I Ricordi

di Aphasia_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione: amore e sogno ***
Capitolo 2: *** Seconda prefazione- tre episodi ***
Capitolo 3: *** Prima tappa: l'Orfana ***
Capitolo 4: *** Seconda tappa: la Disillusa ***
Capitolo 5: *** Terza Tappa: la Muta ***
Capitolo 6: *** Dall'altra parte dello specchio ***



Capitolo 1
*** Prefazione: amore e sogno ***


Io ti amo

Era così vivido, reale. Potevo percepirlo, dalla testa ai piedi, dal cuore allo spirito.

Lui mi disse esattamente quella frase, soltanto quella. E poi svanì con il risveglio. Era stato soltanto un sogno. Lo era? Mi aveva stregato con poche parole, senza nemmeno esistere fisicamente, senza nemmeno conoscermi. Lo sconosciuto che mi aveva dichiarato amore eterno era alto, ma non era nient'altro che una sagoma, la sagoma sconosciuta di una persona conosciuta. Se solo avessi potuto scorgere il suo viso, vedere chi fosse... Ma in fondo non è questo lo scopo dei sogni? Mostraci l'ignoto attraverso elementi conosciuti. Allora mi aveva mostrato il futuro? Qualcuno mi amerà? Ci stavo pensando da giorni. Poteva essere possibile che qualcuno mi amasse in un mondo che non era quello in cui viviamo? E pensavo anche al fatto, ancora più sconvolgente, che io non avessi risposto alla sua dichiarazione, come ci si aspetterebbe. Ti amo anch'io. Nulla. Solo calore suo e freddezza mia. O forse era solo perché il sogno era finito? Forse, se fosse continuato, forse avrei potuto elaborare una frase così scioccante, rispondere, ricambiare il mio amore... E forse ancora l'amore- così come i sogni- non aspettano nessuno. Non c'è tempo di amare, non c'è tempo di sognare.

 

 

 

«Non so, io ti invidio»

«E per quale strano motivo?» chiesi

«Tu puoi viaggiare. Spostarti. E io non so che darei...»

«Non se sei una persona così sola come me» ero afflitta. Non ero mai stata sola finora, avevo sempre avuto almeno un personaggio bizzarro al mio fianco con il quale parlare, nel posto in cui vivevo. Non avevo nessun motivo per lamentarmi. Ma sentivo che qualcosa ancora mancava, come se fosse stato possibile. Sapevo cosa mi mancava, e sapevo anche come ottenerlo, ne avevo i mezzi, ero l'unica che potesse viaggiare, muoversi ( nessuno ancora sapeva come facessi, nemmeno io), dovevo soltanto agire. Mi mancava quel “ti amo”.

«Ma so come fare a non essere più sola» dichiarai.

Il mio interlocutore, l'ennesimo personaggio bizzarro della mia giornata, mi guardò incuriosito e in attesa della mia clamorosa rivelazione.

«Io andrò a cercarlo» dissi infine.

«Ma chi?» chiese il bizzarro.

«Il ragazzo del sogno!» esclamai.

«Tu sei pazza! E se non fosse capace di vederti?» sbottò il mio interlocutore «Ti rendi conto dell'enorme fortuna che possiedi? Sei una viaggiatrice! Puoi vedere posti, persone, puoi fare cose che non ci sarebbero concesse, puoi esplorare il mondo senza sensi di colpa, senza legami, senza condanne. Tu sei libera, e scegli d'inseguire una causa persa? Un sogno?».

«Sì, sì, sì, si! E sai perché?» gli dissi, e, senza nemmeno dargli il tempo di rispondere, aggiunsi «Perché ho il sacrosanto diritto di sognare».

 

Partii il giorno stesso, lasciando tutti i personaggi bizzarri scioccati. Eccola, è la ragazza che parte alla ricerca del ragazzo che dice di amarla, del ragazzo del sogno. È completamente folle, spreca un dono, ciò che tutti le invidiano, per inseguire l'amore, un sogno. A che le servono queste cose, dopotutto? Pazza e sciocca. Amare ed essere amati è una fregatura, sognare è inutile, nient'altro che un'azione che ci capita raramente e che, se capita, non costituisce nulla di che, immagini, ricordi, stralci di vita, tutto qui: questo era quello che pensavo tutti, ne ero certa. Ma era l'unico modo per non essere più sola, era l'amore. E se non potevo entrare in quel sogno, lo avrei cercato nella realtà, e come sfruttare al meglio il mio dono se non per la ricerca dell'amore?

Quello era il mio atto di coraggio, era la mia ricerca della verità, della bellezza, della mia salvezza. Quello sarebbe stato il mio primo vero viaggio. Senza rischi. Senza nessuna difficoltà. Perché io avevo un dono, ed ero l'unica ad averlo, la prima e l'ultima.

Ci chiamano fantasmi, ma, secondo me, non siamo che ricordi. Siamo morti, sono morta, certo, ma preferisco di gran lunga definirmi “ricordo”. Perciò, sono l'unico “ricordo” capace di viaggiare. Quelli come me possono anche sognare, ma a nessuno importa dell'amore, tranne che a me, così come a nessuno importa dei sogni. Ma a me sì. Perché ho il sacrosanto diritto di sognare.  

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Capitolo 2
*** Seconda prefazione- tre episodi ***


Noi "ricordi", noi fantasmi, non possiamo ricordare. Ciò che si materializza in noi, quando capita, non sono che immagini sparse, citazioni sconnesse della nostra vita ormai passata, emozioni sbiadite, vuote, nient'altro che gusci, conchiglie belle da vedere, di quelle in cui si può sentire il rumore del mare, ma nulla di più. Tuttavia, come sempre nel mondo dei fantasmi, c'è un'eccezione alla regola. Gli episodi che è possibile ricordare in modo completo ed intenso sono soltanto tre, e per ognuno di noi sono diversi, spesso terribili, spesso essenziali, spesso semplicemente belli. Nel mio caso erano i seguenti: la mia nascita, la mia morte, la mia prima parola. E ad ognuno di questi episodi è possibile associare una sensazione, un elemento, come se fossero persone definite, vive, alle quali attribuire persino un carattere e una personalità, stabilire se fossero simpatiche o meno.

Il ricordo della mia nascita era associato ad una cosa soltanto: la bruttezza.
La bambina appena nata gridò e pianse. Era proprio quello il senso di bruttezza, il venire al mondo piangendo, come poteva esserci qualcosa di bello in questo? Era ricoperta di sangue, ma non per questo era meno sana, era indifesa, ranicchiata tra le mani guantate di qualcuno, quasi senza alcun senso sviluppato, se non il suo udito, attento alle proprie grida. Era un essere puro, ero lo zero di ogni cosa. Ci fu silenzio, di quello imbarazzante, come se nessuno avesse il coraggio di dire ciò che effettivamente tutti pensavano. La bambina era brutta. Tutta rossa, paonazza, rugosa, cicciottella, un mostriciattolo. Nemmeno la madre disse nulla, chissà se per la stanchezza o se per l'imbarazzo anche da lei percepito. La sua bambina era brutta. Poi una voce, dietro il vetro, uno dei visitatori vide la bambina, già posizionata nel suo apposito lettino, nel reparto maternità. Era uno dei parenti, il nonno. E fu grazie a quella voce che il silenzio cessò, per sempre. E cessò la bruttezza, l'ingiustizia.
«è bellissima» disse. Perché in fondo la bambina era davvero un adorabile mostro. 

Il ricordo della mia morte. Impotenza. 
Bosco buio, le stelle avevano spento le luci delle loro casette. Desolazione, anime che sognavano ingnare di tutto. Tranne due. Una vittima e un carnefice. 
La ragazza che stava per morire gridò e pianse. Un pianto di impotenza, puro suono gutturale. Era stata uccisa e il suo assassino non sarebbe mai stato scoperto, perché due soli erano i testimoni: lei e lui. Impotenza bruciante. Per lei morire era esattamente come affogare, ma senza l'acqua. Affogare nei sentimenti più oscuri e irrimediabili, c'era dispiacere, odio, rabbia, disperazione. Ed essi erano come la pece, come le sabbie mobili, era come una trappola, una stanza fatta di pareti invisibili. Le due lacrime sul suo volto si asciugarono lentamente, mentre giaceva nella sua prigione invisibile, in attesa. Io so chi sei, e questo mi basta, pensò la ragazza. Il buio era solido e le stava crollando addosso, ma dolcemente, perché non aveva bisogno del suo permesso, tutto era al proprio posto, l'ennesima persona sulla terra stava per morire, le tenebre nel cuore, un'immagine in testa, quella dell'assassino, l'impotenza incastrata nella gola, bollente, corrodeva ogni possibilità di salvezza. Ma a che sarebbe servito urlare? Inutile generare altra bruttezza. Meglio morire. 
Io so chi sei, e questo mi basta. La ragazza sorrise, e il buio se la portò via.


La mia prima parola. Panico.
La comunicazione è l'arma più pericolosa mai posseduta dall'uomo. I primi momenti della nostra vita non sono forse anche i più tranquilli? Non c'è conversazione, non c'è possibilità di essere feriti, giudicati. Non c'è la parola. Solo gesti, sguardi, suoni, e nient'altro. La comunicazione non verbale ai livelli più puri e delicati. Solo i nostri occhi che dicono tutto, le nostre mani, il nostro volto. Nessun passo falso, nessuna parola detta al momento sbagliato o alla persona sbagliata. Ma prima o poi commettiamo quell'errore: il bisogno di parlare. E, a partire da quel brevissimo istante, quella frazione di secondo necessaria a emettere quel respiro, a stimolare le corde vocali, a emettere il suono, che viaggia poi attraverso il nostro apparato fino alla bocca, che ne modula la fuoriuscita fino a che... Parliamo.
La bambina, tardivamente, parlò a tre anni. Ci si aspetterebbe che questo ritardo fosse dovuto ad una preparazione eccellente della parola selezionata ed etichettabile sotto "prima", al fine di realizzare una perfetta enunciazione e pronuncia. Nulla. Non era che una parola, più o meno.
«Maaaaaaaaaaammaaaaaaaaa». Deludente. Troppo lunga, sconnessa, poco lineare.
Il ritardo, allora, a che cosa era dovuto? Al panico. La bambina aveva paura. Vedeva cosa le parole potevano provocare, temeva che entrando in quell'oscuro mondo, quello della comunicazione, e facendo così il primo passo verso quello degli esseri umani completi, avrebbe potuto soffrire e provocare a sua volta sofferenza.
L'eccitazione le fece cambiare idea. Cosa avrebbe provato? Perché non provare? E pronunciò. Panico. Ormai era fatta. La bambina era un essere umano completo. Oltre lei la porta delle parole successive e delle loro conseguenze. Era troppo tardi, e doveva aprirla. 

Riportai alla memoria questi tre unici episodi, in questo stesso ordine. Lo facevo sempre, ad ogni viaggio. Ognuno di essi sembrava ricordarmi in qualche modo qualcosa che mi sarebbe tornato utile, che mi avrebbe aiutato a non avere paura delle novità che avrei visto, dei nuovi mondi che avrei conosciuto, delle persone che avrei esplorato, capito, studiato. Ma ognuno di essi, stavolta, sembrava invece dovermi aiutare ad affrontare il ragazzo che mi amava. Se l'avessi trovato e se poteva vedermi, come mi sarei comportata? La chiave erano proprio quei tre episodi. Mi ricordavano ogni volta quali fossero le tre cose da evitare nei miei viaggi, nelle mie esperienze, ma soprattutto quali fossero gli errori che non dovevo più commettere. Erano le mie leggi.
- Rendi la tua bruttezza una questione d'interpretazione artistica;
-Non lasciare che l'impotenza soffochi la tua vita;
-Concedi al panico un minuto soltanto di vittoria. 

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Capitolo 3
*** Prima tappa: l'Orfana ***


Non amo sottolinearlo, ma mi sembra necessario. Io sono morta, e per addolcire il concetto conoscerete forse il termine più comune, "fantasma", e, anche se preferisco come ormai saprete la parola "ricordo", accetterò questa accezione così comune. Sono un fantasma, allora. Ho accettato di fare questo viaggio a qualunque costo, nonostante i rischi, nonostante le delusioni. E sapevo perfettamente quali sarebbero stati: il rischio di non trovare il ragazzo del sogno, il rischio che non ricambiasse quell'amore, o che quell'amore non esistesse proprio, che fosse davvero soltanto un sogno, il rischio di non incontrare persone capaci di vedermi (sono davvero poche, ed è raro incontrarle, eppure esistono), la delusione di aver compiuto un viaggio che, per quanto produttivo, necessario, sarebbe potuto essere debilitante, avrei potuto non ottenere nulla. Ma sono morta, cos'altro avrei mai potuto perdere? Non avevo la vita, un caldo respiro nei miei freddi polmoni, cosa avevo realmente da perdere? Nulla. Avevo soltanto da guadagnare, avevo un bisogno terribile di sentire quel "ti amo". E forse, e dico forse, sarebbe stato quello il mio respiro, uno soltanto, ma sufficientemente caldo da farmi dimenticare che non potevo vivere. 

Pregai. Camminando per strada, all'inizio del mio viaggio, pregai. E non mi riferisco a quelle dottrine ricche di dogmi, leggi, codici di comportamento, quelle dottrine occidentali severe ed estremiste. Non mi riferisco a Dio, quello che intendono tutti. Pregai e basta, nel senso linguistico della parola. Insomma, intendo, "sperai". Che il mio istinto mi guidasse correttamente, dal momento che, ovviamente, non avevo una meta precisa, vagavo, mi affidavo al caso, alla speranza, alla forte convinzione che quel ragazzo era da qualche parte nel mondo, chissà dove. Il mio raggio d'azione era il mondo intero, e come potevo fallire, se viaggiare era il mio dono? Di tempo ne avevo, così come di pazienza. Invisibilità (limitata, escludendo appunto quelle persone aventi anche loro un dono), velocità, obliquità, vantaggi di non-vivere. Perché quando non sei qualcuno, quando sei qualcosa, il mondo è semplicemente un insieme di luoghi senza legami, distanze, ostacoli. Per noi "ricordi" il mondo è nostro, senza nemmeno possederlo, intoccabile. Accessibile nella sua totalità. Nostro, ma senza possederlo.
Aprii gli occhi, ero in una casa. Era piccola, molto accogliente, c'erano cose molto antiche e cose molto moderne, convivevano in un piccolo salotto vissuto. C'era una storia, lo sentivo. Le cose antiche erano costituite dal mobilio, da alcuni oggetti appesi alle pareti, pentole, terrine di ceramica, setacci, piatti decorati e firmati (un lavoretto scolastico firmato da una persona di genere femminile), arnesi da cucina, impolverati, come reliquie. Le cose moderne, invece, erano il televisore piatto, telefoni fissi con numeri enormi, telefoni cellulari quasi sempre scarichi ma ricchi di credito telefonico, robot da cucina ancora inscatolati, come se i proprietari avessero rinunciato ad utilizzarli per la complessità delle loro componenti, ventilatori, sistemi di riscaldamento e raffreddamento (eppure c'era un camino, elemento facente parte delle cose antiche), entrambi molto utilizzati, una cucina restaurata da non molto, vissuta, aveva prodotto pasti per molte persone, spesso moltissime, il forno era sporco, ma era come se fosse tutto nella norma, doveva esserlo o sarebbe apparso strano. Oltre il salotto, un corridoio e tre stanze: una matrimoniale con un solo lato del letto sfatto, due comodini, anche qui cose antiche e moderne, nel secondo comodino, immacolato, solo una foto e un vaso di fiori, orchidee, nel primo altrettante decorazioni, ma non floreali, piuttosto chimiche, medicinali, tanti medicinali, una vecchia radio, il telecomando di una cosa moderna, un mini-televisore altrettanto piatto. La seconda stanza era piena di giocattoli e libri, un magazzino di due generazioni diverse, due strati di cose, infanzia e adolescenza insieme, i giocattoli erano usurati e vissuti, alcuni erano pasticciati, i libri erano rovinati in alcune parti della copertina, i titoli erano antichi e moderni. Al muro foto di tanti bambini diventati poi adulti, grandi, o semplicemente cresciuti, foto di bambine vestite da damigelle che sorridono all'obiettivo, alcune in modo naturale, altre in modo un po' forzato, non abituato. Questi bambini li chiamano "nipoti". Nella terza stanza c'erano due letti separati da un comodino, e i colori dominanti erano il rosso e il blu, colori di una squadra di calcio. Soltanto un letto era utilizzato, era una stanza solitaria, riuscivo quasi a percepirne la routine quotidiana, come se quella stanza mi parlasse raccontandomi la sua giornata. Anche qui c'erano tante foto, le foto erano essenziali in ogni stanza, anche qui dei ricordi, ragazzi ad un matrimonio, felici e spensierati, gite del gruppo della chiesa, gite in barca. Tutto nella norma. C'era anche un esterno, immenso, nonostante la casa così piccola. Un terreno enorme ricco di orti, una volta ospitava persino cani, galline e galli, oche e anatre. Ora era trascurato, abbandonato almeno quanto una casa stregata. Le vecchie biciclette appese nel capanno sapevano di nostalgia, nessuno le avrebbe più inforcate, ma chissà per quale motivo le tenevano comunque lì, come se fossero sacre e intoccabili. Bici rosa, bici "serie", bici "da maschietto", altre con quei buffi animaletti di gomma che se li schiacci producono buffi rumori. Inizia a sentirmi a disagio, in mezzo a quelle cose intime, persino gli alberi da frutto aveva conservato dei ricordi, di bambini che rubano ciliege e olive, limoni e altri frutti, li mangiano con gusto e poi scappano, e quella scintilla di felicità è la cosa più bella di tutta la giornata, di una bambina che raccoglie dei fiori gialli dal terreno, che ne era sempre ricco, e li regala alla nonna, sono tagliati in modo grossolano, non li lega nemmeno, li regge semplicemente tra le mani, come una sposina improvvisata, e anche quella è una scintilla di felicità, un giallo accecante e profumato che regala un sorriso alla donna a cui sono destinati i fiori, che li mette in una bottiglia, anche se sa che appassiranno il giorno dopo, ma il giallo durerà, ed è questa la cosa più importante. Mi girai e nella vecchia recinzione, in un'altra zona del terreno, tre bambine raccoglievano delle uova, uno ciascuna, le mangeranno subito, nei loro personali porta-uovo di metallo. Era la cosa più buona del mondo, mangiare le uova semi sode nel porta uovo. Una di loro inizia a temere le galline, ma ne mangerà l'uovo, cucinato dalla nonna, con le altre due bambine, e forse quella fobia si argina, ma solo per quell'altra scintilla di felicità. Tornai dentro la casa. C'erano delle persone, sedute un po' sul divano e un po' sulle sedie attorno al grande tavolo del salotto. Ascoltavano tutti un signore anziano, seduto nella poltrona principale. Raccontava aneddoti ridendo, ma non era felice, lo sapevo. Lo ascoltai anche io, e risi persino. Nessuno lo notò e capii che non potevano vedermi. Non so perché, ma sospirai. Mi sentivo un'intrusa, in tutti quei bei ricordi ai quali avevo assistito, e li invidiavo, avrei voluto che fossero stati miei. Sono un "ricordo" meschino. Sorrisi teneramente, ma ancora mi sfuggiva qualcosa, sentivo che mancava qualcosa a quella scena. O forse qualcuno?

Nella casa entrarono due persone. Due donne. Una figlia e una nipote. Le riconobbi. La ragazza più giovane, la nipote, era una delle damigelle della foto, quella che sorrideva in modo forzato. E non finse nulla, stavolta, fu immediata a diretta. Riusciva a vedermi, e non lo nascose. Mi fissò in modo intenso e consapevole, senza spaventarsi, come se mi aspettasse, o come se fosse perfettamente consapevole del mio e del suo dono. Partecipò alla conversazione e all'ascolto dell'anziano quasi totalmente naturale, ogni tanto mi guardava, poi abbassava gli occhi, afflitta. Non diceva una sola parola, ma ascoltava tutto, sia le cose in italiano che quelle in dialetto. Ascoltava, capiva, sorrideva, poi era triste. Mi guardò di nuovo e stavolta decise di uscire fuori, voleva che la seguissi. 
La trovai seduta sui gradini della porta esterna, quella che dava al cortile. Mi avvicinai a lei e iniziammo a parlare a voce bassa.
«Chi sei?», mi chiese. Non aveva quella curiosità spaventata, che vuole soltanto accertarsi di non essere in pericolo, ma di quella che cerca soltanto risposte, forse aiuto.
«Sono un "ricordo". Sono in viaggio e sto cercando qualcosa.» risposi. Dissi "qualcosa" e non "qualcuno". C'erano troppi rischi e troppe delusioni in gioco. 
« Posso chiederti cosa stai cercando?» mi chiese, e lo fece senza perfidia, senza sarcasmo. Come poteva riuscire a capirlo? Non avrebbe mai potuto capire il mio mondo e il mio viaggio, ma risposi ugualmente, libera di prendermi in giro o di avere paura di me, libera di credere che fosse un'impresa folle. Non avevo nulla da perdere.
«Cerco il ragazzo che ha detto di amarmi in un sogno» risposi semplicemente.
«Che tipo è?» mi chiese ancora, altrettanto semplicemente.
«So che è vivo, e questo mi spaventa» dissi «e so che mi manca, perché non so dove si trova, e questo mi distrugge»
La ragazza sospirò. Era viva e io ero morta. Ma era tutto nella norma, proprio come quel forno sporco.
«Lo troverai». Sorrise. Sorrisi. E mi sentii un po' meno intrusa.
«Come fai a saperlo?» osai chiedere.
«Perché ti manca. E la mancanza è la forma più pura d'amore». Non pianse, nonostante pensasse a qualcosa di molto triste. Era una persona. Mi concesse di vedere in lei e di capire meglio. Vidi la foto nel secondo comodino della stanza matrimoniale, vidi la donna a cui quella bambina aveva regalato i fiori, la stessa che cucinava l'uovo alle tre bambine, e la stessa che sembrava mancare nel salotto vuoto, ma pieno. Era suoi quegli utensili facenti parte delle cose antiche, era lei la cuoca per le molte persone. Era sua nonna. 
«Sono un'orfana, è come se lo fossi» mi confidò « era come se fosse la mia vice-mamma». Riprese il controllo di sé e infine mi disse:
«Lo troverai, perché ti manca. E la mancanza è il sentimento più forte che conosco»
Quando me ne andai le promisi che avrei cercato il "ricordo" di sua nonna e che le avrei consegnato un messaggio non verbale, ma materiale: un mazzolino di fiori gialli.

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Capitolo 4
*** Seconda tappa: la Disillusa ***


Vagavo ormai da mesi, senza risultato. Mi sembrava quasi che non dovessi più incontrare nessuno, che forse, oltre all'Orfana, non esistesse nessun altro capace di vedermi, figuriamoci capirmi. Sapevo di essere sola, come potrei non saperlo? Noi "ricordi" lo impariamo da subito, e, anche se viviamo tutti assieme, siamo più soli che mai, perché non siamo una comunità, l'unione di più anime che condividono stessi dolori, stessi problemi, rimpianti. Siamo una massa di solitudini diverse, e unirci non è possibile, come se fossimo magneti, ciascuno con cariche uguali, proprio perché l'unica cosa che abbiamo di uguale è l'essere morti, ciò che dovrebbe unirci, e che invece... ci separa. 

Al pensiero dell'inevitabile solitudine ricordo un episodio in particolare.
Nella casa dei "ricordi", parlai con un vecchio "ricordo", stava lì da tantissimo tempo. Lo chiamavano "Il Pazzo", perché era davvero strano, quello lì: faceva finta di essere vivo, e riteneva di essere ancora umano, che la sua morte era stata soltanto un errore, che presto lo avrebbero ripescato. E non parlava con nessuno, fermo sulla soglia, ad aspettare. Per sempre.
Un giorno mi avvicinai alla porta, lì dove aspettava e mi disse:
«Tutta la vita ad aspettare. Tutta la morte ad aspettare»
Capii che non era veramente pazzo. Era semplicemente solo, molto solo.

Capitai in una classe. Decisi di entrarvi, volevo entrarvi. Perché. sì, ne ero profondamente curiosa, dopotutto, e lo ero perché le persone al suo interno stavano scrivendo, tutte e contemporaneamente. Entrai, e, con mia grande delusione, nessuno poteva vedermi. Pensai, allora, che sarebbe stato inutile restare lì, che nessuno avrebbe potuto dirmi nulla sull'amore. Esitai, una delle persone scriveva con più foga rispetto agli altri. Mi avvicinai alle sue spalle e lessi quel che stava scrivendo:

"Tema: che cos'è l'amore?

Svolgimento: io l'amore proprio non so cosa sia. Saprei descriverlo, da quel che vedo in giro, ma proprio cosa sia davvero non saprei spiegarlo. E non si tratta di quelle frasi insensate, fatte di belle parole e pensieri puri che si leggono nei cioccolatini o che escono dalle bocche di improbabili spasimanti, E non si tratta nemmeno di fare regali a forma di cuore, o regalare mazzi di fiori. Posso fare delle supposizioni, scientificamente: e se si trattasse di un impulso? Come la scintilla del motore a scoppio, l'impulso di un'energia fisica. Ecco, dopotutto credo che come risposta possa andare bene. Perché siamo fatti di chimica, e se l'amore è umano, allora l'amore è chimica. Nient'altro. Ma non "chimica" in quel senso moderno per cui tra due persone ci sarebbe un certo feeling. Io intendo quella vera, quella fatta di formule ed elementi, ordinati, schematici, dove tutto è bilanciato, tutto è spiegabile e affidabile. L'amore è affidabile perché chimico, e a predire non si sbaglia mai. Resteranno insieme, si lasceranno, la tradirà, lo tradirà. Formule chimiche. Reazioni. Feed-back.
Sta tutto lì.

E non si tratta, banalmente, del cuore, c'è solo sangue, tessuti e valvole. Batte perché deve, e penso che forse anche se non battesse ameremmo, perché anche la morte è chimica, così come l'amore. E non si tratta nemmeno della ragione, del cervello, perché sono nervi, neuroni, impulsi elettrici, e funziona perché deve e serve, e penso che forse anche se non funzionasse ameremmo, perché anche la morte è chimica, così come l'amore. 
Perché allora, non si tratta del nostro corpo, non si tratta di sesso. Siamo chimica, siamo respiro, e anche il respiro è amore. Siamo energie che si scontrano, un mini Big Bang, siamo la radiazione cosmica di fondo, ciò che resta dopo la morte di una stella. Siamo energie, siamo chimica, e allora l'amore è fuori da noi, e non dentro. Non è cuore, non è cervello. Un impulso. Come quello che ci spinge a credere.
E voi, ci credete?"


E dopo queste parole, insieme a quelle del Pazzo,pensai che allora si trattava solo di quello.
Attendere. Ora sapevo cosa.
Un impulso.

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Capitolo 5
*** Terza Tappa: la Muta ***


Non è facile trovare se stessi. Nella vita almeno quanto nella morte. Era una cosa che avevo cercato di capire da viva e che stavo per capire da morta, persino ora,quindi, che non ero nessuno. E come poteva qualcuno che non è nessuno, cercare se stesso? Amavo, seppur in un sogno, e questo doveva pur significare qualcosa. Che esistevo, per esempio. E questo me lo ha insegnato la ragazza che non sapeva di potermi vedere. La muta. Mi vide, e anche se ero abituata ad essere vista da persone uniche e speciali, persone con un "dono", capii che esistevo, che esistevo per davvero, e non come una semplice visione, ma che esistevo come essere che può fare la differenza, che può cambiare una vita, che può cambiare le cose.

La prima volta che la vidi, ascoltava della musica, ad occhi chiusi. Il parco quella mattina era meno affollato del solito, essendo ancora troppo presto per poter ospitare quella consueta moltitudine di umanità. La testa della ragazza ondeggiava almeno quanto le foglie mosse dal vento mattutino. Quanto doveva essere bello- pensai- esistere in quel modo, esistere insieme alle cose e non semplicemente separatamente. Quanto doveva essere bello- pensai- essere. Era come una danza, una bellissima, travolgente danza con la vita, e chissà che musica ci sarebbe stata a fare da sfondo, forse una bella canzone francese, lenta, dolce, anche un po' nostalgica, una canzone d'amore che parla di amanti che non possono amarsi, una canzone malincolica, eppure carica di speranza, una di quelle che ascolti e che desideri ballare con la persona che ami, fosse anche il vostro ultimo ballo.
Ma tutte le musiche terminano, ogni danza finisce, e dopo l'ultimo passo senti come una mancanza, come se, finita quella musica, fossero finiti anche i suoi, la vita. Silenzio, di quelli atroci, di quelli che senti che sei sola, e allora provi a cantare, riproduci quella bella canzone francese, ti arrampichi a quel bel ricordo. Ma non c'è comunque musica, e c'è comunque solitudine. Fu lo stesso che successe alla ragazza, la sua canzone finì. Aprì gli occhi, mi vide. Di nuovo silenzio, di nuovo nessuna musica. Vide che la fissavo, e, spontaneamente, innocentemente, mi fece la domanda più difficile del mondo:
«E tu chi sei?»

Avrei voluto dirle così tante cose, avrei voluto spiegarle del sogno, della mia missione, avrei voluto spiegarle cosa fossi e perché fosse in grado di vedermi. Ma lei non sapeva, perché dirglielo Allora parla!- pensai. Inchiodata da quella domanda, non riuscii a rispondere. Sono un fantasma che cerca l'amore, come le sarebbe suonato? Non altrettanto bene, non melodioso come quella bella canzone. 
«Sono un essere innamorato» risposi. Banale. C'erano almeno due errori in quella frase. "Sono", ed "essere", dopotutto la stessa cosa, ovvero esistere. Esistevo.
La ragazza mi guardò per un lungo istante, poi mi sorrise, di quei sorrisi che possono cambiare anche la situazione più complessa che si possa immaginare, di quei sorrisi che potrebbero persino riportare in vita un sentimento morto per sempre. E tornò la musica. Mi sorrise, e allora forse...forse esistevo.
Mi sedetti, timidamente, a fianco a lei. E, finalmente, parlai, tralasciando di rivelarle cosa realmente fossi.
E fu proprio per questo che parlammo così naturalmente, perché non c'era traccia di paura nel suo volto, nessun fantasma ad infestare la sua felice esistenza. Nessun incubo, eccetto quello con il quale stava parlando, senza saperlo.
Mi disse che era innamorata e che non aveva il coraggio di dirlo, mi disse che aveva paura.
Allora, solo allora, le confessai tutto.
«Se un fantasma può innamorarsi, puoi farlo anche tu» le dissi «Non avere mai più paura». Era come se volessi pronunciare una qualche sorta di incantesimo, volevo che non avesse paura, volevo che amasse. 
La muta, proprio come quando aveva aperto gli occhi dopo la sua bella canzone, mi fissò per un lungo momento, ma non sorrise. Non disse più nulla. Aveva capito tutto, senza bisogno delle parole. Ma come era possibile, dopo aver visto una come me? E come potevo pretendere che scappasse se le avevo appena chiesto di non avere paura? Paura, ma non di me. Della vita, non doveva avere paura della vita, e nemmeno della morte. 
Forse avrei dovuto spiegarmi meglio, e la muta non mi aiutava a capire se fosse spaventata o solo confusa.
«Non avere mai più paura della paura» riprovai.
Finalmente, una reazione. Un altro sorriso, poi una profonda serietà. Terribile, ma selvaggiamente bella. Era la verità. Una rivelazione sulle sue labbra. Non aveva il "dono" di vedermi, non ne aveva bisogno. Era come me.
«Chi sei?» mi richiese.
E allora seppi rispondere: 
«Sono una ragazza innamorata. E non ho paura.» risposi. Esistevo.
«Sono una ragazza innamorata. E non ho paura», mi fece eco lei.
Era un fantasma, ed era innamorata anche lei, e anche lei non aveva più paura. Perché esistevo, perché esisteva.
 

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Capitolo 6
*** Dall'altra parte dello specchio ***


Non avevo mai pensato seriamente alla morte. Troppo scontata. Smettere di vivere, e basta.  

Fino a quel preciso istante, quando avevo perso tutto. Lei. E non è forse questo morire? 

 

Apri gli occhi, andrà tutto bene... La voce insisteva. Non avevo idea di dove mi trovassi, a chi appartenesse quella voce. Non sentivo nulla. Terrore, puro. So solo che avevo mollato la presa, quando avevo perso tutto. L'aria ghiacciata, il vuoto attorno a me, sotto me, dentro me. Poi assenza di peso, poi il volo, leggerezza assoluta, devastante libertà, ossessiva voglia di sparire per sempre. Poi silenzio assoluto, luce, buio, e venni strappato via. All'improvviso, come se fossi stato aggrappato per tutto quel tempo a qualcosa o qualcuno, e mi avessero strappato con violenza. Assenza. Solitudine. Ancora terrore.  

Poi la voce. Ancora e ancora, e non avevo il coraggio di fidarmi 

Avanti, apri gli occhi! Mi esortò. Aprii finalmente gli occhi, ma non lo avevo fatto io, non lo avevo voluto, come se fossi soltanto un robot. Ancora terrore. Mancato controllo di me stesso, e tanto valeva non esistere, sempre se davvero esistevo ancora. Lo scenario che mi trovai davanti era il più ordinario che si potesse immaginare. Mi trovavo in un salotto. La casa doveva essere molto antica, ma non perché fosse in qualche modo trasandata o divorata dal passare del tempo, quanto per l'aspetto dei mobili e della struttura, di quelli che non ami e non odi, ma che affascinano  perché portatori di ricordi, perché toccati da chissà quante vite. La voce mi osservava, incuriosita e sorridente. Era di un uomo. Era anch'esso "antico", se così si può dire, anziano, ecco, anche lui reduce da chissà quali avventure passate.  Le sue rughe formavano una mappa di intriganti luoghi mai visitati dagli essere umani, cose inimmaginabili, una vita intera insomma. Non avevo paura, ancora una volta, come se non lo volessi davvero, come se fosse un comando che mi venisse imposto. 

-E tu chi sei?  chiese ancora la voce. Eccolo di nuovo, il vuoto tornò, proprio come prima che venissi strappato via per sempre. Sudai, cercavo in me stesso, ma non trovavo nulla, solo sensazioni, nessun dato. E ancora, "qualcosa" rispose per me. 

-Un ricordoSentire la mia voce, che cosa terribile e scioccante.  Trionfo parziale, perché allora forse esistevo. Se parlavo, potevo pensare, se potevo pensare, potevo smettere di essere quel robot che stavo dimostrando di essere fino a quel momento. L'uomo rise, divertito dalla mia espressione confusa al pronunciare la parola "ricordo".  

-Esatto, lo sei- mi disse, quasi rassicurandomi- ma sei, te lo prometto. Sei! Non è incredibile? E sei qui! Non si rendeva conto di aggrovigliare ancora di più il mistero, quello sconosciuto non riusciva proprio a capire che sapere di essere non era lontanamente sufficiente a scacciare la paura, anzi, il terrore, di quella nuova situazione. Così, mi feci avanti. 

-Dove mi trovo?- prima domanda diretta.  

-Ti trovi- affermò il personaggio. 

-Ma dove?- ribadii. 

-Ovunque in questa casa- rispose, sorridendo. 

-Come? -Chiesi ancora, esasperato. 

-Ma morendo, sciocco!- rideva ancora, follemente divertito dal mio terrore. 

Ero morto. Come si dovrebbe reagire ad una simile affermazione? Morire due volte non è proprio possibile. Svanire? Il nulla non può mica svanire. Dimenticare? L'oblio non si può mica dimenticare. Trappola.  

-Perché?- Non mi restò che chiedere. 

-Qualcosa non va- mi spiegò l'uomo, fattosi serio, poi mi toccò. Assurdo, era come se fossi ancora vivo, come se tutto intorno a me lo fosse, persino l'uomo. Era reale. Nessuna trasparenza, nessuna freddezza inumana. Era caldo e ruvido, rassicurante, un tocco che non ti farebbe mai del male, una mano da padre o da nonno, una mano familiare. 

-Ti manca qualcosa, qualcosa che hai perso- continuò a dirmi. 

Sì, sussurrai tra me e me, sprofondando in quella improvvisa consapevolezza. Qualcosa mancava, in effetti. Ma cosa? Provai a ricordare, incredibile dirlo. Provai. Mi sforzai, addirittura. Nulla.  

-Terribile, vero? Nulla- l'uomo aveva indovinato- ma è inutile purtroppo. Solo tre ne abbiamo. 

Lo fissai perplesso, finché non si arrese: 

-Tre ricordi e basta. E puoi ricordare solo quelli- fece una pausa- Me li racconteresti? -Mi chiese, incuriosito, di quella curiosità che ti illumina lo sguardo, persino uno senza vita.  

Allora riprovai, stavolta senza sforzi, come trasportato da un invisibile pilota automatico. Chiusi gli occhi, sorridendo. Era bello avere almeno una parte di umanità, i ricordi, sebbene fossero soltanto tre. Mi bloccai, ancora perplesso e sconvolto. 

-Qual è il mio scopo? -Chiesi ancora.  

Non ottenni risposta, perché all'improvviso, e ancora una volta, fui solo. 

Più volte gli feci quella domanda, e più volte non ottenni risposta. Più volte mi chiese di raccontargli i miei ricordi e più volte rifiutai, passando la mia non-esistenza a trovare quella risposta, a dare un senso a quei tre frammenti che mi erano concessi. 

Poi sognai, e ottenni la mia risposta. 

Un volto, solo un volto. Era quello del primo ricordo. Un bacio, bellissimo.  La ragazza mi fissava sorridente, e senza dire una parola era capace di dirmi tutto. Non sapevo chi fosse, non  lo ricordavo, sapevo solo che nei miei ricordi c'era eccome, così come nei miei sogni. Doveva essere piuttosto importante. Sempre silenzio, ancora silenzio, fino alla precisa fine del sogno, di lei. Prima che svanisse tutto, prima di svegliarmi senza essere sveglio o vivo, prima di tornare al nulla. Un frammento di senso in quella casa-trappola per le persone di passaggio.  Solo due parole. 

Ti amo.  

Dovevo trovarla. Dovevo ricordare.  

 

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