»
                «So com’è fatta una chimera, signore»
                «Certo che lo sai» per un attimo Merrin rallentò per avere modo di lanciare un’occhiata forse complice o forse derisoria al suo “nuovo collaboratore”; ma riprese il passo quasi subito, e ricominciò a discorrere: «Scommetto che il primo lenzuolo con cui ti hanno avvolto non appena venisti fuori dal grembo di tua madre, su alla Capitale, fosse un bel drappo raffinato con una bella chimera rampante tessuta sopra. Poi chimere per sonagli… Chimere per giocattoli… Diamine avranno fatto perfino i vasi da notte, per voi, a forma di chimera. E poi un bel giorno… Avrai aperto le finestre della tua immensa camera da letto piena di cianfrusaglie, ti sarai affacciato… E l’avrai vista! Una splendida chimera dal crine dorato svolazzare fin su una guglia e ruggire, maestosa… E avrai pensato… Che diamine! Questo è il mio futuro!»; breve silenzio, in cui l’Andalo non poté che constatare che anche Sir Merrin in fondo, come tutti in quella dannata valle, doveva aver perso un paio di rotelle. «Perdonami, figliolo» disse ancora il medico, via l’espressione da folle sul viso, scambiata adesso con un sorriso affabile, «Quello che ti ho raccontato è il mio passato, non il tuo, il tuo non lo conosco; non volevo essere irrispettoso»
                «Oh, Sir Rabastan, non lo siete stato affatto…» rispose l’Andalo, ruffiano, «Ma… Mi spiace correggervi: non ci sono poi così tante chimere nei drappi e nei pitali della Capitale. Oh, nelle carte ufficiali certamente ma… La loro è una storia troppo recente perché possano aver sostituito i leoni in ogni dove. E, oltretutto, sotto mio padre si è cercato di rispolverare la simbologia più arcaica. Lui non lo ammetterà mai ma, sebbene ne riconosca l’utilità, non ama particolarmente le chimere; preferisce i leoni»
                «Sarà perché non ne ha mai cavalcata una?»
                «Sì, lo ritengo plausibile»
                «Sai che ti dico, Andalo? Magari, originariamente, ti sei sentito sfortunato a finire in questo angolo di mondo, non è vero? Lontano dalla tua famiglia, dagli agi a cui eri abituato… Ma vuoi sapere come la penso io? Io penso che, sì è vero: all’inizio può risultare un po’ faticoso, ma quando finalmente avrai conquistato il cuore del tuo animale… Lo avrai guardato dritto negli occhi, e lui avrà guardato te e… Avrete capito che siete una cosa sola. Tutto ciò, varrà cento volte di più di quella noiosa, spocchiosa e… Pericolosa vita di corte. Io non penso che chi venga qua ad addestrarsi nell’arte della cavalleria chimerica corra rischi superiori rispetto a chi conduce una vita politica alla Capitale. O, almeno, questo è quello che immagino».
                Proseguirono il tragitto. L’Andalo ebbe tutto il tempo di meditare su quello che gli aveva appena detto Sir Rabastan Merrin. Lui non aveva mai adorato la vita di corte e, in tutta onestà, quando gli era stato comunicato che avrebbe intrapreso il percorso per diventare un Cavaliere della Chimera, la cosa lo aveva lasciato non poco felice. I Cavalieri della Chimera erano forti e leggendari! Erano tutto quello che i ragazzi di strada sognavano di diventare un giorno, la loro massima aspirazione. Ed erano anche quelli cui, in buona sostanza, era affidata l’effettiva sicurezza del regno. Sì, il regno era ormai saldo da quasi un millennio, senza più guerre, senza più scissioni, a prescindere dalle chimere. Il fare la guerra con la politica, piuttosto che con le armi, era diventato più o meno parte della cultura dell’intero mondo conosciuto. Ma da un paio di secoli, tanto per rendere ancora più salda la cosa, erano anche arrivate le chimere e, da quando erano arrivate, l’unità del regno non aveva neanche più vacillato. Con i Cavalieri delle Chimere fedeli al regno da una parte e un mago come lord Primo Cavaliere dall’altra, le probabilità che un qualsiasi mentecatto volesse anche solo provare ad attentare l’ordine costituito erano praticamente vicine allo zero. Funzionava così da circa duecento anni.
                Le chimere erano state scoperte in un altopiano apparentemente deserto dell’est, con solo poche rocce, arbusti e sterpaglie. Ne erano rimasti circa cinque esemplari: nessuno capiva perché, ma si stavano estinguendo. La fortuna volle che non fu un qualsiasi uomo dell’Occidente ad accorgersi della loro esistenza, ma un dignitario del re, mandato appositamente in quelle terre ancora inesplorate per conoscerne le possibilità e le risorse. Naturalmente, la storia di come quegli animali vennero poi definitivamente posti sotto l’autorità della Corona, non era né breve né priva di colpi di scena, prove di forza, tradimenti e pacificazioni. Ma alla fine, i Lannister l’avevano spuntata anche in quell’occasione: pensavano fosse necessario avere le chimere a servizio della corona, e ottennero le chimere a servizio della corona.
                La mano dell’uomo, peraltro – come non spesso accade in natura – si rivelò un vero e proprio toccasana per quelle creature che, sebbene normalmente feroci e assai pericolose, erano dotate di una certa curiosità che in qualche modo le avvicinava all’umanità. In poco tempo, grazie alla mano esperta degli uomini di scienza della Capitale, il loro numero decuplicò. Xilanthor, il re sotto il quale venne costruita la Valle del Leone, fece aggiungere al normale stemma della casata reale un ulteriore paio di zampe, un paio d’ali, e un serpente come coda; e il leone divenne chimera.
                Di stazza almeno doppia rispetto a quella dei leoni, le chimere cominciarono a prosperare e adesso ne vivevano quarantacinque esemplari alla Capitale, e centodiciotto alla Valle del Leone e, a quanto pareva, ne stavano per arrivare di nuove… Addestrarle, cavalcarle, fare di loro i migliori amici di un cavaliere e i migliori protettori del regno era diventato ormai parte della cultura stessa della nazione unitaria. E naturalmente, a capo dell’armata dei Cavalieri delle Chimere, veniva quasi sempre messo un leale e potente alleato del re. Al momento era Henrich Bolton, il Lord Maestro delle Armi.
                Ma da quando aveva messo piede alla Valle, sebbene ne avesse viste parecchie e avesse imparato anche a conoscerle, l’Andalo non aveva mai cavalcato una chimera. E lo avevano fatto tirare di spada una quindicina di volte. Le sue mansioni, come quelle di tutti i novizi, si limitavano alle pulizie, al mettere in ordine, al sistemare, al dar da mangiare: un servo, praticamente. Di nobili origini e dal futuro possibilmente eroico, ma un servo: né più né meno. La Valle del Leone era molto grande e indipendentemente dal numero – comunque sempre molto sostenuto: non è che a chiunque venisse data l’opportunità di diventare un Cavaliere della Chimera – dei nuovi apprendisti, c’era sempre bisogno di gente disposta ad occuparsi della manutenzione. E di questo l’Andalo si era occupato negli ultimi cinque anni della sua vita.
                La gabbia di Shirley si trovava sul corridoio laterale esterno, ala ovest, dell’intera struttura: l’Andalo ebbe l’impressione che per arrivarci lui e Merrin avessero impiegato più o meno lo stesso tempo che impiegava lui per preparare una buona frittata per sé e per i suoi camerati: lui era un tipo rapido, ma per farla buona… Il tempo ci voleva! Oltretutto, si rese conto di non esserci mai stato in quella zona; forse una volta, nei primi mesi dell’addestramento ma… Poi mai più. Giunto precisamente dinanzi alla enorme gabbia della chimera gravida, l’Andalo non poté fare a meno di notare qualcosa che subito domandò al medico: «Perché tutte le gabbie accanto sono vuote?»
                «Non hai mai veduto una chimera negli ultimi cinque giorni di gravidanza…»
                «No, signore»
                «Sir Rabastan!» salutò una ragazza appena giunta: alta, magra, lunghi capelli neri, carnagione olivastra. «Oh, Jasmina, ben arrivata!»
                «Grazie, signore»
                «Pronta e motivata come tutte le volte?»
                «Certo, signore»
                «Oh perdonatemi: Jasmina lui è l’Andalo, Andalo lei è… Jasmina»
                «Piacere» fece l’Andalo. «Molto piacere» rispose la ragazza, e tornò subito a rivolgersi al medico della Valle: «Sir Rabastan… Che ne è di Josh?»
                «Josh? Morto»
                «Oh, ma è terribile… Come?!»
                «Beh l’altra settimana ha provato il suo primo volo su una chimera e… È andato giù a picco»
                «Per gli dèi antichi e nuovi!»
                «Ma ho già trovato un sostituto: hai visto?»
                «Ah» constatò Jasmina, squadrando l’Andalo rapidamente da capo a piedi «Che fortuna…»
                «Signore…», l’Andalo decise di intromettersi, insistendo: «Perché le gabbie sono vuote?»
                «È semplice, figliolo: una femmina al termine di una gravidanza tende a staccare la testa a qualsiasi creatura vivente si trovi nel raggio di un paio di piedi da lei… e poi il corpo lo fa a pezzetti. Non lo mangia, eh: diversamente dalle nostre femmine, si direbbe che abbiano un appetito normale durante lo stato di gravidanza… ma lo fa a pezzetti»
                «COSA?»
                «Sir Merrin!». Oh no! Per l’Andalo ci mancava solo questa: era arrivato anche lui…
                «Sir Cleghorn» salutò Rabastan Merrin. E Winston Cleghorn proseguì: «Sapevate che è arrivato Bolton?»
                «Oh che bellezza! Il Lord Mezzo-lord ha alzato il suo aristocratico posteriore, l’ha messo sulla sua chimera e l’ha condotto fin quaggiù!»
                «Consiglio minore sarcasmo, collega… Lui è qui»
                «Sir Merrin!» e Lord Bolton in persona si precipitò alla gabbia: era poco dietro Cleghorn effettivamente, anche se l’Andalo non l’aveva fino ad allora notato. Lui conosceva bene Bolton: aveva avuto modo di averci a che fare ai tempi della Capitale; era un uomo alto, spigoloso e pelato, dai modi bruschi e talvolta arroganti; non gli era ma piaciuto, ma piaceva a suo padre, e tanto bastava.
                «Lord Bolton!» fece ancora Merrin, che nel frattempo era da un po’ che armeggiava con dei ferri, delle corde, dei ganci posti alle estremità laterali della cella e poi ancora dei secchi colmi d’acqua e degli stantuffi. Merrin proseguì: «È un piacere vedere il vostro…»
                «Aristocratico posteriore?»
                «Beh, veramente volevo dire “nobile culo”, ma tecnicamente ritengo sia uguale: “aristocratico posteriore” quaggiù alla Valle delle chimere»
                «Sì… Ma non è certo per fare un piacere a te che sono venuto. Sono venuto per lei» indicò il possente animale all’interno della gabbia; continuò: «Checché tu ne dica, non mi sono mai perso un parto da quando ho la responsabilità di questo posto»
                «Ah, sì certo… E quando è stato l’ultimo, Ted?». C’era qualcun altro lì dentro: Ted, un ragazzo mingherlino, di età sicuramente inferiore a quella dell’Andalo, biondo ed estremamente scarno. Era lì da diversi anni anche lui ormai, ma non veniva trattato come un comune apprendista cavaliere; era più che altro uno sguattero. Vistosi coinvolto nella discussione (e d’altro canto doveva essere lì per qualche ragione), il ragazzino scrutò da un ammasso di pergamene che aveva tra le mani e, con una certa solerzia, rispose quasi subito: «Tre anni fa, Sir Rabastan»
                «Non manco da tre anni!», ribatté Lord Bolton tra i denti. Ma la provocazione di Merrin non pareva voler terminare; disse ancora sarcastico: «No, certo! Da cinque?»
                «Ascoltate, Merrin…» provò ancora Bolton, ma questa volta il medico non gli permise di proseguire: «Bene! Io sono pronto! Jasmina?»
                «Pronta!»
                «Andalo?»
                «Eeeeeeh?!»
                «Fa’ quello che faccio io», gli sorrise Jasmina, con compassione. Merrin chiese ancora: «Ted?»
                «Data e ora trascritte, signore». Guardandolo, l’Andalo si accorse che adesso Ted era seduto dietro un traballante banchetto di legno, con penna alla mano e calamaio poco distante. «Dunque» Merrin si schiarì la voce «Ci accingiamo ad intervenire per il parto della chimera Shirley. Esegue l’operazione Sir Rabastan Merrin. Coadiuvano…»
                «Jasmina Tahorel». Vedendo l’Andalo che, ancora confuso, non riusciva a staccar gli occhi da Ted che trascriveva tutto quello che veniva detto, la ragazza pensò bene di suggerirgli: «Di’ il tuo nome»
                «Ehm… Marcus… Marcus di Casa Lannister»
                «Ok, entro» fece infine Sir Rabastan e spalancò le porte della gabbia. Aveva in mano solo una lunga lancia puntuta: cosa pensava di farci contro una chimera, peraltro iperaggressiva perché incinta? Marcus non poté fare a meno di notare l’espressione da forsennato che era spuntata sul viso del medico, quando era entrato correndo, asta all’insù, e urlando come un matto. Ma, incredibile a dirsi, fu distratto quasi subito: da Jasmina. Anche lei urlò, ma rivolta direttamente a lui e con un tono che non ammetteva repliche: «Fa’, come faccio io! Prendi l’asta»; si trattava di un enorme pertica di ferro, alta quanto due, anche tre lance, con la quale non era complicato arrivare a batter fino al tetto della struttura. «Posizionala sul gancio!»; questo risultò all’Andalo già parecchio più difficile: per farlo, lui e Jasmina dovettero entrare anche loro: i due ganci erano sul tetto della gabbia. «Ok, e quando ti dico io, spingi con tutta la forza che hai. E non mollare in nessun caso! Mi sono spiegata?! Ne va delle nostre vite».
                Non c’erano molti pensieri in quel momento nella testa dell’Andalo: l’unica cosa che era in grado di fare era domandarsi se tutto quello stava accadendo veramente a lui. Per fortuna, la chimera era molto più concentrata su Sir Merrin che su qualsiasi altra cosa al mondo. Sir Merrin gridò: «Ora!», e Jasmina gli fece eco: «Andalo, ora!».
                Lo schiacciare l’ingranaggio posto su quei ganci, avviò un complesso meccanismo che l’Andalo non riuscì a capire proprio bene; ma l’esito della cosa fu che le ali della chimera vennero bloccate da due grossi paranchi fino ad allora posizionati lungo le pareti della gabbia, e invece ora elevati a mezz’aria; comprimevano le ali della bestia in modo che non potesse più muoversi.
                Sir Merrin sguainò la spada: la chimera adesso era immobilizzata, ma non per questo le sue fauci, e soprattutto la coda di serpente, erano meno pericolose. Anzi, proprio quest’ultima era ancora libera e disponibile a uno scontro diretto. Dopo un combattimento di pochissimo tempo, Merrin prevalse sulla coda da rettile, tagliandone il capo. Sir Cleghorn, dalla sua postazione sicura dietro i cancelli della gabbia, commentò urlando al medico della valle: «Ma che fate, Merrin! La ucciderete!»
                «Niente piagnistei, Cleghorn» rispose Merrin «Tanto le ricresce!».
                Il primo cucciolo venne fuori, cieco, spelacchiato e indifeso; ma non era finita lì… «Andalo!» gridò Merrin «Molla quei ferri e vieni a darmi una mano!». Marcus si domandò che cosa diamine ancora quel folle pretendesse da lui: era già tanto che non aveva perso i sensi! Guardò Jasmina, come per chiederle aiuto, e lei gli disse: «Non mollare la presa! Aspetta, che vengo io!». l’Andalo continuò a tenere la mano ben salda sulla lunga pertica di ferro agganciata al paranco di sinistra; senza mai mollare la sua di presa, la ragazza si avvicinò all’erede di casa Lannister e gli disse: «Dallo a me!»
                «Come?»
                «Mollalo e dallo a me!». E l’Andalo mollò; dopo un urlo disumano, Jasmina adesso impugnava entrambe le pertiche. L’Andalo si accorse solo allora che aveva una muscolatura decisamente non indifferente per essere una ragazza, almeno per quanto riguardava le braccia. Ma ovviamente, dato che tutto quello per lui era nuovo, l’Andalo si scordò il perché fosse appena accaduta quella cosa… Merrin lo riportò sulla terra, gridandogli per la seconda volta: «ANDALO!!!» con una ferocia inaudita.
                Marcus, raccogliendo tutto il fegato che aveva in corpo, si avvicinò al dottore, il quale, mentre da una parte operava nella zona dei genitali della bestia, dall’altra era ancora tenuto a schivare colpi di zampe anteriori, inferiori e mediane, e morsi. Domandò a Merrin: «Sì, signore?»
                «Esci dalla gabbia» ordinò quello «Nel banchetto dov’è seduto Ted, deve esserci una specie di lungo coltello acuminato. Vallo a prendere e torna qui! Rapido!»
                «Sissignore», e l’Andalo corse via. Non fu complesso recuperare quello che gli era stato richiesto e tornare dentro. Porse l’oggetto al dottore. «No, no, no: hai frainteso» gli disse quello, rifiutandosi di prenderlo, «Non è per me. È per te!»
                «Cosa?!» fece Marcus, incredulo. «Vedi lì?» gli rispose Merrin, divaricando a mani nude una parte delle carni della belva: non c’era un granché buon odore in quella gabbia; «Quel grosso gonfiore, tipo ciste?»
                «Ehm sì»
                «Taglialo via: è inutile, le fa male, e occupa un sacco di spazio»
                «M-ma signore…»
                «FALLO ORA!» e urlando questo, Sir Rabastan spalancò ulteriormente le carni, la chimera ringhiò come ancora non aveva mai fatto, e Marcus corse nella zona indicatagli da Merrin e, non senza fatica, rimosse quella parte. La chimera, quasi d’istinto, fece per azzannarlo: ma con un istinto altrettanto ferino, che a dire il vero lo sorprese non poco, l’Andalo riuscì a fare un salto, una capriola e uscirne indenne. «Ah, già che sei lì…» gli disse ancora Sir Rabastan «Taglia anche quello! Ehm… Grosso, marrone e pulsante»
                «Ah, sissignore» sospirò Marcus, che da una parte era contento di essere ancora vivo, dall’altra terrorizzato. Eseguì alla perfezione ciò che gli era stato richiesto, e stavolta Shirley la chimera nemmeno se ne accorse. «Ora vieni qui! Vieni qui!» lo intimò ancora Merrin, e proseguì: «Tira! Tira!»; suo malgrado, Marcus l’Andalo fu costretto a mettere anche lui le mani dentro quella carne calda, puzzolente e piena di sangue. Tirò con tutta la forza che aveva in corpo: un piccolo felino alato dalla coda di serpente, ora mugolava tra le sue braccia. Ma Merrin insistette: «Ce n’è un altro! Tira!». E ancora l’Andalo tirò, e ancora si ritrovò tra le braccia un cucciolo appena nato di chimera, solo che questo… Aveva due teste.
                Non era la prima volta che l’Andalo vedeva una chimera a due teste: capitava. Raramente, ma capitava. Talvolta, ne nasceva qualcuna con una sola testa ma due code, e una volta – ma questo l’Andalo non l’aveva mai visto: si trattava di cose che gli erano state raccontate – ne era nata una con quattro ali. Questo tipo di variazioni genetiche, sebbene rappresentassero comunque delle eccezioni, erano cose che negli animali chimere accadevano molto più spesso che in qualsiasi altra specie.
                Con un ultimo definitivo grido, Merrin ordinò a Marcus e Jasmina di ritirarsi. Marcus prese in braccio due dei tre cuccioli, Merrin prese il primo nato, e non appena Jasmina lasciò la presa sui ganci, corsero a tutta velocità fuori dalla gabbia. Appena libera, la chimera subito si scagliò all’inseguimento, e non addentò Merrin per una questione di distanza millimetrica. Sgranocchiò le sbarre della cella, al suo posto.
                Ted, che si era appena occupato della chiusura della gabbia, corse immediatamente a sedersi al suo banchetto, e intingendo la penna d’inchiostro, ricominciò a scrivere. Per un attimo, lo fece a voce alta, e l’Andalo poté udirlo dire: «Vengono alla luce tre cuccioli di sesso femminile…»
                «Per quanto mi riguarda» disse invece, a voce alta, Sir Merrin, rivolto faccia a faccia a Lord Bolton, mentre si puliva le mani con uno strofinaccio umido, «Questo è quello che si chiama vivere alla Valla del Leone! Io non ho idea di cosa voi vi occupiate alla Capitale… Ma, a conti fatti, con noi non c’entra proprio un bel niente!» e lanciando un ultimo, significativamente aggressivo, sguardo a quello che in teoria era il suo diretto superiore, Sir Merrin lasciò definitivamente quel luogo. Ted, che non si era affatto lasciato distrarre da quella scenata, concluse il suo discorso: «…cuccioli, che prendono il nome di…». Nessuno gli rispose, e Ted chiese: «Lord Bolton?»
                «Sì?»
                «Siete l’ufficiale di più alto rango tra i presenti. Spetta a voi dare il nome ai nuovi nati»
                «Rutto, Piscio e Sputo!» esclamò il comandante, visibilmente irritato, e anche lui marciò fuori da quel luogo, immediatamente seguito da Sir Cleghorn. Marcus vide che Ted non trascrisse quei nomi. Dopodiché fu distratto da una voce dietro di lui. Jasmina disse: «Hey, Andalo: portale qui». Marcus si voltò: Jasmina si trovava accanto a un alto mucchio di paglia, dove aveva appoggiato il cucciolo che poco prima aveva tenuto in mano Sir Merrin. Mentre anche l’Andalo poggiava lì le piccole che aveva aiutato a nascere, tra cui quella a due teste, Jasmina disse: «Riposeranno per qualche ora. Dopo, andranno rimesse dentro la gabbia per la prima poppata. E sarai tu a mettercele, ordini del capo!»
                «Rientrare lì dentro? Non ci penso neanche!»
                «Ah, non preoccuparti; non ti farà alcun male. Ti ucciderà, forse, ma se non lo farà… Non ti farà alcun male»
                «Confortante» balbettò Marcus, sarcastico, ma naturalmente la cosa non lo fece ridere. Jasmina continuò: «Che te n’è parso, come prima esperienza?»
                «Ehm… Niente… Niente male. Certo… Non è esattamente come fare il Gran Maestro a corte»
                «No. Decisamente no. Avrebbe dovuto farlo Josh: aveva molta più esperienza di te nella cura di animali feriti, e ci lavorava da molto tempo… Ma… È morto»
                «Già»
                «Ma considera questo: il parto di una chimera è la cosa che su tutti i manuali viene descritta come la più complessa. Una volta che sei riuscito in questo, il resto non potrà che venirti facile»
                «Beh, sì. Se sopravvivrò al secondo ingresso nella gabbia…»
                «Ah, certo. Se sopravvivrai…». Si sorrisero, e poi piovve il silenzio. L’Andalo considerò l’idea di allontanarsi, ma aveva ancora le mani che gli puzzavano di carne e sangue di chimera. C’erano dei secchi riempiti d’acqua e messi lì appositamente per quello: andò a lavarsi le mani. Mentre si asciugava con uno strofinaccio, notò che Jasmina lo stava guardando. E non appena lei si accorse che lui l’aveva notata, la ragazza chiese: «Perché ti chiamano l’Andalo?»
                «Beh» sorrise Marcus, felice di rivisitare quel ricordo, «Quand’ero piccolo… I racconti di famiglia dicono che io fossi il più terribile tra tutti i fratelli: urlavo, scalciavo, la volevo sempre vinta io. Un bambino impossibile. Così, dicono che un giorno che mio padre si trovava in una noiosa riunione… Io pretesi di entrare nella sala del parlamento, e cominciai a offendere e malmenare i convitati, i quali si videro costretti a rimandare la riunione. Mio padre ne fu ben lieto, visto che odiava quel genere di cose. E, allora, disse davanti a tutti che era fiero di me… Di quel suo figlio che picchiava come la tempesta, e urlava come un Andalo»
                «Ahah, è una storia simpatica» rise Jasmina, anche lei ora si stava lavando le mani. Ma Marcus non aveva ancora finito di ricordare: «Quel nomignolo rimase fra le mura di casa e non uscì fuori fin quando, un giorno, litigai con mio fratello Daniel. Era per una stupidaggine, adesso non lo ricordo; ero troppo piccolo… C’entrava un cavallo, se non sbaglio. E lui mi disse che ero come un Andalo pazzo… Che il mio comune temperamento pacifico, non era mai riuscito a soppiantare definitivamente la mia natura di barbaro. A celarla sì, ma non a sopprimerla. E così, mi dichiarò guerra, e disse che da quel momento in poi tutto il regno avrebbe cominciato a chiamarmi, con disprezzo, “l’Andalo”. E, non so bene come fece, ma ci riuscì: prima alcuni amici comuni, poi gli abitanti del palazzo, poi a poco a poco l’intera città. Non parlammo più granché da quel giorno, io e Daniel. Non per cose di poca importanza, comunque. Certo, guardando indietro, riconosco che è una cretinata ma… È così e basta»
                «Tu non parli spesso, Andalo» commentò Jasmina «Ma quando cominci a parlare… Di certo, non ti fermi!»
                «Sì» rise Marcus, francamente un po’ in imbarazzo, «È un’altra mia caratteristica»
                «Andalo!» s’udì dunque una voce al di fuori della struttura. E si ripeté: «Andalo!». Un ragazzino di circa dieci anni raggiunse il quarto erede di casa Lannister. E gli disse: «Un dispaccio per te, dall’ovest». Marcus prese la lettera, incuriosito: era la prima volta in cinque anni che riceveva della posta: il sigillo era quello di suo padre: la chimera rampante con in testa la corona. Si trattava di poche righe, le lesse velocemente. Jasmina gli chiese: «Beh che succede?»
                «Si tratta di mio prozio Duhenlar…» rispose l’Andalo «Si è strozzato con un osso di pollo».

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Capitolo 4
*** Maoleth Gawen Gahenna ***


Capitolo 4
MAOLETH GAWEN GAHENNA
 
 
«Oh... io non so proprio cosa dire.. .mi spiace, Marcus» disse Jasmina con sincera preoccupazione «davvero,mi spiace tanto... deve essere stata una gran perdita...»
«Grazie per la cortesia Jasmina...» rispose Marcus «ma ad essere onesto mio prozio Duhenlar è sempre stato una persona assente... da che io abbia memoria l’avrò visto soltanto qualche volta,in qualche sporadico banchetto ufficiale, di quelli grossi e importanti insomma, in cui mancare era irrispettoso verso gli ospiti... nulla di più, non credo possa essere considerata una gran perdita, almeno per quanto mi riguarda... immagino di aver ricevuto il messaggio soltanto a titolo informativo... infatti non è neppure richiesta la mia presenza alla cerimonia della Pira».
La brutale e tagliente sincerità di Marcus lasciò Jasmina in un silenzio imbarazzato. Vista la mancanza di tatto di Marcus, forse il nomignolo datogli dal fratello Daniel non gli stava poi così male. Jasmina, sapendo che a Marcus piaceva parlare e volendo interrompere quanto prima quel lungo silenzio, decise di tempestarlo di domande.
«E, se posso chiedere, come mai era così assente? E cosa è la cerimonia della Pira? Non ne ho mai sentito parlare...»
«Beh... a quanto pare, dopo aver concluso anzitempo il suo mandato da primo cavaliere, entrò in uno strano stato di paranoia... cominciò a sospettare di tutto e tutti, non usciva mai dalle sue camere e faceva assaggiare ogni pietanza e bevanda ai suoi fedeli coppieri, pensava che qualcuno volesse avvelenarlo o sbarazzarsi di lui... il Gran Maestro Septimus diceva che poteva essere una conseguenza della perdita dei poteri da Primo Cavaliere, cosa del tipo che se doni la mente e l’animo per acquisire la conoscenza e i poteri da Primo Cavaliere è inevitabile che poi l’esserne privato di colpo può risultare nocivo o debilitante... io credo che principalmente il crollo psicologico sia dovuto all’avanzare dell’età, ormai ha ben sessantatre anni... ah, per quanto riguarda invece la cerimonia della Pira... mmmh... da quel che so dovrebbe essere una sorta di cremazione simbolica che segna la fine della vita dei Primi Cavalieri, in modo che il loro animo possa raggiungere più velocemente gli dèi o roba così, ma tutti sanno che in verità serve a cancellare completamente ogni traccia dei poteri e delle conoscenze dei Primi Cavalieri... in questo modo nessuno può studiare i loro corpi e scoprire e rivelare i segreti acquisiti dai Primi Cavalieri... è un gran peccato non aver ricevuto l’invito alla cerimonia: mi sarebbe piaciuto andare a vederla, sia per la curiosità che suscita tale evento raro, sia per ricordare qualche odore diverso dal letame di chimera che mi tocca sorbirmi ogni giorno».
«Tutto molto... curioso... sì,sarebbe davvero interessante poter assistere... ma perché non provi comunque a chiedere un permesso a Sir Cleghorn? È comunque il funerale di un tuo parente, è un tuo diritto potere andare»
«Ma figurati... non mi lascerebbe andare: mi odia! E direbbe che, poiché non è specificato da nessuna parta che io rientri, non è assolutamente necessario che io mi allontani dalla Valle del Leone e che il mio posto è qui, a raccogliere sterco».
Ted, il ragazzino addetto alla compilazione dei documenti sulle chimere, si era intanto avvicinato a Marcus e Jasmina «Ehi, Andalo, ascolta: visto che hai preso parte al parto e sei l’unico rimasto con il titolo nobiliare più alto, non è che potresti dare un nome “serio” alle tre creaturine? Non vorrei trascrivere i nomi proposti da Lord Bolton...».
Proprio Marcus fra tutti sapeva cosa significava convivere con un nomignolo; ormai “Andalo” lo perseguitava ovunque, persino i ragazzini di dieci anni lo chiamavano così, probabilmente sarebbe comparso anche sulla sua lapide dopo la sua morte; e per uno strano scherzo del destino ora doveva essere lui a dover togliere dei nomignoli dati con disprezzo – forse lo stesso disprezzo con cui Daniel gli diede il suo – in favore di nomi più dignitosi.
«E va bene: dammi qualche minuto per pensarci» disse Marcus e cominciò a guardarsi intorno in cerca di ispirazione. Ted ringraziò e Jasmina apprezzò molto il gesto di Marcus sfoggiandogli un bel sorriso di approvazione. Ed ecco l’ispirazione: non serviva cercare lontano per trovarla; stava lì, proprio dinanzi a lui: Jasmina.
Marcus posò prima il suo sguardo sui lunghi capelli neri della ragazza e disse rivolto a Ted «quella cieca chiamala Obsidian», poi seguendo i lineamenti del volto di Jasmina raggiunse le sue labbra: erano sottili e di un bel rosso lampone «quella normale chiamala Ruby» e poi raggiunse i suoi occhi; prima non li aveva notati ma erano blu, di un blu molto scuro, Marcus a prima vista li aveva visti neri,ma illuminati dalla giusta angolazione risultavano essere chiaramente di un bellissimo blu notte «e quella a due teste chiamala Sapphire».
Ted trascrisse i nomi, poi arrotolò i documenti e disse «Grazie Andalo. Sono sicuro che ti ringrazierebbero anche le piccoline se potessero parlare!» poi corse via veloce, lontano, dentro il castello. Jasmina nel frattempo era arrossita, di un rosso molto più vivace delle sue labbra: «Ehm io... d-devo andare, ho cose da fare... ehm per le altre chimere, sì ecco... a presto Marcus, è stato un piacere lavorare con te» e anche lei corse via.
 Marcus la seguì con sguardo sognante finché non scomparve dalla sua vista. Da lontano le urla di Sir Cleghorn lo riportarono alla realtà: «Ehi Andalo! La giornata è ancora lunga! Torna a spalare la merda!».
 
 
 
«Sì, certo, e io ho ricevuto in dono dalla Banca di Ferro una nave piena d’oro!» disse Daniel a Nidhogg con enorme sarcasmo. «Il sarcasmo deve essere ereditario immagino: anche Duhenlar fece ai tempi una battuta simile... purtroppo io non riesco a comprenderla, non so neppure cosa sia questa Banca di Ferro a cui ti riferisci»
«Come? Hai delle ali enormi e non sei mai uscito solcando i cieli per esplorare il mondo? Davvero non sai cosa sia la Banca di Ferro?»
«Conobbi il mondo intero di migliaia di anni fa, ogni singolo angolo di quel mondo; il mondo di adesso invece mi è ignoto, non conosco nulla che vada più a sud del Monte Cabuk e ho visto soltanto poco di quel che invece vi si trova a nord».
Daniel si rattristò immediatamente; poi, volendo scoprire qualcosa in più sul passato di quella maestosa creatura, chiese: «Come mai? Perchè non voli via da qui e non vai a distruggere tutto? Le cose che fanno i draghi insomma... cosa ti tiene rinchiuso in questo luogo?»
«Noi draghi non siamo molto dissimili rispetto agli uomini, e questo perché in fondo gli uomini hanno appreso quel che sono adesso da noi; esistono draghi cattivi e draghi buoni, esattamente per come accade con gli uomini»
«Ma di che stai parlando? Che cosa mai gli uomini avrebbero potuto imparare da delle bestie sputa-fuoco? E ancora non mi hai detto perché dici di essere un Targaryen, non è che a forza di frequentare quel vecchio bacucco ti sei rimbambito pure tu?»
«Daniel, sono disposto a raccontarti la mia storia, ma mi aspetto che tu la smetta con questa tua incontrollabile e noiosa dose di sarcasmo mista ad arrogante spavalderia e presunzione; diverrai a breve il mio discepolo, un nuovo Piromante, e tra noi ci deve essere del genuino e sincero dialogo».
Daniel fu spiazzato da tanta diretta sincerità e dopo una breve, quasi fulminea, riflessione constatò che in fondo i suoi modi di fare erano davvero indisponenti. Certamente doveva essere un mezzo di difesa personale, per respingere o quantomeno attutire la paura che fino a poco tempo prima lo aveva assalito alla vista di Nidhogg. Ma in fondo quell’enorme drago rosso non sembrava davvero pericoloso, quantomeno nei confronti di Daniel. «Ti prego di scusare i miei modi di fare», disse il secondogenito dei Lannister chinando il capo.
«Oh bene: scuse accolte. Mi sarebbe dispiaciuto farti arrosto al fine di farti tacere». Nidhogg lo stava forse minacciando? Daniel, impaurito, alzò lo sguardo incrociando quello del drago ma subito si rasserenò non appena lo vide ricambiare con l’occhiolino e quello che doveva essere un sorriso. Nidhogg riprese: «Ora che abbiamo finito con i convenevoli, ti racconterò la mia storia; apri bene le orecchie, la mente e il cuore, e cerca di trarne il massimo insegnamento perché in fondo questa è la cosa più importante che tu possa apprendere qui da me alla Grande Quercia; tutto il resto sarà solo il frutto della tua volontà e determinazione».
                Daniel fece un cenno con la testa in segno di assenso, poi si sedette intorno al grande falò che bruciava al centro della caverna e tese bene le orecchie in ascolto di Nidhogg; proprio come fanno i bambini quando ascoltano le storie cavalleresche raccontate dai nonni vicino al camino.
                «In principio questo mondo non conosceva la magia. Era un mondo selvaggio, dove ogni creatura seguiva il naturale corso degli eventi. Poi, un giorno, questo mondo di statica armonia venne sconvolto dall’arrivo della magia: la cometa più grande e luminosa mai vista cadde molto a Nord dell’attuale Monte Cabuk; la sua materia, roccia e ghiaccio principalmente, era condensata e permeata dall’essenza stessa della magia. La magia per sua natura è mutevole e viva, e ben presto liberò il suo potere generando dal ghiaccio questi freddi inverni senza fine che seminarono gelo e neve su tutti i continenti settentrionali, mentre invece plasmò dalla roccia la vita, animandola in delle grosse uova. È proprio dalla schiusa di quelle uova che proveniamo io, i miei fratelli e le mie sorelle: Nidhogg, Kyrios, Requiem, Luxia e Kimera, questi i nostri nomi. Crescemmo rapidamente, forse perché la magia era forte in noi, e così ben presto fummo in grado di esplorare per intero questo mondo solcando i cieli con le nostri ali. Ma eravamo unici nel nostro genere: cinque grandi belve superiori in un mondo selvaggio e per nulla stimolante, come fermo nel tempo. Quale era il nostro scopo in un mondo del genere? Ma questi pensieri subito svanirono non appena incontrammo l’uomo: un essere affascinante, dotato di una intelligenza superiore alle altre belve, stimolato dalla curiosità e sempre pronto a volersi migliorare. Nutrimmo subito interesse nei vostri confronti e decidemmo di insegnarvi tutto quello che poteva certamente giovare alla vostra specie; tutti noi eravamo convinti che il senso della nostra esistenza non fosse altro che portare la vitalità e il cambiamento in quell’apatico mondo, e l’uomo ne era certamente il mezzo più adatto. Questi pensieri non vennero accolti però da mio fratello Requiem, per lui voi eravate il male di questo mondo, eravate l’eccezione tra le creature, quella che avrebbe portato alla distruzione della stabile e naturale armonia del mondo, eravate il male da stroncare sul nascere. E così lui trovò il senso della sua vita: eliminarvi. Convincemmo Requiem a risparmiarvi la vita e a lasciarci provare a migliorare l’uomo e il mondo che lo circondava. Fu così che insegnammo a quei barbari la nostra lingua, cosa di cui erano ancora privi; insegnammo loro a costruire abitazioni più sicure; a utilizzare armi e arnesi per agevolare la caccia, la raccolta e la costruzione; e ad alcuni di loro provammo ad insegnare anche la nostra magia, cosa che però venne appresa soltanto da pochissimi individui. Mia sorella Luxia, per i poteri ricevuti dalla cometa, era in grado di generare uova magiche, più piccole, che avrebbero portato alla nascita di draghi minori, gli stessi che sono descritti nelle storie da te citate precedentemente. Quelle creature erano certamente incomplete, la loro violenza non era certamente dovuta al desiderio di fare del male, ma dalla incapacità di controllare il loro stesso potenziale; non erano poi così diverse dall’uomo prima del nostro incontro. E quando si verificarono incendi incontrollati e danni al bestiame per mano di quei cuccioli nacque il malcontento tra gli uomini che non gradirono affatto la venuta tra loro di quelle numerosissime bestie, come un imponente esercito ricoperto di scaglie. L’uomo teme ciò che non può comprendere e controllare appieno e così, ben presto, incapace di controllare la magia e i draghi, cominciò a temere noi che invece riuscivamo a controllarli appieno. Come ti dissi prima, la magia è mutevole e i draghi non sono dissimili dall’uomo: Requiem voleva assolutamente dimostrare di avere ragione e, approfittando di quel momento di paura, donò a molti di quegli uomini gran parte del suo potere e mostrò loro come usarlo per distruggere, conquistare e soggiogare. E ciò che ne seguì fu inevitabile: la vera natura dell’uomo, stimolata dalla paura della magia e dei draghi e alimentata dalla sete di potere lo portò alla ricerca di una sua indipendenza e affermazione: l’uomo iniziò prima con l’inventare una lingua tutta sua, una lingua che noi non potevamo comprendere; poi ci attaccò. Era ovvio, chi aveva donato loro tutto quanto poteva certamente riprenderselo quando voleva. Quella notte non la dimenticherò mai: Requiem, indebolito dalla perdita del suo potere dopo averlo elargito agli umani, fuggì in tempo conoscendo cosa stava per accadere; io, Kyrios, Luxia e Kimera fummo attaccati in massa: le stesse armi che avevamo insegnato all’uomo a costruire per i suoi scopi ci vennero puntate contro. Luxia e gran parte della sua prole morirono rapidamente colti nel sonno, alcuni draghi fuggirono e si diffusero nel mondo mentre io, Kyrios e Kimera decidemmo di placare il conflitto. I pochi prescelti che erano riusciti ad apprendere in parte la nostra magia si schierarono dalla nostra parte ma tutti loro vennero brutalmente massacrati e accusati di essere dei traditori della razza umana. Kimera, accecata dalla rabbia per la morte di nostra sorella Luxia, decise di combattere per vendicarla ma anche lei fu sopraffatta dall’incredibile forza e violenza dell’uomo scaturita dal potere di Requiem. Nostro fratello Requiem dunque aveva ragione? L’uomo era davvero destinato a distruggere il suo stesso mondo? Dopo tutto, gli uomini stavano uccidendo altri uomini,e insieme a loro quelli che erano stati i loro maestri; cosa mai avrebbe potuto impedire loro di risparmiare qualsiasi altra cosa di quel mondo? Kyrios decise di non combattere quella battaglia: per lui la punizione più giusta era vedere l’uomo distruggersi con le sue stesse mani; così spiccò il volo e scomparve per sempre. Io, invece, credevo che era ancora possibile tornare al dialogo e che tutta quella situazione non fosse altro che un piano ben orchestrato da Requiem per creare e diffondere il caos. Decisi di combattere a fianco di quegli umani che si erano schierati con noi ma la nostra resistenza durò poco: ben presto, tutti loro vennero uccisi e io stesso fui ferito all’ala destra, impedendomi di volare lontano. Avevo perso tutto: la mia ragione di vita e i miei fratelli e le mie sorelle. Così la rabbia, la paura e la solitudine riempirono il mio animo e spazzai via con un sol grande soffio di fuoco gran parte di quegli scellerati. Ma in mezzo a quella terribile scena di fuoco e sangue, riuscii a ritrovare i miei antichi valori e ideali: una giovane piromantessa – Phira si chiamava – ferita a morte, stava cercando invano di curare le ferite mortali su Kimera invece di pensare a guarire se stessa. E riacquistai di nuovo la speranza e la fiducia nella vostra specie: non tutti in fondo erano malvagi, il male di quel giorno certamente era stata tutta opera di Requiem; non potevo punire ogni umano per i peccati di pochi e per gli stratagemmi di mio fratello. Presi quella ragazza e scappammo via da quell’inferno di distruzione. Non potevo volare lontano a causa della ferita all’ala e ben presto trovai dimora in questa montagna; da quel giorno non sono mai più andato oltre il Monte Cabuk. Guarii le ferite di quella ragazza che mi fu riconoscente a vita: disse che non voleva più tornare tra gli uomini, che il loro cuore era colmo di odio e orgoglio e che non l’avrebbero accettata in quanto ormai era stata marchiata come traditrice, e che il suo posto era accanto a me, voleva apprendere i segreti più profondi della magia e usarli per rendere questo mondo un mondo migliore. Passarono gli anni; le insegnai tutto quel che potevo insegnarle e nella più totale solitudine di questa caverna sbocciò qualcosa di molto più forte del semplice legame allievo-maestro. Nel frattempo gli uomini iniziarono a cacciare i figli di mia sorella Luxia, ma a quel tempo il potere concesso loro da Requiem era già svanito. Le battaglie tra draghi e uomini vennero raccontate a partire da quei giorni, in cui chiaramente i draghi erano superiori in forza e violenza e l’uomo imparò nuovamente a temerli e ad additarli come bestie feroci e pericolose. Tra gli uomini l’odio e la lotta per il potere non cessarono né dopo quella sanguinosa notte e neppure dopo la scomparsa dei poteri di Requiem: e così da un’unica grande tribù si crearono più gruppi in competizione tra loro, ogni gruppo raggruppava più famiglie, e ben presto le famiglie si divisero in quelle che vengono comunemente adesso chiamate casate. Io e Phira dovevamo trovare un modo di poter entrare a far parte di quel sistema, altrimenti non avremmo mai potuto riportare l’uomo sulla retta via. Così decidemmo di creare la dinastia Targaryen: utilizzai alcune conoscenze magiche apprese da mia sorella Luxia per infondere la vita nel grembo di Phira, il bambino che sarebbe nato avrebbe avuto aspetto umano ma grandi doti nascoste; poteva comandare i draghi e resistere al fuoco. Certamente un uomo così dotato avrebbe avuto un grande impatto in quel sistema fra casati e forse avrebbe anche potuto portare qualche ideale di giustizia, fermezza e stabilità perpetrando quelle virtù nel tempo attraverso la sua dinastia. Crescemmo il fanciullo fino a quando non fu un uomo indipendente e gli insegnammo la nostra ideologia; poi, quando lo spedimmo tra gli uomini, gli cancellai con la magia del Fuoco la memoria sulle sue origini ma non sui suoi scopi. E così si perse nel tempo la conoscenza della magia, dei grandi draghi e dell’origine dei Targaryen. Eccoti spiegato perché sono io, Nidhogg, il capostipite della dinastia Targaryen».
                Il giovane Lannister rimase a bocca aperta per tutto il tempo del racconto. Quella storia era sì avvincente ma anche molto molto triste: nulla di troppo sconvolgente, però. Del resto, quelle crudeltà e le dinamiche politiche sporche erano tipiche anche del suo tempo, non era difficile certamente ritrovarle all’interno della corte nella Capitale Roccia del Re e neppure nelle zone più sperdute del continente in cui banditi e criminali facevano razzie e barbarie nei confronti della povera gente indifesa.
                «Ma come sei finito a fare da mentore per i Primi Cavalieri?»
                «Oh... un giorno un uomo di cui non seppi mai il nome riuscì a trovarmi tra queste montagne, stranamente non era impaurito, anzi sembrava quasi come se conoscesse in parte il mio passato. Non disdegnai di chiacchierare con lui, era molto colto e bravo nella dialettica, gli raccontai la stessa storia che ho appena raccontato a te e subito mi propose di aiutarlo a migliorare il reame; il mio scopo doveva essere quello di istruire i Primi Cavalieri all’uso della magia in modo tale da garantire la stabilità del regno e la longevità della famiglia reale. Diffidai inizialmente di quell’uomo: certamente nascondeva qualcosa, ma qualsiasi cosa nascondesse non poteva certo portare più crudeltà e malvagità di quella che avevo visto fino ad allora. La mia vita scorreva lentamente e senza significato: forse quell’uomo mi stava mettendo alla prova? Forse era la mia occasione di aggiustare ciò che secoli prima mio fratello Requiem aveva distrutto? Decisi di rischiare e accettai l’incarico; nella peggiore delle ipotesi sarei morto e avrei posto fine alla mia vuota esistenza; in caso contrario, avrei in qualche modo continuato quello che era il progetto mio, di Phira e di mio fratello Kyrios e delle mie sorelle. Quell’uomo mantenne la parola. Non lo rividi più, ma giunsero nel corso degli anni numerosi aspiranti Primi Cavalieri mossi dalle più disparate aspirazioni. Le notizie giunte da ognuno di essi lasciavano trasparire che benché l’uomo fosse ancora corrotto, quantomeno aveva smesso di farsi la guerra per ogni nonnulla da molto tempo e che si viveva in una sorte di pace. Certamente non è quello a cui aspiravo, ma sempre meglio di accettare l’idea che mio fratello Requiem avesse completamente ragione, quantomeno erano piccoli risultati. Forse, continuando con gli addestramenti, prima o poi avrei incontrato un Primo Cavaliere che avesse la mia stessa aspirazione, anche se fino ad adesso non sono riuscito a trovarlo. Ecco perché ora formo i Primi Cavalieri».
                «Wow! Davvero affascinante: mi piacerebbe conoscere l’identità di quell’uomo... forse potrei trovare qualcosa negli archivi a Roccia del Re»
                «Dubito che troverai qualcosa... sono arrivato alla conclusione che quell’essere doveva essere divino. Sono convinto di essere stato messo alla prova da qualche entità divina... non riesco a trovare altro significato... Adesso, se sei soddisfatto dai miei racconti, possiamo passare al Giuramento Solenne?»
                «E cosa sarebbe?»
                «È un giuramento fatto nella mia lingua, la lingua più vicina alla magia, che serve per stipulare un accordo con la magia che alberga in me, al fine di averne accesso. Senza questo giuramento non potrai acquisire i miei poteri. Inoltre il giuramento sigillerà le tue capacità di esporre a rischio la fonte del potere, quindi non potrai mai comunicare ad altri cosa ci sia sotto la Grande Quercia, né chi sia stato il tuo Maestro e neppure in cosa consiste la tua magia. Tutto deve restare segreto: se spezzerai tale giuramento la magia del Fuoco divamperà dentro te bruciando la tua persona e ogni traccia che porta a questo luogo»
                «Sembra pericoloso... vuoi farmi credere che ogni Primo Cavaliere abbia corso un rischio simile suggellando tale accordo?»
                «Certamente... a ben vedere non hai neppure molta scelta: vuoi tornare alla Capitale privo di alcun potere e raccontare ciò che ti è successo qui? Certamente verrai preso per pazzo e rinchiuso da qualche parte, diseredato e senza alcun diritto al trono... è forse questo quello che vuoi, Daniel?»
                «Quindi mi hai incastrato! Non ho alcuna scelta!»
                «Direi che entrambi non abbiamo alcuna scelta; se non ti sta bene, ti riaccompagno alla Grande Quercia».
                Daniel si lasciò persuadere dalle parole di Nidhogg; disse: «Accetto... cosa devo fare?»
                «Tieni una mano sul petto e l’altra sul grosso fuoco al centro della caverna, poi ripeti dopo di me».
                Daniel avvicinò la mano sinistra al petto in prossimità del cuore, poi allungò la mano destra, tremante, sul fuoco che ardeva nella caverna: non bruciava; era caldo, ma non scottava. Quel fuoco dava quasi una sensazione piacevole; la stessa scaturita dalla fiammella sulle torce fuori dal portone in acciaio Valyriano. Poi Nidhogg iniziò:
«Maoleth Gawen Gahenna - Il Fuoco Arde In Me Forte
Garikos Ehamen Tier Rosmenah - Con Esso Deciderò La Mia Sorte
Dalitor Ehum Naktel Valyenha - E Custodirò Il Segreto Fino Alla Morte»
 
Una luce partì dal falò, raggiunse Daniel e lo avvolse in un velo di fuoco: il calore divampò nel secondogenito Lannister, un calore che riscaldò ogni parte del suo corpo e perfino la sua anima; la ferita provocata da quello strano essere si era adesso rimarginata del tutto e quel che ne restava era soltanto un piccolo taglio quasi invisibile. E Daniel ripensò al primo verso del giuramento: “Maoleth Gawen Gahenna”. Quella frase l’aveva già sentita! Quella era la frase che aveva allontanato il mostro che lo aveva attaccato alle pendici di Cabuk! Forse Daniel adesso aveva finalmente la possibilità di capire cosa fosse quell’essere e perché attentasse alla sua vita.
«Nidhogg, il mostro che hai allontanato in cima al Monte Cabuk, ripetendo la prima frase del giuramento, che cosa è?E perché attentava alla mia vita?».
Nidhogg sembrava soddisfatto da quelle domande; forse quello che a prima vista doveva essere il peggior futuro Primo Cavaliere di sempre stava finalmente iniziando a ragionare e a porre le giuste domande, nella speranza di maturare quella che tra tutte le qualità è forse la più importante: la saggezza.
«Nessun essere che ha avuto la sfortuna di sopravvivere alla fiammata di un drago si augura di esserne nuovamente travolto; non mi stupisco del fatto che quell’essere sia fuggito al solo sentire la mia voce minacciarlo nell’antica lingua dei draghi»
«Ma cosa era? Perché voleva uccidermi? E quindi quell’essere è sopravvissuto alla fiammata di un drago?»
«Quell’essere è un Necriomante, un antico umano che è stato investito dai poteri di Requeim a tal punto che la sua carne è stata interamente bruciata dal suo soffio spietato e tutto quel che ne rimane non è altro che ghiaccio e ossa che fanno da involucro a quella che deve essere un’anima oscura e corrotta. Un allievo di Requiem, se così possiamo chiamarlo, non molto dissimile da un Piromante»
«Inquietante... ma perché ero io il suo bersaglio?»
«Beh... se tu e tutti gli altri eredi al trono morite, il titolo passerebbe al lord Primo Cavaliere attualmente in carica, ovvero tuo zio Constant…»
«Chi mai vorrebbe organizzare una follia del genere se non...»
«Rifletti giovane Piromante, rifletti»
«...se non mio zio...Constant?! Ma perché mai fare una cosa del genere? Mio zio Constant nonlo farebbe mai: è sempre stato buono con noi!»
«Proprio per questo nessuno sospetterebbe mai di lui... ha già ucciso il tuo prozio Duhenlar per acquisire i suoi poteri...»
«Ma di cosa stai parlando? Duhenlar è morto?Quando e come? E non si perdono i poteri da Primo Cavaliere quando ne viene designato uno nuovo?»
«Verissimo, ma soltanto quando il precedente Primo Cavaliere li trasferisce a quello nuovo, e credo che tra le vostre usanze sia quella chiamata “Il passaggio della Fiaccola”. Duhenlar, che era saggio, tra i più saggi che io abbia mai avuto qui alla Grande Quercia, evidentemente decretò per qualche ragione che tuo zio Constant non fosse degno di ricevere i pieni poteri da Piromante e perciò, benché prese parte alla cerimonia, non gli trasferì affatto tutti i suoi poteri e ne trattenne una parte, rendendo così Constant a tutti gli effetti un Piromante incompleto. Ho avuto modo di addestrare tuo zio Constant qui alla Grande Quercia e posso confermare che benché fosse tra i più promettenti Piromanti di sempre, con capacità di apprendimento e iniziativa nettamente superiori alla media di tutti i Piromanti mai addestrati, la sua ambizione era talmente elevata da non avere limiti. Cercava sempre di raggiungere la perfezione, un potere sempre più forte e senza mai darmene una valida motivazione. Quando gli raccontai la storia del mio passato, ciò che più lo colpì non fu la crudeltà degli uomini, piuttosto era interessato a quali poteri Requiem avesse donato a quella gente, cosa fossero in grado di fare in più rispetto ai poteri che gli avrei dato io stesso. Capii allora che dovevo smettere di istruire Constant ai segreti della magia e gli dissi che il suo periodo di addestramento con me era finito. Non prese bene quella mia scelta e così invece di discendere il Monte Cabuk dal versante meridionale per tornarsene alla capitale, si diresse ancora più a Nord e sopravvivendo al terribile inverno dei ghiacciai usando l’arte della Piromanzia da me appresa, superò la zona di impatto della cometa madre, la Gola Mistica, e lì persi le sue tracce. L’intera area è permeata da magia, e non sono più riuscito a seguire la fiamma che avevo infuso in Constant. Ho motivo di credere che fosse andato a cercare Requiem per entrare in possesso anche dei suoi poteri, e sono sicuro che riuscì ad incontrare mio fratello. Questo perché, quando ridiscese verso Roccia del Re, ho percepito una variazione nella sua fiamma: era scura e gelida, non calda e luminosa; e chiaramente non fui io a dargli quei poteri. Qualsiasi cosa abbia pattuito con Requiem non porterà a nulla di buono, e l’arrivo di quel Necriomante per eliminarti ne è la prova, i suoi piani sono appena iniziati. La piccola fiamma di Duhenlar si è spenta di recente, e credo che Constant aspetterà la “cerimonia della Pira” per entrare in possesso del suo pieno potere da Piromante»
«Constant vuole diventare Re?»
«Non lo escludo...»
«Quindi ucciderà mio padre?»
«Suppongo non prima di avere la certezza di aver eliminato tutti i discendenti legittimi al trono. Preparati giovane Piromante… l’inverno sta arrivando».
 
 
 
                Un vecchio uomo, testa calva, lunga barba incolta e bianca, camminava lungo i giardini in fiore di Roccia del Re, sventolando, passo dopo passo, la sua lunga tunica marrone, annodata alla vita da un lungo cordone bianco da cui pendevano medaglioni e targhette in argento. Era da poco passata l’alba; il Gran Maestro Septimus, superati i giardini baciati dal sole mattutino, aveva appena messo piede all’ingresso del cimitero quando vide in lontananza, vicino a una ben curata e adornata lapide, due figure intente a parlottare sottovoce: la prima, capelli corti e scuri, baffetti e pizzetto meticolosamente curati, vestiva una lunga veste nera adornata sul petto con la spilla del Maestro del Conio; la seconda, capelli dorati, arruffati e lunghi fino alle spalle, barba lunga e incolta, era invece avvolta in un mantello nero fuori e rosso dentro; il mantello presentava l’imponente chimera rampante dorata simbolo della casata reale, sul petto vi era appuntata la spilla da Primo Cavaliere. Raggiunto il luogo pattuito, il Gran Maestro Septimus venne salutato dal Maestro del Conio con una mezza riverenza e soltanto con un cenno della mano dal Primo Cavaliere.
                «Pensavamo non arrivaste più, Gran Maestro Septimus» disse Lorthan Tyrell, il Maestro del Conio.
                «Un uomo anziano non è più nel pieno delle sue forze; ha bisogno del suo tempo»
                «Immagino di sì. Brutta roba, la vecchiaia»
                «Fintanto che porta saggezza non è affatto da deprecare»
                «E infatti siamo qui per ringraziarvi di aver messo a nostra disposizione la vostra saggezza»
                «Basta con le tue subdole lusinghe, sono vecchio, non stupido... piuttosto, perché mai in questo luogo?»
                «I morti non ascoltano e non parlano, sono i custodi perfetti per i segreti, soprattutto quando questi segreti sono sporchi di sangue».
Constant si intromise nella discussione tra i due uomini: «Basta con queste idiozie! Non abbiamo tempo per questo! Siamo sicuri che non sarà possibile risalire in alcun modo al Veleno Strozzante?»
                «Certamente... il Veleno Strozzante non lascia traccia sul cadavere ed è così raro e costoso che nessuno penserebbe mai che venga usato su un uomo privo di alcun potere politico. Inoltre sono il Gran Maestro e ho già dichiarato che il nostro uomo è morto per un incidente alimentare, dubito di trovare oppositori» disse Septimus.
                «Anche io ho fatto la mia parte: il denaro per l’acquisto del Veleno è stato inserito tra le spese che affronteremo presto per celebrare il matrimonio del cognato del principe Axelion Lannister primo erede al Trono; risulterà essere stato speso per l’acquisto di un prelibatissimo e costosissimo vino esportato direttamente da Khalastà, in Oriente. Inoltre ho fatto in modo che il fedelissimo coppiere di Duhenlar fosse “ricompensato” per il suo operato e quindi assassinato per cancellare ogni prova» espose Lorthan con altisonanza.
                «Come hai fatto a corrompere il coppiere? Gli è sempre stato fedele! » chiese con curiosità Septimus a Lorthan.
                «Tutto può essere comprato... qualsiasi coppiere sarebbe disposto a bere da qualsiasi calice gli venga offerto se è sicuro che nessuno avvelenerebbe mai quei calici... quindi ho fatto in modo che il coppiere sapesse che sarebbe morto per davvero se avesse bevuto dal calice destinato a Duhenlar... in effetti, aver fatto girare la voce che Duhenlar fosse pazzo è stato di grande aiuto: è la sua stessa paranoia che l’ha ucciso... poiché, per l’appunto, soltanto un pazzo dubiterebbe con tanta ossessione di venir avvelenato in tempo di pace... in poche parole, quel coppiere non era affatto fedele a Duhenlar, era piuttosto felice di essere pagato profumatamente da un folle per assaggiare manicaretti di alta classe... e, come ogni cosa che può essere comprata, per averla basta soltanto offrire di più, e la sua vita più un sacco pieno di monete gli sono sembrati abbastanza... ovviamente le guardie che ho mandato per scortarlo rapidamente fuori dalla Capitale si sono occupate di lui e del cadavere che ora giace silenzioso sul fondo del mare. Mi sono addirittura occupato delle guardie stesse spostando il loro mandato alla Valle del Leone invece che alla Capitale, in modo da evitare eventuali ficcanaso»
                «Perfetto, riguardo alla Valle del Leone: ci sono novità?» chiese Constant.
                «Il principe Marcus ha ricevuto la notizia ma non l’invito alla cerimonia, dubito che lo avremo a corte ancora per un po’; con un po’ di pazienza, qualche chimera farà il lavoro al posto nostro».
                «E dal Monte Cabuk?»
                «Immagino che dovremo aspettare il ritorno di Sir Cordell, prima di allora possiamo fare solo congetture»
                «Va bene, per adesso dedichiamoci alla Cerimonia della Pira e a questo insulso matrimonio. Signori, grazie per i vostri servigi».
Detto questo, Constant ringraziò con un cenno del capo e sparì in breve dalla vista. Septimus e Lorthan rimasero un po’ di fronte alla lapide ricoperta di fiori; una bellissima rosa del deserto spiccava tra tutte le decorazioni ed era poggiata alla base della lapide, Constant l’aveva messa lì la mattina stessa prima dell’incontro.
«Era davvero una bella donna, non crede Gran Maestro Septimus?»
«Lo era. Una gran bella donna...».

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Capitolo 5
*** L'ultimo Concilio ***


Capitolo 5
L’ULTIMO CONCILIO
 
 
                E infine la carrozza arrivò. Era trainata da quattro stalloni orientali, neri come la pece. E il suo arrivo portava qualcosa di oscuro con sé. Quel silenzio imbarazzante tra le fila dell’esercito schierato in bella mostra: uomini virili, che avevano veduto coi loro occhi gli orrori della guerra nelle battaglie per la conquista dell’oriente, ora rimanevano tutti silenti come a sperare che niente, neanche un piccolo colpo di tosse, potesse farli notare. E il cielo… il cielo si era rannuvolato. Non pioveva, e come avrebbe potuto: lì a Dorne non pioveva mai. Ma soltanto il fatto che tutt’assieme fossero spuntate le nuvole era indice di cattivo presagio.
                Un brivido corse lungo la schiena di Shane Tyrell, fratello minore del Maestro del Conio del Regno – Lorthan – e cugino del re. Sapeva che quello che stava facendo andava fatto, e sapeva da un pezzo che avrebbe dovuto farlo. Ma entrare fisicamente in contatto con quegli individui, incontrarli… questo avrebbe preferito evitarlo. Giungevano strane voci di questo Signore delle Dune che aveva preso il controllo della città perduta di Valyria, e dell’intera regione insulare che si trovava a sud dell’Essos. Voci fumose, a volte contrastanti; demoni al servizio di un mago, o maghi al servizio di un demone forse… urla strazianti provenire dalle città a confine coi territori facenti parte del Regno Unificato, e posti sotto il dominio della valorosa e antica Casa orientale dei Panecha. Interi cieli di nuvole di fumi rossi come il sangue sprigionarsi da quei luoghi e portare con loro gli inconfondibili odori della morte e del marciume…
                Più volte Shane aveva pensato: “Ma siamo sicuri di star facendo la cosa giusta?”, “È proprio necessario allearsi con questa gente?”. Suo fratello gli aveva risposto di sì, e anche lui in cuor suo sapeva che la risposta giusta alle sue domande era sì. E sapeva anche che in questi casi l’accordo andava preso personalmente. Non si poteva trattare la gestione di un’alleanza politica in luce di un colpo di stato, e l’eventuale fusione di due eserciti, tramite scambio epistolare. Quello c’era stato, era stato proficuo ma ora bisognava conoscere personalmente “gli amici” accanto ai quali stavano per combattere una guerra.
                A lungo Shane aveva cercato di fare in modo che sir Haldric – il cavaliere che si occupava della politica diplomatica per la casa Tyrell – si occupasse di quel colloquio in sua vece. C’era quasi riuscito, ma ultimamente la novità prima della nascita di un nuovo erede al trono, poi della morte di sir Duhenlar, poi forse di un matrimonio, costringevano Haldric a rimanere saldo al suo posto insieme a Lorthan, lì alla Capitale. E giù a Dorne avevano mandato lui, il fratellino, a occuparsi di un compito così delicato. A sentire suo fratello, non c’era nulla di delicato nella ratifica di un accordo già preso in altra sede. Tuttavia, Lorthan tendeva a minimizzare il fatto che quel trattato i Tyrell lo stavano ratificando insieme a uno che a quanto pareva era sbucato improvvisamente dalla sabbia e si era preso il sud dell’oriente con la facilità con cui si beve una coppa di vino.
                La carrozza si aprì. E fin da subito Shane aguzzò la vista per cercare di determinare chi o che cosa ne stava venendo fuori. Erano in quattro, tre dei quali spropositatamente alti. Qualcos’altro rimase dentro il veicolo: il giovane Tyrell non riuscì a distinguer bene se un uomo o chissà cos’altro. Ma c’era del viola, molto probabilmente. Due delle creature che gli si stavano avvicinando non erano umane. Ed erano probabilmente la cosa più repellente che lui avesse mai veduto nell’intera sua esistenza. Erano come uomini, ma decisamente più grossi e più muscolosi della media degli uomini. Il colore della loro pelle oscillava tra il grigio scuro e un verde del colore dell’acqua di laguna. Non avrebbe potuto giurarlo, ma Shane pensò che al tatto non sarebbe stata come la pelle di un uomo: aveva un aspetto più ruvido e secco. Bozzi e verruche, disseminati un po’ ovunque, contornavano il tutto. E il viso… il viso era la cosa più agghiacciante! Anche se fra loro simili, quello dell’uno pareva l’orripilante muso di una specie di cinghiale, quello dell’altro invece gli ricordava l’inquietante aspetto di certe grosse lucertole dell’est che aveva veduto soltanto nelle illustrazioni di un qualche libro sull’oriente. Come se non bastasse, i due mostri erano anche armati di tutto punto: pesanti corazze da battaglia, sgraziati schinieri senza rifiniture, mazze e spadoni.
                A Shane bastò solo quella visione per capire che l’alleanza andava ridiscussa. Che lui, suo fratello, e Constant Lannister – Lord Primo Cavaliere del re – avevano preso un abbaglio! Stavano per commettere un grosso errore! Quell’alleato era pericoloso, e Shane e Lorthan non si erano liberati del loro stesso padre – troppo amico del re Lannister – per poi rischiare di mettersi in affari con mostri e demoni. Il tipo di magia che Constant praticava, non era neanche lontanamente simile a quella del loro alleato. O forse… Constant e Lorthan sapevano? Magari Constant, che non era certo nuovo a fatture e malefici, aveva conosciuto e stretto un patto col Signore delle Dune ancora prima della sua alleanza con i Tyrell… Possibilmente, il Maestro del Conio e il Primo Cavaliere erano informati e semplicemente avevano preferito tacergli alcuni dettagli; tipo che le guardie personali del Signore delle Dune fossero dei mostri mezzi uomini e mezzi bestie…
                Neanche la terza creatura alta era umana. Questo si distingueva chiaramente, anche se sicuramente non era della stessa razza degli altri due, e il suo volto era coperto da un’inquietante maschera fatta di un materiale simile alla carne degli uomini. Quella, probabilmente, era la cosa che più stava terrorizzando il rampollo di casa Tyrell. Quella maschera era assai più mostruosa delle stesse creature lì vicino, che invece si sarebbero detti dei mostri proprio nella loro integrità. Oltre a ciò, la strana creatura che avanzava verso di lui scortata dal cinghiale e dal rettile, accanto all’omino tarchiatello unico vero e riconoscibile umano del gruppo, era alta anche più dei due uomini-bestia. E, nonostante i suoi fossero degli abiti che si sarebbero detti da aristocratici, avanzava con un’andatura che li faceva oscillare come se lì dentro non ci fosse niente, a parte aria o vento. Sul capo teneva poggiata una corona nera.
                Shane Tyrell cominciò a pensare che forse proprio quella creatura potesse essere il Signore delle Dune, dato che l’umano che c’era con loro non aveva affatto l’aspetto di un potente mago, e neanche di un aristocratico a dirla tutta. Probabilmente il vedere quel normale uomo leggermente in sovrappeso, biondino, dall’aria saccente ma il passo insicuro, in mezzo ai mostri, creava anche un certo contrasto. Shane a questo punto si domandò chi diavolo fosse veramente il capo della delegazione che veniva a offrirgli la magia, avanzando verso la lunga scalinata del suo palazzo di villeggiatura.
                L’umano fece fatica a salirla quell’ampia gradinata che conduceva al palazzo. A metà della rampa, si stancò e fece una pausa, e quando le tre strane creature rimasero ad attendere che riprendesse fiato, il principe Tyrell si rese conto che – seppure la cosa fosse assurda – il tozzo ometto era il capo. Quando finalmente raggiunse la sommità, Shane tirò fuori il sorriso più fasullo di cui disponesse e gli andò incontro, tendendo le braccia. Anche quello gli sorrise; dopodiché disse, tra una boccata d’aria e l’altra: «Impegnativo questo ingresso. Solenne, ma impegnativo»
                «In realtà questa è la gradinata di rappresentanza» rispose Shane, diplomatico, «La prossima volta, mi impegno a farvi accedere da un ingresso meno formale» dunque decise di presentarsi: «Io sono Shane Tyrell»
                «Sir Bastian» fece quell’altro «Sono il fratello del Signore delle Dune. Fratellastro, veramente»
                «Prego» concluse dunque Shane, indicando al suo ospite la strada per l’ingresso del palazzo. Mentre attraversavano i rigogliosi giardini interni, meravigliato, sir Bastian non poté fare a meno di esclamare: «Questo luogo è uno splendore…»
                «Apparteneva alla famiglia Martell, prima che i miei antenati ne occupassero il territorio, alla conclusione della Guerra dei Girasoli. È una storia vecchia di circa cinquecento anni». Ma nonostante Shane fosse un buon conversatore, e rendesse credibili tutti quei convenevoli, in realtà l’inquietudine di avere costantemente alle spalle quei tre scherzi di natura che seguivano lui e Bastian, silenziosi ma senza sosta, lo stava per sommergere definitivamente: ancora qualche istante e sarebbe entrato nel panico. Per fortuna, attraversati i giardini, i cinque raggiunsero la sala che era stata predisposta per l’incontro. C’erano un mucchio di guardie fedeli alla casa Tyrell, tanto che Shane non è che proprio cominciò a sentirsi al sicuro, ma quantomeno vagamente rincuorato. Si sedette al capo occidentale di un lungo tavolo marmoreo. Sir Bastian si sedette all’altro; muso-di-cinghiale, muso-di-rettile, e strana-maschera-spaventosa imperturbabili alle sue spalle.
                «Sir Bastian» ricominciò Shane «Gradite qualcosa prima di cominciare?»
                «No, signore» rispose il grassoccio «Onestamente andiamo un po’ di fretta»
                «Ci sono… altre alleanze da stipulare qui nel sud del Westeros?» a queste parole Shane rise, ma in realtà la sua era un’ironia piuttosto subdola. Certo, se ci fossero state, sir Bastian avrebbe dovuto sentirsi almeno un po’ minacciato da questa “battuta”. Con una serietà estrema, sir Bastian rispose: «No. Ma la creazione di un esercito come si deve richiederà del tempo. E prima avremo un esercito, prima avremo una vittoria, mio signore. Dove sono le carte da firmare?»
                «Non vi nascondo che, sebbene io sia sempre felice di fare delle buone conoscenze e delle buone conversazioni, noi oggi onestamente ci aspettavamo vostro fratello in persona. Per avere almeno una dimostrazione di quello che è effettivamente in grado di fabbricare»
                «Ah, mio signore» rise Bastian «Eccola la dimostrazione». Indicò le tre oscure creature dietro di lui. «Che forse qualsiasi signore dell’ovest non darebbe tutte le sue fortune per essere al comando di un paio di questi robusti ragazzoni?»
                «Così è questo che ci proponete…» rifletté il principe. Bastian lo corresse: «No, è questo che vi daremo…»
                «Sì, ma non capisco… cosa c’entrano quei sicuramente validi energumeni con… il nostro esercito? Come può quello rafforzare questo?»
                «Lord Tyrell, io credo che qui sia in corso un fraintendimento. Dalle vostre parole io evinco che voi abbiate capito che sarà la nostra magia ad arrivare al vostro esercito»
                «E non è così?»
                «Mio signore, io pensavo che vostro fratello e Lord Constant vi avessero informato…»
                «Informato di cosa?»
                «Non è la nostra magia a recarsi dal vostro esercito, è il vostro esercito che deve ricevere l’ordine di seguire noi, a Valyria».
                La notizia sconvolse Shane. Riteneva improbabile, molto improbabile, che suo fratello gli avesse taciuto un’informazione del genere. Aveva bisogno di sapere di più: «Di quanti uomini avete bisogno?»
                «Di tutti quelli che disponete qui a Dorne. Incluse le vostre guardie personali, e quelle addette alla sicurezza del palazzo». La cosa era ridicola e prendendola come una battuta Shane si lasciò sfuggire un risolino derisorio, cui aggiunse: «E chi dovrebbe badare alla mia sicurezza?». A questo punto Bastian fece la cosa più curiosa di tutta la già di per sé singolare conversazione: si voltò verso l’uomo con la maschera, il quale fece un impercettibile segno con il capo, ma che Shane notò. Ricevuto questo assenso, il fratello del Signore delle Dune procedette: «Gronf e Ranf rimarranno con voi». Firmò la pergamena che gli era appena stata passata; dunque concluse: «E anche l’uomo che vedete alle mie spalle. È un potente mago». Shane raccolse tutto il coraggio che aveva in corpo e rivolse il proprio sguardo dritto alla maschera di carne. Era terribile. E quello che il giovane Tyrell aveva solo ipotizzato in lontananza si sentì di confermarlo ora che la creatura stava a pochi metri da lui: quella era una maschera di pelle umana. Oltretutto, guardandolo, tutto un calore lo pervase da dentro, ma anche al di fuori. Era come se la temperatura nella stanza si fosse improvvisamente alzata. Cercò di capire se si trattasse di un problema suo, una questione legata alle sue sensazioni, alla paura che quel mostro gli suscitava. Ma non era così: in quella stanza c’era davvero un caldo asfissiante, perfino per Dorne.
                Nel frattempo, la pergamena appena firmata dall’alleato del sud-est, era passata nella metà del tavolo dove sedeva Shane. Lui la guardò per qualche secondo. Realizzò che non la voleva firmare. Qualcosa gli diceva che non era la scelta giusta. Ancora una volta, si prese di coraggio e disse: «Mio stimato sir Bastian, chiedo venia per il disappunto ma… firmerò il nostro accordo, non appena mio fratello mi avrà confermato che il nostro esercito si smobilita verso Valyria. Insomma, con tutto il rispetto, signore, ma ordinare perfino alla mia guardia personale di…»
                «Adesso… basta… ragazzino!» urlò dunque la creatura con la maschera di uomo. La sua voce gettò tutti gli abitanti di Dorne presenti a quella riunione nell’orrore più assoluto. Era stridente, eppure minacciosa, cupa. Come se a parlare fosse la pietra o… le ossa!
                Insieme a quelle parole, il mostro aveva anche battuto una mano sul tavolo: il marmo colpito da quel mostruoso palmo affusolato, vestito d’un elegante guanto di tessuto rosso, si sciolse. Servendosi dell’altra mano, il demone si tolse la maschera e mostrò il suo vero volto. Era quello di un teschio, nero e minaccioso. Dentro l’orbita degli occhi, dove gli uomini normalmente hanno le iridi e le pupille… lui aveva le fiamme! Le parole del mostro non erano finite lì; disse ancora, sempre rivolto faccia a faccia al povero Shane: «La vostra sicurezza da questo momento è un problema mio! Non preoccupatevi: il vostro è un sangue prezioso, e noi vi siamo particolarmente interessati».
                Shane firmò il trattato. Dopodiché ordinò a Crangston – capo della sua guardia personale – di dire all’esercito di Dorne di prepararsi all’immediata partenza. E, quando tutto sarebbe stato predisposto, di partire lui medesimo, e tutti i suoi uomini, insieme ad esso.
 
 
 
                Gino era davvero stremato. Era soltanto il suo secondo giorno alla Capitale, e già rimpiangeva le verdi radure di Lungotavolo. Lì conosceva tutti e tutti gli erano amici. Conosceva ogni anfratto del bosco, ogni riva del fiume, ogni angolo del castello… Ma alla Capitale invece era praticamente da solo. Suo padre, lord Barron, lo aveva affidato a questo sir Haldric – un pezzo grosso di Altogiardino – il quale a sua volta lo aveva messo nelle mani di tal sir Dranfett: nerboruto, lunga e ispida barba rossiccia, benda ad un occhio, sempre mezzo ubriaco. E sir Dranfett era il responsabile della guardia di sicurezza di Lord Lorthan Tyrell. E Lord Lorthan Tyrell era la vera ragione per cui Gino si trovava a Roccia del Re. Suo padre aveva un debito di amicizia con i Tyrell e mandando il suo figlio primogenito a farsi ammazzare per loro, sperava di tenere ben salde le chiappe sul trono che era stato di suo padre e del padre di suo padre: quello del mediocre, misero, borgo di contadini e taglialegna che altro non era Lungotavolo. Ma i Barron e i Tyrell erano amici da sempre, e quindi la scusa era quella di rinsaldare una vecchia e storicamente proficua alleanza. In realtà Gino, anche se si reputava un giovane volenteroso, caparbio, anche astuto a suo modo… un po’ acerbo, forse, nell’arte della spada, ma più alto e dalle spalle più larghe della media dei suoi coetanei, nonostante tutto questo… pensava che suo padre lo avesse mandato in mezzo alle chimere della Capitale davvero troppo prima del tempo naturale: lui aveva sedici anni da poche settimane.
                Il viaggio a cavallo fino alla Capitale – il più lungo della sua vita – era stato estenuante: a un certo punto, pensò che non sarebbe mai arrivato alla meta. Una volta raggiunta la meta, la sera tardi, Haldric, Dranfett, e gli altri della guardia di Tyrell che non erano in quel momento con il signore di Altogiardino, lo avevano portato in un bordello. Ubriaco, naturalmente. La prima sbornia, e la prima scopata andata a vuoto della sua vita.
                L’indomani mattina, una lunghissima, interminabile, cerimonia pseudo-religiosa in cui lui, in compagnia di almeno altri trecento tra nobili, politici e cavalieri del Regno Unificato, aveva assistito alla cremazione di un vecchio signore, dall’aria serena, che – a quanto Gino aveva avuto modo di capire – era stato in vita un parente del re. E c’era anche il re in persona, solo che lui non l’aveva visto. Lui apparteneva alla delegazione dei Tyrell e l’unica cosa che aveva avuto modo di notare erano stati gli stendardi con la rosa dorata su campo verde, simbolo della casata di cui anche lui in qualche modo faceva parte. Vedeva rose dorate ovunque da quand’era alla Capitale! Stava cominciando a riscoprire in sé una certa, atavica, antipatia per tutto quanto esistesse di floreale…
                Quando, dopo la sua seconda cena alla Capitale, consumata insolitamente presto quel giorno, Haldric e Dranfett tornarono da lui, chiedendogli di seguirlo, Gino temette che per la seconda sera consecutiva volessero proporgli una nottata di vino e donne. Fortunatamente non fu così. Di tutta la guardia dei Tyrell, vennero scelti solo lui e un altro; a tutti gli altri Haldric e Dranfett concessero il riposo per quella sera. Ma Gino no: Gino doveva ancora lavorare. Seguì così i due nobiluomini dentro il palazzo reale: un immenso fabbricato pieno di effigi in pietra al suo esterno, e pregiatissimi arazzi al suo interno. Dunque, raggiunse un immenso salone, con al centro una gigantesca tavolata rotonda con almeno trenta posti a sedere. E almeno una quarantina dovevano essere gli uomini lì dentro, anche se quasi nessuno era seduto. Tutti parlottavano. Lorthan Tyrell era già dentro. Ma Gino non si soffermò tanto a guardare chi conosceva e chi no (anche perché non conosceva nessuno); la sua attenzione venne distratta dal tetto di quella stanza: le rifiniture perfette, scolpite in bassorilievo sulla pietra, rappresentavano: un drago che sputava fuoco, un lupo dai denti affilati e l’aria minacciosa, un sole trafitto da una lancia, un cervo rampante, la rosa dei Tyrell, un falco in picchiata, una lucida trota guizzante, un temibile kraken a dieci braccia e in ultimo, al centro, un austero leone dall’aria regale.
                «Voi restate qui» ordinò Dranfett a lui e all’altra recluta «E nel caso qualcuno cercasse di uccidere Lord Lorthan… intervenite!». Detto ciò, Dranfett li lasciò da soli, recandosi anche lui a chiacchierare con un altro tipo dall’aria minacciosa almeno quanto la sua. Haldric li aveva lasciati già da prima: si era unito a Lord Lorthan. Con grande sorpresa di Gino, anche il tipo di poche parole che era stato convocato insieme a lui, si allontanò e inizio a confabulare con uno che gli parve una recluta almeno quanto loro. Imbarazzato, non sapendo bene cosa fare, il giovane Barron tornò a guardare lo spettacolare soffitto intarsiato della sala. Venne interrotto di nuovo. Pensò che sir Dranfett volesse ordinargli qualcosa, ma non era così. Il cavaliere che lo interruppe, era un ragazzo giovane: non quanto lui, che probabilmente era il più giovane lì dentro, ma abbastanza giovane. Aveva dei lunghi capelli ricci e l’aria del “veloce assassino”, piuttosto che del “resistente generale”. Oltretutto, gli sorrise dicendo: «Salute. Sei nuovo, eh?»
                «Sissignore» balbettò Gino «Salute a voi»
                «Non è così male assistere a una riunione del Concilio Ristretto: c’è di peggio in questa città, vedrai. Magari all’inizio potrà sembrarti noioso ma… succede sempre qualcosa d’interessante in queste dannate riunioni. Qualcosa… di inatteso, ecco. Sempre, tutte le volte!»
                «Questo… è il Concilio Ristretto?»
                «Già. Ridicolo, non è vero? Dico io: almeno cambiategli nome, visto che saremo in cinquanta! Anche se, a dirla tutta, i membri ufficiali dovrebbero essere trenta, non cinquanta. È che, sai com’è, qui nessuno si fida di nessuno e quindi ogni illuminato Lord membro del Concilio pretende di poter portare con sé un manipolo delle sue guardie personali. Anzi, all’inizio era così. Poi, qualche decennio fa, presero la cosa della sicurezza come una scusante per portarsi consiglieri e segretari e adesso… il Concilio Ristretto non è più così ristretto. Ahah vengono i brividi a pensare quanti membri fossero in origine, no? Il re, la regina, il Primo Cavaliere e pochi altri. E adesso: trenta. Più una ventina tra consiglieri e guardaspalle»
                «E…» provò Gino «Voi siete un membro del Concilio o…?»
                «Io? No, per l’amor degli dèi! Tutto questo parla parla non fa per me. Io sono un uomo d’azione! Come te, a quanto posso vedere»
                «Eh, io non so nemmeno perché mi trovo qui»
                «Come ti chiami?»
                «Ehm… Gino. Gino di Casa Barron»
                «Bene, Gino» il tipo gli strinse la mano «Io sono Kellan». Probabilmente notando che Gino stava guardando proprio da quella parte, Kellan fece: «Quello è il trono del re, per questo è diverso dagli altri. O meglio: è uno dei troni, in realtà quello più celebre non si trova in questa sala: credo che non possa neanche essere spostato. Sai, dicono che questo re odi le riunioni del Concilio, si annoia almeno quanto te e me ma… lui deve venirci per forza! Peraltro, non ha nemmeno diritto di voto»
                «Ah, no?»
                «No, l’ho scoperto qualche mese fa. Il re è tenuto a partecipare, in quanto il Concilio formalmente dovrebbe rappresentare la seduta dei suoi più stretti consiglieri. E… naturalmente il re può intervenire, può dibattere, ma non partecipa al voto finale. Può porre un veto, ma non un voto. Nel senso che una volta che i membri del Concilio hanno votato, lui può decidere di bloccare quella decisione: anche se questo avviene raramente»
                «E come mai?»
                «Perché, vedi, generalmente un re ha un’influenza talmente grande da poter orientare le decisioni del Concilio. Vedi il posto accanto a quello del re? Quello con la grande mano incisa sopra?»
                «Sì»
                «Quello è il posto del Primo Cavaliere: presiede la seduta. La seduta non può cominciare senza il Lord Primo Cavaliere. E sai chi è il Lord Primo Cavaliere, membro integrante del Concilio?»
                «No»
                «Il fratello del re. Di diritto. E, sempre accanto al re, dall’altro lato, sempre con potere di voto, sai chi siede?»
                «No. Chi?»
                «Il Lord Segretario del re. E sai chi attualmente ricopre tale carica? Sua grazia Lady Hana di Casa Lannister, figlia del re… Ora, il sovrano non avrà diritto di voto ma: ben due tra i membri del Concilio sono suo fratello e sua figlia. Certo questo non sempre nella storia si è confermato come una garanzia: più in alto si sale di livello più il tradimento può arrivare dalle persone a te più fedeli, questo lo sanno tutti. Curiosa la vita di un re: puoi essere l’uomo più potente del mondo, e insieme quello più soggetto a essere… beh, assassinato»
                «Ma un re non viene assassinato da secoli!» contestò Gino, che sapeva di dire il vero. Kellan evidentemente non voleva saperne di smettere di parlare e, d’altronde, lì dentro non c’era null’altro da fare. Disse: «Questo è vero. E poi, oltre che su suo fratello e su sua figlia, il re può anche contare su» Kellan indicò a Gino un uomo di mezz’età coi capelli brizzolati, molto magro e l’aria umile, che sedeva in un posto non distante dal trono del re, analizzando delle carte, «Lord Pamir Gaholla, il Maestro delle Strade. Trovato dal re in persona mentre rubacchiava frutta al mercato di Astapor… Ha ridisegnato il tetto di questa stanza dopo che la grande tempesta di due anni fa lo aveva spazzato via. E ha ampliato la zona dei quartieri poveri permettendo alla gente morta di fame di Fondo delle Pulci di poter trovare almeno un tetto sotto cui ripararsi, dato che da un decennio ormai stava sempre ammassata nella fogna. Ma la sua più grande opera è il Palazzo delle Chimere, dove risiedono i cavalieri che difendono questa città e questo regno, insieme ai loro nobili animali. Oh, ma guarda un po’! E noi che parlavamo di chimere!».
                Quella sala dava su un giardino. E in quel giardino – Gino lo vide molto bene – era appena atterrato dal cielo una specie di gigantesco leone, alato e con la coda di serpente. Una chimera! Non ne aveva mai vista una, ne aveva solo sentito parlare. E tutto quello che aveva immaginato su quelle bestie era decisamente diverso! Lui si era aspettato un leone con le ali, ma quella bestia era molto più grande di un leone, e più spaventosa; c’era qualcosa in essa che a Gino ricordava più i draghi che qualsiasi felino del mondo. Dalla groppa sellata della chimera, scese giù un signore ammantato di grigio, rapido e dall’aria innervosita: aveva pochissimi capelli. Sussurrando a un orecchio di Gino, Kellan lo presentò: «Lord Henrich Bolton. Fedelissimo del re. Maestro delle Armi – il capo indiscusso di ogni esercito facente capo alla corona, secondo solo a sua maestà stesso – e inoltre Lord Ambasciatore della casa di cui porta il nome»
                «Lord Ambasciatore?»
                «Sì. Sono diciassette in totale, dodici a cui è stato riconosciuto da tempo il ruolo di membri effettivi del Concilio, più cinque che hanno dei poteri minori ma possono comunque prendere parte alle riunioni e votare le decisioni. I primi naturalmente rappresentano alcune tra le casate più antiche: Lannister, Tyrell, Applegate, Bolton, Worchester, Goldsmith, Baelish; l’ultima cui è stato riconosciuto tale rango è la Casa Panecha, i cui territori sono a confine con l’oriente ancora poco conosciuto. Gli altri cinque Lord Ambasciatori rappresentano casate minori: troppo nuove, come i Tahorel, o antiche ma cadute in sventura, come i Martell. Altri invece rivendicano da tempo un ruolo ufficiale su un determinato territorio che però non è stato ancora concesso e, quindi, vengono qui a sbraitare: è il caso dei Gushing, che originariamente rivendicavano dai Lannister una zona tra le Isole di Ferro e quella di Delta delle Acque, anche se a quanto pare adesso sono come pane e cacio, e dei Willoughby del Nord: il vecchio Senus chiede l’indipendenza dagli Applegate da una dozzina d’anni ormai; farebbe di tutto purché gli venga riconosciuta»
                «Ma perché esistono dei Lord Ambasciatori?» domandò Gino «A che servono?»
                «A niente» gli rispose Kellan «La loro creazione rappresenta l’esito di secoli e secoli di lamentele in cui i nobili signori dei singoli territori opponevano al re il fatto che prendesse decisioni senza il loro volere. A un certo punto dissero: siamo un regno unito, quindi dobbiamo partecipare tutti alle decisioni. Così, il re iniziò a nominare membri del proprio gabinetto gli altri grandi nobili, ma sai cosa succedeva? Che anche se faceva parte del Concilio, un nobile che risiedeva a leghe e leghe di distanza dalla Capitale, non partecipava lo stesso, e il Concilio prendeva le sue decisioni in sua assenza. E così nacque la figura dei Lord Ambasciatori. Alcuni di loro hanno il doppio incarico, per questo i membri effettivi non sono precisamente trenta: prendi Lady Hana che rappresenta i Lannister, o Lord Henrich che rappresenta i Bolton. E anche Finnis Gushing: lui è membro del gabinetto personale del re, in quanto Maestro delle Leggi. Ah!» Kellan indicò a Gino un elegante signore dallo sguardo intelligente e il pizzetto curato «Lord Petyr Baelish, sovrano di Baelinstratth, quella che un tempo era nota come “Valle di Arryn”. È il trentottesimo con il suo nome, e il suo primogenito è il trentanovesimo» dunque l’indice di Kellan passò da Baelish a un altro distinto signore: vestito con eleganti abiti orientali, pelato, sovrappeso, aria pacata e pensierosa «E Lord Justus Panecha, che ha domato le ribellioni dell’Essos e si è garantito un posto insindacabile attorno al tavolo dei grandi. Solo che le ribellioni in Essos non si sono mai concluse. Loro due non si capisce mai da che parte stanno ahah. Ah ecco tre tra i più loschi individui che vedrai in questa stanza!».
                Gino provò a camuffare il sussulto che aveva appena fatto, fingendo di tossicchiare: non pensava che a Kellan la cosa fosse sfuggita, ma quest’ultimo proseguì lo stesso con il suo monologo. I tre uomini che gli stava indicando erano due in piedi e l’altro già seduto al suo posto. Quello seduto, aveva la testa calva e una lunga barba bianca. Davanti a lui, poggiati sul tavolo, due enormi volumi di pergamene rilegate. Avevano l’aria di essere antichi e impolverati. Quello in piedi, subito dietro il vecchio, era Lorthan (e per questo Gino aveva sussultato): aveva baffi e barba scuri, curatissimi, un lungo abito nero e una curiosa spilla al petto di cui Gino non distingueva bene la forma. Teneva sottobraccio una specie di cartella, presumibilmente piena anch’essa di pergamene. Infine il terzo, sulla sinistra, aveva un’aria molto più affabile dei due, e più magnetica. Parlava da quando Gino era entrato nella sala e gli altri due non avevano fatto altro che ascoltarlo per tutto il tempo. Loro serissimi, lui tutto sorridente. Aveva i capelli rossi, anche se una parte del capo era occupato da una incipiente stempiatura tridentata. Anche lui aveva baffi e pizzo, ma molto meno curati rispetto a quelli del tipo con la spilla, poi: carnagione chiara, sguardo penetrante, sorriso ampio. La sua veste, pur se elegante come quella di altri “colleghi”, era l’unica di un color rosso-amaranto.
                «Vedi quello seduto?» disse Kellan a Gino «Il Gran Mestro Septimus. Sovrintende alla cultura e alla memoria del regno; a lui fanno capo tutti i vertici ospedalieri e accademici, difatti viene anche chiamato il “Maestro delle Scuole e degli Ospitali”. È probabilmente l’uomo più esperto di veleni al mondo, e la sua storia personale, conclusasi col suo arrivo fino ai vertici della politica della Capitale, è ricca di misteriosi decessi mai ufficialmente chiariti… D’altro canto, da più di vent’anni è lui che ha sempre l’ultima parola su questo genere di casi. Vedi quel giovanotto lì?» ora Kellan indicò a Gino un ragazzo poco distante da loro, che parlottava con Lord Baelish. Gino aveva pensato di essere lui il più giovane in sala, ma si rese conto che sbagliava: quel ragazzino dai capelli color paglia e gli occhi azzurri doveva per forza essere più piccolo di lui! «È il più stretto collaboratore di Septimus» spiegò Kellan «Ne ha sostituito da poco un altro che è morto dopo aver indossato una camicia che – certe malelingue dicono – a quanto pare odorava di limone e menta. E – sempre quelle sciagurate malelingue – hanno fatto in modo che serpeggiasse un dubbio tra i signori che frequentano la corte: è forse un caso che i pochi, ricercatissimi, allievi della scuola di Septimus siano tutti dei giovanotti biondi e di aspetto femmineo?» a questo punto, sempre cercando di non farsi notare, Kellan volse il proprio sguardo su Lord Lorthan. Disse: «Lord Lorthan Tyrell, Maestro del Conio del Regno Unitario e Ambasciatore della Casa Tyrell. Da un paio d’anni a questa parte, non si muove foglia che Lorthan non voglia…»
                «Lui… è lui che io proteggo», si sentì di dire Gino. Stranamente, anche se in qualche modo il giovane Barron sentiva che sarebbe andata così, Kellan non smise di parlare, anzi la cosa parve coinvolgerlo perfino un po’ di più: «Oh ma ottimo, figliolo! È davvero un buon partito. Uno degli uomini più potenti del regno. Vedi la cartella che stringe tra le braccia come se fosse la sua sposa? Non se ne separa mai. Dicono che la notte la metta sotto il cuscino. E dicono anche – sempre le solite malelingue – che lì dentro siano appuntati e catalogati per entrate e uscite tutti gli, diciamo, “irregolari peccatucci” della gran parte dei gentiluomini presenti in quest’aula. Incluso sua maestà e la famiglia reale al completo. È un brillante uomo d’affari Lord Lorthan, uno che ci sa fare. Che partiva già ricco, eppure è riuscito ugualmente ad ampliare le casse della propria famiglia. Lui e suo fratello Shane hanno ucciso loro padre, Lord Tyrell. La cosa è di pubblico dominio, non ho neanche bisogno di dirtela a bassa voce. Lorthan ha atteso che suo padre, Maestro del Conio prima di lui, gli insegnasse tutti i trucchetti del mestiere e poi… se ne è liberato»
                «E quell’altro?»
                «Ah» a questo punto l’espressione sul volto di Kellan cambiò: si fece serissimo «Il più pericoloso di tutti. Lord Alexis Braff. Ambiziosissimo. È spuntato praticamente dal nulla eppure ha scalato la vita politica di questa città come se fosse una collinetta. Tiene tutti sotto scacco, come Tyrell, ma peggio. Dicono sia il più abile Maestro dei Sussurri dai tempi di Lord Varys. Lui sa tutto. Di tutti. È aiutato in questo da una memoria disumana, ma non può essere solo questo. Almeno per quanto riguarda Varys esistevano delle prove tangibili della sua efficienza: lui si serviva di un gruppetto di bambini orfani come spie, li chiamava i “suoi uccelletti”. Ma Braff… non ha niente, eppure… è l’uomo meglio informato del regno. E tutti lo temono. È un avanzo di galera, solo gli dèi sanno quante anime ha sulla coscienza. Ed è sempre così affabile, sorridente. Un mostro. Tanto appare sincero il suo sorriso, tanto più è contorta l’analisi che sta facendo sulla persona cui sorride. È l’unico membro del Concilio, insieme a Septimus e Gaholla, a non rappresentare nessuno. Oltre che se stesso».
                Dopo il primo silenzio che Gino osservò Kellan concedersi, questi volse il proprio indice a un altro gruppo. Quattro uomini che discutevano un po’ più animatamente degli altri. Uno di loro, il più carismatico, aveva abiti orientali e una lunga spada penzolante sul fianco. Gli altri tre avevano abiti più o meno simili a quelli che ci si poteva aspettare da un nobiluomo lì a Roccia del Re, fatta eccezione per il più alto che oltre a questi possedeva anche un’ispida pelliccia invernale poggiata sulle spalle. Kellan spiegò: «I Lord Tribuni Popolari. Quattro in tutto. Uno per il nord, uno per il centro, uno per il sud, e uno per l’oriente. Sono una carica dell’ultimo secolo, richiesta a viva voce dalla gente comune che, dopo lotte e sangue, raggiunse il traguardo di avere dei rappresentanti eletti da loro seduti al Concilio Ristretto. Andò così per i primi dieci anni, poi le famiglie più ricche capirono che anche questi rappresentanti cosiddetti “popolari” potevano essere comprati. E così il Tribuno del nord fa cassa dai Worchester, quello del centro – non andrebbe neanche detto – dai Lannister e quello del sud dai Tyrell. Per Lord Garhel Sawela, quello con la sciabola, la cosa è differente. Vedi, qui nell’ovest bene o male c’è il controllo sulle elezioni dei Tribuni Popolari, ma nell’est… Tribuno Popolare si diventa con la guerra. E il tipo che c’è per ora è un rivoluzionario assoluto, uno convinto davvero di portare il benessere che abbiamo qui, ai morti di fame che stanno là. Un matto completo: il fatto è che è un ex predone, è abile nel corpo a corpo, e per questo fino ad ora è stato difficile per i politici della Capitale toglierselo di torno. Ma è questione di tempo. La gente come Sawela, non vive mai troppo a lungo qui a Roccia del Re».
                A un certo punto, qualcosa distorse l’armonia che si era creata in quella sala caotica. Un vecchietto, accompagnato da una donna, entrò non celando a nessuno quello di cui stavano parlando. Gino non riuscì a seguire bene il filo, ma il vecchio parlava di un abuso da parte di qualcuno, e della violenza applicata da certi uomini a certi altri. La donna, molto bella, atteggiamento principesco, lunghe trecce di un biondo ramato, non faceva altro che ascoltare, cercando di calmare la foga del gentiluomo. Pochi istanti dopo, giunse il re, seguito dal Primo Cavaliere e da un nobile con una spilla al petto che raffigurava una bilancia. Gino pensò che dovesse essere Lord Gushing, il Maestro delle Leggi, o almeno così era quello che gli aveva detto Kellan. Una volta che il Primo Cavaliere si fu seduto, agitò una campanella e disse: «Signori a posto, tutti a posto che cominciamo». Gino fece un breve conto e vide che gli uomini che si sedettero intorno all’enorme tavolata rotonda furono in tutto venticinque. Tra questi: il re, sua figlia Lady Hana (che era quella che era entrata scortando il vecchietto), e i Lord Gaholla, Bolton, Baelish, Panecha, Septimus, Tyrell, Braff e Garel Sawela con gli altri Tribuni Popolari. In ultimo, anche Gushing – il Maestro delle Leggi – e il vecchietto che era entrato sbraitando insieme a Lady Hana. Diversi altri rimasero in piedi.
                La cosa si fece noiosa: originariamente procedettero con un appello ma, quando si rese conto che il procedimento avrebbe tirato troppo per lunghe, il Lord Primo Cavaliere si stufò e passò al Lord Segretario (Lady Hana Lannister) la mansione, mentre lui cominciava con la riunione vera e propria. Il primo punto della discussione furono i territori che il defunto Lord Duhenlar, senza figli, aveva lasciato. Si trattava di un villaggetto non distante da Cronayr e delle campagne circostanti, alcune delle quali vicine a un piccolo lago. I Tyrell volevano mettere un loro uomo ma l’altro candidato era dei Lannister: si passò ai voti e in poco tempo il re ebbe la meglio. Il secondo punto all’ordine del giorno era un intervento di Lord Willoughby, che era il vecchietto entrato in sala con la scorta di Lady Hana. Le sue parole scatenarono il parapiglia. Gino capì che quell’uomo era molto meno andato con il cervello di quanto volesse far credere. Fece due accuse: una evidente alla casa che a suo dire occupava illecitamente il territorio dei Willoughby (e questo causò un’interruzione, fomentata da Lord Applegate, che durò alcuni minuti), l’altra ai vertici del regno – il re e i suoi uomini – che ancora perdevano tempo ad ufficializzare l’indipendenza della sua casata. Il tutto si concluse con una minaccia tra le righe: niente giustizia da Roccia del Re, significava che Lord Willoughby era disposto a farsela anche da solo, o morire tentando.
                Gino ormai era giunto al punto massimo della sua tolleranza e questo, unitamente al fatto che era sveglio da quella mattina presto per assistere alla cerimonia di cremazione di Lord Duhenlar, gli creava uno stato di sonno per cui stava cominciando ad avere difficoltà a tenere gli occhi aperti. Ma d’improvviso accadde qualcosa: i fari e le fiaccole che gettavano una quasi diurna luce nella sala, si spensero tutt’assieme. Ovviamente, le voci cominciarono a chiedersi cosa stava succedendo e chi avesse spento le luci. Qualcuno – anche se pochi – urlò. Poi, cosa ancora più inquietante, le fiamme su torce e fiaccole si riaccesero di colpo. E il re si accasciò a terra. Fu il caos. La metà dei presenti, tra cui Lady Hana, il Primo Cavaliere, e il Gran Mestro Septimus si precipitarono verso il sovrano. L’altra metà colse l’occasione per andarsene. Gino vide il Gran Maestro Septimus chinarsi sul corpo del re e iniziare a toccarlo. Gli toccò la gola con due dita; ascoltò il suo petto, cercò nelle sue labbra e dentro la sua bocca. Poi abbassò le maniche del re, prima la destra e poi la sinistra: non trovò niente di ciò che stava cercando. Infine decise di strappargli la veste superiore e guardargli nel petto. Il Giovane Barron, anche a quella distanza, distinse chiaramente due grossi buchi, e una ferita infetta tutt’intorno: che cosa mai avrebbe potuto procurargliela, visto che il re fino a pochi secondi prima era sano e in salute?
                Kellan raggiunse Gino e, con fare concitato, gli disse: «Visto? Esattamente come ti avevo detto: succede sempre qualcosa di interessante!»
                «Vieni Kellan, non siamo più utili qui» disse Lord Braff. Incredibile! Quello che Kellan aveva descritto come “ambiziosissimo, il peggiore di tutti, un avanzo di galera, un mostro” in realtà era… il suo capo! Il membro del Concilio Ristretto che Kellan era lì per difendere! «Ehm… signore» rispose Kellan «Questi è sir Gino»
                «Ah» sorrise il Maestro dei Sussurri, stringendo la mano del giovane «Molto piacere! È sempre bello vedere nuove facce qui a Roccia del Re, sir Gino. Siete qui da molto?»
                «Da ieri»
                «E di chi vi occupate?»
                «Lord Tyrell»
                «Oh bene, bene. Posso chiedervi una cosa?»
                «Signore?»
                «Come mai un membro della nobile e antica casata dei Barron, come voi, non porta un segno identificativo? Perché non avete la rossa volpe dei Barron cucita da qualche parte sulla veste, o incisa su una spilla? Che forse è diventato uno spregio esser parenti del signore di Lungotavolo?»
                «Nossignore» rise Gino con un po’ di imbarazzo «Semplicemente non possiedo abiti con la rossa volpe. Forse da bambino, ma adesso… è da un po’ che non me ne vengono fabbricati in effetti»
                «È un peccato» chiuse Lord Alexis «Arrivederci, dunque, sir Gino. Se bazzicherete Roccia del Re, ci rivedremo sicuramente. È stato un piacere»
                «Anche per me, mylord» e detto questo, Gino vide Lord Braff sparire con l’agilità di una lepre, Kellan e un paio di altri uomini subito dietro di lui. Poi il rampollo di casa Barron ci rifletté per un secondo e si chiese… in quale momento aveva mai anche solo accennato a Lord Braff di essere un Barron?
                Mentre se lo domandava, si accorse che la sala si stava via via svuotando. Non capì se il re fosse effettivamente morto, anche se quella strana ferita simile a un morso di chissà cosa – almeno a giudizio di Gino – sicuramente non avrebbe lasciato nessuno vivo per parecchio tempo. Sir Haldric, sir Dranfett e lord Tyrell erano spariti. E anche la recluta che era arrivata nella Sala del Concilio insieme a lui. Sentendosi per un attimo sperduto, Gino di Casa Barron si avviò verso l’uscita del palazzo. Intravide Lord Tyrell avviarsi verso un corridoio, da solo, e lo seguì. Non fece in tempo a chiamarlo, che fu Tyrell stesso ad esclamare: «Constant! CONSTANT!»
                «Che vuoi, Lorthan?» fece il Lord Primo Cavaliere. Il Maestro del Conio, abbassò il tono della voce, ma non tanto che Gino – o chiunque altro si trovasse a pochi passi – non potesse ascoltarlo. Disse: «Ma chi diavolo è stato?!»
                «Non ne ho la più pallida idea!» rispose il fratello del re, ringhiando. «Bada, Constant!» fece ancora il Tyrell al Lannister «Non prenderti gioco di me!»
                «Finiscila, pazzo!» Lord Constant si scaldò ancor di più «Pensi che creerei mai una simile confusione?»
                «Que-questo…» balbettò Lorthan «Questo non ci voleva, io… è troppo presto! Devo lasciare Roccia del Re»
                «Fa’ un po’ come vuoi! Io ho altre gatte da pelare!» e detto ciò, Gino non udì più la voce del Primo Cavaliere. Appena aveva visto che la situazione si era fatta delicata, era andato a nascondersi dietro una parete lì vicino. Ma aveva anche scelto di non andare, e comunque le cose che il Maestro del Conio e il Primo Cavaliere si erano detti, non gli parvero poi così segrete visto che i toni non erano stati poi così bassi. Fece finta di arrivare di corsa e raggiunse Tyrell. Quello inizialmente lo guardò storto; poi gli disse di seguirlo e insieme lasciarono il palazzo. Non chiese niente in merito alla conversazione che aveva avuto con Lord Constant e che Gino avrebbe potuto ascoltare (e aveva in effetti ascoltato); non ne parlò, non fece neanche un piccolo accenno. E così fece Gino a sua volta.
 
 
 
                Dopo l’estenuante colloquio con Lord Shane Tyrell, sir Bastian raggiunse di nuovo la carrozza nera dove, sino a quel momento, suo fratello aveva atteso. Alla fine il giovane principe di Altogiardino si era convinto: gli era bastato osservare il vero volto del demone delle fiamme – “demone” era il termine che Bastian e suo fratello preferivano usare per quelle creature reiette, anche se forse i termini più esatti erano quelli che contenevano la desinenza “mante”, ovvero “mago” nell’antica lingua dei padri – e Shane aveva rinunciato a qualsiasi remora. Bastian gli aveva mentito solo a metà: il fratello del ragazzo che lo aveva accolto, Lord Lorthan, non era in effetti a conoscenza del piano di smantellamento delle truppe di Dorne. Ma il Lord Primo Cavaliere Constant sì, lo era. E d’altro canto non era l’esercito di Constant che stava per partire per l’oriente. Era quello dei Tyrell, o almeno la parte che aveva giurisdizione sulla loro regione del sud, l’assolata, lussureggiante Dorne. Ma nonostante l’assenso completo del principino, l’incontro si era comunque dilungato: le carte da firmare si erano rivelate una quantità spropositata e comunque Shane aveva continuato a fare domande, futili domande.
                Bastian entrò nella carrozza. “Il Signore delle Dune”, come tutti lo chiamavano anche se lui non si chiamava così, rivolse il suo sguardo verso di lui. Come sempre, era incappucciato fino al naso al fine di nascondere quello che c’era dai suoi occhi in su… Bastian l’aveva visto, l’aveva visto anche spesso: ma trovava saggio da parte del suo fratellastro tenere nascosta quella parte del suo corpo. Tuttavia, anche se teneva in testa il suo cappuccio violetto, Bastian percepì chiaramente che suo fratello lo stava guardando. E dopo lo sguardo, la domanda: «Allora? Come ha reagito?»
                «Male all’inizio. Ma dopo aver visto il vero volto del demone, si è convinto ahahah» Bastian rise esageratamente. E suo fratello lo riprese subito; prima lo schiaffeggiò e poi esclamò: «Ti avevo detto di ricorrere a un tale estremo solo nel caso in cui avessi visto la rabbia negli occhi del principe»
                «Ma non c’entro niente io!» biascicò Bastian, massaggiandosi la guancia paffuta, «Ha fatto tutto da solo!»
                «I demoni sono miei servi, Bastian. E da quando ti ho conferito l’autorità di rappresentarmi, sono anche i tuoi! Quando i più intelligenti tra loro prendono l’iniziativa, dovresti far valere la tua superiorità! Sono creature votate al caos, non seguono piani. Eseguono ordini»
                «Mi dispiace, fratello, ma io…»
                «Ti ho già spiegato quanto sia importante che i Tyrell non si sentano minacciati! È essenziale che ci percepiscano come loro amici, per il momento! La nostra storia ci ha dimostrato come sia del tutto impossibile conquistare qualcosa, se si è soltanto circondati da avversari»
                «S-sì…» provò ancora a giustificarsi Bastian «Ma io…»
                «Mi è giunta nuova dal demone delle nevi. Egli ha fallito la sua missione»
                «Cosa?! Ma com’è possibile?»
                «Come al solito i suoi farfugliamenti sono stati complessi da decifrare, ma sembra che abbia udito qualcuno evocare l’antica lingua dei draghi» una breve pausa, e poi la frase a effetto: «Forse non siamo davvero soli come pensavamo»
                «E… che facciamo?»
                «Non abbiamo tutto il tempo di questo mondo, dobbiamo muoverci rapidamente e per farlo dobbiamo separarci. Ho mandato già il demone delle nevi a fare un lavoro alla Valle del Leone. E per quanto riguarda la Capitale…»
                «Lì» rifletté Bastian a voce alta «Abbiamo già uno dei nostri»
                «Più d’uno. Ma mi necessita che qualcuno sovrintenda alla creazione del nuovo esercito, a Valyria. Qualcuno che non sia un demone…»; osservando l’aria ebete sul volto del fratello, il Signore delle Dune si vide costretto a specificare: «Tu! Fratello… è una mansione che spetta a te!»
                «Cosa?!» fece dunque Bastian, sconvolto «A me?! Me da solo? No!»
                «C’è già il demone degli elementi, lui sa cosa deve fare ma… Mi occorre qualcuno che sappia prendere delle decisioni nel caso in cui qualcosa dovesse andar storto. È un lavoro da umano, non da demone. Sta’ molto attento Bastian! È qualcosa di molto delicato! Tu partirai con l’esercito di Dorne, stanotte!»
                «Ma… perché?! Tu dove andrai?»
                «A nord»
                «Quando?!»
                «In questo momento. Ti lascio la mia carrozza: donala al principino in segno di amicizia, che serva ad appianare il contrasto che hai contribuito a creare»
                «Ma fratello… io…»
                «Bastian! Tu sei un valente stratega e un uomo più intelligente della media. Hai un gran cuore e io non dimenticherò mai quello che facesti per me, quarant’anni fa. Ma talvolta sei un imbecille dannoso, un’inutile parassita tronfio e del tutto irresponsabile. Eppure, è all’uomo intelligente e di gran cuore cui io ora mi appello: sto per affidarti la missione più delicata che abbia mai fatto, fratello. Una missione che se fallita, oltre che della tua vita, potrebbe andarne anche dei miei piani. E questo non posso permetterlo! Quindi ciò che ti chiedo è… ti senti in grado di svolgerla?»
                «Io…» balbettò Bastian ancora una volta. Pensò che la risposta che avrebbe voluto realmente dire fosse no. Ma capì anche che suo fratello in quel momento non gli stava facendo una domanda: gli stava dando un ordine, e probabilmente un’ultima possibilità di non deluderlo. Quindi, si accorse che alla fin fine aveva un’unica risposta da poter dare, e la confermò con un non troppo maestoso: «Sì»
                «E bravo il mio Bastianello». A questo punto il suo fratellastro – Signore delle Dune – gli diede un buffetto derisorio sulla guancia e, ridendo malvagio, come suo solito si dissolse in un vapore, senziente e violaceo, e sparì attraverso le valli di Dorne.

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Capitolo 6
*** Ghiaccio, Morte, Terra, Fuoco e Metamorfosi ***


Capitolo 6
GHIACCIO, MORTE, TERRA, FUOCO e METAMORFOSI
 
 
                Axelion, primo erede al trono di casa Lannister, non era ancora pronto per quello che stava accadendo. Era vero però che sin dalla nascita era stato preparato in vista di quel momento: sapeva che prima o poi sarebbe toccato a lui, ma dentro di sé era anche consapevole di non essere ancora affatto pronto.
                Già appena partorito, il suo destino era stato segnato: doveva portare un nome regale e pomposo che ricordasse la casa Lannister; e cosa c’era di meglio di quei dannati leoni dorati? E così “lion” entrò a far parte del suo nome, così come accadde prima di lui con suo padre Lionel Lannister. La sua vita era sempre stata programmata: non aveva mai avuto il tempo per giocare coi fratelli Daniel e Marcus, sempre lì a prendersi a botte e a rincorrersi per tutto il giardino perché lui doveva imparare quanto prima a leggere e a scrivere, e non aveva mai avuto il tempo per guardare il cielo con le sorelle Hana e Mirietta perché le poche ore dopo la cena e prima della notte dovevano essere spese per imparare le buone maniere e la retorica che di certo gli sarebbero state più utili da re nel trattare con la gente, mentre “la visione di qualche puntino luminoso nel cielo notturno era roba da femminucce innamorate”, come gli dicevano sempre i suoi tutori.
                Ma Axelion desiderava ardentemente essere un po’ come i suoi fratelli: spensierato come Daniel, selvaggio come Marcus, curioso come Hana e libero come la piccola Mirietta. Invece lui doveva sempre eccellere in tutto quello che serviva ad un re, perché era questo ciò che doveva diventare, non poteva certo scegliere.
                Però lui voleva viaggiare,vedere tutto il Regno Unificato, visitare bordelli e taverne, divertirsi e vivere la vita per come gli si offriva; dopotutto il regno era in pace, cosa mai gli sarebbe potuto accadere lontano dal nido? Un nido, sarebbe stato bello immaginarlo così, invece non era altro che una prigione in cui la sua amatissima madre lo costringeva a stare “per il suo bene” – se lo ripeteva sempre per farsi conforto prima di chiudere gli occhi la notte – “un re amato è un re rispettato” – ed era questo ciò che doveva essere, il più amabile e rispettabile re Lannister.
                Il peso delle responsabilità aumentava nel corso degli anni, così come le aspettative su di lui da parte di ogni singolo abitante di Roccia del Re; sua madre infatti era sempre pronta a pavoneggiarsi in giro che il suo ometto sarebbe diventato il più grande fra tutti i re, “il re dei re” come diceva lei. E tutta quella pressione col tempo divenne insostenibile tanto che la fulgida e folta chioma rossa divenne brizzolata già raggiunti i venti anni. E per un re perfetto serviva una regina perfetta: quando i suoi genitori gli dissero che avevano trovato la sua futura sposa, Axelion andò su tutte le furie: non poteva nemmeno scegliersi sua moglie?! Lionel Lannister gli fece passare quell’inaspettata baldanza – tipica del fratello Marcus – rinchiudendolo letteralmente per tre giorni in totale solitudine in camera sua circondato da libri che parlavano soltanto di genealogie e di matrimoni importanti e programmati. Anche il suo matrimonio sarebbe dovuto essere inevitabilmente frutto di accordi politici: si aspettava una Tyrell, classico matrimonio che univa prestigio e ricchezza delle famiglie, esattamente per come accadde per i suoi genitori e i loro genitori prima di loro; ma non gli mostrarono una Tyrell quel giorno, conobbe invece Abigail Baratheon. La sua bellezza era unica: era minuta ma formosa, aveva lunghi capelli castani raccolti in una lunga treccia e occhi color nocciola, due labbra carnose che avrebbero invitato chiunque a baciarla, ed era gentile e premurosa, e aveva una voce così soave che avrebbe sciolto il cuore anche del più duro fra i Cavalieri della Chimera. Axelion sapeva di aver trovato la sua donna ideale quel giorno, si era innamorato a prima vista: quella donna era il suo ideale di bellezza, ne amava fisico e carattere, era perfetta, era davvero la regina perfetta. Ma nonostante tutto Axelion era furioso dentro, furioso con i suoi genitori, perché quella donna che avrebbe amato, sposato e con cui avrebbe messo al mondo altri piccoli leoncini non l’aveva scelta lui, e questo gli faceva rabbia: lui avrebbe voluto oltremodo avere voce in capitolo su una materia tanto delicata come le sue nozze. Si chiedeva se lo avrebbero mai lasciato libero almeno una volta di fare o di ottenere qualcosa che provenisse interamente da una sua scelta.
                Quel giorno Axelion non era andato a prender parte al Concilio Ristretto, già da tempo aveva smesso di seguire tutte le riunioni: effettivamente gli argomenti trattati col tempo erano sempre gli stessi e il tempo perso ad ascoltare parassiti sociali in cerca di un miglioramento nelle loro terre o nelle loro casate poteva venir speso meglio continuando a studiare sui libri che lo avevano accompagnato durante l’adolescenza. E così mentre Axelion era impegnato a leggiucchiare libri vecchi e polverosi di storia, politica ed economia, che avrebbero dovuto prepararlo al momento in cui avrebbe riscaldato il famoso Trono di Spade, la porta bussò molto forte. Sua moglie Abigail Baratheon era distesa sul letto nuziale e stava allattando il piccolo ma vorace Napoleon Lannister…
                «Tesoro, andresti tu alla porta?»
                «Ma certo cara». Axelion si alzò dalla sedia e si diresse alla porta. La servitù lo sapeva che a quell’ora della giornata non doveva disturbare, che il piccolo Napoleon e Abigail riposavano mentre lui cercava di finire la lettura di quegli scritti che avrebbero dovuto infondergli la capacità di gestire l’enormità del Regno Unificato.
                «Adesso mi sentono, però! Sempre a chiedere, sempre a bussare! Sono degli incapaci... no, ma adesso mi sentono: glielo faccio passare io il vizio a questi domestici».
                Aprì la porta pronto ad alzare la voce per ammonire l’infima servitù ma si trattenne alla vista di sua sorella Hana con il volto rigato dalle lacrime.
                «Cosa c’è, sorellina?» disse preoccupato Axelion abbracciando la sorella e asciugandole il volto con le dita.
                «P-Papà è... p-papà è... c-c’è stato un... un attentato... durante...» gli rispose Hana con voce tremante, cercando di trattenere altre lacrime.
                «Ok: ho capito, lascia fare a me sorellina... me ne occupo io, tu... tu resta qui con Abigail e Napoleon e chiudetevi dentro, non aprite a nessuno che non conoscete, intesi?»
                Hana annuì e si chiuse la porta alle spalle, alzando il chiavistello.
                Axelion si diresse così con il cuore in gola verso la stanza del Concilio tenendo gli occhi bene aperti. Sapeva che prima o poi sarebbe toccato a lui, ma di certo non si aspettava in quel modo e neppure in quel momento: stava davvero diventando il re del Regno Unificato? Ansia e paura lo assalirono, ma non riuscì a capire se era per l’imminente responsabilità che sarebbe gravata su di lui a breve o per la morte prematura del suo vecchio. I corridoi prima silenziosi e deserti ora cominciarono a farsi rumorosi e affollati: numerosi esponenti del Concilio scappavano in tutte le direzioni scortati dalle proprie guardie personali; alcune Guardie Reali e un manipolo di Cavalieri della Chimera si stavano dirigendo verso la stanza dell’attentato e Axelion ne approfittò per farsi scortare a destinazione. La stanza era adesso deserta, il corpo del re era stato spostato rapidamente sotto ordine di Constant nello studio personale del Gran Maestro Septimus per ricevere trattamenti di urgenza: il trono e gran parte del pavimento era tinto dal paterno sangue scarlatto. Axelion allora si fece scortare verso lo studio del Gran Maestro Septimus per sincerarsi della condizione del padre.
 
 
 
                Le due guardie che avevano adagiato il corpo del re sul letto nello studio del Gran Maestro Septimus furono invitate su richiesta del Primo Cavaliere a uscire. Septimus diede un’ultima occhiata al corridoio dallo spioncino, poi – sicuro del fatto che nessuno fosse nei paraggi – chiuse tremante la porta con tre chiavistelli e come se quelli non fossero già abbastanza girò pure la chiave.
                «Questo è un evento sconvolgente... tragico direi!» disse Septimus.
                «Tienilo in vita, vecchio... lui deve restare in vita!» gridò Constant contro il Gran Maestro.
                «Constant, ti ho già detto che non conosco la cura, poiché non conosco cosa abbia causato quelle ferite... onestamente non credo neppure che esista un rimedio per quelle ferite... questo è davvero un evento tragico!»
                «Vecchio idiota! A cosa ti servono quelle medagliette, targhette, onorificenze e i titoli di cui disponi se non puoi salvare il tuo re? Ti sono utili solo per affascinare qualche bimbetto?» inveì Constant.
                «Vi prego di moderare i toni, Lord Primo Cavaliere; io resto sempre il migliore tra tutti i Maestri qui alla capitale e il mio aiuto può esservi di vitale imp...» rispose Septimus alzando la voce, ma fu subito interrotto da Constant che si impose alzando ulteriormente il tono: «Migliore?!! Darmi aiuto, dici?! Non sei in grado di tenerlo in vita e l’unica cosa che sai fare meglio è avvelenare la gente! Spiegami come tu possa essermi di aiuto in una situazione del genere se non andandotene immediatamente da questa stanza; la tua presenza nonché inutilità mi disgusta: va’ via immediatamente!».
                Septimus fu sul punto di rispondere qualcosa ma il re, che sembrava essersi momentaneamente ripreso aprendo gli occhi e avendo borbottato parole indecifrabili, attrasse la loro attenzione distogliendoli dalla loro lite.
                «Co-Constant, fratello mio...» esordì il re singhiozzando del sangue dalla bocca. Il Primo Cavaliere si fiondò sul letto del fratello per udire meglio, Septimus invece rimase immobile vicino alla porta incredulo del fatto che il re potesse ancora essere in vita.
                «Lionel, dimmi cosa è successo… cosa hai visto, cosa hai sentito? Ogni indizio potrà esserci di aiuto per trovare il colpevole di questo atto scellerato» chiese con insistenza Constant al fratello.
                «Non lo so... non ho visto nulla, era buio... poi qualcosa di freddo e tagliente, come due spade o degli artigli, mi ha trafitto proprio qui» disse il re, poi con la mano si toccò la ferita al petto come per accertarsi della grandezza dei due fori «sto... sto morendo,Constant... io volevo solo chied...»
                Constant interruppe il fratello con un cenno della mano poi comandò al vecchio: «Septimus, lascia subito la stanza e raduna tutti i presenti al Concilio in una sala, e che nessuno di loro osi portarsi scorte personali. Chiunque non si atterrà a tale ordine verrà subito considerato come sovversivo nei confronti della Corona e giustiziato come traditore. Tutti coloro che invece non sono reperibili saranno considerati maggiori indiziati per il tentato omicidio del re o complici di tale atto. Non accettare alcun tipo di rifiuto: mobilita tutta la Guardia Reale e i Cavalieri della Chimera presenti a Roccia del Re, se è necessario».
                Septimus annuì e con rapidità inaspettata aprì la porta precedentemente sigillata, saltò fuori e la richiuse; il tintinnio delle targhette e medagliette cominciò ad affievolirsi e suggerì a Constant che il vecchio era lontano, e che lui e suo fratello erano rimasti in totale solitudine.
                «Constant... non ho molto tempo... lasciami parlare...» disse il re. Gli occhi erano spenti, ridotti a due fessure, il re riusciva a stento a tenerli aperti. Un rivolo di sangue partiva dalla bocca e tingeva di rosso la scura barba del re. «Constant... prenditi cura della mia famiglia... ti prego...»
                «La tua famiglia dici? Io non faccio parte della tua famiglia, non è vero? Non lo sono mai stato, non ti è mai importato di me, dei miei desideri e della mia di famiglia! Della famiglia e della felicità che avrei potuto avere e che per colpa tua mi sono stati sottratti!! E ora mi chiedi questo, proprio tu?» gli urlò contro Constant. Il re moribondo continuò con affanno: «Intendi... Anita... mi spiace Constant... so quanto tu ci tenessi a lei... ma io ero il re e... ho dovuto scegliere da re... so quanto questo ti abbia fatto soffrire... non c’è stato giorno che io non abbia... sofferto al pensiero di ciò che avevo fatto... ma ho dovuto scegliere... da re...»
                «Tu l’hai lasciata morire! L’hai lasciata morire! Solo per salvare la vita a un vecchio nobile decrepito! Dovevi scegliere lei! Non era di nobili origini, ma era nobile dentro: nell’animo! Dovevi scegliere lei!» gridò Constant guardando in cagnesco Lionel.
                «Perdonami fratello... ti prego... e... promettimi che ti prenderai cura della mia famiglia...» bisbigliò il re alzando la mano verso Constant «perdonami... e giuramelo... io sono il tuo re: giuramelo»
                «Puoi giurarci, mi prenderò cura personalmente della vita di ognuno di loro!».
                Lionel versò un’ultima lacrima di speranza, ma lo sguardo iracondo di Constant gli dimostrò che suo fratello né lo aveva mai perdonato né mai l’avrebbe fatto. Il re chiuse gli occhi, sicuro di aver raggiunto la sua ora, tutto divenne nero; anche i suoni cominciarono ad affievolirsi, quasi fino a sparire... dopodiché Constant iniziò a recitare una formula in una lingua sconosciuta e il re si sentì gelare dentro; era forse quella la sensazione della morte? Il gelo continuò a diffondersi in tutto il corpo, fin dentro alla gola, si sentì soffocare, poi improvvisamente… il nulla! Ogni tipo di percezione esterna ed interna era svanita. Il sangue aveva istantaneamente smesso di sgorgare dalla ferita coagulandosi come per magia e il re aveva ripreso a respirare anche se con affanno, come se l’aria fosse estremamente rarefatta.
                «Neppure la più spregevole delle creature si meriterebbe una fine simile… ma non ho avuto altra scelta: non potevo permettermi di lasciarti morire proprio adesso... resterai così, ibernato nell’attimo prima della morte... davvero terribile,la Necriomanzia...» sussurrò tra sé Constant di Casa Lannister.
                Poi qualcuno aprì la porta sbattendola con vigore contro la parete, Axelion era arrivato. Ciò che stava per vedere avrebbe determinato il suo futuro; era davvero pronto ad accettarlo? Il cuore iniziò a battergli fortissimo, quasi come a uscirgli dal petto; il fiatone, forse causato dalla corsa forse dall’ansia, non accennava minimamente ad arrestarsi, al contrario aumentò ancora rendendo quegli attimi lunghissimi e pesanti. Di fronte a lui, sul letto intriso di sangue, il re riposava come in un lungo e profondo sonno: era un po’ pallido in volto, volto nel quale non c’era certamente un’espressione serena; ma sembrava stare bene, respirava.
                «Sta bene?» chiese Axelion, riacquistando un minimo di calma.
                «Sì, è fuori pericolo. Ha solo bisogno di riposare per un po’, di lui mi occuperò io personalmente...» mentì Constant.
                «Cosa è successo? Chi è stato?»
                «Indagheremo al meglio, lascia fare tutto a me... torna pure dalla tua famiglia»
                «Lui è la mia famiglia! È mio padre!» disse con fermezza Axelion «Farò il possibile per essere d’aiuto...»
                «Non è necessario: ho tutto sotto controllo»
                «Ma il re non può regnare in quello stato! C’è bisogno di qualcuno che agisca al posto suo finché non si riprende; credo di essere pronto, sono stato preparato per questo»
                «La legge afferma chiaramente che nella condizione in cui il re non fosse momentaneamente in grado di governare sarebbe il Primo Cavaliere a farne le veci. E costi quel che costi mi impegnerò al massimo per scoprire chi ha ordito questo attentato. Ti ripeto, ho tutto sotto controllo, lascia fare a me... torna da tua moglie e tuo figlio».
                Quelle parole ebbero un duplice effetto su Axelion: da un lato lo rincuorarono decisamente poiché lo sollevarono da ogni tipo di “grossa” responsabilità, in fondo Axelion lo sapeva: dentro di sé non era affatto pronto per essere re; d’altro canto invece lo rattristarono: suo padre era quasi morto e lui ancora non aveva acquisito le capacità e la determinazione necessaria per regnare. Era forse un fallimento? Non poteva fare nulla per rendersi in qualche modo utile? Doveva lasciare tutto in mano allo zio? Un barlume inaspettato di determinazione sbocciò come un fiore primaverile dentro di lui; doveva fare qualcosa, doveva reagire a quella disgrazia, quell’avvenimento avrebbe dovuto essergli di insegnamento.
                «Non voglio starmene senza fare nulla: dimmi cosa posso fare, ci deve essere qualcosa che posso fare... per mio padre, per la mia famiglia, per il Regno» disse Axelion allo zio.
                «Ma certo, ragazzo mio, c’è qualcosa che puoi fare... sei un tipo sveglio: raggiungi Septimus e cominciate ad interrogare i presenti, annotate ogni particolare ma soprattutto segnate chi non è presente. Io vi raggiungo a breve, il tempo di sistemare una dozzina di guardie qui fuori, per impedire a quegli assassini di completare l’opera».
                L’idea non dispiacque ad Axelion: avrebbe fatto qualcosa di utile ma non troppo rischioso, e non era neppure solo a farlo. «Va bene, corro...» e il primogenito Lannister sparì dalla stanza.
                Fu in quel momento che Constant pensò tra sé e sé: “Maledizione!...proprio adesso che ero entrato in possesso dei poteri di Duhenlar, ho dovuto consumarli per salvare la vita al re... questo tempismo è sospetto, fin troppo sospetto; deve esserci sotto qualcosa: o Lorthan mi ha tradito, o Requiem ha cambiato i piani o c’è qualcun altro che sta ficcando il naso in faccende che non gli riguardano... in ogni caso, chiunque si frapponga tra me e il mio obiettivo sarà travolto dalle gelide fiamme di Constant di Casa Lannister!”
                Constant uscì dalla camera, chiuse la porta e con lo schiocco delle dita della mano destra la ricoprì tutta con uno strato di fuoco, poi posò la mano sinistra sullo strato appena creato e quello si congelò di colpo: la camera adesso era sigillata dal fuoco e dal ghiaccio, e dentro il re era protetto da una magia di ibernazione; nessuno avrebbe più certamente torto neppure un capello a Lionel Lannister! Constant si allontanò in cerca degli uomini della sua guardia personale per mandarli a pattugliare i corridoi di accesso alla camera.
 
 
 
                Lord Shane Tyrell rimase terrorizzato per qualche minuto a fissare le tre strane creature, quelle che erano appena diventate le sue guardie del corpo personali; la cosa paradossale era che probabilmente Shane avrebbe avuto bisogno di altre guardie del corpo che lo proteggessero da quelle tre guardie del corpo. Shane non si sentiva affatto sicuro, era tremante e sudava freddo, ed era difficile sudare freddo a Dorne; inoltre era sicuro che il mostruoso mago lo stesse fissando attraverso la maschera rendendo ancora più inquietante e terrificante l’atmosfera nella stanza. Gronf e Ranf adesso messi a confronto con la creatura dagli occhi infuocati sembravano due mostriciattoli carini e affettuosi: Gronf si guardava attorno emettendo quello che sembrava un grugnito, Ranf invece usciva e rientrava la lunga lingua biforcuta in continuazione e sembrava interessato a qualcosa che svolazzava nel soffitto. Quella situazione era insostenibile per Shane, così decise di aprir bocca, quantomeno per tentare di socializzare con le sue nuove guardie del corpo.
                «Non che voglia mancare di rispetto, ma… che cosa siete? Cioè... intendo... non sembrate umani...». Passò qualche secondo prima di ricevere una risposta dal mago, ma quei secondi sembrarono interminabili minuti per Shane che già appena aperto bocca si era pentito di averlo fatto. «Ah! Beata ignoranza! La gente di adesso conosce davvero ben poco del proprio passato... Gronf e Ranf sono due Metamanti... hanno potenziato notevolmente le loro doti fisiche grazie alla magia di Kimera che dà loro la possibilità di fondersi con le bestie: magia interessante certamente, ma il suo abuso causa l’impossibilità di ritornare come prima… beh come ogni tipo di magia del resto, ahahah. Io invece sono un Geomante... soddisfatto, mio signore?» rispose quello a Shane con una non troppo velata ironia sull’ultima parola.
                Shane non era stupido: sapeva che quelle guardie del corpo non erano altro che delle creature messe lì per tenerlo sottoscacco; certamente suo fratello Lorthan doveva avere qualche piano in mente per accettare una cosa del genere. Il Geomante effettivamente gli aveva dato un qualche tipo di risposta, ma non quella che invece il principe di Altogiardino cercava; la curiosità e l’intraprendenza vinsero sulla paura e Shane continuò: «Sì, chiaro» mentì Shane che non aveva capito nulla tra Kimera, Metamanti e Geomante «Ma non avevo chiesto cosa foste in quei termini... intendevo... siete forse dei demoni? Quelli che si fanno chiamare Necriomanti?». La sfacciataggine gli costò caro: quantomeno per il sol fatto di avergli fatto ritornare la strizza nel momento in cui il Geomante si fiondò su di lui alzandolo di mezzo metro per il colletto del lungo abito a tema floreale.
                «Necriomanti? Mi stai forse prendendo in giro?! Osa soltanto definirmi uno di quei cosi spregevoli e non sarò più tanto sicuro di riuscire a controllare la mia voglia di spezzare qualche osso! I Necriomanti, maledetti loro, hanno distrutto tempo fa tutta la mia gente usando malefici di ghiaccio e morte! Io ho appreso la magia della terra da Kyrios, e tramite essa distruggerò il loro maestro! E, caro il mio Shane Tyrell, noi siamo stati tutti umani come te una volta, con la differenza che ci siamo migliorati... chiamateci pure demoni se più vi aggrada, ma non considerateci mai di livello inferiore! O questo vi costerà caro, molto caro» detto questo, il mostro lasciò la presa e Shane cadde a terra. Dunque il Geomante si avvicinò al tavolo precedentemente danneggiato, poggiò la mano sopra di esso e dal punto di contatto si dipartirono delle crepe che lo distrussero in mille pezzi.
                Shane strisciò in un angolino della stanza continuando a tremare e mugolare,; nuovamente non aveva capito neppure la metà delle cose dette da quel demone, capì soltanto che non avrebbe più dovuto mancare di rispetto in alcun modo se avesse voluto continuare a tenere la testa attaccata al collo quantomeno, e ipotizzò che quei Necriomanti forse avevano a che fare con gli Estranei di qualche millennio prima…
                «Mio signore, credo che abbiate bisogno di un tavolo nuovo. Ne consiglio uno in ebano» detto questo il Geomante si allontanò dalla stanza e ritornò fuori nella scalinata ad osservare il sole alto e caldo nel cielo «Sarà con queste mie arti di fuoco e terra che toglierò il gelido respiro a Requiem! Oh Kyrios, mio maestro! Giuro che non vi deluderò».
 
 
 
                «Credo che abbiamo conversato a sufficienza, non trovi? Adesso, Daniel di Casa Lannister, entra nel falò e apprendi la Piromanzia da Phira: lei ti guiderà» disse Nidhogg.
                «Entrare nel falò? E Phira? Che c’entra Phira? Non è tipo morta secoli e secoli fa?»
                «Il corpo muore, giovane Piromante, ma l’anima se temprata e fortificata rimane immortale, quantomeno se si adopera la giusta magia» rispose Nidhogg mostrando le sue zanne a mo’ di sorriso. Poi continuò: «Quel fuoco non ti brucerà, ma sta attento: sei fatto di carne ed ossa come tutti gli uomini, ogni altro fuoco al di fuori di questo consumerà la tua carne, non sei né un drago né un Targaryen dopotutto. Avanti entra» e con un colpo di coda spinse Daniel nel falò.
                Il fuoco lo avvolse tutto, ma non bruciava: dopodiché tutta la stanza prese fuoco; tutto divenne fiamme: le pareti e l’intera grotta divennero apparentemente incandescenti; Nidhogg sparì e Daniel capì con certezza di non trovarsi più nella caverna. Ovunque c’era solo e soltanto fuoco, era come stare in una grande stanza ma senza mura né soffitto, ogni cosa era… fuoco. Al centro di quella che sembrava un’infinita stanza in fiamme c’era qualcosa, un corpo fiammeggiante accovacciato su un braciere, come se stesse dormendo. Daniel si avvicinò incuriosito: era una giovane donna. Bellissima, aveva lunghi capelli di fuoco che cadevano fino a metà della schiena, il corpo era fatto di fuoco ma le fiamme non nascondevano quella che doveva essere stata una formosità non indifferente, quantomeno in quella che era stata un tempo la sua forma umana. La donna si destò, si alzò dal braciere e aprì gli occhi: il suo sguardo incrociò quello attonito di Daniel; erano due occhi dorati luminosi e caldi come il sole: un vero spettacolo! Daniel distolse subito lo sguardo, era impossibile fissarla a lungo data la sua luminosità e fece per ritrarsi ma Phira lo afferrò per le mani, incrociò le sue dita con le proprie e con una voce calda e rincuorante disse:
                «Benvenuto, giovane apprendista. Io sono Phira e questa… è la Prova del Fuoco».

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Capitolo 7
*** Ritorno dall'Ovest ***


Capitolo 7
RITORNO DALL’OVEST
 
 
                Da quanto correva? Un’ora? Un giorno? Due?! Ormai non lo sapeva più. Sapeva solo che era tanto, troppo. Come facevano quelle creature infernali a non stancarsi? Erano numerose, forse si davano dei turni: ma perché mai dare a Xenya, e ai pochi uomini rimasti con lei, tutta quell’importanza? Una cosa era sicura: in quella terra dimenticata dagli dèi non esisteva senso dell’ospitalità.
                Erano partiti in dieci e lei, capo della spedizione, era l’unica donna. Poi, il mare e la disidratazione si erano portati via il vecchio Sherman. In nove avevano calcato di nuovo la terraferma e pensavano di aver trovato il paradiso: sole caldo, spiaggia infinita e un accogliente bosco da esplorare per trovarvi cibo e acqua. Fin dalla prima sera, addentrandosi nella radura, avevano trovato un torrente d’acqua dolce e limpida per mezzo del quale, finalmente, tornarono a bagnarsi le labbra, dopo che durante il lungo viaggio avevano terminato le pur numerose scorte d’acqua con le quali erano partiti. Ma il cibo aveva dimostrato loro che quello che avevano trovato non era, poi, un paradiso così affidabile. Anzi, era un paradiso effimero. Jenkins e Gordon avevano deciso di accompagnare il pesce che l’intero equipaggio stava mangiando per cena ad un mucchietto di bacche dall’aspetto invitante che avevano colto sotto una palma. Jenkins non rivide la luce del sole e, quanto a Gordon, fu colto da febbre alta e allucinazioni prima di lasciare anche lui per sempre questo mondo.
                Erano partiti in dieci, ma solo in sette arrivarono al fatidico giorno. Il giorno in cui la gente dell’Ovest, che era gente proveniente dall’est di quel territorio inesplorato, si rese conto che la landa che pensavano desolata, non lo era. C’era un tipo di vita che andava al di là delle bestie e della vegetazione. Quel mondo era abitato da uomini travestiti da demoni. Inizialmente, li accolsero con curiosità, nudi e con quella loro pelle del colore dell’avorio. Ma quando Meyer si limitò a liberarsi in una risata un pochino più sonora, una freccia trafisse la sua gola con inaudita velocità. Furono fatti prigionieri e in sei giunsero all’accampamento di quei diavoli. Questi si liberarono di Stein per puro divertimento. Inizialmente, osservando cosa gli stavano facendo, Xenya e gli altri del gruppo pensarono che i diavoli volessero cibarsi del loro compagno. Ma, a quanto sembrò, non lo fecero. Di tutte le empietà che caratterizzavano gli uomini di quella terra, il cannibalismo non ne faceva parte. Il fetore, l’omicidio, lo sberleffo, una lingua oscura e fatta di versi come quelli degli animali, una camminata oscillante e inquietante, un pessimo modo di mangiare e di vestire, una pelle nera come quella dei demoni della notte. Ma il cannibalismo no, quello non li connaturava.
                Poco importava. Dopo l’episodio di Stein, Xenya e i quattro superstiti insieme a lei, si convinsero che bisognava scappare. Andar via da quel mondo e tornare solo con la compagnia di un esercito armato fino ai denti. Xenya non aveva pensato che quelle creature fossero malvagie neanche quando avevano ucciso Meyer: erano uomini diversi di una società e una cultura diverse, un malinteso poteva anche sorgere. Ma lo sterminio assolutamente gratuito di Stein no: quello era stato un atto di barbarie. Non si poteva ragionare coi diavoli dalla pelle colorata; bisognava scappare.
                I tentativi furono numerosi e una volta Pashamanyna rischiò anche di farsi beccare. Tuttavia un giorno, la punta della lama di una guardia, lasciata con troppa noncuranza in balia di un gruppo di esperti uomini del Westeros, si dimostrò una sventatezza da parte degli oriundi e un quasi miracoloso colpo di fortuna da parte di Xenya e i suoi. Si finsero ancora legati e lasciarono l’accampamento nella tarda notte, quando il fuoco si era spento e i giochi con cui i diavoli si trastullavano ogni sera finiti. Durante la fuga, Xenya vide Gordimer morirle davanti agli occhi, trafitto da una specie di lancia rudimentale. Degli altri non seppe più niente: nella fuga accalorata, li perse tutti dentro i meandri del bosco.
                Quando – dopo una corsa estenuante che non riuscì mai a capire quanto fosse durata – l’esploratrice rivide la Avalonya, la piccola, rapida, bellissima nave con cui erano salpati mesi prima, per poco non pianse. Scoprì di essere l’ultima; Pashamanyna – con il suo inseparabile falco da comunicazione – Lucas e Mael erano già lì: quei pazzi l’avevano aspettata. Avrebbe voluto abbracciarli, stringerli a sé come fratelli, ma non lo fece. Lei era pur sempre un ufficiale dell’esercito del Regno Unificato, e quegli uomini i suoi sottoposti. Su quella nave tutti sapevano che non c’era bisogno di quel genere di convenevoli. Quasi senza fiato, Xenya si limitò ad esclamare al suo secondo e navigatore del gruppo: «Issate le vele, signor Pashamanyna. Torniamo a casa».
 
 
 
                «Vedi questo? È un messaggio da parte di un mio fedele, arrivato questa mattina presto sulle ali di un falco ammaestrato. Se quello che c’è scritto è vero, i conflitti che ci attendono raggiungeranno ben più che Roccia del Re e i territori ad essa attorno. Immagina… un nuovo continente, con nuove ricchezze da depredare, nuovi cibi da assaporare e nuove donne da sedurre. Quanto mai potrà valere Roccia del Re in confronto a questo?» Lord Justus Panecha lanciò uno sguardo carico di significato al suo collega, membro del Concilio Ristretto come lui, Lord Garhel Sawela. Questi, con fare decisamente più burbero, grattandosi la barba incolta che aveva sulla gola, rispose: «Finiscila, Justus! Sai bene che potrai anche incantare i tuoi serpenti e i tuoi elefanti con questi toni melliflui, ma non me. Io ti conosco da quando mercanteggiavi frutta secca presso i porti di Gonemor e Marrah Cankhubhia. Non ti ho chiesto di ciò che c’è fuori da Roccia del Re, ti ho chiesto di quello che c’è dentro»
                «Immagino» fece Panecha tornando ad accarezzare i suoi cobra «Che la risposta più conveniente sia che io non ho risposta»
                «Ma entrambi sappiamo che sarebbe falso. Tutti sanno che tu, Baelish e Braff siete gli uomini meglio informati della città»
                «Allora anche… i più sospetti?»
                «Decisamente»
                «Mio caro Lord Sawela, sono sincero quando dico che, per quanto io abbia delle idee, esse sono come ombre e polvere al momento. Ci sono, esistono, sono concrete; ma non possono essere afferrate. Sei un uomo saggio e se io ti dicessi qualcosa che poi si rivelasse veritiera, penseresti che sono in qualche modo invischiato con la morte del re, anche se sei abbastanza saggio da sapere che mai e poi mai ne sarei stato l’artefice materiale. Se ti dicessi qualcosa che poi si rivelasse, invece, sbagliata… perderei parte della mia credibilità ai tuoi occhi e, quindi, parte del mio potere su di te. Dunque converrai con me che non sarebbe saggio da parte mia espormi in questo momento»
                «E sia! Non parlarmi della morte di Lionel, se non vuoi. Ma dimmi almeno… se pensi che i nuovi risvolti cambino in qualche modo i nostri piani originari»
                «Ah, Garhel!» a questo punto il proverbiale stoicismo di Lord Panecha parve vacillare; si avvicinò a Sawela e disse riducendo a un sussurro il tono della sua voce: «A questo punto siamo arrivati! Parlarne apertamente! Non lo sai che le mura qui hanno occhi e orecchie?»
                «Ma Justus siamo nei tuoi uffici! Che si trovano nel tuo palazzo!»
                «Non ha importanza: non vedi come è morto il re? Ci sono ombre che strisciano da troppo tempo nelle buie notti di questa città» breve pausa, poi: «Comunque la risposta alla tua domanda è sì: le cose cambiano. Constant non è certo Lionel!»
                «Avevo capito che l’insediamento del Primo Cavaliere in vece del re fosse solo temporaneo»
                «Sì, questo è quello che dice lui. “Il re è vivo, ma nessuno può vederlo, quindi comando io”: ti sembra il tono di qualcuno che abbia talmente a cuore il bene di questo Regno da farsi da parte? E quello stupido del principino che gli va’ dietro! Dopo quella scenata ridicola di richiamarci tutti per determinare chi fosse il colpevole e concludere la nottata con un nulla di fatto! E Constant che promette: “ma lo troveremo”, e il principe che ci crede. No, non possiamo più attendere gli ulteriori sviluppi di questi biechi giochi di potere qui alla Capitale. Mio caro Garhel, io sono un uomo convinto che le vere rivoluzioni le facciano i politici e non i guerrieri. Pur tuttavia, ho bisogno che tu agiti un po’ le acque delle regioni del Sud-Est»
                «Benissimo!» fece Lord Sawela, non riuscendo a trattenere l’entusiasmo. «Ma ricordati, amico mio,» gli disse ancora Panecha «che io non starò dalla tua parte! Inveirò contro di te, dirò che hai portato il caos in una regione per decenni tranquilla, voterò anche contro di te se mi metteranno alle strette»
                «Questo è ovvio». A questo punto, anche Lord Justus Panecha si liberò in un sincero sorriso. Tese la mano al Tribuno Popolare della Regione dell’Est e disse: «L’Oriente otterrà finalmente il prestigio che gli è dovuto!»
                «O cadrà» fece Garhel Sawela, serissimo «Nel tentativo di farlo» e strinse la mano dell’uomo che, come lui, aveva cominciato la propria vita politica tra la gente affamata, bisognosa eppure onesta e sapiente che abitava l’immenso continente dell’Essos.
 
 
 
                «Lord Sawela!»
                «Lord Willoughby» salutò il Tribuno Popolare, con uno sforzo. Che sfortuna aveva avuto di incontrare quel vecchio rompiscatole proprio all’uscita del palazzo di Panecha, che si trovava in una delle più importanti piazze della capitale. Oltretutto era anche in corso il mercato, eppure – nonostante l’immenso numero di persone in mezzo alle quali nascondersi – il Lord che reclamava uno spazio a nord del territorio dell’antica stirpe degli Applegate, lo aveva visto e gli stava andando incontro. Sawela sapeva già cosa Willoughby voleva; da mesi ormai non gli parlava d’altro: da mesi ormai non parlava d’altro con chiunque. E anche quella volta il nobile delle terre a confine con il Castello Nero – dopo qualche convenevole – passò subito all’attacco: «Mio signore, badate, io non ho alcuna fretta, ma… mi chiedevo se aveste deciso qualcosa in merito alla vostra posizione per quanto concerne il riconoscimento alla casa che rappresento del territorio che rivendichiamo e che ci appartiene di diritto, anche se al momento occupato dai vermi Applegate»
                «No, Lord Willoughby, non ancora…» provò a tagliar corto Garhel. Ma Senus Willoughby non glielo permise, continuando il suo monologo: «È inutile ricordarvi come noi crediamo che le nostre esigenze siano vicine e, malgrado i popoli del nord non patiscano la fame come certi altri popoli che vivono in certe zone dell’est che voi sapientemente tutelate, comunque la fratellanza tra stirpi antiche, lavoratrici e al momento schiave – anche se per diverse ragioni – come le nostre, potrebbe suggellare un tacito patto che porti, in sede di voto al Concilio, uno scambio equivalente tra le nostre forze e le vostre. Ancora una volta, mio signore, io non ho fretta di sapere ora che cosa ne pensiate in termini ufficiali, ma… ecco, solo ufficiosamente, da amico, pensate che potrei contare su di voi?»
                «Willoughby…», Lord Sawela cercava disperatamente un modo per liberarsi di quella ingombrante compagnia senza risultare troppo brusco. Schierarsi apertamente con Willoughby, quando gli Applegate erano forti di quasi la totalità delle simpatie degli altri nobili del Regno Unificato, era impossibile anche per lui che, come noto, era un ribelle. Avrebbe anche sancito volentieri quell’accordo se gli avesse dato una qualche vaga certezza, ma l’indipendenza dei Willoughby sarebbe stata decisa con un voto; la nascita di un nuovo mondo in cui il baricentro del potere si sarebbe spostato dall’ovest all’est era invece tutto molto più complesso e fumoso. Sawela poteva fornire garanzie a Willoughby che Willoughby non poteva ricambiare e quindi sporcarsi le mani con un alleato così scomodo non era altro che la mossa sbagliata, e questo Garhel lo sapeva. D’altro canto, non voleva inimicarselo. Senus Willoughby era un passionale, come lui, e portare la discussione a uno scontro aperto significava fare la guerra con quella famiglia per diverse generazioni. Quindi il Lord Tribuno Popolare della Regione dell’Est si limitò a concludere: «I tempi non sono ancora maturi per discuterne in questi termini»
                «Maturi? MATURI?!» si alterò il vecchietto riuscendo a eruttare un vocione tetro e minaccioso: la forza dell’alterigia idealistica, «Sono decenni che attendiamo e attendiamo e ancora niente! Sappiate, mio buon signore, che la mela degli Applegate è molto più che matura! È invecchiata e sta per cadere dall’albero! La stella dei Willoughby invece brilla come non mai!»
                «Ma, signore, con questo fatto della morte del re» provò ancora ad appigliarsi Sawela. Niente da fare, il vecchio ormai era in carica come un ariete: «Questo non c’entra in alcun modo! I re nascono e muoiono. Le Antiche Casate restano, e così la loro gloria! Sono convinto che chi abbia attentato alla vita di quel poveretto presto verrà acciuffato e farà la fine che merita. Così come tutti quelli che provano a imporsi su un seggio che non gli appartiene!»
                «Basta così, signore!» fece dunque Garhel, serio, sperando che cambiare la tattica e dimostrarsi un po’ meno “disinteressato”, anche se ancora non esattamente “risoluto”, potesse infine liberarlo da quella scomoda situazione. «Considereremo il dafarsi quando il momento del voto sui Willoughby e gli Applegate si sarà avvicinato, e cercheremo di riflettere al meglio su quanto effettivamente vicini siano i nostri popoli e di conseguenza le nostre esigenze. Ma, per oggi, non avrete ancora una risposta»; detto ciò Lord Sawela sfruttò il momento di silenzio di Willoughby per incamminarsi lasciandolo con i suoi uomini, dalle stelle bianche ricamate al petto, alla piazza del mercato.
 
 
 
                Senus Willoughby non era un uomo saggio, né alcuno dei suoi figli e fratelli lo era. Erano audaci i Willoughby, risoluti, degli ottimi strateghi per quanto riguardava le battaglie sui campi. Ma erano del tutto invalidi per quanto concerneva l’intelligenza politica. E questo a Roccia del Re, lontani dalle nevi dei loro manieri, li rendeva come agnellini sempre buoni per il macello. E Henrich Bolton, come molti altri membri del Concilio Ristretto, non era tipo da non approfittarsene: aveva illuso il vecchio ex sovrano di Breccia sugli Astri di essere dalla sua parte; lo aveva coccolato e difeso come un pupo. Gli aveva detto che avrebbe votato per l’indipendenza della casata Willoughby contro gli Applegate quando sarebbe venuto il momento. Si era fatto pagare delle belle somme: l’ultima fresca di quella mattina. Ma in realtà aveva tutte le intenzioni di tradirlo al momento del voto: i Willoughby erano praticamente da soli, e schierarsi dalla loro non era conveniente. Anche se forse la loro era la miglior potenza navale del nord, anche se il legno per imbarcazioni del loro territorio era probabilmente il migliore di tutto il continente occidentale, anche se rischiare un conflitto armato con loro avrebbe potuto rivelarsi per i Bolton, che con parte del territorio rivendicato dai Willoughby ci confinavano, molto più dannoso che per altre famiglie… Bolton aveva già deciso che la migliore mossa sarebbe stata il tradimento, e li avrebbe traditi.
                Quella mattina il Lord Maestro delle Armi aveva ben altro a cui pensare. Alle prime luci dell’alba, presso un vicoletto abbandonato nei sobborghi della città, aveva riscosso la quota mensile che il vecchio Senus gli versava ormai da diversi anni. Poi, si era recato a palazzo, presso la sala del trono, per un incontro ufficiale con alcuni vecchi veterani dell’esercito. Dunque l’apice della sua giornata: l’incontro con la sua amante e confidente, l’amica con la quale era cresciuto e di cui sapeva di potersi fidare, quella verso cui riversava ogni suo sfogo e con la quale teorizzava ogni suo piano. Con lei bisognava fare il punto della situazione: i nuovi eventi di poche ore prima rendevano tutto molto più confuso e incontrollabile. E di molti di essi probabilmente lei doveva ancora essere informata.
                La raggiunse direttamente nelle sue camere del palazzo, tramite un percorso di corridoi segreti, celati ai più. Erano i tipici corridoi che conoscevano soltanto le spie più abili e gli innamorati più folli. E loro lo erano da molto tempo innamorati, anche se la loro era una storia che ritenevano insospettabile. Non appena lui venne fuori da dietro un arazzo, lei gli si precipitò tra le braccia, con la sua lunga svolazzante treccia di capelli castani. Si sorrisero, si baciarono. Dopodiché lei finalmente liberò la ragione per cui tutti nel regno la adoravano, e Bolton si riteneva fortunato a possedere il suo cuore: con la sua voce da usignolo, dolce come un frutto, Abigail Baratheon disse: «Mio adorato»
                «Abigail» si limitò a sussurrare lui, come sempre praticamente ipnotizzato dalla sua bellezza. «Due giorni interi senza farti vedere!» proseguì la moglie dell’erede al trono «Non osare mai più!»
                «Sono stati giorni impegnativi e pericolosi»
                «Oh» gli occhi della donna s’inumidirono, come se si stesse commovendo «Che cosa è andato male, mio diletto?»
                «Qualche minuto dopo l’attentato… Constant ci ha torchiati»
                «Come?»
                «Ha preteso che tutti quelli presenti al Concilio prestassero obbligatoria testimonianza, e poi fossero perquisiti. Come se l’attentato non potesse esser stato ordito in un momento antecedente al Concilio! Successivamente anche le nostre abitazioni sono state sottoposte al controllo della guardia reale, senza lasciarci modo di farvi ritorno fino a che l’ultima non fosse controllata. Naturalmente il Primo Cavaliere non ha trovato niente, concludendo come solo esito della giornata di aver perduto parte del suo e – cosa infinitamente più grave – del nostro tempo»
                «Non disperare» fece lei con la fermezza di una montagna «Di tempo ne avremo, quando nostro figlio verrà incoronato re»
                «Sì ma questa non è la cosa peggiore… Lionel non è morto»
                «Che cosa?»
                «Oh meglio: Constant sostiene che sia così, e il Gran Maestro conferma. Tu sai che il parere del Gran Maestro è vincolante, in questo genere di cose»
                «Septimus… quell’inutile invertito d’un vegliardo. Beh per quanto a lungo potranno continuare con questa farsa? Prima o poi i falchi della politica di questo mondo si stuferanno della testimonianza di quel vecchio sibillino, e richiederanno un riscontro di tipo più oggettivo»
                «Infatti non è questo il punto»
                «E qual è allora?»
                «Il punto è che se quello che Constant dice è vero, allora tuo marito non sarà mai re! La legge è chiara: è il Primo Cavaliere che governa il regno in caso di impedimento del re»
                «Questo è inaudito!»
                «È una cosa che non accade da circa un millennio! Tesoro…» la prese per mano «Per la prima volta dai tempi bui delle grandi guerre, la linea di successione potrebbe essere spezzata. Un cataclisma di dimensioni pantagrueliche e io…» si accarezzò la fronte «non ho idea di cosa fare! Pensavamo di aver pianificato ogni cosa e invece…»
                «Amor mio non piagnucolare. È inutile e ti rende un uomo ridicolo». Adesso Henrich riconosceva la donna che amava. Quella di cui solo lui era al corrente: la fine stratega, l’accorta diplomatica, la perfida arpia.
                Non erano più potenti come una volta i Baratheon. Il loro prestigio si era estinto da secoli, ma il loro nome in qualche modo sopravviveva e continuava ad essere una garanzia di nobiltà. Per questo Abigail, proprio lei, era stata scelta come regale consorte dell’uomo che un giorno sarebbe stato re: Axelion figlio di Lionel Lannister. Solo per questo. Ma lei, che era cresciuta nei boschi neri attorno a Capo Tempesta, protetta fin dalla nascita dall’ala rassicurante dei Bolton, lei invece aveva un temperamento ambizioso e combattivo; in quella sua testa calcolatrice, Abigail Baratheon bramava di più, molto di più… Abigail Baratheon voleva ogni cosa; Abigail Baratheon voleva il trono! Da anni, insieme ad Henrich come un po’ il suo complice e protettore e un po’ la sua pedina, aveva ordito piani e messo in atto vere e proprie opere di pura recitazione. Aveva lasciato credere ai Lannister che il loro inetto figliolo era stato in grado di metterla incinta. Ma lei sapeva che ci voleva un uomo forte e navigato per supportare il figlio che aveva tutta l’intenzione di mettere sul trono. E Axelion era dolce, buono, comprensivo, ma non era forte e men che meno navigato. E d’altro canto lei preferiva le rudi doti del Maestro delle Armi piuttosto che le tenere coccole del principino.
                Anche se la spaventava, Abigail si rese conto che l’unica carta che gli restava di giocare era proprio quella del suo debole e insulso marito. Condivise la sua idea con l’uomo di cui era veramente innamorata: «Dobbiamo sperare in Axelion» disse a Bolton «È l’unica alternativa che ci rimane…»
                «Axelion?!» domandò Lord Henrich, giustamente stupito «Non andrebbe mai contro il parere di Constant: adora suo zio. E oltretutto… notoriamente il tuo affezionato consorte non è il tipo d’uomo che prende da sé decisioni importanti. Non ha la fibra per farlo»
                «Hai detto bene» insisté Abigail con la sua ipnotica e suadente voce «Axelion non le prende da sé le decisioni importanti, ma… ascolterà sua moglie, che parlerà in difesa di suo figlio. Lo convincerò ad affrontare Constant»
                «Mia diletta… io non metto in dubbio le tue abilità, né le ragioni – pure importanti – che presenteresti alla portata del principe. Ma Constant è uno degli uomini più risoluti del Regno, e uno dei più potenti. E tuo marito è un vigliacco. Questi sono due solidi argini oltre i quali lui non riuscirebbe mai a far esondare il suo spirito, quali che siano le ragioni. E chi gliele pone». Osservando la donna che amava, Henrich Bolton si rese conto che forse era riuscito a scalfire la sua volontà di pietra; per una volta, era stato lui ad aprire gli occhi a lei, a darle un suggerimento, a farla ragionare su qualcosa che… non era stato calcolato.
                Accarezzandosi mento e bocca, la possibile futura regina disse piano, come a voler fare un commento piuttosto che intavolare una nuova discussione: «Braff…»
                «Oh, no» fece Bolton, intuendo già tutto. Senza neanche degnarlo di uno sguardo, lei proseguì: «Lord Braff possiede un solido legame con mio marito; ha su di lui un ascendente perfino più grande di quello che ho io… figuriamoci per quello che potrebbe avere Constant»
                «Abigail: Braff è un uomo pericoloso. Lui non viene manovrato: lui manovra!»
                «Una volta, quando Braff era un giovane e Axelion poco più di un bambino, il Maestro dei Sussurri fece qualcosa per lui. Non so… gli salvò la vita, o la salvò a una delle sue sorelle, non sono mai riuscita a capirlo bene, e Axelion – stranamente – ha sempre evaso le mie domande in merito a questa questione. Ma da allora sono legati»
                «Abigail: chi ha tentato di uccidere il re fisicamente, tu ne hai una qualche idea? Per molti la sua dipartita sarebbe stato un bene, ma chi ha avuto il coraggio?». Con fare estremamente subdolo la principessa Baratheon rispose al suo amante: «Tu credi sia stato lui?»
                «Sì, io credo che ne sarebbe molto capace»
                «Ma per qualche ragione Braff ha invece sempre avuto un atteggiamento sospettosamente protettivo nei confronti della dinastia ufficiale, quindi…»
                «Amor mio, Braff è uno di quegli uomini di cui non si sai mai cosa vogliano. E quando non sai cosa vogliono, non sai neanche cosa sarebbero disposti a fare per ottenerlo. Dobbiamo tenerci lontani da individui simili»
                «Non correremo rischi» decise lei, e lui avrebbe fatto quello che lei avrebbe deciso «Proporrò al Maestro dei Sussurri di aiutarmi a convincere mio marito a pretendere il trono. Nel caso non vorrà farlo, sono convinta che si limiterà a declinare l’offerta…»
                «Ma così scoprirai anche le nostre carte»
                «Ah sì? E che cosa capirà allora quel subdolo ruffiano? Che io sono la fedele moglie dell’erede al trono, e che voglio che mio marito governi questo regno, com’è legittimo che sia. Non temere, mio diletto, le nostre carte sono ancora ben celate all’interno delle mie maniche di moglie e di madre».
 
 
 
                La giornata volgeva già al termine quando Gino di Lungotavolo venne, dopo una non breve attesa, accolto in uno degli uffici di Lord Alexis Braff, il Maestro dei Sussurri. Insieme a lui, entrò Kellan, una delle guardie personali al servizio del politico della Capitale. «Mylord» salutò Gino, restando in piedi davanti alla porta. Quello, sorridendo beffardo, gli disse: «Sedetevi sir Gino: siete un ospite». Il giovane eseguì. Braff continuò coi convenevoli: «Gradite qualcosa da bere? Vino?»
                «No, grazie signore»
                «Latte? Ho del latte appena munto»
                «No signore, grazie»
                «Vogliamo finirla con questo tono ufficiale? Ve l’ho detto: siete un mio ospite. Potete chiamarmi Alexis»
                «Signore, non so se è il caso…»
                «Non transigo. Saremo amici: vedrete che lo saremo. E gli amici debbono fidarsi tra loro e non ci si può fidare se uno dei due chiama l’altro “mylord” o “signore”. D’ora in poi, solo Alexis». A questo punto, Braff versò del vino da una brocca in due coppe smaltate. Ne bevve e chiese rivolto a Kellan: «Vi hanno seguito?»
                «Nossignore» rispose quello, serio come un militare, anche se non era un membro dell’esercito del Regno Unificato. «Bene. Gino, tu ti domanderai il perché ti abbia convocato qui oggi, a così breve distanza dal tuo arrivo a Roccia del Re»
                «In effetti sì, mio si… volevo dire: Alexis»
                «Bene: facciamo progressi. Dimmi tu cosa diresti se io ti dicessi da questo momento in poi di smettere di considerarti un uomo dei Tyrell e di considerarti un mio uomo? Di… lavorare per me»
                «Lavorare… per te?»
                «Beh continuare a stare con loro, naturalmente. A vivere con loro, ad ascoltarne sfoghi e… intenzioni. E poi… disinteressatamente, venirmeli a raccontare davanti a una coppa di buon vino»
                «Cioè…» Gino cambiò idea e decise di bere anche lui un po’ di vino «Mi stai chiedendo di fare da spia per te…»
                «Beh è un modo un po’ prosaico di porre la questione ma sì, sostanzialmente direi che ci hai preso»
                «Io…»
                «Sappi che non saresti l’unico. L’ultimo uomo dei Tyrell andato in pensione, Lord Grisham, in realtà era dei miei. E anche un altro allo stato attuale lo è, solo che… per qualche ragione sento di non potermi più fidare di lui: non capisco più se racconta le cose dei Tyrell a me o se racconta le mie ai Tyrell e capirai bene che in una posizione delicata come la mia…»
                «Alexis io ti ringrazio per la fiducia, ma mio padre si aspetta da me che…»
                «E se ti dicessi…» a questo punto il tono del Maestro dei Sussurri si fece improvvisamente serio «che tuo padre è al corrente dell’offerta che ti sto facendo?»
                «Cosa? Ma…». A questo punto Gino percepì qualcosa di strano accadere tutto attorno a sé. Braff e Kellan si limitarono a sorridere come se nulla fosse cambiato, ma le luci per un attimo tremolarono e il vento fuori parve alzarsi. Una porta laterale che Gino avrebbe giurato non esserci pochi istanti prima in quella stanza, si aprì. E Gino, per la priva volta da quando si trovava a Roccia del Re, rivide finalmente un volto amico. Era Sir Rollo, l’anziano direttore della biblioteca della magione di Lungotavolo, l’uomo che aveva cresciuto sia lui che suo padre, e che insieme a suo nonno aveva contribuito a rendere Lungotavolo il luogo florido che era tutt’ora. Entusiasta, il giovane esclamò: «Sir Rollo!»
                «Non ti… scomodare, figliolo!», fece quello austero, alzando una mano. Era stranamente poco affabile, rispetto a come Gino aveva imparato a conoscerlo; ma avrà avuto le sue ragioni. Gino decise di contenere l’entusiasmo e rimase seduto. Sir Rollo continuò: «Sono qui per testimoniarti che un accordo è stato sancito tra tuo padre, il signore di Lungotavolo, e Lord Braff. Tu servirai i Tyrell, ma servirai i Tyrell per servire Lord Braff»
                «Ma sir Rollo…» fece Gino, confuso «proprio voi e mio padre mi avete detto di restare fedele ai signori di Altogiardino, qualsiasi cosa fosse accaduta, chiunque mi avesse proposto il contrario… e adesso…»
                «E adesso proprio io ti sciolgo da quel vincolo» concluse sir Rollo «Tuo padre e io abbiamo convenuto che le garanzie che il qui presente stimabile signore ci pone sono migliori rispetto a quelle dei Tyrell e quindi noi non onoreremo quel patto. Onoreremo questo che ci si sta ponendo dinanzi». Gino continuava ad essere confuso: ricordava abbastanza chiaramente che Rollo e suo padre erano stati molto insistenti nello spiegargli che i Tyrell non andavano traditi. Quasi spaventati dal fatto che potesse accadere il contrario! E ora Rollo che appariva come un fantasma… Rollo che non aveva mai varcato il torrente che segna il confine del territorio di Lungotavolo. Che ci faceva a Roccia del Re? Cosa stava combinando? Tuttavia, di una cosa Gino era ancora più certo: Rollo era probabilmente la persona più leale al signore di Lungotavolo che esistesse. Suo padre stesso aveva molta più fiducia in Rollo che in Gino. E Rollo aveva anche compiuto scelte importanti, scelte poco convenienti alla sua persona, pur di proteggere e rafforzare l’affetto che lo univa al suo luogo di nascita: non avrebbe mai tradito Lungotavolo. Quindi, Gino decise di fidarsi, anche se un ulteriore mutamento nell’atteggiamento del vecchio continuò a lasciarlo perplesso. Senza troppe giustificazioni, Rollo disse che aveva altre cose da fare lì a Roccia del Re; addirittura disse di avere fretta, così si congedò subito, senza neanche una carezza al ragazzo che praticamente aveva cresciuto.
                Le luci tornarono a tremolare brevemente, il vento si rialzò ancora, anche se solo per qualche attimo e poi… Gino tornò a concentrare la propria attenzione sullo sfavillante, sincero sorriso di Lord Alexis Braff. «Allora farai ciò che ti chiedo?» chiese dunque il Maestro dei Sussurri «Risponderai a me dell’operato dei Tyrell? Sarai sincero, come non ho dubbi che lo saranno sia tuo padre che sir Rollo?». Braff si alzò in piedi, fece il giro della scrivania e tese a Gino la propria mano. Stringendogliela, Gino disse: «Lo farò». Detto questo, anche Lord Braff disse che aveva una certa fretta e che un affare che riguardava la corona lo premeva assolutamente; praticamente cacciò Gino dal suo ufficio, sbattendo anche la porta. Gino rimase con Kellan, il quale gli spiegò che quel modo di fare di Braff, di essere sempre così affabile e amichevole, era uno dei tanti elementi di cui si componeva la sua tattica per tessere la sua tela di patti, accordi e altro genere di legami più o meno taciti o palesi. Per Kellan, far trovare a Gino sir Rollo quella sera era stata da parte di Braff come il voler fare una specie di piacevole sorpresa al rampollo di Lungotavolo – effetto peraltro abbastanza riuscito, pensò Gino – al fine di sciogliere ancora di più gli imbarazzi e creare, quasi per davvero, una specie di amicizia. Ma quando Gino ricordò a Kellan che lui stesso lo aveva messo in guardia dalla pericolosità di Braff, quello si limitò ad annuire, in un gesto vago che poteva significare sia “beh e in effetti è così” che “meglio lasciar stare: non puoi capire”. Anche Kellan chiuse a Gino una porta: il cancello esterno di quel palazzo pubblico nel quale si trovava l’ufficio di Braff, e Gino tornò all’accampamento dei Tyrell, molto più confuso di quanto già la politica di Roccia del Re non lo avesse reso.
 
 
 
                Bene: anche quel piccolo pensiero di spostare quanto prima una sua nuova pedina sul campo dei Tyrell era stato concretizzato. Lord Braff adesso poteva concentrare tutte le sue attenzioni su quello che da qualche ora ormai era “il problema” per la gran parte degli uomini e delle donne di Roccia del Re, o almeno per quelli che contavano di più: il disequilibrio che si era creato a partire dall’attentato ai danni del re. Braff lo sapeva: quando accadevano regali uscite di scena così sospette, inevitabilmente scattava una lotteria per capire chi si sarebbe seduto sul trono e una corsa per cercare di avvicinarsi il più possibile all’uomo che l’avrebbe fatto. E così anche Braff aveva intenzione di fare: aveva preparato un bel cavallo da battaglia in caso di prematura scomparsa del re, e quel cavallo da battaglia era il principe primo in linea di successione al trono: Axelion.
                Axelion era fondamentalmente buono e, proprio per questa ragione, era fondamentalmente tonto: per il Lord Maestro dei Sussurri sarebbe stato un sovrano ideale, animato da buoni sentimenti e, nel caso in cui bisognasse prendere decisioni intelligenti, dispostissimo a lasciare che qualcun altro lo facesse per lui. Un modo di essere re esattamente uguale a quello del sovrano che l’aveva preceduto: suo padre Lionel Lannister. Sì, Axelion sarebbe stato un re con i fiocchi per Lord Braff, se solo fosse stato realmente re. Il fatto che Lionel non fosse morto, poneva tutto in una situazione di stallo burocratico potenzialmente esplosiva. In teoria, per come la vedeva Braff, che di leggi del Regno ne capiva abbastanza, il Primo Cavaliere avrebbe dovuto occuparsi solo delle questioni di ordinaria amministrazione per poi definitivamente rassegnare le proprie dimissioni e fare in modo che la linea di successione non venisse spezzata. Ma Constant, il Primo Cavaliere del Re, era un uomo abbastanza imprevedibile: conservava vecchi veleni nei confronti del fratello e dell’intera casata reale che sì – a giudizio di Braff – avrebbero potuto tradursi nell’intenzione di tenere la corona tutta per sé. Eppure, era capitato anche che nel corso degli anni avesse dimostrato un qualche sentimento di affetto e di protezione, specie nei confronti di tutti e cinque i suoi nipoti: l’erede al trono Axelion, il futuro Primo Cavaliere e attualmente studioso di arti magiche Daniel, l’impetuoso Marcus (noto ormai ovunque con il termine “Andalo”), lady Hana, altissimo segretario del re in uscita, e infine la piccola Mirietta, sovrana reggente al palazzo di Lannisport.
                Constant rappresentava per il Maestro dei Sussurri un’incognita da risolvere quanto prima. E nel caso in cui avesse fatto i capricci, Axelion avrebbe dovuto pretendere il ruolo di re. Fu per andare a parlare con il giovane, suo vecchio allievo, che Braff lasciò nelle ore inoltrate del vespro il suo ufficio con l’intento di dirigersi al Palazzo Reale.
                Scortato da Kellan e da altri uomini addetti alla sua sicurezza, chiuse il chiavistello dei cancelli del suo palazzo e si voltò. Aveva avvertito la sensazione di non essere da solo, e così era in effetti: Lady Abigail Baratheon, voce da angelo, moglie dell’erede al trono, stava davanti a lui con fare fiero. Anche lei era circondata da guardie che scambiavano occhiatacce in cagnesco con gli uomini di Braff. «Milady Baratheon» fece Braff non riuscendo a celare un certo disgusto «A cosa devo la vostra visita?».
                Abigail Baratheon era una donna tanto bella quanto abietta. Protetta dai Bolton, aveva scalato l’alta società di Roccia del Re col fare famelico di una fiera. Era riuscita a riportare agli onori delle cronache un vecchio cognome aristocratico ormai praticamente estinto, e pareva essere particolarmente affamata di ottenere quanta più gloria possibile per il nome della sua casata. Era riuscita a farsi amare dal re Lionel e dalla regina e a imporsi come consorte di un non poco riluttante Axelion (Braff era il confessore del giovane ai tempi, e sapeva quanto seppur bella, la personalità ipnotica di Abigail mettesse a disagio il futuro re). Non paga, si era anche fatta mettere incinta, in modo da rimettere – dopo migliaia d’anni – sul trono un sovrano con sangue Baratheon. Il figlio non era di Axelion, bensì di lord Bolton: questo era un falso segreto ben noto ai più; solo il Maestro delle Armi e la regale consorte parevano convinti del contrario. Ma ormai Braff aveva inquadrato la Baratheon: era avida e senza scrupoli, e mirava palesemente al trono per suo figlio. Braff lo aveva capito quando, con una certa insistenza, nel corso degli anni la futura probabile regina era venuta ad offrirgli favori in cambio di informazioni su politici, nobili, e soprattutto membri della casa reale. Talvolta Braff aveva ritenuto conveniente dargliele, altre volte no e, in questi casi, le minacce di Lady Abigail erano state assai pesanti. Una volta aveva cercato di attentare alla sua vita, anche se senza alcun successo: Braff aveva saputo dell’attentato circa una settimana prima che si compisse. Ma questo, insieme a tanto altro, faceva in modo che il Maestro dei Sussurri avesse un’idea quantomeno controversa della donna moglie del suo pupillo.
                «Mio buon Lord Braff» rispose Abigail «Ancora in piedi a quest’ora?»
                «Lo sapete: mi state vedendo»
                «Infatti. Straordinari?»
                «In verità, signora, ho delle questioni da sbrigare al Palazzo»
                «Bene. Saremo lieti di scortarvi»
                «Non è affatto necessario»
                «Oh, ma insisto». Facendo strada, la donna si avvicinò al solo Maestro dei Sussurri e con un amabile sussurro all’orecchio tornò a domandargli: «Chi ha attentato alla vita del re?»
                «Io non lo so. Voi?»
                «Io?!» reagì quella, sconcertata. Braff riprese: «Era una domanda: voi lo sapete?»
                «No, naturalmente. Ma io non sono l’uomo con più spie al suo servizio dell’intero continente»
                «Ah, milady» sorrise quello «Voi mi sopravvalutate»
                «Cosa andate a fare al Palazzo?»
                «A parlare con vostro marito in verità»
                «Per dirgli cosa?»
                «Questi non sono affari che vi riguardano»
                «Sapete: anch’io ho bisogno di parlargli»
                «E questi non sono affari che riguardano me»
                «Voi lo volete sul trono: non è così?»
                «Certamente»
                «E così anch’io!»
                «Me ne rallegro»
                «Andate per convincerlo a sfidare Constant?»
                «Mia signora, sono disposto che voi presenziate al nostro colloquio, se mi promettete che fino ad allora la finiate con le vostre domande. Reputate conveniente quest’affare?»
                «Io… sì»
                «Bene!» a questo punto il Maestro dei Sussurri si liberò in uno sfavillante sorriso, dicendo: «Kellan». Kellan sollevò in aria il suo possente braccio sinistro e, quando lo fece, dal nulla, dalle ombre, una serie di piccole frecce piovvero dai tetti della città andandosi a conficcare su tutt’e sei le guardia personali della nobildonna. Naturalmente, Abigail fu colta da un momento di terrore il quale causò un silenzio che fu nuovamente interrotto dal Maestro dei Sussurri: «Vogliamo proseguire, milady? Non preoccupatevi per la vostra sicurezza: la scorteremo noi personalmente». Non avendo altra scelta, la donna annuì, e l’itinerario fu proseguito sia da Abigail, che da Kellan, Braff, gli uomini della scorta di quest’ultimo e gli assassini ombra che lo seguivano costantemente in ogni suo spostamento.
 
 
 
                Nonostante il cospicuo numero di uomini che si spostavano quando si spostava Lord Braff, furono solo in due a bussare alla porta di uno degli appartamenti di Axelion, il principe primo in linea di successione al trono. Axelion aveva un appuntamento per circa quell’ora proprio con Braff, e perciò aprì la porta sapendo già chi avrebbe incontrato. Prima ancora di invitare il Maestro dei Sussurri a entrare, lo abbracciò entusiasta e disse: «Lord Alexis! Che piacere vedervi! Ne sentivo il bisogno dal momento dell’attentato a mio padre»
                «Lo capisco, figliolo»
                «Mi scuso per il mio atteggiamento “ufficiale” per la sera in cui trattenemmo tutti i membri del Concilio nella sala del parlamento, ma… Constant dice…»
                «Mio giovane amico, non preoccuparti: è tutto passato»
                «Mia signora, ci sei anche tu» fece dunque Axelion, lieto anche se leggermente insospettito; chiarì: «Ma non dovevamo vederci da soli, Lord Alexis?»
                «Sì ma la vostra consorte ha gentilmente richiesto di poter presenziare, e io non me la sono sentita di vietare a due cuori innamorati di ritrovarsi, anche se per l’ennesima volta, l’uno accanto all’altro».
                Axelion e Abigail si baciarono. Il giovane si sincerò dello stato di salute del piccolo Napoleon, poi sorprese entrambi i suoi ospiti con l’affermazione: «Ma sarà una cosa veloce Lord Alexis, non è vero?»
                «Che intendete, Axelion?»
                «Voi… avevate detto di avere l’urgenza di scambiare solo qualche parola e…»
                «Infatti è così, ma non capisco perché tanta fretta»
                «Vedete, mia sorella Mirietta… porta importanti notizie da Lannisport»
                «Ah, sì? E di cosa si tratta, se mi è concesso?»
                «Non me l’ha voluto dire. Dice che la notizia è talmente delicata da non poter far altro che comunicarmela personalmente. Ma non stava più nella pelle: lo si capiva dai toni usati nella sua missiva. Aveva detto che sarebbe stata qui in serata, quindi potrebbe arrivare a momenti…».
                A questo punto, Braff e Abigail si scambiarono un’occhiata dubbiosa. Poi, il Maestro dei Sussurri passò al contrattacco: «Bene, mio signore, la materia di cui dovremo trattare è delicata e mi serve tutta la vostra attenzione, ma credo che potrò essere rapido»
                «Sì?»
                «Noi vogliamo mettervi in guardia»
                «Ah» rise Axelion «Da cosa?»
                «Da… Constant. Io so che voi provate un atavico e giustificabilissimo affetto nei confronti di vostro zio, che con voi è sempre stato amabile e giusto. Ma, Axelion, il Trono di Spade è qualcosa di pericoloso. Possederlo può ottundere le menti, e infiacchire il senno. E Constant, nel suo ruolo di Primo Cavaliere, vi si sta avvicinando troppo»
                «Non vogliamo dire» fece Abigail, con la sua voce celeste «di scontrarti con lo zio che tanto ami, ma soltanto di guardarti le spalle»
                «Se lui» la interruppe ancora Lord Alexis «conserverà tale ruolo temporaneamente, ci permetterà di vedere le condizioni di tuo padre, parlerà di volersi fare da parte e nell’arco di poche settimane lo farà, allora adempirà perfettamente ai suoi compiti di Primo Cavaliere»
                «Ma se» disse ora Abigail «accamperà scuse, rinvierà i tempi una, due, tre volte, o, peggio, farà delle velate minacce a te o alla tua famiglia, allora dovrai prendere provvedimenti»
                «Qui non c’è in gioco» ora Braff «Solo il potere. Si tratta della tua vita e, peggio, di quella di tuo figlio»
                «E io non ho intenzione di mettere a rischio la vita del nostro piccolo per una questione di biechi giochi di potere»
                «È una situazione parecchio delicata» affermò Braff «Duhenlar che lascia per sempre questo mondo dopo una cena non diversa da mille altre, e poi l’attentato a tuo padre… Non voglio spaventarti, figliolo, ma sta succedendo qualcosa in questa città»
                «Qualcosa di pericoloso»
                «E oscuro…». Il Maestro dei Sussurri fece appena in tempo a concludere, che fuori da quella stanza, più o meno all’altezza della sala del trono, risuonò forte uno squillo di trombe. Il ciambellano, o un qualche altro addetto al palazzo, urlò: «LADY MIRIETTA DI CASA LANNISTER, SOVRANA REGGENTE DI LANNISPORT!».
                «Amico mio» disse Axelion con sincerità all’uomo che era anche stato suo insegnante di diritto e storia «Vi ringrazio della vostra preoccupazione e prenderò seriamente in considerazione ciò che mi dite. Mi spiegherete meglio più tardi ma… ora devo andare». E ciò detto il principe si diresse verso la sala del trono. Braff ed Abigail lo seguirono.
 
 
 
                La sala del Trono di Spade. Simbolo del Regno Unificato. Da sempre la minuta, ma tosta, Lady Mirietta la considerava come la più noiosa del castello. Era quella per la quale i suoi antenati si erano uccisi tra loro e con altri uomini. Era quella per cui suo padre spesso aveva troppi pensieri, e troppo spesso non poteva giocare con lei e i suoi fratelli. Era il luogo nel quale più spesso, se veniva beccata a correre o saltare, veniva rimproverata. La Sala del Trono era come qualcosa di esterno al castello, come se il castello stesso vi fosse stato scolpito attorno. Come se fosse sempre esistita, come se sarebbe esistita per sempre.
                Mirietta riabbracciò suo fratello dopo circa un anno. Salutò sua moglie Lady Abigail e quel vecchio marpione del Maestro dei Sussurri, il saggio e potente Lord Braff. Domandò ad Axelion di suo figlio, e di Daniel e di Marcus e di Hana. Infine, gli presentò la donna e l’uomo che erano arrivati insieme a lei. La prima, capelli a caschetto, fisico dinamico, aria furba e vissuta, vestita come una piratessa. Il secondo, invece, vestito come un monaco, molto magro, pelato, con un falco poggiato sulla spalla. Erano Xenya l’esploratrice e il suo secondo, il signor Jorando Pashamanyna.
                «È un piacere conoscere questi signori» disse Axelion «ma chi sono?»
                «Ricordi, caro fratello…» fece Mirietta tutta allegra «quando provai a convincerti di finanziare un’operazione di ricerca, nelle acque a ovest di Lannisport e delle Isole di Ferro? Che provai a farti sborsare del denaro per un’intera flotta? Che ti dissi che l’arma più potente che è a nostra disposizione è la conoscenza?»
                «Sì, allora?» rise Axelion «Ricordo che non ti diedi un centesimo»
                «Riuscii a racimolare qualcosa per conto mio, dalle casse di Lannisport. E insieme a me si aggiunsero anche i Panecha, del continente orientale. Niente di importante, un fallimento rispetto a quello che avevo progettato eppure: ecco che l’unica nave che è partita dal nostro porto, ha oggi fatto ritorno…»
                «Ritorno…» fece Lord Braff «dall’ovest?»
                «Sì, mio signore!» esclamò la piccola Mirietta, tutta allegra. Axelion, invece chiese, «E che cosa hanno trovato i nostri avventurosi viaggiatori?»
                «La morte» rispose Xenya «Per otto di noi. Uno lungo il viaggio di andata, due lungo quello di ritorno. E cinque… cinque sono morti sulla terraferma»
                «Terraferma?» chiese Lady Abigail, scettica «Non ci sono terre oltre l’oceano occidentale. Non oltre le Isole di Ferro»
                «Ci sono» insistette Xenya, serissima «Noi le abbiamo viste. E non si trattava di isole, o arcipelaghi. Si trattava di un bel lembo di terra, di cui non si scorgeva la fine. Il signor Pashamanyna, qui, è un esperto navigatore. Mi ha giurato, e potrà giurare anche a voi che quello su cui abbiamo messo piede non era niente di diverso da… un continente»
                «Un continente?!» domandarono in coro Axelion, Braff e Abigail. «Esatto, signori, un continente. Nuovo, inesplorato» mentre Xenya continuava con il suo monologo, degli uomini di Mirietta portavano agli occhi del principe e degli altri nobili astanti due casse contenenti della frutta e degli ortaggi mai visti prima d’ora, «…e pericoloso. Capirete, come me, che questo rivoluziona gran parte della nostra concezione geografica: c’è da cambiare le carte, signori miei. Quello che noi fino ad oggi conoscevamo come il nostro Occidente, diviene adesso… un continente in posizione centrale»
                «Ferma un attimo!» s’immischiò Braff «Avete delle altre prove, signora, per dir questo… oltre a delle frutta esotica e alle convinzioni di un, sebbene esperto, solo navigatore?»
                «Gli altri uomini della mia squadra sono la prova: Jenkins, Gordon, Meyer, Stein e Gordimer i loro nomi. Morti tutti per causa di quello che abbiamo trovato su quel territorio»
                «E che cosa avete trovato?» chiese Axelion, ormai completamente perso nel discorso e convinto della verità delle parole dell’esploratrice. Xenya rispose: «Diavoli colorati, travestiti da uomini. Ci hanno attaccato, rapiti e… qualcuno di noi è stato ucciso. Mio signore…» Xenya s’inginocchiò «Dopo tale servizio fornito all’intera comunità di cui voi siete uno dei governanti, io ora vi chiedo un immenso favore»
                «Parlate!» concesse Axelion, quasi commosso. E Xenya: «Permettetemi di fare ritorno su quei luoghi, con una nuova scorta di uomini, più numerosa stavolta, e armati di tutto punto. Chi prima arriverà sul nuovo continente, sarà re del nuovo mondo».

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Capitolo 8
*** Prede e predatori ***


Capitolo 8
PREDE E PREDATORI
 
 
                L’arrivo di Mirietta e dei suoi uomini alla Capitale aveva portato altri problemi e altri interrogativi per Constant: infatti se già prima era difficile trascorrere del tempo in completa solitudine con il principe Axelion per via della morbosa presenza della moglie e dell’amico Braff – che non gli si staccava mai di dosso – adesso era diventato praticamente impossibile lavorarsi il principino a causa di quel terzo incomodo della sorella. Mirietta stava sempre lì a bisbigliare alle orecchie del fratello qualcosa che chiaramente puzzava di inganno, di tradimento e di rivoltoso; così almeno doveva essere per Constant perché la sua nipotina non gli era venuta a riportare alcuna notizia, proprio a lui che era l’attuale reggente del Regno Unificato.
                Constant li osservava da lontano mentre ancora una volta erano intenti a parlottare sottovoce: era impossibile carpire alcuna parola, sia perché probabilmente Mirietta aveva la vocina più flebile di tutto il Regno, sia perché Axelion rispondeva sempre con frasi incomplete prive di apparente senso e borbottii come se volesse rimandare il discorso. La visione del nipote completamente sopraffatto da due donne e da uno stratega del crimine riempiva di amarezza il cuore di Constant: i Lannister erano davvero caduti così in basso? Constant poteva davvero lasciare il Regno in balìa di suo nipote, o per meglio dire di Braff e Abigail? Era buffo: quella sporca cagna infedele di Abigail Baratheon, il cui stemma di famiglia era un cervo, adesso affilava i suoi artigli sul marito e si mostrava forte, fiera e rampante proprio come un leone; mentre Axelion che portava l’antico stemma leonino (anche se adesso chimerico) dei Lannister stava sottomesso come un cervo predato e pure cornuto. Se già due nemici erano troppi, adesso la situazione era ingestibile: era necessario sbarazzarsi di qualcuno o trovare un piano immediato e alternativo per ribaltare lo svantaggio in cui Constant si trovava. Inoltre il primo cavaliere lo sapeva bene che aveva i giorni contati: quelle occhiatacce che Lord Braff gli mandava erano più eloquenti di qualsiasi parola, doveva smammare e cedere il trono, e anche in fretta.
                Constant sedeva in una poltrona nella stanza dove il corpo del fratello giaceva ancora ibernato nell’attimo tra la vita e la morte; nessuno a parte lui poteva entrare in quella stanza e nessuno lo aveva mai fatto fino ad allora: infatti per trovare una possibile soluzione a quei problemi, Constant aveva cercato il consiglio dell’amico Lorthan invitandolo proprio lì, in quello che sembrava essere il posto più sicuro di tutto il castello. Nell’attesa dell’arrivo di Lorthan, Constant si alzò e si avvicinò al corpo del fratello: il suo volto era bloccato in quella smorfia generata dal dolore o chissà quale altra emozione si prova quando si capisce che si sta per varcare il mondo dei morti. Improvvisamente le labbra del fratello presero a muoversi e a parlare, ma la voce che pronunciò quelle parole non era di Lionel
                «Quanto tempo Constant, mio allievo prediletto...»
                «Requiem?» chiese Constant che era quasi sicuro di aver riconosciuto la voce del suo maestro di Necriomanzia, il drago Requiem.
                «Oh, vedo che non mi hai dimenticato...» disse quello con voce sibilante
                «E come potrei..»
                «E invece sembra proprio che tu abbia avuto delle mancanze... ti sei forse dimenticato del nostro accordo? È passato tanto tempo e ancora non hai concretizzato nulla... se non mi aiuti, io non posso aiutare te: lo sai questo, non è così?»
                «Ci sono stati soltanto alcuni piccoli intoppi. Provvederò quanto prima ad attuare il piano, mi serve solo dell’altro tempo e i consigli di un amico»
                «Ma è proprio per questo che sono venuto: per portarti consiglio. Non sono forse un tuo amico anch’io, Constant?». Constant considerava Requiem molte cose, ma un amico non era tra quelle: era stato suo maestro dopo la discesa del monte Cabuk e adesso erano complici e alleati nell’attuazione di quel loro folle piano, ma “amico” esulava chiaramente dalle parole che potevano descrivere il loro rapporto. Constant non diede alcuna risposta a quella domanda, e si venne a creare qualche attimo di pauroso silenzio. Gli occhi di Lionel si aprirono rivelando due pupille da rettile che cominciarono a muoversi per cercare lo sguardo di Constant finché non lo incrociarono: «E’ paura quella che scorgo nei tuo occhi, Constant?»
                «No...» mentì Constant «È timoroso rispetto, mio maestro» e si inchinò ai piedi del letto, non tanto per il gesto rispettoso in sé, ma per avere la possibilità di distogliere lo sguardo da Requiem.
                «Bene. Parlami dei tuoi intoppi adesso, così potrò consigliarti a dovere».
                E Constant raccontò ogni cosa: dall’accordo preso con il Signore delle Dune, alla morte misteriosa del Re; riferì di quel ficcanaso di Lord Braff e delle sue molteplici spie disseminate per il castello e della moglie e della sorella sempre così abilmente dedite al complotto.
                «Non vedo alcun intoppo» disse Requiem «Cosa ti impedisce realmente di proseguire col piano? Oltretutto, la parte più complessa è stata completata...»
                «Ma qualcuno ha ucciso mio fratello, il re! Questo è un complotto! E io devo scoprire chi è stato!»
                «E perché mai? Non lo avresti prima o poi ucciso tu stesso?»
                «Ma non sono stato io! Non sarò affatto vittima degli eventi: anzi sarò io a riscrivere la storia di questo Regno!»               
                «Vane parole se non sono seguiti dai fatti! Mi aspetto che da ora in avanti tu ti attenga al piano» sentenziò Lionel ancora sotto l’influenza del drago. «Non posso lasciare il Regno a quelle persone: sono pericolose... Lord Braff trama sicuramente qualcosa, mio nipote Axelion è un incompetente e sua moglie manderebbe in rovina l’intera città!»
                «NON HA IMPORTANZA!» urlò Requiem «Lascerai il trono quanto prima, ti atterrai al piano, e soltanto quando tutto sarà completo e avremo onorato il nostro accordo potrai fare quel che vuoi, ma fino ad allora non ammetterò più futili perdite di tempo...»
                «Il tuo volere, le mie mani, Maestro...»
                «Un’ultima cosa: il nostro uomo sospetta forse qualcosa?»
                «Il Signore delle Dune è un tipo sospettoso di natura, ma dubito che abbia intuito che prima o poi dovremo tradirlo. Io e il Necriomante gli abbiamo dato chiaramente l’impressione di agire contro di voi e in suo favore»
                «Bene. Manderò quanto prima giù Anylice per darti supporto con il rituale. Dino ad allora non commettere passi falsi».
                Gli occhi di Lionel si chiusero e le sue labbra si serrarono; poi il corpo del re sobbalzò come se il cuore avesse dato gli ultimi battiti prima di morire per sempre: Requiem aveva cancellato l’incantesimo di Constant e con esso anche ogni traccia della sua presenza.
                «Quindi non ho altra scelta, adesso, maledetta lucertola!». Qualcuno bussò alla porta; due colpi secchi e due in rapida successione: doveva essere Lorthan, solo lui si annunciava in questo modo. Constant andò ad aprire la porta.
                «Oh eccoti, Lorthan. Grazie per essere venuto: ci sono cose importanti di cui dobbiamo parlare» fece Constant all’amico, chiaramente infastidito in volto «Qualcosa non va?»
                «Quella carogna di Braff mi ha fatto seguire: lo fa ormai da un po’ di tempo, ma oggi ha dato il meglio di sé… non una, non due, ma ben cinque spie alle mie calcagna»
                «Ti hanno seguito?»
                «Certo, ma solo fino a che le mie spie non si sono sbarazzate delle sue; sono Lorthan Tyrell io: deve ancora arrivare il giorno in cui quel criminale potrà sopraffarmi proprio qui dove è una vita che tesso trame, intrighi e preparo la mia ascesa al trono!»
                «È proprio di questo che dobbiamo parlare: entra». Lorthan entrò, incuriosito: non aveva mai visto il re dopo l’attentato, e voleva accertarsi che le parole dell’amico Constant fossero vere. Si avvicinò al letto e vide il cadavere di Lionel Lannister.
                «Allora è proprio come tutti dicevano... il re era dunque veramente deceduto, mi hai mentito Constant!»
                «È morto proprio poco fa... devi credermi, amico mio»
                «Ammettendo che io ti creda, dubito che riuscirai a convincere tutti gli altri»
                «Si lasceranno convincere dalle parole del Gran Maestro Septimus»
                «Neppure le parole del Gran Maestro potranno essere convincenti se mostri un cadavere così pallido e freddo... non sembra affatto una morte recente...». Constant si avvicinò al fratello e lo toccò in volto con la mano destra: del calore sembrò sprigionarsi da questa che, al contatto con il viso del fratello, sembrò trasferire sulle gelide gote di Lionel un bel colorito roseo.
                «Meglio, adesso?» domandò Constant al Maestro del Conio, e questi rispose: «È davvero incredibile la tua magia amico mio!»
                «E non hai ancora visto niente...». Constant spiegò brevemente il piano che avrebbero dovuto seguire: sperperare rapidamente quanto più oro possibile dalle tasche della Corona, possibilmente per il funerale del defunto re; lasciare quanto prima Roccia del re e il trono in mano a Bradd o chi per lui ne avrebbe fatto le veci, allontanarsi subito dopo verso Altogiardino e da qui interrompere i sussidi in grano verso la Capitale, seguire le indicazioni di un “uomo” di fiducia che era già sul posto e prepararsi per una guerra imminente.
                «Sei un folle!» commentò Lorthan incredulo dopo aver udito le parole dell’amico.
                «Lorthan», insistette il Primo Cavaliere Reggente, «questo posto non è più sicuro, ed è scomodo da gestire dall’interno. L’unico modo che abbiamo per prenderlo è di conquistarlo e reclamarne il diritto dall’esterno»
                «Saremo considerati come dei rivoltosi, nessun lord supporterà la nostra causa e perderemo una guerra ancor prima di cominciarla, visto che non possediamo un valido esercito»
                «E se ti dicessi che già siamo in possesso di un vastissimo esercito? Senus Willoughby si unirà volentieri a noi pur di avere l’indipendenza dagli Applegate e abbiamo validi alleati in Oriente e soprattutto abbiamo la mia magia! E interrompendo i rifornimenti in grano verso la capitale causeremo un duro colpo sia all’esercito avversario sia al morale della popolazione che ben presto capirà con chi schierarsi pur di ricevere un buon pezzo di pane. E per concludere, stiamo per infliggere una bella batosta a Lord Bolton: ben presto le sue chimere scorrazzeranno libere per il regno, privando la Corona anche di questa grande forza bellica»
                «È stato già tutto deciso, allora. Mi avevi convocato per dei consigli ma a quanto pare hai già preso le tue decisioni da solo!»
                «Non è come sembra, Lorthan... le cose sono cambiate proprio adesso»
                «Adesso, dici? E cosa sarebbe cambiato?»
                «La morte del re mi ha impedito di prendere altro tempo e di proseguire col vecchio piano; e le spie di Braff alle tue costole e le sue occhiatacce sono segnali evidenti che siamo persone scomode e non gradite... ti sto dando la possibilità di cavalcare l’onda più forte, amico mio»
                «Più forte dici? E se io persistessi con il vecchio piano? Se dicessi al tuo nipotino che sei un traditore? Se continuassi a fornire grano alla capitale e la supportassi anche con il mio esercito, sarebbe ancora la tua, l’onda più forte? Nel tuo piano io vedo troppi alleati, e troppi alleati significano più pretendenti, e io non ho alcuna voglia di dividere il trono con nessuno».
                Constant non sembrò turbato dalle minacce del Maestro del Conio, sfoggiò un sorrisetto malevolo e proseguì: «Manterrò la promessa che ti feci allora e ti farò sedere su quella maledettissima sedia di ferro, ma si farà a modo mio, che ti piaccia o meno. Sei libero di voltarmi le spalle – se vuoi – ma se posso essere sincero, mi aspettavo una reazione del genere; infatti proprio per questo ho già preso il controllo delle tue truppe e il piano proseguirà con o senza di te: sta a te decidere se cavalcare l’onda con me o esserne travolto. Ah, dimenticavo: abbiamo anche il tuo piccolo affezionatissimo fratello in ostaggio». Quelle parole ammutolirono Lorthan una volta per tutte. Valutando la situazione, il Maestro del Conio capì perfettamente che la bilancia pendeva a favore del Primo Cavaliere e che quindi doveva stare dalla sua parte; sapeva che Constant era una persona risoluta e decisa e non dubitava affatto delle sue parole, tutto ciò che aveva detto era sicuramente vero; ciò che lo turbava però era il modo in cui aveva agito alle sue spalle, rendendolo quasi una pedina più che un vero alleato da trattare alla pari.
                «Farò come dici, Constant; ma ad una condizione: niente più segreti e giochetti, voglio essere trattato come un tuo pari!» disse Lorthan porgendo la mano destra al Primo Cavaliere. E quest’ultimo: «Così sarà da ora in poi, vecchio amico mio.Mi scuso per le scelte che ho dovuto prendere alle tue spalle, ma dovevo gestire forze ben più pericolose...»
                «Forze di cui vorrei essere informato quanto prima»
                «A questo punto è inevitabile: sarà fatto... nei limiti delle mie possibilità» disse Constant, pensando al limite che Nidhogg gli aveva imposto con il giuramento. Constant strinse, fiero, la mano dell’amico; dopodiché aggiunse: «Bene. Ora che è tutto risolto, possiamo andar: abbiamo un dispendioso funerale da organizzare e poi… l’incoronazione del mio nipotino prediletto».
 
 
 
                Anylice avanzava verso Forte Innevato con passo spedito e deciso. Era lì che si nascondeva da tempo immemore la creatura spregevole che l’aveva ridotta a vivere in quel modo e che adesso doveva servire fino alla morte: Anylice non era più un essere umano, bensì una pallida ombra di ciò che era un tempo. Requiem l’aveva riportata in vita dopo il massacro avvenuto all’alba dei tempi per farne la servitrice perfetta. E c’era riuscito proprio bene. Il suo corpo era freddo come il ghiaccio, la sua pelle plumbea come un nuvoloso cielo invernale e i suoi occhi erano azzurri come le profondità del cuore di Actonon. I suoi lunghi capelli scuri erano morbidi come la neve ma nessuno avrebbe mai potuto accarezzarglieli: Anylice viveva – se quella poteva essere definita vita – in completa solitudine, vagando per l’estremo nord a protezione del drago che l’aveva strappata al dolce abbraccio della morte, una ricompensa di gran lunga migliore della sua attuale condizione. Era rinchiusa nel suo stesso corpo, ormai trasformato e intriso dalla magia della Necriomanzia: era così gelido che non sentiva ormai più freddo, e neppure il sole riusciva più a scaldarlo. Non poteva muoverlo a piacimento perché Requiem ne controllava ogni parte, solo i pensieri e i ricordi erano suoi. Sfuggire a quel controllo era completamente impossibile: Requiem sapeva sempre dove andava, cosa faceva, cosa diceva; l’unico modo per liberarsi da quel maleficio era che Requiem morisse o che Requiem stesso l’affrancasse dal sortilegio o che qualcuno l’avesse sopraffatta in combattimento: ma lì non c’era nessuno e anche se qualcuno ci fosse stato, nessuno sarebbe stato mai alla sua altezza; infatti era stata scelta per le sue innate doti nell’uso della Criomanzia, la magia della manipolazione del ghiaccio, in cui eccelleva e primeggiava tra tutti gli uomini e le donne del suo tempo. Tutt’intorno a lei, c’era solo neve e ghiaccio; ogni tanto però i ricordi prendevano forma per mostrare una fugace proiezione della gloria della sua gente portata al decadimento per la crudeltà del suo padrone. Il vento del nord, portatore della voce del drago, l’aveva convocata alla fortezza: un’ antica rovina sperduta tra le caverne del nord. Essere convocata significava soltanto che il piano aveva iniziato a prendere forma e che lei stessa doveva entrare in azione: ciò la rendeva felice perché sapeva che in ogni caso la sua vita sarebbe giunta ad un epilogo; se Requiem avesse vinto, non avrebbe sicuramente avuto più bisogno di lei; se Requiem fosse stato sconfitto, lei sarebbe potuta morire in pace. Lei lo avrebbe servito al meglio, auspicandosi che quella sua tortura sarebbe finita quanto prima. Tali pensieri l’accompagnarono per gran parte del viaggio e subito, senza neanche accorgersene, arrivò alla fortezza innevata. Alcuni totem grotteschi erano anteposti all’ingresso della caverna: questa era decorata all’interno da graffiti primitivi raffiguranti macabre scene di caccia in cui gli uomini erano le prede e i predatori erano draghi. Anche se Requiem aveva battezzato quel posto sperduto tra le montagne come Forte Innevato, quel posto non era nient’altro che una caverna spoglia e fredda, ricoperta dal ghiaccio e dalla neve che cadeva dalle fratture in cima al soffitto.
                «Eccomi...» disse Anylice giunta in fondo alla caverna «...anche se immagino sapevate già del mio arrivo». Un enorme drago emerse dalla neve che lo ricopriva per tutta la sua interezza: il suo aspetto era il ritratto perfetto del decadimento, della morte e del disfacimento. Era tutto grigio a macchie nere, le sue scaglie erano spuntate e non lo ricoprivano neppure più per tutto il copro; alcune parti infatti erano nude e rivelavano una possente ma marcia muscolatura violacea; gli artigli e i denti erano sì affilati ma erano ingialliti e crepati.
                «Preparati. Raggiungerai Constant a sud... il rituale dovrà essere pronto per quando la guerra avrà finalmente inizio... nessuna anima deve andare perduta... ogni singola vita dovrà nutrirmi e fortificarmi, e riportarmi agli antichi splendori, prima che io scioccamente disperdessi i miei divini poteri per vedervi uccidere per mio diletto gli uni con gli altri...»
                «Sei stato tu stesso la causa dei tuoi mali»
                «Sta’ zitta, insolente... rimedierò ai miei errori tra breve»
                «Mi darai la morte quando tutto sarà finito?»
                «Solo se mi servirai a dovere»
                «Vi servirò al meglio, proprio come ho sempre fatto»
                «Proprio come ti ho sempre fatto fare vorrai dire... so bene che stai tramando qualcosa, ma tu osa soltanto a mandare all’aria i miei piani e rimarrai un morto vivente per il resto della tua squallida vita»
                «Non vi deluderò... non ho intenzione di servirvi fino alla fine dei tempi!» disse Anylice. «Bene» le rispose il drago «prendi il vento del nord: ti porterà direttamente ai piedi del monte Cabuk. Da lì muoviti verso Sud: ti condurrò io verso il campo di battaglia dopo che Constant avrà fatto iniziare la guerra»
                Anylice non disse nulla; un vento scese da una crepa nel soffitto e avvolse il corpo della Criomante, che in pochi secondi si dissolse e divenne un tutt’uno con questo, poi sparì da dove era venuto e cominciò a soffiare rapidamente verso Sud.
«Io, Requiem, il cantore della morte, farò sentire all’umanità ancora una volta la sinfonia della rovina» disse il drago e si immerse nuovamente sotto la neve da cui era emerso. Prendere il vento era spiacevole anche se comodo: si riuscivano a percorrere grandi distanze in breve tempo, anche se i giramenti di testa, il senso di vomito e la fiacchezza dopo il viaggio duravano per giorni interi. Il viaggio terminò in breve tempo: Anylice aveva raggiunto le pendici del monte Cabuk.
 
 
 
                Il Necriomante raggiunse la Valle del Leone come gli era stato ordinato. Per conto di Constant avrebbe dovuto uccidere Marcus Lannister, anche conosciuto come l’Andalo, per conto del signore delle Dune avrebbe dovuto liberare le chimere della valle e distruggere quel posto e tutti i suoi cavalieri: caos, distruzione, sterminio; non potevano chiedergli di meglio. Il suo arrivo fu accompagnato da grossi nuvoloni carichi di pioggia, sembrava che anche il cielo stesse per prepararsi a versare pesanti lacrime. Il Necriomante, consapevole della propria superiorità in combattimento, non cercò neppure di entrare furtivamente nella valle, passò direttamente dall’ingresso dove due guardie erano di pattuglia.
                «Che noia stare di guardia...» disse Brody, la prima delle due sentinelle.
                «Smettila di lamentarti, meglio di stare dentro a spalare merda tutto il giorno, no?» lo ammonì Henley.
                «Ma io ho intrapreso questa carriera per cavalcare le chimere! Non per spalare la loro merda o per fare la muffa qui !»
                «Ahah, no! Tu hai intrapreso questa carriera perché ti ci hanno costretto, amico mio!»
                «Può darsi! Ma dato che sono in ballo, voglio ballare a modo mio! Dovremmo protestare!»
                «Sì certo, così da guadagnarti una bella pala in mano! Se non sei di alto rango, non puoi muovere alcuna mozione, dovresti averlo capito ormai... e anche con il rango dalla tua, non è che vai molto lontano qui... guarda l’Andalo per esempio: figlio del re, ma spala merda esattamente come tutti gli altri»
                «Ho saputo che entrerà a breve nell’unità medica, pare che sia entrato nelle grazie di Sir Merrin»
                «Brutale come è, lo avrà certamente costretto con la forza AHAH»
                «AHAH».
                Il Necriomante avanzava verso l’avamposto: era avvolto dal suo solito straccio grigiastro, ma adesso indossava anche una sorta di cappuccio che ne copriva il volto scheletrico. Gli stivali, vecchi e logori, calpestavano la polverosa via di accesso della Valle del Leone senza emettere alcun suono; le mani artigliate erano ricoperte da lunghe bende puzzolenti e intrise di sangue. Subito la sinistra figura fu notata dalle due guardie che, insospettitesi, smisero di ridere e si avvicinarono sguainando le armi.
                «CHI VA LA? ANNUNCIA IL TUO NOME!» gridò Brody, ma quello non rispose, continuò invece la sua lenta e minacciosa avanzata. «Va a chiamare supporto, Henley: lo tengo impegnato io»
                «Col cavolo! Vuoi forse una promozione tutto da solo? Divideremo la gloria, amico!»
                «Sei arguto ahah! Va bene: prendiamolo e prepariamoci a salutare questo avamposto, a breve cavalcheremo le chimere!». Il Necriomante raggiunse i due uomini e arrestò la sua avanzata. «Dicci chi sei» fecero quelli «o dovremo tirartelo fuori con le cattive!». Il Necriomante tolse il cappuccio, sfoggiando il terrificante teschio sorridente: le due guardie raggelarono alla vista ma tutto finì in un attimo, perché la creatura con rapidità sorprendente aveva subito conficcato i suoi famelici artigli dritto nel petto delle due vittime, perforandone la leggera armatura di stoffa; li estrasse subito dopo portandosi dietro varie interiora. Le guardie si accasciarono a terra: Brody era morto sul colpo, trafitto da parte a parte; Henley ansimava morente e iniziò a piangere e a supplicare di non essere ucciso. Il Necriomante lo guardò dritto negli occhi, dunque disse: «Il vostro incubo peggiore è arrivato, prede; io sono il vostro predatore» e trafisse il cranio del povero malcapitato.
                Marcus era riuscito a ridurre i suoi turni in compagnia di Dylan: non che la sua presenza non fosse gradita, ma spalare il letame, seppure in buona compagnia, non era cosa che affatto lo dilettava. Grazie a Sir Rabastan adesso doveva solo prestare poche ore alle vecchie mansioni, per dedicare le restanti ai vari trattamenti medici e alla cure delle chimere. Quelle creature erano sì spaventose e terrificanti, ma di certo erano una attrattiva migliore del loro sterco... e poi era in compagnia di Jasmina.
                Marcus aveva appuntamento con lei alla gabbia di Shirley, al fine di accertarsi che la chimera si fosse completamente ripresa dal parto; le tre piccoline invece erano in perfetta salute: a parte i piccoli difetti congeniti, crescevano forti e robuste. Per raggiungere le gabbie bisognava passare dalle cucine dove Dunstan e Jacobs erano di turno; Marcus decise quindi di sostare, prendere un po’ di frutta da portare a Jasmina, e di salutare i due ragazzi. Subito l’attenzione di Marcus fu catturata dal corpo di Jacobs, disteso a terra, poco prima dell’ingresso per le cucine. Marcus corse in suo soccorso, ma arrivò tardi: Jacobs era morto; aveva il petto perforato. Lo strano silenzio che aleggiava nell’area era segnale che qualcosa di strano stava accadendo nella Valle del Leone.
                «AIUTO! QUALCUNO MI AIUTI!» gridò Marcus, ma non ottenne alcuna risposta. Era strano: la Valle del Leone era sempre un posto agitato; non era difficile sentire in lontananza il clangore delle spade dei cavalieri in allenamento o le lamentele dei servi intenti a riordinare, o i ruggiti stessi delle chimere; ma in quell’attimo nessuna di tutte quelle cose era udibile, solo un sospettoso silenzio. Marcus prese dalle mani di Jacobs l’accetta con cui stava tagliando la legna, poi entrò nelle cucine. Dunstan era accasciato sul tavolo centrale insieme alle patate che stava pelando, Carlyle invece era disteso, anche lui privo di vita, a terra vicino al calderone dello stufato che continuava a bollire come se non fosse accaduto niente. Nessun altro era presente in cucina; Marcus uscì subito dalla porta sul retro: il suo amico Dylan era accovacciato sul sacco di letame chimerico che stava riempiendo con la pala, anche lui privo di vita; le mosche avrebbero fatto una gran festa quel giorno. Poi delle urla provenienti dalla zona delle gabbie attrassero la sua attenzione; Marcus alzò lo sguardo e vide da quella direzione del fumo che saliva verso l’alto: doveva esser scoppiato un incendio poco lontano. E lui doveva correre, doveva salvare quelle povere creature e anche Jasmina che lì lo stava aspettando. Corse quanto più poteva finché non incontrò altri due cavalieri armati di tutto punto andare nella stessa direzione
                «Andalo, cosa sta accadendo? Cosa è questo trambusto?» disse il primo cavaliere.
                «Ci sono morti e un incendio...dobbiamo sbrigarci»
                «Morti?» chiese il secondo, preoccupato.
                «Nelle cucine! Una strage! Tutti morti! Chi mai potrà essere stato?»
                «Immagino che a breve lo scopriremo... puoi combattere?»
                «Questa accetta sarà sufficiente. Andiamo, forse possiamo ancora salvare qualche vita».
                I tre uomini corsero con quanto fiato avevano in corpo, finché non raggiunsero l’area delle gabbie: almeno una dozzina di chimere scorazzavano libere; alcune volavano via, mentre altre – quelle meglio addestrate – anche se impaurite, restavano in attesa del loro cavalcatore. Molti cavalieri erano già stati uccisi; altri, comandati da Sir Cleghorn, stavano combattendo accerchiando una strana figura ammantata di grigio che, nonostante l’inferiorità numerica, teneva testa a tutti quegli uomini. Jasmina stava accovacciata in un angolo vicino alla gabbia di Shirley, piangendo e tenendo stretta stretta Sapphire, la piccola chimera. I due cavalieri che giunsero con Marcus si unirono subito nella battaglia: il primo riconobbe la propria chimera che diligentemente lo stava aspettando e cavalcatala affrontò lo strano individuo con un attacco aereo, il secondo si buttò direttamente nella mischia. Marcus voleva combattere, ma mentre stringeva forte l’accetta nella mano destra, decise che c’erano altre priorità. Corse in soccorso di Jasmina.

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Capitolo 9
*** La guerra dei draghi ***


Capitolo 9
LA GUERRA DEI DRAGHI
 
                Per quanto lo riguardava, la terra dei Worchester era già il sud. C’era la neve sulla vasta brughiera oltre la quale sorgeva lo squadrato palazzo d’acciaio degli orsi del nord, ma a sua opinione il clima era caldo. Il fatto che semplicemente in quelle terre potessero crescere non solo robuste sequoie, ma anche piccole piante, cespugli e arbusti, gli dava l’idea di un luogo notevolmente più ospitale rispetto a quello dal quale lui proveniva. Un luogo dove in qualche modo ancora esisteva la vita. Non era un caso, infatti, che gli stemmi delle uniche due grandi casate nobiliari che risiedevano nei territori oltre quella che una volta veniva chiamata “La Barriera”, non erano animali. Il simbolo dei vermi Applegate, che occupavano illecitamente parte delle loro terre, era difatti una stupida mela. Mentre la casa Willoughby, di cui lui – Waldo – era il signore, in quanto figlio del vegliardo Senus, era rappresentata dalla fredda stella del nord, su campo nero come una notte impietosa. Subito più giù, nel territorio che molti secoli prima era stato occupato dai metalupi, erano gli orsi e gli uomini scuoiati a farla da padrone: i Worchester a ovest e i Bolton a est.
                Waldo non aveva delle grandissime idee su quali fossero i reali rapporti tra le due, potenti, famiglie del medio-nord: sapeva solo che i Willoughby, più nobili e leali degli Applegate ma allo stesso tempo più deboli e scarsi di numero, avevano bisogno dell’appoggio di entrambe (Bolton e Worchester) per rovesciare lo stato delle cose e finalmente condurre verso la strada dell’estinzione quegli ignobili cani dalle mele rancide incise sugli scudi. I Bolton si erano mostrati favorevoli ma assenti per quanto riguardava la loro causa: il Lord Maestro delle Armi era sempre amichevole con loro, ma per qualche ragione tendeva ad essere sfuggente; diceva sempre che c’erano “altri affari più importanti” che lo impegnavano. Ma a Bolton ci avrebbe pensato Worchester, l’orso del nord, o così almeno quest’ultimo continuava ad assicurare nelle sue missive: Waldo non sapeva se con questo l’orso intendesse dire “pensarci con le buone” o “con le cattive”. Ma stava di fatto che invece Lord Worchester si era rivelato un amico ben più utile e affezionato: in primis aveva fornito armi, e certe volte perfino uomini, per combattere gli Applegate. Dopodiché aveva anche cominciato a ordire trame con il vecchio Senus al fine di ottenere il riconoscimento dai Willoughby tanto agognato: era stato lord Worchester a pianificare l’attentato ai danni di Lionel, il re del Regno Unificato. Era stato Lord Worchester a fornire a Senus Willoughby i trucchi e le sostanze mortali affinché il vecchio rimuovesse per sempre dal proprio trono un re che per troppo tempo si era mostrato sordo alle loro richieste. Suo figlio Axelion, a detta di Lord Bolton, sarebbe stato un re molto più conciliante. Ma non era per discutere di tutto questo che Waldo Willoughby aveva cominciato la sua marcia verso il sud, in compagnia di venti tra i suoi migliori alfieri…
                Il signore di casa Willoughby non era uno sciocco e, diversamente da suo padre che era ormai anziano e – anche se sempre savio – dalle ponderazioni un po’ troppo semplicistiche, la sua mente non era ancora completamente offuscata dall’ideale. Anche lui bramava l’indipendenza per i Willoughby, certo, e anche lui sentiva che qualcosa finalmente si stava muovendo ma… capiva anche bene che Lord Worchester doveva avere un suo personale tornaconto che però ancora si ostinava a non rivelare ai suoi alleati. Aveva forse ambizioni sulle terre dei Bolton? O, chissà, magari sull’intero nord? Questo ancora rimaneva oscuro. Ma l’alleanza delle stelle del nord con gli orsi del sud contro gli Applegate era qualcosa di fisiologico: interessava a entrambi e, di conseguenza, il lord di Breccia sugli Astri avrebbe per il momento avallato, sancito, e financo sovvenzionato quel patto. Era per tale ragione che, per la prima volta in vita sua, Waldo aveva lasciato la sua dimora nel nord più profondo alla volta del sud. Fino ad ora, lo scambio di informazioni con la Casa Worchester era avvenuto solo in termini epistolari. Suo padre, il vecchio Senus, aveva incontrato l’orso del nord più e più volte quando era ancora lui il signore di Breccia sugli Astri, ma Waldo no: non aveva mai visto il mostro deforme che da circa dieci anni ormai governava le lande ghiacciate del nord-ovest. Quello che gli era stato raccontato su di lui, naturalmente, lo inquietava: ma chi non sarebbe rimasto quantomeno scioccato una volta conosciute quelle storie?
                I Worchester si vantavano di avere davvero il sangue degli orsi nelle loro vene. Dicevano che veramente alcuni dei loro antenati erano stati guerrieri di formidabile stazza, alti come montagne, robusti come querce, e feroci… appunto come orsi. Ma per secoli la dinastia dei Worchester era stata formata da uomini “normali”, perfino mediocri in battaglia. Certo, da sempre si riempivano la bocca con quella storia degli orsi, vanagloriandosi su quanto loro fossero formidabili e imbattibili. Ma erano uomini, esattamente come tutti gli altri. Fino a quando Freghar – detto il Felice – non scelse come moglie una popolana per la quale aveva perduto il senno. Anche Freghar, come e più dei suoi predecessori, si vantava che il suo figlio primogenito sarebbe stato il nuovo, tremendo orso del nord, che avrebbe impaurito le fiere con il suo ruggito. Ma il suo figlio primogenito venne fuori dal ventre della sua sposa bruta già senza vita. E così fu per il secondo, e per il terzo. Otto figli, otto piccoli Worchester che avrebbero dovuto nascere orsi, gli nacquero uomini già morti o uomini morenti. Si dice che Freghar il Felice avesse già gettato la spugna prima che la moglie gli comunicasse la sua nona gravidanza. E, invece, al nono tentativo il piccolo orso venne fuori, apparentemente florido e in salute. Per i primi mesi la pensarono tutti così. Dopodiché si accorsero che il piccolo orso cresceva con più velocità rispetto ai normali altri bambini della sua età: ossa più lunghe, muscoli più dilatati. E, naturalmente, come si giustificò il vecchio Freghar? Dicendo che quel bambino era effettivamente un orso del nord e, come tale, era più che normale che venisse su più robusto e più alto degli altri. Passarono i mesi e il fenomeno non parve arrestarsi, fin quando – a sei anni compiuti – il piccolo orso, che suo padre volle chiamare Uryon, non fu in grado di prendere in braccio sua madre, e a otto suo padre. Il ragazzo era un mostro: non pareva affatto un orso. Aveva qualche tratto che poteva ricordare un qualche animale: le dita deformi, le unghie e i denti affilati, la massa di grasso distribuita malamente su tutto il corpo. Ma non aveva pelo bruno, né muso allungato e, in generale, non possedeva quella grazia e quelle proporzioni che quantomeno caratterizzano l’animale del nord. La troppa altezza, lo rendeva debole e per camminare aveva bisogno di un paio di stampelle. Insomma, Uryon l’orso del nord era veramente un erede di cui avere vergogna: Freghar se ne accorse durante gli anni dell’adolescenza del ragazzo, lo chiuse in una torre e fece in modo che non ne uscisse mai più. Lì venne istruito nella storia e nella politica, nelle tattiche militari, e in svariati altri ambiti. Cominciò a correre la voce che Uryon, che pochi al mondo avevano mai visto, fosse il nobiluomo più colto dell’intero nord. Poi, alla morte del Felice, di regola venne fatto Lord della Casa Worchester e da quel momento in poi, improvvisamente, la casa si arricchì nelle sue casse e nelle sue amicizie. Uryon continuava a non uscire dalla sua torre, eppure la casa dei Worchester non aveva mai brillato di una luce migliore: tutti la rispettavano, tutti la temevano. Ma comunque nessuno incontrava mai l’orso del nord di presenza: questa era una sfortuna che capitava solo ai Willoughby, a quanto pareva. E adesso stava toccando a Lord Waldo.
                Aveva già superato quasi tutti i passaggi, tutti i convenevoli, incontrato già tutti i lacchè che normalmente s’incontrano durante una cerimonia ufficiale. Adesso se ne stava in una grande sala, con un immenso tavolo al centro, e attendeva in piedi. Di tutti gli uomini che aveva portato con sé, solo due gli si concesse di portarsi dietro. Quindi, in quella stanza erano solo in tre: i segretari di Casa Worchester erano andati a convocare il Lord. Waldo attese parecchio: ebbe tutto il tempo di constatare quanta eco ci fosse in quella sala, e quanti animali ci fossero incisi sul legno di quella immensa tavolata; tutti animali del nord: orsi, lupi, metalupi, alci, cervi. Proprio quando la sua attenzione si concentrò sullo sguardo giallo di una civetta delle nevi, le porte si aprirono e dal fondo della sala vennero fuori i segretari che già Waldo aveva incontrato. Dietro di loro, goffo, zoppicante, si faceva strada l’orso del nord. Era davvero qualcosa d’impressionante: i suoi collaboratori, uomini senza dubbio slanciati, gli arrivavano circa fino alla cintola. Era ammantato da lunghe vesti, eleganti, ma che si vedeva fossero state fabbricate appositamente per un caso umano come lui. Nella parte alta delle sue stampelle, erano state intagliate due minacciose teste d’orso. Waldo pensò che nella condizione tragica in cui era, Lord Worchester si presentava senza dubbio nel migliore dei modi possibile: ma era decisamente una condizione tragica, la sua. Il mostruoso Lord gli lanciò un sorriso, sforzandosi palesemente di non aprire la bocca. Poi parlò: «Mio buon Lord Waldo di Casa Willoughby, vi assicuro di non avere parole per dirvi quanto io sia onorato di conoscervi. Se siete un uomo leale, sincero, saggio, appassionato e – lasciatemelo dire – abile nella conversazione almeno la metà di quanto lo è vostro padre, sono sicuro che diverremo ottimi amici».
                Aveva difficoltà nel parlare: probabilmente possedeva un vocabolario molto più ampio e elaborato del suo, e anche una dizione migliore, studiata fino alla noia chissà quante volte in quelle buie notti della sua adolescenza. Ma c’era qualcosa nella bocca di Lord Uryon che non gli permetteva di parlare bene e… Waldo lo notò chiaramente, e capì che era per questo che Uryon non gli aveva sorriso: quella bocca era piena di denti acuminati come quelli delle belve. Waldo rispose alle parole del mostro: «Grazie della vostra accoglienza, Lord Uryon. Sono onorato di conoscervi»
                «Il viaggio fino al sud è stato in qualche modo “pesante”?»
                «No, signore. Non avevo mai visto il mondo oltre la Barriera e francamente questa è stata una piacevole occasione di farlo… anche se pure da voi l’inverno è rigido, come da noi… in qualche modo la terra si presenta diversamente in questo luogo. E così anche la sua fauna e la sua flora»
                «Io non sono mai stato a nord della Barriera, invece… mi sarebbe piaciuto, ma… le mie condizioni non lo permettono. Bene, vogliamo accomodarci?»
                «Sì, certo»
                «Mi scuserete se non vengo a stringervi la mano, amico mio, ma come vedete la sala è molto ampia e io… ho difficoltà a muovermi, perciò… fate conto che ve l’abbia stretta con quanto più calore possibile, va bene?»
                «Ci mancherebbe, Lord Worchester… nessun problema». E a questo punto entrambi si sedettero, ai lati opposti dell’immensa tavolata. Solo adesso Waldo si accorse che Uryon possedeva una sedia gigante, intagliata appositamente per la sua persona. Proseguirono per un altro minuto discutendo di formalità, dopodiché fu Lord Uryon a passare alle cose serie: «Lord Waldo, io sono sicuro che voi – come me – disponiate di abili spie al vostro servizio, ragion per cui non vi dico una novità se affermo che re Lionel è finalmente venuto a mancare. Senza dubbio siamo certi, come lo eravamo anche prima, che vostro padre non è neanche lontanamente accusato del delitto. Quindi, insomma, voglio dire che… vostro padre è al sicuro, e al di sopra di ogni sospetto, e di conseguenza la prima delle nostre priorità è in qualche modo già soddisfatta: Lionel è morto, e nessuno sospetta di noi. Convenite?»
                «Sì, mio signore, convengo» e in quel momento Waldo ragionò su quanto in effetti quel gigante fosse abile: un politico di prim’ordine, non c’era nulla da aggiungere da questo punto di vista. «Ora veniamo alla causa del nord…» continuò Lord Worchester «In questo momento la figura del re si trova a coincidere con quella del Lord Primo Cavaliere, nel fratello del re, Constant. Ma ben presto sarà Axelion, il principe erede al trono, a governare e da Lord Bolton noi sappiamo che all’indomani della sua incoronazione Axelion immediatamente decreterà l’indipendenza di Casa Willoughby da quelle carogne rognose di Applegate. E avere gli Applegate lontani dalle foreste dell’estremo nord, significa averli deboli e finalmente fuori dai giochi. Finalmente il nord dei Willoughby e dei Worchester ritroverà i suoi tanto agognati ordine e serenità. Quindi, ora che tutto pare risolto, mi chiedo… a cosa devo la vostra visita? Che cosa può esser mai accaduto di tanto sconvolgente da farvi considerare improprio un messaggio via corvo e preferire, invece, attraversare quella famosa Barriera che mai fino a pochi giorni fa avevate attraversato?»
                «Beh, signore, per quanto riguarda Lord Bolton…»
                «Oh, Waldo, ho già avuto modo di spiegarvi che Henrich Bolton non è problema che possa riguardare voi Willoughby: è un problema esclusivamente di Casa Worchester, e sarà Casa Worchester ad occuparsene…» di nuovo Lord Uryon si concesse quel suo sorriso a labbra strette. Di nuovo, Lord Waldo lo ricambiò. Scrutandolo con quei suoi piccoli, brutti, occhi incastonati su un cranio deforme, l’orso del Nord tornò a domandargli: «Ma… non è neanche questa la ragione per cui siete sceso qui, non è vero? Qual è, Waldo? Credo che ormai siamo giunti a un livello di amicizia tale per cui è perfino superfluo dirvi che “potete fidarvi di me”». E Waldo decise di fidarsi: per l’ennesima volta nella sua vita, decise di fidarsi di quell’uomo. Aveva l’aspetto tragico e goffo di un animale ammalato, e fino a quel momento non l’aveva neanche mai visto di persona, ma… Lord Uryon Worchester si era dimostrato un amico. E d’altra parte lui non aveva nessun altro a cui rivolgersi.
                Cominciò: «Lord Uryon, voi siete probabilmente tra gli uomini più saggi dell’Occidente. Le voci sulle vostre incredibili conoscenze negli ambiti più svariati sono note dalla punta più estrema del mio Monte di Cabuk, via fino alle più aride lande dell’Essos, e oltre…»
                «Via, amico mio, state esagerando» si schermì l’orso del nord «Basta con le lusinghe: parliamo del problema che vi affligge»
                «È accaduto qualcosa ad alcuni dei miei uomini… per la verità, non erano precisamente miei uomini: erano dei gaglioffi di uno dei miei alfieri su a Dunwark, l’ultimo villaggio prima della Montagna. Ora a Dunwark, come in gran parte dei territori che rivendichiamo, c’è una situazione politicamente caotica. Per la precisione, governiamo noi ma la fazione degli Applegate è presente e ben radicata. Voi sicuramente sapete bene come me che, nel tempo di guerra, non tutte le azioni degli uomini sono dettate da… “virtù”»
                «Insomma, che hanno combinato costoro?»
                «Si trovavano nei boschi, a bighellonare, quando si sono imbattuti in un gruppo di ragazze Applegate e… hanno tentato di violarle»
                «Mi pare un costume piuttosto usuale nel corso di un conflitto: niente di sorprendente»
                «Sì, mio signore, questo lo so anch’io ma… è quello che è accaduto dopo che è sconcertante…»
                «E cosa è accaduto?»
                «Per quanto ignoranti, e certo non particolarmente brillanti in niente, i ragazzi non erano ubriachi e… mi è stato assicurato che la storia è vera. È arrivato un uomo, ammantato di stracci fino al viso. Probabilmente un giovane, snello, ma estremamente agile, a quanto pare istruito nel corpo a corpo. I bifolchi che io proteggo sostengono che non fosse della zona: parlava in maniera forbita, faceva battute sarcastiche che loro non comprendevano e… aveva un accento del sud»
                «Del sud tipo me?» rise Uryon Worchester. Waldo Willoughby rispose: «Nossignore, molto più a sud»
                «E che ha fatto quest’uomo, gli ha dato una lezione? Spero di sì: se lo sarebbero meritato»
                «Sì, ma… quando sono tornati dal loro signore, i ragazzi avevano il torace, le braccia e le gambe ricoperte da ustioni»
                «Ustioni?»
                «Dicevano che quel ragazzino ammantato di stracci aveva combattuto come un diavolo, e che fosse stato in grado di creare ed estinguere fiamme a suo piacimento… dal palmo delle proprie mani»
                «Uhm…» rifletté l’orso deforme «Piromanzia»
                «Come, prego?»
                «Si tratta di fenomeni leggendari, che certe fonti antiche assumono come dati di fatto mentre altre ne parlano con orrore. E altre ancora ne mettono in dubbio l’esistenza. Ma, in tutti questi casi, parliamo di testi risalenti a secoli e secoli fa. Potrei consultarli, ma la cosa richiede tempo. Ne disponete?». Era cosa nota che la biblioteca di Biancavilla del Nord, da quando Uryon era il signore dei Worchester, era tra i più vasti centri culturali del mondo per numero di manoscritti contenuti. Quella medesima, altissima, torre che era stata un tempo la prigione del giovane orso, era via via divenuta prima un enorme archivio di nomi, date e fatti, e alla fine perfino la sua magione. Il castello dei Worchester era immenso, ma il luogo dove, sotto Uryon, era stata trasferita la residenza ufficiale del signore era l’altissima, imponente, biblioteca nella torre di Amergoth, che in un’antica lingua del nord significa “l’occhio dell’orso”. Oh, quante storie aveva da raccontare quella torre: storie di nascite e di suicidi, di matrimoni e di morti ammazzati. Ma sotto Uryon tutte queste cose erano state dimenticate: sotto Uryon, la torre di Amergorth era diventata la Torre-Biblioteca, nota in ogni angolo delle terre conosciute. Queste cose Waldo di Casa Willoughby le sapeva bene, e sapeva che una consultazione di quegli archivi sarebbe potuta risultare utile. Per tali ragioni rispose: «Il ragazzo con il fuoco nelle mani non è più ricomparso da allora, e per tal motivo non ho alcuna fretta, ma quello che mi chiedo è… e la ragione per cui davvero sono venuto di persona a domandarvelo è perché l’affare è delicato… potrebbe mai essere possibile che questo individuo sia al soldo degli Applegate? E, se non dovesse esserlo, quante probabilità ci sono di poterlo avere… dalla nostra parte?»
                «È complicato» rispose l’orso del nord «Ma possiamo tentare. Consulterò i miei archivi, e cercheremo di accendere almeno un piccolo lumino su tutta questa faccenda» e ciò detto, Lord Uryon strizzò a Lord Waldo un occhiolino complice. Waldo provò come meglio poté di nascondere la sensazione di disagio che quell’orrido viso gli aveva provocato, anche in quel momento.
 
 
 
                Ogni volta che doveva tornare nel rifugio dentro la Grande Quercia, oltre le immense porte di acciaio di Valyria, Daniel di Cowain malediceva la sua dannata goffaggine e quei lunghi piedi che tutte le volte che si era guardato nella vita aveva considerato sproporzionati rispetto al resto della sua restante, aggraziatissima, corporatura. Non era mai stato un grande camminatore, tutto qua: fin da quand’era bambino a Roccia del Re, e poi in quel di Cowain dove era divenuto il principe reggente, in linea di tendenza aveva sempre evitato le attività fisiche. Certo, da quando si trovava alla Grande Quercia – e anche se non lo sapeva con precisione, gli era ormai chiaro che fossero passati diversi mesi – aveva appreso una serie di nuove arti che gli avevano permesso di diventare molto più agile, atletico e perfino forzuto. Stando alla sua considerazione personale, avrebbe potuto addirittura definirsi un combattente mediocre. Ma barcamenarsi per tutto quel labirinto di rocce, legno e terra più o meno umida che componevano la via per il suo Maestro, questo sì: lo faceva sempre con assoluta difficoltà.
                In qualche modo raggiunse comunque, come sempre, le porte di leggendario metallo e le varcò, silenzioso come una faina, come il drago Nidhogg gli aveva insegnato ad essere. Si tolse gli stracci bagnati con cui si copriva da quando aveva cominciato le sue scorribande nei pressi del villaggio di Dunwark, e nei boschi di sequoie tutto intorno. Dentro la Grande Quercia c’era sempre un bel tepore, ma fuori… era l’inverno più rigido! Tuttavia, Daniel di casa Lannister si era abituato anche a questo. Si era abituato alla sua attività di solutore dei problemi del villaggio, che il drago gli aveva affidato come addestramento, per così dire “pratico”, da affiancarsi a tutto ciò che apprendeva nella dimora del primo dei Targaryen. Si era abituato alla fatica, al lavoro, all’esercizio. Come detto, si era abituato al freddo e anche alla solitudine (da mesi, ormai, viveva in compagnia solo di anime morte e grosse lucertole parlanti). Ciò a cui ancora non si era abituato, era la cavernosa, mistica, ringhiante voce del suo Maestro che tutte le volte che Daniel rincasava, lo accoglieva sempre con il consueto epiteto: «Primo Cavaliere dei giorni a venire!»
                «Maestro» salutò, umile, Daniel, pure quel giorno. E Nidhogg tornò a domandargli: «Quali novità dal mondo oltre la Quercia?»
                «Non molte. Gli Applegate si avviano sempre più a riconquistare il Forte Ovest»
                «Sarebbe un progresso di notevole valore. Non solo da un punto di vista simbolico, ma anche strategico. Se prendono anche il Forte Ovest, potrà dirsi che gli Applegate dominano di nuovo l’intera foresta. E tutti sanno che la ragione per cui da decenni si scannano coi Willoughby riguarda il legno per le navi»
                «I Willoughby lotteranno con le unghie e con i denti pur di non perdere Dunwark. E, diversamente che nel resto del paese, qui sono più numerosi e meglio armati. Qui a nord, sono gli Applegate i ribelli, anche se non si capisce perché»
                «Come perché, ma è ovvio! Daniel di Cowain tu sei il futuro Primo Cavaliere di questo Regno: dovresti cominciare ad acuire il tuo intuito per quanto riguarda gli affari di politica. So che non ci sei molto portato, ma qui stiamo parlando di una banalità»
                «Qualcuno li finanzia…» rifletté Daniel, a voce alta. Nidhogg confermò: «Molto bene, anche se ancora non proprio “brillante”, direi. E dimmi, Daniel, per quale augusta ragione – nello specifico – hai quest’oggi impiegato le magie su cui da mesi ti preparo? Ancora salvare donzelle in difficoltà? Ahahah». Per qualche ragione, Daniel tremava ancora quando il drago rideva. Aveva riso tante volte, e Daniel aveva capito che Nidhogg aveva un suo umorismo e che, quando rideva, non era diverso da un qualsiasi altro compagnone di taverna. Però era un drago, e di conseguenza faceva paura. Il principe di Cowain rispose: «Beh non c’è molto altro da fare, signore. Ho scortato degli uomini che dovevano raggiungere il sentiero a nord, oltre il Rivo del Triumviro. Dicono che potrebbero girare banditi da quelle parti: è territorio Willoughby, e perciò fuori controllo. Ma… non ce ne sono stati»
                «Beh, almeno hai preso del fresco. Fa bene l’aria fredda: tonifica la carne, e irradia lo spirito. Non hai idea delle cose che un buon Necriomante fosse in grado di farci, ai tempi in cui il mondo era in pace e i discepoli di mio fratello non corrispondevano necessariamente a dei criminali dissennati. L’aria fredda, come il fuoco, è uno degli elementi da cui quei pochi umani che riescono ad apprendere la magia, possono far derivare il loro potere. L’aria fredda e il fuoco, il tuono e le tenebre, la natura viva e quella morta, che poi in realtà è viva in altro senso… infine, naturalmente, c’è il potere che scaturisce dalle moli oceaniche: questo è l’ambito sul quale francamente la mia conoscenza zoppica un po’. Mia sorella Luxia, lei era brava con le fonti e con tutti i corsi d’acqua» detto ciò, Daniel osservò Nidhogg abbandonarsi in un malinconico silenzio. Silenzio che venne spezzato da qualcuno che non era lui. C’era qualcun altro lì dentro, qualcuno che ancora Daniel non aveva avuto modo di conoscere…
                «Mio signore» disse la voce, e a Daniel parve che a parlare fossero state le stesse pareti di quell’antro. Vide Nidhogg rivolgere il proprio muso e il proprio sguardo verso un immenso cristallo di roccia oscura, dentro la quale Daniel – osservando con attenzione – riuscì infine a scorgere una figura del suo passato. Un uomo che non aveva mai conosciuto bene, ma che gli aveva salvato la vita: il vecchio servitore silenzioso, guardiano della cima del Monte di Cabuk. Ma non era davvero lui: era una specie di sua proiezione che si rifletteva, provenendo chissà da dove, nel cristallo di quella roccia. Ancora una volta, si trattava di magie di cui Daniel non conosceva alcunché. «Ho completato il mio viaggio» proseguì il vecchio «Vi ho contattato non appena giunto alla mia dimora»
                «Splendido, amico mio. E dunque che nuove mi dai? Cattive o buone?»
                «Cattive, temo. Era come sospettavate voi: il libro non era a Cair Dedalos»
                «Ah, incredibile!» sospirò Nidhogg con meraviglia e, in un certo senso quasi orrore. Mai Daniel avrebbe giurato di poter sentire con le sue orecchie Nidhogg assumere un tono così… sorpreso. «E il sigillo? Non è che hai trovato un sigillo, di un materiale simile all’argento, ma più chiaro, per terra o… nei paraggi?»
                «Nossignore, il sigillo non c’era»
                «E certo! Perché avrebbe dovuto? Ah, maledetto Requiem! Dev’essere stato lui a indirizzare il nuovo stregone alla volta di Cair Dedalos, dubito che mio fratello Kyrios – se ancora vivo – abbia mai potuto compiere una follia del genere: non è da lui. È naturale: ora che le nostre linfe vitali si stanno lentamente estinguendo e non abbiamo più la forza di confrontarci come un tempo, quel mentecatto di mio fratello vuole dare agli uomini l’ultima possibilità di distruggersi da soli»
                «Ma signore» s’intromise ancora una volta il vecchio che, a quanto sembrava, ne sapeva molto di più di quello che lasciasse apparire «I sette demoni non erano, forse, una volta i più fedeli, saggi e dabbene tra i vostri servitori? Perché dovrebbero rappresentare una minaccia?»
                «Il sigillo: è il sigillo il problema, vecchio, te l’ho già spiegato! Non importa se favorevoli o contrari alla causa del loro padrone, fin quando egli deterrà il sigillo, loro sono suoi schiavi, vincolati da un incantesimo che io stesso fabbricai – insieme ai miei fratelli e sorelle – e che non può essere spezzato». A questo punto Nidhogg si concesse un'altra pausa; poi si rivolse direttamente al proprio allievo: «Daniel, capisci di cosa stiamo parlando?»
                «Eh-Ehm…» balbettò Daniel di Cowain. Nidhogg sospirò spazientito (ma Daniel capì che era più per i fatti appena raccontatigli che per le sue manchevolezze ), dunque congedò il vecchio guardiano (che sparì dal riflesso sul cristallo) con un saluto, un ringraziamento e un “amico mio”. Dopodiché disse: «È senza dubbio un amico fedele, anche se un po’ strampalato. Ma d’altronde è solo un uomo: lo saresti anche tu, alla sua età»
                «Quanti…» Daniel non si era ancora ripreso da quella specie di rimprovero che pensava di aver appena subito «Quanti anni ha?»
                «Anni? Ahahah, figliolo: nel suo caso sarebbe più esatto parlare di secoli. Non so bene quale sia il vostro grado di parentela ma quello è Terwyn di Casa Lannister, Primo Cavaliere del re». Daniel cercò di fare mente locale: sì esisteva un certo Terwyn nel suo albero genealogico, risalente a secoli e secoli prima. Ma non sapeva se fosse più un suo bisnonno o un suo prozio; e soprattutto non si ricordava niente della sua storia: né infamie né lodi. Non pensava fosse un tipo importante, altrimenti se ne sarebbe ricordato: lui aveva studiato per anni la storia dei Lannister, giù a Roccia del Re, alcune volte tanto da nausearlo. «E…» si sentì quindi di aggiungere il giovane Lannister «Come può Terwyn di Casa Lannister essere ancora vivo?»
                «Questo è un fenomeno di cui neanch’io ho ben capito le dinamiche» rispose Nidhogg il drago «Sta di fatto che, una volta conclusa la sua attività di Primo Cavaliere, il nobile Terwyn – vecchio, stanco e anche ammalato – decise di tornare qui, dov’era stato addestrato da me. Io addestravo suo nipote, in quel periodo. Non gli permisi di riattraversare le porte di acciaio: a nessuno può essere concesso. Ma lui era un uomo ostinato, e aveva deciso che voleva passare l’ultima parte della sua vita tra le nevi di Cabuk. Si stabilì qui accanto e da allora… dimenticò ogni cosa della sua vita passata, come un normale vecchio demente, guarì da ogni suo morbo, e non morì. Io ritengo che subisca parte di un’influenza magica che appartiene solo a noi draghi: tutti gli uomini muoiono e anche lui morirà. Solo, che la sua vicinanza a me – spirituale ancor più che fisica – lo sta rendendo… sorprendentemente longevo. Non sono sicuro, ma penso che se qualcuno lo pugnalasse, lui morirebbe»
                «Beh, ma allora anch’io farò un pensierino di venirmi a stabilire qui, raggiunta l’ottantina»
                «Non affermarlo neanche per scherzo! Tu morirai difendendo il Regno Unificato. Che poi, sai una cosa? Dati i nuovi sviluppi, non direi neanche che sia troppo improbabile…»
                «Ah, no?»
                «No. Daniel, quando arrivasti qui a Cabuk e fosti attaccato da un Necriomante, io mobilitai subito Terwyn al fine di scoprire quale potesse essere la provenienza di quel mostro. Oh, io conosco i Necriomanti, li ho conosciuti bene! Ma sono tutti morti! Solo uno può aver fatto ritorno; ora, io ti chiedo – e rispondi solennemente e con sincerità – Daniel di Casa Lannister: il mostro che ti attaccò a Cabuk possedeva un teschio nero come le tenebre?»
                «S-sì, Maestro, lo possedeva»
                «Allora non v’è più alcun dubbio… Il sigillo è stato spezzato, e i manti – gli antichi maghi custodi – sono tornati a camminare nel mondo, sottoforma… di demoni»
                «Demoni?»
                «Sette demoni dal teschio nero e il potere di rivoltare al contrario questo mondo: un Necriomante, demone delle nevi e di ogni energia fredda; un Geomante, demone delle fiamme oscure dell’interno della terra; un Metamante, demone degli spiriti della natura; uno Spettromante, demone delle ombre; un Idromante, demone del mare e di tutte le fonti; un Lipomante, demone degli elementi… e un Keranomante, demone delle energie celesti. In origine, erano i sette nostri più affidabili allievi. Quando ancora era il tempo della pace fra gli uomini e i draghi, io e i miei fratelli decidemmo di congiungere le nostre forze per fabbricare, forse, il più faticoso e potente dei nostri incantesimi: l’incanto di Cair Dedalos. Volevamo creare dei protettori dell’umanità, protettori dell’umanità che fossero stati uomini a loro volta, e che qualora ce ne fosse stato il bisogno, e noi draghi non fossimo stati più in vita o in forze, si sarebbero risvegliati al fine di proteggerla. I sette nostri più fedeli seguaci, ciascuno di loro abile in un diverso settore della magia, si offrirono per l’esperimento, sacrificando le loro stesse esistenze per come le conoscevano. Io, Kyrios, Kimera, Luxia e Requiem riversammo tutte le nostre energie su un libro, un libro che avrebbe contenuto anche la formula per risvegliare i sette, e il sigillo per esserne padroni. Custodimmo il testo nella biblioteca di Cair Dedalos, la più popolosa delle città degli uomini dei nostri tempi, prevedendo che solo uno di noi draghi, oppure un grande tra i nostri discepoli – particolarmente esperto nelle arti magiche – avrebbe potuto avere il potere di leggere quel libro. Ma accadde quello che mai avremmo potuto prevedere: quello che ti ho già raccontato, il tradimento degli uomini e la malvagità di Requiem. Questi due elementi insieme contribuirono a sporcare la natura del patto magico di cui il libro di Cair Dedalos consisteva. Quell’incantesimo si forgiava dell’amore, dell’affetto e della fiducia che noi draghi avevamo tra noi, e che avevamo con gli uomini. Non avremmo mai potuto pensare che questi amore, affetto e fiducia potessero venir meno e così… semplicemente l’odio di Requiem da una parte, e dell’umanità corrotta dall’altra, deformò la natura di Cair Dedalos, del libro, e delle creature che ne sarebbero sorte. I manti divennero demoni. Ma per un lungo periodo, nessuno ebbe il coraggio di risvegliarli, e così la storia venne dimenticata: da tutti, tranne che dai draghi originari»
                «E… e…» sospirò Daniel, senza fiato, «E chi li ha risvegliati allora?»
                «Beh, spezzare il sigillo e tenerlo con sé richiede una capacità magica notevole… Io personalmente non ho mai addestrato nessuno fino a quel livello»
                «Sarà stato… Requiem?»
                «Possibile, ma improbabile. Come ti ho già spiegato, mio fratello tendeva a disprezzare gli uomini: può essere cambiato con il tempo, ma fino a questo punto… ne dubito. Addestrare qualcuno nell’arte della magia è un discorso, ma renderlo un incantatore talmente potente da poter liberare Cair Dedalos… No: Requiem non l’avrebbe mai fatto, questo»
                «Allora Kyrios?»
                «Anche questo è possibile, ma, diversamente che di Requiem di cui – anche se fioca – continuo ad avvertire l’energia vitale, io di Kyrios non avverto più niente fin dall’ultima volta che lo vidi. Se è vivo, è parecchio distante da me»
                «Maestro, io… non vi seguo»
                «Ma certo che non mi segui: ti mancano gli elementi di cui io dispongo. Vedi, Daniel, fin’ora tutte le volte che abbiamo discusso di apprendimento della magia, io ti ho detto che, certo: non è una cosa che fa per tutti gli uomini, certo: ci vuole una certa predisposizione, ma bene o male chi possiede tale predisposizione può essere istruito. Ebbene, a volte, mi è capitato di imbattermi, seguendo la storia degli uomini, in individui umani che… apprendevano la magia per loro stessa natura, senza bisogno di maestri o lezioni. Sono creature rare, appaiono circa una volta ogni cinquecento anni, e quasi sempre fanno la storia dei secoli in cui vivono. Con mia grande vergogna, devo ammettere che spesso – anche se non completamente in tutti i casi – questi individui sono stati in qualche modo legati alla mia genia. Spesso questi “stregoni” – così vengono chiamati nei vostri testi umani – sono stati… dei Targaryen. In qualche modo, ho contribuito a distribuire in maniera caotica e irresponsabile la magia in questo modo, e di ciò avrò sempre vergogna»
                «Quindi… uno stregone? Uno stregone ha spezzato il sigillo e liberato i demoni?»
                «Io credo di sì. Una creatura indipendente e pericolosa che, a un certo punto della sua vita, ha stretto un patto con Requiem. A che gioco Requiem stia giocando, francamente io non lo capisco. Avrà avuto mille altri modi per manipolare gli uomini e portarli all’autodistruzione, perché arrivare a menzionare Cair Dedalos a un uomo? Cair Dedalos che – ora che la sua energia, come la mia, sta per spegnersi – potrebbe risultare perfino fatale, sia a lui che a me»
                «Maestro, ma… cosa dite? Non mi avete mai detto niente sulla vostra energia, io…»
                «La vita, caro Daniel di Casa Lannister, è un fenomeno complesso, di cui perfino io riconosco di sapere soltanto briciole di informazioni. Ma so che si compone di energia: energia che non può essere creata. Energia che non può essere distrutta. Ma che a volte muta e, talvolta, muta radicalmente. In questo, noi draghi non siamo diversi da tutte le altre creature di questo mondo. Ed è da un po’ di tempo che io avverto che… la mia energia sta per subire delle variazioni. Conto che, più o meno, tu sarai il mio ultimo o penultimo Primo Cavaliere. Cinquant’anni, circa. Mi restano cinquant’anni, e cinquant’anni sono come un soffio nella vita di uno di noi. Ma sta’ tranquillo: subirò la mia mutazione comunque quando tu sarai il vegliardo Primo Cavaliere di un mondo in pace»
                «E… anche Requiem…?»
                «I nostri spiriti sono legati. Io avverto la sua presenza e lui la mia, eppure non ci spostiamo: perché? Perché sappiamo che uno scontro potrebbe risultare fatale per entrambi, ed entrambi – ciascuno per ragioni diverse – vogliamo goderci fino all’ultimo secondo dei nostri prossimi cinquant’anni. È una questione di principi idealistici: io voglio sopravvivere fino a vedere gli uomini tornare alla serenità e alla pace di un tempo, lui per vederli distrutti. Si tratta… di un antico conflitto degli uomini che, in realtà, è un antico conflitto dei draghi».
                A tutte quelle parole, il futuro Primo Cavaliere non riusciva a trovare nulla da aggiungere. Ogni volta che Nidhogg gli raccontava quelle storie, quelle storie di draghi così antiche da non risultare neanche tra i più antichi dei volumi custoditi nelle biblioteche del Westeros, si sentiva piccolo e incapace. Parlare di un conflitto vecchio di millenni tra draghi con visioni opposte del mondo, gli faceva pensare all’umanità come a un gruppetto di pupazzi completamente nelle mani di forze che andavano ben oltre la loro volontà. E lui si sentiva tale e quale a tutti gli altri: il suo status di principe non lo rendeva affatto differente dal pupazzo mercenario, dal pupazzo puttana o dal pupazzo mugnaio. Lui era il pupazzo Daniel Lannister, ma rimaneva pur sempre un pupazzo. «Oh, ma andiamo!» ringhiò il drago Nidhogg ritornando al tono del rimprovero «Non siete pupazzi! È proprio questo il punto! Se c’è una ragione per cui nasce questo conflitto, se c’è una ragione per cui ancora combatto e addestro i Primi Cavalieri, è proprio perché gli uomini non sono piccoli! Gli uomini sono grandi, non capisci? Gli uomini sono le uniche creature destinate alla guida retta di questo mondo. Se falliscono i draghi, è tutto regolare: lo abbiamo ormai dimostrato da tempo. Ma se falliscono gli uomini… allora è l’intero sistema che fallisce».
                Già altre volte a Daniel era capitato di avere l’impressione che il Maestro sapesse quello che gli passava per la testa. Che fosse a conoscenza perfino dei suoi più oscuri e celati segreti. Ma fino ad ora il drago non aveva mai davvero esplicitato questo suo potere. Fino ad ora, questo era solo stato semplicemente un sospetto di Daniel, sospetto che aveva accantonato tante volte quante gli era sorto. Ma questa volta non lo accantonò: era certo che il drago gli aveva appena letto nella testa. «Sì, lo faccio» confermò Nidhogg «Non è una cosa che mi è possibile con chiunque, ma con tutti quegli umani con i quali mi è capitato di stringere un sodalizio… sì, mi è accaduto. È accaduto con Phira, è accaduto con Terwyn di Casa Lannister. È accaduto con Duhenlar e perfino – pensa – con tuo zio Constant. E sta accadendo con te. Ma sta’ tranquillo: è una cosa che non capita in ogni momento, solo certe volte e sempre se a breve distanza».
                A questo punto, piombò un silenzio lungo un paio di minuti, nel quale Daniel si domandò se potesse mettersi a riposare, visto che l’intera giornata, girovagando per la foresta del nord, lo aveva significativamente provato. Il Maestro invece restò immobile, come in una specie di catalessi: non batté più neanche le palpebre. Passò del tempo, non lunghissimo, ma tanto da costringere Daniel a socchiudere gli occhi e cominciare a sonnecchiare. E fu in quel preciso istante, che il Maestro ancora una volta tornò a rivolgergli la parola: «Daniel, io ho preso una decisione. È sofferta, e non sono affatto sicuro che sia il meglio, ma… penso che bisogni tentare»
                «Che decisione, signore?»
                «Tu lascerai Cabuk»
                «Come?»
                «Ti ci vorrà un mese circa. Prendilo come uno di quegli addestramenti che quotidianamente ti portano ad allontanarti, per poi tornare qui. Fino ad ora ti sei occupato di forestieri smarriti e fanciulle in difficoltà. Di Willoughby e di Applegate. Ora ti occuperai di qualcos’altro»
                «E di cosa?»
                «Di Requiem»
                «Eh?!?!?»
                «Andrai a nord, seguendo delle indicazioni che io stesso provvederò a fornirti. E lì, intercetterai il confronto che il mio “affezionato” fratello avrà con… lo stregone»
                «Lo stregone? Muove verso nord?»
                «Senza alcun dubbio. Da diversi giorni, ormai, ho percepito un’entità magica a me sconosciuta varcare la Barriera e dirigersi verso le nevi perenni del nord-est, terre talmente inospitali che voi uomini non siete mai riusciti ad esplorare appieno. È un’entità magica oscura, e molto potente: deve essere lui. Ascoltando il confronto tra il mago e il drago, è probabile che capiremo buona porta di quello che sta accadendo: sono ancora alleati? Sono nemici? E quali sono le loro reali intenzioni?»
                «Maestro, io non so se potrò essere in grado di…»
                «Naturalmente il tuo ruolo sarà quello di mero osservatore; sei abbastanza saggio e abbastanza furbo da poterti creare un modo per ascoltare, senza essere visto, una volta lì. In nessun caso, Daniel di Cowain ti ripeto: in nessun caso, tu arriverai a uno scontro con Requiem, o con lo stregone, o con qualcuno dei loro proseliti. Se dovessero accorgersi di te, tu scapperai. Se fosse tuo destino morire in quel del nord inesplorato, mio discepolo, io ti ordino di morire girato di spalle, mentre te la dai a gambe come un qualsivoglia vigliacco. Qualsiasi tentativo di fronteggiarli è vano, quindi pretendo che l’unica tentazione che tu debba avere in caso di fallimento sia quella di dartela a gambe più velocemente possibile. Sta’ ben attento figliolo: questo che ti do non è né un consiglio, né un auspicio. È un comando!»
                «…Signore…»
                «Quando tornerai, una volta apprese le mosse del nemico, studieremo insieme le nostre e decideremo quale ruolo avere in questa nuova guerra di uomini e di draghi che è in procinto di scoppiare»
                «…Signore…»
                «Cosa, figliolo?»
                «Io ho paura»
                «Ahah, Daniel di Cowain» rise il drago e a Daniel parve, anche se non era sicuro, che gli stesse sorridendo «Credi che io non ne abbia? Tutti abbiamo paura. In certi momenti ne abbiamo di più, in certi altri di meno, ma avere paura significa essere consapevoli di poter perdere qualcosa. E se non vogliamo perdere qualcosa, vuol dire che in noi è forte e radicato l’istinto di voler proteggere. Che sia proteggere una persona, un ideale, un podere, o perfino noi stessi… È da tempo immemore che la paura non è dei deboli, anzi tutt’altro: la paura appartiene alle grandi anime. L’importante è non farsi sopraffare da essa, altrimenti si rimane grandi anime solo potenzialmente. Ma chi lotta acceso dal senso della propria paura, chi possiede un senso della protezione così ardito da mettersi in gioco pur di difendere qualcuno o qualcosa, allora è una grande anima. Ed è proprio per questo che gli uomini non sono piccoli. La paura degli uomini, il più delle volte li rende… grandi!».
                Il pensiero di cominciare quel nuovo viaggio, esclusivamente per puro addestramento, così come in qualche modo il maestro Nidhogg aveva voluto porgli la questione, a Daniel non piaceva affatto. Gli avevano detto di andare a Cabuk, e non oltre. E lui a Cabuk era andato! Era quello il luogo dove avrebbe dovuto addestrarsi un Primo Cavaliere, e non oltre! L’idea che per allenarsi avrebbe dovuto raggiungere luoghi ancora più inospitali, correndo pericoli che avrebbero potuto portarlo perfino alla morte, non gli dava l’idea dell’addestramento, piuttosto gli dava quella del suicidio. No: addestramento proprio non voleva chiamarlo. Però “compiere una missione per difendere il mondo conosciuto” questo sì, poteva anche andargli a genio. Cercare di rendere la propria anima “grande”, e non sentirsi più come un piccolo pupazzo, ma piuttosto come una di quelle forze che in qualche modo cercano di determinare le cose di questo mondo… Beh questo decisamente poteva anche andargli a genio.
                Così, Daniel dormì per l’ultima volta nell’antro di Nidhogg, primo dei Targaryen. L’indomani mattina all’alba, fece fagotto, prese con sé anche una mappa – che Nidhogg, tramite la mente, suggerì a Phira di incidere con il fuoco e la magia – e ridiscese alle pendici del monte Cabuk.
 
 
 
                Il demone degli elementi detestava con tutto il suo cuore – o con quello che ne era rimasto – quel maledetto omuncolo del fratello del Signore delle Dune. Quest’ultimo era tornato solo da poche settimane, ma fin da subito aveva ripreso con quel suo modo di fare, comandando di qua e pretendendo di là, come se ne capisse veramente qualche cosa di tutto ciò che gli stava accadendo intorno: fenomeni senza dubbio ben al di là delle sue capacità. Il Signore delle Dune sicuramente doveva esser stato un discreto fattucchiere per riuscire a pronunciare la formula e spezzare il sigillo che aveva riportato lui e gli altri maghi custodi sulla terra libera, ma una cosa era chiara: non aveva condiviso neanche una briciola delle sue abilità magiche con quel tronfio sir Bastian. Il demone degli elementi si chiedeva se gli fosse stato possibile toglierlo di mezzo una volta per tutte; se una qualche forza incorporea dovuta al legame magico che lo incatenava al sigillo nelle mani del Signore delle Dune non gliel’avesse impedito. Il suo nuovo padrone non gli aveva mai dato un comando esplicito di non uccidere il proprio fratello… magari, si poteva anche fare.
                Fin dalla prima volta che l’aveva visto, quel sir Bastian non aveva fatto altro che trattarlo come un comune schiavo, come se il demone degli elementi – e tutti gli altri demoni – non fossero molto più di questo. Come se con un semplice schiocco delle proprie dita, il Lipomante non avrebbe potuto schiacciargli il cranio con l’ardore di una fiera. Rimpiangeva con tutto se stesso i tempi in cui lui era un uomo, e non un mostro dal teschio nero e la pelle di roccia; in cui serviva i draghi, ma da discepolo e amico, e non questi boriosi guerrafondai, da oppresso. Quel giorno, sir Bastian aveva deciso di tornare alla sala delle trascrizioni, forse per umiliare ancora una volta quella poverina che da tempo immemore ormai ci tenevano dentro. Che cosa dovesse dirgli, il demone non ne aveva la più pallida idea, ma sapeva che non sarebbe stato disposto a tollerare oltre… se ancora una volta Bastian si fosse manifestato gratuitamente crudele, forse oggi il demone non avrebbe resistito: forse, avrebbe finalmente brandito la sua ascia bipenne per spiccargli via la testa dal collo. Aprì a quella specie di inutile padrone la porta arrugginita della sala, poi lo seguì dentro.
                Come sempre, lei se ne stava lì, triste e sola, racchiusa in quella sfera di vetro che aveva rappresentato la sua nuova vita, in un certo senso, e la sua nuova morte in un altro. Perché in che altro modo si può chiamare una vita per sempre intrappolata e sfruttata, se non “morte”? Non era più la maestosa padrona dei cieli che era stata un tempo, era soltanto una nube di energia rinchiusa in una boccia trasparente. Da tale boccia, poi, si diramavano tutta una serie di corpi metallici che seguendo percorsi appositamente studiati, compivano il tragitto lungo le pareti dell’intera sala, per poi appuntirsi in delle cannule che andavano fuori e spruzzavano magia in quell’enorme lembo di terra, a sua volta considerabile una prigione, dove il Signore delle Dune e il suo fratellastro conducevano uomini e donne innocenti; altre vite umane sacrificate alla loro ignobile causa. Solo che questa volta, i due loschi figuri si erano davvero superati: non avevano portato nella Gola dei Derelitti solo qualche donna schiava o qualche bambino. Stavolta, avevano condotto lì un intero esercito.
                Da brava maestra la quale era, la creatura dentro la sfera iniziò per prima la conversazione, dicendo a sir Bastian: «Sono stufa del fatto che venga tu a trovarmi, o uomo dalla nullità magica. Preferivo i tempi in cui veniva tuo fratello: più malvagio, ma decisamente migliore nello scilinguagnolo»
                «Sono spiacente» rispose sir Bastian «Avrai me per un lungo tempo, schiava»; e in questo le dita del demone degli elementi si strinsero forti sull’asta dell’ascia. «Giungo qui per avvertirti: trovando soddisfacenti gli esperimenti compiuti finora, mio fratello ha deciso di passare a un capitolo successivo»
                «Vale a dire?»
                «La distribuzione in massa. Creeremo un esercito, un esercito di Metamanti che…»
                «È improprio definirli Metamanti, l’ho già spiegato al tuo padrone»
                «Al tuo padrone»
                «Sì è vero: traggono il loro potere dalla mia magia, ma non la studiano, non si sono consacrati al mio culto, e sono decisamente meno potenti di quanto non fossero i Metamanti originari»
                «NON M’INTERESSA!» urlò Bastian, spazientito, con una voce sorprendentemente acuta. Il demone strinse l’ascia ancora più forte. «Volevo solo dirti, che se hai delle ultime parole da dichiarare ti conviene farlo adesso: saprai bene come noi, che impiegare il tuo potere su un intero esercito, potrà probabilmente significare la morte, per te»
                «Ahah, che noioso e triste omuncolo! Sei davvero venuto qui sperando di infastidirmi, o di sfottermi, o di rattristarmi con questa tua affermazione? Non capisci che la morte, trovandomi nello stato in cui sono, rappresenterebbe una liberazione?»
                «Sì, certo, perché tu sei una prigioniera… però se fossi libera…»
                «Sarò libera. Non sai che la morte non esiste, sir Bastian? Non sai che esiste solo il mutamento? La mia presenza qui sottoforma di spirito energetico, sebbene prigioniero, e non sottoforma di drago, non ti spiega niente? Io sono già morta una volta, eppure eccomi qui. Dammi la morte un’altra volta, e potrò perfino trovarmi alle tue spalle, pronta a rendere la tua vita un vero inferno»
                «Ah, ma dunque sono venuto a portarti una lieta notizia! Sono venuto a dirti che potresti tornare a morire o, come dici tu, “mutare”. Dunque spero di darti un ulteriore piacere dicendoti che il tuo potere servirà a creare un esercito di superuomini con le gambe di guerrieri e le teste di leoni, tori e coccodrilli, e chissà cos’altro»
                «E io spero di darne uno a te, dicendoti che come so bene che la vita è infinita, e che dopo che si muore si vive ancora, sono altrettanto certa che anche tu muterai»
                «Sì, e in che cosa, di grazia?»
                «In un verme, Bastian. In un verme».
                A queste parole, il demone degli elementi si liberò in una grassa risata. Pensava che l’umiliazione di Kimera, una dei suoi antichi maestri, lo avrebbe irritato al punto tale da non resistere e scagliarsi con tutta la sua forza sull’ometto. Ma invece Kimera aveva avuto la meglio, e lui decise di resistere un altro po’. Un giorno, avrebbe provato a uccidere Bastian, ma decise che ancora non era arrivato il momento. E, sempre scortandolo, uscì dalla sala delle trascrizioni.

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Capitolo 10
*** Il volo della chimera ***


Capitolo 10
IL VOLO DELLA CHIMERA
 
 
                Marcus di Casa Lannister era un Cavaliere della Chimera. Non lo era ancora in termini strettamente ufficiali, però lo era. Era successo tutto molto in fretta, troppo, ma tutti quei sacrifici e quelle sofferenze alla fine avevano dato i loro frutti. Prima l’allontanamento da casa, dai suoi genitori e dai suoi fratelli e sorelle; poi tutti quei mesi passati a spalare la merda di chimera, perché sir Cleghorn aveva deciso che l’Andalo di Roccia del Re gli stava antipatico. Ricordava che in quel periodo della sua vita si era sentito veramente abbattuto: aveva seriamente considerato l’opportunità di tornarsene a casa con la coda tra le gambe. Certo in questo modo tutti avrebbero pensato che era un perdente, che tornava sconfitto all’ovile, ma nessuno gli avrebbe mai vietato davvero il ritorno: lui era il principe quarto in linea di successione al trono, e suo padre era il re! Per quanto male si potevano permettere di trattarlo giù alla Valle del Leone, se lui avesse voluto davvero, sarebbe potuto tornare a casa con un semplice schiocco delle dita. Ma arrivò sir Rabastan Merrin per primo a cambiargli la vita. Dopodiché sopraggiunse Jasmina. Poi quell’orribile mostro che aveva ucciso gran parte dei suoi compagni gettando il panico per la valle. E da ultimo la chimera Shirley.
                Era grazie a sir Merrin che l’Andalo aveva conosciuto Shirley: la prima chimera che nella sua vita aveva avuto modo di vedere a distanza ravvicinata, e non scorazzare lontana per i tetti della Capitale. E la prima chimera che nella sua vita aveva avuto modo di toccare, anche se non era stata esattamente una piacevole carezza sul manto peloso bensì… un’orrida ispezione tra le interiora puzzolenti dell’animale. Ma era comunque stata probabilmente una delle giornate più indimenticabili dell’intera sua esistenza: quel giorno Marcus aveva contribuito a far nascere tre piccole chimere. E non capita spesso che una chimera partorisca; lo stesso sir Merrin – che avrebbe potuto definirsi “l’ostetrico” della valle – aveva visto in totale cinque parti, di cui uno quando era appena un dodicenne. Lui era alla valle praticamente da sempre, ancor prima di sir Cleghorn, che era stato messo lì dal re in persona, sua maestà Lionel di Casa Lannister, trentaseiesimo del suo nome, re degli Andali e dei Primi Uomini. Ed era grazie a lui, Merrin, e solo a lui che Marcus aveva vissuto quella giornata. E dopo quella giornata, Merrin l’aveva anche preso sotto la sua ala protettiva, e fatto di lui una specie di infermiere. Un infermiere delle chimere. Sostanzialmente le sue mansioni non si erano poi modificate granché rispetto a prima: aveva continuato ad allenarsi con la spada, a fare altre attività fisiche, a studiare il codice dei cavalieri del regno, esattamente come tutti gli altri. E, quando poteva, Cleghorn continuava a sbatterlo giù allo smaltitoio. Ma, quando Merrin lo chiamava, lui doveva scattare, interrompendo qualsiasi cosa stesse facendo: non capitava spesso, ma a volte era stato un vero e proprio toccasana potersi liberare da un compito troppo pesante, o disgustoso. Spesso e volentieri le mansioni sulle chimere si limitavano alla pulizia o lucidatura del pelo, o alla pettinatura (importantissima) della criniera, o all’estrazione di un pezzo di carne marcito incastrato tra i denti. Un paio di volte la chimera di turno si era presentata con qualche osso rotto, una volta una aveva avuto un’ala spezzata. E un’altra volta, una chimera maschio aveva cominciato a dare di matto in maniera inaudita, aggredendo tutto quello che le capitava, senza sosta e senza apparenti ragioni: erano stati costretti ad abbatterla. Per il resto, tutto uguale: fosse stato per la sua mediocre qualità di allenamento con il corpo o con la spada, o per le sue qualità di cerusico delle belve, Marcus non sarebbe ancora stato maturo per la nomina a cavaliere, e non era per questo che Cleghorn ora lo stava nominando…
                Il giorno del parto di Shirley, Marcus ebbe anche la fortuna di conoscere Jasmina Tahorel. Jasmina era una ragazza orfana, giunta da bambina alla valle, dopo aver girovagato a lungo per le città, le foreste e i deserti del nord dell’Essos. L’unica cosa che ricordava della sua città di origine era il nome: Pentos. Comunque era stata in qualche modo “adottata” dalla valle, e da Merrin in modo particolare, come sua prima assistente. Qualsiasi altro della valle che aiutava Merrin, era imprescindibilmente sottoposto a Jasmina, non tanto in termini ufficiali, quanto per il fatto che Jasmina avesse più esperienza di tutti in quel settore, fatta eccezione per Merrin. Marcus lo vedeva ogni giorno, lavorando con lei… quella ragazza aveva proprio la mano per quella attività: era come se fosse nata per tagliare e cucire carni di chimera, per accudirle e confortarle, per farle star ferme quando dovevano star ferme, e per farle star calme quando dovevano star calme. Una madre delle chimere. Marcus non sapeva se fosse per questo che si era innamorato di lei, in realtà aveva concluso di no… si era innamorato di Jasmina dal primo momento in cui l’aveva vista, quando ancora non ne conosceva le abilità di cerusica. Si era innamorato dei suoi occhi, grandi e neri. E della sua pelle scura, così diversa dalla sua, che pure non aveva una carnagione chiara. Si era innamorato della sua voce: profonda, calda, assai decisa per essere quella di una donna. E più il tempo passava, più lui s’innamorava di lei. Naturalmente non aveva avuto il coraggio di dirglielo, e sebbene avesse come una forte sensazione che il suo sentimento fosse corrisposto, neanche lei lo aveva ancora fatto: c’era tempo. D’altro canto lì alla Valle del Leone il tempo pareva non trascorrere mai…
                Le giornate praticamente si ripetevano tutte uguali, e quando talvolta c’era un’eccezione, era sempre la solita eccezione. All’Andalo pareva quasi che la stessa eccezione si fosse ripetuta mille volte ormai: Merrin che lo chiamava, lui che correva. Attendendo la più importante delle eccezioni, quella in cui finalmente sarebbe riuscito ad aprire il proprio cuore alla bella Jasmina, Marcus ne ricordava solo tre di giornate memorabili, una delle quali che probabilmente non avrebbe più dimenticato: quella in cui aveva rischiato la vita, e in cui il suo spirito si era per sempre indissolubilmente legato alla chimera Shirley. Per le prime due, è presto detto: la volta della chimera con l’ala spezzata, e quella della chimera completamente ammattita. Ma la terza… la terza era stata la volta in cui un mostro, una creatura cui ancora non si era stati in grado di dare un nome, quasi lo aveva ucciso. Era entrato dalle cucine seminando morte tra alcuni dei suoi migliori amici alla valle: Dunstan, Jacobs, Carlyle, il piccolo Dylan… avevano raggiunto tutti la casa dei loro padri quella notte. E per un pelo non lo stava per fare anche Jasmina. Cleghorn, Merrin, e un paio di altri cavalieri più esperti, a cavallo di chimere, tentarono di reagire al potere del mostro, ma invano… Molte chimere finirono ghiacciate dalla gelida penetrazione di alcune lame appuntite come quelle di un diavolo. E anche Shirley, pur combattendo vigorosamente, subì parecchie lesioni. Tuttavia, quando si accorse che il mostro stava puntando Jasmina, la sua curatrice, la chimera corse verso di lei per proteggerla. Lì trovò Marcus, armato di un bastone mezzo secco, pronto anche lui a morire, pur di tentare di salvare la vita alla ragazza. Per un breve ma significativo istante il grosso animale e il principe si guardarono negli occhi; dopodiché, praticamente senza preavviso, Shirley prese l’Andalo e se lo mise in groppa. Fu allora che Marcus capì che si era creato un legame, e che probabilmente – anche se fino ad allora non lo aveva neanche sospettato – lui era nato per quello. Non c’era bisogno che dicesse a Shirley dove andare: andava esattamente dove lui pensava che fosse giusto andare. Dove c’era un punto più comodo per contrattacare, con le zampe dell’animale o con la punta del suo secco bastone, lì svolazzava Shirley. In realtà, Marcus non combatté molto più valorosamente di come avessero fatto tanti altri che, nel corso della battaglia contro quell’abbietta creatura, caddero. Ma ebbe la fortuna che ad un certo momento lui e Shirley individuarono un punto che gli parve particolarmente sensibile. Mentre Cleghorn, Merrin e gli altri continuavano a colpire il demone al petto, o alle gambe, Marcus e Shirley si avvicinarono piano sempre di più, finché il teschio oscuro del mostro non fosse praticamente a un tiro di bastone. Fu allora che l’Andalo piazzò la punta del suo fuscello nell’orbita senza vita dove gli uomini hanno gli occhi, dopodiché lui e soprattutto Shirley tirarono con forza. Il teschio spiccò via dal resto del corpo del mostro, il quale prima si accasciò in terra come avrebbe fatto qualsiasi normale cadavere; poi divenne polvere tutt’assieme, polvere di ghiaccio. Alla Valle del Leone non aveva mai nevicato prima di allora.
                Da allora Shirley – e questa Marcus la considerò sempre una sua grande fortuna – scelse il principe quarto in linea di successione al trono, come suo cavaliere. Aveva combattuto insieme. Si erano salvati la vita reciprocamente, e l’avevano salvata a tutti gli altri. Anche se Marcus era ancora un po’ goffo, e non troppo abile con la spada, Shirley era come se non volesse nessun’altro. E Marcus adorava volare sulla schiena di quell’animale: non aveva provato paura neppure una volta nel farlo! Prima di volare per la prima volta, mille dubbi e preoccupazioni avevano torturato il suo animo di futuro cavaliere della chimera: adesso considerava idiozie tutti quei problemi inutili che la sua ansia gli aveva creato. Volare su Shirley era semplicemente il meglio: mai nella sua vita aveva provato sensazione più bella! E voleva diventare un cavaliere della chimera. Non sarebbe stato il più abile forse, o il più valoroso, e la sua anima pessimista gli faceva dire che non sarebbe neanche stato il più longevo. Ma Shirley aveva scelto lui. E lui aveva scelto lei. Ed era per questo che Cleghorn ora lo stava nominando cavaliere.
                Quello che quel giorno accadde, fu il momento della cerimonia ufficiale. Marcus e altri due vennero bardati col mantello rosso scuro e la spilla argentata dei cavalieri volanti. Da quel momento era ufficialmente un protettore del Regno Unificato.
                Quando la cerimonia fu completata, e Merrin e perfino Cleghorn gli ebbero fatto le loro congratulazioni, Marcus raggiunse Jasmina presso Dorea, una chimera di circa un anno che vomitava da due giorni ormai. Le condizioni dell’animale non parevano aggravarsi, e anzi nelle ultime ore c’era stato un leggero miglioramento, per cui Marcus ebbe qualche sospetto nel fatto che anche quella volta Merrin lo avesse chiamato: normalmente Jasmina era già più che sufficiente per le mansioni di routine. Lavorò con Jasmina per un po’ di tempo, fin quando Merrin non arrivò all’ospitale. C’era Cleghorn con lui. Immediatamente e senza ammettere repliche, sir Rabastan ordinò: «Jasmina, vattene». Immediatamente, e senza repliche, la ragazza lasciò quello che stava facendo e corse via: Merrin per lei era come un padre, e lei lo trattava con la devozione con cui un normale figlio tratta un padre, anzi meglio. A questo punto Merrin, tra i denti, consentì al suo superiore: «Prego, sir Cleghorn»
                «Grazie, Merrin» fece quell’insopportabile, tronfio, cialtrone «Andalo: tu stai per lasciare la valle»
                «Cosa?!» fece l’Andalo, stupefatto, volgendo subito il suo sguardo disperato all’amico sir Rabastan, il quale confermò: «È così». E Marcus: «Ma… ma il nostro lavoro con le chimere, e…»
                «Calma, figliolo»
                «E… e Shirley?»
                «La chimera Shirley verrà con te» annunciò, Cleghorn. «È sul suo dorso che volerai via dalla valle»
                «Anche…» provò a replicare l’Andalo, pur se dentro di sé sentiva che non sarebbe servito a niente «anche se sono stato nominato cavaliere, e bardato del rosso manto, il mio addestramento non è ancora completato: voi lo sapete bene». Gli occhi gli si riempirono di lacrime, come quelli di un bimbo capriccioso. Proprio ora che sentiva di star costruendo qualcosa in quella dannata gola arroccata in mezzo al deserto. Proprio adesso che, per la prima volta nella vita, sentiva di aver trovato il suo posto. Proprio ora che c’era Jasmina…
                «Marcus: vuoi calmarti?» era forse la prima volta che Merrin lo chiamava con il suo nome: ma allora sapeva anche lui come si chiamava «A tutti i cavaliere della chimera appena nominati viene assegnato un compito che loro debbono portare a termine entro un anno. Tu non sei né il primo né l’ultimo. Ora… è vero, il tuo addestramento non è affatto completo. E… la missione che Cleghorn ti ha attribuito è quella più distante dalla valle che io abbia mai sentito…»
                «Oh, per favore Merrin: cerchiamo di non farne una tragedia, voglio andare a mangiare!»
                «Sta’ zitto, Cleghorn: l’hai fatto apposta»
                «Qualcuno doveva pure andare! Le mansioni arrivano dalla Capitale, io mi limito a…»
                «Smistarle? Altri due, come l’Andalo, sono stati nominati cavalieri oggi: perché a lui Marrah Cankhubhia?»
                «L’Andalo è il più impreparato dei cavalieri, ma la chimera non lo è. È saggia, esperta, e ligia al proprio cavaliere. È la migliore chimera da mandare in un teatro di guerra»
                «Guerra?!» chiese Marcus, il cuore che gli scoppiava, le gambe che gli tremolavano. Con aria sorniona sir Rabastan gli disse: «Ah, non ti allarmare! È solo civile: non è proprio una guerra»
                «Passi tu ai dettagli?» domandò Cleghorn a Merrin; e quest’ultimo: «Sissignore»; e Cleghorn: «Sempre troppo gentile»
                «E tu sempre troppo affamato». Cleghorn lasciò l’ospitale facendo un gestaccio al sottoposto con cui si pizzicava così come un anziano marito è solito fare con un’anziana moglie. Dunque Merrin “passò ai dettagli”: «Lord Justus della Casa Panecha, lo conosci?»
                «Di nome»
                «Beh: lui per anni è stato in grado di gestire i disordini della sua regione, facendo in modo che noi dell’Ovest neanche ci rendessimo conto che la gente in quelle terre muore di stenti e di fame. Ultimamente un capo di una nuova religione – pensa tu: una religione con un solo dio, benevolo e onnisciente, di cui peraltro si proclama il figlio – ha risollevato di nuovo la rabbia nella popolazione: gestisce orde di fanatici che sono persino arrivate a minacciare la stessa incolumità di Panecha. Per anni Lord Justus ha lasciato l’Occidente senza preoccupazioni, sostanzialmente dicendoci: “tranquilli qui ci penso io”, ma adesso… invoca il nostro aiuto e il Regno non può negarglielo. Non avere Panecha nell’Est estremo oggi, significa avere i pazzi monoteisti, affamati e disperati, sotto casa domani. Dobbiamo intervenire: tu dovrai farlo»
                «Io?! Ma cosa dovrei fare io? Non me ne intendo di questioni politiche…»
                «Non dovrai fare nulla di politico: è probabile che ti dirà di uccidere il fanatico»
                «Beh, se sa come farlo, allora perché non ci pensa da sé? Perché gli è necessario il mio aiuto?»
                «Perché tu… hai una chimera!»
 
 
 
                Axelion di Casa Lannister, dodicesimo del suo nome, re degli Andali e dei Primi Uomini, era stanco. Quando era semplicemente l’erede al Trono di Spade, gli capitava pure di dover partecipare a qualche riunione del Concilio Ristretto (sempre in qualità di “ospite” non avendo alcuna carica ufficiale, e quindi senza facoltà di voto), oppure di discutere di cose politiche a tavola con suo padre, o in camera con sua moglie. Aveva sempre considerato la politica come una simpatica curiosità; un argomento di cui discutere affabilmente. Ma ora in quel poco tempo del suo regno… la politica lo stava sfiancando.
                Sua sorella Lady Hana, che continuava a ricoprire la carica di Altissimo Segretario del Re, pareva nata per quelle robe. Il suo mentore, Lord Alexis Braff, Maestro dei Sussurri, evidentemente ci si trastullava parecchio. Perfino suo zio Constant – Primo Cavaliere fino alla ridiscesa dell’apparentemente scomparso Daniel dal Monte Cabuk – anche se con meno trasporto, ne era diventato un abile conoscitore. Ma a lui tutte quelle riunioni e questioni amministrative stavano cominciando a pressare troppo: avrebbe voluto volentieri prendersi una vacanza. Ma inoltre aveva come la sensazioni che, nonostante l’infinito numero di ore che gli portavano via, alla fine tutte quelle riunioni non servissero poi a granché. Alla fine lui sentiva di essere utile solo per mettere una firma, ratificando decisioni già prese in altre sedi da altre persone. Non era affatto bello essere il re.
                Oltre alle riunioni ufficiali, quelle del Concilio, in cui il re doveva confrontarsi con tutto il resto degli organi governativi di quella complessa macchina amministrativa che il Regno era, seguivano poi riunioni più circoscritte e “ufficiose”, in cui questo o quell’altro potente della città veniva a riferirgli questa o quella cosa in merito a questo o quell’altro discorso. I partecipanti a queste riunioni erano eterogenei e molto spesso intercambiabili, ma Constant tendeva a farsi vedere con Tyrell, il Maestro del Conio (quando questi ancora non era sparito dalla Capitale) e talvolta con Septimus, il Gran Maestro. Hana era spessissimo accompagnata da Lord Pamir Gaholla, il Maestro delle Strade, o da Gushing che sovrintendeva alle Leggi. Braff, Panecha e Bolton tendevano a venire da soli, anche se non sempre: un paio di volte Lord Alexis era venuto in compagnia di Baelish, Lord Justus in compagnia del Tribuno Popolare Garhel Sawela, e Lord Henrich niente meno che con la moglie del re, la splendida Abigail della casa Baratheon.
                «Non potremmo…» propose il re a suo zio Constant, «Semplicemente prenderli in prestito dalla cassa per le infrastrutture e…»
                «Quei soldi non possono essere toccati, maestà» si intromise il Maestro dei Sussurri «Finirebbe che per salvare un pugno di disoccupati…»
                «Cinquanta» lo corresse il Gran Maestro Septimus. E Braff: «Quelli che sono. Per salvarli ci ritroveremmo con un’orda di senzatetto alle periferie della città, fatevelo dire da Lord Gaholla: è un tecnico lui! Il suo commento non sarà un’opinione politica»
                «Lord Gaholla?» domandò Axelion, e il Maestro delle Strade gli rispose: «Maestà, senza le sovvenzioni per l’ampliamento del quartiere nord io… non ho la bacchetta magica: non potrei metter su neanche una capanna!»
                «Interventi…» fece l’Altissimo Segretatio del Re, nonché sua sorella Hana «Per temporeggiare in qualche modo?»
                «Ho controllato di persona giusto ieri l’altro, milady. Alla prossima pioggia, tutte le strutture temporanee che ho organizzato alla meno peggio verranno giù. È una certezza matematica». A queste parole dell’uomo proveniente dall’Oriente, tutti i presenti rimasero in silenzio: il re, sua sorella e suo zio, Lady Mirietta – l’altra sorella del re – e poi Lord Braff, e il Gran Maestro. Disperato, Axelion riprovò: «Altri suggerimenti?»
                «Nipote mio» fece Constant con tono sincero «Purtroppo a volte un re deve prendere decisioni che non raccolgono il plauso della popolazione. Fare le cose per il dovere, e non per il piacere. Ma questo è quello che distingue un re da un politicante qualsiasi: il consenso non gli è affatto necessario»
                «Questa è una stupidaggine, Constanti, e lo sai…» gli rispose Lord Braff: era da almeno qualche mese che tra i due non correva buon sangue, questo Axelion l’aveva capito bene, «A un politicante il consenso serve per esser rieletto. A un re per evitare che la massa si rivolti, e dunque che la sua testa venga messa su una picca. Questa crisi improvvisa e repentina è quanto mai eccezionale se guardiamo al nostro passato recente. E sospetta…»
                «Oltre che accuse da fare, il Lord Maestro dei Sussurri ha anche soluzioni da proporre?». A questo punto, mentre a mano a mano un ghigno soddisfatto spuntava sul volto del Lord Primo Cavaliere, una smorfia di sconfitta deformava quello del Maestro delle Spie. Braff concluse: «Non vi sono altre soluzioni», e rivolto direttamente al suo re: «È opinione di questo umile consigliere che il personale delle scuole vada licenziato, maestà»
                «IO PROTESTO!» s’irritò il vecchio Septimus «Maestà! Una società senza cultura è una società senza futuro!»
                «Sì» disse Braff «E una società senza popolo, è una società senza presente»
                «Su, Septimus» stavolta Constant parve intervenire in favore del Maestro dei Sussurri «Non farla tanto tragica: dovrai soltanto rinunciare a un paio di collaboratori…»
                «Cinquanta»
                «Sì, ma è gente di cui uno soltanto potrebbe fare il lavoro di almeno altri due!»
                «Questa… questa è davvero una mancanza di rispetto!» disse il vecchio a Constant, e poi al re aggiunse: «E di lungimiranza!»
                «Il vostro tempo è scaduto, signori» annunciò a questo punto Hana «Lord Gran Maestro, Lord Primo Cavaliere… grazie per il vostro tempo»
                «Maestà» salutò Constant, chinando il capo con fare soddisfatto. «Maestà» lo seguì a ruota il responsabile delle scuole e degli ospitali della Capitale. Insieme lasciarono la piccola sala nella quale era stato deciso quell’incontro. Il re rimase soltanto con le persone di cui più aveva fiducia al mondo, la sola famiglia che gli era rimasta praticamente: le sue due sorelle – Hana e Mirietta – e Pamir Gaholla, che suo padre aveva trovato e cresciuto praticamente come un figlio. Solo Lord Braff non faceva parte del suo passato più remoto. Lui era venuto alla Capitale come un ricco mercante qualsiasi, ma siccome era abile e colto, si fece strada nella politica da una parte e alla corte del re dall’altra. Divenne col tempo il precettore del giovane Axelion e, un giorno, il futuro re lo vide perfino coi suoi occhi salvare la vita di sua sorella Mirietta, ancora pressoché neonata. Con una del tutto inaspettata agilità, il Maestro dei Sussurri era corso in soccorso alla piccola che, arrivata alle stalle con l’intenzione di vedere un nuovo cavallo, stava per finire travolta da uno degli animali il quale, imbizzarrito, era riuscito a sfuggire dalla presa di chi doveva occuparsene. Mirietta rischiò la vita quel giorno, e Braff la rischiò insieme a lei. E da allora Axelion, testimone della vicenda anche se ancora nemmeno adolescente, provò una sensazione di debito nei confronti del suo mentore. Sensazione che col tempo si unì ad un’altra di stima per l’intelligenza e la cultura del politico, e di affetto per le tante giornate passate insieme. Praticamente, Lord Braff era più zio per lui di quanto non lo fosse Constant. Constant era sempre stato buono, e il re non aveva particolari ricordi negativi dello zio. Ma la verità era che, come di suo padre, anche di Constant Axelion non aveva granché molti ricordi. Un uomo elegante, sempre molto serio, che troppo spesso lo separava da suo padre per portarlo a una riunione o a un incontro.
                «Com’è finita?» chiese Braff al suo re «Ti ha più fatto quel genere di richieste?»
                «Sì, lo ha fatto»
                «E attende sempre che siate soli per chiedertelo, non è vero?»
                «Sì, Lord Braff» confermò Axelion «Parrebbe che tu abbia ragione su tutto»
                «Sono il Maestro dei Sussurri di questo Regno, maestà: non farei bene il mio lavoro se non sapessi ogni cosa. E tu stesso sapresti ogni cosa se non avessi una corona sulla tua testa, ma la spilla – che al momento detengo io – sul tuo petto»
                «Sì. Tuttavia in ogni cosa che dice mio zio ha ragione. C’è una crisi economica come non se ne vedevano da secoli, e questa crisi dipende dalla mancanza di grano. E purtroppo io non ho altra alternativa che tagliare e tagliare sempre di più nel pubblico, fino a quando non ci ridurremo alla miseria. Il popolo prima; e noi subito dopo»
                «Maestà tuo zio dice… che la ragione di questa crisi economica sia dovuta a una carestia sui vasti e notoriamente rigogliosi campi di Altogiardino e Dorne. Eppure i miei emissari paiono smentire con forza questa tesi: il grano a Dorne cresce bene, cresce numeroso e cresce forte. È in corso un atteggiamento ostruzionistico da parte del Lord Ambasciatore della Casa Tyrell e Maestro del Conio. Il suo ritorno repentino a casa, ormai mesi orsono, e il suo atteggiamento nei confronti della carica che ricopre sono a dir poco sospetti. Da troppo tempo Constant parla in vece di Lorthan, dicendoci che mancano fondi di qui, e che dovremmo licenziare di là, ma perché Lorthan non ce lo viene a dire di persona? E perché privatamente Constant continua a farti la richiesta – che in nostra presenza non osa fare – di partire anch’egli alla volta di Dorne? Che diavolo sta accadendo in quelle secche e assolate regioni dimenticate dagli dèi? Perché perfino i miei guerrieri ombra trovano adesso assai complesso valicare i confini della città di Lancia del Sole?»
                «Lord Braff» propose Lady Hana, sospirando con stanchezza: «Venite al dunque»
                «È necessario mandare qualcuno a Dorne che rappresenti i più stretti interessi della Corona. Non Constant quindi, il quale da anni ormai manifesta un sospettoso nervosismo nei confronti prima di suo fratello e poi dei suoi nipoti». A questo punto il re rifletté: quello che diceva Lord Alexis era dannatamente vero: Constant non era più l’uomo che lui aveva conosciuto da bambino. Da anni ormai era un altro: sempre burbero, sempre scontroso, sempre… con troppi grilli per la testa. E non dava segni di miglioramento, anzi: più il tempo passava più gli atteggiamenti dello zio si rivelavano come minimo sospetti. Eppure di qualcuno bisognava fidarsi: non va molto lontano un uomo che si fida solo di se stesso, così gli aveva detto una volta suo padre. E suo padre era stato un buon re. Un re longevo. Un re cantato come giusto nelle strofe dei cantori popolari. Axelion concluse che di Lord Braff poteva fidarsi; dunque gli chiese: «Allora chi pensi sia il nostro campione più gagliardo per le assolate valli di Dorne, mio signore?»
                «Maestà il suggerimento migliore che mi sento di fare è… la mia persona»
                «Lord Braff» reagì subito Hana «Siete il Maestro dei Sussurri. Non potete lasciare anche voi il vostro scranno in questo particolare momento, così complesso. Il Regno è in crisi e il re… è giovane e inesperto. Non private Roccia del Re del suo amico più fidato»
                «La situazione è complessa Lady Hana: l’avete detto voi medesima. E situazioni particolari richiedono soluzioni particolari: fate come vi dico e il Regno non sarà in pericolo, non nei brevi giorni della mia assenza. Mentre io andrò a Dorne naturalmente ci sarà bisogno di qualcuno che sia in possesso di tutte le informazioni e i poteri che competono al Maestro dei Sussurri. E chi meglio di una diretta consanguinea del re, con comprovata esperienza politica – nonostante la giovane età – può sostituirlo?»
                «Io?!» fece Hana, incredula. Braff era in carica, e non si fermò: «Ma certo: voi! Si tratta solo di una ventina di giorni al massimo: sarete bravissima. Ma questo non è tutto»
                «E cos’altro c’è?»
                «Constant. Non deve lasciare la Capitale. Che mediti di farlo per via lecita, come ha cercato di fare fin’ora, o illecita: va comunque bloccato. È da un paio di giorni che diversi miei uomini, molti più di quelli che lui senza dubbi sospetta, ne seguono gli spostamenti e continueranno a farlo, ma… A voi maestà chiedo di non distogliere più lo sguardo da vostro zio… almeno fin quando non avrò fatto ritorno»
                «Sì, Lord Braff…»
                «E… guardatevi le spalle, figliolo, avete inteso? Rivolgetevi a vostra moglie e al Lord Maestro delle Armi in caso di pericolo: loro vi vogliono molto bene»
                «Sì, Lord Braff…»
                «Lord Braff» a questo punto Hana si alzò e, con un sorriso beffardo, si diresse verso il mentore di suo fratello. Dopodiché affermò: «Sembrerebbe che abbiate pianificato già ogni cosa. Solo un grande amico l’avrebbe fatto. E… un grande politico»
                «Non ogni cosa, milady» rise Lord Alexis: il suo sorriso parve ad Axelion più sincero di quello che pocanzi era apparso sul viso della sua affezionata sorella «Se vogliate seguirmi, potrò condurvi nei miei uffici e mostrarvi parte degli… “arnesi del mestiere” eheh»
                «Con piacere. Ma prima ho bisogno di un ultimo colloquio con i miei diletti fratelli: lo comprenderete…»
                «Beh io più o meno sono figlio unico, mia signora, ma… la tua parola è comando. A più tardi allora»
                «A più tardi, Lord Braff». E anche il Maestro dei Sussurri – e con lui Pamir Gaholla – lasciò la sala; quando lo fece, Hana perse moltissimo tempo a passeggiare pensierosa da un capo all’altro. A un certo punto, la piccola Mirietta (che non aveva detto una parola) si alzò e cominciò a fare la stessa cosa: non per prenderla in giro; era pensierosa anche lei. Con un sospiro il re interruppe quella situazione; disse: «Ah, come vorrei che Daniel e Marcus fossero qui». Con lo sguardo rivolto nel vuoto, Lady Mirietta aggiunse malinconica: «E papà e mamma…»
                «Axelion» Hana si rivolse al fratello maggiore: era nervosa «Tu ti fidi di Braff, non è vero?»
                «Certo che mi fido» rispose il re «Braff è un brav’uomo»
                «Anche Constant lo è»
                «Oh, Hana, andiamo: Constant neanche lo conosciamo»
                «Perché, Braff sì? Di quello che quell’uomo ha fatto dagli zero ai trent’anni nessuno sa niente. Non si sa dove sia nato, non si conoscono suoi parenti…»
                «Aspetta: vuoi dirmi che l’atteggiamento di Constant non è assai più sospetto di quello di Braff? Braff praticamente ti sta consegnando nelle mani il migliore apparato spionistico del mondo senza chiederti niente in cambio, e tu te ne lamenti?»
                «Non me ne lamento è solo che…» anche lei sospirò «Ho paura. È da quando papà è morto che… non sono serena. Sento che sta succedendo qualcosa, ma non riesco a vederla… capire che cos’è»
                «Braff farà chiarezza»
                «Ne sei assolutamente convinto?»
                «Io… sì»
                «E allora io sono con te. Vostra maestà»
                «Mirietta» ora il re si rivolse alla sua sorella più piccola, con i capelli assai più scuri «Quella… esploratrice del continente a ovest… continui a sentirla, non è vero?»
                «Aspetta un tuo segnale per tornare a mollare gli ormeggi»
                «Ricordi se… in quelle storie che ti ha raccontato… ha mai fatto accenno a… grano, frumento o… sementi di qualsiasi altro genere?»
                «Axelion… è di un continente che stiamo parlando! Vuoi che non vi siano sementi da qualche parte?»
                «Beh magari è un continente desertico…»
                «No. C’erano alberi ed erba e cespugli»
                «Organizzami un incontro con lei, per favore. E fai in modo che nessun’altro lo venga a sapere»
                «Sì, Axelion, vado»
                «E tu, Hana… Sir Cordell ha più risposto dal nord?»
                «Sì, risponde. Ma continuano a non esserci novità. Daniel non è più ridisceso dal monte»
                «Va bene. E allora noi insistiamo: scrivine un’altra stasera stessa»
                «Sì, Axelion». E detto ciò anche le due sorelle presero congedo dal re del Regno Unificato. Era già sera molto tarda e Axelion di Casa Lannister decise di andare a trovare la sua splendida moglie Abigail e il suo piccolo figlio, Napoleon, primo in linea di successione al Trono di Spade.
 
 
 
                Quella notte l’Andalo non chiuse occhio. Da quando suo padre era morto e suo fratello era stato incoronato re del Regno Unificato, la cosa non era riuscita mai a fargli andar storta una giornata qualsiasi. Oh, era stato triste: certo. Aveva anche pianto. Suo padre era morto relativamente giovane, e mai da quando lui era partito da Roccia del Re gli era passato per la testa che avrebbe potuto… non rivederlo. E adesso invece non c’era più. Marcus non aveva neanche potuto partecipare ai funerali, rivedere il re per l’ultima volta, anche se immobile, senza respiro, e con due pietre dipinte poggiate sulle palpebre: niente di tutto ciò. Suo padre giaceva ora da qualche parte sotto una pietra: e lui non l’aveva neanche più rivisto.
                Viaggiare a volo di chimera era probabilmente il metodo esistente più veloce per viaggiare: ma comunque Marcus avrebbe impiegato diversi giorni per arrivare, e oltretutto non era ancora in grado di cavalcare quando suo padre era morto. E neppure quando suo fratello era stato incoronato re: e aspettare lui sarebbe stato qualcosa di veramente scomodo per il regno. Conclusione: i funerali del re e l’incoronazione del suo successore erano stati due eventi ai quali almeno due dei membri viventi della famiglia reale non avevano potuto partecipare: Marcus da una parte, e suo fratello Daniel dall’altra, sperduto chissà dove fra le nevi perenni del Monte di Cabuk.
                Eppure quella notte il pensiero di suo padre e dei suoi cari non gli permise di dormire serenamente. Non sapeva se si trattasse solo di un caso, o se la cosa fosse in qualche modo legata al fatto che quello era il suo “ultimo” (almeno per il momento lo sarebbe stato) giorno alla Valle del Leone. Era come se due realtà tristi insieme avessero deciso di coalizzarsi al fine di disturbare il suo sonno proprio quella notte; anzi tre realtà: il suo passato, e quei momenti con suo padre che non avrebbe più vissuto; il suo presente, il pensiero che suo fratello Axelion e sua sorella Hana si trovavano da soli in quello che era probabilmente il luogo più pericoloso del regno per persone nate in una famiglia aristocratica; e infine il suo futuro, l’idea che stava per lasciare l’addestramento come Cavaliere della Chimera – la cosa che più al mondo voleva fare – e con esso Merrin, e Jasmina, e tutto questo per far cosa? Aiutare per un anno un uomo che non conosceva a risolvere una causa che si presentava come complessa, se non proprio impossibile. Come si fa a uccidere un uomo circondato da mille altri uomini che morirebbero per lui? E, anche se se ne trovasse il modo, come si fa a rintracciarlo? Come si fa a scovare un uomo che si nasconde in una terra che conosce come le proprie tasche? Non voleva partire. La verità semplice e chiara era che Marcus non voleva partire.
                Quando il sole fu alto, non ebbe bisogno di svegliarsi: era già sveglio. Lavò il viso e le braccia, le asciugò e poi si ammantò delle vestigia da cavaliere. Fece colazione. Strinse la mano di Sir Cleghorn. Abbracciò sir Merrin. Scambiò ancora qualche parola con Jasmina che aveva il volto come di qualcuno che sta provando un profondo dolore. Marcus si chiese se anche sul suo comparisse la stessa faccia… si mise a cavallo di Shirley e imbracciò le redini. Quando lo fece, la voce di Jasmina esclamò: «Andalo!». La cerusica di chimere gli corse incontro. Lo baciò sulla bocca; poi gli disse: «Tornami tutto d’un pezzo, Marcus del continente occidentale»
                «Te lo prometto» disse Marcus «Jasmina, madre delle chimere».
                E mentre Marcus si librava per aria e per la prima volta nella sua vita si allontanava dalle mura del castello, lo sguardo di Jasmina lo osservava, innamorato. Lo osservava lo sguardo di Sir Rasbastan Merrin, colmo di stima e di affetto. E lo osservava… un teschio nero, con corpo di gelo e lame di ghiaccio.

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Capitolo 11
*** Doppia aggressione ***


Capitolo 11
DOPPIA AGGRESSIONE
 
 
                Gino non sapeva più se se la sentiva. Era come se tutto ciò che gli stesse accadendo nemmeno gli appartenesse davvero. Era abile con la spada e con il corpo a corpo: questo ormai era assodaro; lo riconosceva da solo e glielo riconoscevano tutti, da ultimo Lord Shane, il fratello minore di Lorthan Tyrell. Ma quello che sognava lui era una vita di avventure e azione, non una vita spesa a fare il cane da guardia di questo o quel signorotto. Voleva spendere le sue innate qualità… per qualcosa di utile! Aveva deciso di parlarne con suo padre, Sir Barron, quando lo avrebbe rivisto, solo che… non lo vedeva da mesi: e neanche più ci sperava! Dopo un lungo periodo con i Tyrell a Roccia del Re, adesso stava passando un lungo periodo con i Tyrell presso la loro residenza del sud, l’assolata e ridente Dorne. Avrebbe potuto, Lord Lorthan – Maestro del Conio del regno – sostare presso Lungotavolo quando, insieme a tutta la sua delegazione, aveva lasciato la Capitale alla volta del sud: il villaggio dei Barron era di passaggio. Solo che per qualche ragione Lorthan Tyrell andava di fretta. Maledettamente di fretta, una sera, aveva deciso di abbandonare la Capitale. E maledettamente di fretta aveva cavalcato per giorni, senza sosta o quasi, al fine di raggiungere suo fratello a Dorne.
                Se c’era una cosa che Gino odiava più di non veder davvero in uso le sue abilità di spadaccino, era la politica. Quella proprio lo faceva vomitare! Riunioni, riunioni, riunioni: da quando aveva lasciato casa per far da scorta ai Tyrell era stato costretto ad assistere a un numero incredibile di riunioni! Riunioni dove, peraltro, aveva la sensazione che non si decidesse mai niente! Ma la politica non lo perseguitava solo indirettamente, costringendolo ad assistere ad assemblee delle quali tuttavia lui non era una parte attiva: lui non esprimeva opinioni, non si confrontava, non si accordava né minacciava… lui stava con Lorthan. Tuttavia c’era quell’altro grossissimo problema di fare la spia per Lord Braff che lo tormentava. Oh quello sì che era un cruccio che lo innevorsiva particolarmente: lui non l’aveva mai chiesto, e mai si sarebbe sognato di trovarsi invischiato in situazioni simili. Eppure il suo amico e mentore Sir Rollo gli aveva detto che di Braff poteva fidarsi; anzi, lui gli aveva detto che di Braff doveva fidarsi. Che Braff adesso era il suo punto di riferimento, non più i Tyrell. E questo – per quanto a Gino risultasse assurdo visto che proprio Rollo insieme a suo padre, a Lungotavolo, gli aveva fatto giurare solennemente di seguire per filo e per segno qualsivoglia volontà del Lord Maestro del Conio – era quello che il giovane Barron si era sforzato di fare. Ma lui non era una spia: non sapeva neanche bene che cosa Braff veramente volesse sapere da lui. Certo, il politico della Capitale si era dimostrato piuttosto affabile e decisamente non pretenzioso: era stato il primo a non scendere nei dettagli, ma… Gino aveva qualcosa da raccontare al Maestro dei Sussurri, solo che non aveva idea se quello che aveva da raccontargli gli sarebbe interessato! Insomma: che gliene fregava a Braff di quello che, seppure abbastanza sconvolgente, Gino aveva visto e ascolato da quando era a Dorne?
                D’altra parte, certo, cose come quelle di Dorne Gino non le aveva mai viste, e mai le avrebbe dimenticate. In primis, gli risultava che a Dorne fosse dislocato il più vasto esercito a disposizione dei sovrani di Altogiardino, cosa che a quanto pareva non era più così… Rimase quasi imbarazzato nel vedere, giunto nel Palazzo dell’Estate, Lord Shane praticamente senza guardia personale. Perfino a Lungotavolo suo padre Sir Barron aveva più uomini. Ma poi… Shane era come prigioniero nel suo stesso palazzo, prigioniero di creature… non umane! Una altissima, ammantata di nero e con uno strano volto deforme, che si muoveva oscillando come se l’intero suo corpo non fosse sorretto da ossa, ma da fildiferro. E due… uomini-bestia con braccia e gambe umane, anche se incredibilmente muscolose, e volti… di rettile l’uno e di suino quell’altro. Col tempo, successe qualcosa che aiutò Gino a capire meglio un po’ tutto il discorso, e questo sarebbe stato quello che avrebbe riferito a Braff non appena questi gli avesse chiesto il suo resconto…
                Le condizioni di Gino all’interno della gerarchia della guardia signorile dei Tyrell non erano le stesse con le quali aveva cominciato. Per lungo tempo quel Sir Dranfett e gli altri della pattuglia assegnata a Lord Lorthan non solo lo avevano trattato come il novellino più giovane d’età e più inesperto nella mansione, ma anche come un vero e proprio bersaglio per i loro sfoghi da energumeni ignoranti. Insomma Gino di Lungotavolo era l’oggetto verso cui venivano diretti la gran parte degli scherzi e dei soprusi. Almeno fino a un certo momento. Era stato paziente, aveva tollerato, cercato di fare buon viso a cattivo gioco, di non esplodere… ma quella volta in cui, dopo un allenamento lungo una giornata intera, infiacchito e sudato, tre imbecilli avevano deciso di giocare con la sua razione di cibo, convinti di lasciarlo a diugiuno, ecco quello fu il momento in cui il giovane Barron decise che si era stancato. Reagì. Sì, era vero: tutti, fin da quand’era piccolo già a Lungotavolo, gli avevano sempre detto che usare le mani doveva essere solo l’ultima, estrema, risorsa. Che bisognava essere pazienti e non ricorrere alla violenza. L’avevano educato a un mondo pacifista e diplomatico, nella speranza che lui proprio un diplomatico diventasse e non un guerriero. Ma quando fin da piccolo aveva impugnato la spada di suo padre, tutti si erano accorti che era qualla la sua strada, non la diplomazia. E quindi Gino, alla fine, si rese conto che non c’erano ragioni per lui di continuare con quella messinscena del succube diplomatico e paziente. Riuscì a fare davvero male a due su tre: finirono a farsi medicare dal maestro di corte lì a Dorne. Con il terzo non riuscì a concludere, visto che, ancora nel bel mezzo della scazzottata senza armi, accorsero Lorthan e Shane a interrompere la questione (Gino era piuttosto sicuro che anche quel terzo cavernicolo non sarebbe riuscito a resistere alla furia del suo sinistro, anche se doveva ammettere con se stesso che si era stancato, forse anche a causa dell’infinito allenamento di quella giornata trascorsa nel bel mezzo del deserto). Lorthan gli fece una prevedibilissima paternale, chiedondogli chi era, cosa fosse successo, e sostanzialmente intimandolo a non farlo mai più (come se non avesse mai visto uomini al soldo di un signore fare a botte tra di loro). La reazione di Shane fu un tantino differente: per tutto il tempo del rimpovero del fratello rimase in silenzio, anzi con un lievissimo ghigno sul viso. Poi si avvicinò a Gino, dicendogli che l’avrebbe accompagnato a medicarsi e, lungo il tragitto, gli disse di aver assistito a tutta la questione da una finestra della sua camera che dava esattamente sul cortile dove veniva servito il rancio per gli uomini della guardia. Shane non solo aveva condiviso la ragione per cui Gino aveva reagito – anzi disse per l’esattezza: «e chi, al tuo posto, non l’avrebbe fatto?» – ma oltretutto aveva anche apprezzato il modo in cui Gino aveva agito. Non l’audacia di scontrarsi uno contro tre, quella anzi non era stata una mossa tanto intelligente. Ma lo stile con cui si era battuto; da un giovanotto vigoroso e robusto come lui, ci si sarebbe immaginato un tipo di combattimento molto statico: ne prende tante, per poi darne una molto più forte di quelle che ha ricevuto. Invece Gino a Lungotavolo era stato istruito: aveva delle mosse e dei movimenti specifici, agili e scattanti, di cui servirsi in uno scontro, e questo Shane l’aveva notato e apprezzato.
                Oltretutto c’era una seconda riflessione che Gino aveva concluso in merito a Shane Tyrell: ed era che da diversi mesi ormai l’ultimo figlio della casa di Altogiardino viveva senza guardia personale. Quindi probabilmente sarebbe stato disposto a prendere chiunque per stargli appresso, meglio ancora se un giovane dotato, anche se acerbo, come Gino della casa cadetta dei Barron. Certo, non è che Gino non avrebbe più visto quelli della guardia con cui aveva convissuto fino a quel momento: i ranci in comune con loro avrebbero continuato a rappresentare la regola per lui, solo che prima Gino era un membro qualsiasi della guardia, adesso invece era il più stretto confidente del numero due in comando lì a Dorne. Adesso Gino partecipava direttamente agli incontri che regolarmente Shane e Lorthan tenevano con il mostro fildiferro. E aveva appreso parecchio da quegli incontri: tanto da fargli sembrare solo l’idea di dover dire tutte quelle robe a Braff… qualcosa di terrificante. Non sapeva più se se la sentiva o meno…
                Una visita di Braff a Dorne era peraltro prevista a breve, anche se Gino non aveva capito quando. Prima ancora, ci sarebbe stata quella di una delegazione di Lungotavolo guidata da Rollo. Questa era stata ovviamente per Gino una notizia assolutamente lieta: pensava che finalmente sarebbe tornato a respirare aria di casa, di amicizia, di serenità, anche se per un brevissimo periodo. Shane lo disilluse definitivamente nel momento in cui gli disse che Rollo sarebbe rimasto per poco, e giusto per discutere di una decisione da prendere in merito a una diga che coinvolgeva Lungotavolo e insieme una dozzina di piccoli abitati limitrofi. Si sarebbe trattato di una cena, in cui veramente poche sarebbero state le occasioni per il rampollo dei Barron di confrontarsi col suo vecchio amico e mentore. Poche per non dire nulle.
                E così era accaduto: il vecchio Rollo era arrivato, si era soffermato per un breve istante a salutarlo, ma quello giusto per sincerarsi della sua salute fisica e mentale, dopodiché aveva mangiato, aveva discusso con Shane e Lorthan, e aveva preso congedo. Nel momento in cui l’aveva fatto, tuttavia, Gino – che non riusciva più a trattenersi – lo prese per il braccio, imponendogli di soffermarsi. Lì, davanti a tutti, allungò il capo verso il conterraneo e gli sussurrò all’orecchio: «Ci sono un mucchio di cose da dire a Braff. Cose pericolose. Io… non so più se me la sento…». E ancora una volta Rollo lo sorprese; per la seconda volta nelle ultime due volte in cui l’aveva visto, il suo vecchio amico lo sorprese. Con un tono di voce che non era alto, ma certo neanche decisamente soffuso come quello che aveva pocanzi usato Gino, l’uomo fece: «Braff?! E che c’entra Lord Braff? Lascia perdere, figliolo: devo proprio andare! Me ne parlerai quando il tempo ci sarà più propizio». E se ne andò. E da quel momento Gino di Casa Barron rimase completamente confuso. Spaventato per tutto quello che aveva visto e sentito da quando si trovava a Dorne. Contrariato perché convinto di dover oltretutto assolvere pure a quella mansione di spia in favore di uno sconosciuto polito della Capitale. E adesso pure confuso, perché gli risultava che quel politico della Capitale fosse in accordo con suo padre e con Rollo: l’aveva visto con i suoi occhi comandargli di passare dalla sua parte, mentre Rollo assentiva. E adesso, improvvisamente, acquistando tutte quelle qualità di diplomatico e mentitore che Rollo non aveva in vita sua francamente mai avuto, il vecchio aveva persino smentito se stesso. Oppure non lo aveva fatto? Oppure aveva cercato di dire qualcosa che Gino non aveva inteso? Poco cambiava: la conclusione restava che Gino, oltre che spaventato e contrariato si trovava adesso anche in preda alla confusione.
 
 
 
                Il cammino verso il nord più estremo e sconosciuto si prospettava per Daniel lungo e noioso: più a nord saliva, meno vita scorgeva, e questo l’aveva già capito quando ancora si ritrovava alle pendici settentrionali del Monte di Cabuk. Stando alle indicazioni ricevute alla Grande Quercia, le cose sarebbero andate a peggiorare, visto che – in teoria – avrebbe trovato lande e lande di deserto ghiacciato; deserto ghiacciato e basta. Non solo niente uomini, né animali, ma perfino niente vegetazione! Difatti il principe di Cowain si reputava ancora fortunato di trovarsi attorno quelle poche erbacce e arberelli rinsecchiti che costituivano la vegetazione delle pendici nord di Cabuk. Un uomo normale non sarebbe mai sopravvissuto sulla via di quel deserto di ghiaccio, che infatti gli risultava disabitato (e come poteva essere altrimenti). Ma Daniel, come suo zio Constant di Casa Lannister prima di lui, non era un uomo “normale”. Non sapeva se poteva definirsi ancora un vero Piromante, anzi tendeva a non crederlo, ma il suo corpo ormai era caratterizzato da una nuova energia, calda, che circolava all’interno delle sue membra. Riscaldava il suo sangue ed evaporava fuori dai pori della sua pelle. Si dava il caso che proprio un Piromante, o uno con una qualche abilità nelll’arte della Piromanzia, era per Daniel forse l’unico individuo davvero indicato per viaggiare lungo l’Ultimo Nord, quello bagnato dal Mare di Actonon. E, guarda caso, lui cascava a fagiolo.
                Gli pareva di aver capito che finché vedeva vegetazione, il territorio apparteneva ancora politicamente agli Applegate (in teoria ci apparteneva proprio tutto fino alla fine, solo che non c’era più niente alla fine, e quindi nessuno aveva interesse a rivendicarlo). E Daniel si chiese se fosse proprio uno degli Applegate l’uomo armato che da quella mattina presto aveva cominciato a seguirlo, con neanche poi tutto questo grande interessamento al non farsi notare. Non aveva ancora avuto modo di vederlo proprio perfettamente, ma era piuttosto sicuro che non c’era la mela degli Applegate né incisa né ricamata da nessuna parte. E nemmeno la stella dei Willoughby. Decise che era il momento di far luce sulla questione, dunque con la velocità inaudita che solo da quando aveva appreso la Piromanzia da Nidhogg era riuscito a sviluppare, sguainò il piccolo spadino preso in prestito dal vecchio Terwyn Lannister, e con un’ampia bracciata ruotò di trecentosessanta gradi e puntò l’arma al collo dell’uomo. Era vecchio, cadente, con una incolta barba bianca; ma il resto del viso era coperto da un cappuccio… «Improbabile» cominciò Daniel «Che non solo uno, ma ben due uomini si diragano verso il nord di questi territori: voi mi state seguendo!»
                «Dovevo farlo» rispose quello, voce stanca ma profonda: a Daniel ricordava qualcosa o qualcuno…
                «E perché, se posso chiedere?»
                «Perché ho giurato che non vi avrei perduto d’occhio neanche un momento» rispose Sir Cordell, togliendosi il cappuccio «Da quando foste sceso dal Monte Cabuk»
                «Oh, vecchio amico!» esclamò Daniel, non riuscendo a trattenersi dall’abbracciare Cordell, «Come diamine hai fatto ad intercettarmi?»
                «Beh non sono molte le locande di Dunwark! Io alloggio sempre nella medesima da un po’ meno di un anno ormai. Ed è lì che voi stamane presto avete preso la vostra colazione»
                «Perché non ti sei rivelato prima?»
                «Onestamente, signorino, stavo per farlo, quando siete uscito dalla locanda, e vi siete diretto completamente dalla parte opposta rispetto alla quale avrei immaginato. In quel momento è sopraggiunto un altro pensiero… mi sono detto: non è venuto giù un po’ troppo presto per un addestramento da Primo Cavaliere del re come si deve? E così ho deciso di seguirvi, cercando di non farmi notare»
                «Hai fallito, vecchio mio»
                «Sì, e non vi nego che anche questo mi ha fatto insospettire di voi: mi sono chiesto se foste proprio Daniel della Casa Lannister, secondo in linea di successione al Trono di Spade…»
                «Secondo?»
                «…visto che francamente vi ricordavo come un giovanotto piuttosto impacciato con la spada…»
                «Sì, ma…»
                «Ho concluso che eravate voi solamente quando mi avete testè abbracciato»
                «Ma Cordell perché mi hai chiamato “secondo” nella linea di successione?». Non sarebbe stato necessario dire altro: Daniel capì tutto già da quell’attimo di silenzio confuso che il suo servitore si prese per rispondere, e da quell’espressione nei suoi occhi. Cordell disse: «Perché lo siete, ora. Sono spiacente, signorino»
                «Ma… ma… quando… come… come è successo?» gli occhi di Daniel si riempirono di lacrime, il cuore di tristezza. «Non è chiaro» rispose il vecchio «Uno di quei mali imprevisti che possono essere imputati a qualsiasi cosa: il cuore? Il cervello? La pressione sanguigna? La sfortuna? Il volere degli dèi?» piccola pausa «Un veleno?»
                «Cordell mio padre era in ottima salute!» si arrabbiò il principe Piromante «In tutta la mia vita non l’ho mai visto soffrire una febbre, o accusare un mal di testa, o liberarsi in un colpo di tosse! Che COSA DIAVOLO È SUCCESSO?!»
                «Signore: non lo so. Io sono sempre stato qua, come voi! Ma… come voi temo che stia succedendo qualcosa in quella maledetta e pericolosa città. Maledetta e pericolosa!»
                «M-mio…» si calmò Daniel, provando a cambiare discorso, anche se la sua voce continuò ad essere rotta dal singhiozzo «Mio f-fratello Axelion… lui è…»
                «Lui è il re, ora. E sta bene»
                «Sì, per adesso»
                «Oh, signore: non disperate. C’è vostro zio Constant con lui»
                «Mio zio Constant avrebbe dovuto essere anche con mio padre, ti pare? So per certo che non ci si può fidare di lui…»
                «Signore, non vi mentirò: tutte le missive che da quando sto a Dunwark ho ricevuto da vostra sorella Lady Hana – che vi assicuro: non sono state poche – hanno via via avuto un tono sempre più lugubre, e sempre più lugubre. Sono preoccupati, ed è come se i vostri parenti alla Capitale abbiano un’urgenza non solo di sapere che state bene e che siete vivo… ma che siete pronto a ricorpire il vostro ruolo come Primo Cavaliere. Sono allarmati, ed hanno bisogno di una persona potente di cui potersi fidare: un loro fratello»
                «Cordell… Cordell, il mio addestramento non è ancora concluso»
                «Ecco: questo era esattamente quello che non avrei voluto sentitvi dire»
                «Beh, è così»
                «Ma allora che ci fate fuori dalla Grande Quercia?»
                «Io… io ho ricevuto un comando. Devo andare a nord! Consoliderà il mio addestramento…»
                «A nord? Ma è inaudito!»
                «Sì, è… è stato Nidhogg a dirmelo»
                «Chi?»
                «Be, sai, il… Piromante… senti, so che non è molto “ortodosso”, ma parte del mio addestramento consiste nell’andare a nord! Non posso dirti altro…»
                «Bene. Vengo con voi»
                «Cosa? No. A parte che non mi serviresti a niente, ma poi… è pericoloso!»
                «Ah, non gli servirei a niente: ma sentitelo! Figliolo, non vi basterà un addestramento da stregone, peraltro interrotto a metà, a competere con l’uomo che ha insegnato a vostro padre a tirar di spada. Anche se vorreste impedirmi, non ne sareste in grado, per cui…»
                «Vecchio amico» rise Daniel, intenerito dall’affetto e dalla passione di quel settantenne, «Io…». Il principe non riuscì a concludere. Voci interruppero quello che stava per dire… voci di donna, forse in difficoltà, di sicuro agitata, anche se non stava esattamente urlando. Per la seconda volta in pochissimo tempo, Daniel si rese conto che c’era qualcun altro – non solo lui e Cordell – presso quelle lande desolate. Si scambiò uno sguardo complice con il suo servitore… e andò a guardare.
                Si mossero rapidamente, ma silenziosamente, come due felini: Daniel aveva appreso a farlo grazie agli addestramenti alla Grande Quercia, Cordell era sempre stato un abile cavaliere, su tutti i campi della cavalleria. Cercarono di spiare quello che stava accadendo da dietro le fronde di un cespuglio: erano in tanti, ma la ragazza si stava difendendo. Si stava difendendo piuttosto bene. Questa non era una scusa; Daniel non aveva mai trovato scuse per non intervenire quando qualcuno si trovava in difficoltà da qualche parte nei territori di confine tra gli Applegate e i Willoughby, non le avrebbe trovate ora che si trovava ancora più a nord…
                Trovò una perfetta intesa con il suo vecchio servitore: si scambiarono un tacito cenno, e poi si lanciarono allo scontro. Dovevano essere una dozzina i manigoldi ancora in piedi, quando non quindici o sedici. Tre invece erano già per terra, parti delle loro braccia e gambe ambiguamente ricoperte da strati di ghiaccio. La ragazza era splendida. Daniel ne aveva vedute diverse di ragazze splendide da quando faceva l’eroe lì al nord, ma lei era diversa… la pelle candida, quasi brillante, aveva un qualcosa di sinistramente mortifero. E gli occhi, profondamente blu come cristalli, erano probabilmente i più begli occhi che il principe di Cowain avesse mai veduto in vita sua. Quasi disumani. Non appena il principe e il suo servitore sopraggiunsero scoprendosi, a Daniel parve per pochissimi istanti che la giovane si trovasse in una posizione quando non proprio di combattimento, almeno di sapiente difesa. Ma furono brevi istanti: non appena li vide, la ragazza implorò disperata: «Vi prego! Aiutatemi!». Gli impavidi uomini del sud non se lo fecero ripetere due volte: con passione ed estrema attitudine Sir Cordell affrontò contemporaneamente prima due, poi tre di quei gaglioffi: pur se non lo erano, combattevano come ubriachi. Erano fiacchi, molli, si gettavano in affondi suicidi, contando un po’ troppo nel loro numero superiore: una barzelletta per un cavaliere ben addestrato e di lunga esperienza, anche se anziano.
                Ma la vera sorpresa, per i balordi, per Sir Cordell, e per la ragazza dagli occhi di ghiaccio, fu Daniel. Con una velocità inaudita, gettò a terra due, tre, quattro, cinque avversari. E mentre si muoveva, le estremità laterali delle sue braccia e delle sue gambe, i gomiti, i polpacci e in modo particolare le punte delle dita, gli si ricoprirono di un sottilissimo strato di fuoco. Quando si fermò, vide che gli unici tre balordi rimasti in piedi lo guardavano con puro orrore, Cordell sprizzante gioia ed emozione, la ragazza… seria, riflessiva, senza dubbi incuriosita. Questa brevissima pausa diede la possibilità ai tre di tentare una fuga: Daniel non glielo permise. Non avrebbe voluto scoprirsi fino a quel punto, non col suo servitore lì presente, ma sentiva che il suo lavoro non era ancora finito: così concentrò l’energia calda fino al palmo della mano destra e materializzò una lingua di fuoco. Prese i gaglioffi come al lazo e li atterrò. Avvicinandosi, gli chiese: «A chi appartenete? Applegate o Willoughby?»
                «W-W-W-Willoughby» balbettò il più grosso di loro, letteralmente terrorizzato.
                «Sempre cani voi Willoughby! Ma come vi azzardate a prendervela con una povera ragazza indifesa?»
                «La-la-la» rispose quello «La ragazza non è del villaggio. E perciò abbiamo ipotizzato che forsse una degli Applegate, e quindi…»
                «Quindi cosa? Queste terre appartengono, in quanto riconosciute tramite decreto reale, al Lord degli Applegate! Siete contro la legge degli uomini, signori! E siete anche contro la legge degli dèi antichi e nuovi, nel momento in cui in tanti, virili e forzuti, vi scagliate contro una sola, donna e indifesa!»
                «Ma, signore, la ragazza…»
                «Taci! Non intendo ascoltare oltre le vostre bieche giustificazioni!» e così concludendo, il principe secondo in linea di successione al trono, concentrò tutta la sua energia per emettere un colpo di fuoco tanto forte da stordire i balordi, ma non così forte da ucciderli. Li lasciò lì, stesi per terra, leggermente bruciacchiati, e finalmente si rivolse agli amici. Lo sguardo di Cordell era colmo di stima. Quello della ragazza… Daniel non riusciva a capire bene se solo curioso oppure spaventato, di certo bellissimo. Si rivolse a lei dicendo: «State bene?»
                «Sì» rispose la giovane. In altri luoghi e in altri tempi una come lei si sarebbe rivolta a Daniel con: «Sì, mio signore». Ma Daniel comprendeva di non avere né l’aspetto, né gli abiti, né più l’atteggiamento di un nobile, lì nel nord. Dunque serenamente tornò a domandare: «Come vi chiamate?». E lei: «Anylice».
 
 
 
                Per fortuna, quella sera a cena Shane e Lorthan non si trovavano in compagnia né dell’uno né degli altri mostri. Quando il mostro ammantato di nero e mascherato da umano presenziava ai pasti, di solito non mangiava: se ne stava ritto seduto in quelle sedie sempre troppo piccole per lui, emettendo strani respiri biascicati, e guardandosi attorno. Talvolta, specie agli inizi, aveva anche avuto cose da dire, cose relative a un piano di attacco e altri piani diversivi, insomma tutte quelle robe che Gino non sapeva se aveva proprio capito bene, e che avrebbe dovuto acennare a Lord Braff. Ma ultimamente le presenze di quel demonio si erano ridotte considerevolmente, per la gran gioia di Gino di Lungotavolo che rabbrividiva tutte le volte che quel mostro parlava, rideva, respirava, o semplicemente… era presente.
                Gli altri due erano decisamente meno inquietanti. Pericolosi? Sì. Abbastanza abominevoli all’aspetto? Senza dubbio. Ma non avevano l’aria di essere crature intelligenti. Venivano convocati come guardia personale di Shane, all’inizio, ma Shane ora aveva scelto Gino; di tanto in tanto segnalava qualcun altro e… ora che oltretutto c’erano anche le guardie di suo fratello a palazzo: diciamo che si sentiva benissimo al sicuro anche senza quei bestioni che lo guardavano mangiare.
                Quella sera dunque, a cena, c’erano circa sei uomini di Lorthan, c’era Gino e altri due per Shane, e poi c’erano i due principi, e basta. Si sarbbe detta una cena tranquilla: i due fratelli, almeno per quello che Gino aveva potuto notare, avevano un rapporto molto saldo. Non li aveva mai visti deridersi l’un l’altro, né di presenza né alle spalle: d’altro canto, spesso Gino si era trovato da solo con Shane, il quale gli aveva anche parlato svariate volte dei più svariati argomenti, e mai contro suo fratello. E poi Gino non li aveva neanche mai visti litigare, non li aveva neanche mai visti in disaccordo, anche se onestamente Lord Shane si limitava pressoché sempre ad avallare le decisioni prese da suo fratello o, eventualmente, dal mostro con la maschera, che invece pareva un battitore libero all’interno di quel castello. In teoria, in termini ufficiali, era un ospite di chissà quale regno lontano. Ma invece, e questo a Gino era ormai abbastanza chiaro, quando appariva, si comportava come il padrone assoluto di tutte le persone e le cose attorno a lui. Non si vedeva spesso, ma quando c’era comandava. Chi era il capo dnque? Lorthan Tyrell? O il mostro fildiferro? Questa era una questione importante, cui Gino non si sentiva ancora in grado di dare una risposta.
                Mentre Lorthan e Shane cominciavano ad assaporare il dolce, e quindi a cena ormai quasi ultimata, le porte della piccola sala da pranzo – quella non “di rappresentanza” – si aprirono. Uno degli uomini con la rosa dei Tyrell incisa sulla corazza, cominciò scusandosi con Lorthan: «Signore… non ho potuto…». Venne subito interrotto. Un giovane, di corsa, sudato, insanguinato, spaventato, stanco, si buttò ai piedi del primogenito dei Tyrell. Nel frattempo un fremito corse lungo la schiena di Gino: aveva già visto quel giovane, poco prima. Faceva parte della squadra che aveva accompagnato Sir Rollo. «Signore» fece il ragazzetto con la voce spezzata dal fiatone «Signore… vi prego… la nostra delegazione è stata attaccata»
                «Calma, ragazzo» disse Lorthan, ma quello era nel panico e per tal motivo inarrestabile: «Dovete mandare qualcuno ad aiutarci. C’erano… dei mostri che… mostri con i volti, e le braccia di… di… oh, è stato orribile!»
                «Basta così figliolo!». C’era qualcosa di strano: era come se il lord non volesse lasciar parlare il ragazzo. Siccome la materia era per lui anche piuttosto delicata, Gino non si trattenne e replicò agitato: «Ma insomma: volete lasciarlo parlare?». Sapeva fin da subito di aver fatto una stupidaggine: Lorthan lo guardò in cagnesco, Shane si alzò dal tavolo, andò verso di lui, e, cercando di bloccarlo fisicamente, gli disse piano: «Ti prego: sta’ calmo!». Intanto Lorthan riprendeva con il giovane, invitandolo a bere una coppa di vino per calmarsi. Il giovane accettò, avvicinandosi al tavolo della cena. Il Maestro del Conio stesso gli versò la bevanda nella coppa e, nel momento in cui il giovane alzò la gola per bere, gli piazzò un piccolo coltello dritto nella giugulare. Il sangue schizzò dal collo come i guizzi di una piccola fontana, mentre Gino osservava la vita svanire lentamente dagli occhi del ragazzo. Non lo conosceva, non sapeva chi fosse lui né chi fossero i suoi familiari: ma apparteneva alla delegazione di Rollo, e questo significava che non doveva essere nato in un luogo molto distante da quello nel quale Gino stesso era nato. E non doveva esser nato molto dopo…
                «Questo non avresti mai dovuto farlo, Lorthan!» si arrabbiò Lord Shane, e Gino poté percepire che era sincero. Un gran peccato, visto che sarebbe stato lui la prima potenziale vittima della sua ira…
                Il maggiore dei Tyrell ebbe il tempo di replicare: «Sono stufo di questi Barron: non fanno altro che lamentarsi. Daremo la Contrada sul Bosco ai Wale: parlano di meno. E ragionano di meno. E quanto al piccolo Barron qui presente…». Gino capì dunque che non c’era più tempo e partì al contrattacco: sguainò velocemente la spada e, prendendolo alle spalle, la piazzò sul collo di Shane, senza andare a fondo. Il commento del Tyrell più piccolo fu: «Gino… che stai facendo?»; il più grande invece disse tra i denti: «Piccolo bastardo!»; poi ancora Shane: «Non glielo permetterei! Sai che non lo farei!»; Lorthan ai suoi: «Piazzatevi davanti la porta! Non gli permetteremo di uscire»
                «Ho già menato le vostre guardie una volta» replicò Gino «Posso farlo di nuovo!»
                «È vero, Gino!» fece Shane «Si discute da un po’ di rimuovere tuo padre dal suo seggio, ma si può realizzare pacificamente: un’attività diplomatica è già avviata, è per questo che Rollo era qui!»
                «Ed è per questo che avete organizzato un’aggressione ai suoi danni?»
                «Quanto a te… rimarrai qui… continuerai ad allenarti e a servirmi come un uomo alle dirette dipendenze della Famiglia Tyrell»
                «Da quando sono qui non ti ho mai visto ribellarti a una decisione di tuo fratello, non lo farai adesso!»
                «Adesso basta! LASCIAMI ANDARE!». Shane era palesemente disperato. Lorthan agitato. E Gino nel frattempo era arrivato non distante dalla doppia porta che permetteva l’uscita dalla sala. Aebbene la gran parte degli uomini del Maestro del Conio tendenzialmente gli avevano lasciato libera la strada (preferendo evidentemente l’ira di Lorthan per la fuga di Gino, che non quella per la morte del fratello con la gola tagliata), due erano rimasti lì, fermissimi. Per un breve istante il giovane Barron si guardò attorno poi, rapido, buttò Shane sul proprio fratello, diede una gomitata in bocca a uno dei due che gli bloccava la strada, e all’altro piazzò la spada sul ventre. Spalancò l’uscio e corse via come non era mai corso in tutta la sua vita.
                Nonostante le urla e gli strepiti agitati dei fratelli Tyrell, e nonostante un passaparola che Gino sentiva correre alle sue spalle tra guardie che urlavano di fermarlo di qua e di ucciderlo di là, il giovane Barron, che aveva imparato a conoscere abbastanza bene quel palazzo, trovò la via di fuga quasi facilmente. Uccidendo a tradimento un altro uomo dei Tyrell, riuscì pure a dotarsi di un destriero e rendere così la sua fuga sempre più veloce e dunque sicura. Certo se quelle non fossero state le dune del deserto di Dorne, ma i vicoli stretti di Fondo delle Pulci, o i sentieri boscosi della radura di Lungotavolo, il giovane si sarebbe sentito anche più al sicuro; in mezzo a quel deserto dove ogni cosa era simile ad un’altra, specie di notte, da una parte credeva di aver seminato i suoi avversari, ma dall’altra cominciò a rendersi conto che si era anche perduto. Vagò per un po’ di tempo, stanco e assetato: non tanto da farlo credere disperato, ma abbastanza da cominciare a rendersi conto di quanto infinito fosse quel mare di sabbia. Neanche un raggio del sole mattutino aveva cominciato a fare capolino da oltre l’orizzonte, quando Gino all’improvviso sentì un dolore lancinante a un fianco. Allarmato, rivolse il suo sguardo proprio su quel punto e si rese conto di esser stato colpito da una freccia: non aveva seminato gli uomini dei Tyrell. Non li aveva seminati proprio per niente!
                Ebbe la prontezza di schivare un altro colpo di freccia e cercare di sistemarsi alla meno peggio dietro a una duna: ma il vento, continuo e insistente anche se non esattamente “forte”, di certo non aveva deciso di prestargli il suo aiuto. Le guardie di Lorthan arrivarono: erano in sette. Uno era Sir Dranfett, il nerboruto uomo dalla barba rossiccia cui all’inizio della sua carriera Gino era stato affidato. Con uno spadone a due mani, proprio Dranfett cercò di colpire Gino a morte. Il giovane riuscì a salvarsi per un pelo, incespicando all’indietro e perdendo l’equilibrio. Il terreno sabbioso non era esattamente l’ideale per sfuggire a un’aggressione da parte di sette uomini esperi e armati. Un colpo di spada più piccola lo colpì alle spalle: ferendolo all’avabraccio sinistro. Purtroppo proprio sulla sinistra Gino di Casa Barron tendenzialmente teneva la spada: continuò a trattenerla, stringedo forte il pugno, provando un immane dolore al polso, e forse colpendo pure qualcuno o qualcosa (udì invero il suono di un pezzo di sottile metallo che veniva scalfito). La vista cominciò a tradirlo: continuava a vedere, ma aveva gli occhi stanchi ed era costretto a chiuderli e riaprirli a intermittenza per vederci come si deve.
                Poi, pur se Gino non ne capì bene il modo, uno dei Tyrell venne colpito a morte: il giovane di Lungotavolo riuscì a percepire bene l’urlo di dolore che si deve ad un colpo fatale. Confuso, ma deciso a restare vivo quindi lucido, strizzò gli occhi e si guardò sulla destra: uno dei suoi assalitori era caduto. Dunque rivolse il proprio sguardo alla sinistra: l’uomo che lo stava colpendo venne a sua volta fermato da una sottile, piccola, freccia che gli si piazzò su un occhio. Ma Dranfett persisté: cercò di colpire Gino che, per difendersi dal possente colpo dell’avversario, e dovendo anche subire la sgraziatezza del proprio movimento dovuta al dolore al braccio, perse l’arma di mano: adesso era davvero spacciato. Per una terza volta, Sir Dranfett issò la sua grossa lama su di lui, e questa sarebbe stata la sferzata finale. Eppure, per la terza volta, il colpo non andò a segno. Dranfett venne colpito da più parti contemporaneamente, e poi abbattuto a terra. Delle forze stavano agendo in soccorso di Gino: forze rapide e letali. Si sarebbe detto invisibili, o quantomeno ben celate dal buio che ancora dominava il deserto. Uno a uno caddero tutti i Tyrell. E Gino rimase vivo, anche se stanco, sudato, ferito e confuso. Per un brevissimo istante li vide… erano esseri umani, tutti magrissimi, dai volti semicoperti. Armati di strane lame, tutte piccole anche se ben affilate. Vestiti di abiti leggeri e interamente neri. Uno di loro liberò il viso dal manto che per metà lo avvolgeva: era Kellan.
                Infine sopraggiunse Lord Braff, e comandò: «Portatelo alla tenda». In quel momento Gino aveva già perduto i sensi.

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Capitolo 12
*** La notte della rivolta ***


Capitolo 12
LA NOTTE DELLA RIVOLTA
 
 
                Per fortuna re Axelion era riuscito a liberarsi. Tutto quel discorso sulle nuove scorte da fornire a ciascun singolo membro del Concilio Ristretto, a causa della sempre più pressante minaccia del popolo, era stato lungo, oltre che odioso. In un momento in cui la gente stava male, i poltici – anziché rispondere con soluzioni in grado di andare incontro ai cittadini, o almeno di cercare quanto più possibile di non apparire “distanti” da loro – che cosa facevano? Varavano un decreto che gli permettesse di rimpinguare le loro scorte personali: pagare più uomini, fornirgli più e migliori armi per operare, garantirgli maggiore cibo e vantaggi. Ovviamente Axelion avrebbe espresso voto contrario, se solo gli fosse stato possibile votare, ma le assurde e retrograde leggi del Regno non permettevano al re di esprimere un voto nel corso del proprio Concilio Ristretto. Stando alle condizioni formali, siccome quello era un consiglio, votava al fine di fornire al re una “opinione ufficiale”, solo che da troppi secoli quell’opinione ufficiale era invece divenuta un atto vincolante, con pienissimi poteri. Il re, se voleva, lo poteva bloccare ma questa era una cosa che veniva considerata come una specie di “dichiarazione di guerra” del re nei confronti del proprio consiglio: in tutta la storia, per sole tre volte un re aveva bloccato un decreto del Conciclio Ristretto e quindi, pur se estremamente contrariato, Axelion aveva dovuto prestare ascolto alle indicazioni della gran parte dei suoi più stretti consiglieri (in primis il suo Altissimo Segretario e sorella Lady Hana), e di conseguenza lasciò correre. Peraltro il Concilio aveva votato in condizioni disarmanti: di tutti i membri attivi, presenti ce n’erano solo poco più della metà, e questo già rendeva abbastanza disonesto prendere decisioni di quella portata, che prevedevano grosse spese per le casse del Regno, oltre che impegnative conseguenze politiche. A quell’assemblea non aveva difatti partecipato il Maestro del Conio, ingiustificatamente assente, né quello dei sussurri, che invece si trovava in missione diplomatica proprio presso i domini dei Tyrell, a Dorne. E così anche la gran parte dei Lord Ambasciatori (Applegate, Panecha) non si trovava alla Capitale per ragioni inerenti a politiche interne dei loro luoghi di appartenenza: ma proprio dai Lord Ambasciatori presenti il re aveva subito la prima pugnalata; avevano votato favorevolmente sia Worchester che Baelish. E questo aveva determinato una vittoria schiacciante per i sì, visto che si andarono ad assommare agli altri sei: Constant e Septimus (che ormai era chiaro che fossero in combutta), Bolton (seconda pugnalata per Axelion), e tre su tre dei Lord Tribuni Popolari presenti, visto che quello dell’est (Lord Garhel Sawela) si trovava in Oriente, così come i Lord Panecha, Goldsmith e Loackland. Il voto dei Tribuni Popolari, espresso per ultimo, fu per il re il meno sorprendente: sapeva benissimo che gli avrebbero votato contro visto che erano quello del nord un uomo dei Worchester (il cui ambasciatore aveva pocanzi rivelato la favorevolezza al decreto da parte della casata del nord), quello del centro uno dello zio Constant, e quello del sud uno dei Tyrell. Conclusione: otto degli onorevoli membri del Concilio Ristretto presenti avevano votato per ampliarsi le scorte, e solo tre avevano votato di no: Hana, il Maestro delle Strade Gaholla e il Maestro delle Leggi, Gushing, vecchio amico del loro padre, anche se di lui più giovane.
                Ma quella era, per ben altre ragioni, una sera importante per il re: era la sera in cui stava per dire addio alla sua piccola sorellina che, in compagnia di Xenya l’esploratrice, stava per lasciare di nuovo – e troppo presto – Roccia del Re; Mirietta avrebbe raggiunto a cavallo la sua Lannisport, dove era la regennte, ma non per rimanervi. Al porto della città dell’occidente la attendevano già otto enormi navi mercantili, pronte a prendere il mare. Prendere il mare alla volta di un ovest ancora più a ovest del Westeros. Lì Mirietta, Xenya e tutti gli uomini armati che stavano salpando con loro e sarebbero stati ai loro comandi, avrebbero dovuto raccogliere cibo, quanto più possibile, per poi riportarlo alla Capitale e quindi ammansire il popolo in rivolta.
                Perché il popolo era veramente in rivolta. Hana – che dopo la partenza di Braff aveva ereditato parte dei suoi uomini-ombra operanti alla Capitale – aveva comunicato al re che adesso le masse rivoltose erano perfino “organizzate”. Ancora non era riuscita ad intercettarne uno o più veri e propri vertici, ma per due volte le masse avevano seguito gli spostamenti di due notabili cittadini, per poi scatenare lì accanto le loro sommosse: un’oscura minaccia stava strisciando per i vicoli stretti della periferia di quella città, questo ormai era evidente. E Lord Coffin, Tribuno Popolare del sud, ci stava pure lasciando le penne: due dei suoi uomini erano morti quella volta, ed era stato questo a rendere credibile quella scusa accampata poi dal Concilio per determinare l’assurdo e controproducente voto sui nuovi sovvenzionamenti per gli eserciti personali. Il secondo assalto era stato addirittura più preoccupante per il re: la folla aveva bersagliato il corteo della regina, con delfino e balie al seguito. Una cosa veramente sconcertante! La folla affamata non conosce limiti alla ferocia, questo Axelion lo sapeva bene: per diverse volte Lord Braff, ai tempi in cui il re era un giovane studioso di storia, gli aveva fatto notare come le sommosse popolari si siano rivelate come alcuni tra i momenti più cruenti della storia del Regno Unificato.
                Forse era anche per questo che il re era sovrappensiero quella sera. Da una parte, un nemico assetato di sangue, numeroso e violento, praticamente nascosto ovunque al’interno della sua città. Dall’altra la piccola Mirietta che lo lasciava per l’oceano aperto, alla ricerca di qualcosa che nemmeno si sapeva se esistesse realmente e, se esisteva, come fosse fatto… quali pericoli nascondesse; di quali nuovi temibili avversari potesse essere la culla. Di sua natura, Axelion non era un individuo audace: non lo era mai stato. Paradossalmente, anche se era il maggiore, forse lui era il più codardo tra i fratelli maschi dei Lannister di Roccia del Re. E peraltro neanche i suoi fratelli – Marcus e Daniel – erano chissà quali impavidi condottieri! Ma lui era peggio di loro. Era strano anche solo a pensarlo, ma se Axelion avesse dovuto dire chi tra i suoi fratelli e sorelle fosse stato il più coraggioso, lui avrebbe senza ripensamenti detto Mirietta. Mirietta per prima, e Hana per seconda. Le donne: erano loro che avevano ereditato la forza e l’audacia del re Lionel Lannister, l’uomo che Axelion ricordava far tremare un intero esercito con un suo solo sguardo o una sua sola parola.
                Axelion si ricordava di Mirietta voler giocare sempre alla guerra o ai cavalieri da piccola, mai con le bambole o altre robe da femminucce. E quando giocava con gli altri piccoli della corte, tutti pendevano sempre dalle sue labbra, ma non perché fosse la figlia del re: perché era decisamente la più carismatica. A otto anni duellava e tirava con l’arco meglio di Daniel e di Axelion, che erano già degli adolescenti inoltrati. A dieci cavalcava meglio non solo dei suddetti fratelli, ma perfino di Marcus che era detto “l’Andalo”. E adesso stava per partire al comando di una flotta di uomini tutti più grossi, più rudi e più vecchi di lei. Ma se c’era qualcuno che doveva andare, qualcuno di sua assoluta fiducia, il re concluse che dovesse essere proprio la sua sorellina più piccola: non Hana, che era un’abilissima politica ma non adatta alla vita fuori dalla corte; non Bolton, insostituibile per il suo rapporto con gli uomini che formavano il corpo dei Cavalieri della Chimera, forse necessario per i tempi che correvano; non Pamir Gaholla, che da quando lo conosceva (e lo consoceva da parecchio) Axelion non gli aveva mai visto fare discorsi che esulassero dai ponti, le strade, i palazzi e le dighe; e infine non Finnis Gushing, un voto sempre dalla loro parte nel Concilio Ristretto, così avverso ultimamente agli orientamenti del sovrano.
                E proprio loro erano gli esigui membri del concilio lì convocati per il saluto alla giovane Lannister: il re, il suo Altissimo Segretario, e i maestri delle strade e delle leggi. Solo loro quattro. Quattro davanti ad altri quattro, a cavallo di possenti purosangue provenienti nientemeno che dalle stalle del re: c’era Lady Mirietta, c’era Xenya l’esploratrice (altra donna dal carattere vigoroso e più mascolino che femminile, per quel poco che Axelion poté notare durante la permanenza della donna alla Capitale), il suo secondo ed esperto navigatore signor Pashamanyna, e infine Waltz, che era stato il più diretto responsabile della guardia alla vita del re, fino a questo suo congedo ordinato direttamente da Axelion appositamente per quella circostanza. Il vigoroso, scuro, altissimo, irsuto Waltz era tanto commosso nel lasciare il re, quanto il re lo era (e abbiamo detto che lo era parecchio) nel salutare la sua adorata sorellina. Non che un solo uomo avrebbe mai potuto fare la differenza, ma il re si sarebbe sentito più sicuro con il leale Waltz a guardia di Mirietta: lui aveva tanti altri uomini esperti lì alla Capitale. Inoltre per il viaggio l’ultima figlia di Lionel Lannister aveva deciso di non reclutare troppi uomini della cavalleria, reale o di Lannisport che fosse. Infatti la giovane aveva preferito prendere esperti marinai, proprio dall’ovest del Westeros e dalle Isole di Ferro, e poi un folto numero di pirati orientali, appositamente richiamati proprio dal Pashamanyna, a cui a suo dire erano fedelissimi. Almeno tanto quanto Pashamanyna fosse fedele a Justus Panecha, cosa di cui Axelion era stato prontamente informato dalla Hana provvisoria Maestra dei Sussurri, e a quanto pare non in discussione. Su un totale di qualche decina di migliaia di uomini, quelli addestrati alla cavalleria sarebbero stati circa cinquecento: tutti gli altri erano invece uomini formati per la vita di mare. E oltretutto non era neanche stata una scelta poi così non condivisibile, per il re, visto che sarebbe stata probabilmente la traversata via mare più lunga e imponente che si fosse mai veduta a memoria d’uomo. Saggia, la piccola Mirietta. Audace e saggia: una combinazione invidiabile per qualcuno che parte alla scoperta di un nuovo continente.
                Nel momento in cui l’abracciò, il re sentì il dolce profumo dei capelli di Mirietta: era lo stesso da quand’era una bimba. Lei usava da una vita la stessa combinazione di unguenti che utilizzava la loro madre, quando ancora era viva. Quell’odore fece venire in mente al re tanti ricordi da condurlo a quelle lacrime che per tutta la sera aveva evitato. E non appena le vide, la fortissima Mirietta, dandogli un affettuoso schiaffetto sulla guancia sinistra lo rimbrottò: «Hey, tua maestà! Guarda che non ho mica intenzione di partire per sempre, sai?»
                «Lo so» fece il re: non gli erano rimaste davvero più parole; pezzo a pezzo sentiva che tutta la sua famiglia lo stava a poco a poco abbandonando. Fu infatti sempre Mirietta a proseguire: «Torneremo. E torneremo più ricchi nello spirito e… nelle sostanze. Gliela faremo vedere noi a quei burbanzosi di Tyrell. Non ho ragione, Xenya?»
                «Mia signora, se lo dite voi». L’esploratrice era tutta affettata: mentre la “sua signora” perdeva il proprio tempo in inutili convenevoli, lei aggiustava le cavalcature degli altri. Ma a Mirietta non pareva importar tanto della risposta della donna; tanto è vero che concluse: «Certo che ho ragione!». Poi Mirietta andò ad abbracciare Hana, mentre Waltz si liberava in un quantomai lungo e spropositato bacio della mano di Axelion. E poi andarono via, cavalcando verso l’orizzonte, verso quel nuovo continente che si sarebbe detto distante almeno quanto la stessa luna, in quel momento così chiara e alta nel cielo.
                Era una notte estremamente limpida e serena. Non un alito di vento solcava i capelli o le vesti di coloro che erano rimasti. Infatti, quando ciò accadde d’improvviso, fu quantomai sospetto: quell’impercettibile fruscio non fu di certo un aliseo naturale. Uno degli uomini-ombra di Braff era giunto su quella collina per rendicontare la sua nuova diretta superiora. Lo fece sussurandole all’orecchio, per poi saltellare via aggrappato ai rami degli alberi. Dunque Lady Hana andò verso il re e gli comunicò: «Axelion. La città è in rivolta. I ribelli hanno distrutto i cancelli del Palazzo».
 
 
 
                Gino riprese i sensi. Era al caldo. Pure se continuava ad avvertire una sensazione strana all’avambraccio e soprattutto al fianco, come di dolore sopito, sentiva di stare bene. Si guardò attorno. Era in un’elegante tenda dai toni giallo-rossicci. Molto grande; piena di arazzi e tappeti. Da dietro una piccola scrivania, il giovane distinse chiaramente Lord Braff farglisi incontro. Con tono pacato il Maestro dei Sussurri gli chiese: «Come va, giovanotto?».
                Gino non riuscì a trattenersi dal sorridere: c’era una piccola mosca che vagava nella tenda, e in quel momento stava ronzando proprio attorno al politico della Capitale. La cosa incredibile era che per la seconda volta Gino vedeva Braff in qualche modo legato a una mosca: anche la sera che lo vide per la prima volta, quel giorno dell’assassinio di re Lionel, c’era una mosca: non esattamente attorno a Braff, ma comunque lì vicino. E poi… adesso che il giovane Barron ci stava facendo caso… la seconda volta che aveva visto Braff, prima di arrivare al suo ufficio, aveva notato una lunga fila di scalmanate formichine che dall’uscita del palazzo si dilungava fin quasi dentro l’ufficio: era stata decisamente la più lunga fila di formiche che Gino avesse mai veduto in vita sua. Tre volte su tre aveva visto Lord Braff e aveva visto insetti. Improvvisamente, anche se non sapeva bene per quale ragione, il ghigno sorridente sul suo volto mutò in una smorfia insospettita. Braff parve non accorgersi di questo suo repentino cambio di umore, tanto che gli domandò: «C’è qualcosa che trovi buffo?»
                «Ehm… no, signore» balbettò Gino. E Braff: «Lo sai che hai probabilmente rischiato la morte? Un gruppo di uomini armati e ben addestrati non sono esattamente il miglior avversario per un giovane della tua età, non trovi?»
                «Sì, signore». A poco a poco Gino ritrovò la lucidità della mente, all’inizio leggermente intorpidita dal risveglio. Si ricordò di Sir Rollo, e di quell’espressione di sorpresa che aveva fatto quando Gino gli aveva detto che c’erano “un sacco di cose” da riferire al Lord Maestro dei Sussurri. Prima che succedesse tutto quello che era successo con i Tyrell, Lord Braff per Gino stava cominciando ad essere il nemico… come poteva ora, tutto d’un tratto, tornare a fidarsi di quel ruffiano? Frattanto “quel ruffiano” tornò a chiedergli: «Cosa stavi facendo nel bel mezzo del deserto? Se non erro ti avevo intimato, insieme a Sir Rollo, di non abbandonare i Tyrell neanche costretto con la forza. Non era forse chiaro questo?»
                «S-signore i-io…»
                «Tu… stavi correndo in aiuto di Rollo, non è così?»
                «Io… ehm… ecco, sì signore»
                «Lui sta bene. Era una cosa che volevi sapere questa, no? Direi che nella stessa sera vi ho salvato entrambi, ragion per cui direi… che la Casa Barron mi è doppiamente debitrice» e a questo punto si liberò nel suo solito sorriso sornione. Incredulo, Gino domandò: «Rollo… Rollo è vivo?»
                «Sì. Non lo è buona parte del suo seguito, ma… direi che lui personalmente sia ormai fuori pericolo»
                «Lui è vivo…»
                «E la battaglia per la vita del tuo precettore è stata ben più dura di quella per la tua. Di’, figliolo, riconosci per caso questi individui?» e ciò dicendo gli indicò una parte della tenda che Gino non aveva ancora avuto modo di inquadrare. Si trattava di un piccolo mobile, grande appena da poter dar spazio sulla sua superficie a un grosso piatto, sopra il quale si trovavano a loro volta due teste. Una testa di cinghiale, e una di rettile. Il Maestro dei Sussurri lo incalzò: «Intuisco dallo sconcerto sul tuo viso che… li riconosci, e anche piuttosto bene. Che sai dirmi, figliolo, parla!». Gino replicò con un silenzio confuso, e anche questo non sfuggì all’abile politicante di Roccia del Re: «Tu… non vuoi dirmelo. Continui ad avere remore sul fidarti di me. Sei saggio: maledettamente saggio. Devo riconoscerlo, Gino di Casa Barron: non me l’aspettavo. Non a questi livelli almeno. Tuttavia… anche il tuo lato più sospettoso dovrà ammettere che… ho salvato Rollo. E ho ucciso i mostri che stavano attentando alla sua vita. Se non vuoi fidarti in toto, almeno scegli la via del compromesso: sei abbastanzao saggio da capire… che è questa la tua unica alternativa al momento»
                «Se io dicessi, Lord Braff, che quei due mostri erano al servizio dei Lord Shane e Lorthan Tyrell… voi sapreste dirmi per quale ragione i Tyrell dovrebbero attaccare il più fedele servo dei loro storici alleati Barron?»
                «Direi che sei rimasto indietro. I Tyrell, come tutte le famiglie dell’intero Regno Unificato, non agiscono affatto per lealtà: mai. Agiscono per interesse. E perciò sono disposti anche a mettere in discussione un’amicizia vecchia di qualche secolo, pur di continuare ad essere i timonieri dell’imbarcazione. È una lezione che ho imparato da lunghissimo tempo: Lannister, Tyrell, Bolton, Worchester, Applegate, Panecha… non ci si può fidare di coloro che si definiscono “famiglia”, neanche di quelli che si definiscono “amici” o “alleati”. Di una e una sola persona ci si può fidare sulla faccia di questo bieco mondo, Sir Gino della Casa Barron: se stessi. I fratelli Tyrell hanno ucciso il loro padre, credi che avrebbero qualche dubbio anche solo vago di far fuori te e tutta la tua famiglia se i loro interessi venissero a scontrarsi con i vostri?»
                «E che cosa è accaduto per l’esattezza da mettere in discussione l’amicizia tra i Tyrell e i Barron?»
                «Questioni domestiche. Per una serie di piccole ragioni, Lorthan ha deciso che non vuole più tuo padre a capo della dodecapoli presso il delta del fiume Mander. Lo trova troppo indipendente. Vuole la famiglia Wale al suo posto». Quel cognome ricordò a Gino qualcos’altro, oltre che un noto nome di famiglia delle sue zone, e un bambino in particolare con cui aveva giocato negli anni della sua fanciullezza. Gli ricordò il momento, di un passato molto meno remoto, in cui Lorthan aveva urlato contro Shane dicendogli che si era stufato dei Barron, poco dopo (o poco prima) aver ucciso quel ragazzetto, del gruppo di Rollo, proprio davanti agli occhi increduli del rampollo dei Barron. Dunque, Gino concluse che Braff aveva ragione su tutti i fronti: non si fidava completamente di lui, e contava di liberarsi di quell’ingombrante amicizia un giorno. Ma adesso non era il momento: adesso doveva dire a Braff quello che voleva sapere. Di sua iniziativa, fece: «Quei mostri frequentano la Reggia dei Girasoli da prima che ci arrivassi io: li ho trovati già là. Non c’era praticamente nessuno con Shane, a parte i domestici, quei due mostri e…»
                «E?»
                «Un’altra creatura. Di aspetto altrettanto sgradevole, ma diverso. Avanzava oscillando, vestita sempre di nero. Una grossa corona nera su di un capo, il cui volto… il cui volto pareva quello di una maschera di carne, ancora immobilizzata in una disperata espressione di terrore. Cosa diavolo sta succedendo a Dorne, Lord Braff?». Anche il volto del Maestro dei Sussurri parse a Gino comunicare una certa espressione di inquietudine. Perfino il grande Lord Braff, forse la più abile delle spie di tutti i tempi, seconda solo al mitologico Lord Varys l’eunuco, non aveva più la situazione sotto controllo. Il politico disse soltanto: «È giunto il momento, allora…»
                «Il momento di cosa?»
                «Kellan!» ordinò repentino Braff. E, ancor più repentino, il più vicino tra i suoi uomini-ombra si manifestò alla sua presenza. C’era qualcosa di strano anche in Braff: Gino ne era sicuro. Quegli uomini non potevano essere umani: Kellan arrivò da… da… Gino nemmeno si rese conto da quale parte della tenda fosse arrivato: dal tetto, da sotto il giaciglio, da dietro un arazzo, da dentro la cassapanca? Come aveva fatto a correre così in fretta da sfuggire completamente allo sguardo di Gino, per quanto appena sveglio e convalescente. «Signore!» fece Kellan a Braff, e Braff a Kellan: «Vestite di nero il giovane Barron: camuffatelo come uno di voi. E, quando si sarà completamente ripreso, insegnategli anche qualche trucchetto, onde evitare che, irruento per com’è, si trovi a che fare nuovamente con un gruppo di uomini tutti più cattivi di lui»
                «Signore: dobbiamo avviarlo all’addestramento?»
                «Assolutamente no. Ho detto solo qualche trucchetto: sarai in grado, giusto?»
                «Sissignore, certo signore»
                «Bene»
                «Lord Braff!». Braff stava per lasciarlo lì con Kellan, e Gino lo aveva intuito: ma il politico non gli aveva ancora risposto, e lui pretendeva che lo facesse. Dunque ripeté: «Lord Braff! È giunto il momento di cosa?»
                «Sono stato mandato qui da re Axelion, figliolo» gli rispose quello «Al fine di parlare con il Maestro del Conio e capire per quale ragione abbia non solo lasciato la Capitale, ma anche – e peggio – interrotto i rifornimenti di grano da Dorne e da Altogiardino. Capirlo con mezzi leciti o illeciti. Ed è giunto il momento di mettermi in marcia, adesso». Gli diede le spalle, arrivò all’uscita della tenda, poi si fermò si voltò di nuovo e sorridendogli concluse: «E ti ho detto di chiamarmi Alexis. O Alex, se ti fa piacere: sarebbe un privilegio, non molti si rivolgono a me in questo modo»
                «Alex!»
                «Sì? Cosa c’è ancora?»
                «Io… io so per certo da Shane Tyrell che si prepara una guerra. Loro… lui e Lorthan avranno presto un esercito di quei mostri. Abbastanza grande da scatenare un conflitto con il Regno». Braff non disse altro; lasciò semplicemente la tenda con passo sicuro. Mentre Gino rimase lì con Kellan, col fianco e il braccio ancora intirizziti ma dolenti, mentre dentro di sé un dubbio continuò a dilaniarlo: aveva o non aveva fatto la scelta giusta dicendo quello che aveva appena detto?
 
 
 
                «Senti: era necessario, stupido vecchio, lo vuoi capire?!» si irritò Constant. Ultimamente la sola presenza di Septimus lo irritava: faceva sempre gli stessi discorsi, discorsi su futilità a dir poco assurde. Il Primo Cavaliere si chiedeva come diamine avesse fatto quell’idiota ad arrivare ai vertici così alti della politica della Capitale: sarà anche stato un abile Gran Maestro, ma certo questo non gli sarebbe mai bastato, non a Roccia del Re. Non potè che concludere semplicemente che la vecchiaia aveva reso stupido un uomo anziano che da giovane doveva esser stato completamente differente. E adesso non restava più quasi niente di quell’uomo al vecchio Septimus: solo il ricordo di come fare il suo lavoro, sempre alla stessa maniera e senza dar credito a qualsivoglia innovazione. Quel ricordo e una serie di inutili lamentele.
                «Quei giovani erano dei validissimi studenti, già pronti non soltanto a incarichi di rilievo nelle mie scuole, ma perfino a conquistare la tanto sudata carica di Maestro»
                «Ci serviva tensione! E più famiglie sono sul lastrico, meglio è per la realizzazione del nostro piano»
                «Il tuo piano, Lord Constant. Avevi promesso più danaro per le scuole, maggiori opportunità per la cultura e la ricerca. E invece da quando hai cominciato a creare tutto questo caos non ho visto questa città fare altro che andare sempre più indietro, sempre più indietro! Io mi chiedo: dov’è che vorrai arrivare, con i tuoi sotterfugi e le tue manipolazioni? Comunque di una cosa sono certo: io non sono più disposto a prender parte a questa messinscena!». Il vecchio era fuori di sé: arrivò perfino a battere il pugno sulla sua rifinitissima scrivania con parte piana in vetro, oltre che struttura in legno di pioppo. Il Primo Cavaliere lo guardò con odio: era diventato parecchio ingombrante, l’amico. Si chiese se fosse il caso di ucciderlo adesso o in un secondo momento. Concluse che era meglio in un secondo momento: andava di fretta…
                Il Gran Maestro era venuto a lamentarsi da lui per quella questione del licenziamento dei suoi adepti e probabili amanti proprio nel momento in cui Constant stava organizzando la propria fuga dalla Capitale. Aveva già fatto le valigie e organizzato una carrozza che lo attendeva, mentre, passato in ufficio, stava raccogliendo le ultime carte da portarsi via, e dando fuoco a tutto quello che invece non gli era utile e anzi doveva sparire. Lo vedeva, il vecchio, che lui era completamente indirizzato a far altro e praticamente neanche gli prestava attenzione, eppure continuava ad insistere come se niente fosse. Con i poveri della città in rivolta, un piano che sostanzialmente non poteva andare avanti senza che Constant fosse fuori delle mura della città, e quei dannati uomini-ombra di Braff sempre pronti a intercettare ogni suo movimento anche minimo, Septimus pretendeva di parlare dei suoi studenti licenziati! Constant aveva dovuto cogliere l’occasione al volo, e organizzare tutto sostanzialmente in pochi minuti: le sue spie (poche rispetto a quelle di Braff, ma assolutamente buone per quanto lo riguardava) gli avevano riferito che quella sera le torme popolari erano particolarmente numerose e attive su più fronti nelle aree di fasto della città. Questo significava che assai probabilmente molti, moltissimi degli schiavi del Maestro dei Sussurri erano distratti da altre cose: certo non avrebbero mai avuto l’inavvedutezza di lasciarlo completamente incustodito, ma sarebbero stati pochi, abbastanza per Constant da rischiare un eventuale sconto tra loro e i suoi uomini. Non era affatto certo che tutto andasse alla perfezione, ma era da mesi che praticamente non riusciva più neanche a varcare le mura della città, senza che in qualche modo gli fosse impedito: concluse dunque che era meglio rischiare il tutto per tutto.
                Quindi il Primo Cavaliere del re chiuse il piccolo baule che aveva riempito con il materiale importante raccolto nel suo ufficio e, con uno schiocco delle dita appiccò il fuoco sulla catasta di carte che aveva ammontato sulla scrivania. Fu allora che quell’idiota di Septimus gli domandò: «Constant: ma che stai facendo?! Tene vai?»
                «Sì, vecchio mio. E dovresti anche tu!». Visto che gli bloccava la porta, lo spinse e, baule sotto braccio, s’incamminò verso le scale. Quello gli arrancò dietro continuando a farfugliare sebbene Constant avesse smesso completamente di ascoltarlo. Giunto tra il primo piano e il pianterreno, un brutto presentimento colse il Lord Primo Cavaliere: cominciò a udire le urla e il clangore che parevano appartenere a uno scontro. Quando aprì la porta che dava sull’atrio del suo palazzo, vide quello che non avrebbe mai voluto vedere: i suoi uomini, una decina, armati di tutto punto, che si scontrvano con una torma indistinta di uomini e donne della plebaglia, armati di pietre, ma decisamente assai più numerosi. La carrozza era stata rivoltata; e mancava persino uno dei cavalli! Venne dunque Lewis, uno dei suoi, insanguinato, sudato, esasperato, e ringhiò: «Signore: non c’è via d’uscita da questa parte! Il palazzo ha accessi segreti?». Anche Septimus rivolse il suo sguardo agitato a Constant, che rispose: «“Segreti” no. C’è un’uscita posteriore, ma se hanno circondato il palazzo trovo difficile che la situazione lì sia migliore»
                «Poco importa!» decise Lewis «Dobbiamo tentare!». Tolse di forza altri due degli uomini di Constant dal bel mezzo della battaglia e li spinse verso il suo signore e il Maestro delle Scuole. Dopodiché si chiuse la porta alle spalle e proclamò: «Andiamo!».
                Mentre faceva strada per l’uscita posteriore, il Primo Cavaliere cominciò a riflettere su come avrebbe potuto liberarsi da quella situazione: lui aveva poteri ben più devastanti delle spade dei suoi sottoposti e sarebbe riuscito a farsi strada tra dieci uomini, pure tra venti: ma la magia non era qualcosa di infinito che scorreva eternamente dentro il corpo di un mante come il respiro! Essa aveva un costo: affaticava l’uomo che se ne serviva e dunque… se la folla all’uscita posteriore fosse stata quanta quella presso il cortile, Constant non sarebbe comunque stato in grado di liberarsi. Tutto dipendeva dal numero della gente arrabiata fuori da quella maledetta porta secondaria,e purtroppo per lui non si trattava di un elemento che potesse determinare personalmente.
                Le già precarie speranze gli svanirono ancor prima di nascere, quando fu a pochi piedi dalla porta: c’era esattamente lo stesso rumore che aveva udito prima di aprire quella principale. La folla uccise Lewis, mentre decise di tratten ere gli altri due insieme al Primo Cavaliere e al Gran Maestro. Giunse un capofila, uno che aveva l’aria – differentemente da tutti gli altri astanti – di essere in grado di pronunciare un paio di parole sensate, e cominciò ad arringare: «Signori! Guardate cosa abbiamo pescato in questa benedetta notte della nostra fiera rivolta! Due pesci molto grossi e gustosi! Non è vero?» risa pacchiane ed esagerate accompagnarono questo momento del discorso del capofila «Il Lord Primo Cavaliere! Che sovrintende all’organizzazione per la sicurezza del re, e della sua città! Non c’è che dire: ha fatto proprio un bel lavoro stanotte: non è vero?» altre risate «E… il Lord Gran Maestro! Sapete, gente, per tutta la vita ho desiderato essere un uomo di cultura: dico davvero!» ancora altre risate, grassissime «Io ho sempre rubato libri, oltre che pane, per campare… ma certo ho sempre preferito essere morto di fame e ignorante, che farmelo mettere al culo da questo vecchio degenerato: che ne dite? Ahahah!». Gli diede un calcio, forte e lo costrinse ginocchioni a terra. Ma suo monologo non era ancora finito: «Fosse almeno uno dei suoi bei giovanetti! Ahahah. Ma poi: come ci riesce, secondo voi? Non saranno tutte cose rinsecchite lì sotto?». Lo spettacolo cominciava a divenire seriamente disturbante: non più solo il capofila si era permesso di alzare le mani sul nobiluomo, ora anche qualcun altro della folla si era preso di coraggio concedendosi qualche calcio o un pugno. Molti sputavano: qualcuno arrivò anche su Constant, anche se era Septimus il principale bersaglio del momento. «Magari riesce a farselo venire duro con un paio dei suoi intrugli! Una “pozione del risveglio” per così dire, se capite cosa intendo!».
                Il Primo Cavaliere decise di chiudere gli occhi: ascoltò la voce di quel maiale di Septimus pian piano affievolirsi nel domandare ripetutamente la pietà. Non meriteva di morire in quel modo atroce. Lui stesso era stato sul punto di farlo fuori pochi minuti prima: ma sarebbe stata sicuramente una fine meno dolorsa, e meno degradante. Tuttavia, con tutto il rispetto, pensò poco a Septimus: in quel momento pensare al suo vecchio e scomodo alleato non aveva più alcuna utilità. Rifletté invece su quello che poteva fare: non c’era molto ma… lui era un uomo dalle mille risorse e… gli balenò un’idea che forse poteva funzionare…
                «Sta nevicando!» fece sorpreso il capofila, interrompendo qualsiasi altra fesseria che stesse per dire. Era vero: Constant aveva abbassato la temperatura in modo da far nevicare. Era sceso un freddo improvviso e inaudito per quella stagione: tutto frutto delle abilità che aveva appreso nell’estremo nord, naturalmente. Questo già sarebbe stato abbastanza sfiancante, ma siccome lì si trattava della sua vita, e non più della sua fuga da Roccia del Re, aveva deciso di considerare ogni suo sforzo al fine di ottenere quel primo ed essenziale obiettivo senza il quale il secondo neanche avrebbe potuto porsi: sfuggire da quell’orda di morti di fame mentecatti. Dunque decise di usare una seconda abilità che mai aveva adoperato, perché solo l’idea lo spaventava: significava stancarlo fisicamente fin quasi allo sfinimento. Ma lo fece: entrò nella testa dei suoi due uomini, con un incantesimo che li intorpidisse leggermente. Avrebbero continuato ad essere coscienti di loro stessi e della situazione, solo si sarebbero posti poche domande sul chi gli stesse parlando e come diavolo ci stesse riuscendo: una specie di ubriacatura insomma. Li convinse a sguainare le spade e tentare il contrattacco non appena avessere percepito il suo segnale. Tutto ciò li avrebbe portati a morte certa, ma lui non glielo fece notare questo: anzi gli disse che il piano sarebbe riuscito alla perfezione se semplicemente si fossero attenuati ad esso. In realtà, quei due poveracci erano niente di più e niente di meno che la sua esca.
                Servendosi di un ultimo doloroso sforzo, Constant liberò dal palmo delle proprie mani una fitta nebbia costituita da polvere di ghiaccio. Riuscendo a vedere ben poco, non furono molti quelli che ne capirono qualcosa: ma i due soldati della guardia del Primo Cavalieri, riuscirono a servirsi del momento di distrazione improvvisa pe strattonare chi li stva trattenendo e riuscire a liberarsi. Constant fece lo stesso, anche se non senza difficicoltà. Mentre i due sguainavano le lunghe e pesanti spade, lui tirava fuori il pugnaletto tagliacarte che portava sempre con sé e lo ficcava circa tre volte nel petto del suo più vicino aggressore. Poi, mentre la folla si concentrava sui suoi ben più rumorosi e pericolosi sottoposti, lui si approfittava della situazione sgattaiolando in mezzo alla plebe.
                Non gli risultò affatto semplice, spossato per com’era, correre via e poi evitare tutti gli altri punti della città in cui la folla si era raccolta: il mercato, il palazzo reale, il palazzo di Braff, per dirne solo qualcuno. Ma con la massima cura ed attenzione raggiunse una delle brecce sulle mura della città: ce n’erano un sacco, forse sconosciute a un aggressore esterno o a un capopopolo qualsiasi, ma ben note a uno che aveva fatto politica per diversi decenni dentro quella città. Varcata la breccia, Constant riuscì a correre per ancora un altro po’ attraverso le campagne. Infine si accasciò sotto un albero e perse i sensi.

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Capitolo 13
*** Prigionieri ***


Capitolo 13
PRIGIONIERI
 
 
                Per un lungo periodo di tempo, proseguendo quella inutile marcia di nuovo verso nord (mentre lei era diretta a sud), Anylice si tormentò chiedendosi se il ragazzo che stava seguendo fosse o no un Piromante. Si sentiva molto libera sia nei movimenti che nei pensieri, come se la morsa che Requiem costantemente stringeva su di lei si fosse temporaneamente estinta. Questo era più impossibile che improbabile, visto che l’unica ragione che lei poteva immaginare per cui il malefico influsso dell’oscuro drago di ghiaccio potesse in qualche maniera venire intaccato, era l’esistenza in quei paraggi di qualcuno o qualcosa il cui potere magico andasse ben al di là di quello di Requiem. Il che, solo a pensarci, la faceva ridere. Eppure era come se l’energia di Requiem dentro di lei e attorno a lei fosse sopita. Anylice aveva avuto modo di seguire quel Daniel – così si era presentato quella sottospecie di Piromante – senza che Requiem non solo glielo impedisse, ma neanche gli comunicasse alcunché dentro la testa (cosa che sapeva ben fare e spesso faceva); questo poteva significare esclusivamente due cose: o il drago era a conoscenza del suo cambio di rotta e favorevole ad esso, o il drago non sapeva…
                Aveva dovuto inventare una stupidata abnorme per motivare il suo unirsi al duo di uomini del sud (si capiva che erano del sud, ma sud profondo: mica Biancavilla!). Gli aveva detto che era fuggita dal proprio villaggio per ragioni che il solo ricordarle gli spezzava la voce in gola, e quindi preferiva non parlarne… e gli aveva detto che, essendo sostanzialmente senza meta, avrebbe seguito loro cercando di rendersi utile almeno fino a quando non si sarebbe liberata del debito di vita che aveva nei confronti del giovane. In verità Anylice voleva sapere. Indagare sulla ragione che portava improvvisamente quell’antica e rara magia a una nuova emersione, andandosi a incanalare su quell’anonimo ragazzetto del sud. Su quali fossero davvero le sue potenzialità, oltre che la sua identità e la sua storia. Se lui potesse in qualche modo… esserle utile.
                Lei non aveva ancora scoperto le sue carte: non aveva ancora fatto esplicitamente nessuna domanda in merito alle lingue di fuoco che aveva visto manifestarsi dai palmi della mano di Daniel, e questo forse era un po’ sospetto: chiunque che non conoscesse niente di magia (e quindi davvero chiunque in questo mondo) non avrebbe resistito dal domandare luci su ciò che aveva osservato. E il fatto che lei non lo facesse doveva risultare quantomai sospetto. Era intenzionata a farlo al più presto, e dunque lo fece…
                «Posso chiederti perché siamo diretti a nord?» disse allora «Non c’è nulla lì. Solo ghiaccio»
                «Tu che dici, Cordell? Dovremmo dirglielo?»
                «Signore: voi sarete il Primo Cavaliere del re, incarico di grande prestigio e responsabilità. Cominciate a prendere da ora le vostre decisioni: questo preparerà il vostro spirito»
                «È un modo carino per dire che sono solo affaracci miei, non è vero?»
                «Sì, signore, giustappunto: sono solo affaracci vostri». Dunque Daniel cominciò a narrare a Anylice una serie di storie che lei avrebbe interpretato come un’accozzaglia di mendacità, se il giovane Piromante non le si fosse rivolto con un’aria così disinvolta e sincera che tutto avrebbe fatto pensare ad Anylice, meno che fosse mendace. Daniel era a quanto pareva il fratello del re: non un re di provincia, proprio il re dell’intero continente. Il re dei re. E, sempre stando al suo racconto, era di diritto il Lord Primo Cavaliere, una specie di secondo in comando, carica alla quale però non aveva potuto effettivamente insediarsi, visto che si trovava lì a nord. Era venuto a nord – e da qui la cosa cominciava a farsi interessante per lei – per ricevere un addestramento “speciale” che solo i Primi Cavalieri del re ricevevano secondo una tradizione vecchia di secoli. E quei poteri erano quelli da Piromante, e chi li insegnava… era il drago Nidhogg. Un drago! Un drago vivente, oltre a quello che da troppo tempo ormai era il suo aguzzino…
                Questo rese Anylice molto più che lieta: la rese raggiante. Quindi non esisteva solo il giovane apprendista di fuoco, diretto a nord per eseguire un ordine. Esisteva anche un anziano apprendista, talmente ancestrale da poter, forse, magari, rivaleggiare con Requiem in forza e potere. Non appena ascoltò da Daniel le parole che gli descrivevano la maestosità, la potenza e la saggezza del drago Nidhogg, e soprattutto la sua indiscutibile esistenza, Anylice fu lì lì per commuoversi. Improvvisamente sentiva di aver ritrovato dentro di sé un sentimento che era come se ormai fosse sepolto da montagne e montagne di gelida neve: la speranza. Ed era stato proprio quel ragazzo, quel Daniel futuro Primo Cavaliere del re, a restituirgliela. Per un attimo, mentre lo ascoltava farfugliare roba sui suoi luoghi di origine, e poi su una certa Cowain dove lo attendevano il sole, il mare e tante altre cose, Anylice pensò perfino che quel Daniel avesse qualcosa nel suo modo di essere che le ricordava il suo passato. Un passato remoto in cui la magia era solo uno strumento, non una tortura. Una utile e fedele amica, non una fredda catena. Chi era quel Daniel di Cowain? Era forse suo padre, o suo fratello, tornato in vita con chissà quale incantesimo? Era un suo amico, se Anylice ne avesse avuti ai tempi in cui era fatta di carne, impastata con sangue, ossa e pelle? Buona parte della sua vecchia vita lei neanche se la ricordava più… ma ora Daniel gli apriva degli orizzonti nuovi, che però erano anche remotamente vecchi: come se fossero già esistiti una volta, tanto tempo prima. In un luogo che era in parte nel mondo esterno, e in parte dentro di lei…
                «Molto bene» concluse lei «Siete stati sinceri con me. È il momento che io lo sia con voi». Quando disse queste parole, sia Daniel che Cordell fermarono il loro passo. Si rigirarono verso di lei: sguardi a metà tra la sorpresa e la preoccupazione sorgevano dai loro occhi. Anylice fece quello che sapeva fare meglio: poggiò la propria mano sul ramo di un arbusto lì appresso, e lo ghiacciò tutto fino alla punta di ogni singola foglia. «Le cose non cambiano» aggiunse «Ti considererò ancora mio creditore»
                «Io non ti ho salvato la vita! Non ha alcun senso» replicò il principe Daniel, con rabbia «Tu avresti potuto cavartela benissimo da sola! Che cosa sei? Una serva di Requiem?!»
                «Non in questo momento» Anylice vide lentamente Sir Cordell avvicinare la mano all’elsa della propria spada «In questo momento ti devo un favore. Ti accompagnerò fino all’Ultima Porta e, se fosse il caso, ti salverò la vita. Ma tu farai una cosa per me, una volta attraversata quella soglia»
                «È un ricatto»
                «Non lo è. È la richiesta di un favore» detto ciò Anylice non si trattenne: siccome vide che fredde lacrime di cristallo stavano per rigare le sue guance, chinò il capo e si inginocchiò dinanzi al Primo Cavaliere. Concluse, solenne: «Una disperata richiesta»
                «Mi hai già mentito una volta: chi mi dice che tu non lo stia facendo di nuovo?»
                «Mio signore… io vi prego…». Ci fu un prolungato silenzio in seguito al quale Daniel acconsentì di ascoltare la richiesta. Anylice disse: «Dovete fare tutto il possibile per giungere il Forte Innevato. E lì fare tutto il possibile per uccidere Requiem»
                «Beh, Anylice, tu caschi a fagiolo. Perché è proprio lì che io sono diretto».
 
 
 
                Marcus l’Andalo, a cavallo della chimera Shirley, giunse alle porte di nord-est della città di Marrah Cankhubhia dopo un viaggio che era stato lungo sì e no meno di mezza giornata. Diamine se erano veloci quelle maledette chimere! Beh a dirla tutta, Marcus non sapeva se fossero tutte veloci alla stessa maniera, o se Shirley fosse speciale e addirittura più rapida delle sue sorelle, ma… il fatto era che il viaggio non gli era pesato neanche un poco: era stato comodo, e aveva visto un numero spropositato di cose interessanti dall’alto dei cieli dell’Essos. La cosa che lo aveva un po’ deluso era che il panorama non era affatto cambiato, una volta atterrato in quella nuova città. Né il territorio, e neanche la temperatura, erano granché differenti da quelli della Valle: c’era il solito clima torrido, e la solita ambientazione brulla, con sterpaglie, rocce, e le dune del deserto all’orizzonte. Era passato da un profondo nord a un profondo sud, eppure per l’Andalo era come se neanche si fosse messo in groppa a Shirley e avesse volato per diverse ore.
                Ad attenderlo lì c’era una delegazione di quattro persone, con a capo il Lord Tribuno Popolare dell’Est, Garhel Sawela. Alto, spalle larghe, di mezza età e con la barba incolta, a Marcus – di primo acchito – quel Sawela gli diede l’impressione di un guerriero, più che di un politico. Si ricordò di lui, alla Capitale, qualche anno prima, ma era piuttosto sicuro di non avergli mai rivolto la parola. Svolazzando in un abito color ocra, il Tribuno Popolare tese la mano al Cavaliere della Chimera, ma non gli sorrise, come Marcus immaginava avrebbe fatto qualsiasi altro politico. Anzi, il tizio pareva parecchio corrucciato. «Principe Marcus!» salutò Garhel stringendogli la mano con decisione. Marcus ricambiò: «Lord Sawela»
                «Come funziona questa cosa, mio signore?» fece Garhel.
                «Cosa?» chiese Marcus.
                «La chimera» rispose ancora il Tribuno «Non potete mica portarla a spasso per la città-mercato»
                «Ah, no: certamente» capì dunque Marcus e mostrò al Lord il fischietto che, tra le altre cose, aveva ricevuto con la nomina a Cavaliere: come tutti i Cavalieri della Chimera, lo portava al collo. Emetteva un suono fievole e continuo, poca cosa per un orecchio umano, ma segnale inequivocabile per una chimera addestrata. Ogni chimera aveva il suo e si riconosceva solo nel Cavaliere che emetteva quel suono. Marcus spiegò: «Da questo momento, lei sa di essere libera. Mi raggiungerà solo se chiamata»
                «Libera?» fece Sawela «Non andrà a sfamarsi del gregge di qualche povero pastore della zona?»
                «No, signore: sono creature altamente addestrate. Non nuocono a nessun essere umano o creatura che intuiscono legata a un essere umano: sono estremamente intelligenti. Se si ciberà, si ciberà di animali selvatici»
                «Molto bene, principe. Da questa parte» e dicendo ciò il politico accompagnò Marcus attraverso la porta della città. Marrah Cankhubhia era davvero impressionante. L’Andalo sapeva – tutti lo sapevano – che era organizzata come un gigantesco mercato, ma certo una cosa era stata immaginarsela nella sua testa fino a quel momento, e una cosa era vederla. Marcus, Sawela, e gli altri della delegazione dell’est, camminarono per un bel po’ per le “vie” di quel micromondo, ma il principe terzo in linea di successione al trono non vide mai delle vere e proprie strade. Vide solo bancarelle e tendoni ovunque. E ovunque gente – vestita con i tipici lunghi abiti locali, un po’ come quello dello stesso Lord Sawela – che discuteva, contrattava, litigava, tutto a voce altissima. C’era gente che correva da un capo all’altro di un isolato per portare quell’oggetto a quel mercante, piuttosto che per andare a riferire quell’altra cosa a quell’altro acquirente: Marcus ne vide qualcosa tipo otto di tipi del genere. E un’altra peculiarità davvero caratteristica, era la gente che contrattava perfino dalle finestre dei piani più alti delle case (ma nessuna delle abitazioni raggiungeva il terzo piano): una corpulenta signora che si faceva mettere un sacchetto di monete in un cestello, e poi con lo stesso cestello calava una sacca con del pesce fresco; un tizio in là con l’età che urlava al ragazzo di sotto di lanciarglieli quei frutti, che tanto li avrebbe presi al volo…
                E poi gli animali! Per la gran parte, c’erano dei ciuchi: una miriade di ciuchi! Marcus ne vide almeno uno ogni cinque degli esseri umani che animavano il mercato. Poi qualche cavallo, pochi, e finché ci si fosse fermati a questo tutto sarebbe stato relativamente normale… Ma a un certo punto, nel bel mezzo di una piazzola, l’Andalo non poté non notare un vecchietto pelle e ossa che suonava una specie di flauto, davanti a un serpente in un cestello il quale pareva oscillare sulle note della sinfonia. Sawela dovette tornare a prendere Marcus con la forza, visto che il principe si era praticamente imbambolato davanti a quella esotica visione. E infine, per la prima volta in vita sua, Marcus vide anche una di quelle famose bestie dell’est dalle dimensioni colossali e il naso estremamente lungo con le quali, si diceva, che Justus Panecha avesse combattuto e vinto quelle guerre servili a partire dalle quali aveva definitivamente interrotto l’afflusso di uomini dall’est verso l’ovest, e si era garantito un posto fisso come ultimo membro con poteri effettivi del Concilio Ristretto del re. Lord Panecha ce l’aveva pure nello stemma della Famiglia quell’incredibile animale.
                E Marcus ne vide uno! Con l’aria stanca e il dorso carico di merce, seguiva oscillando lentamente, il mercante vestito di verde che, tutto impettito, procedeva lungo la direzione opposta a quella dell’Andalo, trascinandolo – o forse sarebbe meglio dire “dandogli l’impressione di trascinarlo” – con una lunga corda di un materiale che Marcus avrebbe detto simile al cuoio.
                Non c’era che dire: il Cavaliere della Chimera era decisamente entusiasmato dalla visita alla città-mercato, ma dopo un po’ di tempo si rese conto che non aveva idea di dove fosse diretto. Quindi domandò a Lord Garhel: «Mylord, sono particolarmente allietato da questa visita per le bancarelle di Marrah Cankhubhia ma… ecco, abbiamo anche una meta o semplicemente approfondiremo il discorso sulla missione una volta ultimato il… giro turistico?»
                «Missione? Giovanotto: non è con me che discorrerete di quello per cui siete stato convocato. È Lord Panecha in persona che ha inviato la richiesta alla Valle del Leone, su suggerimento del governo centrale. Ed è con Lord Panecha che voi parlerete»
                «Lord Panecha? Si trova qui nell’est?»
                «Sì: i rivolgimenti presso la sua regione lo hanno convinto a lasciare temporaneamente il suo scranno al Concilio Ristretto e tornare qui, ad occuparsene personalmente. La città si sente più sicura, ora che Lord Justus è qui con lei a guidarla. Suo figlio Yerevan è un governatore piuttosto abile: ma non ha nulla a che vedere con il carisma del padre»
                «Mio signore, e voi… che ne pensate di questo figlio del dio infinitamente buono? Vi sarete sicuramente fatto un’idea in proposito…»
                «Io? Figliolo, io ricopro l’incarico che ricopro solo perché la gente dell’est ha bisogno di una propria voce a ovest, voce che da Lord Justus è stata sempre usata, per poi venire puntualmente ignorata. Perciò te lo dirò esplicitamente: da uomo del popolo, non da politico…» si voltò di scatto e piazzò velocemente qualcosa di puntuto al petto di Marcus. L’Andalo ne fu ovviamente sorpreso e sconvolto: tutto si sarebbe aspettato meno che quello e anche se da quando aveva ricevuto un certo addestramento come cavaliere i suoi riflessi erano vistosamente migliorati, non si accorse minimamente del gesto di Garhel Sawela fin quando non sentì la sensazione di lieve dolore al petto.
                Ma non era un’arma, quella che il Tribuno Popolare aveva in pugno: era una spilla a forma di serpente, che stava sistemando sul petto del giovane dell’occidente. Il politico non molto “politico” dunque concluse: «Ufficialmente, da uomo del Regno Unificato, io scoraggio qualsiasi pratica che in qualche modo osi solo tentare di sovvertire l’ordine costituito, anche solo in parte, anche in una regione periferica come questa. Tuttavia, se alla mia insaputa, un uomo brillante, carismatico, o forse magari anche pazzo, abbia l’intenzione di rispondere a quelle esigenze vitali che da troppo tempo il Regno che io rappresento, o lo stesso tanto amato Lord Justus, ignora, beh allora: amen. Io non sono più un ribelle, però – per tutte le sabbie del deserto – non intendo rinnegare quello che sono stato o ho fatto nel mio passato. Significherebbe rinnegare me stesso. Lo faresti, tu? Marcus di Casa Lannister?»
                «Io…» francamente Marcus non sapeva bene cosa rispondere, ma riuscì comunque a farfugliare un poco convinto: «Io… no! C-certo che non lo farei!»
                «Bene. Con questa spilla al petto puoi andare dovunque dentro il palazzo. Devi solo riuscire ad orientarti chiedendo informazioni. Buona fortuna!» gli tese la mano. Stringendogliela, Marcus rispose: «Grazie», accorgendosi solo in quel momento di aver raggiunto forse l’unico palazzo di quella città circondato da enormi cancelli e la cui altezza superava i due piani.
 
 
 
                L’Ultima Porta consisteva in una piccola, piccolissima fortificazione, arroccata su un punto della strada principale verso nord dal quale difficilmente si poteva evitare di passare, prendendo sentieri scoscesi col rischio di scivolare giù per qualche pendio e dunque avventurandosi in un ultimo, sfortunato, volo verso l’infinito. Quest’ultima alternativa Daniel, Cordell e Anylice avrebbero anche potuto tentarla, ma avevano preferito evitare visto che all’Ultima Porta si congiungeva anche la possibilità di soddisfare un’esigenza manifestata da Cordell, oltre che la certezza di continuare ad avere salva la vita almeno per un altro po’…
                Da ormai troppo tempo Lady Hana della Casa Lannister inviava missive a Cordell, per nome del re degli Andali e dei Primi Uomini, affinché l’aggiornasse sulla situazione del fratello Daniel, disperso da qualche parte presso le alture del Monte di Cabuk. E per troppo tempo Sir Cordell si era visto costretto a rispondere che nulla sapeva. Adesso Cordell voleva rispondere: dire a quei poveracci di Roccia del Re, a cui tanto a cuore stava la sorte del principe di Cowain, che era vivo, che stava bene, che l’addestramento proseguiva, che era diretto a nord proprio per consolidare le già potenti arti in cui il giovane futuro Primo Cavaliere si stava temprando. Era giusto che venisse fatto, e anche Daniel lo voleva. Ma Cordell l’aveva perfino presa come una specie di “missione di principio personale”. Così, per farlo star zitto, oltre che perché anche lui lo desiderava, Daniel assecondò il volere del suo anziano servo e con lui e Anylice si diresse verso nord: alla roccaforte dell’Ultima Porta avrebbero trovato il mezzo di assicurare quella operazione.
                Originariamente istituita, in una leggendaria era degli dèi e degli eroi, per stabilire un qualche confine tra gli uomini, nei millenni più recenti essa era stata adoperata dai Lord dell’estremo nord per in qualche modo sorvegliare il proprio limite, sorvegliarlo da chi volesse uscirne, ma un po’ più particolarmente da chi volesse entrarne. Ma anche queste erano storie molto antiche: in realtà non c’erano più da tempo minacce che provenissero da nord, e quindi Lord Applegate – stando a quanto Cordell aveva avuto modo di comprendere nel suo lungo periodo di ospite presso varie taverne in quei territori – aveva ridotto l’Ultima Porta a una sorta di capanno presso il quale ciclicamente far perdere del tempo a un numero stringatissimo dei suoi uomini. Dovevano stare lì, attendere, e nel caso in cui – a distanza di qualche migliaio d’anni – fossero tornati i leggendari Estranei o cose di questo genere, inviare di corsa un messaggio via corvo al loro Lord e poi attendere di morire atrocemente.
                Quello che Sir Cordell voleva fare era usare uno di quei corvi e chiedere a Lord Applegate, sulla carta amico del re come sulla carta lo erano tutti i Lord che potevano vantare un seggio al Concilio Ristretto, di comunicare a sua volta a Roccia del Re quello che il principe Daniel e il suo attendente garbatamente gli domandavano.
                La giovane donna dalla pelle candida, invece, inizialmente si era mostrata contraria alla decisione presa dal principe e dal suo servitore: non devastata e neppure irritata, ma semplicemente giudicava la cosa sconveniente. Diceva che non c’era ragione di farsi notare da sconosciuti, e che lei conosceva benissimo un sentierello che, certo non era come la via maestra, ma che Daniel, che era un Piromante, e Cordell, che era vecchio ma ben addestrato, avrebbero potuto benissimo percorrere, almeno quanto lei…
                Nel corso del tragitto, la ragazza rivelò anche a Daniel l’intera sua storia. Storia commovente quanto incredibile, tanto che con difficoltà il principe di Cowain trovò il modo di crederci appieno, almeno all’inizio. Lei gli raccontò di essere legata allo spirito del drago Requiem e di non poter fisicamente evitare, se comandata, di eseguire un suo ordine. Si trattava di una condizione di schiavitù sostanzialmente, una condizione di schiavitù ben peggiore di qualsiasi altra, visto che il drago poteva violare la mente di quella povera creatura, oltre che il suo corpo. Se Anylice fosse poi una donna umana in tutto e per tutto, questo per Daniel rimase non chiaro, e non ebbe l’audacia di chiederglielo direttamente: certo la sua storia, lasciava intuire che i rapporti con Requiem fossero cominciati in tempi remoti, e certo Daniel non aveva mai veduto nessun umano in vita sua con una sfumatura di pelle così bianca e lucida: neanche il più pallido degli uomini Applegate o Willoughby del nord era di un pallore tanto quanto quello Anylice. Infine c’era la questione del perché in quello specifico momento Anylice avesse ritrovato completamente la propria volontà: a suo dire, la ragazza non aveva deciso di seguire il principe e il cavaliere per ingerenza di Requiem. Lo stava facendo perché lei stessa lo voleva: per una ragione che pure lei sconosceva, e che – sempre stando al suo dire – era talmente rara che mai lei da quand’era in quella condizione servile aveva riscontrato, adesso era libera. Aveva la profonda sensazione che fosse solo una questione temporanea, però era libera. E qui Daniel si sentì in imbarazzo: perché Anylice arrivò perfino a ipotizzarne la ragione, e tale ipotesi conteneva una verità che Daniel, anche se non gli era stato esplicitamente imposto, pensò che fosse il caso di tacere. Ci doveva necessariamente essere nei paraggi una fonte magica talmente influente da riuscire a intorpidire lo stesso potere che Requiem aveva su di lei. Quindi, in poche parole, la magia di un altro drago, o di qualcosa di simile. E Daniel sapeva che c’era visto che proprio quel drago era stato il maestro che lo aveva indirizzato alla volta del nord.
                Su di sé il principe Daniel invece raccontò poco altro. Vero: aveva detto ad Anylice che era il fratello del re del Regno Unificato, e che era a nord per addestrarsi e si era in effetti addestrato nella Piromanzia. Ma chi lo avesse aiutato ad ottenere quei poteri, o come li avessi ottenuti, Daniel non lo menzionò minimamente. Ci fu un momento, quello in cui rivelò ad Anylice che lui per primo si stava dirigendo verso Requiem, che risultò abbastanza complicato cercare di sfumare sul perché, ma bene o male fu in grado di riuscirci. Ritornò a parlare di Cowain, e dello splendido mare che la bagnava, e del caldissimo sole che la baciava. Non fu affatto sicuro che questo non destasse qualche sospetto nella ragazza con i poteri di ghiaccio, ma molto altro non riuscì a trovare, e comunque lei non insistette per ulteriori chiarimenti…
                All’inizio Daniel neanche voleva crederci a tutta quella storia della ragazza schiava dei poteri di Requiem che, guarda caso, lo aveva incontrato alle pendici del Monte Cabuk. C’era dell’inverosimile e del fatale in quel loro incontro. Tuttavia, c’era anche qualcosa in lei che non riusciva a farlo resistere dal crederle. La sua voce, i suoi occhi, il suo stesso modo di esprimersi, lasciavano percepire al giovane principe Lannister un alone di vera tristezza che la circondava: era come se uno strato di sottile ghiaccio la dividesse da tutto il mondo che le stava attorno e, di conseguenza, era come se Anylice fosse… profondamente sola. Ovviamente tutta questa era solo una deduzione implicita di Daniel, e come tale lui sapeva bene che non doveva affatto considerarla come nulla di serio: non si sarebbe fidato di Anylice per cose veramente importanti. Tuttavia non trovava ragioni di alcun tipo per vietarle di seguire lui e Cordell ed eventualmente – stando a quello che lei aveva promesso – salvar loro la vita. Oltretutto, pur se avesse voluto, aveva come la sensazione che non sarebbe stato tanto facile costringere la ragazza ad abbandonare il suo proposito… e tutte queste cose non facevano che confermare a Daniel che stava facendo la cosa giusta: dirigersi a nord, con o senza Anylice al suo seguito.
                Da quando avevano intrapreso quel viaggio, Daniel e Constant si erano riposati per la notte un totale di due volte. E soltanto nell’ultima la ragazza di ghiaccio era stata con loro. Né Daniel né Cordell l’avevano vista addormentarsi: se l’aveva fatto, l’aveva fatto quando anche già loro erano crollati nel sonno più profondo. L’indomani mattina, lei era già sveglia, e dopo una breve colazione, ritornarono a marciare senza soste. Fu quando il sole era ormai alto, e stando a Cordell non mancava molto all’Ultima Porta, che Anylice fece a Daniel: «Principe, una parola»
                «Sì» rispose Daniel, fingendo di voler continuare a marciare, quando in realtà la ragione per cui non voleva fermarsi era che non amava dover guardarla negli occhi: la loro glaciale bellezza, che aveva peraltro un qualcosa di inquietante, lo metteva significativamente a disagio. «Ho preparato questa per te, stanotte» disse la fanciulla. E Daniel: «Che cos’è?»
                «Un diversivo. Quando penserai di essere nelle vicinanze di Requiem: cospargetevene sia tu che il tuo servo. Aumenterà le vostre possibilità di sopravvivere»
                «Sì?» chiese il Lannister abbastanza sfiduciato, visto che la ragazza gli aveva appena dato un piccolo sacchetto con all’interno qualcosa di non troppo dissimile alla fuliggine che si erano lasciati alle spalle presso il fuoco di quella notte. Dunque tornò a chiedere: «E in che modo?»
                «Si tratta di una polvere corredata della mia magia. Lui potrà continuare a sentirvi se farete troppo trambusto, o ad odorarvi. Ma non vi vedrà: e questo vi dà un minimo di vantaggio»
                «Grazie. È un bel pensiero… come ci sei riuscita?»
                «Beh forse ho un rapporto con la mia magia un po’ più antico rispetto a quello che hai tu con la tua». A queste parole Daniel non riuscì a resistere e per pochi attimi poggiò i suoi occhi sulla candida figura della ragazza. Era triste, profondamente triste…
                «L’Ultima Porta!» annunciò dunque Cordell che, come di frequente, si trovava a diversi piedi più avanti della coppia di giovani maghi. Daniel ed Anylice raggiunsero il vecchio dietro a un arbusto. E fu proprio quest’ultimo a proferire parola, anche se sussurrando: «Sono parecchi: non me l’aspettavo». Daniel volse il proprio sguardo oltre il cespuglio: Cordell gli aveva detto che si aspettava un massimo di tre o quattro uomini; ce n’erano invece tre o quattro dozzine. «Questo…» chiese dunque Daniel al suo servitore «Cambia qualcosa?»
                «Potrebbe. Se dovessero avere altre rogne per la testa, magari non troverebbero il tempo o la voglia di prestarci molto ascolto»
                «Ma io sono il Primo Cavaliere designato, secondo in linea di successione al Trono!»
                «Da queste parti non è molto popolare il Trono, principino, o almeno non molto importante: dovreste averlo già ben inculcato questo»
                «E che facciamo?»
                «Se ci fanno storie» disse impulsivamente Anylice «Io li faccio secchi»
                «Signorina» le rispose Cordell «Non so da quale pendice di quale remota valle voi veniate giù, ma che tre uomini anche ben addestrati riescano a sopravvivere a un conflitto con cinquanta…»
                «Non sono cinquanta!» constatò Daniel con ottimismo. E Cordell: «Dobbiamo parlarci»
                «Parliamoci» assentì Anylice «Ma se le cose non andassero come speri, vecchio, io li faccio secchi»
                «E anch’io» la appoggiò Daniel, e Cordell concluse: «Bene! E pure io!», e ciò dicendo l’anziano cavaliere fu il primo dei tre a venir fuori dal cespuglio e puntare al piccolo casolare di legno e ferro.
                Lui, Daniel e Anylice proseguirono lungo quel tragitto con le mani alzate in segno di pace, e almeno una ventina di frecce già caricate puntate contro le loro teste. «Salute a voi!» proclamò l’uomo, una volta giunti abbastanza vicino «Il mio nome è Sir Cordell. E accompagno Daniel di Casa Lannister. Principe di Cowain, Primo Cavaliere del re e secondo in linea di successione al Trono di Spade»
                «Il vostro arrivo non è stato annunciato» fece dunque burberamente il più nero di quegli uomini, tutti ammantati «Sir Come-vi-chiamate…»
                «E come sarebbe stato possibile? Veniamo spostandoci segretamente da un luogo ad un altro ormai da tempo. Ma non è nostra intenzione importunarvi: semmai domandarvi umilmente un favore, per il quale ci sentiremmo debitori»
                «Non hai presentato uno dei vostri, mio Sir…»
                «Ah già. Dite bene! Costei è…»
                «Anylice!» esclamò dunque la ragazza, impettita. L’uomo della guarnigione tornò a domandare: «E di che favore si tratta?»
                «Una missiva!» rispose Cordell «Da inviare via corvo a sud presso il vostro signore, Lord Applegate»
                «Avete anche intenzione di passare oltre la Porta?»
                «Sì»
                «Perché?»
                «Questo non possiamo dirvelo. Ma nulla di preoccupante per voi, né per il vostro territorio, e né tantomeno per il Regno di cui anche voi fate parte e di cui noi siamo rappresentanti»
                «Avvicinatevi. Dobbiamo registrarvi». Queste furono le ultime parole dell’uomo al casolare. Anylice, Daniel e Cordell continuarono a marciare. Tuttavia a un certo punto Daniel riuscì a intuire benissimo qualcosa turbare il volto del suo servitore. Passò poco che Cordell disse piano, solo a loro: «Non sono Applegate»
                «Cosa?» chiese Daniel, e a un cenno del vecchio amico, anche lui ebbe modo di osservare quello che era stato già notato. Non erano ancora vicinissimi, ma lo erano abbastanza da accorgersi del fatto che c’erano degli uomini accasciati, dietro al manipolo verso il quale loro si stavano dirigendo. E sulle vesti di quegli uomini accasciati erano ricamate delle mele; mele che non si trovavano invece da nessuna parte sulle vesti degli uomini del manipolo. Ormai erano arrivati: Cordell colse l’occasione di un’ultima volta in cui l’uomo a capo di quella marmaglia gli fece cenno di farsi ancora più vicino… il vecchio tornò a farlo, ma questa volta con la punta della spada…
                Tolti gli scuri mantelli, fu chiaro che quei tizi appartenevano ai Willoughby: non una rossa mela campeggiava sulle loro cotte, bensì una stella bianca a quattro punte su fondo scuro. Daniel ne abbatté due, tre, quattro, ma quei cani parevano aumentare di numero: doveva esserci ancora qualche contingente nascosto dietro al casolare. Il principe non ebbe il modo di osservare in che condizioni Cordell e Anylice si stessero battendo: la baraonda non gli permetteva una visuale troppo dettagliata. Accadde poi quello che mai si sarebbe aspettato: uno di quei vermi Willoughby, ridacchiando, gli si avvicinò mentre Daniel era in preda a un combattimento contro almeno altri due dei suoi compari e, prendendolo alle spalle, gli cacciò qualcosa di freddo dal colletto giù per il petto. Immediatamente Daniel si sentì completamente intorpidito. Pensò che doveva essere la sensazione che quella poverina di Anylice spesso aveva dovuto provare a causa del drago…
                Ma non era il drago a causargliela: era qualcosa di semisferico e incredibilmente freddo che a poco a poco gli si stava solidificando sulla pelle. L’unica sua reazione, fu quella di cadere immobile sulla neve, facendosi anche piuttosto male al naso. Provò ad urlare per il dolore, ma neanche la voce pareva più rispondere alla sua volontà. Era come se fosse completamente di pietra: nulla gli funzionava più nel suo corpo a parte la vista, l’udito, il respiro e il libero pensiero. Uno di quei Willoughby gli poggiò la pianta del piede su un fianco e spingendolo forte lo costrinse a rotolare giù lungo un pendio. Il principe di Cowain rotolò giù per chissà quanto: era la fine; sarebbe sicuramente morto a causa dell’impatto. Aveva ormai perso ogni speranza, quando si accorse che qualcuno o qualcosa lo stava recuperando praticamente dal vuoto, e dunque dalla morte certa. Era Anylice: era come se riuscisse a librarsi grazie a una tavola di ghiaccio da lei manifestata e sorretta dal vento…
                Insieme, i due giovani raggiunsero di nuovo il livello del casolare, anche se ormai erano abbastanza distanti da esso. Però, almeno si trovavano su una superficie piana… lì la ragazza, stesa sul Piromante, guardandolo con quei suoi profondi occhi di ghiaccio gli disse: «Hai visto? Te l’avevo detto che ti avrei salvato la vita!». Daniel non riuscì a rispondere: si sforzò di ricambiarle un sorriso con lo sguardo, ma non pensò di aver raggiunto l’eloquenza desiderata. Ma anche quell’istante fu veramente breve: qualcosa di ancora più orribile e spaventoso stava per essere osservato da quello sguardo immobile di Daniel di Cowain. Osservato e ascoltato…
                «ANYLICE!» urlò il vento, con la voce sibilante di un serpente, se i serpenti avessero mai avuto voce «Come sei riuscita a sfuggirmi?!?!?»
                «Requiem! No! Aspetta!» gridò Anylice rivolta al vento, mentre un innaturale tromba d’aria la sollevava da terra sospingendola verso il cielo. «Non importa!» rispose Requiem, il drago fratello di Nidhogg, «Tanto non permetterò che accada mai più!» e così dicendo, quell’innaturale e demoniaca folata di vento si portò via per sempre la bella maga Anylice, con la sua triste storia e i suoi occhi di ghiaccio…
                Passò poco che i cani Willoughby si accorsero della presenza di Daniel: d’altronde pareva che lo stessero addirittura cercando. Uno di loro prese un altro per, testualmente, “idiota pericoloso”, visto che aveva buttato il principe giù dal pendio, mentre a loro serviva da vivo. Detto ciò, il tizio a capo della missione si lamentò anche del fatto che sei dei loro ci avessero anche lasciato le penne a causa del conflitto contro quei “topi di fogna del sud”. Dopodiché ordinò a tutti di mettersi in marcia. Daniel non riuscì a scorgere se Cordell si trovasse o meno con loro.
 
 
 
                Il palazzo di Lord Panecha, il re-mercante della città di Marrah Cankhubhia, era davvero assai particolare. Diversamente da tutti i palazzi signorili che Marcus l’Andalo aveva visto in vita sua – e ne aveva visti parecchi – pur se anch’esso immenso, si estendeva per orizzontale e non per verticale: praticamente per ogni stanza che il Cavaliere della Chimera aveva dovuto visitare prima di giungere al cospetto del signore, c’era stato pressoché sempre da attraversare un piccolo giardino. Giardini piccoli, ma poi neanche tanto. E scale: una miriade di sontuose scalinate da scendere e risalire: nessuna portava a piani più alti del secondo o al massimo terzo, ma ce n’erano comunque parecchie. Trovare Panecha non era stato poi tanto facile quanto Lord Garhel Sawela aveva millantato: certo, tutti quelli lì dentro, non appena vedevano la spilla a forma di serpente, subito lasciavano la possibilità a Marcus di esprimersi e si mostravano disponibili e affabili… tuttavia, prima di raggiungere Panecha, l’Andalo dovette comunque recarsi in quattro differenti uffici. Dunque arrivò dal Lord dell’est, in un grande ufficio ovale al pianterreno, oltre un giardino più grande e rigoglioso degli altri: pieno di strane piante grasse e spinate e di fiori variopinti.
                «Mylord Panecha» salutò dunque Marcus, chinando il capo. «Meno formalismi, mio Sir» gli disse quello, affabile e, andandogli incontro, gli pose la mano sul pento costringendolo ad alzare lo sguardo, «Io sono un Lord, è vero e… se ordinassi alla guardia qui fuori di prendere l’alabarda e spiccarvi il capo dal collo è molto probabile che mi obbedirebbe, cosa che non farebbe con voi, ma… da un punto di vista di mera gerarchia voi siete un discendente al Trono di Spade, mentre io no… Oh, meglio sì: ma dovrei imporre la mia autorità agli altri Lord Ambasciatori del Concilio, e solo dopo che foste morti non solo voi, i vostri fratelli maschi, il vostro piccolo nipote e vostro zio Constant, ma anche tutti i membri governativi del Concilio: il Maestro del Conio, dei Sussurri, delle Leggi e tutti gli altri… decisamente scomodo. Comunque quello che voglio dire è che: sulla scala gerarchica formalmente voi siete più in alto di me, e quindi sono io a dovermi rivolgervi a voi con “mio Sir” e non viceversa…»
                «Uhm…» a questo punto Marcus era davvero confuso sul come orientarsi, dunque se ne uscì con un: «Panecha: sono stato chiamato qui in veste ufficiale come Cavaliere della Chimera, ma ancora non sono a conoscenza nei dettagli di cosa…»
                «Ah, ma certo: i dettagli!» detto ciò Panecha volse le spalle al “suo Sir”, facendo tintinnare tutte le sue collane e anelli, «Lo chiamano Yashua, che in un’antica lingua del deserto significa molto banalmente “figlio di dio”. Non è un violento, lui tesse trame di tipo politico, risponde alle esigenze del popolo; anche se da esso viene nascosto e protetto, in realtà non si direbbe esattamente un “ribelle antisistema” come lo era il nostro Lord Sawela ai tempi della da me domata Sommossa delle Dune. È molto più viscido e se l’avessi qui davanti a me probabilmente mi parlerebbe dell’infinito amore del suo dio, e del fatto che non vuole entrare in collisione con me. Solo che io mi liberi pacificamente di tutti i miei denari e le mie proprietà e li ceda a un fantomatico “popolo”. Di cui lui però sarebbe il portavoce e, quindi, io dovrei cedere quei suddetti denari e proprietà a lui. Ma questo è niente e qui veniamo a voi, gente dell’ovest: lui non parla dei poveri di questa regione, lui parla di tutti i poveri del mondo. E, visto che è così, allora non possiamo non constatare che il suo bersaglio non sia in realtà soltanto io, ma tutte le autorità del mondo, in quanto ricche per definizione. Ed ecco perché mi rivolgo a voi: visto che la massa popolare che è al suo seguito non è più neanche quantificabile, è un interesse di primaria importanza prima di tutto per voi dell’ovest. Solo dopo mio. Se… oggi o domani lui prendesse quella massa di morti affamati che è al suo seguito e la rivolgesse contro di me, prendesse il mio palazzo, mi puntasse il pugnale alla gola e mi dicesse: adesso i tuoi elefanti sono miei e con essi vado a portare la guerra nell’ovest, io non potrei oppormi in alcun modo. È chiara la questione, giovane cavaliere?»
                «Sì»
                «Oltretutto lui lì s’insedierebbe tra i vostri poveri così come ha fatto anche in questa città e nella gran parte delle altre che sono sotto il mio controllo: ha un’attrattiva ormai innegabile nei confronti degli indigenti, si può dire che ormai abbia la metà del controllo di questa città, visto che la metà di chi la abita è un suo adepto, e l’altra metà simpatizza per lui. Potrebbe organizzare una rivolta quando vorrebbe, anche se per qualche ragione ancora non l’ha fatto»
                «Signore, io che devo fare?»
                «Sapete qual è la principale virtù dell’elefante, Sir Lannister?»
                «La sua stazza?»
                «No, quello è solo secondario e conseguente. Originariamente era una creatura piccola quanto le altre, ma mentre le altre si affannavano sempre per il soddisfacimento delle loro passioni: mangiare quando non era bere e bere quando non era riprodursi, sapete lui cosa faceva? Attendeva. Faceva ogni cosa prendendosi il doppio del tempo degli altri, sempre con una calma serafica. Questo ha determinato gli artigli negli altri animali, o la muscolatura possente, o l’ossatura lunga e leggera per meglio correre. Ma in lui ha determinato solo un accrescimento della massa, e mentre la tigre si affilava i denti e gli artigli, lui cresceva. E mentre il lupo e l’orso del nord rafforzavano i loro muscoli, lui cresceva. E mentre le ossa del cervo si allungavano, lui semplicemente cresceva. La pazienza è la virtù dell’elefante: è essa a determinarne la sua indiscussa potenza. Attendere per contendere, è questo il motto della nostra casa che da quando ho avuto l’onore di crearla in termini ufficiali, ha il capo di un elefante sul proprio vessillo. Attendere per contendere: è questo che voi dovete fare per me, Marcus Lannister. Vi fornirò una mappa e voi, sorvolando il vasto territorio sotto la mia giurisdizione servendovi della vostra creatura alata, lo scansionerete: sonderete ogni attività sospetta e mi verrete a riferire ogni cosa. Così facendo, e avendo il tempo come vostro alleato, scoverete Yashua e… mi verrete a riferire anche di questo. Dopodiché: organizzeremo insieme il modo migliore per toglierlo definitivamente di mezzo»
                «Molto bene»
                «In qualsiasi luogo andrete, se aveste l’esigenza di atterrare per dormire o rifocillarvi, mostrate a chiunque quella spilla a forma di serpente: è il simbolo della mia sovrana autorità, nessun mio suddito, povero o ricco che sia, potrà negarvi l’ospitalità che vi deve e sia in grado di darvi. È un oggetto molto prezioso: conservatelo con la massima cura. Ce ne sono pochi rarissimi esemplari di quella fattura, e pochi uomini li possiedono: io, i miei figli, altri membri della mia famiglia. Perfino Lord Sawela, l’uomo che definirei il secondo più influente di questa città, non ne possiede uno. A proposito: guardatevi da lui. Mi è nemico, ed è nemico del Regno Unificato: non ho ancora trovato il modo di provarlo definitivamente, ma è lui il punto di connessione tra Yashua e questa città. Non voglio dirvi come fare il vostro lavoro, Cavaliere della Chimera, ma vi dirò che se fossi io… comincerei seguendo gli spostamenti di quel losco individuo»
                «Grazie, signore»
                «Ah, Marcus!»
                «Sì?»
                «Comincerete la vostra ricerca immediatamente». Era ancora primo pomeriggio. Marcus di Casa Lannister, Cavaliere della Chimera, soffiò col proprio fischietto e immediatamente Shirley si presentò al suo cospetto fuori dalle mura della città. Dunque l’Andalo le si mise in groppa e incominciò a cercare…
 
 
 
                «Ah! Certo che non c’è proprio che dire: il piano di Lord Waldo è andato liscio come l’olio! Saremmo finiti tutti abbrustoliti come gli altri, se non avessimo avuto quella… com’è che si chiama?»
                «Pietra di Luna! E ne esistono solo tre esemplari. Uno, nel petto del nostro amico, e gli altri tutt’e due presso la torre-biblioteca di Uryon Worchester, il mostro simile a un orso che regna presso Amergoth. Dovremmo dirlo a lui grazie, non a Lord Waldo»
                «Beh, certo: ma è venuta a Lord Waldo l’idea di rivolgersi a Lord Uryon, no? Ha avuto la saggezza di rivolgersi a un uomo più saggio di lui! Ahahah»
                «Oh, ma smettila di leccargli il culo! A che serve? Non è qui! Non può sentirti!»
                «Eh, ma mi sentite voi».
                Daniel ebbe modo di udire questa conversazione tra i suoi aguzzini molto chiaramente. Anche se muto e immobile, comunque la voglia di addormentarsi non lo aveva ancora preso. Era come se il suo corpo stesse dormendo, ma la sua mente… fosse ancora in preda al più strenuo combattimento. Precedentemente aveva avuto anche modo di udire che Cordell era lì con loro, anche se pure il suo servitore sostanzialmente non aveva più parlato dal momento della cattura di quei cani di Willoughby: non un urlo o un mugugno erano usciti dalla bocca di quel logorroico del suo servitore, che però aveva abbastanza esperienza da sapere che la provocazione quando sei legato come un salame e circondato da dozzine di nemici non è esattamente la mossa migliore. Cordell non chiese niente a quei Willoughby: né dove fossero diretti, né chi fosse il loro diretto comandante. Zitto come una tomba. Eppure era con loro, perché più di una volta i vermi si erano rivolti a lui con fare minaccioso e irritante.
                Di che cosa fosse la Pietra di Luna, il principe di Cowain non aveva la più pallida dea. Nidhogg non lo aveva mai informato che potessero esistere armi di quel genere, in grado di mortificare pressoché del tutto la forza vitale di un Piromante. Francamente, Daniel non avrebbe neanche potuto giurare che lo stesso drago ne fosse a conoscenza…
                Ma il destino è beffardo e ancora una volta stava per ribaltare la situazione… steso per com’era, Daniel non riuscì neanche a distinguere esattamente bene da dove arrivassero: ma una coltre di frecce piombò fuori dalle fronde degli alberi in mezzo al quale lui e Cordell si trovavano insieme a quel manipolo di Willoughby. Ma il fatto fu che i Willoughby uno ad uno caddero. Lo confermò anche uno degli aggressori, il quale disse: «Cani di Willoughby! Trafiggeteli tutti: non ne deve rimanere neanche uno vivo sulla faccia di questo mondo»
                «Hey, Elthon, e di loro cosa ne facciamo? Dobbiamo liberarli?»
                «Uhm… no! Portiamoli da mio padre. Chiunque essi siano, proferiranno con lui direttamente».

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Capitolo 14
*** Il primo giorno di un Gran Maestro ***


Capitolo 14
IL PRIMO GIORNO DI UN GRAN MAESTRO
 
 
                Era da solo poche settimane che quel vecchio porco di Septimus aveva lasciato per sempre il mondo dei vivi, trucidato da una folla inferocita in quella famosa notte della grande ribellione popolare. Non ce n’erano state molte altre dopo di quella: il popolo era stanco anche di ribellarsi, e d’altro canto non aveva avuto alcun buon esito dalle sommosse di quella notte, fatta eccezione per la dipartita del Gran Maestro e la conseguente repressione nel sangue ordinata dai vertici della Capitale del Regno. Uno solo dei ricchi era morto: uno solo contro le centinaia di giovani che alcuni capipopolo impazziti avevano istigato alla piazza prima e alla violenza poi. Ci sarebbe stata di nuovo una reazione popolare, di questo Irwin ne era certo: se ne sarebbero succedute sempre di più finché non sarebbe tornato il pane sotto i loro denti. Solo che dopo una lunga notte di strepiti e urla e botte e morti ammazzati, semplicemente anche per quello c’era bisogno di riposo. Ed era da poche settimane che Adlai Irwin veniva ufficiosamente chiamato, tra i corridoi delle scuole e degli ospitali, “Gran Maestro Irwin”.
                Anche se era molto giovane per ricoprire una carica di quel peso, Adlai non riusciva a negarlo a se stesso: la cosa gli piaceva parecchio. Ma non c’era solo questo: oltre a trovare gratificante l’idea di esser chiamato “Gran Maestro”, di poter decidere lui il bello e il cattivo tempo in merito a quell’ambito della vita del Regno, di poter sedere e avere amabili conversazioni all’interno del Concilio Ristretto del Re, e di poter negare con un proprio decreto la cura di qualsiasi paziente in qualsiasi parte del Regno solo perché lui era meramente il capo in quel settore, oltre a tutto ciò… c’era anche in lui l’ambizione di diventare qualcosa di un po’ di più rispetto a quello che Septimus era così vergognosamente divenuto negli ultimi anni della propria carriera. Voleva essere utile: voleva fare delle scuole e degli ospitali del regno un luogo dove davvero chi soffrisse potesse trovare del sollievo, un luogo dove davvero chi avesse problemi potesse trovare delle soluzioni, un luogo dove davvero si ricercassero modi sempre nuovi di curare la gente, e non accanirsi sempre sulle stesse polveri e pozioni. E inoltre un luogo dove davvero chi voleva fare il curatore dovesse addestrarsi nell’essere un curatore, essere sveglio, arguto, colto… e non più avere quegli occhi dolci che per troppo tempo l’avevano fatta da padrone negli oscuri tempi del vecchio appena decaduto Gran Maestro.
                Senza dubbio Adlai Irwin aveva molte idee per la testa, e senza dubbio la gran parte dei ragazzi delle scuole sapevano che lui le aveva e avevano fiducia in lui. Il re avrebbe potuto benissimo rimuoverlo da quella carica, ma non c’erano reali ragioni perché lo facesse: il re non aveva un nome e, anche se lo avesse avuto, di certo il re non aveva un programma. Adlai sì. Sarebbe stato un buon consigliere e un buon amico, se solo gliel’avessero richiesto. E questo probabilmente in molti lo avevano già capito…
                Già quel giorno, prima ancora d’incontrare il re per quella che – stando alle voci di palazzo – sarebbe dovuta essere la sua nomina ufficiale, Irwin aveva prima un altro incontro… la regina in persona lo aveva convocato nelle sue camere per non si sapeva bene cosa. E Adlai ci sarebbe andato: qualche minuto con la regina, poi in altra sede qualche minuto col re… normali impegni da Gran Maestro del Regno che si rispetti. Ma non era finita: prima ancora dell’incontro nelle camere della regina, altri due eminenti figure del Regno bloccarono il Gran Maestro presso le porte del palazzo dove risiedeva. Uno Adlai lo conosceva bene: Lord Petyr Baelish, Protettore del Tridente e della Valle di Arryn, Signore di Harrenhal e di Baelinstratth, uno dei membri più influenti del Concilio Ristretto, poiché detentore di una regione estesa tra ben due mari e a cavallo tra ben due continenti: il nord e il sud dell’oblungo Westeros. Se un Lannister o un Tyrell voleva salire a nord, erano i mari di Baelish che doveva solcare. E se un Bolton, un Worchester, un Applegate o addirittura un Willoughby voleva andare a sud, erano le terre di Baelish che doveva percorrere. La sola idea che aveva dinanzi quell’uomo, fece tremare le vene sui polsi del nuovo Gran Maestro. Ma Irwin non ci badò: spostò invece la propria attenzione sull’uomo che accompagnava Baelish: vecchio, molto più vecchio di Septimus. E curvo, molto più curvo di come Septimus non fosse stato nella sua bieca vita. Ammantato in lunghe vesti nerastre, un po’ pesanti per quelle lande e quella stagione, l’anziano signore sorrideva affabilmente: un sorriso molto meno furbetto di quello che Irwin poteva invece constatare nel Lord della Valle.
                «Gran Maestro Irwin!» salutò dunque Petyr Baelish. E Adlai: «Lord Baelish! Quale onore!». I due si strinsero la mano, e Adlai non poté fare a meno di notare la sgargiante spilla a forma di serpente che Baelish portava all’altezza del cuore. «Siamo, forse, i primi stamane» continuò dunque il Lord della Valle, «A dare il nostro benvenuto al nuovo membro con pieni poteri del Concilio Ristretto? Sono robe che il mio amico qui, Lord Willoughby, può solo sognarsi»
                «Badate a voi, vecchio moschettiere!» fece dunque il vecchio Willoughby «Potrei anche dimostrarvi che certo non è un potere di voto a rendere determinante una qualifica politica in questa vostra lercia e corrotta città del sud, ma voi questo lo sapete meglio di me, mylord», dunque rivolgendosi ad Adlai: «Lord Gran Maestro!»
                «Signori, per favore!» si schermì il giovane «Il decreto di nomina non è ancora stato ufficializzato… non so bene come funzionino queste cose, ma credo che non sarei il primo a ricevere una delusione: molte volte il re non ha nominato chi le voci dicevano che avrebbe nominato. Meglio rimanere coi piedi ben saldi per terra, che ne dite?»
                «Ah, ma in nessuno di quei casi l’illuso veniva però convocato presso le stanze del re, signore!», replicò Baelish. Dunque Adlai ribatté: «Le vostre possibilità di spionaggio sono davvero spaventose, signori. E ditemi: sapete anche che un paio di attimi fa ho dovuto liberarmi al gabinetto, oppure solo del fatto che incontrerò il re quest’oggi?»
                «No, sappiamo solo le cose interessanti, noi. Sappiamo però, che prima di sua maestà il re, incontrerete sua maestà la reale consorte…»
                «Questo vi preoccupa?»
                «Dipende. Voi vi definireste un uomo preoccupante?»
                «Direi proprio di no, mylord»
                «Siete idolatrato dalla gran parte del personale delle scuole e degli ospitali di questa città. E la popolarità è potere. E il potere preoccupa»
                «Preoccupa chi già lo detiene…»
                «Signori, scusatemi se mi intrometto» s’impose dunque anche il vecchio Willoughby «Io sono solo una povera vecchia quercia del nord, non mi capacito di trastullarmi come voi per tutti questi meravigliosi arzigogoli linguistici. Lasciatemi dire poche cose: la prima, Lord Baelish, è che vi ringrazio. Ciò che mi dicevate è vero: mi avete appena condotto dal giovane nuovo Gran Maestro della città, per quanto lui desideri scaramanticamente negarlo. La seconda è – e qui mi rivolgo a voi Sir Irwin (bisogna ancora chiamarvi Sir, fin quando non verrete ufficialmente nominato, giusto) – la seconda, dicevo, è che io sono così lieto… così lieto davvero di avere a che fare con un membro così giovane del Concilio! Perché la gioventù significa speranza. E speranza significa possibilità che le cose cambino, non che si immiseriscano rimanendo sempre uguali a se stesse»
                «Mylord, a questo punto con rammarico debbo comunicarvi che non vi seguo più e… avrei anche una certa fretta, sapete com’è: la regina prima, il re poi…»
                «Corretto, giovanotto, molto corretto! Vengo subito al sodo: io adoro venire al sodo. Il popolo del nord richiede indipendenza. È la valorizzazione della storia e della tradizione di ciascuno che rende grande un unione, non certo una squallida accozzaglia tra famiglie che non sono parenti, mettendole le une sotto le altre, e di conseguenza le une contro le altre…»
                «Perdonatemi, Lord Willoughby, non è da diversi secoli che l’area della famiglia che voi rappresentate è pacificamente contenuta in quella più vasta assegnata ai Lord Applegate?»
                «Pacificamente non direi proprio, signorino. Da secoli la mia famiglia rivendica…»
                «Va bene: un riconoscimento ufficiale, è chiaro. E da me cosa volete?»
                «Amicizia. Nel momento in cui si andrebbe al voto…»
                «E voi, Lord Baelish? Siete qui solo in veste di garante del nostro buon Willoughby o… c’è qualcos’altro che volete da me?»
                «Niente di molto diverso, in effetti»
                «La pensate come lui?»
                «Vedete, Lord Gran Maestro – o Sir prossimo Gran Maestro, come preferite – voi non siete un governante. Siete a capo di un importantissimo settore del nostro Regno, vitale per la sua stessa esistenza, ma… non siete il signore di nessuna terra. Nei miei anni di esperienza al governo della Valle io ho avuto modo di notare di come le minoranze si compongano: è un fenomeno inarrestabile. Puoi comprarle, tenerle buone, ma ci saranno sempre. Che si tratti dei servi che mi preparano la cena nel mio caso, o degli indipendentisti del nord o dei fanatici rivoluzionari e affamati dell’est nel caso del Regno Unificato… bisogna sempre fare buon viso a cattivo gioco. Essere pazienti, contrattare, anche per sempre se le circostanze lo richiedono. Perché, in caso contrario, poi succede quello che è successo al Gran Maestro Septimus»
                «Quindi voi pensate… che il re stia sbagliando in questo momento, reprimere le rivolte con le lame delle Cappe Dorate…»
                «Siamo diventati amici, non è vero, Adlai?»
                «Questo cosa c’entra?»
                «Se lo siamo, posso dirvi che… sì: io ritengo che il re stia prendendo la prima, grossissima, cantonata del suo governo che, visto che siamo solo a pochi mesi, è davvero un brutto segnale. Visto? Mi sono scoperto per voi: ora voi mi direte che voterete per il Tribuno Popolare Sawela, se dovesse capitare un voto in Concilio?»
                «O per me?» s’immischiò Senus Willoughby. E Adlai: «Se dicessi di no, mi lascereste andare dalla regina, cortesemente?»
                «Certo»
                «E non subirei nessun’altra ripercussione di alcun genere?»
                «Certo che no» sorrise Lord Petyr «Per il momento»
                «Allora, per il momento: buona giornata, signori». Adlai non ascoltò quello che i due politicanti gli risposero, passò in mezzo a loro e tirò dritto, con andatura veloce. No aveva davvero fretta di raggiungere la regina, ma le velate minacce lo avevano spaventato non poco, anche se aveva cercato di non darlo a vedere: d’altro canto, lui era nuovo a tutti quei giochini di palazzo, e francamente aveva trovato la cosa davvero spiacevole. Ma era fiero di se stesso: aveva reagito con carattere, da uomo che le redini in quella città voleva averle tra le mani, non legate alla propria imboccatura. Che questo gli sarebbe riuscito per sempre, era però tutto ancora da vedere…
 
 
 
                «Sir Irwin!» salutò per prima la regina, venendogli incontro. Si trovavano all’interno di uno dei giardini reali. I due non erano da soli. Henrich Bolton, il Maestro delle Armi, Lord Comandante dei Cavalieri della Chimera, nonché principale esecutore della repressione avviata dalla Corona contro i poveri ribelli della città, era con loro. «Vostra maestà» fece Adlai Irwin, chinandosi e baciando la mano della sovrana. Lei la ritrasse quasi subito. Bolton neanche salutò. A Irwin aveva sempre dato l’impressione del burbero quell’uomo: un nobile di nascita non molto nobile nei modi. Non che avesse mai avuto modo di rivolgergli la parola, ma tutti avevano visto almeno una volta il leggendario Comandante dei Cavalieri della Chimera, svolazzare coi suoi ragazzi per i cieli della città. Adlai decise di salutare lui per primo: «Lord Bolton…»
                «Salute, signore» disse quello tra i denti. «Quest’incontro» annunciò dunque la regina, Abigail della Casa Baratheon, madre del delfino erede al trono Napoleon della Casa Lannister, «Anche se non strettamente “ufficiale”, in realtà accade da un po’ di tempo quando mio marito effettua una nomina. Mi assicuro che l’uomo che sta per servire il Regno, servirà la Famiglia Reale, e di conseguenza mio marito e mio figlio»
                «E voi stessa, mia signora»
                «Sì, ma solo secondariamente. Sono i re maschi che fanno il regno, signor Irwin. Le donne generano, è questo il nostro compito, ed io non dico di aver già fatto adeguatamente il dovuto ma… certo sono sulla buona strada!»
                «Un unico figlio, e già maschio: certo che lo avete fatto. Tuttavia sareste più sicura con un altro paio di pargoli»
                «Siete dubbioso sul futuro di mio figlio, Sir Irwin? Badate: conto anche su di voi perché l’erede cresca sano e forte»
                «Maestà, perdonatemi, ma a questo punto non vi seguo…»
                «Il vostro predecessore, il Gran Maestro Septimus, si occupava personalmente delle visite settimanali del principe. Desidererei che voi faceste lo stesso»
                «Mia signora, è un ordine questo?»
                «Uhm… non esattamente, non ci avevo pensato. Francamente non mi aspettavo una domanda del genere, Sir, voi perché me lo domandate?»
                «Vedete… capisco che si tratterebbe del principe primo erede al Trono di Spade, e non esiterei di accorrere quanto più rapidamente possibile se dovesse capitare un problema ma… vostra maestà una visita alla settimana la trovo davvero poco ortodossa, per un bambino che non possiamo più definire “appena nato”, e che mi risulta esser già in piena salute, ringraziando gli dèi»
                «Il vostro predecessore non la pensava così»
                «Beh, io non sono il mio predecessore, maestà, convenite?»
                «La pensate diversamente da lui anche su altre cose?»
                «Non lo so. È probabile»
                «Sir Irwin» s’intromise, brusco, il Maestro delle Armi, «Voi che ne pensate di Lord Braff?»
                «Non lo conosco»
                «Non vi ho chiesto se lo conoscete, vi ho chiesto che ne pensate»
                «Beh… lui è un politico. Anzi: è il politico dei politici. Con i politici bisogna discorrere. Sorridere, chiacchierare e… non dire mai nulla di importante»
                «Siete parecchio avveduto»
                «Ma il re è un politico» polemizzò dunque la regale consorte «E lo sono anch’io…»
                «No, non direi» rispose Adlai, che pensava di essere ben più avveduto di quanto il Maestro delle Armi o la regina potessero anche solo immaginare, «La Famiglia Reale è al di sopra della politica. È un errore piuttosto comune considerarli politici a loro volta: la gran parte del popolo presumo che la pensi così. Ma tecnicamente la politica è uno strumento dell’uomo e, come tale, si tratta di un arnese che solo gli uomini possono impugnare. Il re è un uomo, ma è messo lì dagli dèi. Egli è strumento degli dèi, per il quale loro governano davvero questo mondo»
                «Siete una persona devota, Sir Irwin? Non molti maestri lo sono…»
                «Quanto basta per capire che per quanto molte cose – molte di più di quelle che possiamo immaginare – dipendano da scelte umane, purtroppo non tutto dipende da scelte umane. Io direi che questa è una constatazione puramente scientifica,e direi anche che è piuttosto ovvia»
                «E di Lord Justus Panecha cosa ne pensate?»
                «Non conosco neanche lui, ma anche lui è un politico: direi che la mia risposta valga anche per il suo caso. Tuttavia, a una prima impressione, oserei affermare che mi suscita una certa simpatia…»
                «E io ve ne suscito?» domandò dunque Abigail, con una voce così suadente che ad Adlai ricordò il canto di un usignolo «Maestà voi siete… la donna più influente di questo Regno e… la mia regina, e…». Adlai Irwin si rese conto che più guardava il viso splendido della regina e i suoi grandi occhi di un color nocciola così definito e uniforme, e più avrebbe detto che l’avrebbe servita come uno schiavo fino in capo al Westeros e poi ridiscendere. Riuscì a trattenersi a stento, quindi disse: «E io giuro che farò di tutto per lavorare al meglio nell’interesse vostro, e di sua maestà il re. E del principino». A questo punto, riuscì a distogliere lo sguardo, trovò la lucidità della mente e chiese con fare sarcastico: «Ho superato l’esame?»
                «Beh, potere andare, Sir Irwin, se è questo che vi preme» concluse la sovrana della famiglia Baratheon «Ma no, non posso dire che l’abbiate superato. Anzi: lo avete appena iniziato».
 
 
 
                «Che cosa sappiamo di questo giovane, sorella mia? Questo… Adlai Irwin?» chiese il re al suo Altissimo Segretario e temporaneo Maestro dei Sussurri. Hana di Casa Lannister gli rispose: «Oltre al fatto che sarebbe il più giovane Gran Maestro della storia del Regno Unificato?»
                «Sì. Insomma: per arrivare dove è arrivato… immagino sia preparato»
                «Fratello mio, non ovunque si arriva ai vertici della categoria perché si è i più preparati. Talvolta sono altre le qualità che vengono richieste…»
                «Oh, capisco. Anche lui ha… di quelle inclinazioni?»
                «Questo non mi è dato saperlo, per il momento. Anzi, direi che per il momento la risposta è no. Ma per arrivare ad essere nominato secondo della scuola, e quindi diretto sostituto di Septimus, qualcosa deve pur aver fatto…»
                «E non potrebbe trattarsi di… essere semplicemente un bravo curatore?»
                «Non lo è più di almeno un altro paio dei ragazzi della scuola: di questo sì che le mie spie mi hanno informato bene»
                «E allora per quale ragione non dovremmo proporre qualcun altro al suo posto? Sono il re: è nei miei poteri»
                «Perché Adlai Irwin è conosciuto da tutti nelle scuole della città, anzi di più: direi che possiede le simpatie della gran parte del mondo scolastico e ospitaliero. Potresti nominare qualcuno al suo posto, ma… di certo sarebbe una scelta impopolare, non particolarmente saggia di questi tempi. E oltretutto: non abbiamo nessuno da nominare»
                «E questo direi che è il vero problema. Ascoltiamo il giovanotto: vediamo cosa ha da dirci, quali sono le sue intenzioni. Rimarrà al suo posto fino a quando non avremo trovato qualcuno meglio di lui, o fino a quando non si rivelerà particolarmente avverso alla nostra posizione»
                «Bene, fratello»
                «Potete fare entrare il Gran Maestro Irwin» decretò infine Axelion, re degli Andali e dei Primi Uomini, rivolgendosi ai dignitari presso i suoi offici. Sua sorella gli sussurrò quasi l’istante prima che il giovane Gran Maestro mettesse piede nella loro camera: «Guarda che non è il caso che lo chiami “giovanotto”: ha la tua età».
                Se davvero l’aveva, Axelion certo non avrebbe potuto giurarlo, visto che il giovane nuovo Gran Maestro era assai meno stempiato e assai più prestante di lui, almeno a un primo colpo d’occhio. Certo, aveva anche tutte le tipiche caratteristiche che tutti i discepoli di Septimus normalmente avevano: aveva un fisico più asciutto che massiccio, era molto più biondo che castano, e i suoi occhi erano di un ceruleo sgradevolmente bello. Nel senso che erano i tipici occhi che stavano bene se incastonati nel viso delicato di una fanciulla, non in quello di un giovane già maturo e vigoroso, anche se votato alla vita di scienza e non a quella militare.
                «Vostra maestà…» salutò il Gran Maestro Irwin, inchinandosi pure. Axelion non vedeva spesso qualcuno farlo: era un’usanza ormai dimenticata da molto tempo, e comunque un membro del Concilio Ristretto non era tenuto a farlo neanche in termini di etichetta. Con la regina bisognava farlo, visto che lei era una donna oltre che la sovrana: ma con il re era ormai decisamente desueto. Tutto ciò dimostrava ad Axelion quanto Adlai Irwin fosse “nuovo” a quel mondo, perfino per uno come lui, che non era mai stato chissà quale grande esperto di politica per esser stato un principe erede al trono prima e un re poi.
                «Sir Irwin» fece Axelion venendo subito al dunque «Voi immaginate già che vi ho convocato qui per nominarvi ufficialmente a quella carica che voi state già temporaneamente ricoprendo in quanto secondo del compianto Gran Maestro Septimus»
                «Maestà, sono onorato di questo»
                «Il decreto di nomina a Gran Maestro del Regno avviene in quanto voi siete un uomo che, per quanto giovane, ha avuto modo di fare un importante percorso presso le scuole di questa città, che sono tra le scuole più esclusive del Regno. E questo fa di voi di per sé un individuo parecchio dotto, e gli dèi soli sanno quanto noi necessitiamo di individui dotti in questa nostra così corrotta e acciaccata società. Oltretutto mi dicono che voi riscuotete le simpatie di molti dei giovani che frequentano le nostre accademie, il che significa in una parola: concordia. Gli eventi della notte in cui Septimus ha fatto… la fine che ha fatto, sono oggi parzialmente rientrati. È stato deciso di utilizzare il pugno duro: per la prima volta in vita mia ho ordinato ai miei uomini… di uccidere qualcuno. Ma adesso questo non è più necessario: adesso è il momento di ristabilire un clima di pace tra gli uomini e le donne che risiedono in questa città. Pace su tutti i fronti, e questo significa anche con le centinaia di lavoratori che s’impegnano nel mondo delle scuole e degli ospitali. È oltretutto inutile che io vi dica, Sir Irwin, che questo decreto farebbe di voi una persona che ricopre una carica la quale automaticamente comporta diversi privilegi e responsabilità. A mia differenza, voi potrete esprimere un voto vincolante come membro effettivo del Concilio Ristretto. Potrete amministrare, salvo decisione mia o del Concilio, le scuole e gli ospitali di questo regno in ogni ambito come meglio vi pare, confidando naturalmente nel vostro buonsenso. Infine potrete imporre la vostra autorità su tutti i Maestri riconosciuti per decreto, indipendentemente da dove essi siano dislocati, purché entro i confini del Regno Unificato. Questo, svestendo per un attimo i panni del vostro sovrano, debbo dire che certo non vi garantisce l’obbedienza di qualunque curatore, specie se costui dovesse trovarsi nelle aree più periferiche. Tuttavia, da re, vi dico che – vista la carica che vi apprestate a ricoprire – potreste imporre tutta la vostra supremazia. Io avrei finito, Irwin: avete delle domande?»
                «Veramente no, signore»
                «Sir Irwin» s’intromise dunque l’Altissimo Segretario del re «Voi sapete che è facoltà della Corona congedarvi dal vostro incarico quando essa meglio ritenga, sì?»
                «Sì milady, lo so»
                «E vi rendete conto che una nomina da parte del re, oltre che la garanzia di un enorme potere, significa anche la tacita sottoscrizione di una profonda amicizia?»
                «È soprattutto per questo che poco fa mi sono detto onorato. Come ho già detto alla regina, sarò l’umile servo della Corona, e con questo voglio significare: l’umile servo delle loro maestà il re e la regina, e del principe erede al trono»
                «La regina?» chiese Hana, stupita. Dunque guardò il re dicendogli: «Lo ha fatto di nuovo»
                «Non è così importante» decretò il re «Ce ne occuperemo dopo. Sir Irwin, ho qui davanti due copie del decreto di nomina. In esso vi è scritto che alla presenza del re e di un secondo testimone, voi vi impegnate davanti agli occhi del popolo e degli dèi di servire il Regno nel miglior modo che le sue leggi vi concedano e le vostre possibilità vi permettano. Ve la sentite di sottoscrivere queste due copie?»
                «Sì, maestà». A questo punto, non prima di lanciare un ultimo evocativo sguardo al nuovo Gran Maestro, il re firmò la copia che rimaneva a lui e quella da rilasciare ad Adlai Irwin stesso. Dunque, voltò gli atti verso il giovane e gli passò la penna. Egli la intinse nell’inchiostro e controfirmò. Porgendogli la sua copia, Axelion disse ad Adlai: «Andate e fate un buon lavoro, Lord Gran Maestro»
                «Mille grazie signore» fece Irwin, raggiante. Poi, come il protocollo voleva, fece tre passi all’indietro, si voltò e si diresse fuori dalla porta. Il re chiese a sua sorella: «Che cos’altro abbiamo in programma, dolce Hana?»
                «È arrivata stamane una missiva da Lord Braff» fece l’Altissimo Segretario, porgendogli la lettera. «Non l’hai letta?» fece il re, ed Hana: «È indirizzata a te personalmente»
                «Strano…». Quando la lesse, Axelion di Casa Lannister, re degli Andali e dei Primi Uomini, stentò a credere ai propri occhi. Quello che la lettera conteneva, unitamente alla fuga di Constant dalla Capitale, rappresentava probabilmente l’avvertimento della minaccia più grave che Axelion avesse mai ricevuto in vita sua.

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Capitolo 15
*** L'uomo del deserto ***


Capitolo 15
L’UOMO DEL DESERTO
 
 
                «Ho detto al re» fece Lord Braff a Gino di Lungotavolo, dopo che per l’ennesima volta Gino gli aveva chiesto del perché continuasse ad avere quell’atteggiamento trafelato ma insieme così irrequieto, «che il suo regno è in grave pericolo. Non chiedermi come sia riuscito a saperlo, visto che ciò implicherebbe il rivelarti alcuni tra i miei più intimi metodi di lavoro, ma c’è un assalto armato in preparazione: si tratta di pochi mesi o, nel caso più preoccupante, di poche settimane…»
                «Dove? A Roccia del Re?»
                «No, amico mio, incredibilmente e angosciosamente più vicino purtroppo». Osservando lo sguardo spaesato del giovane rampollo della Casa Barron, il Maestro dei Sussurri spiegò meglio: «La ridente e assolata Cowain, ultima roccaforte dei Lannister qui a sud, attualmente sotto il governo di una prostituta, e mia amica, di nome Xalandra»
                «Perché attaccare Cowain? Non c’è niente a Cowain»
                «Ci sei stato?»
                «Sì, diverse volte… c’è un mare fantastico»
                «Cowain rappresenta il punto del costante controllo che i Lannister esercitano sui domini dei Tyrell. È un luogo simbolico: la sua collocazione geografica pare voler comunicare ai Tyrell in particolare e al mondo intero in generale che… il Regno è ovunque: e come tale va sempre rispettato e mai tradito. Esso è a est, fino alla Valle del Leone. È a nord, grazie alla lunga e indiscussa amicizia con i Bolton. Ed è a sud con Cowain, anche se da quando il futuro Primo Cavaliere Lord Daniel l’ha lasciata a Xalandra, in spregio alla decisione di suo padre di mandarlo sempre lontano da casa da quando ha compiuto i quindici anni, in effetti la cittadina rappresenta quasi un piccolo, soleggiato, regno indipendente»
                «Sì ma, Lord Braff, non si comincia una guerra solo per ragioni simboliche!»
                «E anche questo è vero, mio arguto compagno. Hai presente quegli orribili mostri che hanno attentato alla vita di Sir Rollo e le cui teste giacciono ancora su un vassoio dentro questa mia tenda?»
                «Sì, signore, li ho ben presenti»
                «Bene. I Tyrell ne possiedono un’armata intera. Un esercito composto dal complesso dei loro uomini, inclusa perfino la guardia personale di Shane – e questo risponderebbe alla tua questione per cui, quando venisti qui all’inizio, la reggia di loro residenza estiva ti fosse parsa pressoché disabitata – e in più, a quanto pare, integrato da un consistente numero di schiavi e poveracci del sud dell’Essos»
                «Un minuto: mi sono confuso. Avete detto che tale esercito è composto da quegli… uomin-bestia… quindi che c’entrano l’esercito dei Tyrell, la guardia personale di Shane e gli schiavi e i poveracci del sud dell’Essos?»
                «Ah: è questo il bello! Essi vanno umani e tornano… in quelle condizioni»
                «È stregoneria…»
                «Sì, e della peggior specie»
                «Che c’è da fare?»
                «È complicato. In teoria ci sarebbe da smantellare l’esercito della Capitale nel suo complesso o quasi e trasferirlo a Cowain, operazione che richiederebbe un innumerevole dispendio di danaro e altre risorse, oltre che un incauto abbandono di Roccia del Re alla sua sorte… ma i diavoli che marciano sulla città retta da Xalandra la puttana in realtà non sono tutti quelli che Lorthan e Shane hanno a loro disposizione»
                «No?»
                «No. Creature come quelle non sono mai state impiegate nel corso di una guerra, e loro non sanno quanto possano fidarsi. Magari quei brutti ceffi, improvvisamente, si scoprono detentori di una profonda – anche se finora silente – intelligenza, e quindi decidono di tradire… o magari per questioni legate alla loro natura organica, raggiunto il mese di vita, sono troppo vecchi e muoiono… per tutte queste ragioni, Lorthan – che è molto scaltro – ha tutta l’intenzione di fare di Cowain il suo banco di prova. Si tratterebbe di un assalto sperimentale che, nel caso andasse positivamente, gli garantirebbe una linea continua su tutto il sud del nostro continente, oltre che un chiaro segno di sfida nei confronti della Corona. Se andasse male, poco importa: avrebbe sacrificato pochi uomini, in una zona relativamente periferica del regno»
                «Lord Braff, tutto ciò è molto specifico… come diavolo fate a…»
                «Ti ho già detto di non domandarmelo, per favore. Quando sarai tu il Maestro dei Sussurri del Regno e io un vecchio stanco e floscio, allora forse ti dirò la metà dei trucchi che conosco. Ora, caro Gino, da questo momento viene la parte più interessante: quello che mi sono riservato di consigliare al re, oltre a quello che gli ho prontamente riferito… è che bisogna muoversi immediatamente per organizzare le difese della roccaforte di Cowain. Ha promesso che manderà buona parte del suo esercito, ma dubito che arriveranno in tempo: al massimo saranno in grado di organizzare un buon contrattacco a città già caduta…»
                «Quindi che si fa?»
                «Sir Gino… il sud deve difendersi da solo»
                «Cowain da sola contro un esercito di mostri? È un borgo di pescatori e ricchi signori in villeggiatura: non riusciranno mai a organizzare in tempo una difesa per come si deve!»
                «No, certo, non da soli»
                «E chi altri rimane allora?»
                «Mi risulta che da un po’ di tempo ci sia una certa area dell’Altopiano particolarmente in fermento, no? Un’area… molto vicina ad Altogiardino»
                «La Dodecapoli…»
                «Tombola!»
                «Oh, Lord Braff, io dubito che mio padre – anche se di recente abbia avuto qualche discordia con i Tyrell – possa mai sentirsela di organizzare una rivolta e…»
                «Di questo mi occuperò io. Mi serve che tu, invece, vada da un’altra parte…»
                «Da un’altra parte?»
                «Dimmi, figliolo, ti piacerebbe imparare a muoverti come i miei guerrieri ombra? Giungere alle spalle di un nemico senza nemmeno essere sentito? Conficcargli una lama nella gola senza che nemmeno se ne accorga?»
                «Beh io, signore… francamente non ci ho mai riflettuto: non credo che mio padre a Lungotavolo…»
                «Ti ho già detto che di tuo padre mi occuperò io. L’unica cosa che tu devi fare è recarti a Cowain a nome mio: ti firmerò un paio di carte e con questo tramite chiederai udienza alla signora Xalandra e le riferirai la situazione… che l’esercito di mostri sta per arrivare, che il re ha promesso che viene ma non verrà e che… se tutto va bene ci sarà il suo amico Alexis Braff a difenderla, in compagnia niente meno che del nuovo signore del sud: il Lord di Lungotavolo»
                «Signore del sud?»
                «I Tyrell sono ormai chiaramente dei nemici della Corona e presto o tardi verranno spazzati via e, salvo sorprese, visto che nessuno dei due ha figli, Alto Giardino spetterà probabilmente alla seconda famiglia più influente della zona… i Barron»
                «Quindi… io vado a Cowain e voi… voi da mio padre»
                «È quello che ho teorizzato, sì. Inoltre, se lo vuoi, ho impartito a Kellan – che verrà con te insieme alla metà dei miei uomini – l’ordine di addestrarti come se dovessi diventare un guerriero ombra: non fa mai male un po’ di sana formazione nell’arte di uccidere qualcuno. Questo non ti garantirà una piena preparazione, che richiede una serie di rinunce e… altre cose da fare, ma… ci ho riflettuto a lungo e direi che estendere un’infarinatura anche a qualcuno che non è esattamente destinato a divenire un guerriero-ombra… qualcuno di fidato… non c’è nulla di male in questo, ne sono piuttosto convinto…»
                «Allora posso… posso rifletterci strada facendo?»
                «Ma certo. Si tratta di una scelta soltanto tua, ragazzo. In alto i calici!» concluse dunque il Maestro dei Sussurri imponendo a un non molto convinto Gino un ennesimo non molto gradito boccale divino, insieme con l’ennesimo velato e simpaticamente imposto comando che gli aveva testé impartito.
 
 
 
                Da giorni ormai Marcus l’Andalo pedinava il Tribuno Popolare Sawela. Come unica indicazione per cominciare il suo percorso di indagine su Yashua il sobillatore del popolo, Justus Panecha solo quello gli aveva detto: di seguire Sawela. In realtà non gliel’aveva comandato come un vero e proprio ordine, anzi aveva più o meno detto a Marcus che sarebbe stato libero sul modo di condurre la sua ricerca… tuttavia, nel momento in cui gli aveva dato sola quella come indicazione, aveva limitato il lavoro di Marcus costringendolo a partire solo da quello. Al principe Cavaliere della Chimera francamente non era piaciuto il modo di fare del re-mercante di Marrah Cankhubhia: se da una parte si era mostrato affabile nei modi, dall’altra nella sostanza aveva ribadito tutta la propria autorità e comandato a Marcus esattamente quello che voleva che Marcus facesse. Marcus era un Cavaliere della Chimera, mandato presso Panecha per conto del Regno al fine di svolgere un servizio, non era improvvisamente diventato il servo del Lord mercante. E invece era in questo modo che più o meno Panecha lo aveva fatto sentire.
                Inoltre, l’Andalo cominciava a sentirsi piuttosto frustrato dal fatto che per giorni non fosse riuscito a cavare un ragno – anche piccolo – dal buco. Progressi non se ne vedevano, e Marcus non faceva altro che seguire Sawela da una parte all’altra dell’immensa città-mercato, arrivando ad annoiarsi fino alla disperazione. Fu proprio quando decise che qualcosa doveva cambiare, ed era lì lì per modificare la propria strategia, che qualcosa invece mutò di propria iniziativa…
                Forse il settimo o ottavo giorno di pedinamenti, Sawela uscì fuori dalle mura della città in tarda notte: non l’aveva mai fatto. A cavallo di un massiccio roano delle sabbie e munito di una grossa lanterna fiammeggiante, cavalcò per lunghissimo tempo: fin quasi la mattina. Marcus lo seguì da dove Sawela non l’avrebbe mai notato: dall’alto, comodamente sistemato sull’ampio groppo di Shirley, guidato dal rosso bagliore della lanterna. Forse il fratello del re, per qualche breve attimo, venne anche colto da un po’ di sonno, perché quando Sawela si fermò, Marcus non lo vide… si accorse solo che la chimera frenò bruscamente, dunque fu riportato di soprassalto alla realtà: giusto in tempo per osservare il Tribuno Popolare fare qualcosa di veramente strano…
                Si trovavano in una parte del deserto ricca di insenature rocciose. Anche se non lo vedeva, Marcus poteva sentire distintamente il suono di quello che, se non era il mare, doveva essere un grande lago. Sawela si era fermato in un punto in cui le rocce piatte sulla sabbia formavano una specie di irregolare circonferenza: non più ampia di una grossa ruota da carro; dunque il politico saltò dentro il cerchio: spostò la sabbia con la punta dello stivale, dopodiché incominciò a danzare… battè prima un piede, poi due volte l’altro, in una combinazione aggraziata che presto Marcus perse d’occhio visto che, nonostante la luce della lanterna fosse ancora forte, era sempre notte e lui era ancora parecchio assonnato. La danza dell’uomo orientale culminò con un salto a piedi uniti e poi… l’enunciazione di una formula. Con fare solenne, anche se a voce talmente bassa da permettere solo a stento all’Andalo di riuscire ad ascoltarla, Garhel Sawela declamò: «Un solo dio. Un solo fuoco. Una sola luce». Dunque, incredibilmente, la terra tremò sotto i piedi del politico: le sabbie circolari sotto di lui si aprirono come in una specie di portale sotto la terra. Sawela cadde giù, e poi il portale si richiuse. Anche se lo fece con una certa lentezza, il principe Marcus non fece in tempo a raggiungere la cavità prima che si richiudesse con Sawela dentro e lui fuori. Dunque l’Andalo saltò sulla circonferenza e cominciò a battere i piedi un po’ a casaccio. Era piuttosto sicuro di non aver azzeccato la sequenza neanche lontanamente, ma ugualmente, nella speranza che servisse a qualche cosa, decise di pronunciare: «Un solo dio. Un solo fuoco. Una sola luce». Naturalmente non accadde nulla. Non trovando di meglio da fare, il Cavaliere della Chimera decise di ripetere il tutto, cercando come minimo di risultare un po’ più aggraziato nei movimenti; ma non ci fu nulla da fare: il problema era ormai chiaro che stesse nella combinazione dei passi. Eppure qualcosa accadde… non all’interno del cerchio, ma al di fuori….
                A poco a poco, ma repentinamente, Marcus di Casa Lannister cominciò a sentire un innaturale freddino. Innaturale freddino che presto divenne freddo dannato: più impossibile che improbabile per il deserto nei pressi della zona di Marrah Cankhubhia. Un freddo preoccupante che ricordò a Marcus qualcosa che credeva che mai più avrebbe dovuto affrontare in vita sua…
                Il mostro con il teschio nero e gli artigli di ghiaccio che aveva attaccato qualche mese prima la Valle de Leone, si manifestò a lui comparendo improvvisamente in seguito a una forte folata di vento, sabbia e ghiaccio. Marcus non avrebbe potuto giurarlo, ma gli parse che il demone sorridesse mentre avanzava verso di lui con fare minaccioso. A questo punto per il principe Lannister era chiaro: quel coso aveva attaccato la Valle del Leone per causa sua. Aveva ucciso molti dei suoi amici, quando in realtà era lui che doveva morire. Sul perché, i dubbi del fratello del re erano molto più problematici: uccidere lui per iniziare ua missione volta a distruggere tutti i discendenti al Trono di Spade? Forse sì, ma allora perché gli risultava che sia Axelion che suo figlio che Daniel non avevano mai subito un attentato in vita loro: insomma, perché diamine cominciare da lui? Se davvero ci fosse stata una risposta, Marcus non fu in grado di soffermarsi ulteriormente sul problema al fine di trovarla: la questione ora era raggiungere Shirley, e di corsa anche.
                Ma quando si accorse bene di quello che stava accadendo, era già troppo tardi. Diede le spalle al mostro e corse più velocemente che poteva: ma quello aveva il vento dalla sua parte e, per qualche motivo, se lo ritrovò davanti. Anzi la fortuna del principe terzo in linea di successione al trono volle che il demone, d’istinto, per prima cosa decidesse di scagliargli un calcio sulla bocca dello stomaco con la pianta del piede, e non di ficcargli subito gli artigli affilati in qualche vitale parte del suo corpo. Sebbene il dolore che provò fu lancinante e lo costrinse, dopo qualche passo, ad accasciarsi a terra, Marcus ebbe il tempo di tirar fuori il fischietto che teneva al collo e soffiarci dentro. Dopodiché il demone gli si scagliò addosso, questa volta cercando di colpirlo con un fendente: l’Andalo estrasse la spada giusto in tempo per bloccare con la propria lama spessa, i quattro lunghi artigli di ghiaccio di quell’essere abbietto. Era forte: incredibilmente molto più forte del ben addestrato Marcus. Giunse quasi a fargli arrivare la sua stessa lama alla gola, e probabilmente ci sarebbe riuscito se non fosse stato per l’avvento di Shirley. La chimera giunse dall’alto come un angelo e prese il mostro con le fauci, infilandolo nella propria bocca fin quasi alla cintola. Lo strapazzò per qualche secondo, prima di sputarlo fuori, tutto sbavato e mangiucchiato.
                Ora, dopo un simile trattamento, qualsiasi normale essere organico sarebbe morto: ma c’era della magia nera in quell’essere, questo era ormai piuttosto evidente… dunque, quando Marcus si soffermò ad osservare quello che era rimasto del suo diabolico avversario, si accorse che… pezzi di sabbia e di ghiaccio a poco a poco stavano per ricostituirne la massa. A questo punto l’Andalo concluse che quello era un avversario che non si poteva battere neanche con una chimera: corse in groppa a Shirley e la intimò di volar via quanto più rapidamente possibile. Il volo venne spiccato, ma il vento non smise di perseguitare il cavaliere e la sua chimera. Passò poco tempo che Marcus udì il suo destriero ringhiare di dolore: poi, mentre ancora erano in volo anche se in picchiata, dal ventre dell’animale, il demone salì sulla groppa e fu allora che Marcus venne costretto per la seconda volta a tirar fuori la spada. Non poté far altro che respingere i fatali colpi del mostro, fin quando Shirley cadde violentemente al suolo, sollevando una folata di polvere e sabbia. A quel punto, il diavolo di ghiaccio strinse i palmi delle proprie mani sulla lama del cavaliere Lannister, stringendola senza praticamente provare dolore. Ancora una volta sorrise, in un’orrida espressione di folle euforia: dopodiché la lama del Lannister esplose, lasciandogli nelle mani esclusivamente l’elsa. Il principe pensò allora che era definitivamente finita: lì si sarebbe conclusa dunque la storia di Marcus della Casa Lannister, terzo in linea di successione al trono, morto nei deserti dell’est nel tentativo di onorare il proprio ruolo di Cavaliere della Chimera…
                E invece la fine pronosticata non arrivò. Qualcosa colpì il demone alle spalle: qualcosa di caldo e luminoso. Fuoco. Una sfera di fuoco incandescente urtò l’orrendo diavolo dal nero teschio e lo convinse a mollare per il momento lo spacciato Marcus (che comunque, senza Shirley, aveva ben poca strada da fare) e dedicarsi quindi al nuovo avversario dietro di lui. Marcus poté vederlo bene: si trattava di un uomo. Anzi, un gruppo di uomini, tutti ammantati con le lunghe vesti del deserto, del colore della sabbia. Ma solo uno di loro aveva scagliato la sfera fiammeggiante: anche se aveva la pelle ambrata dello stesso colore di tutti gli altri, era di loro molto più alto e i suoi lineamenti erano più aggraziati. Era magro e aveva la linea del viso affusolata; una barba color castano chiaro e gli occhi… chiari anche quelli. Ecco questa era probabilmente la cosa che più lo distingueva dal resto degli uomini dell’Essos: l’uomo a capo di quel gruppo aveva gli occhi verdi!
                Egli dunque, abbandonando il resto del gruppo, volse velocemente verso il demone, mentre quello faceva altrettanto: si scontrarono in un violento impatto, il ghiaccio e il fuoco, ma fu il primo a cadere con le spalle al suolo. Colpì l’uomo del deserto diverse volte con le sue taglienti lame glaciali, e quello sanguinò: e sanguinò parecchio. Ma mai urlò di dolore. Invece, man mano che il diavolo di ghiaccio era a contatto con lui, era come se a poco a poco stesse perdendo tutta la sua energia. All’inizio a Marcus parve di capire che si stesse semplicemente stancando, ma poi vide che non era così… il demone stava invece perdendo pezzi: il contatto con quell’uomo, lo stava pian piano disciogliendo. In quel momento, l’Andalo si accorse che neanche gli uomini giunti a soccorrerlo erano molto umani, visto che il tizio che stava riuscendo a tener testa a quel demone, improvvisamente si ritrovò sul volto un paio di piccole sfere fiammeggianti al posto degli occhi: prima erano normali occhi verdi, ma poi… divennero ben più luminosi della grossa lanterna di Sawela che fino ad allora aveva illuminato il cammino di Marcus di Casa Lannister. Ben presto, accompagnato da un definitivo urlo fragoroso, l’energia calda dell’uomo del deserto fu talmente intensa da sciogliere per intero quello che era rimasto del demone: praticamente ogni cosa, tranne il teschio di osso nero. Con un secondo urlo acuto, di nuovo l’uomo del deserto provò a colpire il teschio, ma il teschio non si scioglieva…
                Dunque, quello stesso uomo che aveva pocanzi sconfitto un demone, esclamò: «Portiamolo con noi!». Poi, ammantandosi nei suoi lunghi abiti, si diresse rapidamente verso il circolo sul terreno nel quale poco prima era scomparso Lord Garhel Sawela. E mentre la ventina di uomini che componeva il suo gruppetto cominciava a liberarsi in una serie di strepiti esaltanti contenenti le parole «Enshalah Yashua!» e sollevando inoltre il pugno chiuso del braccio sinistro, lui ne richiese il silenzio alzando entrambi i palmi delle proprie mani. I suoi uomini immediatamente eseguirono, e lui proclamò: «Fratelli miei! Io so bene che la fede nel Padre in voi non è mai venuta meno! E mai meno verrà: indipendentemente dal fatto che egli si manifesti oppure no. Ma oggi abbiamo avuto un’altra prova di come il diavolo esista e cammini in mezzo a noi! Con le sue gambe! Con una sua espressione deformata che contorcendosi imita laidamente i nostri più puri sentimenti e le nostre più nobili passioni. Ma, come vedete, egli non può vincere! Sebbene molti uomini oggi, e in primo luogo i signori dell’ovest, venerino falsi dèi incrementando il potere del buio e della notte, comunque il vero dio non si dimenticherà mai di coloro che lo hanno servito! E, prima o dopo, renderà a tutti noi mortali quello che ci meritiamo nel bene o nel male! Egli sarà sempre presente: sorreggendo le nostre lame e confortando i nostri sogni. Sempre a lui potremo rivolgerci quando necessiteremo di un aiuto. E, se noi gli saremo stati fedeli, lui ci avvolgerà nel caldo abbraccio della sua luce infinita, tenendoci per sempre al sicuro dalla fredda notte, che è buia! E piena di terrori!». E dopo questo discorso appassionato, Yashua il figlio di dio, percorse esattamente – e con ancora più grazia – quegli stessi passi che Marcus l’Andalo aveva visto inscrivere sulla circonferenza tra le rocce al Lord Tribuno Sawela. E per la seconda volta quella notte la terra tremò e le dune si aprirono. Come Garhel Sawela, anche il leggendario Yashua scivolò giù per quella gola, diretto verso l’entroterra. Fu allora che Marcus venne preso di peso e costretto a seguire tutti gli altri, anche lui alla volta del covo di quei fanatici religiosi…
 
 
 
                Daniel di Cowain aveva ormai concluso che quello che non gli permetteva né di muoversi, né di parlare, né di compiere praticamente qualsiasi gesto elementare,a parte respirare e battere le palpebre, era quella maledettissima Pietra di Luna. Ma la cosa davvero preoccupante per Daniel non era tanto il fatto che in quel momento fosse immobilizzato e impossibilitato nel generare una fiammella anche piccola che potesse liberare lui e Cordell da quella situazione; e non era il fatto che si trovavano nelle mani di gente che non sapeva chi diavolo fossero, a parte che il loro capo si chiamasse Elthon… quello che preoccupava davvero il principe Piromante era che qualcuno sapeva di lui. Quei bruti che avevano atteso lui e Cordell presso l’Ultima Porta non erano muniti della Pietra di Luna per un caso fortuito: loro sapevano che quell’oggetto serviva a bloccare i Piromanti! E l’avevano usato su di lui, perché se l’aspettevano che lui – e solo precisamente lui – avesse manifestato prima o dopo quei leggendari poteri. E questo sì che era preoccupante: per mesi e mesi Daniel aveva trascorso il suo tempo dentro l’antro di Nidhogg, a temprare prima il suo animo e poi le sue energie, senza metter naso fuori… e poi c’era stato il periodo delle prove attraverso i boschi dei Willoughby e degli Applegate, e solo lì Daniel pensava che in effetti qualcuno avesse potuto intercettarlo… ma tanto da parlare di piromanzia, e di considerarlo una minaccia tale da dover di corsa ricorrere ai ripari, questo sì che lo sorprendeva non poco. Avere dei nemici in quelle lande ghiacciate, significava che tutto il suo percorso alla volta di Requiem il drago malvagio poteva essere a rischio. E questo lui non poteva permetterlo! Ma più si agitava, più si rendeva conto che agitarsi in quelle circostanze era inutile, e quindi era da un po’ di tempo che Daniel di Casa Lannister non faceva altro che attendere, mentre gli uomini di Elthon lo trascinavano per la via esattamente contraria a quella che lui avrebbe dovuto invece percorrere.
                Raggiunsero una specie di grosso capanno, una doppia stalla non molto dissimile da quella dell’Ultima Porta: solo che lì non erano accampate solo qualche dozzina di uomini, ma un intero manipolo di un centinaio di soldati armati di tutto punto. Sui loro vessili campeggiava l’inconfondibile forma quasi sferica di una mela. Fu allora che il principe Daniel, rovistando nella propria memoria, pensò al suo passato di studente della storia delle famiglie e delle Casate del continente occidentale. Non ne era mai stato un grande esperto come suo fratello Axelion o sua sorella Hana, eppure quel nome “Elthon” qualcosa gli diceva… Elthon Applegate, principe dell’Estremo Nord, e… praticamente suo coetaneo, o pochissimo più grande. Tipo che Elthon molto probabilmente era nato nel pieno inverno, mentre Daniel nella tarda estate del medesimo anno. Se davvero dunque l’Elthon che li aveva presi era quell’Elthon di cui lui aveva memoria, allora forse poteva ancora esistere una qualche speranza che non tutto andasse storto…
                Elthon giunse al cospetto di suo padre, che era in piedi indaffarato in chissà quali mansioni: però non era seduto su un trono, il che aveva già del particolare visti i tempi che correvano. Fu il Lord degli Applegate a parlare per primo: «Oh, ma guardate! Il mio ardito figlio di ritorno dalle sue avventurose scampagnate fra i boschi!»
                «Poca ironia, padre!» fece dunque Elthon «Visto che questa volta non abbiamo solo liberato parte della nostra terra da quei cani di Willoughby che la infestano, ma abbiamo altresì recuperato un bottino»
                «Un vecchio e un ragazzo? Bel bottino, davvero!»
                «Signore se mi è concesso di parlare…» s’invischiò dunque Cordell, quel vecchio testone irrispettoso. E Lord Applegate di rimando: «Certo, certo che vi è concesso mio buon amico! E slegateli, per gli dèi! Sono uomini non salami!». Eppure, prima ancora che Daniel e Cordell venissero slegati, e prima ancora che il servo di Daniel potesse riferire quello che aveva intenzione di dire, lo stesso signore dell’estremo nord si accorse di qualcosa e, in preda ad imprevisti salamelecchi, cambiando completamente il tono della propria voce, decise di aggiungere: «Oh… ma, Cordell, siete voi?»
                «In effetti sì, mylord»
                «Che diamine, Elthon! Hai preso come prioginiero Sir Cordell?»
                «Non sapevo che aspetto avesse Sir Cordell!» protestò allora Elthon Applegate «E poi se tu mi lasciassi spiegare…»
                «Dunque, non mi direte che questi…» fece Lord Applegate, che invece non pareava avere alcuna voglia di lasciare che il proprio figlio si spiegasse, «È chi penso io?»
                «Il principe Daniel della Casa Lannister» proclamò Cordell «secondo in linea di successione al Trono di Spade, e Primo Cavaliere del re»
                «Oh vostra grazia, sono costernato!» e dicenco ciò, Lord Applegate andò presso Daniel, aiutandolo a tenersi in piedi. Ma accorgendosi che da solo non ci riusciva, esclamò con un’apparentemente sincera preoccupazione: «Che avete, figliolo? Perché non parlate?»; e poi a suo figlio urlando: «CHE COSA AVETE FATTO AL VOSTRO PRIMO CAVALIERE, RAZZA DI IMBECILLI?»
                «Non abbiamo fatto niente! È così che lo abbiamo trovato!» si difese Elthon, rispondendo a tono a suo padre: Daniel ai tempi di Roccia del Re una cosa del genere avrebbe potuto solo sognarsela. Elthon proseguì: «Quei cani Willoughby avevano già preso il Sir e il principe, ed erano stati loro a legarli come salami! Poi noi siamo intervenuti, abbiamo fatto secchi i traditori e…»
                «E avete pensato bene di lasciare legato un nemico del nostro nemico!»
                «Io volevo portarli a te!»
                «Potevi portarmeli slegati!»
                «Signori, se posso…» s’intromise dunque Cordell «Non c’è alcuna ragione per litigare. Lord Elthon non poteva sapere chi noi fossimo, e quindi il lasciarci legati non è stato poi un gesto tanto grave»
                «Eh, sì ma…» provò a interrompere Lord Applegate, tuttavia Cordell si prese la briga di proseguire lo stesso: «La questione diviene ora: fare qualcosa perché possiamo rifocillarci e, nel caso del principe, scoprire quale male lo intorpidisca, visto che vi assicuro: egli è un giovane baldo e piuttosto loquace, e non questo molle e muto cadavere che vi ritrovate a sorreggere. Gli è accaduta qualche cosa da quando siamo stati attaccati da quei Willoughby…»
                «D’accordo, vecchio amico» concluse dunque Lord Applegate. Dopodiché decretò rivolto a qualcuno dei suoi servi: «Presto! Preparate un bagno caldo a sua grazia il principe: lavatelo e nutritelo. Poiché il caldo e il cibo sono forse la miglior medicina per chi non è avvezzo alla crudeltà delle nostre alture». I servi eseguirono prontamente le indicazioni del loro Lord e, quando spogliarono Daniel per collocarlo nella vasca piena di acqua bollente, la Pietra di Luna cadde al suolo e con essa anche il busto del principe stesso piombò giù come un sacco di patate. Ma, e questa fu la vera novità, le braccia del giovane subito si sistemarono in avanti in modo da impedirgli che la caduta gli causasse danni al naso o al viso. In un istante il principe di Cowain intuì di trovarsi di nuovo nel pieno possesso delle proprie facoltà: non perse tempo e subito urlò con tutto il fiato che aveva in gola: «CORDELL! CORDEEEEEEEELL!!». E in pochissimo tempo il vecchio entrò correndo in quella stanza, con la spada già sguainata. Tuttavia, non capendo bene quale fosse il problema, domandò: «Signore?»
                «Quello!» rispose prontamente Daniel, indicando la maledetta Pietra di Luna. «Oh» fece Cordell, raccogliendo l’oggetto magico e osservandolo con attenzione, «La famosa Pietra di Luna, immagino…»
                «Pietra di che?» domandò Elthon, nel frattempo accorso a sua volta, insieme al padre e a qualche altro dignitario della Casa dell’estremo nord. «Nulla di importante!» rispose Cordell «Un gingillo che per una certa sua peculiarità determinava quello stato di malessere ai danni del principe»
                «Beh: datelo a noi» fece Lord Applegate «Metteremo i più saggi fra i nostri maestri subito a lavoro, al fine di individuarne…»
                «Oh, no, non è affatto necessario, mylord: grazie comunque. È un oggetto che ha colpito la nostra persona e saremo noi ad occuparcene»
                «Come volete…». L’espressione sul volto del Lord degli Applegate non piacque affato al principe di Cowain. Tuttavia Daniel era nudo e cominciava a sentire freddo: e quell’acqua rovente in quella vasca da bagno cominciava a parergli parecchio attrattiva. Fu così che, convinto di aver lasciato la pietra nelle più sicure tra le mani del mondo (quelle dell’abile, testardo e buon Sir Cordell), congedò tutti i presenti e si concesse il tanto agognato bagno caldo.

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Capitolo 16
*** Vecchi e nuovi demoni ***


Capitolo 16
VECCHI E NUOVI DEMONI
 
 
                «Per quando è prevista la prima spedizione, mio signore?» domandò il demone degli elementi a Bastian. Effettivamente quella era l’unica domanda che non gli aveva ancora fatto. Da quando quel ragazzo che da quasi un’intera vita chiamava “fratello” aveva avuto modo di presentargli tutti quegli strani amici che aveva, che avevano teschi neri al posto di normali volti, e innate capacità sovrannaturali, e che parevano fargli più da servitori che da veri amici, Bastian aveva avuto l’opinione che quei “cosi” non fossero dotati di un’intelligenza costruttiva. Cioè sicuramente erano in grado di parlare, e di capire ed eseguire ordini, ma fino a poco tempo prima Bastian non aveva mai pensato che essi potessero avere dei dubbi o delle opinioni. Solo da quando suo fratello lo aveva lasciato per la prima volta da solo con uno di essi – per l’appunto il demone degli elementi – si era reso conto che i demoni, o per lo meno quel demone, potevano anche fare domande diverse da “cosa debbo fare ora, padrone?”.
                Il demone degli elementi guardava Bastian in maniera diversa rispetto a come aveva guardato il Signore delle Dune: era come se il prendere ordini indirettamente, da un individuo messo a sostituire quello che era veramente il suo padrone, lo infastidisse. Anzi come se la cosa fosse pressoché intollerabile per lui. Come se da un momento all’altro volesse prendere l’enorme ascia bipenne che si portava sempre appresso e spiccare la testa di Bastian via dal suo collo. Bastian fingeva spesso di non esserlo, ma era un buon osservatore e quest’atteggiamento del demone lo aveva notato. Solo che tentare la via del dialogo con quel genere di diavoli, che umani non erano, non la trovava la più saggia delle strategie. I demoni erano abituati a prendere comandi: e comandi dovevano continuare a prendere, indipendentemente da chi esplicitamente glieli desse. Bastian non li aveva conosciuti tutti: non sapeva quanti ce ne fossero al servizio del proprio fratello, ma ipotizzava che dovessero essere meno di dieci. E lui ne aveva visti quattro, e conosciuti due. Il demone delle energie era forse il più antico per “nascita”, se mai si fosse potuto definire “nascita” il processo di generazione di quelle creature; processo cui Bastian non aveva comunque mai assistito: per quanto lo riguardava quei demoni c’erano sempre stati e ci sarebbero stati per sempre. Questo demone delle energie era come l’ombra del Signore delle Dune: non lo abbandonava mai, ma mai Bastian aveva avuto il bisogno di rivolgergli la parola, sebbene esso fosse stato il primo diavolo che avesse mai veduto in vita sua.
                Poi c’erano stati i demoni delle nevi, delle fiamme e da ultimo degli elementi. Su quest’ultimo c’era ben poco da dire: Bastian condivideva con lui la gestione dei lavori di mutazione di uomini in mostri presso l’antica e rinomata città vuota di Valyria. Il demone delle nevi, Bastian l’aveva visto circa due o tre volte: si trattava di un emissario che il Signore delle Dune mandava in giro per il mondo a compiere compiti di cui generalmente Bastian poco o niente conosceva. E infine il demone delle fiamme… lui era stato il vero capo di Valyria, più di Bastian e più dell’evidentemente meno raziocinante demone degli elementi. E proprio per questo suo così brillante servizio nella città perduta, aveva ricevuto una promozione, mandato alla Reggia dei Girasoli presso Dorne, a sorvegliare i Tyrell e attendere di guidare la nuova armata di mostri del Signore delle Dune, ovunque essa venisse mandata nel continente occidentale.
                Bastian stava per rispondere al gigantesco mante, molto più grosso degli altri tre che lui aveva conosciuto, quando la risposta non arrivò da lui bensì dal Signore delle Dune in persona. Comparendo praticamente dal nulla, Bastian se lo ritrovò seduto al suo stesso tavolo del pranzo: per quanto riguardava i demoni, essi non mangiavano e dunque, anche se presenziavano ai pranzi, non sentivano quasi mai l’esigenza di sedersi al tavolo, e così stava infatti facendo in quel momento anche lo stesso demone dal corpo di pietra.
                «Il quantitativo di unità per l’esercito è ormai ampiamente sufficiente» disse lo stregone, ammantato nel suo consueto cappuccio di color viola scuro, «Come sono sicuro che tu, fratello, abbia già ben notato»
                «Sì» rispose Bastian «Infatti»
                «Infatti. Immagino che adesso si richieda, da parte di un capo, una assennata opera di coordinamento per organizzare il mezzo, per fornire ciascun singolo strumento necessario alla battaglia e per… altre faccende di preparazione»
                «Sì» rispose Bastian, ma in realtà la sua attenzione in quel momento si era spostata presso tutt’altra parte: intuì che fosse impossibile che suo fratello fosse davvero lì con loro, visto che per quanto avesse un modo tutto suo di viaggiare che c’entrava con il vento, comunque anche lui non era un dio e non poteva fare certe cose: stando ai suoi calcoli, visto che da lungo tempo ormai conosceva il Signore delle Dune e sapeva come egli fosse in grado di spostarsi, doveva essere sì giunto probabilmente oltre la vecchia Barriera, ma che avesse già incontrato il drago e che avessero parlato e che fosse non solo sulla via del ritorno ma perfino già di nuovo all’estremo sud, questa era decisamente un’ipotesi da scartare. E proprio per questa ragione, mentre suo fratello gli dettava per filo e per segno cose che già gli aveva detto, lui stava passando il proprio tempo a cercare di urtarlo piano con il braccio o con il gomito: ed effettivamente la sua tesi era esatta; il braccio di suo fratello non entrava in contatto con il suo. Questo significava perciò che sebbene il Signore delle Dune fosse lì con l’immagine e con la voce, di certo non c’era con la sostanza. Si trattava di una delle sue diavolerie;  una di cui stranamente Bastian non aveva ancora avuto modo di sperimentare.
                «Bastian: tu mi stai ascoltando non è vero?»
                «Certo, fratello. Occorrono dei giorni di preparazione»
                «Sì: e quanti ti ho appena detto che te ne concedo?»
                «Ehm…», a questo punto Bastian in effetti non aveva una risposta, così sparò: «Cinquanta?»
                «Dieci, Bastianello! Te ne concedo dieci: non un’ora di più. E se mi accorgerò che a dieci giorni da adesso la nave non sarà già per mare, allora dovrai risponderne a me, la qual cosa ti assicuro che non troverai affatto piacevole. Intesi, fratellino?»
                «Dieci giorni. Sì, intesi»
                «Tuttavia non ho creato quest’incantesimo che mi ha permesso di comparire qui insieme a voi, solo per ricordarti questa cosa che già ti ribadii una decine di volte prima di partire e che – sono convinto – tu conosca già alquanto bene…»
                «Sì… infatti»
                «Allora…» fece il demone degli elementi «Perché siete qui, signore?»
                «Non lo intuisci?»
                «Io… veramente… sì, signore»
                «Esatto: l’hai sentito anche tu. Tu e qualsiasi altro mio servo, legato a me dal sigillo. Uno di noi è stato colpito fin quasi all’annientamento, per la prima volta nella nostra lunga e articolata storia…»
                «Cosa?!» chiese Bastian, incredulo: da decenni conosceva i manti, e per decenni non aveva mai sentito che nessuno di loro venisse scalfito neanche in maniera superficiale; continuò: «Chi? Dove?»
                «Il demone delle nevi, presumo» rispose il Signore delle Dune «Visto che la cosa è accaduta nel deserto alle vostre spalle, ed è l’unico di essi che mi risulta si trovi nel continente orientale oltre al qui presente demone degli elementi»
                «E… qual è il tuo margine di errore?»
                «Zero, Bastian: zero!»
                «Signore» fece il demone, con un tono che Bastian si accorse risultare ben più rispettoso di quello che usava lui col proprio fratello, «Come agiamo, dunque?»
                «È semplice!» propose Bastian «Tu sei il demone più vicino e perciò tu devi andare»
                «La cosa non è poi così rilevante, in questo momento» proclamò il Signore delle Dune «Anche se costretto all’inoffensività, il demone non è stato completamente distrutto da colui che lo ha attaccato: probabilmente è riuscito a fare i tre quarti del lavoro, ma gli manca ancora una piccola parte perché sia completo, e non credo che distruggere il suo teschio nero sia nelle facoltà di questo nuovo nemico, indipendentemente da quale tipo di magia egli sia in grado di controllare…»
                «Lo lascerai nelle sue mani?» gridò Bastian, allarmato «E se trovasse il modo di distruggerlo, invece?»
                «Ci sono cose che hanno una maggiore priorità al momento! Cowain!»
                «E che c’entra Cowain! A Cowain andrei io e…»
                «…E? Il demone degli elementi in giro per il deserto, da solo, alla ricerca di un nemico di cui non conosciamo il potere, ma che ha già sconfitto un suo più che stretto parente e, peraltro, lasciando il resto dei metamanti qui a Valyria completamente incustoditi, non è così? Stupido Bastianello?!»
                «Io… non ci avevo pensato, scusa. Beh: ma tu non hai altri di questi individui al tuo comando che puoi mandare a…?»
                «Adesso basta, Bastian: le tue sollecitazioni sono state sufficienti, per oggi. Quello che faccio io con i miei servi non solo non ti concerne, ma direi anche che se ti azzardi più a provare a consigliarmi sul dove o come usarli, ridurrò te al loro stesso stato… farò di te il più insulso dei demoni: il demone delle opinioni inutili e dell’inadeguatezza assoluta»
                «Fratello, io volevo solo…»
                «Basta parlare! Va’ a prepararti, ora, e prepara il tuo esercito. Mi aspetto grandi cose da te a Cowain, caro fratello. E per quanto riguarda i demoni… che tutto rimanga per il momento nello stato in cui si trova, sperando nel meglio… e preparandoci al peggio». Ciò detto, il Signore delle Dune sparì di nuovo da quella stanza, tornando a sbrigare chissà dove i suoi affari con i draghi e i demoni. Bastian ritornò a mangiare, con l’ansia però di dover subito dopo correre a organizzare il viaggio: cosa cui per il momento non aveva ancora neanche lontanamente pensato. E il demone degli elementi, lui tornò a guardare Bastian, stringendo l’ascia bipenne tra i suoi pugni di roccia, e guardandolo con astio sempre crescente.
 
 
 
                Dopo la sua disavventura nel deserto, Marcus l’Andalo venne preso e fatto prigioniero dagli uomini di Yashua. Bel lavoro aveva fatto! Era stato mandato lì per la sua prima missione da solo come Cavaliere della Chimera e… l’aveva fallita. Era stato prima Yashua ad accorgersi di lui, che non lui ad accorgersi di Yashua! E Yashua gli aveva anche salvato la vita: cioè non era solo prigioniero dell’uomo che avrebbe dovuto sconfiggere e catturare, era anche suo debitore…
                Nonostante i suoi strepiti e le sue rimostranze, l’Andalo venne completamente ignorato dagli uomini di Yashua, come se nemmeno parlassero la stessa lingua. Vide solo in parte quello che era il covo dei fanatici: una specie di labirinto sotterraneo pieno di cunicoli e anguste cavità, perché quasi da subito venne messo in una cella di roccia e terra compatta: non la più piccola cella di prigione che Marcus avesse mai veduto in vita sua, ma certo pessimo come alloggio, perfino peggio della camera che condivideva con gli altri alla Valle del Leone. Ma la situazione non gli era neanche cominciata a stancare (doveva esser rimasto lì per non più d’un paio d’ore), che la porta mediante il quale era stato chiuso a chiave nella cella, tornò ad essere aperta. E questa volta fu il folle Yashua in persona ad occuparsi di lui: comandò ai quattro o cinque dei suoi che lo avevano accompagnato di attendere fuori, dopodiché entrò dentro, seguito tuttavia da Lord Sawela.
                «Ci sono un paio di questioni di cui dobbiamo discorrere, giovanotto» fece l’aizzatore di popolo, mentre Marcus si accorgeva che i suoi occhi erano ritornati di quel bel verde smeraldo che erano stati la prima volta che l’Andalo aveva posato il proprio sguardo su di lui. E poi era giovane: non più di Marcus, ma non così da meno da poterlo chiamare “giovanotto”… eppure, in effetti, c’era un alone di imponenza e sacralità che lo circondava, un alone che non dipendeva dagli adepti al suo seguito, visto che in quel momento – escluso Garhel Sawela – egli non ne aveva. Eppure, anche se avrebbe detto che erano quasi coetanei, Marcus non si sarebbe mai sognato di dare a quell’uomo qualcosa di diverso dal “voi”. Rispose: «Dirò le mie verità, signore. Se anche voi mi direte le vostre»
                «Beh, non saresti esattamente nelle condizioni di mercanteggiare: sei in una cella nel deserto senza nessun amico, oltre a una chimera ferita… io invece sono a casa mia, circondato dai miei fratelli»
                «Se me le avete chieste, vuol dire che io dispongo di informazioni che voi desiderate… e non ho intenzione di darvele senza nulla in cambio»
                «Tu non pensi al fatto che io abbia la possibilità di estorcertele…»
                «Se volete rischiare, accomodatevi. Ma sono un Cavaliere della Chimera del Regno Unificato, io. E sono stato temprato all’onore e al coraggio»
                «Risponderò alle tue domande» fece Yashua, dopo un istante di silenzio nel quale un brivido corse lungo la schiena dell’Andalo, «E… tu risponderai alle mie?»
                «Sì»
                «Chi sei?»
                «Mi chiamo Marcus. Vengo dall’occidente, e sono un Cavaliere della Chimera»
                «Da quale parte dell’occidente?»
                «Mio signore: abbiamo detto una domanda per ciascuno, se non vado errato»
                «Molto bene. Chiedi pure»
                «Che ne è della mia chimera?»
                «È in salvo. Le ferite infertegli da quel demonio sono state piuttosto gravi, ma essa non è un essere umano e il suo corpo non ha reagito come avrebbe reagito quello di un essere umano. Nonostante tutto, con l’aiuto dei curatori a mia disposizione, parrebbe non solo resistere ma addirittura migliorare. A proposito, Marcus dell’occidente, hai un’idea di che cosa sia quella cosa che ti ha attaccato e perché ce l’avesse con te?»
                «Queste sono due domande, mio signore»
                «Senti, ragazzo: ti trovo simpatico e mi diverte questo tuo giochino. Ma ti consiglio di smetterla di provocarmi: considererai le mie ultime due domande come una sola, se vuoi proseguire»
                «Non so cosa sia e non conosco la ragione per cui mi abbia attaccato. Ma non era la prima volta che lo faceva»
                «A te»
                «Come siete riuscito a… sconfiggerla? Cioè come fate a…»
                «Non sono stato io a farlo, bensì mio padre che è dio. Io non agisco secondo la mia volontà e men che meno secondo le mie attitudini. Sono solo un tramite, mediante il quale si manifestano una parte delle ragioni che ci sono superiori. C’è una ragione per cui quel diavolo era qui e ti stava dando la caccia. C’è una ragione per cui siamo giunti noi e abbiamo potuto salvarti la vita. E c’è una ragione per cui tu ora sei qui in questa cella accanto a me. Nulla è casuale: tutto accade per un progetto più grande. Talvolta è complesso decifrarlo, altre volte impossibile. Eppure tutto questo non significa che esso non esista»
                «Mi avete tenuto in vita… per una ragione…» dedusse Marcus, che in quel breve discorso di Yashua pensava di aver intuito qualcosa di non poi così “sacro” «E anche Shirley…»
                «Shirley… è questo il suo nome?»
                «Che volete fare di noi, mio signore?»
                «Sai cosa? Questo gioco va bene per qualche minuto, ma dopo poco diventa piuttosto ripetitivo. Che ne dici di cambiare… giocatori? Garhel!». E all’ordine di quello che ormai Marcus aveva concluso essere una specie di stregone, Lord Sawela si avvicinò a Marcus Lannister e gli legò i polsi dietro la schiena, servendosi di una corta e arrugginita catena. Marcus non tardò a domandare: «Dove mi portate?»
                «Tu non sei il nostro unico prigioniero. C’è qualcun altro da cui voglio informazioni, e tu mi aiuterai a interrogarlo». L’Andalo non sentì l’esigenza di domandare oltre: si rese conto che di qualsiasi cosa si trattasse, stava per vederla. Yashua e Sawela lo condussero per gli stretti cunicoli di quel rifugio. Di tanto in tanto Marcus riuscì ad udire qualche vocio provenire da una parte, a volte perfino delle risate: ma non vide nessun uomo nel corso dell’attraversamento di quel dedalo sotterraneo. Era come se tutti quelli che aveva visto con Yashua nel deserto, e che lo avevano condotto nella sua cella, fossero improvvisamente spariti, e al loro posto fossero rimaste solo le loro voci, qualche luce, poche ombre. Fu con un certo brivido nel cuore che Marcus raggiunse il luogo dove lo stregone e il politico desideravano condurlo: una stanza non molto diversa dalla sua cella, ma chiusa da una regolare porta e non da un’inferriata. Forse un po’ più grande, ma nulla di più. Non se ne accorse subito, eppure precisamente al centro della sala, su una specie di piccolo altarino di pietra, era stato posizionato il teschio nero del mostro che era stato il suo inseguitore dalla Valle del Leone fino al deserto di Marrah Cankubhia. Era rimasto immobilizzato in un’inquietante smorfia, come di malvagio piacere. Il Cavaliere della Chimera sapeva già – lo sentiva – che c’era qualcosa di strano in tutta quella situazione, ma certo non avrebbe mai potuto pensare che, una volta giunto in quella sala, dopo passato qualche istante forse speso ad accorgersi che si trattasse proprio di lui, il maledetto teschio si lanciasse in un lungo ululato: «Uuuuuuuuuuuuuuuuuh! Perfino il nostro protagonista avete coinvolto!». L’orrore fu istantaneo e terribile: ci mancò poco che Marcus trovasse la forza di spingere sia Sawela che Yashua e di scappar via oltre la porta. Disse incredulo: «Quel coso è vivo!»
                «Vita… morte…» rispose Yashua «Non sono concetti che appartengono all’entità che abbiamo di fronte. Pensi che fosse “vivo” quando aveva anche un corpo, due braccia e due gambe? Non c’era nulla di organico: niente a che vedere con gli uomini o gli animali o perfino le piante. Ebbene, Marcus dell’occidente, ti dirò che sarebbe corretto dire che tu abbia più cose in comune con una margherita piuttosto che non con quest’essere. È come se fosse composto di pura energia: di fuoco, di fulmine o – più specificamente nel suo caso – di ghiaccio. E questo…» Yashua si avvicinò al teschio e vi batté le nocche «La cosa più simile a cui possiamo associarlo è la pietra. Ma non ho mai visto pietre di questo genere»
                «Di’: hai provato a nord?». Quest’ultimo consiglio era stato elargito proprio dal teschio parlante. Non trovandoci molto senso, l’Andalo chiese a sua volta: «Ma che cosa dice?»
                «Ah» gli rispose lo stregone ancora una volta «È da quando l’abbiamo preso che farfuglia frasette di questo genere, apparentemente senza nessi logici né fini, escluso quello di… voler creare una sorta di provocazione. Ma di concreto non ha detto nulla: speravamo che mettendolo a diretto confronto con l’uomo che cercava di uccidere prima di imbattersi in noi…»
                «Uomo, padre, fabbro, guerriero» lo interruppe il teschio sull’altarino «Madre, vergine, vecchia, straniero. Io sono suo e lei è mia. Da oggi fino alla fine dei miei giorni»
                «Un antico rito matrimoniale. Però: abbiamo un mostro colto!»
                «Sono stato sposato una volta, oh uomo-cerino. Ma poi lei è finita… e io invece sono continuato ahahah»
                «È inutile, Garhel» proclamò Yashua «La tua proposta era senza dubbio suggestiva ma, come temevo, si è verificata inutile: non importa se a parlarci siamo noi, la sua preda designata, o chicchessia… non ha ricevuto il comando di parlare, e perciò non parlerà»
                «Hey: provate a strapparmi qualche dito della mano! Magari con la tortura parlo!»
                «Non ha perso il senso dell’umorismo, tuttavia» constatò Sawela.
                «Mai!» fece il demone «Le braccia, le gambe, i miei artigli, il mio potere, la libertà, l’anima, il rispetto per me stesso e per l’intera umanità, il mio cazzo… ma il senso dell’umorismo: mai!»
                «Basta: sono stanco» concluse Yashua «Abbiamo comunque fatto bene a tentare: andiamo»
                «Un momento!»
                «Sì?»
                «C’è qualcosa che devo dire al Cavaliere della Chimera…»
                «Prego: lo abbiamo portato qui per questo…». Francamente, Marcus non era proprio felice di dover ascoltare ulteriormente le parole di quella cosa, specie se rivolte a lui stesso. Anche se c’era del triste e del ridicolo nei contenuti del mostro, qualche cosa nella sua voce continuava ad essere inquietante. Probabilmente era proprio per quel requisito che già Yashua gli aveva ben sapientemente illustrato: quel teschio non era umano, e la sua voce… diceva parole della lingua degli umani, ma umana non era: era come se i suoni si creassero non della vibrazione di organi fatti di carne ma dello stridore di pietre sfregate l’una contro l’altra.
                «Ascoltami bene: Cavaliere della Chimera! Sono venuto qui in questo torrido pantano di sabbia, fango e sterco solo per te. E presto o tardi finirò il mio lavoro! Prima farò a pezzettini questi fanatici di un dio che non esiste. E poi, quando avrò finito, verrò da te e ti ridurrò in pezzetti ancora più piccoli!» a questo punto, per l’ennesima volta, sorrise. Marcus si maledisse per avergli permesso di continuare ulteriormente quella scenata, e guardò Yashua e Sawela come a domandargli: “possiamo andare, ora?”. Quelli capirono e, evidentemente d’accordo, fecero strada di nuovo per la cella di Marcus.
                Mentre camminava dinanzi allo stesso Andalo, senza voltarsi nel rivolgergli la parola, Yashua disse: «È stato un tentativo futile, ma andava fatto. Adesso purtroppo torniamo a brancolare nel nostro buio: non sappiamo e forse mai sapremo di che cosa veramente si tratti… ma lo terremo qui anche fino alla fine dei tempi. O almeno fin tanto che saremo in grado di trattenerlo, il che significa fin tanto che io sarò in vita»
                «Che cosa vuol dire tutto ciò?»
                «Quella creatura si rigenera con un ritmo lento ma costante. Va continuamente tenuta d’occhio e ogni volta che una parte, anche piccola, riemerge fuori, va di nuovo annichilita. E in questa nostra dimora l’unico individuo in grado di possedere un potere che può scalfire la massa di quell’essere sono io… perciò, finché io sarò in vita e non avremo trovato alternative, esso continuerà a rimanere nello stesso stato in cui si trova ora: non completamente distrutto, ma neanche completamente abile, e questo è il massimo a cui per il momento possiamo ambire, visto che quel maledetto teschio non ne vuole sapere di subire la stessa sorte del resto del corpo»
                «Avete provato a interrogare il vostro dio? Non possiede forse tutte le risposte, lui?». Marcus non sapeva da dove avesse preso, all’improvviso, tutta questa audacia, visto che era un prigioniero nelle mani di un fanatico pericoloso, però si accorse purtroppo di aver pensato quelle parole solo un attimo dopo averle anche pronunciate. Yashua si voltò verso di lui di scatto, con aria rabbiosa, e puntandogli una mano sul petto: le punte di quelle dita erano roventi come il fuoco. «Mettiamo bene in chiaro una cosa!» esclamò minaccioso lo stregone «Dio non è una cosa stupida! È come un padre. Egli è mio padre! Di’ un po’, figliolo, ti rivolgeresti a tuo padre con il medesimo tono sarcastico con cui pocanzi ti sei rivolto al mio?»
                «Non ero sarcastico!»
                «Non mentirmi!». Visto che a quest’ultima esclamazione di Yashua, comparvero anche delle chiare scintille dalle dita che teneva ancora poggiate sul petto di Marcus, quest’ultimo provò a rettificare: «Io… domando scusa»
                «Non scusarti! Rispondi! Ti rivolgevi così a tuo padre?»
                «Nossignore»
                «Beh considera che quello non è solo mio padre, è anche il padre di migliaia di altri figli, di milioni. E ti dirò di più: che tu ne sia mai consapevole o meno, quello è anche tuo padre. Dovrai abituarti all’idea finché resterai chiuso nella tua cella» Yashua tolse dunque la mano. Si calmò e continuò con un tono più pacato: «Per rispondere alla tua domanda: io non mi rivolgo a dio. Non gli chiedo favori, al massimo posso rivolgergli preghiere, e non posso pretendere che esse vengano esaudite, perché lui sicuramente avrà dei piani a cui pensare, cose che io nemmeno riesco a immaginare. A te non capitava mai, da piccolo, di volere qualcosa e non poter averla e non capire il perché? E per quanto imploravi tuo padre, lui non te la dava, e tu non capivi il perché e solo da grande hai poi maturato la consapevolezza che… egli avesse avuto ragione e avesse agito sempre nel tuo interesse e per il tuo bene?»
                «Io… sì, signore»
                «Allora non rivolgerti più al mio dio con quel tono, piccolo insulso Marcus dell’occidente». Yashua non gli parlò per il resto del tragitto. Né lo fece Garhel Sawela. Quando arrivarono alla cella, e Marcus vi fu rinchiuso dentro a chiave, da attraverso le sbarre lo stregone gli comunicò: «C’è una cosa che tu e la tua chimera dovrete fare per me»
                «Che cosa?»
                «Tempo al tempo, Cavaliere della Chimera. Tempo al tempo». Detto ciò, ma con un sorrisetto che l’Andalo di Casa Lannister avrebbe definito “maligno”, lo stregone dell’unico dio dell’oriente si avviò per la sua strada. Per un breve istante, a Marcus parve invece che Lord Sawela volesse soffermarsi. Ne approfittò per implorare prima con un tono di voce normale: «Lord Sawela», e poi – quando, fingendo di non aver sentito, anche il politico si defilò dietro al “sacerdote” – con un tono di voce molto più alto: «LORD SAWELA!». Non ci fu niente da fare: Marcus avrebbe volentieri scambiato due parole con forse l’unico uomo nell’arco di parecchia distanza che, oltre a lui, aveva conosciuto il continente occidentale. Capire perché si fosse asservito a quel pericoloso fanatico; e soprattutto sperare in una vicinanza da parte dell’unico uomo tra i suoi carcerieri che aveva già conosciuto in precedenza.
 
 
 
                Daniel si svegliò di soprassalto. Aveva già concentrato parte della propria energia interna verso il palmo della mano sinistra, pronto a scagliare una palla di fuoco, quando si accorse che a svegliarlo era stato solo Cordell. Eppure il suo vecchio servo gli parse parecchio agitato…
                «Cordell!» disse il principe Piromante; e il vecchio servo: «La pietra! Mi è stata sottratta!»
                «Cosa?! Ma come!»
                «Sh! Fate silenzio, signorino» gli consigliò il vecchio, sussurrando, «Non dev’essere distante! Andiamo a riprendercela!»
                «Non potrebbe soltanto essere…» propose piano Daniel, mentre cercava di rivestirsi il più in fretta possibile, «Che… non so… ti sia sfuggita di mano?»
                «Signore mi conoscete da quando siete nato, eppure continuate a sembrare serio ogni volta che dite stupidaggini simili sul conto della mia efficienza»
                «Sono serio! Sei un vecchio!»
                «Un vecchio molto più abile di voi nella lotta e nella spada»
                «Sì, ti piacerebbe!». E mentre continuavano a battibeccare in tal modo, il principe e il suo servo si ritrovarono a girovagare senza una vera e propria meta per i corridoi di quella fredda e periferica dimora degli Applegate. Anche se Cordell pareva piuttosto sicuro di quello che stesse facendo, Daniel intuì che invece qualcosa non stava andando per il verso giusto. Purtroppo, lo intuì troppo tardi…
                Una luce si accese e il principe di Cowain capì che lui e il suo servitore avevano decisamente sbagliato strada. O forse no? Stava di fatto che il Lord degli Applegate gli disse: «Perduto qualcosa, miei signori?». Se ne stava seduto – unico in quella sala – su uno scranno, con suo figlio Elthon alla propria destra. Il resto degli uomini Applegate in piedi, militari e dignitari, sembravano tutti ben svegli e attenti, nonostante ancora il sole non avesse nemmeno albeggiato. Applegate stringeva in mano la piccola Pietra di Luna, e sorrideva con l’aria di qualcuno che ha appena vinto la gara perché ha azzoppando il rivale più forte.
                «Signore!» fece subito Cordell, e Daniel sperò che il suo servo componesse la più utile delle combinazioni di parole, «Devo dire che questo non mi sembra affatto un atteggiamento convenevole, verso l’uomo che è fratello del vostro re»
                «Il mio re…» rise Lord Applegate, non celando una certa amarezza, «Da che mondo è mondo non ci sono molti re qui nel nord, mio caro Sir Cordell. Tanti piccoli reucci, ma veri re… probabilmente non se ne vedono da secoli, che ne dite?»
                «L’autorità reale si manifesta come meglio può in ogni regione del Regno, e comunque nessuno ha il diritto…»
                «Oh, ma smettetela di cantarmi questa “autorità reale”, vecchio campanaccio! Qui nel nord ci siamo solo noi uomini del nord! Gli Applegate! E i Willoughby. E più a sud i Worchester e i Bolton… Fine. Non c’è re: io personalmente non ne ho mai visto uno!»
                «Lord Applegate!» a questo punto Daniel decise di prende l’iniziativa e, dicendo quello che aveva appena detto, decise anche di posizionarsi dinanzi al suo servitore. Continuò: «Ditemi solo qual è il problema. E vediamo se possiamo risolverlo…»
                «Ecco! Queste sì che sono le parole che un vecchio pomo del nord come me avrebbe dovuto sentirsi dire da un pezzo: bravo, giovanotto!»
                «Allora?»
                «Allora: siete davvero Daniel di Casa Lannister?»
                «Non ho le prove di questo. Dovrete fidarvi della mia parola; e, quanto sono veri gli dèi, io vi dico che: sì, lo sono»
                «E che cos’è questo gingillo che tengo in mano e che non ha effetto su di me né su alcuno degli uomini, tranne che su di voi?»
                «Esso si chiama “Pietra di Luna”. E a quanto pare è in grado di annullare parte di un tipo di energia che solo io posso generare… io e pochi altri!»
                «Magia nera!»
                «Nossignore, affatto. Mai ho usato, e mai utilizzerò, questi miei poteri per fini che non ritenga nobili e di auspici degli dèi. Glielo giuro»
                «Da settimane ormai – direi anche mesi – queste nostre benedette terre sono devastate da fenomeni prima assolutamente sconosciuti in questi luoghi. Prima la terra che trema e tira giù le nostre case. Poi… la neve che si scioglie come fosse burro e piante e fiori dappertutto, e infine… l’arrivo di questo demonio con fattezze che sembrano solo sfottere quelle umane. E… un sorridente teschio nero come l’ora più buia della notte. Poi spunti tu, principe del sud, e ci dici che hai de poteri “magici” che si estinguono con una pietra!»
                «Mio signore, purtroppo ho capito solo la metà delle cose che dite, e comunque di tutte non ne intuisco il senso: qual è il vostro problema e cosa volete da noi?»
                «Voi avete davvero poteri magici?»
                «Sì»
                «Allora dovete aiutarci. C’è una guerra che si prepara contro gli Applegate. Con i Willoughby pronti a farci le scarpe da dentro, e quel mostro deforme di Uryon Worchester pronto a marciare su di noi da sud. Non so bene cosa stiano aspettando, ma so che accadrà presto e che noi dobbiamo essere preparati. E tuo fratello, se davvero tuo fratello è il re, dubito che interverrà in qualche modo per impedire quest’illecito e sacrilego colpo di stato ai danni dell’ordine costituito nel nord. Siamo soli, mio principe, e abbiamo bisogno di un aiuto… da quando peraltro è comparsa questa cosa… questo diavolo… la gente lo ha preso come un segnale: gli dèi non vogliono più gli Applegate alla guida dell’estremo nord. E hanno mandato i loro soldati, prima ancora che l’orso Worchester mandi i suoi… molti si limitano a scappare, altri invece passano esplicitamente al nemico: sempre di più. E io, mio signore, dopo tre missive disperate al re che sempre mi risponde che in questo momento ha altro a cui pensare… non ho più idee. Se davvero siete un mago… e se davvero siete un Lannister… ci darete una mano?»
                «Mio signore, io non so bene cosa sia questa cosa che abbia colpito il vostro regno, ma certo la sua descrizione – e in particolar modo il teschio nero – risveglia in me certi oscuri ricordi. Vi ripeto che non so cosa sia, e aggiungo che non ho idea di come possa essere sconfitto. Tuttavia, prima che gli uomini Willoughby ci prendessero, ero diretto a nord: ancora più a nord. Lì potrebbe trovarsi qualcosa che riesca farci luce»
                «Io non so se abbiamo tutto questo tempo da perdere, principe Daniel…»
                «Purtroppo non ho alternative da proporvi. Ma vi do la mia parola e vi dico che, fatto quello che devo fare a nord, tornerò giù e non me ne andrò fino a quando non avrò fatto tutto quanto in mio potere per dare una mano alla sempre fedele Casata degli Applegate. Voi ci avete liberato dai Willoughby, salvandoci la vita: per cui non mento se dico che con voi io ho un debito di vita. E voi, mio signore, sapete bene secondo un antico e mai smentito detto popolare, che cosa noi Lannister facciamo quando abbiamo dei debiti»
                «Li pagate sempre!» esclamò il Lord degli Applegate, con occhi sognanti rivolti al cielo. Aveva appena pronunciato quelle semplici parole come se si trattassero di una normale conseguenza matematica, e non di un auspicio. Era come se tutti i calcoli nella sua testa tornassero, e il problema avesse avuto finalmente una sua soluzione. Il nobile signore si alzò dal proprio scranno e andò verso Daniel: lo oltrepassò e consegnò la Pietra di Luna nelle mani salde di Sir Cordell. Poi si inginocchiò di nuovo verso Daniel e, dietro di lui, lo fecero anche tutti gli altri Applegate. Dunque disse: «Vogliate perdonarmi, signore, se vi ho mancato di rispetto. Talvolta un uomo disperato è capace di offendere perfino quanto di più caro ha al mondo: la propria famiglia, i propri dèi… o persino il proprio regno»
                «Alzatevi, mylord: ve ne prego» fece Daniel, piuttosto in imbarazzo: neanche a Cowain, nemmeno a Roccia del Re, ricordava che tanti uomini si fossero mai inchinati a lui contemporaneamente. Francamente la situazione neanche lo gratificava più di tanto. Così, quando vide che non lo stava facendo, costrinse Applegate a rimettersi in piedi con la forza. Dopo il loro signore, anche tutti gli altri Applegate si rimisero in piedi. E il vecchio Lord disse ancora al suo principe: «Data l’offesa che vi ho arrecata, signore…»
                «Non c’è stata alcuna offesa, Lord Applegate…»
                «Sì invece: c’è stata. E, per rimediare, lasciate che vi offra un piccolo aiuto per il vostro viaggio: il miglior spadaccino che abbiamo tra le nostre fila. Mio figlio»
                «Cosa?!» si fece sentire Elthon fin da dov’era «Ma padre…»
                «È da mesi che non mi servi a niente: servirai il tuo regno!»
                «Ma se giorno dopo giorno ti porto lo scalpo di Willoughby sconfitti!»
                «Sì? E come ha permesso ciò di trasformare la nostra posizione strategica? Tu uccidi Willoughby, e intanto cos’è cambiato? Noi siamo sempre meno di numero, e sempre più scoperti su sempre più fronti! Quest’uomo ci può aiutare, e tu andrai con lui!»
                «Lord Willoughby» propose Daniel di Cowain, sempre più in imbarazzo, «Noi non necessitiamo di ulteriore aiuto: in due viaggeremo più rapidi e…»
                «Sciocchezze: mio figlio è il guerriero meglio addestrato dell’intero nord. Lui è abile e resistente. E oltretutto con lui al vostro fianco potrete richiedere ospitalità dovunque nel nord: tutti conoscono Elthon Applegate qui. Non che ci siano molte anime, in effetti, verso dove siete diretti: non è così?»; a questo punto il Lord rise con affabilità: Daniel si accorse che gli pareva completamente un altro uomo, rispetto a quello che pochissimo tempo prima gli aveva sottratto la Pietra di Luna nella tarda notte e poi lo aveva atteso nella sua “sala del trono” per domandargli con aria minacciosa se l’avesse persa…
                «Inoltre, se posso permettermi» propose Cordell, non celando un certo tono provocatorio, «Così agendo, avrete anche modo di controllarci: giusto signore?»
                «Controllare che siate sani e salvi. Controllare che arriverete dove dovete arrivare e poi tornerete, sempre tutti d’un pezzo, questo sì, Sir Cordell. Ma controllare i vostri affari, impicciarci insomma… no: non fatemi così stupido. Ho già mancato di rispetto al mio principe una volta: non lo farò di nuovo. Questo posso garantirvelo. Io non sono un Lannister, ma sono uno dei signori di cui si compone il regno di cui Axelion Lannister è il re. E giuro che manterrò la mia parola: potesse morire la mia progenie!»
                «Hey!», questa volta il giovane Elthon direttamente decise di andare incontro a Daniel. Prima di tornare a inginocchiarsi, sfilò la propria spada e, dirigendone la punta affilata verso la terra, esclamò: «E allora io vi seguirò, servendovi nel meglio delle mie possibilità: dovessero spegnersi i miei padri!». Detto ciò, Elthon si rialzò e sorrise al principe di Cowain. Quest’ultimo e Cordell non poterono dunque che accettare la proposta dei lord dell’estremo nord. Erano liberi ora: lasciarono quell’accampamento quando meglio credettero. Il che significò poche ore più tardi…

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Capitolo 17
*** La puttana e il guerriero-ombra ***


Capitolo 17
LA PUTTANA E IL GUERRIERO-OMBRA
 
 
                «Devi ammettere però» disse Gino di Lungotavolo, stremato, «Che non è tanto semplice questa cosa, fin tanto che debbo farla dentro una carrozza in movimento»
                «Vuoi dire che riusciresti a farlo» gli rispose Kellan, non celando una certa ironia, «Se ti trovassi in condizioni di assoluta stabilità?»
                «Io direi di sì!»
                «Me lo dimostrerai a Cowain, questo. Per il momento: abbiamo solo la carrozza di Lord Braff: non vorrai contestarne la comodità…». In effetti quella era la carrozza più grande dentro la quale Gino avesse mai viaggiato. Da lungo tempo non aveva dormito in luoghi così comodi, visto che i viaggi da Lungotavolo a Roccia del Re e da Roccia del Re a Dorne li aveva entrambi fatti a cavallo, e quando aveva dormito alla Capitale, così come quando aveva dormito alla Reggia dei Girasoli, aveva dormito in squallide e piccole celle per uomini della guardia. Insomma: era da quando non faceva il signore ed erede presso il castello di Lungotavolo che non dormiva comodamente; la carrozza di Braff si era rivelata un toccasana da questo punto di vista; era grande come un’ampia camera, ed era trainata da qualcosa tipo otto muscolosissimi stalloni orientali. Praticamente una specie di camera in movimento. Come gli altri uomini-ombra – oltre Kellan – si spostassero, era invece per Gino rimasto un mistero. Sia Braff all’inizio che Kellan nel corso del loro viaggio, gli avevano assicurato che praticamente essi gli sarebbero stati dietro, eppure non c’erano cavalli che seguivano la carrozza, e men che meno uomini a piedi. Quello era uno dei tanti misteri che aleggiavano attorno all’idea di “guerriero-ombra” e che Gino sperava di chiarire nel corso di quella sua avventura a Cowain in compagnia della gran parte degli uomini a servizio del Maestro dei Sussurri. Quest’ultimo, a quanto aveva avuto modo di capire il rampollo di Lungotavolo, era partito proprio per il secondo insediamento dell’Altopiano (il primo era Altogiardino) in compagnia di non più di due o tre uomini. Tutti gli altri erano con Gino, anche se Gino non aveva idea di quanti potessero essere: dieci? Quindici? Trenta? Cinquanta? Bisognava anche considerare che di sicuro buona parte dell’esercito a disposizione del politico della Capitale, fosse rimasta appunto nella Capitale, da una parte a far finta di restare al servizio delle istituzioni del Regno, e dall’altra a garantire che niente e nessuno sottraesse a Braff, nel corso della sua materiale assenza, una delle poltrone più ambite in assoluto nel contesto della politica occidentale.
                Da diversi giorni ormai, per non dire anche “qualche settimana”, Gino viaggiava alla volta di Cowain, e da diversi giorni – in teoria – Kellan lo stava addestrando in alcune di quelle che dovevano essere le abilità fondanti il mestiere di uomo al servizio di Lord Braff. Come prima cosa, lo aveva fatto spogliare dei suoi abiti da guardia e vestito di nient’altro che una specie di leggerissima divisa – che Gino aveva già avuto modo di vedere indossata su Kellan e su altri uomini della Capitale – che lo faceva sentire nudo, anche più di quando fosse stato nudo veramente. Kellan gli aveva detto che quel genere di divisa intera effettivamente non era stata pensata per uomini della stazza del rampollo dei Barron: tutti i guerrieri-ombra erano infatti molto magri, invece Gino si sarebbe definito un uomo più “robusto” che magro. Stava di fatto che con quel completino da orientale si sentiva già abbastanza ridicolo. Inoltre Kellan, per metà del viaggio, non aveva fatto altro che sfidarlo in gare di agilità: e più pareva accorgersi che Gino fosse meno abile di lui, più insisteva nell’umiliarlo in quel genere di cose. La prova che Gino stava tenendo adesso consisteva nel recuperare una foglia che Kellan lasciava cadere da una parte a sorpresa della carrozza, prima che essa toccasse il suolo. Detta così, sembrava una stupidaggine: e Gino mai avrebbe detto che avrebbe avuto delle difficoltà a fare qualcosa del genere. Ma la verità era che le abilità di Kellan continuavano a parergli disumane, assolutamente sproporzionate rispetto a quello che lui, che pure era stato bene addestrato ai tempi di Lungotavolo, fosse in grado di replicare. I movimenti del servitore di Braff gli ricordavano quelli rapidi e a scatti degli uccelli di piccole dimensioni: Kellan era in grado di ritrovare un equilibrio perfetto anche nelle più improbabili delle posizioni (pure su una gamba, pure sopra una superficie instabile tipo un tavolino a tre piedi), dopo movimenti incredibilmente scattanti e di conseguenza complessi…
                Poi c’era stata tutta quella lunga fase della polvere nera… Kellan aveva mostrato a Gino questa particolare sabbia del colore della notte, proveniente da chissà quale remota provincia del regno, in grado – qualora gettata con vigore al suolo – di spegnere ogni luce in un arco di diverse decine di piedi: la grossa carrozza ad esempio, quando Kellan vi aveva gettato la polvere al di dentro per mostrarne il potere a Gino, si era immediatamente rabbuiata del tutto. La durata dell’effetto tuttavia riguardava pochi secondi, un paio di minuti al massimo, eppure sufficienti per permettere al principale degli uomini-ombra di Lord Braff di sparire completamente dalla visuale del rampollo di Lungotavolo. Si trattava di trucchi: Kellan non aveva fatto altro che mostrare a Gino una serie di trucchi, ma per Gino tutto ciò non era credibile. Continuava ad essere dell’opinione che ci fosse qualcosa di oscuro in tutta quella faccenda, e che Braff non è che si stesse proprio prendendo gioco di lui (inviarlo a parlare con Xalandra anzi era un gesto di non poco valore), ma che si divertisse a sbeffeggiarlo, questo sì.
                La cosa che davvero invece Gino aveva considerato utile, che aveva appreso da Kellan sempre nel corso di quel viaggio in carrozza, erano state le nuove mosse nel caso di uno scontro corpo a corpo. In questo doveva dire che l’addestramento era stato più che utile: Kellan conosceva un numero incredibile di punti da attaccare nel momento giusto per uccidere l’avversario, oppure per atterrarlo senza ucciderlo. Quello che Gino avrebbe fatto d’istinto nel caso di un tal genere di scontro, prima che Kellan entrasse nella sua vita, sarebbe stato scagliare pugni: al viso e alla bocca dello stomaco. Kellan invece gli aveva aperto tutto un altro mondo: i fianchi, gli stinchi, le caviglie, i gomiti, la schiena e soprattutto il collo e la gola. Un vero uomo-ombra – gli aveva spiegato Kellan – per prima cosa, se vuole essere letale, verifica se gli è possibile attaccare alla gola, e agisce di conseguenza. Per intere lunghe mattinate, Gino si era allenato con Kellan nel tentativo di atterrarlo e senza mai riuscirci. Cercava di ripetere le mosse dell’uomo-ombra, sia quando Kellan lo buttava a terra sia quando lo immobilizzava completamente, o gli diceva che se avesse proseguito lo avrebbe ucciso. Per troppe volte Gino si era accorto di aver tenuto la gola scoperta, e per troppe volte Kellan vi aveva poggiato le mano e detto: «Se lo facevo più forte, morivi». Ultimamente si era accorto di esser fatto un po’ più bravino, e che l’uomo fidato di Lord Braff ci mettesse un po’ di più a neutralizzarlo. Ma comunque, anche in quell’ambito, Kellan continuava a farlo sentire non molto di più che un impedito qualsiasi…
                A un certo punto, mentre per l’ennesima volta Gino cercava di raccogliere la dannata foglia prima che toccasse il suolo, la carrozza tremò tutta bruscamente e poi si fermò: non l’aveva fatto sostanzialmente da quando erano partiti. Gino chiese a Kellan: «Che succede?»
                «Non lo so» gli rispose il guerriero-ombra «Siamo vicini a Cowain, ma non credo che siamo arrivati…»
                «Allora?»
                «I ragazzi devono aver fermato i cavalli per qualche altra ragione. Vado a controllare. Se non dovessi tornare entro un tempo che ti paia ragionevole…» dicendo questo, Kellan era già giunto fuori da quella camera in movimento, «Aspetta un po’ di più!». Dunque il giovane guerriero sorrise al giovane Barron, e si chiuse la carrozza alle spalle. Gino vi rimase dentro, da solo, in attesa…
                Stava cominciando a pensare che il tempo non gli pareva più ragionevole, quando udì da fuori quella che riconobbe chiaramente come la voce di Kellan urlare: «GINO!». Si trattava di una inconfondibile richiesta d’aiuto e, anche se non avrebbe mai pensato che questo momento sarebbe un giorno arrivato, il giovane non trovò null’altro da fare che rispondere alla richiesta del nuovo letale amico. Non appena fu fuori dalla carrozza, un dardo gli sfiorò il lobo dell’orecchio e andò a conficcarsi proprio sul portello del mezzo. Gino aveva freschissima la sua ultima ferita da freccia: era quella che gli uomini dei Tyrell gli avevano causato a un fianco e che solo da poco, grazie alle sapienti mani di Kellan (che sì: era anche un discreto curatore), si era completamente rimarginata. Per tale ragione, il giovane Barron sapeva quanto male facesse, e quindi agì prontamente al fine di non cadere di nuovo vittima della stessa arma: rientrò nella carrozza e prese il sacchetto con la polvere nera. Una freccia scagliata con incredibile potenza colpì la carrozza e riuscì perfino a penetrarla ed entrare, anche se mancò Gino di parecchio. Il giovane uscì di nuovo e, nello scaraventare per intero il sacchetto al vuoto, liberandone così il potere mistificatore, una freccia non gli colpì la parte bassa della gamba per una questione di pochissimo. Nella radura cadde improvvisamente la notte, e Gino corse via, decidendo di lasciare la strada principale immettendosi tra i meandri della boscaglia.
                Ovviamente non aveva idea di che cosa stesse succedendo e di chi stesse attentando alla sua vita: poteva ipotizzare i Tyrell, ma la voce razionale e sospettosa dentro di lui non poteva che fargli notare che quel tipo di agguato somigliava inaspettatamente al tipo di agguati che Gino avrebbe detto organizzati da guerrieri-ombra. La precisione dei dardi, scagliati da chissà quale distanza, e soprattutto la meticolosa attenzione nel non lasciar vedere chi o che cosa li stesse librando, erano elementi tipici di un agguato da guerriero-ombra: ormai il rampollo di Casa Barron pensava di avere abbastanza esperienza per concludere una tesi del genere… l’unico fattore che continuava a creargli qualche dubbio era: guerrieri-ombra che attaccano dei guerrieri-ombra? Guerrieri-ombra traditori, dunque? Guerrieri-ombra che smentiscono la loro proverbiale lealtà al Maestro dei Sussurri? Improbabile, decisamente improbabile…
                Riflettendo su tutto questo, Gino aveva corso più veloce che poteva e, unitamente alla liberazione della polvere oscura, questo doveva più o meno garantirgli salva la vita. Non si fermò, ma decise di rallentare considerevolmente il passo. Non l’avesse mai fatto: un guerriero-ombra gli piovve addosso praticamente dal nulla (Gino avrebbe giurato dall’alto). Era di sicuro un guerriero-ombra: era vestito come loro, e soprattutto stava attaccando Gino con le stesse mosse corpo a corpo che il giovane aveva visto eseguite già da Kellan. Solo che di Kellan il nuovo aggressore era molto più aggressivo: anche lui non puntava ad uccidere il Barron – questo era evidente – però voleva immobilizzarlo, possibilmente facendogli molto male. Tuttavia Gino si accorse che, incredibilmente, stava reagendo bene allo scontro: riusciva ad aggirare ogni colpo del guerriero, nonostante la rapidità di quest’ultimo e il suo scopo, così palesemente diverso da quello che era stato di Kellan: sconfiggere, piuttosto che addestrare. Fu un colpo al ginocchio con il ginocchio a neutralizzare definitivamente il giovane: peraltro Gino lo aveva anche previsto, solo che era arrivato troppo repentinamente e non gli aveva lasciato il tempo di pensare come arrestarlo. Gino cadde su una gamba, poi, con un dolorosissimo colpo al petto, il guerriero-ombra lo costrinse definitivamente schiena a terra. Infine estrasse un minuscolo pugnale puntuto da dentro la manica, lo impugnò saldamente e lo piazzò sul collo del ragazzo. Cominciò anche a fare pressione, quando venne arrestato da un: «Basta così». Era stata la voce di Kellan ad affermare queste ultime parole…
                Tutti gli uomini ombra, ammantati nelle loro vesti scure, uscirono da dietro la boscaglia. Erano assai più numerosi di quanto Gino avesse immaginato; assai più numerosi di quanti se ne sentisse di contare… Kellan si fece avanti, scoprendo il volto e tornando a sorridergli. Irritato e amareggiato, oltre che ancora in preda alla tensione, Gino gli domandò: «Ma che diavolo state facendo?»
                «Un esame. Che purtroppo non hai superato…»
                «Cosa? Ma come?! Così, all’improvviso?»
                «Siamo quasi arrivati a Cowain: doveva essere fatto. Per capire quanto avessi appreso nel corso del tragitto»
                «Beh, e perché non lo avrei superato?» fece a questo punto, polemico, Gino di Casa Barron, «Alla fine, parto da una condizione molto più svantaggiata della vostra!»
                «Sì, infatti la bocciatura non dipende dal fatto che adesso il nostro Hyan sia riuscito ad atterrarti: questo era scontato»
                «Allora?»
                «Il problema è che ti sei fatto raggiungere: all’inizio hai agito bene, il fatto che rientrassi nella carrozza e sparpagliassi la polvere era del tutto imprevisto. Sei stato bravo, anche se ti chiedo di non farlo mai più: quella polvere è costosissima, oltre che rarissima… per fare quello che ti serviva, bastava gettarne meno di un pugno colmo, e non l’intero sacco!»
                «Ero bersagliato da una coltre di frecce: non ho avuto il tempo di calcolare le dosi esatte!»
                «Difatti ti ho detto che va bene: il tuo obiettivo era sfuggirci e per questa prima parte ci stavi riuscendo…»
                «Ma?»
                «Nel momento in cui hai scelto di introdurti nella boscaglia, cosa ovvia visto che la strada ti lasciava completamente scoperto, perché hai scelto di proseguire lungo la linea retta della carrozza?»
                «In che senso?»
                «La polvere ti dava il tempo di avanzare verso l’aggressore e scegliere di introdurti nella boscaglia a partire da un punto più vicino a lui… oppure allontanarti quel poco che bastava per non scegliere, insomma, la via più banale, quella della carrozza, che è stata quella che noi abbiamo scelto e, perseguendo la quale, ti abbiamo trovato…»
                «Non ho capito… una volta scagliata la polvere io… dovevo venirvi incontro, superare la carrozza, e solo allora entrare nel bosco?»
                «Esattamente. Noi non avremmo continuato a scagliare frecce in mancanza di visuale: le probabilità di colpirti sarebbero state troppo scarse, e un buon assassino non spreca mai le proprie risorse…»
                «Io… beh… non ci ho pensato!»
                «Hai scelto la via più logica, questo un guerriero-ombra non lo farebbe mai»
                «I guerrieri-ombra… sembrano essere disumanamente rapidi non solo nei movimenti, ma anche nei pensieri: sembrereste avere la lucidità di uno che ha tutto il tempo del mondo, nel momento in cui esso sembri invece sul punto di estinguersi e da determinare così una catastrofe piuttosto che un’altra…»
                «Sono tutte qualità che tu puoi, anzi: ci siamo prefissati che tu debba, raggiungere. Sarà arduo, ma ci riuscirai: non sono queste le cose che determineranno il tuo non entrare ufficialmente a far parte dei guerrieri-ombra…»
                «Ah, no? E quali sono allora?»
                «Beh, prima di tutto – anche se meno rilevante – il fatto che tu sia di nobili natali: nessuno di noi lo è. Hai possibilità che a noi non saranno mai concesse»
                «E… secondo?»
                «Secondo, direi che Lord Braff provi nei tuoi confronti una specie di inspiegabile forma di affetto: non ti lascerebbe mai fare quello… che noi siamo obbligati a fare»
                «E… che cosa sarebbe questo così misterioso e apparentemente sconveniente…»
                «Ora… basta con le domande, Gino di Casa Barron: siamo praticamente arrivati e la signora Xalandra ti attende»
                «Siamo davvero così vicini?». A questa domanda del giovane Barron, Kellan il guerriero-ombra non rispose. Si limitò ad avvicinarsi alla fronda di un albero e sollevarla: Gino ebbe dunque modo di osservare chiaramente la piccola baia su cui il borgo di Cowain si affacciava. Da anni non osservava quel ridente e luminoso panorama! Tornò così alla carrozza di tutta fretta.
 
 
 
                «Hey Constant! Perdonami: non avrei mai interrotto il tuo riposo, ma… credo che sia proprio il caso che tu questa venga a vederla». A venirlo a convocare nei suoi alloggi era stato direttamente il suo ospite, il Lord di Lungotavolo. La cosa era già di per sé insolita, visto che in anni di vita condotta tra vari palazzi nobiliari, il Lord Primo Cavaliere non aveva mai visto un signore di quel rango recarsi lui personalmente a chiamare qualcuno. Inoltre, la seconda cosa che Constant aveva avuto modo di notare, era stato il particolare entusiasmo del signore di Lungotavolo: come se quello che stesse per fargli vedere si trattasse di un’occasione più unica che rara. Non trovò molto di meglio da fare che assecondarlo: rimise gli stivali ai piedi e lo seguì.
                Riuscire a fuggire dalla Capitale, lasciandosi alle spalle quella marmaglia di plebei impazziti, si era rivelata un’impresa assai faticosa. Aveva dovuto fare della magia, si era stancato, si era nascosto, era scappato e infine, in preda alla estrema debolezza, aveva perduto i sensi sotto un albero non troppo distante dalle mura della città. Come mai nessuno (uomini del re, uomini di Braff) lo avesse scovato e riportato dentro, Constant questo non lo sapeva: doveva aver dormito sotto quel pero per almeno mezza giornata. Quando si risvegliò, era il tramonto di nuovo.
                Ora, mettersi in viaggio per Dorne, a piedi, e cercando di non farsi riconoscere, sarebbe stata, anche per un uomo pieno di risorse come lui, un’impresa non poco improbabile. Così, il Lord Primo Cavaliere aveva avuto la geniale idea di fare qualcosa che non molti nobiluomini potevano vantarsi di aver fatto nella vita: chiese un passaggio a un popolano che trasportava bestiame (maiali per l’esattezza) dalle campagne limitrofe a Roccia del Re fino all’Altopiano, Lungotavolo in particolare. Una volta ricevuto l’assenso del porcaro, facendo attenzione a non farsi bene vedere in viso e a coprire le proprie pregiate vesti con il mantello, Constant salì sul carro: quell’uomo era sempre un uomo del popolo, e, fino a poche ore prima, uomini del popolo avevano cercato di fargli la pelle, massacrando peraltro il Gran Maestro delle Scuole e degli Ospitali. In quel particolare momento della storia del continente occidentale, era meglio essere un nessuno piuttosto che un uomo ricco o peggio un uomo di potere. Invece ebbe la fortuna che il porcaro si rivelò come un poveraccio dal cuore d’oro che non solo gli diede un passaggio, ma condivise anche parte dei propri viveri con lui. Cercò anche di trascinarlo in un paio di conversazioni, nonostante Constant si sforzasse di risultare quanto più distaccato e scorbutico possibile: tuttavia, sebbene da una parte fosse ben intenzionato a non farsi scoprire, dall’altra se l’uomo che gli stava dando un passaggio e stava condividendo il cibo con lui, voleva anche scambiare quattro chiacchiere… il Lord Primo Cavaliere non poteva che assecondarlo, e così fece: parlò del tempo, delle donne, e di quei gran bastardi di Roccia del Re che si tenevano per loro tutte le risorse senza spartirle neanche in minima parte con “noi poveracci”…
                I Barron di Lungotavolo erano alfieri della Casa Tyrell. In teoria – ma solo in teoria – Constant si stava dirigendo a casa di alleati… ma la lunga esperienza politica che aveva avuto modo di accumulare come detentore della seconda carica in capo del Regno Unificato, gli faceva pensare che in effetti in quel genere di cose era meglio non dar mai nulla per scontato. Anzi, una antica tradizione voleva che proprio la seconda Casa di un determinato territorio istituito – e i Barron erano i secondi dell’Altopiano – fosse normalmente la più tentata a spodestare quella che era la prima, ovvero nel caso dell’Altopiano e dell’intero sud: i Tyrell. Lorthan non aveva mai segnalato a Constant alcun genere di conflitto nel territorio sotto la sua giurisdizione: da quello che il Maestro del Conio lasciava trapelare, problemi nell’area tra l’Altipiano e Dorne non ne esistevano. Tutti si riconoscevano nell’autorità dei fratelli patricidi Shane e Lorthan, sempre a detta di quest’ultimo. Ora, era pur vero che normalmente un grosso politico come Lorthan, proprio per mestiere, tendeva sempre a glissare su qualsiasi dettaglio “scomodo” relativo alla sua attività, ma d’altro canto, Constant e Lorthan – oltre che alleati legati a doppio filo – erano anche amici di vecchia data, e quindi in effetti Constant si sarebbe almeno stranito se, giunto da Lord Barron, quest’ultimo gli avesse detto: “io odio i Tyrell, e adesso ti riporto di volata a Roccia del Re, incatenato come un animale”.
                Raggiunse Lungotavolo in una tarda mattinata, non molto prima dell’ora di pranzo. Ringraziò il porcaro per le sue generosità e compagnia, e si recò al castello dei Barron a piedi. Si fece proclamare come il Lord Primo Cavaliere: ormai era in ballo e non poteva fare nient’altro che ballare! Già ponderava che, in caso di un’accoglienza diversa da come se l’aspettava, i suoi poteri sarebbero stati pronti per rendere due o tre uomini della volpe dell’Altopiano statue di ghiaccio. A Constant non piacque l’espressione sul volto di Lord Barron, per tutto il tempo che si trovò al suo cospetto lo trovò ambiguo: come se avesse qualcosa da nascondere. Ovviamente non fu in grado di imputare la cosa a un legittimo sospetto piuttosto che a una forma di esagerata suggestione, stava di fatto che la volpe della Dodecapoli lo accolse con tutti i crismi, gli diede da mangiare e da riposare, non solo: volle rendersi anche simpatico, confermando tutta la sua amicizia sia con Constant che soprattutto con Lorthan Tyrell, e poi liberandosi addirittura alla vera e propria confidenza, tra battute sarcastiche e fin troppe pacche sulle spalle. Ma a poco a poco il tempo trascorse, e Constant non poté fare a meno di rilassarsi…
                Passarono due giorni, in cui Constant riuscì a riprendersi del tutto: mangiando, bevendo, dormendo e… Lord Barron fece in modo che anche due o tre ragazze lo visitassero, ma in tutta onestà a Constant quello non importava… da quando lei se n’era andata, pochissime altre volte il Primo Cavaliere era stato veramente con qualcuna: e nessuna comunque era stata mai in grado non tanto di farlo innamorare di nuovo (cosa che aveva deciso sarebbe stata impossibile), ma almeno di fargli dimenticare Anita, anche solo per poco… lei era stata forse l’unica persona che nella vita era riuscito a farlo sentire davvero completamente vulnerabile. Beh c’erano stati i draghi, Nidhogg e Requiem, ma loro non erano persone… l’essere umano che più di tutti aveva esercitato la maggiore autorevolezza sul potentissimo Primo Cavaliere del Regno, era stata una fragile, asciutta e non molto loquace ragazza dell’est, morta per uno sporco gioco di potere, politica e confini, la cui primaria colpa era da ascrivere niente meno che a suo fratello, re Lionel, l’uomo che più aveva odiato e che prima più aveva amato. Due erano state le persone che il Primo Cavaliere aveva amato in vita sua: Anita e Lionel, e adesso entrambi erano morti. Per i suoi nipoti, aveva provato un certo affetto, soprattutto quando erano piccolini: quando Axelion aveva avuto tra i due e i sette anni – prima dell’arrivo di Braff alla Capitale – immaginarlo staccato anche solo per mezza giornata dallo zio Primo Cavaliere era una cosa che sarebbe risultata difficile da immaginare per l’intero Regno. Ma col tempo, allontanandosi da Lionel, Constant aveva finito per allontanarsi anche da loro: con la più piccola, Mirietta, non aveva praticamente alcun genere di rapporto. Era stato Lionel a causare tutto questo, e Constant era spiacente e non gliel’avrebbe mai perdonato: ma il rapporto con i suoi nipoti era ormai sacrificato sull’altare dell’astio tra fratelli eretto indissolubilmente a causa della morte di Anita.
                Dire che anche in quelle sere Constant aveva pensato a lei, e a quello che sarebbe stato disposto a fare per riaverla, sarebbe stato banale: tutte le sere prima di addormentarsi il Primo Cavaliere pensava ad Anita e a quello che sarebbe stato disposto a fare pur di riaverla. Il pugnale di Lord Barron non arrivò né la prima né la seconda notte che Constant aveva trascorso nella umida Lungotavolo. Tuttavia, nelle tarde ore del secondo giorno, arrivarono insieme la perentoria richiesta di alzarsi e l’atteggiamento così ambiguamente entusiastico…
                Di Lorthan, il Primo Cavaliere e il Lord di Lungotavolo avevano avuto modo di parlare solo relativamente. Da solo alcuni accenni, e da qualche battuta, Constant aveva avuto modo di intuire che Barron fosse informato su molte più cose di quante lui sperasse: più volte gli aveva detto che era lieto di aiutarlo, specie se c’entrava “quell’affare di Cowain”. Ma nello specifico non erano mai entrati: a Constant non era stata data la possibilità, visto che per solo un pasto (una cena) era riuscito ad avere un colloquio un po’ più prolungato con il Lord, e non aveva avuto il tempismo di cominciare subito con Cowain, perché gli era parso un modo troppo brusco per intavolare una discussione tanto delicata… prima di arrivare alla frutta, il Lord se n’era già nuovamente andato.
                Constant raggiunse Lord Barron nella sala del signore: dove Barron accoglieva i suoi ospiti, seduto su quello che non era proprio un Trono di Spade come quello alla Capitale, ma era un seggio quantomeno diverso da tutti gli altri presenti in quella piccola sala. Il Barron disse al Lannister, accompagnandolo verso una spessa tenda color porpora: «Tu sai già come funzionano questo genere di cose, non è vero, mio signore? Sei cresciuto in quello che è probabilmente il luogo più pericoloso del Regno…». Constant lo sapeva bene: quel genere di tende addobbavano i tre quarti delle sale da ricevimento del continente occidentale: ci si mettevano le spie, dietro. Anche la sala del trono a Roccia del Re le aveva; Constant era stato in quelle alcove un paio di volte, ma non si riusciva ad ascoltare granché: la sala era troppo grande. Ma lì a Lungotavolo essa era invece piuttosto piccina e chi si posizionava dietro le tende poteva ascoltare tutto. Naturalmente quel genere di pratiche non erano utili proprio in tutte le circostanze: i politici più navigati erano bene a conoscenza che le tende esistessero e venissero applicate per quella funzione, e infatti si guardavano bene da annunciare i loro segreti in quel genere di circostanze, e si limitavano a discorsi allusivi e criptici perlopiù. Ma un uomo meno navigato nella politica, invece, normalmente non sapeva che esistessero quel genere di trucchi, e diceva ogni cosa al suo signore come se stesse parlando con lui solamente, o al massimo con i suoi consiglieri. Il Lord Primo Cavaliere si chiese a questo punto chi stesse per visitare il capostipite del borgo di Lungotavolo: un politico enigmatico o un popolano inavveduto e sincero?
                Si sistemò dietro la tenda, e attese che il nome del visitatore venisse annunciato al Lord, sistemato a sua volta nel suo seggio leggermente diverso dagli altri. Qualcuno disse: «Il Lord Maestro dei Sussurri!», e Braff entrò nella sala. Una pessima notizia per Constant: con quel dannato, ma abile, ruffiano ci sarebbe stato ben poco da divertirsi… quello là era anche in grado di dire tutto e il contrario di tutto, se non proprio nella stessa frase, di sicuro nello stesso periodo.
                «Salute a te, Lord Barron» esordì Braff, fasullissimo come al solito. E Barron, non molto meno beffardo: «Lord Braff! Cosa ti porta nella mia umile dimora, in una così tarda ora della notte?»
                «Subito al sodo, mylord, come di consueto. Da lungo tempo ho avuto modo di ammirare la tua franchezza»
                «E io, contrariamente a quanto secondo me molti ti dicono, ammiro sempre molto le tue adulazioni»
                «Sono inevitabili per il mestiere che faccio: a chi la spada, a chi la lingua»
                «Stando alla mia esperienza, è molto più pericolosa la seconda»
                «Non sul breve termine…»
                «Che cosa vuoi, Maestro dei Sussurri, oltre adularmi?»
                «Come dicevo, io ammiro molto la tua franchezza…»
                «Oh, il complimento era anche il tuo modo di introdurre la questione? Geniale, davvero!»
                «Grazie… e a un uomo franco, in un momento di estremo pericolo per il Regno Unificato, io domando di essere più trasparente di quanto sia mai stato…»
                «Di che pericolo si tratta, per l’esattezza?»
                «Un invasione… barbari dell’est assaltano Cowain»
                «Guidati da chi?»
                «Non è chiaro»
                «E perché proprio Cowain? Non c’è niente: pescatori al massimo»
                «Si tratta di un assalto di prova»
                «E quando avverrà?»
                «Prima ancora che il re possa dispiegare una linea di difesa credibile»
                «Sai molte cose, ma non sai chi c’è dietro: questo sì che è improbabile»
                «In verità, mylord, lo so. Solo che non so se è il caso che te lo dica…»
                «Amico mio: non avevamo stabilito che la parola d’ordine fosse “trasparenza?”»
                «Quella è la parola d’ordine per te, mio signore, non per me»
                «Sì? E la tua qual è allora?»
                «Efficienza. Il mio lavoro, come servitore del Regno, m’impone di chiederti se vuoi intervenire con i tuoi uomini a difesa della solitaria Cowain»
                «Io?! Mylord ma io ho pochissimi uomini di fiducia, e qui alla Dodecapoli i rapporti tra i villaggi non sono esattamente idilliaci. Non posso rimanere scoperto: perché ti rivolgi a me e non direttamente ai Tyrell?»
                «Mio signore, dici che il clima alla Dodecapoli non è idilliaco… ebbene, quindi, debbo intendere che il tuo rapporto con i fratelli Tyrell non è il medesimo che avevi con il padre?»
                «Decisamente no, ma mi hai chiesto di essere trasparente: perciò lo sarò. Per ragioni di convenienza politica, militare e soprattutto economica, io non tradirò i Tyrell: né ora né, credo, almeno nell’arco del prossimo decennio. Ma perché vuoi mettermi contro di loro?»
                «Vedi… ho ragione di sospettare che loro e Constant Lannister siano in qualche modo legati con i futuri aggressori di Cowain». E qui, incredibile anche solo a dirsi, Constant pensò che il Maestro dei Sussurri avesse appena tradito se stesso. Lord Barron, furbo, lo incalzò: «Ah, sì? Beh questo cambia molte cose! Si tratterebbe di una diretta provocazione al Regno Unificato! Regno di cui anch’io, nel mio piccolo, sono un rappresentante»
                «Dunque posso credere che… nonostante i tuoi interessi politici, militari, e soprattutto economici, tu interverresti al fianco del Regno?»
                «Beh: è probabile!»
                «Non ho affrontato il discorso esplicitamente, mylord, ma certo dubito che Axelion possa trovare qualche remora nel premiare il salvatore di Cowain con qualcosa che, magari, compensi le tue iniziali perdite… il dominio sull’intero Altopiano, per esempio»
                «Siamo a questi livelli? Dici che il re farebbe fuori i Tyrell?»
                «Non posso esserne sicuro, ma considera che in questo momento loro sono contro il Regno Unificato e tu sei… con, dunque?»
                «Dimmi, Maestro delle Spie, hai già informato il re del prossimo assalto su Cowain?»
                «Sì. Perché me lo chiedi?»
                «E… lui?»
                «Si sta muovendo. Ma, come ti dicevo, non è affatto detto che riesca a organizzare una difesa credibile per il giorno in cui gli aggressori arriveranno. Ma perché queste domande, mylord?»
                «Dovevo saperlo…». Constant aveva udito tutto bene, ma le tende ovviamente erano fatte per non lasciar trasparire la presenza di qualcuno celato dietro di loro, dunque erano ben lunghe e chi vi stava dietro non poteva vedere cosa gli accadesse davanti. Così il Primo Cavaliere rimase piuttosto stupito nel momento in cui Lord Barron aprì la tenda dietro la quale lui si nascondeva, e concluse: «Per avvertire Lorthan di ogni cosa».
                Constant vide Braff e Braff vide Constant. Il Maestro dei Sussurri, con uno scatto a dire il vero di inattesa agilità, diede le spalle ai due alleati dei Tyrell e probabilmente sarebbe riuscito a scappare, se Barron non avesse già predisposto tutto in precedenza. C’erano già uomini armati, pronti, un po’ dappertutto: in quattro afferrarono Braff e lo riportarono al loro signore. Lord Alexis disse: «Alla faccia della trasparenza, Lord Barron!»
                «Oh, no: non accusarmi di questo! Che diamine: ti ho fatto prigioniero nel tempo di qualche minuto! Più chiaro di così!»
                «Beh, non ho altro da fare che ricordare a te, e al qui presente Lord Constant, che l’alto tradimento si paga con la vita!»
                «Molti pagano con la vita» proclamò dunque Constant, colmo di orgoglio e insieme di rabbia, «Anche quando non ci sarebbe niente da pagare, se non le colpe degli altri!»
                «Ancora con quella vecchia storia della ragazza morta dell’est, Constant? Per cortesia: Lionel è morto! Axelion adesso è il re»
                «Dovrà pagare per un gioco che è più grande di lui, così come è stato per Anita. E… si tratta di qualcosa che tu, mio stimato Maestro dei Sussurri, neanche immagini…»
                «Spero…» s’intromise dunque il padrone di casa «Che questo sia un chiaro messaggio, caro Constant, da riferire a Lord Tyrell… mi domandò da che parte stavo: ho scelto nettamente. Glielo dirai, quando lo incontrerai?»
                «Riferirò il tuo messaggio, Lord Barron» sorrise Constant, soddisfatto, «E racconterò ai Tyrell che qui alla Dodecapoli non hanno solo un amico… bensì anche un fedele alleato».
 
 
 
                Gino raggiunse la signora Xalandra nella stessa mattinata in cui Kellan e il resto degli uomini-ombra avevano voluto fargli quella specie di esame in mezzo alla boscaglia. Ad accompagnarlo dalla signora fu una ragazza, così come ragazze furono anche quella che l’accolse all’entrata nel palazzo e quella che Gino intravide, lungo un corridoio, disporre delle mansioni a un gruppetto di non troppo spaventosi uomini armati. Era strano, ma ad un primo approccio si sarebbe detto che in quel palazzo comandassero le donne…
                Quella che aveva accompagnato Gino su fino alla ex puttana che governava la città, era bionda e assai bella. I capelli erano accorciati in un taglio un po’ mascolino, era molto magra e piuttosto alta, eppure aveva il viso luminoso e sbarazzino come quello di una fanciullina. Non doveva avere molti più anni di Gino, anzi: più la osservava, più il rampollo dei Barron pensava che in effetti quella dipendente del palazzo di Cowain doveva essere una sua coetanea.
                Dal punto di vista dell’arredamento, la stanza di Xalandra non era un granché: dire che fosse proprio sciatta magari era esagerato, ma di sicuro aveva molto di popolare e poco di aristocratico. Però, quando entrò, non fu l’arredamento a stregare la vista del giovane, e nemmeno Xalandra (la ragazza che lo aveva testé accompagnato era più giovane e più bella di lei)… l’ex puttana se ne stava di spalle alla porta, rivolta verso una enorme finestra aperta, la più grande che Gino avesse mai veduto in vita sua. E oltre quella finestra: prima una scogliere di roccia, con i nidi dei gabbiani – i quali intanto cantavano, sereni, la loro melodia – e poi… l’infinito! Quel lungo punto dell’orizzonte in cui il cielo terso si mischiava col mare piatto, e divenivano un tutt’uno. Non molte volte Gino aveva potuto vedere in vita sua una meraviglia di quella portata: e il più di quelle poche volte, era stato a Cowain.
                «Mia signora…» fece la bionda alla puttana, la quale aveva lunghi e vaporosi capelli rossi e un lungo, anche se apparentemente leggero, abito rosso di un colore non molto dissimile dai capelli, «Questi è Gino della Casa Barron. Dice di avere importanti notizie: lui stesso ve ne fornirà i dettagli»
                «Casa Barron» rispose dunque Xalandra con una profonda voce da donna di una certa età «Non è uno dei borghi della Dodecapoli?». Infine si voltò: era meravigliosa anche lei. Forse un po’ troppo truccata per i gusti di Gino, ma decisamente più procace della sua bionda e atletica accompagnatrice. «Sì, mia signora» rispose Gino «Sull’Altipiano»
                «Vassalli di Casa Tyrell: è esatto?»
                «Beh sì, ma…»
                «Uhm: pessima genealogia. Di recente i Tyrell si ammazzano perfino tra loro, figurarsi che cosa fanno a chi non è un Tyrell!»
                «Io non sono qui per nome dei Tyrell»
                «E per nome di chi, allora, Gino della Casa Barron?»
                «Lord Alexis Braff della Capitale»
                «Ah!» rise la puttana «Questo sì che è un nome che non sentivo da un bel po’ di tempo! Come se la passa quell’adorabile sbruffone arrogante?»
                «Credo bene, ma a dire il vero non è che io sia troppo informato su di lui: mi ha mandato qui per altro…»
                «E per cosa?»
                «Avvertirvi. Un nemico del Regno sta per muovergli guerra, e ha deciso per prima cosa di aggredire Cowain»
                «Aggredire Cowain?! E perché mai? Qui ci sono soltanto pescatori!»
                «Mandare un segnale al Regno e nel contempo testare una nuova, devastante, arma»
                «Uhm… sì: questo ha senso! Cowain è un territorio di diretta dipendenza del Regno, anche se sono anni che non si vede una cappa dorata da queste parti. Immagino che io debba credere a tutto ciò in quanto tu sei stato mandato qui da Lord Braff e lui è… tipo il segugio meglio informato del continente occidentale, la spia delle spie, o cose del genere, no?»
                «Mia signora: se l’attacco dovesse arrivare, non potresti dire di non esser stata debitamente avvertita. E se al contrario esso non dovesse avere luogo… tu e la tua città non avreste nulla da perdere»
                «Quest’arma devastante di cui parli… di che si tratta esattamente?»
                «Un esercito formato da uomini con caratteristiche di animali… in effetti, stenterei a definirli esattamente “uomini”»
                «E il regno? Come ha intenzione di muoversi?»
                «Non lo sappiamo esattamente, così come non sappiamo esattamente quando avverrà l’assalto, anche se Braff immagina che sia piuttosto imminente. Oltretutto, il Maestro dei Sussurri, mentre io raggiungevo te qui a Cowain al fine di avvertirti, si è recato all’Altopiano dove spera di convincere parte degli uomini di quella terra a venirti a dare una mano quanto prima…»
                «Dubito che i Tyrell possano avere l’intenzione di aiutare il Regno Unificato in qualsiasi modo…»
                «No, loro no: stanno con il nemico»
                «Ah. Dunque gli uomini che Braff sta cercando di “convincere” all’Altopiano sono in primo luogo i Barron di Lungotavolo, è esatto?»
                «Sì, mia signora, ma…»
                «Avete organizzato proprio tutto! Tu, quel manipolatore di Braff, i Tyrell, magari lo stesso Axelion re degli Andali e dei Primi Uomini… non capisco, però, perché abbiate messo in mezzo proprio Cowain: siamo una comunità pacifica, di assidui lavoratori, noi! Questo Lord Daniel lo sapeva: l’unico che ci abbia mai davvero preso in considerazione!». Tutto Gino si sarebbe aspettato, tranne che Xalandra reagisse al suo avvertimento con uno sfogo di rabbia indirizzato un po’ a tutti, lui e Braff compresi. Non seppe bene cosa fare – lui non era un politico! – dunque si limitò ad insistere: «Mia signora: devi organizzare una linea di difesa, a prescindere da chi arriverà in tuo aiuto. Io vengo accompagnato da un gruppo di uomini addestrati al combattimento, conferiti alla città di Cowain direttamente da Lord Braff, a garanzia della sua amicizia. Forse arriveranno i signori dell’Altopiano o forse no… forse arriverà Axelion Lannister o forse no… però voi dovete organizzarvi oggi stesso!»
                «Non ci sono guerrieri a Cowain, Sir Gino, a parte quelli che hai portato con te! Cowain è una città di pescatori e io non li costringerò alle armi, se è questo quello che tu, tuo padre, il Maestro delle Spie o chi per voi, aveva in mente che accadesse! Inciterò Cowain a darsela a gambe, pur di non mandare allo scontro dei poveri borgatari inesperti contro dei mostri-animali o quello che sono! Se verranno, potranno prendere me e questo palazzo: troveranno il resto di Cowain già in fuga. Questo è tutto»
                «Ma mia signora…»
                «Sono spiacente di aver rovinato il tuo proposito, ragazzo. Cowain non combatterà la guerra del re e dei suoi nemici: che il re se la venga a combattere da solo!»
                «Mia signora, non c’è molto tempo…»
                «C’è tutto il tempo del mondo, Gino di Casa Barron: solo che il mio è il mio, e il tuo è il tuo. E da questo momento non coincidono più. Goditi il nostro mare, figliolo». Il tono della puttana non ammetteva repliche. Gino riprovò a scagliare ancora qualche esagitato “ma mia signora”, ma non servì a niente. La ragazza bionda lo scortò oltre la porta della stanza di Xalandra e poi lungo il corridoio. Lì gli rivolse la parola: «Questi guerrieri che il Lord Maestro dei Sussurri ha deciso di “prestare” a Cowain… sono abili?»
                «Loro sono…» fece Gino, che non sapeva bene se fosse il caso di discutere anche con quella tizia in merito a Cowain e alla guerra, «I più abili assassini di cui io abbia mai sentito parlare: i guerrieri-ombra»
                «Quanti sono?»
                «Ecco… mi spiace: io non li ho contati. Ma sono parecchi»
                «Più di cinquecento?»
                «Ehm… no, io direi piuttosto: meno di cinquanta»
                «Questa è una pessima notizia: Cowain dovrebbe davvero difendersi da sola… il che significa armare i suoi cittadini: Xalandra ha ragione, morirebbero in molti e probabilmente per niente»
                «Il problema è che non ci sono alternative: forse arriverà qualcun altro, Braff desidera solo che la città sia pronta!»
                «E lo sarà! Xalandra è un po’ brusca, e spesso il suo amore per gli uomini e le donne di cui è la governante la rende vulnerabile. Ma è intelligente e, se davvero fosse il caso, potrebbe rivedere la sua attuale decisione»
                «Davvero?»
                «Torna stasera, ancora presso i cancelli del palazzo. Discuterai meglio con me della questione, scendendo un po’ più nei dettagli. E se troverò che è la cosa giusta da fare, parlerò con Xalandra»
                «Mia signora… chi sei tu?»
                «Sono Dessenya. Consigliera di Xalandra la grande e… sua amica e confidente»
                «Allora a stasera, Dessenya di Cowain»
                «A stasera, Gino di Lungotavolo». Il giovane Barron non poté giurarlo, ma gli sembrò che al momento del suo congedo il viso di Dessenya fosse divenuto ancora più bello, e i suoi occhi luccicassero come la luna piena, quando si specchia sul golfo di Cowain.

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Capitolo 18
*** La baia dei Sayun ***


Capitolo 18
LA BAIA DEI SAYUN
 
 
                Con un ultimo, disperato, grido di rabbia e soddisfazione, Xenya tagliò personalmente la gola dell’ultimo dei selvaggi che avevano reagito di nuovo allo sbarco da lei guidato, e questa volta avevano fallito. Forse si erano aspettati gli stessi pochi e scarsamente armati malcapitati della prima volta: alcuni tra i migliori marinai che l’esploratrice avesse mai conosciuto in vita sua, ma non altrettanto abili guerrieri. Adesso invece gli strani uomini dalla pelle nera e lo spirito animalesco, avevano trovato dei soldati del re del Regno Unificato a tenergli testa, ed erano stati decimati. Inizialmente lo scontro sembrava pari, visto che i selvaggi si erano dimostrati in numero uguale o perfino superiore a quello degli uomini di Xenya. Ma poi l’esercito si rese conto che invece la stavano avendo vinta facile: loro erano soldati professionisti coperti d’acciaio fino alla punta dei piedi e impugnanti grossi spadoni a due mani. Gli altri, invece, erano pazzi mezzi nudi, armati di solo archi e frecce: qualcuna dalla punta avvelenata, ma non molto di più… alla fine, c’era un caduto dei loro per ogni venti dei selvaggi: era stata una mattanza.
                Non contenta, giusto per far capire al nemico con chi stavano giocando, e poi perché Xenya sapeva che la guerra è sempre qualcosa di orribile e vanno fatte cose orribili per farla finire quanto prima, la comandante di quella spedizione aveva anche ordinato l’eliminazione definitiva dei feriti: aveva tutta l’intenzione di colpirli con la stessa crudeltà con la quale loro avevano colpito lei, mesi prima. A questa decisione, la principessina Mirietta protestò veementemente. Anche lei aveva partecipato alla battaglia, e Xenya aveva avuto modo di vederla colpire con non scarsa abilità. Dunque anche Mirietta aveva veduto il sangue; anzi: anche Mirietta aveva causato del sangue. Eppure si comportò come un’invasata quando Xenya ordinò la morte dei feriti: disse che non c’erano ragioni, che Xenya agiva accecata da motivi personali, che giunti di nuovo in occidente lei avrebbe denunciato tutto al re suo fratello. Ma tutto ciò fu inutile: Mirietta era una principessina anomala e assai coraggiosa per essere un’aristocratica, ma lì su quel “nuovo continente” i soldati davano retta a Xenya. Forse, in termini ufficiali, era Mirietta il comandante di più alto rango presente su quel suolo, ma ciò non cambiava la sostanza delle cose: i soldati davano retta a Xenya. Dunque la principessina, dopo non poche urla e strepiti, dovette rassegnarsi, andandosi a ritirare presso la sua tenda.
                Xenya proseguì con la sua decisione: poi, in compagnia di una metà di uomini al suo comando – e dunque lasciando il resto sulla spiaggia con Mirietta – raggiunse il villaggio dei diavoli neri. Ne sterminò solo gli uomini più minacciosi e ribelli: lasciò stare le donne, i vecchi, i bambini, e tutti coloro che, capito chi comandava, lasciarono perdere qualsiasi tentativo di rappresaglia. Tutto sommato, parevano piuttosto organizzati: quella non si sarebbe potuto dire che fosse assimilabile a una qualche città del suo continente di provenienza, ma c’erano singole piccole abitazioni fatte di materiali non dissimili da quelli con cui erano fatte parte delle abitazioni di Fondo delle Pulci, il quartiere più povero di Roccia del Re. Si trattava di strutture rettangolari, normalmente a due piani, anche se erano talmente piccine da non poter contenere più di due stanze: una al piano di sopra e l’altra al piano di sotto. Parevano seguire un certo criterio nella collocazione, anche se in effetti Xenya non se la sarebbe sentita di parlare di vere e proprio “strade”, così come non avrebbe chiamato “piazze” quei due o tre spazi un po’ più ampi tra le case che aveva avuto modo di osservare nel corso del suo itinerario in mezzo a quel villaggio. Alla fine, s’illuse che qualcosa i diavoli avessero capito. Si sforzò per più di una volta di chieder loro di portarla da una qualsiasi autorità: chiunque fosse il loro capo, re, dio, le andavano tutti benissimo. E sebbene ebbe dapprincipio l’impressione che stesse parlando al vuoto, finì che comunque quei selvaggi la condussero in quella che probabilmente era l’unica abitazione un po’ più ampia dell’intero insediamento.
                La porta in legno era più spessa di tutte le altre che l’esploratrice aveva avuto modo di osservare. Ma non fu un problema per i soldati del re: a forza di calci, la buttarono giù in quattro e quattr’otto. Dentro era buio, e non poco spaventoso. Naturalmente Xenya era una donna di mondo e non aveva certo timore di una stanza al buio: ma era l’intera circostanza a risultare parecchio inquietante. C’erano un paio dei selvaggi di fuori (non tutti, un numero preciso e ristretto) che inneggiavano ripetutamente un termine che suonava tipo “Kowacz”, e Xenya non sapeva se si stessero rivolgendo a loro oppure a chiunque si trovasse dentro l’abitazione buia. Inoltre neanche la stessa abitazione pareva completamente silenziosa: dei suoni, sottilissimi, facevano percepire a chi era entrato che di sicuro dentro ci fosse qualcuno o qualcosa, ma ovviamente non si sapeva né chi o che cosa fosse, né che cosa stesse facendo o quali fossero le sue intenzioni. Infine, c’era in lontananza come un suono profondo e continuo che avrebbe fatto pensare a qualcosa di artificiale, il che era impossibile e dunque ancora più sospetto e spaventoso.
                Xenya fu la prima ad entrare: nella sua vita aveva imparato a non aver paura di niente, inoltre aveva anche avuto modo di imparare che il coraggio, insieme forse alla saggezza tattica, era la principale delle qualità per cui un capo tendeva ad essere apprezzato dai suoi sottoposti, cosa che per una donna nella sua posizione era ovviamente di primaria importanza. Purtroppo però il primo che avanza in un gruppo è normalmente anche quello maggiormente esposto ai rischi. Non era passato neanche un minuto intero dentro quella dimora misteriosa, che finalmente il pericolo venne fuori: un vecchio curvo ma scatenato, come in preda a una possessione di chissà quale diavolo, venne fuori dal buio e, pugnalando mortalmente la guardia che si trovava immediatamente dietro Xenya, prese la giovane esploratrice per il collo e le piazzò il pugnale su un fianco, senza affondare ma in modo da farsi vedere (per quanto fosse possibile in quella stanza buia, mediante una piccola finestrella lì vicino) minacciare di morte il capo della spedizione. Ciò nondimeno, dal modo in cui tremava, e dall’atteggiamento disperato con cui esclamò parole che suonavano come: «Ngawe Makeles! Ngawe Makeles!», Xenya riuscì a intuire che il vecchio fosse più in preda al panico che davvero minaccioso, anche se certamente era in quest’ultimo modo che preferiva essere percepito. Dopo pochi istanti, intuendo che non c’era modo di farsi comprendere da quegli uomini con la pelle ben più chiara della sua, il vecchio capo del villaggio cercò di indicare la finestrella. E facendolo urlò con ancora più rabbia: «NGAWE MAKELES! NGAWE MAKELES!». Xenya provò con la coda dell’occhio ad osservare cosa ci fosse oltre quel pertugio. E lì vide quello che mai si sarebbe sognato di vedere in quella landa desolata…
                Collegò subito il suono profondo e continuo che aveva udito in lontananza, con quello che stava vedendo, e più strizzava gli occhi più non riusciva a crederci… il villaggio si trovava su una collina, e la grande casa del vecchio capo che in quel momento stava minacciando la vita di Xenya era probabilmente sul punto più alto: da quella finestrella si potevano vedere molte cose, anche se ciò che più risaltava era una lunga vallata che dava su una baia, all’estremità della quale se ne stava appollaiato quello che probabilmente era un secondo insediamento di selvaggi, leggermente più grande di quello che Xenya e i suoi uomini avevano or ora visitato. Ma non era neanche questo ciò che sconvolse l’esploratrice: man mano che dal villaggio ci si spostava verso la costa, e dunque dentro la baia, la ragazza vide un porticciolo costruito alla maniera civilizzata del continente dal quale lei proveniva. E attraccata sul molo c’era una enorme nave mercantile, sul modello del Westeros. Sulla vela sventolava una bandiera di dimensioni considerevoli, con sopra una rosa dorata su campo verde…
                Servendosi di un dardo, uno dei suoi uomini che si trovava più in fondo e quindi leggermente più in penombra, colpì il vecchio selvaggio dritto sulla fronte, non lasciandogli più il tempo di emettere neanche una vocale in quella sua oscena lingua sibilante. Xenya si meravigliò del fatto che il ragazzo avesse avuto tutto il modo di tendere l’arco e scoccare la freccia, eppure lei era lì viva e vegeta, mentre il suo aggressore se ne stava steso per terra senza più respiro. Con la rapidità di un capo assolutamente non sorpreso e che ha ancora tante cose da fare, Xenya ringraziò e si complimentò con l’arciere che le aveva appena fatta salva la vita, dunque marciò rapidamente all’indietro alla volta di Mirietta: c’erano decisioni che lei da sola non poteva prendere, e comunque non avrebbe mai potuto tacere quel genere d’informazioni alla sorella del re, senza contare che probabilmente portare la sorella del re in un eventuale incontro con uomini che erano sudditi del Regno Unificato poteva rivelarsi assai più utile che marciare verso di loro in compagnia solo di uomini armati.
                Con Mirietta tuttavia Xenya non riusciva a ritrovare quella sintonia che, prima di intraprendere insieme quel viaggio, era sempre stata salda e inattaccabile: era grazie a quella sintonia che l’esploratrice aveva avuto modo di ottenere i finanziamenti senza i quali non sarebbe stata possibile nemmeno la prima spedizione e di conseguenza lei adesso non si sarebbe ritrovata lì. Ed era sempre grazie a quella sintonia che il re le aveva accordato per la seconda volta, e meglio armata e organizzata, di partire per il nuovo continente. Xenya non era il tipo che considerava “amico” chicchessia, a parte quel ragazzino ciccione con cui si divertiva a prendersi a botte quando era piccola; tuttavia pensava che la principessa la considerasse un’amica, e questo la inteneriva molto più di quanto avrebbe mai desiderato ammettere.
                Eppure anche sulla questione della nave del Westeros attraccata nella baia lì vicino, la giovane nobildonna e la giovane esploratrice non si ritrovarono sulla stessa lunghezza d’onda. Come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo, Xenya aveva detto a Mirietta come intendeva procedere, avvicinandosi prima senza farsi vedere, e cercando in questo modo di scoprire quanto più possibile senza esporsi troppo. Mirietta invece la pensava diversamente, e in maniera assai più stupida a giudizio di Xenya: per la principessina, tutto quell’agire nascostamente non era necessario, avendo loro dalla loro parte tutta l’autorità derivante dall’essere autorizzati direttamente dal re. Xenya provò a spiegargli che in quel territorio con poche, per non dire alcuna regola, cose astratte come l’autorità erano assolutamente prive di senso, ma Mirietta s’intestardì che doveva andare incontro alla grossa nave con i vessilli reali al vento. Per la seconda volta l’esploratrice fu tentata di scavalcare la gerarchia ed imporre alla principessa la sua volontà, ma questa volta percepì nei suoi secondi un orientamento – certo rispettoso, e solo sommessamente esposto – volto a seguire la principessa. Probabilmente gli uomini pensavano che lei fosse quella brava nelle questioni d’azione, ma che per la politica fosse meglio seguire una Lannister, anche se Mirietta in effetti era la meno Lannister di tutti i Lannister che Xenya avesse mai visto in vita sua… la ragazzina non le lasciò molto tempo per pensarci ulteriormente: prese i vessilli, intimò ai “suoi” di seguirla, e si diresse tutta impettita verso la baia. Xenya si limitò ad andarle dietro, sbuffando.
                Com’era ovvio, anche la controparte fu parecchio sorpresa di vedere loro scendere giù dalla collina e venirgli incontro. C’erano un mucchio di uomini – davvero parecchi – tutti intenti a caricare sulla nave delle grosse casse di legno. Per quanto, all’arrivo della delegazione guidata da Mirietta, lo sguardo della gran parte di loro divenne smarrito e parve chiedersi come comportarsi, la maggior parte non la smise di lavorare, e comunque nessuno gli rivolse la parola. Fu la stessa principessina a dover domandare a un certo punto, rivolta a due tipi dai bicipiti particolarmente rigonfi, chi diavolo era che comandava lì. E quegli uomini la indirizzarono verso un tipo scuro e bassetto, vestito di nero, e con due ampi rotoli di pergamena sottobraccio. Stava intimando ad alcuni dei suoi barcaioli muscolosi di andarci un po’ più piano con quelle casse… era di spalle. Mirietta gli bussò dietro la schiena, lui si girò, e i rotoli di pergamena gli caddero di mano e solo per un soffio non finirono a mollo.
                «Hey!» fece Mirietta «Sei tu che comandi qui?»
                «Ehm co-comandare c-cosa» balbettò quello «esattamente?»
                «Questa baracca»
                «Signora, io sono il responsabile delle operazioni via mare…»
                «E di che genere di operazioni si tratta?»
                «Il… trasporto di grano e numerosi altri beni alla città di Altogiardino»
                «Grano?!»
                «Sì. E numerosi altri beni»
                «Beh, da questo momento le operazioni sono sospese»
                «Cos… come?! Chi lo dice?»
                «Lo dico io. Mirietta di Casa Lannister, reggente di Lannisport e quarta sorella di Axelion, re degli Andali e dei Primi Uomini»
                «Beh, Vostra Grazia, avete qualcos’altro, oltre a quei vessilli, per dimostrare chi voi siate? E che comunque vi garantisca il potere, anche se voi foste davvero chi dite di essere, di interrompere queste operazioni espressamente autorizzatemi dal Lord dell’Altipiano? Non so… una bolla col sigillo del re?»
                «Che differenza farebbe se al posto di questi vessilli al vento avessi una bolla col sigillo del re, scusa?»
                «Uhm… nessuna, in effetti»
                «Senti, abbiamo parlato di nulla per fin tropo tempo. Ti comando di interrompere questa operazione, e giuro che quando avvertirò Axelion di quello che sta succedendo qui, dirò che almeno gli uomini sono stati gentili e si sono rivelati ligi e obbedienti dinanzi all’autorità reale»
                «Ma signora! Come faccio io a tornare a casa a mani vuote e dire a Lorthan Tyrell che una tizia che diceva di essere Mirietta Lannister è arrivata dalla collina dei Kowacz! Mettetevi nei miei panni: neanche voi lo fareste!»
                «Io ho i vessilli della casa reale!»
                «Non mi importa niente dei vessilli della casa reale! Io conosco direttamente il mio superiore!»
                «Il tuo superiore è il re!»
                «Sì, ma solo se Lorthan mi dice che lo è! Sentite… facciamo… facciamo così: io continuo il mio lavoro, mentre voi andate a parlare con l’autorità della zona, va bene? Se finisco il lavoro prima che voi possiate arrivare con un ordine diretto di Sir Muldrow ingiungente che la nave non debba partire, io salpo. In caso contrario, l’avrete vinta voi: la nave resta alla baia dei Sayun-sama»
                «Sayun-sama? Cos’è?»
                «Il popolo che vive alla baia»
                «E Sir Muldrow?»
                «Sir Muldrow è… un Sir!»
                «Pensavo che l’avessimo fatta finita con le idiozie»
                «Oh: d’accordo! Muldrow è il rappresentante della Casa Tyrell su questo continente: comanda lui qui. Prende ordini dai Tyrell, ma per tutto quello su cui i Tyrell non hanno disposto qualcosa… qui comanda lui!»
                «E dove lo trovo?»
                «Alle vostre spalle c’è un villaggio: in tutti i villaggi di queste popolazioni autoctone l’ultima casa è sempre quella del sovrano, e i Sayun non fanno da meno. L’antico sovrano da tempo è stato estromesso dal potere: il palazzo che domina la baia ora appartiene a Muldrow. È sistemato sull’ultimo picco, se si affaccia a nord guarda la baia, se si affaccia ad ovest guarda il villaggio, se si affaccia a sud guarda le immense distese di grano che rendono ricca questa terra»
                «Molto bene» concluse Mirietta, e corse via alla volta del villaggio dei Sayun-sama.
                Superarono quindi il molo, e poi la vasta spiaggia di sabbia pietrosa. Raggiunsero un villaggio che a Xenya non parse molto dissimile da quello sulla collina che si erano lasciati alle spalle. Eppure c’era una differenza essenziale: il primo villaggio che avevano visitato era stato zeppo di uomini, donne e bambini che gli correvano dietro, tutti intenti a capire cosa stava succedendo oppure chi fossero questi nuovi invasori provenienti dal mare. La poca gente del nuovo villaggio, invece, non pareva prestare molta attenzione alla principessa, e ai suoi uomini, e ai loro vessilli. Erano molti di meno, e continuavano tranquilli nelle loro mansioni, come se fossero assolutamente assuefatti a gente che aveva la pelle di un colore assai diverso rispetto a quello della loro. Mirietta, Xenya e gli uomini a loro comando, attraversarono dunque l’intero villaggio, che era assai più allungato del precedente, poi videro il palazzo di Sir Muldrow, sistemato su una salita. Era parecchio diverso rispetto alla casa doppia del vecchio, al villaggio sulla collina. Era come se chi l’avesse costruito avesse voluto fare della scogliera una reggia, e della reggia che aveva l’intento di costruire una scogliera: la natura e l’artificio si mischiavano armoniosamente in quella splendida casa che, in effetti, pareva arroccata in mezzo a tre orizzonti: il mare da una parte, la città dall’altra, e la campagna dall’altra ancora. Mirietta dovette riferire a delle guardie disarmate, della stessa etnia delle donne e degli uomini dei villaggi, chi era e chi cercava, ma non le vennero più posti ulteriori problemi: venne concesso a lei, a Xenya e all’intera schiera dei loro, di entrare nel palazzo. Di lì, trovare Muldrow non fu affatto difficile: la principessa dovette oltrepassare un piccolo ufficio spoglio, oltre il quale si spianava un balcone profondo che dava sul mare. Anche Muldrow, come già il capitano della nave Tyrell, dava le spalle ai suoi ospiti. Era alto, pelato per lo più (anche se ancora qualche capello bianco gli copriva la parte posteriore della testa), e vestiva con abiti davvero stravaganti per essere un Sir: una tonaca di sacco, una cintura di corda, dei sandali ai piedi. Senza ancora rivelare il proprio volto alla sua ospite, l’uomo dei Tyrell presso il nuovo continente disse: «Siete parecchio distanti da casa, chiunque voi siate»
                «Questo è territorio del re» rispose Mirietta «Ed essendo io sua sorella, potrei dire benissimo che questa è casa mia»
                «Avete torto sia in termini giuridici che in termini materiali. Lady Hana?». Facendo questa domanda, finalmente Sir Muldrow si voltò. E Xenya, come Mirietta, e come tutti i presenti rimase leggermente sconvolta: un po’ meno di metà – quella sinistra – del volto dell’anziano Sir era marchiata da un inquietante macchia nera; non color fumo, come quelle che potevano capitare ai malati di Morbo Grigio. Proprio nera come il carbone! Per il resto, si sarebbe detto un vecchio affabile, con un sorriso apparentemente sincero, un volto scarno, un paio di sottili baffetti del colore dei radi capelli. Ma quella macchia nera era qualcosa di veramente disturbante, che non poco tradì Mirietta, la quale si vide costretta a perdere diversi secondi prima di rispondere: «Mirietta»
                «Uhm… curioso: hanno mandato la più piccola della Casa reggente. Scelta audace»
                «Ho assunto il comando di questa missione in quanto io per prima ho finanziato una ricerca verso l’occidente: ricerca che ha condotto la mia Casa, e l’intero Regno, a scoprire…»
                «Vi capita mai, milady, di allontanare qualsiasi pensiero, porvi da qualche parte dove si alza il vento, e lasciare che la brezza vi accarezzi il volto e le membra? Sono quel genere di momenti che ci permettono di prendere le decisioni migliori: questo ho avuto modo di appurarlo da quando reggo per i Tyrell questo piccolo angolo di un mondo sconosciuto, che per comodità chiamiamo baia dei Sayun. È stata la brezza di questa meravigliosa baia a ridestarmi e farmi osservare che… stavate arrivando. Per fortuna, avevo già avuto il tempo di concludere la mia riflessione…»
                «E in che cosa consisterebbe questa conclusione, mio Sir?»
                «Nel fatto che queste terre non sono nostre. Le abbiamo prese in prestito ma un giorno, quando meno ce lo aspettiamo, i Sayun-sama, i Kowacz, gli uomini-drago e chissà quanti altri, se le riprenderanno. E se le riprenderanno con gli interessi»
                «Chi sono esattamente i Kowacz e gli uomini-drago?»
                «Da quando Casa Tyrell ha scoperto queste nuove terre…»
                «E quanto tempo è passato, più o meno?»
                «Circa ottant’anni. Considerate, mia signorina, che io sono qui da cinquanta. Dicevo… da quando Casa Tyrell ha scoperto queste nuove terre, circa tre o quattro ceppi umani diversi sono stati incontrati da noi che veniamo da oriente. I Kowacz dominano la collina dalla quale voi provenite: prima del nostro arrivo erano i padroni della baia, e sostanzialmente vivevano alle spalle dei Sayun, i quali si collocano proprio qui su questa costa. Ma con l’andare del tempo, e l’arrivo sempre più invasivo di noi dell’altro continente, i Kowacz si sono via via ritirati sempre più a nord, concentrandosi nella sola collina e vivendo una vita sempre più povera, marginale e disperata. Erano i padroni prima dell’arrivo dell’uomo bianco, ma noi abbiamo portato ai Sayun-sama la dignità del lavoro…»
                «Gliel’avete portata depredandoli?»
                «No: non è come dite voi, Vostra Grazia. Noi abbiamo apportato in queste lande i metodi di produzione che da secoli avevamo già avuto il modo di padroneggiare in casa nostra. Il guadagno è triplicato: ce n’è un grande quantitativo per noi, e uno più ristretto per permettere loro di vivere serenamente»
                «Ma non hanno molta scelta, non è così?»
                «Lady Mirietta: noi quasi mai utilizziamo la violenza con i Sayun… con i Kowacz erano abituati a ben altro trattamento: vi assicuro che sono lieti di avere noi anziché loro»
                «Sì: ma cosa non vi fa pensare, mio Sir, che loro invece non vorrebbero nessuno?»
                «Perderebbero in pochi mesi il controllo sul raccolto, e in pochi anni tornerebbero alla vita selvaggia che conducevano prima del nostro arrivo»
                «Questo, solo in teoria…»
                «Sì, e l’ipotesi di azzardare una via pratica del genere direi che è fuori questione»
                «Questo lo deciderà il re»
                «Il re non possiede alcuna autorità qui, madamigella»
                «Il re ha autorità su qualsiasi territorio del…»
                «Regno? Ma qui non siamo nel suo regno: siamo in un territorio assolutamente libero da qualsivoglia vincolo legale: è una terra libera, e chi arriva per primo se la piglia. E i Tyrell sono arrivati per primi»
                «Il re non sarà contento…»
                «Ce ne faremo una ragione»
                «Cominceremo una guerra!»
                «Ci faremo una ragione anche di questo. Noi qui conosciamo meglio il territorio, abbiamo più uomini dalla nostra parte, visto che i Sayun-sama combatterebbero per noi… e poi… noi abbiamo questa…». Dicendo ciò, il vecchio Sir Muldrow si recò alla sua scrivania, dentro il piccolo ufficio. Estrasse da un cassetto una piccola scatolina di legno e poi un curioso oggetto di forma ricurva, fatto anch’esso di legno ma con parecchi supporti in metallo. Aprì la scatola e vi prese della sottile polvere nera, come la macchia sul suo volto, che collocò all’interno dell’apparecchio ricurvo. Dunque lo impugnò in una maniera stravagante, tornò fuori e puntò quel coso da qualche parte verso la scogliera. Suggerì: «Copritevi le orecchie, di grazia». Xenya, Mirietta e la maggior parte dei loro uomini eseguirono. A quel punto l’uomo tese un po’ il dito, schiacciando una specie di pulsante, e il piccolo affare scagliò un getto come di fuoco che andò a colpire il terzo di una serie di vasi sistemati sulla scogliera, chissà per quale ragione… il vaso andò in mille pezzi, e l’esplosione causò un forte frastuono che, come minimo, colse di sorpresa l’esploratrice. Quella potenza di fuoco era decisamente sorprendente! Se un esercito fosse stato armato anche solo di una decina di quelle apparecchiature, avrebbe perfino potuto cambiare le sorti di una guerra. Mirietta evidentemente la pensava come Xenya, visto che tornò a domandare a l vecchio: «Quanti ne avete di questi…. congegni, mio signore?»
                «Questi sono affari di esclusiva competenza di Casa Tyrell, Lady Mirietta, sono spiacente»
                «Avete detto… dei Kowacz, confinati sulla collina. E dei Sayun qui alla baia. E poi avevate parlato di…?»
                «Uomini-drago. Non so esattamente chi per primo li abbia chiamati così. Si tratta di un ceppo assai differente rispetto a quello che sicuramente lega i Kowacz ai Sayun-sama. Sono alti: tutti, e pressoché tutti muscolosi per natura. Hanno occhi gialli e, nonostante la loro massa, sono formidabili corridori e nuotatori. E, per quanto abbiamo potuto modo di osservare, sono solo maschi»
                «Solo maschi?»
                «Sì, mia signora: ma considera che conosciamo ben poco sul loro conto. Si collocano a nord della collina, e nel periodo in cui ci scontrammo coi Kowacz per il grano dei Sayun, qualcuno di loro combatté contro di noi, in alleanza con il popolo della collina. Per ciascuno dei loro, se ne rendevano necessari sei dei nostri. E, per quanto ci riguarda, chiunque sia andato a nord della collina normalmente non è più ritornato, e così… a un certo, punto abbiamo semplicemente smesso di andare, visto che comunque a sud della baia c’è già abbastanza grano per tutti. Siamo anche andati più a sud, per soddisfare la naturale propensione umana alla curiosità: c’era un’altra popolazione pacifica praticamente uguale a quella dei Sayun, e altro grano… li visiteremo se dovessimo mai averne bisogno, ma se le cose vanno per come stanno andando… dubito che succederà»
                «Questa…» s’intromise direttamente Xenya l’esploratrice, scavalcando finalmente la gerarchia, come da un po’ si proponeva di fare, «…polvere nera è un prodotto che avete trovato qui, nel nuovo continente?»
                «Chi siete, mia signora?»
                «Xenya. La seconda in comando…»
                «Il capo operativo della spedizione… una donna»
                «Confermo. Il governo di Roccia del Re sta davvero facendo delle scelte coraggiose»
                «Rispondete, signore»
                «Sì: la polvere è tipica di questa terra»
                «E dove l’hai presa?»
                «Signore… stiamo davvero giocando a chi è più stupido? La cosa mi umilia e m’imbarazza, visto che siete due donne, di cui una strettamente imparentata con il mio re… io non potrei perdere un simile gioco, e questo farebbe di voi… le stupide»
                «Bada a come parli, Sir» fece di nuovo Mirietta «Sono davvero troppo vicina al perdere la pazienza…»
                «Oh: non sia mai, milady. Abbiamo cominciato con il piede sbagliato, senza dubbio: vogliate per favore accettare le mie scuse se vi siete sentita in qualche modo offesa personalmente, e la mia ospitalità per tutto il tempo che voi e i vostri uomini intendiate trascorrere qui alla baia. Io sono un uomo pacifico, e depreco qualsiasi conflitto. Tuttavia bisogna che ci capiamo: io qui rappresento degli interessi, così come voi fate per la vostra parte. E questo significa che, se posso darvi un consiglio, è pure possibile che le cose cambino… ma non è un affare che si potrà mai determinare in questa sede, non trovate?».
                Nonostante la sua manifesta affabilità, Xenya trovava che ci fosse qualcosa di sinistro in quell’uomo, qualcosa che andasse oltre le velate minacce, l’archibugio che creava urti, e quella sua orrenda macchia nera sul viso… ma non sapeva bene cos’era, e perciò si concentrò su qualcos’altro. Pensò subito – e per fortuna questa volta vide che con Mirietta era d’accordo – che non fosse decisamente il caso di fidarsi di uno sconosciuto, e che i loro accampamenti, con il resto dei loro uomini, erano decisamente luoghi migliori dove riposare. Il gruppo salutò cordialmente l’inquietante Sir Muldrow della baia dei Sayun, e si ritirò. Ovviamente di fermare la grossa nave mercantile situata presso il molo neanche se ne discusse, e così essa salpò. Xenya e Mirietta la osservarono partire dall’alto della collina, mentre le loro menti riflettevano su quale mai potesse essere la prossima mossa utile da fare…

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Capitolo 19
*** Guerre imminenti ***


Capitolo 19
GUERRE IMMINENTI
 
 
                «Che cosa ti tormenta, mio diletto?» gli domandò sempre dolcissima Abigail, la sua regina consorte. Lei era già in camicia da notte e stava allattando Napoleon. Era appena giunto un corvo, e re Axelion – anche lui già pressoché svestito e comunque stremato da una impegnativa giornata nella quale aveva dovuto perfino metterci la faccia con un popolo per l’ennesima volta sull’orlo della ribellione – si era fatto portare la missiva direttamente in camera, e lì l’aveva letta senza emettere un suono. Ma Abigail, che era una buona osservatrice, l’aveva notato bene che la cosa lo aveva agitato…
                Purtroppo non si era trattato di notizie dell’amico Lord Braff, partito da Roccia del Re al fine di fargli luce sul dove fosse finito il Maestro del Conio e soprattutto che cosa stesse veramente combinando. Ma quello che ancora più da una parte deluse e dall’altra rese nervoso Axelion, fu che la missiva non trattava neanche del nuovo continente: non era stata scritta da Mirietta né da Xenya l’esploratrice, la donna al comando della spedizione, né dal signor Pashamanyna, suo secondo in comando. Era semplicemente un’ennesima richiesta del Lord Applegate dell’estremo nord che si sentiva minacciato da Willoughby e Worchester e richiedeva un diretto e più consistente intervento della Corona. Axelion non sapeva più come dirglielo che erano in corso grandi mutamenti costituiti da guerre imminenti almeno in tre o quattro zone diverse del Regno, e che tali mutamenti avrebbero inevitabilmente costituito delle vittime non soltanto tra la gente del popolo quanto forse anche tra i governanti. Non sapeva come dirgli che finché non tornava ad avere la situazione in pugno nel sud, lui non avrebbe avuto alcun modo di intervenite né nel nord e né nell’est e che in quel momento, per quanto riguardava la politica della guerra, lui aveva due unici pensieri: Cowain e Roccia del Re.
                C’era qualcosa che in effetti Applegate non gli aveva ancora chiesto, e che lui sapeva e sapeva che Applegate sapesse, la quale avrebbe in qualche modo potuto costituire non certo una svolta sicura, ma almeno una speranza per quanto riguardava le sorti di tutto ciò che c’era al di sopra dell’Incollatura. Eppure il re degli Andali e dei Primi Uomini ignorava che anche relativamente a quella singola e apparentemente per lui inutile pedina, la scacchiera stava per cambiare…
                Axelion rispose alla sua consorte dalla voce d’angelo: «La lettera non era di Mirietta. È da settimane che non ricevo sue notizie!»
                «Tua sorella è una fanciulla piena di risorse: se il tuo cruccio è relativo alla sua salute, direi che possiamo stare sereni. Lei è forte, l’esploratrice parrebbe essere molto forte, e sono partite con un numero abbastanza cospicuo di alcuni fra gli uomini meglio addestrati del regno»
                «Sì, ma non sappiamo che cosa potrebbero aver trovato, una volta giunti alla loro meta! E se in quel mondo esistessero guerrieri meglio addestrati dei nostri?»
                «Se i loro uomini sono migliori dei nostri, allora probabilmente lo dovrebbero essere in ogni campo, perfino in quello della navigazione… ma, se fossero stati meglio di noi, allora sarebbero stati loro a trovare noi. Invece è accaduto il contrario»
                «Questo è un… discorso troppo raffinato…» rise il re, con imbarazzo. In realtà, nonostante la consorte cercasse di consolarlo, Axelion era effettivamente quasi in preda al panico. Ma Abigail decise di non demordere: pose l’ormai quasi addormentato delfino nella culla, si avvicinò al marito e cominciò a baciargli il collo. Axelion osservò con preoccupazione il piccolo; era probabilmente il bambino più buono del mondo: non piangeva mai! Mangiava e dormiva tutto il tempo… e più si accorgeva dell’assoluta bontà del suo piccolo, più Axelion pensava alla cattiveria degli uomini, agli orrori che in quel momento stavano accadendo per le strade della sua città, a quelli ben peggiori che avrebbe visto se fosse giunta la guerra e i nemici fossero riusciti ad abbattere le mura del suo palazzo…
                La mascellina così spropositatamente quadrata del piccolo, che né lui né Abigail avevano, era riuscita da sola ad alimentare una certa voce di popolo, che Axelion conosceva bene e che volesse Napoleon come figlio non suo. Ma più lo guardava dormire, più il re sentiva il profondo legame che lo univa a quel fagottino di carne, sangue e latte, e più pensava che per lui sarebbe stato disposto a morire, figurarsi a fare una guerra o a fare del male a qualcuno (che poi sostanzialmente una guerra vinta a questo si riduceva).
                «C’è qualcos’altro, non è vero?» gli chiese Abigail, scrutandolo con quelle due luccicanti nocciole che possedeva al posto degli occhi. «Beh» ammise il sovrano «Lo sai: il regno è in difficoltà e…»
                «Sì: lo so bene. Guai interni si combinano con pressioni esterne, e questo parrebbe rendere il tuo trono… traballante. Ma tu sei il re: voluto dagli dèi per grazia degli uomini. I Lannister regnano sul Regno Unificato da secoli ormai: non sarà sotto di te che gli dèi interromperanno questa tradizione. Non hai fatto nulla di male!»
                «Eppure l’unità non è mai stata a rischio come in questo momento…»
                «Axelion… io non avrei mai voluto dirtelo ma visto che sei così preoccupato… tu sai che la Corona ha ancora un potente alleato disposto a intervenire a un tuo schiocco di dita?»
                «E chi? I soldati della Valle non sono una potenza militare in grado di decidere le sorti di una guerra, e comunque non mi fido di Lord Baelish»
                «Non parlavo di lui, infatti»
                «E di chi altri, allora? L’unica altra forza del continente sono i Tyrell e sono contro di me! Poi ci sono il nord, che è a nord, e l’est, che è ad est. No, mia signora: se mia sorella Mirietta non mi dovesse ritornare in tempo con buone notizie… noi saremo da soli»
                «Sai, le distanze geografiche sono qualcosa di relativo. Chi avrebbe detto, fino al secolo scorso, che la gran parte dell’Essos del sud sarebbe entrata di diritto a comporre il Regno Unificato? E chi mai ti avrebbe detto, fino a ieri, che esistesse anche un continente alla nostra destra, e non solo uno alla nostra sinistra?»
                «Dove vuoi arrivare, mia signora?»
                «Pensa, Axelion: qual è l’antica famiglia che da tempo più lungo sancisce un’alleanza salda con i Lannister presso questo nostro vecchio continente? Un’alleanza… mai messa in discussione da tempo immemore…» vedendo che a ciò Axelion proprio non trovava una risposta, fu la stessa Baratheon a rispondersi: «I Bolton! La loro terra non è popolosa come la nostra, ci sono interi battaglioni di uomini che il Lord Maestro delle Armi tiene allenati senza poterne davvero sfruttare il potenziale… la base armata supera quella produttiva da tenere sotto controllo. È così da sempre nei pressi del castello di Forte Terrore, e delle terre ad esso sottomesse»
                «Beh, sì: devo ammettere che a questo non avevo pensato, ma… Bolton dovrebbe comunque passare per l’Incollatura, il che richiederebbe molto tempo, e questo sempre se Baelish decidesse di rimanere neutrale»
                «No, infatti non è via terra che il suo esercito dovrebbe spostarsi…»
                «E come, Abigail? Via mare? Intendi… con le nostre navi?»
                «Le prenderebbero a prestito: è l’unico modo»
                «No: è impossibile. Con una parte della flotta a mia disposizione già a ovest con Mirietta e l’altra partita per il nord, Roccia del Re si ritroverebbe praticamente senza difesa navale! O, se proprio riuscisse a mantenerla, comunque sarebbe ridicola»
                «Talvolta per vincere bisogna rischiare, mio diletto. E non ricevendo più notizie né da Mirietta né da Braff… direi che non ti resterebbe molto altro da fare»
                «Tu… dici che Bolton lo farebbe?»
                «Ne sono sicura»
                «Bene: ci parlerò e…»
                «L’ho già fatto io per tuo nome, mio diletto. Lord Henrich mi dice che sarebbe disposto a salpare anche domani, se la Capitale dovesse essere in pericolo, e tu glielo ordinassi»
                «Io… non ho nessuna ragione di dubitare della lealtà di Lord Bolton, ma…»
                «Mi ha riferito inoltre… che a quanto pare le chimere alla Valle del Leone hanno da non troppo tempo ricevuto un attacco che ha portato nel giro di pochi mesi molte di loro… a perire. C’è comunque un buon esercito di quei cavalieri in riserva nell’est, e un altro cospicuo numero proprio qui alla Capitale, ma… dice che in effetti portare qui nuovi uomini fedeli, addestrati e ben armati… non sarebbe un gesto… diciamo poi così “strategicamente azzardato”»
                «E tu… tu pensi che sia la cosa giusta da fare, no?»
                «Io penso di sì, mio signore, ma naturalmente l’ultima decisione in merito spetterebbe a te. E c’è ancora tempo: abbiamo parlato per ipotesi sin’ad ora. Roccia del Re non è affatto in pericolo… per il momento».
                Re Axelion non seppe bene che pensare delle parole che sua moglie quella sera aveva voluto condividere con lui: da una parte, gli aveva solo dato belle notizie e si era incaricata di risolvere potenzialmente una questione sulla quale lui non aveva neanche avuto modo di riflettere per come si deve… d’altra parte però, il re non riuscì a non domandarsi il perché Abigail fosse così interessata a questioni di politica, e da quanto tempo se ne stesse occupando…
                Quella notte il re non riuscì a chiedere occhio.
 
 
 
                Quella notte Gino di Casa Barron non era riuscito a chiudere occhio. Sebbene da quando era diventato un ospite fisso della ridente cittadina di Cowain moltissime cose che riguardavano la sfera strettamente personale avessero cominciato a sorridergli più di prima, quello che preoccupava il giovane lungimirante ragazzo era il lungo termine, vale a dire: il fatto che Braff non si era fatto più sentire.
                Da quando stava a Cowain, per la prima volta nella vita, aveva avuto modo di instaurare una relazione duratura con una donna. Lui era un giovanotto relativamente timido e le maniere della corte di Lungotavolo non gli avevano dato molta possibilità di approcciarsi con delle giovani, floride, coetanee: lui era a modo, le fanciulle erano a modo e quindi… ancora non si era effettivamente presentata l’occasione. Ma a Cowain le donne non erano affatto “a modo”, almeno per quanto un gentiluomo dell’Altopiano avrebbe normalmente definito “a modo” una fanciulla. A Cowain non erano solo i ragazzi a poter cercare un approccio amoroso con le ragazze, accadeva anche il contrario, e questo rendeva tutto decisamente più semplice. Daessenya gli aveva fatto capire che desiderava fare l’amore con lui fin da quando si erano visti privatamente per la prima volta, e da allora facevano l’amore praticamente sempre. Facevano l’amore e parlavano di politica. Non c’era molto altro tra loro, non avevano mai conversato di sentimenti: Gino non era il tipo, ed era piuttosto sicuro che neanche Daessenya fosse il tipo di ragazza che intendesse andare molto oltre rispetto a dove erano arrivati… e a lui francamente andava benissimo anche così.
                Per quanto riguardava la politica, Daessenya aveva fatto in modo che Xalandra si convincesse a farsi aiutare. Quest’ultima era una donna estremamente appassionata e, naturalmente, la prima cosa a cui aveva pensato era stata la sicurezza dei cittadini e delle cittadine che risiedevano nel borgo marinaro di cui lei era la governante. Tuttavia – a mente lucida – bisognava riflettere che l’idea di smantellare l’intera cittadinanza per portarla al sicuro chissà dove, era probabilmente ancora più utopico che provare a organizzare una qualche resistenza. In primo luogo, Xalandra non aveva dove portare i cittadini di Cowain, visto che l’area di quell’exclave dei Lannister era comunque interamente circondata da territori che appartenevano al nemico. Poi c’era anche il problema che la puttana reggente non poteva materialmente sapere se, in effetti, la maggioranza dei suoi cittadini volesse lasciare le loro case che, per quanto piccole e non particolarmente lussuose, erano le loro da sempre e questo significava parte integrante della propria realtà. E più ancora di vedere i propri cittadini morire violentemente, la cosa che turbava Xalandra era l’idea di imporgli qualcosa che non avrebbero capito e andasse contro la loro manifesta volontà. Su questo punto in particolare, Gino, per il tramite di Daessenya, riuscì a spingere fino probabilmente a convincere l’ex puttana dai capelli tinti di rosso. Tuttavia non aveva ancora avuto il modo di rivederla direttamente, e quindi anche se gli erano arrivati segnali positivi, non poteva dire che effettivamente le cose fossero andate per il meglio. Il rampollo di Casa Barron aveva in programma una visita presso Xalandra per quel tardo pomeriggio…
                Poi c’era anche la questione dei guerrieri-ombra. In poche settimane Gino pensava di aver fatto progressi eccezionali. Kellan tendeva a non dargli la soddisfazione di ammetterlo: diceva continuamente che c’era ancora tanto lavoro da fare, e che comunque il Barron non sarebbe mai potuto diventare veramente un guerriero-ombra neanche con la più ostinata tenacia e il migliore degli addestramenti, e il minimo riposo. E Gino, che era tenace e stava ricevendo anche un buon addestramento, tendeva tuttavia a riposare molto. Ma non era questo il problema, ormai era chiaro: c’era qualcosa nella natura stessa di Gino che non avrebbe mai potuto permettergli di andare oltre una certa soglia, e quindi diventare un guerriero-ombra completo. E questo, per il momento, non era poi un problema così grave per lui: era ormai un combattente piuttosto abile e infido, e una volta era riuscito a sparire e non lasciar traccia neanche agli occhi abili ed esperti del suo maestro Kellan.
                Il vero problema per Gino, in quell’esatto momento della vita, era l’assoluto dileguamento di Braff. Il giovane sentiva che la battaglia era alle porte, che la guerra stava per cominciare e… Cowain era da sola, proprio come Xalandra temeva. Come poteva lui rassicurare la governante di quel borgo che solo in pochi sarebbero morti e che la città sarebbe rimasta libera, se lui stesso aveva la sensazione che così non sarebbe andata? Perché la cosa era evidente: senza l’aiuto di qualcuno che rimpolpasse lo schieramento di Cowain, la battaglia sarebbe stata persa ancor prima di cominciare… e di certo non sarebbe arrivato il re: questo era poco ma sicuro. Fu dunque con questo stato d’animo confuso e pieno di dubbi che Gino raggiunse quel tardo pomeriggio l’alloggio di Xalandra…
                «Come andiamo, ragazzo?» lo salutò la reggente, senza degnarlo di uno sguardo, continuando imperterrita ad osservare le sue carte e a fumacchiare la sua lunga pipa di legno. Gino rispose: «Bene, mia signora»
                «Conoscevi Cowain?»
                «Sì: piuttosto bene. Quand’ero piccolo scendevamo giù da Lungotavolo due volte l’anno»
                «Quand’eri piccolo… perché ora come sei?»
                «Mia signora?»
                «Lascia stare: come non detto. Sapevi che fino a qualche secolo fa questa rocca apparteneva ai Tyrell?»
                «Sì, lo sapevo»
                «E adesso… vorrebbero riprendersela…»
                «Con tutto il rispetto, mia signora, i Tyrell vorrebbero prendersi il Regno, non Cowain. Cowain serve a far scoppiare la guerra»
                «Il Trono di Spade… sai, Gino di Casa Barron, quand’ero una giovane fanciulla di compagnia, non avrei mai pensato di sedere sul seggio che occupo adesso. Certo, sognavo un mondo differente, e una differente condizione della mia vita… ma governare una città, una fanciulla di compagnia come me…»
                «Fanciulla… di compagnia dite?»
                «Prestavo agli uomini la mia compagnia. E loro me la pagavano. Ai primi tempi miseramente: quanto bastava per potermi comprare un tozzo di pane o un trancio di pesce di seconda scelta… Col passare del tempo, cominciai ad essere via via considerata un pezzo di sempre maggiore qualità. E fu così che arrivai a Lord Daniel»
                «Lord Daniel era un vostro cliente?»
                «All’inizio sì…»
                «E… poi?»
                «Poi è diventato un amico. Non era molto più grande di te quando mi comunicò la sua decisione di affrancarmi dai miei protettori, di rendermi libera e di rendermi… la cosa più vicina a una regina che una come me potesse mai sognare di diventare»
                «Lui… era innamorato di voi?»
                «No, non credo proprio. Era un giovane gentile: molto devoto al suo dovere, eppure molto più coraggioso di quanto la giovane età avrebbe fatto pensare. Per certi versi, tu me lo ricordi»
                «Io, mia signora?»
                «Sì: tu. Hai affrontato un viaggio praticamente da solo, per venirmi a raccontare che la mia città sta per essere presa da nemici del Regno. Si sarebbe detto che avessi già fatto molto più del tuo dovere, eppure sei rimasto, e ti sei lavorato la mia attendente affinché mi convincesse a fare quello che non volevo fare…»
                «Mah… lavorato…»
                «Ma perché non te ne torni a casa, figliolo? Perché pensi che tu debba partecipare a giochi che sono evidentemente più grandi di te?»
                «No, signora, io non penso che debba… è solo che…»
                «Sei innamorato di lei?»
                «Cos…?»
                «Sì: di Daessenya… è una domanda piuttosto semplice»
                «Io… non lo so… non credo»
                «Bene: perché io non credo che lei lo sia di te… finirai per farti male in questa terra, Gino di Casa Barron. Se proprio non finirai ammazzato, calpestato e triturato dagli uomini-bestia di cui tu stesso mi hai parlato… come minimo sarà il tuo cuore a finire spezzato. Il che, stando alla mia esperienza, posso dirti che per certi versi è anche peggio. Quando muori, muori. Ma quando sopravvivi… hai sempre il tempo di soffrire…».
                Gino percepì nell’anziana signora della tristezza che andava ben più al di là del fatto che la sua città stesse per essere attaccata. Non che Xalandra non avesse a cuore il suo borgo marinaro così come aveva sempre lasciato trasparire, ma in quel preciso momento il problema non era Cowain. Solo che Gino, anche se capiva che c’era altro, non aveva modo di indagare oltre, e dunque era un po’ in imbarazzo. Se quello che Xalandra aveva da dirgli era di tornarsene a casa, per quanto lo riguardava la discussione si poteva già dire conclusa, quindi con un timido gesto del capo provò a prendere congedo e fece per andarsene. Xalandra lo fermò: «Ho intenzione di armare Cowain…», in questa Gino si fermò e, da di spalle che era, tornò a guardare la vecchia puttana dritto negli occhi, «…se Cowain mi darà il suo benestare»
                «In che senso?»
                «Chiamerò la cittadinanza a una pubblica consultazione. Gli spiegherò le cose come stanno e, se la maggioranza riterrà corretto fare la guerra… Cowain farà la guerra»
                «È un’ottima notizia». In realtà era la prima volta che Gino sentiva qualcuno teorizzare cose come una “decisione popolare”. Aveva udito dire che intere politiche relative ai più disparati argomenti venivano decisi dai popoli, in certe zone dell’est, ma lì nel Westeros non ne aveva mai sentito parlare… oltretutto non riusciva a immaginare come la reggente intendesse attuare una simile operazione nel poco tempo rimastole, e comunque sinceramente nutriva qualche dubbio sull’effettivo valore della cosa. Far scegliere il popolo era un sogno molto nobile, ma il popolo, la massa… che diamine poteva capirne dei reali interessi della comunità? Riteneva la cosa un po’ da pazzi, e pensava che mai e poi avrebbe concesso una cosa del genere ai suoi sottoposti se mai fosse stato un re, o un Lord, o un capo di una qualsiasi società che superasse i trenta singoli…
                Eppure probabilmente questo era l’unico modo di convincere Xalandra a fare quello che Lord Braff aveva teorizzato, e che in verità anche lui riteneva intimamente corretto che accadesse. Gino pensò che dovesse esser stata Daessenya a mettere a Xalandra quell’idea in testa: la giovane conosceva bene la vecchia, e sapeva che non sarebbe mai stato possibile convincerla, a meno che non le si presentasse la questione come “il bene per il popolo”. Che diamine: il giovane Barron si rese conto che andava a letto con una femmina ben più abile di lui in questioni come la politica e la diplomazia. Doveva presentarla a Lord Braff, non appena si fosse presentata l’occasione…
                «Ma lo farò» sentenziò dunque l’ex puttana «se anche tu farai qualcosa per me…»
                «Come, prego?». Forse la vecchia non aveva capito che Gino non possedeva interessi personali in merito a tutta quella questione, e dunque non poteva trattarsi di un mero scambio di favori privati tra loro due. Ma Xalandra continuò ad incalzarlo: «Se dovesse scoppiare una guerra, e il Regno dovesse vincerla, si potrebbe lecitamente pensare che ai Tyrell venga tolto il dominio sull’Altopiano e dunque su Dorne, è esatto?»
                «Sì, lo è»
                «E diciamo che il miglior candidato per la sostituzione, sulla carta, per il momento sono i Barron di Lungotavolo, è esatto anche questo?»
                «Beh, lo è ma…»
                «E tutto ciò comincerebbe da una vittoria a Cowain, no?»
                «Mia signora…»
                «Su, Sir Gino: non sono una stupida. Faccio politica da diversi anni ormai, non dico che il numero di anni in cui mi occupo in tal modo sia superiore a quello in cui facevo quella mia altra attività, ma… qualche calcolo un po’ più recondito riesco a farlo anch’io…»
                «Mia signora, io sono qui solo…»
                «E poi quello che ti chiederei non è nulla di così impegnativo: fidati. Io l’ho fatto mille volte…»
                «Cosa?»
                «Spogliati, Sir Gino». Naturalmente Gino non intese ascoltarla ulteriormente: numero uno, pensare di risolvere questioni così delicate di politica con una cosa così bassa e degradante sarebbe stato offensivo un po’ per chiunque: anche per la reggente medesima; numero due, forse Xalandra dimenticava che Gino, a sua differenza, non era una puttana, e non era offendendolo a quel modo che la signora avrebbe mai raggiunto il suo scopo, quale che esso fosse. Eppure, sulla soglia della porta d’uscita dell’ufficio, due fanciulle armate di piccoli spadini arrestarono la fuga del ragazzo. Gino era disarmato: lo era praticamente da quando risiedeva a Cowain. Si voltò verso Xalandra, chiedendo confuso: «State scherzando…?»
                «Oh, andiamo!» gli rispose quella «Non determinerei mai le sorti della città che amo per una scaramuccia di questo genere. Tuttavia quello che ti ho chiesto lo voglio lo stesso. Su, Sir Gino, non è poi questo gran sacrificio…» e dicendo ciò Xalandra si denudò rapidamente. Il suo corpo non era esattamente come quello di Daessenya, ma certo non avrebbe mai potuto definirsi come quello di una donna neanche lontanamente anziana. E i seni… erano sodi e grossi, molto più invitanti di quelli della sua attendente. «Se assentirai» propose ulteriormente la puttana «Ti giuro che nessuna donna della città oserà più rifiutarti: mi occuperò personalmente di questo». E una volta che Xalandra ebbe ciò detto, Gino non poté fare a meno di notare che gli occhi delle “fanciulle di guardia” si erano decisamente illanguiditi. Solo allora il rampollo dei Barron si accorse che le due guardie, come Xalandra, e come Daessenya, erano donne bellissime… fu completamente nudo in meno di un minuto.
                Quando la cosa si concluse, e Gino tornò stanco ma soddisfatto presso il suo alloggio completamente da un’altra parte di Cowain, incontrò Kellan che lo attendeva per un ulteriore momento di addestramento. Il guerriero-ombra lo vide stanco, fu gentile, e non insistette più di tanto nel consigliarlo di addestrarsi comunque. Tuttavia, non appena si congedò, il guerriero disse al suo giovane allievo: «Ah, e mi raccomando: fa’ attenzione con questa nuova occasione che hai tra le mani. Sono il primo a comprendere certi sollazzi, ma a lungo andare in posti come questo ci si possono beccare delle pessime malattie: una volta è accaduto a un confratello…». E prima ancora che Gino potesse domandargli qualche delucidazione, Kellan naturalmente, com’era sua abitudine, si dissolse nell’oscurità della sera. E il Barron non poté che tornare a sentirsi esattamente come da un po’ aveva dimenticato, e che invece tutti secondo lui avrebbero dovuto sentirsi qualora fossero stati in rapporti con il Lord Maestro delle Spie: vale a dire costantemente sotto osservazione.
 
 
 
                Xenya fu costretta a rivestirsi rapidamente. Non conosceva ancora il nome del giovane Kowacz con il quale da un po’ di giorni aveva dei rapporti: forse non l’avrebbe mai conosciuto. Quando era tornata dalla baia dei Sayun-sama, aveva pensato di trovare nei Kowacz un popolo selvaggio, bellicoso e vendicativo, esattamente come lo era già stato nel corso della prima spedizione al comando di Xenya, quando aveva massacrato i suoi uomini e con loro aveva cercato di far fuori anche lei stessa. Senza dubbio i Kowacz avevano un temperamento molto più “fumantino” dei serafici Sayun, così assurdamente asserviti al dominio degli stranieri che quasi alimentavano nell’esploratrice dei pensieri di sospetto che l’avrebbero anche portata a dire che a suo parere, per certi versi, essi paressero ben più “alieni” dei Kowacz. Se Xenya avesse dovuto mettersi nei panni dei selvaggi, certo sarebbe stata una che si sarebbe difesa con le unghie e con i denti dalla dominazione forestiera, piuttosto che una subito pronta a diventare un’impiegata sorridente, e dunque probabilmente sarebbe stata più una Kowacz che una Sayun.
                Detto ciò, era pur vero che, in diverse settimane che ormai la spedizione della Corona si trovava su quel nuovo continente, Xenya aveva avuto modo di comprendere certe dinamiche, certi meccanismi motivati da tutte le vicende che avevano preceduto il suo arrivo. Le era ormai piuttosto chiaro che sì: i Kowacz l’avevano attaccata e avevano ucciso i suoi compagni, ma in effetti Xenya non poteva dire se quei selvaggi lo avrebbero fatto anche se non avessero già avuto quelle brutte storie con l’esercito dei Tyrell, storie di scontri anche violenti per la conquista della tanta agognata baia e di tutti i floridi campi su cui essa si apriva. I Kowacz a nord non avevano praticamente niente: un’umida e selvaggia vegetazione arroccata su una collina che via via saliva sempre più sul livello del mare sino a divenire montagna e lì accogliere i fantomatici uomini-drago, di cui gli stessi Sayun e Kowacz conoscevano ben poco… dunque: avendo già conosciuto l’uomo bianco, avendone già subito dei danni, e venendo infine da esso perfino confinati a una grama vita, a Xenya in effetti pareva ovvio che come i Kowacz vedessero altri con la pelle diversa dalla loro, ci si scagliassero contro con tutta la rabbia che avevano in corpo: era probabile che lei non avrebbe fatto diversamente.
                Inoltre, nonostante gli “orientali” continuassero a dormire nelle loro tende sulla spiaggia, ben distanti dal nucleo abitativo dei Kowacz, e comunque sempre con una ronda di sentinelle poste alla sorveglianza anche notturna, ulteriori scontri con i Kowacz non ce n’erano stati. Anzi: c’erano stati degli avvicinamenti…
                Con Mirietta, Xenya aveva teorizzato che c’era in effetti ancora un intero continente da esplorare, e che lo scontro con i Tyrell, anche se sicuramente interessante e decisamente non da accantonare alla leggera, andava comunque riponderato sulla base di una possibile seconda via: l’esplorazione del nord. I Kowacz e i Sayun-sama temevano gli “uomini-drago”, ma nessuno – o pochissimi – li aveva mai visti, e comunque loro erano uomini del Westeros, con le risorse del Westeros, e dunque la questione era assai differente. Tuttavia, prima di intraprendere questa nuova avventura verso un inesplorato nord, era il caso che quanto meno con i Kowacz si concludesse una tregua: e così, per quanto azzoppati dal limite estremo della totale differenza di idioma, Xenya, Mirietta e tutti gli uomini al loro comando avevano cercato di mostrare un atteggiamento più amichevole, e i Kowacz avevano reagito all’apparenza positivamente. Xenya in particolare aveva fatto amicizia con il giovane figlio del vecchio uomo pazzo ucciso da un suo arciere il giorno del loro secondo arrivo su quelle terre: il tizio che aveva indicato la baia dalla piccola finestrella in penombra. Egli era, per quanto i bianchi avevano avuto modo di capire, l’erede designato a capo del villaggio, anche se per qualche ragione ancora non si comportava esattamente da autorità e non aveva vestito gli abiti (unici tra i Kowacz) che erano stati di suo padre. Forse era troppo giovane? Xenya non lo sapeva: in realtà non ci parlava molto.
                Una volta, nel corso di una delle loro primissime spedizioni per la grande giungla del nord, avevano cacciato insieme una specie di grosso cerbiatto. La stessa sera se ne erano nutriti insieme (e insieme a un’altra trentina fra bianchi e Kowacz), e il giovane Kowacz gli aveva insegnato l’uso di un frutto dal sapore aspro, molto diffuso in quelle zone e inesistente nel continente di provenienza dell’esploratrice: l’aveva tagliato a metà, e poi spremuto – era molto succoso – praticamente sulla carne ancora in cottura. La carne acquisì un sapore prelibato, simile a niente che Xenya avesse mai provato nella sua vita di viaggiatrice. Dopo di allora, non mangiò più carne in quella terra, senza prima spremerci un buon quantitativo di aguerrùm, così chiamavano i Kowacz quel frutto più o meno sferico dalla buccia di colore giallo-arancione.
                E infine una sera – ma non la medesima del cerbiatto all’aguerrùm – era capitato anche che Xenya e il “principe” Kowacz si trovassero da soli di ritorno da un ulteriore esplorazione, questa volta a nord-est: avevano anche raccolto un discreto quantitativo di apparentemente appetitosi funghi di bosco. Non si erano persi, ma c’era ancora un po’ di strada da fare, dunque si erano accampati alla meno peggio. E in quell’occasione il Kowacz l’aveva presa: rudemente, ma non con la violenza che l’esploratrice si sarebbe aspettata da un selvaggio. Non c’erano stati ovviamente grossi sentimentalismi, né molte parole, però il Kowacz si era impegnato a far godere anche lei, e non a divertirsi da solo… e c’era anche riuscito piuttosto bene. I Kowacz avevano questa cosa che, probabilmente favoriti dal clima caldo-umido della loro terra, tendevano a vestire piuttosto scoperti: molti di loro coprivano esclusivamente le parti più intime, talvolta con neanche troppa attenzione. I maschi poi, quasi tutti avevano un fisico robusto e normalmente atletico, per non dire muscoloso, perché conducevano sostanzialmente una vita di caccia e di lotta: in quelle giungle vivevano bestie rapide e letali molto simili ai leoni già conosciuti da Xenya, ma perfino più grosse e più feroci. Una volta il Kowacz ne aveva fatta vedere una a Xenya e ad alcuni dei suoi, i quali, nascosti tra delle frasche, avevano osservato il gigantesco gatto nero come la notte abbeverarsi ad una piccola fonte stagnante d’acqua dolce. Dunque la conclusione era che: viste le corporature quasi sempre ben temprate, e a ciò aggiunto il fatto che tali corpi fossero quasi sempre in bella mostra, Xenya era di norma non poco tentata da quei matti Kowacz. E forse era anche per questo che quella sera aveva ceduto all’approccio del suo principe selvaggio…
                Da allora gli incontri per così dire “amorosi” tra i due si erano ripetuti piuttosto spesso (se non proprio ogni sera, quasi), ed era proprio uno di quegli incontri che quella sera Pashamanyna aveva interrotto… Pashamanyna era un osservatore quasi sovrannaturale, era uno di quei tipi che non si sentiva mai perduto, indipendentemente da dove si trovasse, né si sentiva mai straniero, indipendentemente da con chi avesse a che fare… aveva avuto l’intuizione che quella nuova terra fosse un continente, e in effetti ancora gli esploratori ai comandi di Xenya non ne avevano scorta la fine. Non conosceva la loro lingua abbastanza bene da permettersi di parlarla, ma intuiva la gran parte delle cose che i Kowacz dicevano, anche cose piuttosto complicate: e questo Xenya non riusciva a spiegarselo, visto che lei non era in grado di far capire al suo principe selvaggio cose tipo: “oggi niente” oppure “fa’ più piano”. Era improbabile; anzi: era impossibile, conoscendolo, che il navigatore di Xenya non fosse a conoscenza della sua storia con il Kowacz. Eppure si era permesso lo stesso di entrare e dire quello che aveva da dire: dunque la notizia non poteva che essere assai importante. Xenya disse a Pashamanyna: «Jorando! Ma che ti prende?!»
                «C’è qualcosa che dovreste vedere subito, capitano»
                «Non esiste! Torna fra una mezz’ora»
                «Nossignora: sapendo di che si tratta, sicuramente mi punireste per non avervi convinto a intervenire adesso!»
                «Uhm… Mirietta?»
                «Sì, ma non soltanto», concluse Jorando Pashamanyna, ed uscì dalla tenda. Il Kowacz naturalmente non capì e si limitò ad osservare la donna bianca rivestirsi, con occhi un po’ delusi. Poi, senza pensare di rivestirsi a sua volta, seguì l’esploratrice, la quale stava seguendo il navigatore…
                Anche se leggermente sudata, sicuramente spossata, e con qualche piccola macchiolina di sangue qua e là, Mirietta stava bene. Tre Kowacz, tutti più grossi e più nudi di lei, si trovavano meno o più nelle stesse condizioni. E poi c’era un altro, per terra, ferito assai più gravemente. Ma non era un Kowacz: di loro era leggermente più chiaro, e soprattutto ben più grosso, alto, muscoloso; ad occhio e croce Xenya lo avrebbe definito semplicemente il fisico umano meglio allenato che avesse mai veduto in vita sua. Spigolosi tratti animaleschi, mascella impressionantemente quadrata, dita di mani e piedi assai prolungate. L’esploratrice domandò: «Chi è?»
                «Uno degli uomini-drago» rispose Pashamanyna. E Xenya: «Che è successo?»; e Mirietta: «Al solito: le guide mi stavano conducendo ad esplorare la zona a nord. Siamo andati oltre quella stretta radura illuminata stavolta…»
                «Sì, e poi?»
                «La giungla… si è fatta improvvisamente più fitta, anche più di quella che abbiamo già avuto modo di vedere. A un certo punto, tutto attorno a noi è cominciato ad essere uguale a se stesso e perfino i Kowacz, anche se loro sostengono di no, hanno smarrito il senso dell’orientamento. In quel momento ci ha attaccati. Pensiamo… che all’inizio ci abbia scambiati per un qualche animale o roba del genere, ma… semplicemente non si è fermato quando ci ha visti, e dunque noi abbiamo reagito e ora…»
                «È morto?»
                «Non ancora» disse Pashamanyna «Potrei rallentarlo per un paio d’ore ma… di sicuro è spacciato»
                «Abbiamo… qualche idea su una potenziale reazione del popolo del nord?»
                «I Kowacz mi dicono, capitano, che loro non uccidono un uomo-drago da almeno un paio di secoli. E non l’hanno più fatto perché gli uomini-drago sono estremamente vendicativi, oltre che feroci…»
                «Ma che bella notizia!» concluse Xenya, sarcastica.
                Anche se non avevano ancora messo in pratica la cosa, con Mirietta l’esploratrice aveva concluso quello che pareva a entrambe un ottimo piano per ribaltare un po’ la situazione sia in quel nuovo continente che nel vecchio. La cosa era molto semplice: i Kowacz avevano una questione aperta con Sayun-sama e Tyrell, e magari gli poteva far molto comodo una mano armata alla maniera del Westeros pronta ad aiutarli a riprendersi quello che era loro prima dell’arrivo dell’uomo bianco: la baia dei Sayun. Xenya aveva avuto qualche dubbio etico in merito a tutto ciò: i Sayun stavano probabilmente meglio ora come lavoratori dei Tyrell, che prima come schiavi dei Kowacz; eppure la piccola Lannister – comportandosi stranamente per una volta da vera Lannister – era stata in grado di farla riflettere su una questione: indipendentemente da cosa fosse giusto o sbagliato, le cose prima dei Tyrell in quella zona andavano in un certo modo… dunque loro avrebbero semplicemente operato in modo da ricostituire “l’ordine naturale”, non molto di più. E poi: se promettevano una mano ai Kowacz, potevano anche potenzialmente chiedere una mano ai Kowacz, il che in fin dei conti era quello che più gli interessava. Avrebbero chiesto ai Kowacz di combattere per loro in una eventuale guerra del continente civilizzato, e loro in cambio avrebbero provato a restituirgli la baia: d’altro canto, se i Tyrell fossero caduti nel Westeros era altresì probabile che essi sarebbero caduti anche nel nuovo continente! O almeno: questa era la loro speranza.
                Ma questo nuovo problema degli uomini-drago apriva delle oscure e non molto gestibili prospettive. Xenya e Mirietta avevano teorizzato di mettere in pratica quel loro proposito del patto con i Kowacz quanto prima possibile, ma certo non era plausibile che quelli si sarebbero messi in guerra per loro, se prima avessero avuto da gestire un qualche altro conflitto con avversari, a quanto loro stessi dicevano, perfino più temibili di loro. Forse la guerra del Westeros doveva dunque aspettare: la guerra del nuovo continente stava per cominciare…
 
 
 
                Dopo un lungo estenuante viaggio, Constant, il Primo Cavaliere del re, era finalmente giunto a Dorne. Per metà del percorso (almeno sino a Lungotavolo) aveva dovuto percorrere la strada con i metodi più umili, poi per fortuna Lord Barron gli aveva fornito una buona carrozza con dei discreti cavalli, e dunque la seconda parte del tragitto avrebbe potuto definirsi “meno faticosa”.
                Una volta giunto nell’estremo sud – per l’esattezza presso la Reggia dei Girasoli – venne accolto dal suo vecchio amico Lorthan Tyrell con tutto quanto il suo ruolo di Primo Cavaliere sulla carta imponeva. Dopodiché, davanti a una sontuosa cena a base di cinghiale, i due compari ebbero modo di aggiornarsi vicendevolmente. «La guerra di Cowain è ormai imminente» cominciò il Maestro del Conio «Avrai ben presto una intera piccola comunità di cadaveri bella e pronta per i tuoi giochini da stregone»
                «Sì, ma c’è un problema» gli rispose Constant, agitato «Sono dovuto fuggire dalla Capitale in fretta e furia: avevo Braff alle calcagna, sono piuttosto sicuro che sia finalmente riuscito a mettermi contro i miei beneamati nipotini. E poi… c’era il popolo in subbuglio, per colpa della tua così rapida e puntuale messa in atto del proposito di lasciar Roccia del Re a morire di fame: per poco non ci rimettevo la pelle. Septimus è morto»
                «Cosa dici!»
                «È così. Linciato dalla folla. Io ero con lui»
                «E come diamine hai fatto a scamparla?»
                «Ho dovuto spendere una parte della mia energia. Inoltre ho tralasciato gran parte delle cose che andavano concluse… mi… serviva una cosa che si trova alla Capitale e… ora non ho alcuna idea di come recuperarla»
                «Sta’ tranquillo amico mio: la guerra di Cowain ci darà il potere che…»
                «Tu non capisci, idiota! Io non posso fare quello che dovevo fare a Cowain, senza quelle ossa!»
                «Si tratta… di ossa?»
                «Si tratta di una forma di magia come tu neanche potresti immaginarla!»
                «Ma… combatterai lo stesso per me?»
                «Ci mancherebbe altro: forme di destabilizzazione verso il governo centrale mi sono sempre favorevoli, specie in previsione della battaglia definitiva a Roccia del Re»
                «Bene»
                «C’è un’altra cosa che mi preoccupa!»
                «Cosa?»
                «Io ho perso molto tempo prima di raggiungerti qui al sud, molto più del previsto. Lei sarebbe già dovuta arrivare…»
                «Lei chi?»
                «Una donna snella. Di aspetto algido. Con la pelle di un candido quasi mortifero…»
                «Beh… io non incontro tutti quelli che richiedono di avere a che fare con la mia persona: potrei informarmi con il personale di guardia, magari…»
                «No, non è il tipo che lascia che una porta le venga chiusa in faccia. Se fosse arrivata, con le buone o le cattive, tu l’avresti incontrata»
                «Con le buone o le cattive?»
                «È in grado di gestire un potenziale magico ben più ampio del mio…»
                «Beh, allora no, amico mio, credo proprio che non sia arrivata…»
                «È assurdo!» il tono di voce di Constant passò dal semplicemente preoccupato al vero e proprio deluso e confuso; adesso parlava più che altro con se stesso, e l’insicurezza lo portò perfino a balbettare leggermente: «S-senza di lei io non p-posso… e poi… non riesco a immaginare alcuna r-ragione per il crearsi di questa situazione: semplicemente non è possibile! A meno che il drago non abbia deciso improvvisamente, e senza alcun apparente motivo, di violare il nostro patto… oppure… che per qualche cagione si sia indebolito al punto da perdere il controllo… su Anylice?».
 
 
 
                «Quel maledetto drago!» esclamò, tutto scosso, il Signore delle Dune «Per poco non mi portava via il sigillo!». Era sudato, infreddolito, e con non molte forze. Una parte della gamba sinistra, del fianco e del braccio, erano ghiacciati, e apparentemente non c’era modo di scongelarli: almeno lui, servendosi della propria magia, per il momento non aveva avuto modo di riuscirci. Doveva trattarsi di una forma di magia molto antica, e soprattutto molto potente: e, d’altro canto, come poteva essere altrimenti? Si parlava del potere di un drago! Forse la più antica delle creature esistenti sulla terra, esseri umani inclusi. E per fortuna che si era portato dietro il migliore tra i suoi servitori, il demone delle energie, il quale gli aveva concesso se non proprio di vincere quello scontro, almeno di riuscire a darsela a gambe ancora vivo. C’era un altro dei suoi servi lì in giro: il demone degli spiriti, il quale, essendo probabilmente il più arcaico, era fedele come tutti gli altri, ma purtroppo tendeva a capire gli ordini molto alla lontana, e dunque rappresentava per lui una mina vagante. Non lo poteva mandare a compiere dei compiti troppo specifici: se c’era da eliminare un unico individuo, normalmente il demone degli spiriti ne eliminava una decina e distruggeva la gran parte di ciò che c’era lì attorno. Per questo il Signore delle Dune di solito se lo teneva sempre vicino, in prospettiva di usarlo come ultima risorsa, visto che per molte altre cose esso non era granché spendibile. Ma adesso si poteva usare: uccidere un drago, un grosso drago anziano, agli estremi confini del mondo, sarebbe stata la missione perfetta per quel pazzo di demone senza controllo, specie considerando che il drago era già stato stancato e ferito da lui stesso, quindi non si trovava nella migliore delle condizioni. Sì: il Signore delle Dune avrebbe lasciato al demone degli spiriti il compito di concludere quel lavoro. C’erano un po’ troppi maghi che giravano per il mondo ormai, ed era giunto il momento di fare pulizia.
                Lui doveva a Requiem molto, se non proprio tutto. Era potenziale che esistesse un legame riguardo all’origine della magia e all’esistenza dei draghi, ma certo non era da quel Requiem che il Signore delle Dune aveva ricavato il proprio potere: nel suo caso si trattava di doti naturali. Eppure, senza Requiem lo stregone non avrebbe mai saputo la storia del sigillo di Cair Dedalos, e quindi non avrebbe mai potuto legare a doppio filo il suo destino a quelle creature così fedeli e inestimabili che erano i manti. Forse Requiem aveva pensato di fare di lui un suo pupazzo, un soldato da usare nella sua battaglia contro l’umanità, magari un suo erede… ma il conflitto d’interesse tra i due, da sempre latente, era via via divenuto più insormontabile: il Signore delle Dune non intendeva sterminare gli uomini, lui desiderava comandarli. E così quello era stato il loro ultimo incontro. Requiem gli aveva seminato lungo il cammino una serie di ostacoli, consistenti in nuovi imprevisti giocatori che complicavano la scacchiera del Westeros. Le cose andavano semplificate, e dunque l’ultimo drago doveva morire…
                Solo che si era rivelato un osso molto più duro del previsto, visto che lo stregone si aspettava un lucertolone fisicamente infiacchito e spiritualmente ormai spento, e invece si era ritrovato contro l’entità magica più poderosa che avesse mai incontrato nel corso della sua secolare esistenza. Ma poco importava: i suoi demoni sarebbero riusciti nel compito che lui aveva testé fallito. Lo avrebbero completato e dunque infine, lui sarebbe tornato a ricoprire il ruolo che per diritto gli spettava, quello del signore di tutti gli uomini e le creature viventi, e dunque sedere sul Trono di Spade.
                «Maledetto drago!» continuò a imprecare lo stregone ammantato di viola «Maledetto!»
                «Mio signore» gli disse dunque il demone delle energie, intervenendo per la prima volta quel giorno: come quasi tutti i demoni, anche il Keranomante non era di molte parole, «Lo senti anche tu?»
                «Cosa?». A quel punto il Signore delle Dune smise per un attimo di pensare a Requiem e liberò la mente. C’era un’ennesima energia, non potente ma certo fastidiosa date le sue condizioni, che si stava avvicinando: era molto vicina, anzi era praticamente in loro prossimità. Il Keranomante gli chiese: «Disposizioni?»
                «Io non lo posso combattere, e certo non lo farai tu… il demone degli spiriti lo hai già convocato?»
                «Sì»
                «Bene: ci penserà lui. Prima questi sconosciuti, e poi, se ce la fa, il drago: non abbiamo molte altre alternative». In quel preciso istante, il nuovo nemico venne fuori dalla nebbia di ghiaccio. Erano due giovani: uno longilineo e castano, l’altro biondo e armato come un cavaliere. Insieme a loro, un vecchio, anche lui armato e con una espressione parecchio ardita sul viso. La magia proveniva esclusivamente da quello longilineo. «L’ho detto, io…» proclamò dunque il Signore delle Dune «Ci sono un po’ troppi maghi a questo mondo!», e detto ciò lui e il suo servo Keranomante svanirono nel nulla. Fu allora che la terra ghiacciata incominciò a tremare…

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Capitolo 20
*** Valyria ***


Capitolo 20
VALYRIA
 
 
                La verità era che a quella vita Marcus l’Andalo a poco a poco si stava cominciando ad abituare. Non era ancora esattamente “libero”, e tutte le sere tornava a dormire rinchiuso in quella cella un po’ umida che da diverse settimane ormai era la sua alcova… ma per tutto il resto, Marcus veniva trattato nel modo migliore in cui avrebbe mai potuto immaginare che un prigioniero venisse trattato. Condivideva diversi momenti in comune con gli uomini e le donne che abitavano quella enorme duna sotterranea del deserto: in primis i pasti, che per lui erano sempre abbondanti, così come per tutti gli altri. Come facessero a trovare tutte quelle pietanze prelibate in mezzo a quell’arido deserto, l’Andalo non riusciva a spiegarselo: poteva mai bastare il fatto che fossero individui nati e cresciuti in quelle zone, e dunque ne conoscessero abbastanza bene i segreti?
                Perlopiù si trattava di ricercati, chi per un motivo chi per un altro, che tuttavia avevano commesso reità che Yashua o aveva perdonato o aveva considerato cose non poi così peccaminose. Ma la verità era che lo stregone aveva bisogno di adepti, e in linea di massima prendeva chiunque: o almeno così tendeva a pensarla Marcus della Casa Lannister. Così tendenzialmente l’aveva pensata fino a quel caldissimo pomeriggio, subito dopo il pranzo in comune…
                Spesso dopo il pranzo Yashua radunava tutti i suoi iniziati per condividere con loro un momento di riflessione che normalmente si concludeva con una preghiera. All’inizio Marcus, e per un tempo che gli parve infinito, dovette sorbirsi quelle manfrine su un dio giustiziere che sarebbe calato dall’alto e avrebbe arricchito i poveri, nutrito gli affamati, allietato gli infelici. E sul fatto che in occidente la gente stava benissimo e che presto loro sarebbero stati come gli uomini dell’occidente: la cosa era per certi aspetti anche falsa, perché se il principe Marcus avesse dovuto mai paragonare le condizioni di inedia di un cittadino del quartiere povero di “Fondo delle Pulci” a Roccia del Re, e quelle delle persone che in quel momento lo tenevano prigioniero, avrebbe serenamente detto che la vita migliore era quella dei secondi.
                Tuttavia le manfrine di Yashua erano corredate da spettacoli di magia piuttosto impressionanti: per i primi tempi, Marcus si era ostinato a credere che si trattasse di trucchi, ma più guardava quelle esibizioni e ricordava quello che aveva visto fare allo stregone il giorno che gli aveva salvato la vita, e più rimaneva allibito. Era solo da qualche giorno che aveva smesso di fingere, e aveva cominciato a credere che in effetti quel dio di Yashua dovesse effettivamente esistere. Ma non come si diceva che esistessero gli dèi occidentali, no: quello era un dio che si manifestava. Che fosse esattamente benevolo e onnisciente così come Yashua lo presentava, o che Yashua fosse in effetti suo figlio, questo ancora non convinceva il secondo fratello del re. Ma c’era poco da fare: qualcosa di straordinariamente inspiegabile si stava poco a poco accrescendo presso il deserto fuori dalla città-mercato di Marrah Cakhubhia…
                Quel caldissimo pomeriggio, subito dopo il pranzo in comune, Yashua aveva iniziato il suo monologo poco fuori dal rifugio, in un pezzo del deserto in cui la sabbia s’incontrava con le rocce. Era stato allestito una specie di palco non molto dissimile da un patibolo. Il discorso dello stregone sacerdote si era incentrato sulla fratellanza che avrebbe dovuto accomunare tutti gli uomini, e che in particolare accomunava i membri di quel ristretto circolo di seguaci del dio del deserto. Aveva detto che lui stesso senza i suoi fratelli sarebbe stato come una debole fiamma in preda alle correnti, e che non c’era futuro senza fiducia. Dopodiché aveva intimato: «Fate entrare Shalem».
                Shalem era un ragazzo che non doveva avere neanche sedici anni. Anche se Yashua disse che “frequentava la loro comitiva da tempo”, Marcus non l’aveva mai visto: ma questo non significava molto, visto che la comunità, anche se piccina, era piuttosto eterogenea e molto dinamica; c’era sempre gente che andava e gente che veniva. Shalem doveva esser stato picchiato molto di recente, visto che il suo viso, le braccia e le gambe erano letteralmente ricoperti di ematomi. Venne fuori, tenuto per le braccia da due confratelli apparentemente molto più grandi e molto più cattivi di lui. «Il fratello Shalem» proclamò Yashua rivolto alla comunità «per sua stessa ammissione ha tradito la fiducia di uno dei membri della comunità. E facendolo, egli ci ha traditi tutti. Ha rubato delle pietre molto preziose, che per una sorella della nostra comunità avevano un valore affettivo, ancor più che economico: lo ha fatto per rivenderle al mercato di Marrah Cankhubhia»
                «ERANO PER MANGIARE!» gridò Shalem piangendo, poi più piano: «Per mangiare…»
                «Ah ma tu eri un membro della nostra comunità, fratello Shalem: se volevi mangiare, dovevi rivolgerti a me e insieme ci saremmo nutriti. O insieme avremmo digiunato. Ma tu hai voluto agire per conto tuo!»
                «No!»
                «Per egoismo! Contravvenendo a quella solidarietà che è forse il principale e più sacrosanto dei precetti che il padre ci richiede di apprendere prima e meglio! TU HAI TRADITO I TUOI FRATELLI!»
                «No!»
                «Sì! Volevi mangiare senza dividere il tuo pane con noi. E, per farlo, non hai avuto scrupoli nel derubare la povera sorella Machreth, che non possiede molto altro oltre a quelle gioie, e… al nostro sentimento di fratellanza nei suoi confronti. Ed è in nome di quella fratellanza che tu oggi sei qui!»
                «No… no…». Nel frattempo, Shalem era stato legato al centro del patibolo, e l’Andalo aveva tristemente intuito quello che stava per accadere… non avrebbe mai voluto assistere a nulla del genere, ma purtroppo non sapeva bene come reagire: l’idea di levarsi da solo, in catene e ancora non troppo in salute, contro un’orda di fanatici in preda al delirio, non gli parve esattamente la cosa migliore da fare. Perciò si limitò ad assistere…
                Adesso Yashua si rivolse direttamente al giovane Shalem, ma sempre facendo in modo da essere ascoltato da tutti gli astanti: «Ascoltami, figliolo»
                «No…»
                «Shalem: ascoltami. Questa non è una punizione. È un rito di purificazione. È vero: tu hai sbagliato, ma non per questo non meriti il perdono e la grazia del Signore, non trovi?»
                «Io… sì…»
                «Bene: allora sai cosa devi fare?»
                «Che cosa?»
                «Cantare. Rispondere al dolore del corpo con la gioia dell’anima, che finalmente si riconcilia con l’Eterno. Pensi di poterlo fare?»
                «Io…»
                «Ci vuole molta forza: lo so. Ma tu sei abbastanza forte; e la grazia del Signore presto accompagnerà il tuo spirito dove le fiamme s’incontrano con le nebbie, e tutte le energie cantano all’unisono. Comincio io, va bene?»
                «Sì»
                «Lohonli lahame, huuran saroè». A questo punto tutti cominciarono a cantare con lui, Shalem compreso. Yashua prese allora una fiaccola e, gettandola ai piedi del ragazzo, fece divampare l’incendio sul suo corpo minuto. A poco a poco, anche se si forzò di continuare, la voce di Shalem divenne sempre più un urlo indistinto. Ma i seguaci di Yashua continuarono a cantate: «Nahoholeghan Cam Paheja, lohonli san tareja. Ayun mahser gahana lech mahana ser». La cosa triste era che anche Marcus ormai conosceva quel canto: si trattava di una preghiera nella lingua del deserto; era stato costretto a ripeterla per decine di volte! Tuttavia non ne aveva conosciuto il significato fino a pochi giorni prima del rogo di Shalem, quando aveva chiesto lumi a Lord Sawela. La parte iniziale più o meno significava: il mio cuore arde, mentre la mia anima attende. Mentre il ritornello faceva: apri le tue porte fiammanti o’ padre infinito, affinché io possa raggiungerti. E infine anch’io avrò una casa presso te». Era imbarazzante per il Cavaliere della Chimera osservare con quale trasporto tutta quella gente si convinceva del fatto che stesse accadendo qualcosa di giusto, o perfino qualcosa di necessario. Marcus ovviamente non condivideva, mai e poi mai avrebbe condiviso una follia del genere. Eppure il trasporto di tutta quella gente, gente umile, gente con cui aveva condiviso per settimane tre pasti al giorno, gente buona… lo metteva a disagio.
                Quando venne ricondotto alla sua cella, per un momento Marcus l’Andalo non riuscì a non chiedersi che cosa diavolo stava facendo lì in quella landa desolata e fin troppo calda del mondo. Si chiese perché diamine non si fosse ribellato alla decisione di Cleghorn, il capo dei Cavalieri della Chimera alla Valle del Leone, di mandarlo così lontano dalla cerusica Jasmina, cui così tanto si stava affezionando e alla quale così ardentemente pensava nelle notti passate in solitudine dentro quella cella, prigioniero dei fanatici del dio del deserto. Si chiese altresì perché avesse accettato quasi di buon cuore l’idea di lasciare Roccia del Re: aveva rinunciato a una vita accanto ai suoi amici e fratelli in cambio di diversi anni, ormai, passati a sgobbare, sudare, piangere e rischiare la vita. Solo l’idea di non aver potuto rivedere suo padre Lionel un’ultima volta, gli riempì gli occhi di lacrime come fossero due otri: in quel momento si sentì molto più giovane del giovane ragazzo che era. Si sentì un bambino, rimasto da solo, senza più il petto del padre, la spalla di un fratello, il ventre di un’amica su cui asciugare i proprio occhi rigonfi. Marcus non sapeva bene che cosa esattamente desiderasse in quel preciso momento: forse che la chimera Shirley – anche lei prigioniera chissà dove – si destasse all’improvviso e lo venisse a liberare, portandolo poi a librarsi presso i cieli infiniti di un orizzonte che poteva essere in mille modi, ma mai come quello rosso-scuro immaginato da quei pazzi che lo tenevano prigioniero. Ma al di là di qualsiasi fantasia, la verità era che Marcus era semplicemente un po’ stanco e aveva voglia di casa: forse solo di un letto comodo o un posto dignitoso dove orinare; forse addirittura semplicemente di un luogo che non fosse quello dove in quel momento si trovava… fu allora che, per la seconda volta quel giorno, e troppo presto rispetto all’ora di cena, la porta della sua prigione gli venne di nuovo aperta.
                «Yashua desidera parlarti» annunciò Garhel Sawela che da eminente politico della Capitale, si era ridotto in quel luogo, a parere di Marcus, a niente di più che il maggiordomo dello stregone. «Lord Sawela» fece dunque l’Andalo cercando di richiamare l’attenzione del politico. E quello gli rispose: «Sì?»
                «Tu non puoi credere a tutto questo! Sei un uomo… che combatte per la gente! Che cosa c’entrano le condizioni del popolo dell’oriente con un ragazzino bruciato perché ha rubato delle gioie?»
                «Vedi, principe, talvolta… un fine importante richiede sacrifici…»
                «Sì, ma sarebbe bello che uno possa scegliere quali sacrifici sia o non sia disposto a fare…»
                «Shalem ha scelto»
                «Sì… ma…»
                «Vuoi forse negare che egli si sia unito al canto per la sua liberazione? Che non avesse uno sguardo di estatico compiacimento, fino a che le fiamme non fosseo state troppo alte e lo si avesse potuto scorgere in volto?». Tra i due piovve il silenzio: Marcus sapeva che il politico non aveva ragione, ma non era in grado di spiegare il perché. Decise allora di cambiare argomento, e dire quello che da più tempo lo tormentava. Ci aveva ragionato, anche a lungo, e aveva deciso che conveniva almeno provare, per quanto le probabilità fossero scarse… chiese perciò al Tribuno Popolare: «Lord Sawela…»
                «Sì, figliolo?»
                «Aiutami ad uscire di qui». Per un attimo il principe terzo in linea di successione al Trono, visto che Sawela rimase in silenzio, sperò che forse inspiegabilmente qualche speranza stesse per germinare. Ma invece Sawela si limitò subito dopo a rispondere: «Parla con Yashua». E tutte le speranze dell’Andalo s’infransero di colpo: una cosa era sicura, con quel fanatico c’era ben poco da ragionare…
                Il Tribuno Popolare scortò dunque Marcus per una serie di corridoi nella roccia che al giovane Lannister parvero nuovi. La zona era simile a quella in cui era custodito il teschio parlante del colore del carbone, ma non era esattamente la medesima. Man mano che proseguiva, il Cavaliere della Chimera si rese conto che la struttura diveniva sempre più “selvaggia” e irregolare: più che corridoi scavati dall’uomo, quei cunicoli cominciavano a parergli sempre più spelonche naturali. Percorsero molta strada; infine si ritrovarono in un enorme antro, con una considerevole apertura verso l’esterno, anche se non era interamente aperto. Lì, di spalle, se ne stava quel pazzo di stregone e accanto a lui, tutta intenta a prendersi le sue carezze, se ne stava la mastodontica Shirley, con le sue ali piegate e la criniera fluente. Era legata a una robusta catena di ferro, però stava bene: non sapendolo, Marcus non avrebbe mai detto che solo poche settimane prima quella bestia avesse subito un attacco come quello che invece aveva avuto modo di osservare con i propri occhi. Solo a vedere la sua chimera così florida, in salute, il giovane Lannister si commosse: era probabilmente l’unica vera amica che poteva ritrovarsi in mezzo a quella marea di pazzi fanatici. Andò incontro a Shirley e unì le proprie carezze a quelle del sacerdote del dio del deserto. Shirley si accorse subito che lui era lui: le chimere erano animali di rara intelligenza, e non si dimenticavano dei loro padroni… Marcus trattenne le lacrime a stento.
                Yashua li lasciò fare per un bel po’. Ma a un certo punto disse quello che Marcus aveva sperato che non dicesse: «Voi due dovete fare qualcosa per me, Marcus l’Andalo». Fino a quel momento, il sacerdote rosso non si era mai rivolto a lui con il suo nome: non lo sapeva. L’Andalo era ben consapevole che si era trattato solo di una questione di tempo: quell’inutile vigliacco di Sawela doveva aver spifferato ogni cosa sul suo conto. Chi fosse, da dove venisse, la sua esperienza tra i Cavalieri della Chimera, la sua missione di trovare Yashua per Lord Panecha. Di quest’ultimo passaggio, in effetti, Marcus non poteva essere sicuro: ma aveva la sensazione che pure quello non fosse sfuggito al Tribuno Popolare che, come tutti i politici che si rispettano, doveva avere al suo servizio un apparato di spie di non scarsa efficienza. Solo che subito dopo Yashua se ne uscì con: «Io so molte cose di te, Marcus Lannister. Ho visto le vibrazioni che agitano il tuo cuore. Ho osservato una ad una ogni tua ansia e paura… la delusione per non aver potuto assistere al seppellimento di tuo padre, il re dell’occidente. La voglia di tornare a casa, coi tuoi fratelli e sorelle. L’ultimo bacio con il quale hai salutato la curatrice delle chimere…».
                Che Yashua conoscesse anche quel dettaglio era impossibile! Quale spia avrebbe mai potuto osservare la sua preda in ogni singolo momento, compresi quelli più privati, futili ai fini dei giochi della guerra e della politica? No: Yashua conosceva quelle cose, per altre ragioni. Ragioni che terrorizzavano il principe terzo erede al Trono di Spade. Ragioni basate… sulla magia. Ancora una volta Marcus non trovò nulla da dire: non era un grande stratega della diplomazia e dell’affabulazione, lui. Perciò si limitò a domandare: «Come fai a…?»
                «Io vedo attraverso le fiamme, principe. In esse, grazie al dio della luce, io ho scorto il tuo passato, il tuo presente, e in parte il tuo futuro. Io so che ci aiuterai: si tratta del tuo destino. Solo che non posso determinare quando. Ma ho visto la tua chimera levarsi in alto sopra le tempeste del mare del sud. Ho veduto le tue mani librare fendenti contro i nemici del popolo. E ho osservato i drappi della chimera bruciare nei castelli del Westeros…» a questo punto lo stregone si concesse una breve pausa, per poi riprendere subito: «Questo… non avrei dovuto dirtelo. Ma è importante che tu sia consapevole del potere che tu contieni, Marcus della Casa Lannister»
                «Po-potere? Che potere?»
                «Scorre sangue di re nelle tue vene. Ed esso è già di per sé un’arma… che tu non puoi neanche immaginare»
                «Mi dispiace… io non comprendo»
                «Tu comprendi, e anche fin troppo bene. Tu sai che tutto quello che hai visto da quando ti trovi presso la nostra comunità è vero, e non riesci a spiegartelo, e questo ti tormenta. Ti tormenta non sapere perché io conosca tutte queste cose sul tuo conto. Ti tormenta non sapere perché il fuoco si sprigiona dalle mie mani e colora i miei occhi. Ti tormenta non sapere perché così tanta gente è disposta a credere, così serenamente, al dio che è mio padre, mentre tu – nonostante l’evidenza dei miracolo a cui assisti – rimani ancora così confusamente ingolfato nella tua logica e nei tuoi schemi. Non intendi ancora arrenderti… ma lo farai. O Shirley morirà»
                «Cosa?!»
                «Sei un cavaliere della chimera, piuttosto addestrato alle pressioni fisiche o psichiche sulla tua stessa persona. Faresti ancora della resistenza se mi limitassi a dire che ti ucciderei, ardendoti vivo. Ma se ti dico che, prima di te, ucciderei la tua chimera… questo cambia piuttosto radicalmente le cose, no?»
                «Ah, brutto…!» a questo punto il principe non resistette e si scagliò a mani nude sullo stregone. Come una barriera di aria compatta, calda ma non fiammante, lo bloccò e costrinse a indietreggiare. Non c’era molto da fare: Yashua era un avversario troppo potente. «Tu mi darai una mano» fece dunque il sacerdote «È il tuo destino. E io… vi lascerò vivere entrambi e… a poco a poco ti convicerò della giustezza della mia causa»
                «Di che si tratta?»
                «Da diverso tempo… le acque che separano il continente dall’arcipelago di Valyria sono tormentate da uno strano, innaturale, fenomeno oscuro. Esse sono in costante agitazione, in preda a un’immane tempesta di onde di inaudita altezza. E questo indipendentemente dal fatto che sopra di esse ci siano il sole o le stelle, il sereno o la pioggia e i fulmini. Indipendentemente da quale porto ci si provi ad arrivare, l’antica città di Valyria non è più accessibile: circondata per com’è da questo incubo di acque in preda alla follia. Questo non è tutto: sempre da diverso tempo, capita che cittadini di Marrah, lì residenti sotto il regime di Panecha, oppure esuli qui presso il dio della luce… talvolta scompaiano per non tornare più. E… testimoni raccontano di aver udito urla disumane, in lontananza, oltre la tempesta. E di aver percepito… il mefistofelico odore di carne bruciata, e di cose morte. Per tutte queste ragioni, intendo raggiungere l’antica roccaforte: ma non è possibile in alcun modo, se non… per via aerea»
                «Vuoi cavalcare Shirley fino a Valyria?»
                «Non essere stupido: so bene che Shirley non si lascerebbe mai cavalcare da uno che non è il suo cavaliere…»
                «Tu vuoi che ti guidi io…»
                «Ha una groppa piuttosto ampia: direi che ci si possa stare comodamente in due, anche in tre…»
                «Normalmente non si cavalca una chimera in più di due…»
                «Vorrà dire che dovremo stringerci. Come vedi, Marcus, non c’è nulla di oscuro nella mia richiesta. Non ti porterebbe a uccidere nessuno, anzi: probabilmente a salvare delle vite e… scoprire che cosa stia succedendo oltre il mare del sud. Vita, libertà, conoscenza… non so come li chiameresti tu, ma a mio avviso si tratta di ideali più che ragguardevoli. Mi aiuterai, dunque?»
                «Se lo farò… mi lascerai andare?»
                «Questo non può far parte del nostro accordo. Ma mettiamola così: il nostro reciproco rapporto di fiducia verrà ulteriormente saldato dalla cosa, e diverrà magari un rapporto di amicizia. E, in termini di amicizia, magari potrò convincermi che sia il caso di liberarti, o magari… potrai convincerti tu del fatto che… sia il caso di restare. Allora: affare fatto?»
                «Va bene. E che il tuo dio possa vigilare che tu mi abbia detto tutto il vero, e che mantenga la parola»
                «Lo farà sicuramente. Partiremo domattina, presto: immagino che, anche volando su una chimera, il viaggio da qui a Valyria non sia poi così breve e… è potenziale che l’operazione possa richiedere un’intera giornata…»
                «D’accordo»
                «Lord Sawela, da questo momento in poi il principe Marcus non è più un prigioniero: non dormirà più in cella, e che gli siano tolte le catene. Solo… facciamo in modo che un paio dei nostri lo tengano sotto osservazione»
                «Sissignore» rispose dunque Garhel Sawela, e le disposizioni di Yashua vennero immediatamente eseguite.
                Marcus passò quel pomeriggio in libertà, come un qualsiasi cittadino esule di Marrah Cankubhia. Dimenticò in un tempo sconvolgentemente rapido la vicenda del rogo di Shalem, avvenuto solo quella mattina. Mangiò in comune con gli altri, e con gli altri ascoltò l’ennesimo sermone di Yashua, nel quale quest’ultimo annunciò che presto avrebbe riportato a casa i confratelli scomparsi nel nulla. L’Andalo odiò doverlo ammettere: ma quel pazzo d’uno stregone ci sapeva fare come politico molto più che molti politici della Capitale. Anche sei i suoi pensieri anche quella notte, come tutte le ultime notti, andarono prima verso casa e poi verso Jasmina, comunque l’Andalo quella sera dormì più sereno: forse la semplice idea che sarebbe tornato a volare su Shirley, unitamente alla ben più pragmatica sensazione di essere per il momento necessario a Yashua, e quindi potenzialmente immune da pugnali notturni, lo fece dormire meglio. E l’indomani, di buon’ora, dopo una rapida – anche se abbondante – colazione, di nuovo pose la sua sella sulla schiena del poderoso animale.
                Con lui sarebbero partiti sia Yashua che Sawela, chiaramente sempre più il “secondo in comando” del gruppo di fuorilegge stanziati nel deserto fuori da Marrah. E, prima ancora che Marcus caricasse la comoda sella, anzi proprio nell’istante in cui stava posizionando il terzo di un totale di cinque ganci, lo stregone di fuoco andò verso di lui e gli disse: «Ehm, figliolo… guarda che se dovessi accorgermi di qualcosa che non mi convince molto… un piccolo pugnale nascosto in una manica dopo che qualche folle te lo abbia malauguratamente fornito stanotte… un movimento vagamente simile a uno spintone nei confronti miei o di Sawela… io carbonizzo prima la chimera, e poi anche te: seduta stante. Questo… non c’era neanche bisogno di dirlo, vero?»
                «No» fece Marcus, che comunque era vero che non avesse pensato minimamente di tradire «Certo»
                «Splendido». Sawela si posizionò dietro Marcus, e Yashua dietro Sawela. Per tutto il viaggio, Marcus percepì in loro un senso di gioia e meraviglia, come quello di due bambini alle prese con un giocattolo raro e nuovo. Il pensiero di volare, in effetti, era qualcosa che nessun uomo del mondo conosciuto poteva anche solo sognarsi: nessuno a parte i Cavalieri della Chimera. Solo loro cavalcavano creature alate, visto che da ormai tempo immemore i draghi si erano estinti. Il Tribuno e il sacerdote si meravigliarono inoltre della rapidità con cui raggiunsero Marrah Cankhubhia: Yashua aveva senza dubbi sperato di arrivare presto, ma che la chimera fosse in volo così veloce, non lo aveva neanche posto tra le sue più rosee prospettive. A mattinata ancora piena, con il sole che ancora neanche aveva raggiunto la linea perpendicolare rispetto alla terra, Marcus con Yashua e Sawela superò l’immensa tempesta di onde che rendeva l’arcipelago di Valyria una specie di roccaforte le cui mura erano costituite da onde alte come torrioni. In quel punto, visto che inevitabilmente la corrente agitava l’aria stessa, Shirley subì qualche contraccolpo, una certa resistenza, ma neanche lontanamente preoccupante. Dopodiché furono di nuovo coi piedi al suolo: e con i piedi Yashua, Marcus e Sawela proseguirono il loro tragitto, lasciando Shirley a scorazzare nei pressi della spiaggia. Per la gran parte Valyria si costituiva di una città morta: si trattava di rovine, pietre che una volta erano case e palazzi e che adesso invece davano più che altro l’idea di uno spaventoso, monumentale, cimitero. Mentre circolavano per quelle vie desolate, Yashua, non celando un certo impietosito sarcasmo, si rivolse al principe dicendo: «È la prima volta che visiti la città perduta?»
                «Sì» fece Marcus, non riuscendo a sua volta a celare una certa inquietudine: anche se quei palazzi adesso erano solo pietre spoglie, in realtà dovunque si poteva notare la magnificenza con cui erano stati costruiti. I dettagli, così precisi e curati, che caratterizzavano ogni singolo orlo di porta o finestra, era come se testimoniassero un fasto scomparso, ma mai veduto a memoria d’uomo. Era come se in quella città fossero stati tutti ricchi. A un certo punto però, un inconfondibile suono di metallo fece realizzare ai tre improvvisati avventurieri che forse Valyria non era poi così tanto “fantasma”: da qualche parte, infatti, in lontananza, soldati armati di tutto punto si stavano muovendo… doveva trattarsi di un esercito…
                Guidato dai due uomini dell’oriente, che evidentemente conoscevano la zona, Marcus l’Andalo prima raggiunse e poi aggirò una specie di grosso palazzo infossato sul terreno: o almeno ne aggirò una parte, giusto per non raggiungere la fonte del suono frontalmente. Grazie al sapiente senso dell’orientamento di Yashua e Garhel Sawela, il principe terzo in linea di successione al trono si ritrovò su un’altura ripida oltre la quale poteva osservare, ma difficilmente essere osservato, quello che stava succedendo in una specie di enorme gola tra le rocce in prossimità di una di celata cala sul mare presso la quale se ne stavano attraccate due grosse navi. Era probabilmente l’unico punto di mare non in preda alla tormenta. E lì, guidati da un uomo di media altezza, biondiccio e vestito come un aristocratico, un gruppo di nefaste bestie più simili ad animali che a uomini, ma su due zampe e con elmi sulle teste e spade, asce e svariati altri tipi di lama alle mani, marciavano un po’ caoticamente verso le pesanti imbarcazioni. L’ometto aristocratico e biondo, unico umano in tutto quel caos, anche lui armato di uno spadone, se ne stava sopra una specie di roccia a forma di rampa, dalla quale urlava: «Voi siete nati per servire! Obbedire al vostro padrone è la vostra aspettativa: così soltanto voi avrete un senso. Dunque combattete per lui; uccidete il suo nemico; ritornare vittoriosi! E lui vi grazierà della sua benevolenza! Marciate per la morte! O la vostra… o la loro!»
                «Ma chi sono» commentò dunque Lord Sawela, a bassissima voce, «questi nuovi simpatici personaggi?»
                «È magia» sentenziò Yashua. E Sawela: «Tu… puoi fare qualcosa, maestro?». Marcus riuscì ad ascoltare la risposta solo marginalmente, visto che la sua attenzione era completamente stregata da quegli orrendi uomini-bestia. Comunque Yashua disse: «Contro un intero esercito? Tu mi sopravvaluti, Lord Tribuno Popolare»
                «Dunque?»
                «Dunque torniamo a casa di volata. A occhio e croce la cosa non sembrerebbe riguardarci: ce ne occuperemo quando lo farà»
                «Non possiamo!» si oppose a questo punto il cavaliere Lannister, e proseguì: «Dobbiamo almeno scoprire per dove si stanno dirigendo!»
                «No» gli rispose lo stregone, insistendo: «Non ci riguarda!»
                «Potrebbero anche attaccare Marrah Cankhubhia per quanto ne sappiamo!»
                «E questo fornirebbe un ulteriore valido alibi alla nostra causa: i re dell’occidente non possono proteggere la gente. Solo Dio può farlo!»
                «Sei un maledetto folle!!», si agitò dunque il principe Lannister, e finalmente diede sfogo a una rabbia che da troppe settimane ormai covava dentro di sé: cercò di afferrare a mani nude lo squinternato sacerdote, quando accadde tuttavia l’imprevedibile: Yashua venne colpito, ma non da Marcus…
                Un colpo di mazza chiodata – un’enorme mazza chiodata – si scaraventò tra la mandibola, il collo e la spalla sinistra del prete del dio del deserto, sostanzialmente neutralizzandolo in un colpo solo. A brandirla, era un essere perfino più inquietante degli uomini bestia che nel frattempo stavano continuando a marciare all’interno delle navi. Anche se aveva due braccia e due gambe, l’intera sua struttura, per quanto umanoide, pareva esser costituita di roccia. Solo lo spoglio teschio nero, al posto della testa, dava l’impressione di un qualcosa di umano: anche se in effetti era un teschio non morto e che, anzi, esprimeva una seria espressione di collera. La cosa più terribile, fu che quel teschio, una volta colpito Yashua, emise anche un suono che Marcus non poteva ricollegare alla voce dell’altro teschio nero che lui aveva già veduto: quello prigioniero, come anche lui stesso era stato, presso le camere di roccia e terra che costituivano il rifugio dei seguaci di Yashua. Anche se era così diverso, doveva essere qualcosa di simile: il teschio nero parlante era qualcosa di inequivocabile. L’enorme gigante di roccia dunque, con voce di osso, proclamò: «Ho neutralizzato il vostro mago! Deponete le vostre armi, e seguitemi: senza fare storie!». Anche se fosse stato armato di tutto punto, osservando quella enorme mazza insanguinata, e l’ascia bipenne che il demonio di roccia teneva salda all’altra mano, Marcus presumibilmente si sarebbe arreso: non perché fosse un vile, ma perché contro un avversario di quella portata sicuramente sarebbe riuscito a fare ben poco, solo uno stupido avrebbe considerato il contrario. Probabilmente, Garhel Sawela la pensava come lui, visto che estrasse la sciabola che teneva alla cintola e la buttò ai piedi del mostro. Dopodiché sia Sawela che Marcus, come prigionieri senza catene, furono costretti a seguirlo, spintonati entrambi dalla mazza chiodata e dall’ascia bipenne. Il cadavere martoriato del sacerdote del deserto, poggiato sulle spalle del demonio; l’esercito di uomini-bestia definitivamente dentro le imbarcazioni e pronto a salpare…

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Capitolo 21
*** La giostra della morte ***


Capitolo 21
LA GIOSTRA DELLA MORTE
 
 
                «Oh, no!» fece Elthon della Casa Applegate «È lui!»
                «Lui chi?» gli domandò Daniel, cercando di mantenersi in piedi: cosa assai complessa, dato il fenomeno che per la prima volta in vita sua stava in quel momento vivendo… la terra che tremava da sotto come se un gigante del sottosuolo vi ci stesse battendo le mani e i piedi. L’assoluta sensazione di avere a che fare con qualcosa di più grande degli uomini, qualcosa con cui ben poco chiunque possa fare, se non attendere pazientemente e sperare nel meglio. Inoltre, anche il vento si era alzato e, con esso, in lontananza ma non tanto da non permetterne la vista, le onde del mare più a nord in assoluto: il cuore di Actonon.
                «Guarda!» rispose Etlhon al principe Daniel, indicando un punto dell’orizzonte. Lì, in lontananza ma sempre più vicino, il giovane Piromante riuscì a scorgere una macchia di verde che via via stava ricoprendo il bianco delle nevi, diretta verso di loro. Era come se l’erba, le piante e i fiori si stessero riproducendo tutt’assieme e ad inaudita celerità. Piante e fiori di un rigoglio piuttosto raro per quel paesaggio così gelido e spoglio. E, continuando ad osservare lì in fondo, Daniel lo vide: c’era una specie di uomo che si stava dirigendo verso di loro, scortato dal verde della natura. Ma solo “una specie”, in quanto era piuttosto piccolo rispetto ad un uomo comune, e aveva un folto pelo bruno lungo tutta l’agile corporatura. E poi: braccia e gambe molto lunghe, lunga coda, un’andatura animalesca e saltellante, e… un teschio nero al posto del viso. Doveva essere una creatura dello stesso genere di quella che aveva attaccato e pugnalato Daniel, quel lontano primo giorno presso il Monte Cabuk. Uno degli originari servitori dei draghi, che avevano compiuto il giuramento di Cair Dedalos e si erano per sempre tramutati… in “manti”.
                E più Daniel osservava quella creatura, più i dettagli si assommavano e più provava orrore: il demonio saltellante non era da solo. Marciavano insieme a lui, come soldati, anche: due grossi orsi bianchi, quattro agguerrite renne scalpitanti e, in alto, un nugolo impressionante di uccelli il cui numero era di difficile decifrazione. C’era di tutto in quella nuvola grigia che si stava avvicinando al Piromante e ai suoi due alleati: gufi, storni, corvi, albatri, passeri. «È il demonio» completò  dunque Elthon Applegate «che ha già attaccato le terre di mio padre. È come se le forze della natura fossero in suo completo potere: doma le erbe, doma gli animali, doma gli alberi… doma il cielo e la terra. È un avversario che non possiamo sconfiggere…»
                «E che facciamo?» chiese dunque Daniel, un po’ confuso; e Sir Cordell gli rispose: «Che domande! Combattiamo!»
                «Contro due orsi?!»
                «Sbaglio, principe Daniel, o Lord Applegate ci ha detto che suo figlio Elthon è il cavaliere meglio addestrato dell’intero nord?»
                «Sì: è così»; ed Elthon si difese: «Cavaliere, certo. Ma un cavaliere si batte contro altri cavalieri; cavalca i destrieri, seduce le fanciulle, eventualmente giostra»
                «Allora» concluse dunque il vecchio «Consideratela come una giostra! Una giostra mortale! Principe Daniel» a questo punto Cordell estrasse la spada, ruotandola un poco, al fine di sciogliere il polso, e dunque preparandosi allo scontro «Voi siete un Piromante! Pensate di essere in grado di tenere a bada uno, o meglio: entrambi gli orsi?»
                «Beh… ci posso provare…»
                «Ottimo. Sir Elthon: io intendo occuparmi del demonio peloso, dunque a voi toccano le renne e tutto il rimanente. Cercate di tenere quegli uccellacci lontani dalla mia testa: d’accordo?»
                «E dalla mia!» aggiunse Daniel, preoccupato. Il giovane Applegate controbatté: «Ho alternative?»
                «No, non credo»concluse ancora il più vecchio dei tre, e subito dopo fu il caos. Passò davvero meno di un minuto, e tutta l’orda avversaria, di bestie e diavoli, si riversò su di loro con tutta la foga di un comune esercito. Daniel provò ad attrarre entrambi gli orsi su di sé, ma la baraonda di uccelli che gli si riversano addosso gli impedì di fatto la concentrazione necessaria, e perciò uno dei due grossi carnivori venne completamente perso di vista dal Piromante. Gli uccelli erano un problema molto serio: l’orso era il problema primario senza dubbi, ma Daniel pensava che sarebbe stato in grado di neutralizzarlo in poco tempo, se non avesse dovuto anche costantemente proteggere gli occhi e la testa da quelle dannate bestie volanti. L’intervento di Elthon si stava rivelando insufficiente per quanto riguardava i volatili, visto che, per quello che il principe Lannister poteva confusamente intercettare, era del tutto preso dai pericolosi zoccoli delle quattro renne imbizzarrite, e forse anche dal secondo orso. Di Cordell, invece, Daniel non riuscì inizialmente a scorgere nulla…
                Cercando di evitare il più possibile i colpi di artiglio e di becco che così insistentemente provavano a colpirgli gli occhi e più in generale la testa, il Piromante provò con i suoi colpi di fuoco a far capire all’orso con che cosa aveva a che fare, ma quello pareva completamente invasato: non c’era modo di spaventarlo, il dolore non lo faceva indietreggiare… mirava solo a uccidere. Così come, d’altro canto, parevano intenzionate a fare anche tutte le altre creature che in quel momento lui, Elthon e Cordell avevano contro. Passò un tempo che, anche se doveva esser poco, a Daniel parve infinito, in cui non riuscì a fare progressi: l’orso attaccava e lui schivava; lui bruciava parti dell’orso, ma quello continuava ad attaccare. Le cose cambiarono, quando in qualche modo Elthon riuscì a liberarsi e spostare la propria attenzione sugli uccelli. Improvvisamente il quantitativo di volatili sopra la testa di Daniel fu talmente esiguo da liberarlo da ogni altro pensiero e permettergli di concentrarsi solo sul grosso carnivoro. Schivò un colpo di zampa, poi un tentativo di morso alla giugulare, e infine riuscì a far partire una consistente fiammata che attecchì sul plantigrado a partire dalla metà del ventre, fin sul collo e il muso. A questo punto era l’orso a non riuscire più a combattere: indietreggiò, facendosi da parte e permettendo al principe Daniel di concentrarsi su altro… il Piromante udì solo, in lontananza, il forte tonfo di qualcosa di grosso che cadeva in acqua: l’orso doveva essersi gettato in mare. L’altro, invece, se ne stava immobile per terra, con una grossa ferita al petto: Cordell, o più probabilmente Elthon, doveva avergli ficcato la spada fino al manico per farlo fuori. Il Piromante vide Cordell: si stava battendo valorosamente con quell’omuncolo peloso, dannatamente agile. Anche se erano per lo più i colpi che il demone riusciva a dare al vecchio, in realtà il principe avrebbe detto che lo scontro fosse quasi alla pari. Lui fece per andare in contro ai due strani duellanti, ma venne bloccato da due agguerrite renne che gli corsero addosso dalla parte delle corna. Certo i palchi delle renne non furono letali, visto che non c’erano punte, ma l’intervento del principe sul demone delle natura fu certamente rallentato, visto che per l’urto venne perfino gettato a terra. Elthon aveva fatto il suo dovere con gli uccelli, aveva fatto il suo dovere con l’orso, ma non ci era riuscito con le renne… la cosa non fu poi così fastidiosa: Daniel si risollevò subito, lanciò due fiammate giusto per spingere le due accanite bestie erbivore lontane da lui, e corse di nuovo verso Cordell.
                Non disse niente al suo anziano servitore – e quello non disse nulla a lui – semplicemente si gettò nella mischia. Quel demonio era una creatura molto diversa rispetto a quella che aveva attentato alla vita del principe di Cowain molto tempo prima a Cabuk. Anche se il teschio nero al posto del volto era una comprovazione indiscutibile di parentela tra i due, il primo demone, quello del ghiaccio, era stato di forme e dimensioni molto più “umane”, anche se lui stesso non si poteva dire che fosse fatto esattamente di carne. Ma il nuovo demone della natura, era molto piccolo e le braccia e le gambe non avevano nulla della conformazione umana, era come se cercassero blandamente di imitarla, ma senza riuscirvi molto bene. E poi la coda, il pelo, le lunghe orecchie piegate, tutto lasciava intuire che quella cosa fosse molto più “animale” del demone di Cabuk. Ma era una bestia veramente letale nel corpo a corpo: anche da sola riusciva a schivare comodamente sia i colpi con la spada di Cordell che quelli di fuoco di Daniel, e comunque colpirli a sua volta con tutto quello che aveva: i pugni, i calci, i colpi di coda. Inoltre, mentre la fatica si sentiva nel principe e soprattutto nel suo servitore, quella creatura pareva non spendere alcuna energia nel battersi. Tuttavia a un certo punto, un colpo di spada particolarmente fortunato librato dal vecchio Cordell, colpì l’omuncolo ad un braccio in modo tale da tranciargliene via una parte in diagonale. Un urlo ancestrale di rabbia e ombra si liberò dal mostro, un urlo che difficilmente Daniel avrebbe ipotizzato provenire da una creaturina tanto piccola. Evidentemente quella specie di folletto peloso celava in sé molto di più di quello che si sarebbe detto. La profonda ferita lo fece irritare parecchio: Daniel vide benissimo quel ghigno demoniaco sul teschio nero tramutarsi subito in una smorfia di ira. Si trattò di pochi secondi: il demonietto saltò con uno slancio sovrumano su Cordell facendogli perdere l’equilibrio, lo morse, lo picchiò con tutto quello che aveva a disposizione. Con uno scatto, Daniel cercò di allontanarlo dal vecchio amico, ma non prima che il demonio potesse scagliare un calcio definitivo che fece cadere Cordell giù dalla superficie ghiacciata. E lì, il vecchio nobile uomo non morì per l’impatto: prima che finisse in mare, venne preso a volo dall’orso che Daniel aveva ustionato. Il carnivoro afferrò il vecchio con i denti alla giugulare, e mente il sangue schizzava dal collo dell’anziano Sir, lo prese, avvinghiandolo con la sua intera massa, e se lo portò appresso negli abissi profondi del cuore di Actonon. Per un attimo il cuore nel petto del principe di Cowain cessò di battere. Era come se tutto si fosse fermato, anche se tutto poco prima sembrava esser corso ad inaudita velocità. Una voce dentro Daniel avrebbe voluto farlo sperare: fargli pensare che Cordell era forte, molto più forte di qualsivoglia vecchio della sua età, e che in quel momento stava finendo il letale carnivoro con la sua spada, in fondo al mare, mentre la sua dura pellaccia resisteva al gelo dell’acqua del profondo nord… ma tutto ciò era impossibile, e il principe Piromante lo sapeva. La speranza mutò in lui rapidamente in senso di angoscia, solitudine, tristezza, e in minor parte rabbia, e nonostante gli mancasse il respiro e sentisse come se la voce gli si fosse incastrata in gola, trovò comunque la forza di urlare: «CORDEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEELL!!». Anche due lacrime, nonostante il freddo, riuscirono a scendere dai suoi occhi, per bloccarsi subito dopo all’altezza delle guance… ma la battaglia non era ancora finita, e Daniel lo sapeva. Dunque si costrinse a non indugiare ulteriormente sulla morte del vecchio amico, e a rivolgersi all’orribile, piccolo, mostro che l’aveva causata.
                Concentrò nei palmi delle mani la più grande quantità di potere che avesse mai raggruppato nella sua esistenza di Piromante. Arrivò a scottarsi lui stesso, anche se in maniera marginale. Non permise al diavolo animalesco alcuna via di scampo; lo imprigionò in una palla di fuoco incandescente, oltre la quale l’unica cosa che riusciva ad uscire erano le sue urla disperate. Eppure, dopo un paio di minuti di quel trattamento, le urla cessarono, e Daniel cessò il proprio attacco. Quando lo fece, non vide più il demone, né il suo cadavere carbonizzato, né il suo teschio nero ghignante. Vide una cosa che era simile a un uovo: per la forma era praticamente uguale, ma la consistenza del materiale che lo componeva più che un guscio d’uovo era simile a roccia. E il colore era… verde intenso.
                Per un attimo tutto si fermò: le renne e gli uccelli smisero di lottare con Sir Elthon, il quale a sua volta smise di librare la spada, approfittandosene per riprendere anche un po’ di fiato. Daniel rimase confuso: non aveva davvero idea di come procedere, dato che il suo fuoco, anche quello più intenso, non era stato in grado di scalfire quell’uovo di pietra verde. Non sapeva neanche se ci fosse più un avversario dietro, o dentro…
                La risposta giunse quando lo stesso uovo di smeraldo cominciò a creparsi da dentro; iniziò anche a vibrare prima leggermente, poi con sempre maggiore energia. Qualcosa stava nascendo da quella capsula. Quello che per primo ne venne fuori, assomigliava a un rametto, completo anche di una piccola gemma alla sua estremità. Dopodiché ne arrivarono altri, sempre più rapidamente, tanto da costringere Daniel ad indietreggiare. Fu impressionante: nel giro di pochissimo tempo, in quella landa ghiacciata del nord, da quell’uovo di pietra e male, sorse un’intera, immensa, quercia, completa di rami nodosi, ricchi di foglie verdissime. Al centro del tronco principale, se ne stava una piccola cavità, all’interno della quale era ancora una volta racchiuso… un teschio color del carbone!
                Daniel ebbe giusto il tempo di accorgersi della ritornata figura del teschio, che da uno stato di apparente sonno, il teschio ritornò a ghignare esattamente come aveva fatto quando si trovava incastrato sopra il collo di quel piccolo animale codato e saltellante. E poi, servendosi dei propri rami come lunghe, poderose braccia, ritornò ad attaccare il principe di Cowain. Anche Elthon Applegate fu suo malgrado coinvolto in una lotta contro i rami infestati di quella quercia maledetta. Le renne e soprattutto gli uccelli ritornarono a disturbare l’efficacia dei due guerrieri umani rimasti a combattere quella guerra, i due cavalieri ancora in piedi dentro quella – come l’aveva definitiva Cordell – “giostra della morte”.
                Al principe di Cowain, i propri colpi cominciarono a sembrare del tutto inefficaci. Normalmente il fuoco contro il legno ottiene un ottimo risultato, e infatti i colpi del Piromante bruciavano molto efficacemente i rami del mostro. Ma il problema era che più Daniel ne bruciava, più se ne riformavano, ancora più lunghi, robusti e pericolosi. Per quanto riguardava Elthon, si trovava esattamente nella stessa barca, anzi peggio visto che aveva come arma solo la propria spada, e non la magia come il principe Daniel. Però il caso fortuito volle che per qualche ragione il giovane Applegate si trovasse molto più vicino al tronco centrale di quanto non fosse Daniel, in quel momento tenuto a distanza da quattro diversi e agguerritissimi rami. Con non poca audacia, Elthon provò a colpire il teschio nella cavità sul tronco dell’albero: non gli fece niente, ma attirò la sua attenzione; un ramo particolarmente lungo e sottile, non molto diverso da una liana, lo afferrò per la vita e lo scagliò lontano. Ora Daniel era rimasto da solo.
                Tutti gli uccelli gli si scaraventarono addosso. Lui tentò di avvicinarsi al teschio, magari per coprirlo di fiamme come già aveva fatto la volta prima, ma ormai era sostanzialmente sopraffatto da quel gran numero di avversari che, a sua differenza, parevano completamente estranei al mancamento delle forze. Il principe continuò a battersi fino all’ultimo respiro, ma infine cedette: fu completamente sovrastato da rami e uccelli, e il peso degli avversari lo costrinse prima a inginocchiarsi e poi a stendersi definitivamente. Era finita.
                Eppure, quando già la disperazione aveva preso il sopravvento e Daniel pensava che poco o nulla sarebbe più riuscito ad ascoltare, udì invece un rumoroso scroscio, come di qualcosa appena giunto alla massima velocità e schiantatosi lì vicino. Qualcosa di molto grosso, molto più di un orso. Udì dunque la profonda voce, così familiare e rassicurante, del drago Nidhogg esclamare: «La tua battaglia su questa terra volge ora al termine, demone Metamante! Hai servito bene il tuo padrone. Il tuo lavoro è concluso!».
                Poco a poco, i rami liberarono Daniel, potenzialmente occupati a combattere un nuovo avversario. E di conseguenza, sempre gradualmente, anche gli uccelli e le renne si allontanarono dal principe di Cowain; egli li distinse chiaramente andare ad abbattersi sulla scorza dura del drago, giunto per davvero all’estremo nord.
                Daniel non poteva credere ai suoi occhi! Nidhogg era davvero lì fisicamente! E stava dando fuoco un po’ a tutto quello che fino a quel momento Daniel aveva combattuto: l’albero demoniaco in primo luogo, e poi anche gli uccelli e le renne che si trovavano in mezzo tra la sua fiammata e il legno del mante. Cercando di rendersi utile per come poteva, Daniel cominciò a bersagliare gli uccelli che scorazzavano intorno alla immensa testa del drago. La cosa non durò pochissimo tempo, ma nemmeno troppo. Alla fine, le renne e gli uccelli si dileguarono, mentre l’albero di cui erano al comando, andò via via rimpicciolendosi sempre di più. In ultimo rimase solo il teschio, imperturbabile, ancora inscalfibile: il drago lanciava la sua fiammata contro di esso, ma esso non si scioglieva. Daniel aggiunse quel poco di potere che poteva usare in ausilio della ben più poderosa scarica fiammeggiante di Nidhogg, ma il teschio ancora non si sciolse. Nidhogg lo rincuorò dicendo: «Continuiamo: sta cedendo!». L’apprendista di fuoco non aveva idea del perché il suo maestro la pensasse in quel modo, ma pensò che doveva aver percepito qualcosa in termini di magia che Daniel non solo non sapeva ancora, ma probabilmente non avrebbe saputo mai distinguere. I fatti diedero ancora una volta ragione al drago: all’inizio la smorfia ghignante sul teschio nero, divenne la chiara espressione di una profonda preoccupazione. Infine il teschio cominciò a sciogliersi a partire dai denti, e subito dopo dall’osso occipitale. Divenne un liquido nero, probabilmente l’oggetto di nero più intenso che Daniel avesse mai visto. Dunque divenne sempre più liquido e trasparente, finendo per essere assorbito dal terreno, che nel frattempo da verde era ritornato del colore bianco candido della neve e del ghiaccio. Finito il lavoro, con un sospiro stremato, Nidhogg poggiò il grosso muso al terreno e si riposò…
                La presenza del drago in quel luogo, così a nord rispetto alla sua tana, e per la prima volta al di fuori da essa da chissà quale secolo, non poté che suscitare in Daniel domande; domande che non sapeva se fosse il caso di fare, visto che Nidhogg per primo più che stanco gli pareva quasi senza sensi: teneva i grandi occhi aperti solo per un filo molto sottile e nonostante la battaglia si fosse conclusa, continuava a respirare affannosamente, come se il respiro gli mancasse per altre ragioni…
                «Maestro» se la sentì dunque di cominciare il giovane Piromante, confidando nel fatto che, se non avesse potuto o voluto, il drago si sarebbe limitato a non rispondere, «Come fai ad essere qui, tu… non avevi un’ala spezzata?»
                «Ce l’ho ancora, futuro Primo Cavaliere del re… » e ciò dicendo Nidhogg sollevò a stento quell’infiacchita, logorata parte del proprio corpo al fine di farla vedere al suo discepolo. Certamente quell’ala era immensa, come qualsiasi altra estremità appartenente alla creatura poderosa e magnifica che Nidhogg era: un drago originario. Eppure, lo stesso giovane principe Piromante non poté fare a meno di notare come l’ala del suo maestro fosse piccola e atrofizzata, rispetto al resto del corpo. Nidhogg specificò: «Penso che si possa tranquillamente dire… che questo è stato il mio ultimo volo. E la fiamma che ha distrutto il Metamante, il mio ultimo fuoco…»
                «Maestro… tu stai morendo?»
                «Non morendo, mio giovane apprendista: mai morendo. Sto mutando. La mia carne per prima diverrà terra… e poi il mio fuoco si trasformerà… in una nuova energia»
                «È tutto così complicato questo discorso, maestro» ammise Daniel, commosso. Ancora una volta quel giorno nell’estremo nord si ritrovò a piangere; ma stavolta il senso di amarezza era accompagnato da un sentimento come di gratitudine… inutile girarci intorno: Nidhogg aveva volato, pur non potendolo fare, per venirlo a salvare. Poco tempo prima aveva riferito a Daniel che, in qualche generazione umana, la sua energia si sarebbe comunque estinta, eppure il drago aveva scelto di concluderla esattamente in quel momento, visto che in tal modo aveva salvato la vita del suo apprendista.
                «Maestro Nidhogg» aggiunse dunque il giovane Piromante «Tu… sei venuto qui per me?»
                «Certo. Ma non solo. Sono venuto qui anche per il Metamante e… per mio fratello Requiem» a questo punto Nidhogg, per quanto poté, cercò di alzare la propria voce per farla arrivare oltre il ghiacciaio: «Mi ascolti, fratello? Giunti a questo punto, si direbbe che avessi ragione tu! Ci sei riuscito di nuovo: hai scatenato una guerra degli uomini, e stavolta ci hai buttato dentro una quantità tale di maghi e magia che sì… potresti davvero scatenare la fine dell’esistenza su questo mondo. Eppure non tutto parrebbe andato secondo i tuoi piani: lo stregone ha deciso di tenere per sé i suoi manti, non è vero? E chi ti dice che, una volta seduto sul suo trono del sud, egli non imponga una pace duratura che garantisca ancora per lungo tempo l’esistenza del genere umano? Inoltre la tua energia, come la mia, si sta spegnendo… dunque mi chiedo, Requiem, fratello mio, quale soddisfazione potresti mai trarre una volta che i tuoi occhi si saranno chiusi e il tuo battito si sarà fermato, se neanche avrai potuto constatare personalmente che il tuo proposito si sia effettivamente realizzato? Beh, permettimi di dirtelo, Requiem, una volta e per tutte: tu sei un pazzo! Sei sempre stato un pazzo! Ma sei mio fratello! E, in tutti questi anni, io non sono ancora riuscito a smettere di amarti. Non lo meriti! Ma io non ci sono riuscito… non riesco a non sperare che tu, alla fine della tua bieca esistenza, anche nell’ultimo istante, ritrovi la via per la tua redenzione…». Nel frattempo, anche Sir Elthon, scaraventato chissà dove dall’albero indemoniato, raggiunse di nuovo il principe di Cowain e il suo maestro drago accasciato al suolo. Il giovane cavaliere era piuttosto stupito da quello che stava osservando – glielo si vedeva in volto – ma rimaneva da parte, in rispettoso silenzio. Nidhogg si rivolse di nuovo direttamente a Daniel: «Puoi andare da lui… non ha mai ucciso un mante fino ad ora: li considera troppo preziosi per il suo progetto di gettare il caos nel mondo. Cerca di convincerlo a farti dire qualcosa su questo stregone che gli è sfuggito di mano: a questo punto si direbbe che abbiate un nemico in comune, voi due. Se è di buonumore, magari riuscirai anche a spillargli qualche informazione sui suoi progetti nel sud, e sul ruolo di Constant in tutto quello che sta succedendo…»
                «Sì, maestro»
                «Poi c’è un’altra cosa, Daniel. Se lo stregone – come credo – ha fatto il giuramento Cair Dedalos, allora il suo destino è imprescindibilmente legato a quello dei suoi servitori. Devi distruggere tutti loro, se vuoi spezzare il sigillo e arrivare a lui: questo è ormai chiaro. Io ho pensato al Metamante. Ma ci sono ancora un Necriomante delle nevi, un Geomante delle fiamme oscure, uno Spettromante delle ombre, un Idromante delle fonti, un Lipomante degli elementi e un Keranomante delle energie, che ti attendono. Si tratta di una lunga strada da percorrere, ma tu… sei forse il miglior allievo che ho mai avuto, dunque sei in grado di arrivare alla meta. Non sei il Piromante più potente, né il giovane più brillante che ho mai addestrato. Ma sei quello dal cuore più grande. E questa è la cosa che più di ogni altra può fare la differenza, allievo mio»
                «Maestro! Se ci è voluto il tuo intero potere per sciogliere l’incantesimo di solo uno dei demoni… come posso io abbatterne altri sei… e, dopo di loro, lo stregone?»
                «Le tue preoccupazioni sono lecite, giovane Lannister: il tuo addestramento non si è mai veramente concluso. Ma ci sono un paio di cose che tu puoi fare, diciamo “da autodidatta”: la prima è incontrare mio fratello Requiem e cercare di estorcergli, nei limiti del possibile, tutti i segreti che egli cela. La seconda: torna alla Grande Quercia. Non ne sono sicuro, ma sento che qualcosa di nuovo stia per sorgere tra quelle vecchie rocce. Qualcosa che riguarda me, ma va oltre me. Che travalica la mia magia, eppure la comprende. Forze oscure, misteriose… ma calde! In terzo luogo, devo ricordarti che parte del tuo potere non sarà mai completo senza un confronto con tuo zio Constant: è così per ogni Primo Cavaliere e non sarà diverso per te. Voi due siete i Piromanti che ufficialmente in questo momento abitano il mondo, e l’energia dell’uno inevitabilmente completa quella dell’altro. Quindi, se anche dovessi mai arrivare da solo al massimo delle tue potenzialità, la verità è che non sarai mai completo senza l’energia di Constant. Volente o nolente, uno dei due dovrà donarsi all’altro. Quindi, conoscendo il tipo, direi che uno scontro di magia con tuo zio sarà inevitabile»
                «Ma maestro…»
                «E poi c’è ancora una cosa… ti ricordi della vicenda dei miei fratelli e sorelle che più volte ti ho narrato?»
                «Beh, sì, in parte…»
                «Bene. Allora ricorderai che io non ho mai visto mio fratello Kyrios morire. Per quanto ne posso sapere, anche se anziano, magari sta conducendo una vita di pace e riflessione da qualche parte nel mondo. E noi dobbiamo sperare in lui. Cercalo, mio apprendista; trovalo! Convincilo a schierarsi, questa volta, nella grande battaglia per l’uomo che da lunghissimo tempo abbiamo intrapreso contro Requiem»
                «Ma… e come faccio a trovarlo?»
                «Lo so: all’apparenza è piuttosto complesso come programma, ma d’altro canto forse è la più atavica delle mie caratteristiche: la speranza. Speranza che lui sia ancora vivo, speranza che tu riesca a trovarlo, speranza che l’uomo salvi se stesso, speranza che Requiem si redima… non posso farci niente: è più forte di me… sperare», quest’ultima parola Requiem l’aveva detta praticamente sospirando. La sua energia stava per spegnersi definitivamente… Daniel si ritrovò ancora una volta a piangere, come già aveva fatto con Cordell, e a sussurrare a sua volta, disperato: «Maestro! Maestro!».
                Anche Nidhogg, quel giorno nell’estremo nord, se n’era andato… il principe Daniel di Casa Lannister rimase avvinghiato a una parte del suo enorme viso per diverso tempo, almeno sino a quando, completamente meravigliato da tutto ciò che aveva appena veduto, Elthon della Casa Applegate non si liberò in un: «Che diavolo! È… è un drago parlante…»
                «Era» gli rispose Daniel, ancora in preda ai singhiozzi; ed Elthon: «Sì, beh… era».
                Ci fu ancora del silenzio in quella landa desolata, piena solo di ghiaccio e neve. Silenzio che fu ancora una volta interrotto dal giovane cavaliere della Casa rappresentata da una mela: «Principe…» fece Applegate «…ora dove andremo? Dobbiamo ancora proseguire verso nord, o… possiamo tornare a casa?»
                «Fate quello che credete, Sir Elthon. Siete libero da ogni vincolo»
                «Cosa? E perché mai questo cambio di programma?»
                «Sto per fare cose veramente folli: non voglio trascinarvi con me»
                «Beh ditemi di che si tratta e poi prenderò da me le mie decisioni…»
                «Primaditutto, c’è da recuperare il corpo di Sir Cordell!»
                «Cosa?!» e dopo questa esclamazione, l’Applegate si frappose fra Daniel e il mare, che nel frattempo il principe si era predisposto di, quasi, raggiungere, «Diamine: siete ammattito davvero!»
                «La sua famiglia, nel sud» ribatté ancora il principe Piromante «Merita di riavere il suo corpo»
                «Principe, non troverete il corpo di Sir Cordell. Se foste proprio fortunato, ritroverete un ammasso di carne dilaniata! E poi non potete tuffarvi in mare: il ghiaccio delle acque gelide dell’estremo nord dicono che sia come mille lame conficcate sul vostro corpo in un colpo solo!»
                «Il corpo di quell’uomo…» insistette Daniel, disperato, «Merita una degna sepoltura!»
                «Bene: allora, quando saremo di nuovo circondati dalla gente civile, racconteremo le sue storie. Diremo di come un vecchio da solo, armato di spada, abbia affrontato un diavolo di inaudito potere. Verranno scritti poemi e composti canti per lui. Questa sarà la più degna delle sepolture!»
                «Lasciami andare, Elthon!»
                «Giammai! Voi siete il mio principe. E io ho giurato di proteggervi! E se dovrò farlo da voi stesso… allora che sia così!», e dicendo queste parole il giovane Applegate sguainò anche la spada. Tutta quella devozione commosse il principe di Cowain. O forse, più che commuoverlo, lo spinse ad esplodere e liberarsi di tutta la tristezza che nell’arco di quella mattinata aveva inglobato dentro di sé: fu così che Daniel Lannister si ritrovò in ginocchio, a piangere come un pupo; piangere perché quel giorno aveva perduto due dei suoi più grandi maestri e amici, piangere perché entrambi si erano sacrificati per lui, senza in realtà dovergli alcunché, piangere perché quelle mancanze ora lo facevano sentire così solo, confuso e disorientato… piangere perché l’idea di andare avanti, seguendo un percorso così difficile, senza più né Nidhogg né Cordell al suo fianco, era qualcosa che lo spaventava a morte. Ma piangere anche perché lui e Elthon erano ancora vivi… e finché ci sarebbe stata la vita, ci sarebbe stata… la speranza! Nidhogg, questo, l’avrebbe definito “un ottimo inizio”.

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Capitolo 22
*** La battaglia di Cowain ***


Capitolo 22
LA BATTAGLIA DI COWAIN
 
 
                L’efficienza con la quale il piccolo e periferico apparato spionistico dell’ex puttana Xalandra era riuscito a informare la sovrana di Cowain dell’arrivo delle navi del nemico con un buonissimo margine, e dunque permettendo alla città di prepararsi a dovere, sorprese Gino non poco. Xalandra possedeva qualcuno – una manciata davvero ristretta di uomini o forse donne – nella zona del sud dell’Essos che da diversi secoli ormai avrebbe potuto definirsi “occidentalizzata”, e che apparteneva de facto alla giurisdizione dei Tyrell. In uno di quei porticcioli, uno secondario, la reggente ex puttana si era ritrovata qualcuno utile al fine di mandargli un corvo per farle presente quando fossero passate per quelle zone una o più grosse navi (tanto da contenere un piccolo esercito), senza vessilli, e dall’aria minacciosa. Conclusione: le navi dei Tyrell sbarcarono sulla spiaggia di Cowain nella mattinata, due ore circa dopo l’alba, e l’esercito difensore della Corona si era già completamente preparato per la prima serata del giorno prima: avevano anche potuto concedersi un ultimo sonno ristoratore, prima della battaglia e forse, anzi probabilmente, della morte.
                Questa era un'unica goccia vagamente positiva in una marea di elementi che per Gino della Casa Barron, e dunque per Xalandra, Cowain, per la Corona e lo stesso re Axelion, erano invece fortemente negativi. In primis: Cowain, che probabilmente si ritrovava a dover fronteggiare il primo assalto militare della sua storia, non aveva alcun tipo di difese via mare: non esisteva una flotta di Cowain, per quanto essa fosse sul mare; c’erano soltanto piccole imbarcazioni pescherecce in alcun modo utili per una guerra sull’acqua. Dunque, non si poteva fare altro che attendere lo sbarco del nemico e cercare di respingerlo via terra e, più in particolare, sulla sabbia del lungomare della piccola cittadina. E combattere sulla sabbia, anche se non l’aveva mai fatto, Gino immaginava che doveva essere proprio una bella scomodità!
                Poi c’era il fattore “uomini”. Nonostante Gino avesse perfino immaginato un numero inferiore di cittadini disposti a combattere, e anzi fu piacevolmente sorpreso nel momento in cui, a occhio e croce, ne ebbe intercettati almeno il doppio di quanti se ne aspettava, il dato veramente importante – e affatto smentito – fu che quegli uomini, per quanto non poi così ridotti di numero, erano per la quasi totalità gente che non aveva mai brandito un’arma in vita sua. Erano pescatori, piccoli commercianti, qualche agricoltore… e poi donne. Ebbene sì: Gino si trovava nella compagine del mondo occidentale più piena di donne che forse lo stesso continente avesse mai visto nell’intera sua storia. Erano più degli uomini; quasi alla pari, ma di più. In un certo senso, era qualcosa di storico: stavano per essere decimati dal nemico comunque – un esercito di donne e pescatori, tutti inesperti, contro un gruppo di mostri uomini-bestia come quelli che il giovane Barron aveva già avuto modo di osservare presso Dorne – però sarebbero stati decimati in quanto “armata che per la prima volta nella storia era per il più composta da donne”.
                Infine, per quanto riguardava la sua situazione strettamente personale, anche lì Gino più ci pensava e più ci stava male. Lui era addestrato nella spada e nella lotta meglio di qualsiasi altro sulla spiaggia? Probabile. Aveva anche, in più degli altri, una nuova utilissima abilità di tirocinante guerriero-ombra? Sì. C’erano comunque un mucchio di guerrieri-ombra, una ventina in totale, messi lì, oltre che per combattere, per avere un occhio di riguardo nei suoi confronti ed eventualmente proteggerlo? Anche questo probabile. Ma stava di fatto che quella era la prima battaglia della sua vita. E tutte le premesse lo volevano dalla parte degli sconfitti, visto che, come da troppo tempo ormai il rampollo dei Barron aveva intuito, non solo non sarebbe arrivato nessuno da Roccia del Re, ma nemmeno da Lungotavolo e dalla Dodecapoli. Cowain era da sola: dunque avrebbe perso, i suoi cittadini sarebbero morti… e Gino sarebbe stato tra loro.
                Inoltre, in tutta quella baraonda, Gino aveva anche un incarico “istituzionale”, in quanto secondo in comando per nomina ufficiale da parte della reggente della città, e in possesso pure del mantello con i colori e lo stemma della città, utili al fine di farsi riconoscere dai membri del suo esercito: lo stemma era la donna bianca con il giglio in mano, i colori un campo a righe orizzontali color verde e arancio. Prima in comando era una donna, presentata al giovane Barron con il titolo di “Lady Trench”: la più mascolina delle femmine mai viste; grossa e muscolosa, oltre che alta, anche lei ammantata del mantello con la donna, il giglio e le righe sul fondo. Oltre al mantello, la città era anche riuscita a fornire a Gino una spada e uno scudo, con sopra inciso niente meno che il simbolo dell’antica decaduta casata del sud: la lancia infilzata sul sole della famiglia Martell.
                Per il resto la compagine era eterogenea: mille colori e simboli diversi, singoli individui armati di tutto punto ed altri dotati solo di bastoni e reti da pesca, come già detto uomini e donne, ma anche vecchi e giovani, perfino qualche ragazzino. L’unico elemento di unitarietà era una carnagione per la gran parte olivastra, tendente proprio allo scuro. E fu con questi uomini e donne dalla carnagione scura e la paura dipinta sul viso, che il giovane Barron osservò le due grosse navi da guerra raggiungere la spiaggia…
                L’esercito nemico si sistemò tutto davanti a loro. Al suo interno, mostri di tutti i generi: mezzi rettili, mezzi mammiferi, mezzi uccelli. Un solo, piccolo, uomo biondo al comando, che attese che l’esercito fu completo prima di incitarli con un urlo senza molto senso, ma pieno di spirito, rabbia, motivazione. E poi: un’altra creatura, diversa da tutte le altre, molto alta, oblunga, con un teschio nero al posto del viso; era la creatura demoniaca che Gino aveva già visto alla reggia dei Tyrell presso Dorne, quella più inquietante di tutte. Aveva sulla testa una appuntita corona nera e tra le mani un lungo spadone dello stesso colore: uno spadone di acciaio nero. Infine una terza figura completamente ammantata, di dimensioni decisamente più umane, di cui Gino riusciva a scorgere ben poco…
                Furono questi tre personaggi – l’uomo biondo, il demonio con la spada a due mani e il tizio ammantato – che si fecero avanti quando Lady Trench gridò: «Parlè!» per invocare un ultimo confronto prima della battaglia. Della sua parte, invece, si fecero avanti Lady Trench, lui medesimo (gli unici due bardati con la donna e il giglio) e infine anche Kellan, l’uomo fidato di Lord Braff. Una volta che i sei comandanti si furono venuti in contro – a cavallo quelli dalla parte di Cowain, a piedi i loro avversari – fu la stessa Lady Trench a cominciare dicendo: «Signori, presumo che questa sia solo una formalità… eppure trovo corretto ricordarvi che questo, anche se un protettorato della Corona, è niente più che un borgo marinaro. E i vecchi, le donne e i bambini che ucciderete – se li ucciderete – non saranno molto di più che vecchi, donne e bambini…»
                «Mia signora» fece per primo l’ometto biondo, che dunque era il capo della spedizione, «Quello che traspare dalla vostra dichiarazione è… che sareste pronti ad arrendervi. Allora perché non lo fate? Risparmiamo queste vite: fatevi da parte, lasciateci entrare nel vostro “borgo marinaro”, lasciateci rifocillare e… costruire una base per il nostro prossimo assalto al Regno Unificato. E noi… vi risparmieremo. Tutti quanti»
                «No, aspettate, mio Sir: voi avete frainteso. Il mio intento era quello di salvaguardare le vite dei miei concittadini, che certamente moriranno durante questo scontro. Ma ne morranno anche dei vostri… “uomini”. E anche quelle vite andrebbero salvaguardate da un capo lungimirante»
                «Sì, ma voi stessa avete detto che il vostro esercito si compone di vecchi, donne e bambini. Vedete bene di che cosa si compone il mio: un’orda di uomini-animali totalmente devoti. E totalmente votati alla guerra, all’omicidio e alla distruzione: non vorrete insinuare che abbiate qualche speranza?»
                «Voi siete un uomo dell’oriente, messere?»
                «Nato e cresciuto»
                «Dunque non avete mai sentito la storia di re Evryl e il gigante poderoso. Probabilmente neanche sapete che una volta i giganti abitavano questa terra…»
                «Mia signora: io credo a tutto. Ho veduto cose ben più impressionanti dei giganti nella mia breve vita, ve l’assicuro»
                «Molto bene, allora ve la racconto brevemente…»
                «Intendete sfiancarci con una storiella? Guardate che sono un tipo paziente io, e i miei uomini lo sono più di me»
                «I vostri “uomini” attenderanno solo per poco tempo… la loro sete di morte, data o ricevuta, sarà ben presto soddisfatta. Si tratta di poche parole: Evryl era un giovane re del nord, salito al trono dopo la prematura dipartita del pure giovane padre. Scese un gigante da oltre la Barriera, e cominciò a devastare i campi del suo regno, uccidendo tutto quello che gli capitava a tiro, uomini e bestiame compresi. Eppure… Evryl lo atterrò con una fionda: un saggio, ben assestato, e prima d’ora mai nemmeno teorizzato, colpo alla nuca. Un colpo secco, e il piccolo re sconfisse il poderoso gigante… e non vorrei dirvelo, signore, ma… a Cowain siamo pieni di fionde»
                «Siete forse minacciosa, mia signora?»
                «Chi parla» a questo punto l’uomo ammantato interruppe la conversazione tra il suo stesso comandante e Lady Trench, servendosi di una profonda voce da signore, «a nome del borgo di Cowain?»
                «Mi chiamo Lady Trench» fece la grossa donna, rivolgendo il proprio sguardo a chi aveva testé parlato. Lo fece solo allora anche Gino, e lo riconobbe: si trattava di Constant Lannister, il Lord Primo Cavaliere che aveva tradito il re insieme ai fratelli Tyrell. Non si trattenne, gli scappò e disse semplicemente: «Constant Lannister!»
                «Chi siete?» gli fece subito quello, non poco disturbato dal fatto di essere stato così genuinamente identificato. Gino non seppe bene cosa dire, in quel momento non trovò valide ragioni per non ammettere: «Gino. Della Casa Barron»
                «Casa Barron… ma sì, certo… alfieri dei Tyrell, no?» il Primo Cavaliere non attese la risposta di Gino; riconoscendo anche il terzo uomo nello schieramento a lui avverso, constatò: «E voi siete… il galoppino di Lord Braff… c’è il suo zampino dietro a tutta questa mascherata?»
                «Kellan, mi chiamo» rispose quello «E sì: c’è un folto numero di uomini-ombra che combatteranno questa battaglia al fianco della cittadina di Cowain, per il re, il Regno e il mondo libero»
                «Ah» rise Constant con non poco sarcasmo «Donne, vecchi e bambini e… ora anche fantomatici guerrieri-spia. E, magari, anche qualche disperata casata dell’Altipiano sul lastrico. E non molto altro, no? D’altro canto… dubito che lo stesso padre del qui presente Barron si presenterà mai. E men che meno lo farà il re, non è vero? Non capite che anche lui ha già considerato finita questa battaglia? Sir Bastian ha ragione: deponete le vostre armi, sottomettetevi al nostro volere, e forse avrete salve le vite. Queste sono le nostre ultime parole»
                «Ehm…» confermò Sir Bastian «Sì: infatti»; e il demonio accanto a loro, che fino ad allora non aveva parlato, concluse, facendo librare con una mano sola la sua spada di acciaio nero a due mani: «Quando saremo nella mischia, vi conviene mescolarvi con i vostri vecchi e bambini. Perché sono le vostre tre teste che verrò a cercare». Detto ciò, quell’orrendo diavolo oscillante, tornò indietro verso il suo esercito di mostri. Anche Sir Bastian estrasse un martello di dimensioni medio-grandi prima di abbandonare il campo diplomatico. Solo Constant diede le spalle a Trench, Kellan e Gino, senza alcuna arma in mano. I tre comandanti della compagine di Cowain, invece, a loro volta si sentirono in dovere di tirar fuori le loro spade: la più grande quella di Lady Trench, una via di mezzo quella di Gino Barron, piccola, quasi un pugnale, quella di Kellan il guerriero-ombra. Gino guardò entrambi i suoi compagni prima di gettarsi nella mischia. Un morso al cuore, per un brevissimo tempo, gli fece pensare a tutto quello di importante che aveva vissuto: la sua infanzia a Lungotavolo, le lezioni di Sir Rollo, il cavalcare per i boschi dell’Altopiano, gli allenamenti con Kellan, il viso di Daessenya, la bocca di Daessenya, le labbra di Daessenya, il ventre di Daessenya e… insomma tutto quello che faceva parte di Daessenya e che lui, per un breve periodo di tempo, aveva posseduto. E che desiderava tornare a possedere.
                Cavalcare sulla sabbia era qualcosa di veramente scomodo, e lo stesso suo destriero aveva un’aria più confusa che altro. Ma stare su di esso, certo concesse a Gino un vantaggio almeno inizialmente non trascurabile. Dapprincipio il giovane Barron si ritrovò ad uccidere diversi nemici, cosa che gli fece pensare che stesse facendo un buon lavoro, e che magari ci fosse una possibilità di sopravvivenza… i mostri suoi avversari erano molto forti e resistenti, e la cosa a poco a poco stava incidendo sul cavallo del giovane, ma non erano molto bene addestrati e procedevano in massa contro l’avversario senza una vera e propria strategia. Ma certo una cosa era vera: per uno solo dei “soldati” di Cowain, ce n’erano almeno cinque o sei dei loro, cosa piuttosto sconveniente per l’esercito sotto protettorato della Corona. Ma il giovane Barron riuscì comunque ad atterrare quei suoi cinque o sei, senza cadere da cavallo. Il settimo, con un colpo di lancia, il cavallo glielo uccise direttamente, e Gino fu costretto a proseguire la battaglia senza cavalleria. Nello scompiglio generale della battaglia, tra le urla dei morti e dei feriti e il clangore dell’acciaio che batteva sull’acciaio, era comunque stato in grado di distinguere Lady Trench, e un manipolo di sue abili sottoposte, duellare piuttosto abilmente con Constant Lannister, il quale continuava a non possedere alcuna lama: il Primo Cavaliere combatteva lanciando scariche di fuoco dalle mani, e colpendo per volta più di un avversario; anzi talvolta perfino qualche alleato. Ma la Trench e la sua guardia personale stavano resistendo.
                A un altro capo della spiaggia, sempre avanzando e uccidendo indiscriminatamente uomini-bestia di ogni tipo, Sir Gino vide anche Kellan riuscire a trattenere da solo il demonio coronato di nero. Anche quest’ultimo, come Constant, scagliava fuoco, anche se a un raggio meno ampio. E oltretutto continuava a brandire con estrema perizia quel lungo spadone nero, che Gino avrebbe definito spada a due mani perché non immaginava possibile per nessun uomo poter impugnarlo con una mano sola, e che il diavolo col teschio al posto del viso e l’andatura oscillante persisteva invece ad usare come fosse uno spadino. Tuttavia anche di una seconda cosa il giovane Barron ebbe una conferma definitiva nel corso della battaglia di Cowain: il suo maestro di lotta a corpo libero e altre cose da guerrieri-ombra semplicemente non era umano. Gino fino a quel momento ne aveva avuto il fortissimo sospetto, adesso ne era matematicamente sicuro. La ragione per cui Kellan riusciva a gestire gli attacchi del demone, era perché si muoveva con una rapidità e agilità che nel mondo degli uomini non potevano esistere. Nel momento in cui il diavolo scagliava un colpo con la sua spada, Kellan era già completamente da un’altra parte: non distante di pochi millimetri, ma completamente di lato o perfino di dietro al suo avversario. Era come se l’intera materia del guerriero si disciogliesse per comparire tutta da un’altra parte. E forse questo spiegava anche la ragione principale per cui a Gino era da sempre stato detto che non poteva diventare un vero guerriero-ombra: Gino era un umano, e i guerrieri-ombra… non lo erano.
                Fu proprio nei pressi del luogo in cui Kellan e il demone si stavano combattendo che Gino, dopo che era riuscito a sconfiggere un ammontare di circa otto o nove avversari, venne finalmente arrestato da un nemico ben più temibile. Uno dei pochi a suo modo evidentemente addestrato alla battaglia: l’umano biondiccio a capo della spedizione, quel Sir Bastian. Costui aveva appena finito con una ragazza che non poteva avere più di vent’anni. E, d’altro canto, nemmeno lo stesso Gino si avvicinava di molto a quella soglia: eppure fu verso di lui che Bastian, accortosi della sua presenza, si diresse minacciosamente. Colpì il fragile scudo di Gino, all’inizio con una martellata librata con grande potenza, la quale colse di sorpresa il giovane Barron. La cosa causò un rumoroso vacillamento dello scudo con sopra inciso il sole trafitto dalla lancia. Non si spaccò, ma un altro colpo e sarebbe potuto accadere… il Barron decise allora che non aveva molto senso continuare ad occupare il proprio braccio con quell’oggetto, così inutile a questo punto. Preferì raccogliere un’altra, piccola, spada da un uomo-bestia sul terreno e combattere con entrambe. Gino era mancino, ma non si trovava male neanche con la mano destra, soprattutto per quanto si trattava di librare una spada: per questa sua caratteristica riceveva da sempre, da quando era un soldo di cacio, complimenti da qualsiasi maestro di spada. Naturalmente combattere contro un avversario dotato di martello, significava persistere nel tentativo di schivare, e così per la gran parte del duello Gino si ritrovò comunque su una linea difensiva. Bastian, dal canto suo, teneva un grosso scudo robusto, con il quale parava la gran parte dei colpi del Barron, ragion per cui il duello fu ben presto chiaro che volgesse al pareggio. A un certo punto tuttavia Gino, per ragioni non così facilmente motivabili quando ci si trova su un campo di battaglia, si ritrovò a dover azzardare un colpo in basso, alle gambe di Bastian. Non lo prese, e quello se ne approfittò per colpire la sua fragile lama con il poderoso scudo, piantandolo sul terreno. Gino stava ancora cercando di recuperare la propria arma con la destra, quando ancora una volta Sir Bastian si servì del momento per far librare il martello sulla sua testa, caricando un colpo al fine di colpire Gino mortalmente sul capo. La fortuna – e fu davvero solo un caso di fortuna sfacciata – determinò che un paio di uomini-bestia si avvicinassero al loro comandante sussurrandogli, ma in modo che Gino li potesse ascoltare: «Comandante! La donna bardata di Cowain!» e indicando un punto ben oltre Gino. Ora, che cosa Lady Trench stesse facendo, e perché fosse per i suoi nemici così importante, Gino non lo seppe mai, ma Bastian aveva temporeggiato quel secondo in più da dargli la possibilità di scansarsi per quel pochissimo spazio che gli serviva, tanto da fargli arrivare la martellata a un soffio dal naso, ma abbastanza lontana da lasciarlo incolume. Dunque Bastian, che, anche se per un breve attimo, aveva ben visto il punto indicatogli dai suoi uomini, decise di fregarsene di Gino e corse oltre lui verso Lady Trench. Fu così che il giovane Barron si ritrovò ancora una volta senza avversario.
                Ma attese molto poco: mentre infilzava il suo ennesimo uomo-bestia – questo dai tratti simili a quelli di un grosso rospo – il demone dal teschio nero e lo spadone, mai allontanatosi di molto, si accorse della sua presenza e, forse stanco di cercare di colpire un nemico che non riusciva neanche a scalfire marginalmente (ovvero Kellan), si rivolse contro di lui. E, contro quella cosa, Gino sentiva che non aveva più niente da fare: era stato addestrato da Kellan, ma certo non era in grado di combattere in quella maniera assurda con cui il servo di Lord Braff combatteva. E più il mostro gli si avvicinava, con quel diabolico sorriso stampato sui denti scoperti, più Gino sentiva che la battaglia per lui si sarebbe conclusa lì. Il duello contro quell’avversario sarebbe stato semplicemente impari…
                Il demone lo raggiunse e cercò di colpirlo con lo spadone, ma non dalla punta bensì dal piatto: insomma lo sollevò, alla maniera con cui già Sir Bastian aveva avuto modo di sollevare il proprio martello. Ma stavolta Gino non era per terra, anzi era in piedi e comodamente riuscì a sollevare entrambe le spade a sua disposizione per parare il colpo. Il demonio pressò, e Gino ebbe modo anche di percepirne la grande forza fisica: a forza di schiacciarlo verso il basso, lo costrinse perfino ad appoggiare un ginocchio al suolo. Ma Gino non demordeva, e dunque quello decise di applicare una nuova tattica. Con la mano che aveva libera, il mostro coronato di nero lanciò una delle sue fiammate. Per fortuna, i riflessi del Barron si accorsero un secondo prima del colpo che stava per arrivare, dunque Gino mollò la presa e cercò di pararsi alla meno peggio, tentando un poco aggraziato balzo all’indietro.
                Ma la fiammata fu troppo potente: accadde lo stesso che un fascio di luce e calore riuscì a raggiungere parte del suo volto, il quale, per reazione al dolore, venne immediatamente rivolto dal giovane verso sinistra. Gino non capì molto di quello che era successo: provò solo un fortissimo dolore alla guancia destra e nella zona della tempia e… per qualche motivo non riuscì più a focalizzare bene gli oggetti come aveva fatto fino a quel momento. Anzi: guardandosi intorno, il giovane Barron capì di aver perduto temporaneamente l’utilizzo dell’occhio destro. Non ci vedeva, e anche il sinistro era piuttosto affaticato, anche se rispetto all’altro decisamente funzionante. Ma perché, data la sua momentanea disabilità, Gino non era stato ancora infilzato dal suo possente avversario, questo il rampollo dei Barron non riuscì a motivarselo. Strizzò l’occhio buono alla meno peggio e, dopo aver lacrimato un po’, mise a fuoco quello che stava avvenendo davanti a sé: Kellan, avvinghiato sopra il mostro, lo stava coprendo di pugni nel tentativo, apparentemente vano, di spiccargli il teschio nero via dal collo. Nonostante la sua vista deficitaria, Gino riuscì ad osservare chiaramente tutta la scena: prima il contrattacco di Kellan in sua difesa, e poi… il potente colpo di elsa con la quale il diavolo colpì il guerriero-ombra in pieno volto; Kellan cadere al suolo e sorridergli: si trovava veramente a una distanza infinitesimale da Gino; il demonio infilzare la propria lunga spada nera nel ventre del giovane guerriero, per più della metà della lama: il terreno sabbioso questo lo permise serenamente. Kellan continuare a sorridergli, mentre il demone ancora una volta, tolta la spada dallo stomaco del suo maestro, tornava a rivolgere proprio a lui le sue attenzioni…
                La cosa assurda fu che per un breve, scarsissimo, istante, mentre Kellan gli sorrideva, la vista offuscata di Gino gli tirò un brutto scherzo: al posto di Kellan, il giovane Barron distinse un volto che più di quello di Kellan gli parve quello di Lord Braff. Era come se, per un istante, la linea del viso presso la quale si trovavano gli occhi, il naso e la bocca di Kellan venisse sostituita da quella del Maestro dei Sussurri, con i suoi occhi, il suo naso, la sua bocca contornata di baffi rossi fiammanti. Ma Gino concluse che probabilmente, anzi molto probabilmente, si era trattato di uno scherzo dovuto alla sua vista, in quel momento così offuscata e “mutevole”. E poi, non ebbe granché tempo di pensarci: il diavolo coronato stava per infilzare lui, come già aveva fatto con il suo maestro…
                Eppure ancora una volta, nel bel mezzo della battaglia, accadde l’imprevedibile. Era incredibile il numero di cose assurde che Gino poteva contare di aver veduto nel corso di quella battaglia nella cittadina di Cowain! Ma questa… fu la più folle di tutte! Giusto nel momento in cui lui stava per morire, in un arco di pochissimi secondi che difficilmente si poteva pensare non decisi da una qualche volontà divina – anche se Gino in linea di tendenza era scettico nei confronti di qualsiasi religione del mondo – accadde che un gelido vento del nord tutt’assieme precipitò addosso al demonio dal teschio nero una fanciulla. Una fanciulla dai capelli neri e la carnagione candida. Anzi, la carnagione era talmente bianca da risultare a prima vista quasi mortifera. Eppure era viva e vegeta. Non aveva l’aspetto della guerriera: era snella e non particolarmente alta, eppure la prima cosa che fece, cadendo giù dal cielo come una pioggia, fu di colpire il demone con forza ancora maggiore rispetto a quella già tentata da Kellan il guerriero-ombra. E poi… quando il demonio tentò di reagire a quel nuovo assalto con il suo solito getto di fuoco col quale già si era portato l’occhio destro di Gino di Casa Barron, la ragazza reagì… con un potere uguale e contrario, fermando e mortificando il getto di fuoco con uno… di ghiaccio!
                Lo stupore più disperato si dipinse nel quasi inespressivo teschio del mostro oscillante. Quel nuovo, gelido, avversario non se lo era proprio aspettato! La ragazza di ghiaccio non ci mise molto: concentrò, giungendo i palmi delle proprie mani, un quantitativo di ghiaccio tale da costringere il mostro prima a urlare e indietreggiare; poi a cadere al suolo e infine a disciogliersi pezzo per pezzo. Di lui rimasero solo lo spadone nero, la corona nera e il teschio nero. La ragazza di ghiaccio indugiò ulteriormente sul teschio, ma quello non si sciolse, dunque desistette e si guardò un po’ attorno. Vide Gino e si accorse che Gino l’aveva veduta. Ma non gli prestò troppa attenzione: decise, raccolse il teschio da terra, lo sistemò dentro una sacca che teneva all’altezza della vita, e si dileguò nel clangore della battaglia.
 
 
 
                Anylice era giunta a Cowain giusto nel momento della battaglia. Anche se il potere di Requiem non si era fatto più sentire su di lei, come se per qualche ragione, a lei completamente oscura, fosse tornata ad essere una creatura libera – cosa a cui da millenni oramai aveva rinunciato – aveva deciso lo stesso di passare da Roccia del Re, il luogo dove, stando ai piani di Requiem e Constant Lannister, sarebbe avvenuta una strage di uomini contro uomini, il cui esito avrebbe poi garantito al Primo Cavaliere di quel tempo di fare finalmente quella magia cui tanto agognava. Una follia, a opinione di Anylice; non poteva definirsi altrimenti: Requiem, che anzi normalmente era molto furbo e non disdegnava di mentire beatamente pur di ottenere quello che voleva, era stato stranamente chiaro e sincero con quel Constant: la donna che lui intendeva riportare in vita non sarebbe mai stata uguale a quella che aveva conosciuto, quella che aveva amato e poi perduto per una bieca questione di alleanze politiche tessute in oriente dal re che era stato fratello di Constant. Quell’incantesimo, che così tante vite costava, non guadagnava poi un’esistenza veramente definibile tale, semplicemente animava un cadavere che non sarebbe stato molto diverso, per esempio, da cose come Anylice o il mante che aveva appena neutralizzato: non pienamente vivi, e neanche pienamente morti… eppure Constant Lannister ci stava lo stesso. Anzi, Constant Lannister stava agendo, stava facendo di tutto, pur di mettere in pratica quella cosa. Solo che, perché l’incantesimo fosse veramente applicato, ci sarebbe voluto non solo un numero inaudito di cadaveri freschi stesi su un campo di battaglia, ma anche un potenziale magico di cui Constant non disponeva. E a questo sarebbe servita Anylice, scesa per la prima volta nel sud fin dai tempi in cui ancora il sangue circolava nelle sue arterie e l’aria riempiva i suoi polmoni.
                Anylice non aveva idea del perché Requiem l’avesse lasciata libera, eppure era libera, e aveva voluto vedere Roccia del Re: conoscere i volti degli uomini e le donne che presto sarebbero morti per ragioni così tanto più grandi di loro da non poterle neanche immaginare. Naturalmente la cosa l’aveva commossa, altra cosa che non le capitava da secoli: per avere empatia verso qualcuno è necessario che un soggetto abbia a che fare con qualcuno. Mentre Anylice, da un tempo che non riusciva più a ricordare, e che comunque non voleva ricordare, non vedeva altro che blocchi di ghiaccio, neve, e il sorriso spietato e ghignante di un drago dell’origine la cui energia era ormai sulla via dello spegnimento. Rivedere la gente gli aveva dato una gioia talmente grande, da portarla a commuoversi e piangere. In quel momento Anylice aveva deciso che non avrebbe più permesso stragi; che se il mancato controllo di Requiem su di lei fosse continuato, lei si sarebbe messa all’opera al fine di impedire degli inutili massacri. Decise che, per una volta, avrebbe combattuto dalla parte giusta.
                Poi una volta, in una locanda dove aveva ordinato della roba che comunque non poteva mangiare, aveva sentito due uomini del popolo di Roccia del Re che parlavano del loro re Axelion, e dicevano che il fratello di questo re si chiamava Daniel, e in quel momento si trovava nel nord per ragioni a loro sconosciute, ma che c’entravano con la magia. A quanto pareva, tutti i Primi Cavalieri del re da moltissimo tempo a quella parte erano anche dotati di poteri magici: era una cosa che sapevano tutti, gli uomini e le donne del popolo compresi. Dunque il re del mondo degli uomini era il fratello del giovane Piromante che lei aveva incontrato nel nord e che aveva tentato di aiutare, prima che Requiem, con un ultimo slancio del suo potere, la catapultasse a miglia e miglia di distanza da lui. Anylice lo doveva ammettere: la sorpresa di vedere un Piromante ancora giovane e in azione, oltre Constant che non aveva mai fatto accenno al dove e come avesse imparato i suoi precedenti poteri nonostante la domanda gli fosse stata più volte rivolta, lasciò Anylice piacevolmente colpita. Constant si era limitato ad affermare, solo una rarissima volta, di una magia che si era manifestata dal nulla in lui, in tenera età, cosa che – sebbene rara – esisteva nel mondo, e dunque era plausibile che in effetti quell’arrogante ma abilissimo mago del sud stesse dicendo il vero.
                Ma con Daniel e il fatto che lui esistesse, si era aperto per Anylice un nuovo mondo, un mondo di ritrovate fiducia e speranza. L’esistenza di Daniel aveva il significato che, a prescindere da Requiem, la magia continuava a circolare per il mondo. La magia bianca, e non una annebbiata versione di magia sorta per caso tra le mani di qualche fattucchiere girovago. Magia seminata e coltivata, magia colta. Magia da draghi dell’origine. Magia magari utile per liberarla dall’incantesimo mediante il quale Requiem la teneva schiava da millenni. Lei non conosceva una controfattura in grado di spezzare quel tipo di magia, che solo i draghi conoscevano, ma un altro drago: Kyrios, Nidhogg, Luxia o Kimera, che Anylice credeva morti perché da tempo non li vedeva e perché così Requiem continuava a ripeterle, magari poteva ancora esserci da qualche parte, e dunque se solo lei avesse potuto parlare con loro… avrebbe potuto ritrovare la libertà! Ecco: Daniel del sud, in tutto ciò, aveva un ruolo fondamentale, perché rappresentava l’idea stessa, per Anylice, che forse non sarebbe più stata schiava. Se a tutto questo, Anylice avrebbe dovuto aggiungere anche una naturale simpatia che aveva fin da subito provato per il giovane principe degli uomini, sempre così affabile, disponibile, buono, allora Daniel diventava per lei qualcosa di davvero importante. Inoltre lei aveva visto qualcosa negli occhi di quel ragazzo, qualcosa che andava ben al di là perfino del senso di libertà che lui aveva per lei rappresentato, e che così tanto per Anylice contava. Gli occhi di Daniel contenevano… le fiamme luminose e calde del futuro!
                Spinta dunque da una sempre maggiore curiosità nei confronti del ragazzo, Anylice aveva inizialmente deciso di andare a parlare con il re: voleva saperne di più su Daniel e, se avesse potuto essere utile per lui o la sua famiglia, avrebbe anche desiderato adoperarsi a tal fine. Ma un certo imbarazzo dovuto al fatto che da troppo tempo non aveva a che fare con gli uomini, unitamente a una sua naturale predisposizione al mascheramento e la dissimulazione, già innata in lei fin da quand’era una giovane Criomantessa umana, l’avevano portata a spiare il re degli uomini, piuttosto che a parlarci direttamente. E, in una accesa conversazione con un numero risicato di suoi pochi consiglieri, Anylice aveva intercettato Axelion dire che era disperato per una “guerra imminente” presso la cittadina del sud di Cowain, e poi fare accenno ad una serie di personaggi cui Anylice non era in grado di attribuire una storia, un ruolo e men che meno uno schieramento: Mirietta, Xenya l’esploratrice, Lord Braff, i fratelli Tyrell e… Constant Lannister!
                Anche se aveva capito poco, quello che aveva ottenuto le bastò: il regno del fratello di Daniel era in pericolo, e tutto sarebbe cominciato da Cowain. E a Cowain ci sarebbe stato anche Constant, che tutte le informazioni precedenti di cui Anylice disponeva non potevano che collocare avverso al Regno Unificato. Era per tale ragione che la Criomantessa ora era scesa a Cowain, aveva intuito da che parte stavano quelli di Daniel, e aveva combattuto contro quel mante che chissà cosa ci facesse in giro per il mondo, e dalla parte completamente opposta rispetto alle ragioni per cui era stato plasmato.
                Sconfitto lo stregone, e collocatone il teschio nero all’interno della sua spaziosa bisaccia, la fanciulla di ghiaccio aveva tutta l’intenzione di lasciare il campo di battaglia: voleva farsi vedere il meno possibile; sarebbe tornata ad intervenire solo in caso di bisogno per la compagine di Cowain, vale a dire solo se quei nuovi mostri simili a Metamanti (ma decisamente meno “magici”) stessero avendo la meglio sui cittadini del Regno. Ma qualcosa la costrinse a fermarsi di nuovo…
                Un piccolo colpo di fuoco le bruciacchiò il candido braccio, poco sopra il gomito. E poi una voce, una voce assai familiare gridò: «ANYLCE! Sei dalla parte sbagliata!». Anylice si voltò, e vide Constant Lannister farsi strada verso di lei, bruciando col fuoco tutto ciò che si trovava alla sua destra, e congelando col ghiaccio tutto ciò che si trovava alla sua sinistra. La ragazza rispose: «No, Constant Lannister. Mi trovo da quella giusta, per la prima volta da non so più quanto tempo…»
                «Il drago… mi ha forse tradito?»
                «Non ho la benché minima idea di quali siano le intenzioni del drago al momento… ma so che non ha più il controllo su di me. Mi ha persa. Mi ha persa e non sa come ritrovarmi…»
                «Non sarà che è morto?»
                «Se lo fosse, lo sarei anch’io»
                «Dunque ti trovi qui dalla parte sbagliata e per tua spontanea volontà... perché?»
                «Perché a tua differenza, caro Constant, io sono una che preferisce lottare per il futuro, piuttosto che rimuginare sul passato. Te l’ha spiegato bene Requiem una volta: indipendentemente da quello che tu faccia, non è possibile ritornare al passato! Con nessuna magia!»
                «Beh, mi sembri piuttosto risoluta. Ma lascia che ti dica una cosa: io, a tua differenza, conosco anche la magia del fuoco»
                «Eri un pessimo Criomante… se la tua abilità piromantica è la medesima di quella criomantica… allora sarai sconfitto». Furono le ultime parole tra i due maghi, dopodiché cominciò lo scontro.
                Rispetto al mante che Anylice aveva sgominato poco prima, Constant era decisamente più forte. La sua energia, così come d’altronde anche quella di Anylice lo faceva con lei, gli permetteva di farlo librare, e infatti lo scontro tra i due avvenne per lo più via aria. Entrambi furono costretti fin da subito a dare il massimo: Anylice si accorse che gli ampi flutti di fuoco e ghiaccio che il Primo Cavaliere sprigionava richiedevano necessariamente parecchia energia, e dunque presto si sarebbe stancato. Constant voleva concluderla in fretta e, anche se lei non avrebbe mai voluto agire in questo modo, si vide costretta a reggere il gioco del suo avversario, altrimenti sarebbe finita schiacciata. In pochissimo tempo, furono entrambi già molto stanchi…
                Constant inoltre pareva avere tutta l’intenzione, nonostante fosse disarmato, di aggiungere al duello anche il corpo a corpo, cosa che normalmente Anylice evitava, e anche in quel momento stava facendo di tutto per tenere il suo avversario quanto più possibile distante da sé.
                Per quanto riguardava i loro poteri in quanto tali, il ghiaccio di Anylice era decisamente più freddo e “profondo” di quello di Constant; se solo la Criomantessa fosse stata in grado di concentrarlo su Constant per un tempo abbastanza lungo, sarebbe stata capace di fare del Primo Cavaliere una statua di ghiaccio, indipendentemente da tutte le sue abilità piromantiche. Ma il fatto era che Constant, proprio perché meno “energetico”, riusciva ad essere molto più rapido di Anylice: dopo un po’ di tempo che i due si erano combattuti, le parti bruciate sul corpo di Anylice erano diverse, quelle ghiacciate sul corpo di Constant quasi nulle. Però almeno Constant era più stanco di lei.
                Se Anylice non fosse stata una dei giocatori di quell’incontro, ma soltanto un’osservatrice esterna, avrebbe detto che il duello era troppo alla pari, che stava divenendo noioso e che dunque ci voleva qualcosa per cambiare i termini della partita: un fattore sorpresa… per una volta, fu lei a tentare l’assalto ravvicinato sul mago, cosa che in effetti sorprese Constant non poco. Lei gli arrivò praticamente addosso e stringendogli forte l’avambraccio sinistro tentò di irretirgli la possibilità di emettere magia da quella parte. Purtroppo la cosa ebbe un prezzo: anche Constant fece lo stesso con lei bloccandogli il braccio, e quindi riconducendo ancora una volta il duello alla pari. O almeno così il Primo Cavaliere credeva…
                Entrambi precipitarono al suolo e, subito rialzatisi, tornarono l’uno a scagliare un raggio di fuoco e l’altra a scagliarne uno di ghiaccio. Ma il vero potere di Constant si basava sull’abilità di utilizzare in maniera equilibrata entrambi gli elementi, ora che per uno era stato neutralizzato, il suo fuoco risultava abbastanza più debole rispetto al ghiaccio intenso che Anylice continuava a riuscire a sprigionare dalle proprie mani. A poco a poco, all’inizio impercettibilmente poi in maniera sempre più palese, la ragazza di ghiaccio cominciò ad avanzare verso il Lord Primo Cavaliere, e il suo raggio di energia fredda a spingere indietro quello di energia calda di Constant. Stava ormai per avere la meglio, quando entrambi furono distratti da uomini del Primo Cavaliere, che gridarono: «Lord Constant! LORD CONSTANT! C’è bisogno di voi! Il Sir Primo Comandante Bastian è in pericolo!». Questo bastò a Constant per permettergli di cogliere l’attimo e produrre una sottile lingua di fuoco, che avvinghiò attorno alla caviglia di Anylice e, tirando, causò l’inciampo della ragazza non morta. Quando Anylice si fu rialzata, davvero nell’arco di meno di un istante, Constant si era già dileguato. Lei tentò di guardarsi intorno per cercarlo, ma non aveva più la forza per sollevarsi dalla marmaglia di gente e bestie, l’un contro l’altre armate, che la circondava, dunque intercettare il su avversario era davvero complesso. Decise di lasciar perdere, e tornare al suo progetto originario, prima che il Lord Primo Cavaliere la costringesse a uno scontro del tutto inutile: ritirarsi e intervenire solo in caso di emergenza per la parte che riteneva a sé più cara.
 
 
 
                Gino sapeva che una battaglia era qualcosa di davvero sfiancante: l’aveva sentito dire tante volte, perfino da suo padre, che non aveva combattuto poi chissà quante battaglie in vita sua. Eppure vivere quella situazione era una cosa ben diversa dall’averla letta o sentita da qualche parte. Probabilmente la parte del corpo che aveva più stanca erano le braccia: il braccio che impugnava la sua spada di medie dimensioni, non riusciva più neanche a sollevarlo. Ma le gambe non erano molto da meno. Poi aveva stanche le orecchie: tanto che ormai si era serenamente abituato alle urla e agli strepiti che ancora continuavano a provenire da tutte le parti, circondandolo e stordendolo. E poi c’era l’occhio buono che gli era rimasto: era stanco anche quello; lacrimava parecchio, ed era pure giustificato: aveva dovuto osservare anche per l’altro per un periodo di tempo lunghissimo… la battaglia era cominciata di mattina, e adesso era il tardo pomeriggio. Il sole aveva già cominciato a tramontare, anche se era ancora ben lungi dal raggiungere la linea dell’orizzonte.
                Verso la fine dello scontro, Gino era talmente stanco di infilare la sua spada dentro uomini che assomigliavano a bestie, che cominciò a vedere ovunque il volto di Daessenya. Indipendentemente da se fossero amici o nemici, da se li stesse supportando o uccidendo, ormai quello che con quel mezzo occhio lacrimante riusciva a intercettare era solo Daessenya. Dovunque Daessenya…
                Non sapeva se la fazione di Cowain stesse vincendo, anzi: continuava a ritenerlo improbabile. Tuttavia, per quello che poteva notare lui, avrebbe detto che gli uomini e le donne del Regno Unificato stavano perlomeno resistendo. Più si guardava attorno, più si accorgeva che di solito accanto a un morto dei suoi ce n’era spesso uno dei loro. Non poté non pensare che in quel momento stava osservando niente di diverso da una mattanza. A un certo punto, guardando lontano ma non troppo, il giovane Barron riuscì ad osservare Lady Trench e il suo manipolo di donne guardie del corpo perire per mano di un lavoro congiunto di Sir Bastian con Constant Lannister. Il primo diede la martellata definitiva alla mascella della donna; il secondo la definitiva fiammata sulle sue guardie del corpo. C’erano morti da entrambe le parti, ma certo con la Trench e Kellan fuori dai giochi e Bastian e soprattutto Constant ancora in piedi, probabilmente quell’equilibrio non sarebbe durato molto a lungo. La giovane ragazza di ghiaccio che lo aveva salvato dalla furia del demonio coronato di nero si era come dissolta nel nulla: Gino non la vedeva più da ore; l’ultima volta, aveva combattuto contro Constant. Era stato impossibile non osservarli per lui, come presumibilmente per chiunque altro su quel campo di battaglia, mentre sfrecciavano in alto nei cieli lanciandosi l’un l’altro raggi di fuoco e di ghiaccio, anche se raramente colpendosi.
                Gino era pronto per ordinare la ritirata per poi, successivamente, proclamare la resa. Sarebbe stata una scelta difficile e lui mai si sarebbe sognato, fino a poco tempo prima, di ritrovarsi in un momento così complicato in vita sua. Ma Constant si era rivelato un’arma letale, e loro non avevano più nessuno. Certo, c’era l’alternativa di perire onorevolmente: ma quale pro avrebbe mai guadagnato con una scelta di questo genere? Lui voleva vivere, e voleva che anche la gran parte di quei bravi cittadini del regno si salvasse. Si erano battuti con onore, ma probabilmente la battaglia volgeva al peggio. Poco a poco, egli realizzò con sempre maggior convinzione che per il momento la ritirata fosse la scelta migliore, e meditò di urlare quella dannata parola da un momento all’altro…
                Eppure, all’improvviso, una sottile piccola mosca gli passò davanti all’occhio, richiamando la sua attenzione. Chissà per quale diamine di ragione il suo unico, debole, occhio aveva deciso per quel decimo di secondo di inquadrare quella piccola mosca, la quale da vicino che era, decise tutt’assieme di volare via, lontano, oltre l’orizzonte, oltre Bastian e Constant, oltre il cadavere della povera Lady Trench e delle sue donne. Lì, in quel preciso punto dell’orizzonte, Gino prima vide arrivare Lord Braff, a cavallo. Pensò che al solito, come prima, il suo occhio buono gli stesse tirando un brutto scherzo… ma Braff non era da solo. Accanto a lui si materializzò un guerriero-ombra, biondo e mediamente alto esattamente come lo era stato Kellan: gli assomigliava peraltro parecchio, ma da quello che Gino a quella distanza e con un occhio solo poteva distinguere, non era lui. E dopo quello pseudo-Kellan, ne arrivarono altri di uomini di Braff: parecchi altri. Dieci, venti, trenta, cinquanta… Gino perse subito il conto. Beh, senza dubbio quell’arrivo stava sorprendendo il giovane rampollo dei Barron (Gino pensava difatti che Braff avesse lasciato la maggior parte dei suoi guerrieri-ombra a Cowain, lì con lui), tuttavia non era ancora completamente basito, come di lì a poco invece sarebbe stato…
                Accanto a Braff, arrivò poco dopo un uomo con un viso che destò in Gino parecchi ricordi. Si trattava di Jon della Casa Barthalo, quella da sempre più vicina ai Barron. Storicamente, quello che facevano i Barron facevano poi anche i Barthalo: le loro storie erano troppo intrecciate e i loro territori troppo contigui perché le due famiglie non si legassero con una forte, duratura e stabile amicizia. I Barthalo non avevano un loro stemma o motto; i loro colori erano quelli dei Barron e infatti era il vessillo dei Barron, la rossa volpe, che Jon teneva attaccato alla sella del cavallo. Jon frequentava il castello di suo padre da tempo immemore, anche se era più grande di Gino se non proprio di dieci anni, quasi. E da sempre Gino si sentiva dire che “doveva fare come Jon”: “guarda come duella Jon”, “guarda come cavalca Jon”, “guarda come giostra Jon”, “Jon alla tu età faceva questo”, “Jon alla tua età faceva quello”. Conclusione: Gino odiava Jon Barthalo. Jon Barthalo era fedele alla sua famiglia? Sì. Mai e poi mai Gino se lo sarebbe inimicato? Sì. Il padre di Gino lo considerava, quasi, come un figlio e gli riservava sempre un posto alla loro tavola? Pure. Ma Gino lo odiava, e, nella vita, avrebbe voluto stargli quanto più lontano possibile…
                Eppure, proprio in quel momento, il volto di Jon Barthalo, con il vessillo di suo padre al seguito, non poté che rincuorare il giovane comandante dell’esercito di Cowain, o in qualsiasi altro modo si poteva definire quella cosa che lui, Kellan, Xalandra e Lady Trench erano riusciti a mettere assieme per far la guerra agli uomini-bestia dei Tyrell. E Jon non era da solo: dietro di lui, a poco a poco, andarono ad affollarsi quasi tutti i vessilli dell’Altopiano; ne mancavano sì e no due o tre, e tra questi naturalmente quello dei Tyrell. Ma per il resto c’erano tutti: Whale, Summersmith, Ashford, Burwell, Norcross. Lord Braff li aveva convinti tutti…
                Gino non seppe bene se le lacrime che ora gli stavano scendendo giù dagli occhi fossero sempre dovute all’affaticamento del solo occhio che gli era rimasto, o alla commozione per il fatto di vedere tutti quegli amici venuti ad aiutarlo, o magari al sollievo di una battaglia che forse sarebbe finita di lì a poco tempo, e probabilmente con la vittoria della compagine della quale lui era stato uno dei comandanti, unico peraltro rimasto in vita.
                Braff, i suoi guerrieri ombra, Jon Barthalo e gli altri delle Casate dell’Altopiano decimarono quello che restava dell’esercito degli uomini-bestia in un tempo che Gino avrebbe definito anche “più che breve”. Certo una delle due navi ripartì, con una dozzina di fuggitivi a bordo, tra cui Lord Constant e Sir Bastian (anche se quest’ultimo senza sensi), ma sostanzialmente la battaglia venne vinta dalla ridente cittadina di Cowain; essa aveva resistito. E senza ausilio alcuno della Corona, né militare né tanto meno economico. Corona che adesso poteva annoverare quell’episodio tra i suoi successi e appuntarselo come un energico avvertimento di forza e risolutezza, in caso di un nuovo eventuale attacco. Il re adesso era in debito: con Lord Braff prima di tutto, e poi con Lady Xalandra, con Gino e probabilmente con suo padre Lord Barron, con Jon Barthalo e tutti gli altri della Dodecapoli, con Kellan e Lady Trench, con tutti gli uomini e le donne che quel giorno avevano perso la vita per una guerra complessa, e anche un po’ confusa, cui sebbene le responsabilità andassero prima di tutto annoverate al Lord Primo Cavaliere Constant Lannister e ai fratelli Lorthan e Shane Tyrell, comunque il re, essendo la controparte, non avrebbe mai potuto da adesso lavarsene le mani e far finta che nulla fosse accaduto. Cowain era libera ora, il Regno più forte, e Axelion doveva come minimo rivolgere personalmente la propria gratitudine verso tutti, meno che se stesso.

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Capitolo 23
*** La forza della fede ***


Capitolo 23
LA FORZA DELLA FEDE
 
 
                «Non lo so! Non lo so chi sono!» fece Lady Hana, innervosita, «Io penso… penso che Braff mi abbia fornito solo una parte delle informazioni che, in quanto Maestro dei Sussurri, dovrebbero essere di mia competenza. Che mi abbia dato… solo alcuni dei suoi uomini-ombra, e non tutti. Oppure…»
                «Oppure cosa?» le domandò suo fratello, il re, anche lui piuttosto su di giri, «Cosa?!»
                «Oppure questi oscuri manovratori orientali sono talmente ad oriente da non essere coperti dalla mia rete di spionaggio»
                «E dove arriverebbe questa copertura?»
                «A Marrah Cankhubhia e oltre…»
                «Ogni città dell’est?»
                «Direi di sì… quelle più piccole normalmente sono coperte dalle spie di quelle più grandi: l’informazione potrebbe ritardare di un po’ di tempo tra le une e le altre ma… arriverebbe comunque… a meno che…»
                «A meno che?»
                «A meno che tutto l’apparato non sia deficitario nella sua parte centrale, e quindi in Braff che non mi ha detto tutto, o in una parte periferica, e quindi in un guerriero-ombra che defezioni, cosa che francamente sembrerebbe piuttosto assurda: quegli uomini sono legati a Braff come quasi da una filiazione… è come se fossero carne della sua carne, sangue del suo sangue. No: un guerriero-ombra non tradisce…»
                «È plausibile… che ci siano parti dell’oriente che siano al di fuori del controllo della tua rete di spie?»
                «Te l’ho detto: non oltre Marrah, Meereen, Yunkai…»
                «No, è già troppo ampio… io intendo… zone che in teoria farebbero sempre parte della giurisdizione del regno…»
                «Beh… c’è il deserto o… Valyria… insomma luoghi del genere: posti completamente disabitati»
                «Uhm… no… si tratta di un esercito di mostri: come si fa a nascondere una cosa del genere?!»
                «Maestà, io… ti ripeto quello che penso: al momento non abbiamo modo di intercettare il vero nemico, quello che si nasconde dietro ai Tyrell, che crea eserciti per loro, ma… noi sappiamo che loro sono almeno una delle teste di questo avversario che ci tiene sotto pressione. Forse non lo elimineremmo in via definitiva, ma certo un qualche danno glielo arrecheremmo se togliessimo fuori dai giochi Shane e Lorthan…»
                «Sì, Hana, ma…»
                «Sono indifesi in questo momento! Sappiamo che la gran parte, quasi la totalità dei loro uomini sono spariti chissà dove ad oriente… è vero: hanno un esercito di mostri, a Cowain però! Dovremmo agire e agire subito!»
                «Mh…»
                «Axelion! Mi spieghi qual è il problema?»
                «Io… conosco Lorthan e Shane da moltissimo tempo! Lorthan è più grande di me, e Shane… poco più piccolo. Papà e Lord Tyrell ci costringevano a giocare insieme da piccoli, ma… non ho dei brutti ricordi di loro. Loro padre… era molto severo, mi faceva paura. Li trattava… molto peggio rispetto a come nostro padre trattava noi. Papà era, a suo modo, severo…»
                «“Severo”… diciamo “risoluto”»
                «Sì, beh… ma di tanto in tanto ci rimproverava»
                «Quando ce lo meritavamo…»
                «Sì, quando ce lo meritavamo… invece Lord Tyrell… lui sempre picchiava Lorthan, qualsiasi cosa facesse… era sempre lì a dargli quello schiaffo fastidioso sulla testa, anche e perfino se facesse bene…»
                «Axelion… dove vuoi arrivare?»
                «Al fatto che io non ho mai… organizzato la morte di qualcuno, Hana»
                «Sono stati assassinati decine di uomini del popolo da quando è in rivolta, sempre per nome tuo»
                «Sì, ma io… non li conoscevo!»
                «ORA BASTA!» e gridando questo l’Altissimo Segretario del re e suo temporaneo Maestro dei Sussurri non riuscì a trattenersi dal mollargli un ceffone. Tra i due piovve improvvisamente il silenzio. Fu sempre Hana a continuare, chiedendo scusa con un: «Sono mortificata»
                «Non…» balbettò il re, massaggiandosi il volto, «non fa niente…»
                «Però, Axelion, tu sei il re e non più un principino qualsiasi: devi mettertela in testa questa cosa! I re a volte commettono cose che le persone normali non potrebbero fare, ed è lecito e perfino “eticamente accettabile”… i re a volte uccidono»
                «Lo so, lo so: è che…» a questo punto Axelion passò la mano dalla guancia alla fronte: in quel periodo era la testa il suo vero punto debole; continuava a battergli costantemente come fosse un martello, anche più di una volta al giorno, «È che io… con questo fatto della battaglia a Cowain ho leggermente perso il polso della situazione; sono un po’ confuso di questi tempi, tutto qui… se io fossi nel mio momento di più completa lucidità, forse…»
                «Maestà… credo sia ora che cominci ad abituarti al fatto che un re molto spesso deve avere a che fare con momenti complicati, e comunque non è nella posizione di poter perdere il proprio autocontrollo. Io… posso agire anche subito ma tu… devi darmi il tuo avallo»
                «Sì, lo capisco…»
                «Allora: posso mandare dei sicari ad uccidere i Tyrell?»
                «Sì, io credo… che… sì, lo puoi fare, lo… devi fare, sorella mia»
                «Chi hai adesso? Irwin?»
                «Veramente: non ne ho idea! Non lo sai tu?»
                «Sì» e, rispondendo in questo modo, la Lady Segretario del Re prese una piccola cartelletta dalla scrivania ed andandosi a posizionare dall’altro lato della tavolata, accanto al re, lesse e disse: «il Gran Maestro dovrebbe essere qui a momenti». E in quell’istante qualcuno bussò alla porta dell’ufficio del re: venne annunciato il Gran Maestro e pochissimo dopo Irwin fu già dentro la sala; il giovane dagli occhi cerulei salutò con un assai semplice: «Vostra Maestà»
                «Lord Gran Maestro»
                «Maestà, io… in quanto membro del Concilio Ristretto desideravo poter avere la possibilità di esporvi i miei consigli… da solo»
                «È come se lo fossi, Gran Maestro» rispose a questo punto Lady Hana, sentendosi chiamata in causa, «L’Altissimo Segretario è stato creato come diretta manifestazione del re all’interno del Concilio, visto che il re non ne fa parte attivamente, dunque…»
                «Sì, mia signora, ma io…»
                «E inoltre: che diamine, Irwin, io sono sua sorella»
                «Sì, mia signora, ma io ho letto bene il regolamento vigente e…»
                «C’è una prassi ormai consolidata da secoli…»
                «Sì, ma essa non deroga il regolamento, Vostra Grazia. Se un membro del Concilio reclama di poter consigliare per conto proprio il re, può farlo»
                «Scusa, Hana» fece dunque Axelion, rivolgendosi alla sorella, «Qual è il problema?»
                «Naturalmente…» s’intromise ancora il Gran Maestro «Il re potrà essere sempre seguito e sorvegliato dalla sua guardia personale e… potrà sempre raccontare a chiunque, incluso il suo Altissimo Segretario e sorella, quello che è accaduto, se lo desiderasse…»
                «Allora che senso ha?» continuò Hana, polemica, «Se mio fratello verrà a riferirmi un secondo dopo quello che gli hai detto, allora perché non dirglielo direttamente in mia presenza…?»
                «Perdonami, vostra grazia, ma io ho detto che il re potrebbe raccontare tutto, qualora lo desiderasse»
                «Hana: penso di potermelo permettere» fu il re stavolta a dire la sua «Che cosa posso rischiare in una passeggiata, scortato e sorvegliato, in compagnia del buon Gran Maestro Irwin?»
                «In effetti niente» si trovò ad ammettere l’Altissimo Segretario, dopo un non breve silenzio, carico di tensione. Poi, con tutto un altro tono di voce, convocò: «Caden!». A quel comando, un guerriero-ombra si precipitò dentro la sala, per l’esattezza poco dietro al Gran Maestro; dunque chiese: «Signora?»
                «Lanceresti uno dei tuoi pugnali poco sopra la mia testa?»
                «Sissignora!» e nel tempo in cui quest’ultima parola venne completamente pronunciata dal guerriero-ombra, un piccolo, letale, pugnale si era già conficcato nella parete dietro la scrivania. L’Altissimo Segretario concluse, continuando ad osservare il Gran Maestro con un sorriso soddisfatto: «Il re farà una passeggiata con il Gran Maestro, da soli. Porta due o tre dei tuoi con te e tienilo d’occhio: intesi?»
                «Certamente, signora» e detto ciò, all’improvviso così come era apparso, Caden si dileguò sparendo nel nulla. Il re seguì dunque il Lord Gran Maestro Irwin verso le sue scuole…
                Il tragitto dal palazzo del re alle scuole della Capitale, il sovrano e il Gran Maestro lo fecero in carrozza, peraltro scortati da un consistente numero di soldati della Guardia Reale. Quel pomeriggio, per fortuna, il popolo non aveva la minima intenzione di scoppiare in una sommossa: la cosa capitava più o meno ogni dieci giorni, e ancora ci si trovava al settimo o ottavo dopo l’ultima. Dunque il viaggio fu sereno, così come sereni furono l’arrivo e l’ingresso del re alle scuole del Gran Maestro, e il suo incontro e scambio di battute con diversi giovani studenti, quasi tutti piacenti e di una certa femminea bellezza, probabile lascito del defunto vecchio Gran Maestro Seprimus. Serenamente il re e il Gran Maestro erano passati dai corridoi ai giardini, e altrettanto serenamente dai giardini al tempio.
                Questa era la cosa più curiosa, una cosa che probabilmente molti a Roccia del Re non sapevano: il Grande Tempio dei Sette e la concatenazione dei Palazzi Fratelli delle Scuole e degli Ospitali erano connessi da un lungo e stretto giardino, assai rigoglioso e ricco di rari fiori dei più variegati colori, il quale li metteva in connessione senza costringere un monaco del tempio o uno studente delle scuole a uscire fuori dalla loro rispettiva sede per entrare in quella dell’altro. Questo solo in teoria naturalmente, visto che comunque la gran parte di quelli che frequentavano quel giardino o erano giardinieri, o erano sacerdoti e maestri di una certa levatura all’interno del loro rispettivo ordine gerarchico. Lo stesso re Axelion, sebbene a conoscenza di quel giardino, non essendoci mai stato, si era completamente dimenticato della sua esistenza. Poi, a un certo punto, continuando a chiacchierare col Gran Maestro, si ritrovò davanti a delle scale di pietra che per vie traverse conducevano a quello che da fuori era ormai identificabile come il più grande dei luoghi di religione dell’intero sud del continente. E, salendo le scale, il re domandò: «Chissà, poi, perché i due edifici siano collegati…»
                «Credo» rispose Irwin, fiancheggiando il sovrano, «che una volta le due carriere fossero congiunte. Poi, certo: talvolta veniva fuori un sacerdote un po’ troppo colto e pragmatico, e talvolta uno studioso un po’ troppo fedele e bigotto, ma… millenni or sono la fede era conoscenza e la conoscenza irrimediabilmente era anche fede…»
                «Tuttora i sacerdoti vengono considerati come uomini molto colti…»
                «Sì, ma in caso di malore, vostra maestà, consiglierei sempre di rivolgervi a me piuttosto che alla preghiera… ci sono cose per cui non ci resta altro che pregare, ma anche cose per cui per fortuna… possiamo agire risolutivamente».
                Visto che Axelion, in tutto quel tragitto, non aveva ancora avuto modo di capire che cosa in realtà il Gran Maestro volesse da lui, e perché quel giorno avesse chiesto di incontrarlo, e visto che ormai erano quasi giunti dinanzi alle porte del tempio, il re si vide costretto a domandare molto semplicemente: «Gran Maestro Irwin… per quale ragione avete voluto incontrarmi oggi?»
                «Oh, finalmente siamo giunti a questo… il nocciolo che un politico saggio come voi sa bene come raggiungere, il punto della questione, il nodo cruciale…»
                «Mi prendete in giro, signore?»
                «Forse un po’, maestà…» sorrise il Gran Maestro, ma con un fare assai sincero e non derisorio, che per un attimo ricordò al re il suo vecchio amico Lord Braff, «Ma, vedete, io reputo che talvolta un po’ di innocente ironia possa pure essere di aiuto, ai fini di un’amicizia»
                «Amicizia…?»
                «Sì, amicizia. È questo quello che voglio da voi, ed è questa la ragione per cui ho insistito che la principessa Hana non partecipasse a questo nostro incontro. Io voglio creare con voi un rapporto di amicizia, maestà, ma ciò non potrà mai essere possibile se tutte le volte che ci incontriamo abbiamo la balia a controllarci… tutto qui… potete dire ad Hana che ho detto questo. Potete dire ad Hana tutto quello che ho detto fino ad ora»
                «Io… non credo che sia necessario»
                «Forse è incredibile per un uomo abituato alla politica della Capitale credere che possa esistere qualcuno, a capo di un’istituzione importante, che non possieda doppi fini… eppure io, nel mio ruolo di Gran Maestro, intendo esclusivamente servire il regno, maestà. E dunque, con esso, servire voi. E non posso essere un abile servitore, un abile consigliere, se prima non ottengo la vostra fiducia: mi spiego? Io desidero che voi mi chiediate qualora aveste dei dubbi, che mi interpelliate qualora voleste un’opinione e – perché no – che mi apriate il vostro cuore. Chiacchierando, poco fa, mi avete già accennato all’attacco di Cowain; ditemi la verità: è imminente, non è vero?»
                «A essere onesti, Gran Maestro…»
                «Chiamatemi Adlai»
                «Adlai… sta avvenendo in questo momento»
                «E… state perdendo, presumo»
                «Beh non possiedo i mezzi sufficienti per ottenere un resoconto diretto della battaglia ma… sulla carta il nostro nemico ha un esercito… e noi abbiamo contadini e pescatori»
                «Certo, la situazione è pessima… ma suggerisco di non lasciarvi prendere la mano; non abbattetevi, maestà. Voi siete ancora qui, e la corona è ancora sul vostro capo. Sono due buone ragioni per pensare che ci sia ancora una possibilità»
                «È un po’ scarno come consiglio, Adlai»
                «Maestà, io… ho pocanzi fatto accenno al fatto che certe cose siano di competenza degli uomini, e certe altre degli dèi… rammentate? Si parlava di preghiere…»
                «Sì, certo, rammento»
                «Voi ci credete? Per vostra personale cultura, voi direste che… talvolta… certe cose, quando succedono, è come se fossero state eseguite secondo un piano preciso, un piano che… fino a poco prima non avreste mai ritenuto concepibile e che… parrebbe non poter essere controllato, né molto bene compreso?»
                «Io… beh, dipende. Anche se per mia natura… direi di sì: io credo nei Sette»
                «Per vostra natura, dunque non solo per il ruolo che ricoprite»
                «No, certo»
                «Vi capita mai di guardarvi attorno e pensare che, nonostante tutta la buona volontà degli amici, per non parlare della contrarietà dei nemici, non ci sia nessuno a questo mondo in grado di aiutarvi?»
                «Io… sì, credo di sì»
                «Allora guardatevi adesso attorno… perché forse qui dentro c’è qualcuno che può…».
                Solo allora re Axelion si accorse di trovarsi dentro il tempio. La luce fioca delle candele, nonostante ancora fosse il primo pomeriggio e il sole piuttosto alto nel cielo. Il tramestio sommesso, un po’ da tutte le parti, di monaci che pregavano a bassa voce, o di altri che si spostavano da una parte all’altra delle navate per occuparsi di questo piuttosto che di quell’affare…
                Il Gran Maestro gli presentò un certo Septon, non tra i più alti in grado, molto anziano, che Adlai disse essere un suo “vecchio amico”: ma quanto si poteva essere “vecchi” amici di un giovane che probabilmente aveva perfino qualche anno meno dello stesso monarca? Eppure il vero fatto degno di nota fu che Adlai Irwin e quel vecchio Septon insieme riuscirono infine a convincere il loro re: infatti, mentre il Gran Maestro si allontanava per tornare ad occuparsi dei suoi affari, Axelion della Casa Lannister incominciò a pregare.
 
 
 
                Più passava il tempo e più Gino cominciava a convincersi che dall’occhio destro non sarebbe più tornato a vedere. Questa sentenza non era ancora giunta dalla donna medico che da troppo tempo ormai aveva le mani sulla sua faccia, eppure lui aveva la sensazione che fosse così…
                Mentre la curatrice si occupava di Gino, nella stessa camera, Xalandra, Daessenya, Braff e Jon Barthalo dibattevano sulla battaglia che si erano appena lasciati alle spalle, anche piuttosto animatamente. Jon era il più silenzioso dei quattro ma, se chiamato in causa dal Maestro dei Sussurri, anche lui tendeva a intervenire veementemente. «Abbiamo vinto questa guerra grazie ai cittadini di Cowain!» s’inferocì a un certo punto l’ex puttana dai rossi capelli, alzandosi in piedi e affrontando Braff quasi fisicamente, «La Corona questo è tenuta a riconoscerlo!»
                «Io non dico che non sia così, milady» rispose invece Braff, sempre molto pacato, «Certo: Cowain ha vinto la guerra, e gli va riconosciuto. Ma purtroppo ci sono altri fattori che rientrano in campo, e vanno tutti considerati. Proporrò al re… una superiore valorizzazione della vostra causa, ma adesso dobbiamo finirla di litigare discutendo su a chi vada più merito e perché…»
                «Lady Trench» insistette Xalandra «era la più valorosa combattente dell’intero sud del continente e ora è morta!»
                «Sì! Ma c’è una ragazza di ghiaccio qui sotto che ha neutralizzato uno dei nostri più temibili avversari, e un altro lo ha considerevolmente indebolito! E noi non sappiamo chi sia né perché lo abbia fatto. Io dico che questo, ora, ha la priorità, perciò dobbiamo studiare un abbozzo di quello che abbiamo intenzione di dirle, e dobbiamo essere compatti e coerenti in questo»
                «Lord Braff» a questo punto fu Gino a interrompere l’amico politico della Capitale. Da diverso tempo, oltre che la sorte del suo occhio, c’era qualcos’altro che lo tormentava, almeno fin da quando la battaglia si era conclusa, diverse ore prima. Non celando una certa ansia, il giovane Barron domandò: «Dov’è mio padre? Perché non è venuto?». Passò un brevissimo silenzio prima che il Maestro dei Sussurri, probabilmente non trovando molto di meglio da dire, ammise: «Lui è morto. Ucciso da Constant Lannister, proprio quando sono arrivato a Lungotavolo. Per tale ragione è stato così semplice convincere prima Jon e poi il resto dell’Altopiano. Volevano tutti vendicare tuo padre». Mentre silenziosamente il giovane Gino Barron lasciava cadere giù dagli occhi quello che in quel momento poteva uscire, visto che non sapeva se il suo occhio destro potesse effettivamente permettergli di “piangere”, la mano di Daessenya raggiunse calorosa le sue spalle e il suo collo, e Jon Barthalo si sentì in dovere di confermare: «È caduto combattendo valorosamente. Contro non solo Constant ma anche dieci dei suoi uomini», detto ciò Braff fu preso da un lieve colpo di tosse, e Jon rettificò: «Beh saranno stati sette o otto…»
                «Lord Braff» singhiozzò dunque Gino Barron, disperato ma insieme risoluto, «Voi dovete dirmi come fare a uccidere quel mostro! Dovete fare in modo che io venga addestrato come si deve… farete questo per me, amico mio?»
                «Sì ma, giovanotto, non è questo il momento di discuterne… so che la rabbia in questo momento è il sentimento più legittimo, lo capisco e lo rispetto, ma… io vorrei che focalizzassi per un momento la tua attenzione sul fatto che… morto tuo padre, e non avendo tu fratelli, ed essendo Lorthan Tyrell ormai considerato un traditore così come suo fratello Shane… io sto adesso parlando con il signore dell’Altopiano»
                «Cosa? Ma io… Jon?»
                «Jon è un Barthalo, la sua famiglia non è abbastanza prestigiosa: le altre famiglie si dividerebbero e scoppierebbe il caos se lui rivendicasse per sé il seggio di Altogiardino. No: l’unico nome, oltre a quello dei Tyrell, che a questo punto potrebbe avere una qualche speranza di poter ricevere la nomina per decreto reale, in vista di anni di pace e armonia in quella regione… è quello dei Barron. Jon ha giurato di servirti fedelmente, così come ha fatto con tuo padre»
                «La mia spada è vostra, mio signore» proclamò a questo punto Barthalo, estraendo l’arnese, piantandolo con la punta al suolo e inginocchiandosi. Lady Xalandra si fece scappare un sarcastico: «Oh cielo!», mentre Braff riprendeva col suo monologo: «E… c’è un’altra cosa…»
                «Che cosa?» chiese Gino, mentre Jon si rialzava e ringuainava la spada, «Che altro?»
                «Quello dei Tyrell è un nome importante, che continuerà ad echeggiare per secoli prima di essere dimenticato: siedono sul trono di Altogiardino da millenni»
                «E con ciò?»
                «Sarebbe bene cercare di camuffare questo epocale cambio di linea successoria continuando almeno per parte di madre la linea di sangue. Così i tuoi figli non saranno dei bastardi. Loro saranno dei Tyrell»
                «Ma di chi stiamo parlando esattamente?»
                «I Tyrell hanno una cugina, che momentaneamente alloggia in un luogo sotto nostra osservanza…»
                «Shanty?! Avrà tipo dodici anni!»
                «Quattordici per l’esattezza… su, su, figliolo… è per il bene della tua regione, e dell’intero regno. E poi… insomma: non devi mica sposartela adesso»
                «Ma io…» a queste parole Gino provò a voltarsi verso Daessenya, ma non riuscì a farlo: la donna curatrice di Xalandra continuava a tenerlo fermo ed era messo in modo tale che l’unico occhio che avrebbe potuto osservare la bionda fanciulla con la quale aveva fatto tante volte l’amore era quello che in quel momento non vedeva… dunque il giovane Barron, nuovo signore di Altogiardino, non poté che limitarsi ad avvertire le mani di lei, che si strinsero delicatamente sulla sua pelle, come a dirgli: “sono qui e lo affronteremo insieme”. O almeno così decise di interpretarla lui…
                «Suvvia, Gino» concluse il Maestro dei Sussurri «Abbi fede. Tutto andrà per il meglio. Allora, Lady Xalandra, siamo pronti a interrogare questa “ragazza di ghiaccio”?»
                «Sì, Braff, muoviamoci: prima che decida di andarsene. Non credo che saremmo mai in grado di impedirglielo, nonostante tutti quei tuoi uomini-ombra».
                Gino non scese a interrogare la ragazza di ghiaccio. Non pensava che sarebbe stato granché utile: Braff e Xalandra insieme sarebbero stati una combinazione più che sufficiente per ottenere informazioni; quello era praticamente il mestiere del Maestro dei Sussurri. Jon Barthalo andò con loro, ma Daessenya rimase con lui, e ascoltò insieme a lui la sentenza definitiva della donna medico: era il caso di attendere ulteriori sviluppi per ancora qualche mese, ma era ormai molto probabile che Gino Barron non avrebbe più veduto dall’occhio destro. Daessenya lo baciò come mai aveva fatto: con un’insistente tenerezza che, per qualche motivo che Gino non seppe spiegarsi, lo commosse di nuovo fino alle lacrime. Ma tutti quei baci, e l’amore della ragazza, non riuscirono a fargli togliere dalla mente un’immagine fissa: Constant Lannister che uccideva suo padre Lord Brarron; e lui che diveniva un vero guerriero-ombra al fine di vendicarlo.
 
 
 
                Constant Lannister non aveva mai incontrato il Signore delle Dune: l’unico a rappresentare un qualche legame tra il Primo Cavaliere del re e l’esercito con il quale aveva tentato invano di abbattere la cittadella di Cowain era l’uomo biondo che gli era stato imposto come comandante della missione: quel Sir Bastian che adesso riposava disteso in una branda proprio davanti ai suoi occhi, dopo aver perso i sensi in seguito a un ben assestato, anche se non letale, colpo di spada al fianco sinistro.
                Che poi “Sir”… Constant conosceva molti Sir; certo non tutti: le sue conoscenze cominciavano ad essere lacunari una volta varcata l’Incollatura, ma nell’est… il continente orientale, di così recente acquisizione all’interno delle dinamiche ufficiali del regno, quanti Sir poteva contare? E Constant pensava di conoscerne almeno la metà, e non aveva mai sentito nominare un “Sir Bastian”. Senza dubbio l’ometto era piuttosto addestrato con quel martello, ma questo non significava niente: qualsiasi selvaggio, con un buon maestro e un po’ di allenamento, poteva diventare discretamente abile con un’arma, senza per questo essere un Sir. Ad ogni modo – Sir o non Sir – stava di fatto che era solo grazie a Bastian se Constant aveva potuto organizzare quella fallimentare impresa di Cowain, ed era in procinto di organizzare quell’altra impresa, per lui ben più dispendiosa e importante, di Roccia del Re. Per quanto riguardava il Primo Cavaliere, il Signore delle Dune avrebbe potuto anche non esistere, anche se in effetti qualcosa di magico doveva pur celarsi dietro quelle creature che combattevano per Constant e i Tyrell le loro battaglie, e quel qualcosa di magico di certo non era Bastian. Ma il suo vero problema, quello che preoccupava e spaventava il suo animo in quell’esatto momento, mentre le onde del mare aperto lentamente agitavano la nave e con essa anche lui stesso che vi si trovava dentro, era quello relativo a tutto un altro tipo di magia. Di chi fossero davvero i suoi alleati e da dove prendessero la magia sarebbe stato l’argomento più interessante se non ci fosse stata in mezzo Anylice, e tutto ciò che lei rappresentava: in primis la possibilità che a Roccia del Re le cose non andassero come Constant da troppo tempo le teorizzava. Bisognava perciò prendere dei provvedimenti e prenderli subito. E, in tutta onestà, il Lord Primo Cavaliere non aveva bene idea di cosa fare…
                Fermare il progetto di attacco alla Capitale? Impossibile: anche se del drago Constant ormai non sapeva più niente, sapeva che il Signore delle Dune voleva quella guerra; e che i Tyrell la agognavano ancor più ardentemente, e che l’avrebbero fatta anche se lui non l’avesse combattuta. Aveva dato la sua parola solenne a Lorthan che l’avrebbe aiutato a diventare re: Lorthan, che forse era anche un po’ più orgoglioso, egocentrico, magari anche sadico di suo nipote Axelion, ma sarebbe stato di sicuro un re migliore di lui, visto che non solo l’attuale re era chiaramente un inetto in preda alle più disparate pressioni a sé esterne, ma era anche figlio del re che aveva deciso di sacrificare la vita di una donna innocente per una pace con una serie di individui sinistri che tuttora sedevano nel Concilio, i Lord delle città mediane dell’Essos, rappresentati in primo luogo dalla Famiglia Loackland. I Lannister non avrebbero mai più dovuto sedere sul Trono di Spade e questo era già di per sé una buonissima causa, se poi a tutto ciò Constant avrebbe potuto aggiungere la possibilità, anche vaga, complicatissima, addirittura quasi impossibile, di poter riportare in vita la sua adorata Ladylynn, allora anche per lui la maledetta guerra diventava sacrosanta.
                Da troppo tempo ormai teneva solo per sé tutti quei propositi. Naturalmente era difficile immaginare che sia Requiem – il quale era a conoscenza di tutto – che Lorthan, che il compianto Gran Maestro Septimus non fossero benissimo a conoscenza del fatto che dietro alle azioni di Constant in realtà si celavano ragioni legate alla sua defunta promessa, ma Constant non parlava davvero di tutte quelle storie… probabilmente da anni ormai. Tuttavia, anche se sentiva che prima o poi sarebbe crollato, Constant era un uomo che da una vita combatteva le sue battaglie da solo. E dunque tenersi tutto dentro era più una comune abitudine, che semplicemente l’atto d’orgoglio di un debole che finisce per cadere… anche lui sarebbe caduto, ma sarebbe caduto morendo nel tentativo di fare quello che intendeva fare, e mai in lacrime col muso sulla spalla di qualcun altro.
                Nel corso del viaggio, mentre Sir Bastian lentamente andava riprendendosi, Constant si prese il tempo di pensare: pensare e ripensare sempre sulla stessa cosa… come riuscire a resuscitare la sua Ladylynn senza l’aiuto della maledetta Anylice, che era temporaneamente, o forse per sempre, passata al nemico. Stava ancora rimuginando tra sé e sé , osservando il mare che a poco a poco cominciava a somigliare sempre più a quello che bagnava la Reggia dei Girasoli a Dorne, che Bastian, da sopra la propria branda visto che ancora non sarebbe stato saggio cercare di farlo camminare, gli domandò: «Dove siamo diretti, Lord Primo Cavaliere?»
                «Dorne» rispose Constant «E poi Valyria: da dove riorganizzeremo l’esercito e dopodiché… salperemo per Roccia del Re»
                «Allora avevo intuito bene… stiamo facendo una sosta»
                «Sì»
                «E posso sapere per quale dannata ragione? Per esporci tutti a un eventuale attacco a sorpresa da parte della Corona? Visto che mi risulta che Roccia del Re sa che voi e i Tyrell siete suoi nemici, e che il vostro centro operativo sia la Reggia dei Girasoli…»
                «Giustappunto. Bisogna ricuperare il Maestro del Conio e suo fratello: senza Lorthan la battaglia di Roccia del Re non avrebbe alcun senso. Visto che è lui che siederà sul Trono di Spade. E poi, mio caro Sir, di sicuro la Corona non può muovere un esercito ben organizzato in così poco tempo. Che cosa temete? Sicari? Avete davanti a voi il più grande mago del continente occidentale: non sarebbero un problema…»
                «…lui… non glielo lascerà fare…» fece a questo punto il biondo cavaliere dell’est, quasi sussurrando «È per se stesso che vuole il trono…»
                «Lui chi?»
                «Beh…»
                «Il Signore delle Dune?»
                «Io… non ne sono sicuro, mylord, ma… ritengo che potrebbe, sì»
                «Ah… stiamo facendo una guerra con un alleato che già medita di tradirci?»
                «No, aspettate, io non l’ho posta affatto su questo piano…»
                «Beh, non importa. Il Signore delle Dune non c’è in questo momento. Ci sono io, e c’è Lorthan. E dico che Lorthan dovrà essere il re. E ad ogni modo francamente, Sir Bastian, tutto quello che voi rappresentate… l’esercito di mostri e quello che mi avete raccontato e così via… è utile senza dubbio. Per molti aspetti anche interessante. Ma vi assicuro che non mi spaventa, e un fantomatico stregone dell’est che non ho mai visto e che quello che sa fare è tramutare gli eserciti in poveri diavoli… lo fa ancor di meno. Voi mi avete visto all’opera, no? Direste che il mio potere sia in qualche modo inferiore a quello di vostro fratello?»
                «Signore la verità è che io non ho mai visto davvero mio fratello nel pieno delle sue forze… è vero: forse ho visto voi uccidere tanta gente in un colpo solo quanta mai ne abbia mai visto fare a lui da quando lo conosco… eppure, vi assicuro: lui continua a farmi molto più spavento di quanto me ne facciate voi». A quelle parole Constant non rispose: non lo scalfirono neanche lontanamente. Aveva girato il mondo in lungo e in largo e non aveva mai visto nessuno in grado di tenergli testa, se non un drago o un suo diretto servitore come Anylice. Bastian pareva convinto di quello che diceva, e lui lo rispettava. Ma pensava che fosse nel torto, e non riuscì a non confermare anche a se stesso quello che già aveva appena esplicitato al suo nuovo amico: l’idea del Signore delle Dune non destava in lui la benché minima preoccupazione. Fu Bastian a riprendere la conversazione, dopo qualche minuto di silenzio, domandandogli: «Signore, se voi, a vostro dire, siete il più potente mago del continente occidentale… allora perché non rivendicate il trono per voi stesso?»
                «Beh, Bastian, come vi ho appena detto io non ho paura di vostro fratello… ma sapete cosa mi fa paura? Il potere. E soprattutto gli uomini che ne detengono troppo. Solo l’idea di quello che potrei diventare se fossi re… quello sì: mi fa orrore davvero. Conosco Lorthan da una vita. Lui sarà un buon re… o almeno: sarà un re meno dannoso di altri»
                «Beh, ma allora perché lui e non la vostra stessa famiglia? Non era forse vostro fratello l’ultimo re che è morto? E non è vostro nipote l’uomo che oggi porta la corona, e vostro nipote suo figlio, e vostri nipoti quelli che abitano con lui presso gli aurei palazzi della Capitale? Fermo restando che un re ci vuole, anche se più o meno tutti sono potenzialmente pericolosi… perché scegliete altri e non un membro della vostro stessa famiglia?».
                A questo punto, prima di rispondere, Lord Constant si concesse ancora una volta un lungo silenzio di riflessione. Tutta la sua parte più razionale gli suggeriva che non fosse il caso di abbandonarsi alla malinconia e ai ricordi, non in quel momento, e non con quell’uomo. Eppure la tentazione fu veramente pressante: d’altro canto, come già detto, Constant non parlava di quelle cose da davvero un lungo lungo tempo… Bastian attese, anche lui senza fiatare e cercando di non fare il minimo rumore, passò dalla posizione supina a quella seduta. Questo suo modo di porsi molto più gentile di come il Primo Cavaliere si sarebbe mai aspettato, anzi per certi versi definibile perfino “tenero”, incise considerevolmente sulla scelta conclusiva del Lannister. Alla fine Constant parlò; non si voltò neanche per un secondo verso Bastian, cercò di non guardarlo neanche con la coda dell’occhio… eppure le sue labbra si aprirono e dal fondo della sua gola emersero parole, sistemate in un fiume dirompente con quasi nessuna pausa. «Ditemi Sir Bastian» ricominciò dunque il Primo Cavaliere «Di quale città dell’est voi siete originario?»
                «Beh, dire “città” a dire il vero è un po’ fuorviante, signore… la mia famiglia risiedeva nelle campagne, ma… diciamo che quella più vicina era Myr»
                «Perfetto: cade a fagiolo. Voi sapete chi è il signore di Myr in questo momento? E di tutta la confederazione delle città dell’Essos centro-occidentale?»
                «Ma certo. Il principe Loackland»
                «Esatto. La penultima grande famiglia del Regno Unificato entrata nel contesto della macropolitica, riservandosi un posto all’interno del Concilio Ristretto del re alla Capitale. Ricordate cosa c’era prima dei Loackland?»
                «Oh, ma certo: erano gli anni della guerra civile. C’erano continui, piccoli, scontri armati ogni giorno. Panico e sangue per le strade. La paura negli occhi di chiunque si trovasse a Myr anche solo temporaneamente, per uno scambio mercantile o per far visita a un parente»
                «Eravate questo voi e la vostra famiglia? Mercanti?»
                «E chi non lo era all’epoca? Si viveva dello scambio di quello che avevi in più con quello che ti mancava»
                «Anche i Loackland erano mercanti…»
                «Sì»
                «E i Kastalweyrah?»
                «Loro rappresentavano la vera speranza per la gente comune. In realtà erano molte le famiglie che si scontrarono in quegli anni per il dominio della regione, tutte agguerrite, infingarde e bene armate. Eppure sostanzialmente lo scontro veniva simboleggiato da solo due di esse: i Loackland, che rappresentavano lo straniero occidentale, anche se pure loro in realtà mantenevano i propri interessi su quella zona da diverse generazioni… e poi c’erano i Kastalweyrah: sempre così sagaci, leali, laboriosi. Erano i migliori di noi e verso di loro la povera gente non provava invidia, anche se erano ricchi sfondati. Provavano quel tipo di stima che si prova per uno che, partendo dalle tue stesse condizioni, è arrivato così in alto…»
                «E Lady Ladylynn Kastalweyrah?»
                «Oh, lei era bellissima e così dolce… la fine che ha fatto… è rimasta nella coscienza collettiva della città praticamente fino ad oggi… eravamo tutti arrabbiati per quello che era accaduto, ma… che potevamo fare? Ormai i Loackland avevano in pugno il governo della regione e… il vostro appoggio, no?»
                «Non il mio: mai il mio. Fosse stato per me, Ladylynn non avrebbe mai varcato le porte del palazzo di Loackland»
                «Voi conoscevate Lady Ladylynn?»
                «Io l’amavo. E lei amava me»
                «Ahahah… questa è bella!»
                «Non ridete: lei mi apparteneva. Il matrimonio non aveva alcun senso, lei non era vergine!»
                «Lord Constant… voi siete serio?»
                «Certo che lo sono. Ladylynn Kastalweyrah apparteneva a me. Prima che succedesse tutto quello che è successo… lei era la mia promessa»
                «Davvero?»
                «Ci giurammo amore eterno fin da bambini. Voi… saprete com’era conosciuto nell’est il re mio padre, no?»
                «Ma certo: il re mancino»
                «Esatto. Per la sua ostinata fissazione di guardare sempre alla sua sinistra. Rivolgere la propria attenzione all’est. Fare dell’est una parte integrante del Regno Unificato. Per quanto riguarda la zona a nord dell’Essos, Braavos, la Famiglia Goldsmith, i loro legami con la Corona erano già secolari prima che mio padre e il padre di mio padre si sedessero sul Trono di Spade. Importanti accordi di carattere commerciale fecero allora e fanno tuttora di quella regione la parte più ricca dell’intero Regno. Ma per tutto quello che c’era nel centro e nel sud, la confusione, l’ingovernabilità, la povertà e dunque le ribellioni… erano ancora dilaganti. Lo sono sempre state; forse lo saranno per sempre. È stato in una lunga e faticosa battaglia al fianco di Lord Panecha che mio padre ha subito la ferita al fianco che poi ha portato alle complicazioni che lo hanno ucciso dopo un mese. E che hanno fatto di Lionel il re. Panecha si è imposto Lord dell’Essos del sud e da allora quell’area è sopita… che cosa ci faccia Lord Justus con i poveri di quella regione, l’occidente non ne ha la benché minima idea. E ancora meno lo vuole sapere. Eppure restava un’altra area ancora “calda”, potenzialmente esplosiva anche per il continente occidentale: quella dei Loackland e dei Kastalweyrah»
                «Ma certo: un paio di azioni sfortunate, qualche nave diroccata, e la ribellione da Pentos sarebbe potuta anche arrivare sotto la gonna del re»
                «Precisamente. Necessitava la pace. Ma i Loackland e i Kastalweyrah: loro erano nel meglio. Come ti ho detto, mio padre guardava all’oriente da sempre, fin da quando Lionel ed io eravamo bambini. Che diamine: c’è perfino morto in oriente. Ho passato in oriente, nella zona di Pentos, quasi tutte le mie estati dagli zero ai sedici anni. Ladylynn non era solo la mia prima ragazza, era la mia più cara amica, la sorella che non ho mai avuto, la madre che ho perso da bambino… lei era tutto per me. E quel cane rabbioso di un Loackland le ha fatto fare la fine di una bestia, con la complicità di mio fratello!»
                «La pace che è seguita dopo la morte di Lord Loackland è stata avallata dalla Corona?»
                «Ma certo! Si veniva dai conflitti al sud, dalla morte di mio padre… Lionel era stanco; lo eravamo tutti. Ma lui ha scelto la via dell’accordo, dello sporcarsi le mani, anziché quella della guerra definitiva. Sai bene cosa è successo, no? Prima Loackland che intercetta e stupra con i suoi uomini Ladylynn e uccide suo fratello. Poi Lord Kastalweyrah che si è autoinvita a una festa religiosa dei Loackland e li stermina tutti – il Lord compreso – ma esclusi i due figli: il piccoletto pacifico e il sadico bastardo che aveva stuprato sua figlia. Loro riescono a farla franca. Inorridito per l’accaduto, Lionel richiama Lord Kastalweyrah e impone la pace! Permette che quello schifoso sposi Ladylynn, e sancisca un armistizio. Lui… Lionel pensava davvero che quella fosse la giusta alternativa. L’ho pregato, implorato, mi sono umiliato, ho perfino pianto domandandogli di non permettere quell’abominio. E invece venne fatto. Ladylynn sposò Loackland e il giorno che decisi di andarla a liberare, con i miei uomini, lui, forse accortosi del gesto che eravamo in procinto di fare, la precipitò da quella torre. È morta tra le mie braccia»
                «E che hai fatto? Avrai dato alle fiamme la reggia dei Loackland, come minimo…»
                «No, non disponevo ancora dei miei poteri: sarei salito a Cabuk molto tempo dopo. Avrei anche volentieri organizzato una spedizione punitiva da subito, ma Kastalweyrah morì poco dopo giunta la notizia della morte della sua unica figlia. Era già vecchio e ammalato, ma ritengo che il colpo finale sul buon mercante di Myr venne assestatogli proprio da Loackland e da quello che aveva commesso. Portai Ladylynn con me a Roccia del Re, lontana da quell’oriente che nulla le aveva dato se non i natali e poi… continui soprusi, continue sofferenze, continue violenze… lei non doveva restare lì, doveva venire a casa con me! E a casa con me è venuta… è lì da allora io l’ho pianta»
                «Loackland… è morto poi, no?»
                «Sì. Un Lord come quello non sopravvive a lungo in una zona già di per sé abituata alla sommossa contro l’autorità. I suoi stessi sudditi lo scannarono come un porco, e sul suo seggio sedette il pacifico fratellino e da allora la regione è relativamente in pace. Io nel frattempo salii a nord, e non meditai più la vendetta sui Loackland: che senso avrebbe avuto? Ma su Lionel…. Lionel che avevo pregato!» a questo punto Constant non riuscì a trattenersi e le sue pacate parole di commozione divennero a poco a poco ringhi di rabbia «Lionel per il quale mi ero umiliato! Lionel accanto al quale ero cresciuto e avevo combattuto! Lui sapeva che concedere Ladylynn a quel pazzo sarebbe stata una idiozia degna dello stesso folle che volevamo sedare! È stato lui a ucciderla per prima e, quanto sono veri gli dèi, io non avrei mai ucciso mio fratello… ma certo avrei fatto tutto perché fosse deposto da quella dannata sedia di ferro: uno che commette errori politici di quel genere non merita di essere re! Né lui e né nessuna singola goccia del suo sangue, me compreso: i miei nipoti non hanno commesso il delitto che ha commesso loro padre, ma non possono sedere sul Trono di Spade! Una volta fatti prigionieri, li confinerò in qualche aurea prigionia in una zona di mare, con i loro consorti e i loro figli, vivranno per sempre bene, a spese della Corona. Ma nessun Lannister regnerà. Mai più. Lorthan sarà il re. E noi adesso lo andiamo a prendere, e lo portiamo al sicuro con noi, a Valyria».
                Bastian non commentò, né aggiunse altro, neanche un cenno. Rimase palesemente sconvolto, anche se Constant non seppe mai se quel figlio di mercanti dell’est lo fosse stato più per quello che il Primo Cavaliere gli aveva raccontato su di lui e Ladylynn, oppure sul come l’avesse raccontato, con tutta la sua amarezza all’inizio e con tutte le sue rabbia e risolutezza alla fine. Ma Bastian non disse un’altra parola, e insieme raggiunsero Dorne. Lì tuttavia li sorprese un grave imprevisto…
                Quando Constant raggiunse gli attendenti di Lorthan e Shane, quelli gli dissero che in effetti era da diversi minuti che non sentivano più un fiato provenire dagli appartamenti privati del Maestro del Conio, il quale, come il fratello, era il tipico signore inabile in qualsiasi faccenda che non fosse legata con la scienza politica o economica e perciò aveva spessissimo bisogno di aiutanti e servitori attorno a sé. Il fatto fu che quegli idioti di attendenti si accorsero della cosa solo una volta giunto Constant con la delegazione di Cowain; il Primo Cavaliere neanche attese il loro beneplacito, li scavalcò e si diresse negli appartamenti signorili. Lì, una volta spalancata la porta, si ritrovò davanti un manipolo di cinque guerrieri-ombra di Lord Braff, due dei quali stavano pugnalando Lorthan, mentre un altro lo tratteneva, e gli altri due trattenevano Shane. Rapidamente, e senza quasi neanche dargli la possibilità di accorgersi di lui, Constant si avvicinò ai due pugnalatori e sollevando il palmo della mano sinistra li rese statue di ghiaccio. Dopodiché, mentre con la stessa mano ghiacciava il terzo assalitore di Lorthan, con la mano destra dava fuoco a quelli di Shane. Alla fine, il più giovane dei fratelli era incolume, ma per Lorthan Tyrell, Maestro del Conio della Capitale, non ci fu niente da fare. Le pugnalate assestategli dagli uomini di Braff erano più di venti: e così la vita si spense negli occhi dell’ambizioso Lord dei Tyrell, e con essa anche i suoi propositi di divenire re del Regno Unificato.
 
 
 
                Il vecchio Septon che aveva assistito alla preghiera del re, era il Septon bibliotecario. Mezzo cieco e mezzo sordo, anche se non completamente cieco e men che meno completamente sordo, conosceva a memoria la collocazione di pressoché quasi la totalità dei libri contenuti nella biblioteca del tempio, che per inciso era la più grande di sicuro di Roccia del Re e molto probabilmente dell’intero sud del continente. Questo il Septon lo disse al re, una volta che Axelion ebbe terminato le sue preghiere. E anche con quell’anziano monaco, così com’era già accaduto con il Gran Maestro Irwin, il re ebbe modo di aprirsi completamente, ritrovando tra le mura di quel luogo sacro una certa pace.
                Quando Axelion si accorse che aveva passato tra quelle mura quasi un intero quarto della propria giornata, fece per congedarsi, e salutò il vecchio servendosi delle seguenti parole: «Bene, mio signore. È ora per me di ritrovare prima le mie mansioni e poi la mia famiglia. Grazie del vostro tempo»
                «Ah, maestà» lo fermò il vecchio ricurvo, tenendolo per l’avambraccio, «Desideravo solo sapere, prima che andiate… avete trovato utile questo vostro tempo speso qui al Tempio?»
                «Beh, certo. Altrimenti non sarei rimasto così a lungo. Tuttavia…»
                «Tuttavia?»
                «Ecco…. come ho già avuto modo di spiegare al Gran Maestro Irwin, e anche a voi… io sono un uomo con una profonda fede. Tuttavia ritengo lecito avere un minimo dubbio sul fatto che… sì, insomma, l’aver pregato qui oggi, e aver ritrovato dopo tanto tempo, la volontà di fermarmi e spendere un po’ di tempo da solo con la mia anima… mi farà vincere Cowain».
                In quell’istante, senza il minimo rispetto per il luogo dove ci si trovava, Caden il guerriero-ombra di sua sorella si precipitò tra il re e il Septon, consegnandogli un rotolo di pergamena e dicendo: «Maestà, questo è appena giunto da Cowain e Lady Hana desidera che lo leggiate subito». Axelion avrebbe voluto riprendere quel giovane che con tale mancanza di rispetto si era intromesso negli affari del re, scapicollando in un tempio da chissà dove. Ma considerò le parole che Caden gli aveva appena detto e pensò che il contenuto del rotolo potesse in qualche modo essere importante. Dunque lesse.
                Il contenuto fece di lui l’uomo più felice del Westeros. E probabilmente la cosa gli si dipinse in volto, visto che il Septon bibliotecario constatò: «Maestà… liete novelle?»
                «A-abbiamo vinto a Cowain» balbettò il re «Braff ha fatto in modo che… il nemico è in fuga; la città è salva»
                «Visto, Vostra Grazia? Mai sottovalutare la forza della fede. Essa arriva sommessamente, senza annunciarsi, e quando meno ce lo aspettiamo, eppure… anche quando più ne abbiamo bisogno». Axelion non seppe cosa rispondere. Rimase stordito e confuso: la gioia che era in lui gli annebbiò quasi la vista, e di sicuro lo fece con la sua mente. In quel momento non pensò a molto altro, se non di ritornare da sua sorella per abbracciarla, da suo figlio per baciarlo, e da sua moglie per farci l’amore. Ancora una volta, ringraziò il Septon, e scortato dai guerrieri-ombra, tornò zoppicando ad attraversare quel giardino che collegava il Tempio dei Sette con gli uffici del Gran Maestro, e di lì in carrozza al suo palazzo.
                L’indomani sera, più o meno alla stessa ora, gli giunse la notizia che Lorthan era morto. Pochi minuti più tardi, si trovava già nuovamente al Tempio a pregare.

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Capitolo 24
*** Magia del fuoco, magia del ghiaccio ***


Capitolo 24
MAGIA DEL FUOCO, MAGIA DEL GHIACCIO
 
 
                Marcus non avrebbe saputo dire da quanto tempo lui, Lord Sawela e Yashua fossero prigionieri del demonio con il corpo di roccia. Erano sicuramente passati dei giorni, ma se fossero stati cinque o sei oppure dieci o quindici, lui non lo sapeva più. Sapeva che forse quel mostro non aveva mai avuto dei prigionieri, visto che li teneva a uno stato di inedia piuttosto scandaloso per qualsiasi prigionia: li riforniva di acqua e di cibo, ma in quantità talmente scarse da rasentare il ridicolo, se non fosse stato che in quella situazione l’Andalo tutto sarebbe riuscito a fare meno che ridere sarcasticamente. Eppure, ennesima circostanza misteriosa riguardante il sacerdote dell’unico Dio delle fiamme, Yashua si riprendeva ad inumana velocità dal colpo subito a parte della faccia e del collo da parte di quella creatura con il teschio nero. E questo nonostante la malnutrizione e la disidratazione cui era condannato come gli altri due poveracci con cui condivideva la cella. Alle magie di Yashua – o “miracoli” come lui li avrebbe chiamati – Marcus in teoria si sarebbe dovuto abituare: ormai sapeva che quell’uomo era in grado di mostrare cose che in una vita non molti potevano vantarsi di aver veduto. Ma osservare quel viso a poco a poco tornare sempre più simile a com’era stato, quando il colpo subito avrebbe lasciato qualsiasi altro per sempre deturpato, ancora una volta sconvolse Marcus come quando aveva veduto Yashua scagliare getti di fuoco dalle proprie mani. La rapidità con cui piccoli bagliori di fuoco andavano via via ricomponendo il viso del sacerdote, rendeva anche quel piccolo “miracolo”, apparentemente meno pittoresco di quelli che già Marcus aveva avuto modo di vedere, qualcosa di assolutamente meraviglioso… e alla fine Yashua si riprese completamente.
                Già dal primissimo momento in cui li aveva imprigionati, il demone corpo-di-roccia aveva lasciato a Marcus l’Andalo e a Lord Garhel Sawela un sottile pugnale. Gli aveva detto che nel caso in cui si fossero accorti che – come pareva ovvio – Yashua non avesse avuto molte speranze di sopravvivere, quell’arma rappresentava un gesto di clemenza del mostro nei suoi confronti: Marcus o Sawela avrebbero potuto utilizzarlo sul sacerdote per porre fine alle sue sofferenze. Ma invece Yashua si era serenamente ripreso, Marcus e Sawela non avevano utilizzato il pugnaletto, e il mostro non l’aveva più reclamato, forse dimenticandosi di averlo prestato ai suoi prigionieri.
                Quando all’inizio il sacerdote riprese completamente i sensi, e fu in grado di parlare, per prima cosa cercò di farsi luce su dove si trovasse e quale fosse la sua situazione generale, e quella degli altri che stavano in cella con lui. Quando l’Andalo e il politico gli ebbero fatto un preciso resoconto del tutto, il sacerdote tornò al silenzio, probabilmente perdendosi in chissà quale ascetica meditazione. Tuttavia a distanza di un paio d’ore, mentre per la prima volta si nutriva da sé della poltiglia verdastra che il mostro gli portava tutti i giorni da troppi giorni in ciotole di legno, il sacerdote del Dio del fuoco concluse: «Va bene: facciamolo… Garhel: tieni fermo il principino, e chiudigli la bocca». Come se fosse stato pronto, quando in realtà non lo era perché in quella cella Marcus avrebbe notato se i due avessero cospirato contro di lui, il Lord Tribuno Popolare scattò in piedi e afferrò Marcus per il braccio, gettandolo ventre a terra e contemporaneamente tappandogli la bocca con il palmo della mano che aveva libera. Marcus aveva per un brevissimo istante creduto di poter opporre un minimo di resistenza all’esperto guerriero dell’est, ma Lord Sawela era uno che aveva combattuto guerre per più della metà dei suoi anni. E anche se erano praticamente della stessa stazza – Marcus leggermente più alto: ma di veramente poco – riuscì a immobilizzare l’Andalo quasi definitivamente, quasi in un colpo solo.
                Yashua dal canto suo, brandendo il pugnale dimenticato dal demone e tagliando in superficie l’avambraccio di Marcus, cominciò a dire: «Sta sereno, Marcus dell’occidente. Non morirai oggi. Non morirai per molto tempo… mi serve solo… un po’ del tuo sangue». Quando fu soddisfatto, il sacerdote cerco di mettere quanto più sangue potesse nella ciotola da dove aveva appena svuotato la sbobba verdastra; dopodiché, mentre riferiva a Sawela che poteva lasciare andare il Cavaliere della Chimera, tagliò anche il suo avambraccio e mise il suo sangue nella ciotola. Dunque si pose al centro della cella e, seduto a gambe incrociate, incominciò a pregare in una lingua che né Marcus né Lord Garhel conoscevano. Marcus e Garhel che nel frattempo, guardando allibiti quello che stava accadendo attorno a loro, sentirono come automaticamente che fosse il caso di tenersi quanto più distante possibile dall’uomo mistico e dalla sua pozione. A mano a mano la preghiera di Yashua fu sempre più recitata a voce alta, fin quando – raggiunto un tono di voce normale – il sacerdote, congiungendo i palmi delle mani, creò un piccolo fuoco che lasciò ardere dentro la ciotola, in mezzo all’intruglio di sangue che vi aveva già collocato dentro. Infine, rapidamente, Yashua sputò dentro le fiamme, diede un calcio alla ciotola facendola finire oltre le sbarre della prigione, e urlò agli amici che aveva alle spalle: «Indietro!».
                Sinuosamente, lentamente anche se inarrestabilmente, un sottile filo d’ombra cominciò a venir fuori dalla ciotola, rovesciata oltre le sbarre della cella. Dire che Marcus era sbalordito di quello che stava vedendo era ormai scontato: Marcus era sbalordito sempre da quando conosceva Yashua… solo che adesso anche l’espressione sul volto di Lord Garhel Sawela pareva voler dire: “che diamine sta succedendo?”. Il filo d’ombra assunse una forma via via sempre più definita: una testa, un collo, un paio di spalle, un paio di braccia, un torso… era l’ombra di un uomo. Saltò completamente fuori dalla ciotola senza emettere un suono: l’unica cosa che si sentiva era il crepitio del piccolo fuoco nella ciotola da cui quella strana creatura di ombra era venuta fuori. Quando si fu completamente combinata, Yashua il sacerdote del dio del fuoco che l’aveva creata, cadde all’indietro in preda a degli strani spasmi: gli occhi gli si rigirarono, e la bocca cominciò a riempirglisi di schiuma. Soccorrendolo, anche se non sapendo in effetti bene cosa fare, il Lord Tribuno Popolare fece preoccupato: «Maestro Yashua!».
                Marcus invece non riuscì a distogliere l’attenzione dall’ombra a forma di uomo che il sacerdote aveva evocato un attimo prima di andare in convulsione. Essa si voltò verso di lui: anche se mascherati dall’oscurità, l’Andalo riuscì comunque ad intercettargli dei tratti sul viso; tratti che Marcus avrebbe detto… simili ai suoi! E fu con quei tratti che l’ombra gli sorrise, e poi svanì oltre l’angolo…
                Furono attimi di confusa tensione. Visto che non aveva capito quello che era successo, Marcus era piuttosto impaurito, oltre che confuso: non aveva idea di cosa fare, di come comportarsi. Per un tempo che gli parve infinito lui e Lord Sawela attesero. A un certo punto, gli parve di udire delle urla in lontananza: non urla impaurite, più il ringhiare di un dolore dovuto a uno scontro. E… rumore di metallo che sbatte. Dopodiché, l’ombra tornò fuori dall’angolo dove era scomparsa; aveva una chiave in mano. Si avvicinò alla cella di Marcus, Sawela e il senza sensi Yashua, e, inserendo la chiave nella serratura, aprì la porta. Dunque, si dissolse andando in autocombustione: fiamme rosse, nere e violacee coprirono l’ombra fino al collo, poi fin sopra il viso, e infine avvolgendola completamente. E dopo tutto ciò, Yashua riprese i sensi.
                Anche se avevano fretta, anche se era il caso di correre subito fuori da quella maledetta porta di ferro per poi raggiungere Shirley, riprendere il volo e non tornare mai più a Valyria, Marcus non si trattenne dal commentare, rivolto a Yashua: «Ancora la tua magia del fuoco, eh?»
                «La magia del dio del fuoco, Marcus dell’occidente. Io non servirei a molto se non fosse lui a ispirarla… ora sei abbastanza persuaso? Aderirai alla causa della fratellanza?»
                «Non ancora. Ma è meglio se ne discutiamo dopo: che dici?»
                «Condivido decisamente» concluse Yashua, mentre si appoggiava alle spalle salde di Lord Sawela: l’incantesimo di fuoco e ombra lo aveva lasciato praticamente senza forze; non riusciva nemmeno a tenersi in piedi. Durante la corsa verso la libertà, accortosi della scomodità della situazione, Sawela pensò perfino di rinunciare a concedere a Yashua solo le sue spalle e decise di prenderlo definitivamente in braccio. Avevano già corso parecchio, senza incontrare né il demone di roccia né nessun’altro, quando, mentre Marcus già pregustava di nuovo la sensazione di cavalcare la sua chimera, Yashua disse agli altri: «Aspettate! Fermi, fermi!». Dunque Garhel Sawela gli domandò: «Cosa c’è, maestro?», e Yashua rispose: «Stiamo sbagliando percorso…»
                «Cosa…? No… io sono… sono sicuro che è di qua!»
                «“Di qua” cosa? La via del ritorno… ma noi non stiamo cercando la via del ritorno»
                «Ah, sì?» fece polemico il principe Marcus «E che cerchiamo allora?»
                «Qualcos’altro…»
                «“Qualcos’altro” cosa?!», ma la rabbia del principe fu inutile. Yashua non gli rispose; ordinò a Sawela di tornare indietro, e il Cavaliere della Chimera, che non aveva alcun modo di orientarsi in quel labirinto di macerie che Valyria altro non era, non poté che limitarsi a seguire il Tribuno e il sacerdote, tenendo tutti i propri imprechi e le bestemmie stretti tra i suoi denti.
                Sempre fortunatamente senza incontrare nessuno, raggiunsero una mastodontica depressione di terra secca. Una voragine, con tutta l’aria di essere artificiale, all’estremo della quale si trovavano delle scale, con in cima una porta di ferro. E poi, lungo tutta l’enorme fossa – a occhio in grado di contenere migliaia di uomini ammassati – si trovava un complesso marchingegno di ferro arrugginito le cui terminazioni si affusolavano come in cannule appuntite, tutte rivolte verso il basso. Centro dell’intera struttura, non molto distante dalla porta, era una sfera di vetro con al suo interno una specie di sostanza gassosa di colore verde intenso. Senza dubbio era tutto molto curioso, ma Marcus – data la fretta che avevano e il potenziale nemico alle calcagna – non fu colto da una curiosità intellettuale talmente forte da spingerlo a dire quello che invece affermò Yashua il sacerdote: «Dobbiamo scendere!». Ovviamente il principe Andalo era contrario, ma si rese conto che come le sue rimostranze non erano state ascoltate prima, così non sarebbero state ascoltate neanche in quel caso; e si rese conto che, come prima, non aveva alternative diverse dal seguire i due uomini dell’oriente. Lord Sawela trovò una nascosta scala secondaria; una scala a muro dall’aria poco salda. Tuttavia Yashua decise di scenderla, e Lord Sawela gli andò dietro, e Marcus dietro Sawela. Ancora debole e zoppicante, il sacerdote caracollò verso la sfera verde, osservandola con attenzione. Poi, voltandosi e rivolgendosi a nessuno che Marcus potesse vedere, disse a voce alta: «Dove sei?! Rivelati, tu che sei fonte di questa grande energia. Siamo entrambi servi del Dio della Luce, dunque non abbiamo motivo di non fidarci l’uno dell’altro»
                «Il Dio della Luce? È così che adesso la chiamate?» gli rispose subito una profonda voce femminile, apparentemente proveniente dalla boccia di vetro. Yashua subito si voltò verso il curioso oggetto, così come d’altronde fecero pure lo stesso Marcus e Garhel Sawela. «Perché?» fece ancora Yashua, con un’espressione in viso che Marcus non seppe decifrare: furba sarebbe stato forse il termine più esatto, «Come dovremmo rivolgerci al nostro padre e signore?»
                «Figliolo, non c’è alcun padre né signore. C’è solo la magia»
                «Chi sei tu?»
                «Una serva. Schiava del mio stesso potere»
                «E come sei finita quaggiù?»
                «Uhm… voi sembrereste a una prima occhiata degli uomini molto migliori di quelli che mi hanno sfruttata per creare un esercito al fine di portare la guerra a chissà quale Capitale dell’Occidente. Ma sarebbe una lunga storia: ve la racconterò, se farete di me un essere libero»
                «Come…?»
                «È semplice: dovete solo…». La voce dentro la sfera non riuscì a completare la sua frase. La porta lì vicino si spalancò: anzi fu letteralmente fatta a pezzi con un colpo solo. Ne venne fuori il gigante di roccia col teschio nero, con la sua mazza chiodata a una mano e l’ascia bipenne nell’altra. Ringhiando, con un espressione minacciosa degna del peggiore degli incubi dell’Andalo, cominciò a correre verso di loro con tutto l’intento di smembrarli in un colpo solo come aveva appena fatto con la porticina di ferro arrugginito. Ma quando fu giunto davvero a un soffio dal collo di Marcus, accadde che la mastodontica chimera Shirley scese dal cielo e si frappose tra il mostro e le sue vittime. Spinse con le zampe anteriori il mostro facendolo cadere a terra e poi prestò la sua schiena in modo che Marcus, Yashua e Sawela potessero salirvi rapidamente. Il demone di roccia era di nuovo in piedi, stavolta pronto a colpire direttamente la chimera, quando essa spiccò il volo con l’Andalo, il Tribuno e il sacerdote al suo di sopra. Eppure, l’ultima cosa di quel luogo che Marcus riuscì ad ascoltare bene non fu il terribile urlo di disapprovazione del teschio nero, ma le grida disumane della voce di donna dentro la sfera. Esse gridarono pietose: «Aspettate! Non andate! NON ANDATE!», mentre Shirley era già alta e si stava dirigendo verso il mare sempre in tempesta che contornava l’arcipelago valyriano.
                Il pericolo era ormai scampato, dunque Marcus non ci trovò nulla di male nel fare una sosta nel vecchio porto di Valyria, prima di intraprender il più faticoso tragitto verso il deserto di Marrah Cankhubhia. Furono costretti a farlo perché un gancio della sella di Shirley si era allentato ed era molto meglio aggiustarlo prima di cominciare un volo di lunga durata. Con l’occasione, l’Andalo ebbe modo di chiedere a Yashua cosa ne pensasse di quello che avevano appena visto: del demone di roccia, ma più specificamente dello strano impianto con annessa prigioniera gassosa senza volto. Il sacerdote, con una serie di arzigogoli degni della sua persona, cui Marcus si era anche ormai abituato, disse sostanzialmente che non aveva idea di cosa pensare. Dunque parlarono anche di Shirley e dalla ragione per cui era riuscita a trovarli senza che Marcus adoperasse il fischietto: cosa peraltro che non pensava di poter fare, avendo lasciato la chimera a un capo di un’isola e trovandosi lui completamente all’altro capo. Eppure Shirley lo aveva trovato lo stesso; Yashua gli chiese se gli risultasse che le chimera fossero dotate di un fiuto eccezionale come quello dei cani da caccia, e l’Andalo gli rispose che non gli risultava. Dunque il sacerdote concluse: «Allora, caro Marcus dell’occidente, vuol dire che lei ti ha trovato per tramite di Dio. Tu sai che le chimere sono creature “magiche”, no? Esse hanno a che fare con le energie segrete e incontrollabili dei nostri cuori. Sono fatte della stessa sostanza di cui sono fatte le nostre sensazioni: la rabbia, la paura, il dolore, l’odio, l’amore. Tutto ciò sono le chimere: sono figlie di questo genere di magia molto di più di quanto non lo siamo noi uomini. E probabilmente è per questo che Shirley è riuscita a trovarti. Essa ha sentito che tu eri lì, ti ha trovato… e ci ha salvati tutti». Concludendo ciò, Yashua si liberò in una carezza al crine vaporoso di Shirley. E Marcus si rese conto che… gli credeva. In altri tempi, avrebbe facilmente bollato come superstizioni qualsiasi quelle cose così banali che il sacerdote del dio rosso gli aveva appena detto; ma quelli erano tempi strani… tempi di chimere e uomini che possono scagliare fuoco dalle mani; tempi di gente che brucia cantando e di ombre che escono dalle scodelle; tempi di teschi neri parlanti e di voci che provengono da palle di vetro; tempi di magie del ghiaccio e magie del fuoco…
 
 
 
                Daniel della Casa Lannister ed Elthon della Casa Applegate dovevano aver raggiunto grossomodo il luogo dove abitava il drago malvagio Requiem. Si trattava di una minuscola spelonca situata sotto una parte del ghiacciaio che si allungava verso il Cuore di Actonon come un lungo braccio verso il vuoto. Il panorama laggiù era davvero impressionante: questo lungo braccio di ghiaccio perenne si allungava verso un orizzonte in cui il cielo e il mare si mischiavano; ma il colore non era il blu intenso che ci si sarebbe potuti aspettare. Era più che altro un grigio gelido, offuscato per via delle nebbie, che dava l’idea di un bordo morente, incancrenito, del mondo. Nevicava, anche se lentamente: a sottili fiocchi flosci. Sir Elthon stava tremando di freddo, eppure Daniel di Cowain per qualche ragione, invece, non ne sentiva. O meglio: certo, avvertiva che la temperatura fosse bassissima, eppure quello non era il peggior freddo che avesse mai sentito in vita sua: il che era piuttosto curioso, visto che si trovava forse nel bordo più estremo del creato, oltre le terre dei Bolton e dei Worchester dove una volta sorgeva la leggendaria Grande Inverno, oltre l’antica Barriera, oltre le terre degli Applegate e dei Willoughby che gliene contestavano una parte, oltre il Monte Cabuk e la catena di montagne del Tetto del Mondo, oltre un’immensa pianura di ghiacci e nevi perenni. Lì si trovava il covo di Requiem il drago, e lì, mentre Elthon – che era un membro di una delle suddette casate del nord – moriva di freddo, Daniel sostanzialmente sentiva solo un leggero, quasi piacevole, friccico lungo i margini più esposti della propria carne.
                La spelonca era al buio: un buio fitto; Daniel fu costretto ad accendere un fuoco sul palmo della mano sinistra. Non avrebbe voluto farlo, visto che il fuoco avrebbe causato la sconvenienza di fare di loro individui immediatamente rintracciabili. Ma l’alternativa era camminare nel completo buio in un luogo assolutamente sconosciuto: Daniel ed Elthon avrebbero potuto inciampare, così come cadere in un profondo baratro. Una volta entrati, cominciarono a illuminare prima per terra e poi lungo le pareti di roccia di quell’inquietante rifugio; incisi al di sopra di quest’ultime, si trovavano centinaia e centinaia di graffiti raffiguranti scene disparate, anche se tendenzialmente con un’unica linea-guida: grossi draghi al centro, e piccoli ominidi tutto attorno. Talvolta nell’atto di venerarli, con le braccia alzate rivolte verso di loro. Talvolta nell’atto di servirli, con attrezzi simili a lunghe spazzole per lucidargli le scaglie sul collo o sulla schiena. E talvolta per nutrirli: piccole braccia o piccole gambe fuoriuscire dalla dentatura serrata delle grosse leggendarie creature, simili a rettili.
                «Queste immagini ti inquietano, Piromante?», disse dunque la voce del drago, mentre sia Daniel che Elthon erano ancora con lo sguardo rivolto alle pareti. La voce era giunta della loro spalle, e fu verso quella direzione che il principe Lannister puntò il proprio fuoco. Requiem non era visibile nel suo completo: ma certo quegli enormi occhi gialli che lo scrutavano minacciosi non potevano essere di nessun’altro. Tutt’attorno agli occhi, Daniel non riuscì a distinguere molto se non del bianco candido di neve finissima, e del nero fitto del buio della grotta. Mentre gambe e mani cominciavano a tremargli, e il cuore a battergli all’impazzata, il principe Piromante non poté che balbettare: «Re-re-requiem…». Il drago invece, parve o non notare o non degnare d’importanza la sua risposta, visto che perpetrò con l’argomento con cui aveva incominciato: «Era così che funzionava una volta, da queste parti. Certo: non dovunque, non dove vigeva la giurisdizione dei mie fratelli, e più stringente si faceva il loro controllo. Ma questa era casa mia: e a casa mia gli uomini stavano al posto nel quale la natura aveva deciso in origine di collocarli. Siete animali, voialtri: i più intelligenti, i più dotati… ma animali rimanete, nulla a che fare con noi draghi. O almeno noi draghi dell’origine. Il vostro posto è al nostro fianco, ma non da pari: da ausiliari. Poi col tempo i continenti si smembrarono, le masse territoriali si mischiarono e per non so quale ragione il fato volle confinarmi qui, ai confini del mondo. Tutti i miei servi morirono o scapparono, ma io rimasi qui. Questa è casa mia, ed è il luogo dove un giorno mi spegnerò. Ma è ancora presto, molto presto. C’è ancora così tanto da fare…». La voce di Requiem non aveva nulla a che vedere con quella di Nidhogg: il drago Piromante aveva avuto una voce assai solenne, altisonante. Quella di Requiem strisciava da dietro le ombre come il sibilo di un serpente: e ogni suono che emetteva corrispondeva a un brivido lungo la schiena di Daniel di Cowain. Daniel di Cowain, che ancora balbettando ripeté: «Re-re-requiem…»
                «Finiscila di tremare, giovane Piromante. Se avessi voluto ucciderti saresti stato già un blocco di ghiaccio… allora? A cosa debbo la tua visita? Immagino che essa sia legata alle parole che ho appena ascoltato da mio fratello, e al definitivo estinguersi del suo spirito… magari, se lo scenario fosse ancora più complesso, c’entrerebbe perfino qualcosa quel traditore vigliacco del Signore delle Dune, e gli schiavi magici che si porta appresso per una fortuna che è grazie a noi che lui ha avuto»
                «È… è per causa sua che Nidhogg è caduto» Daniel per il momento concluse che la via migliore con Requiem fosse quella della sincerità, così precisò: «Il Signore delle Dune ci ha messo contro uno dei suoi manti, uno potentissimo. E Nidhogg ha deciso di volare fin qui per salvarci la vita: ha abbattuto il demone ma… ha usato troppa energia, e infine è spirato»
                «Immagino che quel mante fosse in realtà in serbo per me, dunque – ironico anche solo a pensarlo – si potrebbe dire che lui… si sia sacrificato per me. È stato stupido: nessun umano vale tanto, neanche un nostro allievo»
                «Nidhogg aveva una visione del mondo un po’ diversa dalla tua!» si ritrovò a dire Daniel con coraggio: il nervo del maestro scomparso era ancora scoperto e, nonostante l’orrore, un impeto di rabbia lo travolse ancor più impetuosamente, «Immagino che non serva a niente stare qui a spiegartelo, ma giudicherei “stupido” una parola decisamente inappropriata»
                «Hey, ragazzo: io sono un drago buono e rispettoso, e ti ho assicurato che non farò di te un ghiacciolo, perciò non lo farò. Ma non ti azzardare mai più a rivolgerti a me con tale mancanza di rispetto! Io sono Requiem! Il cantore della morte: e nessuno si rivolge a me in tale maniera, specie se travisando così scioccamente il senso delle mie parole! Nidhogg era un grande drago: il migliore tra noi! E lascerà su questa terra una traccia di cui voi umani probabilmente non vi renderete neanche mai conto. Ma il problema dei migliori è che spesso non sopravvivono. Sopravviviamo noi: quelli pieni di difetti e perversioni. È per questo che in tutto questo tempo l’umanità non si è ancora estinta… essa ha bisogno di una mano»
                «Che… che cosa intendi?»
                «Già ora la grande guerra è in preparazione»
                «Guerra? L’estremo nord? Ehm… i Willoughby e gli Applegate?»
                «No, affatto. Una guerra molto più a sud, molto più grande. Una guerra… come non se ne vedevano da lungo tempo su questo continente. Un massacro»
                «Dove?»
                «Alla vostra capitale, naturalmente. Lì convergono troppi interessi. Quelli di un sistema costituito, ovviamente, il cui rappresentante è un re o chi per lui. Quelli del Signore delle Dune, che a questo punto direi che mi sia definitivamente sfuggito di mano. Quelli di Constant Lannister, ancora convinto che dall’eccidio che accadrà potrà ricavare un qualche tipo di vantaggio di natura personale. E, in ultima istanza, anche i miei…»
                «Non si tratta solo dell’estinzione dell’umanità, non è vero? Una battaglia, per quanto atroce possa essere, non estinguerebbe in un colpo solo il genere umano! Tu stai tramando qualcos’altro!»
                «Ahahah adesso direi che le tue domande cominciano ad essere un po’ troppe, giovane piccolo Piromante. Lo sai, mi ha sempre incuriosito l’arte di mio fratello: la Piromanzia. Essa è diversa da tutte le nostre altre forme di magia. Il fuoco che vi insegna è di una natura molto più complicata di quello che proveniva, per esempio, da mio fratello Kyrios. Questa cosa del legame… del non pieno potere fin quando qualcuno non l’abbia condiviso con un altro… di uomini che si affidano ad altri uomini; certo, da una parte è ridicolo e triste che fondi la sua natura su una cosa tanto sciocca come il sentimentalismo dell’umanità. Ma dall’altra, rende il suo segreto più sicuro e d’altro canto… nessuno di noi è mai riuscito a sviluppare una cosa del genere»
                «Io… ora devo andare» fece Daniel rapido, convinto di aver ottenuto già molto di più di quello che sperava. Dunque si rivolse celermente verso l’imboccatura dalla quale era penetrato, intimando con un cenno Sir Elthon a fare lo stesso. Ma un getto di ghiaccio denso e gelido gli si parò davanti, andando a formare un enorme muro di ghiaccio, sostanzialmente bloccando l’uscita al principe Piromante e al cavaliere che era con lui. Quindi il drago ricominciò a parlare: «E, dimmi, dove te ne vai così in fretta, amico mio? Il primo e ultimo Piromante che è entrato qui, poi per lungo tempo ha deciso di restare a farmi compagnia. Ha appresso da me l’arte della Necriomanzia ed è divenuto… forse il più potente mago da non so quanti millenni»
                «Quel Piromante… era mio zio. E io sono Daniel della Casa Lannister, secondo in linea di successione al trono, e Primo Cavaliere del re. E adesso me ne torno a casa». A queste parole, un secondo, poderoso getto di ghiaccio intrappolò Daniel ed Elthon, andandosi a sistemare dall’altra parte del percorso. Daniel si vide costretto a ricordare al drago: «Avevi detto che ci avresti lasciato vivere!»
                «Vi avrei lasciato vivere? Mio buon amico, io non ho mai usato il plurale. Ed è da lungo tempo che non mi sazio di carne umana: tanto che quasi non ne ricordo neanche più il sapore. Tu fa un po’ come ti pare, Daniel della Casa Lannister: due maghi che si scontrano significa potenzialmente molte più vittime. Ma il giovane cavaliere: resta qui con me»
                «No, mai!» gridò Daniel e con un poderoso raggio di fuoco, cercò di sciogliere la spessa parete di ghiaccio che Requiem aveva testé innalzato dinanzi a lui. O almeno di scioglierne una parte abbastanza ampia da poter permettere una fuga. Intanto Requiem venne fuori dalla coltre di neve e ombra nella quale si era fino ad allora celato. Daniel non avrebbe saputo dire se fosse stato più grande di Nidhogg, ma certo all’apparenza era assai diverso. Requiem era incredibilmente affusolato, pareva avere molta meno massa rispetto al suo vecchio maestro, ma molte più ossa. Le scaglie sul suo dorso, che una volta dovevano esser state di un colore lucido e acceso, adesso erano spente e grigie, come il panorama che Daniel aveva osservato prima di entrare in quella maledetta spelonca. Inoltre, certe parti del corpo le scaglie non le avevano neanche più: nella zona dell’attaccatura del collo, del muso, e del punto in cui gli arti si legavano col resto del busto… c’era solo una disgustosa pelle spoglia di colore rosa-violaceo.
                Requiem era orrendo. E stava per attentare alla vita di Elthon; di Daniel poi chissà che cosa avrebbe voluto fare, di certo non lo avrebbe lasciato andare tanto facilmente così come si ostinava a ripetere. Il giovane Applegate, poverino, estrasse la spada: ma che diavolo mai poteva fare la spada di un uomo contro i mille artigli e i mille denti acuminati di un drago dell’origine? Con una delle due zampe anteriori, il drago intrappolò il cavaliere al muro e si accinse a chinarsi su di lui con le fauci, quando prontamente il principe Piromante pose entrambe le mani sulla zampa della belva, ustionandole a dovere. Urlando di rabbia e odio, Requiem si scansò, dando giusto il tempo ai due umani di ritrovarsi e – Elthon appoggiato a Daniel – correre via da quel luogo di terrore e dannazione. Ma il controllo del drago su di loro non era ancora finito: probabilmente accecato dall’ira di aver subito un colpo da parte di uno dei suoi tanti disprezzati umani servitori per natura, o per altre ragioni che il Piromante non riuscì a spiegarsi, un vento gelido, ma di certo magico e proveniente da Requiem, raggiunse la corsa di Daniel ed Elthon e li scaraventò a miglia e miglia da quel forte innevato.
                Ancora terrorizzati, infreddoliti, sudati e senza fiato, i due giovani si guardarono attorno. Daniel avvertì un forte senso di nausea, ma riuscì a trattenersi dal vomitare. Elthon invece non lo fece, e si liberò sotto un arbusto di agrifoglio. Fatto ciò, con l’aria ancora di uno che ha visto la morte con gli occhi (cosa che però, in sua difesa, era davvero appena accaduta), Elthon per una seconda volta si guardò attorno, stavolta con più attenzione. E alla domanda di Daniel sul dove si trovassero, rispose: «Io lo so dove siamo… siamo vicino casa. Quel vento deve averci spazzato per centinaia di miglia…»
                «La cosa ti sorprende?»
                «Mio signore, tu farai anche parte della famiglia reale del sud, ma ritengo che il numero di cose incredibili che ho vissuto da quando ti conoscono non siano neanche lontanamente giustificabili»
                «E che vuoi fare dunque? Lasciarmi perdere?»
                «Mai, signore: ho fatto un giuramento. Ti avrei seguito nel corso dei tuoi affari, se tu ci avessi dato una mano definitiva contro i Willoughby. Io sono un cavaliere del nord: e presto sempre fede ai miei giuramenti»
                «Molto bene, cavaliere, allora credo sia il caso che io ti avverta: non so cos’altro vedrai stando al mio fianco. Forse non molto altro… o forse la cosa più sconvolgente di questo mondo. Non ne ho idea. Certo, adesso che so che è in corso una guerra, non ti nego che la mia voglia di casa si stia facendo sempre più pressante…»
                «Mio signore, non è certo l’assolato sud. Ma i miei uomini sono a poca strada per quella direzione. Vogliamo andare a rifocillarci?»
                «Sì, Sir Elthon. Direi che sia assolutamente il caso», e concludendo con queste parole, il principe seguì il suo cavaliere lungo le strade che egli ben conosceva. Almeno uno dei due era tornato a casa.
 
 
 
                Quando Marcus, Sawela e Yashua raggiunsero il covo che da anni il sacerdote utilizzava come rifugio per se medesimo e per tutti quelli che, insoddisfatti della loro vita sotto il governo del Regno Unificato, avevano scelto di abbandonare Marrah Cankhubhia per la luce e le fiamme del dio rosso, essi si accorsero subito che qualcosa non andava. Il circolo di rocce attraverso il quale bisognava passare per accedere alla tana segreta del sacerdote, era ricoperto di ghiaccio. E, una volta dentro, la situazione era perfino peggiore: stalattiti e stalagmiti gelate ricoprivano quasi interamente le superfici dei cunicoli scavati nella sabbia che costituivano i corridoi di quell’insolita struttura sotterranea. Sbalordito e spaventato, il sacerdote figlio di dio disse: «Non ho mai visto tanto ghiaccio in vita mia…».
                Il demonio che aveva attaccato Marcus mentre era in volo con la sua chimera, e che era stato prima neutralizzato e poi fatto prigioniero da Yashua, approfittando della lontananza del sacerdote, doveva essersi completamente rigenerato. Era per questo che c’era ghiaccio dovunque, ed era per questo che man mano che si diressero più avanti nel labirinto sotterraneo, i tre furono costretti a mirare uno spettacolo ancor più terribile: decine e decine di seguaci di Yashua ammassati tutti insieme in una delle “sale” più grandi del covo, e lì anche loro mutati tutti in statue di ghiaccio. Marcus vide coi suoi occhi il viso del sacerdote contorcersi nella smorfia di rabbia più violenta che avesse mai veduto: se solo fosse stato provocato anche un minimo, quel pazzo avrebbe dato alle fiamme tutto ciò che aveva attorno nel giro di miglia e miglia. O almeno così la pensò Marcus, che si guardò bene dal dire a Yashua quello che da qualche ora ormai gli frullava per la testa. Attese che Yashua, con calma, scongelasse un paio di aree del grande labirinto che il suo covo altro non era; poi che si mettesse a letto e si riposasse. Parlò di quello che aveva in mente con Lord Sawela il quale, quando non c’era in giro il suo prete, pareva completamente un’altra persona. Certo rimase delle sue convinzioni, e disse senza mezzi termini a Marcus che non aveva idea di come Yashua l’avrebbe presa, e che lui avrebbe fatto quello che il sacerdote gli avrebbe comandato… però lo disse con estrema pacatezza e sostanzialmente se Marcus avesse deciso di prendere Shirley o volare via, il Lord Tribuno Popolare non avrebbe fatto niente. Eppure Marcus l’Andalo scelse comunque di aspettare il risveglio del sacerdote. Dunque lo andò a trovare nella sua camera, dove Yashua lo accolse ancora steso sulla lettiga.
                «Garhel mi dice che c’è qualcosa che vuoi riferirmi» fece Yashua, anche lui pacato e sorridente, «Di che si tratta, Marcus dell’occidente?»
                «Io vi lascio»
                «Per andare dove?»
                «Dai miei fratelli, a ovest. Quella… voce dentro la sfera ha detto che l’esercito che abbiamo visto era diretto alla Capitale. Lì c’è mio fratello, e le mie sorelle. È casa mia. La difenderò con le unghie e con i denti»
                «Con tutto il rispetto, amico mio, ma non credo che un Cavaliere della Chimera da solo possa fare la differenza in una battaglia di certe proporzioni»
                «Non sarò da solo. Passerò prima dalla Valle e spiegherò la situazione. Sir Merrin, una delle personalità più influenti in quel contesto, è un mio buon amico. Lui capirà»
                «Quanto ne sei intimamente convinto, diciamo in una scala da zero a dieci…?»
                «Io, beh… sei»
                «Non è molto»
                «Non è molto, ma devo tentare»
                «Posso… suggerire un’alternativa?»
                «No»
                «Perché sai che ti convincerei?»
                «Perché ci ho pensato, e ho deciso chen non ce ne sono»
                «Bene e io te la dico lo stesso: la mia predicazione al momento si è conclusa. Tutti i miei seguaci sono morti o chi non lo è… è fuggito via. Non sono più molto utile qui in oriente. Io verrò con te»
                «Combatterai… al mio fianco a Roccia del Re?»
                «Questo non posso assicurartelo: non sono un uomo libero, faccio quello che mio padre mi dice di fare. Tuttavia è innegabile che si aprirebbero diversi nuovi orizzonti. E di una cosa sono certo: i miei interessi mai si opporranno ai tuoi, in quanto – come ho avuto già modo di dirti – io ho letto il tuo destino nelle fiamme. E il tuo destino è parallelo a quello di Dio, non trasversale. Siamo alleati, Marcus: su questo non v’è dubbio. È il Signore della Luce che lo vuole. Leggo forse… dell’inquietudine nei tuoi occhi…?»
                «No, mio signore, nessuna inquietudine. Solo… tu hai bisogno di riposo, mentre io…»
                «Hai ragione: ho bisogno di riposo. È necessario perché io faccia… quello che debbo fare prima di partire insieme a te»
                «E che cosa devi fare, se posso chiedertelo?»
                «Devi saperlo: tu verrai con me»
                «Come?»
                «Ci metteremo poco! Quella creatura… che giace dentro un vetro a Valyria, deve essere liberata. Questo tu lo sai come e più di me. Tu avverti che è una cosa che va fatta, e hai un senso della giustizia molto raro per un uomo dell’occidente…»
                «Yashua: non c’è tempo!»
                «Ne occuperemo poco! Quando ci siamo ritrovati per la prima volta contro quel nuovo demonio col teschio nero e il corpo di roccia, non sapevamo che aspettarci: ci ha colto di sorpresa, mi ha colto di sorpresa. Ma non accadrà questa volta: questa volta verrà sconfitto. Ne è già fuggito uno, non permetterò che quest’altro che si trova lì come sorvegliante, come se quella fosse la sua fissa dimora, mi sfugga. Devono ancora dirci parecchie cose questi signori, Marcus: tu lo sai. Tu sai che dobbiamo tornare a Valyria! Ci andrei da solo, ma mi serve la tua chimera, e dubito che Shirley si lascerebbe cavalcare da unao sconosciuto»
                «Sì, è impossibile infatti… allora… vediamo se ho capito bene il tuo piano: mentre tu ti riposi e ritrovi le tue piene energie, io vado alla Valle e dico ai Cavalieri che devono venire con noi a Roccia del Re. Poi torno, e insieme andiamo a Valyria: facciamo secco il diavolo di pietra e liberiamo lo spirito nella boccia. È tutto esatto?»
                «Sì»
                «Dove dico, ai ragazzi, che converrà ritrovarci? E dopo quanto tempo?»
                «Alle porte di Marrah Cankhubhia. Non più di una luna… e se dovessero aspettare poco più, beh: che aspettino»
                «Questo non glielo dirò…»
                «Sì, farai bene»
                «Allora… a dopo» concluse Marcus tendendo la mano destra al sacerdote del dio del deserto. Quello gliela strinse, poi lasciò che il Cavaliere della Chimera giungesse presso l’uscio della porta, prima di fermarlo asserendo: «Ah, Marcus!»
                «Sì?»
                «Ricorda sempre di tenere gli occhi aperti… tu sei un prediletto del Signore della Luce, oramai, ma proprio per questo è possibile che la tua strada venga insidiata da nuovi, fatali, circostanze che non avevamo previsto. La notte è buia e piena di terrori»
                «Ehm…». Marcus si ritrovò a riflettere per un momento che non sapeva quasi nulla di quell’individuo che adesso gli si rivolgeva non solo come un alleato, ma come un amico. Improvvisamente gli sovvenne l’immagine del giovane Shalem, arso vivo perché aveva rubato dei gingilli e se li era rivenduti al fine di racimolare qualcosa per comprarsi da mangiare. L’Andalo, per un periodo ora abbastanza lungo, aveva deciso di mettere da parte la questione, perché Yashua si era rivelato utile e nei suoi confronti non dannoso. Ma alla parola di un individuo di quel genere, un feroce assassino oltre che un fanatico, lui quanto peso poteva dare? Si rese conto solo in quel momento che quel giovanotto magro, denutrito, e stanco, che se ne stava raggomitolato dentro un lettuccio, gli faceva una paura matta. Ma non c’era molto altro da dire, così si limitò ad assentire con un poco convinto «Sì», e si lasciò lo stregone alle spalle.

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Capitolo 25
*** Amori infranti ***


Capitolo 25
AMORI INFRANTI
 
 
                Il cuore di Gino della Casa Barron, Lord di Altogiardino e Protettore del sud, Gran Maresciallo dell’Altopiano e Principe di Dorne, era in preda ai tumulti. In primo luogo, il giovane signore pensava a suo padre e alla fine ingiusta che Constant Lannister gli aveva fatto fare. Anche se in effetti gli amici Lord Braff e Jon Barthalo erano stati un po’ vaghi sulle dinamiche dell’accaduto – il Lord di Lungotavolo era stato prima trafitto da una spada e poi gettato da una torre, o prima gettato da una torre e poi finito con un colpo di freccia: non era chiaro – di certo c’era che Lord Barron era morto, ed era morto perché aveva voluto schierarsi dalla parte del re piuttosto che da quella dei traditori Tyrell, che Gino aveva visto con i suoi occhi essere dei mostri assetati di potere e dotati di oscure alleanze con spettri e demoni. Ora, Gino non era stato in chissà quali grandi rapporti con suo padre, specie negli ultimi tempi, quando aveva voluto mandarlo a far da lacchè a Lorthan Tyrell presso la Capitale. Ma era cresciuto sano e di robusta costituzione; discretamente colto e abbastanza felice: e tutto questo lo doveva a suo padre. Pensava che tutto sommato suo padre non fosse stato un padre diverso da tutti gli altri Lord di livello medio-grande che nel Westeros erano anche stati genitori. Era vero: non aveva mai scambiato molte parole con suo padre, certo non si era mai confrontato con lui intimamente, ma aveva sempre avuto modo di esporgli le sue opinioni, e in certi casi suo padre le aveva anche prese in considerazione. Non aveva mai giocato con suo padre, ma aveva giocato con gli inservienti che suo padre gli aveva messo a disposizione: era con uno di loro che Gino aveva imparato a cavalcare. E non aveva appreso niente grazie a suo padre, ma conosceva molte cose perché Sir Rollo gliele aveva insegnate, e Sir Rollo lo aveva fatto perché era un amico di suo padre, e perché probabilmente era così che suo padre aveva voluto. Quell’uomo a parer di Gino avrebbe meritato una fine degna di un sapiente politico della sua portata, che per tutta la vita aveva lavorato perché sua moglie, suo figlio, e gli uomini e le donne che abitavano le terre sotto la sua giurisdizione, vivessero sereni e in pace. Sarebbe dovuto morire anziano, nel suo letto caldo: non trafitto da un traditore qualsiasi. Questo per Gino non aveva senso e non poteva permetterlo: ecco perché Lord Constant doveva morire.
                In secondo piano, non importante quanto la sua vendetta su Constant, ma certo anche questo abbastanza pressante, era la questione del suo matrimonio con Shanty Tyrell. Gino era un Lord adesso, e sapeva bene – lo aveva studiato – che i matrimoni erano forse la maniera più semplice, e anche la più in voga, di risolvere qualsiasi questione internazionale, dopo le guerre. Si rendeva pienamente conto dell’importanza che quel genere di cose poteva avere. Ma lui conosceva Shanty, e di tutte le femmine che aveva conosciuto in vita sua, lei era certamente la più idiota. Aveva deciso che Gino doveva essere il suo sposo a otto anni, quando lui ne aveva undici o dodici, dicendogli che lui fosse “bellissimo e intelligentissimo” e saltellandogli intorno ogni singolo momento di ogni singola volta in cui Gino, suo malgrado, si era ritrovato a visitare il suo territorio per ragioni legati alla politica di suo padre; momenti che per fortuna andarono scemando con il tempo. E, quando suo malgrado aveva avuto modo di passare parte del suo tempo con Shanty, Gino non aveva potuto fare almeno di ascoltarla parlare, con quella sua vocetta squillante, del loro matrimonio, di vestiti e di arredamenti, di etichetta e di altre superfluità di questo genere. Negli ultimi tempi, Gino aveva sentito dire da voci di corridoio che era previsto un matrimonio tra Shanty e suo cugino Shane, ma certo l’avvento della Casa Barron al soglio di Altogiardino scompaginava un bel po’ la situazione, ivi inclusi anche i piani matrimoniali di Shanty Tyrell e della sua famiglia.
                Ma la verità era che Gino aveva un altro problema in merito alle “questioni amorose”, uno che non aveva immaginato prima che Braff gli presentasse l’opportunità, ovvero gli diede il consiglio, ovvero gli impose di maritare Shanty. Più si avvicinava il momento in cui avrebbe dovuto lasciare Cowain, e più Gino si rendeva conto di quanto gli pesasse l’idea di dover lasciarvi Daessenya. Era ridicolo parlare di una vera e propria infatuazione, il nuovo Lord di Altogiardino non voleva neanche considerare l’idea… eppure il pensiero di lasciarla gli metteva in corpo una voglia di rapirla, prendere un cavallo e fuggire lontano che… lo spaventava.
                E, a proposito di spaventi, il terzo ed ultimo cruccio del signore di Altogiardino era molto più strisciante degli altri due, tanto che lui non se ne rendeva neanche bene conto, e dunque era anche più “pericoloso” in quanto meno tangibile. Il fatto era che Gino non sapeva se se la sentiva… tutto quello che stava accadendo, lo stava facendo così rapidamente da confondergli non poco le idee. Insomma: era passato meno di un anno da quando suo padre lo aveva costretto di entrare a far parte della scorta personale di Lorthan Tyrell. E adesso suo padre era morto e lui era il Lord di Altogiardino, in sostituzione proprio di Lorthan Tyrell. Non un Lord qualsiasi dunque, non ai livelli di suo padre… uno molto, molto più potente e di conseguenza… con molte più responsabilità: un esercito di decine di migliaia di unità, un fisco complesso, con un tesoro tra i più ricchi del continente occidentale, una popolazione complessiva di dipendenti che superava quote che Gino nella vita non avrebbe mai neanche lontanamente immaginato di accumulare. Si rendeva conto che tutto il gioco fosse molto, ma molto, più grande di lui, eppure non se la sentiva di non giocare… anche condividere queste informazioni con un amico come Lord Braff era qualcosa che Gino pensava fosse meglio non fare.
                Così, in preda a tutti questi sconvolgimenti emotivi, quel giorno il nuovo Lord fece convocare nelle sue camere Daessenya. Lei si presentò puntuale; bellissima come sempre, eppure strana negli atteggiamenti. In altri tempi, gli sarebbe saltata addosso, e invece stavolta la bionda donna di Cowain rimase sommessamente accanto alla porta e, chinando il capo, esordì: «Mylord…». No: non era l’atteggiamento consono, quella non era la Daessenya che lui conosceva! Lui voleva la vera Daessenya. Dunque, senza neanche accennare a una risposta, il nuovo giovane Lord si scaraventò addosso alla ragazza e incominciò a baciarla nelle labbra, nelle guance, nel collo, e ovunque potesse arrivare più velocemente possibile. All’inizio, neanche lei resistette e contraccambiò i suoi baci. Tuttavia, quando le mani di lui dai fianchi cominciarono a salire verso il suo ventre e di lì verso il suo seno, disse prima piano e poi ad alta voce: «Mio signore… basta… BASTA!». Deluso, amareggiato, ma anche spaventato e confuso, Gino disse alla bionda fanciulla: «Si può sapere qual è il problema?»
                «Lo sai qual è il problema…»
                «No: non c’è nessuno problema! Io partirò, e tu verrai con me»
                «Non puoi costringermi»
                «Sono il Lord di Altogiardino, certo che posso!»
                «Non su di me. Io abito a Cowain, che è sotto giurisdizione della Corona: qui mai l’Altopiano ha dettato le sue leggi. Ma se anche così fosse, è giusto che tu sappia che non te lo permetterei ugualmente!»
                «Ma perché?!»
                «Perché il mio posto è qui. È stato bello, Lord Gino, finché è durato. E non ti nego che pure a me sarebbe piaciuto che continuasse, se tu fossi rimasto un signorotto qualsiasi disposto a trasferirsi qui, per vivere modestamente. Per un attimo, ‘hlo sognato anch’io. Ma non è più così, è finita»
                «Cosa dovrei fare? Rinunciare alla possibilità che mi viene data?! Lo capisci cosa significherebbe…?»
                «No, certo che non devi farlo. Saresti uno stupido: tu non lo sei. Ed è per questo che dico che è finita»
                «Io… non capisco». Più Gino la osservava, più si accorgeva che c’era qualcosa di strano nei suoi splendidi occhi verdi. Aveva l’impressione che, se anche non fossero ancora gonfi né lucidi di lacrime, se avesse potuto tenere il suo sguardo per un tempo superiore ai cinque o sei secondi, essi sarebbero esplosi. E in quel caso, il Lord di Altogiardino era piuttosto convinto che anche lui sarebbe esploso, e avrebbero pianto abbracciandosi e dicendosi che si sarebbero amati, e che sarebbero stati insieme. Ma nessuno dei due esplose, poiché nessuno dei due volle tenere lo sguardo. Allora Daessenya concluse: «Questo è un addio, mio signore…», e senza aspettare il consenso, diede le spalle e fece per andare. Gino la bloccò: «Daessenya!»
                «Sì?»
                «In una vita di un futuro prossimo… o remoto… sarebbe mai stato possibile che tu… avessi amato me?». Lei si voltò; il suo sguardo era freddo, crudele. Disse semplicemente: «No» e tornò a dargli le spalle, stavolta uscendo definitivamente dalla porta.
                La porta non si chiuse: dalla camera uscì Daessenya, ed entrò Lord Braff, sorridendo: «Pene d’amore, mio signore?»
                «No»
                «Figliolo: ti si vede in viso. Lo intuirebbe anche un cieco, non occorre essere il Maestro dei Sussurri. Tuttavia, se posso permettermi di svestire quei panni e tornare a indossare quelli di tuo amico… vorrei ricordarti che sei molto giovane, e sei brillante: due ingredienti magici che potrebbero combinarsi in una vita in cui chissà cosa potrebbe aspettarti… non indugiare troppo nell’amarezza, amico mio. Ti ripeto che non dovrai certo sposare Shanty domattina, e neanche fra un anno, se non lo desideri. E quand’anche un giorno lo faresti… lei potrebbe benissimo essere solo la fanciulla con cui condividi la sala del trono, non quella del tuo letto»
                «Che cosa stai cercando di dirmi, Lord Braff?»
                «Dico solo che il concubinato è una pratica non solo lecita, ma anche fortemente in uso nel nostro sistema aristocratico. Si tratta di un dato di fatto»
                «Non credo che andrei mai con donne con cui non sono sposato: non è nel mio stile»
                «Stile?! Giovanotto: quanti anni hai, sedici? O diciassette? Tu non ce l’hai uno stile»
                «Bene, Braff, grazie del tuo consulto: torna a fare il Maestro dei Sussurri ora. Sono convinto che sei venuto qui per riferirmi qualcos’altro, oltre ai tuoi consigli sull’amore…»
                «Certo» Braff mostrò a questo a punto un rotolo di pergamena, lo aprì e lesse: «“Io Axelion della Casa Lannister, dodicesimo del mio nome, re degli Andali e dei Primi Uomini, vista la decaduta posizione di Lord Lorthan Tyrell e dell’intera Casa che porta il suo nome, rei di tradimento verso la Corona e con essa verso il Regno Unificato, proclamo, dinanzi agli uomini e degli dèi, Sir Gino della Casa Barron nuovo Lord di Altogiardino e Protettore del Sud, Gran Maresciallo dell’Altopiano e Principe di Dorne. Egli svolgerà tale compito, nel rispetto delle leggi degli uomini e degli dèi, a partire da questo momento. I suoi figli ed eredi avranno il diritto di succedergli alla sua morte, nelle consuetudini e le modalità che prevede la legge. È prevista una cerimonia di giuramento che il nuovo Lord è tenuto a fare dinanzi al re nella sua dimora di Roccia del Re entro e non oltre un anno dalla sua nomina. E poi segue con una serie di altri cavilli e si conclude con il sigillo della chimera incoronata»
                «Devo tornare a Roccia del Re?»
                «No, non c’è fretta. Non farlo!». Quest’ultima – a dire il vero curiosa – frase Braff l’aveva detta precipitandosi vicino a Gino e impedendogli di uccidere una piccola farfalla di appartamento che girovagava disperata vicino alla finestra. Ma il Maestro dei Sussurri non si limitò a fare questo; disse anche: «Si può sapere cosa ti ha fatto quella povera creaturina?»
                «Provi empatia» chiese Gino, non poco stranito, «verso gli insetti, Lord Braff?»
                «Io provo empatia verso tutti gli esseri di questo mondo, signore»
                «Dimmi: non hai mai fatto uccidere nessuno?»
                «Cosa c’entra questo adesso?»
                «Che forse gli uomini che hai ucciso non erano esseri di questo mondo?»
                «Ah sì, certo: ma il dovere è dovere. Tu non stavi per uccidere quella farfalla per dovere, immagino»
                «In effetti no. Perché non vado alla Capitale?»
                «Non sarebbe la mossa più opportuna: sei il nuovo Lord di Altogiardino, conviene che tu ti presenti presso tutti i signori che ci sono lungo la strada da qui alla tua nuova dimora e una volta insediato lì, attendere che altri vengano a trovarti. Non ti conoscono, e tu non conosci loro: hai bisogno di amici. Ascoltali, e in linea di tendenza cerca di assecondarli. Se ti ritrovi a dover dirimere questioni discordanti tra un signore e un altro, limitati a dire che ci rifletterai, e se si lamentano di aver fretta allora – ma solo allora – fa la voce grossa. La metà di quelli che vedrai, presumo che ti conoscano… che ti abbiano visto almeno una volta: penso che questo sia logico, essendo tu il figlio del Lord di Lungotavolo»
                «Sì, in effetti lo è, Lord Braff… chi siederà al soglio di mio padre?»
                «Lord Barthalo, il padre di Jon»
                «E tu invece… non verrai con me, vero?»
                «Ragazzo perspicace. No, non verrò. Sono pur sempre il Maestro dei Sussurri del Regno, e da troppo tempo manco dal mio officio. Ho chi mi sostituisce ma, detto tra noi, non è esattamente la stessa cosa. Ho finito quello che dovevo fare nell’Altopiano per incarico del re, e adesso ritorno dal re. Non temere: tornerò appena posso, farò della tua nuova casa la mia seconda sede. Per il momento, ci sarà Jon con te: siete cresciuti insieme, no?»
                «Sì, ma Lord Braff… Jon non è un mio amico»
                «Sì, avevo intuito anche questo. Tuttavia sono piuttosto sicuro che ti puoi fidare»
                «E come fai ad esserlo?»
                «Tu sei il Lord di Altogiardino, il tuo mestiere è quello di Lord di Altogiardino. Io sono il Maestro dei Sussurri… perciò fammi semplicemente fare il mio mestiere»
                «Va bene, altro?»
                «Se non c’è nulla che tu vuoi riferire a me, allora no. Hai… qualche dubbio?»
                «Braff… quando Kellan è morto… tu… non hai sofferto?»
                «Certo che ho sofferto»
                «Beh non lo dài molto a vedere…»
                «Kellan era un soldato, che faceva il suo dovere. Ed è morto facendo il suo dovere. Era il migliore senza dubbio, e uno tra i miei primi guerrieri-ombra, ma… la sua perdita non sarà catastrofica. Ho tanti altri uomini a mia disposizione…»
                «Come… si diventa un guerriero-ombra? Dico… interamente»
                «Non chiedermelo questo»
                «Invece te lo chiedo»
                «Io potrei rispondere solo al re di questa cosa, e tu non sei il re. O potrei farlo… a qualcuno che abbia davvero l’interesse a diventare uno di loro, e tu non hai questo interesse, perché tu sei il signore di Altogiardino»
                «Io voglio vendicare mio padre!»
                «E lo farai. Ma da signore di Altogiardino, non da un qualsivoglia guerriero gregario»
                «Era questo Kellan, un gregario?»
                «Non intendo discuterne oltre»
                «Oh, andiamo, Lord Braff: poche storie! Siamo amici, no? E che amici siamo se condividi con me solo le cose che interessano a te?!»
                «È proprio perché siamo amici che tu non devi sapere come si diventa un guerriero-ombra! E mai lo saprai! La loro è una vita di grandi sacrifici, e sofferenze»
                «Beh, sono disposto a prendermi le mie responsabilità»
                «No! Basta così, Gino: non ricaverai niente da questa insistenza» a questo punto il Maestro dei Sussurri si concesse una breve pausa, per poi dire solennemente: «Io ora devo andare… a Roccia del Re». Non servì dire altro: i due si fecero in contro e si abbracciarono. Poi il Lord Maestro dei Sussurri prese congedo, chinando il capo, e lasciò poco dopo gli appartamenti dove temporaneamente alloggiava a Cowain.
                Non troppi giorni più tardi, Lord Gino lasciò Cowain, insieme a Jon della Casa Barthalo. A salutarlo nelle prime luci del mattino, una delegazione sostanzialmente formata da Lady Xalandra e da meno di dieci suoi sottoposte. Con loro, c’era anche la ragazza di ghiaccio che così tanto utile si era rivelata per la vittoria di Cowain. Non aveva riferito molto a Braff e Xalandra, o almeno così Braff aveva detto a Gino. Non era umana: c’erano troppe caratteristiche importanti che mancavano per definirla tale, in primo luogo una vera e propria circolazione sanguigna. E, non essendo umana, non era neanche cittadina del Regno, onde per cui era difficile poterle imporre qualcosa, ammesso che per qualche motivo Braff avesse trovato un modo per farlo. Dunque sarebbe rimasta a Cowain, perché a Cowain voleva rimanere: non necessitava di cibo, e neanche di riposo in senso stretto. Aveva detto che aveva bisogno di riprendere le forze, ma a quanto pare non lo faceva chiudendo gli occhi e distendendosi su una branda. Inoltre la ragazza di ghiaccio, nonostante fosse riuscita a neutralizzare il demonio di fuoco che si era schierato con i Tyrell, non era stata in grado di distruggerlo completamente: il teschio nero, di un materiale mai visto prima, pareva non volerne sapere di fare la fine del resto del corpo e oltretutto la ragazza aveva anche notato che tendeva a ricomporre una struttura, se non costantemente vigilato e sopraffatto. Fu così che Anylice, questo a quanto pareva era il suo nome, per il momento sarebbe rimasta in quel luogo governato da sole donne, a rifocillarsi e sorvegliare il mostro che aveva sconfitto. Per quanto tempo? Nessuno poteva saperlo.
                Per quanto riguardava Daessenya, essa si limitò a neanche salutare il giovane Barron, nuovo signore di Altogiardino. Non disse nulla, quando Xalandra abbracciò il giovane augurandogli il meglio e dicendosi fiera di potersi reputare un’amica del nuovo Lord dell’Altopiano. Non lo degnò di uno sguardo, quando Gino fece un cenno col capo per salutare tutte le altre presenti oltre la rossa ex puttana governante di Cowain, ivi inclusa lei, Daessenya stessa. E poi non lo degnò di uno sguardo neanche quando lui, insieme a Jon Barthalo e ad altri del suo seguito, salì sul proprio freschissimo destriero per dirigersi verso la sua nuova casa. Gino non glielo diede a vedere: si mostrò fiero e quasi sprezzante…. ma quando le diede le spalle e incominciò a cavalcare verso nord, un morso prese il suo cuore e gli raggelò l’anima.
 
 
 
                Gli uomini-drago si erano rivelati una potenza militare dirompente. La più perfetta macchina da guerra che Xenya avesse mai veduto in vita sua. Come numero – anche se l’esploratrice doveva ammettere che pure lì era stata piuttosto sorpresa visto che se n’era immaginati molti di meno – erano stati palesemente inferiori. Ed erano stati inferiori per armamenti, tattica e organizzazione generale. Avevano combattuto praticamente quasi da nudi, buttandosi sul nemico indipendentemente da come fosse armato e da quale fosse la sua tattica. Certo, avevano il fatto di essere alti e larghi il doppio di qualsiasi Kowacz, ma… era stata la loro energia, la loro coesione, il loro desiderio di abbattere il nemico, che avevano caratterizzato quella loro così salda tenuta. Ed era stato tutto ciò a permettergli di uccidere il principe Kowacz con il quale Xenya aveva avuto dei rapporti nell’arco di quelle settimane. Se n’era andato così l’uomo bellissimo e potente che era stato perfino in grado di insegnare a Xenya tante cose nuove, a lei che aveva viaggiato e fatto l’amore in lungo e in largo per il mondo. Cose che andavano ben al di là del frutto di aguerrùm spremuto sulla carne di cervo.
                Alla fine era stato un massacro: non solo il bel principe, ma tutti i Kowacz erano stati decimati, e anche la gran parte degli uomini-drago era rimasta sul terreno. Eppure i vincitori morali agli occhi di Xenya erano chiaramente stati questi ultimi: considerando il fatto che i Kowacz sapevano che quelli che avevano appena combattuto rappresentavano meno di un decimo della popolazione totale del nemico, esso era stato in grado di imporre non solo tutta la sua forza ma anche di ribadire quel senso di leggenda e di orrore che li ammantava nel comune pensare della popolazione dei Kowacz e probabilmente anche dei Sayun-sama della baia. Ma la guerra era finita così, stando sempre alle esperte opinioni dei Kowacz: gli uomini-drago avevano dimostrato la loro esistenza, e avevano dimostrato che cosa significa uccidere uno solo di loro. Ora tutto sarebbe tornato alla normalità, almeno per quel che restava della popolazione dei Kowacz…
                Per Xenya, per la principessa Mirietta e per il Westeros le cose stavano un po’ diversamente. Le due comandanti avevano teorizzato un ausilio dei Kowacz per la guerra alla Capitale. Di recente, erano arrivate tutte assieme delle missive da parte del re che avevano permesso alle due donne di farsi un’idea di quello che intanto era successo nel loro continente d’origine: i Tyrell si erano rivelati definitivamente come traditori e nemici del Regno. Avevano attaccato la cittadina del sud, sotto diretta giurisdizione della Corona, denominata Cowain. Avevano perso, perché l’Altopiano aveva reagito vigorosamente contro i loro signori grazie anche al sapiente lavoro diplomatico di Lord Braff: ora ad Altogiardino dominava una nuova famiglia, i Barron. Ma la sensazione di Axelion – non smentita dalle sue spie – era che Cowain fosse stata solo una “prova”. Una prova fallita, che imponeva una riflessione, magari anche lunga… ma che non era la vera guerra. E il re pensava che la vera guerra si sarebbe combattuta a Roccia del Re.
                Ora, dopo la battaglia del nuovo continente, l’esploratrice e la principessina si ritrovavano non solo con quasi nessun Kowacz, ma anche con meno della metà degli uomini con i quali erano partite: i selvaggi uomini-drago del nord avevano decimato loro come avevano fatto con i Kowacz, senza badare ad alcuna differenza nella pelle o nel taglio degli occhi degli uomini all’interno della compagine a loro avversa; avevano ucciso tutti indistintamente: una specie di equa democrazia del massacro. Ma, certo, stando così le cose, evidentemente la spedizione del nuovo mondo non aveva granché aiuti da dare al re del Regno Unificato. Eppure l’esploratrice bene sapeva che le cose invece non stavano esattamente così…
                Mentre lei si trovava nella sua tenda personale, accarezzando il bel viso del principe Kowacz e sorprendendosi a dispiacersi abbastanza per quella giovane vita spezzata, trafitta da più parti da punte di lancia e di freccia, Mirietta la venne a trovare, e le disse: «Mia signora Xenya…»
                «Sì, Lady Mirietta?»
                «È stata una disfatta»
                «Lo so»
                «Non abbiamo più uomini»
                «So anche questo»
                «Cosa proponi di fare?»
                «Per cosa?»
                «Per dare una mano a mio fratello… hai letto anche tu le lettere, no?»
                «Certo che le ho lette»
                «Dunque?»
                «Lady Mirietta… la nostra era una missione esplorativa, non un’alternativa assodata di risolvere in un colpo solo tutti i guai del Regno Unificato»
                «È grazie a lui se siamo qua! Sono le sue navi quelle su cui abbiamo navigato, e sono i suoi uomini quelli che sono morti!»
                «Sì. Sì, lo so»
                «Era il tuo uomo?» chiese dunque Mirietta, cambiando argomento e riferendosi al principe Kowacz, disteso e sorridente davanti all’esploratrice, «Lui?»
                «Il “mio” uomo» rispose Xenya «implicherebbe un tipo di relazione che io non instaurerei con nessuno»
                «In che senso?»
                «“Mio”, in via esclusiva? No: significherebbe che io sarei quindi stata “sua” in via esclusiva. Siamo persone, non appezzamenti di terreno. Io sono soltanto mia»
                «Capisco»
                «Comunque, principessa, non disperare. È andata male, ma poteva andare peggio»
                «Sì? Dimmi la ragione per cui lo credi, visto che io non la trovo»
                «Non la trovi perché non sai che esiste. Vieni con me». Uscirono entrambe dalla tenda dell’esploratrice; attraversarono una parte del loro campo, in un tragitto non troppo lungo. Giunte dietro una piccola insenatura formata da una grossa roccia, la principessina ebbe modo di osservare delle casse. Xenya ne aprì una, mostrandone così il contenuto alla sorella del re: si trattava di armi. Armi come quella che Sir Muldrow gli aveva mostrato quando, all’inizio della loro permanenza presso la collina dei Kowacz, Xenya e Mirietta lo erano andati a trovare per chiedergli chi fosse. Armi riempite di una strana polvere nera in grado di sparare un fuoco che uccide a distanza, dieci volte più efficacemente di un qualsiasi colpo di freccia. E dieci volte più leggero e più comodo di quello che ci voleva per essere un arciere mediamente letale. Visto che per lo stupore la ragazzina rimase inaspettatamente zitta, fu ancora l’esploratrice a pendere la parola, andando nel dettaglio: «Un gruppo dei miei le ha sottratte a quel vecchio bastardo di Muldrow. Non sono tante da poter ribaltare le sorti di una guerra, ma certo faranno una bella baldoria. Le porterai con te e, lungo il viaggio di ritorno, farai in modo che i nostri uomini si allenino, anche se dubito che sia complesso usarle. Insomma vanno puntate verso il bersaglio e poi… fanno tutto loro»
                «Oh, Xenya!» fece la principessina, grata, abbracciando l’esploratrice, «Grazie, grazie!»
                «Dovere, mia signora. Verso il Regno e verso il re grazie al quale siamo qui, che ci ha fornito le navi sulle quali siamo abbiamo navigato e gli uomini che per noi sono morti»
                «Quando consigli di partire?»
                «Subito, appena la marea sarà propizia. E appena Vostra Grazia lo reputerà consono»
                «Ma tu…» intuì a questo punto Mirietta della Casa Lannister «non vieni con noi?»
                «Una cassa resterà qui» sospirò Xenya «Con me e Pashamanyna: lui è il mio secondo da lungo tempo, non mi lascerebbe comunque»
                «E che farete?»
                «Per prima cosa, c’è da parlare con Muldrow. Mi è parso un uomo piuttosto avveduto, non credo che passerà molto da quando si accorgerà che gli manca tutta quella gran riserva di oggettini che custodiva così gelosamente… bisogna che non la prenda troppo male e che non faccia balordaggini tipo mandare qualcuno a inseguirvi o, peggio, segnalare la cosa al nostro nemico»
                «Muldrow è un dipendente dei Tyrell: come pensi di riuscirci?»
                «I Tyrell perderanno la prossima guerra. Lui, come noi, qui è solo un inviato. È meglio anche per lui che non scoppino troppi casini»
                «Uhm… detto così, è un po’ complesso…»
                «Io posso riuscirci»
                «Rimarrò io! Io sono un membro della famiglia reale, è molto più difficile che mi faccia del male»
                «Sì, e nel caso te lo facesse? Farebbe un favore ai Tyrell, proprio perché sei un membro della famiglia reale. Diciamo… che mi lascerai le tue insegne, in modo da fargli presente che comunque parlo sempre a nome della Corona»
                «Non mi stai dicendo tutto, non è vero? C’è dell’altro…»
                «Una volta che si saranno calmate le acque con Muldrow, io e Pashamanyna continueremo a provare verso nord. Saremo molto più agili questa volta, e molto meno “impegnativi”: nel senso che un nostro eventuale passo falso non causerebbe un ulteriore massacro…»
                «Sì, ma… perché? Sempre per il Regno… o per il tuo insaziabile spirito di avventura?»
                «Per tutt’e due» sorrise a questo punto l’esploratrice; e specificò: «Jorando possiede un falco da comunicazione, l’avrete notato. È dieci volte più efficiente di un corvo, ed è “personale”. Se dovessero esserci novità importanti, lo rivedrai. Pashamanyna possiede inoltre un sacco di carta e un sacco d’inchiostro: adora prendere appunti sui nostri viaggi ed è un piuttosto abile scrittore di ballate»
                «Beh, Xenya, hai previsto tutto… io… non so come ringraziarti»
                «Il tuo sorriso mi basta: non serve altro, amica mia. Fa’ un buon viaggio»
                «Allora arrivederci, mia cara esploratrice» concluse la principessina, ancora una volta sentendo l’esigenza di andare ad abbracciare l’amica. Xenya non c’era molto abituata, ma ricevette e contraccambiò un po’ goffamente il gesto di saluto di Mirietta. Dunque si lasciarono.
 
 
 
                Cavalcando Shirley, Marcus raggiunse la Valle del Leone che era sera. Si era lasciato Yashua e Sawela alle spalle, il primo che a stento aveva ripreso a camminare per conto proprio, il secondo diretto a cavallo presso la sua città di provenienza, Marrah Cankhubhia, ivi inviatovi dal sacerdote del dio rosso con l’ordine di riorganizzare la plebaglia per una rivoluzione che, a questo punto, sarebbe stata posticipata a data da destinarsi. Lord Sawela si era perfino commosso quando aveva preso congedo da Yashua, visto che sapeva che, dirigendosi il sacerdote ad occidente, probabilmente tutto quello a cui avevano lavorato insieme era ormai sfumato: era questo il peggior colpo che il demone di ghiaccio aveva inflitto allo stregone e al politico. Non tanto la morte di uomini e donne che avevano conosciuto, ma la morte di numerosi adepti, più o meno convinti, che avrebbero aderito alla loro causa. La strategia di una imminente ribellione si era conclusa: Yashua andava nel Westeros, e Sawela tornava a fare il suo mestiere di doppiogiochista e fomentatore di folle  a Marrah Cankhubhia.
                Anche Marcus aveva sostanzialmente fallito la sua missione: era partito dalla Valle per aiutare Lord Justus Panecha, il signore di Marrah Cankhubhia che domava gli elefanti, a neutralizzare Yashua. Adesso invece aveva deciso di lasciarsi tutto quello alle spalle, convinto non solo di non dare più la caccia al sacerdote del dio rosso e di difenderlo se le cose fossero andate male, ma perfino di portarselo appresso in occidente. Se non era un fallimento questo…
                Purtroppo per lui, il primo a venirgli incontro non appena tutt’e quattro le zampe unghiate di Shirley poggiarono al suolo, fu quel vecchio attaccabrighe di Sir Winston Cleghorn: l’uomo per il quale Marcus aveva odiato, e odiava tuttora, la Valle del Leone. Ovviamente, Marcus glielo lesse in viso, il vecchio arrivò, seguito da due dei suoi, col chiaro intento di litigare: Marcus glielo lesse negli occhi e d’altro canto come poteva mai essere altrimenti? Lui odiava Marcus, provava verso di lui una specie di atavica invidia; era questo che l’Andalo aveva avuto modo di concludere, anche se ancora non sapeva bene il perché. «Andalo!» esclamò il vecchio, non appena Marcus poté ascoltarlo, «Dovevo immaginarlo: chi altri poteva tornare alla Valle senza neanche uno straccio di preavviso scritto?!»
                «Sta’ zitto, Cleghorn!» esclamò Marcus, facendo quello che per troppo tempo aveva desiderato fare e mai fatto: reagire, «Dov’è Merrin? È con lui che devo parlare!»
                «Con chi credi di parlare, razza di piccolo bastardello impudente?»
                «Non ho tempo di litigare! La situazione è grave, e ho bisogno di parlare con Merrin»
                «Parlerai con me invece!»
                «No, non esiste…»
                «Andalo!» fece dunque Sir Merrin, con tutto un altro tono rispetto a quello utilizzato dall’uomo che, in teoria, era anche il suo superiore. Marcus rispose: «Sir Merrin!»; e Merrin: «Che succede, amico mio?»
                «La guerra! A ovest! Bisogna mobilitarci subito, tutti!»
                «Mobilitarci? Ahahah» rise allora quel grassone odioso del capo della Valle. Anche Merrin, pur senza lo spirito derisorio del suo superiore, constatò: «Guarda che siamo avvisati di una potenziale minaccia a Roccia del Re. Il re, mediante il suo Maestro delle Armi Bolton, ci ha detto che se verrà a conoscenza di maggiori dettagli, ci sarà bisogno dell’intera forza a nostra disposizione trasferita sul continente occidentale…»
                «Perciò, come vedi» continuò Cleghorn, «In questo momento non c’è niente da smantellare! Tornatene a Marrah, figliolo. A proposito: ma com’è poi finita quella missione che dovevi portare a termine con Lord Panecha?»
                «Io…» balbettò per un attimo l’Andalo «Questo è più importante»
                «Più importante?! Figliolo non mi starai dicendo che hai abbandonato una missione per tua pura iniziativa, senza portarla a termine, con la ragione che forse ci potrebbe essere un attacco alla Capitale?»
                «Non “ci potrebbe” essere, ci sarà! Ho visto un esercito di mostri salpare con navi da battaglia dal porto di Valyria». Breve silenzio, e poi le grasse risate di Cleghorn e dei suoi due tirapiedi: certo “esercito di mostri” e “Valyria” tutti nella stessa frase, avrebbero destato un minimo di sospetto anche in lui, se non fossero stati i tempi che erano. Fu a questo punto che l’Andalo, che sapeva bene quello che aveva visto, non riuscì più a resistere e disse tra i denti, un po’ sommessamente ma non tanto che il diretto interessato non lo arrivasse a percepire: «Vecchio porco!». Ovviamente subito Cleghorn replicò con un: «Brutto…!» e fece per saltargli addosso: era da una vita che non aspettava altro, quel vecchio porco inacidito. Ma Merrin decise di mettersi in mezzo, dicendo: «Va bene, va bene: basta così. Cleghorn… lascia… lascia che ci pensi io»
                «Sì, pensaci tu! Perché se dovesse capitarmi tra le mani giuro che l’ammazzo, quel finocchio di un figlio di papà dell’occidente che non è altro!»
                «Marcus: vieni con me» concluse Sir Rabastan, obbligandolo fisicamente, mediante spintoni, a procedere insieme verso il castello.
                Lo portò nel tipico luogo di Sir Merrin: la zona della grande struttura riservata all’ospitale delle chimere. C’era anche Jasmina lì: tanto per cambiare, aveva le mani su di una grossa chimera dolorante. E subito, oltre alla sua adorata cerusica delle chimere, Marcus si accorse anche di tre chimere giovani che più o meno le stavano attorno: una aveva due teste. Erano chiaramente le tre piccole di Shirley: Obsidian, Ruby e Sapphire; come erano fatte grandi! Stando all’esperienza e all’occhio dell’Andalo, non proprio da cavalcare, ma quasi, il che lo sorprese: lui sapeva benissimo che, se ben nutrite, le chimere erano animali caratterizzate da una maturazione fisica particolarmente rapida, ma… Ruby, Obsidian e Sapphire così grandi… semplicemente non se lo sarebbe mai immaginato!
                Non appena giunsero all’ospitale, fu lo stesso Rabastan Merrin per primo a segnalare a Jasmina la presenza di Marcus, prima chiamandola per nome e poi indicando il principe con un gesto del capo. Lei lasciò tutto quello che stava facendo, mollò la presa su quei grossi attrezzi di ferro che da sempre maneggiava e corse verso di lui. Si baciarono a lungo, come se non si fossero visti non per mesi (come effettivamente era) bensì per anni: evidentemente, per loro due, fu questa la sensazione. Detto ciò Merrin, che da una parte sapeva che i due giovani non avrebbero resistito, ma dall’altra aveva anche una gran fretta, disse rivolto a Marcus: «Allora: si può sapere che ti è preso?»
                «Io… ho visto un esercito… di mostri, a Valyria»
                «Che ci facevi a Valyria?»
                «Scortavo Yashua»
                «Perché?!»
                «All’inizio… ho pensato che se mi ci avvicinavo forse sarebbe stato più facile eliminarlo»
                «Ti trovavi da solo con Yashua a Valyria e non l’hai ucciso?»
                «Panecha non lo vuole morto per il momento. Voleva che lo spiassi, e poi… non eravamo da soli, c’era Garhel Sawela con noi: è un suo “confratello”, così li chiama lui»
                «Garhel Sawela?»
                «Sì, ma Sir Rabastan, ti prego: fammi concludere. Creature… mezze uomini e mezze bestie: dotate di braccia e le gambe, ma anche di musi da felini e pachidermi e rettili… si sono imbarcate in navi da guerra in numero buono da comporre un esercito credibile. E da un testimone sappiamo che sono diretti alla Capitale!»
                «Che genere di testimone?»
                «Che importanza ha?! È attendibile»
                «Marcus… io non sono Cleghorn: lo sai. Io ti credo. Non direi mai che a sud ti sia stato somministrato un qualche composto in grado di crearti delle allucinazioni, quando non sia stata la fame a creartele: guarda che è possibile»
                «NON SI TRATTA DI ALLUCINAZIONI!»
                «Lo so, lo so, amico mio… per quanto mi riguarda, fino a qualche decennio fa, anche credere nell’esistenza delle chimere poteva esser considerata un’allucinazione, eppure guardaci ora! Io ti credo…»
                «Allora QUAL È IL PROBLEMA?!»
                «Marcus… l’assalto del demonio di ghiaccio di qualche mese fa ha decimato più della metà dei nostri animali, subito sul colpo o dopo per le ferite… io non so quanto potrebbero essere utili in una vera battaglia, visto che non ne hanno mai vista una e… francamente non ne ho mai vista una neanch’io… sembra che Cleghorn sia orientato a rifiutare un eventuale richiesta di utilizzo delle chimere della valle presso la Capitale al momento, e io la penso come lui: a cosa servirebbe sterminare anche le nostre chimere, oltre a quelle che già si trovano a Roccia del Re, e oltre agli uomini e alle donne che vi si trovano?»
                «Stai davvero facendo questo discorso…?»
                «Devo farlo…»
                «Beh, allora, visto che mi ci costringi, lascia che ti dica una cosa, vecchio: quelle che il re rivolge verso di voi non sono “richieste”, sono ordini! E voi non potete discuterli: nessuno di voi. Né Cleghorn e men che meno tu…»
                «Marcus… sai quante volte le disposizioni di Lord Bolton sono state contrarie a quello che il re in effetti desiderava? Molte volte, eppure qui le abbiamo eseguite. E dunque, per la stessa logica, mi trovo costretto a ricordarti che: se nessuno è in grado di obbligarti coercitivamente a fare una cosa… allora il tuo non potrà mai essere un ordine»
                «Qui state tradendo… il vostro re, il Regno Unificato!»
                «Aspetta, figliolo, guarda che ancora non ci è arrivata formale richiesta da nessuno, tranne che da te: e tu non hai alcun potere… ora non precipitiamo le cose! Io ti ho parlato con il cuore in mano, da amico»
                «Sei una persona che preferirebbe salvare la vita di delle chimere, piuttosto che degli esseri umani, Sir Merrin: fatti un paio di domande! Io non lo voglio un amico così!»
                «In questi mesi sei stato a contatto con una chimera come una amica! Hai visto che razza di compagne possono essere, non sono animali qualsiasi!»
                «È vero hai ragione! Le chimere non sono animali qualsiasi, e Shirley mi è stata molto vicina. Si crea un legame tra chimera e cavaliere, non metto in dubbio questo… lei mi ha salvato la vita più di una volta e… è mia amica. Ma su una cosa hai torto, Sir Rabastan: non è stata l’unica. Sai credo che forse Yashua non abbia poi tutti questi torti riguardo a noi uomini dell’occidente»
                «Ah. Così è questo il vero problema: un fanatico religioso ti ha lavato il cervello. Ora si spiegano molte cose… brutta roba la religione: comincia a farti credere convintamente in cose che non esistono»
                «Smettila»
                «Dèi onniscienti e onnipotenti che per qualche ragione non intervengono mai, messaggi di uguaglianza che si realizzano con la violenza e l’omicidio…»
                «Basta!»
                «O creature infernali che improvvisamente si materializzano su questa terra per rovesciare il mondo degli uomini, corrompendo le loro anime e… assaltando le loro città». Che delusione! Merrin non aveva creduto a una sua parola fin dall’inizio, e pensare che era grazie a lui che Marcus aveva rivalutato quello schifo di Valle del Leone, aveva iniziato ad appassionarsi per le chimere e per la loro cura e infine… era perfino diventato cavaliere…
                Amareggiato, quasi in lacrime, il giovane principe Lannister continuò a guardare fisso il suo vecchio mentore, poi si rivolse a Jasmina, ma senza mai distogliere il suddetto sguardo: «Su, andiamo Jasmina… voliamo verso Marrah»
                «Marcus, i-io…» balbettò la cerusica delle chimere, e solo allora l’Andalo si accorse che lei non aveva avuto il coraggio di intervenire neanche una volta, quasi neanche di fiatare, mentre il suo capo e il ragazzo di cui era palesemente infatuata discutevano, accusandosi l’un l’altro delle peggiori cose: l’uno di essere un sociopatico con solo chimere per amiche, e l’altro di essere un fanatico religioso che vedeva eserciti di mostri. Sempre solo allora, l’Andalo si accorse che gli occhi della bella Jasmina erano gonfi di lacrime. «I-il mio posto è qui» balbettò ancora lei «s-sono nata e cresciuta qui, è qui che lavoro. Sir Rabastan è come un padre per me»
                «C’è lavoro anche alla Capitale. Ci sono ottimi Maestri, anche migliori di questo fanatico…»
                «Io non sono una cittadina dell’ovest, non ho alcuna qualifica. Non è che posso presentarmi nel luogo delle chimere della Capitale e dire: “hey, lavoravo con le chimere alla Valle del Leone: prendetemi con voi”. Non funzionerebbe…»
                «Ti prego… Jasmina… fallo per me… stanno succedendo cose che… vanno ben al di là di una professione… per favore: credimi»
                «N-noi… stiamo facendo un ottimo lavoro qui, ehm… Raywhen s’è quasi ripresa… ha-a bisogno di me»
                «Credevo di averne anch’io» concluse Marcus con freddezza, estremamente deluso. Diede le spalle al suo vecchio amico e mentore e alla fanciulla dell’oriente che per un certo periodo gli aveva fatto battere il cuore. Diede le spalle alle grasse risate di quell’imbecille di Sir Cleghorn ancora fuori dal castello, e dei suoi ruffiani, sempre potenziali candidati alla rottura dell’osso del collo se avessero desiderato prendere per la prima volta una chimera un domani o un giorno ancora dopo. Con il gelo nel cuore, il principe Andalo, Cavaliere della Chimera – o forse non più – si mise a cavallo dell’unica amica rimastagli tra quelle dune e ritornò a sud.

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Capitolo 26
*** Ancora guerre imminenti ***


Capitolo 26
ANCORA GUERRE IMMINENTI
 
 
                Le navi con cui Mirietta stava tornando a Lannisport erano ancora all’orizzonte, che Xenya non attese oltre e, dando le spalle al tramonto, si diresse a parlare con il tirapiedi dei Tyrell su quel continente: il vecchio Sir Muldrow. Quando raggiunse l’ufficio di quest’ultimo, il medesimo della prima volta, lui si rivelò di nuovo fin da subito cordiale: le sorrise e gli andò in contro, falso come la castità di un Septon. Dunque esordì: «Allora non avete smantellato l’intera compagine, mia signora… voi siete ancora qui»
                «Sì» rispose Xenya, che invece era assai tentata dalla voglia di provocare, «E ho con me le insegne reali: la parola del re del Regno Unificato si trova ancora su questo continente, Sir Muldrow»
                «Per quanto valore essa possa avere quaggiù, non convenite?»
                «State forse mancando di rispetto al vostro re, signore?»
                «Mai, mia cara Lady… sto realizzando che o non ricordo o non ho mai saputo il vostro nome…»
                «Xenya. E non sono una Lady»
                «No? E allora che siete?» rise il vecchio Sir, tra i baffi, «Un cavaliere?»
                «Un’esploratrice»
                «Ahahahah», a questo punto la risata di Muldrow si connotò di un’aria un po’ sinistra. Xenya provava letteralmente orrore per quella grossa macchia nera che gli copriva parte del viso; un segno così oscuro, che così violentemente cozzava con il resto delle cose mediante cui quell’individuo si manifestava: la vecchia tonaca da monaco, e il modo di fare affabile e ruffiano. Fu Xenya stavolta a ricominciare il dialogo: «Mio signore… vi sarete accorto che di recente vi manca qualcosa…». Improvvisamente il sorriso fasullo sul volto mezzo carbonizzato del vecchio, divenne irritato e minaccioso. Disse lui: «Così ci siete voi dietro a questa storia? E non vi sforzate neanche di fingere che non sia così… perché?»
                «Perché l’uso che faremo noi di quelle armi sarà molto più importante di quello che ne facevate voi, lasciandole chiuse in casse nascoste dentro magazzini sotterranei»
                «Cosa? Ma di che diavolo stai parlando, ragazza?»
                «Io e i miei uomini andremo a nord. Visiteremo la casa degli uomini-draghi. Ed esploreremo quella parte del continente che voi non avete avuto il coraggio di fare»
                «Non l’abbiamo mai fatto perché fino ad ora ci è stato assai sufficiente tutto quello che abbiamo trovato dalla baia in giù…»
                «Si tratta di una missione esplorativa, cosa che – come vi ho detto – sostanzialmente riguarda il mestiere che faccio da una vita. Useremo Kowacz e uomini dei nostri: voi non dovrete spendere né vite umane né tantomeno danari. Se non dovessimo tornare, non avreste perso niente, se non un paio di armi che sono sicura sarete in grado di fabbricare ancora, conoscendone il segreto. Se invece torneremo… condivideremo le nostre scoperte con voi»
                «E tutto ciò solo in cambio delle mie armi che esplodono fuoco?»
                «Sì»
                «Mh… mia cara Xenya… le mie fonti mi informano che, da quando si trovano in vostra compagnia, i Kowacz sono tornati a subire un attacco da parte degli uomini-drago, cosa che, sempre stando alle mie fonti… non succedeva da secoli. E mi viene detto anche che è impossibile sconfiggere gli uomini-drago, e che nella storia di questo continente ciò non è mai accaduto. Dunque… ritengo che seppure avrete avuto dei sopravvissuti da un simile scontro, essi non siano in grado di intraprendere un viaggio talmente impegnativo verso nord, entrando nella casa dei nemici che li hanno appena ridotti a quel modo… e poi… quanti sopravvissuti potranno mai esserci? Tanti da usare ciascuno una delle mie armi? Estremamente improbabile»
                «Sì, è vero, signore, abbiamo subito un attacco da parte degli uomini del nord del continente, ed è vero: si sono rivelati particolarmente feroci e hanno uccisi molti miei uomini. Eppure, Sir Muldrow, vi invito a usare spie Sayun che sappia contare meglio… sono rimasti abbastanza uomini in piedi per l’impresa, avete la mia parola». Detta questa colossale idiozia, Xenya attese. Sapeva benissimo che mentire a quell’uomo era un azzardo, e che stava giocando col fuoco. Tuttavia aveva pensato e ripensato sino a quando aveva concluso che non c’erano altre alternative, e dunque si era recata in quell’ufficio già con l’intenzione di bluffare. Quando Muldrow gli aveva testè rivelato che li aveva spiati e che sapeva dello scontro con gli uomini-drago, un brivido le corse lungo la schiena. Eppure si riscoprì una bugiarda particolarmente efficace, e continuò a mentire. Adesso il silenzio del vecchio Sir tornava a farla stare in tensione. Lui cambiò discorso, domandando: «Perché Lady Lannister ha deciso di andare?»
                «Voi sapete come sono questi aristocratici…» continuò a mentire Xenya, questa volta facilmente, visto che a quella domanda si era preparata, «Una mattina si svegliano tutti eroi degni delle più alte imprese, e alla sera tornano a letto con la coda tra le gambe e la voglia dei cuochi della loro cucina e degli abbracci dei loro papà conti e duchi. Lady Mirietta si è stancata, e se n’è andata… lasciando a me la parte più delicata del programma»
                «Lei sapeva della vostra ruberia ai miei danni?»
                «No»
                «Sei una tipetta impudente, ragazza: devo ammetterlo. E ciò mi incoraggia: sembri il tipo di persona che in effetti nella vita sceglie di fare l’esploratrice… e… magari anche il tipo che riesce a scoprire qualcosa, se ben supportato. L’affare è fatto, allora. Cerca di tornare tutta d’un pezzo: mi piace molto conversare con te»
                «Grazie, mio Sir»
                «Tuttavia… non ci saranno problemi se alla tua compagine aggiungerò un paio dei miei emissari Sayun, giusto? Loro sono… degli ottimi arcieri». Peccato. Xenya sentiva ormai di aver concluso; pensava di avercela fatta! Pregustava già la sensazione di valicare quei territori inesplorati in compagnia del solo Jorando Pashamanyna e di un paio di quelle graziose piccole armi da fuoco. E invece, alla fine, Muldrow le aveva rovinato tutto il piano: dei suoi emissari si sarebbero accorti che gli unici ad avere l’intenzione di partire per il nord erano Xenya e Pashamanyna, e che moltissime delle armi sottratte non erano alla collina dei Kowacz. Era un problema che l’esploratrice non poteva affrontare, a meno che…
                «Mi va bene» fece la donna rivolta al Sir «Ma solo uno»
                «E perché mai?»
                «Non partiremo in molti: una compagnia troppo numerosa fa rumore ed è difficile da gestire» si scoprì di nuovo a mentire Xenya: stava paraticamente inventando una valida menzogna dietro l’altra «Il numero era stato deciso. Ma per uno dei vostri, tanto per dimostrarvi che siamo in buonafede, faremo un’eccezione»
                «D’accordo, Xenya l’esploratrice, mi hai convinto. Andrai a nord con le mie armi. Attendi il mio emissario al di fuori della porta principale, sarà lui stesso a presentarsi»
                «Signore» salutò dunque l’esploratrice, e s’incamminò verso l’uscita.
                Quello che accadde dopo fu esattamente quello che lei si era prefigurato. Salvo per il fatto che l’uomo di Muldrow parlasse – anche se in maniera maccheronica – la lingua comune di loro conquistatori provenienti dall’altro continente (e si fosse persino presentato con il nome di “Tampepe”), e per altre due o tre cosette di scarsa rilevanza, tutto il resto procedette liscio come l’olio. L’emissario dell’uomo dei Tyrell arrivò in effetti al villaggio devastato dei Kowacz, constatò che non c’erano armi né molti uomini (del Westeros nessuno), e fece per andarsene via di corsa… ma quando sia Xenya che Pashamanyna riuscirono a fermarlo, non solo minacciandolo di morte mediante quelle stesse armi da fuoco che erano rimaste, ma dicendogli anche che lo avrebbero lasciato libero di andare se lui semplicemente si fosse prima limitato a intraprendere serenamente il viaggio con loro, allora lui accettò di seguirli.
                Passò del tempo. Le navi con cui Mirietta aveva lasciato il continente erano ormai salpate da settimane, e da altrettanto tempo Xenya, Pashamnyna e il giovane arciere Sayun – di nome Tampepe – si erano introdotti nella foresta che piano piano saliva verso la montagna. Alla fine Tampepe si era rassegnato alla realtà che non aveva molte alternative se non adeguarsi. Qualcun altro si sarebbe subito tolto il pensiero facendolo fuori, per poi raccontare a Muldrow che erano stati gli uomini-drago, ma Xenya non era quel tipo di persona… intendeva davvero lasciare libero il Sayun, una volta portata a termine la missione. Il vero scontro con Muldrow non era dunque stato realmente evitato; era stato solo posticipato…
 
 
 
                Dalla battaglia di Cowain e dal successivo assassinio di Lorthan Tyrell a Dorne erano ormai passate parecchie settimane. Inutile negarlo: si era trattato di una disfatta; Lord Constant Lannister aveva avuto modo di pensarci a lungo ed era questo che aveva concluso.
                Sebbene l’intento iniziale era quello di tornare a Valyria, alla fine si era concluso che per l’intera compagine fosse meglio non allontanarsi troppo dall’obiettivo finale, e fu così che come stazione di approdo si scelse infine una piccola isola in mezzo al mare tra Valyria e il Westeros, ufficialmente appartenente ai principi di Dorne, ma in realtà non molto conosciuta ai cartografi e ai burocrati della Capitale. Quel punto era effettivamente ottimo come raccordo tra la zona verso la quale dovevano tornare, e la zona presso la quale avrebbero dovuto prendere il resto degli “uomini” – se così li si potevano chiamare – che avrebbero composto l’esercito per la presa di Roccia del Re.
                Quello che Constant contestava non era tanto il luogo scelto in sé, ottimo dal punto di vista di Sir Bastian e del suo fantomatico fratello Signore delle Dune (Shane Tyrell non aveva praticamente più voce in capitolo, nonostante fosse stato lui a mettere a disposizione l’isolotto), ma era la ragione per cui si era scelto quel ripiego. E la ragione era che la guerra doveva avere luogo; riprendere il prima possibile. Niente ferite ricevute a Cowain da leccare, nessuna riorganizzazione, niente di tutto ciò. La nuova direttiva era di contrattaccare subito, il prima possibile: battere in sostanza il ferro finché fosse ancora caldo. Ma tutto ciò come se non fosse accaduto niente, come se la disfatta di Cowain non avesse rivelato alcunché, e invece qualcosa a parere di Constant aveva rivelato: per prima cosa, che il loro nemico aveva a disposizione forze simili alle loro. Forse non esattamente “sotto controllo”, visto che la ragazza di ghiaccio in teoria era pur sempre un burattino del drago Requiem, e forse neanche esattamente all’altezza – Constant pensava che lui da solo magari no, ma con l’ausilio del Signore delle Dune era probabile che poteva batterla – ma… andiamo: che le forze del re del Regno Unificato potessero annoverare anche una Criomante era una cosa che nessuno avrebbe mai potuto mettere in conto.
                Il suo voto era inizialmente dunque andato per il ritorno a Valyria, e per una più lunga riflessione sul dafarsi. Ma il Signore delle Dune, per voce di Sir Bastian – Constant non aveva ancora capito nemmeno come i due fratelli riuscissero a comunicare, visto che lo stregone apparentemente lì con loro non c’era – si era dimostrato particolarmente ostinato sulla cosa. Aveva deciso che dovevano organizzare subito il contrattacco, contrariamente all’opinione del Lord Primo Cavaliere, il quale a un primo momento fu anche tentato di mollare capre e cavoli e tornare a lavorare per conto proprio. Eppure, riflettendo lucidamente su di una serie di ragioni, alla fine decise di restare: se voleva davvero riportare Ladylynn alla vita, doveva necessariamente farlo con l’ausilio di Bastian e del Signore delle Dune, perché a loro comando era l’esercito che avevano a disposizione.
                Era ancora perso in queste sue meditazioni di rinascita e di vendetta, quando Bastian lo raggiunse in quella piccola stanza che Constant aveva adibito a suo appartamento privato: l’isola non era di per sé molto grande, e il palazzo dei vecchi principi di Dorne su quel suolo, abbastanza ridicolo… la più piccola dimora signorile che il Primo Cavaliere avesse mai veduto in vita sua.
                «Mio signore» esordì il fratello del Signore delle Dune «Vi comunico che le navi saranno qui tra poco… è una questione di giorni»
                «Come le sapete queste cose, Bastian?»
                «Beh, mediante mio fratello…»
                «Ma dove lo vedete? Lui non è qui… sto cominciando a pensare che si trovi dentro la vostra testa…»
                «Lui… si manifesta tramite forme di comunicazione fumose: crea delle impalpabili immagini di se stesso, e mi parla… è un tipo di magia molto diversa da quella che… fate voi»
                «Va bene» concluse Constant, pensando che Bastian desiderasse congedarsi, «Grazie molte»
                «Ehm…» insistette invece il guerriero «Signore…»
                «Sì, ditemi pure»
                «Potete darmi del tu se volete…»
                «D’accordo, Bastian»
                «Io desideravo sapere… se avete cambiato idea»
                «In merito a cosa?»
                «All’assalto a Roccia del Re»
                «È tuo fratello a chiederlo?»
                «No, assolutamente. È solo che… sì, insomma, ho pensato che una, volta morto il vostro candidato al Trono di Spade, voi non avevate più ragioni per sostenere la nostra causa…»
                «Andiamo, Bastian: potrei dirti che in realtà io ce l’abbia ancora un candidato, e che quel candidato si chiami Shane della Casa Tyrell. Ma mi pare fosse chiaro quale fosse il mio primario interesse…»
                «Sì» fece il biondo ometto, con un’espressione di compassione, «È solo che trovo assurdo volersi vendicare con i figli per delle colpe commesse dal padre… indipendentemente da quale sia stato il crimine, per me è una sciocchezza irrazionale»
                «Ti ho già detto che io non intendo uccidere i miei nipoti, ma solo…»
                «Sì, solo fare in modo che non regnino… è assurdo lo stesso, mio signore»
                «Sembrerebbe che tu voglia convincermi a desistere… perché allora tu fai questa guerra, che cosa ti tiene così saldamente incollato al comando di quell’esercito di mostri degenerati?»
                «Voi avete ben presente quel demonio con il teschio nero che ha lottato fianco a fianco a noi nella battaglia di Cowain, giusto?»
                «Certo… personaggetto curioso…»
                «Beh, lui ne ha altri…»
                «Altri cosa?»
                «Altri servi… legati a lui da un incantesimo»
                «Se sono tutti come quello di cui si è sbarazzato la ragazza di ghiaccio, allora non li temo»
                «No. I loro poteri sono di diversa entità: c’è come una specie di gerarchia. Quello da cui non si separa mai, che gli fa da guardia personale… l’ho visto io stesso concentrare tra le mani l’energia di un cielo in tempesta e abbatterla sui suoi nemici»
                «Sì? Non li temo comunque…»
                «Forse voi no, ma io sì. Temo mio fratello; temo il suo progetto; temo la sua smania di potere; temo la sua ira… e certo avrei timore di una sua vendetta»
                «Non parli di lui come si parla di un fratello: te ne sei mai reso conto? Che cosa che vi lega davvero
                «No: noi siamo… siamo cresciuti insieme…»
                «Sì, ma pur essendo così, non è per questo che tu continui a servirlo: non è vero? Da come lo descrivi, sembrerebbe che nessuno voglia avere a che fare con un individuo del genere, e dunque quello che ti chiedo è… perché, Bastian?»
                «Un… giorno vi dirò meglio la storia di me e mio fratello, Lord Constant, ma per il momento…»
                «Per quello che vale… voglio che tu sappia che se fossi mio fratello, come dici di esserlo del Signore delle Dune, io non permetterei mai che tu abbia paura, men che meno di me stesso. Hai visto le cose che sono capace di fare… eppure io non ambisco ad essere temuto. Rispettato, considerato certo. Ma “temuto”… non fa parte del mio lessico. Raccontami di tuo fratello, ora»
                «No» insistette Sir Bastian, anche se Constant si accorse chiaramente che il cuore dello pseudo-cavaliere stava titubando, «Non… posso»
                «Ti sarai senza dubbi accorto che io ho già aperto il mio, di cuore, con te… lo farò ulteriormente: è vero, non è il solo desiderio di non vedere più il sangue di mio fratello sul Trono di Spade a spingermi ad agire sulla Capitale. La battaglia sarà grande e piena di combattenti dall’una e dall’altra parte. Molti moriranno: un quantitativo tale di cadaveri che saranno perfino utili per fare un rituale. Si tratta di un’operazione molto complessa, naturalmente non facilmente replicabile, visto che ci vogliono tutti quei corpi morti di fresco. E… non so neanche se sarò in grado da solo…»
                «Mylord, ho capito bene? Voi avete intenzione di causare tutte quelle perdite per realizzare un incantesimo?»
                «Sì»
                «C’entra con Lady Ladylynn non è vero?»
                «Ladylynn è morta, Bastian»
                «Sì, ma il vostro incantesimo riguarda il suo cadavere, la sua anima… cose di questo genere…»
                «Sì»
                «Dunque è così: uomini e donne moriranno a Roccia del Re per un vostro più che personale interesse. Personale e malvagio! Che diamine, Lord Constant, pensavo che almeno voi aveste qualche rotella in mezzo a tutto questo caos, e invece… siete molto più folle di mio fratello» concluse Sir Bastian, inorridito e insieme arrabbiato, lasciando Constant nella sua piccola camera da solo, a crogiolarsi nei suoi pensieri di vendetta e altre strane meditazioni da stregoni.
                Constant, dal canto suo, si pentì quasi subito di quello che aveva fatto. Per un attimo, un breve istante, aveva avuto la sensazione di potersi fidare di quel tizio dal titolo inesistente, non ci aveva riflettuto molto e gli aveva confessato quello che mai a nessuno aveva detto. Solo Anylice e Requiem sapevano di quel piano, e lo sapevano perché a Constant era necessario che lo sapessero. Ma né Lorthan, né Septimus e né tantomeno Shane erano mai stati informati del suo reale progetto: fare sì dei Tyrell i nuovi signori del Regno Unificato, ma farlo dopo una bella battaglia piena di vittime, utile per realizzare il suo tanto agognato rituale.
                Alla fine, Constant aveva deciso di provarci comunque: non aveva alternative. La gente a Roccia del Re sarebbe morta in ogni caso ormai, che male c’era nel servirsi di qualche cadavere? L’unico problema era che forse non ci sarebbe riuscito: non aveva mai davvero capito l’entità della cosa, Requiem non gliel’aveva mai spiegata nei dettagli. E se quel farabutto di un drago gli avesse semplicemente mentito, e Constant sarebbe riuscito a resuscitare Ladylynn anche senza l’ausilio di un altro mago? Se anche solo fosse stata plausibile una possibilità del genere, allora lui aveva tutta l’intenzione di provare…
                Affacciandosi dall’unica finestra della piccola camera, il Lord Primo Cavaliere osservò Shane Tyrell, tutto intento a scambiare una chiacchierata con degli uomini-bestia, i quali normalmente per loro natura non erano affatto dei buoni conversatori. Shane non era Lorthan: lui era davvero un bravo ragazzo. Se avesse avuto il polso di divenire re e sopravvivere ricoprendo quel ruolo, Constant non solo non avrebbe potuto dirlo, ma nutriva parecchi dubbi. Shane gli ricordava per molti versi suo nipote Axelion, anche lui un così bravo ragazzo… ma così inadatto al governo di qualsiasi cosa, figurarsi del Regno Unificato. Il re era riuscito a fare uccidere il suo nemico, Lorthan, ma questo probabilmente perché in preda ai consigli, e agli artigli, di chissà quali più esperti consiglieri: il primogenito di Lionel, di suo, mai e poi mai avrebbe ordinato la morte di qualcuno, ivi incluso un suo giurato nemico, di questo Lord Constant Lannister era sicuro. E Shane… avrebbe fatto la stessa fine se non supportato e aiutato. Fu allora che Constant incominciò a realizzare che probabilmente il suo ruolo di Primo Cavaliere, per come pure aveva teorizzato, non sarebbe finito con la battaglia di Roccia del Re. Shane avrebbe avuto bisogno di una mano, almeno nei primi anni. E lui ci sarebbe stato.
                Quanto al Signore delle Dune, e al suo succube fratello cui Constant aveva avuto la malaugurata idea di fidarsi… il Primo Cavaliere non aveva granché preoccupazioni: il Signore delle Dune non lo aveva mai veduto. E Bastian… era solo un ometto che stava giocando a un gioco più grande di lui, e che decisamente aveva bisogno di affetti più sani. Fidarsi di lui non era stata una gran mossa, ma non costituiva neanche una grande tragedia: Constant gli avrebbe risparmiato la vita, se Bastian avesse fatto il bravo. E qualora non l’avesse fatto… non ci sarebbero stati fratelli magici in grado di riportarlo da dove lui lo avrebbe mandato.
 
 
 
                A poco a poco, Axelion della Casa Lannister vide la città “boltonizzarsi”. Uomini con divise in cui da qualche parte campeggiava l’orrido simbolo della Casata del Maestro delle Armi riempivano ormai le strade, le piazze e i luoghi più pubblici di Roccia del Re. E non era una sensazione dettata dal gusto personale di Axelion: il simbolo dei Bolton era davvero orrido. Si trattava di un uomo collocato a testa in giù su un asse di tortura e normalmente colorato di rosso per dare il senso della sua pelle scuoiata. Era il simbolo di un antico retaggio, una volta in gran voga presso quella gente del nord: quello di applicare una simile tortura sui nemici. Ma perché decidere di usarlo come vessillo, come se fosse un vanto o una gloria, e farlo proprio tanto da perpetrarlo per secoli fino al giorno d’oggi… di questo il re non riusciva a giustificarne le dinamiche.
                Ne aveva parlato con Lord Henrich una volta, e lui gli aveva spiegato di come in effetti non aveva la minima idea del perché non fosse mai stato cambiato nel corso del tempo. Ma stava di fatto che era il loro simbolo, e i Bolton continuavano a tenerlo come fosse una rosa profumata per i Tyrell o una nobile chimera per i Lannister. Lord Henrich si era rivelato un vero amico, e Abigail si era rivelata non solo una consorte premurosa, ma anche una discreta stratega, visto che aveva avuto lei l’idea di boltonizzare la città. Eppure la cosa inevitabilmente aveva riempito Roccia del Re di un alone di tensione anche superiore di come già non ce ne fosse tra le mura di quella città. Prima il clima era quello di una costante potenziale guerra civile del popolo contro la classe dirigente, popolo che nonostante ormai si fosse definitivamente arreso, continuava sempre più a morire di fame, ammalarsi e indebolirsi: tanto che forse non aveva neanche più la forza per reagire. Adesso invece, con tutti quegli uomini nuovi e armati in giro per la città, la tensione si sostanziava come in un senso di attesa… attesa per un pericolo imminente da venire; un pericolo che non si sapeva bene se portato dagli uomini o dai diavoli.
                Da Mirietta, Axelion non riceveva più informazioni, ed era inutile negare l’evidenza del fatto che il re ormai tutte le sere pregasse per la vita della piccola Lady sua sorella, mandata nell’ovest in mezzo a pirati e mercenari. Era inutile negare che il re di questo si reputasse responsabile, anche più del fatto della morte di Lorthan Tyrell. Anche quello lo tormentava, ma almeno per Lorthan si sarebbero potute trovare delle valide ragioni, se mai davanti agli dèi fossero esistite ragioni per l’assassinio di un uomo. Da un po’ di tempo ormai gli dèi erano i principali interlocutori del re, il quale con una cadenza minima di tre volte al giorno interrompeva qualsiasi cosa stesse facendo per andare a pregare. All’inizio, lo aveva indirizzato il Gran Maestro Irwin su quella strada, strada che – sempre all’inizio – si era rivelata piuttosto utile, permettendogli di realizzare più di un inatteso successo. Ma da un po’ re Axelion non riceveva vere buone notizie, eppure continuava a pregare. Vero: la città si era riempita di più uomini armati, più di quanti il re non ne avesse mai visti neanche includendo nel conto la sua infanzia, ma questa poteva considerarsi una buona notizia? Il buon esito del piano di Abigail di portare con le navi del re gli uomini dei Bolton giù a sud, al fine di difendere la città da una guerra che probabilmente sarebbe arrivata presto, poteva mai essere considerata una buona notizia?
                Città che peraltro continuava a non avere delle vere e proprie difese navali: quelle che erano rientrate da nord, non erano buone per fare una guerra, e non erano abbastanza numerose. Una volta era esistito un potente mezzo di reagire dalla costa contro navi nemiche, una formula alchemica in grado di scatenare il fuoco dell’inferno sulle navi avversarie, senza lasciar cadere sul suolo della Capitale neanche una minima scintilla. Fonti antiche narravano di momenti in cui Roccia del Re fosse stata difesa anche per il solito merito di tale preziosissima arma, preparata dai Maestri della Capitale. Ma col passare del tempo, o si perse la formula per realizzarla o se ne estinsero le sostanze che costituivano gli ingredienti per prepararla. Roccia del Re non subiva un attacco forse da millenni, e probabilmente era anche unitamente a questo fatto che la perdita dell’Altofuoco non aveva mai consistito per secoli chissà quale problema… fino a quel momento. In quel momento, re Axelion avrebbe pregato qualsiasi dio per un paio di ampolle di quella roba: qualsiasi dio tra quelli esistenti, naturalmente.
                Stava pregando i Sette presso una sua piccola cappella personale di recente allestimento, chiedendogli in particolar modo che, indipendentemente da come andasse la guerra imminente, lasciassero almeno salva la vita di sua moglie, suo figlio e un paio di altre persone a lui care, quando uno dei guerrieri-ombra gli si avvicinò alle spalle, battendo piano con la mano. Era la prima volta che accadeva che qualcuno interrompesse un suo momento di preghiera: gli pareva che fosse abbastanza chiaro che non desiderava essere interrotto da nessuno per nessun motivo, a parte cose eccezionali come il nemico alle porte. Ma Axelion Lannister non era il tipo d’uomo che si alterava, umiliando chi gli aveva disobbedito e strepitando come un qualsiasi borgataro della locanda: non solo non era proprio nella sua natura, ma non trovava affatto corretto farlo. Dunque, si limitò a chiedere tra i denti, ma senza voltarsi e senza rialzarsi dalla posizione inginocchiata: «Cosa c’è?»
                «Maestà, Lady Hana desidera vedervi subito»
                «Ma… sto pregando!»
                «È urgente, maestà»
                «Navi nemiche?»
                «Navi sì, nemiche no», concluse il guerriero-ombra prima di dileguarsi, lasciando il re degli Andali e dei Primi Uomini con non pochi sospetti…
                Le navi con cui Mirietta era giunta a Roccia del Re avevano lo stesso problema di quelle di cui il re già disponeva: non erano adatte alla guerra, ma a lunghe navigazioni, e inoltre… erano soltanto due. Eppure la grande novità che sua sorella gli portava dall’occidente non era affatto da poco: si trattava di armi. Armi innovative, di facile utilizzo, che lanciavano come un’energia di fuoco in grado di spaccare un vaso a distanza: questa fu la prova che la piccola Lady sua sorella portò all’attenzione del re, delle Lady Hana ed Abigail e dei Lord Maestro delle Armi Bolton e Gran Maestro Irwin. Le spie del re lo avevano informato su che razza di nemici Roccia del Re si apprestava eventualmente ad affrontare: stando a quello che gli arrivava da Cowain, si trattava di uomini con tratti animali, dotati di pelli particolarmente dure. Ma un colpo in mezzo agli occhi di quella specie di balestra di fuoco sicuramente avrebbe raso al suolo chiunque di loro. Era stata una splendida notizia e un’ottima idea che il re, dopo i momenti spesi a riabbracciare la sorella e domandarle come stava e che aveva veduto nel corso del suo viaggio, non poté esimersi dal rendere merito, affermando: «Complimenti, sorella mia… non voglio dire che hai cambiato le sorti di questa eventuale guerra imminente ma… che diamine: ha scompaginato un bel po’ la situazione»
                «Ti ringrazio, Axelion, ma il merito è di Xenya l’esploratrice»
                «Allora renderò a lei il merito quando la rivedrò: si tratta, forse, della più grande esploratrice di tutti i tempi, sicuramente della migliore da un paio di secoli a questa parte… e hai detto… che questi tuoi uomini sono anche già in grado di usarle… le balestre sputa-fuoco?»
                «Sì. Guiderò io stessa il gruppo degli artiglieri speciali, in caso di battaglia»
                «Dunque sei addestrata anche tu…» s’intromise Lord Bolton «Lady Mirietta?»
                «Sì, signore, lo sono»
                «Ma una Lady che va in battaglia…»
                «Discuteremo della cosa» disse Lady Abigail della Casa Baratheon «quando e se mai Roccia del Re verrà attaccata»
                «Verrà attaccata, mia signora» aggiunse Lady Hana, rivolta alla consorte del re, «Sul quando avete ragione: non possiamo saperlo, e forse non lo sapremo molto tempo prima dell’attacco… ma verremo attaccati, è una certezza assoluta»
                «E comunque» fece ancora Mirietta «conosco bene gli uomini, le armi e il loro addestramento. Non posso che essere io il loro comandante»
                «Lady Mirietta» tornò a contraddirla Lord Bolton «vi assicuro che disponiamo di comandanti se non esattamente validi quanto voi, almeno…»
                «E poi, Lord Bolton, se mi lasciaste finire… volevo anche dire che questa è una scelta che può spettare a me sola, e al massimo al re mio fratello»
                «Lady Mirietta» intervenne il Lord Gran Maestro, fino ad allora rimasto in silenzio, «Noi siamo i consiglieri del re: fornirgli le nostre opinioni è il nostro dovere»
                «Sì, ma io sono sua sorella. E il re presterà maggiore attenzione ai pareri provenienti dalla sua famiglia, con tutto il rispetto… Lord…?»
                «Gran Maestro» sorrise il giovanotto dai capelli chiari «Irwin»
                «Che ne è stato del vecchio Septimus? Era il Gran Maestro praticamente dall’alba dei tempi…»
                «Linciato dalla folla» la informò Bolton, e Abigail aggiunse: «Sono cambiate parecchie cose, Lady Mirietta, da quando voi siete partita per l’ovest…»
                «Posso chiederti, sorella» disse ancora Hana, che era stata la prima a correre incontro a Mirietta e stringerla forte non appena, con il re, si era recata nel piccolo porticciolo di esclusivo uso della Corona dove le due piccole navi della ragazzina erano attraccate, «Come mai sei venuta qui con sole due navi?»
                «Beh, Hana, che senso aveva ripartire da Lannisport con l’intera flotta? Una volta giunti lì, ne ho lasciata la gran parte, e sono venuta con quelle necessarie per trasportare i miei uomini e le casse con le nuove armi»
                «Questo significa… che il resto della flotta si trova a Lannisport, è esatto?»
                «Sì»
                «È relativamente vicina…» constatò il re, illuminato, «Potremmo avere una difesa navale credibile di qui a un paio di settimane! Non… sono navi da battaglia: ma sono parecchie! Forse non ogni cosa è perduta…»
                «E noi ce le abbiamo» si chiese a questo punto la consorte del re «Un paio di settimane?»
                «Sì» affermò il Gran Maestro Irwin, convinto, «Con il volere degli dèi, miei cari lord e lady. Con il volere degli dèi». A questo punto, il re e il suo nuovo amico Gran Maestro si scambiarono un’occhiata complice e soddisfatta. Dopodiché il breve Concilio più che ristretto che era stato convocato venne congedato, e Axelion passò con le sue sorelle il resto della giornata. Interruppe la rimpatriata solo una volta tanto, giusto per concedersi un po’ di tempo per pregare.

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Capitolo 27
*** Rocce e fiamme ***


Capitolo 27
ROCCE E FIAMME
 
 
                Mentre marciava insieme a Sir Elthon della nobile Casa dell’estremo nord degli Applegate, Daniel rifletteva amareggiato su tutto quello che gli era successo nell’arco di così poco tempo. La morte di due amici, e anche di due maestri: Cordell che conosceva fin da quand’era bambino, che aveva servito suo padre e forse in parte anche il padre di suo padre e ai cui famigliari Daniel doveva prima o poi inviare la tragica missiva senza avere la minima idea di cosa scriverci sopra. E Nidhogg, uno dei cinque draghi dell’origine, una figura leggendaria che… forse non era effettivamente morta, forse era semplicemente “mutata”, come a lui piaceva pensare… ma non sarebbe stata più accanto al principe per completare un addestramento che di sicuro non era finito. Il drago si era sacrificato per lui, per salvargli la vita. E se n’era andato degno dei migliori onori mai tributati a uomo sulla faccia della terra.
                Col malvagio drago di ghiaccio Requiem, invece, Daniel sentiva di aver lasciate fin troppe cose in sospeso. Anche se qualcosa il drago gli aveva detto (tipo che si preparava la grande guerra al sud), inevitabilmente il principe Piromante non poteva non pensare al fatto che fosse stato tutto troppo frettoloso. Nidhogg non gli aveva detto: “incontra mio fratello, e poi corri subito via come un codardo”; dunque Daniel lo aveva disatteso. Inoltre sempre più pressante e fastidioso si faceva il pensiero della promessa che il giovane Piromante aveva fatto alla bellissima Criomantessa Anylice, per sempre legata a un incantesimo da Requiem finché il drago stesso non fosse morto. E Requiem non pareva avere affatto l’intenzione né di morire né di “mutare”. Dunque Daniel aveva disatteso anche la ragazza di ghiaccio che una volta gli aveva salvato la vita. Le aveva fatto una promessa e semplicemente non l’aveva mantenuta.
                Così, mentre scendeva a sud, il principe secondo in linea di successione al trono ragionava sempre di più sul fatto che, anche se il suo cuore lo voleva a Roccia del Re con i suoi fratelli e sorelle, c’era una parte di esso che, unitamente con il lavorio della coscienza, voleva che risalisse a nord, presso il ghiacciaio che era la casa di Requiem, e lì uccidere il drago malvagio o perire nel tentativo di farlo. Certo non poteva trascinarsi Elthon appresso: non sarebbe stato eticamente corretto mettere anche lui a rischio, e poi il giovane cavaliere biondo sarebbe stato il primo che Requiem avrebbe cercato di mettersi tra le fauci; questo il drago lo aveva già manifestato piuttosto chiaramente. Conclusione: più scendeva verso sud, più le idee nella testa del principe Daniel si facevano confuse ed oscure.
                Daniel raggiunse il castello dell’Ultima Porta insieme al padrone di casa, Elthon, e lì si rifocillò, nutrendosi e riposandosi fino alla tarda mattinata dell’indomani. Avrebbe voluto ulteriormente riflettere sui problemi che l’assillavano nel corso della notte, ma un sonno profondo lo prese tra le sue braccia cullandolo come un pupo almeno fino appunto alla tarda mattinata dell’indomani. E avrebbe continuato a dormire, il principe Daniel, se non fosse giunto l’amico Sir Elthon a destarlo; c’era qualcosa nel volto del giovane cavaliere che non lo convinceva affatto: sembrava preoccupato, anche quasi allarmato a dire il vero. Fu il giovane Applegate stesso a cominciare: «Signore, mi rammarico di doverla destare ma… ecco, il sole è alto e… ci sono delle novità».
                Elthon si rifiutò di informare da subito il Piromante su quali fossero queste novità di cui gli aveva narrato: non celò la preoccupazione che gli si leggeva così chiaramente in viso, e ammise che non erano buone nuove, tuttavia insistette perché il suo principe si svegliasse completamente, lavasse la faccia e facesse una abbondante colazione, prima di sapere quello che doveva sapere. Dunque, quando il pane dolce sul piatto di Daniel era ormai quasi in procinto di finire, Applegate disse: «Signore, è in corso una battaglia»
                «Le… solite schermaglie fra voialtri Applegate» domandò dunque il principe Piromante «e i Willoughby traditori?»
                «Sì, ma non è solo questo. L’esercito di Uryon Worchester, l’orso del sud, è finalmente giunto in ausilio di quei bastardi biancostellati. Mio padre ha cercato di concentrare tutte le forze che ha potuto e si stanno battendo ora su una piana non troppo distante dalla nostra capitale, Alberocasa. Anche se ci hanno colti di sorpresa, i nostri sono più numerosi e sicuramente meglio armati dei Willoughby, dei Worchester… non so. Sta di fatto tuttavia che, venendo i Willoughby da nord, e i Worchester da sud, si sono stretti come una tenaglia sui nostri. Sostanzialmente stiamo resistendo, ma per quanto potrà durare? Mio padre è ancora lì in mezzo»
                «È un tragedia… se solo mio fratello il re lo sapesse…»
                «È una situazione troppo grande perché la Corona non ne sia già informata, signore. Il sud, e anche i Bolton, non possono aiutarci, poiché apparentemente sono distratti da qualcos’altro… una ribellione o una guerra, ma qualcosa di abbastanza grande da costringere il re a concentrare tutte le sue attenzioni in casa propria. Probabilmente Uryon Worchester, che è l’uomo meglio informato dell’intero nord, ha atteso proprio che scoppiassero questi problemi del sud prima di concedersi di venirci a trovare. È un uomo molto astuto, e solo gli dèi sanno che cosa può avere in testa. Ma certo non si sarebbe mai sognato di attaccarci, se con ciò avesse rischiato un intervento unitario e repentino dal sud. Solo che il sud per ora non può essere repentino, e forse neanche unitario»
                «Sono scesi perfino i Bolton… erano… erano loro i guardiani del nord, cioè… i diretti sorveglianti, appositamente preposti da mio padre per controllare quest’area dell’occidente. Insomma… c’era un tacito accordo su tutto ciò, io lo so perché è una cosa che non puoi non sapere se sei membro della famiglia reale»
                «Stiate sereno, signore: non mi state dicendo nulla di nuovo. Sanno tutti che da secoli i Bolton sono gli arbitri delle vicende del nord, vista la loro speciale intesa col governo centrale. Solo che adesso, a quanto pare, anche il grosso dell’armata dei Bolton si trova a sud»
                «Addirittura… ma che diavolo sta succedendo?»
                «Non lo so. Ma forse avremo le idee più chiare, se riusciremo a prendere vivi Waldo Willoughby e in particolar modo Uryon Worchester…»
                «Significa vincere una guerra da soli, voi Applegate! Come mai potreste fare?»
                «Beh, mylord, noi abbiamo… un amico potente, che guarda caso si trova proprio qui dinanzi a me». Sentendosi un imbecille per non averci pensato lui stesso, Daniel rifletté d’improvviso sul fatto che in effetti anche lui, se fosse stato Elthon Applegate, avrebbe fatto in modo di farsi riflettere su questo punto. Certo, con i poteri che aveva acquisito e che, per quanto incompleti, da quando aveva intrapreso quel viaggio verso nord, Daniel sentiva addirittura consolidati e accresciuti, se la sarebbe benissimo sentita di combattere in una battaglia. Che potesse addirittura capovolgerne le sorti, magari non era proprio in grado di dirlo: visto che c’erano troppi elementi (gli uomini ancora in piedi degli uni e degli altri, il suolo, il clima e altre cose così) che Daniel non conosceva e su cui non si sentiva molto in grado di esporsi, e visto anche che si sarebbe trattato della prima battaglia della sua vita. Di una cosa però era certo: considerava quantomeno curioso che qualcuno potesse torcergli un capello, prima che lui avesse atterrato almeno una quindicina, anche una ventina, di uomini. Era chiaro il perché Sir Elthon guardasse a lui non tanto e non soltanto come un asso nella manica, ma quanto proprio a una vera speranza. Solo che questo metteva non poco i bastoni tra le ruote nei programmi del principe…
                Ancor prima di risalire verso sud, senza Elthon, per uccidere Requiem, Daniel di Cowain aveva ragionato sul fatto che, già che si trovava all’Ultima Porta, sarebbe stato davvero assurdo non adempiere a un’altra delle mansioni che il suo maestro drago Nidhogg gli aveva indetto prima di spirare: ovvero raggiungere nuovamente la Grande Quercia. Per quali ragioni, andando a trovarci cosa, Daniel questo non lo sapeva: ma il drago era stato chiaro; aveva detto che avvertiva che la magia era in tumulto in quel momento e che sentiva che alcune risposte Daniel le avrebbe ritrovate alla Grande Quercia. Il principe aveva teorizzato di lasciare il castello, possibilmente senza neanche avvertire, poi raggiungere il monte Cabuk e infine Requiem… le novità postegli da Lord Applegate ora rigettavano tutti questi suoi bei piani nel caos.
                Forse intuendo un dubbio sul viso del suo signore, Elthon – che aveva il padre, la casa, la famiglia e gli amici in pericolo dati i nuovi sviluppi – decise perfino di travalicare la gerarchia, insistendo senza non molti giri di parole: «Lord Daniel, voi ricordate… che quel giorno, proprio in questa fortezza, dopo che l’intero nostro seguito si fu inginocchiato garantendovi la più assoluta fedeltà, voi ci faceste una promessa?»
                «Sì…»
                «Prometteste che avreste fatto quanto in vostro potere per darci una mano, se ce ne fosse stato il bisogno. Beh, la Casa Applegate ne ha ora più che mai»
                «Ma le cose sono cambiate da quel giorno, Sir Etlhon, io…»
                «Permettetemi di aggiungere solo una cosa, sire. Se voi davvero trovaste una ragione per… temporeggiare… se, per qualche motivo, foste costretto ad arrivare troppo tardi, allora non sarà possibile considerare mantenuta la parola. E allora io mi chiedo a che diavolo valgano le tanto decantate parole “un Lannister paga sempre i suoi debiti”, se vi riservate la possibilità di scegliere quando, come e se farlo…»
                «Va bene, Elthon. La vostra richiesta è chiara e quantomai condivisibile. Vi chiedo solo di darmi del tempo per rifletterci un po’ su»
                «Va bene, signore. Vi lascio da solo» concluse Elthon, e lasciò il tavolo della colazione del suo principe. Daniel invece rimase lì ancora per un tempo che dapprima gli parse solo qualche minuto, e poi si accorse esserne diversi. Pensò e ripensò a una soluzione utile per sciogliere quel nodo, si arrovellò fin quasi a farsi scoppiare un gran mal di testa. Dunque decise, e agì di conseguenza…
 
 
 
                Ancora una volta nelle loro vite, il principe Marcus della Casa Lannister e questo suo nuovo, inquietante, amico di nome Yashua, vestito di stracci e autoproclamatosi figlio di un dio del bene e della luce, poggiarono i loro piedi sul suolo dell’arcipelago Valyriano, una volta oltrepassate via aria – mediante le possenti ali della chimera Shirley – le onde di un mare costantemente in tempesta per ragioni oscure, ma che molto probabilmente c’entravano con la magia.
                Tutto in quel luogo antico e leggendario a Marcus dava l’idea di entrarci con la magia. E d’altro canto, era pur vero che in mezzo a quelle rovine il giovane Cavaliere della Chimera aveva avuto modo di osservare: un’ombra con il suo stesso volto uscire da una ciotola e liberarlo da una cella, un esercito di animali con braccia e gambe come esseri umani, un colosso di roccia brandente mazze ed asce e con un teschio nero al posto del capo, una sfera di energia in grado di proferire parole. Se non era magia quella, allora il giovane cavaliere si chiedeva che cosa mai essa fosse…
                Siccome questa volta i due avevano un’idea un po’ più precisa del luogo dove si trovavano, non gli fu complesso aggirare la zona in cui, stando ai loro programmi, avrebbero potuto incontrare il guardiano di roccia, per dirigersi direttamente alla enorme voragine, accessibile mediante decrepite scalette arrugginite, dove al culmine di un sistema di tubi di ferro si trovava la sfera dentro la quale se ne stava imprigionato quell’essere di energia parlante con voce di donna. Ma le loro aspettative vennero subito disattese non appena il cavaliere e lo stregone si accorsero che il maledetto gigante dal teschio nero e l’ascia bipenne per qualche ragione si trovava proprio lì, ma non in loro attesa: era come se avesse deciso di trascorrere il suo tempo insieme con la creatura nella sfera. Non parlavano: il demone non pareva tipo dalla facile conversazione. Però stavano insieme: lei dentro la sfera, e lui seduto poco più avanti.
                «Se c’è una cosa» cominciò dunque Yashua rivolto a Marcus «che ho imparato da quell’altro abbietto figuro che ha distrutto la mia casa e ucciso i miei fratelli, è che probabilmente la parte scheletrica di colore brunastro è la fonte primaria della loro energia»
                «Dunque?»
                «Dunque bisogna spiccargli la testa via da tutto il resto»
                «Bene. E come facciamo?»
                «Me ne occupo io. Ma ho bisogno che sia distratto»
                «Devo» concluse dunque Marcus Lannister, poco convinto, «fare da esca?»
                «Io non l’avrei posta in questi termini, ma se è così che vuoi metterla…»
                «Yashua: non ho speranze contro quel mostro. Il mio addestramento può avermi preparato al massimo contro un altro duellante di natura… insomma: umana»
                «Non si tratterà di molto tempo. Basta che sia abbastanza preso dalla voglia di farti fuori».
                Fu così che il principe terzo in linea di successione al Trono di Spade venne fuori dal luogo di ottima copertura nel quale fino ad allora era rimasto nascosto, insieme al sacerdote del dio del deserto. Andò serenamente incontro al mostro, e forse alla morte, mentre Yashua spariva ancora una volta tra le dune. In segno di sfida, o comunque di non aver intenzione di farsi malmenare, fu lui per primo a sguainare la propria arma: una spada di medie dimensioni, tipica dello standard di cui si dotava la Valle del Leone. Non appena lo vide, senza armarsi a sua volta, senza corrergli repentinamente in contro, senza scomporsi, ma limitandosi a passare dalla posizione seduta a quella in piedi, il diavolo di roccia urlò con un tono di voce abbastanza alto da farsi sentire chiaramente nonostante la discreta distanza: «Ancora tu!». Tutte le volte che Marcus udiva quel tipo di voce, che già pure aveva avuto modo di ascoltare non solo nel mostro lì presente ma anche in quell’altro di ghiaccio nel deserto di Marrah Cankhubhia, rabbrividiva fin nel profondo, visto che, nonostante ascoltasse suoni e vocaboli uguali a quelli della sua lingua comune, in realtà era come se quei suoni non provenissero da un sistema organico composto da sangue e carne, ma da qualcos’altro… qualcosa di una natura profondamente diversa. Il demone proseguì: «Hai trovato comoda la nostra cella e desideri tornarci dentro?»
                «No!» rispose il principe sorprendentemente a tono «Sono venuto a liberare la povera creatura rinchiusa dentro quel vetro»
                «Ahah» rise il mostro, e ora sì: sguainò la sua grossa ascia, «Dovresti prima sconfiggermi. Il che, te lo preannuncio, non è solo improbabile… è decisamente impossibile»
                «Allora perirò provandoci»
                «Se è quello che desideri». Non era vero che Marcus fosse davvero così sprezzante del pericolo di morire. Pensava di avere tanto per cui ancora vivere: con Jasmina si erano lasciati forse con un po’ di delusione ma… inutile prendersi in giro: lui pensava ancora a lei e sentiva che anche lei, stando a come lo aveva guardato l’ultima volta che si erano lasciati, probabilmente pensava ancora a lui. Poi c’era la famiglia, e i fratelli da andare ad assistere nel momento forse di più grave crisi non solo della loro famiglia ma dell’intera dinastia di cui tutti – Marcus, Axelion, Daniel, Hana e Mirietta – portavano ancora il cognome. Ma la vera e pura verità era che Marcus era ancora giovane e chissà quante cose il destino poteva riservare a una vita per molti versi ancora da vivere: ergo probabilmente non avrebbe accettato di morire neanche se non avesse avuto un’esatta ragione per continuare a sopravvivere.
                Ma in quel momento il Cavaliere della Chimera doveva limitarsi a fingere. Fingere, provocare e resistere fino a quando Yashua non fosse intervenuto; la cosa naturalmente era molto più semplice a dirsi che a farsi… al primo impatto della robusta ascia, brandita da un’ancora più robusto e decisamente inumano braccio, Marcus tentò di parare il colpo con la propria spada. E capì dunque che non era il caso di rifarlo: praticamente quel semplice colpo rischiò insieme di atterrarlo, rompergli l’arma e ledergli perfino direttamente l’arto. Fu così che il principe cavaliere capì bene che lo scontro corpo a corpo con quell’essere non fosse la tattica migliore; ebbe inoltre modo di notare che i colpi del bestione, per fortuna e per una quantomai onesta legge della fisica della natura, sebbene assai poderosi, erano anche ragguardevolmente lenti. Schivarli, per il giovane e secco Andalo, non si rivelò pressoché mai un problema.
                Ma il duello continuò così, senza particolari sorprese, fin quando, mentre nel mostro non riusciva a intercettare neanche un accenno di perdita delle forze, in se stesso l’Andalo non poté che constatare un certo sudore e un certo fiato corto. Capì che non sarebbe durato a lungo, dunque, giusto per provare una nuova disperata tattica, decise di domandare al bestione: «Ma tu chi diavolo sei? Qual è la tua natura? E quale quella della povera prigioniera di cui sei il guardiano?»
                «Non sono autorizzato a darti di queste risposte!»
                «Necessiti di un’autorizzazione? Tu? Una creatura così rara e possente!»
                «La mia esperienza mi dimostra che c’è sempre qualcuno di superiore al tuo superiore, giovanotto. Si tratta di una linea infinita, quella del potere»
                «Qualcuno ha potere su di te?»
                «Potrebbe, certo»
                «Incredibile solo a pensarlo! E come potrebbe questo qualcuno coercitivamente costringerti a fare qualcosa contro la tua volontà? O… punirti se fai del male? Egli è davvero così potente?»
                «No, aspetta… il fatto che egli possa esercitare un potere su di me, magari non è dovuto a una sua effettiva facoltà… magari possiede uno strumento che io non ho»
                «Uno strumento di che genere?»
                «Il sigillo! Senza di esso non me ne starei certo qui a tenere imprigionata e sfruttata la signora Kimera…», e fu solo in questo momento che il mostro si accorse di aver riferito fin troppo al suo nemico. Il cervello di Marcus l’Andalo cominciò ad arrovellarsi su cosa diamine potesse essere questo sigillo, e chi questa Kimera: poteva essa mai entrarci con le creature addomesticate e cavalcate dai cavalieri della Valle sotto diretto protettorato della Corona? Cos’era: una “madre delle chimere”, forse? Ma non ebbe il tempo di pensarci a lungo: il grosso omone di roccia, avendo percepito di essere appena stato canzonato dal suo avversario, considerevolmente irritato, cominciò a cercare di rendere più repentini e letali i suoi attacchi. Fu in quel momento che il Cavaliere della Chimera, fino ad allora illesa, cominciò a subire i primi colpi del nemico, sebbene non fatali. Aveva un fianco e una gamba già feriti e dolenti, quando si accorse di Yashua, tutto intento a cercare di sganciare la boccia di vetro dalla struttura di ferro arrugginito nella quale essa se ne stava incastonata. Capì che la stava liberando, e capì che stava pensando prima a quello che a intervenire sul demone per salvare Marcus. Pensò inoltre che forse, probabilmente, se volevano vederci più chiaro su tutta quella questione dei demoni con il teschio nero, probabilmente era il caso di parlarci un po’ con la prigioniera signora Kimera, piuttosto che renderla libera un po’ alla cieca. Dunque decise di far saltare la copertura e urlò forte: «YASHUA! NO!».
                Troppo tardi. Nello stesso momento in cui Marcus gridava scoraggiato quelle parole, il gancio di ferro si rompeva e la boccia di vetro cadeva al suolo. Naturalmente, anche il demonio dal teschio nero, udito il clangore, si volse verso il sacerdote del dio rosso e la sua prigioniera appena liberata. A nulla valse il “no” di pura rabbia con cui corse verso il nuovo avversario: lo spirito si concentrò in un denso fumo di luce verde chiaro e sparì nel vuoto, lasciando disperse nell’aria, in maniera aleatoria e facilmente confondibile, delle poche algide parole, che Marcus riuscì a interpretare in questo modo: «Vi sarò per sempre grata».
                Dunque il mostro di roccia, ringhiando a Yashua, fece: «Lo sai che cos’hai fatto?!», prese poi lo stregone per il collo e incominciò a stringere. Gli sarebbero bastati probabilmente pochissimi istanti per far scoppiare la testa del sacerdote del dio rosso, ma fu in pochissimi istanti che l’Andalo raggiunse di corsa il demone e, brandendo con tutta la forza che aveva in corpo la propria spada, gli tranciò di netto il teschio nero via dalla montagna di pietra che ne costituiva il resto di quel corpo, così simile a una caricatura di quello umano. Cercando in tutti i modi di riprendere aria, Yashua – vistosamente agitato, preso quasi come da una questione personale – scavalcò la roccia senza vita e si precipitò sul teschio. Dunque aprì i palmi delle mani e liberò l’energia di fuoco che gli circolava dentro le membra. Fu lo spruzzo infuocato più intenso, caldo e devastante che Marcus avesse fino a quel momento mai visto creare al sacerdote del dio del deserto. Non solo: Yashua si affaticò talmente a causa di quella operazione, che Marcus lo vide coi propri occhi cominciare a soffrire fisicamente. Eppure il “figlio di Dio” perpetrò ancora e ancora il suo incantesimo fino a quando uno strato abbastanza denso di fiamme non ricoprì interamente il teschio bruno. Dopodiché, sfinito, si accasciò al suolo.
                Rimase sconcertato, così come anche Marcus della Casa Lannister, nel vedere che al posto di una poltiglia di liquido nero, nel luogo che aveva ricoperto di intense fiamme si trovava una struttura di forma ovoidale, anch’essa in pietra ma di una pietra lucida il cui grigio era talmente limpido e brillante da assomigliare per molte ragioni a un bianco sporco. «C-c-che…» balbettò a questo punto Marcus «Che cos’è questo?»
                «Non ne ho la minima idea!» gli rispose Yashua, il cui tono spossato e basito, era in realtà fortemente sovrastato da una sempre più montante ira delusa. Non passò molto, che il grosso uovo di pietra cominciò come a vibrare da dentro, poi a creparsi. Le crepe si moltiplicarono velocemente sempre di più fino a ricoprire l’intera struttura in una specie di fitta ragnatela. Dunque, sempre lasciando i due spettatori non poco sorpresi, l’uovo andò in mille pezzi, rischiando perfino di colpirli agli occhi, anche se per fortuna la cosa non accadde. Quello che ne venne fuori, fu qualcosa che inizialmente a Marcus parve come una specie di concentrato d’aria in movimento: una specie di minuscola tormenta grossomodo delle dimensioni dell’uovo appena distrutto, se non leggermente più piccola. Le cose si fecero più chiare quando a poco a poco quell’insieme di dense correnti connesse fra loro non cominciò a disperdersi: e mentre il vento, come se fosse comunque retto da una forza centrale, cominciava a raccogliere attirando verso di sé molte delle cose attorno al proprio baricentro (anche se soprattutto pietre), dal centro dell’energia spuntava fuori sempre lo stesso teschio nero, ma stavolta connaturato da un sorriso di gran lunga più malvagio. Il mostro disse, con una voce diversa e molto più spettrale e profonda di come non l’avesse avuta in precedenza: «Non avesti dovuto farlo».
                Quando Marcus e Yashua si resero conto che la nuova energia che era spuntata al posto dell’omone di roccia era in grado di scagliare pietre – grossi massi – verso di loro, prima un po’ goffamente, ma poi con sempre maggior precisione, si guardarono tra di loro. Il Cavaliere della Chimera in particolare doveva aver avuto in volto un’espressione quantomai atterrita, visto che lo stregone sacerdote si sentì in dovere di comunicargli: «Io non sono in grado di affrontarlo. Nello stato in cui sono, non potrei neanche accendere una candela», e dunque concluse: «Devi chiamare Shirley».
                Questa volta l’Andalo ci aveva visto più lungo e aveva deciso di lasciare Shirley a una distanza non troppo eccessiva dal luogo dove sapeva si sarebbe recato: ovvero la grande voragine con i tubi di ferro arrugginito e la boccia di vetro con dentro rinchiusa la prigioniera chiamantesi – ora lo sapeva – Kimera. Che Shirley fosse arrivata presto, adesso era più probabile dell’ultima volta, ma non era ugualmente detto che lui avrebbe fischiato nel fischietto e di sicuro la sua chimera sarebbe venuta immantinente: poteva capitare che perdesse un po’ di tempo se fosse in un momento di particolare attenzione verso una preda prelibata da gustare al sangue. Marcus e Yashua avevano quel tempo? Forse no: ma ancora una volta non c’erano alternative… Dunque l’Andalo afferrò il suo bel fischietto, che teneva al collo, e vi soffiò dentro. Quasi contemporaneamente, prima un grosso masso colpì Yashua nella piena bocca dello stomaco, e poi un altro si posò sul piede destro dell’Andalo cavaliere. Ne arrivò un altro precisamente calibrato al fine di spappolargli il cranio, ma, nonostante il dolore al piede, il giovane principe Lannister riuscì a trovare la prontezza per schermarsi schivandolo. Intanto il teschio nero al centro della folata diabolica continuava a ridere malvagio, minaccioso, soddisfatto.
                Allora, e solo allora, Shirley venne giù dall’orizzonte e, nonostante la resistenza causatagli da quelle anomale folate che scaturivano dalla nuova energia del mostro dal teschio nero, riuscì ad atterrare. Attese dunque che lo zoppo Marcus e il quasi senza forze Yashua gli salissero sul dorso, e infine tutti e tre tornarono a librarsi nell’aria insieme, volando via da quel luogo di mistero, dolore e morte.
                La battaglia era conclusa, e il cavaliere e il sacerdote l’avevano vinta a metà. Da una parte, erano riusciti a raggiungere l’importante traguardo di liberare quella strana prigioniera, che nessuno dei due sapeva bene chi fosse, ma che di sicuro doveva essere qualcuno di molto importante, visto che non soltanto il demone di roccia si era irritato parecchio della sua liberazione, ma accadde anche che Marcus e Yashua – e questa fu la vera novità – poterono osservare le acque attorno all’arcipelago di Valyria ritornare acque “normali”, calme e serene, cosa che, sebbene non certa, non poteva non fargli pensare che ci fosse un legame di qualche genere con la libertà della ex prigioniera Kimera. D’altro canto, Yashua e Marcus erano stati sconfitti nello scontro con il diabolico guardiano: fiacchi, indeboliti, avevano lasciato sul suolo, ancora forte, e forse più forte di prima, quel diavolo che controllava le rocce. Inoltre la cosa li aveva anche indeboliti al punto che probabilmente avrebbero dovuto rallentare considerevolmente il loro viaggio verso Roccia del Re, che Marcus invece, fino a prima della calata a Valyria, aveva programmato di intraprendere quanto più presto e più repentinamente possibile. Le prospettive generali non erano cambiate, ma certo la loro realizzazione si faceva ora più complessa…
 
 
 
                Originariamente l’idea di raggiungere la capitale degli Applegate, schiacciata a nord dai Willoughby e a sud dai Worchester, Daniel la considerò poco praticabile. Dunque optò per disattendere la sua promessa ad Elthon e al Lord suo padre e marciare verso la Grande Quercia. Tuttavia, dopo un nuovo confronto con il cavaliere biondo che ormai da diverso tempo viaggiava al suo fianco, capì che in effetti la cosa non era poi così complicata come l’aveva teorizzata: se Elthon infatti avesse dovuto muoversi con tutto il suo seguito (una quarantina di uomini in tutto) e senza il principe di Cowain al suo fianco, il programma si sarebbe fatto veramente complicato da realizzare. I Willoughby li avrebbero immediatamente fatti prigionieri e così si sarebbe presto risolta la loro impresa, rapida e decisamente fallimentare. Ma l’idea di Elthon era quella di lasciare i suoi uomini all’Ultima Porta, e intraprendere il suo nuovo viaggio esclusivamente con Daniel: in due si sarebbero potuti muovere più rapidamente e con una maggiore possibilità di non farsi scoprire. Inoltre, un qualsiasi manipolo di Willoughby, per quanto grande potesse essere, sarebbe comunque stato un manipolo, visto che il grosso dell’esercito si trovava alla piana di Alberocasa; e Daniel era un Piromante: non ci avrebbe impiegato molto tempo ad abbrustolire un gruppo di Willoughby, per quanto armati o agguerriti potessero essere.
                Il principe secondo il linea di successione al trono scelse dunque di mettere per il momento da parte i due obiettivi di raggiungere il Monte Cabuk e poi di nuovo quella spelonca sotto i ghiacci dove Requiem risiedeva. Sarebbe andato ad Alberocasa, a mantenere la propria promessa. A pagare quel debito che, in quanto Lannister, era tenuto a fare.
                Non trascorsero molti giorni dalla loro partenza dalla magione dell’Ultima Porta alla grande piana nella quale si stava svolgendo la grande guerra del nord. Il principe e il suo cavaliere avevano viaggiato a passo medio-rapido, senza intoppi e piuttosto al sicuro. Avevano aggirato ogni punto nel quale drappelli di uomini con la stella bianca su campo nero si erano sistemati per impedire il passaggio, o quantomeno controllare chi passava. Non avevano ucciso nessuno e, di una decina di volte che avevano attraversato un qualche stretto passo di montagna, per solo una erano arrivati allo scontro. Per il resto, tutto era filato liscio come l’olio e, al ventottesimo giorno del loro viaggio, Daniel ed Elthon raggiunsero la Piana di Alberocasa.
                Un’enorme tendopoli dove si raccoglieva l’esercito Applegate, se ne stava piazzata al centro preciso della piana, dove peraltro sorgeva anche il castello di quei Lord dell’estremo nord: appunto Alberocasa. Gli altri accampamenti si trovavano ai due lati, stella bianca a nord e orso rampante a sud. In mezzo, su entrambi i fronti, imperava una battaglia che, a giudizio di Daniel, era già sul finire: tutti gli uomini, da qualsiasi parte fossero schierati, più che andare avanti impavidamente con tutta la voglia di distruggere il nemico, procedevano fiacchi, colpendo un po’ a casaccio. Si sarebbe detto davvero che la guerra stava finendo, non fosse stato che ancora il numero di uomini in piedi, da entrambe le parti, restava approssimativamente uguale. E come facevano gli Applegate a dichiararsi sconfitti, se Willoughby e Worchester insieme non avevano la forza di sovrastarli ed occupare il loro castello? E come facevano invece, sempre i cavalieri della mela, a dichiarasi vittoriosi, se ancora due distinti eserciti nemici li pressavano alle falde del loro stesso territorio? C’era poco da fare: si trattava chiaramente di uno stallo.
                Daniel era riuscito a raggiungere la tenda del Lord degli Applegate, il quale lo accolse come se fosse stato un salvatore mandato dagli dèi. Il signore di Alberocasa evidentemente non era molto in sé: lo si notava già dai movimenti a scatti e i nervi tesi che aveva, ma ancor di più Daniel poté constatarlo dai discorsi che fece… gli disse infatti che era sicuro della sua venuta perché l’aveva visto in sogno la sera prima. Gli fece un resoconto a prima analisi lucido della situazione: dicendo che, anche se lo scontro pareva pari, in realtà di lì a qualche giorno gli Applegate sarebbero stati sconfitti perché – cosa su cui Daniel non aveva ragionato – non avevano molti approvvigionamenti, mentre il nemico, trovandosi nelle aree esterne del campo di battaglia, veniva costantemente rifornito, specie i Worchester. Poi però disse che gli dèi gli avrebbero garantito la vittoria a prescindere da tutto, e che, in attesa di un loro segnale, lui sarebbe stato disposto a rinchiudersi dentro il suo castello, a costo di morirci dentro di inedia, con il resto degli uomini, le donne e i bambini che rimanevano. E poi se ne uscì con quella cosa del sogno, e Daniel capì che la situazione lo stava facendo squilibrare.
                La situazione, data la sua presenza, non era improbabile che venisse ribaltata, ma non era una certezza: Daniel era sempre uno, mentre Willoughby e soprattutto Worchester erano sempre un mucchio, e sempre costantemente riforniti. Se putacaso, anche solo per mera fortuna, un qualsiasi arciere nemico lo avesse colpito, allora l’asso nella manica degli Applegate si sarebbe concluso in niente di diverso che una vana speranza. Questo oltretutto era anche un pensiero che a poco a poco si faceva sempre via via più presente nella testa del giovane Piromante Lannister: come già più e più volte preso in considerazione, quella sarebbe stata pur sempre la sua prima battaglia su campo.
                Ma Daniel riuscì a mettere da parte ogni remora, fosse essa dovuta alle sue ansie per la battaglia, o a quelle ispirategli dalla follia del vecchio Lord che aveva palesemente perso la bussola. Aveva promesso di intervenire, ed in effetti intervenne. Si dedicò prima al settore dei Willoughby, più traballante di quello dei Worchester, e sconfisse i nemici a dozzine. Quello che temeva, non si realizzò, e non venne colpito non solo da alcuna freccia, ma neanche da alcun colpo di spada. Probabilmente per ragioni di sola mera fortuna, ma Daniel rimase illeso. C’era di sicuro tutta una parte dell’esercito nemico indirizzata al suo annientamento, data la poderosa arma che lui si era rivelato, ma d’altro canto anche gli Applegate si erano organizzati, anche grazie alla sapiente guida di Sir Elthon – che era davvero un validissimo guerriero – ed erano riusciti a disporre un non inefficiente sistema per cercare di prendersi loro quanti più colpi possibili destinati al loro Piromante.
                Sebbene, dopo non sapeva quanto tempo ma sicuramente parecchio, Daniel di Casa Lannister cominciasse a sentire un po’ di stanchezza, continuò imperterrito la propria battaglia, scagliando tante fiamme quante mai non ne aveva prodotte tutte assieme. Si stava stancando, ma a quanto pareva il nemico cominciava a ritirarsi. Le unità Willoughby ormai erano di gran lunga inferiori a quelle Applegate: questi ultimi dunque stavano vincendo, stavano vincendo bene, ed era sostanzialmente tutto per merito del principe di Cowain.
                Tutto troppo bello per essere vero: partecipare a una battaglia senza subire neanche un contraccolpo… impossibile! Il contraccolpo per Daniel di Cowain stava per arrivare, ed era anche dei peggiori: inaspettato e letale. Qualcuno, Daniel non si accorse neanche bene chi con esattezza: non gli vide il volto insomma, non sapeva se era alto o basso, robusto oppure sottile, ma qualcuno gli si avvicinò e per la seconda volta nella vita riuscì a mettergli addosso una di quelle Pietre di Luna…
                Daniel aveva completamente cancellato l’idea che esistessero. Con quella che probabilmente era affondata nei fondali del Cuore di Actonon insieme al suo vecchio amico e compagno Cordell, Daniel aveva anche buttato l’eventualità che potessero esisterne delle altre, e che potessero ancora una volta trovarsi nelle mani dei suoi nemici. Lui sapeva, aveva ben capito, che Uryon Worchester fosse un uomo potente, saggio, colto, e con legami nelle più disparate zone del Regno: ma che addirittura fosse dotato di più di una Pietra di Luna, questo sorprese il principe Daniel non poco.
                E mentre i suoi pensieri si perdevano nella riflessione sul fatto che non aveva idea di quante potessero esisterne – lui pensava, e aveva sperato, che fossero poche, che fossero rare, e invece eccone rispuntarne un'altra letale esattamente quanto la prima – il suo corpo tornò ad irrigidirsi. Lo sguardo a fissarsi, e le parole a rimanere soffocate dentro i suoi pensieri. Doveva ammettere con se stesso di aver commesso almeno un clamoroso errore: per quanto in effetti da qualcuno che non ricordava bene chi fosse gli fosse stato accennato, Daniel non prestò attenzione all’idea di dotarsi di un’armatura, prima di scendere in battaglia. Nel suo caso, forse, gli abiti leggeri erano in effetti più appropriati, essendo lui una sorta di artigliere, e non certo un soldato pesante, ma quegli stessi stracci con i quali era giunto ad Alberocasa erano piuttosto ampi, e lui lo sapeva. Una stretta armatura non avrebbe mai permesso ai suoi nemici di tornare a ficcargli quel dannato pezzo di roccia negli abiti.
                Inoltre, così come per la prima volta, cadendo al suolo dritto come un sasso, Daniel si fece anche piuttosto male: non riuscì a capire se si fosse rotto qualcosa, o tagliato qualcos’altro, ma con la coda dell’occhio vide del sangue che gli parve provenire proprio dalle sue membra. Dopodiché, fatto quello che doveva fare, il soldato avversario che lo aveva atterrato, lo afferrò di peso e fece in modo che il principe Lannister lo potesse guardare. Dunque gli sorrise e disse: «Salve, Piromante. Io sono Waldo Willoughby».

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Capitolo 28
*** Il demone delle ombre ***


Capitolo 28
IL DEMONE DELLE OMBRE
 
 
                Re Axelion della Casa Lannister, dodicesimo del suo nome, aveva scelto di andare personalmente in battaglia, contro tutte le indicazioni di buona parte del suo consiglio, e dei suoi amici e familiari. Sia sua sorella Hana, infatti, che sua moglie Abigail, avevano insistito perché non lo facesse. Il Maestro delle Armi Lord Bolton e il Gran Maestro delle Scuole e degli Ospitali Lord Irwin avevano espresso il medesimo orientamento, anche se con meno vigore, e solo perché interpellati dal monarca stesso. Solo Mirietta, la più piccola delle sue sorelle, aveva manifestato un’opinione diversa dalla maggioranza, e sostanzialmente per la ragione più importante che lo stesso re Axelion aveva pensato.
                Una ragione secondaria e molo meno rilevante per cui alla fine Axelion aveva deciso di combattere in prima persona, era che – anche se sicuramente non sarebbe stato né il miglior soldato né il miglior duellante nel bel mezzo di quel campo di battaglia – Axelion aveva ricevuto fin dalla tenera età una certa educazione militare. Era in grado di brandire una spada, ed era anche sorprendentemente agile nel farlo. Seconda ragione – anche questa di scarsa rilevanza – era che il re, la notte prima dello scontro con l’esercito dei Tyrell, aveva fatto un sogno… sogno nel quale i Sette Dèi in persona gli erano apparsi, comunicandogli che avrebbe vinto e che, ricoperto di sangue, sudore e altro marciume, avrebbe issato la sua lama al cielo, scavalcando una montagna di nemici distesi al suolo, nemici di aspetto deforme, così come non poteva che essere, visto che quegli uomini si erano intrisi del lordume dovuto allo schierarsi dalla parte dell’illegittimità e dunque del sacrilegio.
                Ma il vero motivo per cui Axelion aveva deciso di combattere al fianco dei suoi sudditi, quello che sostanzialmente condivideva con sua sorella Lady Mirietta, non era nessuno dei due sopramenzionati. Lui era il re; ed era stato cresciuto da suo padre, che a parer suo – cercando di essere quanto più libero dai condizionamenti dovuti al suo stato di figlio – era stato un re piuttosto valido. Certo, un re che non lo aveva cresciuto nel segno di una certa intelligenza politica, cosa che ad Axelion mancava, e di cui Lionel era così scarso che quello che l’attuale re suo figlio ricordava dei suoi Concili Ristretti, era un sovrano stravaccato sul suo trono, in preda a sbadigli, che a stento seguiva le conversazioni. Ma per quelle che erano state le battaglie nell’est e la tenuta del governo, per quello che era stato il rapporto con i sudditi, che – inutile negarlo – lo adoravano, Lionel era stato un monarca da invidiare. E infatti il suo figlio primogenito, che adesso sedeva sul Trono di Spade, un po’ lo invidiava… lui non ci aveva mai saputo fare con quella cosa dell’essere vicini ai poveri e agli emarginati, anzi: sotto il suo regno il popolo era perfino scoppiato più volte in sommosse più o meno organizzate. Eppure Axelion sapeva bene cosa suo padre avrebbe fatto nel caso di una battaglia a Roccia del Re: si sarebbe schierato al fianco dei suoi uomini, in difesa dei suoi vecchi, delle sue donne, dei suoi bambini. Avrebbe motivato i soldati non solo con la sua stessa presenza sul campo, ma con discorsi, e perfino urli, e ringhi e strepiti, pur di dargli una ragione per combattere, e renderli partecipi di qualcosa che gli stessi dèi avevano voluto: l’unità del Reame. Un unico cuore, un’unica anima, un unico corpo che si batteva all’unisono per difendere tutte le sue parti dall’aggressore. Questo avrebbe fatto Lionel Lannister. Di questo Mirietta parlò con suo fratello il re. E questo Axelion decise di realizzare: a costo della morte, lui avrebbe combattuto.
                Non ci fu il tempo per le trattative. Con inaudita codardia, il nemico iniziò l’assalto alla Capitale senza neanche la dichiarazione di guerra. Per fortuna, la rete di spie che era stata di Lord Braff e di cui ora si serviva piuttosto discretamente Lady Hana, la sorella del re e suo Altissimo Segretario, aveva permesso all’intelligenza della Corona di organizzarsi prontamente. Ma un nemico che non permette parlè e che attacca sostanzialmente senza ragioni dichiarate, è un nemico vigliacco: su questo punto c’era ben poco di cui discutere, a giudizio del re.
                Stando alle spie di cui disponeva, il governo del Regno e della Capitale si sarebbe ritrovato a fronteggiare – ormai era assodato – un manipolo di fanti, armati alla meno peggio, ma che avevano la caratteristica di essere, oltre che numerosissimi, particolarmente tenaci e robusti. Avevano la pelle dura, e difficilmente li si sarebbe potuti abbattere con solo un dardo. Erano mostri: gli uomini, deformati da una qualche forma di magia, che una volta avevano composto il cospicuo esercito (più altri le cui origini erano considerevolmente più oscure) dell’ex Maestro del Conio, Lord Lorthan Tyrell, e di suo fratello Shane, che le spie di Hana non erano riuscite ad uccidere e che, a quanto pareva, era la mente diabolica che aveva pianificato questo nuovo, repentino, e apparentemente più pericoloso attacco, volto in primis a vendicare la memoria del suo defunto e malvagio fratello.
                I comandanti dell’esercito nemico sarebbero stati tre: un uomo dai capelli biondo-ramati vestito con abiti orientali e armato di un grosso martello, uno di quegli uomini-bestia particolarmente nerboruto e cattivo, e probabilmente Shane stesso. Su Lord Constant Lannister, l’altro traditore il cui comportamento aveva ferito ancor di più il giovane re che attualmente sedeva sul trono, visto che era il fratello di suo padre, non era ben chiaro quale ruolo avrebbe avuto. Non era neanche ben chiaro se avrebbe o meno presenziato alla battaglia.
                Quando l’esercito nemico attaccò la città, arrivando dal porto e cominciando a bersagliare la cinta muraria di sud-est, a Roccia del Re cominciò a piovere. Non era una cosa che succedeva spesso: la Capitale era una città piuttosto a sud, e dunque piuttosto calda. Certo, non si respirava quell’aria torrida tipica di luoghi secchi come Dorne o – peggio – le regioni dell’Essos, e piovere non veniva considerato normalmente un dono degli dèi, ma capitava che talvolta non piovesse per intere settimane. E così era stato per le settimane prima della battaglia di Roccia del Re: la prima pioggia, da un tempo piuttosto lungo a quella parte, cadde giù proprio il giorno della battaglia. Il re, con Bolton al suo fianco e Mirietta all’altro, comunicò ai suoi uomini il discorso che già da un po’ aveva preparato. Non era molto lungo, e di sicuro non era perfetto: ma l’aveva stilato di suo pugno dall’inizio alla fine. Si trattava di ciò che il re si sentiva in dovere di ricambiare, e di quel poco che era stato in grado di scrivere, in cambio del sangue, del sudore, delle ferite, del dolore e delle vite che gli uomini che gli stavano davanti stavano per sacrificare per lui. Dunque cominciò: «Cittadini di Roccia del Re. Miei fratelli nella luce degli dèi, e miei compagni in questa battaglia. Io non sono affatto sicuro di essere il re che voi avevate desiderato. Negli ultimi tempi, troppo spesso la Corona e la cittadinanza si sono accaniti l’una contro l’altra come fratelli dissennati, ormai non più memori di tutti quei valori e le sostanze che ne fanno due parti imprescindibili di un unico tutto. Un tutto voluto dagli dèi. Una comunità, un’anima collettiva, un reciproco e comune essere. E proprio per tale ragione, io questa notte non vi chiederò di combattere per me, o per la Casata che rappresento, o per mio figlio e i miei cari: niente di tutto ciò. Se è questo che pensate della battaglia che stiamo per intraprendere, ovvero un ricco uomo viziato che impone ai suoi cittadini di morire per conservare per se stesso la sua posizione, abbarbicato su una sedia di ferro, beh allora andatevene… non siete tenuti a combattere per quell’uomo; non lo farei neanch’io. Ma se pensassi che quell’uomo è mio fratello, allora combatterei. Se pensassi che fosse in difficoltà e avesse bisogno di me, allora mi batterei. Solo allora combatterei per lui, visto che lui non rappresenta solo un ricco uomo sul Trono di Spade; rappresenta la mia casa, la casa che mio padre ha lasciato a me e che – se gli dèi lo vorranno – io lascerò ai miei figli. Rappresenta le mie piazze, i miei mercati, i miei luoghi di preghiera. E rappresenta tutta la gente che abita la mia comunità: mio figlio, mio fratello, la mia donna, il mio amico, mio padre. Non esiste condizione separata, non esiste interesse personale tra le fila di questo battaglione. Insieme resisteremo, o insieme cadremo. Ma in entrambi i casi saremo sempre al fianco di un fratello, mentre il nemico là fuori prova a umiliarci e sostituirci. A prenderci ciò che è nostro! Ditemi, uomini, glielo consentiremo?!»
                «NOOO!» rispose allora la folla entusiasta, come Axelion aveva sperato. Si trattava forse del momento più bello del suo regno, quello in cui probabilmente sentiva di aver ritrovato – almeno temporaneamente – la pace con i suoi sudditi che, adesso se ne rendeva conto anche lui, non erano altro che i suoi fratelli. Stavano per combattere insieme, e forse per morire, com’era giusto che capitasse a un re con i suoi sudditi, come così tante volte suo padre Lionel aveva rischiato. Per la prima volta da quando era sul trono, Axelion sentì di essersi almeno avvicinato al tipo di re che suo padre era stato. E per la prima volta da quando era sul trono, pensò che suo padre sarebbe stato fiero di lui.
                I suoi uomini lo guardavano con l’amore e la stima con cui i figli guardano verso un padre benevolo. E fu con quello sguardo speranzoso, sognante, carico di aspettative, che osservarono le navi nemiche attraccare, e i loro disumani avversari scendere da esse. Il re aveva sperato che le voci fossero esagerate; che parlassero di “mostri” per le incredibili qualità tecniche del nemico… che essi fossero incredibilmente forti, tenaci, rapidi, muscolosi… ma che si trattasse di vere e proprie creature deformi, caratterizzate da più tratti animaleschi che umani, questo francamente Axelion non era arrivato a ipotizzarlo…
                E mentre la pioggia aumentava di intensità e le tenebre cominciavano a coprire quasi interamente il tenue bagliore della luna e delle stelle, i tre comandanti si suddivisero: i Cavalieri della Chimera, guidati da Lord Bolton, unitamente a un altro manipolo di soldati armati pesantemente, scesero in contro ai nemici per dargli un primo assaggio di quello che li aspettava, se davvero volevano tentare di prendere la città più importante del continente occidentale. Anche gli uomini di Mirietta si mobilitarono, per sparpagliarsi e raggiungere una serie di punti strategici precedentemente studiati insieme al Maestro delle Strade Pamir Gaholla, in modo tale da bersagliare chiunque riuscisse a superare il primo gruppo armato e cercasse di raggiungere il secondo, quello rimasto al seguito del re e che sostanzialmente avrebbe difeso le strade della cittadella bassa: il quartiere povero costiero insomma.
                Ma la forza pressante del nemico si rivelò davvero devastante: perfino più di quanto il re e i suoi consiglieri avessero teorizzato. Come un martello, la compagine di uomini-bestia batté talmente tanto sulla cavalleria chimerica e la fanteria pesante che la accompagnava, da riuscire a penetrare la loro linea di difesa ben prima del previsto. In breve tempo, lo schema venne necessariamente cambiato e il re stesso, con la gran parte del resto dell’armata – che quantomeno costituiva il grosso dell’esercito – si ritrovò invischiato in una marmaglia caotica, in mezzo a chimere e uomini con l’uomo scuoiato inciso un po’ dovunque da una parte, e mostri dall’aspetto mezzo umano e mezzo bestiale dall’altra. Di positivo c’era che in quel settore mediano, stretto e in salita, il re aveva concentrato la gran parte del suo esercito, dunque stavolta penetrare la seconda linea di difesa per i suoi nemici sarebbe stato complicato. Di negativo ci fu invece che sostanzialmente Axelion perse il controllo dell’armata: Henrich Bolton urlava come un pazzo e faceva da vero comandante, Mirietta – per chissà quale oscura ragione e probabilmente senza alcun permesso – era scesa anche lei sul campo, anziché rimanersene nelle sue postazioni sopraelevate come concordato, e poi c’era Constant…
                Shane Tyrell, il re non l’aveva proprio intercettato da nessuna parte. Il comandante umano armato di martello invece sì: si trovava a non troppa distanza da lui; il comandante mostruoso, in mezzo al caos delirante della battaglia, poteva praticamente essere uno qualsiasi dei suoi nemici. Ma il vero avversario che preoccupava il re era suo zio ed ex Primo Cavaliere Constant. Lui era in battaglia, e stava usando i suoi poteri, che Axelion non aveva mai avuto modo di vedere… ed era devastante! In preda a un folle e irriconoscibile delirio che gli si leggeva in viso, il Lord Primo Cavaliere riusciva a dar fuoco a decine di uomini contemporaneamente, oppure – per esempio – a una coppia di chimere. Constant era decisamente l’avversario da neutralizzare, di questo il re – e probabilmente non solo lui – si rese conto fin da subito. Senza Constant, la compagine nemica avrebbe avuto almeno la metà delle possibilità di penetrare nel centro della città e dunque, poi, nella zona dei palazzi. Ma come si poteva distruggere un nemico tanto potente, e per giunta quasi irriconoscibile da quanto era concentrato nel suo folle disegno di distruggere tutto quello gli respirava davanti?
                Axelion si stava ancora arrovellando su questo problema, quando all’improvviso si accorse che un soldato nemico lo stava per colpire. E lo avrebbe colpito mortalmente, se il re non avesse avuto quantomeno la prontezza di fare un giro quasi su se stesso e alzare lo il proprio scudo. Si era trattato di un colpo di martello, che, oltre a quasi frantumargli la protezione, lo costrinse anche a caracollare all’indietro di diversi passi. Solo allora il re ebbe modo di osservare il suo nuovo avversario: ne aveva affrontati tanti fino ad allora, e tutti atterrati. Ma quello… era il primo comandante dell’armata nemica che gli si parava davanti: l’uomo dai capelli chiari e gli abiti dell’est. Fu lui stesso a presentarsi dicendo: «Salute, Vostra Maestà. Mi chiamo Bastian, e sono il futuro Primo Cavaliere del nuovo re».
                Axelion non gli rispose: e che motivo ci sarebbe stato? Si limitò semplicemente a sfruttare l’occasione per contrattaccare ed in effetti fu abbastanza rapido da impensierire il cavaliere del continente orientale, il quale non solo per un pelo non finì infilzato ma, una volta schivato il colpo del sovrano, sorpreso dalla sua rapidità, il biondo Sir non poté evitare un secondo repentino colpo che con la punta della lama gli sfiorò il mento, facendolo sanguinare. «Però…» constatò Bastian «Siete istruito nel combattimento»
                «Voi parlate troppo, Sir» rispose a questo punto Axelion «E in battaglia non si parla, ci si batte»
                «Molto bene, allora» concluse Bastian, e con un urlo inferocito si scagliò a colpi di maglio sul suo nobile avversario. Il fatto era molto semplice: non era granché rapido, e finché Axelion riusciva a tenerlo a distanza con la sua lunga lama, non era pericoloso. Ma diamine se, quando colpiva, i suoi colpi era sconquassanti. Con un secondo, vigoroso, fendente sullo scudo del re, praticamente glielo frantumò: non era proprio in polvere, ma certo non si poteva più utilizzare. E poi, con un terzo, gli curvò la spada. Insomma, per il re quel Sir Bastian si rivelò fuor di dubbio un avversario piuttosto faticoso. A un certo punto, Bastian riuscì perfino a dargli un colpo allo stomaco, non devastante ma che lo costrinse a cadere all’indietro e, subito dopo, il re venne colpito, stavolta nel migliore dei modi che Bastian potesse sperare, dritto dritto sull’osso della gamba. Il dolore fu lancinante, tanto che Axelion non riuscì a trattenere l’urlo che gli sorse in gola e fu costretto a liberarlo ai quattro venti. Subito udì, da una zona che non avrebbe detto lontana ma neanche vicina, provenire le parole: «Aiutate il re!», e poi, anche a causa del dolore che quasi gli fece annebbiare la vista, cominciò ad intuire a stento quello che gli stava accadendo attorno.
                Parecchi uomini dei suoi, anzi per l’esattezza di Bolton, probabilmente vennero a frapporsi tra lui e il suo avversario. Dopodiché fu la volta dello stesso Maestro delle Armi, Lord Henrich, giungere proprio davanti al re, steso sul campo, e mettendosi in una posizione tale che il re non poté non riconoscerlo, dire: «Maestà, come vi sentite?»
                «Eh, bene» mentì il re «Ce la faccio!»
                «Sì, ce la fate a farvi completare, se restate sul campo…»
                «Cosa?» chiese Axelion stupefatto «Bolton… gli uomini hanno bisogno di vedere il loro comandante in campo!»
                «Voi dovete restare vivo!»
                «No!»
                «Portate il re a palazzo…» comunicò dunque il Maestro delle Armi a qualche suo sottoposto, Cavaliere della Chimera, «E attenzione allo stregone quando prendete il volo!»
                «Bolton!» s’irritò il re «No! Non è quello che desidero! Non è così che deve andare…»
                «Mi spiace, vostra maestà»
                «Bolton: io sono il re! La mia parola è comando divino! Bolton! Bolton!!». Axelion gridò la stessa parola per altre cinque o sei volte, mentre veniva trasportato in una lettiga prima sulla sella di una chimera e poi nel quartiere dei palazzi e, più precisamente, in quello regio.
                Unica consolazione fu il riuscire ad intercettare, steso sul dorso dell’immenso animale che era finito per simboleggiare l’intera sua Casata, qualcosa arrivare da quello stesso sud da cui erano arrivati i suoi nemici. Arrivare dunque volando su una chimera ed essere accolto, apparentemente dagli uomini leali alla Corona, con urla di gioia e speranza. Poi questo qualcuno scese come una meteora infiammata verso il basso e si abbatté niente meno che sul Primo Cavaliere. Chi fosse questo nuovo ospite della battaglia di Roccia del Re, re Axelion della Casa Lannister non lo seppe mai…
 
 
 
                Per quanto Yashua il sacerdote, dopo la battaglia contro il demone di roccia, fosse rimasto completamente senza forze, e perse i sensi nell’attimo in cui Marcus lo collocò sul dorso di Shirley, e per quanto lo stesso Andalo non fosse certo in piena salute, la sua chimera per fortuna era resistente, robusta, e soprattutto non aveva dovuto affrontare la battaglia contro quel mostro, il suo vento e le sue pietre.
                Dunque i tre riuscirono a mettersi serenamente in cammino per la meta che il giovane Lannister aveva deciso ormai da un po’ di tempo: Roccia del Re. Tuttavia, nonostante, con il tempo sereno – e lo era stato – le chimere viaggiassero a una velocità sorprendentemente rapida, e Shirley non era sicuramente inferiore in questo rispetto alla media di qualsiasi suo altro compagno o compagna, Valyria era Valyria. E il continente occidentale era il continente occidentale. Considerando il tempo di riposo per l’animale, e per loro stessi, andò a finire che comunque Marcus e Yashua ci persero parecchi giorni prima di raggiungere la Capitale del Regno Unificato. Lo fecero, quando la battaglia era già incominciata, e il sacerdote del dio rosso era riuscito a riprendere buona parte del suo prodigioso vigore. Dal dorso di Shirley, egli si scaraventò dunque verso quello che avevano individuato essere il suo naturale avversario: un altro stregone, anche lui in grado di generare fiamme, che se ne stava schierato in difesa degli uomini-bestia e in conflitto con i cavalieri armati sui cui vessilli campeggiavano corone, chimere rampanti, uomini scuoiati ed altri stemmi della Casate che Marcus sapeva amiche (tipo i Gushing o i Baelish, ad esempio).
                Marcus non riuscì ad osservare all’inizio il combattimento tra i due maghi: girovagò ancora un po’ sopra il campo di battaglia, fino a quando non distinse chiaramente il punto esatto sul quale voleva intervenire. Sua sorella Mirietta, la più piccola, era nel bel mezzo dello scontro armato e, protetta da una specie di bancone improvvisato, lanciava contro i nemici esplosioni di fuoco come fossero dardi, ma dal potere assai più devastante. Altri uomini, apparentemente al suo diretto comando, facevano la medesima cosa e Marcus doveva ammetterlo: probabilmente, a una prima occhiata, si trattava della migliore forza di difesa dispiegata dall’esercito governativo.
                Ma Mirietta… Marcus l’aveva lasciata con in mano bambole e altri balocchi. Attenzione: era da sempre stata attratta dalle cose “da maschi”: cavalcare, duellare e via dicendo, e in tutta onestà tutti e tre i suoi fratelli si divertivano a incoraggiarla: una delle poche cose in cui la posizione di Axelion, Daniel e Marcus era sempre stata unanime contro quella di loro padre re Lionel. Ma a Marcus la cosa per lo più divertiva… non si sarebbe mai immaginato di ritrovarsi sua sorella, tutta agguerrita, e peraltro con buone speranze di rimanere vittoriosa, seriamente su un campo di battaglia a comandare altri uomini. Naturalmente non riuscì a resistere, e scese da lei.
                «Marcus!» esclamò lei, naturalmente raggiante, ma senza distogliere la propria attenzione dai suoi obiettivi, e men che meno andandogli incontro per abbracciarlo. «Piccola!» fece lui «Che stai facendo?»
                «Ehm… premo sulla piccola levetta, scatta il meccanismo e… esplode il fuoco»
                «Forte! Me la fai provare?»
                «Come no: serviti pure!» esclamò la piccola Lady, lanciando una delle sue armi al fratello, il quale la pigliò al volo, mirò a un nemico con forma canina, e, pressando sulla leva, scoccò il fuoco. Il mostro dell’esercito nemico cadde al suolo morto. «Però» constatò l’Andalo a questo punto «Sono forti!»
                «Già!» gli sorrise Mirietta, e fu a questo punto che Marcus sguainò rapidamente la spada e la diresse dietro le spalle della sua sorellina. Uno di quei nemici, questo dalla forma di un maiale, stava per prenderla da dietro e, date le potenti mascelle, magari anche morderla. Il colpo del Cavaliere della Chimera fu abbastanza rapido da impedire la morte della ragazza. Lei, naturalmente, si voltò stupita e poi, una volta resasi conto di quello che era successo, tornò a guardare il fratello con gioia e gratitudine. Dunque gli disse: «È bello rivederti, fratello» e a questo punto, solo a questo punto, i due finalmente si abbracciarono.
                La battaglia della Capitale proseguì per diverso tempo. Fu molto scoraggiante, a un certo punto, rendersi conto che nulla cambiava. Il nemico, pareva avere uomini infiniti, e più ne continuavano a cadere in questa vasta linea di difesa che la Corona aveva organizzato nella città bassa, più ne arrivavano di mostri agguerriti, sempre più brutti, sempre apparentemente più feroci. D’altra parte, anche le forze disposte dalla Corona sembravano parecchio numerose e organizzate al fine di ottenere un unico obiettivo: il non permettere la penetrazione del nemico dentro la città. Si trattava come di due forze costanti, che continuavano a scontrarsi, per poi ritornare saldamente entrambe al loro posto.
                La cosa più interessante, si rivelò essere lo scontro tra i due stregoni. Probabilmente era anche per questo che la situazione era in equilibrio, perché sostanzialmente erano in una fase di equilibrio anche Yashua e lo zio Constant. Se solo uno dei due fosse caduto, avrebbe potuto sterminare il proprio avversario a decine, e dunque ben presto o gli aggressori sarebbero stati respinti o sarebbero riusciti a penetrare oltre le linee nemiche. Ma, da quanto Marcus poteva intercettare in quel marasma che la battaglia altro non era, in realtà suo zio e il sacerdote avevano poteri leggermente differenti. Sebbene entrambi si basassero sostanzialmente sul fuoco per colpire l’avversario, Marcus aveva visto coi proprio occhi lo zio Constant di tanto in tanto scagliare raggi di ghiaccio, cosa potenzialmente letale per Yashua. Eppure, le vampate di fuoco che Yashua riusciva a liberare dai palmi delle proprie mani sembravano molto più “consistenti”, più “dense”, visivamente proprio più “gonfie” e più oscure rispetto a quelle dell’attuale – o forse “ex”, Marcus non lo sapeva – Primo Cavaliere del re.
                Eppure, tutt’a un tratto, Marcus si accorse che i poteri di Yashua cominciarono a indebolirsi. Lui lo conosceva ormai: sapeva bene quanto il sacerdote del dio rosso stava per stancarsi. E, d’altro canto, aveva iniziato quella battaglia con la metà delle proprie forze: per quanto avesse recuperato, il viaggio era pur sempre stato sfiancante, rapido, e soprattutto… né lui né Marcus avrebbero mai potuto immaginare che sul suolo di Roccia del Re si fosse trovato un altro mago.
                Fu così che prima Constant riuscì a ghiacciare completamente una gamba di Yashua. Poi, data anche la mossa inavveduta del sacerdote di andarsi a collocare sotto un ballatoio cadente, il Lord Primo Cavaliere, anziché colpire il suo nemico, colpì la struttura che lo sovrastava, la quale gli cadde addosso, neutralizzandolo definitivamente: si trattò infatti di un piuttosto ampio quantitativo di pietre e mattoni, tanto da schiacciare perfino uno di quegli uomini-bestia, figurarsi il secco e denutrito Yashua.
                La sconfitta dello stregone orientale, quasi fin dal primo istante cominciò ad aprire quello che Marcus capì subito essere il lento declino della compagine governativa. Constant, con le sue fiammate di cui non pareva essere stanco, cominciò a far strada non solo a se stesso ma anche a una buonissima parte di suoi sottoposti. Roccia del Re stava cedendo.
                Per un altro discreto periodo di tempo, mentre il sole piano pareva cominciare a far capolino dall’orizzonte, Marcus vide se stesso, sua sorella, e gli uomini di sua sorella riuscire a tenere con sempre maggior fatica la linea difensiva. Anche Shirley continuava a rendersi utile, ma anche lei era evidentemente spossata. Completamente in un altro settore dell’ampia strada, anche gli uomini di Bolton – il Maestro delle Armi – cadevano ormai uno dopo l’altro. La disfatta era sempre più vicina: bisognava ritirarsi, ma Marcus non aveva alcun potere per dare quell’ordine: e comunque probabilmente nessun uomo dell’esercito in quel momento l’avrebbe riconosciuto, vestito per com’era come uno qualsiasi degli altri Cavalieri della Chimera.
                Alla fine, quando ogni speranza era ormai già da un pezzo stata abbandonata, fu con gli occhi di chi guarda un miracolo che Marcus osservò un ulteriore gruppo di chimere piovere dall’alto e scagliarsi sul suo nemico. Non erano le chimere di Roccia del Re, quelle sotto diretto comando di Lord Bolton: sembravano molto più fresche, o quantomeno molto meno lesionate. Erano le chimere della Valle.
                Come seguendo un’azione pianificata, le nuove bestie si andarono sistemando in parti diverse del campo di battaglia, atterrando sulle macerie di mura cittadine, ormai sempre meno resistenti. Ma una di esse in particolare scese proprio vicina a Shirley, Marcus, Mirietta e gli altri dell’artiglieria. A cavallo di essa c’era sir Merrin. Vedendolo, Marcus non riuscì a resistere ed esclamò lieto: «Sir Rabastan! Siete venuti, alla fine»
                «C’erano buone ragioni per farlo» sorrise l’uomo che più di tutti gli aveva dato una mano ai tempi della Valle del Leone «Ordini dall’alto, richieste da parte di un amico». Dunque il capo dell’azione ospitaliera alla Valle del Leone, sguainò la propria spada e, trafiggendo un nemico alle spalle di Marcus, riuscì a salvare la vita del principe Andalo esattamente come quest’ultimo poco prima aveva salvato quella di sua sorella Mirietta, all’inizio della sua battaglia. «È bello rivederti, Sir Rabastan» concluse dunque anche Marcus, e anche lui riprese a trafiggere uomini-animali. Tuttavia, non molti istanti dopo, si ritrovò a chiedere, sempre senza distogliere l’attenzione dal nemico: «Sir Merrin… ehm… siete venuti tutti nel Westeros?»
                «Ebbene sì»
                «Tutti tutti
                «Sì: perfino quel grassone di Cleghorn sta combattendo, da qualche parte pià a nord»
                «E… ehm…»
                «Jasmina? Abbiamo lasciato lei e un altro paio di inservienti nella zona più sicura della città: ma lei ha insistito perché la portassimo con noi al fronte; voleva curare gli uomini e le chimere»
                «E voi?»
                «Non gliel’abbiamo permesso, naturalmente. Però, Marcus, francamente non mi meraviglierei se avesse trovato il modo di raggiungerci e… beh, sì: che si trovi qui da qualche parte. Conosci il tipo!»
                «Dannata testona dell’est» commentò dunque Marcus, ma a questo punto Merrin non gli rispose più, preso per com’era nell’infilzare membri di quel nuovo mai veduto nemico, ancora così forte e così accanito.
 
 
 
                Nonostante tutto, Axelion della Casa Lannister non avrebbe mai pensato che quella guerra avesse potuto perderla. Pensava che gli dèi stavano dalla sua; pensava che qualcosa sarebbe accaduto per impedire la disfatta. E invece la reazione della Corona all’attacco dei mostri dell’est era stata insufficiente. L’esercito dei Bolton, i Cavalieri della Chimera, le nuove armi importate dal nuovo continente, una classe di uomini bene addestrati, un re motivato e di recente sempre più vicino al divino… tutto insufficiente. La Corona pagava la sua impreparazione navale: quelle navi che, diversamente da come teorizzato, da Lannisport non erano riuscite ad arrivare in tempo; pagava la sua scarsa rete di alleanze: il sud compatto con i nemici dell’est, il nord quasi completamente distratto dai suoi guai interni, e poi il centro, la zona dell’Incollatura e della Valle di Arryn, governata dalla Casa Baelish… si sarebbe potuto dire che sostanzialmente era rimasta neutrale, lavandosi le mani di quello che accadeva al suo re. Certo: avevano inviato un paio di contingenti armati, dicendo che erano i migliori e tutti quelli che avessero, ma le spie di Hana erano state abbastanza efficaci da riferire al re che Baelish mentiva: il tordo grigio aveva campeggiato in qualche vessillo, accanto alla chimera e all’uomo scuoiato; un paio di cavalieri della vecchia Valle di Arryn probabilmente avevano versato il loro sangue nella zona della cittadella marinara della Capitale: quanto bastava a Lord Petyr Baelish, trentottesimo del suo nome, per dire che si era schierato al fianco dell’attuale re degli Andali e dei Primi Uomini, ma anche… che non l’aveva in effetti fatto. In conclusione, Baelish sostanzialmente non aveva fatta sua quella battaglia, ed anche questo era uno dei numerosi fattori per cui la Corona stava perdendo.
                Esistevano anche delle Case dell’Est: i Goldsmith, i Loackland, i Panecha, e anche loro avevano inviato miseri contingenti, ma pure loro avevano fatto lo stesso gioco di Baelish, e anzi ancora più sporco: doveva essere in seno a una delle tre grandi aree dell’Essos del nord, del centro e del sud che quel nuovo nemico si era originato. Che pena pensare che proprio per quel continente re Lionel, il padre di Axelion, si era battuto per la gran parte del suo regno! Adesso Axelion non poteva che limitarsi ad osservare ogni cosa crollare dinanzi a sé. Avrebbe voluto perire in battaglia con i suoi sudditi, ma neanche questo gli era stato concesso. Sarebbe rimasto in vita, prigioniero di chissà quale misterioso personaggio dell’est, e ferito a una gamba forse permanentemente.
                Il re ascoltava con disattenzione le novità dal campo di battaglia, mentre dei cerusici si stavano occupando delle sue ferite: forse la situazione sarebbe stata meno preoccupante del previsto. Alla guerra stava pensando Hana sostanzialmente, e anche Abigail, con in braccio Napoleon, prestava una certa attenzione: ascoltavano le nuove da parte di un inviato dalla battaglia, sotto diretto comando di Henrich Bolton. «È… difficile individuare con esattezza per quanto ancora le ali esterne della compagine potranno tenere» stava dicendo l’emissario «ma… potrebbe anche essere questione di poco e… è sicuramente da lì che cederemo. Il centro è sicuro, ma… una breccia dall’ala ovest potrebbe portare…»
                «Direttamente al quartiere dei palazzi…» concluse Lady Hana, atterrita. Rimase in piedi, bloccata, come una statua di pietra. Anche lei in preda al pieno sconforto, Lady Abigail andò invece a sedersi su uno sgabello lì vicino. Il re, dal canto suo, aveva perso completamente l’attenzione… se ne stava sempre sdraiato sulla sua lettiga, ad osservare una curiosa piccola farfallina che non ne voleva sapere di smetterla di svolazzargli attorno. Era davvero molto ostinata, e pareva non provare il minimo terrore per il gigante – il re appunto – che da diverso tempo ormai cercava di schiacciarla. Fu sua moglie Abigail, con la sua dolce voce da usignolo a richiamare la sua attenzione, dicendo: «Axelion! Tu sei il re! Hai qualche suggerimento?»
                «Io?» domandò in risposta il re degli Andali e dei Primi Uomini «Non… non siamo spacciati?». E, al silenzio generale, l’emissario di Bolton si ritrovò costretto ad affermare: «Sì». Rimasero ancora in silenzio per un tempo che gli parve infinito: erano questi gli ultimi momenti della dinastia Lannister sul Trono di Spade? No. Esisteva qualcosa che ancora potevano fare: il re dentro quella stanza aveva una sorella, la moglie e il figlio primogenito, ovvero quanto di più caro aveva al mondo, molto di più che una dannata sedia di ferro. Dunque concluse: «Dobbiamo scappare!»
                «Pensavo…» fece Hana, quasi commossa, «Che non l’avessi mai detto. Sei il re, e sei stato educato da nostro padre abbastanza bene da pensare che sia tuo dovere cadere con il tuo regno. Ma io sono il tuo Altissimo Segretario, ed è mio dovere restare costantemente al tuo fianco. E per inciso: sono stata cresciuta dallo stesso grande re, grande uomo, e grande padre…»
                «A esseri onesti…» constatò il re «l’ho pensata come dici tu fin quando ero sul campo. Ma ora sono un uomo ferito, e in vostra compagnia. E credo sia meglio avere come priorità l’incolumità di mia sorella, mia moglie e mio figlio… piuttosto che una morte da vigliacco, nelle mie camere, in compagnia di due donne e un neonato»
                «Posso predisporre un piano di fuga in poco tempo» fece dunque l’emissario di Bolton «mi informerò rapidamente con chi di dovere, in modo da conoscere al meglio la via più sicura. È questo che ordinate, sire?»
                «Sì…» concluse Axelion, con un po’ di rammarico, «Sì, lo è». Dunque il soldato prese congedo, e il re si ritrovò da solo nei suoi appartamenti, insieme a due donne e un neonato. Ancora il tempo che passava gli parve infinito, più infinito di quello precedente, se possibile. Per un attimo, il re si soffermò ad osservare il piccolo Napoleon, nella sua culla: era così sereno. Pareva non avere assolutamente alcuna idea di quello che stava accadendo attorno a lui: e come avrebbe mai potuto? Era il bambino più buono e sereno del mondo.
                Eppure, a un certo punto, nel silenzio generale, mentre Axelion per un attimo si era perso in una pessimista fantasia in cui la fuga non veniva organizzata in tempo e a lui veniva tagliata la gola, quella piccola farfallina tornò a importunarlo, posandoglisi sul naso. Da lì, svolazzò verso un grande dipinto, raffigurante chissà quale magnifico e defuntissimo sovrano Lannister di chissà quale secolo: era di sicuro un Lannister, visto che un enorme leone rampante campeggiava sul suo lungo mantello rosso-amaranto. Per un attimo, il sovrano si soffermò ad osservare con attenzione il vecchio re dentro il dipinto. Era di un biondo quasi dorato e, a giudizio di Axelion, non assomigliava a nessun Lannister che lui avesse mai conosciuto: né a se medesimo, né a suo padre o a suo zio Constant, né ai suoi fratelli e sorelle, e nemmeno al suo piccolo figlio che in quel momento sonnecchiava in una culla al centro della sala. E più si ostinava ad osservare quel quadro, più il re non riusciva a non pensare al fatto che quel re ivi dipinto avesse una qualche idea… di Lord Braff, il suo – ormai da tempo scomparso – Maestro dei Sussurri. Lord Braff non era biondo, e per la verità non aveva neanche molti capelli: mentre il re sul dipinto non solo li aveva, ma li aveva anche fluenti e lunghi fin quasi alle spalle. Tuttavia… qualcosa nel ghigno audace, e un po’ troppo convinto di se stesso, nel re dipinto… ricordò al vero re, quello fuori dal dipinto, proprio il suo vecchio amico e mentore: uno degli uomini cui doveva di più in tutto il continente occidentale.
                All’improvviso, mente il re si perdeva in quelle sue elucubrazioni, il quadro alla parete tremò. E tremò anche abbastanza chiaramente: Axelion si voltò verso sua moglie e sua sorella e anche loro adesso guardavano verso quella parte, segno che il re non se l’era inventato. Il dipinto tremò dunque una seconda volta, più forte ora. E, a una terza, si spostò talmente tanto da sganciarsi dalla parete e venire giù. Dietro di esso, un cunicolo abbastanza ampio da permettere a un essere umano di medie dimensioni di entrarci comodamente; e dentro il cunicolo, Lord Alexis Braff.
                «Perdonate la sorpresa, Vostra Maestà» fece il Maestro dei Sussurri, a dire il vero un po’ trafelato, «Mie Lady… suggerisco di seguirmi immediatamente: uomini dell’esercito nemico saranno alle vostre porte tra davvero pochissimi istanti»
                «Come lo sapete?» fece Lady Abigail Baratheon, sospettosa; e il Maestro dei Sussurri: «Milady, vi parlerò della mia rete informativa da Maestro dei Sussurri forse un’altra volta… o forse mai: comunque adesso consiglio vivamente di parlare di meno e di correre di più»
                «Stavamo…» balbettò a questo punto il re «Stavamo aspettando che l’esercito…»
                «Maestà» lo interruppe ancora il suo vecchio precettore, con sempre maggiore insistenza, «l’esercito non ha il tempo fisico di organizzare una vostra fuga fuori dalla città: vi ripeto che il nemico è quasi alle porte», e proprio mentre Braff diceva queste parole, lui stesso, il re e gli altri presenti in quella sala, udirono chiaramente il clangore di cancelli che venivano spalancati, e di uomini armati spostarsi rapidamente da qualche parte lì vicino. «D’accordo» concluse dunque Axelion «Mi hai convinto». Il re fu il primo a varcare la soglia del cunicolo, caracollando per via della lesione alla gamba, seguito dunque da Lady Hana e poi da Lady Abigail con in braccio il bambino. «Ah» fece Braff, come sorpreso, «il delfino viene pure?»
                «Cosa dovrei fare?» rispose giustamente Abigail Baratheon «Lasciarlo qui?»
                «No, certo» concluse dunque il politico e, dopo essersi fatto aiutare a mettere il grande quadro di nuovo al suo posto, aprì la strada ai tre fuggitivi e mezzo, lungo quel labirinto oscuro di corridoi di cui il re non aveva mai avuto il minimo sospetto che esistessero.
                C’era una certa puzza lì dentro, di polvere e di vecchie mura, ma non di fogna. E, via via che ci si addentrava, da stretti che erano, quei cunicoli divennero sempre più spaziosi, e illuminati. All’inizio, l’unica luce fu la fiaccola tenuta in mano dal Maestro dei Sussurri, ma dopo… fiaccole illuminate cominciarono a trovarsi anche agganciate a delle mura, sempre più grandi. «Dove siamo?» chiese dunque il re, non poco stupito. E il Maestro dei Sussurri: «Tra le mura morte del più vecchio dei palazzi, che si trova sotto il palazzo, che si trova sotto il vostro palazzo»
                «Sembra un luogo» constatò Lady Hana «molto organizzato…»
                «I Maestri dei Sussurri lo conoscono bene, anche se esclusivamente loro: neanche i sovrani ne sono informati»
                «E io allora? Perché non ne so niente? Sono stata il Maestro dei Sussurri in vostra assenza…»
                «Beh i Maestri dei Sussurri regolari, diciamo. Certo, poi, è capitato che un Maestro dei Sussurri in punto di morte abbia rivelato a qualcuno lì vicino della loro esistenza, e dunque il nuovo informato normalmente li sfruttava per presentarsi segretamente ai sovrani e, dicendo che conosceva quelli e ancora ben altri misteri, si faceva nominare Maestro delle Spie a sua volta»
                «Ma adesso…» polemizzò Lady Hana «Tu ci stai rivelando ogni cosa…»
                «Direi che talvolta possano capitare casi di emergenza, milady. E questo è uno di quelli: convenite?». Abigail non rispose, ma ovvio che lo faceva. E neanche Hana o Axelion domandarono oltre, ma ovvio che anche loro concordavano con forse uno dei più abili Maestri dei Sussurri dell’intera storia del regno.
                Axelion non arrivò neanche a stancarsi, che si accorse che Braff lo aveva appena portato davanti a una porta: sentiva che ormai sia la sua vita, che soprattutto quella dei suoi cari lì con lui, fosse al sicuro. Non sapeva se si trovasse esattamente fuori dalla città, ma certo poteva dire, con un quasi nullo margine di dubbio, che si trovava ben lontano dal suo palazzo. Braff aprì la porta; il re, Lady Hana e Lady Abigail lo seguirono oltre di essa, e si ritrovarono in una piccola sala, con solo un tavolo al centro e poco altro. Forse un luogo di ritrovo tra spie…
                Ma l’attenzione del re quasi per niente si concentrò sulla struttura nella quale si trovava: infatti, una volta dentro, re Axelion non poté non notare che non erano più soli. C’era un uomo il cui viso, fino al naso, era coperto da un lungo cappuccio viola, che si estendeva poi sulle spalle e lungo la schiena in un vaporoso mantello. E fin qui, il re non si sarebbe scomposto più di tanto… solo che insieme all’uomo ammantato di viola, c’era una creatura mostruosa, assai diversa dai diavoli che avevano combattuto contro di lui nella battaglia di poco prima. Un teschio nero, come senziente, con in capo una piccola coroncina dorata, sorrideva al posto di un viso umano. Seguivano abiti da aristocratico, uno stocco, e un’elegante mantellina di un acceso blu-mare.
                Il re naturalmente provò terrore, e cominciò a capire che qualcosa non quadrava, visto che Braff aveva condotto lui, sua sorella, sua moglie e suo figlio, dritto dritto da quei loschi individui. Ma la certezza, Axelion la raggiunse non appena vide il terzo personaggio che si trovava insieme al mostro dal teschio nero e all’uomo ammantato di viola: il guerriero dai capelli biondo-ramati che gli aveva causato la gran parte delle ferite nel corso della battaglia; l’uomo con il martello…
                Cercando di non lasciar trasparire tutto il suo panico, re Axelion si limitò dunque a chiedere: «Ma cosa sta…»
                «Che la terra ti sia lieve» gli disse dunque Braff, voltandosi verso di lui, e appoggiando perfino una mano sulla spalla del re, «vecchio amico mio». Dunque, con l’altra mano, Braff fece qualcosa che Axelion non riuscì a spiegarsi: dalle punte delle dita, fece spuntare come una specie di assai denso fumo nero, gli diede una forma aguzza e poi… tagliò la gola del suo “vecchio amico”, e vecchio allievo, con la rapidità di un abile cerusico.
                A questo punto, per prima la vista di re Axelion, dodicesimo del suo nome, si fece annebbiata: i contorni sempre più sfocati; gli sfondi grigio-biancastri. Poi anche l’udito subì delle ripercussioni… per un primo breve momento, il re continuò a sentirci, ma in maniera molto attutita. Distinse Braff, forse inginocchiarsi, mentre l’uomo col cappuccio viola gli si faceva vicino e diceva qualcosa come: «Ci sono parecchie cose che devi spiegarmi… ma, in definitiva, direi che hai lavorato bene… mio demone delle ombre». Fu l’ultima immagine che il giovane Lannister riuscì a registrare: pochi attimi dopo perse completamente i sensi e spirò.

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Capitolo 29
*** La casata estinta ***


Capitolo 29
LA CASATA ESTINTA
 
 
                Sebbene Marcus si trovasse ancora nel pieno del caos della battaglia, e normalmente non è molto semplice esprimere giudizi in merito a una cosa che non si riesce ad osservare bene da una posizione distante o – meglio – esterna, avrebbe giurato che Roccia del Re sostanzialmente era presa. In quel tipo di battaglie in particolare, non combattute in vasti campi spaziosi, bensì tra le ritorte cinte murarie di città a forme irregolari, neanche si riusciva bene a capire se era più numeroso il nemico o gli alleati: a un certo punto, si perdeva di vista ogni cosa. Eppure un segnale era inequivocabile: i soldati del re si stavano ritirando, anche se Bolton non aveva ancora dato quell’ordine. I vertici della compagine avevano ormai smarrito il suo controllo. Diverse chimere combattevano da sole.
                E lo stesso Marcus l’Andalo se la sarebbe già da un po’ data a gambe, se non avesse avuto da una parte una Mirietta irrequieta, combattiva ed ostinata, e dall’altra un Sir Merrin ed altri della Valle del Leone ancora saldi in una posizione di, quasi, inevitabile difesa del principe Andalo, di sua sorella, e dei suoi uomini che costituivano un più che discreto reparto di artiglieria. Ma fu proprio da uno di questi uomini che arrivò il primo, sconfortante, segnale della disfatta; egli disse infatti alla sua giovanissima comandante: «Mia signora… le ricariche volgono seriamente al termine!»
                «Continuate!» comandò Lady Mirietta «Fino all’ultimo granello di polvere!», e – a giudizio di Marcus piuttosto sorprendentemente – la gran parte dei suoi cacciò un urlo convinto e partecipativo: quella ragazzina era diventata perfino brava a comandare! I suoi le davano pure retta in casi di difficoltà e pressione… Marcus stesso non sapeva se, e francamente non pensava che, sarebbe mai stato in grado di disporre di simili qualità.
                Merrin ne disponeva invece chiaramente. Anche se sulla carta era il Maestro delle Armi Bolton, o in sua indisposizione il comandante dei Cavalieri della Valle Sir Cleghorn, in realtà i cavalieri venuti dall’est era proprio Sir Rabastan che ascoltavano. Lui era quello che ne continuava a gestire le operazioni: Marcus non aveva proprio visto Cleghorn per tutto il tempo – ormai piuttosto lungo – della battaglia, e peraltro, sebbene l’avesse più volte cercata con lo sguardo, non vide nemmeno Jasmina. Solo Merrin si trovava ancora lì a lottare insieme a lui. E fu proprio per questa ragione aggiuntiva che Marcus l’Andalo si ritrovò a sentirsi tutt’a un tratto sperduto, quando Sir Rabastan venne trafitto in pieno petto dalla possente lancia di un uomo-besta dai tratti simili a quelli di uno di quei grossi mammiferi dell’est, dalla pelle spessa. Dapprincipio, il suo giovane allievo, Cavaliere della Chimera e principe del Regno Unificato, si fiondò sul mostro e, con la cieca insistenza di un uomo disperato, riuscì prima a farsi ferire in svariate parti del corpo, e poi a sgozzarlo come l’animale che era. Dopodiché Marcus, guardandosi attorno, si rese conto che la cosa lo aveva fatto allontanare dal punto presso il quale aveva combattuto la gran parte della propria battaglia. Stremato, sudato, sporco, girovagò per un po’ fin quando non distinse di nuovo il cadavere del suo vecchio amico: l’unico vero amico che gli era rimasto alla Valle, dopo lo sterminio dei suoi compagni più cari da parte del diavolo dai poteri di ghiaccio.
                Sir Merrin non era Yashua. Certo, era inutile negarlo: Marcus aveva stretto un qualche genere di legame anche con quest’ultimo, ma si era trattato per lo più di un legame a reciproci fini utilitaristici. Non aveva voluto bene a Yashua, ma aveva voluto bene a Sir Rabastan, l’uomo che forse più di tutti nella sua breve vita avrebbe potuto davvero considerare suo mentore. Dal cadavere di Merrin, che Marcus strinse a sé come fosse quello di un padre, giungere di nuovo a Mirietta e ai suoi non fu per l’Andalo poi così complicato. Ancora con il cuore spezzato, e le gambe ferite, il giovane principe si rese conto che, senza Merrin, i Cavalieri dell’est che erano rimasti stavano cominciando a disperdersi con ancor più repentinità. Così fecero anche gli uomini di Mirietta: era il caos assoluto.
                Un chiodo fisso ritornò alla mente del giovane Andalo: quello di Jasmina. Era vero: si erano lasciati male, molto male, ma lui provava ancora qualcosa per lei, ed era inutile mentire a se stesso proclamando il contrario. E, ora che anche Merrin se n’era andato, ancor più ardentemente Marcus desiderava rivederla. Non sapeva se sarebbe stata la donna della sua vita, ma era convinto che fosse la persona di cui più di chiunque altra aveva bisogno in quell’esatto momento. A un certo punto, nella marmaglia di uomini in fuga verso l’interno della Capitale, mentre alla fine anche lui e la stessa Mirietta avevano deciso per la ritirata, la vide. Senza perder più nemmeno un attimo di tempo, fece per correre verso di lei: avesse dovuto scavalcare, spintonare, sovrastare, un mucchio di uomini in teoria suoi alleati, lo avrebbe fatto senza pensarci su neanche un minimo. Eppure qualcosa lo tenne saldo al suo posto: qualcuno, afferrandogli il polso con una manina sottile ma un’incredibile forza, lo trattenne.
                «Mirietta, che fai?» domandò l’Andalo alla Lady sua sorella. E lei: «Che faccio io? Che fai tu!». In effetti, Marcus si accorse di non aver dato spiegazioni alla piccola, ma d’altro canto: non ne aveva avuto – e continuava a non averne – il tempo. Le rispose: «Devo raggiungere una persona»
                «No, fratello, senti…»
                «Mirietta: lasciami andare! Io devo… devo…»
                «Marcus! C’è una piccola imbarcazione allestita per me, in un porticciolo segreto, non troppo distante da qui. È piuttosto agile e minuta, ma… c’è posto anche per te. La città è presa: dobbiamo andarcene, non c’è tempo da perdere»
                «Sì, ma… lasciami solo…»
                «Te lo ripeto» scandì dunque la piccola Lady «Non-c’è-tempo-da-perdere».
                Con un ultimo sguardo, il principe Andalo osservò la giovane donna dell’est di cui era innamorato. Anche lei spintonata, strattonata, sovrastata da una miriade di altri. Ciò nonostante, lei era la cosa più bella in mezzo a quell’orrore. Quei suoi grandissimi occhi neri… quegli zigomi pronunciati, e la vita stretta. La cosa più bella in mezzo a tutti gli orrori del mondo…
                Raggiungerla sarebbe stato complicato. Forse anche lei l’aveva visto, o forse no: aveva distolto quasi subito lo sguardo. Perciò, con estremo rammarico e il cuore in lacrime, il principe Andalo decise che la cosa migliore da fare fosse scortare sua sorella alla sua piccola imbarcazione, e poi per chissà quali nuovi porti, solcando chissà quali mari. Afferrò le redini di Shirley e, tirando l’animale verso di sé, concluse: «C’è spazio per una chimera, in questa tua piccola imbarcazione?»
                «No, non credo» gli rispose con sincerità Mirietta, accelerando considerevolmente il passo, «non puoi lasciarla?»
                «Scherzi? È la mia compagna! Ma possiamo… seguirvi volando»
                «Non è stanca?»
                «Cercheremo di fare un sacrificio»
                «Va bene: seguitemi!», e a questo punto la giovane Lady passò alla testa del piccolo gruppo che si era formato: oltre a lei, al cavaliere suo fratello e alla di lui chimera, anche un manipolo di circa tre o quattro degli artiglieri che avevano composto la fazione armata ai comandi della ragazza. Marcus intanto pensò a Sir Rabastan Merrin, e al grande uomo che era stato. Cresciuto nell’assoluta povertà, ma la cui tenacia era stata in grado di condurlo a fare quello che più sognava: cavalcare le chimere. Tuttavia adesso Merrin era morto, e non poteva più cavalcare alcunché, non in questo mondo almeno. L’Andalo, invece, era vivo. E questa era la prima necessaria condizione per assicurargli nuove, imperscrutabili, imprevedibili, cavalcate.
 
 
 
                Il Lord Primo Cavaliere Constant della Casa Lannister aveva fatto quello che doveva fare. Aveva spezzato decine e decine di vite; forse centinaia. Molti altri erano caduti combattendosi fra di loro, schierati dall’una o dell’altra parte: a che razza di irragionevoli sprechi riesce a condurre la cieca convinzione, sia essa su base personale, religiosa o politica. Certo, anche Constant aveva combattuto – e stava combattendo – per sostituire il vecchio re con uno nuovo… ma ad essere molto franchi, non avrebbe mai rischiato la propria vita in una battaglia, se non ci fosse stato in gioco anche l’incantesimo per riportare Ladylynn alla vita. E dire che lui era un potente mago, il più potente che avesse mai incontrato… insomma: per quanto esposto al rischio di morte come tutti gli altri esseri umani, aveva probabilmente possibilità assai diverse rispetto a una qualsiasi recluta armata alla meno peggio…
                Tuttavia doveva ammetterlo: la presenza di un altro stregone, anche in quella battaglia di Roccia del Re – dopo quello di Cowain – lo aveva veramente lasciato di stucco. Uno non vede altri individui in grado di fare magie per decenni, e poi tutt’assieme ne spuntano tre o quattro? Lui stesso, Anylice, e quel nuovo sconosciuto mago dell’est, e poi anche il Signore delle Dune, che millantava poteri che Constant non aveva mai visto… un mago esperto, come lui era, non poteva imputare la cosa all’esclusiva capricciosità del fato. Stava accadendo qualcosa; qualcosa che lui stesso non sapeva motivarsi… ma che probabilmente andava al di là della comprensione di qualsiasi uomo, almeno senza la mediazione di qualcos’altro (un drago? un dio?) in grado di spiegarglielo.
                Ma l’intervento dello stregone dell’est non aveva cambiato molto i suoi progetti. All’inizio, quando l’aveva visto, per un attimo Constant si era scoraggiato e aveva temuto il peggio… ma il suo avversario era chiaramente stanco e deperito. Il Primo Cavaliere aveva avvertito che il mago dell’est avesse potuto gestire un potenziale magico di almeno il doppio rispetto a quello che aveva usato… ma non era stato in grado di concentrarsi e dunque era stato sconfitto. Dopodiché lo sterminio di vite necessario per il suo incantesimo, era proseguito senza ulteriori difficoltà. Era proseguito fin quasi a stancarlo: ma ci volevano tanti cadaveri freschi, per un “sacrilegio” di quella portata. “Sacrilegio” per la legge degli dèi, per l’opinione degli uomini forse, ma non per lui… per lui quello era il massimo gesto d’amore, in grado perfino di rigenerare una vita. Un miracolo! Un miracolo forse mai eseguito nella storia dell’uomo… a lui non risultava che fosse stato mai eseguito almeno.
                Stremato, in preda al fiato grosso, senza più in grado di materializzare neppure una scintilla, il Primo Cavaliere zoppicò, scavalcando i cadaveri, sino alla piccola nicchia sotto un pezzo della cinta muraria dove aveva riposto le ossa di Ladylynn, appositamente raccolte dal luogo in cui l’aveva seppellita anni e anni prima. Le sue mani, stando a quello che gli era stato detto, dovevano essere sporche di sangue fresco nel momento dell’esecuzione dell’incantesimo. Dunque, strisciò fino al primo corpo lì vicino e intinse le proprio braccia di quell’orrido, ma sacro, fluido. Dopodiché ritornò da Ladylynn e si apprestò a fare quello che doveva fare. Fu allora che una voce di uomo gridò: «CONSTANT! Fermo!». Era Bastian. Anche lui tutto trafelato e insanguinato stava correndo sui cadaveri per raggiungere il Primo Cavaliere. Constant attese che il biondo uomo dell’est lo raggiungesse, dopodiché ascoltò quello informarlo su una cosa di cui già era piuttosto sicuro; Bastian infatti disse: «La città è caduta… il re è morto»
                «Interessante» constatò Constant «Come mi hai trovato?»
                «Non è stato difficile, mio signore… ho seguito i carbonizzati». Prima di realizzare che ciò fosse ovvio, il Primo Cavaliere sentì pure l’esigenza di guardarsi alle spalle e osservare che in effetti la cosa fosse vera: naturalmente lo era. Dunque venne al discorso che più lo interessava: «Perché mi hai interrotto, Bastian? Non credo di avere poi così tanto tempo, i cadaveri devono essere freschi: tutti»
                «Io… signore, io non so come dirlo…»
                «Allora non dirlo. Io proseguo»
                «Mylord… l’incantesimo che vi apprestate a realizzare… è un falso. Siete stato vittima di una farsa»
                «Che cosa? Ma sta’ zitto…»
                «È così. Ho ascoltato mio fratello rivelarlo a uno dei suoi servi… il drago gli ha detto… che il mante che avrebbe combattuto la battaglia di Roccia del Re sarebbe stato utile ai fini della vittoria, perché accecato da un obiettivo che non può raggiungere. Il drago ha un altro obiettivo: un suo inviato si trova sul campo per eseguire il vero incantesimo, quello che può essere fatto»
                «E…» domandò Constant, quasi senza fiato, «Quale?»
                «Riportare Requiem al potere di un tempo»
                «È una stronzata!»
                «Mi spiace, signore… mi spiace davvero…» concluse Bastian, chinando il capo. Il cuore di Constant, intanto, si era praticamente fermato. Naturalmente a un primo istante non volle credere – non riusciva a farlo! – a tutto quello che il guerriero orientale gli aveva appena detto, ma poi… rifletté su qualcosa che gli pareva di aver visto nella parte finale della battaglia… mentre lui continuava ad abbrustolire poveri malcapitati, avvicinandosi sempre più al luogo dove aveva lasciato Ladylynn, gli era parso di intravedere con la coda dell’occhio… una sottile scia di uomini morti… per congelamento. Naturalmente nel bel mezzo del caos della battaglia, mischiato a sua volta con la cieca volontà del Primo Cavaliere di arrivare al suo obiettivo, quell’elemento non era stato per il giudizio di Constant altro che un dettaglio inutile. Una svista, un errore. Ma, certo, ora che Bastian gli stava dicendo quello che gli stava dicendo… la sua prospettiva cambiò. Requiem era un drago delle energie fredde e un suo servitore assai probabilmente, per non dire sicuramente, sarebbe stato un Criomante o un Necriomante. Di sicuro non si trattava del fattucchiere che aveva sconfitto lui: quello sapeva usare solo il fuoco; nel suo duello contro Constant l’avrebbe usato, il ghiaccio, se fosse stato in grado, perciò di questo il Primo Cavaliere era certo. Ma allora…
                Il Lord Primo Cavaliere si ritrovò a fare la stessa identica cosa che Bastian aveva fatto per trovare lui; osservò i cadaveri. Trovò quelli su cui era posato un qualche strato di ghiaccio o neve. Dunque seguì la scia e volse il proprio sguardo all’orizzonte. Non molto distante da lui, si trovava una donna di spalle: media statura, e molto magra. Caschetto nero, e pelle quasi bianca…
                «ANYLICE!» gridò subito il Lord, riconoscendo la Criomantessa, quasi disperato, «Nooooooooo!». Una leggera esplosione – come una forza d’urto di ghiaccio – scosse per un momento il cielo e la terra, ma solo per qualche breve secondo. Constant non seppe dire se l’avesse avvertita solo lui, che era un mago, e che stava guardando verso quella direzione, oppure se si trattasse di una cosa di cui tutti gli uomini avrebbero potuto accorgersi. Ma, come detto, fu molto breve. Al termine di tutto, la donna non morta rivolse i suoi occhi di ghiaccio verso quelli del Primo Cavaliere. Si osservarono. Lei aveva uno sguardo malvagio dapprincipio, ma poi… divenne dolce, e sofferente; dunque cadde al suolo. Constant corse verso di lei, la raggiunse, e disperato le domandò: «Che cos’hai fatto?!!». Anylice negò con il capo, e aggiunse balbettando con flebile voce: «Re-re-requiem»
                «Ma…» insistette Constant, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime, «Avevi detto che eri libera… che… il potere di Requiem non dettava più le regole nel tuo corpo»
                «I-io… non lo so… forse… forse… ha deciso di lasciarmi libera, perché era debole ma… ma… ha conservato un ultima gocca di potere per controllarmi… al momento opportuno»
                «Cosa accadrà?»
                «L-lui tornerà. Verranno giorni di sangue e morte per gli uomini e le donne di questa terra, ma…» e a questo punto lo sguardo della Criomantessa si fece vacuo, più rivolto all’infinito che alle cose che le stavano davanti, «Ma io sarò libera». A questo punto, sul viso della fanciulla non morta apparve un sorriso giocondo. Dopodiché, il suo corpo si frantumò tutt’assieme in un fumo di gelido nevischio, che subito venne spazzato via da un’algida folata di vento.
                Solo in quel momento Bastian raggiunse Lord Constant. E, con tutta la rabbia, che aveva in corpo, questi si rivolse verso di lui, esclamando: «TU! Se non avessi interrotto il mio incantesimo, sarei arrivato prima io di lei! Ladylynn a quest’ora sarebbe viva!!»
                «No, mylord, per favore» fece piano Bastian, raggomitolandosi al suolo, «per favore…»
                «Riserverò per te la forza di mille fiammate! Ti riconsegnerò a tuo fratello in una polvere nera come la più tetra delle anime dell’oltretomba!»
                «Constant! L’incantesimo non avrebbe funzionato… il drago vi ha mentito… si è fatto beffe di voi. L’incantesimo non avrebbe funzionato». Constant provò a calmarsi, e vi riuscì parzialmente. Si rese conto che Bastian non aveva alcun motivo di dirgli menzogne; anzi, si rese conto che il guerriero dell’oriente aveva perfino rischiato molto, correndo ad avvertirlo di quella cosa. Sorprendendo se stesso, si ritrovò ad ammettere: «Ti… ti chiedo scusa, Bastian. È solo che… soffro molto adesso… ti prego di lasciarmi da solo»
                «Che farai?»
                «Non è molto corretto prendere decisioni in preda alla rabbia e alla delusione… ma posso dirti che ora come ora l’unica cosa che mi gira per la testa è… che ho un drago da uccidere. Un drago nel pieno dei suoi poteri»
                «Lo farai da solo?»
                «Certo. E con chi altri? Aspetta… perché non vieni tu con me?»
                «Io?» rise Bastian «Signore, sarò il nuovo Primo Cavaliere…»
                «Il Primo Cavaliere di un re despota, non è un Primo Cavaliere… più che altro una specie di Maestro di Palazzo…»
                «Sì, ma io… rifiuto comunque»
                «Cos’è che ti tiene così legato a quell’uomo, Bastian, me lo vuoi dire?! Da come mi descrivi i vostri rapporti, si direbbe che voi abbiate qualsiasi tipo di relazione, tranne che quella che si instaura tra due fratelli…»
                «In verità, signore, lui… lui non è mio fratello. È stato cresciuto dai miei genitori, alla nostra tavola… ma… non lo è»
                «Questo spiega molte cose, ma non ancora le ragioni per cui continuare a reggergli la mantella»
                «I-io… non posso tradirlo…»
                «Ma certo che puoi! Vieni con me Bastian… non avrai più nulla da temere. E insieme, dopo aver trovato il modo di sconfiggere il drago, metteremo Shane su quel dannato trono. E finalmente tutti avranno quello che è giusto. Il Regno, un buon re. Io, la mia vendetta. E tu… tu, amico mio, per la prima volta, avrai… la tua libertà!». Un’espressione di fiero, quasi ritrovato, orgoglio si dipinse nel volto del guerriero orientale: Constant la distinse bene. Almeno per il suo folle piano suicida aveva trovato un compagno… un uomo che, come lui, non aveva più niente da perdere. Un uomo che, come lui, per troppo tempo era stato schernito e raggirato da un’entità più potente. Non era probabile, tuttavia per qualche motivo Constant se la sentì di crederci davvero: insieme, lui e Bastian, avrebbero trovato il modo di eliminare per sempre quell’essere abietto, crudele e manipolatore, che Requiem altro non era. Insieme avrebbero vendicato l’amore, che per una seconda volta gli era stato strappato via, e questa volta per sempre.
 
 
 
                Abigail Baratheon attese, prigioniera nei suoi appartamenti, che qualcuna delle sue ancelle le venisse a comunicare il dato ufficiale che la città fosse presa, anche se che l’andazzo fosse questo la regina già lo aveva capito da un pezzo, anche prima della morte di suo marito re Axelion della Casa Lannister per mano del Maestro dei Sussurri Lord Braff. Lord Braff che, a questo punto si poteva dire chiaramente, non solo era un subdolo traditore – come, anche in questo caso, Abigail aveva intuito da un pezzo – ma anche qualcuno… di non umano. Quel fumo nero in cui, per un breve istante, le punte delle sue mani si erano mutate, talmente denso da divenire tagliente come una lama, “umano” non poteva essere. E così Axelion era morto: non certo un colpo grave per il cuore della regina, che mai era appartenuto al Lannister, il cui erede al trono – Napoleon – era in verità figlio del Maestro delle Armi, e amante della signora, Lord Henrich Bolton. Ma un colpo terribile per tutti i suoi piani politici, invece, lo era stato eccome: il trono che lei rivendicava per suo figlio, lo rivendicava in quanto suo figlio, agli occhi del mondo, era un Lannister. Ma una cosa che non si vedeva da secoli come quella… un cambio di dinastia… semplicemente gettava nel vuoto anni e anni di accurati piani ed elaborati stratagemmi. E per moltissima parte, la cosa era colpa di Braff. Braff, che mai Abigail aveva potuto tollerare neanche alla lontana. Braff, che anzi Abigail odiava fin nel profondo: forse l’individuo che più aveva detestato all’interno del perimetro della Capitale. Braff, alle menzogne e ai raggiri del quale Abigail pareva essere la sola a non aver mai creduto neppure per un momento.
                Ma la situazione ormai era questa, e non serviva a niente disperare. Certo, il personaggio che aveva creato le aveva imposto urla e strepiti al momento dello sgozzamento del re, ma ora che si trovava da sola nei suoi appartamenti con le sue ancelle, Abigail aveva tutto il tempo di ragionare con la freddezza che invece nel suo intimo da sempre la contraddistingueva. Henrich era il passionale fra i due, quello che avrebbe sempre mosso guerra di qua e ucciso di là… ma lei, Abigail, si sentiva una vera donna politica e in quanto tale… conosceva benissimo i momenti in cui non bisognava farsi prendere dall’avventatezza.
                Dunque, come detto, la regina si trovava nei suoi appartamenti, chiusa e sorvegliata da uomini-bestia. Con lei c’era Napoleon, e un paio delle sue ancelle: ad alcune delle quali era stato perfino concesso di andare e tornare dalla prigione della loro signora, talvolta con la scusa di andare al gabinetto, talvolta con altre scuse. Lì, quella che ancora per poco poteva chiamarsi “la regina” attese. E, mentre attendeva, si ritrovò a pensare a quale fosse la miglior mossa da fare adesso: bisognava scappare, senza dubbi… ma come? Lei non era una guerriera: forse non aveva mai sollevato una spada in vita sua. E nessuna delle sue ancelle naturalmente lo era… Lady Abigail si ritrovò a domandarsi che cosa stesse facendo il suo amante Lord Bolton, e come mai non si fosse ancora precipitato alla sua porta, armato di ferro e lame, di sangue e rabbia. Non le veniva in testa molto altro, ma certo ritrovarsi al sicuro nel nord presso Forte Terrore, la casa di Bolton, piuttosto che imprigionata nelle sue stanze in quella fetida Roccia del Re, le avrebbe garantito una sicurezza psicologica più adatta a elaborare trame politiche e cose di quel genere. Ma la pura verità era che in quel momento la bellissima, seducente e diabolica Abigail Baratheon non aveva idea di che cosa fare…
                Stava per concludere definitivamente questo, e definitivamente per cedere alla disperazione, quando la sua porta venne bussata. Chi bussò non attese il suo consenso ad entrare: entrò e basta, cosa che mai e poi mai una delle sue ragazze avrebbe fatto. Difatti il suo ospite era Lord Braff.
                «Mia signora» cominciò il Maestro dei Sussurri, diversamente dal solito senza sorridere, tuttavia con il solito tono mellifluo e pacato, «Il re sta per fare un proclama… sarebbe opportuna anche la vostra presenza, così come quella di altri dignitari del palazzo»
                «È una richiesta» rispose dunque la signora, con una domanda, «o un comando?»
                «La definirei una garbata imposizione. Non ho l’ordine di farvi uccidere in caso di vostro dissenso, se è questo che mi domandate; ma ho quello di eventualmente trascinarvi con la forza. Il re richiede la presenza anche del piccolo Lannister»
                «Il re…» fece a questo punto Abigail con rabbia «Mio marito era il re! E adesso lo è mio figlio…»
                «Abigail… vi conosco da tanto tempo da temervi, eppure… da avere rispetto per la vostra intelligenza. Speravo che la cosa fosse ricambiata, invece a quanto pare non è così… tuttavia mi permetto comunque di rivelarvi che secondo me rimarrete a prescindere sorpresa da quello che il re dirà dal palco dell’ala nord. È vero, lui effettivamente non è ancora stato incoronato, e non ha seguito una serie di protocolli dettati dall’etichetta che presto, su mio suggerimento, provvederà a risolvere, ma… vi assicuro, signora, che anche tecnicamente, e nonostante qualsiasi opposizione – più o meno traballante – voi intendiate fare… quell’uomo è davvero il re. Vogliate prendere il bambino e seguirmi, per favore, milady»
                «No!» provò ancora, con cieca ostinatezza, l’ormai “ex” regina, ma si rese conto fin da subito che non serviva a niente. Se ne rese conto ancora prima che quel meschino di Braff le dicesse: «Mia signora: basta! Sei davvero una donna troppo bella e intelligente per umiliarti a questo modo…».
                Fu così che, scortati da forse una dozzina di uomini-bestia armati fino ai denti, la Lady e il Lord s’incamminarono verso l’ala nord. Strada facendo, Abigail si accorse di come il palazzo fosse letteralmente invaso da quelle abbiette creature puzzolenti. Qualcuna di loro era in splendida forma, qualcun’altra invece aveva l’elmo ammaccato, o gli spallacci macchiati di sangue, ma il palazzo ne era pieno. A circa metà strada, Abigail incontrò Lady Hana, anche lei naturalmente scortata da mostri. Dopodiché si aggiunsero i Lord Gushing e Pamir Gaholla, e il Gran Maestro Irwin. Anche qualche altro membro del Concilio Ristretto si aggiunse al gruppo; qualche Lord Tribuno Popolare o qualche Ambasciatore regionale. Ma Henrich Bolton – il Maestro delle Armi – non era tra loro. E sul momento Abigail non seppe se concludere che la cosa fosse per lei un bene o un male… concluse solo che aveva paura, e che tutta quella situazione… sempre di più le metteva in corpo una voglia matta di scappare quanto più lontano possibile.
                Lo straniero ammantato di viola che avrebbe preso il posto di suo marito – e di suo figlio – era già dietro le tende della grande balconata, pronto a fare il suo proclama. Con lui, naturalmente, c’era un altro cospicuo gruppo di mostri dalle fattezze animali, ma non c’era anche quell’ometto biondo armato di martello che lo aveva scortato nelle segrete dove Braff aveva ucciso Axelion. C’era quell’altro: il terribile diavolo vestito di abiti principeschi color blu, con mantellina gialla e piccola coroncina da baronetto sulla testa, e poi… un ghignante nerissimo teschio nudo al posto della faccia. Al solo vederlo, l’orrore per la Lady fu talmente grande che quasi perse i sensi. Ma si fece forza, chiuse gli occhi, fece un bel respiro, e insieme a tutti gli altri notabili del regno varcò la soglia del balcone.
                Una folla era stata radunata alla meno peggio. Una folla di cittadini confusi, gli stessi che per mesi si erano ribellati e che adesso, invece, si lasciavano comandare a capo chino dai mostri che avevano invaso la loro città. Ma, nonostante tutto, alla fin fine Abigail avrebbe detto che la piazza fosse più piena di uomini dell’esercito – appartenuti alla compagine sconfitta o a quella vittoriosa – piuttosto che di liberi cittadini, che pure c’erano… ma erano assai inferiori di numero.
                «Cittadini di Roccia del Re!» esordì il nuovo re, con parole classiche ma, a giudizio di Abigail, anche piuttosto banali, «Il legittimo sovrano del Regno Unificato è tornato a sedersi sul trono che gli spetta. Un ritorno che garantirà il benessere di tutti quelli che vorranno considerarsi suoi sudditi. Da questo momento in poi io assicuro anni non solo di pace e concordia tra le regioni che compongono questo grande Regno, da nord a sud e da est ad ovest, ma anche imperiture pace e concordia tra tutti gli uomini e le donne che lo abitano. Rallegratevi dunque, e siate gioiosi! Il mio nome… è Gabryaerys Naharis. E mia madre era Daenerys, nata dalla tempesta. Della Casa Targaryen».

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Capitolo 30
*** Nuove corone ***


Capitolo 30
NUOVE CORONE
 
 
                «A nord, io vi presento Gino: vostro indiscusso signore» proclamò per la terza volta il Septon di Altogiardino, dopo aver già ripetuto la medesima formula spostandosi all’estremo est e all’estremo ovest del grande santuario che sorgeva dirimpetto al palazzo dei signori dell’Altopiano, in quella che usualmente veniva chiamata “piazza dei papaveri gialli”. La tradizione voleva che il Septon cominciasse da est, per poi passare a ovest e a nord e solo in ultimo a sud. Una volta Sir Rollo, che adesso si trovava al suo fianco sinistro, gli aveva spiegato perfino la ragione, e Gino della Casa Barron non l’aveva dimenticata: il sud era il punto verso il quale da sempre i signori dell’Altipiano guardavano; l’area a cui si sentivano di appartenere, e dunque anche la più sacra. Quando diversi secoli prima i Tyrell si erano andati a prendere pure Dorne nella ben nota Guerra dei Girasoli, venne considerato come un momento essenziale della storia di quella parte di continente: il momento in cui il sud si era finalmente unito sotto un unico stemma.
                Era dunque logica la ragione per cui adesso il sacerdote, sollevando la corona al cielo, si era diretto infine verso l’abside più in basso, proclamando: «A sud, io vi presento Gino: vostro indiscusso signore». Adesso era il momento della vera e propria incoronazione: il Septon tornò al centro della sala e poggiò il prezioso oggetto sulla testa del nuovo protettore dell’Altopiano. Come gioiello signorile – almeno stando sempre a Rollo, di cui però Gino aveva una considerazione piuttosto elevata – la corona del signore di Altogiardino era il secondo per valore, dopo quello ovviamente del Re degli Andali e dei Primi Uomini, di tutto il continente occidentale. Sia i materiali usati che la manifattura lo rendevano un pezzo molto pregiato. Il terzo era forse quello del vecchio trono del nord e che adesso apparteneva ad Uryon Worchester, ma si trattava sostanzialmente di un gelido pezzo di ferro.
                Al proprio fianco sinistro, come già detto, Gino aveva voluto il vecchio amico Sir Rollo, visto che l’etichetta permetteva al protettore dell’Altopiano di scegliere chi collocare da quella parte della navata. Alla sua destra, invece, doveva necessariamente sedere il secondo più eminente tra i notabili della regione, e dunque quello che una volta era stato Lord Barron, e che adesso era Jon Barthalo. Poi c’erano via via altri signorotti, tra cui l’ultimo Tyrell maschio rimasto, uno zio di Shane e Lorthan, e sua figlia: la piccola Shanty, nel suo orribile abito a fiori rosa con foglie verdi.
                Shanty non era cambiata, se non in peggio. Quando, sempre in compagnia di Jon Barthalo, il giovane Barron era andato a fare la sua doverosa visita all’ultimo dei Tyrell, Shanty gli si era gettata addosso come se fossero vecchi amici, anche se Gino praticamente non la vedeva da quando lei aveva da poco messo i denti definitivi. E d’altro canto, di una cosa era sicuro: Shanty non agiva per vero affetto; lo faceva perché sapeva che lui sarebbe diventato qualcuno di importante, e a lei era sostanzialmente questo che interessava. Avere sempre più vestiti, sempre nuovi gioielli, sempre nuove dame da compagnia, sempre nuove stanze, in poche parole: sempre nuove ricchezze. Oltretutto era oltremodo stupida e, per quel poco tempo che Gino era tornato a passare con lei, non aveva fatto altro che parlare di fiori, e vestiti, e gioielli, e dame di compagnia. Il solo pensiero di dover passare una parte della sua vita con lei – anche se una parte di corte e perciò meramente formale – gli faceva salire i brividi da sotto la schiena fin oltre il collo. Ma per sua fortuna, per il resto del viaggio, benché non fossero mancate occasioni in cui Shanty – malauguratamente intestarditasi nel suo proposito di seguire la fazione paterna fino ad Altogiardino, insieme a quella del nuovo signore – avesse cercato di riappiccicarsi a lui, c’erano anche un mucchio di altri uomini e donne che desideravano conferire col nuovo grande protagonista della politica dell’Altopiano, e dunque Gino cercò il più possibile, riuscendoci, di dare spazio a questi ultimi piuttosto che alla cugina dei Tyrell. Eppure Shanty era lì presente al momento dell’incoronazione, anche se la sua presenza non fosse stata necessaria neanche per ragioni di protocollo: suo padre era necessario, ma lei assolutamente no.
                Per quanto riguardava Rollo – l’unica persona veramente cara rimastagli a Lungotavolo, visto che Gino era figlio unico e sua madre era morta quando lui era ancora in fasce (peraltro in circostanze che il giovane Barron non aveva neanche mai capito appieno) – Gino aveva avuto modo di rivedere e riabbracciare il suo vecchio mentore, ma non di parlarci quanto e come avrebbe voluto. Non solo c’era stato il problema della fretta che la delegazione dei Barron aveva di organizzarsi per raggiungere ogni singola tappa (ivi incluso il castello di Shanty e di suo padre Lord Tyrell), e che quindi aveva impedito quasi fisicamente a Gino di concedersi un po’ di tempo con il suo vecchio amico… ma la verità era che il giovane nuovo protettore dell’Altopiano aveva avuto l’impressione che Rollo avesse appositamente evitato il momento della lunga conversazione con il suo vecchio allievo. Come se fosse ben felice di rivederlo, riabbracciarlo e discutere magari del suo futuro e di tutto quello di lieto che stava accadendo e che ancora sarebbe accaduto, ma non lo sarebbe stato altrettanto di spendere qualche attimo in solitudine, solo loro due, anche semplicemente a scambiarsi delle opinioni o in un certo senso a “stare in famiglia”, cosa invece a cui Gino da troppo tempo ormai anelava. Era stufo di tutti quegli accadimenti da grandi ballate, di spie, di morti, di guerre, di giochi di palazzo… sentiva di aver solo un po’ bisogno di “casa” e, ancora al momento della sua incoronazione ad Altogiardino, questo suo antico bisogno, che covava da quando aveva lasciato la casa di suo padre per far da guardaspalle a Lorthan Tyrell, non era stato neanche lontanamente soddisfatto. Poteva anche essere solo un impressione – e come poteva saperlo, se non ci parlava? – ma Gino ebbe come la sensazione che anche perfino il vecchio Rollo non avesse inteso spendersi molto per provare ad accontentarlo e farlo sentire, per la prima volta da chissà quanto tempo, veramente stabile, veramente al sicuro, veramente voluto bene.
                Il Septon era ormai a un passo da lui quando Gino, osservando con il suo unico occhio tutto quello che gli stava attorno, e in particolare gli uomini e le donne benvestiti che lo circondavano, tutt’a un tratto vide passargli davanti l’intera sua vita recente. Lord Braff, con i suoi sorrisi e i suoi intrallazzi, che però avevano portato il giovane Barron sul seggio dove ora sedeva. Il giovane Kellan e i suoi straordinari poteri, che però non gli avevano dato modo di scampare dalla forza devastante di quel diavolo dal teschio nero che una notte sì e l’altra pure Gino ritrovava nei suoi peggiori incubi. Suo padre Lord Barron, così vilmente giocato e assassinato dall’uomo cui Gino aveva giurato la propria vendetta: il meschino traditore Constant della Casa Lannister. E poi lei: Daessenya, troppo più bella di Shanty della Casa Tyrell, e di lei troppo più furba, capace, abile, intelligente e – a dirla tutta – perfino meglio vestita. Erano tutte cose che, in quel momento, Gino della Casa Barron sentiva di aver perso per sempre: era in effetti così per Kellan e suo padre, ma non per Braff e neanche per Daessenya, che erano invece vivi e vegeti, seppure a una distanza che in quel momento al giovane Barron pareva simile a un baratro. Aveva perduto Braff e Daessenya e per chi? Per Jon Barthalo e Shanty Tyrell…
                Il sacerdote dei sette dèi poggiò dunque il regale gioiello sul capo di Gino e iniziò a declamare l’ultima parte della formula consacrata. La folla presente scoppiò in un fragoroso quanto festoso applauso: forse Lorthan e Shane non erano poi stati chissà quali grandi sovrani… eppure il nuovo giovanissimo protettore dell’Altopiano non fece molta attenzione a questo. Fece invece attenzione agli sguardi, apparentemente non dissimili a quelli di tutti gli altri, di Jon e in particolar modo di Shanty. Quegli occhi rapaci era come se gli dicessero: ben presto mi attaccherò a quella tua corona, per non mollarla mai più.
 
 
 
                Xenya, il suo storico secondo Pashamanyna, e quell’arciere Sayun – inviato di Muldrow – dal nome Tampepe, dopo la faticosa scalata di una ripida collina, durata diversi giorni, riuscirono infine a raggiungere la città degli uomini-drago. Era enorme e apparentemente meglio organizzata sia dei complessi abitativi dei Kowacz sia di quelli dei Sayun, o almeno i suoi abitanti parevano molto più sereni. Si collocava in una radura ai piedi di una enorme montagna di cui la giovane esploratrice non riusciva a scorgere la punta. Per quanto la riguardava, quel monte poteva anche essere più alto di quello che usualmente le carte del Westeros consideravano come “il tetto del mondo”: il nordico famigerato Monte di Cabuk. Solo che presso Cabuk – Xenya c’era stata – c’era freddo fin dalle pendici: ghiaccio e neve un po’ dovunque. Alle falde di quel nuovo colosso di terra e roccia, invece, anche se di montagna di sicuro si trattava, non c’era freddo, ma anzi un caldo asfissiante; anche più caldo di quello pure presente presso gli accampamenti di Xenya e Pashamanyna alla collina dei Kowacz. Era come se più si avvicinassero alla montagna, più un calore anomalo si propagasse nell’aria, fuoriuscendo direttamente dalle fondamenta della terra.
                Agli autoctoni la cosa non pareva recare alcun fastidio; una volta che i tre si furono avvicinati, sempre prestando molta attenzione alla loro copertura, poterono osservare che gli uomini-drago non solo praticavano ogni azione quotidiana – dai giochi per i bambini al mercanteggio per gli altissimi e muscolosissimi maschi adulti – come se lì non ci fosse caldo, ma Pashamanyna fece perfino attenzione al particolare che loro… non sudavano. Il navigatore dell’Essos, la sua comandante e il Sayun-sama, da quando si trovavano in quella pianura, avevano praticamente ogni piccolo lembo di ogni loro vestito bagnato fradicio, mentre quei grossi omoni dalle corporature invidiabili… non avevano neanche una goccia ad imperlargli la lunga fronte. Caratteristica decisamente inquietante quest’ultima, a giudizio di Xenya l’esploratrice. Decisamente inquietante. Quei tizi erano incredibilmente alti, incredibilmente grossi, incredibilmente forti, incredibilmente resistenti, incredibilmente agguerriti e… non pativano le alte temperature. Dei guerrieri perfetti.
                Spiavano il popolo degli uomini-drago ormai dal pomeriggio. Dei maschi giovani, e più alti e più muscolosi degli altri, erano tornati da chissà dove con circa cinque grosse bestie pelose – animali che non esistevano nei continenti che Xenya aveva già avuto modo di esplorare – trafitte ognuna da almeno cinque dei loro lunghissimi dardi. Il villaggio si era praticamente nutrito tutto assieme di quella ricca cacciagione: ivi compresi le donne (che dunque esistevano, diversamente da come era stato detto a Xenya dai Kowacz), i vecchi e i bambini. Le donne, in particolare, si erano occupate del tagliare la carne e cuocerla sul fuoco, arricchendola anche di quelle che nel proprio continente Xenya avrebbe definito spezie. Dopodiché, ciascuno era tornato alla propria capanna. Eppure adesso, a sera inoltrata, per qualche ragione gli uomini-drago si stavano riunendo di nuovo. I maschi non erano andati a cacciare stavolta: Xenya, Tampepe e Pashamanyna li avrebbero visti allontanarsi dal villaggio altrimenti. E infatti anche loro vennero fuori dalle abitazioni, con le loro donne, i loro vecchi e i loro bambini. Tutti assieme si diressero nuovamente sul piazzale, direttamente connesso con le falde della montagna, dove già avevano condiviso il pasto comune di poco tempo prima. E tutti assieme, a un certo punto, quasi all’unisono, cominciarono a cantare e ballare come invasati. Finalmente, i loro osservatori riuscirono a scorgere qualche goccia di sudore fuoriuscire dalle loro membra.
                Xenya cercò di mantenersi lucida quanto più poté, ma capì che c’era qualcosa di oscuro in quella musica che gli autoctoni stavano suonando. Quel fastidioso, ridondante e fortissimo scroscio prodotto dai loro tamburi tribali, aveva il potere di insidiarsi nella testa e confondere le idee… rimase lucida per tutto il tempo della danza fanatica degli uomini-drago, ma certo l’esposizione continua a quel suono la fece sentire come minimo intontita. Si guardò attorno e capì che anche Tampepe e Jorando (Pashamanyna) si trovavano nella sua stessa situazione; il Sayun-sama addirittura non aveva resistito e si era ficcato i palmi delle mani a tappargli i padiglioni auricolari. Il delirio stava ormai raggiungendo momenti estremi: quei selvaggi stavano incominciando a fornicare tra loro e davanti a tutti – e non soltanto gli uomini con le donne – quando improvvisamente la terra cominciò a tremare. Dalla montagna si riuscì a sentire chiaramente un profondo boato brulicante, come un gorgoglio tra le rocce, come se l’intera enorme struttura avesse vita propria e si stesse lamentando. Con fatica Xenya, Tampepe e Pashamanyna riuscirono a mantenersi in equilibrio, visto che il terremoto durò anche parecchio. Ma gli uomini-drago non la smisero con la loro musica e i loro tamburi: anzi, mentre gli alberi oscillavano e le pietre cadevano dalla parete della montagna, quelli avevano perfino intensificato i loro suoni, dei loro gesti e dunque della loro follia.
                Fu in quel momento che Xenya osservò con i propri occhi della nuova carne, cotta a puntino, piovere giù dall’alto sul popolo in delirio, e questo naturalmente avventarcisi sopra come un branco di cani affamati: ancora una volta, donne, vecchi e bambini compresi. Anzi, questi ultimi, forse perfino più agguerriti e più violenti di tutti gli altri. Ma i tranci di carne che piovvero dalla montagna furono abbondanti, e chiaramente ce ne sarebbe stato per tutti. A poco a poco, la musica cessò, sostituita dallo scroscio vomitevole di animali che trangugiano avidamente come se dovessero far la scorta per il prossimo mese. C’era anche un certo fetore; l’esploratrice non avrebbe saputo dire bene di che cosa si trattasse, e certo non era il peggior olezzo che avesse mai annusato in vita sua… ma, unitamente al resto del quadro, anche questo dettaglio rendeva il tutto non proprio piacevole.
                Accadde dunque che da una crepa sulla roccia, che fino ad allora Xenya non aveva completamente notato, schizzò fuori dapprima un po’ di lava bollente. Poi gli spruzzi si fecero sempre più irruenti, fin quando da dentro quel buco infuocato nella montagna, la ragazza non ebbe modo di poter notare niente meno che… un braccio. Un braccio che non veniva ustionato dalla lava bollente. Poi, sempre insieme agli schizzi di lava, un altro braccio e poi una gamba e un’altra gamba. E mentre giustamente Xenya e Pashamanyna, e anche Tampepe, rimanevano sempre più basiti da quello che stavano osservando, gli uomini-drago invece continuavano nella loro danza del pasto, o pasto danzante, come se nulla fosse. Certo, era come se attendessero che qualcosa venisse fuori dalla roccia, ma non erano affatto sorpresi o spaventati, anzi… erano entusiasti!
                L’uomo del fuoco venne fuori in tutta la sua interezza. Strano, come altrimenti non poteva essere, eppure umano. Non aveva capelli né peli da nessuna parte: niente baffi o barba, né ciglia o sopracciglia. Anche lui era alto come un uomo-drago, e muscoloso come un uomo-drago. Senza dubbio la sua natura apparteneva più al genere di quei selvaggi del nord del nuovo continente, piuttosto che a qualsiasi altro tipo umano di qualsiasi regione del mondo. Eppure, era diverso anche da loro. La sua pelle era lucida e, almeno all’apparenza, coriacea: era come se avesse il doppio dello strato di pelle che normalmente un uomo possiede, anche uno degli uomini-drago. Venne fuori da quella crepa sulla montagna, con la testa alta e lo sguardo di uno che non teme niente. Un nobile, un sovrano, o forse ancora più esattamente: un dio. Era completamente nudo, ma alcune femmine degli uomini-drago provvidero subito a coprirlo di sotto con una sorta di lunga gonna color porpora scuro, e di sopra con un mantello color porpora brillante. Dopodiché, stavolta un maschio gli collocò sul capo pelato una specie di corona artigianale, sostanzialmente composta di ossa. Inutile negarlo: le urla festose, da quando il nuovo sovrano degli uomini-drago era venuto fuori dalla sua crepa nella montagna, erano tornare ad intensificarsi. C’era un qualche tipo di rapporto tra l’uomo pelato, che uomo-drago non era, e gli uomini-drago, che a loro volta, sebbene simili, chiaramente non appartenevano alla stessa razza del re dentro la montagna. Ma certo lo riconoscevano come loro superiore, qualcuno verso il quale rivolgere la propria festa e il proprio entusiasmo, qualcuno da servire, vestendolo e incoronandolo. Quanto e come il nuovo arrivato potesse entrarci con il fenomeno della carne cotta piovuta dal cielo, o del forte terremoto di poco prima, questo Xenya non riuscì a determinarlo. Eppure il nuovo re del nuovo continente, senza partecipare al banchetto dei suoi sudditi, rimase comunque con loro, osservandoli, come un padre benevolo. A un certo punto, senza che il re lo domandasse, un uomo-drago decise di sua sponte di buttarsi ai suoi piedi e farseli appoggiare sulla schiena. Il re con la corona d’ossa non aveva chiesto quel servigio, eppure non lo rifiutò. Una donna gli portò da bere, in una specie di assai artigianale coppa di legno. E in quel preciso istante, Xenya l’esploratrice si sentì osservata…
                Il re dentro la montagna in effetti sollevò il proprio gelido (incredibile a dirsi data la temperatura soffocante) sguardo proprio in direzione delle fronde dove la ragazza se ne stava nascosta insieme al suo secondo e all’arciere dei Sayun-sama. Solo allora Xenya vide che le pupille all’interno degli occhi di quello strano re erano di un color rosso vivido. Un colore che, stando alla sua esperienza, umano non poteva essere. E fu proprio mentre l’omaccione sollevava quei suoi diabolici occhi verso di loro, che Xenya l’esploratrice si sentì scrutata fin nel profondo dell’anima da parte di quella ambigua creatura. Certo, non poteva dire con sicurezza che il re della montagna stesse guardando proprio esattamente loro, o se invece aveva solo casualmente rivolto per un momento lo sguardo in quella direzione, ma quando lo fece… Xenya si sentì nuda, debole… e anzi proprio inerme.
 
 
 
                Per tutto quel tempo, Daniel di Cowain non si era ancora abituato al freddo del nord. Era salito non solo fin sulla montagna del tetto del mondo, ma anche nell’enorme distesa di ghiaccio dove risiedeva il drago Requiem, a un palmo dall’ultimo oceano del mondo: il Cuore di Actonon. Aveva sopportato freddo di tutti i generi, e oltretutto… da quando aveva appreso l’arte della Piromanzia – per quel poco che ancora pensava di saperne – il suo corpo normalmente era anche dotato di una specie di sistema di auto-riscaldamento non trascurabile. Riusciva benissimo a distinguere la differenza, anche se in verità marginale, tra il Monte Cabuk o il ghiacciaio dove risiedeva Requiem e la regione dove si trovava in quel momento: quella molto più a sud che, fino a quel momento, era stata la dimora della Casa Applegate. Poi c’era un “nord” più a sud, quello che si spartivano i Bolton e i Worchester, dove una volta era sorta la leggendaria Grande Inverno, roccaforte della Casa Stark, e da dove pure Daniel era passato. E oltretutto, anche se non veniva più definito “nord”, anche la parte del Regno dove sorgeva l’enorme palude detta “Incollatura”, e anche la Valle di Arryn di dominio della Casa Baelish, erano luoghi dove occasionalmente poteva nevicare. Per il Daniel d’un tempo, quello che era stato principe di Cowain, e che ancora non aveva visitato il Monte Cabuk e veduto i draghi, anche quei luoghi sarebbe risultati “piuttosto freddini”. La verità era che lui era stanco di tutto quel freddo e, anche se ci si era in parte abituato, continuava a non sentire quei luoghi come “casa sua”. Ci stava da anni ormai nel nord, eppure nella sua testa continuava a pensare a quella regione del mondo come a un luogo dove passare una parte breve della sua vita. Questo sino a quando non era stato fatto prigioniero dai Willoughby sulla piana di Alberocasa…
                Con ancora addosso, naturalmente, quella Pietra di Luna che ne rendeva impossibile non solo l’esercizio dei proprio poteri di Piromante, ma anche una serie di altre funzioni come il camminare, il parlare e il muoversi in generale, Daniel venne preso e messo seduto su una sedia all’interno di una tenda molto ben agghindata. La tenda più ampia, e in particolar modo più alta, che lui avesse mai veduto. Certo, senza dubbio, si trattava sempre di un giaciglio temporaneo dovuto a una condizione di guerra, ma dati questi già citati elementi, e dato l’arredamento non di poco conto che ci trovava dentro, Daniel non poté che concludere che quella fosse la tenda di un capo.
                Aveva già sentito parlare di Uryon della Casa Worchester, l’orso del nord. L’uomo incredibilmente alto e deforme, ma dalle impressionanti cultura e intelligenza, che governava la casata occupante il territorio dove una volta avevano regnato gli Stark. Non si sarebbe però mai sognato in vita sua di trovarcisi un giorno a conversare dentro una tenda. Anche se “conversare” in effetti non era il termine più adatto, visto che quella sera ad Alberocasa, Uryion Worchester parlò e parlò molto, ma senza permettere a Daniel di Cowain di rispondergli alcunché, perché farlo parlare avrebbe richiesto il suo scagionamento dalla Pietra di Luna, e un suo scagionamento dalla Pietra di Luna avrebbe reso Daniel di nuovo libero di far di quella tenda un falò.
                Però, per qualche ragione, non appena Lord Uryion ebbe varcato la soglia della propria tenda e si fu seduto nella sua sedia, che solo allora Daniel si accorse essere particolarmente grande, il principe Piromante non poté fare a meno di ammettere con se stesso di essere piuttosto deluso. Certo, Lord Worchester era sicuramente un individuo di aspetto raro, e Daniel non aveva mai visto nessuno come lui prima di allora… ma, da quello che aveva sentito dire, l’aristocratico del nord avrebbe dovuto essere una specie di figura leggendaria: per quanto orrenda e mostruosa, dotata di caratteristiche “magiche”, mezzo uomo e mezzo animale. Invece quello che si era appena seduto davanti al principe Daniel era semplicemente un uomo malato. Uno che, per camminare, necessitava di una grossa stampella scolpita, altrimenti quelle ossa ritorte che si ritrovava non gli avrebbero permesso neanche di reggersi bene in piedi. Uno che aveva sul viso tutta una serie di anomale sacche carnose che ne rendevano deforme l’aspetto e che per la gran parte della gente più ignorante potevano pure rappresentare dei tratti demoniaci, ma Daniel sapeva bene invece che si trattava di gravi forme di malessere della pelle, delle ossa, e forse pure perfino di qualche altro tessuto. Era vero: Uryon aveva i denti appuntiti come quelli di una belva selvaggia, come un orso insomma. Ma, dato il fatto che la deformazione delle ossa del viso lo aveva portato a ritrovarsi tutta la bocca e la mascella ritorte, non era improbabile che anche lì ci fosse un problema di natura organica e niente di più. D’altro canto, non aveva nemmeno tutti i denti di un normale uomo della sua età, nonostante in effetti il Piromante non avesse saputo dire bene quanti anni Uryon avesse. Insomma, diversamente da come gli avevano detto e da come si era aspettato, il principe di Cowain non aveva provato terrore alla prima vista del Lord dei Worchester… al massimo un sentimento di contrita pietà.
                «Se devo essere sincero…» esordì dunque quel gigante malato dalla sua poltrona su misura, e Daniel si accorse che almeno su una cosa i racconti popolari avevano ragione: Worchester pronunciava male le parole, «Sono un po’ deluso. Mi aspettavo un impareggiabile guerriero. Non dico esattamente uno della mia stazza, ma comunque un uomo… discretamente temibile. Invece il nostro Piromante… si muove su quattr’ossa un po’ secche. D’altro canto, la giovane età combacia con quell’altro profilo che mi aspettavo… quello di Daniel della Casa Lannister, principe di Cowain e… primo erede al Trono di Spade, stando almeno a una rivendicazione basata sulla vecchia linea successoria…». Era come se Uryon si aspettasse una risposta da lui, come se non fosse consapevole del fatto che la Pietra di Luna, tra le altre cose, impediva al principe di Cowain di aprir bocca. Dopo una breve pausa, visto che Daniel non rispondeva, il gigante uomo malato si decise a continuare: «Domando scusa per il trattamento che state subendo… mi impegno a che possiamo trovare una qualche soluzione di qualche genere. Nella mia biblioteca alla Torre di Amergoth, ho letto che probabilmente – se tagliata – la pietra potrebbe in qualche modo limitare il suo potere invalidante nei confronti dei Piromanti. Continuare a tenerli sotto controllo, ma… permettergli quanto meno di muoversi e di parlare. È… una questione complessa, non vi prometto che di sicuro accadrà: non posso rischiare che voi mi infiammate la casa, visto che è lì che siamo diretti… ma… prometto che mi informerò. E, se troverò la cosa sicura, verrete subito liberato: non si conviene a un uomo del vostro rango essere trattato in questo modo, non si conviene a nessun uomo in effetti. E poi, se voi siete Daniel Lannister, mi servite vivo e in salute». Nuovamente Uryon si concesse una pausa. Si mise in piedi e Daniel poté osservarne con maggiore attenzione l’impressionante altezza: quanto due uomini messi assieme, anche due uomini e mezzo. Lord Worchester si diresse a una piccola cassa rotonda collocata su un piano a lui accessibile, la aprì e ne prese una bottiglia di vino e un calice un po’ grezzo. Se li portò entrambi alla sua sedia e fu degustando il suo vino che riprese il monologo: «L’età è quella. E, stando alle mie fonti, l’ultimo Primo Cavaliere designato, ovvero per l’appunto: Daniel di Cowain, è salito al Monte Cabuk per riceverne un non meglio precisato addestramento… ma un addestramento di natura magica, questo va da sé. Siete un Piromante, siete un coetaneo del principe Daniel, e siete magro e fisicamente non molto ben formato, come capita più spesso a un aristocratico che a un popolano. Il lavoro richiede prestanza fisica, gli offici di un nobile normalmente no… sì, rimane ancora un margine di dubbio, ma credo che non possiate volermene se d’ora in avanti mi rivolgerò a voi con il termine “principe Daniel”. Se anche foste un popolano, vi avrei perfino elevato di grado e comunque… come fareste mai a sollevare qualche rimostranza?». Nuova degustazione di vino, e poi nuova ripresa: «Vostro fratello Axelion è morto. Un non meglio precisato signore dell’est è da un po’ di tempo che mette in subbuglio la vostra regione di provenienza e alla fine… è andato a prendersi Roccia del Re. È anche grazie a questa circostanza che noi oggi siamo qui, in questa tenda, a conversare. Non vi nego che con un intervento della Casa Bolton le cose sarebbero potute andare diversamente qui a nord… ma adesso Alberocasa è mia. Tecnicamente appartiene ai Willoughby, ma i Willoughby appartengono a me, per cui… è mia. Sono miei il suo freddo e la sua desolazione, ma anche… tutto il suo così inestimabile legname. Un rifornimento… quasi infinito. Rifornimento che direi, adesso, fa di me l’indiscusso signore del nord. Non è superbia, badate! È una questione assolutamente tecnica; il dominio sul nord passa necessariamente da tre strade principali: il controllo sul legname della gigantesca ultima foresta prima dei ghiacciai, quello sul punto geografico di dislocamento tra sud ed estremo nord, e infine l’amicizia con i signori del sud. Prima questi tre elementi appartenevano a tre famiglie diverse: Applegate, Worchester e Bolton. Ma se uno dei due passa sotto il comando dell’altro e dunque uno di quei tre signori, per esempio: io, si ritrova a gestirne due su tre… per il terzo è finita. Quel signore è il signore del nord. Per cui, Daniel di Cowain, penso che possiamo dire che tu in questo momento stia parlando… con il re del nord». Ancora una volta Uryon bevve il suo vino, e ancora una volta parve scrutare Daniel come se attendesse da lui una risposta che non poteva arrivare. Continuò: «Non so bene questo cosa causerà in merito ai nostri rapporti con i signori del sud, ivi incluso il nuovo re degli Andali e dei Primi Uomini. Non ho alcun motivo di inimicarmelo: sono un uomo pragmatico, e ho già la mia corona sulla testa e tutta l’autosufficienza che la mia gente abbisogna e merita… perciò, se sarà solo un riconoscimento formale quello che vorrà… per quanto mi riguarda, potrà anche averlo. Ma i Bolton devono capitolare. Rivolgerò contro di loro tutte le mie nuove forze molto presto. E da quel momento, per la prima volta da millenni, il nord avrà un unico sovrano unitario. Il re del sud, d’altro canto, avrà la sua propria corona sulla testa e io non intendo minacciargliela: la verità è che il Westeros si compone di due diverse regioni formalmente autonome e non ci sono ragioni per cui esse si mischino, e vi sono ragioni ancora minori perché si scontrino. Poi naturalmente se questo signore che siede attualmente sul Trono di Spade è un pazzo ingestibile, provvederemo agli eventuali risvolti, così come d’altronde abbiamo già provveduto a tuo padre, io e il vecchio Senus Willoughby. Io non lo volevo morto, sono stati i Willoughby ad insistere: sono sempre così estremisti e guerrafondai… però certo ho suggerito il veleno come metodo: pulito e silenzioso. Non lascia traccia e fa sospettare di tutti e dunque… rende assai più complesso intercettarne l’autore. Vi chiederete perché io vi stia riferendo tutte queste cose… in verità la questione dell’assassinio di Lionel avrei potuto serenamente tralasciarla. Ma voi state per venire con me, a sud. O meglio: più a sud di qui; a Biancavilla del Nord, presso il mio palazzo. Lì si cercherà il modo di rendere la vostra prigionia quanto più “aurea” possibile. E naturalmente vi terrò sotto il mio controllo diretto, evitando di lasciarvi qui in preda ai Willoughby che sono… alleati preziosi e fedeli, ma… non molto buoni per le questioni “politiche”. E a Biancavilla, come si conviene a un signore del vostro rango, voi verrete trattato quanto più bene possibile. E il trattare bene qualcuno coincide di solito primariamente, oltre che nel nutrirlo e nel farlo sentire quanto più comodo e quanto più al sicuro possibile, nel renderlo partecipe delle informazioni che riguardano il suo immediato futuro, almeno di quelle più importanti. E… nel rivolgersi a lui con quanto più garbo possibile, cosa che ho cercato di fare incontrandovi qui oggi presso la mia tenda. Badate bene, Daniel di Cowain: la mia è solo una formale intenzione di mantenere buoni i rapporti. Ma non esiterei a farvi coprire di sale per poi scuoiarvi da vivo come farebbe un qualsiasi Bolton, se per caso doveste minacciare un tentativo di fuga, o se qualche vostro “magico” amico volesse tentare di liberarvi, o se peggio ancora qualche vostro familiare alla testa di un qualche sgangherato esercito di disperati volesse venire a cercare di riprendervi. In quel caso cospargerei di sale scuoierei vivi anche loro. Ci siamo capiti, figliolo?».
                A questo punto Lord Uryon ordinò che Daniel fosse preso e condotto in un’altra tenda, molto meno comoda. Ma prima di farlo, non rinunciò a scrutare il giovane Piromante dritto negli occhi con quello suo sguardo ferino. Fu allora che Daniel si rese conto che le voci relative a Lord Uryon non erano poi così sbagliate: forse nel corpo quell’orrendo gigante era davvero solo un uomo ammalato. Ma nell’animo egli era senza dubbio quello che si diceva in giro: un mostro.

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