Still-born

di BukowskiGirl2
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio di niente ***
Capitolo 2: *** Il tuo respiro ***
Capitolo 3: *** Leopardi ***
Capitolo 4: *** River flows into you ***
Capitolo 5: *** You're the fear, I don't care ***
Capitolo 6: *** Your smell ***
Capitolo 7: *** Nera come te ***
Capitolo 8: *** Leaves ***
Capitolo 9: *** Neve e papaveri ***
Capitolo 10: *** Piacere, Marzia ***



Capitolo 1
*** L'inizio di niente ***


Era sera, notte più che altro. Erano le 2.10 del mattino, ecco. Il locale non era esattamente colmo di gente, ma traboccava di poveracci che avevano perso una scommessa, una speranza, una donna. Stavo lì ad aspettare che qualcuno mi chiedesse di riempirgli il ventunesimo bicchiere di vodka. Era un macello, un disordine assoluto. E dire che odiavo quel genere di posti. Pensare che ero finito a lavorarci, mi faceva sentire davvero una cattiva persona. Sicuramente non avevo mantenuto la promessa, non ero riuscito a realizzare i miei sogni. Ma non è tutto così facile, non è come ti dicono. Non è che ti svegli un giorno e capisci di essere abbastanza maturo per una cosa e troppo maturo per un’altra. Non ero pronto per l’università, ma forse non ero nemmeno pronto a qualcosa come l’Amarcord.
La “gente” si concentrava in un angolo del locale, dove tutto era molto triste e grigio, dove anche la muffa aveva la meglio sullo splendido intonaco color ocra.
Entrò una ragazza. Capelli corti, molto corti, camicia stropicciata, occhi semichiusi, sguardo assente, braccia ciondoloni. Si avvicinò al bancone, si sedette. Si resse la testa con una mano e iniziò a fissarmi. Mi guardai intorno imbarazzato, deglutendo.
-Non credi di essere già abbastanza ubriaca?
Aprì gli occhi e lasciò scappare una risata malefica, quasi dolce.
-Bene, quindi sembro anche sbronza. Evviva i sonniferi!
La guardai stranito, accennai nervosamente un sorriso.
-Non sei sbronza?
-No, sono solo stanca.
Stanca. Come poteva essere stanca? Una persona così ben vestita, alle 2 di notte, in un locale, era stanca.
-E allora cosa ci fai qui?
-Guarda che sfacciato. Ti pagano per cacciare i clienti, non è vero?
Aggrottai la fronte, le versai dell’acqua in un bicchiere. Lei si guardò intorno, individuando il cartello che consentiva ai fumatori di fumare, e accese una sigaretta.
-Mi sono svegliata e qualcosa mi ha detto che eri qui, Leopardi. Tu ascolti quello che ti dice la testa dopo esserti svegliato da un incubo?
-Be’…No, credo. Insomma, come fai? Se la testa ti dice di uscire e buttarti dal balcone, tu lo fai?
-Se ne sono proprio convinta, sì.
Voltò la sedia girevole, dandomi le spalle. Adagiò i due gomiti sul bancone e portò indietro la testa.
-Certo che qui è proprio uno schifo, eh.
Smisi di ascoltare ciò che diceva, iniziai a lucidare dei bicchieri. Si voltò nuovamente. Accovacciata sul piano da lavoro, mi guardò dal basso verso l’alto.
-Sei di Milano, Leopardi?
-No… Ma abito qui. Mia madre è americana e mio padre emiliano.
-Quando finisci il tuo orario?
Guardai l’orologio.
-Fra 7 minuti.
-E poi sei libero, no?
-Dovrei… Perché?
Tirò su con la bocca l’ultimo respiro fumoso, per poi spedirmelo dritto in faccia. Tossii infastidito.
-Facciamo gli sperduti per la città, ti va? Se ti sembro troppo serial killer, be’, puoi anche perquisirmi.
Mi lasciai convincere dall’invenzione folle di una tossicodipendente. Era forse quel suo modo assurdo e sprovveduto di dire qualsiasi cosa, che mi aveva portato a compiere un gesto così pericoloso. Non conoscevo quella zona della città, dato che prendevo il tram che mi portava dritto dritto a casa.
-Hai freddo? Vuoi che ti dia la mia giacca?
-Placida notte, e verecondo raggio. Della cadente luna; e tu che spunti fra la tacita selva in su la rupe…
Scoppiai in una risata.
-Dovresti smetterla con questa storia di Leopardi.
Sorrise.
-Nunzio del giorno. Oh! Dilettose e care… Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato.
-Come si fa a tapparti la bocca?
Mi guardò un attimo, poi andò avanti senza aspettarmi.
-Va bene se ti chiamo Giacomo?
-Guarda, va benissimo.
-Ok. Giacomo, vieni con me, per favore.
Iniziò a correre.
-Ehi! Aspettami!
Le corsi dietro chiedendomi cosa stessi facendo.
-Ci siamo.
-Ci siamo per cosa?
-Questa è casa mia, vieni.
-Sai…Magari è troppo…
-Giacomo, rinunci proprio adesso? Guarda che non voglio mica saltarti addosso. Non fai mai cose assurde tu? Vergognati.
Ebbi un brivido, così, una cosa veloce. Volevo lasciarmi andare, senza pensare alle conseguenze, senza preoccuparmi se fosse una cosa giusta o meno. Ed era lì, il mio momento. Accettai di entrare.
-Posa qui la tua giacca, se vuoi. Io devo lavare i denti, ho ancora il saporaccio di medicina in bocca. Ah, fai come vuoi, qui: ci starò ancora per poco.
Chiuse la porta del bagno dietro di sé. La stanza era piccolissima, c’era una tendina degli anni 60 almeno e un computer non esattamente di ultima generazione. Fogli sparsi ovunque, sulla scrivania, e una libreria che occupava tutta la parete laterale. Mi sedetti su una poltrona, ad aspettare che uscisse.
-Eccomi. Bene, ti chiami?
-Ah, Giacomo non ti piace più, non è così?
-Si, è così. Qual è il tuo nome?
-Mi chiamo Lorenzo.
-Si chiama Lorenzo e fa il barista, che vita triste la tua.
Si sedette a terra, abbracciandosi le ginocchia, come una bambina.
-E tu? Come ti chiami?
-Mi chiamo Marzia. Il che è molto brutto, molto.
-Non ti piace il tuo nome?
-Dopo tanti anni ti stanchi del tuo nome, no? Io mi sono proprio stancata. Comunque, vieni, vediamo un film.
Aveva tanta fretta. Fretta di cosa? Andava tutto veloce, una strada che non portava in nessun posto. Non era spiacevole, ma neanche rincuorante.
-Ho poco, qui. Tutti i miei cd sono a casa di mia madre. Ho solo Una giornata particolare e Rapunzel.
-Vada per Sophia Loren.

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Capitolo 2
*** Il tuo respiro ***


Marzia si addormentò a metà film, lasciando a me la suprema decisione: scappare e lasciare il   lavoro per non essere più trovato o aspettare la mattina per spiegare che era tutto un equivoco e che magari trovarsi nel letto di qualcuno che non si conosce può essere un gesto involontario. E la mia scelta era talmente ovvia, che le mie mani non attesero conferma dalla mia mente per sbottonare lentamente la camicia che ormai indossavo da quasi 12 ore. Marzia dormiva sul pavimento, la presi in braccio per adagiarla sul suo letto. Non diede nessun segno di risveglio, imbottita com’era di sonniferi.
Mi sdraiai accanto a lei con la mente completamente vuota e ci vollero pochi secondi prima che i miei occhi si socchiudessero per portarmi tra le braccia di Morfeo. Fui svegliato, poche ore dopo, da un rumore frastornate. C’era dell’assurdo in tutto ciò che le girava intorno.
Sgranò gli occhi, per guardare che ore fossero. Si voltò verso di me, sorrise e buttò la testa sul cuscino.
-Adesso mi sembra strano, davvero strano. Tu sei qui, io sono qui, non abbiamo fatto nulla.
-Sei abituata a fare altro con gli sconosciuti, quando li porti a letto?
-Sei arrabbiato con me, adesso? Perché mi tratti così?
Era tranquilla, molto più tranquilla della sera prima, quando con fare nervoso, si era comportata da maniaca sessuale. Dovevo dirlo, dire quello che pensavo di lei. Avevo immaginato, per tutta la notte, un futuro. E c’era lei, in qualche modo. Anche se da comparsa, anche se per un po’.
-Ieri sembravi una maniaca.
-Perché, ora non lo sembro?
Mi avvicinai a lei, scostandole dal viso una ciocca di capelli. Mi guardò sospettosa, allontanandosi in modo brusco. Si fermò a fissare il vuoto, poi disse: -L’hai capito, vero?
-Capito cosa?
-Niente, allora, niente. Se ci sarà bisogno, capirai.
-Io devo dirtelo, ho paura di te. Insomma, questo tuo modo lento di parlare, di bloccarti. Mi hai attirato, mi hai portato qui. E adesso? Dove sta il trucco? Quand’è che uscirai un coltello per uccidermi?
-Quando vuoi, quando hai l’agenda vuota.- Accese una sigaretta. -Tanto, la gente, solo questo sa dire. Che sono una maniaca. Quando sanno, perché loro sanno, si allontanano o iniziano a chiamarmi “maniaca”. Figurati, non mi dispiace neppure tanto.
Cosa aveva di male? Era bella, composta, magari poco educata, ma non è un difetto. Tossicodipendente no, non lo era, assolutamente. Nemmeno un’alcolista, a quel punto. Ma cosa c’era dietro? Cosa nascondevano le sue espressioni vuote? Non ero un genio della psicologia, né un filosofo greco, ma qualcosa c’era. Io dovevo scoprirlo, dovevo stare con lei, starle vicino, a contatto, e capire.
Entrò un ragazzo, in stanza. Mi meravigliai del fatto che qualcuno, a parte lei, avesse le chiavi di entrata. Molto probabilmente era il fidanzato e io stavo per fare una brutta fine. Come un amante in fuga, mi alzai di scatto e presi i miei vestiti, coprendomi il petto.
-No, stai tranquillo. Fai pure.
-Io, davvero, sono solo una persona.
-Ammetto che non colgo il senso della battuta. Sono il fratello di Marzia, Filippo.
Mi sciolsi, sentendo qualcosa di così tranquillizzante.
-Sì, non sono un tipo da cabaret. Davvero, non era una battuta. Sono…un amico di Marzia.
-Bene, mi fa molto piacere.
Si rivolse a Marzia: -Noi ci vediamo dopo, casomai.-
Marzia si alzò per andare in bagno e appena ebbe chiusa la porta, Filippo si avvicinò a me sussurrando: -Quindi tu lo sai?-
Di nuovo. C’era di nuovo quella cosa che volevo sapere, ma che avrei saputo solo “quando ce ne sarebbe stato il bisogno”.
-Scusami, vuoi spiegarmi tutto questo mistero? Stamattina lei ha accennato a qualcosa del genere, mi ha chiesto se “sapevo”. Cos’è che devo sapere? A questo punto, sembra qualcosa di orribilmente terrificante.
-Ma no, no che non lo è. Vedi, lei non è molto propensa a dirlo, non le piace, la mette a disagio, anche i farmaci, non le piacciono affatto.
-Be’, a chi piacciono i farmaci?
-Si, concordo. Comunque, vuoi che te la racconti da romanzo giallo o semplicemente riassumendo?
-Se con il romanzo giallo riassumi e mi fai capire magari cosa, dove, quando e perché, allora ci siamo.
-Quando era piccola…- continuò sussurrando -…nessuno si accorgeva di nulla. Per tutti era solo “una bambina molto riflessiva”. Insomma, capisci bene che non ti metti a cura di quanto una bambina di 5 anni stia ferma a fissare il vuoto. Ma i primi accorgimenti furono proprio un paio di anni dopo, quando a scuola, Marzia, iniziò a dire cose assurde e a raccontare storie alle maestre, che le inducevano a chiamare i miei genitori, per chiedere se realmente mio padre fosse ambasciatore di Etiopia o se mia madre venisse veramente da Marte. Allora cambiò titolo, dalla “bambina riflessiva” diventò “la bambina fantasiosa”. Ed erano solo modi stupidi per non accettare l’evidenza. Questi eventi andavano avanti ormai da troppo tempo, mostrando che, per Marzia, non era una questione di ambiente scolastico o familiare, ma si comportava così proprio con tutti.
-Insomma, Filippo, tua sorella è autistica.
Da concentrato com’era, su di me, abbassò lo sguardo mediamente sconfitto.
-Non ho nessun’interesse a rovinare la vita della persona che forse amo di più al mondo. Infatti, te lo dico perché, se devi fare cazzate, non farle dopo e non farne tante. Scappa ora, cambia nome, cambia città, fa’ finta di non conoscerla. E’ una cosa pesante, pesante da gestire. E se non te la senti, per favore, abbandona adesso la sfida.
Mi sentì umiliato, sottovalutato in maniera schifosa, offeso e un poco arrabbiato. Il modo in cui ci avevamo girato tanto attorno, la sera prima, mi aveva mostrato che forse ero stato ceco anch’io, a non volermene accorgere.
-L’ho conosciuta ieri, quando mezza addormentata, è entrata nel locale in cui lavoro.
-Sono delle tecniche antipanico…
-Sì, me lo ha riferito. Ma non è questo il punto. Lei vuole a tutti i costi inserirmi nella sua vita. E non è nemmeno questo, il problema. Non so nemmeno se c’è un problema, forse no. Filippo, semplicemente non devi preoccuparti. Devi darmi tempo, mi sento in uno show televisivo di candid camera, per favore.
Mi diede una pacca sulla spalla, sorridendo, poi andò via. Mi sedetti sbalordito sul letto, mentre riabbottonavo la camicia. C’era qualcosa, il destino, il fato. E lei, sembrava aver scritto tutto lei. Il modo in cui si rivolgeva a me, mi sembrava improvvisamente davvero dolce e premuroso. Non ero io che dovevo proteggere lei, era lei che stava salvando me. 

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Capitolo 3
*** Leopardi ***


-Non sei ancora scappato. Mi inviti a nozze?
Probabilmente notò la mia espressione contrariata, perché mi guardò seria, seria come mai prima in quelle ore.
-Lui te ne ha parlato. Ora te ne andrai, lo odio.
-L’hai detto tu, ti invito a nozze. Sono qui, mi vedi. Non devi odiare tuo fratello. Piuttosto, perché non mi hai detto niente?
-Ma lo vedi che mi credi pazza? Come faccio a parlartene?
-Come vuoi, ma dimmi: la cosa del dire che sei autistica viene prima o dopo, l’andare a letto con gli sconosciuti?
Mi scagliò contro un cuscino, ridendo. Poi un altro e un altro ancora.
-Basta. Bandiera bianca!
-Ti arrendi facilmente…
Andai a sfumare sempre di più la mia risata, finendo per guardarla mentre, seminuda, metteva un maglione enorme direttamente sulla sua pelle chiara. Mi accorsi di risultare leggermente inopportuno.
-Ti piace Firenze, Lorenzo?
-Si, insomma, è una città triste.
-E’ tutto quello che hai da dire?
-Cosa…cosa dovrei dire?
Mi lanciò un occhiata furiosa, quasi ad uccidermi.
-A te piace, invece, non è così?
-Sì.
Presto fui fuori. Non ci scambiammo una parola, prima di perdere uno il contatto visivo con l’altra.
Squillò il mio telefono: Alfredo.
-Pronto?
-Sei andato a pollastre, eh?
Cercavo di deglutire velocemente il boccone di brioche che avevo in bocca.
-Che intendi?
-Che intendo? Vediamo… Il tuo letto, non ti sei curato di nasconderci dentro un manichino, così da evitare questa conversazione. E poi, che dire, il solito rumore che fai quando…
-Va bene, va bene. Adesso non esageriamo. Ho dormito fuori e basta.
-Fuori in strada?
-Molto divertente. Torno a pranzo, vado a vedere la casa di cui ti avevo parlato.
La sua ironica risatina si trasformò in un silenzio assordante.
-Ci sei?
-Avevi detto che era un discorso lontano, che non l’avresti più tirato fuori. Ti ho detto che avrei ridotto la tua parte dell’affitto, perché vuoi farlo?
-Lo sai…a me fa piacere stare con voi. Ma ho bisogno di una vita mia, di una mia casa, di indipendenza assoluta. Faccio questo lavoro, adesso, questo lavoro orribile, e lo sai, lo sai, che ho bisogno di indipendenza fisica. Tornerò a trovarvi, stanne certo. Mi mancate già adesso.
-Non so che dire, non posso ostacolare le tue scelte.
-Giusto.
Giusto. Mi sentivo in colpa. In colpa per il “giusto”, in colpa per l’abbandono e in colpa per tutto. Dovevo imparare a gestire la normale alternanza fra momenti allegri e altri meno allegri.
Il profumo della casa di Marzia non era un profumo, ma il profumo. E ce l’avevo ancora in testa. Strano, no? Insomma, un profumo, in testa. I profumi si scordano tanto quanto le cose che si vedono. Era quindi la giornata perfetta, quella, per rinchiudersi in una topaia puzzolente.
Quelle poche ore prima, nel mondo dell’assurdo, erano servite, ancora una volta, a ribadirmi quanto la mia vita fosse monotona e asfissiantemente lineare.
 
Le ore passarono velocemente e la mia giornata era quasi giunta al termine.
-Sa’! Io vado, ho finito!
Nessuna risposta. Non era importante, bastava un pezzo di carta sul quale c’erano scritte tante cose sul mio orario, a darmi la libertà di scappare. Corsi dal proprietario della mia futura abitazione, per vedere in che condizioni poteva essere un monolocale in periferia.
Non so fino a che punto si può pensare che la libertà abbia bisogno di essere materiale. Sapevo che mi sarei ritrovato in un monolocale da panico, a leggere giornali femminili di mia sorella e bere tè alla pesca. E non era l’idea di libertà che avevo confessato di sognare, ad Alfredo.
Mi bloccai, mi serviva qualcosa. Entrai in edicola e presi l’ultima edizione di Glamour. Ecco, così poteva andare. Iniziai a sfogliarla.
I leopardi, vite frenetiche.
I leopardi.
Leopardi.
Marzia.
Cambiai strada di colpo, meritando tutte quelle smorfie sui visi dei passanti. Corsi sotto casa sua e attesi che mi passasse il fiatone. Suonai. Nessuna risposta. Suonai di nuovo.
-Ch’ie ca vuoe?-, chiese con infinita delicatezza una signora affacciatasi dal balcone.
-Come, mi scusi? Chi è Lei?
-Si’ nu sbirro?
-Mi dispiace…Non la capisco. Dov’è Marzia?
-Ma qua non sta nessuna Marzia.
Aveva evidentemente deciso di farmi impazzire.
-Mi vuole aprire un attimo? Evitiamo di gridare in strada.
Aprì. La sentivo scendere le scale di fretta. Spalancò la porta quasi a farmi cadere dal gradino. La guardai perplesso.
-Mi vuole spiegare chi è, per favore? Fino a ieri sera ci stava un’altra persona qui.
-Ah! Lei! E io chi saccio ca si chiama Marzia! Tu sei il fidanzatino, quindi. E bravo, bravo! Però ora lasciami dormire.
Stava per sbattermi la porta in faccia.
-Oh! Ma forse qua non ci capiamo. Dov’è Marzia?! Dov’è andata? Deve saperlo, no? Come fa a esserci Lei qui?
-Marzia ci ha venduto la casa. Ma lei non è uno sbirro, no, vero?
-Ancora? No, non lo sono. Vi ha venduto la casa, e adesso dov’è?
-Ah, questo non lo so. E’ stranetta quella ragazza, non parla mai. Non so dov’è.
La guardai con aria sufficiente.
-Va bene, la ringrazio lo stesso.
Così era troppo, troppo assurdo. Non sapevo cosa stava succedendo. Mi trovavo a Milano, a cercare Marzia, senza conoscere il suo cognome, numero di telefono o email. Dovevo arrendermi, l’avevo persa. 

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Capitolo 4
*** River flows into you ***


Dopo aver percorso i 20 metri più lunghi della mia vita, pensando a cosa fare, tornai indietro spinto dall’ingegno. Suonai al campanello della donna fine di qualche minuto prima.
-Attorna lei è?!
-Che non abbia capito niente, questo è chiaro, ma ha almeno il numero di Marzia?
-Chi è Marzia?
 
Alzheimer
 
-Quella che le ha venduto la casa, signora.
-Aaah! Giusto, giusto. Si, ce l’ho. Tieni, dovrebbe essere… questo! Questo qui.
-La ringrazio.
-Allora a presto!-, disse sorridendo.
-Spero di no.-, risposi con altrettanta enfasi.
Il mio cellulare. Il mio cellulare non era in tasca, non era nei jeans, non era nella giacca, non era nel marsupio. Il mio cellulare era nella casa di Marzia, anzi, della signora fine. Ma non era una delle mie principali preoccupazioni.
Avevo spiccioli a sufficienza per usare un telefono pubblico.
Selezionare l’operatore telefonico del cliente chiamato.
Come se lo sapessi. Tentai con la Tim. Era quella giusta.
-Pronto?
-Marzia…
-Chi è, mi scusi?
-Marzia, sono Lorenzo.
-Ah, Leopardi.
-Marzia, dove diavolo sei? In casa tua sta una pazza che non parla la lingua di noi umani.
-Miranda. Se non capisci i dialetti non dare la colpa ad una donna.
-Il discorso è un altro.
-Qual è il problema? Non ci conosciamo, posso mai mancarti così tanto?
Appoggiai la testa ad una delle pareti della copertura.
-Dove sei?
-Ti piacciono i fiumi?
-Che domande sono? E’ modo, questo, di rispondere alla mia domanda?
Inserire altre monete per continuare la telefonata.
<>
Era tutto finito. Tutto finito. Mi piansi addosso come un bambino che credeva di poter aggiustare le cose con la bacchetta magica. Tornai nel mio tugurio, a ripensare al fatto che se fossi tornato indietro a chiedere il cellulare alla signora, sarei sicuramente svenuto, ma se l’avessi recuperato, avrei saputo, in quell’esatto istante, dove cercare e trovare Marzia. Ero diventato bravo a crearmi i paradossi.
-Hai l’aria sfinita, amico.
-Puoi contarci.
-La tua avventura di una notte ti insegue?
-Casomai sono io che inseguo lei.
-Ah! L’amour!
-Piantala.
-Hei… Che succede?
-Può una persona sparire in poche ore? Sparire del tutto, intendo.
-Può farlo, se lo vuole così tanto. Lei lo vuole così tanto?
-E’ un caso un po’ a parte. Non so cosa fare, è imprevedibile. Non riesco a controllarla.
-Sai di cosa hai bisogno?
-No…
-Del mare. Eh? Che dici? Andiamo al mare, dai.
-Mare…mare… Ma certo! Il fiume!
-No…In realtà intendevo proprio…
-No! Non capisci! Devo fare un biglietto per Firenze!
-Firenze? E che devi fare a Firenze?
-Niente, poi ti spiego.
Feci per rimettermi la giacca.
-Non chiamarmi, ho perso il cellulare. Casomai ti chiamo io. Ciao!
Corsi alla fermata e feci il biglietto. Ero sicuro, sicuro che l’avrei trovata.
Il tragitto sembrò breve, riflettei su tutto quello che avrei dovuto fare – e dire – per evitare che parlasse prima lei, rovinando la scenografia teatrale che avevo preparato.
Si aprirono le porte davanti a me, che sembravo il passeggero più in ansia (anche più degli impiegati).
E lei era lì.
Questo non mi sorprendeva più di tanto. Scesi comunque con un’espressione quasi sorpresa, forse paralizzata. Mangiava un qualcosa di dubbia provenienza. Fissai l’oggetto rosicchiato nella sua mano.
-E’ un muffin. Scusa se non te ne ho portato uno, anche a te. E’ che per ora sto cercando un altro lavoro, ho litigato con mamma che ha smesso di mandarmi i soldi.
Sorrisi.
Il trenò ripartì velocemente. Una folata di vento le fece alzare di poco il vestito e i capelli.
Gettò nel cestino più vicino il suo dolcetto rosicchiato e prese qualcosa dalla tasca. In un attimo fui paralizzato da un flash.
-Che fai?
-Ti ho fatto una foto.
-E se non voglio?
-Se non vuoi, non la vedi. Non è un problema. Comunque, invece di fare il bambino, vieni che ti faccio vedere la mia casa.
-Ah…a proposito, senti… Io non ho nulla, non ho portato niente di niente, nemmeno un bagaglio e sai…
-Tranquillo, ci pensiamo dopo.
Presa la metro, ci dirigemmo nei pressi del fiume. Là era la sua casa, perfettamente come aveva promesso, in segreto.
-I soldi che non avevo speso in risotti liofilizzati e dolci alla cannella, li ho conservati. Firenze è sempre stato il mio sogno. E invece di finire a scrivere un libro dal titolo orribile e contenente racconti che tutti si aspettano, li ho usati per una casa qui.
-E’ una buona idea. Un’ottima idea.
Entrammo in casa. Era molto spaziosa, rispetto al suo monolocale a Milano. Dopo solo un giorno – o forse meno – che stava lì, la casa aveva già il suo profumo e la sua personalità sparsi ovunque.
-Questo è il soggiorno, vedi? Dormirò qui. Mentre tu… Sì, vieni vieni! Ecco, la tua stanza, che poi è la mia.
-Ma no, a me basta anche solo un cuscino a terra…
-Smettila che sappiamo bene tutti e due come sei.
Lei avrebbe dovuto sapere com’ero io. Questa era buona.
Stava per trasferirsi in un’altra stanza, quando la presi poggiandole le mani sulle spalle e guardandola in viso.
-Ascoltami, ora parlo seriamente. Perché fai così? Non hai nessun’altro, oltre me, da invitare a casa?
-Direi di no. Non ho molti amici. Forse perché uso la tattica che ho usato con te. Ma nemmeno.
-Quindi sono solo uno fra tanti.
-No, sei uno fra pochi.
-Uno fra pochi che ti asseconda?
-Uno fra pochi che resta. 

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Capitolo 5
*** You're the fear, I don't care ***


-Potresti farmi un tè?
-Un tè?
-Un tè.
-Non compro cose del genere, di solito. Mi dispiace.
Mi mossi verso la stanza che precedentemente mi aveva mostrato, quella in cui avrei dovuto dormire. “E’ carina”, dissi, senza che nessuno lo sentisse, dal momento che lei aveva trovato qualcosa di più interessante da fare. Entrò mentre girovagavo sperduto.
-Pensavo: se lavori in un bar e cerchi una casa, il resto del tempo come lo passi? Non mi riferisco alle ore, ai giorni. Ma a quella specie di vuoto, nella tua vita, che si crea quando non ami qualcosa e non lotti per qualcosa che ami.
-Hai letto troppi libri, mia cara. Non è che non amo qualcosa. Cioè, voglio dire, ci sono le cose che amo. C’è la fotografia, ci sono i quadri di astrattismo…
-Immaginavo fossi un tipo da astrattismo.
-Perché?
-Perché quelli come te cercano cose facili, perché chi cerca di avere meno impegni possibile ha paura di impegnarsi in qualcosa di davvero serio e coinvolgente.
-Ogni volta che ti vedo cerchi sempre di farmi il profilo psicologico, non è così?
Sorrise.
-Se ti consiglio un buon posto dove andare a cenare, farai finta di avermi invitata e portata tu?
-Non aspetto altro.
Le bastarono alcuni minuti dentro al bagno, per tornare fresca e riposata come ci si aspetta che sia, ogni giorno. Indossava un vestito troppo nero e aveva le labbra esageratamente bordeaux.
-Sono orribile, sembro una di quelle tipe che ti spuntano da dietro un albero, nei tunnel dell’orrore che non faccio mai.
-Allora come fai a sapere che ci sono tipe come te, lì dentro?
-Lo immagino. Dove può stare una come me, se non in un posto buio, per poi spuntare a tradimento?
La presi per mano, facendo appunto finta di accompagnarla, quando era evidente che lei mi indicava la strada. Arrivammo in un posto carino, che aveva aria di fiume. Ci sedemmo sotto un gazebo, continuando a tenerci per mano, anche se nessuno dei due si sarebbe spiegato il perché. La guardai in viso, per capire quali fossero le sue intenzioni, e lei mi strinse ancora più forte.
Si avvicinò a noi una cameriera: -Siete pronti ad ordinare, signori?-
Prendemmo entrambi del salmone cucinato in modo abbastanza insolito.
-Che genere ti piace? Musicalmente parlando, intendo.
-Non so. Mi piacciono canzoni che non so classificare e non mi piacciono le classificazioni che gli danno altri. Non lo so, ho sentito parlare dell’indie. Penso che mi piaccia un po’ quello, sì. E tu, Leopardi?
-Lorenzo, ti prego, Lorenzo.
-Lorenzo.
-Sì, mi piace il blues. In realtà mi piace la parola, blues. Non conosco molti autori. Non sono un tipo da musica.
-Che significa, non sei un tipo da musica? Ci convivi con la musica, vuoi o non vuoi. La musica esiste da troppo tempo perché tu dica “non sono un tipo da musica”. Non so se capisci. Capiscimi.
Presi fiato per rispondere, ma mi arresi da subito. Preferivo contrariarla una volta sola, per restare spettatore delle sue tragedie insensate. Sentii l’euforia crescere dentro di me, come un bambino. Uno di quei momenti in cui sei pronto a dire di tutto, ma troppe volte – troppe – ti trattieni.
-Ci sarebbe qualcosa che vorrei dirti. Ma lo sappiamo, io e te, che sembrerei troppo inopportuno.
-Solo perché diresti ciò che voglio sentire e diventeremmo ciò che avrei voluto diventassimo sin dall’inizio?
-Non spingerti oltre, troppo oltre. Vorrei dirti che sei bella. Bella da fotografia, intendo. Una fotografia che, anche guardata dopo anni, non ti stanca.
-Non voglio rimanere una fotografia.
Sospirai. Non volevo rimanesse una fotografia (di cui, tra l’altro, non avevo la copia). Avrei voluto copiare tutti i grandi film, con mosse romantiche e frasi fatte. Ma mi sembrarono talmente poco adatte a lei, che volli rimanere me. Il me sorridente, impacciato e tremendamente vulnerabile.
Mi prese per mano e, per la prima volta da quando la conoscevo, volle descrivermi il posto in cui saremmo andati. Anche se la sua descrizione era accompagnata da una sana corsetta e dai nostri corpi che iniziavano a sudare, fu piacevole l’arrivo, in questo parco, illuminato quanto basta per non perdersi di vista.
-Voglio ballare.
-Ma non c’è musica.
-Canto io.
Intonò un paio di note, mentre muoveva le braccia verso l’alto e socchiudeva gli occhi quasi a lasciarsi andare.
-Ma è la canzone della pubblicità della banca.
-E allora?
Mi prese per mano, fingendo che chissà quale gran ballo ci stesse aspettando. Mi muoveva come un manichino e io mi lasciavo trascinare con molta poca voglia di muovermi artisticamente.
Iniziò a piovere, con una pioggerellina pungente. Ci riparammo sotto un albero.
-Ottimo posto per attirare i fulmini e le saette-, disse.
La spinsi al tronco, per baciarla. Non ci pensai un attimo. Sapevo che sarebbe scappata, se le avessi lasciato scelta. Non lo fece. Teneva il mio viso fra le sue mani, con una dolcezza leggera. In quel momento, senza saperlo, mi stava dedicando tutte le attenzioni che mi erano sempre mancate, nel corso della mia vita. Mi fece sentire l’unico. Non uno su cento, non uno su un milione. Mi strinse a se, in un abbraccio, come se anch’io, gli fossi mancato da chissà quanto.
In silenzio, ognuno camminava dal suo lato. Nessuna effusione, nessuna parola, nessun sorriso, lacrima, nessun gesto.
-Mi dispiace, se ho fatto troppo. Mi sono lasciato prendere.
Mi guardò negli occhi, sorridendo.
-Grazie. 

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Capitolo 6
*** Your smell ***


-Parlami di tua madre, e di quanto meraviglioso deve essere vivere in America.
-Devo essere sincero, non ne abbiamo mai parlato. Lei non ama quella parte della sua vita. C’era mia nonna, la sua casa, le foto, il cane. Ma lei non ha mai voluto raccontare.
-E tu non le hai mai chiesto niente?
-No.
Si fermò. La fissai stranito, allungando il collo come a chiederle cosa stava accadendo. Sbatté i piedi a terra come una bambina: -Aaah! Ma come fai? Come fai a vivere una vita e non interessarti nemmeno a quello che è successo prima? Pensi di essere nato dal nulla?-
-Perché ti stressi così? Perché ti fai domande che gli altri nemmeno si sognano di fare?
La tirai per una mano.
-Mi fai male!
-Stavi per farti investire, per esempio.
-Adesso sei arrabbiato.
-Dio santo, non sono arrabbiato. Me lo chiedi sempre, sempre. Devi tranquillizzarti.
-Ma guarda che quello nevrotico sei tu.
Mi preparavo a rispondere, in quella conversazione che sembrava dover finire infantilmente male. Ma scoppiai a ridere. Sì, esatto, ridere di gusto. Mi fermai giusto prima che lei mi schiaffeggiasse.
-Ti porto in braccio.
-Tu sei scemo, vuoi rimanerci secco.
-Ma per favore, Mortisia, pesi al massimo cinquanta chili.
Così la accompagnai. Poggiò la testa sulla mia spalla e si lasciò andare. Tremava dal freddo ma, in piena estate, non avevo con me una giacca che sarebbe servita a riprodurre una scena da perfetto gentiluomo.
Non addormentarti…”, sussurrai, senza che mi sentisse. Premette le sue labbra sul mio collo, lasciandomi un leggero segno di quel suo orribile rossetto.
-Marzia, come si apre la porta qui?
-Lasciami giù, la apro io.
Posò i piedi a terra come fosse ubriaca, iniziavo a farci l’abitudine con questo suo modo di fare. Salimmo in camera “mia”. Tutti e due sapevamo che lei non avrebbe dormito in soggiorno.
-Io…sono abituata a dormire nel mio letto… e sai…
-Tranquilla, stavo per dirtelo. Io vado in soggiorno.
-Resta.
Sotto il vestito non aveva nulla, solo gli slip. Si stese sul letto, a pancia in giù e fece per prendere un libro dal cassetto.
-Ti dà imbarazzo il fatto che dorma nuda? Se vuoi mi rivesto.
Con lo sguardo confuso di uno che cerca di non guardare in quella direzione, dissi che no, mi sarebbe andato benissimo e che comunque lei avesse deciso di dormire, era la sua casa. Un po’ per abitudine, un po’ per spirito di compagnia, mi spogliai anch’io e restai solo in boxer.
-Anche i boxer adesso.
Mi guardai, non avevo nulla di male: -Cosa, cosa c’è?-
Si mise a ridere, tappandosi gli occhi e guardandomi tra le fessure delle sue dita.
Mi sdraiai accanto a lei, con la leggiadria di un fotomodello.
-Cosa leggi?
-E’ un diario di mia madre, gliel’ho rubato da casa, quando prendevo le mie cose.
-Perché l’hai fatto?
-Perché lei è tragica. Descriveva il suo primo appuntamento con papà, come se fosse una visita alla regina.
-Vuol dire che lo ama molto.
-Lo amava.
-Non c’è più?
-Loro sono separati, parlano in maniera civile ma come due estranei.
-Da quanto?
-Da quando avevo 10 anni. Ormai ci sono abituata. Quando andavo ai colloqui con i professori, venivano tutti e due. A volte non parlavano nemmeno, altre lei rideva alle sue battute ed era come se non fosse mai successo nulla. Quando ho compiuto 14 anni ho chiesto come regalo che loro tornassero insieme, dato che non ci vedevo nulla di sbagliato. Lei si inventò la cazzata del “ormai sei grande, capisci che non hai bisogno di due genitori uniti’”. Da lì ho rinunciato a qualsiasi discussione che finisse con la mia, diciamo, vittoria. Qualunque cosa dica, ha ragione lei. Non mi importa molto.
-E’ importante che tu prenda la tua posizione.
-Per lei non ho mai avuto posizione. Per lei non ero in grado di scegliermi il liceo. Per lei non sono in grado di scegliermi l’indirizzo di studio, il lavoro, gli amici. Ma ho smesso di fregarmene. Ho troppi attacchi panico, troppa frustrazione. Danneggiarmi ancora di più, con cose che non mi danno risultati, sarebbe controproducente.
Le strinsi la mano.
-Ma basta tragicità, Lorenzo.
-Ti è costato tanto usare il mio nome, si legge nei tuoi occhi.
-Stupido.
Si sistemò per bene sul letto, mostrandosi. Lo feci anch’io, per evitare l’imbarazzo. La guardai, lasciando di lato tutto quello che pensavo sarebbe successo.
-Mi guardi come se non avessi mai visto una donna nuda.
Risi. Perché non l’avrei mai giudicata “una donna”. Un po’ per il suo modo di fare, un po’ per il suo modo di parlare, lei era e sarebbe continuata ad essere una bambina.
-Pensi ancora a quella cosa della fotografia? Pensi ancora io possa essere una fotografia?
-Non pensavo a quello, no.
Si spensero le luci, senza che noi facessimo niente. Un blackout, avrei detto.
-Porca miseria! Dovevo ricordarlo! Alle 2 toglievano la luce…
-Non fa niente, dai. Si vede la luna.
-Ho paura del buio, Lorenzo.
-Ma cosa dici?
Si strinse a me. L’aria gelida entrava dalla finestra. L’estate non era ancora abbastanza inoltrata per dormire nudi. La avvolsi con le mie braccia, spaventato. Non sapevo come comportarmi, non sapevo se quella fosse veramente paura o avesse finto. Avevo una bomba, in mano, che in qualsiasi momento sarebbe potuta scoppiare.  

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Capitolo 7
*** Nera come te ***


Così parliamo delle distanze
e del cielo e di dove andrà a dormire la luna
quando esce il sole
chissà com'era la terra prima che ci fosse l'amore
sotto quale stella tra mille anni
se ci sarà una stella
ci si potrà abbracciare
Poi la notte col suo silenzio regolare
quel silenzio che a volte sembra la morte
mi dà il coraggio di parlare
e di dirti tranquillamente
di dirtelo finalmente che ti amo
e che di amarti non smetterò mai
così adesso lo sai
 
 
Avrei voluto sfiorarla, ma qualsiasi mio movimento sarebbe risultato orrendamente violento in quel suo sonno leggero. Non avevo mai visto niente di simile. Quando riuscii anch’io a prendere sonno, squillò un telefono, con una suoneria assurda che richiamava suoni militari di sirene nere. Con tutta la tranquillità possibile, Marzia, osservò il dispositivo per meno di due secondi e poi spostò lo sguardo su di me, con aria visibilmente confusa, o spaventata.
-Pronto?-, disse con voce rauca.
Nonostante il silenzio, non riuscivo a sentire quello che il chiamante stava comunicando. Guardò me, poi il vuoto.
-Perché?
Le scese una lacrima. Staccò la telefonata.
Feci per poggiarle una mano sulla spalla, ma mi fece segno di non intervenire. Si spinse verso la testiera del letto. Aspettai un secondo.
Iniziò a tirare violenti pugni sulle sue gambe, con un’espressione al dir poco indemoniata. Poi scoppiò a piangere, adagiando la testa sulle mie gambe. Con sguardo sconvolto la strinsi a me.
-Marzia…
Singhiozzando accennò qualche parola: -Mio padre…ha avuto…un arresto cardiaco…-
Cosa avrei potuto fare? Le stelle del suo universo si erano spente ad una ad una. La vedevo scendere, scendere in profondità, scavare troppo dentro. Vedevo i suoi occhi ripercorrere tutto, in troppo poco tempo.
-Vai via.
-Non ti lascerò qui.
-Ti prego, non è il momento. Vai via, ho bisogno di pensare a cosa fare.
Cercai il suo sguardo, che era invece perso nel vuoto, spinto in basso. Decisi che aveva ragione, che quello doveva essere un suo momento. Ripensai che, d’altronde, neanch’io avrei sopportato la vicinanza di qualcuno che cerca di convincerti che va tutto bene, mentre non va bene niente. E tra l’altro anche in pessimo modo, niente di rincuorante, niente di niente.
Mi rivestii velocemente, anche se speravo tanto che mi chiedesse di restare. Ero tanto rammaricato quanto deluso. Deluso per noi, per quello che sarebbe successo e quello che saremmo stati, d’allora in poi. Chiusi la porta dietro di me, non finse nemmeno di salutarmi. Avevo degli spiccioli in tasca e sarei tornato a casa.
Nel treno pensavo a me, e a cosa sarebbe successo se mio padre, un giorno, sarebbe venuto a mancare, come comunque era inevitabile che fosse.
L’alba mi faceva una triste compagnia, il suo non imporsi era tranquillizzante.
Arrivai a casa. Dalla finestra vidi che Alfredo preparava il caffè, con aria abbastanza assonnata. Entrai, spingendo la porta delicatamente e sottolineando la mia stanchezza. Speravo disperatamente che mi chiedesse cos’era successo.
-Lorenzo…
Feci spallucce.
-E’ successo qualcosa?
-Hanno chiamato, stanotte. Suo padre è morto. Adesso lei sta lì, su quel letto, a ricordare chissà cose e fissare il vuoto. Non vuole stia con lei.
-Mi dispiace molto… Posso capirla, sai?
-No…Non puoi. Neanch’io posso. Nessuno può. Non so cosa succede, mi sento come se fossi il protagonista. E non lo sono. E’ come quando, a tredici anni, sono voluto andare dal dottore. E quando ha chiesto perché ci fossi andato, io ho risposto che mi sentivo sempre triste e lui avrebbe dovuto aiutarmi. Mi ha riso in faccia. Ha fatto male, male come adesso.
-Ti senti ignorato?
-Sento un pezzo di me che mi ha lasciato. Mi passerà.
Corsi nella mia stanza, per evitare il suo sguardo. Seduto sul letto mi concessi qualche lacrima. Lei non mi aveva ancora raccontato abbastanza, di suo padre. E sapevo che, adesso, non lo avrebbe più fatto con tanto entusiasmo. Non ero bravo con le descrizioni, più che altro non avevo voglia. Ma lei sì, lei descriveva tutto nel dettaglio. E come avrei voluto, in quel momento, che mi dicesse qualcosa di più… Che mi raccontasse altro, più di quello che dovevo lasciare alla mia immaginazione.
Mi addormentai vestito, per svegliarmi ad un’ora assurda del giorno. Dovevo già pranzare, ecco tutto. Mi forzai di infilare qualche forchettata di spaghetti in bocca, ma era impossibile. Presi il telefono di casa e la chiamai.
Squillò incessantemente, finché non sentii un piccolo rumore, che somigliava a quello di un naso raffreddato.
-Hei…
-Spero tu ti goda la tua giornata.
Una voce assurda, non da lei. Un suono sgradevole, stonato.
-Marzia, cosa stai facendo? Non hai bevuto, vero?
-Bevuto?- scoppiò in un’aspra risata –Ma se non bevo mai, babe.-
-Sto arrivando.
-No, no. Aspetta.
-Non aspetto. Non aspetto che tu beva ancora.
Attaccai.
Ricominciava il tour. Preso il treno, corsi più veloce che potevo per arrivare a casa sua. Sapevo dove teneva nascosta la chiave. Entrai. Due bottiglie di Jack Daniel’s vuote, sul tavolino del soggiorno.
Uscì dalla sua stanza barcollando, con i capelli scompigliati e lo sguardo perso. Teneva in mano un quadernetto.
-Guarda.- mi disse –Qui ci sono tutte le boiate che mi fa scrivere lo psichiatra. La chiama terapia.- rise –Guarda. C’è scritto cose che mi rendono felice: papà che mi chiama ancora Principessa.
-Siediti…
-Sento freddo.
-Hai un termometro?
-Termotrefo?- rise, ancora.
-Marzia.-, dissi in tono autoritario.
-Lì, nel cassetto, Monsieur.
Accesi l’aggeggio, le chiesi di alzare il braccio e lo posizionai. Atteso il tradizionale bip, lessi quello che mi stupì il giusto: 32º
-Vieni, ti porto all’ospedale.
La presi in braccio. Lentamente assumeva un colorito grigiastro.
Prendemmo un taxi. Spiegata la situazione al tassista, facemmo più in fretta possibile. Decisero di ricoverarla, comunicandomi che non potevo entrare nella sua stanza. Lo sguardo della dottoressa era chiaro, con una pacca sulla spalla mi rassicurò, dicendomi che tutto si sarebbe risolto.
-Signor Faggi, stia tranquillo. E’ quasi normale, da parte di un paziente del genere, una reazione così alterata. La morte è dolore. E non c’è un dolore facile.
 
 
E non c’è un dolore facile…

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Capitolo 8
*** Leaves ***


Chiesi alla dottoressa di farmi aspettare in sala d’attesa. Acconsentì, dicendomi che mi avrebbe certamente chiamato appena le cose si sarebbero messe bene. Questo significava aspettare in eterno. Perché quando il dolore è fuori e dentro, non esiste tempo, attesa. Ti senti solo congelato, nel suo caso era nel vero senso della parola. Avevo letto da qualche parte che l’ipotermia è anche la conseguenza di un elevato eccesso di alcol. Anche se non ho mai veramente capito perché, le persone, abbiano bisogno di alcol per festeggiare, buttarsi giù, dormire, essere se stesse. Io che ci lavoro continuamente a contatto, so che non ha valore. Che puoi pagare tutto l’oro del mondo, ma non ti servirà ad alterare la realtà che ti circonda. Almeno non nel modo che vorresti.
Avrei dovuto prenderla con più tragicità, ma mi ero presto arreso ai loro standard. Il che non era negativo. Semplicemente la terapia intensiva è una realtà dura, ma è l’unica che ti salva la vita. Così aveva detto la proprietaria del bar dell’ospedale, dove avevo preso il peggior caffè della mia vita. Ebbi giusto il tempo di restare con me stesso e ripensare a quanta forza avessi avuto – più di tutta la mia vita – nel compiere il gesto di salvarla, senza soffermarmi sul suo aspetto, che gridava amaramente morte e desiderio di fine. Ero arrivato in tempo, anche in anticipo. Non si era ancora immobilizzata del tutto.
La sala d’attesa era completamente vuota, nessuno era tanto matto da aspettare un processo che non finiva mai. Fui chiamato dalla dottoressa, ore dopo il mio arrivo in quel posto. Prima di entrare, mi riferì di dire subito a Marzia di non parlare: -Siamo dovuti ricorrere ad una ventilazione invasiva, quindi ha dei tubi che non solo che entrano dal naso, ma anche dal collo. Abbiamo dovuto somministrarle dell’adrenalina, per riattivare gli organi e le zone addominali che erano atrofizzate e in processo di disfunzione. Mi dispiace se parlo in modo incomprensibile, ma dal suo sguardo sono certa che saprà cosa fare.-
Ad un tratto tutti contavano su di me, come mai prima. Mi feci spazio tra la folla immaginaria che avevo bisogno di disegnare con la mia mente, per aumentare in me il desiderio di essere un eroe. Aprii la porta piano, poi corsi dentro, per vedere se stava dormendo. Mi voltai, la dottoressa mi fece cenno di parlare.
-Non dire niente, non puoi parlare adesso. L’ossigeno non passa dalle corde vocali.
Sentivo il suo respiro spaventosamente affannoso, mentre fissavo i tubi che le partivano da tutte le parti. Teneva il braccio disteso per far fluire il liquido che scendeva dalla flebo. Mi sedetti accanto a lei, stando attento a non pestare o schiacciare nulla. Le presi la mano, la strinse finché poteva.
-Starai qui per una settimana, poi ti porteranno in un centro. Verrò anch’io, con te.
Il suo sguardo era lo stesso, ma sapevo che questa cosa non le piaceva affatto. Era bianca e sembrava tremendamente magra, più del suo solito. Decisi di uscire, dato che l’aria e la luce non erano esattamente sufficienti lì dentro. Mi sedetti ad aspettare qualcosa, chissà cosa.
Si aprii la porta, davanti al mio sguardo sorpreso. Forse mi aspettavo sua madre o comunque il genitore di un paziente in fin di vita, con lo sguardo straziato e il male di vivere. Invece entrò una ragazza sui 17, con un vestito bianco, i capelli biondi, la pelle chiarissima e lo sguardo smarrito.
-Si riprenderà presto, vero?
-A chi ti riferisci?
-Tu non sei Lorenzo, il tipo nudo a casa sua?
Aggrottai la fronte.
-Tu come lo sai?
-Non era questa la mia domanda.
-Non so, certo che si riprenderà. Dovrei dirti il contrario?
Si sedette accanto a me, scrutandomi silenziosamente, si avvicinò al mio viso e sorrise.
-Sei proprio come lei.
-Chi sei tu?
-Piacere, Aurora.- tese la mano –Sono la ragazza di Filippo. Non sapevo stesse male, c’ho messo un po’ ad arrivare qui, da Milano.
-L’ha fatto altre volte? Intendo, di bere così tanto.
-Non che io sappia. Ha sempre preso bene qualsiasi tipo di contrattempo e non penso che adesso…
-Contrattempo? Ma l’hai capito o no che è morto suo padre?- mi alzai, andando alla finestra –Mah! Lo chiama contrattempo!
-Ti ricordo che io ho vissuto insieme a Filippo, questo momento. Non è bello svegliarsi di notte e scoprire una cosa del genere. Se consideri che dopo un evento così, il nostro rapporto cambierà... Inizieremo a stare di meno insieme…
-E ad ascoltare solo il silenzio, come se non ci fossero mai state parole. Lo so… Non intendevo giudicarti male. Ma non puoi capire la mia situazione. Ho dormito solo due ore questa notte, Marzia era ubriaca fradicia, è entrata in ipotermia, adesso è in terapia intensiva. E devo essere forte, per compensarla. Ma sono umano! Umano!
Mi sedetti a coprirmi il viso, per pudore. Lei mi poggiò una mano sulla spalla, delicatamente. Mi accarezzò la testa, dicendomi che le cose si sistemano, sempre. Sostituendosi, cambiando, ma non esiste una morte apparente, per l’anima. Ed è questo il lato positivo delle cose. 

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Capitolo 9
*** Neve e papaveri ***


Mi prese la mano delicatamente, facendo segno di alzarmi.
-Non puoi sempre stare qui, la tua permanenza non l’aiuterà a guarire.
-E dove dovrei andare? Dimmi.
Lei gesticolava molto, con le mani, con le braccia, tutto il suo corpo si muoveva per esprimere un concetto.
-Facciamo un giro. E non dirmi di no.
-E perché dovrei fidarmi di te?
-Di lei ti sei fidato.- rispose con uno sguardo molto poco raccomandabile.
-E Filippo…- tirai fuori il pacchetto delle Diana -…che tipo è? Intendo…quando ci siamo conosciuti, se così vogliamo dire, non abbiamo esattamente avuto il tempo e le circostanze pro, per parlare.
Sorrise.
-Cosa devo dirti? Tu come descriveresti Marzia? E’ difficile.
Accennai una risata nervosa: -Oh no…no, no, no. Allora è proprio di famiglia.
-Cosa?
-Questa cosa del divagare, rispondere con altre domande insostenibilmente retoriche.
-Sei proprio un poeta, Lorenzo caro.
La fermai, prendendole le spalle: -Marzia, esci da questo corpo.-
Tossì, per il fumo andatole in faccia. Frugò con la sua mano nella mia tasca, prendendo il pacchetto di sigarette.
-Te ne scrocco una?
-No, ma fai pure…
Camminammo fino ad un posto bianco e incredibilmente luminoso, un bar dal nome mistico. Qualcosa di cui ti dimentichi facilmente, insomma. Ci sedemmo in un angolo, come piaceva a me. Lei mi raccontò finalmente di Filippo, non scordando di citare il “com’era bravo a letto”. Da lì mi fu facile capire la sua età. I suoi lunghi capelli biondi facevano di lei una figura angelica, ciò che non era.
-Certe volte mi chiedo se le cose che faccio, o che dico, mettano in imbarazzo la gente che mi sta attorno.
-Tipo?
-Non lo so. Se io ti chiedessi di farmi le treccine, inevitabilmente rimarresti un po’, come dire, sorpreso. E’ una cosa stupida, intendo. Ma non lo diresti, no? Cioè, il fatto che le persone si vergognano di dire quello che veramente pensano.
La guardai stranito, attendendo che mi desse spiegazioni. Non accadde. Si guardava in giro, tenendo le mani congiunte fra le gambe.
-Aurora, ti dico io cosa penso. Penso che fino ad ora, a quanto pare, sono sempre stato chiuso dentro me stesso, o dentro un posto che non era fatto per me. E allora non ho mai visto le cose belle, non ho mai conosciuto le persone, non ho mi fatto cose per cui varrebbe la pena vivere. E sai un’altra cosa? Parlare con te, in questo modo, in questo momento, è la cosa più normale che io abbia fatto negli ultimi 3 giorni. Questa è una cosa stupida.
-Fa bene parlare di quello che abbiamo in testa, sai? A me piace parlare, mi piace tanto, ma ascoltare te sta diventando anche più appagante.
Quando non sai cosa cerchi, la risposta è il surrealismo che rompe la normalità. Quando credi che non ci sia niente, oltre quello che già c’è, hai bisogno di chiudere le orecchie per ascoltare te stesso. Non erano loro, a parlare di cose incredibilmente strane, ero io a non aver mai sentito le persone parlare. Per professione, impari a chiuderti in un guscio, per evitare di inserirti in discussioni che non ti riguardano, o finire in pasticci solo per aver espresso la tua opinione. Smettendo di ascoltare, dimentichi anche com’è avercela, una tua opinione.
Feci il gentiluomo, pagando quello che lei inizialmente voleva offrirmi. Uscimmo dal locale e le chiesi con un po’ di imbarazzo: -Aurora…tu, quanti anni hai?
-18, appena compiuti. Perché?
-E Filippo?
-Potevi dirmelo che volevi farmi la morale.
-Quanti anni ha Filippo?
-Ne ha 30.
-Bene.
-Non mi chiami “troietta”? Non mi dici che sono giovane e ingenua? Non mi ripeti dall’alto della tua maturità che dovrei pensarci a lungo?
-Mi hai preso per tuo padre, Aurora? Se dovessi dirti quelle cose, non uscirei nemmeno con te, sappilo.
Mi prese il braccio ridacchiando, io scossi la testa alzando gli occhi al cielo. Ora il mio dubbio era nei confronti di Filippo, che mi era sembrato una persona molto matura e diligente. Ma chi ero io, per criticare?
Tornammo in ospedale, io avevo una certa fretta di vedere le condizioni di Marzia. Era molto raro che facessero entrare qualcuno che non aveva nessun legame di parentela con il paziente, ma la dottoressa aveva seguito l’andamento delle cose e aveva chiaramente capito che avevo salvato la vita a Marzia e che, in un certo senso, avevo tutto il diritto di essere lì.
Nella stanza si sentivano solo i piccoli rumori delle macchine e il suo respiro affannoso, meccanizzato da un respiratore. Le presi la mano, che non era più così fredda, e guardai il suo corpo così magro e bianco. Pensai che qualcosa la dovevo pur fare, anche se quell’ambiente mi aveva sempre fatto tanta paura. Guardai Aurora, che stava in piedi con la testa appoggiata alla porta. Mi sedetti più comodo, per prendere familiarità con il posto, deciso a restare per almeno un paio d’ore. Presi un respiro e aprii la bocca, riflettendo un attimo.
-I used to live alone but I found you, so certain…- mi fermai a guardarla -...I’m yours to take…now I can’t wait…for all the mistakes we’ve yet to make…
Aurora sorrise emozionata e si avvicinò al letto. Sapevo che non avrebbe resistito alla tentazione di cantare: -…Now shake it up, baby, twist and shout…- sorrise -…we’re war-torn buildings all bombed out…Love, not unlike…
Le presi la mano e la feci volteggiare su stessa, cantando: -Won’t you come over and love me? Won’t you come over again?
 
-Quando potrò parlarle veramente?- chiesi alla dottoressa.
-Può parlarle sempre, anche mentre dorme. La sente lo stesso.
-Sì, questo lo so. Ma quando potrà rispondermi?
-Quando non avrà tutti quei tubi in gola, suppongo. Lei cosa ne pensa?
Avrei tanto voluto rispondere alla sua provocazione ironica, ma ero poco provvisto di sarcasmo e vitalità.
 
I giorni precedenti alla sua prima risposta positiva passarono velocemente. Mi aiutava il pensiero che la sua situazione non sarebbe potuta peggiorare. Le ore in ospedale a leggerle qualcosa, la sua lenta guarigione, la mia rapida rassegnazione e l’inizio di un’abitudine che sapevo mi avrebbe danneggiato, prima o poi; erano tutte cose che non mi lasciavano tempo di pensare alla mia vita, probabilmente un fattore positivo.
Il martedì della seconda settimana, mi diressi, come sempre, verso il suo reparto. Sorrisi all’infermiera, alla dottoressa e al resto del personale. Girando per i corridoi guardavo dentro le stanze, che brulicavano di malati terminali e di gente che si riempiva di false speranze. Come avevo fatto io, d’altronde. Arrivato alla sua stanza, attesi i soliti 3 secondi, prima di bussare inutilmente, dato che dormiva continuamente e non rispondeva mai. Aprii, entusiasmato da chissà cosa e, con mio enorme stupore, vidi che…la stanza era vuota. Vuota. Le lenzuola al loro posto, le flebo scomparse, insieme a tutte quelle enormi macchine.
Uscii fuori furioso: -Dove l’avete portata?
Incontravo i visi stupidamente sorpresi delle infermiere che evidentemente ritenevano più importante portare a spasso dei vecchi, piuttosto che dirmi dov’era finita.
-Dov’è?!- chiesi urlando alla dottoressa.
Controllò il suo fascicoletto: -E’ tornata a casa. Non glielo ha detto?
-No…- dissi deluso.
-Posso darle l’indirizzo, se vuole.
-Ce l’ho, l’indirizzo. Avete invece un telefono, in questo posto?
-Certamente, è al piano terra.
Scesi di corsa le scale e mi precipitai vicino al telefono. Composi il suo numero e, dopo pochi squilli, rispose, con la sua voce nuova come prima.
-Pronto?
-Marzia.
-Lorenzo.
-Non chiamarmi Lorenzo.
-Scusami.
Silenzio.
-Non posso continuare così, mi hai capito? Non posso sempre fare il cagnolino da passeggio, non posso continuamente assecondarti.
Silenzio.
-Perché non mi hai detto che sei tornata a casa?
-Perché non volevo venissi.
-Cosa?
-Mi scoppia la testa, Lorenzo, devo attaccare.
-No, parlo io adesso. Perché fai così? Perché illudi le persone? Perché non sai semplicemente riconoscere i tuoi limiti? Mi lasci qui, in un ospedale. Ho perso la mia dignità, ho perso la mia decenza. Ho passato notti e giorni a pensare a cosa avrei fatto per risolvere le cose, quando non dovevo e, peggio, non posso.
-Portami dei fiori, ti prego.
Sospirai un secondo.
-Che fiori desideri?
-Dei…- tirò su con il naso -…dei papaveri.
-Papaveri? Come faccio a portarti dei papaveri? Lungo il tragitto si…
Non ebbi tempo di finire la frase, che subito la signorina simpatica dell’altra volta, mi informò che avevo esaurito le monete.
Sapevo che il fioraio, una volta sentita la mia richiesta, mi avrebbe guardato terribilmente male. Così, sulla strada per tornare in centro, ne raccolsi alcuni e li tenni il più delicatamente possibile. Fermai un taxi e gli chiesi di mettere l’aria condizionata. Dopo avermi fissato, mi disse che questo avrebbe aumentato il prezzo. Annuii.
I papaveri arrivarono sani e salvi al tragitto. Presi le chiavi da dove lei mi aveva mostrato ed entrai.
Aveva i capelli lisciati, per la prima volta. Il vestito non le copriva abbastanza le gambe terribilmente bianche e magre, che la facevano molto più alta di quello che era. Mi invitò a sedermi sul divano, poi in silenzio mi prese dalle mani i fiori. Li avvicinò al suo viso, chiuse gli occhi e una lacrima scese lentamente. Li posò accanto a lei, poggiò la mano sul mio volto e baciò le mie labbra. Mi tenni rigido, poi mi lasciai andare al momento. Inizialmente, sapevo che non mi sarei concesso, ma mi lasciai coinvolgere e, nervosamente, le presi la testa fra le mani e la tenni vicina a me. Si adagiò delicatamente sul mio petto e singhiozzando disse: -Mi vergogno così tanto…-
-Ehi, è normale…normale, soffrire così.
-Mia madre mi ha guardata e con estrema tranquillità ha detto “c’era da aspettarselo”. Poi mi ha detto che sto esagerando, che parlerà con me solo quando avrò smesso di fare la mitomane.
-E’ proprio stupida, allora. Non ascoltarla, ok? Fai quello che ti senti.
Sorrise, asciugandosi il naso con il braccio.
-Non devi assecondarmi. Non è questo che farebbe mio padre, o mio fratello. Ecco, mio fratello. Anche lui sta molto male, però adesso devo fare la doccia.
-Cosa…che vuol dire?
-Vuol dire che lo chiamerai tu. Sì, devi chiamarlo per dirgli di venire a cena. E digli che porta anche Aurora.
-Ma io…- cercai di rispondere, mentre lei cambiava tranquillamente stanza. Presi il suo cellulare, per cercare il numero in rubrica, quando notai un nuovo messaggio. Non avevo alcun motivo di essere geloso o altre cose compassionevoli, ma ci stava che con aria furtiva cercassi di capire chi fosse questo certo ‘De Luca 2”, che le scriveva di volerla vedere il più presto possibile.
-Marzia! Qual è il numero di tuo fratello?
Da sotto la doccia, urlò: -E’ segnato in rubrica come De Luca!
Mi bloccai un attimo, aspettando che la voglia di prendermi a pugni passasse. Chiamai poi De Luca 2:
-Pronto?
-Filippo, sono…Lorenzo.
Pausa di riflessione.
-Ah! Lorenzo! Sì, sì. Ricordo. Dimmi.
-Ehm…Marzia voleva invitare te e Aurora a cena. Se non vi dispiace, rimarrei anch’io.
-Certamente! Parlavamo proprio di questo. Desidero vederla, dato che fino a ieri, ancora, ero a New York per lavoro. Ma non so quanto possa interessarti. Quindi, sì, dille che veniamo alle nove.
-Va bene.
-Ah, e dille anche di apparecchiare su in terrazza.
-Perfetto. A dopo, allora.
-A dopo.
Tirai un sospiro di sollievo, una volta scoperta – non che non mi fidassi – la vera identità di De Luca 2. E, a giudicare dal rapporto che Marzia e lui avevano, quello poteva solo essere il suo cognome.
Il nostro rapporto iniziava a farmi capire che tutte le cose di cui credevo di avere bisogno prima – come, ad esempio, la conoscenza del suo cognome – erano tutte cose che non mi servivano veramente. E che, in pochi mesi, poteva nascere qualcosa di già forte e saldo, forse più di quanto sapessimo.
Durante quella cena parlammo come se avessimo una scaletta, colma di argomenti da affrontare obbligatoriamente – uno alla volta, ma tutti obbligatoriamente. Discutemmo di questioni terribilmente stupide e di dilemmi paradossali e irrisolvibili.
Con lei riuscivo a dannarmi, senza cadere dentro la mia – a quanto pare – profonda anima. Come nella meditazione, riuscivo a conoscere me stesso solo se l’avevo accanto, solo se mi accompagnava. Per quelle poche volte in cui la nostra vita non cadeva nel silenzio, riuscivo a scoprirmi e avevo quasi raggiunto il punto in cui avrei detto “così può bastare, adesso costruiamo il futuro”. Una delle classiche frasi che progettavo di dire, quando ero al liceo.
Strano, per uno come me, aver frequentato il liceo classico. Il me attuale – insieme al me delle scuole medie – era convinto che il liceo classico fosse all’apice di una scala inventata dal nulla. Come il raggiungimento di un livello spirituale autonomo. La verità è che, nel mio percorso, avevo sempre cercato di decidere dove si fermasse la mia idea di perfezione. Così per gli scrittori, per i libri, per i cantanti, per il liceo, per l’università. Anche se un cantante non era entrato nelle mie grazie, sapevo che avrei dovuto – per un motivo che non ho mai compreso – reputarlo all’apice della mia scala. Bruce Springsteen lo era, sicuramente. Anche se di lui – con profonda vergogna, lo ammetto – sapevo canticchiare solo Born in the USA. Era comunque impossibile paragonarlo ad altri cantautori moderni, che mi facevano sanguinare i timpani. 

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Capitolo 10
*** Piacere, Marzia ***


In realtà, non è andato tutto così. Ci sono sfumature e angolazioni che Lorenzo non ha mai provato o provato a vedere. Col suo cinismo mediocre e la sua letteratura da italiano medio, non è riuscito ad andare oltre. E, da bravo uomo, ha parlato solo di quello che sentiva. Per carità, sarà pure un progresso, ma non ci si deve concentrare solo sulla propria psiche. Ho deciso che le cose devono andare per il giusto,  e che ognuno deve raccontare la storia per come l’ha vissuta. Così.
Quella notte avevo spento la mente, perché quello che c’era da programmare era già stato programmato. Sapevo che avremmo dormito insieme, sapevo che non mi sarei sentita più sola, sapevo che tutto si sarebbe risolto in un istante. Perché, sapevo, che nonostante il suo essere nullo, Lorenzo aveva la capacità di ricomporre i pezzi di me, come se fosse stata l’unica cosa che da sempre faceva.
Quella telefonata, era l’ennesima beffa degli dei e io non volevo concedermi.
Quell’attimo è stato mortale. Credo capiti più volte, nella vita, di morire. Capita perché il male fisico di un omicidio di carne, è paragonabile al male che l’anima prova dopo essere stata uccisa a parole, gesti, azioni. Sono morta tante di quelle volte e la gente ha sempre giustificato le morti con “è normale, chiude tutto dentro di sé”. Semplicemente si affidano troppo ad una scienza inesatta.
Quel grande dolore che non ho potuto dire. Le persone che mi conoscono credono non sia capace di amare, credono abbia in qualche modo dimenticato. Io tengo tutto dentro, più archiviato è, più lo ricordo.
Come il mio primo fidanzato. Un ragazzo normale, dal normale viso e la normale età. Ma che ricordo solo perché con lui feci per la prima volta l’amore. E’ fin troppo ipocrita per essere un ricordo che mi appartiene: le cose importanti vanno dimenticate, si sa. Avevo diciott’anni e niente andava bene nella mia vita. Si crede che ai diciott’anni, così, magicamente, si scopra di essere maturi: o per un foglio sporco di accademiche parole o per un altro foglio sporco di parole identificative. E’ ovvio quindi che la nostra vita non si debba affidare a fogli sporchi, ma ad anime pulite.
Ci affidiamo a ricordi che esistono solo perché noi lasciamo che esistano. Mi ricordo che mio padre diceva sempre una frase, prima di andare a lavoro: “ci vediamo martedì, alè!”. Non era così, ci saremmo visti alle diciannove di quella stessa giornata, ma era una frase che ripeteva sempre uno dei suoi conduttori preferiti, prima di chiudere il programma. Così era diventata quasi una tendenza, fra di noi. Nell’ultimo periodo, quello prima di andare a vivere da sola, mi diceva quella frase quando mi riaccompagnava a casa, da mia madre. In quel caso sì, ci saremmo rivisti solo martedì e la cosa iniziava a suonare triste.
Come dimenticare, poi, il modo in cui prendeva il ritmo delle canzoni, battendo le dita sulla mia gamba, in macchina. Da piccola era una cosa che odiavo, lo guardavo infatti in modo animalesco e lui continuava a farlo apposta. Da grande, poi, ero quasi io, a farlo. Soprattutto con I gotta feeling dei Black Eyed Peas.
Non mi mancava perché se n’era andato. Aveva sempre sofferto di cose che non avevo mai capito, quindi mi ero in un certo modo preparata. Ma ero enormemente offesa dal fatto che determinate cose, fra di noi, fossero finite da tempo. E che lui non mi avesse mai chiesto scusa per questo.
Non che avessi voluto sentirmi ancora una bambina, dopo tutto quel tempo. Ma è facile sedersi a guardarmi e dire “no, non ha sofferto per niente della nostra separazione”.
Io lo so che lui l’ha amata, mia madre. Lo so, perché le faceva vedere i suoi film preferiti, le faceva leggere dei bellissimi libri, le programmava un sacco di viaggi e di sorprese, dopo le quali diceva sempre “almeno una cosa mi riesce ancora bene”.
E dove si è perso, allora, l’amore? Su quale strada posso trovarlo e farlo fuori, prenderlo a pugni?
Ma nulla, ci son troppe cose di cui dovrei lamentarmi, troppe cose che mi hanno tolto, piano a piano, la vita. Cose che mi hanno fermato il respiro, che mi hanno rigirata all’interno, che mi hanno, ahimè completamente, annullata.
Sono questo, ora: silenzi e, dopo poche parole senza radice, altri silenzi. 

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