Pressure

di namelessire
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** один ***
Capitolo 2: *** два ***
Capitolo 3: *** три ***
Capitolo 4: *** четыре ***
Capitolo 5: *** Avviso (Urgente) ***
Capitolo 6: *** шесть ***
Capitolo 7: *** семь ***



Capitolo 1
*** один ***


9:30, martedì.

Semaforo, uomini con ventiquattrore sotto al braccio sinistro e un caffè xl di starbucks, battevo nervosamente la suola delle scarpe sull’asfalto umido e schizzai via al via libera luminoso, dovevo aprire il museo e dovevo farlo entro mezz’ora e inutile dirlo, ero in ritardo, diciotto anni ed ero perennemente di corsa, facevo slalom tra incroci e mezzi pubblici, saltavo dalla metro al tram senza sosta ma senza lamentarmi.

Lavoravo al Guggenheim da pochi mesi, ero pagata una miseria visto che ero una studentessa di belle arti alla Columbia ma ero appagata, felice di tutto questo perché era stata una fortuna e non avevo intenzione di mollare anche se tutto ciò comportava l’essere lontana da casa e vivere in una bettola ben lontana dall’Upper East Side.

Non appena vidi la cupola del museo accelerai e quasi volai per il viale alberato che portava all’ingresso, con il mazzo di chiavi che rumoreggiava addosso alla mia gamba, appeso per miracolo al passante dei jeans, mi fermai di fronte all’enorme ingresso di vetro e infilai la chiave nella toppa, la girai ma schioccò a vuoto, provai e riprovai e quando alzai lo sguardo intravidi Max farmi cenno di entrare, che tanto il museo lo aveva aperto lui; mollai la borsa sulla poltrona art dèco e mi tolsi la giacca e finalmente presi un respiro profondo, il primo della giornata dopo i miei soliti cinque starnuti, uno in più del solito.

-Buongiorno Nastasja- mi appoggiai al bancone di mogano nero

-Buongiorno anche a te Max, senti grazie per aver aperto- gli sorrisi e lui alzò le spalle come a dire “non ti preoccupare, è una delle mie occupazioni tirarti fuori dai guai” e di questo gli ero grata oltre al fatto che in quella metropoli era il mio unico amico.

-Preparati alla solita flotta di turisti giapponesi e coreani per questa mattina- mi rispose ridendo di gusto quando rotei gli occhi già stanca prima di iniziare.

-Sai cosa mi piacerebbe fare?- scosse la testa

-Dormire- risposi gettandomi a peso morto sulla solita poltrona, che ad occhio e croce valeva almeno qualche migliaio di dollari.

Max non era un ragazzo di tante parole, veniva dalla Florida e si era trasferito a New York per trovar fortuna e a ventun’anni era riuscito a trovarsi un impiego ben più che accettabile, di bell’aspetto ma impacciato su qualsiasi situazione che riguardava ragazze e appuntamenti ed io ero la sua specie di partner in crime; di sera scorrazzavamo per New York senza un soldo in tasca, mi accompagnava alle mostre al Met e mi aiutava ad amministrare la mia borsa di studio mentre ci dividevamo un pranzo in qualche unto McDonald come una vecchia coppia di falliti.

Mi ridestai quando vidi avvicinarsi la solita guida che teneva in mano una bandierina americana seguita da una ventina di turisti per lo più anziani facoltosi tutti ordinatamente in fila, una calma inquietante che pareva espandersi in tutto il circondario se solo qualche secondo dopo quattro ragazzi non avessero rotto le file correndo come dei dannati, calpestando i fiori che fino a quel momento avevo coltivato con passione quasi maniacale e irruppero nell’atrio col fiatone e piuttosto messi male, pensai ad una rapina e mi immobilizzai con le mani lungo ai fianchi, deglutendo appena e spostando lo sguardo solo per vedere Max furioso che stringeva i pugni.

-Chi diavolo siete?- “cristo vuole morire” pensai tra me e me mentre inveiva contro quella strana brigata.

-Allora?- insistette

-Dovete aiutarci- disse il ragazzo moro dai lineamenti particolari, Vermeer avrebbe amato quella mascella spigolosa e quegli occhi scuri ma scossi la testa e mi ridestai.

-Vi dico io cosa dovete fare- incrociai le braccia -Andarvene.-

Intanto il piccolo corteo di turisti si era radunato nell’enorme ripostiglio dove avrebbero potuto lasciare i loro zaini e Vera, la guida, stava dando le ultime disposizioni per l’uso consentito delle macchine fotografiche, fra poco avrei dovuto seguirli.

-Ascolta- fece un passo avanti il biondo, che più che un pittore avrebbe ispirato uno scultore -Possiamo pagare-

-Per cosa?-

-Per stare qua-

-Questo era scontato-

-Non siamo venuti per visitare, stiamo scappando- ribadì

-L’avevamo notato, da cosa?-

-Dal nostro stile di vita- rispose un ragazzo assai singolare che avrebbe messo alla prova qualsiasi ritrattista, detto questo si sedette sul divano di Sotheby’s con un’aria da qualcuno che non si sarebbe smosso tanto facilmente e così fecero i suoi compari.

 

-Li lascio a te- sussurrai a Max mentre mi avviavo verso la prima sala del museo -Ti sono debitrice-

-e qual è la novità- sorrise e mi diede una piccola spinta oltre l’arcata.

 

“Peggy Guggenheim diede notorietà ad artisti la cui fama oggi è scontata come Vasilij Kandinskij e Yves Tanguy e conobbe celebrità immortali come Max Ernst, Pablo Picasso e Henry Moore, tanto per citarvene alcune” Vera ripeteva quasi annoiata queste parole e sinceramente non la capivo, non capivo come una vita così straordinaria come lo era stata quella di Peggy Guggenheim possa esser declamata con così poco entusiasmo, io prendevo appunti e scuotevo la testa guardando quei turisti che probabilmente non sapevano distinguere un Van Gogh da un qualsiasi altro quadro, il gruppo di quella mattina era particolarmente noioso, ma in una delle sale riservate ai fotogrammi e  ai filmati vidi che si aggiunse il ragazzone biondo, dalle mani callose e dalla barba sfatta, rigorosamente bionda, che si guardava intorno come se fosse finito in una realtà parallela, nell’antimateria con le quali avrei fatto presto conoscenza.

 

Buonasera! Ok, è un progetto abbastanza ambizioso questa ff e questo primo capitolo è veramente introduttivo, serve a darvi un assaggio di quella che sarà la storia che ovviamente sarà strettamente collegata all’arte, lo so questo “capitolo” è veramente striminzito ma vi prego comunque di lasciar qualche recensione, magari ditemi le vostre aspettative!

Un abbraccio, Irene

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Capitolo 2
*** два ***


Dopo che finimmo il giro ritrovai quei ragazzi stravaccati sempre sullo stesso divano di poco tempo prima intenti a leggere qualche rivista e sghignazzare tra di loro, cercai Max con lo sguardo e quasi non lanciai un gridolino di stupore quando lo vidi seduto in mezzo a loro mentre chiacchierava animatamente con tutti gesticolando come al suo solito, roteai gli occhi ma decisi di non disturbarli, non avevo voglia di far molta conoscenza non dopo l’ondata di ignoranza che mi ero dovuta subire da quei turisti.

-A stasera Max- dissi solo e lui ricambiò facendomi l’occhiolino, spinsi la pesante porta a vetri e uscii di nuovo sul viale che in quel momento della giornata era particolarmente ombroso; camminando calciai i ciottoli e osservai con tristezza i miei bei fiori tutti calpestati ma ero vicina all’uscita così sospirai e il traffico di New York mi investii.

Il mio appartamento era vicino a Tribeca e per quel giorno optai per una sana camminata anche attraverso la fifth avenue per avere un assaggio della bella vita, negozi scintillanti, signore di mezza età che sembravano più giovani di me e cagnolini che viaggiavano in borsa più costose della mia casa, ma in quella strada si potevano trovare anche parte degli uffici più importanti della città, avvocati, notai, dottori e via dicendo e io avevo preso l’abitudine di fermarmi e sedermi sulla fontana di granito di uno studio legale, “Avv. Dustin Hemmings” diceva la targhetta placcata color oro che stava appesa vicino alle lussuose porte girevoli del condominio.

Tirai fuori la mia copia de “L’idiota” di Dostoevskij e la rigirai tra le mani, lo avevo letto decine di volte, mi ricordava casa e i miei genitori, entrambi professori di un liceo alla periferia di Mosca, innamorati di quest’opera avevano chiamato me e mio fratello come due dei personaggi principali, Nastasja e Myskin ed ero grata ai miei per questa loro scelta.

Nastasja Filippovna era la dama più bella del paese ma celava una tristezza dietro ai grandi occhi scuri, era dotata di una grande intelligenze e furbizia ed è proprio per questo che speravo che questo nome mi portasse fortuna e seduta su quella fontana me lo auguravo ogni giorno sempre di più; tirai fuori i miei libri di testo e il portatile dallo zaino e appoggiata ad una panchina poco più in là cominciai a scrivere il mio saggio su Kandinskij per il professor Curtis, uomo colto che aveva viaggiato pressoché in tutto il mondo visitando gallerie su gallerie e adesso che si era dedicato all’insegnamento esigeva l’eccellenza da parte dei suoi studenti e di questo non potevo altro che dargli ragione.

Era quasi il tramonto quando decisi di andarmene così raccolsi le mie cose e presi il tram diretto al mio quartiere, smontai e salutai Jenna e Blanca, le due signore sudamericane che vivevano nel complesso accanto al mio con i loro figli, senza i mariti, due disgraziati che avevano preferito la droga alla famiglia, quando potevo tenevo i loro figli nel mio appartamento e li facevo fare i compiti e poi mi ringraziavano con qualche teglia di paella o di lasagne fatte in casa che divoravo guardando qualche soap deprimente sui canali via cavo, ma quella sera avrei dovuto accontentarmi della pizza congelata. Appena entrai in casa raccolsi qualche appunto sparso sul pavimento e caricai la lavatrice e notai la felpa di Max appallottolata sulla poltrona, tutt’altro che art dèco, “per quando il buio ti spaventa più del solito” mi aveva detto chiudendosi la porta dell’appartamento alle spalle qualche settimana prima così la indossai e presi ad aspettarlo ma mi appisolai. Mi svegliai di colpo verso le dieci e mezza e diedi per certo che Max ormai non sarebbe più arrivato, chissà dov’era e se gli fosse successo qualcosa? Ma bussarono alla porta, per sicurezza prima sgattaiolai in cucina e afferrai un coltello e nascondendolo dietro alla schiena aprii la porta con uno dei miei migliori sorrisi.

-Ah, sei tu- lasciai cadere il coltello e gli occhi di Max saettarono sulla lama che cadeva sulla moquette

-Che ti prende?- 

-Sono solo stanca, dove sei stato?-

-Hai intenzione di invitarmi ad entrare?- mi spostai e lo lasciai passare, si sedette su una delle due sedie che stavano intorno al tavolo della cucina e si appoggiò alla superficie con i gomiti con un sorrisetto strano mentre mi scrutava dalla testa ai piedi.

-Preparati che usciamo-

-Con chi?-

-Con i ragazzi del museo-

-Max, non li conosciamo- alzai la mano per bloccarlo prima che aprisse bocca -e no, non vale se mi dici che ci hai parlato assieme per un paio di ore- dissi e poi continuai -comunque, vai tu, stasera non sono in vena-

-Stanno per arrivare qua-

-Cosa? Ma li sai almeno i loro nomi? Sono della città?- 

-Calmati Nastasja, sono di New York, o almeno tutti tranne Francis-

-Francis?-

-il biondo, alto, spalle large- annuii ricordandomi di averlo visto intrufolarsi in una delle sale del museo durante il giro turistico.

-Fai quello che vuoi- esclamai quando bussarono di nuovo alla porta, stavolta piuttosto insistentemente.

-Ciao!- disse il moro 

-e tu sei?-

-Calum, piacere- tese la mano ma lo ignorai

-prendetevi pure Max e andatevene-

-Credo che ce l’abbia con voi perché le avete distrutto i fiori- rise Max pizzicandomi il fianco al che feci una smorfia di fastidio.

-Dai Luk- il moro non finì e si corresse -Francis muoviti!- mi lasciarono dunque sul mio pianerottolo piuttosto perplessa, chiusi la porta con un tonfo e il signor Huit mi batte sul muro come a dire “Piantala” e forse aveva ragione, dovevo smetterla di preoccuparmi per Max era grande e vaccinato e se voleva uscire ad ubriacarsi con dei perfetti sconosciuti potevo farlo, non era affar mio.

 

La mattina dopo mi alzai di buon’ora visto che dovevo passare all’Università per consegnare alcuni libri che avevo preso in prestito e poi sarei corsa al Met per spiare l’arrivo di una nuova opera che si mormorava venisse dalla galleria degli Uffizi di Firenze, quindi di buon’umore scesi le scale e per poco non scivolai su un quadratino di carta rilegato in plastica tipo un tesserino sanitario, lo raccolsi e lessi il nome: Luke Robert Hemmings, non c’era la foto ma il cognome era impresso nella mia mente.

Saltai in mentro e dopo quattro fermate riemersi in piena Fifth, risalii la strada e l’edificio imponente si presentò davanti a me, non avevo il coraggio di entrare così cercai una cassetta delle lettere dove poter imbucare ciò che avevo trovato ma non la trovai, spiai dentro e mi accorsi che una delle segretaria stava raccogliendo alcune carte per riporle in una cartellina e uscire di corsa

-Mi scusi- urlai, lei si voltò, sospettosa

-Prego- voce fredda, capelli biondi perfettamente tirati indietro in uno chignon

-Ho trovato questo e pensavo potesse appartenere a qualcuno qui dentro e- non mi lasciò finire, mi strappò il biglietto dalle mani e scappò via con i tacchi che ticchettavano sull’asfalto. Alzai le spalle e girai i miei di tacchi per andarmene ma gettai un ultimo sguardo alla hall perché mi parve di vedere quel Francis discutere con un uomo distinto ma quando mi rigirai erano spariti.

Correndo al Met lasciai un dollaro al ragazzo all’angolo della strada che vendeva i giornali, aprii a caso il New York Times e gli occhi mi caddero sullo stesso nome che avevo letto poco prima su quel cartellino.

 

“Luke Hemmings, terzogenito del milionario avvocato Dustin Hemmings pare non voler metter la testa a posto” cominciava il giornalista “il ricco pargolo, quasi diciannovenne” e proprio mentre stavo per continuare l’estratto un taxi beccò in pieno una pozzanghera inzuppando me e il rotocalco che diventò poco più che carta straccia, imprecai frustrata odiavo lasciare le cose in sospeso, di certo avrei fatto qualche ricerca su internet ma intanto un grosso camion si era fermato all’entrata del museo e quattro uomini stavano trasportando una grande cornice imballata, di certo sarebbe costato un occhio nella testa poter visitare la prima esposizione e di lì a pochi giorni il Met avrebbe tenuto il suo famoso Gala con gente preoccupata più di come gli stavano di capelli che di guardare quell’incredibile patrimonio.

 

Salve, salve, salve! OK, l’ho scritto tutto d’un fiato perché mi sono sentita ispirata da questo alone di mistero che spero di avervi un po’ trasmesso, i primi capitoli saranno un po’ così di presentazione ma spero che li apprezzerete comunque!

Detto questo, non ho avuto tempo di rileggere quindi se beccate errori fatemelo sapere magari mandandomi un messaggio privato o in una vostra recensione se decidete di lasciare un commento!

Un abbraccio, Irene.

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Capitolo 3
*** три ***


 

Le settimane passarono inesorabilmente lente tra l’Università e il Museo, io nel frattempo avevo di nuovo piantato i fiori e Max continuava a uscire con quei ragazzi ma gli riconoscevo il merito di non avermi rimpiazzata, non completamente almeno e nel mentre stavo cercando un altro impiego temporaneo per compensare ad altre piccole spese universitarie.

Intanto nella hall del Collage erano comparsi i primi volantini del Met Gala e correva voce che cercassero qualcuno che servisse il cibo in tavola agli ospiti, o almeno così dicevano voci di corridoio, così il pomeriggio chiamai Max e gli chiesi di accompagnarmi (di nuovo) al museo, accettò e gli dissi che sarei passata a casa sua subito dopo le lezioni e così feci, non passai nemmeno a casa per cambiarmi così con i miei jeans e la felpa rossa con una macchia di acrilico blu suonai al 45/b della quarta palazzina a destra della via; lui mi aprii in pigiama.

-Buongiorno- gli dissi guardandomi l’orologio, erano quasi le due del pomeriggio e quasi non gli scoppiai a ridere in faccia mentre entravo e guardavo il solito disordine, mi girai per guardarlo e lui alzò le mani e disse:

-Non guardarmi in quel modo, ho avuto il turno di notte signorina- gli sorrisi e mi misi ad aspettarlo seduta sul divano, tornò pochi minuti dopo anche lui in felpa e jeans.

Per strada camminavamo così attaccati che spesso la gente che incontravamo ci lanciava degli sguardi complici come se fossimo stati una coppia e allora Max, per prendermi in giro, mi prendeva la mano e iniziavamo a correre a perdifiato, facendo slalom tra le persone che in quel momento invece ci maledivano.

Arrivammo davanti al Met ansimando e specchiandomi nelle lenti degli occhiali da sole di Max mi sistemai meglio che potei

-Aspettami qui- gli dissi

-Buona Fortuna Nasty- odiavo quando mi chiamava così ma non avevo tempo per insultarlo così salii di corsa le scalinate e subito mi diressi alla reception dove non c’era nessuno, suonai il campanellino e quasi si materializzò un impiegato basso e impomatato stretto in un completo da sartoria.

-Come posso esserle utile?-

-So che cercate del personale per il Gala di venerdì sera- gli spiegai

-Esatto, ma cerchiamo persone qualificate, dedite al mestiere…-

-La prego- gli dissi scuotendo la testa -mi sto laureando in arte e ho bisogno di questo piccolo impiego-

-ci vediamo al corso domani mattina, puntuale- mi ammonì sistemandosi gli occhiali tartarugati sul ponte del naso -e procurati una camicia bianca, dei pantaloni neri e un papillon- corsi fuori salutandolo allegramente e saltai praticamente in braccio a Max che si sbilanciò pericolosamente.

-Procurami un papillon- gli dissi dandogli una pacca sulla spalla  -e un po’ di buone maniere- aggiunsi ridendo.

-Stasera usciamo a festeggiare- mi propose allontanandosi -sono da te alle dieci e non accetto un no come risposta!-

-Aspetta!- urlai, lui si fermò di scatto.

-Cosa sai di quel Francis, intendo oltre al domicilio e all’aspetto fisico-

-che ha diciannove anni-feci una smorfia di fastidio ma lui si era già allontanato, di nuovo.

 

Poche ore dopo.

La finestra della cucina era decisamente uno specchio migliore di quello del bagno, mi sistemai il vestito nero e i capelli che avevo appoggiato tutti su una spalla, infilai gli stivaletti e mi sedetti con poca eleganza sul divano, quella sera davano la partita di Baseball, giocavano i Mets; Max arrivò puntuale e ingenuamente mi avviai a piedi verso il solito ristorante/bettola ma lui chiamò un taxi che si fermò di colpo davanti a noi, salimmo e partimmo in mezzo al traffico newyorkese.

-Dove stiamo andando Max?-

-Al Paloma- scoppiai a ridere

-Non possiamo permetterci nemmeno di pagare l’ingresso, Max- mi lanciò uno sguardo divertito ma non mi rispose. Le luci del locale iniziarono a vedersi anche a duecento metri di distanza, e dopo cento iniziai ad intravedere la lunga fila, il taxi accostò, litigai con Max per pagare metà tariffa e poi mi lasciai condurre in mezzo alla folla, ma non ci fermammo dietro a tutti gli altri ma continuammo a superare con Max che pareva seguisse qualcuno e in pochi secondi capii tutto. 

I quattro ragazzi del museo ci stavano aspettando accanto al buttafuori, Max li salutò calorosamente io mi limitai ad un cenno con la mano.

-Dai entriamo- disse quello che poi scoprii in seguito chiamarsi Ashton; la guardia, un omone alto e calvo si sistemò l’auricolare e non appena video Francis lo salutò quasi con una riverenza

-Signorino- e si fermò senza dire il nome o il cognome e così entrammo, ma ero l’ultima della fila e il biondo aveva allungato un paio di banconote al buttafuori che non aspettò ad intascare, ci avevano riservato una zona al piano superiore del locale che dava sulla pista con divanetti imbottiti e quant’altro, alcolici compresi.

-Siamo dei maleducati- iniziò Francis -non ci siamo nemmeno presentati alla signorina- poi continuò -io sono Francis, lui è Calum- indicando il moro -lui è Ashton e quello con i capelli sbiaditi è Michael- feci una smorfia di disgusto -il piacere è tutto nostro- terminò con freddezza sfiorandomi la mano, il ragazzo aveva un che di languido che mi disgustava ma anche un che di intrigante che mi faceva nascere in testa migliaia di domande da porgli, ma prima optai per il bagno, i ragazzi scesero con me e raggiunsero la pista dove li persi subito di vista, in bagno incontrai un paio di ragazze che si stavano sistemando il trucco, feci loro un sorrisino di circostanza e mi chiusi nel primo bagno.

“Hai sentito del pargolo di Hemmings?” iniziò una “Pare che stavolta sia stato coinvolto in una truffa d’arte” squittì l’altra “è sempre stato un tipo strano, era alla St.Andrews con mia sorella maggiore, un secchione, con gusti strani, non l’hanno mai visto con una ragazza” ridacchiarono e poi uscirono, uscii anche io mi lavai le mani, mi sistemai il sistemabile e tornai nel caos, nella pista ragazzi e ragazze ballavano a ritmo di una di quelle canzoni che usavano una sola nota per ore, corpi sudati che quasi brillavano sotto le luci strobo e al bancone del bar una folla indistinta di altri corpi si ammassavano, ma riconobbi Francis, o meglio riconobbi la sua giacca in jeans e mi avvicinai.

-un Cosmopolitan- dissi al barman

-Pensavo avessi gusti più raffinati- mi urlò nell’orecchio

-Sui tuoi non ho dubbi- gli risposi, si accigliò ma continuai -per venirti a nascondere in un museo devi essere un personaggio singolare- gli risposi prendendo un sorso dal drink, mi sedetti sullo sgabello e continuai a fissarlo negli occhi; le ragazze che avevo incontrato alla toilet ci fissavano sbalordite in lontananza e ridacchiavano quasi sprezzanti.

-e così te ne intendi di arte- mi domandò

-così dicono- presi a fare piccoli cerchi sul bancone di ceramica

-quadro preferito?- 

-Paesaggio con macchie rosse- mi guardò perplesso

-un amante di Kandinskij, singolare-

-e tu? te ne intendi?-

-Sono nel giro- e poi mi trascinò in pista a ballare, cercai di fargli qualche altra domanda ma lui sembrava non sentirmi mentre si muoveva attorno a me, mi lasciai andare e le prime gocce di sudore iniziarono a bagnarmi la fronte, con una mossa da perfetto uomo dell’alta società mi afferrò il braccio e mi fece volteggiare facendomi finire direttamente attaccata al suo petto e prima di andarsene mi sussurrò

-Il mio quadro preferito è Autoritratto nello studio-

-Dalì- gli risposi prima di perderlo di vista tra la folla.

 

 

Buonasera! Il prossimo capitolo arriverà con un po’ più d ritardo perché comprenderà anche il Met Gala quindi preparatevi; spero comunque che questo vi soddisfi anche se non è lunghissimo ma ho bisogno di farvi conoscere bene i personaggi quindi beh, se ne avete voglia lasciatemi qualche commento così anche da spronarmi ad andare avanti perché come vi ho già detto tengo molto a questa fan fiction.

Un abbraccio, Irene.

P.S spero non ci sia nessun errore e se ne trovate ditemelo o per messaggio o inseritelo in una recensione!

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Capitolo 4
*** четыре ***


8.00 am

Ero in piedi davanti a sette camerieri professionisti e ad un team di insegnanti di buone maniere in gonne larghe e scarpe che ricordavano quelle della signorina Rottermeier, con i loro occhiali all’insù e i rossetti rosso scarlatto, camminavano squadrando me e gli altri ragazzi dall’alto in basso, agitando di tanto in tanto il loro ventaglio.

-Prima regola del galateo- cominciò la prima, capelli raccolti in un perfetto chignon sul lato sinistro della nuca -quando servite ai tavoli fate solo un cenno di consenso con la testa, non dite mai “Buon Appetito” oltre a risultare scontato sembra un invito ad abbuffarsi come animali- annuii prendendo nota mentalmente di tutto ciò che dicevano.

-E per voi signorine- continuò invece la donna dai capelli rossi ondulati con i modi un tantino più dolci della collega -schiena dritta e camminata dignitosa, non curvate mai le spalle e non date mai segno di essere stanche o di essere infastidite da qualcosa -e voi, voglio ben sperare gentiluomini, non importunate le signorine- scoppiammo tutti a ridere e io mi beccai un paio di occhiolini che mi fecero ridere ancora più sguaiatamente.

-Ricordate inoltre che sarete tenuti a rispettare la vostra posizione da camerieri e che servirete gente ricca oltre ogni pensiero e viziata ben al di là dei limiti consentiti, quindi non fiatate e accettate qualsiasi cosa, che sia una critica o che sia un complimento- ero pronta a ribattere che non ero d’accordo e che se ce ne fosse stata l’occasione avrei volentieri fatto cadere del dessert sul vestito di Vera Wang di qualche invitata insolente, ma tacqui per il bene del mio portafogli.

Ci diedero delle camicie nuova di zecca e posato sopra trovammo anche il papillon con il logo del museo, per noi ragazze anche un fermaglio tempestato di pietre rosse, mi convinsi fossero rubini, ci fecero vedere poi l’enorme salotto che avrebbe ospitato la cena, poi le cucine e i vari sgabuzzini; cercai di sbirciare qualche sala che non avevo ancora visitato ma mi trovarono e fui riportata nel gruppo con una gran lavata di capo.

Tornai a casa con il mal di testa e con la divisa che pesava su un braccio, avevo appuntato il fermaglio rosso alla manica della felpa e camminavo in fretta visto che il cielo era grigio e non prometteva bene, pregai con tutte le mie forze che non piovesse, ma non appena fui nella fifth un acquazzone si abbattè sulla città e fui costretta ad entrare in uno dei palazzi; mi guardai intorno e vidi donne in tailleur e uomini con le maniche delle camicie arrotolate che correvano da una parte all’altra con cartella di fogli che straripavano sotto al braccio, squillò un telefono.

-Hemmings, studio legale buonasera- rispose annoiata la segretaria arricciandosi con il dito una ciocca di capelli, inspirai, finivo sempre in quel posto e non nelle migliori circostanze, ma mi sedetti comunque in una delle poltrone dell’androne e aspettai che il temporale si quietasse, guardavo fuori attraverso le vetrate, o almeno ci provavo visto che la pioggia era così fitta che era come se creasse una cortina ma all’improvviso un ragazzo alto con il cappuccio e la lampo della felpa chiusa si avviò verso l’uscita, si girò solo un attimo e lo riconobbi, Francis, era la seconda volta che lo vedevo in quello studio.

-Ehi!- gridai pensando che si fermasse ma invece accelerò il passo e scansò la pesante porta a vetri, mi alzai e presi a seguirlo e in meno di un minuto mi ritrovai in mezzo al marciapiede bagnata fradicia e infreddolita e non mi accorsi subito di aver perso il fermaglio rosso.

 

Luke’s Pov

Cosa diamine ci faceva quella ragazza nello studio di mio padre? Mi domandavo infuriato mentre grondante correvo dai miei soci; quel giorno mio padre mi aveva dato un ultimatum: o la smettevo di mettermi nei guai o potevo tranquillamente cambiare cognome e abbandonare tutti i benefici che esso comportava, avevo diciannove anni ed ero egoista così iniziai a mentire sulle mie uscite, sulle mie compagnie, avevo smesso di cantare con i miei amici storici e anzi, li coinvolgevo nelle mie cazzate ma poi alla sera tornavo a casa e i miei non c’erano e mi sentivo solo, avevo tutto eppure ero solo così salivo sul tetto con il block notes e una penna e buttavo giù qualche verso che avrei cantato da solo in metropolitana o mentre aspettavo i clienti.

Nella mia casa non mancava una collezione d’arte privata, mia madre aveva portato con sé dall’Australia alcune opere che appartenevano ai miei nonni, compresi alcuni mobili Mary Ann che valevano un occhio nella testa e che io avevo fatto abilmente sparire con l’aiuto di Trevor, un venticinquenne con un occhio notevole per gli oggetti d’epoca e per i quadri, io gli davo gli originali e lui me li barattava con delle copie identiche ma se i miei avessero tenuto fede alle loro dichiarazioni del tipo “Riconosciamo un tesoro ad occhi chiusi” avrebbero di certo notato che il legno era troppo nuovo e levigato ad arte per sembrare vecchio, bastavano un po’ di luce e di buonsenso.

La mia mente però deviò di nuovo a quella ragazza che non doveva essere tanto più giovane di me, mi ero voltato solo un attimo prima di vederla fermarsi in mezzo al marciapiede, sparì sotto la tettoia di un ristorante messicano e anche io aspettai che la pioggia cessasse e così fece, poco dopo, tornai sui miei passi, passai di nuovo davanti all’ufficio di mio padre e guardando il marciapiede in cerca di qualche monetina da catalogare come portafortuna del giorno trovai un fermaglio rosso, mi inchinai e lo raccolsi e decisi che per quella giornata avrebbe alloggiato nella mia tasca, dove con la mano sfiorai la carta elegante stropicciata dell’invito al Met, mi schifava quell’evento, vedere quel luogo impregnato di cultura usato come bando di ostentazione mi causava un senso di nausea.

La mia passione per l’arte comunque nacque quand’ero solo un bambino delle elementari, in casa avevo la compagnia solo della tata che era Ucraina e mi accompagnava spesso nella galleria per guardare le opere, mi leggeva le targhette e noi tentavamo di immaginare in quale circostanze l’artista avesse dipinto tale quadro e per un bambino di sette anni non era facile; alle medie invece ero riuscito a farmi un’idea personale quasi su tutti i dipinti e alle superiori completai le mie conoscenze quando in casa arrivarono L’Inferno, Il Purgatorio e Il Paradiso di Dalì che mi resero tanto curioso quanto turbato, passai mesi ad osservarli, a leggere recensioni a riguardo e alla fine mi arresi a saper solo guardare un genio del calibro di Dalì e così mi ero appassionato anche a lui e alle sue stranezze.

Arrivai a Tribeca, nella sua parte più squallida, salii al terzo piano di una delle prime palazzine cadenti e mi venne ad aprire Grisa, un ragazzo russo che ci aiutava con i trasporti, trovai Trevor appollaiato sul tappeto mentre disegnava qualche pezzo di mobilio.

-Ehi- lo salutai e mi sedetti accanto a lui, mi passò una Viceroy e un accendino placcato d’argento -abbiamo venduto il Fontana?- gli domandai e lui scosse la testa prima di voltare la testa verso di me -è ancora nel mio studio, sei sicuro di volerla vendere, è un’opera magnifica- stavo per aprire bocca ma lui mi bloccò -vedi quei tagli sono difficili da copiare e nessuno si prenderebbe la responsabilità di comprare un quadro così pregiato, sarebbe intercettato subito, al limite potremo usarlo come merce di scambio- fece spallucce e tornò al suo disegno.

-Diamine Trevor- urlai sbattendo un pugno sulla moquette -i miei se ne accorgeranno, dobbiamo sostituirlo- quasi ansimavo dalla rabbia, non avevo voglia di altri guai.

-E allora la questione è semplice Hemmings, vai al Met Gala e incontri gli acquirenti, dei certi coreani che pensano di comprare una copia ben fatta-

-Non posso-

-Perchè no-

-Ci sarà mio padre-

-Francis saprà cavarsela- disse -e adesso vattene ho del lavoro da fare- e con questo intendeva sniffare cocaina dal ripiano di un tavolino da catalogo di Sotheby’s, me ne andai sbattendo la porta infuriato, sarei dovuto tornare a casa da mio padre con la coda tra le gambe e dirgli che avrei partecipato all’evento e che mi serviva un completo, così mi avrebbe trascinato il pomeriggio stesso da Armani, come era solito fare.

Mi venne ad aprire Noris il maggiordomo che mi salutò con il solito “Salve Signorino”, percorre i a grandi passi il salotto e trovai papà seduto al pianoforte intento a suonare qualcosa, era un uomo affascinante ed era proprio suonando che aveva conquistato mia madre in uno dei suoi lunghi viaggi in Australia e Nuova Zelanda, e infatti lei, avvolta in un vestito di seta celeste stava seduta in uno dei divani che circondavano la stanza e lo ascoltava assorta ondeggiando il bicchiere di Moet&Chandon.

-Vengo al Gala- interruppi l’idillio bruscamente ma la notizia non sembrò turbare i miei che anzi mi accolsero con un sorriso e come previsto mio padre fece chiamare l’auto e mi accompagnò a fare spese per l’evento.

 

Met Gala

Nastasja’s Pov 

Blanca aveva appena finito di sistemarmi lo chignon quando presa da uno spasmo di terrore non trovai più il fermaglio, ci mettemmo a cercarlo, rivoltammo l’appartamento come un calzino ma niente

-L’avrò perso correndo sotto la pioggia-

-tu es loca- disse ridendo la donna mentre sistemava la maglietta alla figlia minore che era caduta sull’erba giocando a calcio con gli amichetti

-e adesso come faccio?-

-aspettami qui- uscì e sentii le sue zeppe calpestare il marmo malconcio delle scale, intanto abbottonai la camicia e cercai il mio unico paio di mocassini neri, il trucco era sistemato, avevano espressamente chiesto un maquillage leggero e adatto al tema della serata, che neanche farlo di proposito, trattava proprio dell’Europa in particolare si concentrava sul mix delle culture e sulle varie correnti artistiche.

Blanca tornò dieci minuti dopo con un sacchettino d’argento che penzolava dal braccio, tirò fuori una mollettina identica alla mia, o meglio a quella che era stata mia.

-ma- boccheggiai

-ho dovuto adattarmi anche io a vari lavori- disse strizzandomi l’occhio e applicando il fermaglio appena sopra l’orecchio destro, come da manuale.

-Buona fortuna chica- mi baciò la guancia, recuperò Marie e se ne andò lasciando socchiusa la porta dell’appartamento, il telefonò vibrò da sopra la tavola della cucina, era un messaggio di Max: avvisami quando hai finito che ti passo a prendere- gli risposi e uscii di casa, erano le diciassette e alle diciotto sarei dovuta essere a preparare tavoli e lavare posate.

Poggiai le mie cose nello sgabuzzino della servitù, come lo chiamavo io, e raggiunsi gli altri che erano già in fila a prendere ordini, a me toccò iniziare a stirare le tovaglie e poi passarle piegate a Tracy che le avrebbe distese sui tavoli con tanto di vaso di fiori e iniziali degli ospiti, presi dunque il ferro e iniziai la mia mansione, morivo dal caldo ma non potevo sbottonare ne arrotolare un po’ le maniche della camicia, mi passai il dorso della mano sulla fronte e dopo circa quaranta tovaglie giungevo alla fine della mansione, stirata l’ultima la portai gloriosa verso il tavolo.

-e qui che smorfiosi siederanno?- domandai a Tracy ridendo

-vediamo un po’, gli Hemmings!- esclamò entusiasta -il figlio è uno scapestrato ma io la trovo una cosa eccitante-

-io la trovo stupida- replicai, lei si accigliò

-prova un po’ a pensarci, quel ragazzo ha scombussolato la loro esistenza perfetta, non potevano chiedere di peggio- e se ne andò. Ci diedero due ore di pseudo pausa per sistemarci e sistemare le decorazioni all’esterno, una delle fiorerie più in voga della città aveva portato degli splendidi Oleandri Mediterranei da sistemare sull’arcata dell’ingresso e tulipani olandesi che avrebbero adornato il red carpet, nel frattempo comunicammo anche alcune informazioni sulle postazioni ad alcuni fotografi giunti in anticipo.

21:30 P.M.

 

Stavo spiando dalla sala da pranzo l’arrivo delle prime personalità, arrivarono alcuni attori e cantanti noti a tutto il mondo, manager e top model accompagnate da alcuni stilisti che sorridevano ai fotografi come se non avessero altro impegno in tutta la loro vita, i loro arrivi funzionavano più o meno così: gli chaperon aprivano loro le portiere della Mercedes/Audi rigorosamente nera e poi tornavano alla guida per andare a parcheggiare poco più distante, alcuni mi vedevano e mi lanciavano un’occhiata d’intesa e al che io sorridevo e li comprendevo.

Da una Lamborghini di spalle, scese un ragazzo incredibilmente alto, spalle da surfista, stretto in un completo nero, si girò di scatto e per poco non mi cascò la mandibola, lanciò le chiavi al parcheggiatore, si sistemò il papillon e perfettamente a suo agio cominciò la sua camminata investito dai flash dei fotografi, poco più indietro riconobbi l’avvocato Hemmings e la moglie, una donna bellissima con una parure di gioielli che faceva sfigurare perfino le modelle, salutavano con calma gli altri ospiti, posarono per qualche foto e poi entrarono anche loro.

Francis tirò dritto e si piazzò in mezzo al salone, io ero ancora nascosta nella porta finestra, con una mano in tasca mentre con un’altra prese dal vassoio di un mio collega un Martini, sembrava aspettasse qualcuno e in effetti non appena gli Hemmings gli si avvicinarono lui li seguì al loro tavolo, continuavo a non capire, erano forse amici? O era uno stagista particolarmente caro all’avvocato? Non mi sfuggì però l’incredibile somiglianza con la donna.

Arrivò il momento di portare fuori le prime portate, gli antipasti di pesce, cercavo di non ridere agli sguardi di panico delle varie modelle/fashion blogger alla vista della quantità del cibo, tornai in me e passai senza girare lo sguardo davanti al tavolo di Francis, tornai indietro anche con i loro piatti e lo sorpresi a guardarmi con i gomiti appoggiati alla tavola e le mani intrecciate davanti al mento, notai solo in quel momento un costoso anello.

Ci guardammo per alcuni istanti, poi sorrisi alle altre due persone del tavolo e servii a tutti loro le pietanze, salii poco dopo sul palco un famoso comico che iniziò a fare battutine su tutte le famiglie presenti in sala

-credo che dopo tutto ciò che dirò stasera avrò bisogno di un avvocato- e fece un cenno al signor Hemmings che ricambiò annuendo e ridendo con la mano ingioiellata della moglie poggiata sulla spalla. La cena passò tranquilla, noi facemmo bene il nostro lavoro e molti degli ospiti risultarono simpatici, l’orchestra verso mezzanotte iniziò ad attaccare con le prime note e i fotografi impazzirono forse perché tutti si aspettavano qualche band pop/rock e invece la sala principale si riempì sulle notte di Rossini, le varie donne furono invitate a ballare dai loro accompagnatori era tutto un fruscio di stoffe colorate. Noi dello staff ci sedemmo in fila in fondo alla sala, c’era chi si toglieva le scarpe e chi come me finalmente slacciava i primi due bottoni della camicia, anche Francis era rimasto seduto al tavolo da solo ma non appena si alzò per andare nella sala adiacente, dove intravidi altre due figure, lo seguii.

-Ma dove vai?- mi chiese Tracy

-Ehm, in bagno-risposi

-ma sono dall’altra parte- non la ascoltai e corsi a nascondermi dietro ad una colonnato di marmo ma vedevo perfettamente il viso di Francis metà nell’ombra.

 

“Hai i soldi?”

“Hai l’opera?”

Francis schioccò le dita e un uomo vestito malamente spuntò nell’angolo con un tela arrotolata tra le mani e un sorriso strano, la luce colpì la pistola infilata nella cintura dei jeans sgualciti, le altre due persone aprirono una busta e presero a contare banconote su banconote, poi la richiusero e avvenne lo scambio, srotolarono la tela, I Tagli Di Fontana, emisi un gemito di sorpresa e mi accasciai sul pavimento, troppo tardi, pensai di essere morta, spacciata e invece lui mandò via tutti e mi scoprii da solo.

 

-Che cosa stavi facendo?-

-Io stavo, ecco- non completai la frase, mi afferrò il braccio e mi fece alzare

-Te lo dico io cosa stavi facendo, mi stavi spiando- mi puntò il dito contro, assunsi un’espressione offesa

-Io qua dentro ci lavoro-

-tu non ti rendi conto in che guaio ti sei messa- si passò una mano tra i capelli, frustrato -cosa hai sentito-

-Nulla-

-Nastasja-

-Nulla- e me ne andai, corsi verso il salone affollato sempre dalla gente che ballava e brindava, cercai di confondermi tra la folla più che potei, ma le luci si abbassarono e sulla pista improvvisata venne illuminata da un occhio di bue una mora altissima e anche Francis, poi il presentatore parlò.

-Jamila Carter e Luke Hemmings- tutti batterono le mani e i due si avvicinarono e iniziò un lento, poi tutte le altre coppie si unirono a loro; “ci dev’essere un errore, pensai, lui si chiama Francis” ero ancora congelata al mio posto, confusa “Il pargolo non riesce a stare fuori dai guai”, “Traffico d’arte” i pezzi pian piano iniziarono a ricomporsi allora lasciai andare le braccia lungo ai fianchi e deglutii, dovevo avvertire Max, dovevo avvertire tutti, la musica intanto sfumò in una sinfonia di Bach, strisciai accanto al muro e corsi di nuovo verso lo sgabuzzino, proseguii a perdifiato lungo il corridoio dove i quadri del Medioevo mi guardavano minacciosi, passi pesanti dietro di me, braccia altrettanto pesanti attorcigliate attorno alla mia vita.

-Fermati, non sai quello che fai-

-Sei uno sporco bugiardo, Luke Hemmings-.

 

 

 

 

 

Buongiorno! Ed eccovi il capitolo sul Met Gala, spero di non avervi deluso troppo ma secondo me è veramente carino, semplice ma conciso, con anche un punto di vista di Luke che secondo me a questo punto era veramente necessario!

Non starò qui ad annoiarvi oltre, sappiate solo che da questo momento in poi la storia sarà veramente strong, nel senso che ho un progetto ben preciso nella mia testa e non intendo deludere le mie stesse aspettative. Come al solito vi chiedo, sempre se ne avete voglia e tempo, di lasciarmi una recensione con il vostro parere o critiche che sono sempre ben accette se date con educazione, quindi a presto!

Un abbraccio, Irene

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Capitolo 5
*** Avviso (Urgente) ***


Purtroppo non è un capitolo visto che accidentalmente ho cancellato tutto su textedit, quindi vi chiedo di portar pazienza almeno il tempo che io possa riscriverlo, peto veniamo! Un abbraccio, Irene.

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Capitolo 6
*** шесть ***


“Sei uno sporco bugiardo, Luke Hemmings”

-Dimmi qualcosa che non so- rispose sarcastico

-Stai mentendo a tutti, cazzo- imprecai battendo il piede per terra in un attacco di isteria.

-Calmati?-

-Come?-

-Mi hai sentito- in realtà la mia testa era come ovattata, i pensieri vi rimbalzavano dentro e poi venivano violentemente ricacciati fuori, continuai a camminare, il corridoio mi aveva portata ad una sala illuminata a giorno, con un divano posto al centro e quadri proveniente da collezioni private tutt’intorno, mi accasciai sul tessuto azzurrino e lì rimasi incurante della presenza di Luke che si muoveva misurando i passi lungo il perimetro della stanza.

-Hai intenzione di rubare qualcosa anche qua dentro?- infierii sarcastica.

-Non sono così stupido- rispose senza scomporsi mentre osservava una natura morta e in seguito un lavoro di Tim Cantor poco più in là, le mani in tasca, la cravatta allentata.

Intanto la musica del salone principale veniva amplificata insieme alle risate delle persone che ignare del mio piccolo dramma interiore continuavano la loro serata tra Champagne e donazioni al museo, una delle mie composizioni preferite si avviò con i primi accordi, sognai di essere una di quelle ragazze in lunghi vestiti di Heute Couture e di poter ballare con qualche ricco e annoiato figlio di papà e in effetti uno era a pochi metri da me, tutt’altro che annoiato, si avvicinò al divano e mi tese la mano

-Vuoi uccidermi?- gli domandai

-No, sarebbe troppo facile- afferrai la mano e mi attirò a lui, pose una mano sulla mia schiena e io posi la mia sulla sua spalla, come se mi avesse letto nel pensiero, iniziò a muoversi verso destra e improvvisamente verso sinistra, in un accenno di valzer

-Dove hai imparato a ballare così?-

-I miei mi avevano spedito in un collegio in Austria e così ho fatto del mio meglio per imparare le cose futili- sorrise e mi fece volteggiare un paio di volte prima che la musica cessasse del tutto. Eravamo uno davanti all’altro, il mio metro e settantacinque mi portava al livello del suo naso, aspettai che dicesse qualcosa e invece mi fece segno di seguirlo, di nuovo; stavolta il corridoio era ben illuminato e meno inquietante del precedente, una stanza chiusa da una corda rossa si presentò davanti ai nostri occhi, Luke fece spallucce e tirò avanti, i quadri sembravano quasi prender vita dietro a quelle lampade, volti pallidi e occhi che sembravano seguire ogni nostro movimento, infine sbucammo nel giardino sul retro, un tripudio di statue e fontane di famosi architetti.

-Devi stare attenta-

-A cosa?-

-Probabilmente inizieranno a seguirti-

-Perchè?-

-Perchè sai più del dovuto- si passò ancora una mano tra i capelli ormai spettinati -Ascolta, questo weekend tu e Max verrete negli Hamptons con me e gli altri- tentai di replicare e per tutta risposta ricevetti un “non se ne parla, finiresti in fondo all’Hudson”, angosciata me ne andai, erano quasi le due del mattino e quasi tutti gli invitati erano andati via e quelli che erano rimasti, brilli, barcollavano verso l’uscita lasciando cadere i gemelli della camicia, non una grande perdita per le loro tasche; iniziammo a lavare i pavimenti e a disfare i tavoli dove trovammo anche qualche dollaro, raccogliemmo le decorazioni rimaste intatte e pulimmo anche i vetri, tanto che quando finimmo erano quasi le quattro del mattino.

Max mi aspettava fuori appoggiato alla sua auto, una vecchia mustang che usava raramente, le mie colleghe mi salutarono più raggianti del solito quando lo videro e io scoppiai a ridere e lui sorrise imbarazzato, mi sedetti sul sedile e non appena mise in moto tirai fuori l’assegno e lo sventolai gloriosamente.

-Quanto?-

-Quattrocento dollari- 

-è proprio vero che i ricchi sono avari-

-così dicono- scoppiammo di nuovo a ridere, io appoggiai i piedi sul cruscotto e per poco non mi addormentai, l’adrenalina stava lasciando spazio all’angoscia, cosa avrei dovuto fare? Avrei dovuto stare zitta e salvarmi la pelle, ecco cosa e così feci, almeno per quella sera.

Tribeca era insolitamente tranquilla, le tapparelle erano tutte abbassate e per strada non c’era quasi nessuno, invitai Max ad entrare e come al solito si mise a frugare nella mia credenza, andai in camera mia e mi cambiai, sciolsi i capelli e riposi il fermaglio nel suo sacchettino argentato, quando tornai in soggiorno lo trovai seduto sul vecchio divano intento a guardare il solito programma sulle mogli assassine.

-Attento a chi sposerai- risi e lui mi lanciò addosso un popcorn -Ah- mi ricordai -Francis ci ha invitati negli Hamptons- mi guardò stranito e si sedette dritto.

-E tu dove lo avresti trovato Francis?- 

-Per strada- 

-Per strada, sul serio?- inarcò le sopracciglia, misi su la solita espressione da offesa, lui prese il cellulare e digitò un numero, si alzò e andò nel terrazzino, tornò pochi minuti dopo

-Pensavo fossi impazzita, ma evidentemente mi sbagliavo, partiamo tra tre ore- gettai lo sguardo all’orologio sulla parete ed erano quasi le cinque, mi avvicinai alla finestra e scostai la tendina di pizzo, sulla strada era parcheggiato un suv grigio con i finestrini oscurati, forse stavo annegando nelle mie stesse paranoie, chiusi tutto e mi appoggiai al bancone della cucina.

-Stai bene?-

-Si, ho solo bevuto troppo caffè-

-Allora vado a prendere le mie cose- fece per prendere le chiavi dal portafrutta -No- lo fermai -Aspettami, non ho molto da sistemare- corsi a prendere nel mio armadio alcuni vestiti estivi e un paio di costumi, radunai saponi, creme e cosmetici e in meno di venti minuti ero di nuovo in salotto, presi anche il portatile per scrivere delle mail all’Università, chiusi l’appartamento a chiave e seguii Max giù per le scale.

 

Luke’s Pov

Quando arrivai a casa i miei già dormivano, sul pianoforte erano appoggiati gli orecchini di mia madre e la cravatta di mio padre, mi tolsi la mia e me la misi in tasca, mi tolsi la giacca, allentai i bottoni della camicia e tirai su le maniche, dal mobiletto di quercia presi la bottiglia di liquore e me ne versai un goccio nel bicchiere, non avevo tempo per dormire, ormai avevo capito che quegli acquirenti mi sarebbero stati alle calcagna per un po’ di tempo e che mi avrebbero fatto pagare la prima mossa sbagliata e non solo a me. Sulla scrivania erano ancora abbandonati i moduli di iscrizioni per Yale, giurisprudenza ovviamente; i miei non usavano quasi mai la casa negli Hamptons e le chiavi erano sempre attaccate vicino a quelle delle auto, le presi e insieme presi anche quelle della Range Rover, Michael, Calum e Ashton sarebbero arrivati di lì a poco e così accadde, un quarto d’ora dopo eravamo seduti nel patio a bere birra e guardare il tramonto, saremo andati noi a prendere Max e Nastasja, almeno lui non doveva essere al corrente della verità.

Gli altri tre mi avevano scoperto in discoteca mentre barattavo un Fabritius con un socio di Trevor, avevo cercato di dissimulare, bluffare su quella faccenda ma mi conoscevano troppo bene e, arrendendosi avevano scrollato le spalle con la condizione che io non avrei dovuto metterli in mezzo, e così feci, ma avrei preferito certamente uno di loro a Nastasja; con questi pensieri mi alzai dalla poltroncina in vimini e invitai gli altri a seguirmi, raccolsero le loro cose e le misero nel portabagagli, accesi l’auto e partimmo verso Tribeca.

 

Nastasja e Max ci stavano aspettando al piccolo ingresso con le valigie poggiate ai loro piedi e lei aveva una tracolla, colma di libri immaginai, quello che nessuno notò fu il suv grigio parcheggiato pochi metri più avanti, ma anche lo sguardo di lei saettava avanti e indietro verso il veicolo, scesi e a grandi passi la raggiunsi, presi le sue valigie e “Vai avanti, non guardare” le sussurrai spingendola quasi per le spalle, stranamente non disse una parola; salutai anche Max che si sedette con gli altri nei sedili posteriori e presero a parlare di Baseball, mentre Nastasja si appoggiò con il gomito al finestrino e non staccò mai lo sguardo dalla strada, tranne quando dopo una mezz’ora si addormentò, feci cenno agli altri di abbassare la voce e spensi la radio. L’autostrada era semi deserta, tranne che per alcuni camper e alcuni temerari che partivano per delle piccole vacanza, del suv non vi era ancora traccia ma sapevo che non sarebbe finita così; ieri sera infatti dopo l’evento Trevor mi aveva chiamato infuriato, i clienti lo avevano minacciato di denuncia e chissà cos’altro tutto per colpa di Nastasja, o meglio, “La ragazza impicciona” detto con un forte accento dai miei ormai ex clienti, sapevo inoltre che erano pericolosi, giravano armati, facevano sparire persone. Svoltai in una stradina di provincia, una scorciatoia, e in poco meno di due ore stavamo percorrendo la via d’ingresso, la mia casa era una delle prime, molto moderna con enormi porte finestre tutt’intorno ma al contempo classica, il giardino era curato da una ditta locale e la piscina e il campo da tennis erano sistemati da alcuni dipendenti di mio padre, nel frattempo si svegliò anche Nastasja, si stropicciò gli occhi e rimase interdetta per alcuni secondi guardando prima fuori e poi me.

-Benvenuta negli Hamptons- le sorrisi e lei ricambiò, saltò giù dall’auto e raggiunse gli altri all’ingresso, ritornò solo per prendere la sua tracolla e il piccolo trolley nero con un’etichetta russa che recava il suo nome in cirillico.

-Questa casa è più grande del mio ex liceo- disse Nastasja e scoppiammo tutti a ridere, infilai la chiave nella toppa e la pesante toppa si aprì dopo quattro giri, le tende erano aperte e la luce del sole filtrava illuminando l’androne e le imponenti scale.

-Bene, ragazzi, avremo tempo per visitare tutta la casa ma adesso sistemate i bagagli, Nastasja seguimi- proclamai in un tono che non ammetteva repliche

-Tutto suo padre- disse Calum e ricevette una spallata amichevole, salimmo tutti le scale e diedi a lei la camera adiacente alla mia, Max mi lanciò uno sguardo di rimprovero e scosse la testa, chissà cosa stava iniziando a pensare, si avviarono alle loro camere.

-Perchè?- disse solo, sostando sulla soglia dell’abitacolo

-Scusa?- risposi preso in contropiede

-Perchè ci hai portati qui Luke?-

-Abbassa la voce-

-Rispondi- la sua freddezza mi inquietava, i capelli biondo scuro erano poggiati sulla spalla destra e lo sguardo era fisso.

-Dobbiamo trovare una soluzione e New York non era il posto più indicato- si mise a ridere.

-Dobbiamo? Devi semmai-

-Ah si? L’ho notato solo io il suv grigio fuori dalla tua abitazione allora- le si contrasse la mascella, risi.

-No-

-Per loro adesso è diventata una specie di caccia al tesoro, di sangue, e il tesoro sei tu- le puntai il dito contro e lei si chiuse in un silenzio religioso, chiuse anche la porta lasciandomi in piedi davanti alla sua porta, “A mezzanotte in salone” le urlai battendo i pugni sul legno duro.

 

Il resto della giornata la passammo in piscina a bere birra e giocare a calcetto sull’erba appena tagliata, Nastasja in costume leggeva il milionesimo saggio sull’arte contemporanea dal suo portatile; non era convenzionalmente magra, le forme erano al posto giusto e a dispetto degli stereotipi era discretamente abbronzata. Quella sera i ragazzi uscirono mentre io e Nastasja rimanemmo a casa di comune e silenzioso accordo, “Devo recuperare del sonno perso” lei, “Sapete che quando guido mi viene sempre un terribile mal di testa” io, lasciarono la casa verso le undici e Max non mancò di guardarmi male prima di raggiungere Ashton, probabilmente avrebbero portato a casa una delle solite scalatrici sociali, aspettando mezzanotte mi sedetti al pianoforte e iniziai a suonare qualcosa, Beethoven mi sembrava indicato, mi immersi talmente tanto nel brano che non sentì l’orologio battere la mezzanotte e la mani di Nastasja sulle mie spalle.

-Eccomi- mi sussurrò, mi alzai e raggiunsi uno dei cassetti del mobile, frugai per un po’ e alla fine estrassi la Beretta che tenevo gelosamente nascosta, lei fece un salto all’indietro alzando le mani.

-Non vorrai mica sporcare questi tappeti con il mio sangue- strillò con voce stridula, risi forte e appoggiai l’armai sulla specchiera, riprendendo a frugare nel cassetto e pescai l’altra pistola, scarica, mi avvicinai e gliela passai.

-Niente domande, seguimi- uscimmo dal patio, attraversammo il giardino, il campo da tennis e arrivammo in una radura abbastanza distante dall’abitato, davanti a noi quattro bersagli illuminati dai faretti.

-Necessito spiegazioni- 

-Ti insegno a sparare-

-Perchè?-

-Vuoi sopravvivere?-

-Non rispondere ad una domanda con un’altra domanda-

-Sono il degno figlio di un avvocato o no?- rise e le presi l’arma dalle mani, la caricai e gliela porsi di nuovo.

-Adesso è carica, guarda e impara- mi posizionai davanti ad una delle sagome, misi la mascherina posizionai in avanti le mani e sparai centrando il basso addome, il contraccolpo mi fece fare mezzo passo indietro.

-Prova tu- sospirò ed emulò la mia posizione, il proiettile partì però in mezzo al bosco e lei cadde all’indietro sull’erba con la pistola accanto.

-Alzati- le porsi la mano e stavolta mi posizionai dietro di lei, poggiai le mie mani sulle sue, il mio petto contro la sua schiena, il mio fiato contro il suo collo, il colpo partì e mutilò le gambe alla sagome, percepii la scarica di adrenalina che le attraversò la schiena, ma stavolta nessuno dei due cadde, e mi augurai con tutto me stesso che nessuno dei due cadesse mai.

 

In ritardo ma sono tornata! Sono rimasta molto delusa dal fatto che il capitolo sul met non abbia ricevuto nemmeno una recensione ma in fin dei conti ve ne propongo comunque uno nuovo, le avventure negli Hamptons sono appena iniziate quindi spero seguirete la ff!

Come al solito se avete qualcosa da dire sul capitolo lasciate una recensione, positiva o negativa (con educazione) che sia che io accetto comunque di buon grado. Non ho avuto tempo di rileggere il capitolo quindi se trovate qualche errore fatemelo pure presente.

Un abbraccio, Irene

 

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Capitolo 7
*** семь ***


Nastasja’s Pov

La mano che impugnava la pistola mi sudava e tremava, ero già finita a terra una volta e mi ero spaventata a morte, ma stavolta Luke mi corresse la posizione e frenò il contraccolpo così che facemmo solo un passo all’indietro, sospirai rumorosamente e mi misi a ridere.

-Perchè stai ridendo?-

-Perchè è tutto assurdo- gli risposi, sembrò non capire.

-Guardami Luke, in una casa da milionari, vestita come una sguattera, spettinata, spaventata a morte e con una pistola in mano che probabilmente finirà per uccidermi- chiusi gli occhi in un tic nervoso e lasciai cadere di nuovo l’arma -se non mi uccideranno a livello fisico lo faranno a livello mentale, Luke- suonò quasi come una supplica, si voltò a raccogliere la pistola, tolse gli ultimi proiettili e se li mise in tasca così come la sua Beretta che sparì sotto alla felpa grigia, una felpa di Yale, quante cose di lui non conoscevo?

-Per stasera abbiamo finito?-

-Vai al College?-

-No- alzai un sopracciglio in direzione del capo d’abbigliamento

-Ho preso un anno sabbatico-

-Giurisprudenza immagino-

-Immagini bene- e calò il silenzio, percorremmo di nuovo il giardino, vidi per l’ennesima volta il campo da tennis e la piscina illuminata dai faretti subacquei e udii gli schiamazzi dei vicini.

 

-Lukey- una voce squillante mi svegliò dai miei tormenti, una mora altissima stava attraversando a grandi passi il vialetto di ingresso con un paio di jeans striminziti e un crop top, più crop che top; arrivò vicino a noi e gettò le braccia al collo a Luke che la strinse con discreto entusiasmo, gli orecchini di lei tintinnavano e l’anello di lui era contro la sua schiena nuda.

-Jamila- esclamò il biondo in un accesso di entusiasmo, lei poi si voltò verso di me e squittì

-Tu devi essere la nuova cameriera- 

-lei è Nastasja, una mia amica di New York- continuai a stare zitta -e lei è Jamila Carter la figlie del procuratore distrettuale- sorrisi e rimasi lì impalata, ricominciò lei a parlare

-Sto dando una festa vuoi venire?- chiese a Luke ignorando platealmente la mia presenza, tossì e gli lanciai uno sguardo eloquente che lui ignorò.

-Volentieri- lo odiai, e poco dopo li vidi allontanarsi a braccetto lungo il viale, un senso di fastidio mi invase, scossi la testa come se così riuscissi a scacciarlo e rientrai nella casa buia fatta eccezione per il salone, con il cassetto aperto e i fogli sparpagliati sul tappeto, mi avvicinai e iniziai a sistemare, erano tutti casi del padre di Luke, uno mi colpì particolarmente, dei clienti coreani, il caso risaliva al ’98, chiusi il cassetto ma lasciai accesa la luce e risalii nella mia camera, erano le una passate quando guardai la sveglia digitale sul comodino, sospirai, mi misi il pigiama e una volta distesa presi a guardare il soffitto, con i colpi di poco prima che ancora mi risuonavano in testa, mi addormentai che erano le due passate e nessuno dei ragazzi era ancora tornato.

 

4:00 a.m.

Fui svegliata una volta da passi sulle scale e risatine chiaramente femminili, aprii un poco la porta e spiai il corridoio, intravidi Max ma era da solo, lo chiamai e con le mani in tasca e la camicia mezza sbottonata mi raggiunse, segni di rossetto sul colletto, ridacchiai.

-Cosa ci fai ancora sveglia?-

-Mi avete svegliata voi- gli diedi una sberla sulla spalla -Dove siete stati?- chiesi sbadigliando e sedendomi alla fine del materasso.

-Ad una festa qua poco più avanti- rispose vago mi distesi e lui fece lo stesso, non era la prima volta che dormiva con me, Tribeca poteva essere molto spaventosa di notte e comunque non era mai successo nulla di imbarazzante, entrambi avevamo chiarito le nostre posizioni a riguardo e così ormai alle quattro e mezza ci addormentammo, ma è come se avessi tenuto un occhio aperto tutto il tempo, i rumori continuavano e stavolta non c’entravano nulla con legno costoso e tacchi vertiginosi. Inquieta continuai a girarmi e rigirarmi attorcigliandomi anche nelle coperte, ma non ero l’unica ad avere il sonno disturbato perché quando decisi di alzarmi e guardare fuori dalla finestra vidi Luke seduto sul patio che guardava dritto davanti a sé, un suv grigio in lontananza, mi stropicciai gli occhi ma l’auto era ancora là, battei sul vetro per farmi vedere e non appena lui alzò la testa gli feci cenno di entrare lui mi rispose ridacchiando e scuotendo la testa, tornai a letto per l’ennesima volta e mi addormentai attaccata alla spalla di Max che era come entrato in coma

Sognai macchine che mi inseguivano in radure sperdute, pistole cariche puntate contro di me e opere d’arte macchiate di sangue, il mio.

La sveglia quella mattina non suonò e io e Max ci ritrovammo a doverci svegliare alle undici del mattino, intontiti dal sonno e dalla situazione, nessuno dei due aveva mai avuto il lusso di potersi alzare così tardi, ci guardammo confusi, aprii la finestra il sole illuminava i mobili bianchi e un filo di vento faceva muovere le tende inamidate.

-è meglio che io vada a farmi una doccia-

-vuoi anche dello struccante?- gli chiesi ridendo, mi guardò perplesso -il colletto della camicia Max- diventò rosso e mi fece una smorfia e se ne andò, sentii i saluti che porse a uno dei ragazzi lungo il corridoio; la sveglia con mio sommo piacere era anche una radio così la sintonizzai sulla mia frequenza preferita e rimanendo in pigiama tirai fuori il mio portatile e alcuni libri e mi misi al lavoro sul mio saggio aprendo anche alcune mail dell’Università.

 

“. Il punto è il primo nucleo del significato di una composizione, nasce quando il pittore tocca la tela; è statico. La linea è la traccia lasciata dal punto in movimento, per questo è dinamica. Può essere orizzontale, verticale, diagonale. Può essere spezzata, curva, mista. I singoli suoni possono essere mescolati tra loro; più la linea è variata, più cambiano le tensioni spirituali che suscita: drammatiche se è spezzata, più liriche se è curva. Anche lo spessore cambia: può essere sottile, marcato, spesso, variabile.

La superficie è il supporto materiale destinato a ricevere il contenuto dell'opera” battevo sulla tastiera del pc indisturbata con una piacevole canzone pop di sottofondo che poi lasciava il posto al notiziario locale, non me ne ero accorta ma erano quasi le due del pomeriggio e io non avevo ancora pranzato, tolsi il pigiama e indossai un vestito nero a maniche corte, raccolsi i capelli e scesi al piano di sotto dove stavolta trovai tutti i ragazzi riuniti nel salotto che guardavano un programma sportivo.

-Alla buon’ora principessa- mi canzonò Ashton che ricevette un’occhiataccia

-programma di spessore culturale- ridacchiai e Calum mi fece cenno di tacere, guardai Luke, aveva uno sguardo stralunato e i capelli in disordine, una maglietta nera con dei fori sul colletto e dei pantaloni grigi, non sembrava stare troppo bene, mi sorprese a guardarlo e girai di scatto il volto in una posizione poco naturale, guardai anche il famoso cassetto, chiuso a chiave stavolta.

La giornata non portò nulla di emozionante, rimanemmo quasi sempre nel campo da tennis e giocare dei doppi disastrosi e dei singoli ancor peggio, il sole picchiava senza remore e a Michael quasi colava la tinta dei capelli lungo le tempie, era la penultima sera negli Hamptons e i ragazzi stavolta non avrebbero accettato scuse; avevo portato con me solo un paio di vestiti eleganti, comprati nelle scorse vacanze d’inverno in Russia (una delle poche volte in cui mi ero potuta permettere il biglietto), avevo preso il primo appallottolato in valigia, un po’ sopra le ginocchia di un rosa pallido che avrebbe esaltato la mia abbronzatura acquisita a Times Square nelle file chilometriche per l’autobus, cadeva dritto a tubino, i capelli sciolti e un paio di orecchini importanti, due punti luce e due perle, mi avevano detto che era una serata raffinata e allora avevo fatto del mio meglio.

I ragazzi, in smoking, mi aspettavano alla fine della scala che io scesi lentamente, non per dar spettacolo ma per non ruzzolare dagli scalini, la pochette stretta nella mano destra, arrivata alla fine Luke mandò avanti gli altri e mi fece cenno di seguirlo, oltrepassammo varie anticamere, l’enorme biblioteca e giungemmo in una camera padronale, al centro un letto matrimoniale con candide lenzuola e cuscini azzurri, alla parete foto di un bambino biondo che sorrideva nella vasca da bagno, in una cornice di platino una foto di due ventenni convolati a nozze. Luke aprì la specchiera, appoggiò alla cassettiera un astuccio di velluto blu

-Aprilo- mi disse scostandosi di lato, mi avvicinai e feci schioccare la piccola apertura d’argento per poco non rimasi abbagliata, un collier di piccole pietre iridescenti brillava nel drappeggio della stoffa, portai la mano alla bocca per la sorpresa e mormorai “ma è bellissimo”

-indossalo-

-non posso-

-ho detto di indossarlo- lo presi e lo appoggiai sul collo nudo e gesticolai con la chiusura, Luke dietro di me mi fece scostare i capelli e in un batter d’occhio la chiuse, mi guardai allo specchio e sembravo quasi un’altra persona, più matura, più raffinata, lasciai di nuovo andare i capelli.

-mio padre lo regalò a mia madre quando erano fidanzati, negli anni ’80- sospirò

-poi la portò a Venezia e le chiese di sposarlo, adesso lei non la porta più perché pensa sia troppo giovanile ma io penso che sia il suo gioiello migliore-

-credo che il suo gioiello migliore sia tu- gli dissi guardandolo fisso negli occhi, distolse lui lo sguardo, spense la luce e mi diresse fuori senza dir nulla.

 

La proprietà che ospitava la festa era immersa nel verde, con putti poggiati su piccole fontane in tutto il parco che venivano illuminate dai faretti del prato, il tutto era molto fiabesco; entrai poggiata al braccio di Luke che salutò innumerevoli conoscenti, da lontano scorsi anche Jamila feci finta di nulla e mi concentrai sugli altri particolari, come la pistola di Luke ben nascosta dalla giacca di alta sartoria, “cosa te la sei portata a fare?” gli avevo chiesto, “la prudenza non è mai troppa” mi aveva risposto e la discussione era finita lì. Entrammo nel primo gazebo, i tavoli erano imbanditi e la gente chiacchierava amabilmente sorseggiando un costoso drink. Calum si mise subito a parlare con una ragazza bionda con uno scollatissimo vestito argento che di tanto in tanto invece ammiccava verso Ashton, scossi la testa e trattenni una risata, Luke mi presentava come “un’amica di New York” guardandosi sospettoso intorno il settanta per cento delle volte, io stringevo tutte le mani e sorridevo compiaciuta ad ogni complimento che ricevevo ma due ospiti mi inquietavano, dove eravamo noi c’erano anche loro, erano sempre di spalle, e nei paraggi spuntava la Carter che ci passava accanto come un felino.

-Devo andare alla toilette Luke-

-Ti accompagno-

-Non credo proprio-

-Ti aspetto fuori, mi sembrava ovvio- sbuffando oltrepassai la corte di One Million creata da tutti gli uomini, e mi misi in fila per il bagno delle signore, ogni tanto mi guardavo le unghie, sbattevo nervosamente il piede a terra fino a che non arrivò il mio turno.

Il bagno aveva le pareti fucsia e i lavandini rosa e accanto alla finestra avevano sistemato due composizioni floreali molto femministe, sorrisi e mi chiusi nel bagno; quando uscii non era rimasto più nessuno, spiai dalla porta ma le altre sembravano come sparite allora mi sistemai i capelli e mi lavai le mani, rimisi gli anelli ma con un tonfo la porta si chiuse mi avvicinai ma qualcuno l’aveva chiusa a chiave da fuori, tirai con tutte le mie forze, mollai calci e pugni ma nessuno rispondeva, dal bagno più in fondo uscì Jamila.

-Buonasera Nastasja- non risposi e indietreggiai fino alla porta

-Cosa vuoi?- domandai spaventata, la finestra si spalancò e un uomo che indossava un’elaborata mascara si aggiunse a noi

-Se farai la brava ci guadagneremo tutti- continuai a non rispondere ma lei evidentemente si innervosì e mi mollò un ceffone talmente forte che per poco non volò via uno degli orecchini iniziai a gridare aiuto a squarciagola ma non feci altro che peggiorare la situazione, l’uomo estrasse una rivoltella e fece partire un colpo che ruppe lo specchio in mille pezzi, urlai e allora Jamila mi bloccò con le spalle al muro.

-Vogliamo il Fontana-

-Non ce l’ho-

-Menzogne- urlò isterica -sei complice di Hemmings-

-Io non ne so niente di questa storia, vi prego- supplicai vedendo la stanza improvvisamente girare, pregai mentalmente Luke di venirmi a cercare ma nessuno saltò eroicamente la finestra di quel dannato bagno; l’uomo aveva lasciato cadere la pistola per schivare le schegge di vetro che lo avevano ferito alle mani, diedi una gomitata a Jamila che si accasciò al dolore mugugnando un “troia”, pestai con i tacchi il vetro e con le guance che mi sanguinavano dall’esplosione di poco prima afferrai l’arma e la puntai dritta davanti a me.

-Fermi o giuro che vi faccio saltare il cervello- le mani mi tremavano e la mia voce era impastata dalle lacrime

-Se spari non sopravviverai nemmeno altre ventiquattro ore, adesso dicci dove sono i Tagli- 

-Non lo so-

-Ragazzina-

-Ti ho detto che non lo so- urlai per l’ennesima volta, due braccia mi afferrarono e mi chiusero in una morsa inespugnabile ma stringevo ancora la pistola e mi muovevo come un’ossessa per liberarmi, lasciai partire un colpo che oltrepassò la gamba del mio aguzzino che si accasciò a terra lasciandomi libera, mi tolsi le scarpe e le lanciai a tutta velocità contro Jamila che per ripararsi cadde tra i vetri, afferrai le sbarre laterali della finestra e mi tirai su, Jamila mugolava dal dolore e varie pozze di sangue si erano formate nel lucido pavimento color confetto, corsi a perdifiato per il prato ferita ovunque, con una pistola in mano e senza scarpe.

-Luke, Luke- chiamavo compulsivamente come una radio rotta, la corsa era diventata un camminare incespicante e sconsolato, non potevo tornare alla festa in quelle condizioni, mi accasciai a terra in ginocchio e piansi tutte le mie lacrime -Luke, ti prego- le lacrime salate facevano bruciare le ferite del mio viso e quelle delle mie mani sfregavano sulle mie ginocchia, delle gocce di sangue erano cadute sul collier.

-Nastasja- alzai la testa, confusa e come un miraggio Hemmings era davanti a me, lasciai cadere l’arma e lo abbracciai, mi attaccai al suo collo e piansi di nuovo, macchiando di sangue la camicia e il papillon, dopo un attimo di confusione strinse le sue braccia intorno a me.

-Mi dispiace- mormorò tra i miei capelli spettinati

-è tutta colpa mia- dissi quando mi staccai, lui sbiancò visibilmente e mi porto una mano vicino al viso, e poi controllò le mani e il collo, da bianco passò a rosso, si strappò il papillon e per poco non prese a pugni un albero dalla rabbia.

-Smettila, ti prego- gli intimai.

-Mi ero allontanato solo per parlare con il padre di Jamila, cristo- ripeté come se fosse un mantra, passandosi le mani sui capelli quasi tirandoseli.

-Mi ha aggredita lei- smise di fare il matto e si avvicinò di nuovo a me.

-Ti giuro che per questo verrà versato altro sangue e diamine, non sarà il tuo-

 

Buonasera! Non c’è molto da dire su questo capitolo credo proprio si commenti da solo, spero solo che vi piaccia e comunque come sempre fatemi sapere i vostri pareri nelle recensioni, e se non vi piace o non vi convince ditemelo, come dico sempre accetto tutte le critiche sempre che siano fatte con educazione, quindi aspetto vostre recensioni!

Spero che non troviate errori e se li trovate ditemelo senza problemi perché sono andata un po’ di fretta!

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