Io sarò la tua luce. Io sarò le tue tenebre.

di IleWriters
(/viewuser.php?uid=371071)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I - Welcome back to Paris ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - Home sweet home ***
Capitolo 4: *** Capitolo III - Dreaming home ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV - It's really a bad day (part I) ***
Capitolo 6: *** Capitolo IV - It's really a bad day (part II) ***
Capitolo 7: *** Capitolo V - We love shopping ***



Capitolo 1
*** Prologo ***





Prologo

 

Era un pomeriggio qualsiasi; uno come tanti altri che c'erano già stati e, come molti altri sarebbero arrivati dopo di quello, quando io e mia sorella, la mia amata gemella, fummo costrette a dividerci. Avevamo solo cinque anni quando ci siamo viste l'ultima volta. Ero andata a giocare al parco, accompagnata da zia Amelia, per giocare con gli altri bambini del quartiere. «Non è bello stare sempre chiusi in casa, vai a fare un giro con la zia e divertiti, ci vediamo più tardi tesoro mio.» Mi disse mamma prima che uscissimo. Già noi uscivano ogni giorno, più o meno alla stessa ora, ma lei no. Lei era sempre chiusa in camera, in quella piccola stanza al secondo piano, la sala con una grande finestra e un'immensa libreria. Era malata la mia cara gemella, soffriva di una malattia che a quell'età io non sapevo pronunciare. Passava tutto il giorno a leggere lei mentre io e zia Amelia andavamo al parco, al cinema, allo zoo o dovunque volessi. Era la mia sorellina adorata lei, ma non aveva il permesso di uscire, mamma aveva paura che Misery potesse peggiorare se veniva con noi, o forse mamma aveva paura che vedessi Misery triste. Quando quel pomeriggio tornammo a casa guardai verso la finestra di quella piccola stanza al secondo piano, era buia e la luce che lei usava per leggere era spenta. Entrando in casa vidi mamma piangere mentre il dottore parlava in cucina con papà.

 

«Perché piangi mamma? Dov'è Misery mamma? Posso andare a giocare con lei mamma?»

 

La mamma non mi rispose, ma mi abbracciò forte continuando a singhiozzare, Misery era peggiorata ed era giunto il momento che partisse. Quel giorno non lo sapevo, ma quando diventai più grande capii che la mamma piangeva perché sperava che quel giorno non arrivasse mai, quel giorno aveva dovuto salutare papà e Misery prima di vederli sparire verso Seattle e verso la clinica che avrebbe tentato di guarire la mia fragile sorella, mentre noi rimanevano qui ad aspettare fiduciose il giorno del loro ritorno, giorno che finalmente era arrivato.

 

 

Tredici anni dopo...

 

Seattle

 

Mi volto per l’ultima volta ad ammirare quella stanza, la stanza dove avevo trascorso gli ultimi anni della mia vita, quelli in cui per tutti io ero solo la fragile ragazza malata. Le pareti sono bianche candide come il giorno in cui io e mio padre arrivammo qui a Seattle, non ci sono segni di chiodi per appendere quadri, non ci sono cornici per contenere foto, non ci sono segni di scotch per attaccare poster alle pareti, non ci sono e non c’erano mai state. In quella stanza ci sono soltanto delle asettiche pareti bianche, un grande orologio e tanti scatoloni ricolmi di libri, di disegni e di vestiti. Finalmente posso tornare a casa e abbandonare questa camera, questo piccolo appartamento confinante alla clinica in cui fui portata d’urgenza a soli cinque anni. Ero peggiorata all’improvviso e pur essendo così piccola sapevo benissimo che prima o poi sarebbe successo.


 

«Purtroppo le nostre ipotesi erano corrette, vostra figlia ha contratto un meningioma al cervello, per ora è benigno, ma se non viene curato alla svelta potrebbe diventare maligno, il che avrebbe spiacevoli conseguenze.» Disse il dottore a mio padre quel triste giorno di tredici anni fa.

 

Io soffrivo di allucinazioni, ero sempre molto pallida, dimenticavo molte cose, ma le cose che più spaventavano i miei genitori erano i miei continui svenimenti. Quando il dottore certificò i loro sospetti papà decise di portarmi nella miglior clinica che trovò, peccato che questa si trovasse qui a Seattle e non a Parigi vicino a mamma e ad Ilenia.


Già Ilenia chi sa come era diventata con gli anni la mia adorata sorella gemella? Chi sa se mi riconoscerà al mio ritorno? Chi sa se ha mai pensato a me in questi anni?

 

«Tesoro hai finito di riempire gli scatoloni con le tue cose?» La voce di papà mi arriva alle spalle e mi fa spaventare a morte, non mi sono nemmeno accorta che è entrato in camera.

«Sì papà, è tutto pronto.» Detto ciò gli sorrido.

Papà è l’uomo più dolce dell’universo e non so dove sarei se lui non mi fosse rimasto accanto per questi lunghi e pesanti tredici anni.

 

Mi sono vestita in modo semplice e comodo, in fondo è solamente un viaggio in aereo non è una sfilata per cui non mi preoccupo più di tanto. Mi guardo allo specchio, un ultimo controllo prima della partenza, sono pallida, come sempre, però i miei occhi violacei brillano all’idea che finalmente posso tornare a casa, nella mia vera casa. Un paio di ballerine viola ai piedi, calze nere, un paio di stretti jeans di denim nero, un semplice ed elegante gilè del medesimo tessuto e colore dei jeans sovrasta una maglia viola a maniche lunghe, l’intero stile è completato dal mio amato basco viola elegantemente posato sopra i miei lunghi e lisci corvini capelli che mi arrivano a metà della lunghezza della mia schiena. Se non fosse per la chemioterapia ora probabilmente sarebbero decisamente più lunghi e belli, penso malinconicamente. Vado in cucina e poco dopo partiamo verso l’aeroporto dove già ci attendono Armin e Alexy, i miei migliori amici al mondo, i due gemelli più affidabili che esistano sulla terra.

Un mese fa non avrei saputo in alcun modo come dire loro che sarei tornata a Parigi e che non sarei più tornata, ma fortunatamente non fu necessario dato che Alexy in lacrime mi disse.

 

«Misery ci trasferiamo in Francia, papà ha trovato lavoro a Parigi e quindi non potremo più vederci.» A quelle parole gli saltai al collo abbracciandolo e piangendo come una fontana, non sapevo come dirgli addio ed invece avevo scoperto che anche lui sarebbe partito.

«Torno a Parigi, dove sono nata, tra un mese, ho concluso il mio periodo di cura, il cancro è stato curato e finalmente tornerò a casa, che bello sapere che ci sarete anche voi.»

 

Quel giorno concordammo insieme il giorno della partenza ed ora sono qui, su un aereo diretta in una delle città più belle del mondo, volo A0927, posto B17, siedo accanto ad Alexy e Armin, che almeno per una volta non è rapito dalla sua adorata macchinetta diabolica, come adora chiamarla Alexy. Per gran parte del viaggio racconto loro ciò che ricordo della città in cui sono nata, della mia casa per come la ricordo, della mia piccola stanzetta ricolma di libri e illuminata da quell’immensa finestra, quella minuscola stanza al secondo piano, parlo loro della mia adorata madre, ma soprattutto della mia amata sorella gemella che dopo tredici anni finalmente potrò rincontrare. Adorata Ilenia spero tu non ti sia scordata di me, sto tornando a casa.


Angoletto delle autrici:

Buona sera a tutti :D finalmente dopo un'anno che io e Misery si diceva di scrivere insieme una Fan Fiction ci siamo riuscite! E dire che solo il prologo è stato tipo un parto è dire nulla :) speriamo che vi piaccia la nostra idea :)
Cercheremo di pubblicare in modo regolare, ma tra Misery che quest'anno da la maturità e io che tra scuola e impegni pomeridiani sono sommersa, non vi possiamo promettere nulla >.<
Beh se il prologo vi è piaciuto fatecelo sapere :)
Baci e abbracci :D
IleWriters & Misery007

 

Pubblicato il: 18 febbraio 2015

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo I - Welcome back to Paris ***






Capitolo I - Welcome back to Paris


 


Mentre l'autista guida lungo la superstrada “A1” che condurrà me e mia madre all'aeroporto di Charles de Gaulle, il più famoso a Parigi, ripenso alla mia adorata gemella, Misery. Adesso finalmente si ricorderà di me? Ricordo che da piccola spesso si scordava chi ero, la cosa mi faceva sempre soffrire molto. Ricordo la sua pelle diafana, ma forse era così solo per colpa della malattia, che le faceva spiccare i suoi enormi occhi color ametista, circondati dalle lunghe ciglia nere. Nere come la massa di capelli lisci che aveva sulla testa. A Seattle le cure glieli avranno mai fatti perdere? Temo di sì. Sospiro guardando il paesaggio fuori dal finestrino oscurato del nostro SUV nero.

Da quando Misery e papà se ne sono andati la mamma è diventata sempre più oppressiva e protettiva nei miei confronti, tanto che delle volte sono arrivata ad odiarla. Non mi lasciava quasi più uscire, se non per la scuola e la spesa. Telefono vietato, potrebbe causarmi tumori alla testa, diceva lei. Era fortuna se ero in possesso di una TV e di una console per giocare. Ma appena ho compiuto i miei diciotto anni, il 9 maggio scorso, ho cambiato regime, con i soldi guadagnati con il lavoro al bar che mi sono trovata il giorno dopo aver compiuto i sedici anni, e i soldi che mi mandava papà per le varie festività e compleanni, mi sono comprata un benedetto cellulare e la sim telefonica, e finalmente anche io sono in contatto con il mondo. Per il computer aspetterò un altro po', tanto ormai i cellulari li hanno quasi rimpiazzati del tutto.

Mi giro e guardo la mamma, che legge una rivista di gossip. Ha dei lunghi capelli lisci e corvini (in realtà ne avrebbe anche alcuni bianchi, ma se li tinge, ma meglio non farglielo notare, quindi ssssh su questo dettaglio), le lunghe ciglia tinte di nero con il mascara fanno da cornice dei suoi splendidi occhi viola. Insomma credo che sia la copia di mia gemella Misery ma più in avanti con gli anni, anche se la mamma ne mostra un po' meno di quarantaquattro. Sorrido, nonostante la sua protezione estrema nei miei confronti è sempre stata un'ottima madre, contando il fatto che è lontana da suo marito e una delle sue figlie da tredici lunghissimi e pesantissimi anni. Finché ero piccola cercava di proteggermi dal mondo in cui era Misery, dal suo meningioma al cervello e tutte le altre brutte cose. Poi quando sono diventata adolescente mi spiegò tutto, in modo che io capissi, nonostante i suoi singhiozzi dovuti al pianto.

A destarmi da questi miei pensieri è proprio il mio cellulare che vibra mentre emette una musichetta simile a un'arpa. Un messaggio. Tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans, beccandomi un'occhiataccia dalla mamma.

 

«Almeno tienilo in borsa quel dannato affare» afferma la mamma stizzita. «Sai quante schifezze rilascia nel tuo corpo quell'arnese se lo tieni nella tasca?» mi domanda retoricamente.

 

Certo che lo so, me lo avrà ripetuto centinaia e centinaia di volte, ma spesso se lo tengo in borsa finisce sempre che non lo sento o che lascio la borsa a casa con il cellulare dentro. Così lo tengo in tasca, ottenendo sempre lo sdegno di mamma. Alzo gli occhi al cielo e leggo il messaggio su Whatsapp. E' Rosalya, che mi chiede se sono arrivata in aeroporto. Sorrido e le rispondo, poi metto il cellulare dentro la borsa, così faccio felice la mamma e i miei padiglioni auricolari, che non dovranno sorbirsi le lamentele della mamma durante la strada.

 

 

Appena arriviamo davanti l'aeroporto, il nostro autista ci lascia davanti alla fermata della navetta che ci porterà al Terminal 2E. Dopo cinque minuti di attesa ecco arrivare la piccola navetta, dentro è affollato, ma io e mamma siamo piccole, il problema verrà dopo che avremo due persone in più con chissà quante valigie. Mamma mi tiene per mano durante tutto il viaggio in navetta. Santo cielo. Nemmeno ne avessi otto di anni, al posto di dieci in più. Ma le mamme sono così, dico dentro di me, sconsolata.

 

 

Dopo un viaggio di 10 minuti circa, arriviamo al Terminal e con mia grande gioia scendiamo da quella scatoletta di sardine umane. Guardo l'imponente struttura in acciaio e vetro, a forma di tunnel. Ne resto sempre incantata, sorrido e seguo dentro la mamma. I miei tacchi dodici ticchettano piano sul pavimento e presto il loro ticchettio è coperto dai rumori tipici dell'aeroporto. Gente con i trolley, assistenti di volo che danno indicazioni, persone che arrivano e si abbracciano con amici e famigliari parlando e ridendo. Sorrido guardando i vari negozi che ci sono e seguendo sempre da vicino la mamma, che ogni tanto si gira a controllare se ci sono ancora. Mentre cammino mi vedo riflessa nelle vetrine. I capelli ricci e biondi mi arrivano sotto il sedere, le punte sfiorano l'inizio delle cosce, avvolte nei pantaloni di jeans neri, che hanno degli strappi sulle cosce. La mia immagine mi sorride, tirando le labbra rosse accese in un sorriso soddisfatto, mentre il mio sguardo, di un blu intenso, quasi elettrico, messo ancora di più in evidenza dal mascara nero che mi ha allungato ancor di più le ciglia e l'eyeliner nero con tanto di matita nella parte inferiore dell'occhio, è vivace e pieno di impazienza. Impazienza di riabbracciare mia sorella e mio padre. Mi liscio la maglietta blu che mi lascia la spalla destra scoperta, intorno al collo ho delle stelle bianche e nere. Dopo un pochino vedo il riflesso della mamma dietro di me, le braccia incrociate e lo sguardo divertito.

 

«Hai finito di ammirarti e vantarti? Ti ricordo che a breve atterrerà il volo di tua sorella e tuo padre» mi informa con un sorriso sulle labbra.

«Aspetta un secondo» rido mentre fingo di pettinarmi le sopracciglia e la frangetta centrale liscia tagliata in modo che sia più corta a sinistra e più lunga sulla destra. «Ora sono pronta» dico ridendo.

 

Mamma alza gli occhi al cielo sorridendo mentre ci incamminiamo verso la porta degli arrivi dei voli. Quando arriviamo alla striscia gialla che delimita l'area davanti al porta da lasciare sgombra guardo il tabellone degli orari.

 

Seattle- Parigi

13:15 – 08:35

 

Guardo l'ora sull'orologio nero di Minnie che mamma mi ha fatto per Natale, al posto delle ore ci sono dei piccoli brillantini e sul lato destro c'è metà Minnie che sorride tenendo le mani unite in grembo. La lancetta delle ore color nero segna le otto e quella dei minuti rossa segna che sono 30. Ancora cinque minuti e la nostra famiglia sarebbe stata riunita, per sempre.

 

 

-<>-*-<>-

 


Il volo sembra essere interminabile, ma per fortuna ci sono Armin, Alexy e papà con me.


 

«Tesoro va tutto bene?» Chiede mio padre osservandomi con i suoi grandi occhioni blu.

«Sì papà, non vedo l’ora di tornare.» Alzo la testa ed incrocio il mio sguardo col suo.

 

Papà è un uomo alto e muscoloso, ha la carnagione abbronzata e i capelli corti e biondi con qualche ciocca bianca a causa dello stress e della preoccupazione che la mia malattia gli ha causato. Lui spesso dice che da piccolo era riccio come un angioletto perché li teneva più lunghi di come li porta ora, sarei proprio curiosa di sapere come starebbe il suo viso tondo incorniciato da morbidi boccoli. I suoi lineamenti sono autoritari, ma i grandi occhioni dolci che mi fissano amorevolmente fanno intravedere il suo animo di uomo buono e affettuoso che è sempre stato. Indossa un elegante completo grigio, una camicia a maniche corte di colore bianco candido, una cravatta blu scuro e un paio di eleganti scarpe nere, insomma papà sembra sempre pronto ad un meeting aziendale. Lui mi sorride e poi torna a chiacchierare con Emily e Max, i genitori dei gemelli, seduti nei tre posti dietro di noi. Prendo la mia borsa in denim nero, in stile con il look di quel giorno, e tiro fuori la mia agenda viola con cuciture nere. Negli anni ho acquisito la mania di segnare ogni piccolo dettagli della ma vita, controllo la giornata di oggi, c’era scritto ritorno a casa almeno dieci volte sul giorno di oggi e poi c’è un orario, quello in cui saremmo dovuti arrivare a destinazione, cioè 08:35 del fuso orario di Parigi. Istintivamente metto la mano nel taschino del gilè e tiro fuori il mio antico orologio da taschino.

 

«E quella che roba è?» chiede Armin notando il piccolo oggetto argenteo che tengo in mano.

«Questo? È il mio orologio da taschino.» Aggiungo premendo il pulsante che mostra il quadrante dell’orologio.

 

Questo piccolo e antico arnese è un regalo che mi fece mamma poco prima che le mie condizioni peggiorassero. Quando mamma me lo diede capii subito che cosa fosse. Mamma mi consegnò un sacchettino viola luccicante con un fiocchetto argentato, una volta aperto presi in mano quello che sembrava un ciondolo grande quanto il palmo della mia mano, era in argento con incise davanti due rose intrecciate tra loro e due iniziali, una M e una I, quando per la prima volta schiacciai quel pulsantino per guardare il quadrante dell’orologio rimasi estasiata dalla visione atipica che avevo davanti agli occhi, contrariamente all'orologio del nonno che aveva le ore segnate in nero su un quadrante bianco con grosse e spesse lancette nere, il quadrante di quell'orologio era completamente nero con le ore e le grosse lancette bianche, mentre sul retro era impresso il cognome della nostra famiglia, impresso sull'argento che portavo sempre con me.

 

«Grazie mamma, è stupendo, ma perché non si muove? Per caso è rotto?» dissi mostrandogli le bianche lancette che non si muovevano nemmeno.

«No tesoro, non è rotto. Non ho ancora messo la batteria» Disse accarezzandomi la testa, poi prese una minuscola batteria, di quelle piatte e tonde, aprì il retro dell’orologio, la inserì, lo chiuse, sistemò l’ora e me lo ridiede. «Ecco tesoro, così non scorderai più l’ora, questa è l’ora di casa.»

 

Quel giorno non capii il perché di quella frase, ma quando arrivammo a Seattle mi fu tutto più chiaro. Presi in mano l’orologio e notai che l’ora era diversa da quella del grande e tondo orologio appeso al muro, in fondo avevo cinque anni ed era il primo viaggio, se così si può chiamare, che facevo e io non ne sapevo nulla di fusi orari.

 

«Papà perché l’orologio che mi ha regalato mamma mi da un’ ora diversa?» Gli dissi facendolo dondolare di fronte al suo naso tenendo salda in mano la catena che vi era attaccata.

«Piccola mia, quello è il fuso orario francese, l’ora di casa nostra. Vuoi che la sistemi con l’ora che c’è qui?» Mi chiese allungando la mano per prenderlo.

«No papà.» Dissi stringendo forte l’orologio tra le mani. «Quando guarderò te ricorderò gli occhi blu come il mare della mia amata sorellina, quando mi guarderò allo specchio ricorderò lo sguardo dolce di mamma e quando guarderò quest’orologio e la sua ora sbagliata mi ricorderò di casa.» Quando dissi ciò papà mi abbracciò stringendomi forte a lui.

 

 

«Sai proprio non ti capisco Missy cara.» Si lamenta Alexy. «Hai un orologio da polso stupendo che ti ha regalato Armin, sotto mio consiglio...»

«Sotto tuo obbligo.» Lo corregge Armin stizzito.

«Non è questo il punto.» Dice Alexy fulminando con lo sguardo il fratello.

«Alle volte mi chiedo se sei più mestruato tu o nostra madre.» Bofonchia lui con un filo di voce.

«COME HAI DETTO SCUSA???» Dice lui rabbioso verso il gemello.

«Hey ragazzi potete aspettare di scendere dall'aereo, e magari di non avere la sottoscritta tra i piedi, prima di uccidervi a vicenda.» Dico cercando di calmare gli animi.

«Scusa Missy.» Esclamano in coro i due mentre io a fatica trattengo una risata.

«Comunque dicevo che sei parecchio strana, prendi nota di qualsiasi appuntamento su quella tua agenda viola, hai un cellulare di ultimo modello, che ti ha regalato tuo padre per le emergenze, che non usi mai e che dimentichi sempre in borsa, hai un orologio da polso stupendo e non lo indossi mai perché controlli sempre l’ora su quel coso che è pure sbagliato. Se non fosse per il tuo stile decisamente moderno mi chiederei da dove salti fuori.» Conclude Alexy incrociando le braccia dietro la testa e alzando gli occhi al cielo.

«Hahahaha. Sono strana, questo te lo concedo Al, ma sull'ora ti sbagli, ora sono l’unica di tutti noi ad avere l’orologio sul fuso orario giusto. Questa ragazzi è l’ora di Parigi, sono le otto in punto e tra trentacinque minuti finalmente atterreremo sul suolo francese.» Dico sorridendo loro e rimettendo l’orologio nel taschino.

 

Siamo finalmente atterrati e ora, dopo aver salutato i gemelli e i loro genitori, cammino affianco a mio padre. Sto percorrendo il lungo tunnel di vetro, nel quale la mia esile e pallida figura, avvolta dai capelli e gli abiti scuri, si riflette sembrando quasi più uno spettro che una persona reale. Tunnel che conduce dall'aeroplano fino alla sala dove il nastro trasportatore ci consegnerà le nostre valige. Arriviamo nell'enorme sala dove è situato il nastro e passiamo affianco ai divanetti rossi dove i vari passeggeri dei prossimi voli che attendono di partire dall'aeroporto di Charles de Gaulle attendono che chiamino il nome del loro volo da uno degli svariati terminal. Prendo la mia valigia e papà fa lo stesso, non abbiamo portato molto con noi tutto ciò che manca ci verrà spedito da Seattle dalla ditta di traslochi che lui ha ingaggiato.

Ci avviamo attraverso l’ultimo tunnel rappresentante il settore arrivi, la nostra direzione è chiara e sappiamo già che, dopo la porta a vetri che al momento vediamo solo da lontano, ci sono due persone ansiose di rivederci ad attenderci nella hall d’accoglienza degli arrivi.

Mi volto un attimo osservando il mio riflesso sulla parete trasparente di quel secondo tunnel di vetro e osservo nuovamente il mio riflesso. La mia pelle è del colore della neve, non che mi dispiaccia dato che adoro accentuarla con gli abiti scuri e dato che, rispetto a quando ero molto più piccola, il mio pallore era lievemente diminuito grazie alla cura, ma comunque spesso quasi non mi sembra di essere reale. Noto il riflesso di mio padre alle mie spalle e gli sorrido, sono felice che lui mi sia stato affianco in tutto questo tempo, ma mi sento in colpa per averlo tenuto tanto tempo lontano dalla mamma.

 

«Va tutto bene tesoro?» dice posandomi una mano sulla spalla destra.

«Sì papà, mi dispiace tanto.» Dico con un filo di malinconia.

«Non dirlo nemmeno, sai che tu non hai alcuna colpa. Vieni, ci stanno aspettando.» Aggiunge sorridendomi.

 

Continuiamo a camminare fino all'uscita di quel lungo tunnel, percorriamo pochi passi e poi papà viene travolto da una donna con una folta chioma corvina di lunghissimi capelli lisci, due braccia esili ed eleganti con lunghe e candide dita affusolate gli cingono il collo e un romantico bacio gli toglie il respiro. Questa è sicuramente la mamma, penso mentre guardando papà stringerle i fianchi mi viene da sorridere.

 

«Ciao, ben tornata a casa.» Dice una voce dolce distogliendo la mia attenzione da mamma e papà.

 

Mi volto guardando la ragazza di fronte a me che mi aveva rivolto la parola, la carnagione lievemente abbronzata come quella di papà, i grandi e dolci occhioni blu, specchio di un amino buono, e i lunghi capelli biondi e ricci, non c’è alcun dubbio sul fatto che la splendida ragazza di fronte a me è la mia adorata sorella gemella, Ilenia.

 

«Ciao Ilenia, non sai quale gioia provo nel rivederti, sorella mia.» Dico mentre delle lacrime di gioia cominciano a rigarmi le guance.

 

Passano un paio di minuti in cui l’unica cosa che si sente sono i tipici rumori di ogni aeroporto. Lei mi sorride, mi asciuga le lacrime di gioia e mi si butta al collo abbracciandomi.

 

«Mi sei mancata anche tu.» Afferma mentre continua a stringermi a se ed io, dopo un attimo di freddezza iniziale, ricambio quel dolce abbraccio.

«Tesoro ti spiace lasciare salutare anche a me la mia piccolina?» Chiede mamma ad Ilenia che le sorride sciogliendo il nostro abbraccio.

«Ciao mamma, sei esattamente come ti ricordavo.» Dico mentre cerco inutilmente di trattenere altre lacrime.

«Piccina sei diventata una ragazza stupenda.» Aggiunge lei abbracciandomi e scoppiando in lacrime.


 

Restiamo così per un paio di minuti così poi ci mettiamo tutti e quattro a parlare del più e del meno. Ci sono riuscita, finalmente sono tornata a Parigi e finalmente la mia famiglia è unita, dopo tanto tempo finalmente siamo tutti e quattro nuovamente insieme.




Angoletto delle autrici:

Ciao saccottini ripieni di nutella nutellosa (?) buon fine settimana e buon inizio week-end! 
Alla fine, come noterete, abbiamo optato per pubblicare il venerdì :D e questo capitolo è ormai... Una settimana che è pronto :3
Speriamo ve piaccia e che sia di vostro gradimento :) ce scusiamo se è lunghissimo, ma tra tutte e due ce piace descrivere tanto quindi escono fuori punti di vista lunghi sei pagine! E parliamo magari di un solo punto di vista a cui poi ne aggiungiamo un'altro :D 'nsomma poveri voi che leggete ahahah xD
Se volete farci sapere se vi è piaciuto, se ve ha fatto schifo, 'nsomma per darci la vostra opinione, recensite pure :3 
Baci e abbracci :D
IleWriters & Misery007


 
Pubblicato il: 27 febbraio 2015

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo II - Home sweet home ***






Capitolo II - Home sweet home


 

Sorrido mentre ascolto papà che racconta alla mamma come sono stati questi tredici lunghi anni a Seattle. Muoio dalla voglia di abbracciarlo, ma allo stesso tempo sono avida di informazioni su Seattle e sulle cure di mia sorella. Così lo lascio parlare, spostando il peso da un piede all'altro, spesso mi guardo le punte dei miei tacchi in camoscio neri. Ora iniziano a farmi male i piedi, ma resisto e torno a guardare il volto di nostro padre, alla fine degli occhi ha delle piccole rughette, segno del suo stress per la malattia di Misery e dell'età che stava lentamente aumentando.

Quando papà finisce di fare il resoconto alla mamma, mi viene vicino e mi guarda, il volto gli viene attraversato da un sorriso.

 

«Pulcina mia» mi dice sorridendo e mettendomi una mano sulla testa. «Quanto sei cresciuta» sorride ancora di più e mi tira contro di lui per abbracciarmi forte.

 

Io non riesco a replicare per colpa del nodo che mi sento in gola, così lo abbraccio altrettanto forte e trattengo a stento le lacrime, affondando il volto nel collo di mio padre, che profuma di dopobarba e ammorbidente alle rose. Sorrido con gli occhi lucidi e respiro fino in fondo il suo profumo. Dio quando mi era mancato papà, quanto ho pianto a ogni compleanno, Natale, Pasqua e altre feste per la sua mancanza e quella di Misery. Chiudo gli occhi e ripenso alla volta in cui dovevo essere operata di appendicite e lui non c'era, al tempo avevo solo sei anni.

 

 

Sto male. Mamma è accanto a me, piange perché anche io piango da tanto tempo. Sta gesticolando al telefono mentre prende il mio piumino rosa. Perché mi sta mettendo il giacchetto e la sciarpa? Sto male! Non voglio mica uscire adesso! Poi è buio! La mamma adesso mi prende in braccio e scende di corsa le scale della nostra enorme casa.

 

 

Una volta uscite di casa il vento che soffia mi fa raffreddare le guance bagnate dalle mie lacrime.

 

«Mamma... Ho freddo...» le mormoro tenendo il viso contro il suo collo.

«Lo so piccola, ora andiamo in macchina» mamma ha smesso di piangere, ma la voce le trema.

 

Chiudo gli occhi e la sento posarmi sui sedili posteriori della nostra macchina. Ho sonno, ma il dolore al fianco destro non mi lascia in pace. E' persino più forte del dolore che ho provato quando Castiel mi ha dato un calcio nel polpaccio. Così ricomincio a piangere e mormoro qualcosa.

 

«Papà... Voglio papà» mormoro prima di crollare addormentata.

 

 

Mi sveglio quando mamma mi solleva dal sedile e sento un'altra sensazione di gelo sulle mie gote. Non capisco dove siamo finché delle luci bianche non mi fanno vedere meglio. Siamo in ospedale, vedo un dottore con il camice bianco guardarmi. Lo guardo a mia volta e tiro su con il naso.

Perché sono in ospedale? Siamo dove sono papà e Misery? Voglio papà. Sto male.

La mamma adesso sta parlando con qualcuno, e quel qualcuno adesso cerca di prendermi in braccio, così mi aggrappo di più a mamma e piango urlando. Ora ho pure più caldo e mi fa più male il fianco destro.

 

«Forse è meglio se la tengo io» dice la mamma allo sconosciuto.

«Decisamente, allora mi segua» a risponderle è una donna, credo pure di riconoscerne la voce, ma ora sono assonnata e dolorante.

 

I tacchi della mamma ticchettano lungo il pavimento bianco del corridoio. Le pareti celestine sono decorate con vari dipinti. Winnie The Pooh che inzuppa la zampa nel barattolo del miele, Pimpi che gioca con Tigro. Dei cuccioli della carica dei 101 e tanti altri cartoni. Ricordo di essere stata qui per qualche puntura che mamma dice che serve, ma io mica ne sono convinta! Poi le dottoresse mi parlavano con quella vocetta acuta fastidiosa, nemmeno fossi stata una neonata. Poi ricordo di esserci venuta con mamma e papà a trovare Misery quando la trattenevano qui. Ma non so bene il perché, ma quando tornava a casa stava meglio per un po', poi tornava a stare male e la riportavano qui.

 

 

Lo scenario davanti ai miei occhi cambia, la stanza è dipinta da terra sino a metà porta di verde, sopra il confine tra il verde e il celeste ci sono disegnati Bambi e Faline, Tamburino e Fiore. Non mi piace quel cartone. Nessuno vuole dirmi che fine faccia la mamma di Bambi! Bah gli adulti.

Mamma mi toglie il cappotto e la sciarpa, poi mi scocca un bacio sulla fronte accaldata e mi guarda con i suoi grandi occhi viola, come quelli della mia gemella.

 

«Mamma, qui ci sono Misery e papà?» la mia voce si carica di emozione.

«No piccola mia» lo sguardo di mamma cambia, non capisco che cosa stia provando, poi torna a sorridermi. «Ricordi la dottoressa Monreau?»

 

Guardo la donna accanto a mamma. Porta una strana divisa rosa con sopra un camice bianco, i lunghi capelli rossi sono legati in una coda di cavallo, e mi guarda con i suoi grandi occhi marroni, proprio come quelli di Bambi! La guardo meglio e ricordo di averla vista con Misery, così annuisco.

 

«Ilenia? Dovresti scoprirti il pancino» mi dice la dottoressa mettendosi dei guanti bianchi.

 

Io faccio come mi viene detto e mi stendo sul lettino, guardando il soffitto celeste. Poi sento i guanti freddi premermi sul fianco destro. Fa sempre male, ma è sopportabile, poi non riesco a capire cosa succede, ma un dolore sempre più forte mi investe il fianco, facendomi urlare e piangere la dolore. Voglio papà, adesso. Non mi piace questa donna! Perché mamma mi ha portato da lei?!

 

«Papà! Voglio papà!» piango e urlo.

«Temo sia proprio appendicite, Amandine, ma forse preferisci che prima le facciamo dei controlli» la dottoressa malefica parla con mamma.

 

Lei si limita ad annuire e chiamare qualcuno al cellulare, mentre la dottoressa mi porta via, ignorando i miei urli e i miei pianti.

 

 

Dopo ore, ma mamma mi assicura che è passata solo una mezz'ora, che cavolo è una mezz'ora? Bah, vengo riportata in stanza. La dottoressa mi ha controllato il fianco con uno strano macchinario. Prima di posarmi uno strano aggeggio sul fianco, mi ci ha messo del gel celestino, freddo. Poi ha iniziato a premere e guardare un piccolo schermo grigiastro. Sembrava andasse male, come quando a casa non funzionava la TV.

 

«Non funziona» mormoro alla dottoressa.

«In che senso?» mi guarda e piega la testa di lato. Mica mi incanta con quell'espressione dolce.

«La TV, è rotta, è tutto nero e grigio» le dico indicando lo schermo.

 

Lei si limita a ridere e continua con il suo lavoro.

 

 

Dice a mamma che le ecografie hanno rilevato che è proprio appendicite e che dovranno operarmi subito. Così vengo spogliata e vestita con un camice celeste tendente al verdognolo. E' davvero brutto. Guardo mamma disperata.

 

«Papà» le dico lacrimando.

 

Lei prende il cellulare, e dopo averlo tenuto un po' all'orecchio e aver detto qualcosa a chi le ha risposto me lo poggia sull'orecchio.

 

«E' papà» mormora sorridendo.

«Papà!» esclamo piangendo.

«Pulcina di papà, che hai? Stai male?» mi chiede lui, forse sorride.

«Sì! Mi hanno fatto male! Ti voglio qua» dico piangendo e tirando su il moccio con il naso.

«Pulcina sai che non posso» sospira alla fine della frase.

«Perché? Sto male! Ti voglio, ti voglio, ti voglio, ti voglio!» urlo e piango. Lo voglio qui.

«Sono lontano piccola, e devo stare con Missy» mi spiega lui.

«Tu preferisci lei a me! Non ti voglio più sentire!» gli urlo nel telefono e lo spingo via dal mio orecchio piangendo.

 

Mamma se lo riporta all'orecchio e mi da la schiena mentre parla, coprendolo un secondo mentre la dottoressa le dice qualcosa, vedo la testa mora di mamma annuire e tornare a parlare al telefono.

La dottoressa mi torna vicina e mi mette seduta sul lettino, spiegandomi che deve addormentarmi con una pozione magica che devo respirare, così che il mio dolore vada via. Io annuisco e mi asciugo le guance con i dorsi delle mani. Così la dottoressa mi mette una mascherina intorno al naso e alla bocca e mi dice di stare tranquilla e respirare. L'ultima cosa che ricordo prima di addormentarmi è che mi sento in colpa con papà per quello che gli ho detto.

 

 

Mi capita di svegliarmi mentre dormo, sento la mamma bagnarmi le labbra con una spugna, poi torno a dormire con la gola leggermente rinfrescata. Mi risveglio completamente dopo non so quanto, mamma dice che ho dormito quasi un giorno intero. Mi spiega che per far andar via il dolore hanno dovuto chiamare delle fatine che mi hanno tolto la parte brutta e cattiva e mi hanno lasciato un piccolo segno dove tengo le mutandine, per ricordarsi di me, e che mi sarebbe rimasto a vita, un po' come la cicatrice a saetta di Harry Potter. Quello stesso giorno feci chiamare papà e mi scusai piangendo e poi gli raccontai cosa mi era successo. E che provavo un leggero fastidio. Uscii dall'ospedale solo quando la mia febbre si abbassò.

 

 

Se ripenso ancora oggi a quell'episodio mi imbarazzo come una ladra, per il comportamento che ho avuto con papà, e per quell'insana gelosia nei confronti di Missy. Lascio andare papà sorridendo.

 

«Mi sei mancato così tanto papà» dico sistemandomi i capelli dietro la spalla destra.

«Anche tu mi sei mancata, pulcina» sorride poi mi guarda il naso. «Ma non sperare che io approvi quel coso che hai al naso» borbotta incrociando le braccia al petto e guardando la mamma.

 

Sorrido, toccandomi il piercing sulla narice destra. Al momento porto un piccolo brillantino blu, ma l'ho portato anche rosa, giallo, viola e una volta un piccolo anellino, ma non faceva per me. Così decido di non mostrare, per il momento, a papà il mio orecchino sulla parte alta del mio orecchio destro. Mi limito a ridere e gli faccio la linguaccia.

 

«E quei tacchi poi! E il trucco! E questa maglia che ti scopre la spalla destra! E i jeans strappati! Amandine ma che diamine!» esclama papà girandosi verso la mamma, che ride e si limita a scrollare le spalle.

«Che vuoi farci Jacques, ormai è grande» risponde la mamma ridendo dei borbottii di papà.

 

Misery mi viene vicina sorridendo.

 

«Il solito gelosone» mi ricorda ridacchiando.

«Me ne sono accorta» rido e mi avvicino all'orecchio della mia gemella. «Aspetterò ancora a lungo prima di dirgli che ero pure fidanzata» la mia affermazione alquanto seria provoca un attacco di ridarella a Missy

«Meglio, sì» mi dice una volta che ha smesso di ridacchiare.

 

La guardo e noto che la pelle è sempre candida come neve, ma è già più simile a quella di mamma, e meno bianca malaticcia. Le sorrido e non posso fare a meno di abbracciarla ancora per sentire il suo profumo di vaniglia e pulito. Amo questo profumo. E amo mia sorella. Sorrido quando ricambia l'abbraccio e chiudo gli occhi.

Li riapro quando sento una voce acuta maschile chiamare mia sorella.

 

«Missyyyyyyyyy!!» questa voce mi fa alzare la testa dalla spalla di mia sorella e guardare chi la chiama.

 

Un ragazzo dai capelli turchini e gli occhi di un violaceo rosato avanza verso Misery. E' vestito in modo molto colorato, anche troppo, ma non è male. Felpa arancione, maglia acquamarina con disegnato un atomo rosa e dei jeans con uno smile giallo sulla tasca. Sembra un piccolo arcobaleno che cammina. Misery gli sorride e mi prende per mano portandomi verso il ragazzo in questione, la guardo e mi sembra di intravedere un pizzico di... Fierezza e orgoglio nei suoi occhi.

 

«Alexy!» dice lei con la sua voce melodiosa e bassa. «Permettimi di presentarti Ilenia, la mia gemella» mi indica sorridendo a trentadue denti.

«Finalmente ti conosco! Missy parlava tantissimo di te» il ragazzo mi stringe la mano che gli ho porto pochi secondi prima. «Ma cavolo sembrate tutto tranne che gemelle» dice ridendo.

«Così pare» dico sorridendo e lasciando la mano di Alexy l'arcobaleno.

 

Il turchino si gira a chiamare qualcuno, poi sbuffa e trascina verso di noi un ragazzo moro, alto quanto lui, ha gli occhi celesti, come il cielo d'estate, noto che ha lo stesso volto affilato e zigomi alti di Alexy, forse è suo fratello. Però quest'ultimo porta una felpa nera con le maniche tirate su sino al gomito, sotto la felpa aperta porta una maglia bianca con la scritta “Assassin's Creed” e sotto il famoso simbolo degli assassini, i jeans sono neri e le converse che porta ai piedi pure. Concludono il look una collana di acciaio lucido con il ciondolo a forma del simbolo degli assassini e un polsino nero a sinistra. Ma lo sguardo di quest'ultimo è rapito dalla piccola console nera che si ritrova tra le mani. Una maledetta PSP vita. Smaniavo per averla.

 

«Lui è Armin, il mio gemello» dice il turchino indicando il moro.

«A quanto pare siamo tutti gemelli» dico io allungando una mano verso Armin. «Piacere, Ilenia» lo guardo e noto che non stacca gli occhi dallo schermo di quel dannato affare.

«Armin!» esclama esasperato Alexy, temo che non sia la prima volta che il gemello ignora il mondo esterno.

«Ah-ah. Sì sì. Ciao» dice Armin con una voce leggermente roca e distaccata.

 

Quando è troppo è troppo. Sento il mio sopracciglio destro inarcarsi e senza farmi troppi scrupoli gli tolgo di mano la PSP e guardo lo schermo.

 

«Assassin's Creed. Ezio Auditore. Davvero?» gli chiedo parlando in italiano, tanto per restare nel tema.

 

Misery e Alexy mi guardano sconvolti, poi guardano la PSP sconvolti, poi guardano di nuovo me sempre più sconvolti, e non capisco il perché. Forse mai nessuno aveva osato strappare dalle mani del moro la sua amata PSP?

 

 

-<>-*-<>-


 

Mamma continua a stringermi e a controllarmi in ogni più piccolo particolare. L’ho già fatta la perquisizione in aeroporto, grazie mamma della fiducia. In fondo però la capisco, è ancora iperprotettiva come la ricordavo. Mi sorride continuando a stringermi a se, mentre fa domande a papà che le spiega come abbiamo passato questi tredici lunghi anni a Seattle. Mentre tento, inutilmente, di liberarmi dalla presa, ormai oppressiva, di mamma guardo verso mia sorella Ilenia, lei ascolta attentamente le parole di papà, poi ad tratto inizia a guardarsi le punte delle scarpe, che per la cronaca sono stupende e se papà non fosse più protettivo di mamma forse ora ne indosserei un paio simile anche io. Sorrido a questo pensiero poi però torno a guardarla e a guardare il suo sguardo fisso a terra, conosco quello sguardo, io lo uso spesso, è lo sguardo malinconico di chi pensa a qualcosa che le è successo e che per qualche motivo la fa sentire in colpa, guardo papà e con la testa gli faccio cenno di avvicinarsi a lei. Mamma si volta giusto in tempo per vedere papà stringere fra le sue possenti braccia la mia adorata gemella e allenta la presa su di me, finalmente tra un po’ andavo in crisi respiratoria. Le sorrido e le do un dolce bacio sulla guancia.


 

«Ti voglio bene mamma.» Le dico prima di avvicinarmi ad Ilenia e sentire cosa papà le stava dicendo, mentre mamma mi seguiva ugualmente incuriosita.

«E quei tacchi poi! E il trucco! E questa maglia che ti scopre la spalla destra! E i jeans strappati! Amandine, ma che diamine!» Esclama papà, mentre volta gli occhi al cielo come era solito fare, girandosi verso la mamma, che ride e si limita a scrollare le spalle.

«Che vuoi farci Jacques, ormai è grande.» risponde la mamma ridendo dei tipici borbottii di papà che ormai conosco a memoria.


 

Mi avvicino ad Ilenia sorridendo.

 

«Il solito gelosone.» le ricordo ridacchiando.

«Me ne sono accorta» ride per poi avvicinarsi al mio orecchio e sussurrare. «Aspetterò ancora a lungo prima di dirgli che ero pure fidanzata.» La sua affermazione mi fece ridere in un modo quasi contagioso, come non facevo da tempo.

«Meglio, sì.» Le dico una volta che ho smesso di ridacchiare.

 

Lei aveva avuto un ragazzo, io avevo conosciuto due gemelli e ogni volta che venivano a casa mia ero controllata a vista peggio che in una caserma. Mentre ripenso a quello che fu lei mi sorride e mi abbraccia nuovamente, prima di riuscire a fare qualsiasi cosa sento il suo dolce profumo venirmi incontro, profuma di rose e di brezza estiva. Questo è il profumo che ho atteso di poter risentire per così tanto, non c’è profumo che ami di più al mondo. E non c’è persona che ami più di mia sorella. Chiudo gli occhi e ricambio l'abbraccio stringendola forte a me, come se avessi paura di dovermi separare nuovamente da lei, cosa che non dovrà riaccadere mai più.

Riapro gli occhi quando sento una voce acuta maschile chiamarmi.

 

«Missyyyyyyyyy!!!» Non mi serve nemmeno voltarmi per capire che si tratta di quella testa turchina di Alexy.

 

Mi giro sciogliendo, a malincuore, quel dolce abbraccio. Le stringo la mano e la conduco verso il mio amico color arcobaleno. Come al solito è vestito in modo molto colorato, felpa arancione, maglia acquamarina con disegnato un atomo rosa e dei jeans verdognoli con uno smile giallo sulla tasca. Scuote la testa sovrastata da quella massa di capelli azzurrini, sorride e socchiude appena quei suoi fieri e orgogliosi occhioni color violaceo rosato che sono da sempre stati dolci, premurosi e sinceri nei miei confronti.

 

«Alexy!» Dico sorridendo e indicando la mia adorata sorella «Permettimi di presentarti Ilenia, la mia gemella.»

«Finalmente ti conosco! Missy parlava tantissimo di te» Lui le sorride stringendole la mano. «Ma cavolo sembrate tutto tranne che gemelle» conclude ridendo.

«Così pare» Afferma lei sorridendogli e lasciandogli la mano.

 

Alexy si gira cercando di chiamare qualcuno, probabilmente Armin, poi sbuffa e trascina verso di noi il suo moro gemello. Armin è alto quanto lui, però ha gli occhi celesti e lucenti come due pietre di zaffiro, ha lo stesso volto affilato e zigomi alti di Alexy, ma uno stile molto diverso. Porta una felpa nera con le maniche tirate su sino al gomito, sotto la felpa aperta porta una maglia bianca con la scritta “Assassin's Creed” e sotto il famoso simbolo degli assassini che gli ho regalato circa un anno fa, i jeans sono neri e le converse che porta ai piedi pure, per finire completa il look con una collana di acciaio lucido con il ciondolo a forma del simbolo degli assassini, regalo che gli fece Alexy al loro ultimo compleanno e un polsino nero che gli avevo cucito io con il tessuto avanzato da un mio vestito e che lui portava sempre al polso sinistro. Come sempre il suo sguardo è rapito dalla piccola console nera che si ritrova tra le mani, lo sapevo che quella era l’unica cosa che gli interessava veramente prendere dalla valigia. La sua fidata PSP vita, mai che la sua attenzione ricadesse su una ragazza o su un libro.

 

«Lui è Armin, il mio gemello» Dice Alexy indicando il gemello.

«A quanto pare siamo tutti gemelli» Aggiunge Ilenia porgendogli la mano. «Piacere, Ilenia» Ma come sempre Armin non la calcola minimamente, se sta giocando non calcola nessuno, a suo tempo l’ha fatto anche con me.

«Armin!» Esclama Alexy esasperato mentre io e lui ci scambiamo uno sguardo di rassegnazione.

«Ah-ah. Sì sì. Ciao.» Dice Armin con una voce leggermente roca e distaccata.

 

Mi volto verso Ilenia cercando di scusare il comportamento del mio amico, ma prima che io e Alexy dicessimo o facessimo qualunque cosa Lei alzò uno dei suoi curatissimi sopraccigli e poi gli tolse la console.

 

«Assassin's Creed. Ezio Auditore. Davvero?» Gli chiede lei parlando in italiano.

 

Io e Al la guardiamo sconvolti, poi guardiamo la PSP sconvolti, poi guardiamo di nuovo lei sempre più sconvolti. La cosa strana è che non era tanto quello che aveva fatto a sconvolgerci, non era la prima volta che qualcuno gli levava di mano la sua amata PSP, ma la lingua in cui aveva parlato ci lasciava decisamente senza parole. Alexy non ci stava capendo un tubo, mentre io ringraziavo papà per avermi parlato della storia della nostra famiglia quando ero piccina e per avermi parlato ed insegnato quella che era la lingua che parlava sua madre, cioè l’italiano.

 

«Ilenia da quando parli italiano?» Chiedo sorridendole.

«Hum… Fammi pensare. Da… Hum, oddio quanti sono, dalle medie quindi circa sette anni credo.» Dice sorridendomi prima di aggiungere. «Però l’italiano a livello scolastico non mi bastava, quindi prendo tuttora lezioni private un ora al giorno da allora.»

«Io sinceramente non ci ho capito una parola. Italiano, ma che lingua è?» Aggiunge Alexy incrociando le braccia dietro la testa sorridendo.

 

Italiano è la lingua da cui deriva il nome di mia sorella, nome che le è stato dato in memoria della nostra cara nonna. Ricordo ancora oggi quando papà mi raccontò di lei.

 

 

Avevo circa sette anni e avevo da poco iniziato il ciclo di chemioterapia per fermare il meningioma al cervello ed evitare che si espandesse. Ero sul letto della mia camera con un libro tra le mani, come sempre, quando papà entrò in camera per portarmi una tazza di thè caldo alla mela, uno dei miei preferiti.

 

«Ecco il tuo thè tesoro mio, vuoi qualcos’altro?» Disse passandomi la mia tazza tiepida.

 

Ogni volta che i preparava un thè bollente lo versava in una tazza in ceramica viola che teneva in congelatore in modo tale che io non mi scottassi le mani prendendola tra di esse, era così premuroso con me. Io soffiai quattro volte, rituale che facevo ogni volta soffiando una volta per ognuno dei componenti della mia famiglia, e poi presi due grandi sorsi di thè mentre lui mi accarezzava la testa.

 

«Papà non riesco a ricordarmi la nonna.» Dissi con lo sguardo basso e malinconico sentendomi in colpa per ciò che avevo appena detto.

«Aspettami qui piccola mia.» Rispose semplicemente papà uscendo dalla stanza per tornare poco dopo con un album fotografico nero con rilegature bianche che mi disse in seguito aver confezionato mamma per me per momenti come questi.

«Quello cos’è? Non l’ho mai visto prima.» Chiesi poggiando la tazza sul comodino e sporgendomi incuriosita verso papà.

«Questo è un album fotografico. Guarda.» Disse lui mostrandomi le varie foto.

 

Cominciò con una foto di famiglia in cui c’eravamo io e la mia sorellina gemella tra le braccia di papà e mamma all’età di tre anni, poi mi mostrò tantissime altre foto fino ad una in cui vi erano lui e una donna dai lunghi capelli ricci e biondi con due enormi e dolci occhioni blu con sullo sfondo la torre di Pisa.

 

«Chi è questa donna bionda papà?» Chiesi indicandogliela. «E dove siete?»

«Tesoro mio quella è tua nonna Ilenia e quella è Pisa, la città dov’è nata.» Aggiunse sorridendomi e accarezzandomi amorevolmente la testa.

«Ilenia? Ma Ilenia non è il nome di mia sorella? E se questa è la nonna perché non l’ho mai vista?» Dissi guardandolo confusa.

«Vedi tesoro mio…» Disse diventando malinconico e circondando le mie spalle con un braccio. «Purtroppo tua nonna ha avuto un terribile ictus pochi mesi prima che voi due piccine nasceste e ora è lassù in cielo che veglia su tutti noi.» Aggiunse sospirando e alzando gli occhi al cielo mentre una lacrima gli rigava il volto.

 

Quella fu una pochissime volte in cui vidi uscire delle lacrime dai suoi occhi, lui non piangeva praticamente mai.

 

«Vedi quando la tua gemellina Ilenia è venuta al mondo aveva la stessa carnagione abbronzata che ho io e che a sua volta aveva mia madre e possedeva anche il suo stesso dolce sorriso e i suoi due enormi occhioni blu. Io guardai tua madre e lei mi disse che tua sorella poteva portare un solo nome e quello era Ilenia. Abbiamo chiamato così tua sorella in memoria della meravigliosa donna che il tempo sì portò via all’improvviso e troppo presto, in memoria di mia madre.» Disse stringendomi a se.

«Mi dispiace tanto papà» Dissi asciugandogli le lacrime dal volto malinconico su cui spuntò un amorevole sorriso. «Papà voglio imparare l’italiano, mi insegneresti la lingua che parlava la nonna?»

 

Detto ciò gli sorrisi, lui annuì, mi strinse forte a se e mi diede un dolce bacio sulla testa. Da quel giorno perdevamo almeno un ora al giorno o più a imparare l’italiano che ora padroneggiavo quasi quanto una madre lingua.

 

 

«Misery chi è questa ragazza? Perché mi ha preso la PSP? E che lingua parla?» Si lagna Armin, sembrando quasi un bambino piccolo, mentre scuotendomi per le spalle mi riporta alla realtà.

«Armiiin. Se continui così mi girerà la testaaa.» Dico afferrandomi ad Alexy e cercando di far smettere di girare tutto.

«Hai ragione. Perdonami Missy. Però non mi hai risposto. Uffa.» Continua a lagnarsi Armin mentre smette di scuotermi e io lascio la presa da Alexy.

«ARMIN!» Urla Alexy prendendolo per un orecchio. «Ma sei scemo o cosa? Se non dormissi in piedi ti saresti accorto che te l’abbiamo appena presentata, in più Misery non ha fatto altro che parlarti di lei in questi anni coglione!» Conclude lasciandogli l’orecchio sufficientemente torturato.

«He-hem… Coglione… He-hem…» Tossicchia Ilenia in italiano mentre io me la rido essendo l’unica a capirla.

«AIA!!! Alexy mi hai fatto male!!!» Continua a lagnarsi Armin mentre io smettendo di ridere aggiungo.

«Allora Armin, stai attento perché sta volta non lo ripeto più. Ti presento la mia sorella gemella Ilenia.» Dico indicandola.

«Perdonami, piacere io sono Armin.» Aggiunge porgendole la mano.

«Piacere Ilenia.» Dice lei stringendogli la mano. «Non si nota neanche un po’ che sei un fan di Assassin's Creed.» Dice sarcasticamente restituendogli la PSP.

«Tu dici?» conclude imbarazzato grattandosi la nuca.

«Al, Ar e cara Missy con chi state chiacchierando?» Dice Emily accarezzandomi la testa mentre Max la raggiunge trascinando dietro di se tre o quattro trolley.

«Emily, Max è per me un piacere presentarvi la mia adorata sorella gemella Ilenia, Ilenia loro sono Emily e Max i genitori dei gemelli.» Dico presentandoli.

 

Max non è un tipo molto loquace contrariamente a Emily che è un uragano di energie.

 

«Ilenia non sai quanto la cara Missy ha parlato di te in questi anni, ma sei addirittura più bella di quanto mi fossi immaginata da come lei parla sempre di te.» Dice Emily sorridendo ad Ilenia.

«Mi sembra logico che sia bellissima, è mia figlia dopotutto, Emily.» Aggiunge papà sorridendo orgoglioso, mentre lui e mamma ci raggiungevano. «Emily, Max. Per me è un vero piacere ed un onore presentarvi la mia splendida moglie Amandine.»

 

Conclude presentando la mamma agli altri poi continuiamo tutti a chiacchierare amabilmente per un po’.

 

«Beh ragazzi che ne dite di andare a fare colazione? In fondo se non vado errato sono le nove.» Dice ad un certo punto papà.

«Ottimo, sinceramente io ho un lieve languore.» Afferma Max sorridendo a papà.

 

Credo che quella fosse una delle sue conversazioni più lunghe.

 

«Ma dove? Noi siamo nuovi di Parigi.» Aggiunge Emily correggendo l’affermazione del marito. «Giusto Armin.» Dice fulminando con lo sguardo il ragazzo che è immerso nel suo gioco e non da retta a nessuno.

 

Lei si arrabbia, gli pizzica un orecchio, gli prende la console e la mette nella sua borsa.

 

«No, mamma perché?» Si lagna lui.

«Così impari a conversare educatamente. Sei sempre su quel coso.» Conclude irritata.

«Uffa.» Conclude lui.

«Che ne dite di andare al Café Ruc?» Dice mamma riportando l’attenzione sulla colazione.

«No mamma, quel posto è troppo antico e poi il servizio è lentissimo. Non è meglio Le Sable Doré?» Aggiunge Ilenia bocciando la proposta di mamma.

«Tesoro caro quel bar ha uno stile egizio troppo sofisticato per una prima colazione, non vorrai mica farli tornare a Seattle di corsa. Preferirei andare al Pierrier-Jouët, tu che dici?» Chiede picchiettandosi il labbro inferiore con l’indice della mano destra, cosa che faccio anche io spesso mentre penso.

«Ottima idea mamma, lì il servizio è stupendo e fanno delle fantastiche brioches.» Conclude Ilenia euforica, come se non fossero tanto le brioches che non vedeva l’ora di provare.

«Allora è deciso. Andiamo tutti al Pierrier-Jouët.» Concluse papà ridendo.

 

Detto ciò ci siamo diretti tutti verso l’uscita dell’aeroporto continuando a chiacchierare, la destinazione era chiara il bar Pierrier-Jouët per fare un’allegra collazione tutti insieme. La mia prima colazione con tutta la mia famiglia riunita come non lo era da tanto tempo.



Angoletto delle autrici:

Buon venerdì cari orsetti gommosi *O* buon fine settimana e buon inizio week-end!
Eccoci qua con il secondo capitolo di questa Fan Fiction! Speriamo che vi piaccia :3
Come avrete notato è moooolto più lungo del primo, e ci scusiamo, ma quando ci buttiamo nella scrittura siamo come dei piccoli fiumi in piena e non ci fermiamo finché non vediamo che abbiamo fatto un capitolo di tipo ventimilioni di pagine D: ma speriamo apprezziate la cosa v.v
In questo capitolo Ilenia conosce gli amici della sorella e già vorrebbe distruggere la PSP di Armin, oppure rubargliela e tenersela per lei xD è mooolto indecisa xD
Boh care meringotte mie, questo è tutto, speriamo vi piaccia il capitolo :3
Recensite se volete, accettiamo critiche costruttive, complimenti, biscottini alla nutella, 10.000€ a testa... Cosa volete fare fate :3
Ci leggiamo (?) il prossimo venerdì :D
Baci e abbracci :D
IleWriters & Misery007


 

Pubblicato il: 6 marzo 2015

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo III - Dreaming home ***






Capitolo III - Dreaming home



 

Usciamo dall'aeroporto e ci dirigiamo alla fermata della navetta del terminal 2E. Abbiamo salutato la famiglia dei gemelli dandoci appuntamento al bar dato che loro devono noleggiare un auto almeno per il primo periodo in cui si trovavano qui a Parigi. Ilenia ha spiegato loro la strada in maniera a dir poco impeccabile, chi sa per quale motivo conosce così tanti modi per raggiungere quel bar? Probabilmente vivere tanto a lungo nello stesso luogo aiuta l’orientamento, penso spiegandomi in modo sbrigativo l’eccezionale conoscenza delle strade da parte di mia sorella. Mentre ripenso a quanto accaduto pochi minuti prima vedo fermarsi di fronte a noi un pulmino. Le ante di quel piccolo automezzo si aprono e noi saliamo a bordo seguiti dai nostri due trolley che papà appoggia sul porta bagagli sopra le nostre teste. Il posto in cui siamo seduti è in fondo al pulmino ed essendo in quattro ci stiamo anche relativamente comodi anche se a mio parere quello è un posto troppo stretto e angusto. Vedo mamma estrarre un cellulare dalla borsa e spedire un messaggio, non saprei nemmeno dire a chi poi sento uno strano rumore provenire dalla borsa di Ilenia.

 

«Sorellina credo ti sia arrivato un messaggio.» Le dico sorridendole.

«Davvero?» Chiede aprendo la borsa e notando il display illuminato del suo apparecchio elettronico. «Hai un ottimo udito sorellina.» Dice sorridendo e rispondendo a quel messaggio prima di chiudere la borsa.

 

Il viaggio che ci porta dal terminal al parcheggio dura all'incirca una decina di minuti e una volta usciti dalla navetta ad attenderci c’è un gigantesco SUV nero con vetri oscurati e un uomo con due magnifici occhi verdi smeraldo nei quali si poteva intravedere un animo affidabile e rassicurante, un lieve sorriso dolce sul volto, capelli neri con un taglio molto corto e ordinato. Era alto quanto nostro padre ed indossava un elegante uniforme tipica degli autisti, non era cambiato molto negli anni e sembra lo stesso ventenne che papà aveva assunto l’anno in cui noi eravamo stati costretti a partire.

 

«Signora Amandine.» Aggiunge inchinandosi verso mamma e aprendo la portiera dell’automezzo per poi ripetere l’inchino verso ognuno di noi. «Signorina Ilenia. Bentornato signor Jacques, è un onore riaverla qui e questa meraviglia deve essere la signorina Misery.» Conclude facendomi un galante baciamano.

«L-l-la ringrazio.» Dico imbarazzata mentre papà gli consegna le nostre valige da mettere nel portabagagli.

«Ottimo lavoro Anthony, ora potresti condurci fino al bar Pierrier-Jouët in centro?» Chiede sorridendogli.

«Certamente signore.» Conclude inchinandosi a papà per poi chiudere lo sportello dell’auto dopo che anche lui è entrato nell'abitacolo.

 

Anthony fa il giro dell’auto per poi sedersi al posto di guida, si sistema il cappello e poi parte verso l’autostrada “A1” diretto in centro città verso quel bar dove ci eravamo dati appuntamento con la famiglia dei gemelli.

 

 

Il viaggio non è molto lungo e io lo passo quasi completamente persa ad osservare la scena fuori dal mio finestrino, dopo circa una ventina di minuti siamo in centro di fronte ad un luminosissimo edificio di due piani con ampie finestre ed infissi neri in contrasto alle pareti esterne completamente bianche. Dopo circa una decina di minuti ci raggiungono i gemelli con i loro genitori e tutti insieme entriamo in quel locale. Il bar è luminoso ed arioso per via delle molteplici finestre. Le pareti sono tutte nere con stampato il logo contenete il nome di quel luogo sulla parete situata dietro il candido bancone del bar. Il luogo ha un mobilio di colore prevalentemente bianco, ma con un accenno di viola, di rosa, d’argento e di nero alternati. Ci sediamo in un tavolino vicino al muro con quattro poltroncine di similpelle bianche ognuna delle quali possiede un cuscino di colore diverso dall'altro alternati come nello stile del locale, nella parte attaccata al muro vi è un grande e comodissimo divanetto in similpelle bianco con lo schienale in tessuto viola. Per finire il tavolino è bianco con gambe in ferro battuto verniciato di nero metallizzato raggiante. Armin si siede sul divanetto e Alexy, sedendosi a fianco del fratello, mi trascina al suo fianco, i posti sul divanetto vengono occupati per finire da Ilenia che prende l’ultimo posto mentre i nostri genitori si accomodano sulle poltroncine di fronte a noi. Io, come sempre, mi siedo con le gambe accavallate, i palmi delle mani poggiati sopra le ginocchia e la schiena perfettamente dritta poggiata allo schienale del divano e vedo fare lo stesso anche a mamma. Siamo comunque molto simili pur essendo rimaste distanti così a lungo, penso mentre un lieve sorriso prende posto sul mio volto.

 

«Hey Ile, con quanta gente sei venuta qui oggi?» Dice una voce bassa e rocca, ma comunque con una sonorità dolce avvicinandosi.

«Viiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiik!!!» Urla lei entusiasta saltando al collo del ragazzo che si era avvicinato al nostro tavolo.

 

Quel ragazzo è alto e muscoloso, indossa un paio di jeans che gli fasciavano perfettamente il corpo giovane e allenato, porta una camicia nera sovrastata da una cravatta viola che sembravano evidenziare perfettamente i suoi addominali scolpiti, sul taschino destro vi è una targhetta argentata con scritto Viktor, il suo look è ultimato da un grembiule nero con tre tasche come indossano tutti i camerieri e due piercing argentati sull'orecchio sinistro. Il suo volto è un po’ spigoloso, ma i suoi occhi sono due dorate cascate ricolme di dolcezza, il sorriso è tirato dati i suoi lineamenti freddi, ma comunque molto sincero e per finire ha dei capelli neri con un taglio a caschetto disordinato. Lui si gira verso mia sorella e le schiocca un dolce ed affettuoso bacio sulla guancia scatenando così l’immancabile istinto paterno.

 

«He-hem… Ilenia chi è questo ragazzo? Come mai siete così vicini?» Chiede papà lievemente adirato.

«Papà…» Aggiunge Ilenia con la faccia di chi è consapevole di essere finita in una valanga di guai. «Lui è Viktor, il proprietario, nonché capo cameriere di questo posto.» Aggiunge con un sorriso che sembra urlare ti prego metti via le torce e i forconi.

«Jacques caro, Ilenia lavora qui da quasi due anni ormai, per lei Viktor e come un fratello, non che il suo capo.» Aggiunge mamma cercando di rassicurarlo.

«La ringrazio signora per l’alta stima che hai di me.» Aggiunge il bellissimo cameriere che è ancora affianco ad Ile.

«E tu ti fidi di questo qui Amandine? Quanti anni hai ragazzo?»

«Ne ho ventuno signore, ma non si preoccupi, non oserei mai e poi mai torcere un capello a sua figlia.» Dice Viktor guardando nostro padre con una faccia alla non voglio morire, son troppo giovane.

«Hum… Per sta volta mi fiderò. Non fatemene pentire.» Aggiunge papà guardando accigliato Ilenia che torna a sedersi accanto a me.

«Bello vero?» Mi sussurra a quel punto lei tornata al mio fianco, io sorrido e annuisco a ciò che ha detto. «Comunque Vik lei è mia sorella gemella Misery e lui come avrai già capito è mio padre Jacques, mentre loro sono amici di famiglia.» Conclude sorridendogli.

«Signori è un vero piacere conoscervi e Misery sei più bella di quanto continuasse assillantemente a ripetermi Ilenia.» Aggiunge Viktor sorridendomi.

«G-g-grazie, sei molto gentile.» Rispondo lievemente imbarazzata.

«Allora signori siete pronti per ordinare?» Chiede lui a quel punto riferito all'intero gruppo. «Ilenia per te il solito croissant alla marmellata d’albicocche e un succo all'albicocca giusto?» Chiede lui sorridendole.

«Certo Vik.» Afferma lei sorridendogli.

«Per lei signora Amandine cappuccino e croissant integrale con miele?» Chiede lui riferendosi a mamma.

«Come sempre, vedo che hai una buona memoria.» Gli sorride mamma.

«Grazie signora, voi cosa desiderate?» Chiede riferito a noi.

«Un thè alla pesca e un croissant integrale con miele grazie.» Dico io in risposta.

«Per me invece croissant alla cioccolata e un succo ace.» Aggiunge Armin affamato.

«Anche per me un croissant alla cioccolata con un cappuccino.» Afferma suo padre Max.

«Anche per me un cappuccino con un croissant all'albicocca.» Dice papà.

«Anche a me un cappuccino con un croissant alla crema, grazie infinite.» Aggiunge Emily sorridendo in modo alquanto eccessivo a Vik.

«E per finire io vorrei un croissant alla crema con un succo alla pera grazie.» Conclude Alexy.

«Perfetto quindi sono quattro cappuccini, due croissant alla crema, due alla cioccolata, due all'albicocca, due integrali più un succo alla pera, un ace, un succo all'albicocca e un thè alla pesca giusto.» Dice Viktor controllando di aver preso nota di tutto.

«Sì.» Rispondiamo in gruppo.

«Ve li porto subito allora.» Aggiunge lui prima di tornare al bancone del bar.

 

Mentre attendiamo le nostre ordinazioni Ilenia mi spiega che il locale ha anche un altro piano interrato le cui sale vengono prevalentemente utilizzate per le feste serali e fungono come disco pub. Il luogo e il lavoro di mia sorella sembrano stupendi e dicono molto della sua personalità energica ed espansiva, sono contenta di avere una sorella come lei. Mentre penso Viktor comincia a servire i cappuccini e le bevande tornando poco dopo con i croissant caldi. Io ormai comincio a sentire il peso del jet lag, ma non lo do a vedere contrariamente ad Armin che sta praticamente dormendo in piedi mentre mastica pigramente il suo croissant alla cioccolata. Io comincio a masticare il mio croissant integrale, è caldo e delizioso ed il suo sapore è ricco e gustoso in più il miele al suo interno lo rende estremamente dolce. Restiamo lì per almeno una ventina di minuti a mangiare e a chiacchierare tranquillamente fino a che papà non chiede alla famiglia dei gemelli.

 

 

«Emily, Max, ragazzi che ne dite di venire a cena da noi domani sera?» Chiede papà che ancora non è tornato a casa e già comanda. Tipico.

«Certo ne saremo onorati.» Risponde energicamente Emily, ma come fa ad essere sempre così attiva?

 

Continuiamo a chiacchierare ancora un po’, poi mamma scrive l’indirizzo di casa nostra su un foglietto con una penna estratti entrambi dalla borsa che porta con se. Ci alziamo, salutiamo Viktor e poi ci dividiamo tornano ognuno alla propria casa. Anthony ci attende fuori e, dopo averci aperto lo sportello, ci fa salire in macchina e poi ci porta verso casa, non vedo l’ora di rivederla ma sono molto stanca e poco dopo essere partiti appoggio delicatamente la testa sulla spalla della mia dolce sorella, sono serena e calma perché finalmente siamo diretti a casa. Questo è il primo momento in cui finalmente sono tranquilla e posso finalmente sognare senza preoccuparmi di qualche visita o di qualche impegno che potrebbe rovinare il mio meritato riposo. Sto tornando, sono nel luogo in cui per tredici lunghi anni ho sperato di tornare, sono a casa.

 

 

-<>-*-<>-

 

 

Lasciato il bar la strada per arrivare fino a casa è breve, ma Misery si addormenta poco dopo la nostra partenza. È così bello vederla dormire e sorride, mi chiedo a cosa starà pensando, poggio la testa su quella di lei, che è delicatamente adagiata sulla mia spalla, guardo fuori la città e i vari negozi che se fosse sveglia gli indicherei uno per uno. Passiamo di fronte alla scuola e al parco, ma dopo circa dieci minuti di strada ecco aprirsi di fronte a noi l'enorme cancello in ferro battuto elegantemente lavorato e tinto di nero. Entrando davanti a noi troviamo una gigantesca piazzola tondeggiante circondata dall'immenso giardino che circonda la casa, nel certo vi è una meravigliosa fontana in marmo candido scolpito a mano a forma di chiave di sol. In estate è a dir poco stupenda con l'acqua limpida che scorre senza sosta e le ninfee che la riempiono, attorno ad essa ci sono quattro panchine a loro volta circondate da una siepe perfettamente curata. Sullo sfondo di questa poetica visione si erge maestosa la nostra villa, sopraelevata di circa tre metri dal suolo della piazzola ed unita ad essa da un ampia scalinata quasi fiabesca. La villa è di circa tre piani, senza contare la soffitta e l'enorme taverna, nella parte anteriore centrale precedente all'ingresso ci sono quattro colonne altissime, due per parte, bianche quanto la neve che collegano il tetto al suolo, ma che stanno lì più che altro per far scena. La villa è grande e piena di luminose finestre ed ampie terrazze. Ha una tinta chiara tendente al beige che è richiamata anche dall'ampio garage e dalla dependance che si trovano ai lati della villa. Insomma noi viviamo in una villa in stile moderno che conclude il viale aristocratico in cui ci troviamo.

Scuoto dolcemente mia sorella, che alza lentamente la testa.

 

«Sveglia dormigliona, siamo a casa» le dico sorridendo. Il fuso orario deve averla fusa del tutto.

«D-Davvero? Non sto sognando?» chiede lei stropicciandosi un occhio con voce bassa e roca da appena sveglia.

 

Io le annuisco e le indico la casa sorridendo, lei si appiccica con il naso al finestrino e guarda con gli occhi lucidi la casa e un sorriso a trentadue denti sul volto. Anthony parcheggia davanti la fontana e scende per venire ad aprire gli sportelli e permetterci di scendere.

Misery si fionda fuori dalla macchina e corre verso la fontana sorridendo e poggiando le mani sul marmo candido, sorrido e la seguo, sistemandomi la borsa sulla spalla, però non mi fermo alla fontana, la supero e salgo gli scalini di marmo che conducono alla nostra enorme porta a quattro ante, in legno scuro e finemente intagliato e con il vetro smerigliato creando l'effetto vedo non vedo. Prendo le chiavi dalla mia borsa e sento il profumo vanigliato di Misery dietro di me, sorrido e apro la porta entrando nella nostra magnifica casa. Questa casa che era stata del nostro nonno paterno, dei suoi genitori prima di lui e così via. Ovviamente negli anni era stata restaurata, ma da quando io e Misery eravamo nate avevamo solo aggiunto una piscina coperta e una esterna.

 

 

Appena entriamo allungo una mano verso destra e clicco sull'interruttore della luce. Sei faretti si accendono nel semicerchio sopra di noi, altre due luci si accendono ai lati della porta, mentre al centro della stanza regna un lampadario con tanti dischetti di madreperla che scendono come una pioggia verso il basso.

Sorrido davanti l'espressione entusiasta di Missy e mi pulisco le scarpe nel tappeto a semicerchio davanti la porta e vedo Missy fare lo stesso, per fortuna, così mamma non darà di matto perché potremmo averle sporcato il pavimento di marmo. Scendo i due piccoli gradini a semicerchio in granito color crema scuro, mentre le pareti sono un crema chiaro. Le due rampe di scale che portano al piano di sopra sono collegate al semicerchio sopra la porta principale e sono fatte con il piano di legno scuro lucido e la parte in verticale con dei piccoli mattoncini delle varie tonalità di crema messi a mosaico. La ringhiera è in ferro nero battuto, mentre il corrimano in legno è finemente intagliato ai lati e alla fine. Misery continua a guardarsi intorno estasiata.

 

«Vieni, andiamo di sopra» le dico sorridendo e salendo sulla rampa di scale sulla destra.

«Nelle nostre stanze?» sorride mentre mi segue su per le scale.

 

Io le annuisco e arrivo sul ripiano dove c'è il balconcino che da sull'ingresso e salgo altri quattro scalini che si trovano sulla destra. Al muro ci sono appese tantissime foto. Alcune di quando io e Misery eravamo neonate, altre di quando eravamo bambine e le altre ritraggono solo me e mamma e altre solo papà e Misery a Seattle. Le ho sempre odiate quelle foto. Era la prova ufficiale che eravamo una famiglia divisa, dilaniata dalla malattia bastarda di mia sorella. Sorrido pensando che adesso è tutto finito, loro sono tornati, Missy sta bene. E' tutto passato.

Cammino per il piccolo corridoio che da sempre sull'atrio principale poi svolto nel corridoio. Ci sono tre porte sulla destra e due sulla sinistra, altre foto appese lungo le pareti, alcuni sono dipinti di paesaggi di mare al tramonto, mi trasmettono sempre una tranquillità interiore, sorrido e mi giro a vedere Misery, che da come fissa il quadro di un faro solitario su uno scoglio sul mare con le sfumature arancioni, gialle e rosate del tramonto, mi fa capire che anche a lei quella visione le dona tranquillità.

 

«E' il mio preferito» le dico sorridendo.

«Piace tanto anche a me» mi dice sorridendo con gli occhi ametista estasiati. «Non ho visto il mare molte volte» mi guarda e scrolla le esili spalle sconsolata.

 

La cosa mi rattrista. Io ho avuto così tanto e lei no. Mi tiro giù la manica destra e la trattengo tra le dita e procedo verso le scale che salgono al piano superiore, quello dove stanno tutte le camere, persino quella di Anthony.

 

 

Il corridoio delle scale è tra il muro dell'ufficio di papà e una serie di finestre che danno luce alla rampa di scale. Arrivo al piano di sopra e mi tolgo i tacchi. Il freddo del marmo mi fa sussultare, ma dopo poco i miei piedi si adeguano e procedo verso la mia stanza. La prima porta sulla destra è quella della stanza dei nostri genitori, la porta accanto è quella di Anthony e l'ultima sulla destra è quella della stanza degli ospiti, mentre la prima a sinistra è la stanza di Misery, così gliela indico.

 

«E' la tua» le dico sorridendo e mi fermo alla porta accanto alla sua. «Se mi cerchi sono qua dentro» le indico la porta con la testa e sorrido.

 

Lei annuisce e scompare dietro la porta. Sorrido e apro la porta della mia stanza. Le pareti sono di un color crema chiarissimo, mentre la parete dove si trova la testata del letto è di un rosa confetto. Mi dirigo verso una porta bianca, dietro la quale si trova la mia cabina armadio, e la spalanco buttandoci in modo poco ordinato le scarpe, poi la richiudo.

L'enorme porta finestra che dà sull'ampio balcone illumina la stanza, grazie al sole mattutino, sorrido e apro la porta per far cambiare aria, poi salgo sul piano sopraelevato dove si trova il mio letto di forma rotonda e vado a staccare la spina della fila di lucine gialle a stella che occupa la parete destra accanto al mio letto, ogni tre lucine ci ho fermato con dello scotch dietro delle polaroid che ho scattato. Ci sono delle foto con me e Misery da neonate, al nostro primo giorno di asilo, poi la foto del mio primo giorno di elementari, sorridevo solo con le labbra,ma non con gli occhi, non ero molto felice, solo l'anno prima Misery era dovuta partire con papà, e io ero molto triste a dover iniziare le elementari sola senza di loro. In quella foto avevo i capelli legati in una coda alta che mi arrivava alla fine del collo, non portavo ancora la frangia all'epoca, quella è arrivata ai tempi della seconda media. Avevo un grembiulino nero e sulla destra del petto avevo una stampa di Flora delle Winx, zaino delle Winx sulle spalle, jeans e converse nere. Nella foto salutavo mamma mentre entravo nell'edificio giallo canarino. Le foto dopo invece era il primo giorno di seconda elementare, stesso grembiulino nero ma i capelli sono raccolti in una treccia e accanto a me c'è un bambino dai capelli corti e neri, con una cresta sulla testa e due occhi grigi fumo. Ha un grembiulino più corto del mio, e ha stampato sul petto Goku al posto di Flora. Tiene le braccia incrociate e trattiene a stento un sorriso sulle labbra, fingendosi scocciato dal mio abbraccio. Sorrido e accarezzo il volto di Castiel da bambino. Nella terza foto abbiamo entrambi due sorrisi sdentati, a me manca l'incisivo superiore destro e quello inferiore sinistro, mentre a Castiel entrambi gli incisivi inferiori e l'incisivo superiore sinistro. Facciamo il segno della pace e portiamo i grembiulini allacciati intorno alla vita, gli zaini su una sola spalla e ci teniamo le braccia sulle spalle. Sembriamo pronti a conquistare il mondo. Le foto successive sono degli ultimi due anni di elementari, poi si susseguono i tre delle medie, dove al nostro duo si sono aggiunti Rosalya e Lysandre, che avevamo conosciuto quell'estate al mare. Rosalya, che al tempo aveva un caschetto candido che le contornava il viso e la frangetta centrale che le faceva spiccare gli occhi dorati, mi tiene un braccio intorno alla vita e l'altro intorno a Lysandre, anche al tempo vestito in modo vittoriano, che sorride educato verso l'obbiettivo della polaroid. Mentre dietro di me si trova Castiel, con il mento appoggiato sulla mia testa e le braccia intorno alla mia vita, sorridiamo tutti e quattro verso la mamma che scatta la foto. Sorrido, al tempo Castiel era ancora moro, e tutti eravamo ancora spensierati, ma troppe cose sono cambiate negli anni. Nella prima foto di superiori c'è un solo nuovo aggiunto. Nathaniel, che sta tra me e Rosalya, mi tiene un braccio fasciato dalla camicia bianca intorno alle spalle esili, la mano che mi circonda la spalla nuda, mentre l'altra è coperta dalla mia maglietta nera con stampata al centro Christina Aguilera, mentre alla mia destra c'è Castiel, che mi tiene la mano sul fianco sinistro, tutti e cinque sorridiamo davanti al cancello bianco del liceo “Dolce Amoris”. Guardo gli occhi ambrati di Nathaniel, che alla luce del sole sembrano d'oro, come i suoi capelli biondi miele. E' incredibile pensare che in seconda superiore, ai miei quindici anni, io e lui eravamo fidanzati. E' durata un anno e mezzo, poi in comune accordo ci siamo lasciati, e siamo rimasti ottimi amici. Guardo la foto dell'inizio della terza superiore. Ora è Nathaniel a starmi dietro e cingermi i fianchi con le braccia, il mento sulla mia testa e tutti e due con un sorriso felice. Si felice, ma non innamorato perso, nella foto manca Castiel, al tempo stava con Debrah e ci aveva abbandonati, o meglio con Lysandre ci parlava, con me no. La foto successiva è l'inizio della quarta superiore, Castiel è di nuovo tra noi, ma ora ha i capelli rossi e un sorriso a malapena accennato, mentre io gli tengo le mani incrociate sulla spalla destra, sopra le quali tengo la guancia destra e sono sulla punta destra con la gamba sinistra alzata e la punta del piede chiuso nella converse rosa tirata, lui mi tiene la mano sul fianco e accanto a lui si trova Lysandre che gli tiene una mano sulla spalla e l'altra sulle spalle di Rosa che a sua volta tiene una mano sul braccio di Nathaniel. Il mio sorriso si espande sapendo che in questo scatto ci sarà Misery. Questo mi fa ricordare che devo farmi una foto con lei. Così mentre prendo la polaroid dalla scrivania in legno chiaro, piena di libri, quaderni, astucci e fogli, sopra ci sono due mensole rosa, piene di libri e foto incorniciate, in una siamo io e Misery da neonate che dormiamo, in un'altra io e Rosalya davanti una discoteca, la sera dei miei diciotto anni. Io ho un vestito nero rivestito di paiette grandi, le maniche sono lunghe sino ai polsi, mentre la schiena è completamente nuda con la scollatura dell'abito che finisce morbida prima del mio sedere ed è corto sino a metà cosce e sta attillato su di esse, ai piedi piedi ci sono delle decollete nere scamosciate con i tacchi pieni di piccole borchie dorate, al collo ho una collana dorata e lunga, il ciondolo è un gufo con due pietre viola al posto degli occhi, i capelli sono raccolti in una lunga treccia che porto sulla spalla destra, e agli orecchi due orecchini a cerchio dorati enormi. Rosalya invece ha un semplice abitino in ecopelle nero, con una spalla coperta, e porta degli stivali dorati morbidi che le arrivano si sotto il ginocchio.

Sorrido e faccio per uscire quando mi ritrovo davanti mia sorella che si sta guardando intorno sorridendo, poi il suo sguardo si pianta sulla parete tra la porta del mio bagno personale e la porta finestra. Tutta quella porzione di parete è occupata da una sorta di libreria, e al centro incassato in dentro nella parete c'è un divano bianco con tanti cuscini bianchi, rosa e viola, sotto il divano ci sono tre cassetti, un rosa, uno bianco e uno viola. La parete lì è rosa con un motivo a fiori viola.

Sorrido e la prendo, prima che con la bava mi faccia un lago sul pavimento in marmo bianco e ci posiziono davanti alla porta finestra.

 

«Sorridi!» esclamo tirando su la polaroid con un braccio e posizionandola davanti a noi.

«No aspetta! Ho un aspetto osceno!» ribatte lei ridendo

 

Io non aspetto e scatto la foto ridendo. Quella viene fuori poco dopo, così io la prendo e inizio a scuoterla mentre rimetto la polaroid sulla scrivania.

 

«Infatti, ma anche io, stamattina mamma mi ha svegliata alle sei per essere pronta» le dico sorridendo.

«In effetti non volevo dirtelo, ma hai due occhiaie da paura» mi informa lei ridacchiando.

«Perché tu invece sei fresca come una rosa vero?» rido e appunto la foto accanto a quella di me al tavolo della discoteca con davanti la torta rosa a forma di numero 18 e accanto tutti i miei amici di scuola, Ambra inclusa.

 

Guardo la foto di me e Misery, i bordi sono leggermente sfocati, dato che ridevamo, ma siamo bellissime, gli occhi chiusi due sorrisi mozzafiato, occhiaie a parte, non saremo bellissime di aspetto, eppure quella foto è bellissima, contiene tredici anni di lontananza e di voglia di passare tutti i restanti insieme, la felicità di riessere a casa insieme. Mi siedo sul materasso ad acqua e mi stiracchio, invitando Misery accanto a me. Lei si siede e la vedo sussultare quando il materasso ondeggia sotto il suo sedere.

 

«Ma non ti viene il mal di mare?» mi chiede stendendosi sul letto.

«Naaah, anzi mi piace il movimento acquoso che fa» dico mentre la guardo.

 

La sua pelle candida spicca sul piumone con la stampa a fiori, sorrido e abbraccio un cuscino pail rosa shocking e ci mettiamo a parlare del più e del meno. Ci raccontiamo degli episodi divertenti che ci sono successi in questi tredici anni.

 

 

Quando la mamma ci viene a chiamare per il pranzo io le sto descrivendo il liceo. Missy sembra estasiata al pensiero degli armadietti per gli studenti blu, la cosa mi fa ridere e la mamma ci guarda sorridendo.

 

«Davvero ogni studente ha un suo armadietto?» mi chiede estasiata, per la terza volta.

«Ti dico di sì, e ognuno ha la sua combinazione» le dico ancora, ridendo.

«Oddio ma è fantastico!» esclama lei balzando in piedi, e per poco non cade a terra dato che non si ricorda del soppalco tondo su cui è posato il mio letto.

«Poi conoscerai i prof e ti passerà tutto l'entusiasmo» le dico mentre rido e mi alzo.

 

Prima di uscire chiudo la porta finestra, poi seguo la mamma e Misery giù in sala da pranzo.

 

 

La sala da pranzo è alla sinistra dell'atrio, è grande, con un tavolo che se viene allungato può tranquillamente ospitare dodici persone, mentre da chiuso sei, per questo spesso occupiamo solo la parte iniziale, ma oggi che papà e mia sorella sono tornati, mamma ha tirato fuori la sua preziosa tovaglia bianca di lino, l'argenteria, il servizio di piatti in porcellana e i bicchieri in vetro di Murano.

Sorrido, sperando che mamma non abbia cucinato per un esercito e mi siedo al mio solito posto, alla destra del capotavola, già occupato da papà, e alla mia destra Misery, che guarda verso la mamma che arriva con una pentola coperta.

 

«Mamma?» la chiama mentre mamma prende il piatto di papà e lo riempe con le penne alla panna e al ragù.

«Dimmi cara» mamma prende il piatto di Misery e lo riempe.

«Volevo chiedere se potevo avere una stanza, oltre a quella in cui dormo, in cui posso mettermi a cucire e disegnare i vestiti» le domanda lei.

«Ma certo» mamma le sorride mentre riempe il mio piatto.

«Potremmo darle la mansarda» dico alla mamma mentre gratto il parmigiano sulla mia pasta calda.

«Giusto, tanto non si usa mai» mamma si riempe il piatto e sorride.

 

Ci auguriamo tutti buon appetito e iniziamo a mangiare di gusto, raccontandoci episodi divertenti di questi tredici anni, ma il momento peggiore del pranzo è durante il secondo, quando mamma dice.

 

«Poi Ilenia alle superiori conosce questo Nathaniel, e dopo un anno che si conoscono si fidanzano» dice sorridendo.

 

Io a breve sputo l'acqua che stavo bevendo, mentre papà per fortuna non si strozza con la carne della braciola di vitello che stava mangiando. Prima guarda me poi la mamma.

 

«Fidanzata?» la voce è più alta di un tono. Brutto segno.

«Certo!» mamma è tutta felice, mentre io Missy ci guardiamo consapevoli che io sono nella merda sino alla testa. «Lo sono stati per un anno e mezzo, poi si sono lasciati, che peccato, dovevi vederli, erano tanto carini insieme» mamma sembra realmente dispiaciuta.

 

Guardo mamma con le saette che mi escono dagli occhi, se avesse saputo che ho fatto sesso con Nathaniel sono sicura che glielo avrebbe spifferato. Papà invece guarda me con le saette che escono dagli occhi.

 

«E così eri fidanzata» dice sorridendo, un sorriso finto. Meglio dileguarsi subito.

«Eeeeh sì» con molta calma guardo l'ora sull'orologio che porto al polso. «Tho ma guarda che ore sono, a breve verrà il professore, meglio sgomberare» dico alzandomi e iniziando a togliere la mia roba dal tavolo.

«Ne riparleremo, ora vado a farmi una doccia e vado a letto, sono stanco morto» dice alzandosi e dirigendosi verso le scale.

«Vado pure io, dopo aver lavato» dice Missy.

«Vai pure, oggi è il mio turno» le dico sorridendo.

 

Lei mi guarda dubbiosa, io mi limito ad annuirle e così lei si alza e segue papà, mentre io sparecchio e porto tutto in cucina.

 

 

La cucina è in stile moderno, tutti i mobili sono bianchi e lucidi, tranne il frigorifero a due ante che è grigio, la cappa della cucina, e la colonna in cui sono inseriti il forno e il microonde, che è nera lucida, mentre il marmo che la ricopre è di un fantastico nero con delle venature argentate, come le maniglie di ogni cassetto e sportello. Apro il rubinetto sull'acqua calda e metto le cose da lavare accanto al lavandino. Mentre aspetto l'acqua calda, mi dirigo verso l'isola e apro un cassetto, tirando fuori il mio quaderno di italiano e l'astuccio, li ripongo sopra l'isola e torno al lavandino.

 

 

Quando finisco di lavare i piatti sento il campanello suonare, così corro verso l'atrio e vedo dalla telecamera che è incorporata nel citofono il viso del mio professore di italiano dentro la sua cinquecento nera, così clicco il bottone e gli faccio aprire il cancello, mentre gli apro la porta di casa e lo saluto con la mano.

Lui parcheggia davanti la fontana e scende, sorridendomi e salutandomi di rimando, quando mi arriva davanti, io mi scosto e lo faccio entrare, così lui si toglie il capotto e lo appende all'appendiabiti sopra l'interruttore della luce.

 

«Ciao» mi saluta lui in italiano.

«Ciao Emanuele» rispondo io, sempre in italiano, sorridendogli.

 

Emanuele Marchesi è un uomo ancora affascinante, per avere cinquant'anni. I capelli sono castani scuro, mentre gli occhi sono grigi chiaro, come l'argento. E' alto e ancora ben messo di fisico, sorride mentre ci dirigiamo in cucina.

 

«Allora, riprendiamo dalla lezione dell'altra volta?» mi chiede sorridendo.

«Decisamente sì» sorrido e mi siedo sullo sgabello da bar nero che abbiamo intorno all'isola.

«Senti se vuoi oggi posso restare anche tre ore» mi informa, e io annuisco con entusiasmo.

 

Lui fa lo stesso e riprendiamo da dove abbiamo interrotto l'altra volta, ovvero la storia dell'arte italiana, ovviamente tutta la lezione è fatta in italiano.

Dopo tre ore abbiamo finito sia con Giotto che con Leonardo Da Vinci, e abbiamo iniziato con Michelangelo. Mentre lo accompagno alla porta lui mi guarda.

 

«Sono tornati tuo padre e Misery?» mi chiede.

«Oh sì sì, ma sai il fuso orario deve averli distrutti, quindi avrai il piacere di conoscerli domani» gli dico aprendogli la porta.

«Bene, allora a domani Ilenia» mi dice sorridendo e uscendo nello stesso istante in cui un corriere parcheggia davanti casa, così mi infilo le ciabatte che mamma tiene al lato della porta e corro fuori.

 

 

Apro il cancello e mi ritrovo davanti un ragazzo di venticinque anni, la maglia è blu con il colletto arancione, il capellino è blu come la maglia e la visiera arancione con sopra il logo della ditta di spedizione. Mi guarda con i suoi occhi nocciola e mi sorride.

 

«Dorian Ilenia?» mi chiede.

«Sono io» gli dico facendomi di lato, per far uscire il mio professore con la macchina, che mi saluta mentre si allontana con la cinquecento.

«Stava aspettando un MacBook air 13?» chiede ancora il ragazzo con voce gentile e melodiosa.

«Oh sì sì» gli dico sorridendo mentre mi allunga il foglio da firmare per la consegna.

 

Io prendo la penna che mi tende con l'altra mano e firmo il foglio e gli dico di aspettare mentre corro dentro a prendere la mia carta di credito, che tengo nella borsa che per fortuna è appesa dove appendiamo i cappotti, così la prendo e torno fuori e la striscio nel bancomat che mi porge il ragazzo, così inserisco la carta di credito e digito il PIN. Certo sono tanti soldi, ma cavolo me li sono guadagnati e non li sto togliendo dal conto dei miei, e la cosa mi rende fiera. Il ragazzo mette via il bancomat e apre il retro del furgone e mi passa la scatola bianca del mio nuovo computer, io la prendo e gli sorrido, augurandogli buona giornata e tornando dentro casa. Salgo le scale della rampa destra di corsa, stringendo bene il computer, apro la prima porta a destra e poggio il computer vicino al muro a destra, con la promessa che domani lo avrei sistemato sulla scrivania della stanza, poi richiudo la porta e salgo le scale e mi dirigo verso la mia camera.

 

 

Appena entro mi cambio e mi metto i pantaloni bianchi larghi di una tuta e sopra una maglia blu larga a maniche corte, questo è il mio pigiama, poi mi vado a struccare usando una salvietta struccante che tengo sulla scrivania, accanto alla polaroid e dopo di ciò mi butto nel letto. Ora che porto una maglia a maniche corte noto chiaramente le tre sottili linee bianche sul mio polso destro, la cosa mi fa sospirare e mi fa prendere il polsino che tengo nel comodino vicino al letto, nessuno deve vederle, non a caso porto sempre bracciali quando ho delle maglie a maniche corte, oppure al mare porto sempre degli elastici per i capelli sopra.

Chiudo gli occhi e i miei incubi tornano, così reali che sembra che un'ombra nera e fredda abbia risucchiato tutto, la luce e il calore del sole, la felicità dovuta al ritorno di papà e Missy. Tutto scomparso, l'unica cosa che regna adesso è la tenebra, eppure non ho paura. Ormai le tenebre fanno parte di me.

 

 

Mamma viene a scuotermi dolcemente verso le sette di sera, io le borbotto di non avere fame e mi giro dall'altra parte nel letto e lei si lamenta del fatto che ho fatto nottata al telefono con Rosalya e che il mio organismo oggi è stato sballato, io la ignoro e scivolo di nuovo nelle mie tenebre di sofferenza e solitudine. Ora sono più opprimenti di prima, i ricordi riaffiorano vividi e dolorosi. Io strizzo gli occhi per scacciarli e mi metto le mani tra le gambe per non aprire il cassetto del comodino e prendere la lametta che tengo nascosta la dentro. Come se aprire la mia carne facesse scivolare via le tenebre, ma forse le fa entrare, così mi addormento nuovamente, mentre i ricordi si trasformano in incubi.


Angoletto delle autrici:

Salve! E buon venerdì 13! Attenti ad andare nei campeggi, specie se vedete strani soggetti girarci dentro con una maschera bianca in faccia e un coltellone :3
Detto ciò, eccoci qua con il terzo capitolo! Lo sappiamo, lo sappiamo, è lunghissimamente lungo! Ma speriamo vi piaccia lo stesso :3
Alcune descrizioni sono state veramente un parto non singolo, ma quatrigemellare!! Quindi speriamo che vi siate immerse nel luogo da noi descritto :3
Alla fine, come possiamo vedere, Ilenia nasconde qualcosa, qualcosa di terribile e doloroso.
Bene questo è tutto :) ci leggiamo il prossimo venerdì :D
Baci e abbracci :D
IleWriters Misery007


 

Pubblicato il: 13 marzo 2015

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo IV - It's really a bad day (part I) ***






Capitolo IV - It's really a bad day (part I)


 

Mi sveglio sudata e con il fiato corto, i capelli attaccati al viso, il materasso si muove per colpa della mia irrequietezza nella notte. Mi passo una mano sulla faccia mentre il sole batte contro i vetri della porta finestra, guardo la sveglia rosa di Minnie che tengo sul comodino. Segna le 8:50 così mi alzo e vado traballante nel bagno. Bel modo di iniziare la giornata.

 

 

Accendo la luce del bagno e strizzo gli occhi per abituarmi. Il bagno ha le pareti giallo ocra scuro, e le mattonelle per terra sono di un marrone terra di Siena. Scendo il piccolo gradino e mi sfilo la maglia per buttarla nella cesta bianca vicino al ripiano in legno scuro con il lavandino bianco, il mobiletto ha il ripiano in granito è pure color terra di Siena, apro l'acqua fredda e mi sciacquo la faccia, per svegliarmi, poi mi asciugo la faccia nell'asciugamano appeso lì vicino nel portasciugamani in metallo. Dopo essermi asciugata il volto butto pure l'asciugamano nel cesto; afferro il ripiano del lavandino guardandomi riflessa nello specchio, posizionato tra i due armadietti in legno scuro con il ripiano del medesimo materiale. Ho le guance arrossate e le occhiaie sono quasi sparite, ma puzzo di sudore, così mi giro verso la doccia. Il piatto della doccia è rettangolare e bianco, in ceramica, per ripararmi dagli sguardi di chi potrebbe entrare senza bussare c'è un muro di mattonelle di vetro quadrate e un altro muro delle medesime mattonelle copre la parte dove si trovano il bidet e il water, poi si incurva leggermente dentro il piatto della doccia, quindi non ho una porta scorrevole per coprirmi.

Così mi spoglio, butto tutto nel cesto e entro nella doccia, aprendo l'acqua calda. Appoggio la schiena nella parte incurvata nelle mattonelle e il freddo mi fa sussultare. Ormai sono due anni che non passo una nottata tranquilla, questo spiega perché spesso ho le occhiaie, oppure mi addormento alle quattro del mattino o proprio non dormo. Cerco di limitare che gli incubi mi ricordino il passato e il dolore che esso mi ha procurato. Lascio che il getto di acqua calda mi investa e mi lavi via tutto il dolore e il sudore della notte.

 

 

Esco dalla doccia e mi piego sopra il bidet di ceramica bianco, nascosto insieme al water bianco, sempre in ceramica, da un piccolo muretto color crema con sopra messe le mattonelle in vetro messe a gradini sino al soffitto, con gli spigoli stondati. Scuoto il contenitore della schiuma per i riccioli e me la passo nei capelli stando a testa in giù, se non la mettessi sembrerei un piccolo leone che scende la mattina dall'albero. Dopo aver rimesso la schiuma nell'armadietto destro accanto allo specchio, mi abbasso a prendere il phon nel mobiletto sotto il lavandino. Lo attacco alla presa sotto il portasciugamani e piego la testa a destra asciugandomi i capelli con il diffusore.

 

 

Quando sento il campanello suonare mi sono appena finita di vestire e truccare, indosso un reggiseno nero pieno di strass bianchi, con sopra una canottiera grigia, che mi veste morbida addosso, con su scritto “I'm crazy bitch”, leggermente scollata e con i buchi delle braccia larghi, dai quali si vede il reggiseno, per questo ci ho fatto applicare gli strass, mentre le mie lunghe gambe snelle sono fasciate da dei jeans chiari, con il tessuto come scolorito sulle cosce e con degli strappi. Papà non ne sarà felice. Mi infilo dei calzini bassi grigi e corro per il corridoio, sento dei rumori molto sospetti dalla camera dei miei, come dei gemiti soffocati, trattengo una risata e sono sicura che mi hanno sentita correre come un'elefante per il corridoio.

 

 

Quando arrivo nell'atrio guardo dal mini schermo del citofono, vedo un uomo grassoccio, con un cappellino con il nome di una ditta di traslochi, deve essere la roba di papà e Misery che è arrivata, guardo l'ora dall'orologio del cellulare, le 9:50, poco male, sono stati veloci.

Gli faccio aprire il cancello mentre mi infilo le ciabatte e aspetto che il tipo parcheggi in retromarcia il camion davanti la fontana.

Lui scende e lo vedo fissarmi la quinta di seno, pessima scelta di abbigliamento per collaborare con sto tipo.

 

«La famiglia Dorian?» chiede lui, distogliendo lo sguardo dal mio seno.

«Esattamente» dico firmando i fogli che mi porge per confermare che ha consegnato nella villa giusta.

 

Mentre lo aiuto a scaricare leggo il nome del tipo sulla targhetta che porta a destra del petto. “Marjan G.” è un uomo grassoccio e alto più o meno quanto me, che sono un metro e settanta. Ha dei corti capelli ramati e due occhi azzurri e simpatici, nonostante abbia lo sguardo lungo.

Dopo venti minuti abbiamo scaricato tutte le scatole nell'atrio, e dopo che ho pagato con il bancomat di mamma e papà, come da ordine datomi da loro, mi saluta e io chiudo la porta.

Leggo le scritte sugli scatoloni. Opto per prendere “Misery – Materiale per cucire” e salgo le scale.

 

 

Entro nella mansarda luminosa grazie alla piccola porta finestra che da sul piccolo balcone, noto che mamma ieri deve aver pulito, perché non c'è più nemmeno un filo di polvere, e gli album non sono più sopra le librerie vuote.

Poso lo scatolone per terra e quando mi giro vedo Misery, il che mi fa urlare, fare un passo indietro e cascare con il sedere a terra perché inciampo nello scatolone, lei ride.

 

«Scusa, ma dovevo farti uno scherzo» dice lei ridendo.

«Ma che gentile, è così che tratti tua sorella maggiore dopo tredici anni che non la vedi?» le chiedo trattenendo un sorriso.

«Sei più grande di soli quattro minuti» ribatte lei ridendo e aiutandomi ad alzarmi.

«Resto sempre più grande» sorrido e riprendo fiato per colpa della lunga salita sino alla mansarda spaziosa.

«Vieni ti aiuto a portare gli scatoloni» dice lei sorridendo.

 

Io le sorrido di rimando e ripenso alla fortuna che ha nell'avere il passaggio dalla camera alla mansarda, ma forse la cosa compensa il fatto che la sua stanza non ha la portafinestra che da su un balcone immenso come il mio, o il fatto che la sua stanza non abbia il bagno privato come la mia camera e quella dei nostri genitori.

 

«Hai sentito dei rumori strani dalla camera di mamma e papà?» mi chiede mentre scendiamo le scale che portano sull'atrio.

«Ooooh sì» dico ridendo.

«Beh è tredici anni che non si vedono» sorride Misery mentre prende uno scatolone di libri.

«Sì ma se continuano così ci fanno un fratellino» dico io seria.

 

Poi ci guardiamo negli occhi e scoppiamo a ridere. Mi era mancata così tanto la sua risata.

 

 

-<>-*-<>-

 

 

Apro gli occhi e fisso il soffitto sopra di me, una parete color blu notte che mi sovrasta e delle piccole lucette, ora spente, sembrano tante piccole stelle che vegliano sul mio riposo, oltre a questo, una volta accese, la loro luce viene accentuata dal grande lampadario antico e pendente, in stile vittoriano, pieno di gocce di cristallo che brilla quanto la luna. Mi stropiccio gli occhi e poi, alzandomi con calma, mi metto a sedere sul letto abbandonando la tenera comodità del mio morbido cuscino ricoperto dalla mia federa color nero pece. Stropiccio le coperte nere ed il lenzuolo violaceo con le mani mentre mi guardo attorno, sono su un letto matrimoniale alto circa 80 centimetri da terra in cui vi sono tre materassi sovrapposti. Stiracchio le gambe che arrivano quasi alla pediera del letto in ferro battuto nero elegantemente lavorato e pensare che l’ultima volta che ci ho dormito mi sentivo come una principessa per quanto ero piccola tra questo ammasso di calde ed avvolgenti coperte che mi tenevano stretta ad esso come una madre tiene stretto a se il figlio in un abbraccio. Alzo le mani al cielo e mi sbilancio lievemente all’indietro toccando con le lunghe e candide dita affusolate il quadro a muro che occupa l’intera parte della parete, dal pavimento al soffitto, che si trova alla testa del mio letto, è un quadro sulle tinte sfumate del viola su cui, in alto a destra, vi è riportato un fiore tropicale bianco con due diramazioni ad intreccio, simili alle diramazioni di una comune pianta rampicante, che partendo da esso si dirigono uno verso il terreno e uno verso sinistra, infine al centro di esso, sempre in bianco, vi è riportato il mio nome scritto con caratteri eleganti e raffinati. Scosto un po’ le coperte per voltare il mio corpo facendo penzolare le mie gambe a lato del letto, allungo una mano e prendo l’orologio da taschino che, prima di addormentarmi, avevo appoggiato in cima al comodino situato alla destra del mio letto, un piccolo mobiletto bianco, identico a quello che si trova alla sinistra del letto, con dei piedini lavorati e con tre cassetti con le maniglie nere. La bajour, che si trova al di sopra di entrambi i comodini, ha un appoggio moderno con la forma di due bolle sovrapposte, una lievemente più piccola dell’altra, in acciaio e una tela viola su cui sono ricamati dei raffinati ed eleganti intrecci neri. Mi sdraio orizzontalmente sul letto premendo il pulsantino che apre l’orologio da taschino e osservo il quadrante. Sono le 9:10 e ciò vuol dire che ho dormito tutto il pomeriggio e tutta la notte senza mai svegliarmi. Mi alzo finalmente dal letto poggiando le punte dei piedi sul pavimento in parquet di color acero chiaro che è presente per tutta la stanza, anche se in parte è coperto da un lungo tappeto nero che occasionalmente funge da corsia di una passerella per via della sua forma. Osservo quella stanza in cui non mettevo piede da bene tredici anni, non è cambiato nulla col tempo, intorno a me è ancora tutto esattamente come lo avevo lasciato, con l’unica differenza che ora non è più un flebile ricordo, ma una realtà tangibile. La mia stanza non è molto grande, ma comunque ho tutto ciò di cui ho bisogno. C’è ancora l’enorme finestra che illumina l’intera stanza nella parete corta di fronte all’entrata della camera, mi avvicino ad essa camminando in punta di piedi, quasi come se avessi paura di svegliarmi da quello che ancora mi sembrava un sogno. Sono ancora in pigiama, ma non mi importa poi più di tanto, sono di fronte alla finestra la cui luce è ancora filtrata da dei morbidi tendaggi viola che cadono elegantemente a terra da una lunga ed elegante asta in acciaio che brilla quasi più dell’argento, lì di fronte c’è un divanetto nero con finiture elegantemente lavorate, i contorni e i piedini di quest’ultimo sono argentei e per questo motivo spiccano dato il contrasto formato dal colore scuro del suo tessuto, su di esso sono poggiati tre cuscini di cui uno bianco, uno argento e uno viola, mentre a terra vi sono altri tre cuscini, anche se questi sono tondi e di colore viola, che avevo tolto da sopra il letto prima di stendermi a riposare ieri pomeriggio. Li raccolgo e torno al mio letto, lo sistemo e poi vi ripongo sopra i tre cuscini che avevo raccolto poco prima, il letto si trova sulla parete che si trova sulla destra dalla porta d’entrata della stanza. Tutte le pareti sono nere, completamente differenti da quelle bianche e asettiche di Seattle che ancora ora mi ricordano tanto un freddo ospedale. Sulla parete di fronte alla finestra, nella cui estrema sinistra si trova la porta d’ingresso bianca come la neve con appeso un appendi abiti nero, si trova un elegante scrivania in legno tinto di bianco con un grande cassetto con la maniglia nera e con gambe lavorate in stile con i comodini e con il divanetto. La sedia che vi è davanti è in tessuto nero finemente lavorato, mentre lo scheletro di essa è tinto di color argento e finemente lavorato in abbinamento al divanetto. Sulla parete dove si trovava il letto, dalla parte che tende verso l’enorme finestra, vi sono due enormi porte bianche che quando sono chiuse formano un gigantesco specchio a figura intera con una forma simile a quella di un libro aperto. Sull’ultima parete della camera, quella alla sinistra della porta d’ingresso, vi è un enorme libreria, per ora ancora vuota dal giorno della mia partenza, che occupa l’intera parete. Davanti a questa enorme libreria, sulla sinistra dal punto di vista del letto davanti a cui sono ora, vi è una comodissima e moderna sceslong bianca in pelle con cuciture nere, sopra alla quale c’è un cuscino nero con la scritta girl bianca ripetuta all’infinito e di fianco alla quale si trova una piantana moderna con l’appoggio in acciaio e la parte superiore di colore viola. Questa parte della camera è in lieve contrasto con lo stile tendente al vittoriano dell’arredamento principale del resto della camera, ma tutto sommato è perfetta così com’è. Mi sistemo con le mani la vestaglia di seta nera che consiste nel mio pigiama e annuso l’aria che è presente nella mia stanza, facendo ciò sento un pesante odore di chiuso e io stessa, nonostante praticamente non sudo quasi più a causa delle varie terapie che ho affrontato, sembro puzzare di cadavere in via di putrefazione. Così torno alla finestra e, dopo aver scostato i morbidi tendaggi color ametista, apro l’imponente vetrata permettendo così alla luce e alla brezza mattutina di entrare e di cambiare l’aria viziata che c’è qui dentro. Fatto ciò mi dirigo alla porta a secchio di destra ed entro nella mia adorata cabina armadio,una stanza con le quattro pareti tinte di lilla a cui si appoggiano mensole e mobiletti completamente bianchi e relle in acciaio, sulla parete più corta distante dall’entrata c’è una postazione trucco formata da una specchiera bianca con lucette tonde sopra e una sedia dello stesso stile di quella della scrivania, ma completamente bianca che è ordinatamente riposta al suo posto sotto la scrivania, sempre bianca, su cui poggia la specchiera. Davanti alla parete opposta, invece, vi è uno specchio a figura intera semplice e minimale. Mi chino sulla destra e apro il trolley viola dove, nel perfetto ordine al suo interno, trovo immediatamente la bustina viola di materiale plastico in cui ho messo il necessario da bagno e i miei amati asciugamani neri su cui avevo ricamato a mano le mie iniziali col filo viola. Li prendo in mano e ,sempre camminando sulle punte, torno nella mia stanza, mi infilo le mie ciabatte pelose color viola calde e morbide che avevo lasciato di fianco al letto e mi avvio verso la porta d’ingresso della mia stanza con passo leggiadro. Ho sempre avuto la facoltà di riuscire a spostarmi senza farmi sentire, contrariamente all’uragano d’energia di mia sorella che dà sempre nota del suo passaggio, anche se involontariamente. Apro la porta della camera e scendo al primo piano velocemente, ma senza fare confusione. Un po’ mi secca non avere un bagno personale, però alla fin fine non si può aver tutto dalla vita, quindi mi accontento e vado avanti comunque.


 


 

Apro la porta di color acero chiaro ed entro in quel bagno al primo piano il cui colore prevalente è il blu. Sulla destra c’è la cassettiera color blu notte con maniglie bianche al di sopra del quale vi è un piano di marmo blu scuro con striature argentee nel quale vi è il lavandino blu con rubinetti in acciaio luccicante davanti ad un immenso specchio. Appoggio gli asciugamani e la bustina viola sul piano poi chiudo a chiave la porta alle mie spalle e mi tolgo la sottoveste che lancio dentro il cestone della biancheria sporca di colore blu che affianca il cassettone del lavandino e che contrasta con la parete azzurra. Faccio un paio di passi sul pavimento di mattonelle bianco candido fino a fermarmi sopra un tappeto ovale color blu e togliendomi le soffici ciabatte. Controllo nuovamente di aver chiuso la porta poi, dando le spalle al water e al bidè entrambi di porcellana tinta di blu, mi tolgo anche l’intimo, che è dello stesso colore della sottoveste, e lo getto all’interno del cestone blu. Apro la busta di plastica viola e ne estraggo i miei saponi naturali e lo shampoo per poi aprire la porta di vetro scorrevole della doccia, vi entro appoggiando la schiena sulla gelida parete a mosaico composta da piastrelle in vetro azzurre e blu alternate che la ricoprivano da capo a piedi. Appoggio sul pavimento bianco, liscio e freddo con una lieve conca verso il cento, i prodotti presi poco prima chiudendo la porta scorrevole. Apro il getto d’acqua che inizialmente esce ghiacciato congelandomi la schiena, ma che poco dopo si riscalda permettendomi di concludere la mia doccia mattutina immersa nel vapore e nel profumo vanigliato dei miei prodotti. Esco dalla doccia insieme ad una nube di vapore profumato prendendo poi i miei asciugamani e iniziando ad asciugarmi. Mi districo i capelli per poi acconciarli in una semplice treccia spostata sul davanti della mia spalla sinistra e fermata alla fine da un elastico di color violaceo. Mi guardo allo specchio, sistemo il mio adorato ciuffo di capelli, che con la sua lunghezza mi copre quasi interamente l’occhio destro, e noto che il mio candido viso è sereno come non lo era da tempo. Non dormivo così bene da tredici anni ormai, la sola idea di poter essere nuovamente a casa mi ha come fatto rinascere, provo una gioia immensa e mi sento come se nulla potesse andare storto d’ora in poi. Mi avvolgo l’asciugamano, il più lungo dell’intero set, attorno al corpo ancora nudo poi, dopo aver indossato le mie ciabatte e ripreso la mia busta viola con tutti i prodotti riposti al suo interno, esco dal bagno e mi dirigo verso la mia stanza.


 


 

Con passo leggiadro salgo le scale e arrivo di fronte alla mia stanza, mentre sto per entrarvi però sento dei rumori molto sospetti provenire dalla camera dei miei, come dei gemiti soffocati, mi faccio sfuggire una piccolissima risata praticamente impercettibile e poi entro in camera mia sempre senza fare alcun rumore. Appena chiudo la porta alle mie spalle sento il campanello suonare e poco dopo, mentre spero con tutta me stessa che tocchi a qualcun altro andare ad aprire dato che sono ancora avvolta soltanto da un asciugamano, sento qualcuno correre come un elefante per il corridoio. Socchiudo appena la porta e vedo una lunga cascata di ricci biondi scendere le scale.


 

«Grazie Ile, mi salvi la vita.» Bisbiglio chiudendo la porta.

 

Mi dirigo alla cabina armadio, fermandomi prima a raccogliere il mio orologio da taschino da sopra il comodino. Una volta entrata e chiusa la porta guardo l'ora, sono le 9:50, quindi è tempo di vestirsi, ma cosa mi metto? Appoggio la busta di plastica viola sul primo mobiletto dei sei che compongono quella stanza, apro il trolley e prendo il beauty nero che contiene i pochi trucchi naturali e ipoallergenici che ero riuscita, dopo una lunga e sfiancante battaglia, ad avere il permesso di usare da papà. Ok che son sempre stata debole fisicamente, ma lui spesso esagera, insomma ho diciotto anni compiuti, non sei. Appoggio il beauty davanti alla specchiera da trucco in fondo alla stanza e poi torno al trolley cominciando a tirare fuori i vari vestiti che avevo portato e scegliendo cosa mettere. Per prima cosa indosso un completino intimo di pizzo color viola, poi indosso un paio di calze in seta nere in stile anni venti, insomma quel tipo di calze con la cucitura esterna sulla parte posteriore tanto per capirci. Mi soffermo un attimo ad osservare i pochi indumenti appesi, sorrido e opto per un abito corto disegnato e realizzato personalmente da me qualche mese fa. Lo indosso e vado ad ammirarmi allo specchio a figura intera che è nella mia cabina armadio, l’abito è nero con una gonna irregolare poco più corta delle ginocchia sul davanti e poco più lunga di esse sulla parte posteriore, il corpetto è semplice con un ampio scollo a V formato da due lembi di tessuto sovrapposti ed incrociati dal quale si intravede appena il pizzo viola che fascia alla perfezione la mia quinta di seno, l’abito ha delle lunghe maniche rese particolari dagli svariati fori che vi ho apportato. Vedo l’effetto completo di quell’abito allo specchio, ma sento che ancora manca qualcosa. Mi volto e comincio a frugare tra gli accessori che ancora sono nella tasca interna del trolley, finirò mai di svuotarlo questo dannato coso? Chiedo a me stessa lievemente esasperata. Cerco un po’ fino a che le mie dita non sfiorano qualcosa di freddo e liscio, sorrido e stringo ciò che ho appena sfiorato prendendo così la mia cintura a fascia in eco-pelle viola e avvolgendola intorno al mio corpo nel punto sotto seno, mi specchio nuovamente e sta volta il look mi sembra decisamente più completo anche se mancano ancora il trucco e i gioielli, ho passato un giorno senza metterli, ma oggi voglio assolutamente essere al meglio, ne va della mia reputazione. Mi chino per l’ultima volta sulla mia valigia e dal suo interno prendo le altre tre cinture che avevo portato con me, che ripongo nel primo cassetto del secondo mobiletto, e una busta blu notte fatta di un tessuto trapuntato con cuciture in argento. Questa busta, a differenza delle altre, è chiusa da due cerniere che sono orientate in due diverse direzioni e fermate da un lucchetto argentato. Chiudo il trolley e lo appoggio al muro di fianco allo specchio poi, mentre ho ancora la busta blu in mano, estraggo un mazzo di chiavi dalla borsa e apro il lucchetto con quella più piccola del mazzo. Vado a sedermi sulla sedia di fronte alla postazione da trucco, appoggio la busta blu e ne estraggo un anello nero che indosso sul dito medio della mano destra, poi prendo tre grossi bracciali di plastica colorata lievemente anni cinquanta di cui due viola e uno nero che indosso mettendo i colori alternati sul braccio sinistro, in seguito estraggo da quella busta una scatolina rettangolare scamosciata nera che apro prendendo i grossi orecchini tondi pendenti con il con il simbolo dello Yin e Yang in bianco e nero, stesso simbolo che ritrovo nel ciondolo in oro bianco che pende sulla mia scollatura grazie al cordoncino in caucciù nero agganciato sul retro del mio collo. Il look è quasi concluso, manca solo il trucco, così chiudo la bustina blu e apro il beauty nero estraendo una eyeliner nero ipoallergenico che ho cercato per ben sei mesi, comincio a disegnarmi una linea sottile sulla palpebra superiore sinistra per poi ripetere l’operazione su quella destra. Chiudo l’eyeliner osservando se il risultato allo specchio è uniforme, sorrido e poi, mettendo al suo posto l’eyeliner, prendo una matita ipoallergenica naturale e mi evidenzio la linea del contorno occhi, concludo lo sguardo passando le ciglia superiori con il mio preziosissimo mascara nero sempre ipoallergenico e poi mi specchio e sorrido fiera del mio sguardo perfettamente incorniciato. Per finire prendo un rossetto naturale color viola scuro che uso per accentuare le mia pallida carnagione, una volta finito mi sento fiera di me stessa e del mio operato, do un ultima occhiata allo specchio sistemando treccia e ciuffo in modo da essere perfetta.

Controllo l’ora sul mio orologio da taschino e noto che sono passati già venti minuti, tutto sommato non ci ho messo molto, penso soddisfatta del risultato ottenuto. Aggancio la catena dell’orologio alla cintura lasciandolo dondolare accanto al mio fianco e poi, infilandomi le mie pelose ciabatte viola ai piedi, esco dalla cabina armadio tornando nella mia stanza, ora l’aria comincia ad essere fredda così voltandomi noto che la vetrata della finestra è ancora spalancata, mi ci avvicino e la chiudo sentendo così il leggiadro passo di mia sorella, paragonabile a quello di un elefante in una cristalleria, salire le scale diretta alla mansarda. Evidentemente al citofono prima era la ditta di traslochi con i pacchi che aspettavamo da Seattle. A quel punto mi viene in mente l’assurda idea di farle uno scherzo, così mi avvicino alle due porte a specchio e, questa volta, apro quella sulla sinistra accendo i faretti che illuminano l’imponente scala a chiocciola in ferro battuto nero che porta direttamente dalla mia camera alla mansarda.

 

 

Salgo le scale ed entro nella mansarda ampia e luminosa, in cui la luce entra principalmente grazie alla piccola porta finestra che da sul piccolo balcone, le pareti sono tinte d’azzurro e per la maggior parte sono ricoperte da librerie color acero ancora completamente vuote a causa di tutti i libri che mi ero portata via tredici anni fa, al centro della stanza vi era una vecchia scrivania con tre cassetti ed un enorme e comodissima sedia con braccioli e rotelle totalmente nera. Tutto era esattamente come lo ricordavo, tutto tranne la visione di mia sorella chinata ad appoggiare a terra uno dei miei scatoloni, mi avvicino a lei sorridendo col mio passo leggiadro e quando lei si gira mi vede ed indietreggiando finisce inevitabilmente col sedere a terra urlando per lo spavento mentre io, non riuscendo a trattenermi, rido della sua esilarante caduta.

 

«Scusa, ma dovevo farti uno scherzo.» Dico ridendo.

«Ma che gentile, è così che tratti tua sorella maggiore dopo tredici anni che non la vedi?» Mi chiede trattenendo un sorriso.

«Sei più grande di soli quattro minuti» Ribatto lievemente stizzita ridendo e aiutandola ad alzarsi.

«Resto sempre più grande.» Sorride e riprende fiato per colpa della lunga salita sino a qui.

«Vieni, ti aiuto a portare gli scatoloni.» Dico sorridendole. «Hai sentito dei rumori strani dalla camera di mamma e papà?» Le chiedo mentre scendiamo le scale che portano sull'atrio.

«Ooooh sì.» Dice ridendo.

«Beh è tredici anni che non si vedono.» Sorrido mentre prendo uno scatolone di libri.

«Sì, ma se continuano così ci fanno un fratellino.» Dice lei seria.

 

Poi ci guardiamo negli occhi e scoppiamo a ridere. Forse risulterà strano, ma la sua risata è l’unica cosa per cui ho accettato ogni tipologia di terapia, tutto solo e unicamente per risentire la sua melodica risata. Passiamo un ora intera a fare su e giù per le scale con i miei scatoloni e, mentre io sto dividendo quelli da portare giù nella cabina armadio e nella mia camera, la sua voce mi distrae dalla mio ordine estremo.

 

«Ma tu ti metti sempre così in tiro per restare in casa?» Chiede lei osservandomi da capo a piedi.

«Parla quella che si è messa un reggiseno a cui sono stati applicati degli strass.» Ribatto io senza nemmeno guardarla, per i vestiti ho una memoria fotografica praticamente da sempre.

«Ma… ma… ma… Ok, uno a zero per te.» Bofonchia lei rassegnata. «Quali di questi vanno in camera tua?» Conclude cambiando discorso.

«Questi qui.» Aggiungo mostrandogli una decina di scatoloni che avevo messo da parte.

«Vuoi una mano?» Mi chiede sorridendo.

«Se vuoi certo, seguimi per di qui faremo prima.» Dico raccogliendo uno scatolone e dirigendomi verso il mio personale passaggio segreto.

«Sai, non credo di essere mai entrata nella tua stanza.» Aggiunge lei posando gli ultimi scatoloni a terra in centro alla stanza.

«Veramente? Beh allora benvenuta nel mio piccolo regno personale, se non sai dove trovarmi cercami qui oppure in mansarda.» Dico sorridendole.

 

Chiacchieriamo per una decina di minuti sedute sul mio letto poi lei scende ad aiutare mamma a preparare il pranzo e io mi metto a sistemare il contenuto degli scatoloni mettendo ogni cosa al proprio posto fino a che papà non viene a chiamarmi per il pranzo.

 

 

La mamma serve la pasta al forno, poi pranziamo tutti in armonia, anche se papà è intento in una telefonata di lavoro, io ormai ci sono abituata perché a Seattle capitava spesso che durante il pranzo o durante la cena lui cominciasse a sbraitare in quell’affarino nero che portava all’orecchio destro e che era connesso al suo cellulare tramite Bluetooth, ma alla mamma non sembrava piacere dato che continuava a sbuffare. Comunque tranne questo piccolo particolare il pranzo procede tranquillo e una volta ogni tanto non ci sono battibecchi, anzi non sembra neanche aver notato come siamo vestite io ed Ile, speriamo che continui così tutto il giorno altrimenti non sarà così divertente la continuazione della giornata.

 

 

Finito il pranzo, con l’aiuto di mamma, porto le stoviglie in cucina e, dopo essermi fatta spiegare da lei dove si trovano i vari prodotti, mi sfilo i miei bracciali e l’anello, posandoli alla fine del ripiano in granito nero con striature argentee in modo tale che nessun eventuale schizzo di detersivo possa raggiungerli, indosso il grembiule bianco e i guanti azzurri prima di immergere le mani nell’acqua bollente piena di bianche bolle create dal detersivo che riempie la cucina di un fresco profumo di lime. Quando finisco di lavare e asciugare tutte le stoviglie sono ormai quasi le due e a me non resta che pulire il bancone da lavoro della cucina. Mentre lo asciugo, assicurandomi che brilli come se non fosse mai stato usato, sento suonare il campanello e mentre mi sto togliendo il grembiule sento mia sorella scendere di corsa le scale e urlare.

 

«Tranquilli, vado io.»

 

A quel punto tolgo il grembiule e i guanti, li piego e li ripongo dove mamma mi aveva mostrato tenerli.

 

«Sorellina puoi venire un attimo in sala da pranzo?» Mi chiede lei con voce gentile e lievemente orgogliosa.

«Arrivo subito.» Aggiungo rimettendomi i bracciali e l’anello prima di dirigermi da lei.

 

Quando entro in salotto mi trovo davanti un uomo che non avevo mai visto che mi sorride, lo osservo e noto che si tratta di un uomo adulto che avrà tra i quaranta e i cinquant’anni. Spero che questo non sia il Nathaniel di cui parlava ieri mamma oppure Ile sarà proprio nei guai con papà, penso mentre osservo quell’uomo, i suoi capelli sono castano scuro, mentre gli occhi sono grigio chiaro, un colore molto simile all'argento, è alto e sembra ancora ben messo di fisico, mi sorride ed avvicinandosi mi porge la mano.

 

«Buongiorno signorina Dorian. Sono Emanuele Marchesi, l’insegnante d’italiano di Ilenia, ed è un vero piacere conoscerla, sua sorella mi ha parlato molto di lei.» Mi dice lui parlando in italiano.

«S-s-s-s-s-salve.» Aggiungo con un po’ di titubanza iniziale rispondendogli in italiano. «Il piacere è tutto mio signor Emanuele, Io sono Misery Dorian.»

 

Detto ciò stiamo lì a chiacchierare per una decina di minuti in cui Emanuele si complimenta per la mia padronanza della lingua e successivamente mi invita ad unirmi alle loro lezioni ogni qual volta io ne abbia il desiderio, ma per oggi decido di lasciare Ilenia studiare da sola, in fondo io ho centinai di scatoloni da sistemare e quelli certo non si sistemeranno da soli, quindi mi congedo educatamente e torno in camera mia per sistemare gli ultimi due o tre scatoloni ricolmi di vestiti ed accessori che ripongo secondo un ordine assoluto nella cabina armadio.

 

 

Alle tre di pomeriggio ho appena finito con la mia camera quando sento un rumore provenire dal giardino, mi affaccio e noto mia sorella salutare il suo insegnante così apro la finestra e lo saluto a mia volta da quassù e poi lo vedo salire su una piccola cinquecento nera ed uscire dal grande cancello all’ingresso. Chiudo la finestra e poi apro la porta-specchio sulla sinistra salendo la mia elegante scala in ferro battuto nero, arrivo alla mansarda e comincio a spostare gli scatoloni e a disporne il contenuto nella stanza, per prima cosa accendo lo stereo inserendo un CD degli Skillet e facendolo andare a tutto volume. Papà non approva che io ascolti questo genere di musica, ma a me non importa così ascoltandola comincio a sistemare con uno scatolone con scritto “aste manichini Misery.” Lo apro e ne estraggo le due aste in acciaio componibili e le due piattaforme tonde che compongono la base, li compongo mettendoli ai due lati dell’imponente scrivania, poi cerco i due scatoloni con scritto “corpo manichino uomo” e “corpo manichino donna”, dopo una decina di minuti li trovo e li aggancio ai loro piedistalli posizionando il mio manichino femminile alla destra della scrivania e il manichino maschile sulla sinistra.

Poi mi accingo ad aprire uno scatolone con su scritto aghi, fili e bottoni, anche se in realtà non era quello in contenuto di quell’enorme scatolone, ma ci tenevo troppo ai miei disegni e ai miei modelli per elencare tutto ciò che vi era dentro. Lo apro e trovo subito il set da cucito e i campioni di stoffa che poggio in cima alla scrivania che era esattamente sopra quello scatolone, ma tra tutti quei rotoli di stoffa non riesco a trovare il mio album delle idee, cioè il block notes che racchiude tutti gli schizzi di tutti i vestiti che mi passano nella testa. Così, mettendomi in punta di piedi, praticamente mi immergo nello scatolone di fronte a me con la treccia che cade anch’essa al suo interno, l’unica cosa che si vede di me entrando in mansarda in quel momento è il mio fondo schiena per aria che si agita data l’ansia che provo non trovando quel mio preziosissimo blocco. Mentre io sono presa con la mia ricerca e dallo stereo parte la canzone Hero degli Skillet, in assoluto la mia preferita, sento dei passi salire le scale che portano in questa stanza dal secondo piano, ma non me ne preoccupo fino a che non sento uno strano profumo di pino silvestre misto ad un retrogusto appena accennato di tabacco, evidente segnale che chi è arrivato in mansarda è un fumatore o lo è stato fino a non molto tempo fa, arrivare dalle mie spalle.

 

«Che bella visuale Ile, non mi ricordavo avessi un così bel culo.» Aggiunge una voce maschile seguita da una risata alle mie spalle.

«Ma che…» Esclamo alzandomi e scordandomi che mi trovo sotto la scrivania prendendo così una dolorosa botta in testa. «AI.» Esclamo indietreggiando un passo e voltandomi.

 

Quando mi giro vedo una ragazzo con dei capelli rossi, decisamente troppo rossi per essere naturali, fissarmi a bocca aperta e con uno sguardo al quanto stranito, come se avesse visto un ladro. Ha le braccia incrociate ed è appoggiato allo stipite della porta, indossa un paio di pantaloni sportivi neri con svariate tasche e una catena a penzoloni sulla parte destra, ha delle converse rosse ai piedi, mentre a sovrastare i pantaloni possiede una maglia rossa, probabilmente a maniche corte, con un teschio stampato davanti, simbolo che ho già visto da qualche parte anche se in questo momento non riesco a ricordare dove. A concludere il suo look indossa una giacca in pelle nera ed una collana al collo formata da una semplice catena d’acciaio che gli fa da girocollo. I suoi occhi color grigio fumo mi fissano e dopo alcuni minuti di silenzio imbarazzante lui intreccia le labbra sottili e mi fissa da capo a piedi intento a pensare a chi sa cosa che, dopo il commento di poco fa, non voglio nemmeno immaginare.

 

«Tu non sei Ilenia.» Mi dice con sguardo perplesso.

«Hem… Evidentemente no.» Aggiungo sarcastica.

«E quindi chi sei?» Chiede lui gesticolando con le mani mentre il suo sguardo è fisso sulla mia ampia scollatura.

«Io sono Misery, sua sorella.» Aggiungo incrociando le braccia davanti alla scollatura e inarcando un sopracciglio, «E tu saresti?» Chiedo lievemente stizzita.

«Castiel, un amico di Ilenia.» Aggiunge lui con un sorriso smorfioso stampato in volto.

«E dimmi tutti i suoi amici sono soliti fare espliciti apprezzamenti sul suo fondo schiena? Per quanto ne so io a Seattle non funziona così.» Dico mentre lo guardo con uno sguardo che sembra dire perché capitano tutte a me?

«Hem… Ecco…» mentre lui cerca di dire inutilmente qualcosa, Ilenia entra con la sua travolgente energia.

«Hey Misery ci son…» Dice lei sorpassando l’amico all’ingresso della stanza e notandolo con la coda dell’occhio poco dopo. «Ciao Cass… dunque dicevo… a sì, ci sono i gemelli giù.» Conclude sorridendomi.

«Ottimo, falli salire.» Aggiungo sorridendole e lisciandomi il vestito con le mani.

«Hem… La vedo un po’ difficile la cosa, Armin si è paralizzato a vedere i miei videogiochi.» Aggiunge con un tono lievemente rassegnato.

«O santo cielo.» Aggiungo scuotendo la testa contrariata. «Armin è incorreggibile. Tranquilla scendo io e cerco di farlo tornare in se.»

 

Detto ciò spengo lo stereo e seguo Ilenia e il suo bizzarro amico giù per le scale, ancora mi chiedo che razza di amico sia quel tipo lì, certo nemmeno i gemelli sono tanto normali, Armin praticamente vive per la sua PSP e si esclude dall’intero universo mentre Alexy praticamente è una ragazza ciclopatica in preda ad una crisi di nervi mestruali, ma se Ilenia ha tutti amici come questo qui io sarò rassegnata a passare le mie giornate tra libri e tessuti, che amarezza, se il futuro si prospetta così forse era meglio restare a Seattle.



Angoletto delle autrici:

Salve biscottini cioccolatosi! Buon venerdì, buon fine settimana e inizio week-end!
Rieccoci qui, tanto sappiamo che ci attendete con ansia! (Se come no, illuse)
Come avrete notato dal titolo, questo capitolo è stato spezzato in due parti, altrimenti sarebbe stato na pappardella interminabile e a metà capitolo non avreste più seguito nulla >.<
In questo capitolo ecco comparire Castiel! Per la giuoia delle Castielline :D e compare facendo una figura di m... Marmellata! Che pensavate? Che fossimo scurrili? Eheheh f... Fregati :)
Cooooomunque :3 speriamo che il capitolo vi sia piaciuto (e se siete arrivati qui vuol dire che siete sopravvissuti al capitolo :3) ovviamente vogliamo sapere che ne pensate :D 
Questo è tutto, ci leggiamo il prossimo venerdì con la seconda parte :)
N.B: Il vestito indossato da Misery e il suo intero look, è stato interamente creato e pensato da Misery007 :3 ci si è spremuta tipo un giorno intero :3
Baci e abbracci :D
IleWriters Misery007


 

Pubblicato il: 20 marzo 2015

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo IV - It's really a bad day (part II) ***






Capitolo IV - It's really a bad day (part II)


 

Rientro in casa dopo aver salutato il professore e vado a mettere a posto il quaderno e l'astuccio. Oggi abbiamo parlato della letteratura italiana, più precisamente di Dante, e siamo arrivati a quando lui entra all'Inferno, quindi il canto III. Così riprendo il quaderno e rileggo la parte dell'entrata all'Inferno.

 

PER ME SI VA NE LA CITTÀ DOLENTE,
PER ME SI VA NE L'ETTERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.

 

Io non sarò nella città dolente, ma ehi, anche io sono all'Inferno in un eterno dolore.

 

«Benvenuto a bordo, amico» mormoro alla fotocopia del volto di Dante sul quaderno.

«Con chi stai parlando?» chiede la mamma mentre entra in cucina.

«Chi? Io? Oh con nessuno» tiro fuori il mio solito sorriso e metto di nuovo via il quaderno.

«Com'è andata la lezione?» me lo chiede con un sorriso. «Avrei voluto tanto impararlo anche io» lo dice con aria dispiaciuta.

«Beh potevi fare lezione con me» sorrido, poi mi ricordo della sua prima domanda. «Comunque è andato tutto bene» sorrido e guardo papà entrare.

 

Non mi chiede nulla, ma sapeva che ho lezione di italiano, a pranzo glielo avevo detto e lui aveva annuito, ma forse annuiva a quel tipo con cui sbraitava in inglese tramite Bluetooth, così faccio un piccolo sospiro rassegnato e anche deluso e esco dalla cucina, meglio andare nella mia stanza degli hobby.

 

 

Apro la prima porta a destra del primo piano e accendo le luci, nonostante la stanza sia rischiarata dalla porta a vetri che porta sul piccolo terrazzo, le luci dei tre lampadari avvolti come delle lanterne tonde, a cui io sopra vi ho spruzzato la vernice spray rosa con i brillantini, rischiara dolcemente la grande stanza dalle pareti color bianco avorio con una striscia rosa che va dal pavimento sino ad altezza del mio polpaccio. Mi ricordo che il giorno prima mi ero promessa di mettere il mio computer nuovo al suo posto, così prendo la scatola del Mac e mi avvio alla destra della stanza, dove c'è la mia scrivania in legno di ciliegio e ci poggio sopra la scatola che apro delicatamente, il Macbook è bianco con l'inconfondibile logo della Apple, sorrido e lo tiro fuori insieme alla piccola bustina che lo copre, poi tiro fuori anche il caricabatterie prima di lanciare la scatola vuota sul divano in pelle nero a quattro posti. Poggio il PC sulla scrivania, sotto la mia TV al plasma da 84 pollici, un regalo dei miei nonni materni più il nonno paterno per i miei diciotto anni. Sorrido pensando al nonno Louis, il padre di papà, ha due occhi autoritari color nocciola e i capelli ormai sono pepe e sale, ma un tempo erano corvini. Sembra un tipo associale ma appena mi vede lo sguardo gli si illumina, mi ha sempre viziata e coccolata, al contrario di Claudine e Pierre, i genitori della mamma. Non ne capisco il motivo, ma non mi hanno mai sopportata, ma d'altronde io non ho mai sopportato loro, i loro modi snob e altezzosi, il loro credersi perfetti e quindi di poter sputare veleno sugli altri. Infatti appena sono entrata nella preadolescenza ho smesso di chiamarli nonni e ho iniziato a chiamarli con i loro nomi, quando l'ho fatto la prima volta Claudine mi ha guardata con i suoi piccoli occhi viola e storgendo il naso, mentre Pierre prima mi ha scrutata con i suoi occhi di ghiaccio con le ciglia lunghe e nere, e senza batter ciglio si è voltato per riprendere la conversazione con la mamma. Ma ho sentito bene Claudine sussurrare.

 

«Tale padre, tale figlia, lei è tutta razza Dorian, non ha nulla di noi Dubois» poi è tornata a parlare con il marito e la mamma, sistemandosi i capelli grigi tenuti su dalla crocchia.

 

Non hanno mai sopportato nemmeno papà, e mi chiedo il perché. Mi blocco a quel pensiero, perché non sopportano papà? Per poco non mi cade il caricabatterie di mano, quando mi rendo conto che io non conosco così a fondo mio padre, il sangue del mio sangue, l'uomo che ha contribuito a mettermi al mondo. Mi sento quasi spezzare da quella rivelazione. Io non conosco mio padre e mia sorella.

Metto giù il caricabatterie e accendo la TV, sedendomi sulla poltrona a bolla di plastica color rosa fluo trasparente, una di quelle che dondolano perché una catena dipinta di argento la tiene attaccata al soffitto. Mi lascio affondare nel cuscino nero e ne abbraccio uno rosa mentre con un piede mi do una leggera spinta iniziando a dondolare dolcemente.

Stringo il cuscino e guardo la lampada situata sopra il divano, lascio che la luce mi faccia lacrimare gli occhi prima di distogliere lo sguardo. Io non conosco papà e lui non conosce me, e non c'è mai stato, non c'è stato al mio primo saggio di danza, tutte le volte che avevo la febbre, i miei primi giorni di scuola o al mio diciottesimo, dove mi ha fatto una telefonata di appena cinque minuti per dirmi tanti auguri e passarmi Missy così che ce li facessimo a vicenda.

In quel momento una piccola vocina bastarda mi sussurra cosa crudeli.

 

«Non ha cercato un posto più vicino»

«Non vi ha proposto di venire con loro»

«Tu non varrai mai quanto Misery per i tuoi genitori»

 

Così mi prendo la testa tra le mani e soffoco un singhiozzo, sono vicina a urlare “Zitta! Zitta! ZITTA!” quando sento che le mie braccia vengono bagnate dalle mie lacrime. Apro gli occhi e guardo la piccola goccia nera scorrere lungo il mio avambraccio. Nera. Come le tenebre che sento divorarmi dentro e che spero che presto mi sovrasteranno, annientandomi, distruggendomi e spazzandomi via come polvere.

Fermo la poltrona e mi alzo, dirigendomi verso la porta di legno dipinta di bianco e entro nel bagno blu con cui la mia stanza, grazie alla suddetta porta che ho fatto mettere, comunica.

 

 

Mi guardo allo specchio, delle righe nere mi solcano le guance, gli occhi sono rossi e gonfi, rispecchiando la ragazza che tengo nascosta sotto la polvere di solarità che mostro a tutti. Ci vorrebbero i sottotitoli per conoscermi meglio, ma siccome per le persone non esistono, tutti conoscono solo la parte che voglio far conoscere. Perché io vorrei essere coccolata ma odio la pietà.

Sospiro e mi sciacquo la faccia con il sapone, per cancellare quelle righe di tenebra che sono fuoriuscite da me e cercando a tentoni l'asciugamano mi asciugo via tutto.

Mi riguardo allo specchio e riecco la ragazza piena di luce e solarità, talmente tanta che potrei anche donarla, secondo alcuni. Poveri illusi.

Mi abbasso e apro lo sportello del mobiletto, dove trovo una dei miei sacchetti con dentro dei trucchi di emergenza, così mi rimetto il trucco e stavolta metto pure un rossetto rosso intenso. Sorrido al mio riflesso e sento un vociare provenire dalla mia stanza.

 

«Questo è un fottuto paradiso!» esclama una voce maschile

«Armin andiamo! Lo vedi che Ilenia non c'è?» dice seccata una seconda voce, sicuramente quella di Alexy. «Armin andiamo a vedere dov'è Misery, scollati da quella vetrinetta!» esclama Alexy

«Aspetta, non vedi che sto leggendo?» gli risponde Armin.

 

Io mi affaccio dal bagno e vedo Alexy guardare Armin con un sopracciglio inarcato prima di prenderlo per l'orecchio. Mi chiedo com'è che ancora il moro abbia le orecchie attaccate alla testa, dato che il gemello gliele tira sempre. Eppure mi sembrano più affiatati di me e Misery, ma è normale, loro sono cresciuti insieme.

 

«Tu? Che leggi? Ma non dire stronzate, razza di cazzone» gli dice tirandolo per l'orecchio, ma appena mi nota si affretta a lasciarglielo e mi viene incontro. «Oh allora ci sei» sorride e mi abbraccia.

 

Io mi irrigidisco, non amo molto che degli sconosciuti invadano così il mio spazio personale. O almeno non lo amo dai miei quindici anni. Così lo guardo.

 

«Ero nel bagno» gli dico indicando la porta bianca aperta con la testa.

«Capito, tua mamma ci ha detto che potevamo trovarti qua» mi dice Alexy lasciandomi andare e sorridendo. Ma cos'ha? Una paralisi facciale?

 

Io fanno un cenno di assenso con il capo e guardo Armin, intendo a sbavare guardando la mia collezione di videogiochi, così mi avvicino a lui e alla mia vetrina in stile povero in legno di ciliegio.

 

«Ti piace quello che vedi?» gli chiedo sorridendo.

«Porco Templare sì!» esclama lui indicando la prima mensolina in vetro in cui tengo esposti tutti e sette le custodie dei CD di Assassin's Creed, gli ultimi due per la Xbox One mentre gli altri cinque per la 360. «Quindi anche tu sei una fan di Assassin's Creed» dice sorridendo mentre guarda la terza mensolina dove tengo le statuette che ho preso insieme ai videogiochi, le enciclopedie dei giochi e i libri.

«Ovviamente sì, ma me li sono fatti recapitare dall'Italia, così come i gadget» sorrido.

«Quindi è tutto in italiano?» mi chiede leggermente deluso.

 

Io rido e annuisco, mentre vedo il suo sguardo deluso, poi guarda la TV appesa al muro, con accanto le casse per creare l'effetto cinema una volta attaccate alla TV.

 

«Giochi con quelle attaccate alla TV?» mi chiede Armin

«Ovviamente» rido mentre lui torna a sbavare sui miei giochi

 

Così mi giro verso Alexy e lo avviso che andrò a chiamare Misery.

 

 

Il mio passo adesso è leggero, come quando ballo sulle punte, mi succede sempre con ospiti in casa, divento più leggera di una farfalla.

Entro in mansarda e sorrido.

 

«Hey Misery, ci son...» solo adesso mi accorgo di Castiel, notando la sua capigliatura rossa con la coda dell'occhio, così mi giro e gli sorrido, un sorriso sincero, che solo lui mi suscita. «Ciao Cass… dunque dicevo… a sì, ci sono i gemelli giù» mi giro nuovamente verso mia sorella sorridendole.

«Ottimo, falli salire» mi dice restituendomi un sorriso e sistemandosi l'abito.

«Hem… La vedo un po’ difficile la cosa, Armin si è paralizzato a vedere i miei videogiochi» le dico in tono rassegnato

«O santo cielo» ha un tono contrariato mentre scuote la testa. «Armin è incorreggibile. Tranquilla scendo io e cerco di farlo tornare in se» mi rassicura mentre spegne lo stereo.

 

 

Mentre scendiamo le scale noto lo sguardo sconfortato di Misery mentre studia Castiel, la cosa mi fa sospettare che le abbia detto qualcosa che non doveva. Così mentre mi riprometto di domandare a entrambi che cavolo è successo, apro la porta di acero che porta alla mia stanza.

 

 

Armin è ancora piantato davanti ai videogame, mentre Alexy guarda la parte di stanza dove ho fatto applicare degli specchi a tutta parete. Sono tre specchi, il primo parte dalla sinistra della porta di entrata e occupa tutta la parete, e davanti a pochi centimetri di distanza c'è una sbarra nera in metallo che arriva sino alla fine della parete. Il secondo specchio occupa la parete di fronte alla TV e a terra si trova un borsone nero con sopra delle scarpette di danza classica cucite con del filo bianco, mentre il terzo specchio occupa lo stesso spazio del primo. Dove ci sono gli specchi a terra c'è del parquet in legno chiaro. Quello è il mio angolo della danza, dove smetto di essere Ilenia la solare e lascio che la danza esprima tutto il mio dolore. Sorrido mentre Alexy sbava sullo stereo nero con dei dettagli viola della sony, quello da 2400 watt e sopra lo stereo si trova il disegno di due scarpette rosa con la punta di gesso, le punte sono tirate e i loro nastri si intrecciano in modo tale da formare un cuore, al cui centro c'è una mia foto di quando avevo sei anni, al mio primo saggio di danza, con una crocchia laccata e un body rosa con la gonnellina svolazzante del medesimo colore.

Sorrido, ricordando che la danza era la sola cosa che mi distraeva dal vuoto che papà e Misery avevano lasciato nella nostra enorme villa.

Missy entra e si fionda verso la libreria, sempre in legno di ciliegio, che si trova tra lo stereo e la porta a vetri. Legge i titoli e poi si gira a guardarmi.

 

«Sono tutti in italiano» constata lei, sorridendo.

 

Io annuisco e guardo il mio migliore amico buttarsi sul divano in pelle mettendo le scarpe sui braccioli. La cosa mi ha sempre fatta incazzare e anche di brutto.

 

«Castiel! Togli quei cazzo di piedi dal mio divano e presentati!» esclamo avvicinandomi al divano con aria stizzita.

«Salve, mi chiamo Castiel Vincent e sono il migliore amico di Ilenia» dice lui levandosi il giacchetto e buttandolo nella poltrona appesa vicino al divano, senza togliere quelle fette di piedi dal mio fottuto divano.

«I piedi! Porco Cesare!» dico sollevandogli le caviglie con una mano.

 

Lui per tutta risposta fa un sorrisetto da bastardo e inizia a fare forza con le gambe, così io mi aiuto con l'altra mano e gliela pianto sulle cosce, alzandogli di più le gambe e facendolo sgusciare leggermente in avanti, così la maglia si alza mostrando gli addominali abbronzati di Castiel.

 

«Porca puttana» mormora Alexy, e io lo vedo con lo sguardo adorante verso gli addominali del mio migliore amico.

 

Mi sembrava leggermente gay, ma pensavo fosse solo un ragazzo a cui piace la moda, dato che ne esistono molti. Sorrido mentre tengo su le gambe del rosso. Ora una mia mano tiene i suoi polpacci e l'altra lo tiene a inizio coscia.

 

«He-hem! Gigante! He-hem! Gigante!» tossicchia Missy in italiano.

 

Io riconosco la parola gigante, che nel nostro linguaggio segreto vuol dire “papà” così mi giro e lo vedo.

E' sulla porta, con le braccia incrociate al petto e le saette che gli fuoriescono dagli occhi, si avvicina lentamente. Brutto segno per me.

 

«Ilenia, cara, chi sarebbe il ragazzo sul divano?» mi chiede guardandomi, o meglio, fissando la mia pancia scoperta, dato che alzando le braccia pure la canottiera si è alzata, lascio subito andare le gambe di Castiel, che lui apre lasciandole cadere accanto ai miei fianchi.

«Lui è Castiel papà» noto che adesso il rosso si è tirato a sedere, tenendosi su con le mani appoggiate dietro di se, sul divano.

«Salve signore» dice Castiel

«E dimmi, tu tutti i tuoi amici li prendi per il culo?» mi chiede papà.

«Beh sì» rispondo senza pensarci. Mossa sbagliata, ora papà ha le fiamme negli occhi. Mi affretto a correggermi. «Cioè! Nel senso che li prendo in giro! Ovvio che non li prendo per il culo! Pf! Ma dai! Che cosa ridicola!» e faccio un sorriso nervoso.

«Tua madre lo conosce?» mi chiede. Ma che razza di domande stupide mi fa?

«Oh sì, la signora Amandine mi conosce» risponde Cass. «Sua moglie è una gran donna» dice Castiel.

 

Papà ha gli occhi fuori dalle orbite e Misery sta per sputare un polmone tanto tossisce.

 

«He-hem! Vulcano in eruzione! He-hem!» tossisce forte, sempre parlando in italiano, e io metto a tacere Castiel con una gomitata in pieno stomaco, che lo fa di nuovo stendere sul divano.

«Intende dire che è una gran brava donna, papà» ma lui già non mi presta più attenzione, dato che si è voltato verso Misery.

«Tesoro, stai bene?» le chiede con voce gentile.

 

Lei annuisce e gli dice che aveva la saliva di traverso, ma io già non li ascolto più. Papà ha perso interesse per me appena Misery ha tossito la seconda volta, sono sparita dalla sua vista tanto quanto velocemente ci sono entrata. Sento Castiel tirarsi su e guardarmi, per poi sussurrarmi all'orecchio.

 

«Ti sei rabbuiata, hai paura di tuo padre?» mi chiede.

 

Io scuoto la testa e gli sorrido, per poi andare verso la poltrona e toglierci da sopra la giacca del mio amico.

 

«E la porta resta aperta» mi informa papà.

«Sì sì, certo» gli rispondo con voce leggermente fredda e mi volto a fissarlo negli occhi.

 

Lo vedo intristirsi mentre esce dalla stanza, scoccando un bacio sulla fronte di Misery prima di uscire. Ho sperato vivamente che lo facesse anche con me, invece si è semplicemente voltato, andandosene. Come se io non fossi sua figlia. Così lancio la giacca a Castiel.

 

«Giù quei cazzo di piedi» gli dico prima di scostare la tenda con stelle di plastica, ognuna con un colore dell'arcobaleno e aprire la porta di vetro, uscendo sul balcone.

 

Lascio che la brezza pomeridiana mi accarezzi dolcemente, mentre mi siedo sulla sedia di metallo, guardando la piscina che abbiamo sul retro della casa. Quante volte avrei voluto annegarmici dentro, poi pensavo alla mamma, e mi trattenevo dal farlo. Ma tante volte avevo immaginato il mio corpo immerso nell'acqua, con i capelli fluttuanti e la pelle bianca e cadaverica, le labbra bluastre. Mi passo una mano nei capelli e caccio via quei pensieri, guardando il cielo.

Sento un odore vanigliato arrivarmi alle narici e mi giro verso Misery.

 

«Ehy» sorride e si siede sulla sedia vicino alla mia.

«Ehy» le dico. «Che ti ha detto Castiel, prima che arrivassi io?» le chiedo.

«Pensava fossi tu e ha detto che hai un gran bel culo, beh in realtà ha detto che io ho un gran bel culo, ma parlava di te quindi l'ha detto a te... Oh vabbé! Hai capito» dice incrociando le braccia sotto al seno.

 

Io la guardo, lei ha lo sguardo serio, provo a reggerlo, ma non ci riesco e scoppio a ridere buttando la testa indietro e battendo una mano sul bracciolo in metallo della sedia. Immagino che Misery non sia abituata al genere di ragazzi come Castiel, che fanno sempre allusioni al sesso e ti fanno i complimenti più volgari. Ma ormai io con Castiel sono abituata, per questo gli voglio bene. Se un vestito mi sta male non si fa di certo scrupoli a dirmi che quel vestito mi fa il culo come una mongolfiera, o i fianchi di una balena, certo io dopo gli tengo il broncio, offesa, ma dopo mi passa subito e salto sulla sua schiena, facendomi scarrozzare per mezzo centro commerciale. Mentre penso a Castiel mi accorgo che lui ha più o meno colmato la mancanza di mio padre. In lui io ho sempre visto il mio punto di riferimento. Lui era al mio primo saggio di danza e c'è stato a tutti quelli seguenti. Lui c'è sempre stato quando stavo male. Lui è quello che ha picchiato il primo ragazzo che mi ha spezzato il cuore, lui mi ha insegnato a guidare il motorino, la moto e la macchina. Mi ha insegnato a fare persino le impennate, okay forse un padre questo non lo insegna, ma ehy, sono fighe le impennate! Insomma lui c'è sempre stato, come io ci sono sempre stata per lui, anche quando stava con Debrah e ci aveva abbandonati, io avevo continuato a cercarlo, e quando lo aveva lasciato io ero lì, pronta a fargli da psicologa.

A distogliermi dai miei pensieri è Armin, che esce con in mano la custodia di “Resident Evil 6”

 

«Hai ancora la 360?» mi chiede sorridendo.

«Ma certamente» sorrido e mi alzo, tornando dentro. «Però la devo ricollegare alla TV» gli dico mentre mi avvicino alla vetrinetta con i videogiochi e sulle altre mensole varie foto di momenti della mia vita. La mia prima comunione, la mia cresima, il mio primo saggio di danza con le punte, lì sì che me la facevo addosso, era la prima volta che ballavo davanti a tutti senza le mezze punte, e ancora non riuscivo a girare e camminare bene sulle punte di gesso. Ma tutto sommato riuscì a non cadere, al contrario di un'altra bambina. Certo sono tornata a casa con i piedi rossi e gonfi, ma ero felice.

Apro gli sportelli che sono alla base della vetrinetta e tiro fuori la console nera e i due telecomandi, e vedo Castiel che stacca la One e la toglie dal piccolo ripiano sopraelevato che ha la mia scrivania, e la mette delicatamente sotto la scrivania. Poi io mi accingo a passargli la 360 e lui mi sorride mentre attacca i fili alla TV.

Io prendo posto sulla poltrona appesa, mentre Castiel spegne le luci e Armin accende la console e la TV, con fare molto esperto. Sorrido, pensando che probabilmente non ha mai guardato una ragazza come guarda le console.

Castiel si siede sul lato del divano accanto alla poltrona in cui mi trovo io, e accanto a lui si fionda Alexy, con sguardo sognante, non so perché, ma credo che Alexy si stia immaginando sposato con Castiel e con tanti mini Castiel e Alexy che girano per casa. La cosa mi fa ridacchiare mentre Armin prende posto accanto al gemello e passa il secondo telecomando della console a mia sorella, che si siede accanto a lui.

 

«Ma io non so giocare!» esclama Misery

«Tranquilla, te lo dice il tutorial a inizio gioco» la rassicura il moro.

 

Così io gli dico che il profilo di Misery che avevo creato è vuoto e senza nessun salvataggio, lui annuisce e sceglie il profilo con l'avatar dalla pelle chiara e i capelli lunghi e neri. Vedo Misery sorridere mentre Armin avvia il gioco.

 

 

Così abbiamo passato il pomeriggio a giocare la campagna di Leon, passandoci i telecomandi quando qualcuno muore. Ovviamente Misery e Alexy sono quelli che sono morti più volte. Entrambi urlano come galline e fanno correre in cerchio il personaggio appena uno zombie fuoriesce all'improvviso, invece che prendere la mira e sparare. Mentre io ho lasciato morire Castiel tutte le volte che lui mi ha lasciata senza munizioni, prendendosele tutte per se, con la scusa che senza munizioni mica potevo aiutarlo. Mentre tra me e Armin abbiamo fatto gran parte del capitolo giocato, finché Castiel non si stufa e mi copre gli occhi, facendomi morire e quindi passare il telecomando a Misery o Alexy, già perché Castiel non vuole Helena, lui vuole il maschio, Leon, quindi aspetta solo che Misery e Alexy lascino Armin morire, dato che vanno in preda al panico perché si ritrovano circondati da mostri, peccato che abbiano lasciato morire molte volte anche lui, provocando le sue imprecazioni contro i fifoni.

 

 

Quando mamma ci viene a chiamare per cena, dicendoci che i genitori dei gemelli sono arrivati, io e Armin abbiamo appena finito il capitolo 4 di Leon.

 

«Ah-ah!» esclamo. «Io ho preso la S di super e tu solo la A» gli dico vittoriosa, mentre vado ad accendere le luci e spengo la console.

«Pf» bofonchia lui. «Ti ho lasciata vincere, per educazione» dice lui.

«Certo certo, sognatelo» dico ridendo.

«Voi e i videogiochi» dice la mamma sconsolata, poi guarda Castiel e gli sorride. «Castiel caro, resti per cena?» gli chiede. In realtà sappiamo entrambi che ha già apparecchiato anche per lui.

«Se non sono di disturbo» dice lui, con fare ruffiano. Che leccaculo.

«Sai che non lo sei! Quindi resti a cena, e ora tutti a tavola!» esclama la mamma sorridendo e tornando di sotto.

 

Tutti si alzano dal divano e si sbrigano a scendere di sotto. Io li seguo e ripenso a com'è iniziata questa giornata. Non bene, non è proseguita meglio e sono sicura che succederà anche qualcos'altro, come sono sicura che a Castiel serviranno massimo 1000 quadrifogli, appena papà scoprirà che resta a cena.

 

 

-<>-*-<>-

 

 

Quando papà esce dalla stanza degli hobby di Ilenia le ordina di tenere la porta aperta o meglio, come sbraita lui, spalancata. Io sono sempre stata iperemotiva, infatti non è mai un mistero cosa provi e nella vita non sono mai riuscita a nascondere un emozione, ci ho provato molte volte però non ci sono riuscita non fa per me. Oltre a questo sono pure estremamente empatica e riesco a percepire ed ad immedesimarmi a pieno in ciò che provano gli altri, per questo non appena papà se ne è andato ho notato subito una piccola luce spegnersi negli occhi di Ilenia. Solo ora mia rendo conto che in realtà in questi lunghi tredici anni io ho conosciuto ben poco della mia sorellina e che tutte le volte che mi ha detto di stare bene in realtà forse non era così. Ricordo che i primi anni tra di noi erano frequenti le video chiamate tramite Skype. Ricordo i suoi sorrisi, uniti alla sua dolcezza che mi colpiva dritta al cuore, con i suoi "mi manchi tanto" e i suoi "ti voglio bene Missy" erano le uniche cose che mi spingevano a continuare le cure. Poi però con gli anni e le terapie ho cominciato a perdere i capelli per questo mi rifiutavo di risponderle con la webcam, le dicevo che si era rotta e che papà doveva andare a comprarne una nuova, ma che non aveva mai tempo. Poi col passare del tempo però anche lei smesse di accendere la webcam e le chiamate diventarono soltanto vocali e, a poco a poco, con gli anni sono diminuite diventando da chiamate un giorno sì e un giorno no a chiamate rade una volta a settimana. Noi siamo gemelle e abbiamo un forte legame emotivo che soltanto due gemelli possono avere, riusciamo a capirci al volo, ma tutto sommato il nostro rapporto è stato spezzato e non potrà mai essere come quello di Armin e Alexy che hanno vissuto tutta la loro vita insieme. Tutto sommato però sento che lei ha bisogno di me e in qualche modo dovrò tentare di aiutarla, glielo devo per tutte le volte in cui non ci sono stata. Sono immersa nei miei pensieri mentre, in silenzio, mi dirigo a tenerle compagnia sul balcone vedendola seduta su una sedia di metallo lavorato mentre guarda il vuota immersa nei suoi pensieri.

 

«Ehy» Provo a dirle sorridendo e sedendomi sulla sedia vicino alla sua.

«Ehy» Mi risponde con un sorriso sulle labbra come se quello che la turbava non importasse. «Che ti ha detto Castiel, prima che arrivassi io?» Mi chiede cercando di evitare qualsiasi domanda parlando per prima.

«Pensava fossi tu e ha detto che hai un gran bel culo, beh in realtà ha detto che io ho un gran bel culo, ma parlava di te quindi l'ha detto a te... Oh vabbé! Hai capito.» Dico incrociando le braccia sotto al seno lievemente stizzita e con tono serio.

 

Lei mi guarda, io ho lo sguardo serio e lei scoppia a ridere buttando la testa indietro e battendo una mano sul bracciolo in metallo della sedia. Io non sono abituata a commenti del genere ed ero irritata ed imbarazzata da quello che quel ragazzo aveva detto eppure a lei sembrava divertire, la cosa mi è decisamente poco chiara. Era imbarazzante e persino irritante ciò che quel ragazzo mi aveva detto con così tanta indifferenza, eppure a lei sembrava divertire la cosa. Mentre sta ridendo le sorrido, ma poco dopo noto nuovamente quell’aria assente nei suoi occhi e mentre sto per dirle qualcosa vedo Armin, che esce con in mano la custodia di un videogioco in mano, o almeno credo che lo sia dato che io non ne ho mai avuti e non ne ho mai usati in vita mia.

 

«Hai ancora la 360?» Le chiede sorridendole con quel suo suo sorriso che ogni volta mi scioglie il cuore, annullando così ogni mio possibile tentativo di parlare.

«Ma certamente.» Dice lei sorridendogli ed alzandosi tornando poi dentro la sua camera degli hobby. «Però la devo ricollegare alla TV.» Gli dice mentre si avvicina alla vetrinetta con i videogiochi dove tiene un sacco di foto di avvenimenti che ha vissuto, certo che lei ha fatto così tante esperienze, lo notavo anche ieri in camera sua con tutte quelle foto appese al muro e sulla scrivania, lei ha avuto tutto io invece non ho avuto nulla, nemmeno il ragazzo che mi piace si è mai accorto della mia esistenza. Penso osservando tutte quelle svariate foto mentre una voce nella mi testa mi rimprovera dicendo.

«Che fai ora? La invidi pure? Ricordati che sei forte e che non c'è nessun dolore che possa ferirti più della malattia che hai già sconfitto. Tu ora puoi recuperare tutti gli anni che hai perso, finalmente puoi vivere pienamente.»

 

Detto ciò comincio a battere le ciglia una decina di volte, uno dei miei tanti tic, poi mi dirigo a sedermi sull’ultimo posto libero rimasto sul divano, posto accanto al mio caro Armin che mi passa il secondo della console sfiorandomi con le sue calde mani.

 

«Ma io non so giocare!» Esclamo sorpresa da questo suo gesto inusuale, non mi aveva mai passato un telecomando ne insegnato a giocare con nessuna delle sue console prima d’ora eppure ora aveva scelto proprio me come sua compagna di gioco.

«Tranquilla, te lo dice il tutorial a inizio gioco.» Mi rassicura lui come se parlasse con una demente.

 

La cosa mi infastidisce lievemente, ma non ci bado, perdonandogli il suo tono di superiorità, e gli sorrido dato che tra tutti aveva scelto di cominciare a giocare proprio con me. Passiamo il pomeriggio a giocare ad un videogioco in cui spuntavano zombi armati da ogni parte passandoci il telecomando ogni volta che morivamo. Ovviamente io e Alexy siamo quelli che sono morti più volte mentre urlavamo come galline terrorizzate non appena uno zombie fuoriusciva all'improvviso.

 

Quando mamma ci viene a chiamare per cena, dicendoci che i genitori dei gemelli sono arrivati, Ilenia e Armin hanno appena finito il capitolo 4 di quel gioco, o almeno credo non è che ci capisca molto di queste cose. Per essere il primo gioco a cui giocavo era a dir poco inquietante, adoro i film e i libri horror, ma questo era il mio primo videogioco e forse avrei dovuto iniziare con qualcosa di un po' più soft.

 

«Ah-ah!» Esclama Ile. «Io ho preso la S di super e tu solo la A.» Si vanta a dispetto di Armin mentre accende le luci e spegne la console.

«Pf.» Bofonchia lui. «Ti ho lasciata vincere, per educazione» Dice lui con il suo solito tono che sa tanto di scusa campata in aria.

«Certo certo, sognatelo» Dice lei ridendo con gli occhi che le brillano mentre la malinconia di prima sembra essersi totalmente eclissata.

«Voi e i videogiochi» Dice mamma sconsolata, poi guarda Castiel e gli sorride. «Castiel caro, resti per cena?» Gli chiede.

«Se non sono di disturbo» Dice lui, con fare ruffiano e a me sa tanto di leccaculo.

«Sai che non lo sei! Quindi resti a cena, e ora tutti a tavola!» Esclama mamma sorridendo a Ilenia e Castiel prima di tornando di sotto ignorandomi completamente.

 

Ci alziamo dal divanetto e cominciamo ad avviarci verso la sala da pranzo al piano terra, io sono davanti con Alexy che mi strattona il braccio continuando a sussurrarmi quanto gli piaccia Castiel e quanto lo trovi attraente. Ricordo ancora oggi il giorno in cui ho scoperto che era gay e la scena fu a dir poco esilarante ripensandoci adesso, ma in quel momento non lo era affatto.

 

 

Ero a casa da sola, papà era a lavoro e la mia insegnante privata di francese, che papà aveva assunto da poco più di un mese dopo le altre ventisette che si erano successe nel tempo, aveva detto che avrebbe portato a lezione anche i suoi due figli che mi aveva presentato la settimana scorsa e che da allora portava qui ogni giorno sotto ordine di papà. Era andata a farmi una doccia ed ero appena uscita dal bagno con addosso solo la biancheria quando suonò il citofono, mi avvolsi un asciugamano attorno e andai al citofono.

 

«Chi è?» Chiesi dato che non si trattava di un videocitofono.

«Sono Emily.» Rispose la mia insegnante dall’altro capo dell’apparecchio.

«Sali pure.» Dissi aprendo il portone d’ingresso con il pulsantino. «Sempre al quarto piano, prima porta sulla destra. L’ascensore è rotto.» Dissi socchiudendo la porta d’ingresso.

 

Poi andai in camera chiudendo la porta alle mie spalle, ma scordandomi di chiudere a chiave. Tolsi di dosso l’asciugamano appoggiandolo sullo schienale della sedia di legno di abete chiaro di fronte alla scrivania dello stesso materiale. Mi avvicinai al cassettone bianco sotto alla finestra con addosso solo il mio intimo color blu notte e aprii il primo cassetto prendendo una maglia nera a maniche corte con una faccia di tigre albina dagli occhi azzurri stampata davanti con una mano e una canotta blu con stampato davanti il simbolo dello Ying e Yang in bianco e nero sul davanti. Ero indecisa sul quale indossare quando sentii la voce di Alexy dire.

 

«Io fossi in te metterei quella blu, anche perché altrimenti sei sempre vestita di nero.» Disse sorridendo mentre mi guardava tenendo chiusa la porta da dietro la quale Armin tentava di entrare.

 

Io mi appoggiai quegli indumenti davanti dando la schiena alla finestra e urlando terrorizzata, non mi aspettavo di ritrovarmelo in camera all'improvviso e il mio cuore batteva all'impazzata per la paura che stavo provando.

 

«Calmati, non lo faccio entrare tesoro, tranquilla.» Mi disse lui come se nulla fosse.

«Non urlo perché lui vuole entrare, ma perché tu sei entrato e io non sono ancora vestita, sei un ragazzo ed io una ragazza, mai sentito parlare di privacy?» Dissi mentre il mio volto diventava più rosso di un peperone e le mie sopracciglia erano talmente inarcate che sembravo volerlo incenerire con lo sguardo.

 

Ero in imbarazzo e mi sentivo morire dentro per essermi fatta vedere così da un ragazzo che conoscevo appena, ero una sedicenne terrorizzata che si sentiva in trappola tra le grinfie di un ragazzo che a malapena conosceva. Lui guardandomi reagire in quel modo e leggendo la paura nel mio sguardo scoppiò a ridere e la cosa mi fece arrabbiare ancora di più, così, fregandomene di come ero conciata, mi avvicinai a lui e gli diedi uno schiaffo sulla guancia.

 

«Si può sapere che ti ridi? Esci di qui.» Dissi mentre delle lacrime mi rigavano il volto data l’esasperazione che provavo.

«Shhhhhhhhhhhh, stai calma tesoro, va tutto bene.» Mi disse lui che, con la schiena appoggiata alla porta, mi abbracciò stringendomi a lui anche se io mi divincolavo spaventata. «Non hai nulla da temere, io non potrei mai farti del male perché… ecco vedi… insomma a me non piacciono le ragazze.» Concluse la frase farfugliando imbarazzato quelle parole, allora io smisi di divincolarmi alzai lo sguardo e gli chiesi.

«Tu sei gay?» Chiesi con la bocca spalancata, so che non era da me usare quel tono e quel comportamento, ma cavoli ero scioccata.

«Così sembra e ora che ti ho visto vorrei essere come te per poter fare colpo sui ragazzi che mi piacciono. Non sai quanto ti invidio, farai cadere tutti i ragazzi ai tuoi piedi con un corpo così.» Disse lasciandomi mentre corrucciava il viso mettendo un broncio per nascondere la sua evidente invidia.

«Certo i ragazzi ne conosco solo due e uno ho appena scoperto essere omosessuale, ne stendo proprio tantissimi con questo corpo. Certo era strano che seguissi tanti programmi e settimanali di moda, ma non avrei mai pensato una cosa simile.» Dissi calmandomi mentre quasi impercettibilmente allungai il braccio per prendere il cuscino del mio letto.

 

«Però potevi bussare maleducato.» Dissi lanciandogli quel cuscino addosso per poi scoppiare a ridere.

 

Alla fine quel giorno fu il vero e proprio inizio della nostra amicizia, anche se per dispetto indossai la maglia nera e non la canotta blu che mi aveva consigliato lui.

 

 

Scendiamo le scale tutti insieme con Armin dietro di noi tornato a giocare con la sua PSP, mentre Castiel e Ilenia chiudevano il gruppo chiacchierando tra loro del più e del meno ridacchiando. Percorriamo pochi passi nell'ampio e meraviglioso ingresso prima che una cascata di lunghi e mossi capelli blu mi travolga stringendomi in un dolce abbraccio mentre ancora sono intenta a parlare di ragazzi con Alexy.

 

«Ma uffa mamma, io e Missy stavamo parlando.» Si lamenta Alexy come un bimbo a cui hanno rubato le caramelle.

«Perdonami piccolo mio, ma non potevo non abbracciare la mia piccola e preziosa gemma.» Disse continuando a stringermi e dondolarmi mentre Castiel, Ilenia e Armin scoppiavano a ridere.

«Buonasera Emily, è un piacere rivederti.» Le sorrido mentre divento rossa dall’imbarazzo.

 

Quella donna è peggio di un vulcano in eruzione e non pensa mai alle reazioni delle persone alle sue manifestazioni eccessive d’affetto, ha un’immensa voglia di vivere che per mia fortuna è riuscita ad insegnarmi e a trasmettermi. Da quando papà l’assunse come insegnante privata lei è stata per me molto più di questo, la conosco da quasi due anni, ma in questo tempo lei è riuscita ad essere per me un’amica ed anche una madre, ha lottato contro le fissazioni di papà permettendomi di ottenere un po’ più di libertà e di cominciare a vivere come una qualsiasi altra adolescente. Emily è una donna altra un metro e sessantacinque circa, la sua carnagione è olivastra, la pelle è fresca e priva di rughe nonostante i suoi quarantotto anni compiuti, ha due grandi occhi azzurri che brillano come preziosi diamanti, gli stessi occhi che mi fecero palpitare il cuore la prima volta quando incontrai Armin, i quali lei contorna e accentua perfettamente con un semplice velo di trucco scuro. Ha delle labbra carnose sempre sorridenti e quest’oggi tinte di rosso ciliegia, il volto è tondo e circondato da una lunga cascata di capelli mossi tinti di un color blu notte che lasciava intravedere il naturale colore turchino, stesso colore dei capelli di Alexy, dalla ricrescita che sembra quasi lasciata intravedere appositamente. Quando scioglie l’abbraccio io noto il suo abito leggero color arancio, l’abito è senza spalline e la sua forma è stretta fino all’altezza della vita per poi terminare con una gonna ampia e morbida che le arriva sino a metà della lunghezza delle cosce, indossa un paio di scarpe col tacco in tinta con l’abito e delle parigine nere, in più il suo look è ultimato da un girocollo di perle bianco abbinato ad orecchini e bracciale dello stesso materiale e dai tre brillantini bianchi dei suoi piercing all’orecchio sinistro. Le sorrido quando la vedo passare ad abbracciare Alexy.

 

«Vieni qui gelosona mia che abbraccio anche te.» Dice stringendo tra le braccia il turchino che rideva tutto contento, mentre Armin indietreggiava lentamente. «Dove vai tu, vieni e fatti abbracciare dalla tua mamma.» Dice lasciando Alexy guardando Armin.

«No, no, no. Mamma ti prego.» Dice cercando inutilmente di allontanarla. «Ti prego mamma, ci sono le ragazze.» Ma le sue lamentele non servono a nulla dato che lo abbraccia comunque stringendolo forte tra le braccia.

«E dai mamma scollati.» Dice il moro diventando dello stesso colore dei capelli dell’amico di Ilenia.

«Non sono bellissimi i miei piccini?» Chiede arruffando le chiome dei gemelli.

 

Dopo di che arriviamo in sala da pranzo dove ci aspettano mamma, papà e Max. Quando entriamo in sala Max mi saluta con un cenno del capo e io mi soffermo ad osservarlo, i suoi capelli neri sono perfettamente in ordine, come sempre al contrario di quelli scompigliati che tanto gli piacciono nel figlio, e i suoi occhi rosei sono dolci, ma severi allo stesso tempo. Max è da sempre un uomo silenzioso e taciturno, ma protettivo e presente. So per certo che i gemelli lo adorano e da quando l’ho conosciuto mi ha sempre trattato come una di famiglia ed io l’ho sempre visto come una sorta di zio. Gli sorrido e poi mamma ci invita a sederci, papà si mette a capotavola mentre Max si siede alla sua destra con Emily di fronte alla sinistra di papà. Mamma si siede dopo Max e al suo fianco si sistemano Ile con accanto Castiel, Alexy si siede accanto alla madre facendo sedere Armin al suo fianco il quale mi implora con lo sguardo di sedermi accanto a lui. Non capisco come mai oggi abbia così tanto bisogno di me e l’idea che finalmente mi abbia notato mi fa arrossire ed aumentare i battiti cardiaci. Mangiamo tutti insieme chiacchierando serenamente fino a che Ilenia non chiede.

 

«Ma scusate ragazzi, se siete americani com’è che conoscete così bene il francese?» Chiede prendendo l’ultima forchettata della sua insalata.

«Cos’è, non dovevano mica conoscere le loro origini?» Risponde a quel punto Emily che si intromette nel discorso di noi ragazzi mentre io e i gemelli ridiamo della faccia confusa che assume mia sorella. «Vedi cara la mia famiglia è francese da più di sette generazioni ed io non avrei mai lasciato Parigi se non mi fossi innamorata di Max durante i miei studi in America.»

 

Parliamo un altro po’ mentre Alexy continua ad insistere di voler vedere la mia camera facendomi scoppiare la testa, sa essere così assillante da farmi venire mal di testa, ma a parte questo è un buon amico sempre pronto ad aiutarmi in qualsiasi istante. Quando stiamo finendo il dolce il dolce Castiel sembra avere un idea geniale da proporci, così ascoltiamo che hai da dire mentre i nostri genitori parlano di politica e di finanza. Chi sa se pure io quando avrò l’età di papà mi ritroverò seduta ad un tavolo a fare discorsi simili, spero proprio di no perché la finanza mi annoia a morte anche se me la cavo a gestire i soldi.

 

«Ragazzi che ne dite di andare ad una festa? Disco-pub per tutti questa sera?» Chiede Castiel all’intero gruppo.

«Certo, sai che non dico mai di no ad una festa.» Disse Ilenia sorridendogli ed alzandosi da tavola.

«Io non credo proprio.» Aggiunse papà guardandola male con tono accigliato, mi ha sempre messo i brividi con questo tono e anche sta volta al sentirlo tremo. «Ilenia torna seduta, Misery non può uscire a questa tarda ora e non puoi farlo neanche tu. In più non ho fiducia in quel ragazzo e non permetterò a nessuna delle due di uscire con lui sta sera.»

«Jacques» Dice Ilenia guardando papà con uno sguardo rabbioso che fa gelare il sangue quanto il suo. «Ho diciotto anni compiuti e tu non hai il diritto di dirmi quando e con chi andare ad una festa. Prendo io le mie decisioni e quindi ci vado.» Detto ciò se ne va dalla sala da pranzo senza nemmeno ascoltare altri pareri.

«Ilenia torna qui, come osi mancarmi di rispetto?» Si lamenta papà pur non essendo minimamente calcolato.

«Voi venite ragazzi?» Ci chiede Castiel non curante di papà.

«Certo, ci piacerebbe.» Aggiunge Alexy tutto emozionato.

«Per me è uguale.» Risponde Armin incrociando le braccia.

«Hem ecco io…» Tento di dire.

«Tu invece non vai.» Aggiunge papà alzandosi e battendo il pugno sul tavolo.

«Ma papà.» Sbuffo esasperata.

«Non credi di essere troppo duro Jacques? Sai che la mia piccola Missy è una ragazza con la testa sulle spalle.» Cerca di prendere le mie difese Emily contrariamente a mamma che è lì zitta e ferma a guardarsi le unghie.

«Lei non andrà in giro con quel tipo che ha l’aspetto di un teppista.» Aggiunge lui in risposta.

«Ma ci saranno sua sorella e i gemelli con lei, non fare lo sciocco lasciala andare.» Cerca di ribattere Emily.

«Grazie mille Emily, ma non serve. Se papà non vuole allora non importa, andrò un'altra volta.» Dico cercando di nascondere la mia delusione.

 

E dopo quella discussione era ormai passata una buona mezzora. Cerco di non pensare al fatto che sono l’unica del gruppo che resterà a casa mentre accompagno i gemelli alla porta e vedo scendere le scale ad Ilenia. Tutto sommato non c’ha messo molto a cambiarsi, io impiego mezzora solo per decidere che colore indossare. La guardo e le sorrido, non ho modo di essere delusa, devo essere felice perché almeno lei sta sera andrà a divertirsi. Si è messa un abito corto senza palline con una rusche in vita interamente di colore blu, ha uno stupendo scollo a cuore con tante minuscole borchiette applicate richiamate dal grosso bracciale che porta al polso destro, è un bracciale formato da tante piccole borchie unite ad un cordoncino in cuoio nero molto sportivo, ma decisamente elegante, poi ha delle scarpe dello stesso blu dell’abito con l’alto tacco tempestato di borchie ed una piccola pochette argentata, i suoi capelli sono lasciati sciolti e quella cascata di ricci biondi incornicia perfettamente il suo volto sorridente con le labbra tinte di rosso fuoco, gli occhi blu sono perfettamente accentuati dall’ombretto bianco sfumato sulle palpebre unito ad una sottile linea di eyeliner nero, dalla matita dello stesso colore e dal mascara argento brillante che sembra impreziosire il suo già stupendo sguardo.

 

«Andiamo?» Chiede sistemandosi i grossi orecchini a cerchio argentati che porta.

«Certo andiamo.» Risponde Castiel aprendo la porta e facendo uscire i gemelli.

«Divertitevi.» Auguro loro salendo il primo gradino.

«Tu non vieni?» Mi chiede Ilenia rattristata.

«No, sono stanca, sarà per un’ altra volta. Divertiti anche per me.» Mento per non farla rattristare, tanto so per certo che Alexy le dirà il vero motivo non appena avranno voltato l’angolo.

«D’accordo, a domani.» Dice uscendo mentre io salgo un altro gradino.

«Comunque, hem Misery giusto?» Chiede Castiel guardandomi.

«Sì Misery, dimmi.» Dico voltandomi a guardarlo.

«La visuale che avevo davanti durante la cena non era male, dieci più per la scollatura. Ciao.» Dice uscendo e chiudendosi la porta alle spalle come se quella fosse casa sua.

«Disgraziato.» Esclamo esasperata salendo le scale.

 

Arrivo in camera e mi soffermo a guardarli fermi dalla fontana ad accordarsi su come raggiungere il locale e su come tornare a casa. Sospiro, andandomi a sedere sul mio letto, sapevo in partenza che quando papà batte i pugni l’unica cosa che può fargli cambiare idea non esiste, però l’intervento di Emily mi aveva fatto sperare per una volta. Mi sdraio sul letto e penso alle uniche volte che ero uscita alla sera tardi, solo tre e solo negli ultimi sei mesi.

 

«Cambierà, ora sono a casa, sarà diverso.» Dico mentre sento bussare alla porta. «Chi è?» Chiedo voltando la testa verso la porta.

«Sono io piccina.» Dice Emily da dietro la porta.

«Entra.» Dico tornando a sedere sul letto.

«Tutto bene?» Mi chiede avvicinandosi a me.

«Sì, tutto bene.» Dico accennandole un sorriso.

«Sai che vuole solo proteggerti vero?» Mi dice abbracciandomi forte.

«Lo so.» Dico ricambiando l’abbraccio.

«Noi andiamo a casa, ricorda che anche se ora non sono più la tua insegnante di francese io per te ci sono sempre piccina. Tu sei come la figlia che non ho mai avuto.» Mi dice dandomi un bacio sulla fronte.

«Alexy potrebbe offendersi.» Dico facendole la linguaccia. «Comunque lo sai che per me sei come una seconda madre.» Concludo sorridendole. «Buon ritorno a casa.»

 

Dopo questo discorsetto affettuoso lei esce dalla mia stanza, io mi affaccio alla finestra e saluto lei e Max vedendoli andarsene via in macchina, poi entro nella cabina armadio, mi svesto indossando la mia sottoveste in seta bianca, mi strucco e poi metto i vestiti utilizzati durante la giornata, dopo averli perfettamente piegati, sul divano nella stanza e mi metto a dormire. Non vedo l’ora di cominciare la nuova vita qui, niente potrà più impedirmi di vivere a pieno la mia vita.

 

La notte tutto sommato passa serenamente fino a che non vengo svegliata dal suono del dolce canto degli usignoli che mi riporta alla realtà dal meraviglioso mondo dei sogni. Mi stiracchio e poi mi alzo per scostare le tende e aprire la finestra. Resto un po’lì ferma a guardare il nostro immenso giardino.

 

«Tesoro sei sveglia?» Chiede papà entrando in camera.

«Sì papà, stavo guardando la fontana.» Dico voltandomi e spostando delle ciocche di capelli dietro l’orecchio.

«Sei arrabbiata?» Chiede avvicinandosi e chiudendo la porta alle sue spalle.

«No papà, dopotutto l’hai fatto per il mio bene.» Dico sorridendogli mentre ripenso alla sera precedente.

«Ti va di venire con me a svegliare tua sorella?» Chiede scompigliandomi i capelli.

«Certo papà.» Dico chiudendo la finestra.

 

Facciamo un paio di passi nel corridoio arrivando di fronte all’ingresso della stanza di Ilenia, papà spinge lievemente la porta socchiusa e la scena che ci troviamo di fronte è a dir poco sconvolgente, non mi sarei mai immaginata di avere un’immagine simile di fronte ai miei occhi.



Angoletto delle autrici:

Salve!! Buona sera, buon venerdì e buon week-end!
Scusateci per il ritardo nella pubblicazione D: siamo profondamente dispiaciute TAT ma non siamo riuscite a finirlo primo >.< ancora tante scuse! Ma speriamo che l'attesa sia stata ben ricompensata con il capitolo :3
Bene in sto capitolo succede un po' di robetta :) speriamo che vi piaccia :)
Boh oggi non abbiamo molto da dire ahahaha xD quindi nulla :) è tutto :)
Bene! Noi ci leggiamo il prossimo venerdì con il quinto capitolo :)
Baci e abbracci.
IleWriters Misery007


 

Pubblicato il: 27 marzo 2015

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo V - We love shopping ***






Capitolo V - We love shopping

 

Ho ancora gli occhi chiusi e sono ancora immersa nei miei incubi, quando l'odore di tabacco e pino silvestre di Castiel mi investe le narici. Sento il materasso inclinarsi sotto il suo peso, ma le sue parole ancora mi arrivano confuse, ma mi fanno pulsare la testa. Spero solo che se ne vada e mi lasci dormire ancora un po', così mi tiro le coperte sopra la testa e mi giro sul fianco, ignorando il dito di Castiel che mi punzecchia il collo. Poi sento il freddo pungente investire le mie gambe lunghe e nude, poi vengo girata sulla pancia e sento un peso schiacciarmi il bacino. Spalanco gli occhi, terrorizzata, come se il mio incubo fosse scivolato lentamente nella realtà. Alzo lo sguardo e incontro gli occhi grigi di Castiel, che fanno rilassare il mio corpo rigido e sorrido pigramente, mentre allungo le braccia, facendo alzare la maglietta con cui dormo, noto che non porto i pantaloni, probabilmente ieri sera ero talmente ubriaca da essermi riuscita a infilare solo la maglietta, sempre che me la sia infilata io.

 

«Buongiorno, piccola ubriacona» mi dice Castiel sorridendo con una scintilla di malizia nello sguardo.

«Vaffanculo, voglio dormire, ho mal di testa» mormoro guardandolo male e cercando di togliermelo di dosso.

« Ci credo» ride lui mentre gli do dei pugni sul petto, con la conseguenza che lui mi blocca i polsi con una sola mano sopra la testa «Eri ubriaca come una spugna, sai la fatica che ho fatto per metterti a letto?» ride ancora mentre lo guardo accigliata.

 

Questo spiega il perché non indosso i pantaloni, almeno ha avuto la decenza di non chiedere aiuto a Alexy, perché anche se è gay, non è che mi vada molto di farmi vedere in intimo e delirante da uno sconosciuto. In realtà nemmeno da Castiel, ma ormai è abitudine, se lui è ubriaco io lo metto a letto, se sono io a essere ubriaca è lui a mettere a letto me. E se siamo ubriachi entrambi di solito a noi ci pensando Rosalya e Lysandre, quando viene, altrimenti il povero Viktor.

 

«ILENIA DORIAN!» tuona la voce di mio padre, sulla soglia della porta.

«Papà che cazzo urli?» mugugno e sbuffo, non si può iniziare una giornata post sbronza con uno che urla.

«Modera il linguaggio! E cosa ci fa LUI qui?» è abbastanza ovvio che il lui sia Castiel, e il qui sia la mia camera.

 

Così mi tolgo Castiel di sopra e mi alzo dal letto, traballo ancora un po', la testa pulsa ancora più di prima, ma riesco ad avanzare verso mio padre, e noto che dietro di lui c'è Missy, e vedendola mi sento in colpa per essere uscita senza di lei con il mio migliore amico e i suoi amici, lasciandola sola in casa. Ma per me è una cosa nuova dover pensare che probabilmente devo prima sentire se mia sorella può uscire insieme a me, sono abituata che appena vengo invitata accetto l'invito. Guardo papà negli occhi, è evidente che ancora la cosa di ieri sera non gli sia andata giù. Incrocio le braccia sotto al seno.

 

«Lui ha un nome. Castiel. Ricordatelo, e lui viene qui tutte le mattine, perché questa è la mia fottuta camera e entra chi cazzo voglio. E indovina? Tu non sei nella lista» detto questo sbatto la porta in faccia a mio padre e mi sbrigo a chiudere a chiave.

 

Lo sento bussare forte fuori dalla porta, poi sento Missy bisbigliargli qualcosa e lo sento allontanarsi dalla porta. Alzo lo sguardo stanco e provato verso Castiel, sono sveglia da cinque minuti e già vorrei tornare a letto. Gli indico la porta con la testa e la riapro, lasciandolo uscire, per poi chiuderla piano dietro la sua schiena. Sono conscia che lasciarlo solo con Misery è una pazza idea, ma io ho bisogno di restare sola, così prendo dei vestiti e entro nel bagno.

 

 

L'acqua calda mi scivola addosso, ma io ho lo sguardo perso nel vuoto, cercando di ricordare la serata di ieri.

 

 

L'arrivo al discopub lo ricordo, la sala buia con le luci colorate che lampeggiando e la musica che spacca i timpani, il bancone con il ripiano di plastica opaca con dentro un neon viola è affollato di giovani che sono seduti sugli sgabelli alti con la poltroncina nera. Mi avvicino e vedo Viktor indaffarato nel servire cocktail, così opto per andare a salutarlo dopo. Mi giro verso Castiel e gli amici di Misery. Loro sono a disagio, è evidente, non conoscono nessuno, e solo ora un'idea arriva al mio cervello. Forse portarli in un disco-pub come prima uscita non è stata una buona idea, specie per Armin, non mi sembra molto tipo da disco-pub, forse Alexy, ma non il moro, che si guarda intorno leggermente spaesato, così mi avvicino e gli metto un braccio intorno alle spalle.

 

«Vieni, ti porto a conoscere alcuni amici miei» sorrido e lo porto verso il bancone, prendendo posto.

«Ile» Viktor mi chiama sorridendo «lui è il ragazzo di ieri?» mi chiede indicando Armin.

«Sì, Viktor, lui è Armin» dico indicando il moro a Viktor, poi gli indico Alexy che si avvicina trascinando Castiel «Lui è Alexy, il gemello di Armin» sorrido mentre Alexy molla Castiel per fiondarsi al bancone, con aria sognante.

«Piacere, sono Viktor» si presenta il mio capo al turchino, che gli stringe la mano con aria sognante.

«Ile, stasera c'è anche il tonno» mi avvisa Viktor, mentre mi versa un bicchierino di vodka, ormai mi conosce molto bene.

 

Al soprannome di Dakota Phillips, detto Dake dai suoi amici, detto tonno da chi lo odia, come me, Viktor e Castiel. Lo chiamiamo tonno perché è fesso come un tonno, anche se in realtà abbiamo scoperto che lui odia il tonno, motivo in più per infastidirlo e chiamarlo così. Si è trasferito qui da suo zio Boris, l'insegnante di ginnastica del nostro liceo, almeno quattro anni e mezzo fa, durante l'estate. Entrambi hanno la pelle abbronzata, che non so se sia tipica degli australiani o dovuta al fatto che Dake fa surf e Boris jogging, praticamente sempre, al parco senza maglietta. Sono entrambi biondi dorati ma Dake ha gli occhi verdi scuro, che seguono ogni bel culo femminile gli passi davanti. E' questo che mi fa rabbrividire di lui, come guarda noi ragazze, come pezzi di manzo da mangiare, e dopo averci masticate per bene, da risputare per passare al prossimo pezzo. E' davvero disgustoso, e fa ancora più schifo vedere quante ragazze comunque gli vadano dietro. Scuoto la testa e butto giù la mia vodka. Brucia leggermente giù per la gola, ma scalda il mio stomaco.

La serata passa senza grandi chiacchiere, e intanto io butto giù due, tre, quattro, cinque bicchierini di vodka e altri bicchieri di cocktail. Da qui ricordo solo un ammasso di corpi caldi, sudati che ballano e saltano, persone che pomiciano sui divanetti rossi ai lati della pista da ballo. Le luci che lampeggiano e che mi fanno male agli occhi, poi due occhi verdi scuro che seguono ogni mia mossa, che scandagliano le mie curve. Ricordo che mi nascondo nel mezzo al gruppo formato da Castiel, Armin e Alexy. Ricordo Castiel ridere ai miei discorsi del tutto insensati, non riesco nemmeno a mettere le parole in fila. Ma la testa almeno adesso è leggera, ma ricordo bene la voce fredda e graffiante che vive nella mia testa, no lei non mi lascia nemmeno quando sono ubriaca.

 

«Potresti bere sino ad andare in coma etilico»

«Sarebbe il solo modo per farti notare dai tuoi»

«Ma poi tuo padre dirà che sei una figlia irresponsabile, che Castiel è cattivo»

«Il solo cattivo è lui. Jacques Dorian»

 

Da lì il buio, probabilmente sono svenuta, oppure ho bevuto talmente tanto da cancellarmi tutto dalla memoria.

Chiudo l'acqua della doccia e esco, sicura che ieri sera ho bevuto, ma che se fossi svenuta sarei in ospedale. Mi guardo allo specchio e noto gli occhi ancora rossi e le occhiaie. Quante maschere di trucco e di falsità dovrò indossare oggi per cancellare questa faccia così pura e vera? Decisamente troppo. Così mi asciugo e mi sbrigo a seppellirmi sotto uno strato di fondotinta e ombretto. Perché ogni volta che mi trucco è questo che faccio, mi seppellisco sotto la crema color carne del fondotinta, così che nessuno veda troppo le mie occhiaie o le guance arrossate che mi ritrovo dopo un pianto. Guardo il risultato finale e accenno un sorriso con le labbra color rosso fuoco. Poi mi sbrigo a infilarmi una maglia a maniche corte bianca con la scritta “Who the fuck is Mick Jagger?” in nero e sopra mi metto una salopette corta in jeans chiaro, con il fondo del jeans un po' sfilacciato, stile tagliato. Mi allaccio solo la spallina destra, mentre la sinistra l'allaccio, ma non sopra la mia spalla, con l'effetto del vedo non vedo della maglia sotto. Oggi mettermi i tacchi non esiste, sento ancora i piedi doloranti, e persino il polpaccio, dovevo essere messa male se ho avuto un crampo e non mi sono svegliata sentendo il dolore, così vado in camera e mi infilo dei calzini neri, poi prendo le mie converse con il tema della galassia, il cielo è di un nero blu stupendo, e ci sono delle sfumature più celesti e viola in alcune parti con dei puntini di varia misura bianchi per creare le stelle. Una volta infilate le scarpe, prendo i miei Ray Ban Wayfarer neri fuori con il dentro rosa fluo, le lenti nere e me li infilo sulla testa, a mo di passata, poi mi infilo due orecchini a cerchio con le borchie, il bracciale della sera prima a destra e mi guardo allo specchio della mia cabina armadio. Già così si capisce che non passerò la giornata in casa, e ringrazio che domani riprenderò i turni al bar, sinceramente meno sto in questa casa e meglio sarà per la mia salute mentale. Così afferro la mia enorme borsa nera riempita dalla scritta “Pisa” rosa, dove dentro tengo persino il Nintendo 3DSi e un buon libro, e mi sbrigo a uscire di camera.

 

 

Quando arrivo nell'atrio sento del vociare in cucina, così mi sbrigo a entrare in cucina e vedo Castiel seduto davanti a Misery, entrambi che fanno colazione, appena vedo che papà non c'è mi lascio cadere accanto a Castiel e appoggio la testa sulla sua spalla, con un lungo sospiro.

 

«Ehy puffetta» lui sorride e mi bacia sulla testa, prima di circondarmi le spalle con un braccio «Stavo raccontando a tua sorella di come ieri sera fossi estremamente sexy, anche se non riuscivi a mettere due parole in fila» lui ride, mentre Missy alza gli occhi al cielo, ma con un leggero sorriso sulle labbra.

«Sicuramente avevo il trucco sbavato perché ridevo come una foca davanti a un pesce, quindi ero oscena» replico io, mentre allontano i biscotti che mi ha passato Misery «Scusa, sorellina, non ho fame» le sorrido.

«Hai ancora la nausea?» chiede Castiel, osservandomi.

 

Io annuisco, ma mento, mi si è chiuso lo stomaco non appena papà mi ha guardata con un leggerlo schifo negli occhi stamattina, come se mi avesse sorpresa a fare sesso con Castiel, avrei potuto capire la rabbia o lo shock, ma non il disgusto. Papà non aveva idea di quanto mi stesse ferendo, di quando mi stesse uccidendo, pezzetto per pezzetto, presto di me non sarebbe rimasto che un guscio vuoto, consumato anche fuori. In questi casi mi risollevo solo con una cosa. Lo shopping. Non perché io abbia bisogno di altri vestiti, no, semplicemente mi convinco che quei vestiti possano riempire il vuoto che ho dentro, e anche se so che non è così, li compro uguale, anche perché provare i vestiti mi svuota la mente.

 

«Missy, ti va di andare a fare shopping oggi?» le chiedo con un sorriso sul volto.

«Oh caspiterina sì!» i suoi occhi viola adesso brillano dalla felicità.

«Bene, andremo verso le quattro, così mentre io faccio lezione, tu puoi prepararti di tutta calma» le sorrido e mi stiracchio, alzandomi da tavola.

 

Sento la sedia di Castiel stridere sul pavimento e seguirmi sulle scale, lungo il corridoio e fino a dentro la mia stanza degli hobby. Nessuno dei due parla, io mi limito a lasciarmi cadere sulla poltrona appesa e a dondolarmi dolcemente, mentre il mio migliore amico si lascia cadere sul divano. Non ho nemmeno voglia di replicare dei piedi. Sono troppo persa nelle mie tenebre per pensarci. Odio il fatto che papà abbia giudicato Castiel senza prima conoscerlo, o che pensasse che mamma mi avrebbe fatta uscire con lui se prima non avesse persino scandagliato la sua fedina penale. Ho odiato il fatto che abbia detto che non posso uscirci, ignorando il fatto che probabilmente Castiel è stato più presente di lui in tutta la mia vita. E' sempre stato la mia piccola luce nelle tenebre. Il problema è che non è abbastanza forte da ucciderle del tutto, e quando lui se ne va, loro tornano a sommergermi in un mare nero. Sospiro e mi guardo il polso sinistro, notando la forma di una mano leggermente accennata di rosso. Chiudo gli occhi mentre il ricordo mi investe.

 

 

Sono nel bagno bianco con le porte verdi del disco-pub, e sono sola, sono brilla, non totalmente lucida, ma non ancora totalmente ubriaca da non sapere come mi chiamo. Così faccio una prova allo specchio.

 

«M-Mi ch-chiamo... Com'è che mi chiamo?» ridacchio stupidamente mentre ci penso «Ah sì! Mi chiamo Il-Ilenia Dorrrrian» rido, rendendomi conto che ho messo troppe “r” nel mio cognome.

 

Dalla mia mente è appena scomparso il volto furioso di papà e le sue cattive parole. Che vada affanculo.

 

«Sìììì... Afffanculo» rido e mi tengo al lavandino.

 

Sento la porta del bagno aprirsi e chiudersi, poi avverto una presenza alle mie spalle afferrarmi il polso e lasciarmi una scia di baci bavosi lungo il collo, l'odore del tabacco mi investe le narici. Io urlo e ho un altro momento di buio.

 

 

Scuoto la testa, probabilmente ho rimosso i ricordi traumatizzanti della serata e guardo verso Castiel, dubbiosa. Poi scuoto la testa, è impossibile che sia stato lui, non oserebbe tanto. Spero. Lo vedo alzarsi e accedere la 360, poi mi passa un telecomando e sorride.

 

«Scarica la tensione spaccando dei culi flaccidi di zombie» mi conosce troppo bene questo ragazzo. Così sorrido e accetto l'offerta.

 

Passiamo la mattinata a finire la campagna di Leon e iniziamo quella di Chris. Io non penso più alla terribile giornata di ieri, ma sembra impossibile che io abbia tanto desiderato il ritorno di papà, e ora desidero tanto che torni a Seattle, senza più tornare qua. Non mi sento in colpa per questi pensieri, e non capisco il perché, si può arrivare a non sopportare così tanto il proprio padre? Guardo Castiel, anche se lui ora vive da solo, non odia i suoi, anche se si vedono poco per colpa del loro lavoro, sua madre Valerie, una donna sui quarantadue anni, con dei lunghi capelli castani, con la piega mossa, e le punte rosse come i capelli del figlio. Due enormi occhi castani tendenti al rosso. E' leggermente in carne ed è più bassa di poco di Castiel. La pelle è leggermente abbronzata, perfetta per un hostess. Mentre suo padre, Joan Louis, è la fotocopia invecchiata di Castiel. I capelli sono corti e neri, gli occhi grigi e contornati da piccole rughe. Lui invece è un pilota, è uomo taciturno, molto spesso il poverino viene sottomesso da Valerie. Per questo sono raramente a casa. In tutti gli anni di amicizia con Castiel li ho visti sì e no dieci volte. Sua madre stravede per Castiel, e ha il solito temperamento fumino, infatti a una giornata a porte aperte al liceo ha litigato con i genitori di Nathaniel, perché davano dello scapestrato a suo figlio e della poco intelligente a me per essergli amica nonostante fossi la ragazza di loro figlio. Penso che loro mi adorassero per il mio bel patrimonio, non come Valerie o Joan Louis, che mi adorano per il mio essere perennemente fuori controllo e solare. Quando ero a casa di Nathaniel non ero mai me stessa. Ero una Ilenia rigida, sempre sotto pressione, controllata e moderata. Mentre con Castiel e i suoi genitori ero, e sono, me stessa, o meglio, il costume di me felice e solare, mentre la vera me ribollie al di sotto di esso.

Quando è ora di pranzo mamma ci viene a chiamare.

 

«Ile? Ci sono i miei genitori, restano a pranzo» mi dice mamma guardandomi.

«Non scendo per pranzo, grazie mamma» dico senza staccare gli occhi dalla TV «E quando viene il professore, mandalo qua, e alle quattro esco con Misery» le dico, autoritaria.

 

Mamma non replica e esce chiudendo la porta. Sparo in testa a un J'avo e immagino la testa di Claudine al posto di quella del mostro. Non ho di certo voglia di sopportarmi anche i miei nonni materni dopo questa mattinata infernale e la giornata di ieri praticamente da dimenticare. Penso solo alla povera Misery che dovrà sopportarsi i nonni, ma forse l'ameranno, dato che è come la mamma. Non vedo l'ora che siano le quattro per andare a fare shopping con la mia sorellina, ma nell'attesa, continuo a uccidere gli zombie, e vanno giù come birilli, proprio come la mia vita.

 

 

-<>-*-<>-

 

 

La mite brezza entrava nella stanza portando con se la luce che rischiariva l’intero ambiente.

 

I need a hero to save my life
I need a hero just in time
Save me just in time
Save me just in time”

 

Risuona lo stereo mentre io canticchio quella canzone che amo alla follia.

 

Who's gonna fight for what's right
Who's gonna help us survive
We're in the fight of our lives
(And we're not ready to die)”

 

Continua la canzone, che io continuo a canticchiare, mentre immersa nei miei pensieri mi soffermo a contemplare la matita da disegno perfettamente appuntita che rapida volteggia sul mio prezioso album da disegno lasciando una lieve traccia delle mie idee che già compongono la mia linea di moda personale nella mia testa.

 

«Misery il pranzo è pronto, potresti raggiungerci il sala da pranzo?» Chiede mamma bussando con le nocche della mano destra sulla porta della mansarda lasciata aperta.

 

Io alzo lo sguardo da dietro i miei raffinati occhiali da vista, che indosso solo per cucire e per disegnare in modo a dir poco perfetto, in stille anni cinquanta con l’allungata montatura nera tempestata di minuscoli e preziosissimi diamantini sulla parte più esterna, prendo il mio orologio da taschino per controllare l’ora e apro il quadrante notando che sono le 12:45.

 

«Spengo lo stereo e vi raggiungo madre.» Dico alzandomi in piedi e sistemando la scrivania in modo che tutto torni in perfetto ordine.

«Oggi ci sono i miei genitori a pranzo, ti aspettiamo giù Misery.» Dice lei voltandosi e scendendo le scale.

 

Se ne va via così, nessun nomignolo affettuoso, nessun tesoro, nessun piccina, nessun vezzeggiativo che usa sempre quando parla con Ilenia inoltre i sorrisi dolci nei miei confronti si sono fermati al mio arrivo, mentre ora il rapporto è diventato freddo e molto più formale di quanto sognassi. Tutto sommato però non gliene faccio alcuna colpa, non mi importa perché lo ritengo normale vista la lunga lontananza e sono certa che col tempo le cose si sistemeranno permettendomi di avere un rapporto affettivo vero con la mia vera madre, o almeno lo spero. Sistemo la sedia accuratamente sotto la scrivania e mi dirigo allo stereo spegnendo a malincuore le stupende note di Hero che pervadono l’intera stanza. Mi dirigo alla scala a chiocciola in ferro battuto nero che porta direttamente alla mia stanza. Mi specchio controllando il mio look sulla porta della mia mia cabina armadio. Quella mattina avevo indossato un abito corto di color viola con le maniche lunghe e le spalle scoperte, la scollatura del vestito era lineare e il vestito stretto fino al punto vita per poi terminare con una gonna morbida che scivolava elegantemente sui miei fianchi terminando dolcemente poco più su dell’altezza delle mie ginocchia, il look è ricco di accessori che io da sempre amo. Indosso un gilè in ecopelle nero corto che termina poco più in basso del seno accentuandolo, ho delle parigine nere con dei sobri reggicalze in raffinato pizzo nero, indosso un paio di orecchini pendenti che terminano con una goccia d’ametista il cui viola è largamente accentuato dall’argento della struttura di questi ultimi, la stessa goccia è riportata sul ciondolo che, grazie alla catenina in argento, pende sulla mio collo. Oltre a questi indosso tre raffinati bracciali in argento sul polso destro e un anello, anch’esso nel medesimo materiale, col simbolo dello Ying e Yang sul dito medio della mano sinistra. L’intero look è perfetto se non fosse per le mie amate ciabatte pelose che hanno lo stesso effetto di un pugno sullo stomaco. Così le tolgo riponendole alla destra del letto ed entro nella cabina armadio cercando il paio di scarpe più adatto, apro i mobiletti ed esploro le scarpe riordinate per colore e per tipologia, prendo un paio di stivaletti con tacco alto ed il platò davanti di colore viola. Papà continua a non apprezzare questo genere di scarpe, ha paura che possa ferirmi ad una caviglia o peggio, ma ogni volta che indosso scarpe simili io mi sento in paradiso. Rispetto papà e le sue opinioni, ma che cavolo ho diciotto anni e almeno sul mio look pretendo di poter scegliere da me. Le indosso e mi sento un'altra, mi sento fiera di me stessa, mi sento forte, mi sento in grado di fare qualsiasi cosa, perfino tenere testa alle pressanti preoccupazioni di papà. Mi controllo un ultima volta allo specchio, il trucco è semplice e identico a quello del giorno precedente, concludo controllando i capelli che la mattina avevo lisciato dopo la doccia e sui quali spiccava un lago cerchiello a fascia dello stesso viola dell’abito che indosso. Mi sorrido e poi esco dalla mia stanza con passo leggiadro mentre i miei stivaletti eleganti fanno il tipico ticchettio che tanto amo nelle scarpe col tacco. Non so perché, ma quel rumore mi ha sempre dato tranquillità in più quel suono accentua il mio portamento.

 

Scendo le scale mentre ripenso alla mattinata trascorsa, penso a Ilenia che ci chiude la porta in faccia, a papà che cerco in qualche modo di calmare e a cui dico di non essere tanto rigido e di darle tempo, sono stati distanti così a lungo che lui non può pretendere di poterle stravolgere la vita, penso a quel ragazzo il cui sguardo mi gela il sangue nelle vene, mi guarda come se volesse qualcosa da me, qualcosa che non gli voglio dare e che non gli darò mai, ripenso a come ero vestita quando Ilenia me l’ha praticamente lanciato addosso facendolo uscire dalla sua camera, allo sguardo di lui rivolto alla mia sottoveste semi traspare, a quel suo inquietante sguardo e a quel suo irritante sorriso, ripenso allo schiaffo che gli ho tirato prima di entrare nella mia stanza ed indossare una vestaglia nera, poi ripenso alla colazione dove lui ha parlato della sera precedente ed infine penso a quel sorriso spontaneo e sincero che solo lui sa far spuntare sul volto di Ilenia. Per ora quel tipo proprio non lo sopporto, mi fa saltare i nervi il che è difficile, ma se permette ad Ilenia di essere felice allora dovrò cominciare ad evitare di giudicarlo a priori, come dico sempre a papà mai giudicare un libro dalla copertina.

 

 

Giungo nell'ampio ingresso e noto due distinti signori parlare con mamma, evidentemente quelli devono essere i nonni o almeno credo, non mi ricordo molto di loro, anzi sinceramente non ricordo proprio nulla sui miei nonni materni, papà cambiava sempre argomento quando chiedevo di loro. Li osservo attentamente studiandoli in silenzio da lontano. La donna avrà all’incirca settantotto anni, hai i capelli grigi raccolti in una perfettamente ordinata crocchia, i suoi occhi sono piccoli con uno sguardo freddo e severo che sembra spegnere lievemente il naturale bagliore di quelle due iridi violacee, le labbra sono sottili ed accentuate da un rossetto color rosso fuoco, possiede una pelle olivastra solcata dalle piccole rughe dovute all’età, indossa un raffinato tajer vecchio stile di colore blu oltremare con cuciture, rifiniture e bottoni di color bianco candido come l’elegante camicia che indossava in abbinamento. L’uomo invece avrà circa ottant’anni, i suoi lineamenti sono freddi e duri, oserei quasi dire nordici se non fosse per quella chioma color grigio scuro, chiaro segnale che possedeva una capigliatura corvina in giovane età, i suoi occhi sono come due freddi pezzi di ghiaccio che sembrano quasi inanimati, per finire indossa uno completo da uomo di color nero con eleganti scarpe in vernice dello stesso colore, camicia bianca e cravatta blu oltremare annodata da un perfetto nodo windsor, sorrido ripensando a tutte le volte che papà è uscito senza cravatta quand’ero piccola e le lotte che ho fatto col collo del manichino per imparare a fare quel nodo per poi sistemargli la cravatta ogni volta in cui doveva uscire per qualche incontro importante a lavoro, ha sempre detto che il mio nodo perfetto gli è valso svariate vittorie in affari molto importanti per lui.

Scendo gli ultimi scalini e gli occhi vitrei del nonno sono i primi a notare la mia presenza.

 

«Buongiorno signori.» Dico facendo un lieve inchino nei confronti dei due anziani.

«Buongiorno a te cara Misery. Finalmente sei tornata.» Dice la donna abbozzando un sorriso su quel volto severo. «Ti ricordi di noi? Siamo i nonni Claudine e Pierre.» Conclude indicando l’uomo affianco a lei che mi saluta con un cenno del capo.

«Certo nonna, mi ricordo di voi.» Mento, ma a fin di bene. «Sono veramente felice di potervi rivedere.» Concludo sorridendo loro.

 

In realtà l’unica cosa che so di loro è che sono i miei nonni, quando apparivano i loro volti sull’album fotografico papà diceva solo che erano i miei nonni materni e nient’altro, non sembrava avere alta stima di loro e non ne ho mai capito il motivo.

 

«Oddio è tardissimo.» Urla papà scendendo le scale di corsa con due cravatte in mano ed illuminandosi non appena mi vede. «Piccola mia fortunatamente sei qui, quale metto?» Chiede sventolando due cravatte di fronte al mio naso.

 

Io le osservo per un secondo, sono una grigio chiaro ed una blu, lui indossa un completo grigio chiaro con una camicia nera e sembra essere ad un punto di crisi. Io gli sorrido, capendo che non si fermerà a pranzo e allungo la mano per prendere la cravatta grigia e annodandogliela con un nodo windsor.

 

«Ecco fatto papà, buona fortuna.» Dico prendendo l’altra cravatta e dandogli un ben augurante bacio sulla guancia.

«Grazie mille piccina mia, come sempre mi salvi la vita.» Dice arruffandomi affettuosamente il ciuffo che io mi sbrigo a riportare in perfetto ordine, odio i capelli in disordine, odio il disordine in generale. «Scusami amore mio.» Dice poi dando un bacio alla mamma. «Pierre, Claudine. Buona giornata.» Conclude salutandoli con un gesto del capo prima di uscire e raggiungere l’autista che lo avrebbe portato al suo pranzo aziendale.

«Venite il pranzo è pronto.» Aggiunge mamma sorridendo ai presenti.

«Perdonatemi, vado a sistemare questa cravatta e vi raggiungo.» Dico facendo nuovamente un inchino nei loro confronti per poi salire le scale diretta in camera di papà anche se sento distintamente Claudine sussurrare a mamma.

«Questa ragazza ha un educazione ed un portamento impeccabile nonostante abbia passato così tanto tempo con quell’essere ignobile. Lei è un orgoglio per la nostra famiglia.» Sussurra la nonna soddisfatta ed altezzosa.

 

Porto la cravatta al suo posto e poi li raggiungo in sala da pranzo. Il pranzo passa serenamente, io chiacchiero coi nonni delle mie passioni per la moda, per il disegno, per la lettura e per la scrittura. Parliamo dei miei autori preferiti, tra cui ci sono letterati inglesi, francesi ed italiani. Mi fanno miliardi di domande e di complimenti, mi parlano del più e del meno e sembrano apprezzare pienamente tutto ciò che dico o faccio. Forse sarà strano da dire, ma credo che loro siano i primi componenti della famiglia che, dopo Ilenia, apprezzano e valorizzano il mio ritorno. A proposito di Ilenia chi sa perché non è scesa a mangiare con tutti noi? Spero non se la sia presa con me visto che ho deciso di ultimare di ordinare il mio laboratorio invece che stare con lei ed quel suo bizzarro amico questa mattina.

 

«Mi scuso enormemente con voi, ma ho delle faccende da ultimare e non posso continuare a rimandarle. Sono felice di avervi rivisto nonni. Vi voglio bene.» Dico alzandomi da tavola e cominciando a raccogliere i piatti.

«Tranquilla Misery, oggi le pulisco io le stoviglie. Vai pure ad ultimare ciò che stavi facendo questa mattina.» Aggiunge mamma togliendomi i piatti di mano.

«Ne è sicura madre? Li lavo tranquillamente, non ho problemi.» Dico sorridendole.

«Sì Misery, vai pure.» Dice lei abbozzando un sorriso.

«Che ragazza educata ed altruista. Nipotina mia sei stupenda.» Conclude nonna elogiandomi eccessivamente a mio parere.

 

 

Quando arrivo in mansarda controllo l’ora sul mio orologio da taschino tornando a sedermi alla scrivania e noto che sono le 13:55, prendo la mia agenda viola con cuciture nere e, aprendola sul giorno di oggi, controllo i programmi per il resto della giornata, ho scritto solo due appuntamenti, lo shopping con Ilenia alle 16:00 e la cena alle 20:00. Io segno qualsiasi cosa mi capiti sulla mia agenda perché non posso vivere senza organizzare ogni singola mia azione e tutto ciò che faccio ha un ordine a dir poco perfetto. Passo un'altra mezz’ora a disegnare modelli poi ripongo matita ed occhiali al proprio posto scendendo in camera con il mio fidato blocco al seguito e mi dirigo nella mia cabina armadio per cambiarmi. Mi spoglio restando con addosso soltanto il completino intimo in pizzo nero, mi guardo attorno prendendo un paio di jeans neri a vita bassa con ricami bianchi, i tipici ricami che si ritrovano spesso sulle giacche dell'epoca vittoriana, sulla parte alta anteriore della gamba. Son indecisa su cos'altro mettermi, ma se uscissi di casa così sicuramente a papà verrebbe un colpo. Sorrido all'idea e poi comincio a guardate ad uno ad uno tutti i miei top, li osservo tutti però ogni possibile abbinamento mi passa per la testa con scarsa convinzione fino a quando non mi soffermo su un corsetto comprato un paio di mesi fa, lo osservo attentamente prima di indossarlo e di mettermi di fronte allo specchio per stringere ed annodare il laccetto nero sul retro. Mi guardo allo specchio e osservo il look ottenuto. Il corpetto è di colore viola e, in quanto tale, senza spalline. Le mie candide spalle sono nude e scheletriche, su di esse intravedo solo le due finissime spalline del mio reggiseno nero, per il resto noto il mio corpo con le braccia troppo magre per una ragazza di quell’età. Sospiro e torno a fissare il corpetto che ha una rusche verticale in stile vittoriano, più stretta al cento e man mano sempre più larga, sulla parte anteriore, essa è fermata sul corpetto da una fascia di pizzo nero lavorato con ricami bianchi posta orizzontalmente sopra di esso con un medaglione argenteo al centro per fermare il tutto. Il look ottenuto mi piace, ma è ancora incompleto dato che non nasconde le mie odiate braccia, cosi vado nella zona della cabina armadio in cui tengo tutte le giacche. Ne prendo una di quelle nere, è in denim, ma molto elegante, è corta mezzo busto con le maniche lunghe e il colletto bordato di bianco, non era la prima volta che indossavo quella giacca unita a qui particolari jeans, così avevo deciso di riprodurre lo stesso articolato ricamo bianco del pantalone sull'intera manica sinistra di quella giacca, quel ricamo mi era costato due mesi di lavoro, ma ne era valsa la pena. Mi siedo di fronte alla specchiera da trucco e tolgo la fascia dai capelli spazzolandomeli nuovamente soffermandomi a notare la lunghezza delle punte mentre penso a quanto siano corti rispetto a quelli di mia sorella.

 

«Lei ha dei capelli così luminosi e così sani, i suoi capelli sono splendidi mentre i tuoi sono così spenti, sono molto più corti di quanto sognavi. Tu da piccola eri quella che giocava a vestirsi con gli abiti di mamma e ad essere la modella coi lunghi capelli fluttuanti al vento. Tu vorresti i suoi capelli, tu vorresti essere lei, ma tu non sei lei.»

 

Sbatto le ciglia una decina di volte, ogni volta che quella vocina nella mia testa mi dice qualcosa io per tornare alla realtà mi affido a questo mio apparentemente insensato tic, sospiro e controllo che tutto sia ancora in ordine sul mio viso. Ripasso il rossetto che si è scolorito e poi sistemo i trucchi al loro posto, gli occhi sono ancora perfetti come quando gli ho truccati quella mattina quindi decido di non toccarli, tengo addosso gli stessi gioielli e mi rimetto gli stivaletti indossati in precedenza. Apro uno dei cassetti della specchiera di fronte a me e ne estraggo un cerchiello finissimo di colore viola con apposta sul lato destro una gigantesca rosa del medesimo colore dalla quale scendevano degli eleganti filamenti di colore bianco e nero, lo indosso e mi specchio notando il risultato finale. Rimettendo tutto ciò che avevo usato nel posto in cui gli competeva per far tornare tutto in perfetto ordine, tutto deve assolutamente essere in ordine.

 

«Sistemare ciò che ti circonda non sistemerà la confusione all’interno dei tuoi pensieri.»

 

Ancora quella voce e ancora quel tic, scuoto la testa per poi controllare l’ora sul mio fidato orologio. Sono le 15:45, in fondo non ci ho messo molto. Mi alzo prendendo la mia shopper di colore viola con all’interno ben custodito il mio fidato blocco da disegno ricolmo di modelli, il mio cellulare che non uso mai, la mia agenda, una penna ed il portafoglio, mi aggancio la catenina dell’orologio da taschino ai passanti per la cintura dei jeans e ripongo in tasca l’orologio. Esco dalla cabina armadio e, portando gli abiti sporchi a lavare nel bagno del primo piano, mi dirigo nell’atrio ad aspettare l’arrivo di Ilenia.

 

«Misery, posso parlarti un attimo?» Dice la voce di mia madre raggiungendomi dalla cucina.

«Certo madre, dimmi.» Dico sorridendole.

«Mi dispiace per non averti difeso ieri sera è che sono abituata ad Ilenia che si sa difendere da sola ed ecco… insomma io…» Aggiunge lei distruggendosi nervosamente le dita, so cosa significa quel gesto, io lo faccio sempre quando sono nervosa, in imbarazzo oppure dispiaciuta.

«Mamma non importa, non me la sono presa.» Dico abbracciandola, la sua reazione è un po’ tardiva forse, ma almeno questo mi dimostra che forse in fondo tiene anche a me.

«Scusami.» Conclude lei a capo chino.

«Tranquilla.» Dico sorridendole.

«Missy dai andiamo.» Aggiunge Ilenia correndo giù dalle scale.

«Arrivo. Ciao mamma.» Dico seguendola e salutando mia madre.

«Ciao piccole mie, buon divertimento.» Conclude mamma chiudendo la porta.

 

Mi infilo i miei occhiali da sole firmati Gucci, con lenti grandi e tondeggianti di un nero sfumato che tende quasi al violaceo e montatura nera sottile ed elegante, mentre camminiamo per fino ad arrivare alla tettoia sotto la quale è parcheggiata una stupenda BMW X6 nera metallizzata di ultima generazione con interni in pelle di colore nero e cuciture rosa. Ilenia tira fuori dalla sua borsa un mazzo di chiavi con un gigantesco portachiavi raffigurante il fiocco di mini e apre lo sportello di guida con la tipica chiave recante il logo della BMW.

 

«Avanti sali.» Mi dice aprendo lo sportello.

 

Io mi accomodo sul posto del passeggero affianco a quello del guidatore e la osservo mettere in moto quel bolide e avviarsi verso la nostra destinazione.

 

«Allora che ne dici?» Mi chiede senza togliere lo sguardo dalla strada.

«Wow, la tua macchina è pazzesca.» Commento guardandomi attorno estasiata.

«Papà non te l’ha mica comprata un auto?» Chiede lei mentre un sorriso compiaciuto appare sul suo volto dopo il mio commento.

«Hem… No. In realtà io della patente ho fatto solo la teoria e anche se l’ho passata con zero errori lui non mi ha mai fatto prendere la pratica.» Cerco di nasconderlo, ma il mio tono è evidentemente seccato e deluso da questo fatto.

«Ma che problemi ha quel tipo?» Aggiunge lei inarcando un sopracciglio e stringendo la presa sul volante restando con lo sguardo fisso sulla strada.

«Sicuramente l’ha fatto solo per paura che potessi farmi del male. Poco importa prenderò di nuovo la teoria qui e poi mi farò anche la pratica.» Aggiungo sorridendole, pur non riuscendo a nascondere una lieve invidia nei suoi confronti.

 

 

Il resto del viaggio lo passiamo in silenzio e dopo una decina di minuti di strada Ilenia entra in un gigantesco parcheggio dove lascia la sua macchina chiudendola a chiave e avviandosi verso il gigantesco centro commerciale di fronte a noi. Io prendo la mia agenda e la penna, controllo l’orologio e poi scrivo con la mia elegante grafia.

 

*Ore 16:10 Arrivo al parcheggio del Centro Commerciale Manù, parcheggio A7, posto macchina 17.*

 

Dopo aver scritto ciò seguo mia sorella all’interno di quell’enorme centro commerciale guardandomi attorno estasiata dalle vetrine.

Il centro commerciale ha i colori prevalenti del bianco, del nero e dell’azzurro spezzati ogni tanto da qualche albero che da atmosfera aggiungendo un po’ di verde qua e là. Il centro commerciale è enorme con al suo interno tre piani distinti. Sul primo si trovavano i negozi di alimentari, le salumerie, le panetterie, le gelaterie e un paio di ristoranti. Sul secondo piano invece troviamo tre bar e svariati negozi di elettronica, di libri, di musica e di strumenti. Per finire il terzo piano ha la presenza di altri due bar affiancati a centinaia di negozi di vestiti, gioiellerie, di scarpe, di accessori e pelletterie. Chiacchierando del più e del meno ci avviamo verso le scale mobili, io l’accompagno in un negozio di videogiochi dove la vedo ispezionare accuratamente tutti i titoli di quei… insomma di qui cosi. Sinceramente non capisco come sia lei, sia il mio caro Armin possano adorarli? Io non ci capisco proprio nulla di queste cose e mi sente lievemente persa qui dentro, guardo Ilenia che parla una lingua strana con il commesso, sento parole di cui conosco il significato, ma di cui non capisco il contesto, mi gira la testa in questo negozio. Uscite da lì passiamo di fronte ad una libreria e io entro iniziando a cercare ovunque un nuovo libro da leggere, ma i titoli che mi piacciono li ho tutti già a casa, usciamo da quel negozio ed entriamo in un edicola dove acquisto dei magazine di moda continuando a seguire Ilenia in giro per negozi.

 

«Vieni, devi assolutamente conoscere delle persone. C’è un negozio in cui dobbiamo assolutamente andare.» Dice lei prendendomi il polso e affrettandosi a condurmi al terzo piano.

 

Corre come la luce di fronte a centinai di stupendi negozi di vestiti facendomi sognare le loro vetrine fino a quando non arriva di fronte ad un negozio d’abiti particolare. La vetrina è contornata da scritte e decori violacei e all’interno si intravedono centinai di stupendi vestiti avvolti sui pregiati manichini oppure appesi alle relle o piegati sugli scaffali bianchi di quel negozio dalle pareti di quell’incantevole lilla. Entriamo ed io mi soffermo ad osservare la fattura di quei magnifici abiti così finemente lavorati tutti unici, ma tutti ugualmente sensazionali.

 

«Rosa? Leigh? C’è nessuno?» Chiede Ilenia appoggiandosi al bancone.

 

Io sono estasiata da tutto ciò che mi circonda, seta, cotone egiziano, pizzo, tulle, satin e tantissimi altri tessuti erano resi a dir poco stupendi da una mano fine ed elegante. In questo luogo io mi sento a casa, posso immergermi nella vera me stessa e parlare finalmente di complicato stile in questo luogo così colmo di meraviglia.

Mentre io giro senza meta all’interno del negozio una ragazza dai lunghi capelli bianchi si avvicina a mia sorella e le sorride, io non bado molto a lei visto che sono intenta a girovagare in quello che sembra a tutti gli effetti essere il mio modo. In quel luogo mi sento come una sirena che nuota libera nei suoi oceani.

 

«Posso aiutarla in qualche modo?» Dice una voce maschile alle mie spalle.

 

Io mi volto e vedo un ragazzo alto con dei capelli corti neri tagliati in modo irregolare, un viso dolce anche se lievemente squadrato e due occhi neri fissarmi. Lo osservo un attimo prima di rispondere alla sua domanda e noto che indossa dei particolari abiti scuri in stile vittoriano, abiti che solitamente i ragazzi della mia età non portano, o almeno Alexy mi aveva detto che cose simili non le avrebbe mai più messe nessuno. Alla faccia tua Al, c’è ancora chi indossa questo stile, avevo ragione io. Penso mentre sul mio volto appare un enorme sorriso di soddisfazione.

 

«Ha notato qualcosa che le interessa?» Mi chiede a quel punto il ragazzo notando che non gli do risposta.

«Non ho bisogno di nulla, la ringrazio. Stavo solo notando la vastità dei tessuti trattati nella creazione degli abiti di questo negozio e la rifinitura quasi millimetrica dei capi esposti. Per esempio il punto royalty utilizzato in queste rifiniture è molto accurato e al giorno d’oggi è difficile trovare chi sa ancora riproporlo con tale maestria.» Rispondo cortesemente al ragazzo, solo in un negozio di vestiti potevo dire una frase così lunga ad un ragazzo senza bloccarmi, balbettare o arrossire.

«Non è da tutti distinguere le diverse qualità dei tessuti e i diversi stili di cucitura, lei si intende di moda a quanto sento.» Dice lui abbozzando un sorriso.

«Puoi dirlo forte Leigh.” Aggiunge Ilenia avvicinandosi a noi a braccetto della ragazza di poco prima che mi corre incontro abbracciandomi.

 

Io resto un po’ di sasso di questa sua reazione e non capisco il motivo di tutto ciò, ma vedendo che non mi lascia ricambio timidamente quell’abbraccio dicendo.

 

«Hem… Scusami ci conosciamo?» Dico osservando la ragazza che si stacca finalmente da me.

 

Prima di ascoltare la sua risposta però mi soffermo un attimo ad osservarla. Hai dei lunghissimi capelli lisci di un colore bianco che tendono quasi all’argento data la loro lucentezza, i suoi occhi sono perfettamente truccati con un velo di nero che accentua il suo sguardo dorato che brilla come quando ad un bambino si regala una caramella, ora ho paura che di essere io la caramella in questo caso, speriamo non mi mangi. Continuo ad osservarla e noto che indossa degli stupendi stivali neri col tacco che le coprono l’intera gamba fasciandola fino al ginocchio, gli stivali hanno rifiniture dorate e laccetti neri, sopra di essi indossa un abito bianco corto con orlo ondulato e le maniche che coprivano tre quarti della lunghezza del braccio, queste sono fermate da un polsino in stile con quelli di una camicia di colore viola fermati da un piccolo bottoncino dorato, sopra questo vestitino bianco indossa una giacca corta ed elegante con due eleganti e lunghissime code sulla parte posteriore, è di colore nero con bottoni e rifiniture dorate, a concludere il suo look indossa una cravatta sottile dello stesso viola dei risvolti della camicia fermata da un nodo semplice. Continuo ad osservarla e mi chiedo come mai i suoi occhi brillino alla mia vista, non credo di averla mai vista prima e quella sua gioia che sprizza da tutti i pori sembra quasi inumana, questa ragazza fa quasi paura.

 

«In realtà non ci conosciamo, ma a me sembra quasi di conoscerti. Con tutte le volte che Ilenia mi ha parlato di te sento quasi di conoscerti da sempre. Comunque mi presento, mi chiamo Rosalya Levorston e sono la migliore amica di Ilenia.» Aggiunge spostandosi una ciocca dei lunghi capelli dietro l’orecchio.

«Il piacere è mio, credo, sono Misery Dorian, la sorella di Ilenia.» Affermo osservando la ragazza che continua a sorridere. Non so perché, ma ho come l’impressione che lei e Alexy potrebbero diventare amici per la pelle, credo se lui fosse una ragazza sarebbe esattamente così, ma ovviamente con occhi e capelli differenti.

«Ilenia è lei la ragazza di cui ci hai parlato tanto?» Chiede il ragazzo a mia sorella con un espressione lievemente sconvolta. «Per me è un immenso piacere fare la sua conoscenza signorina Dorian, io sono Leigh Ainsworth stilista e proprietario di questo negozio, sua sorella ci aveva parlato delle sue doti, ma fino a che non l’ho sentita parlare non riuscivo quasi a crederci.» Dice facendo un lieve inchino nella mia direzione.

«Allora queste sono tutte tue creazioni? Il piacere di conoscerti è tutto mio in tal caso. Il tuo lavoro è a dir poco sublime.» Aggiungo osservandomi attorno estasiata.

 

Chiacchieriamo per una mezzora ancora e Ilenia mostra loro delle mie foto dove indosso le mie creazione. Si può sapere quando mai me le ha scattate poi ste foto? Comunque sia, torniamo a noi. Il tempo vola mentre noi restiamo lì a parlare del più e del meno. Tra i tanti discorsi Leigh si fa sfuggire che sono a corto di personale e, sotto le intimidazioni di Rosa ed Ile, aggiunge che se mi interessa il posto è mio. Ci penserò, ma ammetto che la proposta non mi dispiace affatto, questo posto è a dir poco stupendo e poi sembra che io non abbia scelta data l’insistenza di queste due dolcissime psicopatiche.

 

 

Torniamo al parcheggio quando ormai è l’ora di chiusura, il parcheggio è ormai vuoto così troviamo l’auto con semplicità e partiamo con direzione casa. La strada è libera e il tragitto sembra quasi essere più corto di quello percorso durante l’andata, arriviamo a casa e io controllo il mio fidato orologio da taschino.

 

 

Sono le 19:30, entriamo in casa e andiamo a poggiare le borse con all’interno gli acquisti di quel pomeriggio. Io non ho comprato molto, soltanto un paio di stoffe di colori scuri, alcuni magazine di moda e un nuovo paio di forbici da cucito, sistemo il tutto e poi raggiungo Ilenia e i nostri genitori in sala da pranzo dove ceniamo immersi in quell’atmosfera elettrica dovuta ai continui litigi tra papà e Ilenia. Spero la cosa non continui ancora a lungo o le cose potrebbero diventare molto presto insostenibili. Dopo cena Ilenia mi invita a vedere un film con lei nella sua sala hobby e senza rendercene conto ci siamo addormentate sul suo divano con la testa l’una sulla spalla dell’altra curiose di quali nuove avventure ci avrebbe riservato il nostro futuro.



Angoletto delle autrici: 

Salve! Dopo... Tre mesi... Rieccoci! SCUSATECI TANTO! Davvero >.<
Dunque, questo capitolo è frutto di mesi di duro lavoro! Bugia ahaha in realtà Misery doveva studiare per la maturirà :3

Però ehy, eccovelo qua :3 in ritardo ma sempre di venerdì u.u
Dunque non abbiamo nulla da dire ahaha quindi bon ci leggiamo il prossimo venerdì :3 *passarono altri 3 mesi*
Scherziamo!
Ah il primo vestito indossato da Misery è una creazione della scrittrice :3 è made in Misery007 :3 Baci e abbracci e un biscotto u.u/
IleWriters Misery007


 

Pubblicato il: 3 luglio 2015

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3030829