Catrina

di Mirella__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Welcome to your life ***
Capitolo 2: *** Turn your back on mother nature ***
Capitolo 3: *** There's no turning back ***
Capitolo 4: *** Acting on your best behaviour ***
Capitolo 5: *** Nothing ever lasts forever ***



Capitolo 1
*** Welcome to your life ***


Note iniziali

Catrina è la mia ultima creazione.

Ho lasciato tante storie in sospeso, ma per questa, adesso che sono libera dalle preoccupazioni, sento di poter raggiungere quell'impegno che nelle altre mancava, soprattutto a causa dello stress.

Questa storia è stata ispirata da una canzone di Lorde: “Everybody wants to rule the world” e i versi di questa – non necessariamente in ordine - comporranno la trama di ciò che si spera sia un racconto capace di coinvolgervi.

Ho inserito tutte e tre i tipi di coppia perché nel corso della lettura potrete vedere diversi tipi di relazione.

Vi lascio e vi auguro una buona lettura!

 

 

 

Catrina

 

 

 

Welcome to your life

 

 

 

C'è stato un tempo in cui credevo che nella vita non ci fossero poi tante scelte.

Parliamoci chiaro, quando ero giovane la pensavo in questo modo: se sei nato da una meretrice non puoi diventare un re, se tuo padre fa il contadino, sono ben poche le possibilità che tu diventi un banchiere, se i tuoi legami non sono quelli giusti, non hai altre vie se non proprio quelle dove essi ti trasportano.

All'epoca viaggiavo tra mondi diversi, anzi, è più corretto dire che ci vivevo, poiché combattuta tra gli usi e costumi dei ricchi e la peste nera e la fame del popolo.

Non ero niente più che una cameriera, una di quelle che vedi tutti i giorni al mercato, una di quelle che stanno lì a spendere la vita al servizio degli altri, a pulire il buco del culo a quelli d'alto rango; se mi concedi il termine.

Ero anche una ragazzina buona, tanto educata, tanto gentile ed ero nell'età in cui ogni ragazza inizia a compiacersi del proprio aspetto e a voler compiacere anche l'altro sesso.

Ero così fiera delle occhiate che mi venivano riservate.

Se dovessi raccontarti l'inizio della mia storia, oh beh, credo inizierei dal giorno della mia nascita, quindi, se non hai niente di meglio da fare, prenditi una sedia.

Io parlerò, col mio bel bicchiere di whisky tra le mani e ti racconterò di come la mia linea di pensiero cambiò, ti spiegherò il motivo e riderò nel vedere lo specchio di quella che era la mia innocenza disegnarsi sul tuo viso.

 

 

 

Sono nata in un giorno di pioggia, almeno sempre così mi avevano raccontato; una delle più possenti e ricche piogge dell'anno, che portò alla distruzione di campi e recinzioni.

Mia madre non ne parlò mai apertamente, mentre mio padre – un uomo che non si teneva mai niente nello stomaco – mi ripeteva continuamente che era un segno disgraziato, che la mia nascita non era voluta.

Ovviamente avrebbe preferito un maschio, oh Dio! Ma in fondo in una società basata sulla mera forza fisica la sua reazione alla nascita di una femminuccia era più che giustificata.
Mia madre viveva essenzialmente per soddisfare le esigenze del marito e quando vide il suo malcontento nell'avermi avuta, non potè che appoggiarlo in tutti i modi, sentendosi causa del fatto che non avessi fratelli in grado di poter perpetuare il buon nome della famiglia.

Iniziai a lavorare sin dalla tenera età.

A sei anni andavo al mercato con mia madre per vendere la frutta e più ceste piene riuscivo a trasportare, più mi sentivo fiera e non mancavo di farlo notare.

Mio padre si occupava degli affari, se ne stava sempre lì, seduto, a controllare affinché tutto andasse per il verso giusto e che nessun mano nera fregasse anche solo una mela.

Il profitto era minimo, tiravamo avanti in qualche modo e posso dire che stavamo meglio di coloro che non avevano nemmeno una coperta per ripararsi dal gelo della notte.

Quando fui abbastanza grande, mia madre mi presentò ad una nobile bambina della mia stessa età.

Ricordo che non ne capii subito il motivo, vedevo la mia adorata genitrice – e qui ti prego di cogliere il sarcasmo – parlare con quella che era una signora di bell'aspetto, tutta ingioiellata e con un cagnolino di piccola taglia tra le braccia.
Sembrava una di quelle con la puzza sotto il naso, non mi piaceva.

Quel giorno avevo indossato il vestito buono, quello che ero solita vestire per andare a messa la domenica mattina, quindi non mi sentivo così fuori luogo. Con quel vestitino di cotone e quei guanti eleganti mi sentivo una principessa, quindi allo stesso livello dell'altra bambina, che, tuttavia, mi fissava con un'aria schifata.

Quando le donne finirono di parlare, mia madre mi si avvicinò e sul suo viso per la prima volta c'era un'espressione fiera, come se avessi fatto qualcosa in più dei soliti andirivieni con i cestini tra le braccia.

“Sarai l'amica di Jennifer, sei contenta?”

Ricordo d'aver annuito vagamente, anche perché la sopracitata Jennifer non sembrava poi così entusiasta all'idea.

Fui la sua dama da compagnia fino all'età di sedici anni, anche perché poi accadde quel che accadde.

Ricordo di essere diventata una delle sue favorite, mi aveva persino preso da parte e insegnato a leggere e scrivere, chissà il perché poi.

Da quando avevo intrapreso quella strada non c'erano stati altri sbocchi possibili e in me si era radicata la convinzione che la vita seguisse un filo sopra il quale potevi camminare tentando di stare in equilibrio: la caduta, significava morire, mentre invece percorrerlo era come camminare una strada che ti portava sempre alla morte, ma attraverso le solite tappe, vale a dire matrimonio, figli, nipoti, se eri fortunata, e infine la tomba.

Pensandoci, a questo mi ero persino adattata.

Io e la signorina Jennifer camminavamo spesso per le vie della nostra cittadina, lanciando occhiate sfuggevoli e risolini svenevoli ai ragazzi più avvenenti.
Nessuno si azzardò mai ad avvicinarcisi, questo perché la signorina Jennifer era sempre scortata da almeno tre energumeni. Erano uno più grosso dell'altro, il più basso era un metro e ottanta e il più alto quasi toccava i due metri.

Jennifer era ricca, di buona famiglia, una vera nobildonna, e ormai era in età da marito, di conseguenza i genitori iniziavano a vagliare ogni richiesta di matrimonio che le veniva inviata, in cerca del miglior pretendente.

Mi diceva spesso: “Loro lo scelgono a me e io lo scelgo a te”. E assieme ridevamo, perché era una cosa tanto stupida, quello che lei diceva, quanto fattibile. Conosceva i miei gusti e, se posso permettermi l'ardire, se la rivedessi li conoscerebbe tutt'ora.

Dopo le risate, però, vedevo nel suo sguardo una certa tristezza.

Ci ero abituata, a quello sguardo, perché era quello di una qualunque nobildonna che correva il pericolo di sposarsi con un uomo molto più grande di lei.

Ogni volta che la vedevo perdersi a quel modo, le chiedevo: “Hanno scelto?”

Lei puntualmente scuoteva la testa e mi diceva che no, non l'avevano ancora scelto.

Il vero inizio della mia storia sarebbe avvenuto di lì a qualche giorno.

Era un uggioso mattino di un martedì qualunque, sembrava che la pioggia volesse riprendere da un momento all'altro e io ero scesa al mercato per comprare del pesce.

Non ridere, tu! Ero davvero brava in quello che facevo, anche se adesso il mercato probabilmente è l'ultimo posto nel quale mi vedresti.

Dicevo, ero al mercato e cercavo il cibo migliore che potessi trovare, guardavo gli occhi dei pesci, avrei comprato quello che mi sarebbe sembrato più vivo.

In quel momento mi giunsero delle urla all'orecchio, alzai lo sguardo per capire cosa stesse succedendo e venni urtata da un ragazzo poco più grande di me.

Quello mi chiese perdono e si dileguò con una velocità tale che sbattei le palpebre più volte per accettarmi se ciò che avevo appena visto fosse reale o solo un'illusione.

Nell'urto avevo sentito un altro rumore: qualcosa era caduto dalle tasche del ragazzo, perciò mi misi in ginocchio e guardai sotto le tavolate dove il pesce era esposto per la vendita; lì trovai l'oggetto che avrebbe cambiato la mai esistenza e che ancora oggi vedi alla mia cintura.

Un pugnale, incredibilmente affilato, la lama era dorata, e in quel momento non seppi se era davvero oro quello che vedevo o solo un colore riuscito bene.

Non potevo stare li giù a decidere e per istinto lo presi e me lo sistemai tra le pieghe del vestito.

Mi diedi della stupida mentre compravo il pesce, mi diedi dell'idiota mentre tornavo alla villa: non avrei dovuto raccoglierlo, avrei dovuto lasciarlo lì dove stava, ma ne ero stata talmente affascinata da non aver avuto scelta. Quella lama bellissima doveva essere mia.

Lo sentivo contro la pelle quel giorno; mentre facevo il bagno alla mia signora, mentre pulivo la casa, mentre aiutavo la cuciniera.

La sensazione dell'acciaio contro la pelle è sgradevolissima, se non sei in pericolo.

I sensi di colpa si acuivano, mi sentivo come se stessi impazzendo, avevo persino ponderato l'ipotesi di tornare al mercato e rimettere quel pugnale lì, dove lo avevo trovato.

“Tutto bene, Catrina?”

Sorrisi tra me e me, quella ragazza mi conosceva da quando avevo dieci anni, era ovvio che non avrei potuto nasconderle la preoccupazione.

“Non proprio”. Mi guardai attorno, aspettai che fossimo sole e le mostrai il mio bottino.

Lei sgranò gli occhi e fece un passo indietro. “Dovresti darlo via, oggi ci sono le guardie del mio futuro marito e non vorrei che ti trovassero indosso uno di questi”. Il suo sguardo era terrorizzato e se da una parte potevo capire il perché, da un'altra ne ero confusa.

Non avrei dovuto prendere un pugnale, ovviamente, ma perché esserne tanto spaventati? Avrei potuto gettarlo via una volta lasciata casa sua, ma a quanto pareva non sarebbe stato abbastanza, a giudicare dallo sguardo di Jennifer.

Riflettei solo in un secondo momento riguardo quello che mi aveva detto.

Quando lo feci, il pugnale diventò improvvisamente un argomento secondario.

“Il tuo futuro marito?” Fu allora che colsi il suo solito sguardo, ancora una volta, e improvvisamente tutto diventò limpido, come se finalmente l'acqua torbida fosse tornata pulita e riuscissi a vedere quello che c'era sotto la superficie.

Non era felice, Jennifer, da tanto tempo, e aveva deciso di nascondermi tutto, almeno per quanto le era concesso.

“Il barone”. Da tempo, infatti, quell'uomo la corteggiava. Si era distinto dagli altri perché le mandava dei fiori e per ogni bocciolo di rosa vi era incastonato un diamante.

Un bel regalo, certamente, ma era anche un modo di dimostrare il proprio potere e schiacciare gli avversari, tuttavia quest'ultimo non fu l'unico a distinguersi.

Nonostante l'epoca, nonostante la classe sociale dell'uomo di cui adesso ti accennerò, i genitori amavano Jennifer a tal punto da considerare le sue scelte.

Jennifer, però, sapeva che d'amore non si vive e le meravigliose lettere che quel ragazzo le mandava finivano irrimediabilmente accartocciate e gettate nel camino.

Mi chiedi se lei lo ricambiasse?
Oh, ma certo che lo ricambiava, ma Jennifer era furba, intelligente e con la testa sulle spalle. Fu per questo motivo che rifiutò quel borghese e accettò la proposta del barone.

Tutto questo l'avevo capito da un solo sguardo, perché la conoscevo talmente bene che le parole erano inutili tra di noi.

Ciò non toglie che per me era nel torto.

Capiscimi, ero giovane e come a molti piace poeticamente affermare: ero innamorata dell'idea dell'amore.

Dicevo, quando ebbi conferma dalle sue labbra riguardo le mie congetture, lasciò trasparire per la prima volta un lieve tremore nella sua compostezza.

Il barone non era dolce, non era famoso per quello, tuttavia volevo dargli un'opportunità.

Decisi quella sera stessa di assistere alla cena, di servirlo, di esaminarlo in ogni mossa e Jennifer era stata contenta d'avere almeno una figura amica accanto a lei.

Tra il tintinnare delle posate dorate sui piatti di porcellana e la solita boria che dava quel bicchiere di vino di troppo, la conversazione era risultata piacevole persino alle orecchie della servitù.

Iniziavo a credere che, nonostante ci fosse una certa differenza d'età, Jennifer non avesse poi fatto una cattiva scelta, riguardo al barone.

Si chiamava Lucas Brandeis, origini spagnole. I capelli erano velati da fili argentei, raccolti in un codino, gli occhi grigi erano attenti e svegli, la lingua scattante ed elegante.
Aveva un atteggiamento di quelli che non lasciano molto spazio alle decisioni autonome. Fiero, altezzoso, di un aspetto alquanto aitante.

Jennifer ne sembrava affascinata e non nego che anche io provavo una certa attrazione per quell'uomo. I suoi occhi erano calamite, quando ti parlava non avevi modo di fuggire loro. Ti catturavano, sempre.

Probabilmente è per questo che...

No, aspetta, non sarebbe divertente se ti anticipassi la fine, quindi sto attenta a non lasciarmi in divagazioni inutili.

Dicevo, avevo deciso di partecipare alla cena e la seguì fino alla fine.

Le tenebre incombevano.

Fui una delle ultime serve ad uscire dalla villa. Per me non era una novità. Conoscevo ogni anfratto di quella città, ogni singolo vicolo, ogni minuscolo nascondiglio.
Ero capace di muovermi con la rapidità di un gatto tra quelle strade e sapevo nascondermi con la stessa velocità di un topo.

Se venivo seguita, quindi, non era difficile risolvere il problema.

Non dovetti percorrere troppo, infatti, prima d'avere uno dei tanti ubriaconi alle spalle. Anzi, quella sera era stato un record per la velocità. Se ci penso oggi ancora mi viene da ridere.

“Riesci a scappare sempre, eh puttana?”

Ah già, quasi dimenticavo. Non ti avevo parlato di lui.

George era... George?

Un pescivendolo che soffriva il mal di mare. Ti lascio immaginare come per lui procedevano gli affari. Forse era per questo che si ubriacava e che puntualmente ogni sera provava a raggiungermi sulle sue gambe claudicanti.

“Non è colpa mia, George, se bevi più vino che acqua”. Affrettai il passo, perché quella sera mi sembrava che avesse diluito di più le droghe delle quali si faceva; questo significava che era più lucido e se era più lucido voleva dire che avrei dovuto farmi una corsetta fino a casa.

“Mi sono impegnato oggi per te, bellezza, vuoi vedere?” E con uno scatto che in effetti non mi aspettavo mi afferrò il polso e mi trascinò su di sé in una presa stritolante.

“Lasciami, energumeno!” Ero stata un'idiota, ma francamente non pensavo che sarebbe riuscito a stare lontano dal vino per scoparsi una servetta.

La presa era stretta, fin troppo per i miei gusti e sussultai quando sentii la lama premere e incidermi superficialmente la pelle. Strinsi i denti e mi rilassai tra le sue braccia. Mi serviva solo l'attimo nel quale lui si sarebbe distratto; avevo già deciso.

Quella scintilla che mi distingueva dalle mie coetanee esplose, cancellando ogni incertezza.

Fu allora che il mio pensiero riguardante la vita iniziò a sbriciolarsi, i blocchi di cemento che sorreggevano la mia convinzione si sgretolavano di fronte a quella che era la realtà.

Credevo di non farcela, di fare un minimo errore, che la lama mi scivolasse di mano, che la mia vita avesse già deciso che avrei dato alla luce il figlio di uno stupratore.

Ma quella stessa notte fui meravigliata.

Era così naturale il modo in cui la mia mano scivolò sotto la veste, ne estrasse il coltello e con una precisione che tutt'oggi, con le mie conoscenze, definirei chirurgica trovò una strada ben delineata e già indissolubilmente segnata: quella del cuore di George.

Le sue ultime parole furono un gorgoglio spezzato, niente più che un rantolo, poi si accasciò a terra.

Non capii inizialmente il casino in cui mi ero cacciata, in quel momento il mio istinto di sopravvivenza mi aveva sopraffatta. Ero eccitata, esaltata, quasi felice nell'aver tolto la vita a qualcuno. Felice di essere ancora viva e inviolata.

Sulle labbra mi sentii affiorare un piccolo sorriso, poi dilagò in una risata isterica, le ginocchia mi cedettero e la gonna della mia veste si macchiò di sangue.
Poggiai le mani a terra e respirai affannosamente.

Mi ci volle un po' per riprendermi e mi accorsi di una presenza solo quando ero talmente sporca da non capire più se ci fossi nata con il colore del sangue sulle mani.

“Catrina”.

Ser Lucas mi guardava ghignando, non aveva più l'aria del signorotto educato che aveva dimostrato durante la cena.

Chi era in realtà l'uomo che Jennifer stava per sposare?

Pensieri veloci, idee confuse si accavallarono le une agli altri.

Mi si avvicinò e personalmente non avevo nemmeno voglia di allontanarmi. Ogni mio muscolo si era atrofizzato, adesso che l'eccitazione passava, sentivo solo la pesantezza di arti che non volevano muoversi.

Quando Lucas si fece a portata del raggio d'azione della mia lama, vidi il riverbero del metallo, poi qualcos'altro.

Un pugnale del tutto identico al mio era incastonato tra le costole dell'uomo.

Troppo sconvolta per emettere un grido, troppo terrorizzata per avere anche solo la volontà di capire la situazione, guardai il ragazzo, che quella mattina mi aveva urtata al mercato, estrarre dal corpo ormai senza vita l'arma del delitto.

“Come pianificato”.

I miei occhi si sgranarono.

Mi scostai i capelli rossi dal viso per osservarlo con più attenzione. Avrei dato una spiegazione a tutto quanto, avrei detto che non... non ero stata io a uccidere Ser Brandeis, ma quel ragazzo, sarei stata in grado di fornire una descrizione accurata.

Eppure, mentre guardavo il sangue che avevo tra le mani e ne sentivo il lezzo nauseante, rividi l'intera situazione da un punto di vista di una persona esterna.

Io ero colpevole, io ero quella sporca, riversa in terra su due cadaveri uccisi dallo stesso pugnale. Nessuno avrebbe creduto a una serva, sarebbe stato molto più facile incolpare una popolana, le autorità non avrebbero cercato un...

La folata più gelida di vento che avessi mai sentito in tutta la mia vita mi riscosse. Davanti a me non c'era più nessuno.

Fu allora che mi alzai.

Le autorità non avrebbero cercato nessun fantasma, nessuna allucinazione di una serva psicopatica. Elaborai un piano veloce, cercai di cavare un valido consiglio da tutti i libri che avevo letto assieme a Jennifer, ma la vita non è un libro, la vita... beh la vita è istinto.

Non trovai nulla di adatto alla situazione nella quale mi trovavo e così, persa nell'angosciante vortice della mia confusione, decisi che l'unica soluzione era andarmene da lì e sperare che nessuno avesse assistito alla scena.

Ma era una speranza vana, ne ero consapevole, perché la gente, in quello sperduto paesino, aveva paura della propria ombra e queste ultime potevano essere intraviste nella penombra dei vetri delle loro finestre.

Io sarei stata condannata ad impiccagione per aver ucciso un uomo, fino a che la morte non fosse sopraggiunta.

No, non sarei morta in quel modo, non era da me.

Sentii qualcuno nelle vicinanze, alzai lo sguardo e i miei occhi si incontrarono con quelli di quattro persone, una famiglia che tornava a casa da una serata passata forse in teatro.

Loro sarebbero stati altri testimoni, persone che mi avrebbero dato contro, gente che non sapeva nulla, ma che credeva di sapere tutto.

Mi misi a correre, corsi per i vicoli più stretti, percorsi strade su strade, passando dai cunicoli più oscuri, rischiando più volte l'osso del collo in salti che nemmeno io credevo di riuscire più a fare.

Dovevo andare alla mia roccaforte. Il posto che nessuno conosceva.

Lì avrei messo in ordine le mie idee e lì sarebbe iniziata la vita di quella che tu conosci come la vera Catrina.

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Capitolo 2
*** Turn your back on mother nature ***


Catrina

 

 

Turn your back on mother nature

 

 

Dovevo tornare alle origini, togliermi di dosso i vecchi abiti e crearmi una nuova identità.

Non c'era altra soluzione.

Nella capanna diroccata, che era divenuta il luogo in cui potevo fermarmi a riflettere, mi guardai davanti all'unico specchio - dono di Jennifer - e carezzai per un'ultima volta i miei lunghi capelli rossi.

Erano un tratto distintivo, facevano parte della mia persona, della mia vanità.

Ci sarebbero voluti anni per farli ricrescere, ma sapevo che se li avessi lasciati a quel modo sarei stata facilmente riconoscibile, o almeno questa era quello che facevano i personaggi immaginari dei libri che leggevo assieme a Jennifer.

Passai il pugnale sporco di sangue tra le ciocche e tagliai con forza; esse cadevano ai miei piedi, ma non vi badai. Quando finii il lavoro mi resi conto di sembrare un'altra persona.

Mi avvicinai alla fonte d'acqua più vicina e mi lavai velocemente, ignorando il freddo e tremando da capo a piedi.

Immagini della notte precedente mi scorrevano davanti agli occhi.

“Come pianificato” Mi ritrovai a sussurrare.

Volevo trovarlo, volevo rovinare la sua vita come lui aveva fatto con la mia. Volevo togliergli la soddisfazione che avevo sentito trasudare dalle sue labbra mentre diceva quelle due parole. Volevo vendetta; vendetta in nome del futuro che poco prima di quell'incontro disgraziato si stava aprendo d'innanzi a me pieno di promesse e speranze.

Le illusioni di una vita normale.

Tornai dentro e aprii un vecchio baule: conteneva degli abiti maschili che indossai di fretta e furia. Li sistemai come potevo e dopo essermi guardata un'ultima volta allo specchio, lo ruppi con un colpo deciso di un bastone che avevo trovato lì vicino. Io non volevo quel cambiamento.

Nella Catrina di prima c'era la sicurezza della banalità, la dolce abitudine della quotidianità.

Cosa c'era nell'immagine riflessa di una donna vestita da uomo? Solo la sicurezza di una morte prematura.

Nascosi il pugnale nella tasca anteriore della giacca e in quel momento ripromisi a me stessa che l'avrei estratto unicamente per uccidere quel fantasma.

Non sapevo a chi fosse appartenuta quella casa, né di chi fossero i vestiti che stavo indossando.

Li avevo trovati anni prima, quando non conoscevo ancora Jennifer e giocando tra le campagne ne esploravano ogni singolo anfratto.

Mi divertiva immaginare che tra le macerie ormai abbondante ci fosse una storia; che, una volta, nei letti che adesso erano sfasciati, ci avessero dormito dei bambini e che nell'altra stanza ci fossero stati i loro genitori.

Probabilmente se ne erano andati anche loro di fretta e furia, come dei ladri, lasciando la maggior parte delle cose tra quelle mura.

Era stata una fortuna per me.

Non che ci fosse niente di valore, ma dovevo essere nessuno, almeno per un po', e i vestiti del ragazzo che doveva esserci stato prima di me erano perfetti per l'occasione.

Non avevo cibo, non avevo soldi, ma avevo un'idea in mente: imbarcarmi al primo porto utile e allontanarmi dalla città il più possibile, oppure prendere un cavallo e inoltrarmi nella boscaglia più fitta.

Entrambe le idee avevano i loro pro e contro.

Vivere nel bosco avrebbe significato morire di fame, mentre l'essere scoperta come donna su una nave mi avrebbe esposta alla mercé di mercanti, di corsari, di pirati, ma almeno avrei potuto tentare la sorte.

Non avevo scelta, per questo misi quel poco di roba che avevo nelle tasche e uscii dalla baracca, iniziando ad allontanarmi a grandi falcate.

Il mio piano inizialmente mi era sembrato geniale, ma ad ogni passo che facevo ogni suo difetto si chiariva e, come una barca con una falla, colava inevitabilmente a picco.

Non avevo le prerogative di un marinaio, non avevo nessuna carta che mi raccomandasse a qualche capitano.

Fu così che dal porto il mio obiettivo si spostò alla taverna.

Non avevo soldi con me, ma volevo provare qualcosa di nuovo, rischioso e indubbiamente stupido. Contavo sul fatto che la città era grande, speravo di non incontrare nessuno che mi potesse denunciare, quasi certa che quella bettola all'estremo delle mura cittadine fosse un posto bene o male sicuro.

Una delle mie qualità migliori stava nella memoria: ricordavo ogni cunicolo che vedevo, per me era impossibile perdermi; una qualità che continuo ad avere, da come puoi vedere.

Quando aprii la porta, la prima cosa che mi colpii di quello schifo fu il fetore.

Sembrava che una puzza nauseante di piscio, vomito e aliti fetidi derivante da tutta la città avesse deciso di riunirsi a festa in quel locale angusto. Fu difficile non dare di stomaco, oh... estremamente difficile; tuttavia mi diedi coraggio e riuscii a prendere posto lì dove quel sublime odore arrivava a folate meno possenti.

C'erano uomini di ogni età e con mia sorpresa notai che le donne non erano in minor numero.

Avevo fame, avevo sete, ma con le tasche vuote non si compra niente, perciò mi ritrovai a guardare come un cane bavoso un uomo che mangiava una bella bistecca con accanto un enorme bicchiere di vino.

Se ne accorse anche lui, del mio sguardo, e mi abbaiò contro di guardare da un'altra parte se non avessi voluto ritrovarmi con la testa ficcata... beh, non ti piacerebbe sapere dove.

“Gerard, sempre scontroso. Il ragazzo qua avrà fame, come tutti noi. Da quando quei porci aristocratici hanno aumentato le tasse persino sull'aria che respiriamo è difficile tirare avanti”.

Mi piacerebbe poterti dire che queste furono le parole che sentii con esattezza, ma se devo essere sincera ero impegnata a ricordarmi di chiudere la bocca e non riprendere a sbavare, anche se quella volta sarebbe stata letterale.

Il ragazzo che aveva parlato era di una bellezza fiera e decisa. Mento squadrato, naso appuntito e occhi neri; i vestiti lasciavano intravedere una muscolatura non indifferente, che mi ostinavo a guardare appena per non sembrare un... aiutami, non ricordo il termine preciso, lo avevo letto molto tempo fa tra i libri di Jennifer; se non sbaglio... ah già! Un mozzo da culo.

Iniziammo a intrattenere una conversazione, cosa che non mi dispiaceva affatto e alla fine riuscii anche a farmi offrire un bicchiere.

Lo mandai giù di colpo e le risate che ne seguirono mi resero euforica a tal punto che ne volli un altro. Divenni sboccata, ridevo, non controllavo i toni e in quel modo divertii molti.

Un uomo della taverna, uno di quelli che mi aveva presa in simpatia, mi offrì il secondo bicchiere e mandai giù anche quello: per me che non ero abituata all'alcol fu come un pugno nello stomaco.

Ne calai almeno altri tre, prima di sentirmi male davvero.

La testa era così leggera, il corpo così pesante e le paure che mi avevano assalita dal giorno prima erano diventate solo un vago ricordo.

Tutto attorno a me si fece appannato, i suoni distorti si amplificarono e mi tappai le orecchie, biascicando con la voce tipica di chi era ubriaco una richiesta di pace, che ovviamente non venne ascoltata.

Le mie palpebre erano macigni e calarono inevitabilmente, celando la luce.

Quando riaprii gli occhi, mi ritrovai su una carrozza e le grosse sbarre di legno mi impedivano di vedere granché.

Dalle strade lastricate e dagli scorci degli edifici, capii che mi stavano trasportando verso una delle piazze più grandi della città e dovetti ricorrere a tutta la mia forza di volontà per non cedere al panico.

Che ragazza sciocca e avventata che ero stata!

Credevo sul serio di riuscire a scappare da coloro che mi cercavano; credevo pure che tagliare i capelli mi avrebbe reso un'altra persona, ma mentre le ruote del carro affondavano nei buchi di quella strada mal ridotta - causandomi un dolore infernale alla schiena - mi resi conto che non ero nemmeno stata lontanamente vicina alla fuga.

Un suono di tamburi accompagnava il mio cammino, le mura attorno alla piazza erano alte, imponenti, opprimevano chi stava al suo centro; il ritmo degli strumenti cresceva di pari passo con quello del mio cuore, mi divenne difficile persino respirare.

Avevo mal di testa, la sbronza della sera prima aveva fatto il suo effetto e nell'unico vero momento di lucidità pensai che almeno avevo fatto qualcosa fuori dall'ordinario: ubriacarmi la sera prima di finire impiccata: perché questo stava per succedere.

La mia sentenza era stata detta, io non avevo nemmeno la possibilità di obiettare: l'uomo che pareva essere morto per mano mia era davvero troppo importante e se il suo assassino non era lì, qualcuno doveva essere il capro espiatorio.

L'avanzata del veicolo si arrestò bruscamente, le porte vennero aperte e con una violenza non necessaria venni tirata a terra.

“Cammina, tesoro, non costringermi a trascinarti, non sarebbe un bello spettacolo. Non rendiamola più tragica di quanto già non sia”.

Il ragazzo della sera prima mi tendeva la mano: era un soldato della guardia.

La taglia che evidentemente mi avevano messo sulla testa era grossa. Chissà se lui mi aveva trovata per mera fortuna o perché m'aveva cercata.

Mi rialzai barcollante, ignorando la sua offerta d'aiuto; con uno strattone venni costretta a farmi avanti e mentre camminavo verso il patibolo sentii le accuse che mi venivano rivolte, assieme al mio nome e l'ora della mia impiccagione.

Non avevo mai avuto nessuna possibilità di fuga, ogni cosa nella mia vita era stata prestabilita e la convinzione dell'esistenza di un singolo e segnato destino aveva ripreso vita tra le rovine di quel che era andato distruggendosi la notte prima.

Quando vidi il nodo pendere dal patibolo realizzai che quella sarebbe stata la mia caduta, allora mi sentii incredibilmente fragile; non c'era niente a tenermi in equilibrio su quello che era diventato un filo sottilissimo.

Divenni cieca dall'orrore, tremai da capo a piedi e urlai, urlai che non ero stata io a commettere quegli atti, che non era a me che dovevano puntare contro le baionette, ma ad un uomo senza nome, senza volto, senza presenza.

“Voi che puntate le armi contro una fanciulla di appena sedici anni, pensate davvero di ottenere giustizia a questo modo? Voi che volete tirare il collo a chi di inverni ne ha visto così pochi da non aver mai sentito il freddo vero sulla propria pelle! Vergognatevi!”

Mi divincolai dalla presa del ragazzo, con una gomitata riuscii persino a fargli saltare via un dente e mentre lui si agguantava il mento con una mano, corsi verso quella che pareva essere l'unica via d'uscita.

Aspettavo di sentire i colpi, sapevo che le pallottole mi avrebbero raggiunta e tolto la vita, ma non m'importò in quel momento, veloce com'ero sempre stata, riuscii persino a raggiungere uno degli edifici adiacenti alla piazza.

Fu in quel momento che mi chiesi il perché. Era priva di logica quella mia vittoria, il mio corpo sarebbe dovuto essere già riverso a terra.

Mi voltai con uno scatto, decisa a non voler rivivere ancora l'illusione della fuga, ma quando vidi il perché quella mi era stata possibile restai senza fiato.

Uomini addestrati uccidevano le guardie con quelli che sembravano passi di danza.

Anzi, mi sbagliavo, era qualcosa di molto più virile quello che c'era nel loro stile di lotta.

Le pistole venivano estratte e puntavano con una precisione millimetrica alla testa dei propri obiettivi, quando queste finivano le cariche, venivano gettate via e al loro posto le spade venivano sguainate con una ferocia e un'eleganza unica nel loro genere.

Non potevano volere me, sicuramente doveva essere solo una grandissima benedizione quella coincidenza, quindi ripresi a correre per fuggire lontana da lì.

La terra scorreva sotto le mie gambe, saltavo ostacoli, superavo carrozze, mi nascondevo tra i vicoli quando potevo, sapendo che se fossi stata persa di vista da tutto e tutti allora sarei stata intoccabile.

La battuta d'arresto arrivò non molto tempo dopo, sapevo che stavo dirigendomi verso un vicolo cieco, ma se avessi saputo sfruttare le strade nessuno mi avrebbe raggiunta quando sarei arrivata al capolinea.

C'ero quasi.

Svoltai l'ultimo angolo, saltai le balle di fieno e mi nascosi tra due casse, approfittando della mia statura minuta per appiattirmi tra di esse e la parete.
Davanti a me passarono due soldati dell'arma e trattenni il fiato per non farmi cogliere in un luogo dal quale mi era impossibile scappare.

Respirai solo quando sentii i passi allontanarsi.

“Ma tu guarda chi abbiamo qui”. Dall'ombra apparvero due uomini incappucciati che mi sorrisero cordiali, tuttavia quell'espressione riusciva a incutere un timore primordiale.

“Un ratto che si nasconde tra i barili”. Specificò il più alto dei due.

“Un ratto che ti ha dato del filo da torcere. Ammettilo, non ce la facevi più a correre, vero Carl?”

“Un ratto che ti ha concesso l'occasione per darti delle arie, come sempre”.

I due uomini si tolsero il cappuccio, erano identici sotto ogni punto di vista.

Avevano una cicatrice che deturpava loro il volto nello stesso punto e che probabilmente era stata inflitta loro dalla stessa mano.

Mi impressionarono, i gemelli, ma all'epoca non ci voleva poi molto per stupirmi.

“Un ratto che mi ha dato modo di dimostrare quanto io sia veloce rispetto a te”.

Sospirarono entrambi, ma non badai più di tanto alla loro stramba conversazione: cercavo il modo di andare via.

Lì, acquisii una delle lezioni che da quel momento in avanti mi avrebbe salvato la vita.

Fai scannare i tuoi nemici tra di loro. Non nego che per farlo, però, ci voglia una certa esperienza e il risultato del primo tentativo non fu quello sperato.

“A me sembrava che tu cercassi di star dietro a quello”. Indicai uno dei due, affidandomi al caso; non li avevo visti neanche rincorrermi, ma contavo sulla loro possibile stupidità.

Ero abituata a troppi stereotipi. Spesso grosso non è sinonimo di stupido e spesso il capire qualcosa non significa poter migliorare la situazione.

Quel che è semplicemente è.

Si girarono entrambi nella mia direzione.

“Guarda, guarda chi tenta di metterci contro”.

“Fratello, te ne occupi tu? Mi raccomando, non essere troppo violento, ci serve intera”.

Il gesto di uno dei gemelli fu talmente veloce che non riuscii nemmeno a metterlo a fuoco; la sua mano mi arpionò la spalla e mi buttò a terra con una forza sovrumana.

Nell'urto contro il lastricato sentii un sinistro scricchiolio delle ossa del mio braccio e l'adrenalina mi impedii di sentirne il dolore, peccato che fu per brevi attimi.

Qualcosa mi colpii alla testa e precipitai nuovamente nell'oblio.

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Capitolo 3
*** There's no turning back ***


Catrina

 

There's no turning back

 

Sentii qualcosa.

I polsi erano legati da corde strette, facevano male, avevo la pelle scorticata nei punti in cui mi arpionavano la pelle in una morsa più ferrea.

Aprii a fatica gli occhi e le figure parvero danzare e ruotare su se stesse, mi ci volle un po' per capire cosa mi ballasse di fronte: mi sentivo come se fossi stata su una nave in balia delle onde.

Al tempo stesso la mia mente era leggera, come se i polsi che le corde stavano stritolando non fossero i miei, come se l'intera situazione non mi toccasse direttamente.

La realtà si fece tangibile solo quando mi arrivò una secchiata d'acqua fredda. Improvvisamente tutto si fermò e mi fu possibile mettere a fuoco la donna che mi parlava, seduta davanti a me, con le mani intrecciate sotto il mento.

“Sembra che ci siamo svegliati”.

La sua voce non mi suonò nuova, perché era come se mi avesse accompagnata nell'oblio del sonno: come se fosse stata un'ancora alla quale aggrapparmi, oppure un nodo che si accingeva ad avvolgermi il collo.

Sakeena era una donna unica nel suo genere.

Non scoprii mai le sue origini, una volta sola accennò al fatto che proveniva dall'Arabia Esaudita; non conosco la sua famiglia, cosa l'abbia portata a diventare quel che era diventata.

Mi pare affascini anche te.

Sei un tipetto curioso, eh? Ma fatti passare ogni sete di conoscenza, perché se mai avrai l'opportunità di incontrare una donna come lei, dovrai temere per la tua vita.

Sakeena non cercava pesi morti, Sakeena cercava informazioni e trovava delle opportunità; così le piaceva definire gli incontri casuali, anche se in questi, di casuali, c'era ben poco.

I capelli, che alla luce scarsa di quella camera angusta parevano neri, le nascondevano il viso, lasciandone intravedere solo metà; quell'acconciatura le dava un'aria intrigante.

Un'altra personalità affascinante del mio passato, al servizio di quella sola donna vi erano più di mille uomini.

Mi avvicinò una mano al viso, lo valutò attentamente e sotto quello sguardo attento non potei far altro che scostare il mio, perché non riuscivo a guardarla direttamente, non per più di pochi secondi, il suo sguardo carminio era troppo fiero, forte, deciso: tutte qualità che mancavano al mio.

Dopo un tempo che parve interminabile mi sorrise e io non capii se dovessi prenderlo come un incoraggiamento oppure averne timore.

“In tutta la tua misera esistenza”. Iniziò minimizzando la mia vita in una singola frase. “Hai avuto un'unica esperienza di rilievo. Tu sai qual è”.

In quel momento mi persi.

Lacrime copiose scesero sul mio viso, me ne vergognai.

Dio, come aveva ragione! Non avevo fatto niente che avesse un minimo di importanza. La mia vita era inutile come lo era stata quella dei miei genitori e prima ancora quella dei loro avi.

Avevo sempre lasciato che ogni cosa mi scivolasse addosso e da spettatrice vedevo tutto, senza mai prendere parte attiva a niente.

Era vita quella?
Sì, certo. Era una veste della vita, peccato che adesso quella veste non mi andasse più, la sentivo stretta.

Non piansi per la paura, ma per il rimpianto. Avevo capito cosa volevano da me e glielo avrei dato senza esitazione. Tanto cosa poteva importare?

“La morte di Ser Lucas”. Iniziai, abbassando la testa. L'importanza di me stessa corrispondeva ad un paio di frasi messe in fila: che tristezza. “Non sono stata io. Un uomo. Immagino vorrete la sua descrizione, sempre se ci credete”.

“No. Vogliamo sapere se qualcosa in lui ti ha colpito: una frase, delle vesti particolari, qualche simbolo sulla spada, un tatuaggio, un qualsiasi segno che non dovrebbe stare su una persona”.

Lo sconforto mi avvolse in modo viscerale.

Non ricordavo niente di particolare, era tutto buio.

Il non essere buona neanche a quello fece scendere altre lacrime copiose.

“Oh, per l'amor del cielo, liberatela. Quelle corde sono una seccatura più che altro”.

Mi chiesi perché. Non mi ero lamentata, non avevo implorato affinché mi lasciassero andare. In quel momento lo presi come un atto di benevolenza.

Sakeena si mise più comoda sul suo sgabello di legno e finalmente potei fare lo stesso io sulla mia sedia.

“Non ho visto molto, era buio. Non ha detto tantissime parole, solo una frase: Come pianificato”.

Sakeena si fece scura in volto, per un momento la sua mano pressò contro la fronte coperta dai capelli e lo sguardo si fece vacuo.

“La tua utilità si conclude qui”. Disse secca, le guardie già pronte, con l'elsa della lama alla mano.

“Non voglio che si concluda qui”. Altre lacrime ripresero copiose. Cazzo, quanto piansi.

Ops... perdona la mia irruenza, ma se ci penso ancora il mio orgoglio ne risente parecchio.

“Voglio essere più utile di così”.

Era un pensiero detto ad alta voce, mi ci ero aggrappata con tutte le mie forze, per una volta nella mia vita stavo lottando per qualcosa.

Mi alzai e venni accerchiata dalle guardie, quindi fui costretta a frenare i miei bollenti spiriti, tuttavia per la prima volta riuscii a fissare il mio sguardo sulla figura di Sakeena, senza allontanarlo mai.

Lei si girò e inarcò un sopracciglio.

“Dimmi una sola parola. Dimmi una ragione talmente forte, da poter essere racchiusa in poche lettere e se riuscirà a colpirmi in qualche modo, allora ti prenderò sotto la mia ala”.

Tra me e me ripetevo: “Non distogliere lo sguardo o sei morta,” come un mantra.

Sakeena era la leonessa pronta ad aizzarti nel momento in cui avresti ceduto.

“Vendetta”.

Lei scosse la testa e si avvicinò.

“Non mi piace questo motivo, ma sono sicura che se ti sforzi un altro po' avrai l'occasione di stupirmi. Quindi rifletti, prima d'aprire quella boccuccia di rose; sorprendimi! Perché, di vendetta, ho sentito parlare troppe volte”.

Mi zittii.

Vendetta era ciò che avevo giurato; era quello che mi aveva indotta a nascondere un pugnale del quale avvertivo ancora l'insistente presenza contro la pelle.

Sotto la rabbia, tuttavia, andava celandosi un sentimento che mai avevo provato prima.

L'uccisione di un uomo, il potere che avevo sentito nel togliere la vita, o meglio, l'euforia che avevo provato, erano stati mezzi attraverso i quali avevo valicato una barriera.

Se le mie azioni erano state indotte da quell'individuo, quest'ultimo aveva fatto in modo che provassi la sensazione di cadere e restare sospesa nel vuoto.
Niente costrizioni, niente cadute, solo un immenso nulla attorno a me e per un breve istante trovai la pace.

Libera dalle barriera della società e dell'ambiente che mi circondava, capii cosa provavo.

La libertà sulla pelle.
Niente regole, perché le avevo infrante, erano cadute a pezzi come lo specchio nella casa abbandonata, si erano frantumate allo stesso modo nella quale la mia visione della vita aveva fatto.

Quando tornai in me, in quella stanza scarsamente illuminata da raggi solari che filtravano i buchi delle pareti in legno mal ridotto, avevo trovato la parola giusta.

“Ringraziamenti”.

Sakeena sorrise.

“Ecco cosa volevo sentire”.

Le guardie attorno a me aprirono la porta e uscirono una a una, la donna alzò il braccio, mi cinse le spalle e mi disse: “Io sono Sakeena, benvenuta nel mio esercito”.

So cosa stai pensando.

Quella doveva essere pazza! Accogliere una perfetta sconosciuta a quel modo, con le braccia aperte! Ma forse la frase che seguii ti farà capire quanto saggia fosse quella donna.
“E se provi a pugnalarmi mentre sono di spalle con il coltello che nascondi tra le tette, ti taglio la gola prima che tu faccia in tempo a portare una mano a palparti”.

 


Angolo dell'autrice
Questo capitolo è un po' più breve degli altri, ma è solo di passaggio, possiamo definirlo come il passo fondamentale della protagonista, ecco il perché del titolo.
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate! Ringrazio coloro che hanno letto fino a qui.
Al prossimo capitolo!

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Capitolo 4
*** Acting on your best behaviour ***



Catrina

Acting on your best behaviour

 

I primi giorni trascorsi sotto la protezione di Sakeena furono i più spensierati della mia vita.

Certo, dovevo alzarmi presto, andare a letto tardi, ma di fatto non avevo un vero e proprio compito e l'unica cosa fondamentale, alla quale non potevo sottrarmi, era imparare.

Mi hai visto maneggiare una lama, hai provato paura più volte – l'ho notato – ma posso assicurarti che se mi avessi visto all'epoca avresti trovato la cosa molto divertente.

I gemelli si occupavano di me.

Scoprii i loro nomi solo qualche tempo dopo il trasferimento in pianta stabile in casa di Sakeena; distinguerli era un'impresa, anzi, è meglio dire che non ci riuscivo affatto.

Robin e Fabien avevano origini francesi, si erano ritrovati al fianco di Sakeena in seguito alla presa della Bastiglia: erano delinquenti di basso calibro che sarebbero stati ghigliottinati da lì a poco. Pensare che un evento unico come quello aveva salvato loro la vita aveva contribuito a renderli personaggi estremamente... singolari.

Erano due sanguinari religiosi: credevano fermamente in Dio, non perdevano un attimo per venerarlo, ma se si ritrovavano nel bel mezzo di una battaglia non esitavano a bestemmiarlo.

Credo di meritarmi l'inferno, perché quando mi addestravano gli facevo scappare certe frasi da far impallidire il Papa in persona!

Dicevo, dopo il loro grande miracolo personale, avevano seguito Sakeena, che li aveva trovati mentre cercavano di uscire dalla prigione senza dare nell'occhio; erano fuggiti da Parigi, avevano lasciato la Francia, solo per seguire quella donna.

Ho sempre creduto che i sentimenti verso di lei fossero molto forti, estremamente vicini all'amore. Mal per loro, Sakeena aveva altri gusti.
Le piaceva la bellezza, in generale, di conseguenza non si faceva problemi ad andare a letto sia con uomini che con donne. Non disdegnava nessun tipo di compagnia, a patto che la bellezza di chi le stava accanto fosse folgorante.

I gemelli colpivano, ad un primo sguardo, alti, biondi, muscolosi, ma non rispecchiavano i canoni di bellezza di Sakeena, in quanto erano goffi nei movimenti e popolani nei modi.

Almeno questa era la motivazione che la mia vecchia amica mi aveva dato all'epoca. Conoscendo la storia per intero, mi son fatta l'idea che le ragioni fossero altre.

Tesoro, hai mai avuto qualcuno che amavi a tal punto da stargli lontano?

Probabilmente no, ma questo fu proprio ciò che fece Sakeena. Non scelse tra i due, non mise astio tra i fratelli, ma si prese cura di loro in un modo tutto suo, come del resto faceva con ogni singolo soldato del suo esercito.

Nei primi sei mesi non avevo idea di cosa stessi facendo lì.

Non conoscevo niente di più di quello che ti ho raccontato. Mi addestravo per entrare a far parte di un esercito. Non conoscevo la sua causa, sapevo solo che erano addestrati per uccidere, essere veloci, essere silenziosi e io volevo essere proprio come loro.

Qualcosa mi diceva che non erano i cattivi, come se il loro fine rispettasse le vite che prendevano coi mezzi. Non so dirti se mi sbagliavo o meno, quello che scoprii la sera in cui Sakeena mi prese da parte fece cambiare le mie opinioni su di lei.

Venni scortata nel suo ufficio, mi dissero di sedermi e non muovermi da lì.

Lo feci e l'aspettai, ma non potei impedire al mio sguardo di vagare per la stanza.

Inghilterra, Germania, Italia, Francia, Spagna...

Le più grandi nazioni Europee erano disegnate sulla carta e, affascinata, dovetti alzarmi per ammirarle da vicino. Erano segnate, vi erano diversi simboli e in basso a destra il loro significato. Era come se Sakeena si stesse preparando per una battaglia, ma era semplicemente ridicolo anche solo pensarlo.

Il suo manipolo di mille soldati, per quanto bene addestrati, non poteva decisamente affrontare delle potenze di quel calibro, non esisteva! Sarebbe stata solo una...

“Follia”.
Sussultai sentendo la sua voce alle mie spalle, quindi mi voltai di scatto e le sorrisi nervosamente.

“Scusami, io ero... curiosa”. Ammisi con una certa vergogna nella voce.

Lei mi ignorò, prese il coltello - che solitamente teneva assicurato alla coscia - e ne esaminò il filo che riluceva alla luce della candela.

“So come sei e so che non posso fidarmi di te”.

“Perché io non mi fido di te”.

Vedi, parlo a sproposito, lo faccio oggi e lo facevo anche all'epoca. Non badavo a quel che dicevo, lasciavo che il mio pensiero passasse dalla testa alla lingua con una velocità superiore a quello della luce e ovviamente non potevo frenarmi.

“Non è solo questo il motivo”. Mi sorrise dolcemente; odiavo quando lo faceva, era fottutamente terrificante.

Sakeena aprì il baule davanti la sua scrivania e prese una viste del colore della pesca. Inutile dire che non avevo mai avuto la fortuna di indossare nulla di simile.

“Agendo in base al tuo miglior comportamento”. Sussurrò mettendomi tra le mani quel tessuto tanto fragile.

“Cosa vuoi dire?” Sussurrai guardandola e lei prese il mio viso tra le mani e vi lasciò un bacio leggero, giusto all'angolo delle labbra.

Tremai a quel tocco; non lo adorai, se devo dirla tutta, ma perché in mente avevo un'altra concezione di bacio.

“Che saprò cosa fare in seguito alle tue decisioni”. Si scostò e andò a mettersi dietro la sedia, guardandomi con un certo distacco. “Ho una missione per te”.

In quel momento mi tirai indietro: no, non avevo intenzione di fare qualcosa senza alcun motivo, Sakeena mi doveva delle spiegazioni e, forte di quello che avevo imparato, mi opposi.

“No. Prima voglio capire: cosa siete voi?”

Lei mi studiò in silenzio, poi si decise a parlare. “Non posso chiederti di agire senza un ideale. Noi siamo coloro che vogliono il caos. Quelli che desiderano vedere i massimi vertici del potere crollare uno a ridosso dell'altro. Vogliamo far risorgere l'uomo e farlo vivere nella condizione in cui la natura lo vuole. Libero”.

All'epoca faticai a non riderle in faccia, ma lei sembrò non curarsene.

“Follia, come dicevo prima. Certo, in fondo a una sciocca cameriera cos'altro può sembrare? Ma ti sbagli. Tutti i simboli che vedi disegnati sulla carta sono bersagli che se colpiti al momento e nel modo giusto, rischiano di far collassare il potere attuale. Taglia la testa, il braccio non funziona più. Allo stesso modo devi ragionare con chi tiene in pugno gli uomini. Uccidi il capo, l'organizzazione muore”. Era una semplice visionaria.

Sakeena non era altro che questo e lì iniziai a covare il desiderio di scappare da lei, dalla sua influenza.

Come ogni profeta, aveva fatto proseliti. Era amata, creduta, desiderata da chi era al suo servizio. Tutto svaniva con lei vicino, persino il lume della ragione.

Quella notte mi ritrovai di nuovo a camminare per le vie di una città che questa volta non conoscevo. Lontana dalla mia patria natia sentivo la gente parlare in una lingua dai suoni gutturali.

Vedi, una caratteristica della strategia di Sakeena era il movimento. Non restavamo mai fermi in un luogo per troppo tempo, sia perché lei amava cacciare prede sempre nuove, ma anche perché tutti i suoi soldati non erano visti di buon occhio dalle guardie locali.

L'obiettivo della mia prima missione si trovava ad un ballo in maschera.

Il vestito mi appesantiva parecchio e i tacchi facevano dannatamente male, non ci ero più abituata. Nel mio addestramento avevo messo da parte l'essere una donna. Quel corsetto mi diede le pene dell'inferno per tutta la sera.

Dicevo, arrivammo presto ai cancelli, la mia scorta parlò brevemente con una delle guardie ed entrammo senza problemi. Almeno così mi sembrava.

Uno dei gemelli mi era accanto e mi faceva da traduttore per parlare con persone di alto rango. Mi trovavano una compagnia abbastanza noiosa, nessuno si soffermava a rivolgermi la parola per più di cinque minuti, forse era colpa della mia lingua. Man mano che la serata andava avanti mi resi conto che stava procedendo davvero malissimo. Non avevamo trovato ancora l'obiettivo e stavo perdendo fiducia in me stessa. Misi due dita nella scollatura del vestito e ne estrassi un foglietto.

“Agilbert Huber”. Sussurrai, trovando difficoltoso pronunciare anche quel nome. Poi nascosi nuovamente il biglietto e mi godetti la brezza della serata.

Robin ( o forse era Fabien?) si fece vicino. “Sai che non puoi stare qui, Catrina. Devi tornare dentro”.

“Quante cazzo di lingue parli?” Lo interruppi. La cosa stava iniziando a darmi fastidio, sembrava che nell'esercito di Sakeena tutti avessero abilità straordinarie. Da quando c'eravamo fermati in quella cittadina tedesca dimenticata da Dio, avevo sentito i gemelli parlare in italiano, tedesco, francese e inglese.

“Quelle che servono a Sakeena”. Rispose semplicemente lui. “Non dovresti usare questi termini in una situazione simile. Non ti capiranno, ma sei pur sempre ad una festa di gente ricca con la puzza sotto il naso. Torna dentro, dobbiamo cercare gente, farla parlare”.

“Dammi solo...” sussurrai guardando la luna quasi del tutto oscurata dalle nuvole. “Cinque minuti, poi torno dentro”.

Fabien... Robin, o chiunque fosse annuì. Sentii i suoi passi allontanarsi e mi rilassai, ma pochi istanti dopo una mano mi afferrò il braccio.

Alzai gli occhi ad incontrare quelli del gigante biondo, ma restai muta, studiando i lineamenti del ragazzo che avevo di fronte.

Ira, dolore, sorpresa. Venni avviluppata da quei sentimenti, ma passarono in secondo piano, di fronte alla paura.

Ero armata dalla testa ai piedi, sapevo utilizzare una lama, ma quando mi ritrovai d'innanzi l'uomo che mi aveva tolto tutto non seppi cosa fare.

Chiamarlo uomo, poi...

Era un ragazzo, poco più grande di me. Nessuna cicatrice, ma quando vidi i suoi occhi alla luce della luna notai che uno era cieco. Lo era anche prima, ma la mia sorpresa più grande fu che era una menomazione che non sembrava intralciarlo in alcun modo.

“Di' a Sakeena che Huber non è in casa”. Disse in un sussurro basso e conciso. “Dille che alla luce della luna, dove gli angeli cantano, la falce del mietitore prende la vita dell'infante”.

Dovevo fermarlo, dovevo muovermi, cercare di catturarlo e non ucciderlo, perché sapevo che per Sakeena quell'uomo doveva essere importante; ma non ci riuscii.

Lo vidi dileguarsi nelle ombre mentre delle campane d'allarme presero a suonare.

Il padrone di casa era scomparso.

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Capitolo 5
*** Nothing ever lasts forever ***


Catrina



Nothing ever lasts forever

 

“Cosa significa?” Urlò Sakeena lanciando un bicchiere contro la parete con il risultato di farlo finire in mille pezzi. Aveva perso il lume della ragione, strillava e sbraitava contro tutto e tutti. Solo quando calmò la sua furia riuscì a sedersi e per la prima volta da quando la vedevo portò indietro i suoi lunghi capelli neri, mostrando una mostruosa cicatrice incastonata sulla parte destra del suo viso che partiva dalla mascella e arrivava alla fronte, tranciando di netto l'occhio destro.

“Cosa significa sparito?” Sussurrò con un filo di voce. Sentii i gemelli dietro di me irrigidirsi, la paura li avvolgeva da capo a piedi, quasi ne sentivo l'odore.

“L'uomo...”

“Si chiama Riccardo.” M'interruppe alzando un dito. “È un italiano. Cos'ha detto?”

Strinsi le labbra, non ricordavo esattamente parola per parola, quindi prima di parlare cercai il senso di quella frase. “Sembrava un indovinello”. Sussurrai guardando la piuma della penna posata nel calamaio. “Era qualcosa come... gli angeli cantano alla luce della luna; no, anzi, era dove... dove gli angeli cantano alla luce della luna,” mi concentrai di più, cercando di ricordare il seguito della frase. “La falce della morte... no, non era della morte”.

“La falce del mietitore prende la vita dell'infante”. Concluse lei annuendo, poi un sorriso le illuminò il viso. “Che razza di stronzo”.

Perché adesso sorrideva? Sakeena sembrava quasi felice delle parole di quell'uomo, per lei avevano evidentemente un significato.

“Sai cosa vuol dire tutto ciò?” Chiesi confusa e con una certa rabbia in corpo. Se aveva delle spiegazioni me le doveva! Sapeva che avevo un conto in sospeso con quel tizio, volevo che mi dicesse tutto quello che c'era da sapere sul suo conto! Invece lei mi dava informazioni sporadiche. Il nome di quel maledetto lo avevo scoperto solo in quel momento, lei era a conoscenza di tante cose che per un motivo o per l'altro teneva nascoste.

Ero abituata agli sbalzi d'umore della donna: capitava che Sakeena di tanto in tanto fosse arrabbiata e un attimo dopo fresca come una rosa, pronta alla battuta. Quando si arrabbiava era capace di spaventare chiunque, quando era tranquilla di divertire chiunque. Adesso, però, il sorriso che le vedevo dipinto sul viso mi dava soltanto fastidio.

“So dov'era, me lo hai appena detto tu, ma non so dove andrà”. Disse appoggiandosi meglio sulla sedia. “Stasera vi lascio liberi. Potete fare quello che volte.” Prese tre sacchetti d'oro e li diede a me e ai gemelli. “Divertitevi, fate divertire tutto l'esercito. Voglio birra a litri, danzatrici e meretrici, sia uomini che donne, per me e te, tesoro”. Rise guardandomi. “Diamoci da fare per i preparativi del banchetto, anzi, datevi. Io ho delle questioni da sbrigare”. Guardò fuori dalla finestra, dove il sole del mezzogiorno seccava i campi, rendendoli aspri, quasi incoltivabili.

 

 

La sera era calata presto e il rumore delle prime autovetture aveva lasciato spazio al gracidare più naturale delle cicale. L'aria era colma delle risate, del brusio di tante conversazioni sussurrate, del brindisi di boccali colmi di birra. L'esercito era rilassato, dopo tanto tempo.

Sorrisi tra me e me, l'ardore che durante la conversazione di poche ore prima mi aveva travolta era passato in secondo piano. Il mio animo era sereno, quasi cullato da quella che sembrava una scena quotidiana. Mi allontanai da lì lentamente, avevo voglia di fare una passeggiata. Non temevo briganti, o assalitori simili, avevo imparato a difendermi. Guardando la luna che svettava in alto quella notte, mi resi conto che ero diventata una persona molto più forte di quanto non fossi prima l'incontro con... Riccardo. Sì, mi aveva quasi mandata al patibolo, aveva distrutto la vita che potevo avere come cameriera, ma erano state azioni davvero brutte? Certo, non le aveva fatte per il mio bene, probabilmente quel nobil uomo doveva essere invischiato in qualche losco affare, ma la mia vita era decisamente cambiata in meglio.

Mi affascinava anche, perché mi incuteva un certo timore nonostante la sua cecità. Era una menomazione importante e non capivo come riuscisse a non mostrarla.
Sentii delle voci sussurrate.

Nascosti, al margine dell'accampamento posto fuori città di Sakeena, c'erano due individui che ridevano, si tenevano per mano, accennavano passi di danza in modo goffo.

“Lo sai che non so ballare, Riri”. Sussurrava una voce femminile. Sgranai gli occhi perché la conoscevo. Era Sakeena e non l'avevo mai sentita parlare in quel modo.

L'altra figura scuoteva la testa, alcune ciocche dei lunghi capelli castani fuggivano dal codino che li raccoglieva. “Sai ballare e anche molto bene”. Disse quello che doveva essere Riri, poi avvolse i fianchi di Sakeena in un candido abbraccio e le labbra si posarono su quelle della donna in un casto bacio.

Tremai.

Alla luce della luna, dove gli angeli cantano, la falce del mietitore prende la vita dell'infante.

Riccardo aveva dato a Sakeena un appuntamento. Evidentemente quella frase doveva avere un significato per entrambi e per loro doveva essere stato un gioco utilizzare noi soldati per passarsi l'informazione.

“Sakeena,” feci un passo avanti, incapace di capire: che bisogno c'era di mentire? Di salvarmi da un luogo dove Riccardo stesso mi aveva mandata? Si facevano la guerra? Giocavano con le nostre vite alla stregua di pedine?

Le due figure si girarono con una perfetta sincronia verso di me e con la stessa andatura fiera mi si avvicinarono.

Riccardo sorrise angelicamente, Sakeena appariva calma.

“Spiegami”. Ero incredibilmente serafica. Non sentivo rabbia, nulla, come se avessi chiuso ogni emozione in un piccolo forziere: tenevo la chiave tra le mani, potevo decidere se aprirlo o meno.

“Io e Riccardo siamo amanti, ma abbiamo obiettivi diversi”. Disse Sakeena girandomi attorno, mi avrebbe assalita un brivido, se fossi stata capace di provare qualcosa. “Ci mettiamo spesso i bastoni tra le ruote a vicenda, intenzionalmente o meno”.

“E cosa sono io?”

Riccardo si avvicinò e sorrise amorevolmente. “Una mia scoperta, giù di lì. Un elemento che potrebbe essere valido per...”

“Niente di quel che serve a te”. Disse acida Sakeena, posandogli una mano sul petto come a fermarlo, poi continuò a guardarmi. “Quando sei entrata nel mio esercito hai detto che non era per vendetta, intendi forse rimangiarti la parola?”

Mi morsi le labbra. Ricordavo il modo in cui l'avevo convinta a prendermi con lei, lo ricordo tutt'ora: ringraziamenti. Ma avevo sempre pensato ad un pugnale nel petto come un grazie.

“Cos'è che serve a te, Riccardo?” E nonostante tutto, non potei fare altro che temerlo quando i miei occhi incontrarono i suoi privi di luce.

“A me serve l'avventura”. Rise stringendo a sé Sakeena, l'immagine di lui come uomo irraggiungibile si stava lentamente sgretolando davanti ai miei occhi. “I nostri obiettivi spesso cozzano, perché alcuni uomini che lei vorrebbe senza testa, per me sono indispensabili”.

“I suoi sono i sogni di un bambino”. Lo interruppe Sakeena, appoggiando la schiena al petto di lui. “Io ho in mente un disegno più grande. Lui... Riccardo si diverte a cercare la verità nelle fandonie”.

“Cos'è che cerca?” Le mie erano domande vuote, prive di vera e propria curiosità, stavo cercando il motivo per il quale non avrei dovuto uccidere Sakeena.

“Sena dice che sono fantasticherie, le ha sempre definite così”. La donna guardò male Riccardo, non doveva essere di suo gradimento quel nomignolo. “Ma voglio cercare il tempo”.

Risi, non era una risata di gioia, anzi, era quasi isterica. Mi piegai sulle ginocchia e risi ancora, fino a quando non sentii dolere le costole. Poi mi fermai.

“Questo è incredibile” dissi sentendo finalmente tutta le delusione che provavo nei confronti di Sakeena, aprendo la scatola nella quale avevo nascosto tutto. “Tu...” dissi indicando la donna, “tu sei una che cerca di far cadere l'Europa nell'anarchia mentre tu... tu vai dietro delle favole per bambini!” Indietreggiai; quei due erano pazzi! Dovevano essersi bevuti il cervello e io mi ero comportata ancora da stupida, seguendo Sakeena nonostante avessi intuito che qualcosa in lei non andava.

“Il tempo non è che un luogo che può essere vero solo nella mente di un pazzo!” Dissi beffandomi delle idee di Riccardo, trovandole stupide, da mentecatti!

“Ma io non sono affatto pazzo. Il tempo ha dei testimoni. Molta gente ha attraversato la porta, poi è tornata, ma in modo diverso, era cambiata. Aveva oggetti unici nel loro genere, occhiali che permettevano di vedere colori non percepibili dall'occhio umano, attrezzi capaci di curare mali considerati dalla nostra medicina come mortali e le loro conoscenze sono state trascritte in tomi presenti nel nostro mondo da più di duemila anni”.

“Pugnali gemelli, capaci di riconciliare due persone lontane”. Dissi prendendo la lama dalla quale non mi separavo mai. Riccardo puntò gli occhi su di essa, come se riuscisse a vederla davvero.

“Sì, anche”. Affermò l'uomo.

“Quindi non mi hai condannata a morte, quando hai ucciso quel nobile davanti a me. Speravi di scomparire, addossandomi la colpa, questo è vero, ma Sakeena ti cercava. Evidentemente Ser Brandeis era uno dei vostri obiettivi in comune. Lo volevi morto e hai colto l'occasione. Di me non ti importava, ero stata un mezzo mediante il quale hai raggiunto lo scopo”.

Riccardo nel mentre annuiva alle mie parole, poi prese degli occhialini in legno dalla tasca e li indossò per fissarmi. I vetri erano strani, i riflessi su di essi girarono vorticosamente, prima erano viola, poi blu, si scurivano ancora e tornavano neri. Senza dire una parola, l'uomo li tolse.

“Cos'erano?” Chiesi incerta.

“Ser Lucas Brandeis,” disse lui scuotendo la testa, e ignorando la mia domanda, “era avaro, privo di scrupoli. È stato uno degli ultimi uomini ad aver varcato la soglia della porta ed era intenzionato a vendere i segreti del luogo al quale portava: Il tempo. Era un obiettivo da prendere vivo, per Sena, a causa di alcune sue... conoscenze; io lo volevo morto, in quanto non aveva mantenuto la parola”.

 

“Cosa ti aveva promesso?”

 

“Di portarmi con lui oltre la soglia, verso Il tempo. Sakeena ti ha salvata, ero sicuro che lo avrebbe fatto – non è solita togliere la vita agli innocenti – e sapevo che avrebbe visto quello che sei davvero”.


“Vale a dire?”

 

“Una cittadina proveniente da lì, una donna del Tempo”. Disse Riccardo.

 

Sakeena sbuffò. “Come ho già detto, io non credo a queste cose”.

 

La rabbia passò, non aveva senso tenerla ancora. La lasciai libera di fluire e si dissolse con la stessa facilità in cui terminava un respiro. Riccardo aveva detto che era interessato a quel luogo immaginario a causa della sua tecnologia. Non era interessato alla lotta, alla dura realtà, come invece lo era Sakeena. Come un bambino, viveva nelle sue piccole convinzioni e la donna, da quel che mi era sembrato, pareva incoraggiarlo, nonostante le sue parole fossero canzonatorie. Curava i mali, Il tempo.

 

Se la cecità del mio amante fosse dovuta a una malattia e lui fosse stato convinto della possibilità dell'esistenza di una cura, allora chi ero io per sminuire le sue speranze?

Capisci, tesoro? È tutto qui, spesso l'amore gioca con al ragione e ottenebra la nostra logica.

 

“Perché dici che io sono una cittadina del Tempo?” Chiesi sull'attenti. “E come sei entrato in possesso di quegli occhiali? E vuoi dirmi cosa sono?”

 

Sakeena rise e si sedett sul ceppo di quello che in passato aveva dovuto essere un albero forte e robusto, sono sicura tutt'ora che percepiva anche lei la tensione sciogliersi lentamente. “È curiosa, Riri, te lo avevo detto ed è anche molto combattiva, dalle quello che vuole. Ormai non ti costa più niente, no?”
 

Riccardo sorrise tra sé e sospirò: “Questi occhialini sono un lascito di mio fratello e di sua moglie. Loro hanno varcato la soglia tre volte. Lei è arrivata e mio fratello è andato con lei; sono tornati, una volta e poi sono andati ancora. Con questi occhialini posso vedere se c'è qualcun altro come lei, come la moglie di mio fratello, persa in questo mondo. La gente del Tempo ha un suo colore. Arriva qui, nel nostro mondo, come umana e poi è destinata a tornare nel suo mondo, diventando qualcos'altro. Un uomo, per entrare nel vostro mondo, ha bisogno di qualcuno come te, Catrina. Sei preziosa”.

 

“Per me è un bel mentecatto”. Disse Sakeena accarezzando il mento del suo uomo. “Abile nel combattimento quanto basta per sedurmi. Il resto di quel che va cianciando non m'importa”.

 

Guardai Sakeena, come poteva stare accanto ad un uomo se non aveva fiducia in lui? Se le sue parole le sembravano semplicemente quelle di un folle? E se invece, in fondo, ci credesse?

Se quel che Riccardo diceva era vero, se fosse riuscito ad andare al Tempo sarebbero stati divisi per un tempo imprecisato.

Sakeena mi guardava e sorrideva. “Vedo curiosità nei tuoi occhi, anzi no”.

La donna si alzò dal suo tronco e mi si avvicinò con passo lento. “Non sai se credergli o meno. Dirti d'accordo con lui ti farebbe diventare una pazza ai miei occhi, ma suppongo che nulla duri per sempre, nemmeno la sanità mentale”.

Riuscii a sorriderle, il rancore c'era, ma era sopito. “Mettiamola così, se riuscirai a farmi vedere la soglia, Riccardo, allora non ti taglierò la gola”.

 

Lui rise e l'aura di mistero che mi sembrava avvolgerlo si diradò, facendomi scoprire un uomo sì affascinante, ma sempre umano.

Non credevo davvero d'essere una donna del Tempo. Non mi sentivo diversa dagli altri, né tantomeno credevo alle speranze di un uomo malato, eppure Riccardo non sembrava semplicemente uno dei tanti pazzi in circolazione, nei suoi occhi aleggiava la certezza di chi sapeva cosa diceva. Quegli occhialini sembravano davvero essere saltati fuori da un racconto di quel luogo misterioso.

In quel momento decisi: niente dura per sempre, aveva ragione Sakeena e non sarebbe durata per sempre nemmeno la mia carriera nel suo esercito.

 

Riccardo guardò la sua amante. “Sena, ti ho rubato un pezzo importante, a quanto pare per adesso sono in vantaggio”.

 

Lei fece spallucce e calciò via un sassolino. “Hai detto bene, per adesso. Lei mi ama, tornerà”. Detto ciò mi fece l'occhiolino. Io scossi la testa. Il vuoto che stavolta il futuro mi prometteva era colmo di aspettative.



Angolo dell'autrice
Siamo ad una svolta nella storia.
Grazie a tutti coloro che leggono!
Se la storia vi piace lasciate un commento, se invece vi sembra sia scritta male o abbia delle incongruenze, ditelo comunque, cercherò di migliorare.
Alla prossima!

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