Memorie sotto il cielo di Arda

di Tielyannawen
(/viewuser.php?uid=806659)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Nel cuore della tempesta ***
Capitolo 3: *** Una protezione contro l'oscurità ***
Capitolo 4: *** Incontri casuali ***
Capitolo 5: *** Guardando la luna ***
Capitolo 6: *** La dama intrepida ***
Capitolo 7: *** Un'improbabile melodia ***
Capitolo 8: *** Come le radici della terra ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO


Fiamme vermiglie parevano lambire il cielo, mentre il giorno si apprestava inesorabile a cedere il passo alla notte. Presto le stelle sarebbero apparse, come silenziose compagne di viaggio, per illuminare il mondo con la loro limpida luce.

Una figura solitaria si stagliava nel bagliore del tramonto, in una corsa disperata attraverso la brughiera. «Non ci saremmo dovuti fermare», ringhiò una voce, disperdendosi nella vasta contrada circostante. A quelle parole la fuggiasca strinse a sé una logora sacca sporca di terra, poi tornò ad affondare le dita affusolate nella pelliccia. «Rappresenta ciò che ero», sussurrò, come se pronunciare ogni singola parola le costasse una grande fatica, «e per questo non potevo andarmene senza. Il passato esige di essere ricordato, anche se quello che è stato non tornerà più». I suoi capelli sferzavano l’aria e ciocche ribelli le ricoprivano il volto, nascondendolo in un intreccio di boccoli scuri.

All’orizzonte una scura fila di alberi si avvicinava sempre di più, formando un muro verde, all’apparenza impenetrabile, che si estendeva fin dove lo sguardo poteva giungere. Davanti ad esso svettava una montagna, imponente e salda, come una sentinella che al calar del sole si appresti a montare la guardia di fronte a una schiera di nemici.

La corsa si arrestò improvvisamente, a pochi metri dal limitare della foresta. Nessun sentiero sembrava attraversarla, ma non lontano i grandi tronchi nodosi si aprivano a creare un varco, percorso dalle turbolenti acque di un fiume. La fuggiasca sollevò la testa, raddrizzandosi indolenzita mentre i lunghi capelli le ricadevano sulle spalle, ma non vide nulla di ciò che la circondava. Ai suoi occhi il mondo era avvolto nelle ombre. Una brezza calda cominciò a soffiare, cogliendola di sorpresa; trattenne il fiato e lentamente sul suo viso si aprì un sorriso. Da quasi sessant’anni non sentiva la carezza del vento sulla pelle.




 

ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti,
questa è la prima storia che pubblico e lo faccio con un po’ di emozione, dato che mi ha accompagnato per diverso tempo prima di approdare qui.
Il prologo che avete letto è breve, ma ho voluto inserirlo comunque perché rappresenta lo spunto da cui questa storia è nata.
Sarà un lungo viaggio, perciò non mi resta che augurarvi buona lettura e se qualcuno vorrà dire la sua mi farà davvero piacere!

Possa la strada alzarsi per venirvi incontro e possa il vento soffiare sempre alle vostre spalle
Tielyannawen


 

DISCLAIMER:
Personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro e, viceversa, gli elementi di mia invenzione, appartengono solo a me.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Nel cuore della tempesta ***


PARTE PRIMA

La pietra non mente,
testimone delle stagioni migliori,
dei giorni più bui.
(Tielyannawen)


Nel cuore della tempesta

Dopo gli Anni Bui e la sconfitta di Sauron, ebbe inizio la Terza Era del Mondo.
Narrano le leggende che gli Elfi riuscirono a salvare e nascondere dal Nemico tre dei loro anelli, quelli costruiti per ultimi e che possedevano i massimi poteri: Narya, l’anello di Fuoco, su cui brillava un rosso rubino; Nenya, l’anello d’Acqua, su cui era incastonato un diamante bianco; Vilya, l’anello d’Aria, su cui spiccava uno zaffiro azzurro. Grazie all’accortezza dei loro custodi, i Tre Anelli rimasero senza macchia, perché non furono mai sfiorati dalla mano di Sauron, nonostante questi avesse tentato a lungo di impadronirsene.
Col passare del tempo si smise di parlare dei Tre Anelli, ed erano pochi coloro che sapevano dove fossero realmente conservati. Eppure il loro potere continuò ad operare, preservando la bellezza e la gioia nella Terra di Mezzo. Così, pur senza averne la certezza, molti pensavano che l’Anello Bianco riposasse all’ombra degli alberi di Lorien, regno di Celeborn e Dama Galadriel, e che l’Anello Azzurro avesse trovato rifugio nella valle nascosta di Imladris, dimora di Elrond il Mezzelfo. Dell’Anello Rosso invece non si ebbero più notizie, ed era convinzione di molti che fosse andato perduto.

*****

Raramente a Imladris [1] accadeva qualcosa di inaspettato. La vita era tranquilla, un succedersi di piacevoli giornate. Se qualcuno glielo avesse domandato, Helan l’avrebbe paragonata ad un bellissimo lago, sempre uguale a se stesso, eppure sempre diverso; sulle sue acque si riflettevano i giorni, come nuvole che si rincorrono veloci nel cielo, e lo scorrere del tempo appariva sbiadito, un battito di ciglia al di fuori del mondo. Un luogo di pace, ed era così che lei lo vedeva.
Eppure quel giorno qualcosa accadde. Helan si trovava su una delle terrazze laterali, dove spesso si recava per leggere. Un gran vociare la distolse dalla lettura. Non era insolito che giungessero visitatori, a cercare riposo o consiglio tra quelle mura accoglienti, ma certo non creavano un simile trambusto. Spinta dalla curiosità abbandonò il libro, dirigendosi verso l’ingresso. Era una bella mattinata di sole, e i raggi che attraversavano le colonne intarsiate disegnavano trame luminose sui pavimenti di pietra. Si guardò intorno e, dopo essersi sincerata che nessuno fosse in vista, si mise a correre tra i fasci di luce. Sorrise. Quasi duemila anni, eppure ancora si comportava come una bambina.
In molti erano accorsi nel piazzale. Facendosi largo, Helan trovò uno spiraglio e fu allora che lo vide. Un enorme stallone, nero come la volta del cielo nella notte più scura. Al suo fianco i migliori destrieri parevano puledri intimoriti. Diverse corde lo trattenevano, per impedire che fuggisse, o che colpisse qualcuno nel suo furioso tentativo di riguadagnare la libertà.
«Che cosa è accaduto Lindir?», chiese Helan, rivolgendosi a un elfo che aveva nel frattempo preso posto alla sua destra.
«Alcune sentinelle lo hanno trovato che si aggirava vicino ai nostri confini, come se fosse in cerca di qualcosa», rispose l’elfo, «e hanno deciso di portarlo qui».
«E ora cosa ne sarà?».
«Immagino», disse Lindir, facendosi serio in volto, «che toccherà a Mastro Elrond decidere della sua sorte».
Helan aggrottò la fronte e tornò a volgersi verso l’animale. Lottava con tutte le forze per liberarsi dalle funi e il suo nitrito riecheggiava sulle pareti scoscese del burrone, mentre le guardie lo spingevano verso le scuderie. Continuò a risuonarle nelle orecchie, anche quando si fu allontanata.

 

Nella grande sala c’era agitazione. L’apparizione dello stallone nero era guardata con sospetto, e su tanti visi solitamente allegri era comparsa un’ombra, nel timore che fosse un presagio per l’arrivo di eventi più tristi e bui. Mentre entrava, Helan riuscì a cogliere le ultime parole di un discorso accalorato tenuto da Erestor, uno dei più fidati consiglieri del Signore di Imladris.
«… un destriero di quel colore non è stato più visto da molti anni, perché solo il Nemico se ne serviva! Durante i saccheggi i suoi servitori sceglievano sempre animali neri, che poi egli utilizzava per scopi malvagi», concluse Erestor.
«Eppure è certamente uno dei Mearas», soggiunse Glorfindel, la cui conoscenza delle cose del mondo era vasta, «e in questo non possiamo essere stati tratti in inganno. Sono una razza orgogliosa, che difficilmente si lascia piegare dalla volontà altrui».
«Non possiamo essere certi che sia venuto tra di noi in pace!» ribatté secco Erestor.
A quel punto calò il silenzio e i presenti si voltarono verso un elfo dai lunghi capelli neri, leggermente striati d’argento, che si era appena alzato da una poltrona posta all’estremità della sala. Nobile era il suo aspetto e i suoi brillanti occhi grigi svelavano una immensa saggezza; tutti i popoli della Terra di Mezzo gli portavano rispetto, e per Helan si era sempre dimostrato un sostegno, un punto fermo che, ne era certa, non l’avrebbe mai abbandonata. Gli doveva la vita. Egli era Elrond, il Mezzelfo, le cui imprese erano raccontate in tanti canti e leggende.
«Amici miei, conosco le vostre preoccupazioni», disse con voce grave. «Molti pensieri vi turbano, ma, per quanto è in mio potere, non permetterò che alcun pericolo ci sorprenda».
Helan fece un passo avanti e prima di rendersene conto la sua voce si levò chiara e decisa. «Non sempre ciò che non conosciamo è un pericolo. In questa valle il male non è mai riuscito a penetrare. Perché dovrebbe accadere proprio ora?».
Aveva parlato con sicurezza; era convinta di ciò che aveva detto, ma sapeva altrettanto bene di non aver alcun diritto di interferire in quell’assemblea. Percepiva lo sguardo di disapprovazione di Erestor e il sorriso indulgente di Glorfindel. Ma non le interessava. Non era a loro che si era rivolta.
Elrond rimase impassibile. Poi parlò. «Ci rifletterò. Nel frattempo a nessuno sarà permesso avvicinarsi alle scuderie senza il mio consenso». Si diresse verso la porta e, quando fu davanti a Helan, le posò una mano sulla spalla. «A nessuno», ripeté con dolcezza.
«Sì… Padre», rispose l’elfa, chinando il capo in segno di rispetto.

 

Attese per buona parte della notte. La vallata era immersa nel silenzio, placida e rassicurante come l’abbraccio di una madre, e ogni cosa attorno a lei parve trattenere il fiato, mentre attraversava le ampie sale di Imladris con passi leggeri e sicuri. Helan scese rapida le scale che conducevano ai cortili inferiori, senza mai fermarsi; se l’avesse fatto, forse non avrebbe trovato il coraggio di proseguire. Indossava una lunga veste bianca, stretta in vita da una cintura verde, con la folta chioma sciolta sulle spalle. Il sole non era ancora sorto, ma il cielo iniziava gradualmente a schiarirsi, segno che l’alba non era lontana.
Si avvicinò cauta alle scuderie; nessun suono proveniva dall’interno e quel luogo, di solito animato da nitriti festosi, appariva invece desolato e privo di vita, dopo che tutti i cavalli erano stati condotti ai verdi pascoli lungo le rive del Bruinen [2]. Giunta al cancello, guardò dentro e, nonostante il buio, i suoi occhi acuti furono capaci di scorgere i segni della devastazione: paglia e fieno disseminati ovunque, abbeveratoi rovesciati e distrutti, sui muri erano evidenti i solchi lasciati da zoccoli possenti. Al centro, maestoso e fiero, stava lo stallone nero. Rimase immobile, ma Helan sapeva che era ben conscio della sua presenza; il suo furore sembrava essersi placato, ma i muscoli in tensione e le orecchie tese ne tradivano l’inquietudine. Stava aspettando.
All’improvviso cominciò ad avanzare, fermandosi a pochi passi da lei. Sollevò la testa e i suoi occhi incontrarono quelli di Helan. Erano scuri e profondi, ma ella non colse alcuna traccia d’ira o malignità; c’era in essi una sorta di tristezza, come chi abbia a lungo vagato senza trovare un luogo in cui riposare.
Si fronteggiarono a lungo, l’elfa e il cavallo, immobili, ignari dello scorrere del tempo. Poi finalmente Helan allungò una mano, come a voler accarezzare la criniera corvina, ma non lo fece; aprì invece il cancello, spostando anche le varie travi che lo tenevano bloccato. Aveva fatto la sua scelta.
«Sevig dhâf an gwad [3]», disse abbassando lo sguardo. Si spostò di lato per liberare il passaggio e una folata d’aria la investì, mentre l’animale correva verso il ponte. Era libero, libero come lei non si era mai sentita. Perché da sempre nel suo spirito ardeva il desiderio dell’avventura.

 

Quasi un mese era trascorso. La scomparsa dello stallone era stata meno rumorosa del suo arrivo. I canti festosi continuavano a riempire i saloni e nelle fucine il lavoro non era rallentato. Il cancello delle scuderie era stato trovato chiuso, ma non si erano sprecate troppe energie nelle ricerche, perché nessuno desiderava davvero il ritorno di quel timore che per un attimo aveva avvinto i cuori degli abitanti di Imladris. Eppure Helan sospettava che Mastro Elrond sapesse. Nulla accadeva entro i suoi confini senza giungere fino a lui, prima o poi.
Una mattina Helan si svegliò all’alba. Dalla finestra della sua stanza osservò le stelle spegnersi e i colori farsi sempre più caldi. Era inquieta; aveva la sensazione che il crepaccio, di solito benevola protezione, si stesse per chiudere su di lei. Strinse il ciondolo che portava appeso al collo, cercando un po’ di conforto nel tiepido contatto con il gioiello. Il respiro si fece più tranquillo, e si sforzò di ricordare che cosa l’aveva turbata. Non riusciva a dimenticare la malinconia che aveva letto nel cuore del destriero dal manto nero, perché ora lo stesso sentimento si agitava anche nel suo animo.
Non poteva restare lì. Si vestì in fretta e chiese a due stallieri insonnoliti che le fosse subito sellato un cavallo; quando fu pronto, lo spronò verso il ponte e uscì dalla valle senza aggiungere una parola. Per la seconda volta in poche settimane disobbediva apertamente a suo padre. Rischiava di diventare una pessima abitudine. Elrond non le permetteva di allontanarsi da sola, e raramente le era concesso farlo anche con una scorta; si sentiva responsabile per lei ed Helan sapeva che una simile decisione era dettata dal desiderio di proteggerla. Ma c’era qualcos’altro che pesava sul Mezzelfo, un’ombra che egli aveva sempre nascosto e che sperava di non dover mai rivelare.
Cavalcò per un paio d’ore; il paesaggio attorno a lei nascondeva precipizi e acquitrini, boschetti e ruscelli, ma era per lo più un’ampia distesa di erba che ondeggiava, come sfiorata da dita invisibili. Si fermò in una radura ricoperta di erica selvatica e muschio, le cui piccole foglie formavano un morbido tappeto verde. Smontò e lasciò la sua cavalcatura libera di tornare indietro, restando sola in quel deserto silenzioso. Sedette con la schiena appoggiata a una roccia e si chiese cosa l’avesse guidata fino a lì. Perché aveva liberato quel destriero tenebroso? La verità era che ancora non lo capiva. Tuttavia sentiva che era stato giusto; una simile forza della natura non era nata per essere rinchiusa. Quel pensiero la consolò e si assopì, scaldata dai raggi del sole che illuminavano la pianura.
Fu destata dai tuoni. Lampi attraversavano il cielo, che da azzurro era diventato grigio e ostile. Le nubi si addensavano rapide e il vento prese a urlare, pronto a scatenare una bufera. Mentre cercava il sentiero iniziò a piovere; grosse gocce cadevano con la violenza di una cascata e impregnavano la terra sotto i suoi piedi. Sarebbe stato un cammino lungo e decisamente bagnato. Non era spaventata, e del resto nulla la minacciava; certo, se non si fosse dimostrata così testarda a quell’ora forse sarebbe stata seduta accanto al fuoco, in compagnia di un buon libro. Ma non avrebbe potuto godere di quello spettacolo: il mondo agitato da raffiche di vento e pioggia, totalmente in balia della bufera. Era straordinario.
E proprio lì, in mezzo alla tempesta, all’improvviso lo vide. Di nuovo. Lo stallone nero era davanti a lei, per nulla turbato dal violento temporale; mentre si avvicinava, ad Helan parve di cogliere un bagliore di ilarità nello sguardo dell’animale, come se lo divertisse l’idea di essere riuscito a sorprenderla. La stava aspettando e quando si chinò per permetterle di montargli in groppa, Helan capì che anche lui aveva fatto la sua scelta. Un atto di fiducia per entrambi.
Quando fu salita, si strinse alla criniera bagnata e, piegandosi in avanti per sovrastare il rombo dei tuoni, disse: «Gwaem nan bar, mellon nín [4]».

 

A Imladris tutte le lanterne erano accese, tanto da farla sembrare un’oasi all’interno del temporale, un’oasi la cui visione aveva il potere di scaldare lo spirito dei viaggiatori in arrivo. Una piccola folla si radunò sotto i portici che circondavano il piazzale, osservando l’elfa e il cavallo che se ne stavano in attesa, incuranti dello scrosciare della pioggia.
Mentre indugiava sotto il diluvio, Helan rabbrividì impercettibilmente; rivoli d’acqua le attraversavano le guance e gli abiti inzuppati si erano fatti freddi e pesanti. Avvertiva il nervosismo dello stallone di fronte a tutti quei volti che li scrutavano: non timore, ma impazienza. Come due torrenti che si uniscono a formare un unico fiume, così il legame che avevano creato non poteva essere sciolto. Entrambi sapevano che sarebbe durato per sempre. Helan era consapevole che non sarebbe stato facile da spiegare, ma mentre galoppavano verso la vallata i loro cuori avevano battuto all’unisono, felici. E questo le aveva dato la certezza che tutto sarebbe andato per il meglio.
«Questo è Alagos [5]», disse con voce ferma e un sorriso sulle labbra, «perché nel cuore della tempesta ci siamo incontrati. D’ora in avanti cavalcheremo insieme».




 

NOTE:
[1] Nome elfico di Gran Burrone, in Sindarin significa Profonda valletta del crepaccio.
[2] Nome elfico del fiume Rombirivo che attraversa Gran Burrone, in Sindarin significa Acqua rumorosa.
[3] In Sindarin significa Puoi andare (letteralmente You have permission to go).
[4] In Sindarin significa Andiamo a casa, amico mio.
[5] In Sindarin significa Tempesta di vento.

DATE:
2937 T.E. 24 marzo: Helan incontra Alagos durante la tempesta.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Una protezione contro l'oscurità ***


Una protezione contro l’oscurità

Non era stato per niente facile. A partire dal tentativo di convincere Alagos a riposare all’interno delle scuderie; il cavallo non amava gli spazi chiusi e non faceva nulla per nasconderlo. Non aveva distrutto tutto una seconda volta per riguardo nei confronti di Helan, ma i suoi nitriti avevano tenuto sveglia l’intera Imladris per diverse notti. E vedendo gli sguardi che alcuni abitanti della vallata le riservavano, l’elfa temeva di poter causare una migrazione di massa verso contrade più tranquille.
Alla fine era stato Glorfindel a risolvere la situazione, proponendo la costruzione di un recinto nei giardini laterali, dove nulla avrebbe disturbato lo stallone. Helan accolse con sollievo l’idea e lo ringraziò con calore, perché nessun’altra voce si era levata in suo aiuto.
«È un piacere contribuire al sonno dei miei amici», le rispose Glorfindel sorridendo. Il guizzo di allegria che percorse quegli occhi scintillanti non passò inosservato per l’elfa e le fece supporre che, in realtà, quel momento di scompiglio lo stesse divertendo parecchio.
Mastro Elrond venne prontamente informato della proposta, alla quale acconsentì con un cenno del capo, senza aggiungere altro. Helan sospirò, mentre si ritirava chiudendo con attenzione la porta alle sue spalle. Non le aveva impedito di tenere Alagos con sé, ma si era allontanato, ed ora ella sentiva la mancanza di suo padre. Era certa che fosse in collera con lei, dato che non le rivolgeva quasi più la parola. Dal suo ritorno, quella sera durante la bufera, si era limitato a guardarla con sconforto.

 

Il sole era sempre più basso all’orizzonte. Presto sarebbe stata ora di tornare. Alagos scalpitava, nella speranza di un’ultima corsa nella luce dorata che riempiva la pianura, ma Helan lo trattenne, sussurrando le sue scuse all’orecchio dell’amico. Elrond era stato categorico: doveva rientrare prima dell’imbrunire, o le avrebbe tolto il permesso di uscire dalla valle.
Un movimento in lontananza catturò il suo sguardo. Due cavalieri grigi si avvicinavano da settentrione. Dopo un momento di stupore Helan sorrise, alzando il braccio in segno di saluto. Li avrebbe riconosciuti ovunque. Finalmente erano tornati e lei non vedeva l’ora di riabbracciarli. Spronò Alagos nella loro direzione e quello partì al galoppo, esultante, sollevando piccole zolle di terra al suo passaggio.
«Ae [1]! Ecco colei che ha domato la tempesta!», la salutò allegro Elladan, sporgendosi dalla sella per stringerla in un abbraccio affettuoso quando giunse accanto a lui.
«Non avevate avvisato del vostro ritorno! Non che di solito lo facciate, iniziate ad assomigliare sempre di più a un certo stregone, che compare e scompare a suo piacimento», li rimproverò scherzosamente Helan. «Gwannas lû and [2]. Le ultime notizie di voi risalgono all’arrivo dei vostri ospiti».
Il secondo cavaliere si fece avanti, avvicinandosi al fianco lasciato libero da Elladan. «Siamo stati impegnati a Nord. Molti uomini valorosi sono caduti a causa degli Orchi. Si fanno sempre più audaci e io temo che qualcosa sia in movimento…», disse con tristezza Elrohir. Ed Helan si dispiacque al vedere rughe di preoccupazione segnare il suo volto.
«Ma le voci corrono in fretta e dovevamo vedere di persona la nostra Helan in groppa a uno dei Mearas», aggiunse Elladan.
All’udire quelle parole lo stallone sbuffò, agitando la criniera e battendo con forza uno zoccolo sul terreno. Pareva voler affermare che per lui non c’era proprio nulla di straordinario. Poi all’improvviso si impennò, sollevando le zampe anteriori verso il cielo, maestoso e indomabile, come la tempesta da cui prendeva il nome. I due cavalieri e i loro destrieri arretrarono, colti di sorpresa. Helan strinse la presa, ma sapeva bene che Alagos non l’avrebbe lasciata cadere. Desiderava solo ricordare a tutti la sua libertà, non spaventare chi gli stava di fronte. Si riappoggiò elegantemente a terra, rivolgendo un nitrito sommesso ad Elladan ed Elrohir, che si riavvicinarono con cautela.
«Non ti lascia ancora uscire da sola?», chiese Elrohir, accennando alla scorta che li stava raggiungendo.
Helan scosse il capo, sentendo gli occhi velarsi di lacrime. Il silenzio del padre la feriva, ma mai quanto sapere che aveva meritato la sua disapprovazione, quando invece il suo unico desiderio era renderlo orgoglioso di lei.
I due fratelli si guardarono seri, impegnati in una muta conversazione.
«Forse in questo possiamo aiutarti», disse infine Elrohir.
«Fidati di noi», concluse Elladan.

 

I figli del Signore di Imladris furono accolti con gioia ed Helan fu felice di vedere il viso di Elrond così disteso. Da troppo tempo non sorrideva. Dopo i festeggiamenti si ritirarono nei loro alloggi e restarono a discutere col padre fino a notte fonda.
La mattina successiva Helan scoprì un messaggio arrotolato con cura e infilato sotto la porta della sua stanza. In un attimo tornò bambina, quando correva con gioia seguendo le tracce lasciate per lei da Elladan ed Elrohir, in un gioco che si concludeva sempre con il racconto di una delle loro avventure. Molti anni erano trascorsi da allora, eppure, mentre si affrettava per raggiungere i due fratelli, si ritrovò a chiedersi quando la vita le avrebbe mostrato il cammino che aveva in serbo per lei.
Li trovò nel Patio delle Lame [3], ma non ebbe tempo di proferire una sola parola, perché con la coda dell’occhio notò un’ombra roteare veloce verso di lei. Senza pensarci, ruotò su se stessa uscendo dalla traiettoria del lancio e allungò la mano per afferrare l’oggetto, che si rivelò essere una pesante spada di legno, di quelle usate per gli allenamenti delle guardie.
«Bella presa», si congratulò Elladan. «Anche se sembravi più adatta una festa danzante che a un combattimento. Suvvia, non guardarmi così», aggiunse vedendo l’espressione sconcertata dell’elfa, «c’è molto da fare se vogliamo trasformarti in una guerriera degna di rappresentare la casa di Elrond».
Helan era confusa. Come la maggior parte degli abitanti di Imladris sapeva tirare con l’arco e la vista acuta del suo popolo le consentiva una buona mira, ma questo non la rendeva una guerriera. Non aveva mai portato un’arma e tra gli Eldar era raro che le donne combattessero. Guardò la spada che teneva in mano e si voltò verso Elrohir in cerca di spiegazioni.
«Come al solito mio fratello esagera. Tuttavia c’è del vero in ciò che ha detto. Abbiamo parlato con nostro padre e siamo giunti ad un accordo: ti addestreremo, così che tu sia in grado di difenderti da sola in caso di necessità. Elladan ti insegnerà l’arte della spada; a me invece il compito di istruirti nel tiro con l’arco e nel combattimento a cavallo. Credo infatti che Alagos e la sua velocità siano la tua migliore difesa», disse Elrohir portandosi accanto al fratello.
Mentre rifletteva sulle loro parole, Helan osservò con attenzione i due mezzelfi. Erano alti e forti, temprati dalle molte battaglie che avevano affrontato; come il padre avevano capelli corvini e occhi grigi, dalla madre avevano invece ereditato la grazia e il nobile portamento che li rendeva così simili agli antichi Signori degli Elfi. Si somigliavano talmente tanto che pochi, al di fuori dei confini di Imladris, riuscivano a distinguerli. Al contrario per chi li conosceva erano come il giorno e la notte: due opposti, che tuttavia non potevano esistere l’uno senza l’altro. L’elfa li ammirava e da quando aveva imparato a camminare sognava di accompagnarli nei loro viaggi attraverso la Terra di Mezzo. Strinse la spada, sentendosi impacciata ma risoluta allo stesso tempo. Sapeva quanto doveva essere stato difficile per loro convincere il padre e quanto doveva essere stato doloroso per Elrond dare infine il suo consenso. Li avrebbe resi fieri di lei.
«Gûr nîn glassui [4]», sussurrò Helan gettando le braccia al collo dei due fratelli. Quelli sorrisero e la strinsero, in un abbraccio che significava più di molte parole e valeva più di un giuramento. Erano una famiglia e questo nulla poteva cambiarlo.
Elrohir le accarezzò i capelli con delicatezza. Non possedeva il dono della preveggenza come suo padre, ma si augurò che Helan non dovesse mai mettere in pratica ciò che le avrebbero insegnato. Aveva visto troppo dolore e troppe morti, che ora pesavano sul suo cuore come macigni. Né lui né Elladan volevano questo per lei.
«Aspetta a ringraziarci», rispose Elladan allegramente, togliendole di mano la spada, «perché una volta che avremo iniziato non vorrai più farlo».

 

E così da quel giorno la vita di Helan intraprese un corso del tutto inaspettato, di cui l’incontro con Alagos non era stato che l’inizio.
Per tre anni Elladan ed Elrohir rimasero nella valle per addestrarla. L’elfa scoprì subito che non sarebbe stata la loro unica allieva, ma avrebbe diviso tale privilegio con il giovane Estel [5]. Lui e sua madre Gilraen erano i misteriosi ospiti inviati ad Imladris alcuni anni prima dai due fratelli. Venivano dai territori settentrionali dell’Eriador [6], ma ben poco si sapeva di loro. Mastro Elrond li aveva accolti nella sua casa e aveva cresciuto Estel come un figlio adottivo, verso il quale nutriva un profondo affetto.
«Estel? Non ha che sette anni!», esclamò Helan vedendo il bambino attraversare il cortile e correre verso di loro, i capelli neri scompigliati che gli ricadevano sulla fronte nascondendone i vivaci occhi azzurri. Si fermò trafelato accanto a lei, fece un profondo respiro e si sforzò di assumere l’espressione più seria e compunta possibile.
Elrohir si voltò verso il punto da cui era venuto Estel. Sotto il porticato stava una donna dai capelli color del grano maturo; ritta e severa, teneva le mani giunte davanti a sé e nonostante la distanza egli notò le nocche sbiancate per la forza con cui le stringeva, cercando di celare la sua apprensione. Accortasi di essere osservata, Gilraen si riscosse dalla sua immobilità e fissò il mezzelfo. Angoscia e rassegnazione oscuravano il volto di una madre che sapeva di non poter difendere il proprio figlio dal destino che lo attendeva. Turbato dal tormento che lesse in lei, Elrohir abbassò lo sguardo ed ella si allontanò, sola. L’erede di Elrond si sentì un codardo per essere fuggito a quella silenziosa richiesta di aiuto. Ricordò il sorriso luminoso di Gilraen il giorno in cui l’aveva conosciuta, quando non era che una ragazza spensierata. Avrebbe desiderato vedere quella luce ancora una volta. Un tocco leggero lo distolse dai suoi pensieri. «Ci prenderemo cura di lei», gli sussurrò Helan stringendogli la mano.

 

Tempo. Raramente Helan si era soffermata a riflettere sull’importanza del tempo, ma la sua esistenza stava cambiando più rapidamente di quanto lei stessa si rendesse conto e con essa anche i suoi pensieri. Ogni mattina al sorgere del sole si recava al Patio delle Lame, sceglieva un’arma di legno tra quelle allineate con ordine sulla rastrelliera e si preparava alla lezione di spada.
Elladan si dimostrò un maestro incalzante e molto esigente. Riteneva non esistessero limiti per il corpo, fintanto che mente e spirito si mantenevano saldi. Per questo li spronava. Perché prima o poi la vita li avrebbe messi di fronte a un ostacolo che avrebbero creduto di non poter affrontare; solo allora avrebbero compreso che l’impossibile può divenire possibile, se si crede in se stessi.
Helan non sapeva se fosse vero. E in fondo forse non desiderava scoprirlo. L’unica certezza era che i lividi sulle sue braccia divenivano sempre più numerosi.
Estel al contrario possedeva un innegabile talento naturale per il combattimento. Imparava in fretta ed era in grado di capire al volo l’avversario che si trovava di fronte, sfruttandone abilmente difetti e debolezze a suo vantaggio. L’elfa lo osservava ammirata. Era solo un bambino, ma sarebbe diventato un guerriero straordinario.
«Imparate da ciò che vi circonda e ricordate che tutto quello che vedete ha qualcosa da insegnare. Siate veloci come il vento e pazienti come la foresta. Devastanti come il fuoco e incrollabili come la montagna. Silenziosi come l’ombra e imprevedibili come il lampo [7]», ripeteva spesso Elladan e in quei momenti il suo sguardo vagava lontano, perso in ricordi di vecchie battaglie.
Quando il sole raggiungeva il punto più alto nel cielo, le spade venivano riposte. Estel riacquistava l’allegra spensieratezza della sua giovane età e correva verso gli alloggi che condivideva con la madre, raccontando a gran voce le sue imprese a chiunque incontrasse. Helan invece si dirigeva verso il recinto di Alagos, fermandosi a cogliere un frutto da dividere con l’amico prima di affrontare la seconda e ultima lezione della giornata.
Elrohir si dimostrò un maestro taciturno e, di nuovo, molto esigente. Le poche parole che diceva erano come frecce, dritte al bersaglio.
«Ho osservato che cavalchi lo stallone a pelo, senza nessun tipo di finimenti», esordì la prima volta che si incontrarono, senza nascondere una lieve nota di rimprovero.
«Non ho mai pensato di averne bisogno» gli rispose cauta Helan, cercando le parole per spiegarsi e dissipare i dubbi del mezzelfo. «Alagos sa sempre in quale direzione desidero andare, a volte persino meglio di me. Tu stesso hai affermato che potrebbe essere un’ottima risorsa. So che è difficile, ma credimi, non costituisce un pericolo per me, né ora né in futuro». “Inoltre dopo che ha distrutto le scuderie nessuno degli stallieri gli si è voluto avvicinare per tentare di sellarlo” pensò, ma decise di non esprimere a voce alta questa considerazione.
Senza una parola, Elrohir tornò ad osservare il cavallo, che trottava pacifico seguendo il percorso della staccionata. Dunque era deciso. Avrebbero cavalcato insieme verso il loro destino, con o senza il suo aiuto. E se quello era il cammino tracciato per Helan, lui non aveva alcun diritto di ostacolarlo. L’unica cosa che poteva fare era insegnarle ciò che sapeva e prepararla ad affrontare il mondo.

 

«Sei lenta», disse Elladan.
Helan sbuffò, spostando una ciocca di capelli che le copriva gli occhi. Era sudata e aveva il fiato corto. Il ciondolo che portava al collo sembrava bruciare al contatto con la sua pelle e l’elfa percepiva una strana sensazione, come se una piccola fiamma ardesse dentro di lei, ogni giorno sempre più grande. Scosse la testa e si concentrò sul combattimento.
«Forse hai passato troppo tempo a raccogliere fiori e piante medicinali», la punzecchiò Elladan.
«Eppure ricordo bene che la mia conoscenza ti è stata utile diverse volte», gli rispose Helan, tentando un colpo laterale che venne immediatamente parato. L’abilità di Elladan era ineguagliabile. Le aveva insegnato a combattere e a difendersi, ma soprattutto le aveva insegnato a cadere e a rialzarsi. «Cadere e rialzarsi», sussurrò l’elfa quasi senza accorgersene.
«Desideri forse che ti conceda un po’ di riposo?», chiese Elladan con tono canzonatorio, cercando di richiamare l’attenzione dell’allieva.
Cadere non era sempre sintomo di debolezza. Helan prese un lungo respiro e calmò i battiti del suo cuore. Vide il mezzelfo caricare un nuovo colpo, mentre si avvicinava a lunghe falcate roteando la spada. Poteva pararlo, ma non sarebbe riuscita a contrattaccare. Era più forte di lei. Ma forse… Con un movimento repentino gli andò incontro, tenendo l’arma di fronte a sé, ma un attimo prima di essere alla sua portata si abbassò, gettandosi in scivolata accanto a lui. Sollevò la spada sulla testa per proteggersi dal fendente, poi lo colpì con forza dietro al ginocchio, sbilanciandolo in avanti. Si alzò rapidamente e ruotando su se stessa portò la lama di legno alla gola di Elladan.
Per un momento ci fu il silenzio più assoluto. Mai prima di allora era riuscita a sorprenderlo. In tre anni di allenamento Elladan non aveva perso un solo incontro. Helan vide passare nel suo sguardo l’orgoglio ferito del grande guerriero, lentamente sostituito dall’orgoglio del maestro di fronte ai progressi dell’allievo. Gli porse una mano per aiutarlo a rialzarsi, sforzandosi di rimanere seria, prima di sciogliersi in un sorriso all’udire gli applausi entusiasti di Estel. Persino Elrohir, che aveva assistito alla lezione seduto sotto il porticato, le rivolse un silenzioso ma sincero cenno di approvazione.
«Ebbene, sembra che tu non abbia più bisogno di noi», borbottò infine Elladan mentre si rimetteva in piedi.
«Avrò sempre bisogno di voi», rispose Helan sfiorando affettuosamente il braccio del mezzelfo.
«Lo sappiamo. Perciò è meglio che tu abbia questa», disse Elrohir facendosi avanti e porgendole una spada avvolta da un drappo purpureo. «Il suo nome è Tirdir [8]. Vigilerà su di te quando noi non potremo farlo».
«Scoprirai tu stessa che è un’arma di una certa utilità. Oltre a te, solo qualcuno che sarebbe disposto a morire per salvare la tua vita potrà estrarla dal fodero. Una caratteristica decisamente non comune. Sospetto che ne possegga altre, ma noi non le conosciamo», le spiegò Elladan.
Helan fece scorrere le dita sul fodero di legno bianco, finemente decorato con un motivo di foglie dorate. Quasi senza respirare sollevò la spada e si accorse che l’impugnatura si adattava perfettamente alla sua presa; spinta dalla curiosità la sguainò, rivelando una lama curva a taglio singolo lunga circa tre spanne. Semplice eppure bellissima. Ed era stata fatta per lei.
«C’è un’iscrizione! Cosa dice?», domandò Estel con voce eccitata. Con i suoi dieci anni arrivava quasi alla spalla di Helan e si sporgeva per cercare di osservare meglio l’arma.
«Tirdir aen estar nín, beriad dan i môr», recitò l’elfa. «Nel linguaggio comune significa “Io sono Tirdir, una protezione contro l’oscurità”».

 

Dall’alto di una terrazza, Mastro Elrond scrutava il Patio delle Lame, celato allo sguardo dei suoi figli. Le stelle che di solito scintillavano nei suoi occhi parevano spente, offuscate dalla tristezza.
«Credi che non sappia che hai lavorato personalmente a quella spada? Dovresti dirle la verità».
Quelle parole erano state pronunciate da una voce che Elrond conosceva bene, eppure fu con riluttanza che il Signore di Imladris si voltò verso lo stregone e diede voce all’unica risposta che il suo cuore poteva accettare: «No».
«Helan merita di sapere. Abbiamo taciuto troppo a lungo», continuò lo stregone.
«È una decisione che abbiamo preso molti anni fa e tutti eravamo d’accordo. Non credere che per me sia stato facile. Vedo la sua forza crescere giorno dopo giorno, conscio di cosa questo significhi. Sì mellon nín, ho guardato nel suo futuro e ho visto dolore e disperazione. Soffrirà molto e potrebbe non resistere. Io l’ho cresciuta come una figlia e farò quanto è in mio potere per proteggerla. Non voglio vederla spezzata. O peggio… Per fortuna abbiamo ancora tempo».
Gandalf fece un profondo sospiro. Mastro Elrond era uno dei suoi più vecchi e cari amici, perciò non lo contraddisse, nonostante sentisse che il tempo era vicino.
«Raccontami di te piuttosto. Ero convinto che fossi ancora con Saruman. L’incontro non ha avuto l’esito che speravi?», chiese il Mezzelfo, grato di poter cambiare argomento.
«Si è rivelato inconcludente e ammetto che inizio a trovare tutta questa situazione assai frustrante. Penso che farò un viaggio. Se riesco a togliermi dalla mente questi problemi, forse riuscirò a venirne a capo. Sì, è deciso. Partirò domattina all’alba», disse lo stregone raddrizzando la sua grigia figura.
«Potrai fare ritorno quando vorrai. Sei sempre il benvenuto nella mia casa», lo salutò Elrond.
«Ti ringrazio, mio Signore. Ma ricorda ciò che ti ho detto riguardo ad Helan. Se è il suo destino non potrai evitarlo. Non puoi tenerla qui per sempre». Detto questo, Gandalf si inchinò e si diresse verso le scale.
«Avrei potuto se non fosse stato per quel cavallo», sussurrò Elrond.
«Potrebbe essere stato un incontro casuale» suggerì Gandalf, alzando le spalle con studiata noncuranza.
«E da quando gli stregoni credono negli incontri casuali?».




 

NOTE:
[1] Saluto Sindarin.
[2] In Sindarin significa È passato molto tempo (letteralmente A long time has passed).
[3] Uno dei cortili interni di Imladris, il nome l’ho scelto pensandolo come un luogo di allenamento.
[4] In Sindarin significa Vi ringrazio di cuore (letteralmente My heart is glad).
[5] Nome elfico di Aragorn, in Sindarin significa Speranza.
[6] Regione occidentale della Terra di Mezzo, compresa tra le Montagne Blu e le Montagne Nebbiose.
[7] Concetto tratto da “L’arte della guerra” di Sun Tzu.
[8] In Sindarin significa Guardiano.

DATE:
2931 T.E. 1 marzo: nascita di Estel.
2933 T.E. : Estel e Gilraen giungono a Imladris. Solo Elrond e i suoi due figli conoscono la loro identità.
2937 T.E. 24 marzo: Helan incontra Alagos durante la tempesta.
2938 T.E. : ritorno di Elladan e Elrohir a Imladris.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Incontri casuali ***


Incontri casuali

Una figura grigia camminava lungo la via; era un uomo con una folta barba grigia e un cappello a punta, avvolto in un mantello malandato. Il suo viso solcato dai segni del tempo doveva aver visto molti inverni e molte primavere, ma i suoi occhi limpidi riflettevano un animo intelligente e gentile. Procedeva a lunghi passi, appoggiandosi ad un bastone nodoso che stringeva con forza, come se cercasse un sostegno per trasportare un pesante fardello. Notò il tronco di un albero caduto ai margini della strada e decise di approfittare di quel sedile improvvisato per riprendere fiato.
Gandalf si sedette, grato per la possibilità di quella sosta. Era stanco, preoccupato e assai contrariato. Ancora una volta Saruman non aveva prestato ascolto alle sue preoccupazioni e non aveva voluto prendere in considerazione i suoi piani. E senza la sua approvazione il Bianco Consiglio non avrebbe agito. Molti e cupi erano i pensieri che gravavano su di lui, perciò aveva deciso di congedarsi da Imladris e cercare riposo tra i verdi campi della Contea, che non vedeva ormai da vent’anni.
Era quasi il tramonto quando vide una figura scura dirigersi verso di lui.

 

Una figura scura camminava lungo la via; era più basso di un normale uomo, ma la barba nera ben curata e i capelli intrecciati con cura rendevano impossibile credere che fosse solo un ragazzo. Il suo volto era serio e altero, e nel suo sguardo brillava l’orgoglio tipico della sua stirpe. Avanzava velocemente, accompagnato dal tintinnare della spada che portava al fianco e avvolto in una cappa decorata. Giunto in cima a una collina si fermò un momento, respirando a pieni polmoni la frizzante aria primaverile, poi riprese il cammino verso le luci di una città che si faceva sempre più vicina.
Thorin Scudodiquercia era inquieto. Il viaggio che aveva intrapreso inseguendo voci e frammenti di racconti non si era risolto con l’esito che sperava, anzi, aveva solo permesso al passato di tornare a galla e riprendere a tormentarlo. Non aveva trovato alcuna traccia di Thrain e da giorni le immagini dei saloni pieni di fiamme della Montagna Solitaria non abbandonavano la sua mente. Scosse la testa con forza. Doveva tornare alla sua fucina sulle Montagne Blu; forse il duro lavoro lo avrebbe aiutato a dimenticare.
Era quasi il tramonto quando vide una figura grigia seduta su un tronco poco lontano.

 

Thorin osservò con curiosità il viaggiatore. Quel giorno non aveva incontrato nessuno, ad eccezione di alcuni fattori, e non gli sarebbe dispiaciuto scambiare qualche parola, se ne fosse valsa la pena. Si avvicinò e, vedendo l’uomo alzarsi con l’aiuto di un bastone, pensò che forse avrebbe avuto un po’ di compagnia a distoglierlo dai ricordi.
«Ben incontrato» esordì Thorin, accennando un inchino mentre l’altro si sistemava il cappello. «Sono diretto alla città di Brea. Se è anche la vostra destinazione, potremmo proseguire insieme».
Quegli lo fissò assorto per un momento e Thorin avrebbe giurato di aver visto una luce accendersi nei suoi occhi, prima di udirne la risposta. «Ti accompagnerò volentieri, Mastro Nano. Non è saggio di questi tempi viaggiare soli, persino per un vecchio pellegrino come me», disse sorridendo.
Thorin si accigliò, perché in effetti aveva avuto la sgradevole sensazione di essere osservato. Spesso si era voltato a controllare il sentiero, ma nessun indizio aveva confermato i suoi sospetti.

 

Parlarono di molte cose, mentre le ombre si allungavano e le prime stelle facevano la loro comparsa nel cielo. Dietro quell’immagine trasandata, si nascondeva un uomo saggio e arguto, che conosceva numerose sfaccettature di ciò che accadeva nel mondo. Eppure c’era dell’altro, qualcosa che era sepolto nella memoria di Thorin e che lo punzecchiava da quando aveva scorto il viandante a lato della strada.
“Tharkûn [1]”. Stavano attraversando il cancello sud della città di Brea quando la voce di suo padre gli risuonò nella mente, nitida come non accadeva da tempo.

 

2799 T.E. – DUNLAND [2]
Il loro esercito era quasi pronto. Dopo nove anni di violenti scontri e preparativi, finalmente avrebbero marciato su Khazad-dûm [3]; finalmente avrebbero affrontato Azog, il Profanatore, vendicando la brutale uccisione del loro Re. Eppure Thrain, erede di Thror, Re sotto la Montagna, non avrebbe viaggiato con il suo popolo. Thorin non riusciva a capire come potesse abbandonarli alla vigilia della partenza.
«Non temere figlio mio, vi raggiungerò presto. Mi servono consigli, e avrò bisogno di una saggezza che va al di là delle conoscenze del nostro popolo. È necessaria una visione più ampia. Tharkûn. Lo devo trovare. Lui saprà cosa fare. Nel frattempo affido a te il compito di guidarli. Veglia su di loro». Queste erano state le parole di suo padre.

 

Ora ricordava. Come il metallo incandescente libera scintille infuocate quando viene colpito, così la forza di quella rivelazione strappò il velo che annebbiava la memoria di Thorin Scudodiquercia, lasciandolo senza fiato. Finalmente riusciva a vedere con più chiarezza. Quel viaggiatore dagli abiti grigi doveva essere lo stregone di cui suo padre gli aveva parlato.
Strani individui gli Stregoni. Nessuno sapeva quanti fossero, né da dove venissero; camminavano sotto mentite spoglie attraverso la Terra di Mezzo e si diceva che fossero sapienti oltre ogni immaginazione, edotti in tutte le arti grazie ad innumerevoli anni di studi. Quale fosse la verità su di loro a Thorin non interessava. Era diffidente, a causa dei molti dolori che la vita gli aveva causato. Ma se Mahal [4] aveva diretto i suoi passi per fargli incontrare quell’uomo, allora doveva esserci un buon motivo e lui aveva tutta l’intenzione di scoprirlo.

 

Senza accorgersene, erano ormai giunti nel cuore della città e il viandante si fermò sotto l’insegna di una locanda, che raffigurava un puledro impennato.
«Ebbene, pare che qui le nostre strade si dividano Mastro Nano», disse con un accenno di commiato, il volto illuminato dalla calda luce di una lanterna. «Ti confesso che ad una certa età si iniziano ad apprezzare piccoli piaceri come un buon pasto e un letto comodo».
«Permettimi allora di unirmi a te per la cena, così da ringraziarti della tua compagnia lungo la strada», si affrettò a dire Thorin, vedendo l’uomo avviarsi verso un’ampia porta e temendo che potesse sparire da un momento all’altro. Che pensiero insensato: nessuno era in grado di scomparire all’improvviso, era semplicemente impossibile. Scosse la testa e strinse l’elsa della spada, salendo gli scalini che portavano all’ingresso.
Entrarono in una grande sala, illuminata e chiassosa. Facendosi strada tra gli avventori, si sedettero a un tavolo vicino al camino e subito la figlia dell’oste portò loro un piatto con pane e formaggio, accompagnato da due boccali di birra scura.
«Forse dovrei presentarmi», disse allora lo stregone, togliendosi il cappello e assumendo un tono di voce leggermente drammatico. «Il mio nome è Gandalf il Grigio».
«So bene chi sei, Tharkûn», gli rispose secco Thorin, deciso a non lasciarsi impressionare.
«Mi chiedevo quando ti saresti ricordato di me Thorin Scudodiquercia. Ebbene sì, conosco il tuo nome. Credi che non riconosca un erede di Durin quando lo incontro? E ora dimmi, cosa ti porta a Brea?» chiese Gandalf, prima di tagliarsi una generosa fetta di pane.
Thorin rimase in silenzio per un minuto. Non sapeva se poteva fidarsi. D’altronde non aveva nulla da perdere, perciò iniziò a raccontare: «Diverse settimane fa ho ricevuto notizia che mio padre era stato visto vagare sulle colline brulle vicino a Dunland. Ci sono andato, ma non c’era traccia di lui. Ho costeggiato le Montagne Nebbiose, cercando segni o indizi della sua presenza, fino alla foce del Fiume Grigio, su a nord. Non ho trovato nulla. A quel punto ho deciso di abbandonare la mia ricerca e mi sono diretto verso Ultimo Ponte [5], per raggiungere la Grande Via Est. Il resto puoi ben immaginarlo. I miei sforzi sono stati vani e mio padre è ancora disperso».
«Ah… Thrain…», mormorò Gandalf con tristezza.
«Tu sei come tutti gli altri! Credi che sia morto, ma non è così!», ribatté Thorin, colpendo con rabbia il piano del tavolo.
«Dicono che dopo la battaglia non fosse più lo stesso», sospirò lo stregone. «Persino tu devi ammettere che sono passati molti anni da quando Thrain è scomparso e non si hanno altro che voci su di lui».
«È ancora vivo. Io ne sono certo», disse Thorin voltandosi verso le fiamme che ardevano. Sapeva che Gandalf lo stava fissando, ma non si sarebbe mostrato dubbioso di fronte a lui. Non gli avrebbe permesso di leggere sul suo volto il dolore e i timori che attanagliavano il suo cuore.

 

2799 T.E. – AZANULBIZAR [6]
Spade e asce cozzavano, mentre gemiti e lamenti si alzavano dal suolo riempiendo la vallata di una macabra melodia. Ovunque si girasse c’era solo morte. Doveva fare qualcosa, o nessuno di loro sarebbe rimasto in vita. Thorin si guardò intorno, finché non scorse l’orco pallido che si ergeva in mezzo a quella devastazione. Fece un passo, ma venne subito trattenuto. La forte presa di suo padre gli impediva di procedere oltre nel suo intento di attaccare Azog.
«Padre, io voglio combattere!», disse Thorin fissando sorpreso il volto duro e risoluto di Thrain.
«Stai indietro. Azog intende ucciderci tutti. Uno per uno annienterà la stirpe di Durin. Ma per la mia vita lui non si prenderà mio figlio. Tu resterai qui», tuonò Thrain stringendo il suo martello da guerra, rosso come il sangue versato dai nemici che aveva abbattuto.
Thorin vide il suo re, suo padre, caricare con furore attraverso il Cancello orientale di Khazad-dûm. E il nano che conosceva non fece più ritorno.
La battaglia fu infine vinta, ma quando Thrain riapparve era pallido, come se fosse reduce da un grande spavento. Qualcosa in lui era cambiato, perché egli era stato l’unico che avesse osato guardare aldilà del Cancello e là, nascosto nell’ombra, aveva veduto il flagello di Durin in agguato.

 

«E che mi dici dell’anello? Quello che portava Thror, uno dei Sette che furono dati ai Signori dei Nani nella Seconda Era. Che fine ha fatto?».
Le parole dello stregone richiamarono la mente di Thorin al presente. «Mio nonno lo diede a mio padre, subito prima di mettersi in viaggio con Nar. Il suo animo era irrequieto e non riusciva a sopportare l’idea di una vita in esilio. Voleva vedere cosa aveva ancora il mondo da offrirgli, ma ha trovato solo la morte. Il destino non è stato benigno con la stirpe di Durin», rispose il nano.
“Perciò anche l’Ultimo dei Sette è andato perduto”, pensò Gandalf, aggrottando le sopracciglia di fronte alla conferma dei suoi tristi sospetti.
«Ora è il tuo turno di rispondere a qualche domanda. So che mio padre venne a cercarti prima della battaglia. Cosa gli dicesti allora?», chiese Thorin, gli occhi fissi sullo stregone.
«Lo spronai a marciare sulla Montagna Solitaria, per distruggere il drago e rivendicare il suo regno. E lo stesso direi a te. Riprenditi la tua terra natia», affermò Gandalf.

 

La mattina successiva si alzarono di buonora per riprendere il cammino. Lo stregone aveva accettato di raggiungere Thorin sulle Montagne Blu dopo aver sbrigato le sue faccende nella Contea. I suoi consigli sarebbero stati utili per organizzare la missione.
«Non immagino davvero quali affari possano trattenerti qui», disse Thorin quando giunse il momento di separarsi. «Tra questi Hobbit non ci sono che contadini e droghieri, eccetto forse qualche mediocre artigiano. Sono dei sempliciotti, che nulla conoscono del mondo attorno a loro».
Gandalf fu colto da un improvviso attacco di tosse e si limitò a borbottare mentre si allontanava dalla strada principale. Trovava irritante l’atteggiamento superbo di Thorin nei confronti della gente della Contea. Certo, amavano la tranquillità e il buon cibo, ma sapevano essere generosi, solidali e persino coraggiosi in un certo qual modo.
Si avviò verso il mercato di Hobbiville, seguendo il vociare allegro e il profumo di pane fresco. Banchi colmi di frutta e verdura, tendoni colorati e visi sorridenti circondarono ben presto lo stregone. Tutti lo salutavano con cordialità, anche se era conscio che la maggior parte degli abitanti di quella bella terra lo considerava quantomeno bizzarro. Cosa che comunque non gli importava granché.
Raggiunse una piccola fontana di pietra e lì si sedette con la pipa accesa, sonnecchiando al sole e creando curiose forme di fumo per la gioia dei bambini che giocavano lì attorno.
«Un tipo un tantino strambo, se posso permettermi. I genitori sono morti entrambi, una vera disgrazia che li abbia persi così prematuramente. Ed essendosi ritrovato all’improvviso ricco e padrone delle proprie giornate, sembra proprio non avere alcuna intenzione di accasarsi».
Incuriosito Gandalf ruotò la testa in direzione della voce, proveniente da un giovane agricoltore che parlava lanciando sguardi orgogliosi al suo banco di cavolfiori e cipolline. Una piccola insegna, che in realtà assomigliava più a un foglio scarabocchiato, recitava “Forino Cotton di Lungacque” [7].
«E parola mia, capita spesso che parta da solo per diversi giorni. Dove vada nessuno lo sa. Ma io stesso ho visto il signor Bilbo Baggins parlare con diversi stranieri lungo la Via, persino con dei Nani!». All’udire quelle parole le signore assiepate attorno lanciarono un gridolino, prima di ricominciare a contrattare sul prezzo degli ortaggi.
Per Gandalf fu un’illuminazione. Tre immagini si fusero insieme: un drago astuto e crudele, nani rumorosi e rancorosi, e infine uno hobbit lesto e avventuroso. Ricordava bene Bilbo, che aveva incontrato nei suoi viaggi precedenti. Gli era sempre andato a genio quel bambino pieno di domande ed entusiasmo, con gli occhi che brillavano mentre ascoltava storie sul vasto mondo oltre i confini della Contea. Sì, valeva la pena tentare. Lo stregone chiese informazioni e si diresse verso la Collina, ma quando bussò al portone verde che gli era stato indicato nessuno rispose.
«Se cercate il signor Baggins non lo troverete», disse uno hobbit con un largo capello di paglia impegnato ad innaffiare un cespuglio di rose. Scosse il capo con disappunto e si presentò come Holman Manoverde. «È partito di nuovo. Uno di questi giorni se ne andrà per sempre se non sta attento, credete a me. Un vero peccato, e pensare che è un tipo così a modo, difficile trovarne di migliori... Suvvia Hamfast [8], non perdere tempo e muoviti a potare le aiuole!», esclamò a un ragazzo paffuto, probabilmente il suo apprendista.
Gandalf rise tra sé e sé di fronte alla faccia sbalordita del giovane hobbit, che non riusciva a smettere di fissarlo, in un perfetto miscuglio tra innocua curiosità e puro terrore. Il ragazzo balbettò qualcosa e incespicò fino a raggiungere i suoi attrezzi, riprendendo il lavoro sotto lo sguardo critico del suo maestro. Lo stregone si allontanò, lasciando i due giardinieri all’opera. Gli dispiaceva non aver incontrato Bilbo per vedere come fosse cambiato negli anni, ma era certo che fosse la persona, anzi lo hobbit giusto per la missione che aveva in mente.
«Una goccia di audacia Tuc e una buona dose di cocciutaggine Baggins. Sì, sarà perfetto», mormorò soddisfatto mentre si avviava di buon passo verso le Montagne Blu.

 

Trovò Thorin Scudodiquercia immerso nei preparativi. Numerose mappe erano stese su un tavolo e un’ordinata fila di armi giaceva accanto alla porta, allineate in attesa di partire alla conquista di un regno lontano ma mai dimenticato.
«Benvenuto nella mia dimora Tharkûn », lo salutò l’erede di Durin, «nonostante sia poco più della misera abitazione di un esiliato. Ebbene, ben presto tutto ciò cambierà! Ci riprenderemo quello che è nostro e finalmente avremo vendetta su Smaug!».
Un coro di approvazione si levò e quattro nani si fecero avanti per presentarsi: Balin e Dwalin, Gloin e infine Fili, un giovane dai capelli biondi con un sorriso spavaldo, nipote di Thorin e suo successore come Gandalf scoprì in seguito.
«Unisciti a noi, il parere di uno stregone è prezioso. A proposito, so che hai molti nomi, come preferisci essere chiamato?», chiese Thorin sedendosi a capotavola e indicando agli altri di fare lo stesso.
«Gandalf andrà benissimo, ti ringrazio», rispose educatamente lo stregone, cercando di accomodarsi su una panca decisamente troppo bassa per lui.
«Così sia allora» dichiarò Thorin. «Dato che le formalità sono state risolte, credo che possiamo procedere. Secondo Dwalin abbiamo a disposizione circa ottanta soldati pronti a partire dalle Montagne Blu. Bisogna occuparsi dei rifornimenti, mentre le fucine lavoreranno senza sosta per approntare armi e corazze. Il costo dell’impresa sarà elevato, ma Gloin ci assicura che potremo affrontarlo. Ora, se mi cugino Dain ci fornirà duecento dei suoi guerrieri, sono convinto…».
Diversi colpetti di tosse interruppero il discorso e tutti i presenti si voltarono verso Gandalf.
«Oh perdonate, non fate caso a me», disse lo stregone sorridendo. I nani lo guardavano con insistenza, perciò, dopo un cenno alquanto seccato di Thorin, prese la parola. «I tuoi piani sono quelli di un Re, figlio di Thrain, ma non lo sei. Il tuo regno è perduto e i tuoi sostenitori dispersi. La tua unica possibilità è convocare in assemblea le Sette Famiglie dei Nani e pretendere che rispettino il loro giuramento. Solo uniti avete la forza e la potenza per riconquistare la Montagna».
Thorin fremette e cercò di controllare l’ira nella sua voce: «I Sette Eserciti fecero quel voto a colui che possiede l’Archengemma, il gioiello del Re. E nel caso te lo fossi dimenticato quella pietra giace sotto le zampe di un drago, a mezzo mondo da dove ci troviamo ora».
«Ti assicuro Thorin Scudodiquercia che non l’ho scordato», replicò Gandalf. «Smaug ha occupato a lungo i miei pensieri. Ora che le ombre hanno ricominciato a crescere, la sua presenza nella Montagna Solitaria mi preoccupa. Ed è per questo che sono disposto ad aiutarti».
«Le tue parole sono vaghe e inquietanti. Se devi parlare, fallo con chiarezza!», sbottò Thorin.
«Ebbene, ti darò una mano a recuperare l’Archengemma», disse lo stregone, facendo piombare la stanza nel completo silenzio. «Ma dovrai seguire le indicazioni che ti darò. Il mio piano si basa infatti su un’azione segreta e furtiva. Smaug è vecchio e astuto, dotato di un’incredibile memoria e di un’ancora più incredibile olfatto. Nonostante il sonno, continua a vigilare, pronto a cogliere il minimo sentore dei suoi più antichi nemici, i Nani. Egli sa che prima o poi vorrete rivendicare ciò che vi ha sottratto. Ed ecco la soluzione, per quanto assurda possa sembrare: prendi con te uno hobbit!».
«Cosa? Uno di quei piccoletti della Contea? Per la mia barba, devi essere folle!», esclamò Gloin.
«Sono sciocchi e paurosi, troppo attaccati alle loro comode abitudini. Dubito abbiano mai visto un’arma in tutta la loro vita! A cosa potrebbero mai servire contro un drago?», domandò Dwalin indignato.
«Su, su,» fece Gandalf, cercando di placare gli animi ed evitando di guardare Thorin, la cui fronte sempre più aggrottata non lasciava presagire nulla di buono. «Voi conoscete poco questi Hobbit, ma io ho avuto modo di osservarli a lungo. Fidatevi di me quando dico che sono generosi e persino coraggiosi al momento opportuno. Dovreste vederli nell’ora del bisogno, per scoprire cosa c’è realmente in loro. Restereste sorpresi. E per finire, Smaug non sa dell’esistenza degli Hobbit e certamente non ne ha mai fiutato l’odore. Cosa che torna a nostro vantaggio».
«Certo, perché non si avvicinerebbero mai tanto da essere fiutati neppure da un uovo», ribatté Dwalin.
«Ti sbagli», disse Gandalf, «lo hobbit che ho in mente è un vero temerario, scaltro e di grande intelligenza.  Esattamente il tipo che non vede l’ora di buttarsi a capofitto in una avventura!».
«Sembra promettente. Quale sarebbe il suo nome, o quello di cui si serve?», chiese Fili con interesse.
«Al contrario dei Nani, gli Hobbit hanno un nome soltanto, e il suo è Bilbo Baggins. Un nome degno di rispetto, perciò se fossi in te non ne riderei», commentò lo stregone rivolgendosi al giovane nano, che aveva soffocato una risatina all’udire il nome di Bilbo. «E c’è dell’altro. Come tutta la sua gente, si muove senza il minimo rumore. Non ne trovereste altri, tra le stirpi mortali, in grado di spostarsi più silenziosamente. Proprio a questo mi riferivo parlando di un’azione segreta e furtiva: segretezza professionale!».
«Segretezza professionale?» chiese Balin, che fino a quel momento era rimasto zitto. «Intendi forse un cacciatore di tesori esperto, uno scassinatore? Non credevo ce ne fossero ancora in circolazione. Lo si potrebbe prendere in considerazione, se il prezzo che chiede è equo».
Gandalf tentennò, accarezzandosi la barba. Non era esattamente la soluzione che aveva immaginato, ma se serviva a vincere la testardaggine della stirpe di Durin allora era la direzione giusta. Negli ultimi giorni gli era parso di essere guidato da strani casi e coincidenze, ma ora la via da seguire gli appariva sempre più chiara, come se un fitto velo di nebbia si fosse finalmente dissipato.
«Rimane comunque uno hobbit!» tuonò Thorin all’improvviso, alzandosi e sporgendosi verso Gandalf. «Questa tua idea è una vera buffonata e io non ho alcuna intenzione di ascoltare simili assurdità nella mia casa! Non mi lascerò ingannare! Anche se avesse a disposizione una vita intera nessuno hobbit, scassinatore o meno, potrebbe mai fare nulla per ripagarmi di aver provveduto a lui per una sola giornata!».
A quelle parole Gandalf si infuriò. Si levò, scuro in volto, e la sua voce risuonò con la forza di un temporale: «Uditemi bene, popolo di Durin, perché non lo ripeterò! Solo se lo hobbit verrà con voi avrete successo. Senza di lui la vostra missione fallirà miseramente e le ombre vi avvolgeranno».
Nessuno parlò. Tutti erano attoniti e anche se mai un nano si sarebbe mostrato intimorito, per un istante i loro cuori avevano tremato.
«Hai usato parole davvero molto forti stregone», disse infine Thorin. «Per la stima che mio padre nutriva nei tuoi confronti, incontrerò il tuo scassinatore. Hai la mia parola».
«Molto bene, vedo che finalmente hai ritrovato la ragione! Dunque è deciso. Immagino che la partenza dovrà essere fissata non più tardi della fine di aprile, ma avrete presto mie notizie con tutti i dettagli. Nel frattempo io andrò a porre sul portone del signor Baggins il marchio dello scassinatore, così che possiate trovare con facilità la sua casa. Mi dicono che possiede una delle dispense meglio rifornite della Contea, quindi per lo meno sarete trattati con grande ospitalità. Arrivederci!».
Detto questo, Gandalf prese congedo rapidamente, perché temeva che i nani potessero cambiare idea, eventualità da non trascurare visti i loro sguardi dubbiosi. Si calcò il cappello sulla testa, afferrò il bastone e una volta giunto alla porta la aprì con decisione. Troppa decisione. Si sentì un tonfo accompagnato da un’imprecazione e Gandalf si ritrovò davanti un giovane nano, che cercava di rialzarsi dal pavimento massaggiandosi la fronte. Con un sospiro lo stregone lo scavalcò e si avviò verso l’uscita, con  l’eco di un rimprovero che si perdeva lungo il corridoio.
«Kili, possibile che tu ti metta sempre nei guai?».
«Scusami fratellone, volevo solo sapere cosa vi sareste detti... Credi che lo zio assumerà quel tale, il signor Boggins?».

 

*****
 

Molti anni più tardi, mentre la Terza Era del Mondo stava ormai giungendo al termine, Gandalf narrò questi eventi ad alcuni compagni, in un tranquillo pomeriggio di quei giorni di festa. E quando il suo racconto fu concluso, volse lo sguardo verso il tramonto e disse: «Molto abbiamo patito, eppure le nostre sofferenze avrebbero potuto essere ben maggiori, ora me ne rendo conto. Ma un tale triste destino è stato impedito grazie al fatto che ho incontrato Thorin Scudodiquercia una sera, all’inizio della primavera, non lontano da Brea. Un incontro casuale, come si usa dire nella Terra di Mezzo».



 

NOTE:
[1] Nome nanico di Gandalf, in Khuzdul significa Uomo-bastone.
[2] Contrada alle pendici occidentali delle Montagne Nebbiose, in Rohirric significa Terra bruna.
[3] Nome nanico di Moria, in Khuzdul significa Dimore dei Nani.
[4] Nome nanico di uno dei Valar, Aulë, in Khuzdul significa Il Creatore.
[5] Antico ponte lungo la Grande Via Est, permette di attraversare il Fiume Grigio (o Fiume Bianco).
[6] Vallata di fronte ai cancelli orientali di Moria, in Khuzdul significa Valle dei Rivi Tenebrosi.
[7] Forino Cotton di Lungacque, detto Fino il Lungo, nonno paterno di Rosie Cotton.
[8] Hamfast Gamgee, detto il Gaffiere, apprendista di Holman Manoverde e padre di Samvise Gamgee.

DATE:
2770 T.E. : Smaug devasta Dale e conquista la Montagna Solitaria.
2790 T.E. : Thror giunge a Moria insieme a Nar e viene ucciso da Azog. Inizia la guerra tra Nani e Orchi.
2799 T.E. : Battaglia di Azanulbizar.
2845 T.E. : Thrain scompare nei pressi di Bosco Atro, mentre è diretto alla Montagna Solitaria.
2941 T.E. 15 marzo: Thorin Scudodiquercia e Gandalf si incontrano lungo la strada per Brea.



 

ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti,
ne approfitto per ringraziare quanti leggono e seguono questa storia e per comunicarvi che cercherò di aggiornare ogni due settimane, durante il weekend.
Dedico questo capitolo “nanico” (la cui ispirazione nasce dalla lettura de La cerca di Erebor) a didi_95 e zebraapois91, ringraziandole per il loro sostegno e incoraggiamento!

Possa la strada alzarsi per venirvi incontro e possa il vento soffiare sempre alle vostre spalle
Tielyannawen

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Guardando la luna ***


Guardando la luna

Il 26 aprile dell’anno 2941 della Terza Era fu ricordato dai giardinieri della Contea come un mercoledì particolarmente sereno, perfetto per preparare orti e serre all’arrivo dell’estate. Eppure fu dopo il tramonto che accaddero alcune cose che avrebbero cambiato il corso della storia della Terra di Mezzo e di certi suoi abitanti in particolare.
 

*****
 

Alagos pascolava tranquillo nel suo recinto, guardando la luna che lentamente iniziava a comparire nel cielo.
Una brezza gentile agitava la sua criniera corvina e voci cristalline riempivano l’aria con melodie di tempi lontani. Pace. Aveva corso a lungo prima di arrivare in quel luogo incantato, dove l’acqua era dolce e l’erba verde come mai l’aveva vista. Lì aveva trovato ciò che cercava.
Un lieve sospiro giunse alle sue orecchie. Non era più solo. Costeggiò lo steccato fino a trovarsi davanti al Mezzelfo. Di rado qualcuno si avvicinava e in fondo lo stallone preferiva così. Studiò il visitatore da una certa distanza. Non conosceva il suo nome, ma sapeva di avere di fronte colui che governava su quella terra. Ne percepiva il potere; un potere benigno, eppure così colmo d’angoscia.
«So che non le farai del male», sussurrò il Signore di Imladris, «ma la porterai lontana da me. E il mio cuore piange all’idea di perderla».
Nessun nome fu pronunciato, ma ad Alagos non fu necessario per capire a chi si stesse riferendo. Entrambi tenevano a quella fanciulla dal cuore cortese e il cavallo sperò che egli fosse in grado di leggere nei suoi occhi quei pensieri che non aveva altro modo di esprimere: “Io la proteggerò, affinché possa tornare e vivere felice”.
Un sorriso impercettibile si aprì sul volto del Signore di Imladris ed Alagos seppe che aveva compreso. Vide il suo sguardo scintillare e udì la sua voce levarsi chiara: «Hai la mia benedizione Alagos, erede di Felarof [1]! Nai tielyar nauvar laicai az hwesta nauva canalyesse [2]!».
Mentre parlava venti forti e impetuosi li avvolsero. Il mondo correva attorno a loro e al cavallo parve di vedere brillare una stella azzurra. Poi tutto sparì e fu come se il Mezzelfo non fosse mai stato lì.

 

Elrond si fermò davanti all’ingresso dell’Erbario [3], guardando la luna attraverso le vetrate.
Amava Imladris, soprattutto di notte, quando poteva camminare non visto e osservare con orgoglio ciò che aveva creato. Il suo desiderio di costruire un rifugio per tutti coloro che cercavano riparo dall’Ombra si era avverato e, anche se per molti anni la Terra di Mezzo aveva vissuto in pace, le porte della sua casa continuavano a restare aperte.
Oltrepassò un arco ed entrò. Mazzi di erbe e fiori scendevano dal soffitto e lungo le pareti riposavano file di vasi di vetro, cullati dal suono di una piccola fontana. Al centro della stanza, china su un tavolo di pietra, stava Helan. Dei suoi figli, lei era l’unica ad essersi interessata allo studio delle piante fin da bambina ed ora portava al fianco la borsa con le rune degli erboristi.
Si soffermò a osservarla mentre sminuzzava una manciata di foglie con movimenti rapidi, le mani rese agili e precise da secoli di pratica; le stesse mani che si erano tese verso di lui chiedendo aiuto e protezione, quando era ancora in fasce. Sorrise a quel ricordo e iniziò a parlare: «Queste pareti hanno sentito la tua mancanza negli ultimi tempi». “Ed anche io”, pensò il Mezzelfo.
« Conosci Elladan ed Elrohir, sono incontentabili. I loro allenamenti mi hanno tenuto molto impegnata. Ma quando posso mi piace tornare qui. Ho sempre creduto che fosse un luogo speciale», gli rispose Helan sollevando la testa e c’era gioia nel suo sguardo.
«Cosa stai preparando?». Non aveva bisogno di chiedere, riconosceva quei rami, ma lo fece comunque.
«Foglie e fiori di biancospino [4], per favorire il sonno. Vuoi aiutarmi?».
Avevano molto da dirsi, ma per quella notte si limitarono a lavorare fianco a fianco, in silenzio. Un padre e una figlia grati dell’affetto che li univa.

 

Helan lasciò vagare i suoi pensieri, guardando la luna lasciare posto all’alba.
Era felice di aver avuto la possibilità di passare del tempo con l’unico padre che avesse mai conosciuto, eppure percepiva che c’era dell’altro, qualcosa che Elrond non le aveva rivelato. Dietro il suo allontanamento doveva esserci una ragione seria, un motivo nascosto dietro un velo che nessuno dei due aveva ancora voluto sollevare. Ma la lunga vita degli Eldar avrebbe concesso loro innumerevoli altre occasioni per chiarirsi e ogni cosa sarebbe tornata al proprio posto.
E presto o tardi anche il suo spirito inquieto avrebbe trovato la pace. Si sentiva bloccata, in attesa, come un uccello che debba spiccare il volo ma ancora non sappia usare le ali. Per quasi duemila anni aveva vissuto, senza mai allontanarsi da quella vallata, e ora si chiedeva se solo quella sarebbe stata la sua vita. Trascinarsi leggiadra attraverso le stagioni.
Con un sospiro si allontanò dalla finestra e all’improvviso una scossa l’attraversò lasciandola senza fiato. Si accasciò a terra davanti al caminetto, incapace di rialzarsi. Il ciondolo che portava da quando era nata iniziò a pulsare e divenne rovente; malgrado ciò, nessun segno di ustione comparve sulla sua pelle, né sulla mano con cui l’aveva afferrato. Attorno a lei i contorni della sua stanza scomparvero, trasformandosi in un mondo incandescente e sconosciuto. Dal muro di fiamme che la circondava sembrò uscire una voce femminile, remota, eppure familiare, come se l’avesse udita ogni giorno fin dall’infanzia. Le parole che pronunciò avevano il tono di un monito, che continuò ad echeggiare nella mente dell’elfa per diverse ore dopo che si fu svegliata tremante sul pavimento.

“Acque ardenti e cinque artigli d’argento:
questi segni indicheranno il momento
in cui colei che la fiamma accompagna
potrà salvare con la vita il sangue della montagna.
Allora il potere del fuoco si ridesterà
e ciò che perduto era, ritrovato sarà.”

 

*****
 

Dwalin affrettò il passo, guardando la luna fare capolino dietro alla Collina.
Avevano percorso strade secondarie per arrivare fin lì, abbandonando la comodità offerta dalla Grande Via Est. Su questo punto lo stregone era stato categorico e del tutto irremovibile. Temeva che la loro presenza potesse “turbare la quiete della buona gente della Contea”. Queste erano state le sue parole. E così avevano viaggiato separatamente, soli o in piccoli gruppi, per non destare sospetti. Come se un nano con martello da guerra e un paio di asce legate sulla schiena potesse risultare meno minaccioso da solo piuttosto che in compagnia.
Aggrottò la fronte, facendo increspare i tatuaggi che la ricoprivano, e si sporse oltre l’ordinata fila di cancelletti per cercare il marchio. Aveva deciso di tagliare per i campi, attraversando distese di grano e piantagioni di verdure d’ogni sorta. I proprietari non erano parsi molto entusiasti del suo vagabondaggio, ma era bastato uno sguardo e si erano limitati a scrutarlo accigliati, facendo rientrare di corsa mogli e figli in casa.
«Hobbit. A cosa mai potrà servirci non lo capisco davvero. Troppa erba-pipa deve aver dato alla testa a quello stregone», mormorò Dwalin prima di bussare al portoncino verde, su cui spiccava un marchio che emetteva una debole luce celeste. Non si azzardò a tirare la maniglia del campanello, perché pareva decisamente troppo delicata per delle robuste mani abituate a far roteare asce.
Si sentì un tonfo poco prima che la porta venisse aperta da uno hobbit con la testa ricoperta di folti ricci ramati, vivaci occhi chiari e avvolto in una bizzarra vestaglia multicolore. Decisamente non assomigliava a un guerriero.
«Dwalin, al vostro servizio!», disse esibendo controvoglia il suo migliore inchino.
Il padrone di casa restò in silenzio per alcuni istanti, fissandolo sbigottito e con la bocca spalancata. Era lampante che non si aspettava nemmeno lontanamente di veder comparire un nano al suo uscio quella sera. All’improvviso sembrò ritrovare la parola, o quanto meno le buone maniere, e riuscì a farfugliare: «Bilbo Baggins, al vostro. Perdonate la mia sfacciataggine, ci conosciamo per caso?».
«No», rispose secco Dwalin, entrando e lanciando il mantello sul più vicino attaccapanni. Si guardò intorno e annusò l’aria: pesce arrostito e verdure bollite. «Da quale parte è la cena? Lui aveva parlato di tantissimo cibo. Una delle migliori dispense della Contea, almeno così ci ha assicurato».
Lo hobbit aveva ricominciato a balbettare, perciò Dwalin decise di fare affidamento sul suo naso per orientarsi attraverso stanze e corridoi. Trovò con facilità la sala da pranzo e si lasciò cadere pesantemente su una panca, iniziando a rimpinzarsi, incurante dello sguardo allibito del suo ospite. In fondo era stato un lungo viaggio e si sentiva davvero affamato. Inaspettatamente si accorse che quella portata era ottima e dovette ammettere che, almeno in cucina, lo hobbit sapeva il fatto suo. Persino il palato fino di Bombur sarebbe stato d’accordo con lui.
Terminato il pesce agguantò diverse focaccine all’uvetta, senza dimenticare di complimentarsi con il cuoco questa volta.
Il signor Baggins parve riscuotersi all’udire le sue parole e iniziò quello che aveva tutto il tono di sembrare un discorso avvincente, almeno per uno hobbit: «È solo che io non aspettavo ospiti in questi giorni, a parte alcuni chiassosi cugini da parte di mia madre, ma loro non passeranno prima di giugno e… ». L’improvviso suono del campanello lo interruppe e con mille scuse scattò verso l’ingresso.
Dwalin ne approfittò per appropriarsi di un contenitore di vetro pieno di biscotti che aveva notato su una mensola. Stava giusto svuotando il barattolo quando l’inconfondibile voce di suo fratello Balin lo fece voltare.
«Per la mia barba, sei più basso e più largo di quando abbiamo lasciato le Montagne Blu», scherzò Dwalin stringendo le spalle del fratello.
«Più largo forse, ma non più basso! E sempre abbastanza acuto per entrambi!», ribatté pronto Balin, con un luccichio di divertimento negli occhi.
Si fronteggiarono per un attimo prima di colpirsi affettuosamente. Il sordo suono dello scontro tra le teste dei due figli di Fundin risuonò per tutta Casa Baggins, facendo sussultare lo hobbit che era rimasto ad osservarli impietrito.
«Coraggio fratello mio, aiutami ad ispezionare la dispensa prima che arrivino gli altri», disse Dwalin facendo strada e cercando di non prestare eccessiva attenzione ai versi strozzati che uscirono dalla gola del padrone di casa.
La dispensa era davvero stracolma, degna delle descrizioni di Gandalf, e mentre si aggirava tra gli scaffali Dwalin si chiese come potesse un solo hobbit mangiare così tanto. Il loro viaggio sarebbe durato mesi e di certo non potevano permettersi di trasportare simili quantità di provviste. Allungò la mano verso una forma tonda avvolta da alcune foglie, prima di accorgersi che emanava un odore simile ai piedi di un minatore dopo un’intensa giornata di lavoro. «E questo che cos’è?», esclamò.
«Non saprei dirlo con certezza, però credo che potrebbe essere formaggio», azzardò Balin tenendosi a distanza.
«Ma è tutto blu e per di più pieno di muffa. Ah, meglio buttarlo prima che faccia male a qualcuno», decise Dwalin dopo averlo esaminato. Lo lanciò in un angolo e si diresse verso alcune interessanti botti di birra. «Ahi ahi, vedo che ti sei lanciato vecchio mio», disse vedendo il fratello maggiore raggiungerlo con due boccali tra le mani.
«Suvvia fratello, riempi e non essere tirchio», lo rimbeccò Balin.
Nel frattempo un deciso scampanellio aveva riportato lo hobbit verso la porta e due voci riecheggiarono festose sulle pareti di legno. «Fili e Kili, al vostro servizio!».
“Quei due la dovrebbero smettere con questi coretti”, pensò Dwalin prima di chiamarli. «Fili, Kili, muovetevi e venite qui a darci una mano. Dobbiamo fare un po’ di spazio o non ci entreremo mai tutti quanti», affermò iniziando a dirigere i lavori. Dopo alcuni tentativi e diverse lamentele da parte del padrone di casa, poté dichiararsi soddisfatto.
Il campanello suonò molte altre volte quella sera e finalmente arrivarono anche gli ultimi ritardatari; a quanto pareva, Bombur aveva insistito per fermarsi in tre diverse locande a gustare la tanto rinomata ospitalità hobbit e suo fratello Bofur non era riuscito a impedirglielo. Insieme a loro giunse anche Gandalf, palesemente divertito dallo sguardo frastornato dello hobbit.
«Mio caro Bilbo, quale diamine è il problema?», lo sentì domandare. «Non è da te far attendere degli ospiti affamati. Forza, vai a prendere il pollo freddo e i sottaceti. Ah, e io graderei un bicchiere di buon vino rosso, se non è di troppo disturbo».
Bevvero e mangiarono, cantarono e raccontarono storie, ridendo e scherzando tra loro. Forse stavano facendo troppo chiasso, ma Dwalin pensò che probabilmente era una delle ultime occasioni per essere allegri e che nemmeno il loro principe avrebbe avuto da ridire se si divertivano un po’.
Un colpo secco alla porta fece calare il silenzio nella sala da pranzo.
«Lui è qui», sussurrò lo stregone.

 

Thorin si fermò in mezzo al sentiero, guardando la luna, silenziosa compagna dei suoi pensieri.
Aveva attraversato la Contea da solo e questa volta aveva cercato di prestare maggiore attenzione ai suoi abitanti, anche se mai l’avrebbe ammesso davanti allo stregone. Piccole finestrelle rotonde si aprivano di tanto in tanto lungo il pendio, illuminando la notte con la calda luce di lampade e caminetti. Attraverso i vetri, Thorin aveva osservato il quieto mondo degli Hobbit, genitori e figli riuniti attorno a un tavolo per cenare insieme.
Sempliciotti, così li aveva definiti discorrendo con Gandalf. Eppure una parte del suo cuore li invidiava, perché nella semplicità di quei volti sorridenti c’era un calore che lui aveva perduto da tempo. Ripensò alla sua famiglia, segnata da così tanto dolore. Suo nonno, brutalmente assassinato, e sua nonna, morta tra le fiamme del drago. Suo padre, disperso da quasi un secolo, e sua madre, muta dal giorno della scomparsa dell’amato marito. Suo fratello, la cui giovane vita era stata spezzata troppo presto, e sua sorella, con lo sguardo vuoto la mattina della loro partenza. E ora lui stesso trascinava i suoi nipoti in un’impresa disperata. Certo i Valar avevano seminato molta sofferenza tra la stirpe di Durin.
Scosse il capo e si chinò ad osservare il suo scudo, seguendo le linee della corteccia che gli aveva salvato la vita.
“Hai forse dimenticato la nostra promessa? Tu sarai il mio coraggio e io sarò la tua difesa. Per sempre”. Il fiero figlio di Thrain sobbalzò. Quella voce, la sua voce. Dopo tanto tempo, lei era ancora lì, al suo fianco. «Hlíf… », sussurrò e una lacrima solcò il suo viso, cadendo sul legno di quercia.
Si guardò intorno, grato di essere solo in quel momento. Una debole luce celeste brillò nel buio, come a volergli fare da guida, e si diresse verso di essa, risalendo la Collina. Avrebbe dovuto trovare una scusa per il suo ritardo, era ormai notte fonda e di certo i suoi compagni lo stavano aspettando. Sollevò la mano e bussò con forza.
«Gandalf, avevi detto che questo posto era facile da raggiungere, eppure ho smarrito la via ben due volte. Non lo avrei trovato affatto se non fosse stato per il marchio sulla porta», disse allo stregone non appena gli ebbe aperto. Non fece in tempo ad aggiungere altro, perché una voce si fece largo tra la schiera di nani che lo avevano circondato per dargli il benvenuto.
«Marchio? È impossibile, la porta è stata ridipinta di un bel verde brillante non più di una settimana fa».
«Certo che c’è, l’ho tracciato io personalmente. E ora Bilbo Baggins permetti che ti presenti il capo della nostra compagnia: Thorin Scudodiquercia», annunciò Gandalf con tono solenne.
A quelle parole tutti si fecero da parte e Thorin fu finalmente in grado di scorgere il padrone di casa, che si fissava i piedi con imbarazzo e con il fin troppo evidente desiderio di vederli scomparire seduta stante. «Dunque questo è l’audace hobbit. Ditemi, signor Baggins, avete combattuto a lungo? Ascia o spada, qual è l’arma che preferite?», chiese bruscamente.
«Come prego? Beh, sono piuttosto bravo a tirar castagne se proprio volete saperlo, ma non vedo come possa essere rilevante», balbettò lo hobbit colto alla sprovvista.
«Lo immaginavo. Assomiglia più a un droghiere che a uno scassinatore», borbottò Thorin in direzione dello stregone. C’era gentilezza nell’animo del loro ospite e per un attimo era riuscito a scorgere un accenno di orgoglio nei suoi occhi chiari. Ma questo non era sufficiente. Non aveva bisogno di una vita in più di cui dover essere responsabile.
Si sedettero nella penombra della sala da pranzo e Gandalf chiese che fosse fatta un po’ più di luce, in modo da poter spiegare il suo piano segreto e temerario. Con grande teatralità estrasse un involto dalle pieghe dei suoi abiti grigi e quando lo svolse il chiarore della lampada ne mostrò il contenuto: una mappa ingiallita e una grossa chiave.
«Come mai simili oggetti erano nelle tue mani?», mormorò Thorin. Non osò aggiungere altro, nel timore di lasciar trasparire il turbamento che la vista di tali cimeli gli aveva causato. Erano indubbiamente di fattura nanica. Fece scorrere il dito sui segni scuri, tracciati con decisione sulla pergamena e trattenne il respiro sfiorando le rune che indicavano il nome di suo nonno.
«Mi sono stati consegnati da tuo padre prima della battaglia di Azanulbizar, per sicurezza. Appartengono a te ora e mi auguro che ne farai un uso saggio», disse Gandalf con gentilezza. «E adesso parliamo di strategia. Come ben sapete la porta principale della Montagna Solitaria è sigillata, ma abbiamo avuto fortuna. Le rune in questa mappa indicano la presenza di un passaggio segreto che conduce alle sale inferiori».
Alla notizia dell’esistenza di un’altra via d’entrata i nani iniziarono a rumoreggiare con entusiasmo, subito frenato dalle parole di Balin: «Se riusciamo a trovarlo. Le porte dei nani sono invisibili una volta chiuse, a meno che non se ne conosca l’esatta posizione e il meccanismo».
«Concordo con te mio caro Balin. La risposta giace nascosta da qualche parte in questa mappa e io purtroppo non ho la capacità di trovarla, ma esistono altri nella Terra di Mezzo che possiedono le conoscenze per farlo», rispose lo stregone.
Thorin si accigliò. Conosceva poco della vita e delle amicizie di Gandalf, ma era certo di sapere a quale genere di aiuto si stava riferendo. Non avrebbe permesso che mani elfiche si avvicinassero ai doni che erano giunti fino a lui attraverso tante tribolazioni.
«È rischioso, ma possiamo farcela!», esclamò Fili, alzandosi e stringendo la spalla del fratello. «Ora finalmente capisco perché ci serve uno scassinatore!».
Tutti gli sguardi si spostarono sul padrone di casa, che indietreggiò lentamente, agitando le mani e assicurando di non aver mai rubato nulla in vita sua. Urla e polemiche esplosero e Thorin si rivolse furibondo verso lo stregone, ma prima di poter aprir bocca udì un colpo secco e tutte le luci si offuscarono, immergendo la stanza nell’oscurità.
«Se dico che Bilbo Baggins è uno scassinatore, allora uno scassinatore è, o lo sarà al momento opportuno. Ha da offrire più di quanto voi non possiate indovinare e assai più di quanto egli stesso immagini. Mi auguro sinceramente che possiate tutti sopravvivere a questa impresa per ringraziarmi». Come era accaduto sulle Montagne Blu, la voce di Gandalf li colpì come un tuono. Il suo volto era quasi irriconoscibile, illuminato dal bagliore sprigionato dal suo bastone. Quando la luce tornò nessuno aveva voglia di parlare e molti volti erano corrucciati.
«Permetti una parola?», domandò Thorin, facendo cenno a Gandalf di seguirlo nel corridoio. «Questa tua idea è completamente assurda», sibilò non appena si furono allontanati, «e l’ho capito non appena ho visto quello hobbit tremante all’ingresso. Sei stato molto astuto a non menzionare la mappa e la chiave prima che arrivassimo nella Contea, ma sono un nano e non è facile imbrogliarmi. Non conosco le tue intenzioni, ma sono sicuro che hai ben altri scopi oltre quello di aiutarmi».
«Hai perfettamente ragione, non ti aiuterei affatto se questo non coincidesse con propositi più ampi», gli rispose candidamente Gandalf. «Ti ricordo però che sei stato tu a chiedere il mio consiglio, Thorin Scudodiquercia, e io ho elaborato un piano la cui riuscita è legata alla presenza di Bilbo. Non ho altre parole per convincerti. Posso solo dirti che non concedo il mio affetto o la mia stima con facilità, ma nutro una profonda simpatia per lo hobbit e gli auguro ogni bene. Trattalo con rispetto e godrai della mia amicizia fino alla fine dei tuoi giorni».
Thorin rimase in silenzio per riflettere. I nani prendevano in grande considerazione la devozione e la lealtà verso gli amici, perciò fu il calore dei sentimenti espressi dallo stregone a convincerlo: «Molto bene. Se vorrà partire, allora faremo a modo tuo. Sappi però che non garantisco la sua sicurezza e che non sarò responsabile del suo destino».
«Capisco e mi trovo d’accordo con te. Il destino di Bilbo Baggins non è nelle nostre mani», confermò lo stregone. Il suo sguardo si intristì e vagò lontano, dove il nano non poteva seguirlo.
Ritornarono verso la sala da pranzo e Thorin dovette reprimere un sorriso all’udire un chiaro rumore di metallo, segno che Gandalf aveva urtato contro il lampadario. Con sua grande sorpresa incrociò lo sguardo dello hobbit, che stava sghignazzando per lo stesso motivo. L’ilarità del padrone di casa non durò però a lungo, perché una volta iniziato a leggere il contratto impallidì e, complici la loquacità di Bofur e la scrupolosità di Balin, si accasciò a terra con un grido.
«A quanto pare abbiamo perso il nostro scassinatore», mormorò Balin scuotendo la lunga barba bianca.
«Forse è meglio così», replicò Gloin, «perché non mi pare proprio che abbia la stoffa dello scassinatore. Un urlo del genere al momento sbagliato potrebbe farci uccidere tutti».
«E raggiungere la Montagna Solitaria non è un viaggetto per persone ammodo, che non sanno combattere né provvedere a loro stesse», aggiunse secco Dwalin.
«Beh io non ho paura di affrontare Smaug», dichiarò con voce tremula il giovane Ori, meritandosi una fulminea occhiata di rimprovero da parte di Dori.
Ripresero a discutere e nessuno prestò più molta attenzione allo hobbit steso sul pavimento; solo Bofur con l’aiuto di suo cugino Bifur si alzò per spostare il padrone di casa su una poltrona in salotto, probabilmente spinto dal senso di colpa per averlo scioccato con le sue funeste descrizioni.

 

Bilbo si rannicchiò sotto le coperte, guardando la luna e pensando sconsolato che gran parte della notte era ormai passata.
Indubbiamente quello era stato il peggior mercoledì della sua vita e di certo l’improvvisa comparsa di Gandalf il giorno precedente avrebbe dovuto metterlo in allarme. Invece l’aveva invitato per un tè, una decisione che ora gli appariva quanto mai inspiegabile.
Per colpa di quello stregone aveva visto barbe, armi, mantelli, attrezzi e ancora armi sfilare nel suo ingresso e riempire i corridoi; un giovane nano biondo gli aveva rovesciato addosso almeno una dozzina di lame, premurandosi di comunicargli che erano appena state affilate. Aveva assistito impotente alla razzia della sua dispensa e a uno spregiudicato gioco di destrezza nanica ai danni del servizio di piatti di sua madre. E non era ancora tutto!
Avevano iniziato a parlare di combattimenti e nobili imprese, riferendosi a lui con termini come “audace” e “scassinatore”. E poi era spuntato il drago. Certo era stato divertente vedere la reazione impacciata di Gandalf quando uno dei nani gli aveva chiesto quanti draghi avesse ucciso in gioventù; aveva iniziato a tossire e sbuffare, fino a quando non era riuscito a cambiare argomento. Ma il divertimento era sfumato in fretta ed era letteralmente svenuto quando aveva finalmente compreso che cosa si aspettavano da lui. Lacerazioni ed eviscerazioni gli sembravano proprio il genere di complicazioni da evitare con grande cura, insieme al rischio di essere incenerito da un drago. Assolutamente no! Non voleva avventure, ma solo starsene tranquillo sulla sua poltrona a fumare la pipa. Lo aveva detto chiaramente allo stregone, dopo essersi ripreso dallo spavento con l’aiuto un goccio di vino.
«Te ne stai tranquillo da fin troppo tempo», aveva sbottato Gandalf infastidito. «Dov’è finito il giovane hobbit che desiderava scoprire cosa ci fosse oltre i confini della Contea? Il mondo è la fuori, non nelle tue mappe né nei tuoi libri».
«Non posso andarmene di punto in bianco. Noi Baggins siamo sempre stati gente perbene e rispettabile. Questo è la mia casa, il posto a cui appartengo. Puoi promettermi che ritornerò?», aveva chiesto Bilbo con un leggero tono di sfida, fissando lo stregone negli occhi.
Gandalf era rimasto in silenzio per qualche istante prima di rispondere: «No. E se farai ritorno non sarai più lo stesso».
«Lo immaginavo. Scusami Gandalf, ma non posso farlo. Hai scelto lo hobbit sbagliato», aveva mormorato tornando a scrutare le fiamme nel caminetto.
Una volta terminata la riunione, i nani si erano alzati e Bilbo aveva dovuto trovare un giaciglio per tutti quanti. Come qualsiasi altro hobbit amava ricevere visite e la sua casa aveva a disposizione diversi letti per gli ospiti che avessero voluto trattenersi per la notte, ma nonostante questo dovette utilizzare anche divani e poltrone per riuscire a sistemare ognuno di loro. Naturalmente aveva riservato le camere migliori per Thorin e Gandalf; la piccola invasione che aveva subito non gli aveva fatto dimenticare le buone regole di cortesia e ospitalità. Inoltre sospettava che l’erede di un reame lontano e uno stregone dai grandi poteri non potessero riposare su panche e sofà.
La goccia che aveva fatto traboccare il vaso però era stata la lavagnetta. Stava finalmente raggiungendo il suo letto, dopo aver distribuito cuscini a chi li chiedeva, quando l’occhio gli cadde sulla lavagnetta che di solito usava per ricordare gli appuntamenti. In bella grafia erano stati segnati gli ordini per la colazione. La prima riga recitava “Thorin: sei uova con prosciutto, fritte, non in camicia” e subito sotto era segnata un’annotazione “Badate cortesemente di non esagerare con la cottura”.
«Questo è davvero troppo! Che vadano in malora tutti questi nani!», aveva sbottato, decidendo seduta stante che non si sarebbe disturbato ad alzarsi all’alba per preparare colazioni.
Fu ripensando a tutto ciò che infine Bilbo si addormentò, infelice e affamato, con canti su tesori e battaglie che gli risuonavano nelle orecchie, provocandogli sogni agitati.
Quando si svegliò il sole era ormai alto nel cielo. La casa era immersa nel silenzio e Bilbo si stupì, perché gli parve vuota e stranamente triste dopo la caotica confusione della sera prima. Ogni cosa era tornata al suo posto, come se nulla di strano o fuori dal comune fosse accaduto. I centrini facevano bella mostra sui tavolini e piatti e posate riposavano nelle credenze. Solo la dispensa, privata di gran parte del suo contenuto, gli ricordava che ciò che era avvenuto non era stato un’allucinazione.
Vagò per le stanze fino a ritrovarsi in salotto. Sulla mensola del caminetto giaceva il dettagliato contratto stilato per la sua collaborazione e accanto ad esso un biglietto, scritto velocemente ma con eleganza. Il testo recitava “All’onoratissimo signor Baggins, salute e salve! Ti ringraziamo per la tua cortese ospitalità. Non ritenendo opportuno disturbare il tuo sonno, abbiamo provveduto di buon’ora a ultimare i preparativi del viaggio. Resteremo in attesa del tuo arrivo presso la locanda Drago Verde di Lungacque, alle undici precise. I tuoi devotissimi, Thorin Scudodiquercia e Compagnia”.
Alzò lo sguardo, trovandosi di fronte i ritratti dei suoi genitori. Erano passati molti anni da quando se ne erano prematuramente andati, ma non passava giorno senza che sentisse la loro mancanza.

 

2902 T.E. – HOBBIVILLE
Era una tranquilla mattina d’estate e il giovane Bilbo stava armeggiando vicino all’ingresso per far entrare mele e albicocche nel suo zaino, già occupato da una generosa porzione di pane e formaggio. All’improvviso una voce squillante lo fece sobbalzare.
«Cosa stai facendo Bilbo?».
«Niente mamma!», urlò in risposta Bilbo, facendo scivolare lo zaino dietro la poltrona più vicina e nascondendo dietro la schiena la rudimentale mappa dei dintorni che si era tanto impegnato a disegnare la sera prima.
Un momento dopo dalla cucina sbucò Belladonna Tuc, con le mani sporche di farina e i capelli scuri raccolti in una crocchia. Era la maggiore nonché la più bella delle figlie del Vecchio Tuc, dal quale aveva ereditato generosità e una certa allegria di spirito.
«Come niente? Fuori c’è una bella giornata di sole e c’è tanto da vedere oltre lo steccato del nostro giardino. Perciò vai figliolo e scopri il mondo! Ma ricordati di rientrare in tempo per la cena, ci sarà la crostata!», disse raccogliendo lo zaino e allungandoglielo con aria complice.
Gli schioccò una bacio sulla fronte e Bilbo uscì dalla porta, allontanandosi di corsa sotto lo sguardo sorridente di sua madre.

 

Bilbo sorrise con affetto, mentre sistemava il ritratto leggermente storto di Belladonna Tuc.
«Ho capito mamma. Tornerò presto te lo prometto!».
Detto questo filò a preparare il suo bagaglio, afferrò il contratto e si precipitò fuori, chiudendosi la porta di casa alle spalle. L’orologio a muro segnava che mancavano solo dieci minuti alle undici. Corse a perdifiato lungo il sentiero, la lunga pergamena che svolazzava dietro di lui come un aquilone, e quasi investì i suoi giardinieri mentre saltava una staccionata.
«Dove correte signor Baggins?», chiese Holman Manoverde con voce strozzata, cercando di sostenere Hamfast che era sbiancato per lo spavento.
«Non posso fermarmi Holman, mi dispiace! È già tardi!», urlò Bilbo in risposta, senza nemmeno voltarsi.
«Tardi? Tardi per cosa?».
«In realtà non ne ho idea! Sto partendo per un’avventura!».



 

NOTE:
[1] Nome del capostipite dei Mearas, in Rohirric significa Molto forte.
[2] In Quenya significa Possano i tuoi sentieri essere verdi e la brezza dietro di te.
[3] Stanza per la lavorazione e la conservazione delle piante medicinali, una sorta di erboristeria.
[4] Il biancospino ha proprietà rilassanti e nel linguaggio dei fiori significa “speranza”.

DATE:
2890 T.E. 22 settembre: nascita di Bilbo Baggins.
2926 T.E : morte di Bungo Baggins.
2934 T.E : morte di Belladonna Tuc.
2941 T.E. 26 aprile: riunione inaspettata a casa di Bilbo Baggins.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** La dama intrepida ***


La dama intrepida

Bilbo si ritrovò a pensare che uscire da casa Baggins per seguire tredici nani e uno stregone era stata una scelta assai discutibile.
Erano in viaggio da oltre un mese ormai, ma gli ultimi giorni in particolare erano stati costellati da un incessante susseguirsi di sciagure. Prima avevano perso gran parte delle provviste nel fiume, a causa della fuga di uno dei pony durante un violento temporale; Fili e Kili, i giovani nipoti di Thorin, avevano rischiato di annegare nel tentativo di salvare l’animale dalle acque turbolenti. Poi erano stati catturati e quasi divorati da tre disgustose creature, che Bilbo aveva scoperto essere troll; senza l’abile stratagemma di Gandalf probabilmente non sarebbero sopravvissuti. E per finire erano stati attaccati all’improvviso da un paio di enormi lupi grigi.
«Lupi? No Bilbo, quelli non erano semplici lupi», disse Bofur, stringendo il suo piccone.
«Due mannari [1] ricognitori, o forse dei messaggeri», esclamò Thorin, estraendo la spada dal corpo di una delle due bestie. «Un gruppo di orchi non è molto distante».
«Orchi hai detto?». La flebile voce dello hobbit sembrò rimbombare nello strano silenzio che era calato sulla compagnia. I volti dei nani erano tesi e istintivamente si volsero verso il loro principe, in attesa di una sua decisione.
Nel frattempo l’attenzione di Gandalf si spostò su un oggetto seminascosto dal fitto sottobosco e lo stregone si chinò per raccogliere quello che si rivelò essere un lacero pezzo di pergamena. Una sola occhiata bastò a confermare i suoi sospetti. Si raddrizzò e si diresse a lunghi passi verso Thorin, deciso a interrogarlo. «A chi hai parlato della tua impresa, oltre che alla tua famiglia?», gli domandò con veemenza.
«A nessuno», rispose il nano, piantando i piedi a terra.
«A chi l’hai detto?», gridò Gandalf, facendo sussultare il povero Ori che si trovava accanto a lui.
«A nessuno, sono disposto a giurarlo. In nome di Durin, vuoi dirci cosa sta succedendo?», ribatté Thorin visibilmente irritato, ma senza abbassare lo sguardo.
Lo stregone lo scrutò a lungo, poi sospirò e mostrò loro ciò che aveva trovato. «È un messaggio, scritto in Lingua Nera», disse con voce grave, «o più esattamente una promessa di pagamento».
«Per cosa?», chiese Thorin, nonostante il suo cuore conoscesse già la risposta.
«La tua testa. Qualcuno desidera vederti morto, per questo ci stanno dando la caccia. Non possiamo più aspettare, ci serve aiuto». Le ultime parole di Gandalf furono sottolineate da un ululato raccapricciante che gelò il sangue e mise ali ai piedi della compagnia.

 

Nuvole plumbee correvano nel cielo. Helan fece scivolare le dita tra i piccoli fiori biancastri del sambuco [2] e li avvicinò al viso, lasciandosi avvolgere dal loro dolce profumo. Al termine dell’estate avrebbe potuto raccoglierne le bacche e preparare uno sciroppo contro la tosse, utile nei mesi invernali. Ma era presto. L’esistenza di ogni creatura seguiva il proprio corso e sfiorando i petali Helan seppe che quelle piante avevano ancora bisogno di pioggia e sole, prima di poter fruttificare.
Il nitrito di Alagos la distolse dai suoi pensieri. Colse una nota d’urgenza mai udita prima nel richiamo dello stallone, che la esortò a raccogliere le sacche piene di erbe e raggiungerlo in fretta. Trovò l’amico accanto a un ruscello, le orecchie tese verso ovest.
«Man le trasta, Alagos? Man mathach? [3]», mormorò Helan accarezzando la criniera corvina dello stallone. Era nervoso e sbuffò, battendo più volte gli zoccoli a terra e sollevando una piccola nuvola di polvere.
L’elfa si guardò intorno. Anche la natura circostante sembrava inquieta e avvertiva la terra tremare sotto i suoi piedi nudi. Chiuse gli occhi e ascoltò. Passi pesanti e affrettati calpestavano il terreno. L’acqua scorreva trascinando con sé voci concitate e la canzone del vento era colma di paura.
Un tremendo ululato attraversò la brughiera, ma Helan aveva già fatto la sua scelta. Assicurò le sacche al dorso di Alagos e recuperò le armi che giacevano poco lontano. Una tenue luce celeste filtrava dal fodero di Tirdir, inequivocabile segno della presenza di nemici nelle vicinanze. “Orchi, senza alcun dubbio. Eppure è strano che si spingano così vicini ai confini di Imladris”, pensò l’elfa, chiedendosi cosa li avesse indotti a rischiare tanto. Dopo che ebbe fissato la spada a una delle sacche, in modo da poterla estrarre con rapidità, si infilò la faretra sulla schiena e imbracciò l’arco. Per una volta fu contenta che Elladan ed Elrohir, di certo su ordine del padre, la obbligassero ad uscire dalla valle armata.
Montò in groppa allo stallone e risalirono al galoppo il fianco di una collina. Raggiunto il crinale, Helan scrutò la distesa d’erba di fronte a lei. In lontananza notò quindici figure in fuga. Non sapeva chi fossero, ma conosceva l’uomo in testa al gruppo fin dall’infanzia e non esitò a correre in loro aiuto.

 

2902 T.E. – HOBBIVILLE
«Ricordati le mie parole Bilbo. Le avventure non sono mai piacevoli passeggiate sotto il sorridente sole di maggio. Possono apparire invitanti e straordinarie ad un primo sguardo, ma si rivelano sempre scomode e fastidiose. Oltretutto fanno fare tardi a cena!».
Questo ripeteva Bungo Baggins al figlio ogni volta che si recava a Tucboro [4] per far visita ai parenti di sua madre.
Nonostante Bilbo gli somigliasse molto nei modi e nell’aspetto, il padre temeva che il suo sangue Tuc si risvegliasse prima o poi, soppiantando la solida rispettabilità per cui i Baggins erano da sempre noti nella Contea.
Fortunatamente fino a quel momento il giovane Bilbo si era mostrato immune a stranezze o stramberie, ad eccezione di un curioso interesse per le mappe, che il suo pacato genitore non aveva però ritenuto eccessivamente preoccupante.
Una sera il figlio lo vide in piedi accanto al caminetto, con i pollici infilati sotto le bretelle, e lo udì mormorare sollevato: «Eh sì, ormai non ci sono dubbi, è un vero Baggins. Credo proprio che il peggio sia passato!».

 

Su questo rifletteva Bilbo mentre abbandonava il bosco di pini e correva con i suoi compagni attraverso la brughiera, seguendo il malandato cappello a punta di Gandalf di riparo in riparo, cercando di non pensare che un intero branco di lupi selvaggi li stava raggiungendo.
Thorin, che chiudeva la fila alle spalle di Bombur, si voltò e vide che il distacco dai loro inseguitori si riduceva di minuto in minuto. Avevano bisogno di tempo per poter organizzare una difesa. «Ci sono quasi addosso! Kili usa l’arco!», gridò in direzione del nipote.
Il giovane nano rallentò il passo, studiando la zona per trovare un buon punto di tiro. Agguantò l’arco e fece per abbandonare il gruppo, ma una mano gli afferrò il braccio e girandosi incontrò gli occhi azzurro cielo del fratello, che lo fissavano allarmati.
«Non lascerò che tu vada da solo Kili», disse Fili trattenendolo. Non gli avrebbe permesso di compiere gesti avventati se poteva evitarlo. Proteggerlo era una sua responsabilità.
Kili bofonchiò sottovoce riguardo ai nani apprensivi, tuttavia sorrise e strinse Fili in un abbraccio. «Non temere fratellone, non mi succederà niente vedrai», disse facendo cozzare affettuosamente le loro fronti. «E poi la tua abilità come arciere è pessima quasi quanto il senso dell’orientamento di nostro zio», aggiunse ridacchiando mentre si allontanava in fretta.

 

Nonostante le frecce di Kili, gli ululati si fecero sempre più vicini e il cuore di Bilbo tremò. Non sarebbero riusciti a fuggire. Eppure lo stregone continuava ad avanzare, di roccia in roccia, sfiorando la pietra come alla ricerca di qualcosa.
Lo hobbit si chinò a guardare la spada che Gandalf aveva scovato per lui nella caverna dei troll. La luce che emetteva era passata dal celeste ad un blu intenso, ma quantomeno la lama pareva affilata e resistente. Tuttavia, quando si scontrò con la schiena di Gloin e vide cosa li aveva costretti a fermarsi, Bilbo si chiese se non fosse il caso di procurarsi un’armatura.
Un orco e sette mannari sbarravano la strada, con le zanne scoperte e gli occhi pieni d’odio. Erano pronti per attaccare, ma l’eco di un rumore impetuoso, simile ad una violenta bufera di vento, li fermò. Un’ombra oscurò il cielo sulle loro teste e con un balzo si pose tra la compagnia e gli aggressori. Una freccia trapassò l’occhio destro del mannaro più vicino e l’orco che lo cavalcava fu atterrato da un colpo sferrato con zoccoli possenti, che gli fracassarono il cranio.
I due corpi caddero a terra con un tonfo. Nulla si mosse. Respiri e parole restarono sospesi, come frenati da quella improvvisa apparizione. Sembrava una fanciulla umana, sperduta in quella landa desolata, ma le sottili orecchie a punta che spuntavano dalla folta chioma indicavano palesemente la sua appartenenza al popolo elfico. Indossava una gonna color rosso cupo e una blusa bianca e montava senza sella né redini un maestoso destriero nero.
Alla sua comparsa quasi tutti i nani digrignarono i denti, ad eccezione dei più giovani, che non avevano mai visto un khathuzh [5] e la fissavano con stupore. Thorin emise un suono cupo, simile a un ringhio, mentre fantasmi di antichi rancori riemergevano dal passato. Troppi anni avevano alimentato l’inimicizia tra nani ed elfi, e molti ancora ne sarebbero dovuti trascorrere prima che un reale riavvicinamento tra i due popoli fosse possibile.
Lo stallo durò solo un istante, poi iniziò lo scontro. I nuovi venuti fronteggiarono due mannari, facendoli lentamente indietreggiare; mentre il cavallo li teneva a distanza, l’elfa prese la mira, colpendo ogni volta con precisione. Senza esitazione i nani si lanciarono verso le quattro bestie restanti, combattendo con furore in una danza di fauci e asce.
In quel caos di artigli e fendenti, Bilbo si appiattì tremando contro un enorme masso, cercando di farsi piccolo e invisibile. I rumori della battaglia lo facevano sussultare e sentiva la superficie rocciosa pungergli la pelle attraverso il panciotto. Eppure, una parte remota della sua mente si destò e incredibilmente il figlio di Bungo Baggins pensò che forse avevano una possibilità di salvezza.
Al contrario dello hobbit, Nori si mantenne al centro dell’azione, lottando con movimenti rapidi e sfuggenti, e pensò molto più prosaicamente che se fosse riuscito a mettere le mani sul rubino che vedeva scintillare al collo dell’elfa, si sarebbe sistemato per parecchio tempo.
Cosa attraversò la mente di Gandalf in quell’occasione rimase un mistero; del resto era uno stregone e raramente condivideva i suoi pensieri con altri, al di fuori di sé stesso. Ma al suo sguardo attento non sfuggì che gli occhi di Helan avevano fiammeggiato come braci ardenti, anche se solo per un istante.

 

Helan quasi non riusciva a credere a ciò che era stata in grado di fare, anche se ogni singolo gesto e sensazione era ormai inciso per sempre nella sua memoria. Non aveva parlato a nessuno di quanto le era accaduto. Fiamme e voci sconosciute non erano considerate di buon auspicio tra gli elfi, nemmeno tra i più saggi. Aveva sperato di essersi sbagliata, che quella visione fosse solo frutto della stanchezza, ben sapendo che non era possibile. Ora ne aveva la certezza. Qualcosa in lei stava cambiando, non poteva più nasconderlo. Quel giorno, mentre combatteva, avvertì chiaramente una fiamma divampare nel suo petto. Ed ebbe paura.
Si riscosse e affondò Tirdir nella gola dell’ultimo mannaro ancora in piedi, incrociando l’espressione furente di un nano con la testa calva ricoperta di segni scuri. Impugnava due asce lorde di sangue e sembrava adirato per non aver abbattuto l’ultimo nemico.
Helan smontò da cavallo senza riporre le armi e superò i cadaveri, avvicinandosi alla compagnia seguita da Alagos. «I nôr hen delu. Drego! [6]». Le sue parole furono severe e frettolose, ma non c’era tempo per le formalità.
Per tutta risposta i nani serrarono i ranghi e alzarono le lame contro di lei, urlando in una lingua che non aveva mai udito prima.
«È un vero piacere vederti mia cara. Perdonaci, temo che pochi tra noi comprendano il Sindarin».
«Sai sempre come attirare l’attenzione Mithrandir [7]», disse Helan rivolgendosi verso lo stregone con un sorriso, ma continuando a controllare i movimenti dei nani. Vedendo che alcuni iniziavano ad abbassare le armi, rilassò i muscoli e allentò la presa su Tirdir. «Dovete andarvene subito. Alagos vi mostrerà la via più breve per l’entrata del sentiero nascosto. Seguitelo. Nel frattempo io e il vostro arciere vi copriremo le spalle», concluse indicando una figura che scagliava frecce poco lontano da loro.
«Nessuno qui prende ordini da un elfo!», urlò un nano dalla barba fulva agitando un’ascia.
Gandalf picchiò il bastone per terra e sbottò esasperato: «Dannata cocciutaggine dei Nani! Muovetevi se volete avere salva la vita!». Detto questo iniziò a correre dietro allo stallone, trattenendo il cappello con una mano per non perderlo. Molti dei nani lo imitarono e un paio di ululati convinsero anche i più recalcitranti che fuggire fosse la scelta migliore.
Helan attese che tutti si fossero avviati, poi si diresse leggera e veloce nella direzione opposta. La sua corsa non lasciava impronte sul terreno e la portò ben presto all’altezza dell’arciere. Prese posizione a trenta passi da lui, colpendo alcuni sassi per richiamare la sua attenzione. Il rumore lo fece trasalire e non appena la vide si irrigidì, fissandola con aria interrogativa. Ella sollevò l’arco lungo e dopo un momento di esitazione il nano fece lo stesso con il suo corto arco ricurvo. Nonostante la distanza, l’elfa notò che era costruito utilizzando sia legno che metallo; era una lavorazione insolita, ma realizzata con abilità.
Secondo un tacito accordo si divisero l’area di tiro, coprendosi il fianco a vicenda. Parecchie frecce centrarono il bersaglio, eppure i lupi selvaggi continuarono ad avanzare, furiosi per la morte dei loro simili, costringendo i due arcieri a retrocedere.
La faretra di Helan era quasi vuota, quando il nitrito di Alagos risuonò nella brughiera; un segnale, per avvertirla che erano tutti in salvo. «Ritiriamoci!», gridò volgendo le spalle al branco di mannari e il nano annuì lasciando la sua postazione.
L’erba frusciava al suo passaggio e un respiro affaticato, unito al tonfo di pesanti stivali, la accompagnava nella fuga. L’elfa si concentrò sul battito del proprio cuore finché non sentì zoccoli al galoppo raggiungerla e affiancarsi a lei. Allora alzò il braccio e intrecciò le dita nella fitta criniera corvina, facendosi trasportare per qualche metro prima di issarsi in groppa allo stallone e galoppare via.
«Kili!».
Fu la disperazione di cui era intrisa quella parola a costringere Helan a voltarsi. Un nano dai capelli biondi cercava di slanciarsi fuori dall’accesso segreto alla valle, trattenuto a forza da un secondo nano, avvolto da un mantello blu bordato di pelliccia che gli conferiva un aspetto regale. Di fronte a loro l’arciere correva per raggiungerli, ma era spossato e iniziava a perdere terreno, incespicando su sassi e radici. E i lupi selvaggi ormai erano su di lui.
Alagos non aspettò nemmeno il suo comando per ruotare su se stesso e tornare indietro. Sapeva quanto lei che senza il loro aiuto il nano non sarebbe sopravvissuto.
«Blocca l’ingresso Mithrandir! Mi occupo io di lui!», urlò Helan e con la coda dell’occhio vide lo stregone spingere i due nani all’interno. Seguì un forte boato e l’entrata del sentiero nascosto crollò, richiudendosi in un vortice di polvere e detriti.
L’elfa rinfoderò Tirdir e mise l’arco a tracolla. Non avrebbe avuto una seconda occasione. Mentre Alagos aumentava l’andatura, si piegò in avanti sul collo dello stallone; appena ebbe trovato l’equilibrio, si sporse il più possibile verso il basso, con la mano a poche spanne dal suolo.
«Mastro Arciere!». All’udire la sua voce il nano si girò, illuminandosi di una nuova speranza. Quando gli fu accanto, lo afferrò per il braccio e senza mollare la presa lo sollevò dietro di sé, trascinandolo lontano dalle fauci dei mannari.
Mentre scappavano, il canto cristallino di corni d’argento riempì la pianura, annunciando l’arrivo dei guerrieri di Imladris.

 

Fili sentiva la gola secca e riarsa. Non ricordava più quante volte avesse chiamato il nome del fratello. Aveva assistito impotente al crollo della parete di roccia e diverse braccia avevano dovuto tenerlo fermo per impedirgli di finire travolto dalla frana. Quando i detriti si furono depositati, scattò in avanti e iniziò a scavare a mani nude nel punto in cui aveva visto il cielo per l’ultima volta. L’idea che Kili fosse là fuori da solo pesava come un macigno sul suo cuore. Doveva salvarlo.
Finalmente riuscì a liberare uno spiraglio, largo a sufficienza da permettergli di scorgere il fratello allontanarsi in groppa allo stallone color della notte, insieme all’elfa sconosciuta. In un attimo scomparvero alla vista, ma Fili continuò a fissare l’orizzonte, i pugni chiusi contro la roccia, finché non udì dei corni squillare sopra le loro teste.
«Mibilkhagâs [8]», ringhiò Dwalin.
La voce di Nori arrivò attutita dal fondo della grotta: «Non vedo la fine del sentiero. Lo seguiamo o no?».
«Lo seguiamo, è chiaro!», si affrettò a rispondere Bofur.
«La trovo una scelta saggia», mormorò soddisfatto lo stregone, strizzando l’occhio in direzione di Bilbo.
«E Kili? Non possiamo abbandonarlo!», urlò Fili, implorando il sostegno dei suoi compagni.
«Non temere giovane principe, tuo fratello è in ottime mani e se conosco Alagos a quest’ora sarà molto lontano dal pericolo. Ci raggiungerà presto vedrai», disse lo stregone con un sorriso rassicurante, prima di avviarsi verso il sentiero.
«So dove ci stai portando», sibilò Thorin parandosi di fronte a Gandalf. «Scommetto che questo era il tuo piano fin dall’inizio. Trovare rifugio dai nostri nemici».
«Non hai alcun nemico qui, Thorin Scudodiquercia, e il solo rancore che regna tra questi confini è quello che porti tu stesso», gli rispose Gandalf.
«Pensi che gli Elfi vorranno benedire la nostra impresa? Piuttosto tenteranno di fermarci», ribatté il nano.
«Certo che lo faranno», esclamò stizzito lo stregone. «Ma noi abbiamo domande urgenti che attendono una risposta e qui vive uno dei pochi sulla Terra di Mezzo che possiede le conoscenze per aiutarci. Se vogliamo avere successo, la faccenda va trattata con tatto, rispetto e non poca dose di fascino. Ecco perché lascerete parlare me», concluse Gandalf riprendendo il cammino.

 

Fu l’olfatto ad avvertirla del pericolo, ancora prima della vista o dell’udito. Un odore nauseabondo permeava l’aria ed Helan seppe di essere caduta in trappola.
Aveva spinto Alagos attraverso una gola, un passaggio tortuoso, che rappresentava però la via più veloce per rientrare nella valle a cavallo. Lo percorreva raramente, infastidita dalle alte pareti che nascondevano anfratti oscuri e profondi. Perfetti per un agguato.
Lo stallone scartò e una coppia di lupi selvaggi, cavalcati da due orchi, sbucò alla loro destra. Non c’era tempo per elaborare strategie. L’unica cosa certa era che dovevano dividersi, perché uniti rappresentavano un bersaglio troppo facile. Separati forse potevano farcela.
«Reggiti», ordinò al nano e senza aspettare una risposta si alzò in piedi sul dorso del cavallo, saltando addosso all’orco più vicino e trascinandolo al suolo.
Il violento impatto con il terreno le tolse il respiro, ma riuscì a vedere di sfuggita l’arciere aggrappato alla criniera di Alagos, il quale spinse il mannaro privato del suo cavaliere contro una sporgenza aguzza uccidendolo. Lei invece continuò a rotolare per alcuni metri, con le braccia alzate nel tentativo di proteggersi la testa nella caduta.
Quando riaprì gli occhi l’orco che aveva disarcionato torreggiava sopra di lei, la bocca aperta in un ghigno malvagio. L’alito fetido della creatura le riempì le narici. Cercò di muoversi, ma l’arco che portava a tracolla era bloccato dal peso dell’orco e le impediva di rialzarsi. Con orrore si accorse che Tirdir era rimasta nel fodero, appesa al fianco di Alagos. Era disarmata.
L’orco rise ed estrasse un lungo coltello. Un gelo profondo si impadronì di Helan e per la prima volta ella conobbe la paura di non vedere una nuova alba sorgere sul mondo. Come rispondendo ad un suo desiderio, il sole trovò un piccolo varco tra le nubi e un raggio fu catturato dal suo ciondolo, creando un lampo di luce scarlatta. Il riflesso accecò l’orco, che si agitò infastidito e calò la lama con forza, tranciando di netto l’arco e affondando a un soffio dalla guancia dell’elfa.
Finalmente libera, Helan si divincolò. Il sibilo di un oggetto che fendeva l’aria la fece scattare e, come nel Patio delle Lame tre anni prima, ruotò su se stessa afferrando l’impugnatura di una spada. Senza indugiare oltre sgozzò l’immonda creatura, che si accasciò con le mani alla gola.
Sopraffatta dalla tensione, l’elfa si lasciò cadere in ginocchio per riprendere fiato. Alle sue spalle un tremendo lamento testimoniò che anche l’ultimo mannaro era stato ucciso. Abbassò lo sguardo sull’arma che teneva in mano. Non era Tirdir, ma una tozza spada con la lama a doppio taglio.
«Attenta!».
Con un guizzo fulmineo Helan si girò, piantando la lama nel petto del secondo orco, che aveva tentato di sorprenderla. Fu con stupore che vide l’arciere stringere l’elsa di Tirdir, conficcata nella schiena del nemico. Le due spade si urtarono nel corpo dell’orco e vibrarono in una sorta di saluto.
Helan era incredula. Come aveva potuto un nano sconosciuto estrarre Tirdir dal fodero, quando persino tra le mura di Imladris solo pochi erano stati capaci di farlo?

 

In vita sua Kili non aveva mai incontrato un elfo, prima di quel giorno, e di certo non aveva mai rivolto la parola a uno di loro.
Ucciso l’ultimo orco si restituirono cautamente le rispettive spade, poi l’elfa si voltò, avvicinandosi con passi aggraziati al suo cavallo per controllare le sacche cadute durante il combattimento. I suoi movimenti non producevano alcun rumore e sembrava irreale, un’ombra destinata a sparire nella brughiera.
«Perché non indossi nessun tipo di calzatura?», chiese Kili all’improvviso, desiderando immediatamente non aver mai aperto bocca. Che razza di domanda gli era venuta in mente?
L’elfa si volse verso di lui con un’espressione indecifrabile e rispose: «Potrei dirtelo, ma poi sarei costretta ad ucciderti».
Il giovane nano fece un passo indietro, prima di sentire la risata di lei echeggiare sulle ripide pareti del burrone e perdersi lontano.
«Perdonami, temo di aver passato troppo tempo in compagnia di Elladan e della sua pungente ironia ultimamente. Ad ogni modo», riprese tornando seria, «la terra può dire molte cose, se si ha la pazienza di ascoltarla. È così che sono giunta fino a voi».
Si fissarono in silenzio, finché l’elfa non montò in groppa allo stallone e gli si avvicinò tendendogli una mano, minuta e affusolata.
«E ora torniamo Mastro Arciere, prima che i tuoi compagni inizino a preoccuparsi per te».

 

Voci melodiose si rincorrevano attorno a loro e l’aria profumava di primavera. Passi stanchi condussero la compagnia ad uno spiazzo, da cui videro il sole brillare su un palazzo immerso nel verde e costruito su una cascata.
Gandalf sorrise osservando le loro facce sbalordite e disse: «Davanti a voi sorge la valle nascosta di Imladris. Tuttavia nella lingua comune è nota con un altro nome…».
«Gran Burrone», mormorò lo hobbit, gli occhi spalancati di fronte a tanta meraviglia. Sentì il suo animo impaurito ritemprarsi e una nuova speranza nacque nel suo cuore.
«Esatto mio caro Bilbo», confermò lo stregone accarezzandosi la barba. «Qui troveremo aiuto e riposo».
«E Kili!», urlò Fili, scendendo di corsa lungo i solidi gradini scavati nella roccia.

 

Attraversarono il ponte al piccolo trotto, sotto gli sguardi vigili delle sentinelle, ed Helan sentì il nano esprimere un mormorio di ammirazione.
«Benvenuto nell’Ultima Casa Accogliente ad est del mare, Mastro Arciere», disse l’elfa, prima che un fluido movimento alla sua destra annunciasse che qualcuno si stava avvicinando. Un elfo comparve tra gli alberi, facendosi avanti lentamente.
«Lindir», lo salutò Helan con un cenno del capo.
«Bentornata. Vedo che hai di nuovo fatto incontri insoliti nella brughiera. Mi chiedo cosa porterai con te la prossima volta», disse Lindir aggrottando appena la fronte.
«Chi può dirlo», ribatté Helan con un sorriso, avvertendo il nano irrigidirsi. «C’è forse qualcosa che volevi dirmi?».
«Gli altri… ospiti si trovano nel piazzale. Erestor sta scendendo dalla biblioteca per incontrarli. Forse non è saggio che ti trovi in giro al suo arrivo», concluse l’elfo con eloquenza.
«Credo che ascolterò il tuo consiglio», lo ringraziò l’elfa ed Alagos nitrì, dirigendosi in fretta verso la direzione indicata da Lindir.
Quando giunsero nel piazzale furono accolti da cori festosi e il nano si lanciò a terra, correndo verso i compagni. Venne subito sommerso dalle domande e il giovane nano biondo lo strinse in un abbraccio soffocante, quasi temesse di vederlo volare via. Tale era il sollievo dipinto sul suo volto, che Helan non poté fare a meno di gioirne lei stessa.
Nessuno fece caso alla sua presenza, solamente lo stregone ammiccò riconoscente, ma non le dispiacque. Seguendo il suggerimento di Lindir si allontanò, accompagnando Alagos al suo recinto. Meritavano entrambi un po’ di riposo.
Rimase nei paraggi, raccogliendo qualche frutto per lo stallone, e udì Erestor e Mithrandir discutere, fino a quando i corni informarono del ritorno del Signore di Imladris e dei suoi guerrieri. Il suono di zoccoli e armi sguainate le suggerì che probabilmente Elladan ed Elrohir avevano dato sfoggio della loro abilità nelle manovre di accerchiamento a cavallo. Erano incorreggibili.
Conclusi i convenevoli, Mastro Elrond ordinò che fosse preparato un banchetto per rifocillare gli ospiti. Helan poteva immaginare la faccia di Erestor impallidire all’idea di dover svolgere il suo ruolo di anfitrione per una compagnia di nani.
«E ora che sta dicendo? Scommetto che ci sta offrendo insulti!».
«No amici miei, Mastro Elrond vi sta offrendo del cibo».
«Ah beh, in questo caso allora facci strada!».
Helan salì le scale scuotendo la testa. Doveva ricordarsi di non parlare mai più Sindarin al cospetto di quei nani diffidenti.

 

«Cosa tu faccia per annodare i capelli in questo modo non lo capirò mai», disse Gilraen, spazzolando con cura una ciocca dopo l'altra.
 «È stata una giornata impegnativa», rispose Helan con sincerità, mentre un nodo particolarmente ostinato le strappava una smorfia.
Apprezzava la compagnia della donna e spesso si recava a trovarla nei suoi alloggi. Sedevano insieme sulla terrazza, rimirando gli incantevoli giardini di Imladris e vegliando dall’alto sugli spensierati giochi di Estel. Entrambe amavano il silenzio, ma con gli anni avevano imparato a conoscersi e tra loro era nata una profonda amicizia.
Gilraen non parlava mai del proprio passato, né del padre di Estel. Da quando era giunta tra loro, in una cupa sera d’autunno, dolore e amarezza non avevano mai abbandonato i suoi occhi. Per questo Helan sapeva che l’aveva amato davvero. E che l’aveva perso per sempre.
Uno scalpiccio allegro annunciò l’arrivo di Estel.
«Madre! Madre li ho visti! Tantissimi nani sono scesi nella valle!».
La voce squillante del bambino riempì la stanza e quando vide l’elfa corse ad abbracciarla, salutandola festoso. Helan ricambiò la stretta con affetto, lasciandosi travolgere dal prorompente entusiasmo del suo giovane compagno d’addestramento. Poi il bambino si sporse per baciare la madre e si accomodò su uno sgabello, pronto a raccontare i dettagli di ciò che aveva scoperto.
«Ho parlato con alcune sentinelle», esordì in tono solenne. «Pare ci sia stato uno scontro con un gruppo di orchi e mannari venuti da sud. Non abbiamo subito nessuna perdita, ma del resto pochi possono rivaleggiare con l’abilità dei nostri guerrieri. Alcuni dicono che anche tu eri nella brughiera, Helan, e che uno dei nani è entrato a Imladris insieme e te».
Helan si accigliò. Aveva sperato che il suo ruolo in quella faccenda restasse ignoto, ma ormai era tardi e del resto non aveva fatto nulla di male. Incapace di resistere oltre agli imploranti occhi azzurri di Estel si decise a rispondere. «Sì, è vero. Io e Alagos l’abbiamo aiutato a scappare dai lupi selvaggi».
«Lo sapevo!», esclamò il bambino alzandosi in piedi. «Hai combattuto? Scommetto che Tirdir ha dovuto lavorare parecchio. Un giorno anch’io avrò una spada tutta mia e compirò grandi imprese, non è così madre?».
Le mani di Gilraen tremarono ed Helan vide che faticava a trattenere le lacrime. Allora si rivolse ad Estel: «Non correre, giovane uomo. Sei ancora troppo piccolo per possedere una spada. Ma ti prometto che, appena il pericolo sarà passato, potrai cavalcare Alagos insieme a me. Ora fammi un piacere, perché non vai a informarti se stasera ci saranno i dolci al miele?».
Il bambino annuì serio e si diresse in fretta verso le cucine.
«Mi dispiace Gilraen», sussurrò l’elfa quando furono sole.
«Non è colpa tua», le rispose la donna. Il suo volto era pallido e inespressivo, mentre continuava a districare le ciocche ribelli. «Il destino di mio figlio non è nelle nostre mani».
Rimasero in silenzio, mentre il sole calava nella valle.
«Ecco, ora sei pronta».
Helan guardò il proprio riflesso allo specchio e sorrise grata all'amica.

 

La sala era illuminata con candele e lanterne; cuscini dai colori vivaci erano disposti attorno ai tavoli imbanditi e in un angolo alcuni musicisti accordavano i loro strumenti.
Ma Kili non prestò molta attenzione all’eleganza dell’ambiente. Si alzò sulle punte dei piedi, ma subito si riabbassò deluso. «Dov’è lei?», chiese avvicinandosi a Erestor.
Il consigliere del Signore di Imladris si irrigidì, lanciando un’occhiata sprezzante ai nani di fronte a lui.
«Credo di non aver inteso la vostra domanda», rispose secco.
«Dov’è lei?» ripeté Kili. «Dov’è la dama intrepida che ci è venuta in soccorso nella brughiera?».
Le labbra di Erestor si tirarono ancora di più. Dunque era stata lei. Avrebbe dovuto immaginarlo. Sapeva che prima o poi avrebbe portato il pericolo nella loro valle. Passi leggeri e un fruscio di seta confermarono i suoi sospetti. «Ecco la vostra thalhiril», disse beffardo, indicando con un brusco cenno la figura vestita di blu comparsa dietro di loro.
Kili si fece largo e giunto davanti all’elfa si inchinò. «Kili, al vostro servizio! Io e i miei compagni vi ringraziamo Dama Thalhiril per il vostro prezioso aiuto». Era certo che Balin sarebbe stato fiero delle sue buone maniere.
Un improvviso silenzio lo fece alzare di scatto. «Ho forse detto qualcosa che vi ha offeso mia signora?».
L’elfa lo osservò e Kili si sentì attraversato dalla profondità del suo sguardo. Fu sollevato quando infine la udì parlare.
«Nessuno mi aveva mai dato un epessë [9] prima d’ora. Perdonatemi», disse l’elfa, vedendo che i nani non capivano il significato delle sue parole, «un epessë è un soprannome, difatti la parola che hai usato significa “dama intrepida”. Come se io ti chiamassi Cúnir [10], che significa “mastro arciere”. Il mio nome invece è Helan, ma potete chiamarmi Thalhiril [11] se vi fa piacere. Ne sarei onorata», concluse portando una mano al petto e inchinandosi a sua volta.




 

NOTE:
[1] Per riferirmi ai warg (parola di origine norrena che Tolkien utilizza per indicare una razza di lupi dalla natura malvagia) userò i termini “mannari” e “lupi selvaggi”.
[2] Il sambuco ha proprietà antinfluenzali e nel linguaggio dei fiori significa “compassione”.
[3] In Sindarin significa Cosa ti turba, Alagos? Cosa senti?.
[4] Città del Contea situata nel Decumano Ovest, dove vive la maggior parte della famiglia Tuc.
[5] In Khuzdul significa Elfo.
[6] In Sindarin significa Questo posto è pericoloso. Fuggite!.
[7] Nome elfico di Gandalf, in Sindarin significa Grigio pellegrino.
[8] In Khuzdul è un termine dispregiativo e significa Elfi.
[9] Termine Sindarin per indicare un soprannome attribuito in conseguenza a particolari caratteristiche o ad azioni compiute da un individuo durante la vita.
[10] In Sindarin significa Mastro Arciere (letteralmente Bow Man).
[11] Nome elfico di mia creazione composto dai termini Sindarin thalion (intrepido) e hiril (signora, dama).

DATE:
2941 T.E. 27 aprile: partenza della Compagnia da Lungacque.
2941 T.E. 4 giugno: arrivo a Gran Burrone.


 

ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti,
mi scuso per l’enorme ritardo nella pubblicazione e ne approfitto per ringraziare quanti leggono e seguono questa storia. Se vi va di farmi sapere cosa ne pensate ne sarò felice!
Un grazie particolare a didi_95, evelyn80 e zebraapois91!

Possa la strada alzarsi per venirvi incontro e possa il vento soffiare sempre alle vostre spalle
Tielyannawen

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Un'improbabile melodia ***


Un’improbabile melodia

Bianche colonne salivano verso l’alto, piegandosi in archi sottili che davano vita a morbidi intrecci sulla volta del soffitto. Thorin apprezzò la semplicità delle linee e ammirò la maestria con cui una simile dimora era stata realizzata. Tutto attorno a lui esprimeva armonia e purezza. Eppure, non seppe trovare in quelle opere nemmeno la metà della profonda devozione che, con un solo colpo di scalpello, un nano era in grado di imprimere nella pietra.
Thorin sedeva al tavolo d’onore, insieme a Gandalf e al Signore di Gran Burrone, Elrond il Mezzelfo. Si sforzò di apparire cortese e imperturbabile, come gli aveva caldamente suggerito Balin. Il vecchio nano era un abile diplomatico, dote che lui invece non possedeva. Il suo animo si infiammava con facilità, facendolo scattare contro chiunque avesse di fronte.
«Queste non sono spade elfiche qualsiasi», stava dicendo Elrond, mentre osservava alla luce delle lanterne le due lame che avevano trovato nella caverna dei troll. «Sono armi molto antiche, forgiate a Gondolin [1] nelle fucine dei Noldor, la mia famiglia. Furono create nella Prima Era per le guerre contro gli Orchi. Come ne siete entrati in possesso?».
Gandalf fece un sorrisetto e si versò un bicchiere di vino prima di rispondere. «Facevano parte di un bottino troll. Giacevano dimenticate e piene di ragnatele in una grotta fetida, non lontano dalla Grande Via Est.»
«E cosa ci facevate sulla Grande Via Est? Uno stregone, tredici nani e un mezzuomo. Davvero una bizzarra compagnia. Quale motivo vi ha spinto a viaggiare insieme?», chiese Elrond con interesse, i brillanti occhi grigi fissi sullo stregone.
Apparentemente colto alla sprovvista dalla domanda mentre sorseggiava il vino, Gandalf iniziò a tossire emettendo strani versi soffocati.
Elrond sospirò e tornò a studiare le lame. Si soffermò prima su quella scelta da Gandalf: era diritta, lunga sei spanne e affilata su entrambi i lati, con l’elsa riccamente decorata da piccole pietre grezze color del mare profondo. Sfiorò la guardia e sotto la patina lasciata dal tempo comparvero delle rune. «Questa è Glamdring, la Battinemici», esclamò traducendo l’iscrizione. «“Turgon[2] Re di Gondolin brandisce, possiede e maneggia la spada Glamdring. Nemica del reame di Morgoth, martello dell’orda chiassosa”. Apparteneva al nonno di mio padre, ma si credeva perduta da secoli. Abbine cura Mithrandir; grande è la sua potenza e sento che il tempo delle sue valorose imprese non è ancora terminato». La ripose nel fodero d’avorio e la restituì allo stregone, che la accettò con un cortese cenno del capo.
Spinto da un’intuizione, Elrond esaminò la seconda spada, un’arma fendente con un solo lato affilato e molto ricurvo; sul pomolo erano incastonati alcuni diamanti. «E questa è Orcrist, la Fendiorchi, compagna di Glamdring. È una spada famosa. Centinaia di orchi e creature malvage caddero sotto i suoi colpi. Secondo la leggenda fu brandita da Ecthelion [3] durante l’assedio di Gondolin», disse con ammirazione. Passò un lembo della manica sulla lama, rivelando nuovamente delle rune, che lesse con voce profonda. «“Orcrist, il dente del serpente. Nata dalle fauci dei draghi, sono sempre affamata”. Uno strano destino l’ha condotta fino a te, Thorin figlio di Thrain».
«Perché dici questo?», chiese Thorin, corrugando la fronte mentre il cuore gli martellava nel petto.
«Perché l’impugnatura di questa spada fu realizzata dalla zanna di uno dei primi draghi comparsi nella Terra di Mezzo, appartenente alla stessa razza maligna che ha causato tanta sofferenza alla stirpe di Durin. Possa questa lama servirti bene, Thorin Scudodiquercia, e possa essere un auspicio per un futuro di amicizia tra i nostri popoli».

 

2770 T.E. – MONTAGNA SOLITARIA
Thorin non amava gli Elfi. Nonostante la sua giovane età, ne aveva incontrati molti e aveva osservato i loro sovrani porgere ossequi al padre di suo padre, Thror, Re sotto la Montagna. Inchini eleganti, vesti scintillanti e parole cortesi. Ma la fiducia di un nano non era facile da conquistare. La loro compostezza lo irritava e dietro i sorrisi garbati non scorgeva altro che presunzione; alcuni occhi poi celavano vanità e avidità.
«Non devono piacerti, nipote, ma un regno ha bisogno di alleati. E nulla attira sostenitori come la ricchezza. E la nostra ricchezza è grande», gli disse una volta suo nonno, mentre vagava bramoso tra cumuli di monete e pietre preziose.
Tuttavia quel giorno, mentre il suo mondo bruciava e il fuoco inceneriva la sua gioventù, il cuore di Thorin esultò vedendo comparire in lontananza la luccicante armata di Bosco Atro. Si alzò in piedi, pieno di speranza, ma un moto di incredulità lo assalì quando li vide voltarsi e allontanarsi ordinatamente.
Crollò in ginocchio e si guardò le mani: erano vuote e senza difesa, private del suo tesoro più prezioso.
Fu allora che Thorin capì che nessun aiuto sarebbe giunto. Era solo e lo sarebbe stato per sempre.

 

E mentre i suoi compagni ridevano e battevano le mani, impegnati in un lancio di verdure senza quartiere, nella mente dell’erede di Durin risuonarono gli echi dell’attacco di un drago.
 

Helan sedeva tra Elladan ed Elrohir, poco distante dal tavolo d’onore, dove suo padre stava esaminando due spade di meravigliosa fattura. Vide gli occhi color ghiaccio del nano a capo della compagnia farsi sempre più scuri, come agitati da una tempesta, e si chiese in quale luogo lontano l’avesse condotto il fiume dei ricordi.
«Non mi piace il cibo verde. Secondo voi conoscono la carne e le patate croccanti?».
La voce che aveva parlato era timida ma acuta e le ricordò i capricci di Estel. Con un sorriso si voltò per cercarne il proprietario e scoprì che apparteneva ad un giovane nano, infagottato in una spessa sciarpa di lana e con le dita macchiate d’inchiostro. Stava lottando, con scarsi risultati, per impedire che un altro nano lo imboccasse con una generosa porzione di insalata.
Osservando con più attenzione i due bassi tavoli al centro della sala, l’elfa notò che molti dei nani erano contrariati. Conosceva ben poco della loro cultura e delle loro usanze, ma il disappunto sui loro volti era palese. Si guardò intorno e incrociando l’espressione soddisfatta di Erestor sospettò che la decisione di tenere un banchetto a base di soli frutti della terra si dovesse a lui. Il pensiero che gli ospiti fossero stati messi in difficoltà volutamente la intristì, perché Imladris era una terra di accoglienza.
Anche Mithrandir doveva aver percepito la tensione tra i convitati, perché si affrettò a lodare con parole forbite la nobiltà e la grandezza della stirpe di Durin, nonché la profonda saggezza dei suoi discendenti. Stava giusto elogiando il sorprendente amore dei Nani per l’arte e la musica, quando un lamento si alzò alle sue spalle.
«Cambiate musica per favore! Con questa lagna sembra di essere ad un funerale!».
Per un lunghissimo istante nella sala risuonarono solo le delicate note dell’arpa, scaturite dalle mani esperte di Gaellin. Lei e la sorella Uiallin erano state convocate per allietare la serata con il loro talento, ereditato dal padre, Ningannel [4], il più grande arpista che la Terra di Mezzo avesse mai conosciuto. Egli era cresciuto sulle rive del mare, cullato dal canto delle onde, ma la sua grande amicizia con Celeborn lo aveva portato a dimorare nei boschi di Lorien. Si diceva che la sua musica potesse toccare l’animo di qualsiasi creatura e che Ulmo in persona lo avesse istruito.
«Va bene ragazzi, c’è una sola cosa da fare!». Un nano dai lunghi baffi arricciati si alzò e si avviò con decisione verso un piedistallo di marmo, posto proprio davanti al tavolo d’onore.
I musicisti fecero tacere gli strumenti; Gaellin si allontanò dall’arpa e Uiallin posò il flauto d’argento. Entrambe le sorelle avevano lunghi capelli color mogano, che incorniciavano due volti luminosi e animati da temperamenti molto diversi: fiera ed esuberante la prima, schiva e benevola la seconda.
Incurante del silenzio che lo circondava, il nano salì con un balzo e fece un profondo inchino toccandosi il cappello. Poi prese un ampio respiro e iniziò a cantare.
«There is an inn, a merry old inn
beneath an old grey hill,
and there they brew a beer so brown
that the man in the moon himself came down
one night to drink his fill
[5]».
La sua voce era ruvida ma allegra ed Helan notò quanto si sforzasse di coinvolgere i presenti, tenendo il tempo con un piede e senza mai smettere di sorridere. Non aveva nulla in comune con i soavi componimenti tanto amati a Imladris, ma il ritmo era brioso e incalzante.
«Cosa hai in mente?», le chiese Elladan quando la vide alzarsi all’improvviso.
«Lo vedrai», sussurrò l’elfa allontanandosi.
Mentre si avvicinava al piedistallo, Helan ne approfittò per assestare una lieve gomitata a Lindir, che la fissò di rimando con aria interrogativa. In tutta risposta ella indicò la cetra e gliela mise tra le mani senza permettergli di rifiutarsi.
«Avanti», lo incitò. «Sarai l’unico musicista della Terza Era che potrà dire di aver interpretato le tipiche sonorità naniche. È un’occasione più unica che rara. E sono davvero certa che la impressionerai», concluse, ammiccando in direzione della flautista.
Le guance di Lindir si fecero rosate mentre si voltava verso Uiallin. Restò un momento a contemplarla, prima di riscuotersi e iniziare a suonare, accompagnando con abilità le parole del nano.
Con un sprazzo di soddisfazione dipinto sul volto, Helan raggiunse la sua meta ed eseguì una piccola riverenza, conscia di come l’attenzione si fosse spostata su di lei. Non le importava. Avrebbe fatto la sua parte, per quanto modesta potesse risultare, affinché nessuno si sentisse isolato o rifiutato. Le era stato insegnato a vivere con bontà e gentilezza, nella speranza di creare un mondo migliore, e mai avrebbe rinnegato tali ideali.
Se il cantante trovò strano il suo gesto non lo diede a vedere. Si calcò con forza il cappello sulla testa e allargò le braccia, invitandola a seguirlo in una danza composta da salti e passi intrecciati, che l’elfa imitò con grazia. Quasi senza rendersene conto, Helan si ritrovò a piroettare al centro della sala, mentre sempre più voci si univano al canto e le verdure volteggiavano festose nell’aria, sotto lo sguardo allibito di Erestor.
«The round moon rolled behind the hill,
 as the sun raised up her head.
 She hardly believed her fiery eyes;
 for though it was day, to her surprise
 they all went back to bed
».

 

Balin si accomodò meglio sui cuscini e annuì soddisfatto di fronte al sorprendente spettacolo di Bofur che danzava insieme all’elfa a cui tutti loro dovevano la vita. Non era che un piccolo passo, ma lui era in grado di vedere oltre. Forse esisteva davvero una possibilità per cambiare, una possibilità per superare il passato. E, per una notte soltanto, un vecchio guerriero poteva anche permettersi di sognare, mentre note elfiche si fondevano con canzoni naniche in un’improbabile armonia.
 

*****
 

Bilbo non riusciva a credere ai propri occhi. Girovagando per il palazzo dopo il vivace banchetto che si era tenuto in loro onore, si era imbattuto in un luogo straordinario. Eleganti scaffali di legno scuro si alzavano dal pavimento color muschio e riempivano le pareti, creando corridoi e piccoli spiazzi, cosicché si poteva avere la sensazione di camminare in una bizzarra foresta. Ma era il loro contenuto che lo aveva lasciato senza parole per l’emozione. Migliaia di libri e pergamene lo circondavano, così numerosi che non gli sarebbe bastata una vita intera per sfogliarli tutti.
Sfiorò con delicatezza il dorso di alcuni volumi, desiderando ardentemente di possedere le conoscenze necessarie per comprendere quelle rune. Era talmente immerso nella contemplazione da non accorgersi di una figura solitaria seduta alla sua sinistra.
Un fruscio lo fece sobbalzare ed estrasse la spada con un grido, sentendosi immediatamente uno sciocco quando riconobbe l’elfa che li aveva aiutati a fuggire dai mannari nella brughiera e che aveva ballato con Bofur poco prima.
«Oh cielo, mi dispiace!», esclamò lo hobbit, rinfoderando l’arma e portandosi una mano al petto, che sussultava per colpa dei battiti accelerati del suo cuore. «Un comportamento assolutamente inadeguato, vi chiedo perdono mia signora. Temo che la vista di una simile meraviglia mi abbia incantato, facendomi dimenticare le buone maniere».
Ella gli rivolse un sorriso sincero e si alzò, posando il manoscritto che stava leggendo. «Non scusatevi Mastro Baggins. È una gioia vedere come, nonostante la stanchezza del viaggio, apprezziate tanto questo luogo, che anche a noi è così caro. Ditemi dunque, amate i libri?», chiese Helan, osservando lo hobbit con curiosità.
«Fin da quando ero bambino» rispose Bilbo infervorandosi. «E ho un debole per le mappe, colpa del mio lato Tuc, o almeno questo era quello che pensava mio padre. Chissà cosa direbbe se mi vedesse alle prese con questa avventura, e con dei nani per di più! Ma sto divagando, in realtà ero venuto in cerca di qualche foglio di pergamena. Purtroppo sono dovuto partire di fretta e il mio bagaglio è assai scarno».
«Se vi interessa la cartografia dovreste parlare con Erestor. In qualità di bibliotecario saprà di certo indicarvi i testi più interessanti. Riguardo alla vostra richiesta invece, credo che qui potrete trovare tutto quello che vi occorre», disse Helan, mostrandogli uno scrittoio su cui erano ordinatamente impilati fogli di svariate dimensioni. Dai ripiani facevano capolino pennini e inchiostri colorati.
Gli occhi dello hobbit brillarono eccitati. «Vi ringrazio mia signora. Sono riuscito a convincere i nani a farmi sentire di nuovo la loro canzone sui nebbiosi monti gelati e stavolta vorrei appuntarmela, se riesco. Ho provato a chiedere della pergamena a Ori, ma mi ha letteralmente incenerito con lo sguardo. Se un nano mite come lui reagisce così per un semplice taccuino, non oso pensare cosa farà il drago quando ci avvicineremo alla Montagna Solitaria».
«La Montagna Solitaria… Erebor [6]! Dunque è quella la vostra meta!», esclamò Helan turbata, fissando le pagine ingiallite del volume che aveva trovato.
Ben poco si conosceva della storia e della cultura dei Nani, creature estremamente diffidenti e gelose delle proprie tradizioni. Uno dei pochi libri presenti nella biblioteca in cui fossero nominati era una trascrizione di dispacci ufficiali, un mero elenco di notizie brevi e concise provenienti da ogni angolo della Terra di Mezzo. Tra resoconti di esploratori e dati commerciali, l’elfa si era imbattuta in un nome, Thorin, appartenente ad uno dei nipoti di Thror, Re Sotto la Montagna nell’anno in cui un drago giunto dal nord aveva distrutto la città di Dale e conquistato il regno di Erebor. E dopo le parole dello hobbit, Helan non poté più ritenere una coincidenza il fatto che il nano a capo della compagnia portasse lo stesso nome.
Nel frattempo, Bilbo era sbiancato. «Giorni celesti! Non avrei dovuto dire nulla, erano stati tutti molto chiari sulla segretezza… persino un intero stormo di taccole [7] sarebbe stato più discreto. Oh, Thorin non ne sarà affatto felice e tantomeno Gandalf!».
L’agitazione dello hobbit riscosse Helan dai suoi pensieri. Era pallido e sembrava sul punto di cadere a terra svenuto. L’elfa si chinò e gli poggiò una mano sulla spalla, avvertendolo tremare come una foglia nel vento autunnale. Voleva tentare di rassicurarlo e, nonostante non fosse del tutto certa della sua decisione, disse: «Non temete Mastro Baggins, nessuno saprà ciò che ho scoperto. Avete la mia parola».
Bilbo sospirò sollevato e iniziò a profondersi in ringraziamenti, mentre il suo viso lentamente riprendeva colore. Stringeva a sé alcuni fogli di pergamena, eppure non accennò ad andarsene e restò di fronte all’elfa, dondolandosi leggermente avanti e indietro.
«C’è forse altro che vorreste chiedermi?», domandò Helan con gentilezza.
«Sì, ecco, in realtà ci sarebbe…», iniziò Bilbo titubante, «ma è una sciocchezza e quasi mi vergogno a parlarne. Non ho voluto disturbare Mastro Elrond, così ho pensato che forse voi avreste potuto…».
«Non possiedo certo la saggezza o l’esperienza del Signore di Imladris, ma farò del mio meglio per esservi d’aiuto», rispose Helan.
Lo hobbit parve soppesare le sue parole, poi finalmente estrasse la spada dal fodero e parlò. «Ho sentito che le armi di Gandalf e Thorin hanno un nome, derivato dalle grandi azioni compiute nelle guerre delle ere passate. Secondo i miei compagni la spada che lo stregone ha scelto per me non ha mai visto battaglie. A dirla tutta non credono nemmeno che sia una spada, Balin l’ha definita tagliacarte».
Helan osservò l’arma con attenzione. Un elfo o un uomo l’avrebbe considerata al massimo un pugnale, ma per lo hobbit era un’ottima spada corta. La lama era a guisa di foglia lanceolata, su cui era inciso un motivo a svolazzo, e nell’elsa spiccavano delicati inserti d’argento che ricordavano il fogliame di un bosco. La fattura elfica era evidente, ma nessuna iscrizione ne indicava la storia o il precedente proprietario. Ciononostante l’elfa avvertì una sorta di tensione imprigionata nel metallo; a discapito delle dimensioni quella spada doveva racchiudere una certa forza.
«Mi dispiace Mastro Baggins, non so dirvi se questa lama sia stata protagonista di nobili imprese. Credo però che non abbia un nome e questo, a ben pensarci, potrebbe essere una fortuna».
«Una fortuna?», chiese Bilbo perplesso, mentre riponeva la spada nel fodero di pelle scura.
«Sì, perché quando verrà il momento, sarà vostro diritto scegliere il nome più consono alle avventure che avrete vissuto insieme», concluse Helan.

 

«Bilbo! Bilbo!».
«Ma dove si sarà cacciato quello hobbit?».
Le voci di Bofur e Dori risuonavano energiche nella pace del crepuscolo, rincorrendosi lungo i corridoi silenziosi di Gran Burrone. Bilbo scosse la testa. Erano davvero troppo rumorosi. Si sporse dalla balaustra e agitò una mano per richiamare l’attenzione dei due nani che si trovavano al piano inferiore.
«Bilbo! Eccoti finalmente!», esclamò Bofur allegramente.
«Ti abbiamo cercato ovunque, si può sapere dove eri finito? Per la barba di Durin, inizi ad assomigliare a mio fratello Nori, un vero esperto quando si tratta di sparire all’improvviso», lo rimproverò Dori.
Bilbo scese in fretta le scale e stava per spiegare della sua visita alla biblioteca, ma Bofur lo interruppe ancor prima che potesse iniziare a parlare: «Di certo si tratta di una storia avvincente, ma ce la racconterai più tardi. Abbiamo trovato il posto perfetto per uno spuntino notturno e se non ci muoviamo Bombur non ci lascerà neppure le briciole».
Lo hobbit avrebbe voluto ribattere che era oltremodo scortese preparare spuntini in casa d’altri dopo che era stato organizzato un banchetto in loro onore, ma proprio in quel momento il suo stomaco brontolò scontento e Bilbo si disse che in fondo non c’era nulla di male in una seconda cena.

 

Helan li seguì da vicino, restando nascosta tra le ombre, in modo che non potessero accorgersi della sua presenza. Voleva saperne di più sui nani che aveva salvato dalle grinfie dei lupi selvaggi e capire se potevano rappresentare una minaccia per Imladris. Non aveva esitato a correre in loro aiuto e il suo istinto le diceva di fidarsi, nonostante la freddezza e l’avversione che avevano mostrato nei suoi confronti, puntando le armi contro di lei nella brughiera. Aveva promesso allo hobbit che non avrebbe riferito quanto aveva sentito, ma doveva essere certa che fosse la cosa giusta. Anche a costo di spiare gli ospiti di suo padre.
«Gli insegnamenti di Elladan ed Elrohir hanno dato ottimi frutti. Devi esserne orgogliosa».
Non fu più di un sussurro, eppure la melodiosa voce di Glorfindel giunse soave fino alle sue orecchie. Egli sedeva accanto ad una fontana, gli occhi fissi sul cielo stellato e i lunghi capelli d’oro lucente sciolti sulle spalle.
«Sono stata fortunata», rispose Helan quando lo ebbe raggiunto nel piccolo giardino. Con un gesto accorto controllò che le ampie maniche color pervinca dell’abito le coprissero le braccia. Lividi e graffi stavano già svanendo dalla sua pelle, ma lo sguardo attento dell’elfo li avrebbe sicuramente notati.
«Molto fortunata», ribadì Glorfindel, mostrandole un arco tranciato di netto.
Il cuore di Helan balzò per la sorpresa ed ella rimase immobile, ricordando il momento in cui la lama dell’orco era calata su di lei.
«Un’esploratore l’ha trovato nella gola, vicino ad alcuni cadaveri», continuò Glorfindel, apparentemente ignaro del turbamento dell’elfa, «eppure non appartiene a nessuno dei nostri guerrieri. Oltre a loro, tu eri l’unica a trovarsi all’esterno dei confini durante l’attacco. Fortunatamente l’arco è stato consegnato a me e non a Erestor, o peggio a Mastro Elrond. Sei stata incauta, Helan».
«Cosa avrei dovuto fare? Voltarmi e lasciarli morire?», domandò Helan con improvviso fervore.
«Non ho mai detto che tu abbia fatto la scelta sbagliata», ribatté Glorfindel posandole le mani sulle spalle. «Io stesso non avrei agito diversamente. Ma devi essere prudente. Tuo padre ti è molto affezionato ed è uno dei miei più cari amici. Non desidero vederlo soffrire e sono certo che non lo voglia neppure tu».

 

«Bombur non credi di aver mangiato abbastanza?», chiese Bofur, osservando il fratello divorare in un batter d’occhio l’ennesima coppia di salsicce abbrustolite.
«Mi dispiace, temo che l’emozione del combattimento mi abbia messo appetito», si scusò il nano, cercando di spazzolare via le briciole che cospargevano la sua barba color carota.
«Se così fosse, la tua vita sarebbe un perenne combattimento», borbottò Dwalin, ritto accanto ad una delle porte, la mano che stringeva l’impugnatura del suo martello da guerra, come se si aspettasse un attacco da un momento all’altro.
Bombur sospirò, battendosi le mani sulla pancia. Non era nuovo a questo genere di battute, ma sapeva che non era il caso di offendersi. Certo, la sua notevole stazza poteva essere d’intralcio in diverse circostanze, ma contro i troll aveva lottato furiosamente, dando loro parecchio filo da torcere e dimostrando ai compagni le sue qualità come combattente. Loro lo rispettavano e lui tollerava la loro bonaria spiritosaggine.
Addentò un grosso tozzo di pane e si guardò intorno. Sottili colonne scolpite con motivi floreali correvano lungo i fianchi dell’ampia sala e nel mezzo ardeva un grande fuoco, di fronte al quale persino Oin e Gloin avevano annuito soddisfatti. Si era imbattuto in quel luogo per caso, ma l’aveva immediatamente ritenuto perfetto per uno spuntino notturno con le provviste che si erano procurati nella caverna dei troll: pane, formaggio, salsicce e persino pancetta da friggere sulle braci. Non c’erano tavoli, ma a nessuno di loro dispiaceva mangiare stando seduti per terra e lui era addirittura riuscito a trovare uno sgabello assai comodo, eccezion fatta per qualche scricchiolio.
«Al volo Bombur!».
Bombur afferrò con facilità una salsiccia lanciata da suo fratello, ma prima di poterla gustare lo sgabello cedette sotto il suo peso e con un tonfo il povero nano si ritrovò sul pavimento, tra le risate generali.

 

«E adesso un po’ di musica!». La voce allegra del cantante spense le risate.
Dopo l’incontro con Glorfindel, Helan si era affrettata a raggiungere i nani. Guidata dagli schiamazzi e dall’odore di carne arrostita, aveva scoperto che si erano accampati nel Salone del Fuoco. In genere era un luogo tranquillo e silenzioso, dove gli abitanti di Imladris si recavano in cerca di pace e concentrazione; il fuoco rimaneva sempre acceso, giorno e notte, e rappresentava l’unica fonte di luce nell’intera sala. Solo nei giorni di festa la stanza si animava, riempiendosi di canti e racconti sui tempi antichi. Molti avrebbero storto il naso, sapendo che veniva usata per banchettare.
Con agilità l’elfa si arrampicò sull’albero più vicino alle finestre e quando fu giunta abbastanza in alto sedette su un grosso ramo, nascondendosi tra le foglie per poter scrutare all’interno.
Vide comparire flauti, violini, clarinetti, viole e persino un tamburo; c’era anche una splendida arpa dorata che rimase però muta, avvolta in un panno verde accanto al nano che rispondeva al nome di Thorin. Egli non si mosse quando i suoi compagni iniziarono a suonare e continuò a fissare le fiamme che danzavano nel braciere.
«Far over the Misty Mountains rise
leave us standing upon the heights
what was before, we see once more
our kingdom a distant light.
Fiery mountain beneath the moon
the words unspoken, we’ll be there soon
for home a song that echoes on
and all who find us will know the tune.
Some folk we never forget
some kind we never forgive
haven’t seen the back of us yet
we’ll fight as long as we live
all eyes on the hidden door
to the Lonely Mountain borne
we’ll ride in the gathering storm
until we get our long-forgotten gold.
We lay under the Misty Mountains cold
in slumbers deep and dreams of gold
we must awake, our lives to make
and in the darkness a torch we hold.
From long ago when lanterns burned
till this day our hearts have yearned
her fate unknown the Arkenstone
what was stolen must be returned.
We must awake and make the day
to find a song for heart and soul.
Some folk we never forget
some kind we never forgive
haven’t seen the end of us yet
we’ll fight as long as we live
all eyes on the hidden door
to the Lonely Mountain borne
we’ll ride in the gathering storm
until we get our long-forgotten gold.
Far away from Misty Mountains cold
[8]».
La musica si sprigionò all’improvviso, profonda e impetuosa, tanto che ad Helan parve di essere trascinata lontano, oltre fiumi e montagne, in terre remote e sconosciute. Voci roche la condussero nell’oscurità delle miniere, dove cantavano le piccozze, e le mostrarono tesori favolosi, in cui era facile smarrirsi per sempre. Conobbe il rancore e la sete di rivalsa di un popolo che aveva sofferto tanto, ma senza mai piegarsi. Sentì vibrare dentro di lei l’amore fiero e geloso per ciò che le proprie mani erano in grado di costruire. Ma ciò che davvero permeava quelle note era la tristezza, dolorosa e indescrivibile, perché l’autentico desiderio sepolto nel cuore dei nani era di poter tornare finalmente a casa. Insieme a loro, anche l’elfa si ritrovò a sperare di poter un giorno rivedere la Montagna Solitaria e una lacrima solcò il suo volto.

 

Mentre gli ultimi accordi si diffondevano nell’aria, Kili sollevò gli occhi dalle corde del violino. Nella penombra che li circondava, un bagliore scarlatto aveva catturato la sua attenzione, spingendolo a scrutare fuori dalle finestre; là, seduta tra le foglie, c’era la dama intrepida della brughiera. Accortasi di essere osservata, l’elfa portò un dito alla bocca, una silenziosa richiesta alla quale Kili rispose con un lieve cenno d’assenso. Quando rialzò lo sguardo era scomparsa.
Accanto a lui, Fili allontanò il mento dal bordo del suo strumento e poggiò l’archetto, stiracchiando le braccia indolenzite al termine della canzone. Possibile che suonare fosse diventato così spossante dopo l’inizio del viaggio, quando fin dall’infanzia gli era sempre risultato naturale come il respirare? Il nano biondo sbuffò e si accese la pipa, disegnando figure di fumo che salivano placide verso il soffitto. Forse era solo il animo ad essere diventato più pesante.
In quel mentre, Thorin si mise in piedi. «Scusatemi…», mormorò prendendo il mantello e allontanandosi.
Fili seguì i movimenti stanchi di suo zio, incrociando l’espressione preoccupata del loro scassinatore.

 

2941 T.E. – HOBBIVILLE
Fili vagava per i corridoi di Casa Baggins, cercando Nori. Lo aveva sorpreso a riempirsi le tasche di cucchiaini d’argento e lo aveva costretto a rimetterli al loro posto, ma voleva controllare che non provasse ad arraffare altro.
«Forse è meglio così, le probabilità erano tutte a nostro sfavore».
La rassegnazione in quella voce sussurrata lo sorprese. Si appiattì accanto a una credenza, riconoscendo le due sagome che discutevano poco più avanti.
«Il compito sarebbe già arduo con un esercito alle spalle, ma siamo solo tredici, e non i tredici migliori né i più svegli. Dopotutto cosa siamo? Mercanti, minatori, stagnai, giocattolai. Non certo materiale da leggenda» disse Balin sconsolato.
«Ci sono alcuni guerrieri tra noi», rispose Thorin, con un’insolita nota di affetto nella voce.
«Vecchi guerrieri», sospirò il saggio nano.
«Io sceglierei uno qualunque di questi nani, invece di un esercito dei Colli Ferrosi! Perché quando li ho convocati hanno risposto. Lealtà, onore, un cuore volenteroso. Non posso chiedere più di questo», replicò Thorin stringendo i pugni.
Ci fu un momento di silenzio prima che Balin riprendesse a parlare. «Non sei costretto a farlo, tu puoi scegliere Thorin. Ti sei comportato con giustizia verso la nostra gente. Ci hai costruito una nuova vita sulle Montagne Blu. Una vita di pace e prosperità. Una vita che vale più di tutto l’oro di questo mondo».
«Mio padre, e mio nonno prima di lui, sognavano il giorno in cui avrebbero reclamato la loro patria. La mappa e la chiave sono un segno. Non c’è scelta Balin, non per me», ribatté Thorin.
«Siamo con te ragazzo. Faremo in modo che avvenga» lo rassicurò Balin posandogli una mano sulla spalla.
Fili indietreggiò e scorse due paia di occhi che lo fissavano. Il primo naturalmente apparteneva a Kili, il cui volto serio e corrucciato esprimeva meglio delle parole quanto fosse rimasto colpito da ciò che aveva sentito. Fu decisamente più inaspettato scoprire che il terzo spettatore era lo strambo padrone di casa, che Gandalf aveva consigliato come scassinatore. Eppure qualcosa era cambiato in lui, anche se Fili non avrebbe saputo dire con esattezza cosa; sembrava più vecchio e consapevole, in un certo qual modo, l’ombra di un’espressione risoluta disegnata sul viso. Durò solo per un istante. In un battito di ciglia tornò lo hobbit pacato che gli aveva aperto la porta balbettando e si allontanò con una pila di coperte tra le braccia. Un droghiere, così lo avevano definito. “Un droghiere molto silenzioso”, pensò Fili.




 

NOTE:
[1] Fortezza elfica distrutta nella Prima Era, in Sindarin significa Rocca Nascosta.
[2] Re Supremo dei Noldor a Gondolin; sua figlia Idril diede alla luce Eärendil, padre di Elrond.
[3] Elfo della stirpe dei Noldor, Signore del Popolo della Fonte, una delle dodici casate di Gondolin.
[4] Elfo della stirpe dei Falathrim, il cui nome in Sindarin significa Lacrime dell’arpa. Gaellin e Uiallin sono le sue figlie, i loro nomi in Sindarin significano rispettivamente Musica scintillante e Musica vespertina. Tutti e tre i personaggi sono di mia invenzione.
[5] Canzone composta da Bilbo Baggins. Nel libro “Il Signore degli Anelli” è cantata da suo nipote Frodo a Brea, mentre nel film “Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato” è cantata da Bofur a Gran Burrone.
[6] Nome elfico della Montagna Solitaria, in Sindarin significa proprio Montagna solitaria.
[7] Dal detto “pettegolo come una taccola”. La taccola è un corvide e si riunisce in stormi molto numerosi; emette un verso continuo e articolato, che, dato il gran numero di uccelli, appare come un chiacchiericcio ininterrotto.
[8] Canzone “Song of the Lonely Mountain” di Neil Finn.

DATE:
510 P.E. : caduta di Gondolin.
2770 T.E. : Smaug devasta Dale e conquista la Montagna Solitaria.
2941 T.E. 29 maggio: la Compagnia viene catturata dai troll.
2941 T.E. 4 giugno: arrivo della Compagnia a Gran Burrone.

 

ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti,
di nuovo devo scusarmi per l’imbarazzante ritardo con cui ho aggiornato, spero almeno che il capitolo valga la pena dell’attesa!
Alcune precisazioni. La descrizione delle spade è un mio personale miscuglio tra ciò che appare nei film e come vengono descritte nei libri; che Orcrist sia stata brandita da Ecthelion durante la caduta di Gondolin è una delle ipotesi che sono state formulate negli anni, ma non è assolutamente confermata. Ciò che accade ad Helan mentre ascolta la canzone dei nani ricalca quanto succede a Bilbo durante la riunione inaspettata; essendo gli elfi grandi amanti della musica, ho pensato fosse un buon modo per farle comprendere i sentimenti di un popolo che in fondo non conosce quasi per niente. Infine, in questo e nel prossimo capitolo, trattando del soggiorno della Compagnia ad Imladris, renderò volutamente i rapporti tra elfi e nani leggermente più distesi, rifacendomi al libro secondo cui la permanenza fu piacevole e animata da cortesia reciproca.
Come sempre ringrazio di cuore quanti leggono e seguono la storia, se vorrete farmi sapere cosa ne pensate ne sarò felice!

Possa la strada alzarsi per venirvi incontro e possa il vento soffiare sempre alle vostre spalle
Tielyannawen

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Come le radici della terra ***


Come le radici della terra

Diversi anni dopo, Bilbo Baggins decise di mettere per iscritto le sue avventure, preoccupato che ciò che era stato potesse presto o tardi svanire nelle nebbie del tempo.
Quando il racconto giunse ai giorni lieti trascorsi a Gran Burrone, il suo cuore si fece più leggero, scaldato dal ricordo della bella dimora di Mastro Elrond. Egli, da buon hobbit quale era, la descrisse come “una casa perfetta, che vi piacesse il cibo, o il sonno, o il lavoro, o i racconti, o il canto, o che preferiste soltanto stare seduti a pensare, o anche se amaste una piacevole combinazione di tutte queste cose”. Tuttavia non aggiunse altro, convinto come molti che i semplici momenti della quotidianità non fossero materiale adatto per una buona storia.

 

*****
 

«Sei sicuro che sia la direzione giusta?».
«Assolutamente sì. Fidati, ci siamo quasi. È impossibile che mi sia sbagliato!».
«Sarà, ma a me questi corridoi sembrano tutti uguali; inoltre ho i miei buoni motivi per dubitare delle tue capacità. La vostra famiglia non è esattamente nota per il senso dell’orientamento».
«Ha iniziato a soffiare il vento?», urlò spaesata una terza voce.
Helan mise da parte le radici che stava tagliando e volse la testa verso l’ingresso dell’Erbario, da cui proveniva un gran vociare, accompagnato dall’eco di passi pesanti. Qualche istante più tardi quattro nani, tra i quali riconobbe l’arciere e il cantante, fecero capolino nella stanza, guardandosi intorno con curiosità. Erano giunti ad Imladris da un paio di giorni, eppure raramente li aveva visti allontanarsi dal Salone del Fuoco. Solo lo hobbit, Bilbo, faceva eccezione: lo si incontrava spesso nei cortili interni, dove gironzolava con le mani strette dietro la schiena e un’espressione estasiata dipinta sul volto.
«Benvenuti nell’Erbario. Ditemi, cosa posso fare per voi?», chiese Helan avvicinandosi ai visitatori.
Fu Kili il primo a parlare, rassicurato che fosse proprio lei ad occuparsi di quel luogo. Era stanco di incontrare elfi di cui non conosceva il nome e di non comprendere le parole che udiva. «Perdonateci per l’intrusione, mia signora. Vi presento Oin, lo speziale della nostra compagnia», esordì indicando il nano alla sua sinistra. «Purtroppo, durante lo scontro nella brughiera, la maggior parte delle erbe e dei medicamenti necessari per il nostro viaggio sono andati perduti. Vi chiediamo quindi la possibilità di rifornirci dai vostri magazzini. In cambio siamo disposti a pagare il giusto prezzo, o a lavorare, se ciò che abbiamo da offrire non fosse sufficiente».
Il giovane nano si lasciò sfuggire un sospiro quando ebbe finito di esporre la loro offerta. Non amava quello stile ampolloso e cerimoniale: non si adattava al suo temperamento e aveva il sospetto che facesse sembrare fasulle le sue parole. Fili invece sapeva sempre come farsi ascoltare.
Una mano affusolata si posò all’improvviso sulla sua spalla, stringendola leggermente, e il suo cuore mancò un battito. Per la seconda volta, Kili si ritrovò a sostenere quello sguardo intenso e gli parve che l’elfa volesse scavargli nell’animo, alla ricerca di qualcosa.
«Non sarà necessario, Cúnir», disse infine Helan, accennando ai ripiani lungo le pareti. «Chiunque bussi alle porte di Imladris troverà aiuto ed ospitalità. Perciò prendete ciò che vi occorre senza timore, perché non vi sarà mai chiesto alcun pagamento».
Un lampo di soddisfazione attraversò il volto serio del nano che rispondeva al nome di Oin. Egli abbassò la tromba che portava accostata all’orecchio e si diresse compiaciuto verso lo scaffale più vicino, iniziando a studiare il contenuto di alcuni vasi di vetro.
Helan lo osservò annusare con cautela polveri e unguenti, la folta barba grigia che vibrava mentre annuiva tra sé e sé, ma presto la sua attenzione fu richiesta altrove da qualcuno che si schiariva la voce.
Il cantante fece qualche passo avanti, il viso rischiarato da un sorriso allegro e cordiale. «Non credo che ci abbiano presentato, mia signora. Bofur, al vostro servizio! E questo è mio cugino Bifur. È un nano di poche parole, ma entrambi vi siamo grati per la gentilezza che ci avete dimostrato».
«È un onore fare la vostra conoscenza», rispose Helan scrutando il quarto nano. Era rimasto immobile e nel più completo silenzio, quasi vi fosse una barriera invisibile a frapporsi tra lui e il mondo esterno. Una terribile cicatrice gli deturpava la fronte e una benda sporca di sangue fresco gli copriva il collo. «Ditemi, vostro cugino è forse ferito?».
«Solo un taglio, ma fatica a rimarginarsi e Oin teme che possa infettarsi», spiegò Bofur.
«Non sono una guaritrice, ma credo di poterlo aiutare», propose Helan tornando verso il tavolo di pietra. «Con il suo e il vostro permesso naturalmente».
Bofur soppesò la proposta tormentandosi i baffi e scambiò un’occhiata titubante con Kili, che gli assestò una sonora manata d’incoraggiamento sulla schiena, per poi rivolgere un festoso cenno d’assenso in direzione dell’elfa.
Ogni suo gesto esprimeva entusiasmo e, prima di mettersi all’opera, Helan si sorprese a pensare che le sarebbe piaciuto vedere una simile spontaneità anche all’interno del suo popolo. Ma per gli elfi il tempo nella Terra di Mezzo stava ormai finendo e gruppi sempre più numerosi decidevano di intraprendere il lungo viaggio verso ovest. Tolse alcune fasce pulite da un cesto e si allungò verso un mazzo di piantaggine [1] che pendeva dal soffitto; le foglie erano ancora fresche e iniziò a pestarle con cura in un piccolo mortaio, per ottenere un composto che avrebbe favorito una rapida guarigione della ferita.
Impiegò diversi minuti prima di ritenersi completamente soddisfatta del risultato. «E ora vediamo questo taglio», disse prendendo il mortaio e chinandosi verso il silenzioso nano, mentre Bofur e Kili si facevano da parte. La benda aderiva strettamente alla pelle lesionata, tanto che Helan ritenne più saggio tagliarla, per poterla togliere con maggior facilità. Estrasse un coltellino dalla piccola borsa che portava sempre al fianco e avvicinò la lama al collo del nano.
Fu questione di un istante.
Gli occhi color carbone di Bifur, fino a quel momento quieti e distanti, si accesero di un furore selvaggio. Iniziò ad urlare e colpì Helan con forza, scaraventandola violentemente contro il tavolo. Nell’impatto il mortaio si frantumò in mille pezzi e diverse anfore rovesciarono il loro contenuto sul pavimento.
Accasciata a terra, l’elfa cercò di calmare i battiti del proprio cuore. La caduta aveva risvegliato i segni ormai sbiaditi lasciati sul suo corpo dalla battaglia contro i mannari, ma non era il dolore a turbarla. In quella stanza si era sempre sentita al sicuro e mai avrebbe pensato di poter essere aggredita tra le mura di Imladris. Eppure si era lasciata cogliere alla sprovvista. Forse avevano ragione Erestor e tutti coloro che ritenevano i nani un pericolo per la valle. Era stata una sciocca a fidarsi di chi non conosceva.
Fece per rialzarsi e sorprendentemente una mano fu subito pronta ad aiutarla. La presa di Kili era salda, ma tradiva una certa esitazione, e l’autunno nel suo sguardo era offuscato dalla preoccupazione. Alle sue spalle, Oin e Bofur erano impegnati a trattenere Bifur, il quale continuava ad agitarsi tra le braccia dei compagni. Quando si voltò verso di lei, la fissò, ma senza l’odio che Helan si aspettava di cogliere. Non c’era alcuna traccia d’ira o rancore in lui, solo paura. E l’elfa capì che l’aveva assalita soltanto perché si era sentito minacciato dai suoi gesti.
«State bene, mia signora?».
La voce nervosa di Kili si fece strada tra i suoi pensieri. Nonostante si fosse rimessa in piedi, il nano era rimasto accanto a lei ed Helan sapeva che stava aspettando di conoscere la sua reazione. Avrebbe gridato per chiedere aiuto? Li avrebbe fatti cacciare dalla valle? Queste e molte altre domande si rincorrevano sulla fronte aggrottata dell’arciere.
«È tutto a posto. Un semplice equivoco dovuto ai miei movimenti bruschi. Come vi dicevo, non sono una guaritrice», rispose infine. Non avrebbe fornito pretesti che potessero dar vita a uno scontro. «Ma ora dovete andarvene, arriveranno presto a controllare e non devono trovarvi qui. Prendete le scale sulla destra e poi seguite il porticato, vi condurrà vicino al Salone del Fuoco. Fate in fretta».
Senza indugiare oltre, Oin afferrò la manica di Kili, che era rimasto immobile con la bocca spalancata, e lo trascinò fuori dalla stanza. Dietro di lui, Bofur raccolse ciò che restava del mortaio e sospinse il cugino verso la porta, fermandosi però sulla soglia. «Birashagimi [2]», mormorò con tristezza, poi si allontanò. Non si era voltato ed Helan non seppe mai se quella parola sussurrata, di cui non conosceva il significato, fosse davvero rivolta a lei.
Qualche mattina più tardi, l’elfa trovò un mortaio di legno chiaro di fronte all’entrata dell’Erbario. Era semplice, ma intagliato con grande abilità. Si guardò intorno e scorse Bifur che la osservava nascosto tra le ombre delle colonne. Gli fece cenno di avvicinarsi, ma il nano scosse il capo con decisione, limitandosi ad eseguire uno strambo inchino. Helan sorrise, ma egli non se ne accorse, perché la sua mente era già altrove, dove nessuno poteva raggiungerlo.

 

Quella notte Kili non riuscì a prendere sonno. Dopo aver udito quanto era accaduto, suo zio non aveva usato parole troppo dure e Fili lo aveva intrappolato in una stretta solidale, ma non era bastato per tranquillizzarlo. Sentiva di aver deluso tutti coloro che lo circondavano. La sua famiglia, i suoi amici, persino l’elfa che li aveva salvati dalle fauci dei lupi selvaggi.
Si mise seduto e fece scorrere lo sguardo sulle figure sdraiate attorno al fuoco. Accanto a lui Fili dormiva sereno, ma mentre infilava gli stivali lo sentì mormorare una frase. Non ne colse il senso, ma riconobbe un certo nome e con un moto d’affetto gli rimboccò la coperta, come faceva loro madre quando erano bambini.
Badando a non turbare il riposo dei compagni, si lasciò alle spalle i suoni familiari e il confortevole calore del salone. Nonostante l’arrivo dell’estate fosse ormai prossimo, all’esterno l’aria era pungente e avvolse Kili in un freddo abbraccio. Il nano rabbrividì e sollevò il bavero della casacca, rimpiangendo di non aver indossato il mantello.
Un passo dopo l’altro, si addentrò nei meandri di quella dimora che pareva sospesa al di fuori del mondo. Le lanterne creavano pozze di luce che illuminavano il suo passaggio e voci invisibili si perdevano nei corridoi, dandogli l’impressione di camminare in un sogno. Nessuno gli venne incontro, anche se in un paio di occasioni credette di scorgere delle sagome slanciate muoversi poco distante da lui; ma ogni volta che tentò di avvicinarsi scomparvero, tanto da fargli pensare di averle immaginate.
Non aveva una meta, perciò quando colse il suono della cascata decise di seguirlo.
Giunse ad un piccolo spiazzo illuminato dalla luna. Lì la timida brezza che accarezzava le aiuole fiorite nei cortili interni soffiava con maggior forza, portando con sé un profumo intenso, che rammentò a Kili i lunghi pomeriggi invernali della sua infanzia, trascorsi a sgranocchiare pane appena sfornato e ad ascoltare racconti di eroi davanti al camino. Sotto i suoi piedi il pavimento di pietra tremava, scosso dall’inarrestabile potenza della cascata. Spinto dalla curiosità, afferrò la balaustra e si sporse verso il basso, trovandosi di fronte uno spettacolo mozzafiato: l’urlo del vento gli riempì le orecchie, gareggiando con la poderosa voce dell’acqua, che cadeva via come lucente argento fuso, perdendosi nel buio sottostante.
«Sembra proprio che tu voglia scoprire tutti i miei segreti».
Kili si irrigidì, voltandosi in fretta. All’inizio non vide nulla e fu solo perché lei decise di mostrarsi che riuscì infine a scorgerla. Sedeva su una sporgenza rocciosa ad un paio di metri d’altezza, nascosta tra le fronde di alcuni arbusti dalle piccole foglie lanceolate, le braccia allungate attorno alle gambe raccolte e il mento appoggiato sulle ginocchia. Stava immobile, simile a una statua solitaria e dimentica dello scorrere del tempo.
«Per un momento ho creduto che la cascata mi stesse parlando e che la ragione mi avesse abbandonato. Voi Elfi sapete essere fastidiosamente silenziosi», borbottò Kili scuotendo la testa.
«E voi Nani siete fastidiosamente permalosi», ribatté Helan.
Erano partiti col piede sbagliato, non c’era alcun dubbio. Fu l’elfa la prima a riprendere la parola.
«Ma forse hai ragione. A volte dimentichiamo quanto il nostro modo di vivere possa apparire diverso e remoto agli occhi degli altri popoli. L’esistenza degli Eldar segue un ritmo a sé stante, per questo tanti tra noi decidono di lasciare questo mondo».
«Beh, quanto all’attaccamento per le proprie tradizioni nessuno può competere con un nano. Siamo gelosi, diffidenti e, sì, anche permalosi di tanto in tanto. Perciò non ti scusare Thalhiril», rispose Kili, stranamente soddisfatto di vederla sorridere al suono di quel soprannome. Gli era parso che il discorso l’avesse resa malinconica, ma avrebbe potuto sbagliare, perché, nonostante si ritenesse un buon osservatore, faticava non poco a decifrare le emozioni degli Elfi. Per la barba di Durin, a volte non riusciva nemmeno a distinguere tra maschi e femmine!
Nel silenzio che seguì, il nano si sedette sulla balaustra con le gambe a penzoloni nel vuoto. «Questo posto è meraviglioso!», esclamò fissando lo straordinario paesaggio che li circondava.
«Lo è davvero», affermò Helan, gioendo di quella genuina ammirazione. «Ogni minuscolo particolare mi è caro e nel corso degli anni ho imparato a conoscere ogni albero e ogni pietra come me stessa. Grande è il mio affetto per Imladris e so che non potrò mai ripagare il debito che ho nei confronti di questa valle, che si è dimostrata una casa accogliente, un rifugio sicuro per un’orfana come me».
«Orfana? Non può essere!».
Sconcertato, Kili si accorse troppo tardi di aver espresso con foga i suoi pensieri. Dal canto suo, l’elfa non lasciò trasparire alcuna reazione, ma quando parlò la sua voce suonò cupa, come se una luce in lei si fosse spenta all’improvviso: «Potrà sembrarti strano, ma persino gli Eldar non sono immuni alla morte. Se trafitti al cuore da una freccia, cadiamo, al pari di un cervo o di qualunque altro figlio di Iluvatar [3]».
«Non è per questo…», tentennò Kili, tentando di spiegarsi, «è che io credevo… Balin riteneva che vista la tua posizione… insomma ero certo che fossi la figlia…».
Helan sospirò di fronte alla confusione del nano e il suo spirito in tumulto si placò, perché egli non poteva conoscere il suo passato. Alzò il viso verso il cielo notturno e prese a raccontare: «Capisco. Ebbene, in realtà hai ragione e torto allo stesso tempo. Mastro Elrond è l’unico padre che io abbia mai conosciuto. Egli mi ha salvata e si è preso cura di me, crescendomi con amore, eppure non appartengo alla sua nobile discendenza. La sola figlia del Signore di Imladris si chiama Arwen, ma ormai da molti secoli dimora presso i parenti materni, sul lato orientale degli Hithaeglir [4]. Quanto a me, coloro che mi diedero la vita non camminano più su questa terra». Pronunciare l’ultima frase riportò irruentemente a galla antiche inquietudini, a lungo sopite, ma mai dimenticate. Le fu difficile trovare la forza per non perdersi nell’amarezza dei suoi pensieri, ma quella fiamma sconosciuta che avvampava nel suo petto la spinse a proseguire. «I miei genitori erano esploratori, curiosi e spensierati, sempre in cerca di sentieri nuovi e luoghi sconosciuti. Nemmeno l’attesa di un figlio li distolse dal desiderio di conoscere il mondo. Quando venni alla luce, mia madre era sola e morì durante il parto; sconvolto dal dolore, mio padre la raggiunse presto e perì pochi giorni più tardi, durante una sortita contro gli orchi che tuttora infestano queste montagne. Una parte di me è convinta che cercasse la morte, sentendosi colpevole per aver abbandonato la moglie nell’ora del bisogno. Questo è ciò che accadde e fu così che divenni un’orfana. Ogni altro particolare sulla mia famiglia mi è ignoto e persino i loro nomi sono avvolti dal mistero, poiché Mastro Elrond non ha mai voluto pronunciarli. Nonostante vivessero fuori dai confini di Imladris, credo fossero legati da una profonda e sincera amicizia, il cui ricordo ancora oggi lo fa soffrire terribilmente. Non riuscendo a sopportare il tormento che leggevo in lui ogni volta che affrontavo l’argomento, ho smesso di domandare. Nessuna risposta me li avrebbe restituiti, così ho scelto di andare avanti ed ho vissuto un’esistenza felice, nonostante non mi sia rimasto nulla di loro, se non questo gioiello e il nome che scelsero per me. Helan, dono del ghiaccio [5]».
Kili aveva ascoltato assorto, stupito che l’elfa volesse condividere con lui le sue origini e soprattutto il segreto del suo nome. Per i Nani i nomi, o meglio i loro veri nomi, i loro “nomi oscuri”, erano qualcosa di estremamente prezioso, da pronunciare di rado e soltanto nelle profondità delle loro dimore di pietra. Costituivano un’intuizione, una scintilla lasciata da Mahal nel cuore delle sue creature, per aiutarle a scoprire la propria natura. «Un nome alquanto suggestivo», concordò, «eppure non ho notato davvero nulla di gelido od inospitale in te».
«Ti ringrazio», mormorò Helan con un sorriso stanco. «Essendo nata durante un rigido inverno, non è così singolare che il mio nome ne ricordi il freddo. E forse per i miei genitori fui davvero un dono, sebbene non passi giorno senza che mi chieda se, in realtà, io non sia stata la causa della loro rovina».
Quelle ultime parole vibrarono nell’aria per un istante, prima d’essere inghiottite e trascinate via dal rombo della cascata, come se non fossero mai esistite. C’era in esse una solida rassegnazione e Kili fu certo di non ingannarsi quando vide una lacrima attraversare la guancia dell’elfa. Per la prima volta da quando l’aveva incontrata, si concesse di osservarla con attenzione, protetto dalla distanza e dalle ombre della notte. Alta all’incirca sei piedi, si muoveva con la grazia di un giunco di palude, flessuoso e sottile, tuttavia pareva possedere una tempra tenace, assai difficile da spezzare; il viso affilato era incorniciato da una folta chioma di boccoli bruni, le cui sfumature ricordavano i mille colori dei tronchi dei pini che crescevano nei boschi ai piedi delle Montagne Blu. Ciò che più colpiva in lei erano però i suoi occhi: antichi e impenetrabili, ma non di quel grigio brillante e intimidente così comune tra il suo popolo, bensì marroni, caldi e profondi come le radici della terra.
Lontano, in uno dei giardini, un usignolo fece udire la sua melodia ed Helan infine si riscosse, simile ad una barca che dopo la burrasca ritrovi finalmente la rotta verso un attracco sicuro. «Suvvia, basta indugiare in tristi discorsi! Mi piacerebbe sentire qualche racconto riguardo la tua gente, ma sospetto che ne esistano ben pochi che gli Elfi possano conoscere».
«Nessun Nano degno di questo nome rivelerebbe le nostre storie ad un Elfo», confermò Kili raddrizzando la schiena con orgoglio.
«Den istannen [6]», esclamò l’elfa scuotendo la testa.
L’arciere non comprese la frase, ma il tono lievemente ironico con cui era stata pronunciata lo divertì. Forse persino tra gli Elfi esisteva il senso dell’umorismo. «Fammi pensare… Credo che potrei parlarti di mia madre, così non verrebbe violata alcuna regola. È una nana fiera, una vera discendente di Durin, e la sua parola è da sempre tenuta in grande considerazione. Sono in molti a cercare il suo consiglio, poiché possiede prudenza ed un infallibile intuito. Somiglia incredibilmente a Thorin nell’aspetto, sebbene con lineamenti più delicati, ma guai a lasciarsi ingannare dalla dolcezza dei suoi tratti. La collera di Dis, figlia di Thrain, potrebbe far tremare un’intera montagna!».
«Sembra una donna determinata», disse Helan, osservandolo animarsi mentre raccontava della madre. Rischiarato dal pallido chiarore lunare, il nano le parve assai più giovane di quanto avesse immaginato ed ella fu conscia dell’ineluttabile fugacità dell’esistenza mortale. Lo vide annuire e portare una mano al petto, per stringere qualcosa che teneva nascosto tra le pieghe della casacca all’altezza del cuore.
«Lo è davvero!», asserì Kili facendosi pensoso. «Mi manca, più di quanto avrei creduto. Ha lottato fino all’ultimo perché non partissimo e temo che la nostra decisione le abbia spezzato il cuore».
«Quando non ero che una bambina, possedevo una spiccata tendenza alla fuga. Non ricordo da cosa scappassi o verso cosa corressi, sapevo solo di doverlo fare. Un giorno Celebrian, Signora di Imladris, disse che era inutile tentare di fermarmi, perché nelle mie vene scorreva il vento selvaggio».
«E poi cos’è successo?», chiese Kili dubbioso. Lui non era fuggito per capriccio, aveva intrapreso una missione che avrebbe portato onore alla sua famiglia.
Helan si alzò in piedi e allargò le braccia, quasi volesse spiccare il volo. «Col passare degli anni ho smesso di fuggire e fortunatamente si è scoperto che nelle mie vene scorreva solo sangue. Eppure, di tanto in tanto, il vento continua a cantare per me. Così la notte vengo qui, ad ascoltare la sua voce!». Detto ciò, si lasciò cadere verso lo spiazzo sottostante, atterrando accanto al nano in un turbinio di seta bianca. «Non pentirti delle decisioni dettate dal cuore, Cúnir. Coloro che ti amano capiranno e col tempo accetteranno le tue scelte. Ne sono certa. Ed ora vai», aggiunse, «perché l’alba è vicina e tu hai bisogno di riposare».
Confortato dalle parole dell’elfa, Kili prese congedo con un inchino e si allontanò, salvo poi ritornare frettolosamente sui propri passi. Lei era ancora là, ferma dove l’aveva lasciata, come se si aspettasse di vederlo comparire di nuovo. «Riguardo a quanto è avvenuto oggi nell’Erbario, che cosa hai raccontato?», le domandò, studiando di sottecchi la sua reazione.
La risposta fu pronta e non tradì alcuna esitazione: «Ho detto di essere scivolata sul pavimento umido».
«E ti hanno creduto?», indagò Kili. Era sempre stato un pessimo bugiardo, ma forse gli Elfi sapevano mentire meglio di lui.
«Non credo proprio», replicò Helan sospirando. «Perché tu lo sappia, di norma gli Elfi non scivolano accidentalmente. Ma non mi hanno fatto altre domande e con un po’ di fortuna la storia non arriverà alle orecchie sbagliate prima della vostra partenza».

 

*****
 

I giorni scivolavano via velocemente e anche i più ritrosi fra i nani dovettero ammettere che forse quegli elfi non avevano in animo di tendere loro un agguato durante il sonno. Il solo a fare eccezione era Dwalin, che continuava imperterrito a montare la guardia all’ingresso del salone, una mano sempre stretta intorno all’impugnatura del suo martello da guerra. Anziché rischiararsi, il volto del guerriero si era fatto più cupo ad ogni sorgere del sole, ma Fili non se la sentiva davvero di biasimarlo. Di certo Dwalin aveva i suoi buoni motivi per non fidarsi.
Il nano sbuffò, scostando una ciocca di capelli che gli cadeva davanti agli occhi, e riprese ad affilare le armi sparse di fronte a sé. Molti trovavano quel compito noioso e monotono, ma per Fili i lenti movimenti di una lama sulla pietra umida erano il rimedio perfetto per allontanare i dubbi che gli affollavano la mente. I ricordi dell’ultima notte che aveva trascorso sulle Montagne Blu continuavano a far breccia nei suoi sogni. Era stato troppo avventato.
Per questo ora se ne stava seduto in disparte all’aria aperta, la schiena scaldata dai tiepidi raggi del sole pomeridiano, mentre i suoi compagni inventariavano, in modo assai chiassoso, le loro provviste. L’ennesimo fruscio lo spinse ad interrompere il lavoro e voltarsi verso i cespugli alla sua destra. «Puoi anche uscire da lì, ti assicuro che non ho intenzione di farti del male», esclamò, stiracchiando i muscoli indolenziti.
La siepe parve scuotersi e dal groviglio di foglie sbucò un bambino. Non era un elfo e non poteva aver visto più di una decina di inverni, eppure vi era qualcosa di insolito nei suoi vibranti occhi azzurri, un’aura di nobiltà che non passava inosservata. «Sei tu che hai cavalcato con Helan?», chiese studiando il nano con interesse.
Fili non si aspettava quella particolare domanda. I pochi ragazzini incontrati durante i suoi viaggi gli avevano chiesto come mai fosse così basso e se esistessero femmine tra i nani. «No, è stato Kili, mio fratello minore. Lei lo ha salvato dai lupi selvaggi». “Io invece non sono stato capace di aiutarlo e ho rischiato di perderlo per sempre”, pensò con rabbia.
Il bambino lo fissò per qualche istante, poi sorrise e andò a sedersi accanto a lui. «È stato fortunato! Helan è una buona amica e non esiste cavallo più veloce di Alagos. Un giorno anche io cavalcherò insieme a loro», affermò allegro, protendendosi verso le daghe e i pugnali appena affilati. «Sono tutte tue queste armi? Chi le ha forgiate? Ti ha insegnato tuo padre come usarle?».
Tanta briosa curiosità rallegrò Fili, che si affrettò a rispondere a quella pioggia di interrogativi: «Tutte le armi che vedi mi appartengono e sono state create dai migliori fabbri delle Montagne Blu. Purtroppo mio padre non era un guerriero, ma un architetto, così è stato mio zio ad istruirmi nel combattimento».
«Nemmeno mio padre potrà mai insegnarmi», disse il bambino facendosi serio, «e il cuore mia madre piange mentre mi alleno con le spade».
«È così per tutte le madri», lo consolò Fili.
Prima che riuscisse ad aggiungere altro, si udì uno scroscio d’acqua, immediatamente seguito da una serie di imprecazioni piuttosto colorite. A quanto pareva, alcuni dei suoi compagni avevano intrapreso un’accesa battaglia, scegliendo come terreno di scontro le fontane di Gran Burrone. «Credo sia meglio che vada a controllare», sospirò il nano rialzandosi.
«Anche per me è ora di rientrare, mi staranno cercando ormai», concordò il bambino, tirandosi in piedi e dandosi una manata sulla fronte. «Stavo dimenticando le buone maniere! Il mio nome è Estel».
«E io sono Fili, figlio di Hiali [7], al tuo servizio. È stato un piacere conoscerti, giovane uomo».
«Il piacere è stato mio, non avevo mai parlato con un nano prima d’ora! Novaer [8] Fili!», lo salutò Estel, agitando il braccio mentre si allontanava.

 

Gaellin storse il naso, in una smorfia che mal si addiceva ai suoi lineamenti delicati. Aveva udito delle urla ed era corsa all’esterno, senza riuscire ad impedire che alcuni dei nani si lanciassero in acqua. Prima il dormitorio improvvisato nel Salone del Fuoco ed ora la devastazione delle fontane: non avrebbe sopportato oltre. L’arpista non nutriva particolare rancore nei confronti del popolo di Aulë; certo, considerava i Nani come esseri avidi e meschini, ciò nonostante non li odiava. Tuttavia amava la serenità, quella serenità che derivava da un’esistenza pacifica e ordinata. E negli ultimi tempi si erano verificati fin troppi avvenimenti fuori del comune.
Trovò sua sorella intenta a studiare alcuni spartiti e ovviamente poco lontano scorse la figura di Lindir. Da quando avevano varcato i confini di Imladris, ormai tre secoli prima, il musicista era diventato l’ombra di Uiallin; i sentimenti che lo animavano erano palesi e in molti si domandavano per quale motivo non si fosse ancora dichiarato.
«Nethel [9]», la chiamò Gaellin. «Vieni, dobbiamo parlare con Erestor al più presto».
Uiallin distolse lo sguardo dalle note e sospirò. Conosceva i pensieri che turbavano l’animo dell’altra, ma non li condivideva appieno. «Sei davvero certa che sia necessario?», domandò.
Gli occhi di Gaellin si accesero della fiera determinazione di chi non ammette repliche. «Non si può continuare così. È tempo di fare qualcosa».
La biblioteca appariva placidamente addormentata quando le sorelle la raggiunsero. Erestor sedeva sui gradini più alti di una scala a chiocciola e arrotolava con cura pergamene ingiallite. Alla comparsa delle due elfe non interruppe il suo lavoro, ma con un cenno del capo le invitò a parlare.
Gaellin si fece avanti, mentre Uiallin rimase nella penombra. «Non vogliamo disturbarti nell’adempimento delle tue mansioni Erestor, ma crediamo che tu debba essere informato. La situazione è diventata ormai insostenibile». Incoraggiata dal silenzio del bibliotecario, Gaellin continuò: «Quei nani si fanno beffe delle nostre tradizioni e non hanno alcun rispetto per questo luogo. Gli addetti alle cucine si lamentano e le cantine si stanno svuotando rapidamente. Per quanto tempo resteranno tra noi?».
Erestor sbuffò e abbandonò le pergamene. Lo stesso malcontento cresceva nel suo cuore e le sue spalle si erano tese parola dopo parola; eppure non c’era nulla che potesse fare. «Non è stato ancora stabilito. Spetta soltanto al Signore di Imladris prendere una simile decisione», rispose.
«Naturalmente. Tuttavia sono certa che il Bianco Consiglio gradirebbe sapere che Thorin Scudodiquercia sta viaggiando in incognito verso est», ribatté l’elfa trionfante.

 

Dopo aver gustato una merenda decisamente abbondante, Bilbo raggiunse uno piccolo frutteto e sedette con la pipa accesa su una panchina che aveva scoperto il giorno prima, godendosi la vista della valle. Sottili nuvole di fumo salirono verso il cielo. Era felice, felice come non si sentiva da troppo tempo. Gli sarebbe piaciuto fermarsi lì e vivere per sempre in quella dimora incantata, anche supponendo che una delle magie di Gandalf fosse in grado di riportarlo dritto nella Contea, proprio di fronte alla porta di casa sua.
Stava iniziando a pensare che l’ora del tè era ormai prossima, quando udì un fruscio, segno che un elfo si stava avvicinando e desiderava avvisarlo del suo arrivo. Si voltò, pronto a salutare il cortese visitatore, ma lo sorprese scoprire che si trattava di Mastro Elrond in persona.
«Mio signore!», esclamò lo hobbit, balzando in piedi e facendo un profondo inchino.
«Bentrovato signor Baggins», lo salutò il Mezzelfo. «Ditemi, per quale motivo sedete qui da solo? Non dovreste essere insieme ai vostri compagni?».
Il volto di Bilbo si rabbuiò. «Non credo che sentiranno la mia mancanza. La verità è che secondo molti di loro non sarei mai dovuto partire per questo viaggio. Mi ritengono un peso inutile».
«Davvero? Eppure ho sempre ritenuto gli Hobbit creature estremamente resilienti».
«Sul serio?», domandò Bilbo incuriosito. «Non sapevo che aveste conosciuto altri Hobbit».
«Solo un paio ed è successo molti anni fa», rispose il Mezzelfo. Il suo tono si era fatto triste e rimase a lungo in silenzio, perso in lontani ricordi. Poi sorrise e aggiunse: «Ho anche sentito che sono oltremodo affezionati alle loro comode poltrone».
«A me invece hanno raccontato che non è saggio cercare il consiglio degli Elfi, perché diranno sia sì che no nella medesima frase», ribatté lo hobbit ridacchiando.
I due si fissarono ed entrambi scoppiarono in una genuina risata. Elrond accarezzò con lo sguardo il frutteto e sfiorò i rami in fiore. Bilbo non poteva certo saperlo, ma quegli alberi erano stati piantati e curati da sua moglie, quando ancora il suo spirito non era stato piegato dalla sofferenza del mondo. Prima di andarsene, il Signore di Imladris si portò una mano al petto e disse: «Sarete sempre il benvenuto tra di noi, signor Baggins, e se un giorno lo desidererete sarò lieto di offrirvi un posto nella mia casa».

 

*****
 

E così giunse il solstizio d’estate, detto Loëndë [10] dagli Elfi in memoria dei tempi lieti del loro risveglio su Arda.
I preparativi per le celebrazioni di Mezza Estate che si sarebbe svolte sulle rive del Bruinen erano quasi terminati, quando lo stregone riuscì finalmente a convincere Thorin della necessità di mostrare la mappa al Signore di Imladris. Il nano si era ostinatamente opposto ad una simile eventualità, determinato a proteggere il lascito della sua stirpe da chi avrebbe potuto profittarne. «Salvatemi dalla caparbietà dei Nani!», aveva urlato Gandalf dopo l’ennesima discussione. «Hai la possibilità di ricevere aiuto e consiglio da uno dei pochi nella Terra di Mezzo che potrebbe carpire i segreti di quella vecchia mappa, eppure la getti al vento come uno sciocco! Ma ricordati di ciò che ti dirò ora, figlio di Thrain: se la missione dovesse fallire e portarvi alla rovina, sarà solo per colpa del tuo orgoglio». Solo allora Thorin cedette, perché quelle dure parole ebbero il potere di rammentargli che non avrebbe lasciato nulla di intentato, pur di riconquistare il regno perduto dei suoi padri.
La luna brillava in cielo quando Elrond li accolse nel suo studio. Prese la mappa con delicatezza e la fissò a lungo, lasciando che silenziosi sospetti trovassero conferma in ciò che vedeva. Scosse la testa e per un momento rivide la distruzione che la sete dell’oro aveva perpetrato nella stirpe di Durin. No, non approvava il geloso e cieco amore dei Nani per la ricchezza, né la loro continua ricerca di nuovi tesori. Non approvava, eppure i margini ingialliti e logorati dal tempo di quella mappa erano i tristi testimoni delle miserie e degli stenti patiti da un intero popolo. No, non approvava, ma ancora più grande era il suo disprezzo per la crudele malvagità dei draghi.
Un pallido raggio argentato filtrò dai vetri e si allungò a sfiorare la pergamena. «E se…», mormorò Elrond  colto da un’improvvisa intuizione. Sollevò la mappa, per lasciare che il bagliore lunare la attraversasse, e accanto ai segni visibili fino a quell’istante ne apparvero di nuovi. «Lettere lunari!», esclamò, «Thror ha utilizzato uno stratagemma davvero molto astuto per celare il suo messaggio».
«Lettere lunari?». La voce sottile dello hobbit si levò da un angolo. In qualità di scassinatore, anche lui era stato invitato a quell’incontro riservato; o meglio, Gandalf aveva insistito perché fosse presente, mentre Thorin si era limitato a squadrarlo contrariato, senza però opporsi.
«Esattamente signor Baggins», confermò il Mezzelfo, col viso rivolto verso la bianca falce che rischiarava la notte. «Le lettere lunari furono inventate dai Nani, che le scrivevano adoperando penne d’argento. Sono rune comuni, ma si possono leggere solo se dietro di esse splende una luna che si trovi nella stessa fase e stagione di quando le lettere furono create. In qualsiasi altro momento, resteranno nascoste alla vista. Queste rune devono essere state scritte in una notte di Mezza Estate, al chiaro di una luna crescente, molti anni fa. Pare che il destino ti arrida, Thorin Scudodiquercia. La stessa luna ci illumina stanotte».
«Cosa dicono?», lo incalzò il nano, stringendo la chiave che teneva appesa al collo.
Ad Elrond non sfuggì il tono insistente con cui la domanda era stata posta, ma finse indifferenza e lesse: «Sta vicino alla pietra grigia quando picchia il tordo e l’ultima luce del sole che tramonta nel Giorno di Durin splenderà sul buco della serratura».
«Una notizia davvero infausta», proruppe Thorin amareggiato. «Nei nostri calendari il nuovo anno inizia in corrispondenza del primo giorno dell’ultima luna d’autunno, alle soglie dell’inverno. Quando in questa data sole e luna compaiono insieme nel cielo, allora viene chiamato Giorno di Durin. Ma è un evento assai raro ed è impossibile indovinare il momento accadrà di nuovo».
«Ben poche sono le imprese impossibili a questo mondo», lo rassicurò Gandalf. «C’è scritto altro?».
«Nulla che possa essere visto con questa luna», affermò serio il Signore di Imladris, restituendo la mappa al legittimo proprietario.

 

Helan non venne mai a conoscenza di quanto fu detto nello studio quella sera. Non lesse le rune tracciate con mano ferma da Thror, né udì suo padre svelare il segreto custodito dalla candida luce lunare.
Stava raggiungendo gli alloggi di Gilraen, quando scorse Thorin dirigersi a grandi passi verso il Salone del Fuoco. In lui c’era qualcosa di diverso, perché il ghiaccio negli occhi del nano pareva essersi scaldato; dietro ad orgoglio e brama di vendetta, l’elfa vide scintillare la speranza, pura e travolgente.
Sorrise e riprese il suo cammino, le braccia cariche di fiori profumati. Anche la natura era in festa ed ella poteva percepire le emozioni gioiose che dalle radici risalivano fino alle chiome degli alberi, mentre le foglie frusciavano allegre in risposta al canto della cascata. Sarebbe rimasta in ascolto, se voci diverse e a lei ben note non avessero richiamato la sua attenzione.
«Dovevo immaginare che stessi tramando qualcosa. Dimmi, quali sono i tuoi propositi?».
«Ci conosciamo da troppi anni e per l’amicizia che ci lega non ho intenzione di mentirti. Desidero entrare in quella montagna ed aiutare i nani a riprendersi Erebor. E prima che tu me lo chieda, non volevo tenerti all’oscuro, stavo solo aspettando l’occasione opportuna per parlarti dei miei progetti. Fidati di me, sono certo che avremo successo».
Le sagome del Signore di Imladris e di Mithrandir erano poco distanti da lei, rischiarate dai raggi della luna. Poteva vedere le loro spalle tese e i loro profili accigliati. Avrebbe voluto andarsene, ma i suoi piedi parevano ancorati al terreno.
«Ne sei davvero sicuro Mithrandir? E cosa accadrebbe se il tuo piano fallisse? Le conseguenze potrebbero essere disastrose, e non mi riferisco soltanto alla furia di Smaug. È una decisione rischiosa, che molti non riterrebbero saggio appoggiare», disse Elrond con la fronte aggrottata.
«È rischioso anche restare immobili a guardare. Di cosa hai paura amico mio?», ribatté lo stregone.
«Hai dimenticato la vena di follia che scorre nel sangue di colui che reclama Erebor? Suo nonno perse il senno e la sua stessa arroganza lo portò alla morte, suo padre sparì più di un secolo fa e nessuno può dire quale sia stato il suo destino. So bene che quel trono appartiene a Thorin Scudodiquercia per diritto di nascita, ma puoi assicurarmi che non soccomberà al potere dell’oro come coloro che lo hanno preceduto?», chiese il Mezzelfo.
Lo stregone si appoggiò al suo bastone con un sospiro profondo, prima di riscuotersi con rinnovata fermezza. «No, non ho scordato la loro debolezza. Eppure lascia che ti dica ciò: con o senza il nostro aiuto, quei nani tenteranno l’impresa e nulla potrà impedirglielo, perché in fondo la Montagna Solitaria è la loro patria. Non credo proprio che Thorin senta di dover chiedere il permesso a chicchessia e lo stesso vale per me. Del resto, hai un debito nei confronti della stirpe di Durin».
«Non è certo a me che devi chiedere il permesso Mithrandir», mormorò Elrond stancamente. «Simili decisioni non spettano solamente a te o a me, come non tocca a noi due ridisegnare l’aspetto della Terra di Mezzo. Ricorda, tu non sei l’unico guardiano inviato a vegliare su questo mondo. Su insistenza di Erestor mi sono visto costretto ad informare il Capo del Bianco Consiglio del vostro arrivo; secondo le sentinelle, egli sarà qui tra poco e desidera conferire con te quanto prima. Incontrerà i nani domattina, immagino per dissuaderli dal proseguire oltre nei loro intenti».
«Saruman!», esclamò lo stregone con un sorriso forzato. «Ebbene, sembra che mi perderò i festeggiamenti questa sera. Peccato, peccato davvero, il profumo del banchetto era invitante e speravo di assaggiare un bicchiere di quel vino che tieni da parte per le occasioni speciali… beh, sarà per la prossima volta! Del resto, quando desideriamo ardentemente qualcosa è l’universo stesso a mostrarci la via per realizzarla!».
Inspiegabilmente, Helan ebbe la sensazione che le ultime parole di Mithrandir fossero rivolte a lei.

 

Nelle sue stanze, Gilraen osservava l’amica seduta di fronte a lei. Avrebbero dovuto recarsi insieme in riva al fiume, ma, dopo essere entrata ed aver posato i fiori sul tavolo, l’elfa non aveva accennato a muoversi. Da qualche tempo Helan sembrava inquieta e preoccupata, anche se la donna non ne comprendeva il motivo. L’arrivo dei nani spiegava solo in parte tale turbamento e sempre più spesso l’aveva vista stringere con forza il gioiello che portava al collo.
«Tu cosa sai della speranza?», chiese infine l’elfa sorprendendola.
Gilraen non conosceva molto del mondo. Da fanciulla aveva fermamente creduto che nulla l’avrebbe allontanata dal suo piccolo villaggio; lì sarebbe stata la sua vita, una certezza che le dava conforto nei giorni più duri. Poi si era innamorata ed ogni cosa era cambiata, poiché l’uomo che le aveva rapito il cuore portava con sé un fardello ben più grande di lei e della sua esistenza frugale. Non si era mai pentita di quell’amore, che le aveva donato la vera felicità e un figlio. Tuttavia la felicità era stata fin troppo presto oscurata dal lutto e sul capo di suo figlio pendeva un destino incerto. Si sentiva impotente e fragile, una straniera persino per se stessa. Eppure conosceva la speranza, perché l’aveva portata in grembo per nove mesi.
«So che senza la speranza la vita non vale la pena di essere vissuta. Se potrai dare la speranza ad un popolo fallo, qualsiasi sia il prezzo che ti viene chiesto. Fallo, e donerai loro una ragione per sopravvivere».
Così rispose Gilraen la Bella ed Helan l’abbracciò grata.

 

2770 T.E. – MONTAGNA SOLITARIA
Fiamme e macerie erano ovunque. Urla di terrore si rincorrevano lungo i saloni, accompagnate dai gemiti dei moribondi. Thorin avanzava disperato verso l’ingresso, stringendo una mano esile e spaventata nella sua. Sentiva la nana tossire e ansimare dietro di lui, ma non rallentò il passo.
Imboccarono un corridoio che pareva ancora intatto, tanto che Thorin si azzardò a voltarsi e spezzare il silenzio: «Non avere paura, ce la faremo vedrai».
Gli occhi della giovane erano lucidi e sconvolti, ma sul suo viso si aprì un timido sorriso di speranza, che scaldò l’animo del principe.
Proprio in quel momento un nuovo boato scosse la montagna e il soffitto crollò su di loro, separandoli.
«Thorin! Thorin!».

 

«Thorin! Svegliati Thorin Scudodiquercia!».
Una voce lo chiamava con insistenza, ma non quella che ogni notte riempiva i suoi sogni di dolore e tristezza. Quando Thorin aprì gli occhi, si trovò di fronte un volto affilato e senza età. Con un gesto fulmineo si allungò verso il pugnale che teneva sempre accanto a sé, ma la sua mano si strinse sul nulla. Digrignò i denti, frustrato per essersi lasciato sorprendere impreparato, e lanciò uno sguardo gelido all’elfa. Ella rimase immobile nella penombra, per nulla intimorita dalla sua reazione. La dama intrepida, Thalhiril, così l’aveva chiamata suo nipote. E forse lo era davvero per sfidarlo in quel modo.
«Temo che non troverai ciò che cercavi», disse infine Helan, muovendosi con cautela per indicare il pugnale, che giaceva sul pavimento a poca distanza dai suoi piedi nudi. «Schivare i tuoi attacchi sarebbe stata un’inutile perdita di tempo. E in questo momento il tempo è una risorsa molto preziosa».
«Parla dunque, perché ti sei introdotta nelle nostre stanze?», sibilò Thorin, controllando i respiri regolari dei compagni addormentati attorno a lui.
Prima di rispondere Helan si voltò a fissare le stelle, chiedendosi cosa la stesse spingendo a rischiare tanto. Forse non lo avrebbe mai scoperto, ma avrebbe aiutato quei nani a ritrovare la speranza. «Il vostro viaggio non è visto di buon occhio da coloro che vigilano sulla Terra di Mezzo», spiegò a mezza voce. «Non potete più aspettare, dovete andarvene subito, stanotte, prima che vi venga impedito di partire».
«Questo non è possibile! Gandalf ci aveva assicurato…», esclamò il nano con furia.
L’elfa fece un passo verso di lui, zittendolo con un gesto della mano. «Ci sono ordini a cui neppure uno stregone può disubbidire. Mithrandir sta tentando di far udire la sua voce, ma potrebbe volerci troppo tempo. Tempo che voi non avete, se ciò che ho sentito è vero. Seguitemi e io vi guiderò aldilà delle montagne».
«Perché dovremmo fidarci delle tue parole?», ringhiò Thorin allontanandosi irritato.
«Perché non avete altra scelta», ribatté Helan sorridendo, mentre la luce del fuoco le illuminava il viso e le fiamme danzavano nei suoi occhi.






 

NOTE:
[1] La piantaggine ha proprietà cicatrizzanti.
[2] In Khuzdul significa Mi rincresce.
[3] Nome elfico di Eru, l’Essere Supremo, in Quenya significa Padre di Tutto. Tra i figli di Iluvatar sono annoverati Elfi e Uomini, mentre i Nani (creati da Aulë) sono considerati “figli adottivi”.
[4] Nome elfico delle Montagne Nebbiose, in Sindarin significa Catena di picchi nebbiosi.
[5] Nome elfico di mia creazione composto dai termini Sindarin hel < heleg (ghiaccio) e ann (dono).
[6] In Sindarin significa Non ne dubitavo (letteralmente I knew it).
[7] Nano della stirpe dei Broadbeams o Vastifasci, il cui nome in norreno significa Impalcatura. Il personaggio è di mia invenzione, dato che nei suoi scritti Tolkien non cita il padre di Fili e Kili.
[8] In Sindarin significa Arrivederci (letteralmente Be good).
[9] In Sindarin significa Sorella.
[10] Nome elfico del solstizio d’estate o giorno di Mezza Estate, in Quenya significa Centro dell’anno.

DATE:
1000 T.E. 11 dicembre: nascita di Helan.
2941 T.E. 4 giugno: arrivo della Compagnia a Gran Burrone.
2941 T.E. 22 giugno: partenza della Compagnia da Gran Burrone nel giorno di Mezza Estate.

 

ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti,
ebbene sì, non sono scomparsa, non ancora per lo meno! Credo non ci siano parole per scusarmi per questi mesi di assenza, semplicemente sono stata molto impegnata e mi dispiace infinitamente aver lasciato tutto in sospeso.
Avevo diverse precisazioni da fare, ma ovviamente mi sono sfuggite di mente e non le ricordo più tutte quante. In merito alla terminologia “nomi oscuri” per indicare i veri nomi dei Nani, quelli che essi non rivelano a chi non appartenga al loro popolo, ammetto di non ricordare se sia canon oppure no; nel caso assai probabile che non lo sia viene sicuramente dalla lettura di “Sansukh”, storia scritta da determamfidd e tradotta in italiano su questo sito. Il resto l’ho scordato, perciò la smetto di perdere tempo e vi saluto, scusandomi ancora per il vergognoso ritardo.
Come sempre ringrazio di cuore quanti leggono e seguono la storia, se vorrete farmi sapere cosa ne pensate ne sarò felice!

Possa la strada alzarsi per venirvi incontro e possa il vento soffiare sempre alle vostre spalle
Tielyannawen

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3179006