Lei ama lei

di olor a libros
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXV ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXVI ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Quando sei un adolescente non lo sai neanche tu cos'è che vuoi veramente.
Sai che c'è qualcosa che ti manca, ci deve per forza essere, perché non può essere tutto lì.
E allora ce l'hai con il mondo, perché non ti dà quello di cui hai bisogno; ce l'hai con l'universo intero, perché non ti capisce. Ma soprattutto, ce l'hai con te stesso.
E vivi con una perenne rabbia dentro, una rabbia che brucia ancora di più non trovando nessun bersaglio concreto contro cui scagliarsi.

    Quella mattina, invece, il mio odio era concentrato tutto contro un singolo ente, fin troppo concreto ed incombente: la scuola.
Già, era il primo giorno di scuola. Di quei piacevoli giorni che piombano nel mezzo di settembre e tirano una riga a penna sopra la parola estate.
Detto questo, non vi sarà difficile immaginare la furia che si riversò su quella sciagurata di una sveglia, che aveva la sfortuna di ritrovarsi il mestiere più gramo al mondo e di suonare troppo presto e decisamente nel giorno sbagliato.
Dopo qualche minuto, però, mi resi conto che uccidere la sveglia non avrebbe cambiato le cose - non avrebbe fatto tornare indietro le pagine del calendario, di sicuro non avrebbe impedito alla scuola di iniziare, e anzi avrebbe macchiato la mia coscienza di una terribile colpa di sveglicidio.
Decisi così di affrontare quella amara giornata e mi alzai dal letto sentendomi una grande guerriera del calibro di Xena. Con lo stesso spirito combattivo affrontai i miei capelli, che sono tutti ricci e si vogliono tutti molto bene, tanto che difficilmente lasciano che il pettine li separi anche solo per un secondo.
Quando i capelli erano più o meno pettinati e il pigiama era stato sostituito da un abbigliamento di quelli tipici da primo giorno di scuola - sapete, quelli che poi non ti vedranno più addosso per nessuno dei seguenti 199 giorni, - scesi di sotto.

"Buongiorno, Maya."
Il tono di mia mamma era quello che useresti davanti ad un enorme orso grizzly mentre lo preghi di non sbranarti.
Mi chiesi se facessi davvero così tanta paura. Finii per stabilire che sì, la mattina del primo giorno di scuola mia madre poteva benissimo avere paura di me.
Cercai di dimostrarle che non me la sarei presa con lei per la terribile sorte che mi toccava: mi sedetti al tavolo, le dissi il buongiorno più allegro che riuscii a tirare fuori e le feci addirittura un sorriso.
"Dov'è Simone?", chiesi.
"Ancora nel letto."
"Ci avrei scommesso."
Ridemmo tutte e due.
 "...Pa'?"
"Già al lavoro."
Ovvio. Quella era la norma. Mio padre usciva sempre di casa prima che noi ci svegliassimo, e tornava quando avevamo ormai già cenato.
Ma, sinceramente, a me andava bene così. Stavamo bene, noi tre. Anche se mio fratello diceva una parola ogni tre o quattro ore e mia mamma sclerava per le cose più stupide ogni tre o quattro minuti.
   Una crisi isterica stava ineffetti arrivando in quel preciso istante: la vedevo che apriva e richiudeva freneticamente i cassetti e sospirava ad intervalli sempre più vicini.
"Cos'è che non trovi, ma'?"
"Lo schiaccianoci."
"A cosa ti serve, ora, lo schiaccianoci?"
"A niente, ma non lo trovo e lo voglio trovare."
"Okay, vediamo... hai guardato nel frigo?"
Mi guardò perplessa ma andò comunque a controllare.
"Oddio avevi ragione, è qui!"
Non chiedetemi cosa ci facesse lo schiaccianoci nel frigorifero.
 Io stessa non mi feci domande. (A volte è meglio non farsele.) Presi la borsa che avevo preparato la sera prima e mi avviai verso l'ingresso.
"Ciao ma', io vado!"
"Buona giornata, Maya!"
Sì, certo.

Quando arrivai a scuola notai che erano tutti fastidiosamente allegri. Ma ero sicura che già dal secondo giorno la faccia da 'Odio la scuola odio tutto vi prego fatemi tornare in vacanza vi prego vi odio' avrebbe preso piede.
Per il momento, però, erano tutti impegnati a sorridere, salutare, chiedere Come sono andate le vacanze?, e sorridere.
Mi feci strada fra il mare di pacche sulle spalle e baci sulle guance e raggiunsi le mie amiche.
Eccole lì, tutte sorrisi, sempre uguali solo più abbronzate. Laura, Cristina e Alessia.
Ero felice di rivederle. Soprattutto Alessia. Lei era quella che mi era più vicina. Abbracciai lei e poi le altre. Quando la fila di abbracci fu finita, Alessia disse: "Allora Maya, come va?"
"E' una domanda retorica, Ale? Fra pochi minuti saremo là dentro!" - e indicai la facciata grigia della scuola.
Si misero tutte a ridere.
Poi improvvisamente sentii due mani sui miei fianchi che mi tiravano indietro.
Rivolsi un sorriso imbarazzato alle mie amiche e mi girai. Sapevo benissimo di chi si trattava: il mio ragazzo. Andrea.
Non chiedetemi cosa ci facessi fra le braccia di uno dei ragazzi più carini della scuola. Non lo sapevo neppure io. Era semplicemente... successo.
In realtà non è che io avessi mai provato niente per lui, ma sapete come vanno queste cose, quell'estate tutte le mie amiche erano fidanzate, e Andrea era stato tanto gentile con me...
E così, senza quasi neanche rendermene conto, mi ritrovai fidanzata anch'io.
   ... Se lo amavo? No, l'ho detto, l'avevo sempre saputo.
A dire il vero non sapevo perché stessi ancora con lui, pur senza amarlo. L'abitudine, forse?
O forse quella paura che sotto sotto abbiamo tutti, quella di rimanere soli. Brutta quella, eh? Se ti prende proprio forte è terribile, se ti fermi a pensarci, e allora arrivi persino a fare cose che non credevi di poter fare, come, guarda un po', stare con qualcuno che non ami.
      E ora lui era lì, davanti a me, e mi sorrideva guardandomi negli occhi.
"Ciao, amore.", disse.
"Ciao", risposi.
Poi mi baciò, e io mi chiesi cosa ci fosse di sbagliato in me.
Perché stavo baciando quel ragazzo biondo alto un metro e ottanta e non provavo un fico secco di niente.
E, per quel che ne sapevo, non era così che sarebbe dovuto essere.
  Ma ero brava a ricacciare certi pensieri in un angolino della testa.
Gli sorrisi, lo presi per mano, e ci avviammo verso il nostro primo giorno di terza liceo.
   
  E' incredibile come la scuola riesca sempre ad apparire immutabile, come se fosse l'unico punto fermo che sfugge ai moti dell'universo. Potresti dormire per cento anni, potrebbe scoppiare la terza guerra mondiale o una catastrofe di livello globale, con tanto di scenari apocalittici alla '2012', ma se, mettiamo, riesci a sopravvivere e rimetti piede dentro la scuola... non è cambiato niente, diamine. Lei è ancora lì, immutata. Con lo stesso identico odore di muffa, e ancora quella crepa sul muro del corridoio, e le fila di luci che pendono e quella misteriosa impronta di scarpa sul soffito che ancora non si è capito come diavolo sia potuta succedere una cosa del genere.
Così trovai la mia scuola, quella mattina. E devo ammettere che c'era anche qualcosa di rassicurante nel vedere che il tempo lì sembrava non essere trascorso, e l'estate forse non era mai esistita, e i banchi sembravano esser sempre rimasti lì ad aspettarti, così come anche i bidelli e i professori - tra l'altro, iniziavo a pensare che questi ultimi davvero se ne stessero rinchiusi tre mesi là dentro, per esser poi trovati da chi a settembre apriva le scuole.
Ad ogni modo. Ve l'ho detto che c'è un posto all'inferno riservato ai professori che sottopongono i loro test d'ingresso il primissimo giorno dopo le vacanze?
Be', ora lo sapete.
Nel mio caso il professore in questione era quello di storia. Si presentò in classe con un bel sorriso e disse: "Test d'ingresso!"
E un rumorosissimo "Nooooo!" si levò dalla classe.
Eppure lui continuò con il suo imperturbabile sorriso, distribuì i fogli e ci osservò mentre iniziavamo a guardare le domande con aria contrariata.
Cessate le lamentele, era calato un gran silezio: eravamo rassegnati.
Io risposi a quasi tutte le domande. Ovviamente ne lasciai in bianco un paio, perché dopo tutta un'estate non potevo proprio ricordarmi tutto quello che avevo studiato l'anno passato, ma tutto sommato non fu la tragedia che mi aspettavo. Forse quel test non avrebbe pregiudicato il mio intero anno scolastico.
I miei compagni invece sembravano disperati, tanto disperati che pensai che si sarebbero buttati dalla finestra - se la nostra classe non fosse stata al piano terra.
"Aiutami, Maya, ti prego", bisbigliò Alessia dietro di me.
Spostai un po' il foglio con aria disinvolta affinché lei potesse vedere. Ecco che riprendevamo la nostra tradizione: io che facevo i compiti e lei che copiava. Ma non mi dispiaceva, ero felice di rendermi utile in qualcosa. E' a questo che servono gli amici, no?
    Alla fine tutti consegnammo il test e passammo il resto dell'ora a chiacchierare fra di noi. Il bello dei primi giorni è che non si fa quasi niente.
La cosa migliore poi è quando c'è un nuovo professore e si fa uno di quegli stupidi giochini per "conoscersi meglio".
     La lezione seguente era quella di spagnolo, e avevamo appunto una professoressa nuova che chiese ad ognuno di parlare di sé - in spagnolo, ovviamente. Quando arrivò il mio turno dissi: "Mi chiamo Maya, ho sedici anni, un padre, una madre, un fratello... mi piace la musica, mi piace guardare serie televisive americane e mi piace leggere." Al mi piace leggere si sentirono diverse risatine, neanche a dirlo, perché si sa che ormai leggere è da sfigati. Ma feci finta di niente, mi limitai a maledirli tutti in segreto nella mia mente.
     Il giro continuò, uno per uno dissero tutti i loro stupidi hobby, e poi, finalmente, suonò la campanella. Intervallo!
Si fiondarono tutti fuori dall'aula. Alessia ed io rimanemmo sulla porta ad aspettare che le altre uscissero dalle loro classi e ci raggiungessero.
  Le vedemmo spuntare insieme in mezzo alla folla.
Mentre si avvicinavano Laura salutò freneticamente con la mano e Cristina urlò: "Ciaaaao!" con quella sua faccia paffuta tutta sorridente.
Quando furono finalmente davanti a noi, Alessia rise e disse: "Ragazze, sembra che non ci vediamo da una vita! Ci siamo viste poche ore fa..."
"Be', è normale essere felici," puntualizzai, "saremmo benissimo potute morire in queste poche ore."
"Hai ragione", dissero, ed ebbe inizio un resoconto di tutti i test d'ingresso, i discorsi dei prof. e le stupide attività che avevamo dovuto sopportare fin dal primo giorno.
  Alessia volle mostrare alle altre la nostra classe, anche se era esattamente quella dell'anno scorso. Continuava a parlare di tutte quelle sue nuove strategie che aveva escogitato per copiare ancora meglio.
   Poi uscimmo in corridoio. E lì la vidi per la prima volta.
Era in piedi vicino ad una finestra, sola. Non sembrava né triste né felice - piuttosto pareva assente, come se si trovasse in realtà da un'altra parte.
E, dannazione, era bellissima. Alta, magra, capelli biondi lunghissimi. Di quelle bellezze che ti fanno morire d'invidia quando le vedi passare per il corridoio.
   Eppure con lei era diverso, io non provavo affatto invidia; quel che provavo era piuttosto... non saprei, ammirazione?
La guardavo e tutto quello che riuscivo a pensare era: Cavolo, è bellissima.
La guardavo.
La guardavo...
Oddio, quant'era che la guardavo?
Mi accorsi che le altre avevano smesso di parlare.
"Chi guardi?", mi chiese Laura.
"Oh, no, quella..." mi sentivo stranamente a disagio. "Quella ragazza laggiù. Non l'avevo mai vista. E' nuova?"
Fu Cristina a rispondere: "Ah sì, è nella mia classe! Pare si sia trasferita dalla città... dovrebbe fare quarta, ma ha perso un anno."
"Sembra strana", si intromise Laura.
"Oh, lo è," continuò Cristina. Poi, a bassa voce: "Sapete, dicono che sia lesbica."
"Oddio.", disse Alessia.
"Oddio.", disse Laura.
"Ah.", dissi io.
Poi Laura concluse la questione con un: "L'avevo detto io che era strana", e passarono ad un altro argomento.
Io mi girai di nuovo verso la ragazza, e vidi che adesso era voltata e guardava fuori dalla finestra.

    Quella sera mio padre arrivò prima di cena. Era un avvenimento!
Sentii che posava le chiavi e diceva: "Sono a casa!", ma aspettai ancora un po' prima di uscire dalla mia stanza. Non avevo proprio voglia di andare di sotto.
Dopo qualche minuto, però, nostra madre con un urlo fece sapere a tutti noi - e probabilmente anche all'intero vicinato - che era pronto, e così pian piano mi diressi verso la cucina.
Erano già tutti lì. Mi sedetti anch'io al tavolo.
Mio padre chiese: "Allora, com'è andato il primo giorno di scuola?"
"Normale", risposi io.
"Uno schifo", disse Simone nello stesso istante.
"Bene", commentò mio padre.
E la conversazione finì lì.
   Mangiavamo tutti senza dire una parola, e il silenzio era tale che si sentiva il ronzio del frigorifero. Era snervante.
Nostra madre provò una volta o due a fare conversazione, ma questa si spegneva dopo due secondi.
Il rumore delle posate sui piatti mi infastidiva incredibilmente. Sentivo di essere sul punto di esplodere.
E intanto Simone se ne stava zitto a mangiare, e così anche nostro padre.
Alla fine mia madre si alzò di scatto e iniziò a fare la lavatrice con i suoi modi frenetici.
Io la aiutai, mentre mio padre si alzava e se ne andava nel salotto, probabilmente a leggere il giornale sulla sua poltrona preferita.
Mio fratello aiutò un po' in cucina e poi si chiuse in camera sua.
Che bella famigliola felice, pensai. E, non appena la lavatrice fu finita, imitai mio fratello.
     Chiusi la porta della camera e attaccai la musica al massimo, per cancellare tutto quel silenzio prima che mi inghiottisse.
Accesi il computer e andai subito su tumblr, e mi feci inghiottire anzi da lui.
Amavo tumblr, non era un semplice social network per me - era piuttosto un luogo virtuale dove si concentrava tutta la bellezza del mondo.
   Riemersi nel mondo reale che erano le nove. Avevo ancora qualche ora prima di dover andare a dormire, così decisi di farmi una maratona di Glee, la mia serie televisiva preferita.
Alla fine mi cambiai, peparai la cartella per il giorno dopo e la trascinai giù fino all'ingresso.
Mentre tornavo su passai davanti alla camera dei miei e urlai un "Buonanotte" attraverso la porta; lo stesso feci davanti a quella di mio fratello.
Una volta tornata nella mia stanza andai alla scrivania per spegnere il computer, ma finii per guardare ancora video su Glee, in particolare su una delle coppie principali della serie - composta, sì, da due ragazze.
Dopo qualche minuto, però, dissi a me stessa che dovevo assolutamente dormire se non volevo avere le occhiaie già dal secondo giorno. Così, anche se a malincuore, spensi il computer e mi diressi verso il letto.
     Non appena fui coricata sentii una tristezza che pian piano iniziava ad opprimermi e a pesare, come se avessi una pietra sul petto.
Si faceva sempre più forte mentre pensavo che era passato appena il primo giorno di scuola, e vedevo davanti a me tutti quei giorni che ancora dovevo vivere, ed erano un'infinità, ed era come se tutta la mia vita mi pesasse sul cuore, così ingombrante e pesante, ma allo stesso tempo vuota...
E riuscivo ora a distinguere proprio un vuoto, sotto il peso sul petto, più in giù verso le costole. Era un dannatissimo vuoto che mi faceva contrarre lo stomaco e sembrava volermi risucchiare. E non riuscivo proprio a spiegarmelo, era come se il mio corpo urlasse il bisogno di qualcosa che, per quanto mi sforzassi, non arrivavo ad identificare. Era un doloroso bisogno con un sapore agrodolce, come una tremenda nostalgia di una cosa che non hai mai visto né vissuto.
   Faceva male, non riuscivo più a sopportarlo.
Mi schiacciai un cuscino sulla pancia per cercare di riempire il vuoto, mi infilai le cuffie dell'ipod nelle orecchie per cercare di zittire i pensieri e, dopo qualche minuto, finalmente mi addormentai.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Il secondo giorno vidi di nuovo quella ragazza a scuola.
E lo stesso nei giorni seguenti, per tutta la settimana, ogni giorno era lì nello stesso posto in corridoio.
     E non me lo spiegavo, ma continuavo a pensare a lei. Chissà come mi tornava sempre in mente l'immagine di lei là, in piedi, immersa nel suo alone di solitudine e fascino.
Mi chiedevo quale fosse la sua storia, mi chiedevo se stesse bene, se potessi fare qualcosa per aiutarla.
  Anche quel giorno, nell'intervallo, era lì da sola. La guardavo da lontano e avrei voluto andare a parlarle, ma come ogni giorno temporeggiavo finché non finiva l'intervallo.
Non ero mai stata esageratamente timida, ma neanche ero la tipa che di punto in bianco riusciva ad attaccare bottone con uno sconosciuto.
E in questo caso lo sconosciuto era una ragazza che non sarebbe stato difficile immaginare in mezzo ad un folto gruppo di ammiratori, circondata da amichette-cagnolini e ragazzi con gli occhi a cuore e la bava alla bocca.
Mi chiedevo dove fosse finito il suo seguito. Probabilmente era rimasto in città, nella scuola che lei aveva lasciato. Lì sicuramente era popolare.
Forse il fatto era proprio che era nuova, appena arrivata, e i cagnolini ancora dovevano annusarla bene prima di avvicinarsi a farle le feste.
   Mi resi conto che poteva anche darsi che fosse proprio quella sua bellezza, quella sua aria di irrealtà, a far sì che gli altri si sentissero in soggezione e rinunciassero ad avvicinarsi.
   Poi, però, mi venne in mente un'altra possibile spiegazione: quello che aveva detto Cristina il primo giorno: "Dicono che sia lesbica."
Possibile che questa voce si fosse già sparsa per la scuola? E possibile che questo bastasse a mettere in ombra la sua bellezza e il suo aspetto da ragazza popolare?
Evidentemente sì. Ora che ci pensavo, questa voce su di lei - che fosse vera o meno  - le aveva già creato come una bolla intorno, che nessuno avrebbe mai attraversato  rischiando di diventare a sua volta parte del pettegolezzo.
Certe linee semplicemente non si attraversano. Non lo fa mai nessuno, e risulta poi chiara la lezione: è meglio che ognuno stia al proprio posto.
  Eppure a me questo pensiero dava sui nervi. Mi fece crescere dentro una vera rabbia e un odio per ogni singola persona in quella scuola. E la rabbia mi fece acquisire il coraggio che mi mancava.
Così, ops, attraversai la linea.
Attraversai il corridoio.
E mi fermai davanti a lei.
Lei si girò e mi guardò con due grandi e stupiti occhi azzurri.
Poi disse piano: "Ciao..."
"Ciao, mi chiamo Maya."
Subito si illuminò e rispose: "Oh, come quella di Pretty Little Liars?"
"Ehm... Già, sì, come quella di Pretty Little Liars."
"Quella che muore."
Lo disse con un sorriso.
"... Quella che muore. Bene."
"E' un bellissimo nome, comunque."
Sorrise di nuovo. Mi piaceva proprio, il suo sorriso.
"Un nome sfigato, pare."
"Oh no, non direi! Sai, Maya stava con Emily. Cioè, prima di morire. E... Se non è una fortuna quella!"
Non appena lo disse sembrò pentirsene. Guardò in basso, imbarazzata.
"Be' sì, Emily è... è davvero una bella ragazza."
Ero a disagio più di lei, e non sapevo neanche bene il perché. Cercai qualcos'altro da dire, ma la mia testa si era completamente svuotata. E la situazione si stava facendo davvero, davvero imbarazzante. Eravamo lì in mezzo al corridoio, una di fronte all'altra, mute.
Poi lei sembrò riprendersi, allungò la mano e mi disse: "Comunque, io sono Anna."
Le strinsi la mano e le sorrisi. "Oh, Anna, come quella di..."
Non mi veniva in mente nessuna Anna famosa, dannazione. "Uhm, Anna dai capelli rossi?"
Scoppiò a ridere. Aveva bella anche la risata.
Poi disse: "Io però sono bionda."
"Già. Allora, be'... Hanna di Pretty Little Liars senza l'acca. Lei è pure bionda."
"Perfetto, allora. Hanna senza l'acca. Andata."
Sorrise ancora una volta. Non so come facessero a dire che era scostante e antipatica. Io non riuscivo a non adorare il suo sorriso. Né a smettere di guardarlo.
Ineffetti, mi accorsi che la stavo fissando senza dire niente.
Per fortuna suonò la campanella.
"Va bene, torno in classe. Mi tocca. Ciao, Hannasenzacca."
"Ciao, Maya. Mi ha fatto piacere parlare con te."
    
Le seguenti due ore di lezione passarono più lente di una tartaruga zoppa, e in più non riuscivo assolutamente a concentrarmi.
Tre pensieri, principalmente, mi occupavano la testa: i novanta minuti di partita di calcio che mi sarei dovuta sorbire quel pomeriggio, dal momento che Andrea giocava e mi aveva esplicitamente chiesto di andarlo a vedere; lo strano - e adorabile - modo che aveva di sorridere quella ragazza misteriosa, Anna, che allargava la bocca mostrando i denti di sopra e strizzando gli occhi; e, infine, il minestrone che mi aspettava a casa quella sera.
   Tuttavia, quando avevo ormai perso le speranze, la campanella - Santa Campanella - mi fece la grazia di suonare.
Salutai Alessia - che era però impegnata in una conversazione con altre compagne su qualcosa come un nuovo tipo di smalto e mi fece appena un cenno - e uscii ad aspettare Andrea.
La sua classe era all'ultimo piano, infatti continuavo a veder fluire un fiume di persone cartella-dotate davanti ai miei occhi, ma di lui neanche l'ombra.
Passavano i minuti ed io ero ancora lì come un palo in mezzo alla corrente - e ineffetti rischiavo seriamente di essere travolta. Pregai che quel genio del mio ragazzo arrivasse prima che la gente mi buttasse a terra e iniziasse a camminare sul mio cadavere.
  Ad un certo punto in mezzo a tutta quella folla scorsi un viso familiare: era Anna, alias Hanna-senza-acca, alias modella misteriosa.
Anche lei mi vide e mi sorrise. Io sorrisi e la salutai con la mano.
Poi la persi di vista, perché nel frattempo Andrea mi era arrivato alle spalle e mi aveva afferrata  - una sua brutta abitudine che iniziavo a detestare.
Mi prese la mano e mi trascinò via.
"Su andiamo, che mi fai fare tardi!"
Mi liberai la mano, mi fermai e lo guardai con aria stupefatta.
"Stai scherzando? E' mezz'ora che ti aspetto!"
Lui rise. Poi mi riprese la mano e disse: "Va bene, scusa. Hai ragione. Però muoviti."
"D'accordo, prima si inizia prima si finisce."
"Stai dicendo che non ti piace guardarmi giocare?"
"Sto dicendo che guardare per più di un'ora un gruppo di ragazzi che perde i polmoni dietro un pallone non è esattamente al primo posto nella lista delle cose che vorrei fare. Sai, dopo un po' ci si potrebbe anche annoiare."
"Allora cosa preferiresti fare? Vorresti giocare tu?"
"Ecco, quello già sarebbe un miglioramento. Sai, è finita l'epoca in cui voi uomini vi divertite e noi donne stiamo a guardare."
Scoppiò a ridere. Aveva la risata da bambino, Andrea. Era un ragazzone con le spalle larghe e il quarantacinque di scarpe, ma quando rideva tornava ad essere un tenero bambino biondo.
     Arrivammo insieme al campo sportivo e lo guardai giocare, e mentre lo osservavo da lontano, io sugli spalti e lui laggiù in lontananza, ridotto ad un puntino, mi sembrava piccolo per davvero.
E mentre lo guardavo da lontano, io sugli spalti e lui laggiù, piccolo, pensai che in fondo gli volevo bene per davvero.
    Poi alla fine mi fece giocare sul serio, quando la partita era finita - aveva vinto, e io avevo anche urlato - e tutti gli altri se ne erano andati.
Avevamo il campo tutto per noi.
Lui stava in porta, io calciavo il pallone da una distanza di cinque metri e lui faceva finta di non riuscire a pararla.
Quando fu chiaro che lo stava facendo apposta mi seccai e gli tirai una pallonata dritta in faccia. Devo ammettere che rimasi anche soddisfatta della mia mira.
Poi però notai la sua espressione e mi misi a correre.
    Dopo qualche minuto di corsa disperata lungo il campo ero sfinita, e lui pure. Stabilimmo un armistizio. Lasciai che mi raggiungesse, sempre però pronta a scappare di nuovo.
Ma lui mi abbracciò soltanto.
    Gli volevo bene davvero. E maledicevo me stessa perché, cavolo, avrei voluto riuscire a volergi qualcosa di più che bene.
Avrei voluto amarlo, e non capivo proprio cosa me lo impedisse.
      
    Arrivata a casa salutai mia mamma e andai in camera mia a fare i compiti. Siccome erano solo esercizi non impegnativi finii abbastanza in fretta, così scesi a vedere cosa facevano gli altri componenti della famiglia.
Mio fratello nel frattempo era rientrato; lo trovai in salotto sdraiato sul divano a giocare ad uno di quei video-giochi in cui lo scopo principale sembra essere essenzialmente sparare a qualunque cosa dotata di movimento si trovi nella tua visuale.
Pur di stare un po' in compagnia mi sedetti sulla poltrona di fianco al televisore, mentre le urla e gli spari provenienti da quest'ultimo rischiavano di trapassarmi i timpani e farmi esplodere il cervello.
Guardavo mio fratello, che a sua volta guardava lo schermo, totalmente immobile e imperturbabile in quel pandemonio - eccezion fatta per le dita, che si muovevano come impazzite sul joystick.
Non si era neanche accorto di me. Figuriamoci.
  Dopo un po' lo spettacolo di mio fratello versione killer iniziò ad apparirmi seriamente inquietante. Smisi di guardarlo e lasciai che la mia testa si perdesse nei suoi pensieri, come un gatto che giocasse con il suo bel gomitolo tutto intricato.
   Fu la voce di mia madre a farmi tornare alla realtà: "Maya", mi disse, "visto che non stai facendo niente... mi aiuteresti con la cena?"
"Cosa ti fa pensare che io non stia facendo niente?"
Lei era già in piedi in mezzo al salotto. Mi rivolse uno sguardo eloquente, come a dire: Secondo te?
"Andiamo", ripresi, "è solo un'impressione! Vedi, ora a te da lì, dal di fuori, potrebbe sembrare che io non stia facendo niente. Ma in realtà, mamma, ti stupiresti della miriade di azioni che sto compiendo. Già solo per fare un esempio, sto respirando. E non così una volta ogni tanto, respiro in continuazione, vedi? E' un'attività che mi tiene molto impegnata. Oh, e poi il mio cuore, devo farlo lavorare senza sosta se non voglio morire. E sai quante cellule del mio corpo si stanno dividendo in questo preciso istante...?"
"Maya, finiscila.", mi interruppe.
"Milioni, mamma. Milioni."
"..."
"Okay, arrivo ad aiutarti."

Quando io e mia mamma avevamo ormai finito di preparare la cena - non prima, ovviamente, - ci raggiunse in cucina anche Simone. Il quale iniziò a divorare il suo piatto di pasta come se non mangiasse da mesi o tornasse, chessò, da una scalata dell'Everest. Immaginai che le due dita che muoveva mentre stava spaparanzato sul divano gli avessero davvero fatto consumare molte calorie, per cui giustamente ora aveva bisogno di un bel rifornimento.
Quel che mi faceva impazzire era il fatto che lui, pur mangiando come un tricheco, non ingrassasse mai nemmeno di un grammo.
E ineffetti dove i maschi mettano il cibo che mangiano sarà sempre un mistero per me  -  che abbiano uno stomaco con il doppio fondo?
   Eppure noi, noi ragazze? Noi dobbiamo stare sempre lì a preoccuparci del peso, a mangiare bene, a stare a dieta - non che io avessi mai fatto una dieta in vita mia, ma sapevo che la maggior parte delle ragazze si preoccupava di queste cose.
  In ogni caso, risolsi la faccenda con un mentale "Il mondo è ingiusto."
A cena finita mi tornò in mente il minestrone: mia mamma se l'era dimenticato. Ma non avevo nessuna intenzione di ricordarglielo. Le dissi che avremmo sparecchiato io e Simone, la scacciai dalla cucina, andai ad aprire il microonde, ed eccolo lì: il minestrone. In tutta la sua repellenza.
Lo tirai fuori e lo nascosi nel fondo del frigorifero. Forse sarebbe rimasto lì almeno per un paio d'anni. Soddisfatta, mi misi a fare la lavatrice cantando a squarciagola - perché sì, era una cosa che facevo.
Nel mentre mio fratello metteva a posto le cose, o almeno ci provava, anche se non sapeva quale fosse il loro posto.
"Ah, ti ho beccato!" gridai ad un certo punto.
Simone fece un salto e lasciò cadere quel che aveva in mano.
"Cosa c'è? Sei pazza? Mi hai fatto prendere un infarto!"
"Sei tu! Lo sapevo!"
"Sono io cosa?"
Scoppiai a ridere. Non riuscivo a parlare, stavo letteralmente morendo dalle risate.
Solo dopo un po' riuscii a dire: "Sei tu che metti il cavatappi nel frigo!"
E caddi per terra piegata in due, con le lacrime agli occhi e il male alla pancia a forza di ridere.
Quando guardai in su verso mio fratello vidi che era lì fermo e mi guardava perplesso, forse anche un po' risentito.
"Perché dove va, scusa? Non è lì che sta?"
Non ce la facevo più. Non gli risposi, non ne ero in grado. Ridevo ancora più forte, se possibile.
Lui si stufò, afferrò il rotolo di scottex lì vicino e me lo lanciò addosso. Poi uscì dalla cucina.
  Così rimasi da sola a finire di mettere a posto tutto. Ma, del resto, me l'ero cercata.

La mattina seguente la sveglia decise di non suonare. O forse ero io che l'avevo bellamente ignorata e avevo continuato a dormire.
Ad ogni modo, il risultato fu che mi svegliai alle sei e mezza e fui costretta a battere il mio record di preparazione super-rapida, impiegando in tutto cinque o dieci minuti.
Quando fui nell'ingresso, con il fiato corto e gli occhi ancora mezzi chiusi, mi fermai  un attimo per controllare di avere tutto a posto e non aver messo, nella fretta, una calza diversa dall'altra o la maglietta al rovescio o entrambe le cose.
E proprio allora mi ricordai del sogno che avevo fatto quella notte.
   Era tutto un po' confuso, ma mentre uscivo di casa ed iniziavo a camminare cercai di ripercorrerlo mentalmente dall'inizio, o almeno dalle prime cose che mi ricordavo.
C'era Andrea, all'inizio. Io ero con Andrea. E lui mi abbracciava, e mi baciava, e mi stringeva. E io correvo via. E correvo, e correvo...
Poi c'era come un buco, un tipico strappo nella tela dei sogni, e all'improvviso lo scenario cambiava, tornava ad essere come quello iniziale.
Solo che non ero più fra le braccia di Andrea.
Ero fra le braccia di...
Quella ragazza.
   Di colpo smisi di camminare. Mi fermai in mezzo al marciapiede.
Un signore che arrivava da dietro mi urtò una spalla e seguì oltre.
Io rimasi ferma ancora per qualche istante, mentre cercavo di dare un senso all'immagine che mi era appena tornata alla mente.
Cosa significa?, urlavo dentro di me. Cosa significa?!
    Significa che arriverò in ritardo, risposi a me stessa.
E iniziai a correre, e corsi più veloce di quanto avrei fatto normalmente in un'altra mattina di ritardo a scuola.
Perché in realtà non stavo correndo, stavo scappando.
Scappavo da un pensiero, scappavo da me stessa.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


"Stai bene, Maya?"
Era Alessia.
Mi accorsi che tutte le mie amiche mi stavano fissando. Eravamo in corridoio, c'era l'intervallo. Ed evidentemente loro avevano notato che la mia era una presenza solo fisica.
"Oh sì, sìsì! Perché?"
"Non lo so, sembri assente."
"E sei decisamente pallida.", continuò Cristina. "Sicura di star bene?"
"No no, cioè, sì, sto bene! Dev'essere la corsa che ho fatto stamattina, cavolo, rischiavo di arrivare in ritardo già a pochi giorni dall'inizio della scuola."
Iniziarono tutte a ridacchiare. Laura commentò: "Be', almeno ti tieni in forma!"
"Grazie, Laura," dissi, "ma sinceramente la ginnastica preferirei farla non di prima mattina." E poi aggiunsi: "... O anche mai."
"A proposito di ginnastica", si intromise Cristina, "la prossima ora noi abbiamo educazione fisica. Aiutatemi."
E qui iniziarono le frasi di consolazione, i commenti di solidarietà e le espressioni d'odio nei confronti di quella materia - che in verità io ritenevo la meno traumatica fra tutte.
Lasciai quindi che andassero avanti a parlare fra di loro, facendo ogni tanto cenno di sì con la testa per far credere che stessi seguendo. (Un po' come si fa con i professori, insomma. La tattica è quella.)
Tuttavia, ad un certo punto il discorso prese una piega che attirò nuovamente la mia attenzione.
Laura aveva chiesto a Cristina qualcosa come: "Quella ragazza... lesbica, per curiosità, voglio dire... si cambia nello spogliatoio delle femmine? Con voi?"
Prima che Cristina avesse tempo di rispondere mi intromisi io: "Certo, Laura, è una femmina. Quindi si cambia nello spogliatoio delle femmine. Dove dovrebbe cambiarsi, scusa?"
"No, è solo che..."
"Qual è il problema, Laura?"
Lei non diceva più niente, mi guardava solo in modo strano. Forse perché con lei non avevo mai usato un tono simile, così aggressivo. Ma, diamine, la stupidità di quello che aveva detto - e soprattutto quello che pensava - mi aveva fatto davvero innervosire.
Visto che lei sembrava non trovare più le parole, arrivò Cristina in suo soccorso con una bella argomentazione a suo favore: "Andiamo Maya, non fare la stupida, sai cosa intende. E ineffetti diverse mie compagne hanno detto che si sentono a disagio a cambiarsi di fronte ad un'altra ragazza che, appunto... sì insomma, a lei piacciono le ragazze, no?, quindi sarebbe come spogliarsi davanti ad un maschio, alla fine. Cosa diresti se da domani facessero uno spogliatoio unico sia per i maschi che per le femmine?"
Si misero tutte a ridere.
Io però non ridevo.
In quel momento le avrei mandate tutte al diavolo. Loro e i loro ragionamenti idioti.
"Cosa dovrebbe fare, eh? Dovrebbe cambiarsi da sola in un angolo della palestra? Vi rendete conto che è ridicolo, vero?"
Alessia disse: "Va bene, Maya, hai ragione", provando a tranquillizzare le acque e soprattutto me.
Io però non la ascoltai. Mi rivolsi a Cristina: "Di' alle tue compagne che possono stare tranquille: è lesbica, non una maniaca."
Lei rispose: "Okay, però stai calma. E poi scusa, ma a te che te ne frega?"
Io mi girai e tornai in classe.
Un attimo prima di varcare la soglia gettai uno sguardo verso il fondo del corridoio e vidi che la ragazza - Anna - guardava dalla mia parte. Sperai con tutta me stessa che non avesse sentito nulla di quel discorso. Il solo pensiero mi fece inorridire. Mi vergognavo per le mie amiche.
Ed ero anche molto, molto arrabbiata con loro. Da quando ci conoscevamo, ossia all'incirca tre anni, non avevamo mai discusso in questo modo.
Be', forse perché non le avevo mai contraddette in niente.
Ad ogni modo, per il resto delle lezioni non scambiai neanche una parola con Alessia.
E alla fine della mattinata me ne andai con Andrea senza aspettare nessuna delle tre.
       
La mattina seguente non mi era passata, ce l'avevo ancora con loro.
A dire la verità iniziavo a chiedermi perché mi sentissi offesa così sul personale, e se il senso di giustizia fosse il solo a muovere la mia rabbia. Eppure mi convinsi che quello era più che sufficiente.
    Secondo i vecchi piani quel giorno avrei dovuto pranzare con le tre dell'Ave Maria, ma ero abbastanza convinta che ora il piano fosse cambiato.
Con mia sorpresa, però, a metà della quinta ora mi arrivò un bigliettino da Alessia:
    "Scrivo a nome di tutte. Avevi ragione tu, scusaci. Per dimostrarti che siamo pentite abbiamo  invitato anche quella ragazza oggi a pranzo. Ci vediamo tutte fuori da scuola."
Sospirai, poi le passai a mia volta un bigliettino con su disegnata una faccina sorridente.
Lei da dietro mi toccò una spalla.
   
Quando suonò la campanella io e Alessia uscimmo da scuola e aspettammo gli altri davanti al portone.
Arrivò prima Laura, poi Cristina con Anna.
Ci salutammo, tutte un po' imbarazzate, e restammo in silenzio ad aspettare Andrea.
Con la coda dell'occhio vedevo che Anna ci guardava, prima una poi l'altra, chiedendosi forse chi stessimo aspettando ancora.
Probabilmente se ne accorse anche Cristina, perché le spiegò: "Dobbiamo aspettare il suo ragazzo" - e mi indicò con un dito.
"Ah, capisco", rispose Anna. Mi parve un attimo persa, ma poi sorrise.
     Finalmente arrivò Andrea. Salutò tutte, si presentò ad Anna ed infine mi diede un bacio sulla guancia.
"Bene, possiamo andare", annunciò Alessia.
     Dovemmo camminare parecchio prima di trovare un bar che andasse bene, perché in quello che avevamo scelto avvistammo, appena in tempo prima di entrare, dei nostri professori seduti ad un tavolino; così corremmo via immediatamente e scegliemmo il bar più lontano possibile.
Finalmente conquistammo il nostro tavolo, uno che fosse abbastanza grande per tutti e sei.
Buttammo per terra gli zaini e ci sedemmo, esausti.
Io ero seduta fra Andrea ed Alessia, di fronte a noi Anna, Laura e Cristina.
La parlantina di quest'ultima - che se carburata dal cibo diventava ancora più irrefrenabile - aiutò da subito a riscaldare l'atmosfera.
Persino Anna fu coinvolta nel discorso, resa partecipe dei commenti sui loro professori e compagni.
Le altre le chiesero poi come fosse la città. Lei all'improvviso si fece seria, ci pensò per un attimo, ed infine disse che c'erano aspetti positivi e aspetti negativi.
Quando le fu chiesto di essere più precisa, spiegò: "In citta c'è più gente. Tutta diversa. E ci sono quindi più probabilità di incontrare persone davvero cattive."
"Ma allo stesso tempo c'è anche più probabilità di incontrare belle persone", dissi io.
Lei mi guardò dritto negli occhi e mi sorrise.
"Sì, è vero."
Ci fu qualche istante di silenzio.
Poi Andrea le chiese: "E perché ti sei trasferita?"
Io mi sentii un po' in imbarazzo per questa domanda così diretta, ma dovetti ammettere che anch'io me l'ero posta diverse volte.
Prima di rispondere Anna fissò per qualche istante il mio ragazzo negli occhi. Il suo sguardo non era duro, era piuttosto... deciso, risoluto.
"Non mi trovavo bene nella vecchia scuola."
Risposta secca, che chiudeva il discorso.
 Mi affrettai a fare un commento sull'enorme hamburger che Cristina aveva fra le fauci.
"Ehi gente, noi ridiamo e scherziamo, ma nel frattempo c'è Cristina che si sta sbranando una mucca!"
Scoppiammo tutti a ridere, tutti tranne Cristina, che posò l'hamburger per farmi una linguaccia.
"Scusa, non volevo disurbarti", le dissi, "torna pure alle tue faccende."
Ridacchiò anche lei.
Il pranzo seguì in modo allegro e piacevole.
Solo ogni tanto guardavo Anna di nascosto e mi chiedevo cosa avesse dovuto passare di così brutto da costringerla a lasciare la scuola.
    
   Quando il pranzo era finito e ci eravamo ormai tutti salutati e divisi, lei all'improvviso mi corse dietro e mi chiamò: "Maya!"
Io mi voltai e lei si fermò a pochi passi da me, un po' affannata.
"Sì?"
 Mi sorrise.
"No scusa, è che ti volevo chiedere... ti andrebbe di venire a casa mia a guardare Pretty Little Liars? Visto che lo guardi anche te - ho capito bene?"
"Oh, lo guardo sì! E... certo, mi andrebbe senz'altro. Quando?"
"Non saprei, anche domani, se puoi..."
A quel punto si intromise Andrea: "No, domani non può. Domani deve venire da me."
Lo guardai stupita.
"Ah, davvero? Non lo sapevo!"
"Ora lo sai."
"Oh Andrea, piantala. Fai una cosa: avviati, che io ti raggiungo."
Lui andò avanti e si fermò pochi metri più in là, continuando a fissarmi e dondolare con aria impaziente.
Smisi di prestargli attenzione e mi rivolsi ad Anna:
"Domani evidentemente non posso, ma dopodomani sì. Va bene?"
"Sì, certo! Benissimo. Perfetto. Venerdì. Allora... puoi venire da me subito dopo la scuola, così... be', ma tanto ci vediamo domani."
"Già, sì, ci vediamo domani a scuola."
"Okay, allora a domani!"
"A domani. Ciao, Anna."
Sorrise.
"Ciao Maya."
Si voltò e io la guardai per un secondo mentre si avviava verso casa.
Poi raggiunsi Andrea di corsa.
"Alleluja!", disse lui iniziando subito a camminare.
"Andrea davvero, che problema hai?  Non hai fatto altro che cercare di metterla a disagio per tutto il tempo. Perché l'hai trattata così male?"
Lui rispose: "Perché ho visto come ti guarda."
"Cosa?"
Stupita, smisi di camminare.
"Te l'ho appena detto, non mi piace come ti guarda."
"Perché, come mi guarda?"
"Ti guarda come Winnie The Pooh guarderebbe un barattolo di miele."
Mi ci volle un po' per capire cosa intendesse.
"Oh andiamo, smettila di inventarti le cose." gli dissi poi, e ripresi a camminare.
Dopo una pausa continuai, ridendo: "E smettila anche di usare metafore così stupide."
"Scusami se io non ho otto di italiano, signora letterata."                              
"Scusami se i miei non mi facevano guardare i cartoni da piccola, signor Winnie The Pooh."
"Davvero?"                                                                         
"Cosa?"
"Davvero non ti lasciavano vedere i cartoni?"
"No, stavo scherzando. Era per dire."
"A volte ti odio."
"Anch'io."
"Però tutte le altre volte ti amo."
Per un attimo rimasi in silenzio, non sapendo cosa rispondere ad una frase del genere.
Sapevo che avrei dovuto dirgli qualcosa come Ti amo anch'io, ma non me la sentivo di mentire. Cominciavo ad esserne davvero stanca.
Quindi la buttai sul ridere.
"Oh, accidenti. Ti sei mangiato tutto il miele di Winnie?"
Per fortuna lui sorrise, mi prese la mano e proseguimmo senza più parlare fino a casa mia.
Lì ci salutammo e io salii in casa senza voltarmi.

Il giorno seguente vidi Anna come al solito nell'intervallo, solo che questa volta ci salutammo e lei si unì a noi quattro.
Stabilimmo che l'indomani sarei andata direttamente da lei dopo la scuola e avrei pranzato lì - non ci sarebbe stato nessuno a casa sua, così avremmo anche potuto mangiare davanti al computer.
   Quel pomeriggio, però, dovevo trascorrerlo con Andrea. E mi ritrovai incastrata in un qualche grandioso torneo con i suoi amici, tutti intorno alla playstation a giocare ad uno stupido gioco di corse automobilistiche.
Inutile dire che io andavo a sbattere ad ogni curva e alla fine feci perdere Andrea, che era in coppia con me. Ma ecco, la considerai come una mia piccola vendetta per avermi fatto sprecare un pomeriggio in modo così stupido.
   Poi arrivò il venerdì, finalmente.
Era un sollievo che la settimana fosse finita e in più mi aspettava un pomeriggio di Pretty Little Liars - in compagnia, per giunta! Finalmente avevo trovato qualcuno che mi potesse capire in fatto di serie tv.
     A dire la verità, a metà mattinata mi resi conto di essere anche un po' nervosa. Forse stavo dando davvero troppa importanza a quel pomeriggio, e in generale a quella ragazza che conoscevo da poche settimane.
    Arrivata all'ultima ora non riuscivo a pensare ad altro. Guardavo l'orologio appeso al muro e una parte di me cercava di spostare in avanti le lancette con la forza del pensiero, mentre l'altra parte aveva paura di vederle muoversi.
Mancava ancora mezz'ora.
La professoressa spiegava  e pian piano i miei appunti si trasformavano in scarabocchi al lato del foglio.
Senza neanche rendermene conto iniziai a scrivere delle ship - ovvero termini che indicano una coppia fondendo i nomi dei due componenti - e andai avanti fino a creare un vero e proprio elenco dettagliato e diviso per serie tv, coppie reali e non, ship già esistenti e ship inventate da me.
Provai persino a creare una ship per me ed Andrea, ma non ebbi molto successo: tutto quel che riuscii a tirare fuori fu Mandrea, Anya, o Andrya - niente di decente, insomma.  Conclusi che evidentemente i nostri nomi non erano compatibili.
Tornai ad ascoltare la lezione per i restanti cinque minuti, dopodiché la campanella suonò e il fiume di persone iniziò a riversarsi fuori dalla classe.
  Aspettai Anna in corridoio.
Mi si strinse lo stomaco quando intravidi un guizzo dei suoi capelli biondi farsi strada fra la folla. E non riuscii a trattenere un sorriso quando vidi spuntare anche il suo adorabile viso.
    Era incredibile come quella ragazza riuscisse a portarmi un'immediata sensazione di serenità, quasi come se la luce dei suoi capelli realmente illuminasse tutto ciò che la circondava, me compresa.
    Il suo sorriso rispose al mio.
"Ciao!", disse quando fu abbastanza vicina.
"Ciao", le risposi allargando ancora un po' le labbra.
Eravamo ferme in mezzo alla ressa, costrette a stare entrambe attaccate al muro e schiacciate fra di noi per non venire travolte dalla gente che passava.
"Credo sia meglio togliersi di mezzo, se vogliamo uscire da scuola vive."
"Oh, non voglio morire qui dentro. Ti prego usciamo", risposi.
E così facemmo.
  Lungo la strada verso casa sua Anna mi parlò di tante cose. Del passato, soprattutto.
Notai che la sua faccia si faceva cupa nel parlare della sua vita precedente, in città.
Spinta dalla curiosità, trovai finalmente il coraggio di chiederle cosa le fosse successo in quella scuola.
Lei disse semplicemente che la gente era stata cattiva con lei, che l'aveva fatta soffrire.
Poi non parlò più per il resto del tragitto.
Solo, ogni tanto mi guardava e sorrideva.
Arrivate al suo palazzo salimmo le scale due gradini alla volta - l'ascensore, disse, era quasi sempre rotto e lei si annoiava a salire gradino per gradino - e giungemmo sul suo pianerottolo con il fiato corto.
Anna tirò fuori le chiavi dalla borsa e, dopo diversi tentativi e qualche imprecazione, riuscì ad aprire la porta.
"Ta-dan!", canticchiò con tono ironicamente lugubre.
Mi tenne la porta aperta ed io varcai la soglia con lei.
La casa era buia e silenziosa, ma aveva un qualcosa di accogliente che mi fece sentire come se non fosse la prima volta che vi entravo.
Posammo le cartelle nell'ingresso ed Anna mi guidò verso la sua stanza.
Rimasi incantata davanti alla miriade di poster che ricoprivano completamente le pareti e perfino gran parte del soffitto.
"Credevo ti fossi trasferita da poco!"
"Oh sì, abbastanza poco... qualche giorno prima che iniziasse la scuola."
"E come fai ad avere già così tanti poster?"
"Ah, quelli... sì lo so, sono tanti. E' stata la prima cosa che ho sistemato, una volta arrivata qui. Ho rimesso tutti quelli che avevo per farla assomigliare un po' alla mia vecchia stanza. Vedi, infatti, ho lasciato persino High School Musical... che vergogna."
Risi davanti alla sua smorfia.
"Non ci credo, seriamente ti piaceva High School Musical? Quello con Zac Efron...?"
"Ebbene sì. Tutti hanno un passato oscuro. Questo è il mio scheletro nell'armadio: High School Musical!" Scoppiò a ridere.
Vicino ai poster di Zac Efron addocchiai alcune foto Glee, così le chiesi: "Ti piace Glee?"
Lei smise di ridere per rispondermi. "Sì, ma diciamo che mi piaceva di più prima... qualche anno fa lo seguivo abbastanza, ma ora a dire la verità non l'ho più guardato." Mentre parlava si sedette sul letto. Io mi sentivo stupida a rimanere in piedi, così mi sedetti su una sedia di fronte a lei. Intanto lei continuava a parlare, sempre più veloce. Era carina, era tutta presa da quel che diceva...  "Io lo seguivo più che altro per le Brittana, ma ora che le hanno fatte lasciare... al diavolo! Che poi diciamocelo, Glee non ha molta logica. Già solo... ecco, ad esempio, sono tutti lì che parlano, no? Tranquilli. Parlano. Poi da un momento all'altro che succede? Bam!, iniziano a cantare. Così. Di punto in bianco. E' vero o non è vero?"
Ci pensai un po' e poi risposi:
"Oh no, secondo me no, non è ver- It's not right, but it's okay, I'm gonna make it anyway!"
Scoppiò a ridere e urlò: "Esatto! Proprio così! Sono assurdi!"
Sorrisi. Io amavo Glee, ma ero la prima a sostenere che fosse quasi totalmente privo di logica.
E in più era bello fare ridere Anna, era una sensazione piacevole.
Così rimasi a guardarla mentre si copriva la bocca con una mano e sobbalzava per le risate.
Quando smise di ridere il silenzio si fece sentire per qualche secondo prima di risultare imbarazzante.
A quel punto Anna si alzò di scatto ed esclamò: "Ma noi siamo qui per un'altra serie! Giusto?"
"Giusto."
"Pretty Little Liars."
"Pretty Little Liars."
Si diresse verso il computer e lo accese.
"Da dove vuoi iniziare?"
"Uhm, non saprei."
"Dall'inizio? Guardiamo dal primo episodio fin dove riusciamo ad arrivare?"
"Ok, sì, l'inizio potrebbe essere un buon inizio."
Mi sorrise. Sperai non pensasse che quella volesse essere una battuta, perché sarebbe stata perfino al di sotto dei miei standard di disagio.
    Mise il computer sulla sedia dove ero seduta io prima, si accomodò sul letto e mi fece segno di sedermi vicino a lei.
Così feci, stando attenta a calcolare bene il punto esattamente nel mezzo fra 'troppo vicino a lei, imbarazzante' e 'troppo lontano, sembra che tu abbia paura di lei'.
La verità è che non era difficile stare con lei, a parte un normale imbarazzo iniziale che ci sarebbe stato fra chiunque, ed era facile dimenticarsi di preoccuparsi di cosa lei stesse pensando di me. Come mi vedesse, o se magari per lei certe cose, certi gesti, avessero un significato diverso, e se ci fosse una sorta linguaggio che io non conoscevo...
Bloccai tutti i miei pensieri quando mi accorsi della piega assurda che stavano prendendo.
Sei con questa nuova amica, Maya, questa nuova ragazza carina e simpatica, e sei qui per vedere un telefilm con lei. Tutto qui, mi dissi.     
Tutto qui.
    Siccome la puntata doveva prima caricare per qualche minuto pensai a qualcosa da fare nel frattempo, e me ne uscii con: "Ti dispiace se conto i tuoi poster?"
Si girò verso di me. "Cosa?"
"Posso contare quanti poster hai? Intanto che carica l'episodio?"
Mi guardò con un'espressione divertita, ma rispose: "Certo, fai pure."
Così mi alzai ed iniziai a contare - partii dal muro all'estrema sinistra, con metodo.
"Uno. Due. Tre. Quattro."
Facevo un po' per volta il giro della stanza, contando ad alta voce.
"... Cinquanta. Cinquantuno. Cinquantadue. Cinquantatré..."
"Io sono lesbica, Maya. Mi piacciono le ragazze."
La sua voce era arrivata dal letto, alle mie spalle, e suonava profonda e seria. Mi aveva preso alla sprovvista, decisamente. Mi fermai e pian piano mi voltai verso di lei.
Lei continuò, visibilmente in imbarazzo: "Mi sembrava giusto dirtelo, anche se forse lo sapevi già, perché dannazione lo so che le voci corrono, e quindi... o forse non lo sapevi, e..."
"Lo sapevo, lo sapevo."
"Ma non voglio che tu pensi..."
"Io non penso niente."
Sorrise un sorriso caloroso, e fu un sollievo per tutte e due.
Mi andai a sedere sul bordo del letto, all'estremità opposta alla sua.
Ci girammo in modo tale da essere una di fronte all'altra.
Poi lei iniziò a parlare.
Mi raccontò quello che aveva rimandato prima, in strada.
Disse che aveva una ragazza, là nella sua vecchia scuola. Stavano insieme di nascosto, nessuno lo sapeva. La ragazza era più grande di Anna di un paio d'anni.
Poi però la storia era venuta fuori ed aveva iniziato a girare di bocca in bocca.
L'altra ragazza aveva negato tutto e aveva completamente abbandonato Anna a se stessa.
L'aveva lasciata a sopportare da sola gli insulti, gli scherzi, le prese in giro.
In quella scuola Anna era diventata 'la lesbica' e tutti le rendevano la vita un inferno. Ogni giorno.
Finché lei non raggiunse il limite. Era arrivata ad un punto in cui non riusciva davvero più ad andare avanti, e la vita le appariva come un enorme macigno scuro e pesante, e le spalle le facevano male, non riusciva più a sopportare, non poteva più sopportare.
Sua madre la portò dallo psicologo, ma non era necessario il parere di un esperto per capire che Anna aveva semplicemente bisogno di una vita normale.
Per questo si trasferirono, per darle la possibilità di ricominciare da capo.
     "Voglio solo essere una persona come tutte, qui", mi disse. "Non voglio più essere 'la lesbica'."
 Si fermò un attimo a riflettere e poi riprese: "Ma non so quanto questo sia possibile.  Non so se cambiare semplicemente scuola possa essere una soluzione. Questa cosa mi seguirà. Finché continuerò ad essere me stessa..."
"Oh no ti prego, non pensarla così. E' triste, così."
"Cosa, è triste?"
"Che tu debba nascondere una parte di te stessa."
"E' l'unico modo che ho di sopravvivere."
Non sapevo più cosa dire. Questo discorso mi aveva reso incredibilmente triste.
E anche un po' arrabbiata, forse.
Restammo in silenzio per un po'. Anna passava il dito sulle decorazioni delle lenzuola.
"Sei stata la prima a rivolgermi la parola, a scuola. Gli altri mi ignoravano. Ma tu sei venuta da me e mi hai parlato. Perché? Perché sei così gentile con me?"
Cercai una risposta ragionevole, ma tutto ciò che trovai fu: "Perché non dovrei esserlo?"
Questa spiegazione sembrò piacerle. Strizzò gli occhi in quel suo buffo modo che aveva - sorrideva con gli occhi, lei, era meraviglioso.
Poi disse: "Ci siamo dimenticate una cosa."
"Che cosa?"
"Il pranzo."
Mi misi a ridere.
"Ah già, il pranzo. Cibo. E' vero che siamo esseri umani e abbiamo bisogno di cibo per vivere. A volte ci si dimentica."
"Ce lo siamo dimenticate. Sì. Penso che potremmo farci dei toast, giusto per essere sicure di sopravvivere."
"Va bene. Lasciamo che i toast ci salvino la vita."
Scendemmo in cucina, lasciando il computer sul letto - con l'episodio che ormai aveva avuto il tempo di caricarsi e scaricarsi e ricaricarsi almeno dieci volte.
Anna tirò fuori il tostapane e mise due fette a tostare.
"Wow, quindi sei una di quelle donne che sanno cucinare!"
"Be' sì, fin qui... i toast li so fare."
"Ammirevole. Davvero ammirevole."
Mi guardò per un po' cercando di capire se stessi scherzando.
"Dico sul serio! Io sarei capace di bruciare perfino dei toast. E magari potrei anche riuscire a far saltare in aria il tostapane. ... E la cucina."
"Okay Maya, forse è meglio se stai lontana dalla mia cucina."
Mi prese per un braccio e mi trascinò - con delicatezza - fuori dalla porta.
"Stai ferma qua e fai la brava, fra poco ti porto la pappa."
Risi, ma restai dove mi aveva messo.
"Guarda che alla fine rischi di bruciarli anche te, i toast."
Si affrettò a toglierli, appena in tempo. Li mise su due piatti, tornò da me e me ne porse uno.
      Mentre tornavamo su mi fece sapere che i suoi erano separati e sua mamma a volte trascorreva più giorni fuori casa per lavoro, così lei aveva necessariamente dovuto imparare un minimo a cucinare.
Mi venne in mente di chiederle come sua mamma vedesse il fatto che sua figlia fosse lesbica.
"Oh, a mia mamma non importa", disse lei, "non ha nessun problema al riguardo. L'unica cosa che la preoccupa è che questo possa farmi soffrire."
"Ed è così."
"Già. Un po'."
"Be', però sei molto fortunata ad avere una mamma del genere."
"E' verissimo. Ne sono consapevole."
   Arrivate in camera sua ci riposizionammo sul letto, con i piatti in mano, e iniziammo finalmente a guardare Pretty Little Liars.
Guardammo diversi episodi di seguito per circa tre ore.
La prima volta che comparve la mia omonima, Maya, Anna si girò verso di me e mi rivolse un sorriso ammiccante. Io ridacchiai.
Poi ci immergemmo completamente nella storia.
Gli unici momenti di imbarazzo arrivarono con alcune scene di una coppia lesbica - Emily e, appunto, Maya.
Mentre loro due, sullo schermo, si baciavano, io non riuscivo a non percepire l'atmosfera tesa che si era creata fra noi due - io ed Anna - lì, fuori dal computer, in quella stanza.
Era come se ogni cellula del mio corpo fosse in allarme e sparasse elettroni nell'aria che ci separava; e questi raggiungevano lei, rimbalzavano, e tornavano da me.
Non la guardavo, non ne avrei mai avuto il coraggio, ma sentivo con una nitidezza impressionante la sua presenza, la sentivo nel mio corpo, sentivo il suo ginocchio a qualche centimetro dal mio, anche se non mi toccava, lo sentivo come se fosse un pezzo di legno che andava a fuoco lì sul letto.
E mentre cercavo di ignorare tutta questa... situazione, mi chiedevo se fosse qualcosa che accadeva solo nella mia testa o se anche Anna ci fosse dentro.
Mi tornò in mente la prima volta che le avevo parlato, quando avevo detto qualcosa riguardo ad Emily e Maya e a come Emily fosse "una bella ragazza", e mi ricordai che in quel momento lei era a disagio tanto quanto me.
Ora guardai un po' verso la sua direzione, il più che riuscii senza dover muovere la testa. Arrivai a vedere le sue mani, notai che le teneva strette una dentro l'altra.
Ma non si muoveva, non sembrava nervosa.
Io ero confusa. Non riuscivo a capire. Non capivo neanche che cosa dovessi capire. Eppure qualcosa c'era. Era questo il problema, c'erano troppe cose tutte insieme, dai contorni indistinti, fusi fra loro, e allo stesso tempo non c'era niente, mi sentivo la testa bianca.
Bianca proprio bianca, vuota, come accade spesso nei momenti di improvviso imbarazzo, o, perché no, durante le interrogazioni.
   Per fortuna tutto questo avvenne nel giro di un paio di minuti.
La scena cambiò improvvisamente, spostandosi sul ritrovamento di un cadavere, così l'atmosfera intorno a noi tornò normale e l'aria smise di essere bollente.
I miei pensieri passarono ad analizzare il caso di omicidio, soffermandosi sul possibile movente dell'assassino, e infine mi portarono a promettere a me stessa che non avrei mai ucciso nessuno - cosa che credo sia fondamentale stabilire, per ognuno, senza darlo per scontato; e io non l'avevo ancora fatto, quindi quello fu il momento buono per farlo.
Mi chiesi anche se tutti quelli che andavano sempre in giro a dire di un altro: "Io quello lo ammazzerei", o cose così, lo intendessero poi davvero. Sperai che non fosse così, perché altrimenti avrei davvero avuto paura a girare per quel mondo pieno di potenziali assassini.
 Cercai comunque di tornare a concentrarmi sulla storia.
    Dopo circa mezz'ora, in una pausa fra un ennesimo episodio ed il seguente, ci accorgemmo che era decisamente tardi, quasi ora di cena.
Decidemmo di interrompere la nostra maratona per riprenderla un altro giorno.
"Così avrai una scusa per tornare qui", disse lei, scherzando.
"Oh, non mi serve una scusa. Voglio dire, non un'altra..."
"Un'altra?" Per un attimo il suo sguardo si accese, come se sapesse già cosa volessi dire.
Invece la mia risposta la spiazzò, senza dubbio.
"Sì, cioè, oltre al fatto che devo ancora finire di contare i poster."
       Quando uscii dalla stanza sentii uno strano senso di incompiutezza.
Eppure ero stata davvero bene quel pomeriggio. Glielo dissi. (La seconda cosa, ovviamente, la parte del sono stata bene.)
Lei sorrise, poi mi accompagnò alla porta.
Lì temporeggiò un attimo. Pensai che forse non sapeva come salutarmi. La capivo, anche per me un semplice Ciao era troppo poco.
Così la abbracciai.
Lei rimase un attimo sorpresa, ma poi mi strinse a sua volta.
Quando la salutai e le voltai le spalle provai un misto di emozioni che non riuscivo a decifrare, ma che decisi di riassumere dicendomi che ero davvero felice di aver fatto amicizia con una persona così speciale come Anna.
Scendevo le scale e sorridevo. Camminavo per le strade e sorridevo.
E, senza quasi neanche accorgermente, arrivai a casa. E ancora sorridevo.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Non appena aprii la porta mi arrivò la voce di mia mamma: "Dov'eri finita?"
Entrai e con calma chiusi la porta. Poi mi avviai verso la cucina.
"Sono a casa!"
Mia mamma aveva le mani immerse in un impasto di uno strano colore.
Si girò e commentò: "Questo lo vedo." Poi chiese ancora: "Dov'eri finita?"
"Ero a casa di quella ragazza nuova, te l'avevo detto."
"No, non me l'avevi affatto detto."
"Sì mamma, te l'avevo detto che andavo. Te l'avevo detto l'altro giorno. Non ti ricordi?"
Ci pensò un attimo.
"No... no, non mi avevi detto niente. Me ne sarei ricordata."
Eppure non sembrava così sicura come voleva far credere. Sembrava... sembrava persa.
"Va bene, allora me ne sarò dimenticata. Scusami. Comunque ero a casa di questa ragazza nuova della mia scuola."
"Come si chiama?"
"Anna. Interrogatorio finito?"
"Sì, d'accordo. La prossima volta però dimmi dove vai."
Gliel'avevo detto.
"Okay."
Mi guardai intorno. La tavola non era ancora apparecchiata, c'era solo una terribile confusione intorno ai fornelli.
Feci comunque un tentativo.
"Si... si mangia?"
"Oh, certamente", rispose. "Portami qua la mia bacchetta magica che ti cucino un pasto completo in dieci secondi."
"Dov'è?"
"Devo averla lasciata di là in corridoio. O altrimenti guarda sul sofà."
Corsi fuori dalla cucina, ma anziché cercare la bacchetta andai di sopra a chiamare mio fratello.
Quando riuscii a farlo schiodare dal computer tornai con lui in cucina.
"Non ho trovato la bacchetta", dissi, "ma in compenso ho portato due mani in più. Ora ne abbiamo..." - mi fermai un attimo a contare - "sei."
Mia mamma ci guardò entrambi e ci sorrise.
"Avevo iniziato a preparare un..."
"Ecco, appunto, mamma... che cos'è quel coso su cui ti stavi accanendo?"
"Un..."
Mio fratello aprì il frigo e urlò: "Pizza!"
Lei provò a dire: "Ma il mio..."
Io dissi subito: "Pizza."
Mio fratello mi diede il cinque. "Due contro uno, mà. Il tuo... coso lo mangerà papà quando arriva."
Mamma non ci rimase neanche tanto male.
La pizza accontentò tutti quanti. E' un potere che la pizza ha senz'altro.
A metà cena, inaspettatamente, arrivò nostro padre.
Entrò in cucina, salutò tutti e tre e mi diede addirittura un bacio in fronte.
Doveva essere particolarmente di buonumore.
Si sedette subito a tavola e io non trovai il coraggio di dirgli che a lui era riservato il coso.
Nessuno lo trovò, il coraggio, quindi scaldammo un pezzo di pizza anche a lui.
Mentre era intento a mangiare, decisi che era il momento giusto per declamare a tutti il mio grande successo: otto in matematica. Volevo che lo sentisse anche lui, per questo avevo aspettato a dirlo.
Mio padre alzò gli occhi dal piatto, mi guardò per qualche secondo, poi allungò il braccio verso di me e mi diede un colpetto sulla mano.
"Brava", mi disse. Abbozzò anche uno strano sorriso.
"Era facile", commentai.
La reazione di mia madre fu decisamente più calorosa: iniziò con una serie di "accipicchia", "complimenti!" e "mia figlia è un genio!".
Era abbastanza su di giri, continuava a fare sorrisi su sorrisi; in quel momento poi stava battendo le mani, con i ricci che ondeggiavano seguendo i movimenti della testa.
Sospettavo che fosse perché, per una volta, suo marito era arrivato quando non avevamo ancora finito di mangiare. Non essendoci abituata, per lei era un po' come uno di quei pranzi di famiglia tipici delle festività, dove si riuniscono parenti che non si vedono da dieci mesi e bisogna per questo fare una buona impressione. E così mia mamma sembrava fare del suo meglio per mostrare a mio padre che era felice. O lasciargli credere, quel che si voglia.
I suoi sorrisi finti, a dire la verità, mi riempivano di una terribile tristezza.
Misi fine al teatrino dicendo che dovevo ancora fare i compiti, così - "Oh no, non sia mai, i compiti prima di tutto!" - fui libera di ritirarmi nella mia stanza.
Appena mi fui chiusa la porta alle spalle scoppiai a ridere, da sola, in piedi nella camera vuota. Mi compiacevo della mia genialità: nessuno della mia famiglia aveva considerato il fatto che era venerdì e, non andando io a scuola il sabato, non avevo assolutamente nessun compito da fare per il giorno dopo. Gliel'avevo fatta.
Se avessi avuto ancor meno dignità di quanta me ne rimanesse mi sarei battuta il cinque da sola. Decisi però che potevo risparmiarmelo.
Mi buttai a sedere sul letto e rimasi immobile per qualche secondo, fissando il muro davanti a me.
Poi tirai fuori il cellulare e vidi che avevo due chiamate senza risposta: era Andrea.
Mi toccava richiamarlo, per forza.
Rispose al secondo squillo.
"'More?"
"No, lamponi."
"Maya?"
"Sì?"
"Cosa... cosa? lamponi?"
"Tu hai detto more, io ho detto lamponi."
Sentii che sospirava, ma sapevo che stava anche sorridendo.
"Ma per favore, era 'more, amore..."
"Ah!", mi finsi sorpresa "Ah, okay! Okay. Ciao 'more amore."
"Ciao. Come va? Ti avevo chiamata un po' di volte oggi, mi stavo iniziando a preoccupare."
"Certo. Scommetto che invece te la stavi spassando. Ma comunque, lo sapevi dov'ero."
"Sì, appunto per questo ero preoccupato."
"In che senso?"
"Nel senso che..."
Lo interruppi. "Lascia stare, non voglio saperlo. Tu? Come va? Alla fine l'interrogazione di storia com'è andata?"
"Una merda."
"Ah-ah-aah, non dire parolaccie al mio cospetto!"
"Non è una parolaccia."
"Non dire volgarità al mio cospetto!"
"Non sono al tuo cospetto."
"Sei al telefono con me. Tecnicamente... è vero, hai ragione. Facciamo che non dici parolacce e basta, okay? Non lo voglio un ragazzo maleducato."
Mi divertivo a sgridarlo, mi divertivo un mondo. Povero Andrea.
"Alessia Cristina e Laura mi hanno detto di chiederti se domani vai con loro a fare shopping."
"Non cambiare argomento.", lo rimproverai. Ma subito dopo aggiunsi: "Hai detto shopping?"
"Sì, mi sembra di averlo detto."
"Io odio lo shopping."
"Lo so."
"Uffa."
"Già."
"Va be', mi sa che devo andare."
"Ah d'accordo, allora ti lascio."
"No non intendevo... cioè, devo andare domani, con loro! Non che devo staccare il telefono."
Silenzio per un secondo.
"E io intendevo che ti lascio andare, domani con loro."
"Ah!" - silenzio - "Ah ok." - silenzio - "...aspetta, stai mentendo. Non è vero che intendevi quello."
Rise. Ci avevo azzeccato.
"Mi hai scoperto."
"Quindi eri tu che non avevi capito. Ed eri quasi riuscito a far passare me per quella che non capisce."
Continuò a ridere senza rispondere.
"Va bene, ora comunque devo staccare davvero. Sono sfinita. Ci sentiamo domani?"
"D'accordo."
"D'accordo. Ciao lampone."
"Ciao mora."
      Staccai il telefono dall'orecchio e guardai mentre lo schermo tornava nero.
Quando si fu spento alzai lo sguardo e mi resi conto che era diventato molto buio. E c'era silenzio, tanto silenzio.
Un improvviso senso di tristezza e malinconia mi si attaccò addosso e penetrò fin nelle ossa.
Acciuffai il computer, me lo misi sulle gambe appoggiandomi con la schiena al muro, mi scelsi la canzone più triste fra le canzoni tristi di Taylor Swift e mi infilai le cuffie.
Poi aprii tumblr, e mi sembrò di tornare a respirare.
Passai diverse ore così, con tumblr e la musica nelle orecchie.
Infine mi addormentai con le braccia strette intorno alle gambe e la testa appoggiata sul letto vicino al computer.

Al mio risveglio ovviamente avevo la schiena tutta dolorante e non mi sentivo più il collo.
Vidi che mi erano già arrivati parecchi messaggi dalle mie amiche. "Ci vediamo all'una, ok?", dicevano.
Guardai l'ora. Era l'una meno dieci.
"Ok arrivo.", scrissi.
Come no. Sono già lì, praticamente.
Con calma mi decisi a tirarmi su dal letto, presi qualche vestito quasi a caso dall'armadio e mi trascinai nel bagno.
Un quarto d'ora dopo uscivo dalla porta di casa.
"Dove sei?", continuavano a chiedermi. "Quasi lì", rispondevo da mezz'ora.
Alla fine riuscii a raggiungere il centro commerciale - l'unico del paese, nonché mio nemico giurato.
Laura e Alessia erano nel negozio di scarpe. Cristina era andata a fare la pipì.
Quando tornò anche lei ci spostammo nel negozio a fianco. E poi in quello ancora dopo.
E via così, per due lunghe ed interminabili ore.
Le mie amiche adocchiavano ora un vestito ora una borsa, e diventavano sempre più eccitate.  E più loro si eccitavano, più io mi facevo insofferente e seccata.
Per tenermi buona acconsentirono ad accompagnarmi nel negozio di libri al piano di sotto.
Non mi sembrava vero.
E infatti quando avevo dato appena un'occhiata a due libri loro già mi stavano trascinando fuori.
Volevano andare nel negozio di cosmetici, non erano andate nel negozio di cosmetici, "ti prego Maya non possiamo non andare al negozio di cosmetici".
"E andiamo in questo negozio di cosmetici!"
E quindi un'altra mezzora buona la passarono a provare orrendi rossetti e ombretti di duemilaquattrocentoventisette sfumature diverse. Con la commessa poverina che correva loro dietro cercando di rimettere al posto giusto tutto quel che usavano. Provavo una sincera compassione nei suoi confronti mentre osservavo il bizzarro spettacolo da fuori la vetrina.
Poi invece non riuscii a trattenere una risata, quando la vidi sbuffare visibilmente mentre le mie amiche già correvano verso un altro stand.
     "Maya!", mi sentii improvvisamente chiamare da un punto non molto vicino, alle mie spalle.
Mi girai e subito mi spuntò un sorriso: era Anna, che veniva verso di me con aria piacevolmente sorpresa.
"Ciao!", esclamai.
"Cosa ci fai qui?", chiedemmo una all'altra quasi contemporaneamente.
Mi misi a ridere e lei fece lo stesso. Sembrava felice di vedermi, tanto quanto io ero felice di vedere lei.
"Okay, inizio io. Sono qua a fare shopping con Alessia, Cristina e Laura. Solo che loro sono... o almeno erano lì dentro a provarsi tutti i trucchi del negozio - ora poi potrebbero benissimo essere già dall'altra parte del centro commerciale, diventano degli animaletti incontrollabili in questi casi."
"Quindi ti stai divertendo, insomma."
"Oh sì, un mondo! E' una pacchia. Adoro fare shopping", dissi con una smorfia.
Mi sorrise.
"Tu invece che fai?"
"Oh, sono qui con mia madre. A fare la spesa. Ecco, vedi, quella laggiù è mia mamma."
Mi indicò una signora che in quel momento stava cercando di pagare alla cassa mentre parlava al telefono tenendolo con il collo.
Aveva i capelli scuri, tutto il contrario di quelli di Anna, questo lo notai subito. In più sembrava abbastanza giovane, doveva avere massimo quarantatré anni, anche se forse ne dimostrava ancor meno.
"L'ho lasciata da sola alla cassa, mi starà maledicendo."
"Sì, no, vai pure, tanto io mi sa che è meglio se torno dalle mie..."
"Dalle tue amiche che stanno arrivano proprio ora."
Mi girai e le vidi avanzare tutte e tre in fila, con i classici sorrisi luminosi da shopping ben stampati in faccia.
"Ah bene, eccole."
In breve ci raggiunsero, esuberanti e rumorose. Salutarono Anna con totale naturalezza, come se avesse passato l'intero pomeriggio con noi.
Subito però lei si scusò e disse che doveva tornare da sua madre.
La guardai correre da lei, e per un attimo mi parve che la madre stesse guardando me. Addirittura mi sembrò che mi sorridesse.
Ma non ne ero certa, la mia vista da lontano lasciava molto a desiderare.
    Tornai a rivolgere la mia attenzione ad Alessia e le altre. Erano tutte cariche di sacchetti e sacchettini, ne erano quasi sommerse. Ed ora anche loro iniziavano ad apparire un tantino stanche.
Forse lo shopping era finito, finalmente.
"Ora che si fa?", chiese Laura.
"Andiamo a farci un giro!"
"Andiamo al cinema!"
Erano già di nuovo tutte elettrizzate.
Io invece sentivo che non avrei davvero potuto sopportare oltre.
"Io passo, gente. Devo andare da Andrea."
      E invece me ne andai semplicemente a casa.
Nel farlo, però, avevo preso una strada diversa dal solito, allungando un po'.
L'avevo fatto per passare sotto il palazzo di Anna.
Senza sapere il perché avevo sentito il bisogno di andare proprio lì, lì e da nessun'altra parte.
Così avevo lasciato che le gambe mi guidassero e, una volta arrivata sotto la sua finestra, mi ero fermata  per un po' a guardare.
Non sapevo cosa stessi cercando. Non stavo affatto pensando razionalmente.
Poi avevo iniziato a sentirmi parecchio stupida, lì ferma sul marciapiede con le mani in tasca e il naso in su, e avevo ripreso a camminare.
    Ora ero sul mio letto, con ancora quel senso di tristezza che ormai si presentava ogni sera. Questa volta era accompagnato da una strana angoscia ed era ancora più forte, sembrava proprio volesse risucchiarmi.
Mi sentivo come se mi stessi dimenticando qualcosa, qualcosa di molto importante. E i polmoni mi si riempivano di terrore. Perché più ci pensavo, più...
Non riuscivo a... non riuscivo, non riuscivo a mettere a fuoco.
Niente.
Non capivo. Non me lo spiegavo. Non riuscivo a capire cosa ci fosse di sbagliato in me, da dove nascessero quei sentimenti che non riuscivo neanche a decifrare.
Mi stava venendo sempre più ansia.
Iniziai a respirare sempre più velocemente. Avevo paura.
Continuavo a respirare, più veloce ogni secondo, ma mi mancava il fiato, e pian piano tutto intorno a me sembrava sbiadirsi. Mi sentivo la testa leggera. Non riuscivo a concentrarmi su niente, non riuscivo a pensare assolutamente a nulla. E questo mi agitava ancora di più.
Mi ritrassi contro il muro, stringendomi tutta con le braccia intorno alle gambe.
Mi stringevo, mi stringevo, e speravo di non infrangermi in mille pezzi.
  A quel punto bussarono alla porta.
Chi diavolo era? Non bussava mai nessuno alla mia porta. Possible che proprio ora dovessero decidersi a presentarsi da me? A vedere se ero ancora viva?
Si dovevano essere ricordati della mia esistenza.
Peccato, momento sbagliato.
"Che c'è?!", urlai.
Per un attimo nessuno rispose.
Poi mi arrivò la voce di mia mamma, flebile, da dietro la porta.
"E' pronto, Maya."
"Non ho fame!"
"Dovresti venire lo stesso, facciamo cena..."
Aggiunse: "... c'è anche papà."
"Non me ne frega!"
Mi pentii subito della mia risposta.
Sentii i passi di mia madre che lentamente scendevano le scale.
Mi dispiaceva terribilmente.
Anche se in realtà, al diavolo!, mio padre non c'era mai, e ora cosa pretendeva? Non è che perché una volta ogni mille ricompare, allora dobbiamo tutti... dobbiamo tutti...
Presi il cuscino e lo lanciai per terra.
Rimasi qualche secondo a fissarlo.
Poi mi alzai e lo raccolsi. Lo rimisi sul letto, al suo posto.
Feci per asciugarmi le lacrime, ma mi accorsi che in realtà i miei occhi erano perfettamente asciutti. Non avevo pianto.
Okay. Ce la puoi fare, Maya.
Scesi di sotto, salutai mio padre, chiesi scusa a mia madre, e finsi qualche sorriso.

Il lunedì mattina, a scuola, c'era qualcosa di strano nell'aria.
In particolar modo nella mia classe.
Sembravano tutti interessati a me più del solito. Anzi, decisamente più del solito.
Decisamentissimo, se si considera che il solito era all'incirca uno zero virgola due di interesse. Non ero ancora etichettata come sfigata, probabilmente anche grazie ad Alessia, ma sicuramente non ero una che quando lei è assente lo si sente.
Quel giorno, tuttavia, sembrava proprio avessero un qualche buon motivo per continuare a fissarmi. E Alessia, la mia cara amica Alessia, mi dava proprio l'impressione di avere qualcosa da nascondermi.
Lei sapeva. Qualunque cosa fosse, lei lo sapeva. E non voleva che io lo sapessi.
Finalmente nell'intervallo riuscii a catturarla e prenderla da parte.
"So che mi nascondi qualcosa. Dimmelo. Non importa cosa sia, se non vuoi che ti strozzi con le mie stesse mani dimmelo. Grazie."
Lei rimase a guardarmi con un'espressione quasi spaventata.
Poi abbassò gli occhi.
Tornò a guardarmi per un secondo, ma di nuovo spostò lo sguardo.
Oh sì, mi stava decisamente nascondendo qualcosa.
"Non ti nascondo proprio niente, di cosa stai parlando?"
Certo.
"Certo, come no."
"Senti comunque non è niente di importante, voglio dire, è una cosa da niente, che ti importa, nel senso... cioè, non..."
"Ma appunto, ma allora dimmelo!"
"Qualcuno ti ha vista uscire da scuola con Anna, venerdì."
Risi. "Ah be', ma è solo questo?"
C'era un gran silenzio.
Mi guardai intorno. Nel farlo incrociai lo sguardo di un mio compagno dall'altra parte della classe.
Quello ne approfittò per urlarmi: "Che ci fai con la lesbica, Maya?"
E tutti dietro a ridere.
"Che ci fai con il cervello, Pietro?", ribattei.
Ancora una volta la classe rideva, ma ora rideva di lui. (A loro basta ridere, non importa di chi.)
Continuai un po' più piano, quasi fra me e me: "No, seriamente, a cosa ti serve? Cioè ti sei ritrovato con questo... con questo cervello, lì nella testa, e a cosa... cosa te ne fai?"
Di nuovo tutti a ridere.
Pietro mi guardava con un sorriso ebete, sembrava divertito. Contento lui.
Alessia, vicino a me, aveva negli occhi un misto di diffidenza e sollievo.
"Vado in bagno", le dissi.
Attraversai il corridoio e mentre passavo davanti alla classe di Anna rallentai un po' per cercarla con lo sguardo. Non c'era.
Proseguii senza fermarmi.
Raggiunti i bagni, mi sciacquai la faccia e mi guardai allo specchio.
Provai una sensazione strana, come se il volto che vedevo riflesso fosse quello di un'estranea. Ma durò solo un secondo.
Sentii poi dei respiri sommessi provenire dall'unico bagno chiuso.
Qualcuno lì dentro stava piangendo.
Mi avvicinai un po' alla porta. Non sapevo cosa fare.
Rimasi lì, ad aspettare.
Passò forse mezzo minuto.
    All'improvviso la porta si aprì, e la ragazza che era dentro mi venne quasi addosso mentre usciva. Dopo un istante di shock mi resi conto che era Anna.
La guardai, lei mi guardò.
Aveva il viso arrossato e gli occhi gonfi di lacrime, eppure continuava ad essere tremendamente bella.
"Che succede?", le chiesi quando riuscii a trovare la voce.
Lei non rispose. Continuava a guardarmi, e sembrava immensamente triste.
Inclinai la testa di lato, verso destra, come il tipico metodo di approccio dei bambini e come spesso mi ritrovavo a fare anch'io.
Lei tutto d'un tratto mi abbracciò. Mi buttò le braccia al collo, si aggrappò a me, e riprese a piangere.
Ora era lei che mi prendeva alla sprovvista.
Non sapevo cosa fare, se non stare lì e abbracciarla a mia volta.
Avrei tanto voluto trovare le parole adatte a consolarla.
Avrei voluto spazzare via le sue lacrime, e il suo dolore, tutto d'un colpo, e farla sorridere, e farla stare bene. Lo desideravo con tutta me stessa, in quel momento.
Eppure rimasi in silenzio. E, anzi, iniziai a piangere un po' anch'io, senza farmi sentire.
Mi staccai dall'abbraccio per asciugarmi le lacrime. Anna andò al lavandino e si lavò la faccia.
Poi tornò da me.
"Scusami", mi disse. La sua voce era ancora più dolce, impastata di lacrime, era la voce di una bambina piccola. "Non avrei voluto..."
Si coprì il viso con una mano. "Voglio dire, ormai dovrei esserci abituata!"
Io la guardavo. Guardavo i suoi occhi azzurri che dopo il pianto erano ancora più chiari, trasparenti, sembravano... sembravano liquidi, sembravano il mare.
"Cos'è successo?", le chiesi.
"Non hai sentito... non hai sentito quello che dicono? Non ne parlano anche da te?"
"Quello che dicono?" Mi tornò in mente perché ero venuta in bagno, tutto il ridicolo episodio. "Oh, sì. Quello che dicono. E'... è colpa mia."
"Colpa tua? Ma non scherzare. Ti abbiamo vista in giro con la lesbica!, ti diranno."
Mi feci una risata, di quelle risate isteriche post-pianto.
"E' vero? Ci ho azzeccato?"
"Sì, hanno detto praticamente così."
Rise anche lei. "Ci ho azzeccato."
Poi tornò seria.
"Mi dispiace, ora ho rovinato anche te..."
"Oh, ma per favore. Non ci pensare nemmeno, credi che io dia peso a quello che dicono? Non me ne frega proprio niente, sono solo degli stupidi. Non me ne importa, davvero, possono dire quello che vogliono." Feci una pausa. Guardai per terra cercando di trovare le parole per esprimere quello che volevo dire. "Ma so che per te non è così, per te è difficile. E lo capisco benissimo. Quindi questo non succederà più."
Sembrò rattristarsi. Ora anche lei guardava per terra. "Quindi non... non verrai più a vedere PLL?"
"No, assolutamente! Cioè, sì! Sì, vengo. Intendevo che non parleranno più di te, e di... e di me, questo  non succederà più. Non avranno più motivo di farti star male. Basterà non farsi vedere più insieme per un po' e tutti se ne dimenticheranno. Fidati."
Lei sorrise. Dio, i suoi sorrisi.
Aiuto. Cosa diavolo...
Tutta questa situazione...
E questa sensazione.

Dovevo andarmene, subito, per riuscire di nuovo a pensare.
"Bene, allora io vado."
"Sì, sì, anch'io... E grazie, Maya, grazie mille. Non ti immagini neanche quanto..."
"Non devi ringraziarmi. Non devi affatto ringraziarmi." Ora io esco... "Davvero, non devi per niente ringraziarmi." Lei forse è meglio se esce dopo un po'... "Davvero, non devi... vado. Forse è meglio se, ecco, aspetti un attimo prima di..."
"Sì, certo."
"Okay."
"Okay."
"Ciao."
Maya voltati ed esci di lì subito Maya girati e vai cosa diavolo stai facendo.
Mi voltai di scatto ed uscii dal bagno.
Tornai in classe e notai che erano già tutti ai loro posti. Dopo un po' notai anche il professore, già seduto alla cattedra. Evidentemente la campanella era già suonata, anche se non l'avevo sentita. Mi accorsi che ero rimasta ferma in piedi in mezzo alla classe.
"Con comodo", mi disse ironico il prof.
Io mi affrettai verso il mio banco, mi accasciai sulla sedia e feci un respiro profondo.
E per tutta l'ora continuai a fissare la lavagna senza realmente vedere un bel niente.

Il giorno seguente Anna non venne a scuola. E neanche quello dopo.
Poi tornò, ma in realtà non parlammo comunque più per tutta la settimana.
Il weekend lo passai con Andrea, e devo ammettere che mi divertii anche.
Ma con la domenica sera tornò anche la tristezza.
L'unico pensiero che mi rallegrava era quello di vedere Anna l'indomani a scuola.
E infatti la vidi. Ma fu questione di due secondi. Ci incrociammo nel corridoio e ci sorridemmo, tutto lì.
Sapevo che avrei voluto dirle tante cose, ma capivo cosa di preciso.
Avrei voluto chiederle come stesse, ma non trovavo il coraggio.
Non capivo come avessi potuto diventare una tale codarda così all'improvviso.
      
       Un giorno però la vidi proprio giù. Continuavo ad osservarla dal lato opposto del corridoio e notai come il suo guardo fosse spento. Ogni tanto qualche compagno andava anche a parlarle, ma appena questi se ne erano andati lei tornava a girarsi verso la finestra. E in quell'istante io vedevo che il suo viso aveva un'espressione afflitta, quasi... tormentata.
Mi si strinse il cuore. Non riuscivo a sopportarlo.
Tornai in fretta in classe e cercai un foglio. Lo strappai per farne una striscetta.
Mi sedetti un attimo a pensare. Poi scrissi: "Sorridi. Sei bella quando sorridi."
Piegai il foglietto. Lo strinsi nella mano.
E tornai in corridoio.
Per un attimo rimasi disorientata, non vedendola più vicino alla finestra.
Poi la vidi: stava venendo in qua, rientrava in classe.
Mi avviai verso di lei, facendo lo stesso percorso in verso opposto.
Quando ci incrociammo, una a destra e una a sinistra, le lasciai cadere il foglietto in tasca.
Senza respirare, proseguii fino ai bagni.
Una volta lì mi fermai con le spalle al muro, prendendo fiato, con il cuore che mi batteva più veloce di quello di un velociraptor.
Che cosa coraggiosa che avevo fatto!
Risi di me stessa, mi dissi proprio: Sei una deficiente.
Poi pensai ad Anna che - forse fra qualche minuto, forse fra qualche ora, forse proprio in quell'istante - apriva il foglietto.
E sperai che, nel leggerlo, sorridesse.

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


La risposta mi arrivò per mano di Cristina quel pomeriggio, mentre camminavamo tutte verso casa. Era un altro bigliettino.
"Anna mi ha detto di dartelo e non aprirlo, e così io ho fatto. Anche se devo ammettere che è tutto altamente sospetto.", aveva detto Cristina con una vocetta ridicola.
Mi ero limitata a guardarla facendomi una risata.
  Solo dopo aver salutato le mie amiche ed essere rimasta sola per l'ultimo pezzo di strada mi decisi ad aprire il biglietto.
Diceva soltanto: Domani pomeriggio a casa mia?
Mi si fermò il respiro. Mi ritrovai a sorridere senza motivo, da sola, per strada. Addirittura incrociai lo sguardo di un signore sul marciapiede mentre avevo ancora quel sorriso ben stampato in faccia, e questo fu davvero molto strano. Imbarazzante.
Ma ero felice. Semplicemente felice. Avevo una sensazione di... caldo, nel cuore.
Mi guardai intorno, restai ferma un attimo, poi iniziai a correre.
Tornai sui miei passi inseguendo Cristina, che ormai doveva essere già a casa o quasi.
La trovai poco prima di casa sua. Le arrivai dietro con il fiato corto, mancava poco che le andassi direttamente contro, lei infatti si spaventò non poco.
Mi guardò sconvolta.
Io iniziai a parlare a raffica con la poca aria che mi rimaneva nei polmoni.
"Ciao Cristina. Ciao. Puoi dire una cosa ad Anna da parte mia domattina appena la vedi? Te lo chiedo perché tu di sicuro la vedi, sei nella sua classe quindi la vedi, subito domattina  a scuola... devi solo dirle Okay, proprio okay, solo okay. Così: Maya mi ha detto di dirti okay."
Mi fermai un attimo e notai che continuava a guardarmi con gli occhi spalancati senza dire una parola.
"Te lo ricordi, cosa devi dirle? Okay. Solo okay. Riesci a ricordartelo?"
"S-sì..."
"Benissimo. Allora glielo puoi dire?"
"Okay."
"Sì infatti, okay."
"..."
"Okay. Bene. Grazie. Ciao Crì!"
"Ciao, Maya..."
Mi girai e me tornai sulla mia strada verso casa con passo allegro, come direbbero gli spagnoli.
Mi sentivo Cappuccetto Rosso che passeggiava per il bosco dondolando il suo cestino.
Avrei potuto anche arrivare a fischiettare, ma mi contenni.
   Aprii la porta di casa con ancora il sorriso sulle labbra.
Ma subito le urla che mi arrivarono da dentro lo fecero sparire.
"Mi sono rotto!"
Era mio fratello.
"Non parlare così a tuo padre!"
Tuo padre?
Mi affacciai in cucina ed effettivamente vidi che era già arrivato. Erano tutti e tre lì a litigare e urlarsi contro.
Mio padre era di spalle. Simone, di fronte a me, si accorse della mia presenza e mi rivolse uno sguardo sconsolato. Me ne andai prima che anche gli altri mi vedessero e finissi incastrata anch'io in quella discussione su chissà cosa.
Purtroppo però andai a sbattere contro una mensola ancora prima di raggiungere le scale. Tipico di Maya. Mia madre ovviamente sentì il colpo e mi richiamò indietro.
"Ciao Maya", disse. "Ti tratterrei a parlare anche te un po' con noi, ma c'è il tuo ragazzo che ti aspetta di sopra."
Il mio ragazzo?
"Oh, d'accordo. Allora... vado."
Mio padre non si era neanche girato.
Mentre salivo le scale provai a immaginare perché Andrea avesse deciso di farmi quella sorpresa e mi accorsi che non ero affatto desiderosa di vederlo. Non sapevo neanche perché, ma ero quasi infastidita.
Aprii la porta e lo trovai straiato sul mio letto.
Gli posai addosso la mia cartella, lui sobbalzò e si tirò su, facendo finire la cartella per terra a testa in giù.
"Come fai ad essere già qui?", gli chiesi dopo avergli dato un bacio.
"La vera domanda è come hai fatto tu a metterci così tanto!"
"Già, hai ragione. Sì, mi sono fermata un attimo... con Cristina."
Mi guardò per un secondo sorridendo, poi disse: "Vieni qui", allargando le braccia.
Io mi accomodai in braccio a lui, posando la testa sulla sua spalla. Rimanemmo per un po' così, forse mi addormentai anche per qualche minuto.
Quando riaprii gli occhi Andrea aveva in mano... il bigliettino, dannazione.
Sbuffai. Lui si girò.
"Ti è caduto dalla tasca."
Continuai a guardarlo in silenzio, senza dire niente. Speravo che la mia espressione fosse il più innocente e indifferente possibile, sebbene fossi infastidita dal vedergli in mano il mio bigliettino. E, chissà perché, mi sentivo anche un po' in colpa. Mi sembrava quasi di esser stata colta in qualche atto spregevole. Eppure non avevo fatto niente di male.
"Domani pomeriggio a casa mia?", riprese lui.
Glielo strappai di mano.
"Non l'ha scritto un ragazzo, puoi stare tranquillo."
Cercai di mostrarmi disinvolta, ma il risultato fu solo una risata decisamente poco credibile.
Perché mi vergognavo? Perché non riuscivo a guardarlo negli occhi? Cos'avevo da nascondergli? Niente, eppure...
Finimmo per litigare.
Iniziò a dire che il problema era proprio quello, che non gli importava se non era un ragazzo, anzi, lui lo sapeva chi aveva scritto il messaggio, era stata quella... troia, disse troia.
Subito gli tirai un pugno sulla spalla e mi alzai dal letto. Andai verso la porta e lo fissai piena di rabbia tenendomi la mano - mi ero fatta male io, mannaggia a lui!
Lui riprese il discorso, ora quasi urlando.
Voleva solo farmi aprire gli occhi, diceva, lo faceva per il mio bene, perché quella ragazza, va' a sapere quello che le sarebbe potuto passare per la testa, quello che avrebbe potuto fare...
"Tu domani col cavolo che ci vai", così concluse.
Restai ancora un po' a fissarlo, incredula. Poi presi la cartella, la svuotai dai libri e iniziai a riempirla con le cose che acciuffavo correndo per la stanza. Ci misi dei vestiti, dei libri, un pigiama e il cellulare. Andai in bagno e aggiunsi lo spazzolino e il dentifricio.
Quando tornai in camera mia per mettermi la giacca  Andrea mi afferrò per un braccio.
"Dove stai andando?"
"Via."
Sembrò calmarsi un attimo. Mi guardò con quei suoi occhioni da cucciolo bastonato.
"Ma se questa è casa tua. Me ne vado io, piuttosto."
"No, tu puoi pure restare qua. Fai quel che ti pare, insomma. Se vuoi sotto c'è qualcuno, forse quando avranno finito di litigare prepareranno la cena. Ma in ogni caso lo sai com'è il cibo di mia mamma, quindi vedi te quel che vuoi fare."
Feci per andarmene, ma lui ancora mi teneva per il braccio.
"Scusami. Mi dispiace.", disse. Sembrava sincero.
"Oh, al diavolo..." mi liberai dalla sua presa e corsi via.
Mentre passavo davanti alla cucina urlai: "Buon appetito!", poi uscii sbattendo la porta di casa.
Corsi fino a casa di Anna. Sapevo benissimo che lei non mi stava aspettando, ero stata invitata per il giorno dopo. Eppure non mi facevo domande, non pensavo a niente, correvo e basta.
Finché non mi trovai davanti al portone. Lì mi fermai. E rimasi ferma per qualche istante, chiedendomi cosa diavolo stessi facendo. Feci qualche passo indietro per guardare la finestra di Anna, che era illuminata. Chissà cosa sta facendo in questo momento, pensai.
Poi mi girai e tornai indietro.
Tornai da Andrea, che come immaginavo era rimasto a casa mia ad aspettarmi.
Aprii la porta della mia camera e lo trovai lì con un foglio con su scritto Scusa.
E facemmo la pace, e facemmo l'amore.

Il giorno dopo mi svegliai con un vuoto al posto del cuore.
Andai a scuola insieme ad Andrea, camminavamo mano nella mano.
Lui mi guardava e mi sorrideva, io lo guardavo e cercavo di ricacciare giù il senso di nausea che mi riempiva dallo stomaco ai polmoni.
C'era qualcosa che non andava, ma non sapevo cosa.
Le prime due ore di lezione le trascorsi scarabocchiando sui miei quaderni, finché suonò la campanella dell'intervallo ed uscii in corridoio con Alessia.
Lì trovai Andrea che mi aspettava. E' più appiccicoso del solito, mi ritrovai a pensare, ora viene anche nell'intervallo?
Alessia voleva "lasciarci soli", ma io la trattenni per un braccio. Iniziammo a conversare noi tre, ma io mi accorgevo che i miei occhi se ne andavano per conto loro. Ero appoggiata ad Andrea, con la testa sulla sua spalla, e facevo finta di ascoltare Alessia che gesticolava di fronte a noi.
Ad un certo punto vidi passare Cristina, così le feci segno - mi dovetti letteralmente sbracciare, perché non ci vedeva molto - e lei si avvicinò.
Stavo per chiederle se avesse riferito il messaggio ad Anna, ma per qualche motivo mi fermai.
Mi sentivo in imbarazzo a parlarne lì davanti a tutti.
Quindi lei rimase lì, unendosi alla conversazione ma continuando sempre un po' a lanciarmi occhiate perplesse, chiedendosi giustamente perché avessi quasi ucciso chi mi passava accanto per chiamarla se non avevo poi niente di particolare da dirle.
Io mi sentivo sempre più ridicola, tutta la situazione era in realtà completamente ridicola e insensata.
E non riuscivo neanche più a dissimulare con qualche battuta, dannazione! Cosa mi stava succedendo? Ero sempre così nervosa. Anche ora, mi dovetti staccare da Andrea per paura che percepisse la mia irrequietezza.
Misi le mani nelle tasche e continuai a sorridere, un po' annuendo alle parole degli altri e un po' guardandomi intorno.
In quel momento vidi Anna. Stava venendo verso di noi, ma poi vide che c'era anche Andrea e tornò indietro. O almeno così mi era parso.
Anche Cristina però doveva essersi accorta di questa sua strana manovra - o per lo meno l'aveva vista passare, - perché sembrò ricordarsi di quello che le avevo chiesto ieri.
"Oh!", esclamò, "Ecco cosa volevi chiedermi! Gliel'ho detto, ad Anna, tranquilla. Okay, le ho detto. Maya ti dice okay. Sono stata brava?"
Non potei fare a meno di sorridere di fronte alla sua tenerezza. "Sì, sei stata brava. Grazie mille."
"Okay cosa?"
Era Andrea, ovviamente.
"Niente. Okay che vado a casa sua oggi, semplicemente."
Lui si rabbuiò. "Quindi alla fine ci vai, eh?"
"Certo."
"Ci potete scusare?", disse allora a Cristina ed Alessia. Mi fece ridere, suonava come un personaggio di un film d'altri tempi.
Cristina disse "certo", Alessia disse "certo", ma Cristina continuava a rimanere lì di fronte a noi con la sua faccia tonda tutta sorridente. Finché Alessia non la prese per il gomito e la trascinò via.
Mi misi a ridere guardandole allontanarsi, poi mi girai di nuovo verso il mio ragazzo e gli rivolsi uno sguardo seccato.
Lui mi fissava senza dire niente. Evidentemente aspettava che dicessi io qualcosa, che mi scusassi, forse, ma non sapevo proprio di cosa mi dovessi scusare.
Poi si decise ad aprire bocca. "Ti avevo spiegato perché non volevo che ci andassi."
"Già, e neanche uno era un motivo valido. Perciò."
"Non puoi farmi questo favore? Non andare, che ti costa?"
"Ormai le ho detto che vado."
"Non importa, le dici che non vai più, le dici che..."
"Peccato, è suonata la campanella."
Mi girai per tornare in classe.
"Non è suonat-"
Suonò la campanella.
Gli rivolsi un sorriso alla che ti avevo detto?, lo salutai con la mano ed entrai in classe. Nel farlo andai a sbattere contro un mio compagno, ma sperai che Andrea non potesse più vedermi da dove era rimasto e che quindi la mia uscita trionfale non fosse stata rovinata.

Nelle successive ore di lezione continuai a ripensare a quella seconda quasi-litigata, ma non mi pentii di esser stata così irremovibile né cambiai idea sull'andare o meno da Anna.
Eccome se ci sarei andata! Era l'unica cosa che mi consolava in quel momento.
Avevo bisogno di stare un po' lontana da Andrea, avevo bisogno di riflettere, avevo bisogno di... di qualcosa. Qualcosa di non bene identificato, ma che certamente non sarebbe arrivato da lui.
Così quando suonò l'ultima campanella mi precipitai fuori da scuola e mi misi ad aspettare appoggiata al muro. Iniziai ad osservare tutti quelli che mi passavano davanti chiedendomi cosa avessero di importante nello loro vite, quale fosse la cosa che amavano di più, la persona che amavano di più, quali segreti nascondessero dentro di loro, sotto la giacca, e quali ferite invisibili bruciassero sui loro polsi.
Gli occhi persi in quel flusso di persone, mi dimenticai di me stessa per qualche istante.
Poi però dei capelli biondi che ben conoscevo catturarono la mia attenzione.
Lei mi vide, ma non si fermò.
Oh, giusto. La farsa del non ci conosciamo non sto andando a casa sua non stiamo uscendo da scuola insieme.
Mi gettò un'occhiata.
Io non mi mossi, mi limitai a seguirla con lo sguardo mentre svoltava l'angolo.
Dopo qualche secondo mi staccai dal muro e seguii i suoi passi.
Girai anch'io l'angolo e la vidi là, un po' più avanti, che camminava sola senza girarsi indietro.
Il vento le faceva volare indietro i capelli, ma il resto della sua figura avanzava sicuro e attraversava la folla come uno scoglio in mezzo all'oceano.
Continuai a seguirla in silenzio, da lontano.
Sapevo che era stata una mia proposta, ma tutta questa messinscena iniziava ad apparirmi davvero esagerata e ridicola.
Ma comunque, se serviva a tenere al sicuro Anna...
     Quando ci eravamo lasciate la scuola alle spalle ormai da qualche minuto e non si incrociavano più ragazzi con la cartella, corsi fino a raggiungerla.
"Ciao", mi disse lei sorridendo.
"Ciao", le dissi io. Sorridendo.
E continuammo a camminare in silenzio, una di fianco all'altra, con le spalle che ogni tanto si toccavano.
    Davanti alla porta di casa sua si fermò per dirmi che c'era sua mamma, che avrebbe mangiato con noi ma sarebbe andata a lavorare subito dopo. Quindi bussò e la signora mora del supermercato arrivò ad aprire la porta.
"Ehilà!", esclamò, tutta sorridente. Mi osservò un attimo. "Tu sei Maya, giusto?"
"Sì signora", risposi. Poi, più piano, rivolta verso Anna: "Come quella di Pretty Little Liars."
"Quella che muore", continuò Anna ridendo.
La madre, ancora ferma in mezzo al vano della porta, rivolse qualche occhiata prima a me e poi a sua figlia. Dopo aver stabilito chissà cosa nella sua testa finalmente si spostò e ci fece entrare.
     Il pranzo iniziò in silenzio. Odiavo mangiare di fronte ad altre persone, soprattutto se non le conoscevo bene. Mi sentivo in imbarazzo.
Per fortuna Anna andò a mettere un po' di musica, cosa che migliorò decisamente l'atmosfera.
A quel punto sua madre iniziò a parlare di cinquemila cose diverse nel giro di due minuti.
Fece anche qualche domanda a me - non molte, comunque, decisamente al di sotto degli standard di mia madre - e disse che era contenta che sua figlia avesse trovato un'amica nella nuova scuola.
Ma, soprattutto, continuava a sorridere. Sorrideva anche in modo quasi esagerato, a volte. Continuava  a guardarmi e sorridere. Poi guardava Anna e sorrideva. Be', indubbiamente era una donna simpatica. Avrei detto quasi... spumeggiante, per usare un aggettivo caro a mia mamma.
Ad ogni modo, tutta la sua vitalità ci lasciò all'improvviso come un tornado quando corse fuori casa per arrivare in tempo al lavoro.
"E' stato un piacere conoscerti, Maya", mi disse un attimo prima di andarsene. E - indovinate? - sorrideva.
Quando fu definitivamente uscita dalla porta - Anna aveva dovuto rincorrerla con la borsa che aveva dimenticato - salimmo in camera di Anna.
"E' simpatica, tua mamma."
"Sì, ma è completamente fusa. Vuole sempre fare mille cose alla volta."
"Tu non hai visto mia mamma. Lei si che è fusa. Una volta voleva mettere il gatto nella lavatrice."
"Oh, avete un gatto?"
"No. Appunto."
"Ma cosa...?"
"Non chiedere."
Mi guardò senza sapere se dovesse ridere o no.
Poi io scoppiai a ridere, così lei fece lo stesso.
Quando ci fummo calmate ci accomodammo sul letto come la volta precedente, lei a sinistra e io alla sua destra.
Anna allungò le gambe e con i piedi tirò verso di noi la sedia con sopra il computer portatile.
Mise l'episodio a caricare.
Rimanemmo senza parlare per un po', fissando la barretta dello streaming che avanzava lentamente, finché io non dissi la prima cosa che mi venne in mente per rompere il silenzio: "PLL in America rincomincia a gennaio, vero?"
"Già, non vedo l'ora."
Tirai fuori il telefono dalla tasca e feci accendere lo schermo.
"Sono le tre e trentacinque."
Anna mi guardò un attimo senza sapere bene cosa rispondere.
"Ah, sono le tre e trentacinque? Uh, okay..."
Risi di fronte alla sua espressione disorientata.
"Che c'è?", chiese lei, continuando a non capire.
Io non dissi niente, continuavo a ridacchiare sommessamente.
"Oh, andiamo, cosa? Cosa c'è?"
"Voglio vedere se ci arrivi."
Mi fissò un attimo aggrottando le sopracciglia. Si guardò le mani. Tornò a fissarmi.
Si stava impegnando.
"Oh! Oh. Non vedo l'ora. Oh. Mi hai detto l'ora. Giusto."
"Yeeeeh, ci sei arrivata! Batti cinque!"
Mi diede il cinque e mi disse anche: "Sei un genio, Maya."
"Ahahah, certo. Sono un genio incompreso."
"Davvero!"
"No, davvero niente, le mie battute sono così squallide che non si capiscono neanche. Ne sono consapevole."
"Invece il fatto è che sono troppo intelligenti, per questo nessuno le capisce."
Scossi la testa sorridendo.
Alzai lo sguardo e incrociai quello di Zac Efron che mi osservava da uno dei poster.
"Giusto, dovevo finire di contare i poster!"
   Mi rimisi all'opera. Questa volta mi aiutò anche Anna; io partii da dove avevo lasciato e lei dalla parte opposta, finché non ci incontrammo a metà della parete.
"Ciao", le dissi quando me la trovai di fianco.
"Ciao."
"Quattrocentotrenta."
"Duecento di qua."
"Seicentotrenta in tutto."
"Seicentotrenta. Wow."
In quel momento ero felice. Avevamo contato tutti i 630 poster in quella stanza, ed ero felice.
Presi Anna per mano e corsi di nuovo al letto.
Mentre noi contavamo i poster l'episodio aveva più che caricato. Ci mettemmo comode ed iniziammo a guardarlo.
Dopo soli venti secondi, però, mi allungai verso il computer e cliccai su pausa.
"Sono felice", annunciai, fissando un punto nel muro.
Inspirai forte per due volte prima di girarmi verso di Anna. Lei mi fissava con uno sguardo intenso.
Le sorrisi. Lei abbandonò la sua espressione seria, i suoi occhi si strinsero mentre anche la sua bocca si apriva in un sorriso.
Mi sporsi di nuovo per far ripartire la puntata.
      Guardammo Pretty Little Liars per diversi minuti, o forse ore, non saprei dire.
Scivolava tutto via, le immagini scorrevano davanti ai miei occhi senza imprimersi nel cervello, mentre io ero sopraffatta da quella inusuale sensazione di felicità che mi riempiva i polmoni.
Sembrava quasi... speranza.
Fatto sta che non seguii quasi affatto la trama e mi stupii quando mi resi conto che mancava poco alla mia scena preferita, il bacio fra Emily e Paige (non Maya perché lei, ormai s'è detto, era morta, ed Emily dopo diversi episodi era riuscita a pensare ad un'altra ragazza che non fosse lei).
Quando questa famosa scena arrivò con la sua forza quasi violenta io me l'aspettavo, ma allo stesso tempo non ero pronta.
Tornava l'imbarazzo dell'altra volta di fronte a scene come questa.
Il mio stomaco si contrasse.
Voltai piano la testa verso Anna e notai nei suoi occhi la stessa intensità di prima.  Ancora più forte, ora, quasi tormentata.
Fissava lo schermo. Un istante dopo, però, il suo sguardo si spostò ed incontrò il mio. Fu questione di mezzo secondo, perché entrambe distogliemmo immediatamente lo sguardo.
Con la coda dell'occhio vidi Anna che si alzava ed andava verso il computer.
Fece pausa e tornò a sedersi sul letto, sempre senza guardarmi.
Tutto questo in silenzio. Un silenzio che si faceva sempre più pesante, sembrava colmare la stanza senza lasciare un minimo di aria, sembrava urlare.
Io effettivamente mi sentivo a corto d'aria.
Non sapevo cosa dovessi fare, non sapevo cosa stesse succedendo.
Ero lì seduta vicino ad Anna, sul suo letto. Lei era in silenzio. Io ero in silenzio. Non ci guardavamo. Nessuna delle due apriva bocca. (In compenso però le due ragazze sullo schermo erano rimaste paralizzate con le loro bocche bene aperte e attaccate una all'altra. Grandioso.)
L'atmosfera si riempiva sempre più di imbarazzo.
         Poi all'improvviso lei si girò verso di me e mi chiese tutto d'un fiato: "Hai mai baciato una ragazza?"
Mi pietrificai. Solo dopo qualche secondo riuscii a trovare la voce. "No."
"Va bene, allora cambiamo domanda." Mi guardava negli occhi, ma io non riuscivo a sostenere il suo sguardo. "Hai mai desiderato baciare una ragazza?"
Per un po' non dissi niente. Ci stavo pensando. Non la sapevo nemmeno io, la risposta.
Lei continuò: "Rispondi sinceramente, ti prego."
Mentre lo diceva io le guardavo le labbra. E ad un tratto sapevo la risposta.
"Sì. Ora."
Sorrise, e mi baciò.
E io la baciai.
E provai la sensazione più bella di sempre, che andava al di là di tutto quanto avessi mai provato fino a quel momento. Fui pervasa da una felicità immediata ed inspiegabile, un calore che riempiva ogni singola parte di me, ed era tutto molto strano ma al tempo stesso dannatamente giusto.
Sentivo le sue labbra morbide, ed erano così diverse da quelle a cui ero abituata, erano... giuste.
Era giusto prendere quel viso fra le mie mani, era giusto lasciare che le sue mi scendessero lungo la schiena, era giusto stringermi a quel corpo senza più nessuna paura, nessuna remora, e tenere gli occhi chiusi mentre davo il mio primo vero bacio.
Aveva tutto un sapore nuovo, ma al tempo stesso già vissuto, come se il mio corpo avesse immediatamente riconosciuto quel che da tanto tempo aspettava. Come se mi fossi finalmente liberata della pesante armatura che portavo addosso, come se il mio cuore si fosse finalmente aperto e fosse adesso capace di amare e lasciarsi amare.
Ora sapevo che Andrea non avrebbe mai potuto fare breccia nell'armatura e raggiungermi il cuore, ma non per colpa sua né per colpa mia: nessun ragazzo avrebbe potuto, perché doveva arrivare questa ragazza, era di lei che avevo bisogno, non di un ragazzo, non del mio ragazzo...
Andrea.
Il mio ragazzo.
Oh merda.
Tornai alla realtà e in un istante la mia vita mi piombò addosso tutta intera, e mi ricordai di Andrea, delle mie amiche, della versione di me che gli altri conoscevano e alla quale anch'io ero abituata... e mi resi conto che stavo baciando una ragazza. E mi staccai da lei. E mi alzai in piedi.
La guardavo e tremavo.
Lei mi rivolse uno sguardo preoccupato e sussurrò: "C'è qualcosa che non va? Stai bene?"
Io non dissi niente. Non riuscivo a parlare.
Allora lei continuò: "Senti Maya, mi dispiace. E' colpa mia. Forse non eri pronta, forse..."
La sua voce mi faceva male. Il suo viso mi faceva male. Mi faceva paura.
O meglio, mi faceva paura il fatto che quel viso mi scaldasse il cuore, e che io non riuscissi a guardarla senza desiderare di baciarla. E... sì, avevo paura dei miei stessi sentimenti. Avevo paura di me stessa.
  Lei provò a prendermi la mano, ma io mi allontanai subito.
E mentre uscivo di corsa dalla stanza, sentii che diceva: "Lo so che è difficile. Lo so. Quando sarai pronta..." Ma ormai io ero uscita. E non mi fermai.

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Quello fu il momento in cui mi ritrovai a rimettere tutto in discussione.
Perfino quella che mi sembrava l'unica certezza, l'unico punto fisso in quell'universo di incognite: me stessa.
Pensavo di conoscermi, ma mi sbagliavo.
Come avevo potuto essere così cieca? Avevo mentito a me stessa per tutto quel tempo.
Mi sembrava di aver vissuto per tutta la vita con un'estranea. Un automa che aveva lo stesso mio aspetto.
Ed ora?
Ora era come se mi fossi divisa in due. Ero divenuta due persone. Due versioni di me stessa.
Ero lì seduta sul mio letto a fissare il vuoto, ancora sconvolta, e riuscivo quasi a vedere una parte di me che si staccava, come una sagoma sottilissima.
Provai a farla tornare al suo posto forzandola con il pensiero. Senza neanche troppa fatica riuscii a fare in modo che la sagoma combaciasse di nuovo con il mio corpo. Ma poi mi alzai, e sentii che la sagoma era rimasta sul letto.
Non saranno mai più una cosa sola.
Questo pensiero mi spaventò a morte.
Iniziai ad urlare.
"Qual è quella vera?! QUAL E' QUELLA VERA?!"
Chi... chi sono io?
Chi sono io.
Chi sono io.

La mia memoria mi riportò indietro. Vidi cose che credevo di aver ormai cancellato, cose che ora assumevano tutt'altro significato.
    Quella ragazzina alle medie. Io ero in seconda, lei in terza. L'adoravo, era un modello per me, la idolatravo letteralmente.
Ed era così carina...
Un altro urlo si fece strada nella mia gola e mi scoppiò fuori dalla bocca, mentre la consapevolezza prendeva piede nella mia testa.
   La ragazza del corso di tennis. Avevo passato pomeriggi interi, ogni giorno dopo l'allenamento, a fantasticare su quando il giorno dopo l'avrei vista.
Come avevo potuto essere così cieca?
Tirai un pugno al cuscino con tutta la forza che avevo.
Perché non avevo fatto due più due?
Continuai a tempestare il cuscino di pugni.
Ora era tutto così chiaro, e mi sentivo una stupida per non averlo capito prima.
Eppure sembrava così... strano, così difficile da credere. Surreale.
Non mi era mai neppure passato per la testa, possibile che fossi riuscita sempre a tenere le due cose, i due pensieri separati?
Doveva arrivare Anna perché io...
Anna.
Mi fermai con un pugno a mezz'aria.
Anna.
Anna Anna Anna Anna.
La prima volta che l'avevo vista. Non riuscivo a smettere di guardarla.
L'ansia che sentivo ogni volta che la vedevo, ogni volta che pensavo a lei.
Pensavo sempre a lei.
Il sogno.
Oh, diamine, il sogno. Ma certo.
E i suoi occhi, e le sue labbra...
Le sue labbra.
Le sue labbra sulle mie.
Le sue mani sulla mia schiena.
Le mie mani sul suo viso.
Anna.
Mi portai un dito alle labbra.
L'avevo baciata.
Per un attimo tornò quel calore, tornai a sentirmi bene.
Ma subito dopo lo sguardo mi cadde su una foto di me e Andrea, ed un miliardo di vetri rotti iniziò a piovermi addosso.
Mi buttai contro il cuscino.
Poi mi alzai, andai a prendere la foto e la osservai.
Chi era quella ragazza? Chi era quella ragazza che baciava il ragazzone biondo?
"Sono io, quella?", sussurrai. La mia voce mi suonò strana, estranea.
Lasciai cadere a terra la cornicie, una parte di me sentì il rumore del vetro che si infrangeva.
Il resto di me si stava già trascinando verso la porta.
Raggiunsi il bagno e mi ci chiusi dentro.
Poi, poco per volta, mi avvicinai allo specchio.
Provai una sensazione orribile.
L'immagine riflessa non ero io. Ma io non ero neanche più nella mia testa. Non ero più nel mio corpo. Ero via, lontana. Al mio posto avevo lasciato il caos.
Immagini, definizioni, parole, ricordi mi turbinavano nella mente senza alcun ordine o senso preciso.
Corsi di nuovo in camera mia.
Mi infilai sotto le coperte e mi strinsi contro il muro.
Non riuscivo a pensare, era peggio di quanto non fosse mai stato. Prima c'era un pensiero che non si lasciava identificare, ora c'erano una miriade di pensieri che si ingarbugliavano, e si scontravano, e mi facevano impazzire.
Una domanda precisa spiccava nel bel mezzo del caos, ma l'unica risposta che riuscivo a trovarvi mi pareva inammissibile e fuori questione, talmente mi faceva paura.
E c'era anche una parola, una parola grande, scritta a lettere cubitali al centro della mia testa, la occupava quasi tutta. Questa parola mi terrorizzava più di ogni altra cosa.
Era una parola che non mi aveva mai fatto nessun particolare effetto, ma che adesso, se associata a me stessa, mi piombava addosso come una sentenza di morte.
E finì che mi addormentai con quell'ultima parola lì, quasi concreta davanti ai miei occhi:
   lesbica.

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


 Non uscii dalla mia stanza il sabato. Non uscii dalla mia stanza la domenica. Non andai a scuola il lunedì.
Temevo che gli altri potessero guardarmi e vedere tutto il casino che stava impazzando nella mia testa. Temevo che riuscissero a leggere i miei pensieri o anche solo percepire che avevo qualcosa che non andava, che ero diversa. Non potevo lasciare che indovinassero il mio segreto, non potevo lasciargliene intravedere neanche una minima parte.
Così le uniche volte che scesi di sotto, per pranzo e per cena, feci attenzione a non incontrare gli sguardi di nessuno della mia famiglia. Ogni volta tenevo gli occhi bassi, mangiavo in fretta e me ne andavo.
Mia mamma provò a tirarmi fuori dalla mia camera, ma io la mandai via dicendo che pensavo di avere l'influenza.
Ricevetti diversi messaggi dalle mie amiche, da Andrea ancora di più, ma li ignorai.
Il pensiero di dover tornare a scuola ed essere costretta a fingere mi faceva uscire di testa. Mai come in quel momento la mia vita mi era apparsa come un grande, orripilante teatrino.
    
Il lunedì sera mi arrivò un messaggio da un numero non salvato in rubrica.
Questo attirò la mia attenzione, quindi a differenza degli altri lo aprii.
"Ciao sono Anna. Ho chiesto il tuo numero a Cristina, ero preoccupata. Lo sono ancora, a dire la verità. Stai bene? Vuoi che ci vediamo? Vuoi parlare?"
Rimasi a fissare lo schermo, le mani mi tremavano e facevano tremare anche il cellulare. Ancora una volta le mie sensazioni erano contrastanti: una parte di me era felice di sapere che Anna si preoccupava per me, ma l'altra ne era ancora più terrorizzata e mi urlava Scappa scappa scappa.
Mi resi conto che quel che mi spaventava di più, più ancora di rivedere i miei compagni e tutto il mondo di fuori, era rivedere Anna.
Ancora non ero riuscita a capire cosa provassi per lei, esattamente.
"Non credo sia una buona idea. Scusami. Ma sto bene, grazie per avermelo chiesto."
La risposta mi arrivò pochi istanti dopo, sorprendentemente veloce.
"Non è vero che stai bene. So cosa stai passando in questo momento. O almeno posso immaginarlo. Sappi solo che non sei obbligata ad attraversare tutto da sola. La scelta è tua."
Rilessi il messaggio tre o quattro volte, e ogni volta mi suscitava una sensazione diversa.
Iniziai poi a scrivere la risposta digitando freneticamente sul touch screen del cellulare senza curarmi degli errori né di quel che scrivevo.
"La scelta è mia. Giusto. Cosa dovrei fare quindi? Cosa dovrei fare secondo te? Dovrei uscire in strada ed urlare: Forse sono lesbica, gente!, dovrei chiedere aiuto a qualcuno - a chi, poi? - spiegando che sì, potrei avere questa cosa che mi piacciono le ragazze, e potrei averlo scoperto solo ora, dopo sedici dannatissimi anni, e potrei aver baciato una ragazza e potrebbe essermi piaciuto, ma potrei anche essermi sbagliata, potrebbe essere un'illusione, potrebbe essere - com'è che dicono? - solo una fase, ma cavolo non lo so perché è tutto così fottutamente confuso? Voglio dire diavolo cosa ti aspetti che io faccia? Vuoi che io venga da te a dirti... a dirti che... cosa devo dirti, se non so neanche CHI. CAVOLO. SONO. IO."
Smisi di scrivere e rimasi immobile, fatta eccezione per i polmoni che ingoiavano e buttavano fuori aria ad un ritmo vertiginoso.
Poi cancellai tutto quello che avevo scritto, spensi il cellulare e lo gettai per terra.
Mi buttai sul letto e chiusi gli occhi.
Lasciai passare qualche secondo. Infine emisi un suono simile ad un grugnito e mi rialzai. Andai a riprendere il cellulare, lo riaccesi e ripescai il messaggio di Anna. Cliccai su rispondi.
"Ho paura", scrissi. E lo inviai prima che potessi pentirmene.
Nell'istante seguente fui sopraffatta dalla verità di quelle due parole, Ho paura. Era vero. Avevo una dannatissima, enorme, spaventosa paura che mi spezzava il respiro e mi straziava lo stomaco.
Rimasi ferma con il cellulare in mano, lo stringevo fra le dita e lo fissavo come se fosse la mia unica salvezza.
Le lacrime iniziarono ad annebbiarmi la vista. Non distinguevo quasi più le parole sullo schermo. I singhiozzi si facevano sempre più rumorosi e dentro di me maledicevo la mia debolezza e la mia stupidità.
Finalmente il cellulare vibrò. Mi asciugai gli occhi per leggere il messaggio. Era corto, e certamente non quello che mi aspettavo - anche se non mi ero in realtà aspettata niente.
"Time After Time, versione di Tegan and Sara."
Una canzone? Non la conoscevo, né conoscevo Tegan and Sara. Ma era la mia unica salvezza, non avevo altro.
Arrancai fino al computer, aprii YouTube e digitai: Time After Time Tegan and Sara.
Cliccai sul primo risultato, iniziai ad ascoltare, e...
Il ritornello, dannazione. Il ritornello.
 
If you're lost, you can look and you will find me, time after time
If you fall, I will catch you, I'll be waiting, time after time

(Se sei persa puoi guardare e mi troverai, volta dopo volta
Se cadi ti prenderò, sarò pronta, volta dopo volta)

[https://www.youtube.com/watch?v=N7S6NUYJiAI]

Anna. Era come se fosse lei a cantare la canzone, era come se mi stesse parlando, come se mi dicesse: Affidati a me.
E io avrei tanto voluto farlo.
Per un attimo il cuore mi si sciolse e mi venne voglia di correre a casa sua, rifugiarmi da lei e lasciarmi consolare.
Ma non potevo ammettere di avere bisogno di lei. Non potevo lasciare che questo strano effetto che lei aveva su di me si rafforzasse ancora di più ed arrivasse ad incatenarmi per sempre. Dove mi avrebbe portato?
No, dovevo spezzare la catena finché ero in tempo.
Quindi non corsi da lei, non le risposi, non feci niente. Mi limitai a tornare nel letto e versare qualche ultima lacrima.
Mentre spegnevo definitivamente il cellulare mi si strinse il cuore. Strinsi anche gli occhi ed ordinai alla testa di dormire.
Il risveglio arrivò improvviso e tremendo come gli altri giorni.
Ormai capitava così: mi svegliavo e inizialmente credevo fosse tutto normale; poi però mi ricordavo, e allora precipitavo di nuovo nel vortice.
Non avevo neanche più un buon motivo per alzarmi dal letto.
L'unica cosa che avrei voluto fare era anche quella che mi metteva più paura, ossia vedere Anna.
L'unica persona che avrei voluto vedere era anche quella per cui stavo così male - sempre lei, Anna.
Così andai avanti trascorrendo le giornate in uno strano dormiveglia che non aveva più fine.
E avrei continuato allo stesso modo, se il giovedì mattina mia madre non mi avesse minacciato di portarmi dal dottore se non fossi andata a scuola.
Quindi, andai a scuola. E non fu neanche difficile quanto avevo temuto. Era anzi piuttosto facile fingere che andasse tutto bene, forzare un sorriso e scambiare qualche battuta con le persone. Mentre tornavo a casa ero sicura di aver convinto tutti. Avevo quasi convinto anche me stessa. Ero tornata nella mia vecchia parte, quella della vecchia Maya che scherza con le amiche ed ha un ragazzo ed una vita normale ed è felice - un attimo, ero mai stata felice?
Non riuscivo a ricordare.
Ineffetti forse... forse no, non ero felice. Ma adesso? Adesso era certamente peggio che mai.
      Misi piede in casa e sentii il nulla più assoluto che mi piombava addosso.
Andai a mangiare con la mia famiglia - sorrisi, come stai?, bene, visto che avevi solo bisogno di uscire un po'?, già, sì, uhm, già, bene, altri sorrisi - poi tornai dal mio caro amico letto, gli bisbigliai "Ho solo più te, ormai", e chiusi gli occhi.
Iniziò un periodo di nebbia. Giorni dopo giorni dopo giorni, tutti immersi in una foschia grigiastra e intinti di solitudine. Non mi ero mai sentita così sola. Ero sola dentro. Non riuscivo più a stare con le persone come prima, ero addirittura arrabbiata con loro, con tutti, perché non mi capivano, ma come avrebbero potuto? Io per prima non mi capivo.
Ricordo... ricordo la solitudine, e ricordo anche tanta rabbia.
Frustrazione.
Anche se cercavo di fare finta di niente, anche se cercavo di andare avanti, non riuscivo più a sentirmi di nuovo normale.
Quando vedevo Anna nel corridoio la ignoravo. Lei faceva lo stesso.
Solo una volta mi accorsi che mi stava guardando, ma feci finta di non vederla.
All'inizio aveva provato a cercarmi, a parlare con me, mi aveva addirittura aspettato nei bagni, ma io ero scappata tutte le volte.
Ora invece non ci provava neanche più, forse aveva smesso di interessarsene. Forse si era convinta che non era colpa sua e visto che io non volevo essere aiutata non poteva fare niente, così si era messa l'anima in pace.
Aveva ragione, in quel caso. Non era colpa sua. Era colpa mia. Ero io che mi ero completamente persa.
Mi ero persa. Stavo andando alla deriva.
      Mi aggrappai ad Andrea, iniziai a passare sempre più tempo con lui, provai a non pensare, ma non funzionò. Iniziai ad andare alle feste con le mie amiche, stavo là per ore fingendo di divertirmi e tornavo a casa la mattina presto. Ma non funzionò.
Mi sentivo sempre più vuota, corrosa dentro.
Andavo a scuola la mattina e rispondevo male ai miei compagni, ai professori, persino ad Alessia. Cercavo sempre Anna con lo sguardo senza volerlo e quando me ne accorgevo la maledicevo col pensiero, affibbiandole inconsciamente la colpa del casino in cui mi ritrovavo.
Ma poi tornavo a casa ed ascoltavo Time After Time, bisbigliando il suo nome e sperando segretamente che lei arrivasse a salvarmi.
Ovviamente lei non arrivava e sapevo che non potevo pretenderlo.
Non potevo aspettarmi l'aiuto di nessuno, ed era sbagliato riversare sugli altri  la mia rabbia.
Eppure lo facevo.
Ero alla disperata ricerca di qualcosa che mettesse a tacere il mio tormento.
Non sapevo che la cura era proprio colei dalla quale scappavo, colei che credevo mi avrebbe uccisa.

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Dopo qualche settimana, però, sembrava andare meglio. Il dolore nello stomaco era come anestetizzato. Rimaneva solo più un senso di intorpidimento, ma potevo vivere con quello.
Quel giorno mi svegliai e per la prima volta non fui pervasa dall'ansia. Mi sgranchii le braccia e pensai: Oggi andrà tutto bene.
Arrivata a scuola, mi ripromisi di riprendere ad ascoltare le lezioni e di provare a rialzare i voti che in quell'ultimo periodo erano calati a picco insieme al mio umore.
Nell'intervallo tornai ad ascoltare per davvero quello che le mie amiche dicevano e riuscii addirittura a ritirare fuori qualche battuta.
Alessia mi guardava con occhi che sembravano dire: Bentornata, Maya.
Era l'unica che probabilmente aveva notato qualche cambiamento.
    Mi accorsi che intorno a me c'era un'atmosfera nuova, ed ineffetti stava arrivando il Natale. Tutti parlavano di una festa che ci sarebbe stata l'ultimo giorno prima delle vacanze.
Le mie amiche volevano andarci, così promisi che le avrei accompagnate.
"Sempre che tu non voglia andarci con Andrea, ovviamente", avevano specificato.
"No, davvero, preferisco venire con voi."
     La verità era che non credevo che Andrea avrebbe avuto tanta voglia di accompagnarmi ad una festa dopo quel pomeriggio. Perché avevo intenzione di fare quel che avrei già dovuto fare da molto tempo, quel pomeriggio. Avevo intenzione di lasciarlo.
Non potevo continuare a mentirgli, non se lo meritava.
     Quella mattina mentre entravo a scuola avevo visto Anna. Lei non mi aveva vista, ma il  batticuore che ne era subito seguito constituiva la risposta di cui necessitavo.
Non volevo, non potevo ammettere una cosa così definitiva e spaventosa.
Non avrei mai ammesso che in realtà l'unica cosa che desideravo era stare con lei. Ma quel che era ormai sicuro era che non potevo continuare a fingere di amare Andrea.
     Così all'uscita da scuola lo guidai verso il parco più vicino e lo feci sedere di fianco a me su una panchina.
Era tutta la mattinata che cercavo di pensare ad un modo carino per farlo. Un discorso che gli facesse capire che la colpa non era sua, ma senza magari entrare troppo nei particolari...
Mi chiedevo anche se dovessi confessare di aver baciato Anna. Era stato comunque una sorta di tradimento, anche se si trattava di una ragazza? Oh diamine sì, chi volevo prendere in giro. Non esistevano simili doppi standard.
Feci un respiro profondo ed iniziai a parlare tenendo gli occhi fissi per terra.
"Andrea, ti devo dire una cosa. E ti assicuro che mi sento davvero uno schifo per quello che sto facendo, ma ancor di più per quello che ho fatto per tutto questo tempo."
"Cosa? Maya?"
 "E' colpa mia.  E' tutta colpa mia, senza dubbio. Mi dispiace così tanto perché tu non te lo meriti, sei un ragazzo così gentile e premuroso e saresti davvero perfetto, sarebbe tutto stato perfetto, se non fosse stato per me. Sono io che sono difettosa, capisci? Sono io che non riesco a... non riesco ad amarti. Mi dispiace."
Alzai lo sguardo verso di lui e vidi che mi guardava con aria interdetta.
"Non capisco, davvero non capisco."
"Non ti amo, Andrea. Non l'ho mai fatto."
 "Cosa cavolo stai dicendo? Perché ora stai facendo tutto questo discorso? Maya? Maya?!"
"Ho baciato un'altra persona, Andrea. E mi sono accorta che..."
"Un'altra persona?"
"Già. Una..." abbassai la voce fino a sussurrare "...una ragazza."
"Anna. Quella lesbica di merda!"
Si alzò di scatto e tirò un calcio alla panchina. Era furioso. Io lo presi per una manica e cercai di trattenerlo.
"Mi dispiace!", iniziai ad urlare. "Mi dispiace!"
"Non è giusto, Maya, non è giusto!" Ora anche lui stava urlando.
Mi resi conto che stavamo facendo una scenata in mezzo ad un parco pubblico, così abbassai la voce e lo costrinsi a sedersi di nuovo sulla panchina.
Mi accorsi che stava... stava piangendo?
Oh, dannazione, mi sentivo così in colpa. Perché non potevo amarlo? Perché non potevo essere normale, e dargli quello che si meritava?
"Mi dispiace", gli sussurrai. "Ma non posso farci niente."
Lui mi guardava senza dire niente.
Io continuai: "Vorrei davvero amarti, sai che lo vorrei. Ma non sono cose che si scelgono. Io..."
"Sei lesbica, Maya?", mi chiese serio.
Ora anch'io piangevo. Mi strinsi la testa fra le mani e contrassi tutti i miei muscoli. Stavo combattendo una battaglia mille volte più grande di me.
"Sì", bisbigliai alla fine. E rispondevo sia a lui sia a me stessa. "Ma non dirlo a nessuno, ti prego."
Lo guardai negli occhi. Non era più arrabbiato, ma appariva tremendamente triste.
"Sai qual è la cosa peggiore?", mi chiese.
Scossi la testa, con le lacrime che scendevano sempre più veloci.
"La cosa peggiore è che io lo sapevo. Avevo previsto tutto. Riuscivo a vedere mentre pian piano ti allontanavi da me, e quando pensavo ad Anna... lo sapevo, lo sapevo che ti avrei persa. Ma non potevo fare niente per impedirlo."
"Mi dispiace."
"Non riesci a dire altro, eh?"
"Io... spero che trovi una ragazza che ti può amare davvero, non come me. Spero che ti porti la felicità che meriti."
"Il fatto è che io amo te, Maya. Il fatto è che io amo te."
Scosse piano la testa, poi sospirò e si alzò.
"Mi dispiace", gli dissi un'ultima volta.
"Anche a me", rispose, e se ne andò.
Guardai quelle due spalle robuste mentre si allontanavano e sapevo che non le avrei più riviste tornare indietro.
Ma sapevo anche di aver fatto la cosa giusta.
Un pezzetto dentro il mio cuore sembrò spostarsi per mettersi finalmente al posto giusto.
Ora mancavano solo tutti gli altri pezzi.

Tornata a casa, mi chiusi in camera e chiamai Alessia. Avevo davvero bisogno di qualcuno con cui parlare.
La sua voce si fece sentire dopo il terzo squillo. "Pronto?"
"Ho lasciato Andrea."
"Maya? Che cosa hai fatto...?"
"Ho lasciato Andrea."
"Oddiosanto. E perché l'avresti fatto?"
"Perché... perché non lo amavo, ecco."
"E quindi?"
"Come e quindi?"
Sentii che sospirava dall'altra parte del telefono.
"Senti Maya, hai sedici anni, non ti puoi aspettare di trovare già il vero amore e tutta quella roba lì, capito? Non è che devi necessariamente amare qualcuno per starci insieme, voglio dire, fra tutte le coppie della nostra scuola quante credi che si amino davvero? Un paio al massimo. Quindi ora va' da Andrea e..."
"No, Alessia, non capisci. Io... Io forse potrei, potrebbero..."
"Cosa?"
Mi staccai il telefono dalla guancia e chiusi gli occhi per qualche secondo. Non ce la facevo più.
Alla fine mi riavvicinai il telefono e bisbigliai tutto d'un fiato: "Potrebbero piacermi le ragazze."
Avevo ancora gli occhi chiusi. Non li riaprii. Nessun rumore arrivava dall'altra parte della linea.
"Alessia, ci sei... ci sei ancora?"
"Sì ma, ecco, credo di aver sentito qualcosa che in realtà non hai detto. Ho sentito male, vero?"
"No, no, l'ho detto." Sospirai.
"Oh, Maya, non fare scherzi. Voglio dire, ahahahah, no, non è divertente. Cosa diavolo combini?"
"Io niente, solo che..."
"Be', smettila di fare pensieri strani, okay? Probabilmente hai passato troppo tempo con quell'Anna, ti sei fatta condizionare. Ma tu non sei... a te non piacciono le ragazze, okay Maya? I ragazzi, sono loro che ci piacciono, a noi. E alla festa di Natale vedremo di trovarti un bel figo che ti farà dimenticare Andrea. Okay, Maya?"
"Okay..."
"Va bene, allora... ahahah, che spavento. Bene, non farmi più questi scherzi. A domani."
"A domani."

Al diavolo, Alessia.
E al diavolo soprattutto te, Maya, cosa credevi di fare?
Quanto sei stupida!
Quanto sei stupida.
Smettila. Smettila smettila smettila smettila- NON POSSO SMETTERLA! Non posso.

Come si smette di essere se stessi? Perché io davvero in quel momento avrei voluto non essere me, per un attimo, e sistemare tutto quel casino che io - e io soltanto - avevo creato.

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Il 22 dicembre Alessia, Cristina, Laura ed io andammo alla festa di Natale.
C'era la neve, fuori, sulle strade, ed era tutto pieno di lucine e festoni. La gente quando si incontrava si salutava calorosamente e si augurava buone feste.
Ogni singola persona sembrava felice.
Eppure a me pareva tutto tremendamente triste e sbagliato. Non avevo scambiato una parola con Alessia per tutto il tragitto.
Non appena entrammo fui sopraffatta dal calore umano e dalla musica assordante. Odiavo quella musica. Odiavo quel locale. Odiavo la gente. Odiavo le feste.
Cosa ci facevo, lì, precisamente?
Ci facemmo strada in mezzo a quei corpi già tutti sudaticci e nel mentre io vidi Andrea un po' più in là in mezzo alla folla. Purtroppo anche lui mi aveva visto. Era con il suo gruppo di amici e mi guardava con un'espressione più fredda del vento che soffiava fuori.
Mi nascosi nel fiume di persone.
Le mie amiche volevano ballare. Odiavo ballare.
Lasciai andare loro mentre io mi ridussi a fare l'unica cosa che mi restava da fare: bere.
Iniziai a bere e continuai a lungo, troppo a lungo.
I suoni cominciavano a farsi ovattati e i contorni delle figure leggermente sfocati, quando mi parve di scorgere i capelli di Anna al di là di un muro di persone.
Arraffai il mio bicchiere e aggirai il muro per vedere meglio: era lei, sì.
Stavo per avvicinarmi, ma poi notai che non era sola. C'era un ragazzo, con lei.
Era venuta con un ragazzo. Cosa? E lui aveva un braccio intorno alle sue spalle. Cosa? E lei rideva, e parlava, e rideva.
E io ero lì immobile con il mio bicchiere in mano, e non capivo.
Mi sentivo... mi sentivo tradita, in qualche modo. Ero arrabbiata, anche se non ne avevo alcun diritto.
Cercai di raggiungere le mie amiche individuando il punto in cui si ballava - ci doveva essere un punto in cui la gente ballava, giusto? -, ma continuavo a sbattere contro le persone.
Non capivo più niente, girava tutto.
All'improvviso mi ritrovai contro una ragazza. Non la vidi neanche in faccia, non vedevo più niente in tutto quel caos di luci. Ma sentii il suo corpo contro il mio, e poi i suoi fianchi sotto le mie mani. Sentii l'impulso di baciarla, e stavo per farlo, ma qualcosa mi tirò indietro allontanandomi da lei. Mi girai infastidita. Riconobbi Alessia. Stava gridando, diceva forse qualcosa come "Che diavolo fai?", ma vedevo solo le sue labbra che si muovevano.
Sembrava arrabbiata con me, davvero furiosa.
Io risi. Poi scappai, mi immersi in mezzo alla gente che ballava. Senza sapere quel che facevo iniziai a ballare anch'io. Ballavo con le ragazze, mi avvicinavo prima ad una e poi all'altra, sempre più vicina, sempre più vicina, e non mi importava più di niente, per una volta non mi importava più di niente.
Ancora due volte sentii le braccia di Alessia che mi afferravano, ma io continuavo a sfuggirle.
Ad un certo punto però mi dovetti fermare: ero circondata. Le mie amiche, tutte e tre, stavano lì in piedi e mi fissavano con volti inorriditi. Cosa diavolo avevano da guardare?
Le mandai al diavolo - ad alta voce, temo - e mi scagliai contro di loro.
"Lasciatemi passare, cavolo, lasciatemi passare", imploravo mentre le lacrime iniziavano a scendere.
Le odiavo, in quel momento. Avrei davvero voluto buttarle a terra, ma erano tre contro una.
Finalmente Cristina, che era in mezzo, si fece da parte. Io caddi in avanti e finii in ginocchio sul pavimento.
Dopo un istante di vuoto mi ritrovai nei bagni del locale, sola, con la testa chinata contro il muro.
Com'ero arrivata lì?
Cosa diavolo mi succedeva?
In quanti avevano assistito alla mia scenata?
In quel momento non volevo preoccuparmene. Non potevo permettermelo, se volevo mantenere il minimo di contegno che mi rimaneva.
Improvvisamente sentii la porta alle mie spalle che si apriva. Qualcuno stava entrando. Imprecai dentro di me.
"Maya", mi chiamò la nuova arrivata.
Oh no. Non lei.
Mi girai. Era Anna. Era dannatissimamente Anna.
Il sollievo iniziale del vederla si trasformò in rabbia nel giro di due secondi.
Iniziai a gridare, le parole uscivano in un fiume di collera immotivata.
"Tu! Che cosa mi hai fatto? Guardami! Mi hai trasformato in questo disastro vivente, mi hai rovinata! Mi hai rovinata! Mi hai trascinato nella tua rovina, sarai contenta! E ora credi che io sia come te, solo perché ti ho... solo per uno stupido bacio! Be', ti do una notizia: sei tu la lesbica qui, non io. E ora ti prego, lasciami stare."
Feci per andarmene, un po' traballante, ma lei mi trattenne per un braccio.
Allora io mi voltai di scatto e le urlai in faccia: "Smettila! Io ti... io ti odio! Ti odio!"
Ora le avevo messo entrambe le mani sulle spalle e la spingevo sempre più contro il muro, mentre tremavo di rabbia.
"Ti odio! Devi lasciarmi stare, hai capito? Ti odio! Ti..."
Mi fermai e la guardai per qualche istante negli occhi, ormai vicinissimi ai miei.
"Ti amo", le dissi infine in un sussurro, sfinita.
Lei continuava a fissarmi senza dire niente. Doveva essere un po' spaventata, ma cercava di non darlo a vedere. Era immobile sotto le mie mani che la stringevano.
Mi resi conto che forse le stavo facendo male, così lasciai andare la presa. Arretrai di un passo.
"Ti amo, dannazione. Ti amo."
Lei fece un passo verso di me. Allargò le braccia e io mi ci sciolsi dentro.
Mi stringeva forte, mentre io singhiozzavo sulla sua spalla, contro il suo collo, e continuavo a tremare sempre di più.
Avevo avuto bisogno di lei tutto quel tempo. Non potevo fare a meno di lei. Non più.
Spinsi la testa nell'incavo del suo collo e rimasì lì, fra le sue braccia, finalmente protetta, finalmente al sicuro.
Dopo un po' lei mi prese il viso fra le mani, mi passò un dito sotto gli occhi per cancellare le lacrime e infine mi diede un bacio in fronte. Poi si lasciò scivolare lungo il muro, ed io con lei, e rimanemmo lì per terra abbracciate per diversi minuti. Finché non corsi a vomitare nel lavandino.
Da quel momento in poi ricordo solo la sua mano che mi teneva la testa e mi spostava i capelli dalla faccia, poi qualcuno mi portò a casa, in qualche modo.

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


Il giorno dopo Anna mi venne a trovare a casa. Quando mi svegliai la trovai nella mia stanza, seduta ai piedi del letto dove io, ancora con i vestiti del giorno prima, giacevo più simile ai resti di un edificio distrutto da un ciclone che non ad una persona.
"Ciao", mi disse lei dolcemente quando si accorse che ero sveglia.
"Ciao", risposi io un po' titubante.
"Come stai?", mi chiese.
Era dannatamente bello e strano vederla lì nella mia camera.
"Bene... credo."
"Bene credi?" Rise. "Hai combinato un po' di disastri ieri sera, eh?"
Mi sentii sprofondare.
"Già, uhm, quindi è successo davvero? Non era solo un incubo, allora."
"No, mi dispiace."
Sospirai.
"Grazie per essere venuta a... salvarmi."
"Se cadi ti prenderò, volta dopo volta, ricordi?"
Le sorrisi, ma subito abbassai gli occhi.
"Senti, quelle cose che ho detto ieri... lo sai che non dicevo sul serio."
Mi guardò per un attimo.
"Quale parte? Quella del ti odio muori o quella del..." abbassò la voce "...quella del ti amo?"
"Oh, no, la parte prima, la parte prima! Quella del ti amo era vera."
Sorrise un sorriso enorme, gli occhi le brillavano illuminati dalle strisce di luce che entravano dalla finestra.
"Bene", disse infine. "Perché ti darò una notizia: ti amo anch'io."
"Oddio."
"Cosa?"
"No, solo... wow."
Lei sorrise ancora. I suoi sorrisi i suoi sorrisi.
"Di cosa ti stupisci? Io lo sapevo già da un bel pezzo, Maya, sei tu che ci hai messo... ci hai messo un po' più di tempo."
Sorrisi anch'io.
"Già, sì, immagino avessi bisogno di un po' di tempo per riflettere, per capire. Sai, non era una cosa che avevo preso in considerazione... sei arrivata inaspettata."
"Chiedo scusa."
"Oh, no, sei arrivata inaspettata come le cose belle."
"Ohw, Maya, vieni qui." Allungò le braccia verso di me.
Io feci per alzarmi ed andare da lei, ma poi mi ricordai dello stato in cui mi trovavo.
"Certo. Subito. Non appena mi sarò sciacquata la faccia e avrò un aspetto un po' meno spaventoso."
"Vieni qui, sei bellissima come sempre."
Le rivolsi uno sguardo ironico.  "Ma smettila. Guarda che lo faccio per te. Sono abbastanza sicura che il mio alito in questo momento potrebbe uccidere una persona. E noi non vogliamo che quella persona sia tu, giusto?"
Senza aspettare che mi rispondesse mi alzai e corsi nel bagno.
Quando tornai di là, dopo diversi minuti, lei era ancora seduta sul letto.
"Tra l'altro", ripresi, "non penso di averti detto ti odio muori. Cioè, ti odio sì, ma muori..."
"Oh, be', l'avevo dedotto dal contesto." Fece una pausa. Poi continuò: "...e dalle tue mani che mi stavano praticamente strozzando."
Ridacchiai. "Scusami."
"Sei perdonata. Ora pensi che ce la farai a venire finalmente qui da me o devo venirti a prendere?"
Mi morsi un labbro cercando di contenere l'enorme sorriso che sentivo aprirsi sulla mia faccia.
"Vengo io", dissi infine.
E ancora una volta mi rifugiai fra le sue braccia.
Cercai le sue labbra e le trovai lì ad aspettarmi, come se non fosse passato più di un secondo dal nostro primo bacio.
E questa volta non c'era più paura, non c'era neanche il più piccolo briciolo di esitazione.
Questa volta sapevo quel che stavo facendo: stavo baciando una ragazza, sì.
La ragazza che amavo.
Passammo insieme quasi ogni giorno delle vacanze. Persino il giorno di Natale riuscii ad evitare il deprimente pranzo con la mia famiglia per rifugiarmi a casa di Anna.
Fu il Natale più bello della mia vita. Non ero mai stata così felice e nemmeno avrei mai pensato di poterlo essere.
Mangiammo il meraviglioso pranzo preparato dalla madre di Anna. La mia gamba sotto il tavolo non perdeva mai il contatto con quella della mia ragazza.
La mia ragazza.
Eravamo felici. Nessuno sapeva di noi due. A parte sua mamma che ci guardava e sorrideva - non aveva mai smesso.
Regalai ad Anna una felpa con su scritto "She keeps me warm" ("Lei mi tiene al caldo"), ordinata su internet ed arrivata miracolosamente nel giro di due giorni grazie a quel 'compra subito per ricevere il tuo ordine prima del 25 dicembre' di un sito che mi aveva salvato la vita. La cosa triste era che non avrebbe potuto indossare quella maglia in pubblico, però se la mise subito, quel giorno, e la tenne per tutto il tempo. E mi disse che l'avrebbe messa tutte le volte che era in casa e aveva freddo.
"E' il regalo migliore che mi abbiano mai fatto", disse anche.
E disse anche "ti amo", disse anche "ti amo".
   Lei mi regalò un braccialetto con incisa la scritta "Time After Time", che io mi misi immediatamente al polso giurando di non togliermelo mai e poi mai.
Ero incredibilmente, estremamente, spaventosamente felice.
E amavo Anna, la amavo così tanto. Continuavo a ripetermelo mentre la guardavo, mentre guardavo quel suo sorriso bello in un modo impossibile, quegli occhi così azzurri, così luminosi, così suoi.
E il mio cuore era completamente pieno, pieno del mio amore per lei e dell'amore che da lei ricevevo, con ogni pezzo finalmente al posto giusto.

Ci baciammo alla mezzanotte a fine anno.
Per la prima volta nel mio futuro vedevo solo felicità. Vedevo lei, Anna, nel mio futuro. Passavo le dita sul mio braccialetto e sapevo che non dovevo più preoccuparmi di niente, perché avevo lei, ora. E lei sarebbe arrivata a salvarmi ogni volta, e sarebbe andato tutto bene, finché io e lei fossimo restate insieme.

Un giorno andammo in città. Partimmo la mattina presto quando il nostro paese ancora dormiva, salimmo sul treno e ci sedemmo vicine.
Guardavamo fuori dal finestrino, le nostre mani intrecciate sotto le giacche appoggiate sulle gambe; e man mano che ci allontanavamo dal paese lasciandoci dietro tutti quelli che conoscevamo io mi sentivo sempre più libera e felice, sempre più me stessa.
Quando scendemmo dal treno ci tenevamo per mano, senza nessuna giacca o che altro a nasconderlo. In città nessuno mi conosceva, e Anna non doveva fingere perché lì - anche se è brutto dirlo - non aveva nessuna reputazione da salvaguardare. Aveva indosso la maglia che le avevo regalato e mi sorrideva continuamente mentre camminava attaccata al mio fianco, guidandomi per le strade affollate.
Nessuno si fermava a guardarci, nessuno urlava oltraggiato indicandoci con un dito. Era la città, quella, non un piccolo paese di provincia. Non eravamo niente di mai visto. Niente da nascondere. Solo una ragazza ed un'altra ragazza che si tenevano per mano.
Ed ora la ragazza bionda sussurrava qualcosa all'orecchio dell'altra. E la ragazza mora le rispondeva. Ed ora si stavano baciando, le due ragazze, ferme in mezzo al marciapiede. Ma il mondo continuava a scorrere fra file di luci e macchine e vetrine colorate.

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


Durante le vacanze mi sembrava di vivere in un'isola felice, ma poi riniziò la scuola e con lei tornarono anche i problemi.
Fu terribilmente difficile, il primo giorno, ignorare Anna  - non parlarle, non toccarla, non guardarla troppo - ogni volta che la incrociavo nel corridoio. Era davvero uno schifo, se devo dire la verità. Avere lì la propria ragazza ed essere obbligata a fingere che sia solo una persona fra le tante. Evitare di incontrare i suoi occhi sapendo che nel farlo non riusciresti a non sorridere.
Tuttavia il pensiero che lei fosse tutta mia ad insaputa del resto del mondo non mi dispiaceva, mi faceva anzi pensare a quei triliardi di libri e film, quelle storie alla 'io e te contro il mondo'. Ed era così, ineffetti. Eravamo io e lei, con il nostro piccolo segreto, e il mondo doveva starsene fuori e non impicciarsi, per una volta. L'avrebbe fatto, avrebbe messo il naso, avrebbe giudicato, se gli avessimo dato la possibilità. Per questo noi non avevamo intenzione di dargliela. Perché eravamo sicure che non avrebbero capito - nessuno avrebbe capito. E io non potevo sopportare che qualcuno mettesse in discussione il mio amore per Anna.
Sopportai anzi la tortura di averla a trenta passi e non poterle parlare.
Me ne rimasi in piedi da sola in corridoio per gran parte dell'intervallo, poi tornai in classe. Alessia era seduta al suo banco, ma quando mi vide arrivare si alzò e uscì in corridoio. Non incrociò neanche il mio sguardo, mi passò di fianco con la testa china sul pavimento ignorandomi completamente.
Questa situazione andava avanti dal giorno della festa, non mi aveva mai più rivolto la parola da allora. Neanche un messaggio, niente. Doveva essere davvero arrabbiata con me.
Fatto sta che ora a scuola ero completamente sola - non avevo più Alessia, non avevo più le altre due che erano sparite seguendo lei, non avevo più Andrea. Ma ci avevo guadagnato Anna. Sorrisi a quel pensiero. Ci avevo guadagnato Anna. Anche se dovevo fingere il contrario, in realtà avevo lei. E, francamente, era tutto quello che mi importava.
Decisi di tornare in corridoio e fare una cosa stupidissima, davvero patetica - ma ne avevo bisogno. Avevo bisogno di verificare che davvero lei ci fosse.
Andai verso di Anna senza guardarla. Mentre la superavo senza fermarmi lasciai che il mio braccio sfiorasse il suo. Il mio corpo rispose con una scossa elettrica che andava dalle gambe allo stomaco. Continuai a camminare fino a svoltare l'angolo, poi con noncuranza mi voltai e tornai indietro fino a rientrare in classe.
Ero patetica, sì, ma cosa potevo fare? I rapidi tocchi che potevano passare per casuali, come quello, erano tutto ciò che avevo a disposizione.
Mentre ero ancora con la testa in quel piccolo momento di felicità, una mia compagna mi si parò davanti e mi disse qualcosa. Mi ci volle qualche secondo per capire che aveva detto: "Com'era quella ragazza alla festa, Maya?"
Oh, uffa.
Evidentemente il mio 'episodio' non era passato inosservato. Probabilmente aveva anche fatto un po' di strada di bocca in bocca. Dovevo aspettarmelo, ma speravo che con le vacanze di mezzo la gente se ne sarebbe dimenticata. E invece no.
Ignorai la mia compagna continuando a camminare verso il mio banco.
Lei però non si diede per vinta, anzi fu spalleggiata da altri compagni intorno a lei.
"Era bella, eh?", dicevano. "La volevi baciare, di' la verità!"
"Oh, sì, la stava per baciare!"
"Oh, Maya, perché non confessi?"
"Com'era quella ragazza, era bella, eh?"
"Ma l'hai almeno vista in faccia?"
"Ahahah ma figurati, per lei basta che una sia una ragazza ed è già pronta a saltarle addosso!"
Smettetela.
"Lo sai come si chiamano quelle come te, Maya?"
Smettetela.
"Lesbiche! Si chiamano lesbiche! Lesbiche!"
Iniziarono tutti a ridere, erano tutti intorno a me. Ancora una volta ero circondata.
"Dov'è finito il tuo ragazzo? Non stavi con un ragazzo? Poverino, non vorrei essere al suo posto..."
"SMETTETELA!"
Risero ancora più forte.
Mi feci strada verso la porta. Volevo solo scappare da quella classe. Mentre spingevo le persone per passare riuscii a distinguere il viso di Alessia in mezzo a loro. Era l'unica faccia con la bocca chiusa, muta. Ma gli occhi erano spalancati, e mi guardava.
Continuai ad avanzare guadagnando forse mezzo metro alla volta. Arrivata all'altezza della porta vidi che fuori si erano ammucchiate un po' di persone per assistere allo spettacolo. C'era anche Anna fra loro. Per un secondo incrociai il suo sguardo. Mi guardava con aria tormentata, leggevo nei suoi occhi quanto avrebbe voluto aiutarmi, quanto le faceva male dover assistere a tutto senza poter fare niente. Si teneva le spalle con le braccia incrociate, sembrava cercasse di tenere fermo il suo stesso corpo.
Mentre stavo per attraversare la porta arrivò il professore. Turbato da tutto quel caos, cercò di individuare il colpevole. Quindi si accorse di me, schiacciata fra la folla dei compagni e la porta, quasi in lacrime.
"Che succede qui?", disse a voce alta.
Nessuno rispose. I ragazzi fuori dalla classe sparirono alla velocità della luce, i miei compagni pian piano iniziarono a distribuirsi verso i loro posti.
Il professore chiese ancora una volta, "Che succede qui?", ma di nuovo non ricevette risposta. Si guardò intorno, cercando di capire la situazione.
Poi si voltò verso di me, che, paralizzata dalla vergogna, ero l'unica rimasta sotto il suo tiro.
Con calma, scandendo bene le parole, ripeté il suo mantra: "Che succede qui?"
Io cercai di ricompormi e risposi a bassa voce: "Niente."
"Niente?", mi fece eco. Guardò prima me poi il resto della classe.
"Me lo dite voi cosa succede?"
La risposta arrivò immediata: "Succede che a Maya piace la figa!"
Ancora una volta scoppiarono tutti in una fragorosa risata.
Oh, quanto avrei voluto semplicemente sparire in quel momento!
Il prof. era visibilmente imbarazzato da quella frase, ma non disse nulla. Non rimproverò chi l'aveva gridata, non gli mise una nota né gli disse di 'moderare i termini', niente.
Quando provai a scappare da quell'inferno, però, mi disse che non mi aveva autorizzata ad uscire dalla classe. Così raggiunsi il mio banco ormai morta di vergogna e per il resto dell'ora cercai di piangere senza fare rumore.
Appena arrivai a casa mia madre mi chiese come fosse andato il primo giorno di ritorno dalle vacanze. "Bene", le dissi, e mi sedetti a tavola senza aprire più bocca per tutto il pranzo.
Mangiai in fretta, poi salii in camera mia. Passai qualche minuto al computer finché non decisi che non avrei potuto sopportare oltre.
Uscii di casa e corsi da Anna.
Non appena mi ebbe aperto la porta allargò le braccia e io mi ci gettai dentro. Finalmente.
Finalmente potevo toccarla. Finalmente potevo dirle quanto mi era mancata, e quanto era stata difficile quella mattinata, quanto era stato difficile ignorarla, ancor più che sopportare i miei compagni. Finalmente potevo piangere. Finalmente potevo smettere di fingere.
Passammo tutta la sera e la notte abbracciate, senza quasi mai staccarci. Dovevamo recuperare il tempo perduto.
   La mattina dopo mi svegliai e la prima cosa che vidi fu il suo viso.
E allora diamine, era tutto a posto. Era tutto bello, il mondo era così bello, la mia ragazza era così bella...
Svegliai anche lei sfiorandole le labbra con un dito.
I suoi occhi si aprirono e subito si fissarono su di me. Mi guardavano, azzurri e luminosi come un cielo appena nato.
La sua bocca mi sorrise, poi mi baciò.
"Dobbiamo andare a scuola", disse dopo qualche attimo alzandosi.
"Non voglio andare a scuola", protestai. "Non potremmo restare qui? Qui in questo letto, per tutto il giorno. Ti prego." La afferrai per un braccio e la trascinai di nuovo sul letto. "Ti prego."
"Non fare storie, Maya, dobbiamo andare a scuola. Cosa direbbe tua madre se sapesse che ti faccio tagliare?"
"Oh, ma lei non lo saprebbe mai. Ci sono molte cose che lei non sa..." Risi, pensando a mia mamma a casa che sapeva sì che avrei dormito dalla mia nuova amica, ma non poteva immaginare che avevo dormito proprio nel suo letto.
"Okay, okay, hai ragione, ma come la mettiamo con mia madre?"
"Be', lei è sempre molto comprensiva..."
"Maya, Maya..."
"Ti prego Anna ti prego ti prego. Non farmi tornare in quell'inferno. Tienimi qui con te come un povero cucciolo traumatizzato. Farò la brava."
Lei mi guardava con un'espressione seria, ma lo vedevo che si stava sforzando per non sorridere, lo vedevo. Ormai sicura della mia vittoria, iniziai ad avvicinare la mia faccia alla sua finché lei non cedette e mi baciò. La strinsi più vicina a me e non la lasciai più andare per tutto il giorno.

La mattina seguente, però, dovevamo per forza andare a scuola. Ci incamminammo controvoglia con il cielo ancora buio. Faceva freddissimo, camminavamo strette con le mani nelle tasche della giacca - la mia nella sua tasca e la sua nella mia tasca.
Prima di arrivare vicino alla scuola ci staccammo. Anna andò avanti, io aspettai un po' prima di incamminarmi a mia volta.
Quando entrai in classe il mio cuore praticamente non batteva, mi aspettavo il peggio. Tuttavia non accadde niente. Nessuno mi disse niente. Ringraziai il cielo e mi affrettai a sedermi al mio posto. Superai le prime due ore completamente indenne. Quel giorno la buona sorte doveva essermi favorevole.
L'intervallo lo passai da sola, ma non del tutto. Ero in piedi appoggiata al muro senza parlare con nessuno, questo sì, ma c'era Anna al fondo del corridoio. E i nostri occhi non persero il contatto neanche per un secondo.

Dopo la scuola tornai a casa mia per studiare, ma fui subito catturata da mia madre che si era appostata in salotto per parlarmi. Mi fece segno di accomodarmi sul divano di fronte a lei. Io notai la sua faccia seria e mi sentii morire. Che il professore avesse chiamato a casa per raccontarle dell'episodio di lunedì? Oh no ti prego no.
Per fortuna non si trattava di quello: voleva parlarmi di Alessia. Aveva incontrato sua mamma al supermercato e si era resa conto - solo allora, pare - che era un po' di tempo che non la nominavo.
"Cos'è, non siete più amiche?", mi chiese. Come se la questione la preoccupasse terribilmente.
Le dissi che stavo semplicemente passando con lei meno tempo rispetto a prima. Quindi mia mamma iniziò un interminabile discorso su come eravamo sempre state amiche, io ed Alessia, e quanto ci volevamo bene, e come lei mi era sempre stata vicina... Alla fine mi chiese se fosse per colpa di quell'altra mia nuova amica. E ineffetti sì, aveva centrato in pieno la questione. Solo che la colpa non era di quell'altra, era di questa qua, di Alessia. Ma non potevo certo dire a mia mamma che la mia migliore amica non era più la mia migliore amica perché le avevo rivelato che pensavo di essere innamorata di una ragazza, e perché volevo baciare una ragazza ad una festa, e perché adesso addirittura stavo con una ragazza. Non sapevo come dimostrare che la colpa non era di Anna senza tirare in ballo nessuna di queste situazioni che finivano con 'una ragazza', insomma. Così mi limitai a ridere, come a dire: 'Che idea bizzarra che hai avuto, mamma'. ... Sapessi quanto ci sei vicina.
"Non ti preoccupare", conclusi. Mi alzai dal divano e finalmente mi rintanai in camera mia. Ripensai a quando quella mia stanza era il mio unico luogo sicuro - a quanto mi ci ero aggrappata, tenendo tutto il mondo chiuso fuori. Ora invece era stata declassata dalla stanza di Anna, che era diventata il mio nuovo rifugio. La cosa era più o meno la stessa, solo che ora non ero più sola, dividevo la tana con qualcuno. Quella stanza, con tutti i suoi quattrocentotrenta poster, era per me sinonimo di felicità. Era il simbolo di tutti i bei momenti passati con Anna e mi appariva come una finestra illuminata in mezzo ad una tormenta. Sentivo sempre il bisogno di correre là a fine giornata per tornare a sentirmi completamente me stessa.
Così feci anche quella sera, non appena ebbi finito di ingurgitare la mia cena.
Arrivai da Anna e come le altre volte sembrava non ci vedessimo da circa due anni. Ma era sempre tremendamente bello vederla, non riuscivo a non sorridere e non correre ad abbracciarla. Lei sembrava altrettanto felice di vedermi, e questo aumentava di dieci volte la mia felicità.
Subito mi prese per mano e mi tirò fino alla sua camera. Chiuse la porta e si girò a guardarmi. Ora eravamo solo io e lei. E in quel momento il resto del mondo - Alessia, Andrea, la scuola, i compagni, la mia famiglia - sembrava tutto così insignificante, come se quasi non esistesse. Il mondo reale era quello lì dentro la stanza, non quello fuori. E mentre la mia mano era ancora stretta a quella di Anna, sentivo che potevo farcela: potevo sopportare tutto. Qualsiasi cosa mi avessero detto a scuola la mattina, qualsiasi bugia fossi stata costretta a dire a mia madre, io sarei sempre tornata a casa di Anna e saremmo state solo più noi due - come doveva essere. Così sì, così potevo farcela.
Ed ora finalmente lo capivo, il potere dell'amore. Quindi era di questo che parlavano, pensai.
Feci girare Anna in modo che fosse in piedi proprio di fronte a me. La guardai negli occhi e cercai di quantificare l'amore che provavo per lei. Non riuscii a contenerlo tutto con la sola forza del mio pensiero, ma lo presi comunque con i suoi contorni indefiniti e me ne riempii il cuore.
Sorrisi. Il viso davanti a me fece lo stesso, come uno specchio.
"Cosa c'è?", mi chiese Anna.
"Pensavo", le risposi.
"A cosa?"
La feci sedere sul letto e mi accomodai vicino a lei. Riflettei un attimo.
Infine dissi: "Ti ricordi cosa ti avevo detto quella sera alla festa di Natale?"
"Quando ti eri completamente ubriacata? Certo, non me lo dimentico il ti odio.", rispose lei facendomi la linguaccia.
"Il ti odio non te l'ho mai detto, questo mi sembra l'avessimo chiarito", ribattei rivolgendole un'occhiataccia. Poi continuai, questa volta seria: "Ma ti avevo comunque detto un'altra cosa orribile: che mi avevi rovinata. Credevo fosse colpa tua. E ci credevo sul serio. Per un momento, ci credevo. Volevo crederci. Ma mi sbagliavo, era proprio il contrario. Tu non mi hai rovinata, Anna, tu mi hai salvata. Tu mi hai salvata. Ascolta queste parole e fattele entrare bene dentro, e tienile lì, perché voglio che tu comprenda fino in fondo cosa significano. E voglio che lo ricordi sempre. Che mi hai salvata. Che ero persa, io, ma non quando credevo di esserlo; ero persa prima, molto prima, quando ancora non me n'ero accorta. E non vivevo. Non era vita, quella. Non sapevo neanche di desiderare quel che desideravo. Non sapevo di poterlo fare. Non sapevo di poter essere felice, sul serio. Non credevo che nella mia vita ci potesse essere qualcosa di così vero e semplice e meraviglioso come l'amore - come questo amore. Sai, credevo di non essere capace di amare, ma la verità è che stavo solo guardando dalla parte sbagliata. Guardavo dove guardavano tutte le altre, dove credevo di dover guardare anch'io. Ma a me non può rendere felice ciò che rende felice le altre ragazze. Non so perché, so solo che è così. Soltanto tu puoi rendermi felice. Questo è tutto quello che so, tutto quello che importa. Non mi chiedo il perché, non serve a niente. Non mi chiedo se sia giusto, perché so già la risposta: una cosa così bella non può essere sbagliata. Semplicemente non può. Quindi ora io voglio occuparmi soltanto di una cosa, cioè di amarti. E farlo bene. E renderti felice, e proteggerti sempre. E questo lunghissimo discorso era per dirti grazie, insomma. Grazie per avermi salvata. Grazie per avermi insegnato ad amare. Grazie per avermi insegnato a vivere."
Feci una pausa. "... Okay, questo era sdolcinato. Perdonami. Era da tanto che avevo bisogno di dirtelo, però."
Finalmente finii il mio discorso. Per tutto il tempo l'avevo guardata dritta negli occhi, che le brillavano intensi. Come finii di parlare le si strinsero, mentre la bocca si spalancava in un sorriso.
Dopo qualche istante parlò anche lei. La voce le tremava di emozione - di felicità, volevo sperare. "Ti amo, Maya", disse. Si interruppe per darmi un bacio, poi riprese: "Ti amo come non ho mai amato nessuno in vita mia. E tu dici che io ti ho insegnato ad amare, ma io posso dire lo stesso di te. Mi hai insegnato che l'amore non fa necessariamente male, non porta solo dolore e sofferenza - può portare anche felicità, e... e speranza. Ecco, tu mi hai ridato la speranza. Io ero pronta a nascondermi, a fingere, a soffrire - ero pronta ad andare avanti così all'infinito. Poi però sei arrivata tu, ed ora tutto è diverso. Voglio dire, continuo a nascondermi, questo sì, ma almeno non sono più sola."
"Potresti non nasconderti più. Potremmo smettere di nasconderci."
"No, Maya, non possiamo. Non ancora. Ma ti prometto che prima o poi non ne avremo più bisogno. Le cose cambieranno, noi saremo magari da qualche altra parte..."
"E se le cambiassimo noi, le cose?"
Mi guardò in silenzio per un attimo, perplessa. "Cambiare le cose? Come vorresti cambiarle?"
"Be', innanzitutto smettendo di fingere. Facendo vedere a tutti che sì, siamo due ragazze e stiamo insieme, e diamine, siamo così dannatamente felici. Ed è così dannatamente normale. Sai, penso che si abituerebbero."
"No, ti prego. Non chiedermi questo."
La sua faccia si stava facendo preoccupata. Tentai ancora una volta.
"Perché, Anna? Di cos'è che hai paura? Siamo in due, ora. Non siamo più sole."
Ora lei era decisamente agitata. Si passava convulsamente le mani sul volto come per cancellare i pensieri che la stavano turbando.
Non ce la facevo a vederla così. Non lo sopportavo. Non mi importava più di niente, non mi importava di continuare quel discorso, ora la mia unica preoccupazione era farla stare meglio. Avrei fatto di tutto purché smettesse di tormentarsi e tornasse a sorridermi come qualche minuto prima.
Mi avvicinai a lei e la avvolsi con le mie braccia.
"Scherzavo. Non pensarci più. Dimentica tutto. Non pensarci più."
Lei, da dentro il mio abbraccio, continuava a stringersi la testa fra le mani e ripeteva piano: "Ho paura. Ho paura. Ho paura."
Io sentivo il cuore spezzarsi ad ogni suo ho paura. Le presi il viso fra le mani, costringendola a guardarmi negli occhi. Avvicinando la mia bocca alla sua le sussurai: "Io ti amo." Sentii il suo sorriso aprirsi contro le mie labbra. Continuai: "Tu mi ami?"
"Sì", rispose lei.
"E allora è tutto okay", conclusi.
Anna rise e mi baciò.

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


Avevo sempre odiato San Valentino. Voglio dire, qual è il senso nel festeggiare l'amore una volta l'anno?
E' per ricordarsi di essere innamorati? Del tipo, Oh, grazie per avermelo ricordato, mi ero dimenticata di amare una persona. Stupendo!
Ed è ancora peggio se sei single, perché in quel caso non ti si ricorda di avere una persona che ami e che ti ama, ma anzi di non avere nessuno, di essere sola come un cane.
Ecco che torna San Valentino, con tutte le adorabili coppiette che si sbaciucchiano per strada - e tu? Oh, giusto, tu sei ancora single, anche quest'anno. Già. Una meraviglia.
Quell'anno ovviamente era diverso, per me. L'anno precedente avevo trascorso San Valentino a casa a mangiare gelato, perché non stavo ancora con Andrea - ed ero, sì, pateticamente single. Questa volta, invece, stavo con qualcuno. E, soprattutto, amavo davvero quel qualcuno.
Tuttavia, solo un illuso potrebbe pensare che questo semplice fatto avrebbe potuto rivoluzionare il mio atteggiamento nei confronti di quella inutile festività. Per me era semplicemente uno degli infiniti giorni in cui avrei amato la mia ragazza.
Per questo avevo pregato Anna di non farmi regali, non farmi sorprese, non farmi niente.
    Lei ovviamente non mi ascoltò.
Arrivai di fronte alla scuola senza sospettare niente, ma prima che riuscissi ad entrare sentii una mano che afferrava la mia e mi tirava, mentre il proprietario della mano continuava a correre. Il proprietario della mano era, ovviamente, Anna.
All'inizio provai ad opporre resistenza, ma dopo un po' cedetti e mi limitai a seguirla. Lei continuava tirarmi mentre correva e rideva.
Dopo qualche minuto di corsa eravamo già arrivate alla stazione. Anna non si fermò e si gettò dentro un treno. Sperai che fosse almeno quello giusto, anche se non avevo neppure idea di dove fossimo dirette. Ci lasciammo cadere sui primi due posti che trovammo. Anna continuava a ridere mentre io, piegata in due, cercavo di tornare a respirare normalmente.
Quando avevo finalmente recuperato un po' di fiato, dissi: "Tu sei pazza."
"Sì, pazza di-", iniziò a dire.
Sobbalzai e mi affrettai a tapparle la bocca con una mano.
"Oddio no ti prego non dirlo."
"Cosa?"
"Quello che stavi per dire."
"Cosa stavo per dire?"
"Una delle frasi più stupide e smielate e ridicole che i film abbiano mai inventato."
Anna mi guardò con la faccia più minacciosa che riuscì a fare - non le venne molto bene a dire la verità, non riusciva ad apparire minacciosa, - si avvicinò al mio orecchio e iniziò a sparare una velocissima serie di "Sono pazza di te" con una voce che era un misto tra quella di un maniaco e quella di Dory in 'Alla Ricerca di Nemo'. Quando finalmente riuscii a farla allontanare lei era sfinita, non aveva più voce, eppure continuava a ridere. Non aveva mai smesso da quando mi aveva catturata davanti alla scuola.
"Be', ora che mi hai rapita dove hai intenzione di portarmi?"
"Nel mio covo segreto."
"Ah, okay. Basta saperlo."
"... No, al mare."
Spalancai gli occhi.
"Al mare?!"
"Sì. Hai presente il mare, quello bagnato e azzurro e..."
"Tu sei pazza davvero."
"Sì, di..."
"Smettila."
"...te."
"E' questo l'effetto che San Valentino ha su di te?", le chiesi. Poi continuai fra me e me: "Che poi non si stupiscano se critico questa stupida festa."
"No," rispose lei alla mia prima frase. "E' questo l'effetto che tu hai su di me." E scoppiò a ridere per la millesima volta.
"Anna. Dio mio, Anna." ora ridevo anch'io. "C'è qualche modo per farti rinsavire? Dov'è il pulsante per farti smettere?"
Si fece seria e mi guardò con occhi fintamente maliziosi. Poi con un movimento impercettibile del dito si indicò la bocca.
Risi e mi guardai intorno. La nostra carrozza era quasi vuota. C'era solo una signora diversi posti più in là ed un anziano che leggeva il giornale seduto nel lato opposto al nostro.
Iniziai ad avvicinarmi ad Anna.
"Poi però torni normale?", le sussurrai.
Fece segno di sì con un'espressione da brava bambina.
Sfiorai le sue labbra con le mie per un istante, poi mi allontanai.
"Ancora", disse lei con una voce che era effettivamente quella di una bambina piccola.
"Accidenti, non sei tornata normale proprio per niente! Quali erano i patti?"
Fece una risatina e ripeté: "Ancora."
Mi arresi e la baciai, questa volta per bene affinché non avesse più scuse.
Mi staccai solo quando sentii i movimenti del signore che girava pagina.
Alzai lo sguardo e vidi che per fortuna era assorto nel suo giornale. Però quando spostai lo sguardo sulla signora in fondo notai che lei sì ci stava fissando.
Appoggiai la testa sullo schienale del sedile e Anna mi imitò. Presi la sua mano. Lei girò un po' la testa e mi sorrise. Non era più il sorriso scherzoso della bambina impertinente di prima. Ora era di nuovo lei, e mi sussurrava seria: "Buon San Valentino."
"Buon San Valentino", le risposi sorridendo.
Pescai il mio ipod dalla cartella di scuola. Anche Anna aveva la sua cartella, ma al posto dei libri era piena di cibo e acqua.
"Quanto staremo via?", le chiesi.
"Quanto vogliamo", rispose.
"Mi piace."
Misi una cuffia a me ed una ad Anna, feci partire la musica e chiusi gli occhi.
    Li riaprii alcune ore dopo, svegliata dalla mia ragazza che mi scuoteva urlando: "Il mare!"
La guardai intontita.
"Maya, il mare!"
Mi girai verso il finestrino e lo vidi, il mare, che correva di fianco al nostro treno. Fui quasi accecata da tutta quella luce improvvisa, fui quasi sopraffatta dalla bellezza di quella distesa azzurra, con i riflessi del sole che giocavano sulla sua superficie e lo facevano danzare.
Tornai a guardare Anna. Poi abbassai lo sguardo e notai che la mia mano era ancora nella sua - non me la sentivo quasi più, ineffetti. La liberai e provai a muoverla per svegliarla. Un attimo dopo, però, la mia attenzione era di nuovo rivolta verso il mare. Mi ero dimenticata di quanto fosse affascinante. Non l'avevo mai visto così, quel giorno aveva come un sapore nuovo, mi ricordava...
Mi girai di nuovo verso di Anna. Poi ancora verso il mare. Poi ancora da Anna. Poi dal mare. Ero combattuta fra le due bellezze. Rimasi altri dieci secondi a contemplare i riflessi della luce sull'acqua. Infine fissai Anna, fissai i suoi occhi azzurri e limpidi e luminosi, e le dissi: "Hai il mare negli occhi."
E lo dissi come una bambina sorpresa che scopre per la prima volta la meraviglia del mondo.

Scendemmo alla stazione di un paesino della Liguria con un nome strano che dimenticai non appena l'ebbi letto. Quando raggiungemmo la spiaggia ci fermammo lì, in piedi, una di fronte all'altra. Ascoltammo il rumore del vento, delle onde, dei nostri respiri. Poi ci guardammo, e ci sorridemmo. Ed era la perfezione.
Ci accampammo sulla sabbia e mangiammo i nostri panini. Poi Anna iniziò ad implorarmi perché facessimo il bagno, ma io le ricordai che era febbraio e che se cercavamo un modo per morire certamente buttarsi in acqua a febbraio e per di più dopo aver mangiato era l'idea migliore. Visto che però nessuna delle due sentiva la necessità di morire, decidemmo di non fare il bagno.
Trascorremmo invece il pomeriggio disegnando sulla sabbia, rincorrendoci, facendoci duemilacinquecento foto e leggendo sedute con le schiene una contro l'altra.
Era il paradiso.
Alla fine però arrivò la sera. Con lei arrivò l'oscurità. E il freddo. Ed arrivò, anche, un gruppo di ragazzi. Sulla nostra spiaggia - come osavano?
Si piazzarono a circa quaranta metri di distanza da noi. Erano tre maschi e due femmine, sembravano avere più o meno la nostra età.
Continuammo ad osservarli in silenzio mentre loro provavano ad accendere un fuoco. Erano decisamente casinisti e confusionari, ma alla fine riuscirono ad accendere un degno falò.
"Dici che è ora di andare?", chiesi ad Anna.
"Forse sì," disse lei dopo averci pensato un attimo.
Iniziammo a raccattare le nostre cose, ma in quel momento ci accorgemmo che il gruppo di ragazzi stava gesticolando nella nostra direzione. Sembravano invitarci ad avvicinarci.
Io e la mia ragazza ci guardammo in faccia, indecise. Poi però Anna iniziò a camminare verso di loro, così la seguii. Man mano che ci avvicinavamo le loro voci si facevano più distinte e così anche l'odore del fumo. I ragazzi si rivelarono simpatici. Ci accolsero amichevoli e ci invitarono a sederci con loro. Non esitammo molto prima di accettare perché diamine, si stava indubbiamente meglio vicino al calore del fuoco.
Non ci chiesero neanche i nostri nomi, né noi chiedemmo i loro.
Ci chiesero però da dove venivamo, cosa ci facevamo lì, e se stavamo insieme.
"Insieme cioè noi due? Oh, no!", si affrettò a rispondere Anna. "No, siamo due amiche che hanno deciso di mandare al diavolo i ragazzi per San Valentino."
"Solo per San Valentino? O per tutta la vita?", chiese una delle due ragazze ridendo. Ma non c'era cattiveria nella sua voce.
"D'accordo, okay, stiamo insieme.", dissi io.
Risero tutti. "Si era capito dall'inizio. Siete una bella coppia."
Io ed Anna ci guardammo per un secondo.
"Ehm... grazie?", risposi io titubante.
    Ben presto però ci rendemmo conto che ci eravamo unite ad un gruppetto di amici davvero simpatici e gentili, e non impiegammo molto a sentirci completamente a nostro agio.
Così eravamo lì, io e la mia ragazza, in una spiaggia della Liguria davanti ad un fuoco il giorno di San Valentino. Sedevamo strette una all'altra e ascoltavamo i ragazzi intorno a noi mentre parlavano di vite e persone a noi totalmente estranee. Ma cavolo, si stava bene.
Ad un certo punto qualcuno tirò fuori una chitarra, così nel giro di due secondi le esclamazioni e le risate si trasformarono in una canzone cantata da voci stonate e fuori tempo che si inventavano più della metà delle parole. Ci unimmo a loro.
Finita la seconda canzone, Anna si alzò in piedi e chiese la chitarra.
"Non sapevo che sapessi suonare!", esclamai.
Lei si girò verso di me e disse: "Ci sono tante cose che non sai di me, baby!". Tutti si misero a ridere, me compresa, e il ragazzo riccioluto che prima suonava passò a lei la chitarra.
Anna imbracciò la chitarra e annunciò: "Questa canzone la dedico alla mia ragazza, Maya. Buon San Valentino." Ed iniziò a suonare e cantare Time After Time.
Nessun'altro oltre a me e lei conosceva la canzone, quindi ascoltavano tutti in silenzio, e ammetto che fu abbastanza imbarazzante. Ma anche tanto, tanto bello.
Bello quasi quanto la mia ragazza che stava lì in piedi davanti a me con una chitarra e con i capelli che volavano mossi dal vento e il viso illuminato dal fuoco e gli occhi che le brillavano nella notte scura. Dio, quanto era bella. E la sua voce, non posso dimenticare la sua voce.
Iniziai anch'io a cantare. Finimmo insieme quella canzone che era stato il nostro inizio.
Poi Anna restituì la chitarra e corse fra le mie braccia.
"Ti amo", le sussurrai nell'orecchio.
"Ti amo anch'io", rispose lei con la voce più dolce che sia mai esistita.
I ragazzi intorno a noi iniziarono ad applaudire, una ragazza esclamò: "Ah, l'amore!"
Noi rimanemmo lì abbracciate mentre intorno a noi una nuova canzone prendeva vita.

Salutammo i nostri nuovi amici che era ormai notte fonda.
Riuscimmo a prendere un treno alle due di mattina ed arrivammo alla stazione del nostro paese verso le sei.
Solo quando fui scesa dal treno mi resi conto che eravamo state via un giorno intero, notte compresa.
"Oh mio Dio," esclamai, "mia mamma..."
Anna mi fermò subito: "Mia mamma aveva telefonato a tua mamma dicendole che avresti dormito da me."
"Oh. Deo gratias. Santa donna, meno male che c'è lei."
"Già. Pensa solo che se non ci sarebbe lei non ci sarei neanch'io."
Rimasi un attimo a guardarla con un'espressione corrucciata.
"No, no. Il pensiero non mi piace. L'idea di... l'idea di un mondo senza di te. Già. Quindi tua mamma da santa diventa direttamente beata."
"Wow, glielo farò sapere. Sarà contenta."
"Già."
"Già."
"..."
"Andiamo? Sto gelando."
La osservai. Aveva ancora i jeans arrotolati alle caviglie per non bagnarseli e la giacca sottobraccio.
"Cos'è successo alla tua giacca?"
"Non ti ricordi?"
"No."
"E' finita in mare."
"Oh."
"Già."
"Quindi è ancora bagnata?"
"Già."
La guardai ancora dalla testa ai piedi e non riuscii a trattenere una risata.
"Cosa c'è?"
"Niente, è che abbiamo un aspetto orribile."
Rise anche Anna. "Immagino. E' una fortuna che a quest'ora non ci sia gente in giro."
"Giusto."
Mi tolsi la giacca e la infilai a lei. Poi la presi sottobraccio e ci incamminammo verso casa sua.
Mentre camminavamo Anna esclamò ridendo: "Maya guardaci, siamo un tale cliché!"
Io mi fermai seriamente a guardare prima me e poi lei, ma tutto quello che vidi fu una coppia di ragazze devastate che sembravano scappate da un tornado e avanzavano lentamente tenendosi sottobraccio, una con una giacca addosso e una in mano, l'altra con addosso solo una felpa.
 "Perché?", chiesi.
"Beh, mi hai dato la tua giacca! Come nei film. In questo momento stiamo seguendo il copione alla perfezione. La ragazza infreddolita esclama: 'Oh, che freddo! Se solo ci fosse un gentiluomo disposto a cedere alla sua giacca per salvare una povera donzella dalle grinfie del gelo!'; a quel punto arriva il gentiluomo e le porge la sua giacca. Siamo o non siamo un cliché?"
"Oh sì, se la metti così... siamo un cliché", risposi ridendo. "Quindi io sarei il gentiluomo?"
"Sì, sei il gentiluomo. Sei un vero cavaliere."
"Però c'è da dire che tu mi hai fatto una serenata ieri sera davanti a tutti, sotto il cielo stellato... era una serenata quella, no?"
"Giusto. Giusto. Quindi sono anch'io il gentiluomo?"
"Già, immagino di sì. Siamo entrambe due cavalieri."
"Giusto. Giusto. Siamo entrambe due cavalieri. Non più tanto cliché..."
Risi. "Non direi."
"E la principessa?"
"La principessa? Uhm... Ci deve per forza essere una principessa?"
"No, beh, non per forza, ineffetti..."
"Okay aspetta mettiamola così: tu ora sei una principessa, con la giacca del tuo cavaliere addosso. Allo stesso tempo, però, io ieri ero la principessa che ascoltava la serenata che le dedicava il suo cavaliere. Quindi..."
"Quindi siamo tutte e due principesse. E siamo tutte e due cavalieri."
"Esatto. Possiamo essere entrambe le cose contemporaneamente, giusto? Divertimento doppio."
"Divertimento doppio. Sembrava la pubblicità di una tariffa telefonica."
"Lo so, suonava tipo Rotoloni Regina, più che lungo, smisurato."
"Oh no questo è il peggio. Questo è il peggio e suonava sbagliato in tanti modi diversi."
"Oddio hai ragione, ne sono consapevole, me ne rendevo conto anche mentre lo dicevo. Ma ormai era troppo tardi. Aiuto ti prego cancelliamolo."
"Okay, cancellato."
Per fortuna non passava nessuno per strada a quell'ora, altrimenti avrebbero assistito a questa assurda scena di due ragazze che si piegavano in due dal ridere mentre camminavano mezze malandate e quasi sicuramente ubriache.
Eppure non eravamo ubriache. Eravamo soltanto...
"Siamo felici, vero?"
Anna smise di ridere e mi guardò seria.
Poi rispose lentamente, scandendo bene le parole: "Sì, siamo felici."
Ci sorridemmo per circa due minuti e cinquantadue secondi.
Infine distolsi lo sguardo dai suoi occhi e mi guardai intorno.
"E siamo arrivate."
Anna fece lo stesso e constatò anche lei che eravamo arrivate. Ci trovavamo proprio di fronte al suo portone.
La ringraziai per quella giornata perfetta, dicendole che era stato il San Valentino più bello della mia vita - non che ci fosse chissà quale concorrenza.
Le ripetei ancora una volta che l'amavo e lei ancora una volta rispose "ti amo anch'io."
Infine la salutai e riuscii a staccarmi da lei per tornare a casa mia. Prima di incamminarmi però mi girai ancora una volta a guardarla mentre spariva dietro la porta.
Quando arrivai a casa dormivano ancora tutti. Guardai l'orologio appeso nell'ingresso: erano le sei e mezza. Iniziai a salire le scale cercando di non fare rumore. A metà rampa, però, sentii la porta della stanza dei miei che si apriva. Poco dopo arrivò la voce di mia mamma: "Maya, sei tu?"
"No, mamma, sono un ladro." Mi accorsi dell'errore e aggiunsi: "...che... ti chiama mamma."
"Vieni su, Maya, che non ti vedo da una vita!"
"Okay mamma, però se riesci a parlare un po' più piano magari non svegli tutta la casa. E poi, a meno che tu non sia una farfalla, un giorno non è una vita."
Mi affrettai a salire le scale prima che avesse tempo di rispondermi e svegliare così tutti definitivamente.
Non appena mi vide mia mamma spalancò gli occhi e si coprì la bocca con una mano.
Avevo un aspetto così orribile? Evidentemente sì.
"Dove abita, questa tua amica, nella foresta pluviale?"
"Bella battuta, mamma, questo te lo devo concedere."
Sorrise compiaciuta. Poi mi prese il viso fra le mani e mi fissò negli occhi. "Ti sei divertita?", chiese.
"S...sì.", risposi titubante.
"Bene, sono contenta." Lasciò andare la mia faccia e sbadigliò. "Allora io me ne torno a dormire."
Fece per tornare in camera sua, ma si fermò a metà strada come colta da un pensiero improvviso.
"Quella tua amica... come hai detto che si chiama?"
"Anna."
"Anna, giusto. Be', dovresti invitare qui Anna una volta o l'altra. Sento tanto parlare di lei ma non l'ho ancora conosciuta!"
Quando mai ti ho parlato di lei?, pensai. Tuttavia le sorrisi e le dissi: "La conoscerai presto."
Lei mi guardò soddisfatta e tornò finalmente a dormire.
Io andai in camera mia e mi buttai sul letto, sfinita. Con le ultime forze che mi rimanevano mi sporsi verso lo zaino e tirai fuori il cellulare. Riguardai tutte le foto di quella meravigliosa, indimenticabile giornata. Ringraziai Anna nella mia mente e mi ripetei che la amavo ancora un milione di volte. E sperai di poter passare con lei un numero infinito di giornate come quella.

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


"Quindi, Ci sono tante cose che non sai di me, eh?"
"Ahahah, giusto."
"Tipo?"
"Tipo cosa?"
"Cos'è che non so di te? Hai qualche altro talento nascosto?"
"Sì, be'..."
"A parte suonare la chitarra e fare i toast e rapire ragazze il giorno di San Valentino?"
"Ah no, allora no."
Risi.
"No? Neanche qualcosa di stupido e inutile? Qualsiasi cosa."
"Oh, be', una volta riuscii a fare un enorme castello di carte."
Risi ancora più forte.
"Cosa c'è da ridere? Guarda che era davvero grande! Era altro quasi quanto me. Vabbe' che avevo otto anni... Ma ne andavo fiera, era stata una grande impresa per me! Lo mostravo a tutti e mio padre..."
"Tuo padre?"
"Mio padre aveva fatto un sacco di foto e quando poi cadde - perché alla fine ovviamente era caduto - mi consolò dicendo che avevo comunque le foto che provavano che l'avevo davvero costruito. Ho ancora una di quelle foto incorniciata."
"Dov'è ora tuo padre?"
"Non lo so."
"Tua mamma lo sa?"
"No, non lo sa neanche lei. Non credo le importi."
"E a te importa?"
"Non lo so."
Mi guardò con una faccia triste che mi distrusse il cuore.
"A te importa.", dissi.
"Già. A volte. A volte mi ritrovo a pensarci, a chiedermi..." fece una pausa. "Ma in realtà è meglio così, non voglio che torni."
La fissai per qualche secondo.
"Davvero non vuoi?"
"No. Cioè sì. Cioè non lo so."
"Vieni qua."
"Uffa."
"Mi dispiace. A volte la vita..."
"Qual è il tuo colore preferito?"
"L'azzurro. Il tuo?"
"Il rosso. Che tipo di azzurro?"
"Uhm... l'azzurro dei tuoi occhi. Che tipo di rosso?"
"Bugiarda. Il rosso dei tuoi... il rosso delle tue labbra."
"Ahahah certo. Il rosso delle mie labbra. Che non sono rosse ma rosa."
"Be', quando ti metti il rossetto..."
"Non mi metto mai il rossetto."
"Lo so. Accidenti. Allora il mio colore preferito è il rosa delle tue labbra."
"Quindi il tuo colore preferito è il rosa?"
"Sì, pare..."
"Ahahah, lo dici come se... guarda che non sei obbligata! Lo scegli tu il tuo colore!"
"E' okay, no, va bene, ho scelto questo. Tu rimani con l'azzurro?"
"Sì. L'azzurro dei tuoi occhi. Ma è davvero il mio preferito, non lo dico solo per provarci con te."
"Bene, perché io sono già impegnata."
"Oh, stai con qualcuno?"
"Sì. E' una ragazza riccia, alta un po' meno di me... fa delle pessime battute e non sa cucinare ma chissà come è riuscita a conquistarmi."
"Come ha fatto a conquistarti?"
"Non saprei, dev'esser stato quando ha tentato di soffocarmi..."
"Oh, capisco. Molto sexy."
"Già. O forse sai, forse quando si è messa a contare tutti i poster che ho nella mia camera. Ero talmente impressionata, mi son detta: accidenti questa ragazza sa contare fino a... quant'era?"
"Seicentotrenta."
"Ecco, seicentotrenta, giusto, mi son detta: sa contare fino a seicentotrenta, è una donna da sposare!"
"Be', sono felice per voi. Lei ti rende felice?"
"Sì. Molto."
"Perfetto, quindi."
"Perfetto."
"Qual è il tuo cibo preferito?"
"Pizza. Il tuo?"
"Toast."
"Ahahah, capisco."
"E ora manca solo più la domanda fondamentale."
"Di cosa ti nutri?"
"Ahahah no, non quella."
"Oh. Quale, allora?"
"La mia persona preferita."
"La tua persona preferita."
"Esatto. Ponimi la domanda fondamentale."
"Qual è la tua persona preferita?"
"Tu."
"Oh no ti prego, questo è davvero troppo smielato!"
"Lo so, lo so, potrebbe sembrarlo, ma in realtà è solo la pura verità."
"..."
"Davvero!"
"..."
"Perché, scusa, qual è la tua persona preferita?"
"Batman."
"..."
"Che c'è? Batman è un grande!"
"..."
"Okay, tu e Batman vi contendete il primo posto."
"..."
"D'accordo, sei un gradino sopra Batman! Contenta?"
"Contenta."

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


Tre giorni dopo Anna era seduta alla nostra tavola, nella nostra cucina, in casa nostra. Era uno strano spettacolo vederla lì in quella stanza che era sempre la stessa da quando io ancora gattonavo, con le presine bruciacchiate e i cuscini pieni di rigonfiamenti strani dopo gli infiniti lavaggi. Ora c'era anche Anna, lì, c'era la mia nuova vita dentro quella vecchia cucina.
Ma la cosa più surreale era avere lei al mio fianco e la mia famiglia dall'altra parte del tavolo. Due mondi che credevo non si sarebbero mai incontrati, o che perlomeno io fino ad allora avevo sempre tenuto ben separati. Eppure per il momento non era ancora saltato in aria niente.
Quella non era la prima volta che Anna metteva piede in casa mia: era la seconda, a voler essere sinceri. Si potrebbe però omettere la notte/mattina in cui sgattaloiò dentro casa trascinandosi una me molto ubriaca e scappando poi dopo qualche ora senza farsi beccare dai miei.
Questa volta era stata accolta alla porta con tutti i convenevoli. Il comitato di accoglienza, in realtà, era formato più che altro da mia madre, che l'aveva subito assalita con le sue milleduecento domande, e mio fratello che aveva urlato un Ciao dal salotto. Ma era già qualcosa.
Mia mamma aveva pregato mio padre di arrivare in tempo per la cena, "per una volta che Maya ci presenta la sua misteriosa amica", ma ovviamente era arrivato solo quando eravamo ormai al secondo. Devo però ammettere che era stato molto educato, aveva stretto la mano ad Anna dicendole: "E' un piacere incontrarti."
La sua concisione compensò le due ore di monologo di mamma, che continuò per tutta la cena e che comprendeva un dettagliato resoconto della mia vita dai tre anni circa fino al presente. Non dimenticò di includere Alessia e, ovviamente, Andrea.
"Maya stava con un ragazzo bellissimo, sai?", disse. "Ci siamo rimasti così male quando abbiamo saputo che non stavano più insieme!" Le facce indifferenti di mio padre e mio fratello non andavano molto d'accordo con il plurale usato da mia mamma. "E il bello è che è stata lei a lasciarlo! Cosa ti è mai saltato in mente, Maya?" Ora era rivolta direttamente a me e mi indicava con la forchetta mentre parlava. Poi tornò a rivolgersi ad Anna che, poverina, continuava a guardarla e ad annuire. "A volte non so proprio cosa passa per la testa di questa mia figlia."
         Vuoi un aiuto? Quello che mi passa per la testa in questo momento è: Mamma ti prego smettila. Oddio quando finirà questa tortura? Non vedo l'ora che finisca. Non vedo l'ora di andare di su con Anna. A proposito, guarda un po' quant'è bella oggi Anna. Mamma, papà, guardate quant'è bella la mia ragazza. Giusto, voi non sapete che è la mia ragazza. Piccolo particolare. Ma se lo sapeste, cosa ne pensereste? Ne sareste contenti? Bella è bella, non lo potete negare. E vi assicuro che è meravigliosa. Ahahah oddio, avrei proprio voluto vedere che facce avrebbero fatto se mi fossi presentata da loro del tipo: Mamma, papà, questa è Anna, la mia ragazza. Potrei farlo ora. Potrei dirlo in questo istante. Mio padre sputerebbe nel piatto dalla sorpresa e mia madre rimarrebbe con la forchetta sospesa. Lorenzo probabilmente continuerebbe a mangiare senza neanche sollevare lo sguardo. Accidenti, se solo sapessero. Accidenti, quanto è bella Anna. Guarda quei suoi capelli, e quelle sue labbra... Quelle sue labbra. Okay Maya smettila di guardarle le labbra. Sposta lo sguardo, devi smettere di... no, non lì, neanche lì. Girati. Guarda il piatto. Non guardarla. Non... pensare a lei. In questo momento non è la tua ragazza, okay? E' una tua amica. E' una tua amica che fra poco nella tua stanza, quando gli altri non vedranno, bacerai e... Le sue labbra. No basta Maya smettila smettila smettila pensa a qualcos'altro cambia argomento pensa ad altro - tacchini. I tacchini. I tacchini sono buffi. Che verso fanno i tacchini? Lo sapevo, accidenti... Ah giusto, gloglottano. Ahahah fa scassare, 'gloglottano'. 'Ciao sono un tacchino e gloglotto'. I tacchini gloglottano. Cosa fa un tacchino? Gloglotta. Poliglotta. Poligloglotta. Ahahah. Cosa fa un tacchino che parla tante lingue? Poligloglotta.
        "Ahahahahahahah!"
Si girarono tutti a guardarmi. Ops. Questa volta avevo riso per davvero, ero proprio scoppiata a ridere sonoramente. Non avevo resistito al tacchino poligloglotta.
"Scusatemi. Stavo... mi è venuta in mente una battuta. Scusate. Scusa mamma, non ha a che fare con quello che stavi dicendo." Qualsiasi cosa tu stessi dicendo.
Continuarono a fissarmi. Poi mia madre fece una risatina isterica e riprese il suo discorso.
"Ma comunque, basta parlare di Maya. Anna, parlaci un po' di te." Aiuto. Cosa le voleva chiedere ancora? Il suo numero di scarpe?
"Hai un ragazzo?" Uh-oh. Okay. Questa era bella.
Guardai Anna, indecisa se ridere o piangere. Lei non fece una piega.
"No," rispose. "Non ho un ragazzo." Non aveva mentito, ineffetti. Uno a zero per lei.
"Capisco." Mia mamma sembrava delusa. Era una di quelle donne sempre in cerca di gossip.
      L'atmosfera si stava facendo imbarazzante. O forse era solo una mia impressione. Quel che è sicuro è che vista dal mio punto di vista l'intera situazione era davvero ridicola. Ero a cena con i miei genitori e quella che per loro era solo una mia amica, ma era in realtà la mia ragazza, e mia mamma che se ne usciva con "hai un ragazzo?" di certo non aiutava.
Speravo solo che finisse in fretta quel supplizio. Lo speravo davvero.
Invece mia madre aveva fatto anche il dolce - non faceva mai il dolce, dannazione!
Mangiammo il dolce. Anna si complimentò con mia mamma. Lei disse che era davvero contenta di aver conosciuto una ragazzina così gentile. Mio fratello prese il bis. Mio padre lo seguì dopo poco. Io stavo per esplodere - e non perché avevo mangiato troppo. Quando mamma, tutta elettrizzata, propose di giocare a scarabeo tutti insieme, io  pensai Questo è troppo, presi Anna per un braccio e la trascinai via con la scusa che dovevamo fare i compiti. (Falso, ovviamente.)
Arrivate in camera mia ci chiudemmo la porta alle spalle, ci scambiammo uno sguardo e scoppiammo a ridere immediatamente dopo. Gli occhi di Anna mi fissarono per qualche minuto con il loro azzurro intenso, finché la bocca non le si aprì in uno dei suoi enormi sorrisi.
"Dio, quanto sei bella", sussurrai.
Lei rise ed iniziò a camminare per la stanza. Io continuai a guardarla senza staccarle un attimo gli occhi di dosso. Passò in rassegna tutti i libri sulla mia libreria, passando il dito su ogni dorso man mano che leggeva i titoli. Riuscivo quasi a sentire quel suo tocco, come se stesse sfiorando me al posto dei libri. Arrivò poi alla scrivania. Dove prima c'era la foto di me ed Andrea, quella che avevo fatto cadere mesi prima, ora ce n'era una di me con Anna. Eravamo sulla spiaggia il giorno di San Valentino. Lei si fermò, la prese in mano e sorrise.
A quel punto io mi ero avvicinata; l'abbracciai da dietro le spalle. Anna posò la cornicie e si voltò lentamente, rimanendo però sempre nel mio abbraccio.
"Cos'è che ti ha fatto ridere, prima?", chiese.
"Intendi mentre mangiavamo?"
"Sì, quando sei scoppiata a ridere da sola."
Risi di nuovo al ricordo. Quindi le raccontai tutto il mio percorso mentale fino ad arrivare al tacchino poligloglotta. Lei disse che ero completamente pazza e cercò di non ridere, ma non le riuscì, perciò ero sicura che avesse anche lei apprezzato la mia battuta geniale. Sorrisi compiaciuta. Anna scosse la testa. I suoi capelli volarono prima a destra e poi a sinistra in un'altalena dorata, riflettendo i raggi del sole. Non potei trattenermi dal farci scorrere le dita. Poi le guardai le labbra. Stavo impazzendo. Mi stava facendo impazzire.
Lei evidentemente era nella mia stessa situazione, perché chiese: "La porta è chiusa a chiave?"
Corsi subito a girare la chiave. Tornai da lei e la trascinai fino al mio letto.
Da sotto arrivavano le voci della mia famiglia che, tanto per cambiare, stava discutendo.
"Non dobbiamo farci sentire, però", sussurrai mentre mi sdraiavo accanto ad Anna.
"Ci proveremo", replicò lei ridacchiando.

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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


Mi trovavo nei bagni della scuola, inginocchiata in terra, mentre abbracciavo la mia ragazza, che piangeva con la testa appoggiata ad una mia spalla. Eravamo chiuse dentro quel bagno da diversi minuti, eppure lei ancora non era riuscita a parlare, a spiegarmi. La campanella di fine intervallo era suonata già da un pezzo, ma in quel momento la lezione di filosofia era l'ultima delle mie preoccupazioni. Avevo un'Anna sconvolta fra le braccia.
La lasciai sfogare ancora per qualche secondo. Poi la implorai per l'ennesima volta.
"Ti prego, Anna, dimmi cos'è successo. Mi stai facendo preoccupare. Mi stai uccidendo."
Smise per un attimo di piangere, sollevò la testa e mi guardò con i suoi occhioni azzurri tutti pieni di lacrime, tanto liquidi da essere quasi trasparenti.
"Cos'è... chi è che ti ha ridotta così?", chiesi ancora mentre sentivo salire la rabbia.
Lei distolse lo sguardo e si staccò da me, andando ad appoggiare la schiena contro la parete. Il bagno, tuttavia, era talmente stretto che le nostre gambe ancora si toccavano.
"Avanti, dimmelo", la incalzai.
Anna sospirò. Infine disse piano: "Andrea."
Quel nome sembrava riemergere da un altro mondo, un'altra vita. La vita in cui avevo un ragazzo e delle amiche e credevo di essere felice. Non avevo più parlato con Andrea, né con le ragazze. Incrociavo a volte uno di loro per i corridoi, ovviamente, ma fingevo di non vederli. Con Alessia era più difficile dal momento che eravamo nella stessa classe, ma lei era davvero molto brava a fare finta che non esistessi.
Mi sembrava strano, tuttavia, che Andrea potesse davvero essere la causa delle lacrime di Anna. Era arrabbiato con me, certo, ma non lo credevo capace di azioni vendicative.
"Andrea? Andrea... il mio ex ragazzo?", chiesi dunque stupita.
"Proprio lui", confermò Anna.
"Ma cosa... cosa ti ha fatto?"
"Cosa mi ha detto."
"Cosa ti ha detto?"
"Diciamo... una sfilza di parole non tanto carine."
Continuava a tenere lo sguardo basso, senza guardarmi negli occhi.
"Guardami. Dimmi esattamente tutto quello che ti ha detto."
Dopo un lieve sospiro iniziò a raccontare. Disse che quella mattina prima che iniziassero le lezioni Andrea era arrivato da lei dicendole che doveva parlarle. Erano andati all'ultimo piano, in un'aula vuota. Lì Andrea aveva subito iniziato a parlarle con rabbia, ad insultarla, a minacciarla.
"Ma cosa vuole, insomma?", chiesi sbalordita.
"Vuole che ci lasciamo. Mi ha detto... mi ha ordinato di lasciarti. Altrimenti..."
"Altrimenti?"
"Altrimenti dice a tutti che stiamo insieme."
Mi lasciai sfuggire una risata sarcastica.
"Cosa vuole fare? Non ne ha le prove. Non può saperlo neanche lui con certezza."
"Ma gli crederanno. Con tutte le voci che ci sono già in giro... con quello che sanno di me, soprattutto... gli crederanno. Lo sai anche tu."
Le sue ultime parole furono accompagnate da un'espressione rassegnata.
Io scossi la testa.
"Non capisco. Questo non è l'Andrea che conoscoscevo. Perché dovrebbe farlo?"
"Semplice: perché vuole riaverti. E mi odia per averti portata via da lui."
"Non capisce!", mi lasciai uscire con un volume un po' troppo alto, per poi subito abbassarlo nuovamente. "A me piacciono le ragazze, cavolo, che ci posso fare? Non è colpa mia, è colpa sua semmai! E' lui che è un ragazzo. Aveva solo da essere una ragazza."
Anna si lasciò sfuggire una piccola risata per la mia frase stramba.
Io pensai ad Andrea in un vestito, e inevitabilmente mi unii a lei.
"Ti immagini Andrea in versione ragazza? Con quelle sue gambe muscolose che escono dalla gonna? Creati l'immagine. Fa scassare. L'unico problema sarebbe trovare delle scarpe coi tacchi della sua taglia. Ma ne varrebbe la pena."
Riuscii a far ridere Anna, questa volta proprio per bene, e il mio cuore si fece un po' meno pesante.
Le presi la mano.
"Senti, non farà niente. Vuole fare il bullo ma in realtà è un gigante buono. Fidati, lo conosco."  O almeno lo conoscevo.
Lei non sembrava tanto convinta. "Se lo dici tu...", bisbigliò.
"Lo dico io. E poi, che ci provi solo a fare qualcosa! Non ho paura di affrontarlo, anche se è il doppio di me."
"Sei il mio cavaliere", replicò sorridendomi.
"Esatto. Sempre pronto a correre in soccorso della damigella in pericolo."
"Time after time."
"Time after time."
"Grazie, Maya."
"Vieni qua, abbracciami."
Strinsi la mia ragazza più forte che potevo. Volevo che sapesse che non doveva avere paura, volevo che sapesse che l'avrei protetta sempre. Volevo essere forte per lei, in questa interminabile battaglia contro il drago in cui a turno ci scambiavamo i ruoli del cavaliere e della damigella. La parte più difficile, però, era che il drago non si lasciava vedere, aveva i contorni indistinti, così che noi non sapevamo mai bene contro chi - o cosa - stessimo combattendo. Eravamo piccole e impotenti, eravamo in realtà entrambe damigelle, in un conflitto che andava ben al di là delle nostre singole vite.
       Dopo qualche minuto di abbraccio aiutai Anna ad alzarsi. La portai al lavandino e la aiutai a sciacquarsi la faccia, poi la guidai fino alla porta dei bagni. Lì le diedi un bacio e le chiesi se se la sentiva di tornare in classe. Rispose di sì, forzando un sorriso. La lasciai andare, osservandola finché non sparì inghiottita dalla sua aula, quindi tornai anch'io in classe.
     Passai tutte le restanti ore di lezione a maledire mentalmente quello di disgraziato di Andrea. Per fortuna non lo vidi per tutta la mattinata, né nel seguente intervallo né all'uscita. Probabilmente se ne stava ben nascosto all'ultimo piano, consapevole del fatto che Anna aveva quasi sicuramente raccontato tutto a me, e che quindi una fiera dai capelli ricci lo aspettava di sotto, pronta ad affondare i denti nel suo collo. Io, da parte mia, cercai di trattenermi dal salire le scale. Perché davvero, dopo non mi avrebbe più fermato nessuno. Ma volevo, almeno per il momento, lasciar correre.
    Anna dopo la scuola venne a casa mia. Mia mamma ormai si era abituata alla sua presenza e non si esagitava più tanto. Dopo pranzo salimmo subito in camera con l'intenzione - sincera, per una volta - di studiare, ma dopo neanche un'ora ci ritrovammo a discutere sui film che non rispettavano i libri da cui erano tratti e quelli che invece lo facevano ed erano, per questo, senza dubbio migliori.
Per tutta la sera notai che ad Anna mancava la solita luce che aveva negli occhi. Si sforzava di fare battute e ridere alle mie, ma vedevo che c'era qualcosa che non andava. Qualcosa che la preoccupava. Ma feci finta di niente.
La cosa però continuò. A scuola era più sfuggente che mai, quando ci trovavamo sole in camera mia o sua era assente.
A fine settimana decisi che dovevo affrontare il problema. La sentivo distante, e questo mi terrorizzava più di ogni altra cosa. Mi spaventava a morte.
"Ci stai seriamente pensando. Ci stai pensando, vero?"
Eravamo sedute vicine sopra il suo letto.
"A cosa?"
"A quello che ha detto Andrea."
Si girò e mi rivolse un'occhiata interrogativa.
"A lasciarmi", continuai.
Scosse la testa, ma non rispose subito.
"No, Maya, no", disse infine. Ma non mi guardava negli occhi.
"Sì invece. Stai considerando la possibilità. Hai paura che Andrea lo faccia davvero, che lo dica a tutti, e tu vuoi evitarlo a tutti i costi. Anche se significa non stare più con me."
"Cosa stai dicendo? Non potrei mai farlo. Sono preoccupata per quello che potrebbe fare Andrea, lo ammetto. Ci sto pensando da tutta la settimana e non sono convinta che le sue siano solo minacce. Ho paura, sì. Se dovesse dirlo in giro..."
"Non lo farà."
"Ma se dovesse farlo..."
"Vado a parlargli io, okay? Ti assicuro che dopo non avrà più voglia di scherzare. Ora mi sente, davvero."
"D'accordo."
"Tu però non lasciarmi, hai capito? Ti prego. Non lasciarmi mai, Anna, perché non sopravviverei. Seriamente. Potrei sopportare le voci in giro per la scuola, potrei sopportare le battute, gli insulti, persino, ma non potrei mai sopportare il pensiero di perdere te. Quello mai. Quindi ti prego, Anna, non farmi questo. E' l'unica cosa che mi ucciderebbe. Ti prego. Non risolveresti niente. Mi uccideresti soltanto."
Lei mi fissò senza dire niente. Alcune lacrime iniziarono a riempirle gli occhi, poi scesero sulle guance. Continuava a guardarmi in silenzio. Io facevo lo stesso. Sentii che anche le mie guance si bagnavano di lacrime.
"Di' qualcosa, ti prego", implorai con voce tremante.
"Ti amo", disse lei fra le lacrime.
"Lo so. Ma sei tu che devi ricordartelo. Quando stai per fare qualcosa di stupido. Non dimenticartelo, okay?"
"Okay."
"Grazie. Ti amo anch'io."
"Grazie."


"Stupido cretino, sei completamente impazzito?!"
Mi ero appena scagliata contro le spalle di Andrea, l'avevo spinto contro il muro dietro la scuola,  facendomi non poco male alle braccia.
Lui si girò con un'espressione a metà fra lo sbalordito e l'infastidito.
"Tu sei impazzita! Arrivi qua e mi assali così? Ti pare?!"
Abbassai la voce. "Cosa hai intenzione di fare? Cosa vuoi? Cosa vuoi da me?!"
"Niente, non voglio proprio niente! Mi lasci stare?"
"Andrea. Ascoltami bene. Non so quale sia il tuo problema, ma non hai niente di cui vendicarti. E comunque non ci riuscirai. Non te lo permetterò, okay?"
"Di cosa diavolo stai..."
"Sei andato dalla mia ragazza, lo so, l'hai fatta piangere, l'hai fatta stare male, e questo non te lo permetto, d'accordo? Prenditela con me, cavolo! Insulta me, insultami!"
"Non posso." I suoi occhi, prima pieni di rabbia, si erano fatti improvvisamente tristi.
La mia voce si abbassò di mezza ottava.
"Perché?"
Lui distolse lo sguardo. Poi sussurrò: "Perché io ti amo ancora."
Questo mi mise a tacere. Non ero preparata a questo.
"Mi dispiace", gli dissi. Provavo quasi compassione per lui. Poi però ripensai ad Anna che singhiozzava fra le mie braccia sul pavimento del bagno. Ripensai a quello che Andrea le aveva detto, a come l'aveva chiamata. E la rabbia tornò a farmi visita. Possibile che ci fosse spazio per due persone così diverse all'interno dello stesso corpo? L'Andrea buono e l'Andrea vendicativo. Ineffetti la sua stazza sembrava capace di contenerli entrambi.
"Ascoltami, Andrea. Io non posso farci niente. E neanche tu. Quello che stai facendo non risolverà le cose. Farà solo star male tutti quanti. Me, Anna, ed anche te. Perché lo sai che io non tornerei comunque da te. E non per colpa mia, ma perché... non è una mia decisione, Andrea. Devi capirlo. Non puoi cambiare quello che sono. E non posso nemmeno io. Io amo Anna. Io sto con lei. E se anche non stessi con lei, non significa che starei con te. Non potrei mai amarti. Mi dispiace, ma è così. Non ci si può fare niente. E prendendotela con Anna non concludi un bel nulla. E so che è una cavolata bella e buona, ma nei film la menano sempre con questa storia del 'Ti amo davvero quindi voglio solo che tu sia felice'... e so che è una cavolata, ma se tu la volessi pensare così, allora dovresti desiderare che io stia con Anna. Perché quello è l'unico modo per me di essere felice. Poi be', decidi tu come vedere la cosa. Io ti posso solo dire che penso che tu sia una brava persona, quindi vedi di comportarti di conseguenza. E se ci riesci trovati una ragazza che possa davvero impazzire per quei tuoi muscoli e il tuo sorriso dolce e i tuoi occhioni. Perché davvero, com'è che sei ancora qui che pensi a me? Con tutte le ragazze che sarebbero più che pronte a vendere un rene solo per toccare con un dito il tuoi addominali! Devi stare a pensare proprio a me, l'unica che ai tuoi pettorali preferisce un bel paio di tette?"
Andrea si mise a ridere. Non sembrava più tanto arrabbiato.
"E' strana, eh, la vita?", ripresi io sorridendo.
"Già", fece lui con un sorriso rassegnato.
"Ti sei visto allo specchio, Andrea? Seriamente. Puoi avere tutte le ragazze che vuoi."
Guardò in basso, poi puntò su di me i suoi occhi da cagnolino sconsolato.
"...Tranne me", specificai.
Lui abbassò di nuovo lo sguardo.
"Ma davvero, non ci perdi niente!"
A quel punto sentii dei passi dietro di me e mi girai. Vidi Anna che si avvicinava lentamente. Guardava prima me e poi Andrea, titubante. Io le tesi la mano e quando arrivò me la strinse.
Andrea continuava a non dire niente. Si limitò a guardarci e scuotere le spalle.
"Però devo ammettere che siete una bella coppia", farfugliò infine.
Io ed Anna ci guardammo e ridemmo.
"Grazie, non sei il primo che ce lo dice."
"Be' allora... vi auguro ogni bene e... tutte le robe che si dicono di solito, insomma. Ciao, Maya."
"Ciao, Andrea."
La mia ragazza mi strinse le spalle con un braccio e mi portò via, mentre lui rimaneva lì a guardarci.

Camminavamo verso casa nell'aria ormai primaverile, il braccio di Anna ancora intorno alle mie spalle.
Ad un certo punto lei ruppe il silenzio e domandò con voce grave: "Se tu potessi scegliere fra stare con lui e stare con me, cosa... chi sceglieresti?"
Io rimasi in silenzio, spiazzata. Ovviamente, però, non avevo bisogno di pensare alla risposta.
"Sceglierei di stare con te."
"No, intendo... non così, così è ovvio che non sceglieresti lui, ma se le cose fossero diverse, se ti fosse possibile innamorarti di un ragazzo?"
"Mi stai chiedendo se preferirei essere etero?"
"Sì, in un certo senso..."
"No. La risposta è no. Io sono felice di quello che sono. Soprattutto perché vuol dire stare con te. E io sceglierei sempre e comunque te, anche se potessi scegliere." Aggiunsi con un sorriso: "Scelgo te." Poi, più piano: "...Pikachu."
Lei non rise. Perché non aveva sentito la battuta, volli sperare.
Continuò invece con altre domande: "Sei sicura? Anche con tutti i casini, tutte le complicazioni?"
"Certamente, Anna, certamente. Ne vale... ne vali la pena. Decisamente. Te l'assicuro."
Le sorrisi. Questa volta rispose anche lei con un sorriso.
Stava per dire qualcosa, ma fummo costrette ad allontanarci rapidamente perché vedemmo avvicinarsi un ragazzo della nostra scuola.
Quando fummo di nuovo fianco a fianco fui la prima a riprendere la parola:
"Posso farti anch'io una domanda?", le chiesi.
"Certo."
"Perché non vuoi che si sappia che stai con me?"
Il sorriso le sparì dalla faccia.
"Di' la verità", continuai. "E' perché sono una ragazza, o perché sono..." feci un sospiro - stavo per lasciarmi uscire qualcosa che aveva tormentato il mio subconscio per tutto il tempo. "...Perché sono io?"
Anna spalancò gli occhi.
"No, Maya, no!", disse quasi urlando.
"Cosa? Cosa no?"
"Non è così, Maya, non pensarci mai. Cosa diavolo vai a pensare? Mi dispiace che io ti abbia evidentemente dato qualche ragione per pensarlo, ma..." Si interruppe, si guardò intorno e si diresse verso una panchina a tre passi da noi. Eravamo nel bel mezzo del nulla, a metà fra la scuola e i nostri quartieri.
Fece un grande sospiro. Mi prese la mano ed iniziò ad accarezzarla. Poi mi rivolse un sorriso triste e riprese a parlare: "La nostra situazione è più complicata del normale, lo sappiamo. Non dovrebbe esserlo, ma è così. La nostra storia è più travagliata di una normale storia come potrebbe essere quella fra un ragazzo ed una ragazza. Il nostro amore ha più ostacoli di quanti ne dovrebbe avere. E mi dispiace se io non mi sto comportando come dovrei, se ti sto facendo mancare qualcosa... Io lo so, lo so che dovrei fare di più e dovrei darti molto di più, ma spesso... se a volte mi blocco, se tiro il freno a mano è perché ho paura. Io so che dovrei fregarmene e pensare solo a te e a quanto mi rendi felice, ma non riesco a non pensare al giudizio della gente. E mi odio se penso che questo impedisce a te di avere quello che meriteresti. Ma quel che ti posso assicurare è che io non mi vergogno di te. Affatto. E' solo tutto così complicato, dannazione! Io... sì, ho paura che qualcuno scopra che sto con te. Ma questo non vuol dire che io non sia terribilmente felice ed orgogliosa di questa cosa che abbiamo noi due. Questo nostro amore. Io ne sono orgogliosa, Maya. Un sacco. Perché io so che è qualcosa di bellissimo, e meraviglioso, ed unico e stupefacente. Ma gli altri non lo sanno, Maya. Gli altri non lo vedrebbero così. E' di questo che ho paura, forse."
Questo riuscivo a capirlo. Era esattamente quello che provavo sempre anch'io. La paura che gli altri sminuissero quello che c'era fra me ed Anna, che osassero denigrare questo incommensurabile tesoro che era ciò che di più importante avevo.
Mi feci più vicina a lei e appoggiai la testa sulla sua spalla. Il profumo dei suoi capelli era sempre lì, suo. Casa.
"Va bene così, giusto?", bisbigliai contro il suo collo. "Va bene così che solo noi lo sappiamo ma è giusto così."
"Già. Va bene così. E' nostro. Nessuno ce lo tocca."
"E tu sei mia."
"E io sono tua, e tu sei mia."
"E abbiamo ripassato i possessivi. La mia maestra delle elementari sarebbe fiera di me."

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***


Le settimane passavano, la primavera aveva ormai colorato tutti gli alberi. La luce gialla che riempiva l'aria portava speranza. Di cosa, di preciso, non si sa - ma pur sempre speranza era, e la speranza non guasta mai.
Le popolazioni di zombie mangiacervelli che abitavano gli edifici scolastici si stavano pian piano risvegliando insieme agli insetti. Sembravano addirittura più intelligenti. O leggermente meno stupidi, per lo meno. Si trascinavano sempre tutti sotto il loro zaini pesanti, ma adesso le maniche corte sembravano donar loro un poco più di vitalità.
Erano magicamente spuntate coppiette qua e là, così li vedevi durante gli intervalli avvinghiati uno all'altra in ogni angolo o anfratto della scuola. Ah, la primavera. I professori passando mormoravano qualche rimprovero poco convinti o si limitavano a storcere il naso e continuare per la loro strada. Seguivo anch'io la seconda opzione: stocevo il naso e guardavo altrove. Ma un po' li invidiavo.
Io ed Anna eravamo costrette a chiuderci in bagno e comportarci come clandestine per contribuire con il nostro omaggio alla primavera.
Ma era estremamente rischioso, quindi cercavamo di evitarlo il più possibile.
Fortunatamente non c'erano più state voci strane né su Anna né su di me né su tutte e due insieme. Il che era buono, ma non era una scusa per abbassare la guardia.
     Quella mattina come sempre camminai con Anna fino all'angolo prima della scuola - avevamo ristretto il confine massimo di almeno 10 metri, che era già un progresso.
Ci salutammo rapidamente ed entrammo a scuola a distanza di un minuto una dall'altra.
Siccome mancava appunto un minuto al suono della campanella, io arrivai quasi in ritardo. La professoressa di scienze era già seduta alla cattedra e mi osservò entrare in silenzio. Quando mi fui seduta lei richiamò all'ordine il resto dei miei compagni che si parlavano da una parte all'altra dell'aula; quando riuscì a conquistare un silenzio quasi perfetto iniziò la lezione. Passammo un'ora ad ascoltare ogni singolo passaggio della divisione cellulare. Mi tornò in mente una frase di Hanna in Pretty Little Liars: "A chi importa come si divide una cellula, lo fa e basta!" Le diedi ragione, ma siccome la prof. all'interrogazione non avrebbe accettato una risposta del genere, continuai a prendere appunti.
     L'ora successiva avevamo inglese. Dovevamo preparare un lavoro di gruppo, così la professoressa iniziò a formare le coppie.
"Non possiamo sceglierle noi, le coppie?", fece una voce dal fondo dell'aula.
"No, le scelgo io", rispose - ovviamente - la prof.
Per me era totalmente indifferente, non avrei saputo comunque chi scegliere e probabilmente nessuno avrebbe scelto me. Quindi meglio così, mi evitavo un'umiliazione.
O almeno così avevo creduto.
Andò peggio, invece. Finii in coppia con Alessia. Quello sì che era imbarazzante.
Non appena la prof. disse i nostri nomi uno dopo l'altro, sentii Alessia sbuffare dietro di me. Mi girai. Lei mi guardò con uno sguardo torvo.
"Bene, potete approfittare del tempo che resta per organizzare il lavoro!", esclamò la prof.
Iniziarono tutti ad alzarsi ed unirsi ai loro compagni. Io, benché riluttante, feci lo stesso.
Non appena fui arrivata al suo banco, Alessia brontolò: "Sappi che non chiedo di cambiare coppia solo perché sei brava in inglese."
Sospirai.
"Posso almeno sapere cosa ti ho fatto, Alessia?"
Lei mi rivolse un'occhiata sprezzante. "Cosa mi hai fatto? Cosa mi hai fatto, chiedi?" Il suo tono era odiosamente sarcastico.
"Sì, è quello che ti ho chiesto. Perché io proprio non capisco."
"Lasciamo stare, va'. Pensiamo al lavoro di gruppo, visto che dobbiamo per forza farlo."
Ci mettemmo al lavoro. Ci scambiavamo qualche frase fredda ogni tanto, solo quando eravamo davvero costrette a parlare ed esclusivamente riguardo il compito da svolgere.
Alla fine dell'ora ci accordarmo per incontrarci e finire la ricerca: sarebbe venuta lei a casa mia, visto che io avevo la stampante.
   Avrei voluto correre da Anna e raccontarle quel terribile scherzo del destino, e sfogarmi su quanto la fortuna ce l'avesse con me, ma non potevo. Non ancora. Così rimasi in corridoio appoggiata con le spalle al muro e cercai di non pensarci. Per distrarmi iniziai ad osservare tutte le persone che mi roteavano intorno. Alcuni stavano in gruppetti a chiacchierare, altri passeggiavano addentando enormi panini, altri ancora si dirigevano verso il cortile con le sigarette già pronte in mano.
Poi c'era Anna, l'unico elemento fermo in quel turbinio di colori. Se ne stava là dove l'avevo vista la prima volta, in piedi vicino alla finestra.
I nostri occhi si incontrarono per un secondo. Le sorrisi, lei mi sorrise. Poi distolse subito lo sguardo, ed io feci lo stesso.
Oh, mi uccideva.
Sospirai. Convinsi le mie gambe a muoversi e mi trascinai fino alle macchinette per comprarmi qualcosa da mangiare. Non avevo fame, ma non sapevo cos'altro fare nei minuti di intervallo che mi rimanevano.
   "Ehi, lesbicanna!", sentii urlare mentre camminavo. Mi girai di scatto, giusto in tempo per vedere un gruppo di ragazzi che si dirigevano verso di Anna. LesbicAnna? Oh, per favore.
I tre iniziarono a ridere e ripeterono ancora: "Lesbicanna! Come te la passi, lesbicanna?"
Anna li guardava avvicinarsi, impassibile. La sua faccia non tradiva emozioni, le labbra serrate e gli occhi fissi davanti a sé.
Io mi ero pietrificata in mezzo al corridoio e guardavo la scena come in un sogno. Uno di quegli incubi dove dorresti correre ma hai i piedi inchiodati a terra.
Avevo le braccia lungo i fianchi, e diamine se tremavano. Volevano spingere via quei tre ritardati, volevano scaraventarli lontano da Anna.
Lei non reagì neanche quando le si fermarono di fronte e si misero a inveirle contro a venti centimetri dalla sua faccia.
"Ti piace il tuo nuovo soprannome, vero?"
"E' stata un'idea di Roberto, gli è venuto in mente stamattina."
"E' geniale, vero? Lesbicanna?"
Oh sì, davvero geniale. Credevano davvero di essere intelligenti? Lo credevano davvero?
"Perché non rispondi, lesbicanna?"
 Intorno al gruppetto alcuni si erano fermati a guardare, altri gettavano un occhio e passavano oltre.
Strinsi i pugni. La rabbia mi riempiva la cassa toracica.
Feci un passo in avanti. Poi un altro. In quel momento Anna cercò i miei occhi da sopra le spalle di uno dei ragazzi. I nostri sguardi si incontrarono. Lei scosse la testa in un movimento impercettibile. Io mi fermai. Le lacrime iniziarono ad offuscarmi la vista. Abbassai la testa e sperai che in tutto questo tempo nessuno avesse prestato attenzione a me.
Sentii i tipi che si scambiavano pacche sulle spalle e ridevano nel modo più stupido possibile. Poi pian piano li sentii allontanarsi. Si erano stufati, la mancanza di reazione da parte di Anna aveva tolto il divertimento.
Alzai di nuovo la testa. Anna era sempre là, e mi guardava. I suoi occhi azzurri erano vetro, ancora inespressivi. Io sentii un brivido di freddo che mi scendeva lungo la spina dorsale.
Volevo fare qualcosa, volevo dirle qualcosa anche solo con un'espressione del viso, ma rimasi anch'io a guardarla con una faccia che era probabilmente molto simile alla sua - a parte per le lacrime.
Quando arrivai a casa mi fiondai subito in camera mia. Non chiamai Anna. Avevo bisogno di stare sola, avevo bisogno di pensare.
La scena di quella mattina continuava a tormentarmi.
Non l'ho aiutata, mi ripetevo. Non l'ho salvata.
Lei era lì, in pericolo, e io non l'avevo salvata. Ero rimasta a guardare. Eppure ci eravamo promesse che ci saremmo sempre aiutate a vicenda, avevo promesso a me stessa che l'avrei salvata sempre... Che razza di cavaliere ero, se non riuscivo neanche a salvare la mia damigella da un trio di stupidi ed insignificanti gnomi?
Ma diamine, io ero pronta ad aiutarla, stavo per farlo! Lei però aveva scosso la testa, mi aveva detto di non farlo. Perché l'aveva fatto?
Quindi finalmente capii: era lei che non voleva essere salvata. E io non potevo salvarla se lei non voleva essere salvata.
Questo però rendeva le cose solo più difficili. Cosa avrei dovuto fare, io? Stare ferma a guardare ogni volta? No, non avrei più potuto sopportarlo. Faceva troppo male.

Io ed Anna non ci vedemmo per due giorni. A parte la scuola. La scuola non contava.
Quando la vedevo nel corridoio continuava ad essere la statua di marmo con gli occhi di vetro. Sapevo che lo stava facendo per difendersi, per non soffrire. Ma sapevo anche che in realtà, sotto lo strato di marmo, la mia bella statua soffriva eccome.
Decisi che quello che stavamo facendo, qualsiasi cosa stessimo facendo, era sbagliato. Stavamo sbagliando tutte e due, ma io sbagliavo ancora di più se mi ostinavo a dare a lei la colpa e far finta di niente. Lei non mi chiedeva aiuto, così come io non gliene avevo chiesto nel lungo periodo dopo il nostro primo bacio. Ma sapevo bene che questo non significava che non ne avesse bisogno.
Così quel pomeriggio le scrissi: "Dobbiamo vederci."
"Okay. Ti aspetto", rispose subito lei.
Quando arrivai davanti a casa sua la trovai sulla porta ad aspettarmi per davvero. Salimmo insieme le scale due gradini per volta. Una volta al sicuro dentro la sua camera, ci abbracciammo con tutte le nostre forze. "Mi dispiace", sussurrai. Volevo dirle un milione di altre cose, ma non ne uscì neanche una.
"Mi dispiace", disse anche lei.
Continuammo a stringerci ancora per un minuto buono. Poi sua madre bussò alla porta. "Maya si ferma a cena?", chiese da fuori la stanza.
"Sì," rispose Anna.
Ed era di nuovo tutto normale. Era tutto a posto. Almeno per il momento.

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII ***


Era venerdì pomeriggio e da un momento all'altro sarebbe arrivata Alessia per la famosa ricerca. Anna era seduta accanto a me sul mio letto, l'avevo pregata di esserci perché così il tutto sarebbe stato un po' più sopportabile.
Stavamo parlando di Alessia. Secondo Anna sicuramente lei sentiva la mia mancanza, ma era troppo orgogliosa per ammetterlo. Secondo me semplicemente non era mai stata davvero mia amica.
La nostra conversazione fu interrotta dal campanello. Alessia era puntuale come sempre.
Andai ad aprirle e la guidai verso la mia camera - chissà che non si ricordasse ormai più la strada. Lei mi seguiva in silenzio.
Quando vide Anna sul mio letto, però, disse con un tono acido: "Ah, c'è anche lei."
"Sì, c'è anche lei", risposi imitando la sua voce. "Non sapevo dovessi chiedere il tuo permesso per invitare la mia ragazza nella mia stanza."
Anna intanto l'aveva salutata, ma lei continuò come se non l'avesse sentita. "La tua ragazza? Oh, giusto. La tua ragazza."
Odiavo il modo in cui lo diceva. E come faceva finta che non esistesse.
Tornai a sedermi vicino ad Anna come in una presa di posizione.
"Lì c'è una sedia, lì c'è il computer, buon lavoro."
"Come, tu non fai niente?"
"Fai intanto tu, poi io arrivo."
"Se pensi che ti faccia tutto il lavoro mentre tu te ne stai lì a sbaciucchiarti con la tua... ragazza, guarda che ti sbagli. Io non ho niente da perdere nell'andare dalla prof. a dirle perché non abbiamo finito la ricerca."
"Ecco, dillo anche a me il motivo, allora! Perché non abbiamo finito la ricerca? Perché ci stiamo urlando contro? Perché mi stai rendendo tutto così difficile? Che problema hai, Alessia?" Presi la mano di Anna e sollevai le nostre mani incrociate per mostrargliele. "Perché non riesci ad accettarlo? Perché non puoi accettarlo?"
Ora stavo urlando. E stavo scuotendo la mano di Anna nella mia. Alessia guardava senza dire niente. Era anche lei molto arrabbiata.
Per fortuna c'era Anna, che mi passò la mano libera sulla gamba per calmarmi.
Io la guardai e alzai gli occhi al cielo. Poi mi alzai con un sospiro.
"D'accordo, facciamo questa dannatissima ricerca. Prima iniziamo, prima finiamo."
Ancora una volta lavoravamo in silenzio. Comunicavamo più che altro a gesti o monosillabi.
Anna, seduta in mezzo a noi come una barriera protettiva, dava un contributo con quel che sapeva.
Alle sei arrivò mia mamma. "C'è qualcuno?", urlò dal piano di sotto.
"Ci sono iooooo!" urlai di rimando.
Dopo qualche istante comparve alla porta. Le ci volle un po' per registrare la scena che si era trovata davanti agli occhi, ma dopo sorrise e disse: "Ciao Anna. Ciao Alessia, è bello rivederti."
Alessia le si rivolse con la voce più amichevole e allo stesso tempo falsa che avessi mai sentito: "E' un piacere anche per me."
Non appena mia madre chiuse la porta e sparì di sotto, l'atmosfera tornò glaciale come due secondi prima. Ci rimettemmo al lavoro.
    Un'ora dopo, finalmente, avevamo finito. Alessia si alzò, io ed Anna la seguimmo. La accompagnammo giù. La scena fu molto, molto imbarazzante. Mia mamma poteva benissimo sentirci dal salotto.
"Allora ci vediamo, Maya", disse Alessia con un sorriso tirato.
"Già, ci vediamo a scuola", risposi io.
Lei si girò ed uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
"... Comunque ciao", bisbigliò Anna. Non l'aveva salutata.
Scossi la testa ridendo.
In quel momento la testa di mia madre comparve dal vano della porta della sala. "Oh, Alessia se n'è andata? Volevo salutarla."
"Troppo tardi, mamma."
Vide però che Anna c'era ancora, così le tornò il sorriso. "Tu invece ti fermi a cena, Anna?"
Sorrisi anch'io. "Sì", dissi. "Anna si ferma a cena."

Dopo cena Anna si fermò ancora un po' nella mia stanza. Eravamo sdraiate vicine al buio, quando il suono improvviso del campanello ci fece sobbalzare. Immediatamente ci tirammo su a sedere. Ci guardammo.
"Chi diavolo è adesso?"
"Non lo so", disse lei. "Che sia Alessia che torna a scusarsi?"
"Ne dubito. Aspettami qui."
Mi alzai ed uscii dalla camera.
"Accendimi almeno la luce!", sentii bisbigliare Anna da dentro.
Infilai un braccio dentro e schiacciai l'interruttore, poi infilai anche la testa per farle una linguaccia. Ed un'altra linguaccia fu quello che ottenni.
Mia mamma intanto doveva essere già andata ad aprire.
"Maya, c'è Cristina!", urlò.
Mi affrettai giù per scale. Quando arrivai davanti alla porta vidi che effettivamente Cristina era in piedi nel nostro ingresso.
Questa è la giornata delle ex-amiche, pensai.
Con Cristina però non potevo mantenere un atteggiamento arrabbiato, non di fronte al suo sorriso amichevole.
"Ciao Maya, spero di non disturbarti."
"Non mi disturbi. Vieni di sopra."
Accompagnai anche lei in camera mia, chiedendomi quando sarebbe finito il viavai.
La reazione di Cristina al vedere Anna fu l'opposto di quella di Alessia, e questo mi fece piacere. Cristina sorrise ed esclamò: "Oh, ciao Anna!"
Non potevo, non potevo proprio restare arrabbiata con lei.
"Ciao Cristina", rispose Anna senza il minimo imbarazzo. Era andata a sedersi su una sedia di fronte alla scrivania.
Cristina fece un passo avanti e rimase lì in piedi al centro della stanza. La feci sedere. Poi andai a chiudere la porta e infine mi sedetti anch'io sulla terza sedia.
Il silenzio era notevole. Cristina continuava a guardare me ed Anna e sorridere.
"Quindi, Cristina..." iniziai. "Sei venuta qui perché..."
Lei sembrò risvegliarsi. "Oh sì, giusto. Niente. Sì. Sono solo venuta... ho deciso di venire perché mi ero stufata di tutta questa situazione, sai, no?, Alessia che ce l'ha con te e non ti parla e noi che dobbiamo fare lo stesso perché lei non vuole che ti parliamo e..."
"Aspetta", la interruppi, "è lei che non vuole? Vi ha detto lei di non parlarmi?"
"Sì, da quando tutto il casino è successo... Ha detto che non dovevamo più parlarti e non dovevamo più farci vedere con te perché tu ora eri..." Si fermò. Poi riprese a parlare da un punto diverso. "Ma io sono venuta a dirti che io non ce l'ho con te, io non avrei voluto fare come diceva Alessia, ma Laura era d'accordo con lei e così io... ma ora lo so che ho sbagliato. E voglio dirvi, a tutte e due, che per me siete davvero una bella coppia. Perché state insieme, vero?" Ci guardò in attesa di conferma.
"Sì", dissi io infine, "però parla piano."
Lei si guardò intorno e riprese a parlare un po' più piano. "Ecco, lo sapevo, e volevo appunto dirvi che io non ho nessun problema al riguardo, e anzi sono felicissima per voi. Oh, state così bene insieme."
Io ed Anna ci scambiammo un sorriso.
Poi fu Anna a prendere la parola. "Ti ringrazio molto", disse rivolgendosi a Cristina. "Sei stata molto gentile. E lo apprezziamo, davvero. Posso solo chiederti di non dirlo a nessuno? Di questa cosa? Per favore? E' importante che tu non lo dica a nessuno."
Cristina si fece tutta seria. "Assolutamente, assolutamente", disse. "Non lo dico a nessuno. Avete la mia parola."
"Grazie", rispondemmo in coro io ed Anna.
"Oh, siete adorabili!", esclamò allora lei.
"Ssshhh", feci io. Ma stavo ridendo.
Dunque Cristina si alzò, borbottando qualcosa tipo "Adesso vi lascio sole", ed uscì dalla mia stanza. Non feci neanche in tempo a chiederle se voleva che la accompagnassi, era già sparita.
Mi girai verso la mia ragazza con un'espressione stupita. "Okay, wow..."
Anna si mise a ridere. "Vedi", mi disse, "non tutte le tue amiche sono delle sciagurate."
"Già."

Da quel momento in poi la situazione a scuola si fece ancora più complicata: io ed Anna stavamo insieme ma fingevamo di conoscerci a malapena; Alessia, la mia migliore amica da anni, era ora ex migliore amica; Cristina era tornata mia amica, immagino, ma non poteva lasciare che Alessia lo sapesse.  In concreto, ineffetti, niente era cambiato. A parte i sorrisini di Cristina, che attraversava il corridoio almeno due volte a intervallo e si fermava a guardare me ed Anna, che stavamo come sempre a debita di stanza una dall'altra.
   Il giorno della presentazione del nostro lavoro, io ed Alessia riuscimmo a non ucciderci. I toni di entrambe le nostre voci erano glaciali, ma si sarebbe benissimo potuto interpretare come professionalità, o qualcosa del genere. L'unica cosa che so è che non appena finito di esporre la ricerca tornammo ai nostri posti e tornammo anche a non parlarci. Mi sentivo comunque molto sollevata, perché non avrei più dovuto fingere cordialità nei suoi confronti. E soprattutto non avrei più dovuto sopportare le sue occhiate compassionevoli.
"Mi dispiace tantissimo per te, Maya. Davvero. Non avrei mai voluto vederti così rovinata da quella ragazza", mi aveva detto una volta.
Io sinceramente non sentivo la mancanza della sua amicizia, non avevo neanche il tempo per dispiacermi. Avevo ben altre cose di cui preoccuparmi.
Come assicurarmi che nessuno scoprisse che avevo una relazione che andava avanti da più di tre mesi, per esempio.
    Tuttavia, Cristina insistette per organizzare una "riunione di riappacificazione", così l'aveva chiamata.
L'appuntamento era al bar dove diversi mesi prima avevamo mangiato tutti quanti - io, le mie amiche ora in parte ex-amiche, il mio ragazzo ora ex-ragazzo, e quella bella ragazza bionda che era ora la mia bella ragazza bionda. Era incredibile pensare a quante cose fossero cambiate da allora.
   Quando io ed Anna arrivammo trovammo Cristina già lì ad aspettarci, sebbene noi stesse fossimo in anticipo. ("Prima andiamo prima ti togli il pensiero", mi aveva detto Anna per convincermi ad uscire di casa.) Ora mancavano solo più Laura e Alessia. Cristina assicurava che sarebbero venute.
Infatti Laura arrivò pochi minuti dopo in sella al suo nuovo motorino. Prima che lei si togliesse il casco e ci raggiungesse, Cristina mi consigliò di farle i complimenti per il motorino, per partire con il piede giusto. Io ubbidii e le mie parole sortirono l'effetto sperato. Ancora non sapevo se potevo fidarmi del tutto, ma Laura sembrava davvero venire in pace. Quando salutò Anna con gentilezza decisi che potevo smetterla di provare rancore nei suoi confronti e traslarla mentalmente dall'insieme delle ex-amiche a quello delle di-nuovo-amiche insieme a Cristina.
  Mancava solo più Alessia. Dopo dieci minuti passati in piedi fuori dal locale decidemmo di aspettarla dentro. Ci sedemmo esattamente allo stesso tavolo di quella volta, solo che ora eravamo due in meno e non avevamo problemi a starci, e la disposizione era cambiata:  io ed Anna da un lato, Laura e Cristina dall'altro.
Dopo alcuni attimi di imbarazzo, la parlantina confortante di Cristina arrivò in soccorso dell'atmosfera. Tornai alla mia vecchia abitudine di fissarla e annuire, lasciando che le sue parole scivolassero una dopo l'altra su di me. La mia gamba intanto era contro quella di Anna sotto il tavolo, e ogni tanto spostavo lo sguardo sulla sua mano posata sul tavolo. Avrei tanto voluto toccare anche quella, posarci sopra la mia. E stavo per farlo, avevo già iniziato a muovere piano la mano verso la sua, ma poi mi fermai. Non ero sicura che le avrebbe fatto piacere. Non lì.
Alessia non era ancora arrivata. Iniziammo ad ordinare. Poi a mangiare. Poi finimmo di mangiare. Cristina ordinò ancora altro e fece in tempo a mangiare anche quello, e Alessia non era ancora arrivata. Quando tutte avevamo finito di mangiare e persino Cristina aveva esaurito gli argomenti di cui parlare, ci guardammo in silenzio.
"Vabbe', è evidente che non viene", dissi io infine. Feci per alzarmi, ma Cristina mi trattenne per un braccio.
"Aspetta! Aspettiamo ancora un po'. Magari ha avuto un imprevisto, magari..."
"Magari non vuole venire", la interruppi io con un sorriso sarcastico.
Cristina e Laura si guardarono senza sapere cosa fare.
Io mi girai verso di Anna, le dissi "Andiamo", e la presi per mano aiutandola ad alzarsi.
Mi rivolsi alle due mie amiche ritrovate: "Voi fate come volete, potete restare ancora ad aspettarla, ma io non ci conterei. A domani."
"A domani", risposero abbattute.
"Noi ci abbiamo provato", mormorò Laura mentre ci allontanavamo.
Pagammo, le salutammo di nuovo ed uscimmo in strada. La riunione di riconciliazione era finita. Ed Alessia non era venuta. Me ne sarei fatta una ragione.

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII ***


"A domani", ci eravamo dette io e le mie amiche. Non che ci credessi davvero. Anzi, il giorno dopo entrai a scuola pronta ad un'altra di quelle mattinate di solitudine alle quali oramai ero abituata. Con mia sorpresa, però, il loro "A domani" era stato sincero. Me le trovai tutte e due di fronte, belle sorridenti e senza dubbio pacifiche, non appena misi piede a scuola.
Non potei trattenermi dal chiedere cosa stesse succedendo, e se fossero per caso passate dalla mia parte lasciando sola Alessia.
"Proprio così", rispose Cristina con aria soddisfatta.
"E' lei che vuole la guerra, quindi merita di stare da sola", continuò Laura riferendosi a colei che fino al giorno prima seguiva dappertutto come un cagnolino.
Alzai gli occhi al cielo e sorrisi.
"Okay. Bentornate, allora."
"Amiche come prima?"
Risi. "Amiche come prima."
Lanciai un'occhiata verso la mia classe e vidi Alessia che mi rivolgeva uno sguardo spietato.
La inidicai alle mie amiche ridacchiando. "Fortuna che non abbiamo gli armadietti come in America, altrimenti ce li riempirebbe di fango o, chessò, di topi."
"Che schifo!", fece Cristina con una smorfia.
"Già, non sarebbe piacevole."
  In quel momento suonò la campanella, e mi diressi svogliata verso la mia classe.
"Pregate per me", dissi alle altre da lontano. "Pregate perché non mi trovi le puntine sulla sedia."
Loro risero, io però non ridevo più: non c'era solo Alessia ad aspettarmi in classe, ma anche una ancor più temibile verifica di matematica.

Due ore dopo uscii dall'aula vincitrice: il compito di matematica non era riuscito ad avere la meglio su di me. Mi sentivo potente, mi sentivo indistruttibile. Almeno durante i primi passi fuori dalla scuola. Poi iniziai già a pensare alla verifica del giorno dopo.
   Mi misi subito a studiare non appena arrivai a casa e studiai per quattro ore buone. Alle sette poi uscii di casa per andare da Cristina, che aveva invitato tutte a cena - Anna compresa, Alessia esclusa.
Passai una bella serata a ridere e scherzare con le mie amiche e la mia ragazza, e sentii che le cose erano tornate tutte al loro posto, ero finalmente riuscita a ricongiungere le due versioni della mia vita - almeno in parte. Sentii che forse le cose potevano migliorare e basta, da lì in avanti, e forse c'era speranza... speranza di avere una vita normale. Speranza di poter vivere un amore non clandestino e di non dover rinunciare a tutto il resto. Era più di quanto mi fossi mai sognata di chiedere.

Alcune sere più tardi mi trovavo nella mia stanza, seduta sul mio letto. Di fianco a me c'era Anna, il braccio intorno alla mia spalla. Vicino alle nostre gambe un computer acceso che guardavamo ogni tanto. Era fine marzo, ma la primavera tardava a presentarsi. Ci stringevamo avvolte in una coperta e riempivamo il freddo con il nostro fiato e le nostre parole.
Avevamo appena finito di guardare dei video sulle nostre coppie televisive preferite, ed ora Anna si era messa in testa di trovare a tutti i costi un nome per noi stesse, per la nostra personale ship.
"Maya, noi non abbiamo un nome!", aveva esclamato. "Quale sarebbe il nome della nostra ship?"
Io avevo riso di fronte alla sua espressione turbata.
"Non saprei, ma possiamo pensarci."
"Già, sì, fammi pensare."
Erano passati almeno due minuti e lei era ancora lì concentrata. Era buffa, con gli occhi persi nel vuoto e un dito sul mento mentre cercava di fondere i nostri due nomi nel modo più carino possibile. Ogni tanto usciva dal suo stato di trance e tirava fuori un nome.
"Annya! No..."
Altri due minuti a pensare.
"Mayanna!"
"..."
"Oddio no..."
"Manna?", proposi io ironica.
Lei mi fissò come in un'improvvisa rivelazione.
"Manna!" urlò. "Manna! Oddio sì! Sei un genio!"
Risi. "Lo stai davvero prendendo in considerazione? Sul serio?"
"Certo! Perché no? E' geniale!" Sorrise. "Manna."
"Be', sì, è... celestiale."
"Celestiale, già. ...Divina." Ora rideva anche lei.
"Quindi è ufficiale," dissi. "Siamo la Manna."
"La manna dal cielo", commentò scherzando. Poi sembrò tornare seria, mi fissò negli occhi e dopo qualche secondo lasciò che un sorriso si aprisse sulla sua bocca. Io guardai quel sorriso mentre si allargava pian piano, millimetro per millimetro. Passavano i giorni, passavano i mesi, ma io continuavo ad essere affascinata da quel sorriso come la prima volta che l'avevo visto. E lo amavo più di ogni altra cosa al mondo. Ed amavo Anna più di ogni altra persona al mondo.
"Abbiamo la nostra ship", disse lei infine.
"Ora non resta altro che farci magliette, tazze e spazzolini con la scritta Manna."
"Magari gli spazzolini no."
"Magari gli spazzolini no", accordai ridendo.
Il suo braccio si spostò dalla mia spalla al mio viso. Le sue dita rimasero lì ad accarezzarmi una guancia, sentii il mio sorriso farsi strada sotto la loro lieve pressione.
"Ti amo", mi disse Anna in un sussurro.
"Ti amo anch'io", risposi prima ancora che finisse di parlare.
Avvicinai la mia faccia alla sua per baciarla.
Le nostre labbra si erano appena toccate quando accadde qualcosa che non accadeva da anni, qualcosa che assolutamente non avrebbe dovuto accadere: spinta da chissà quale forza oscura, mia madre decise di entrare nella mia stanza. In quel momento. In quel preciso momento. Non un secondo prima, no. Non un secondo dopo. In quell'esattissimo, maledettissimo secondo.
Dopo almeno quattro anni, da quando sulla porta era comparso il foglio con scritto Vietato l'accesso con tanto di teschio disegnato a penna nera, mia madre rimise piede nella stanza di sua figlia. E davanti le si presentò l'ultima scena che si sarebbe aspettata di vedere.
Sua figlia sul suo letto con quella che avrebbe dovuto essere la sua amica. Solo che l'amica teneva il viso di Maya  fra le mani, e Maya le sue le aveva sul collo di lei. E le loro bocche erano vicine. Ma non vicine del tipo una in prossimità dell'altra, o del tipo vicine a venti centimetri di distanza, non quel tipo di vicine che lasciava spazio a sviste, a dubbi, a malintesi. Erano attaccate, senza un solo millimetro di distanza, quel tipo di vicine.
     Inutile dirlo, mia mamma non reagì bene. Mia mamma lasciò cadere il vassoio di argento che stava portando. Mia mamma si fermò lì in piedi, immobile, con la bocca mezza aperta e gli occhi spalancati. Non si mosse. Non si mosse. Non urlò. Non mosse un singolo dannatissimo muscolo.
I cambiamenti li vedevo nei suoi occhi. Senza che si muovessero o si chiudessero di un millimetro, da lì vedevo passare tutte le diverse emozioni che in quel momento stavano visitando mia madre, tutte le diverse fasi della sua reazione.
Questo passò dagli occhi di mia madre: la sorpresa, all'inizio; il dubbio subito dopo, la confusione; il nulla più totale per i seguenti due secondi; poi si fecero strada man mano la consapevolezza - aveva deciso di credere ai suoi occhi, - la delusione, la vergogna, la rabbia, e infine il disgusto.
Quello fu ciò che restò lì e non se ne andò per un bel po': il disgusto. Sarebbe rimasto lì per giorni, settimane, e ancora dopo, ancora quando sarebbe sembrato ormai andato via, sarebbe rimasto lì forse per sempre, anche se in minima parte, anche se celato. Non avrei più guardato gli occhi di mia madre senza cercarvi una traccia di quel disgusto.
    Io ero restata immobile a mia volta, completamente spiazzata. Anna si era allontanata in fretta in fondo al letto, il più possibile lontano da me, e la guardavo mentre si copriva il viso con le mani ed iniziava a piangere. Spostavo gli occhi da lei a mia madre. E non avevo la più pallida idea di cosa fare.
"Merda", fu tutto ciò che riuscii a dire. Merda.
Quell'odiosa immobilità fu rotta da Anna, che come un animale impazzito si alzò dal letto e corse via. Aggirò mia madre sulla porta e in un attimo sparì. Sentii i suoi passi rapidi sulle scale. Poi la porta di casa che si chiudeva con un colpo secco.
Con un colpo secco. Così uscì Anna da casa mia. E quel colpo lo sentii sul cuore.
     Rimasi a fissare mia madre.
"Mamma..."
"Non dire niente. Ne parleremo quando arriverà tuo padre."
Merda.

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Capitolo 19
*** Capitolo XIX ***


"Cos'è questa storia, Maya?"
Mio padre era seduto sulla sua poltrona in salotto e sembrava desiderasse con tutto se stesso di non essere lì in quel momento, di non dover sopportare una 'riunione di famiglia', di non dover affrontare la figlia adolescente con le sue stramberie.
"Niente, papà", risposi seccata.
Mia madre si alzò dal divano e iniziò a girare per la stanza mentre parlava alla velocità della luce. "Niente?" Camminava e gesticolava e urlava. "Quello era niente? Stai dicendo che non ho visto bene? Perché quello che ho visto non era niente, signorina. Quello che ho visto era una cosa sbagliata, che non avrei mai voluto vedere, e non credevo di avere una figlia così crudele da farmi soffrire così tanto davanti ad un simile spettacolo..." Ora stava anche piangendo. "Oh, se solo ti rendessi conto! Se ti rendessi conto di quanto mi fai soffrire con questo tuo stupido capriccio..."
"Stupido capriccio?!", urlai io a quel punto. "Non è uno stupido capriccio!"
"Oh sì, lo è!", rispose lei dall'altro lato della stanza. "Sai benissimo cosa cerchi in tutto questo. Vuoi essere ribelle, eh? Vuoi farmi un dispetto, vuoi farmi un dispetto! Vuoi vendicarti con me, con noi, di cosa vuoi vendicarti? Perché ce l'hai con noi, Maya? Perché ci fai questo? Perché ci fai questo?!"
Non riuscivo più a sopportarlo.
"Perché la amo, mamma!", urlai più forte che potevo. "Io la amo!"
Lei si fermò con le mani sospese in aria. Si girò lentamente fino a guardarmi dritto negli occhi.
"Non dirlo più."
"Ma è vero!"
"Non dirlo più. Non voglio mai più sentirtelo dire. Tu non la ami. Tu non sai niente. Tu non sei questo. Mia figlia non sara mai una... una di quelle."
"Una di quelle quali?"
"Una di quelle... quelle lesbiche." L'ultima parola le uscì in un sibilo, con una smorfia schifata.
Io rimasi a guardarla. Scuotevo la testa e le lacrime scendevano sempre più abbondanti.
Guardai mio padre. Era fermo sulla poltrona e ci guardava con un'espressione un po' spaesata.
Infine lui chiese: "Hai baciato quella ragazza, Maya?"
"Sì, papà." Scoppiai a ridere. "Sapessi quante volte."
Lui si alzò senza fretta, si fermò davanti a me e mi diede uno schiaffo.
"Non farlo più", disse semplicemente. Poi uscì dal salotto.
Io rimasi lì a tenermi la guancia con la mano, stupefatta. Mia madre continuava a guardarmi arrabbiata. Ora scuoteva la testa.
Alla fine mi alzai e corsi in camera mia. Entrai sbattendo la porta dietro di me e mi gettai sul letto. Poi arrancai fino al cellulare e chiamai Anna. Lei però non rispose. Riprovai dopo cinque minuti. Ancora niente. Intanto il mio pianto si faceva sempre più disperato. Perché non rispondeva? Era corsa via e non avevo più avuto notizie di lei. Sperai si sentisse meglio di come mi sentivo io in quel momento.
Mentre tentavo la quarta chiamata sentii bussare alla porta della mia camera.
"Lasciatemi stare!", urlai.
Dall'altra parte, però, non mi arrivò né la voce di mia mamma né quella di mio papà. Era Simone.
"Posso entrare?" Aprì piano la porta. "Cos'è successo, Maya? Sono arrivato e ho trovato il chaos più totale, mamma è sotto che piange e papà urla dalla cucina..."
Lo guardai e piansi ancora più forte.
"Stai bene?", chiese lui.
Scossi la testa. "No."
"Cos'è successo?", chiese ancora.
"Io... mamma è entrata... c'era Anna qua... è successo un casino, mamma è entrata qua e io ero con Anna e..."
"E?"
"E io la stavo baciando. Io sto con Anna. Stiamo insieme." Aspettai la sua reazione, preoccupata, ma lui non sembrava affatto stupito. Anzi, si mise a ridere.
"Pensavi non l'avessi ancora capito? Non sono stupido, Maya. E le nostre camere hanno una parete in comune."
Mi fece l'occhiolino e fece per andarsene, ma io lo raggiunsi e lo abbracciai. Lui in principio sembrò spiazzato, ma dopo un attimo ricambiò l'abbraccio.
Qual era stata l'ultima volta che avevo abbracciato mio fratello? Non ricordavo, dovevamo esser stati entrambi molto piccoli.
"Grazie", gli sussurrai mentre lo lasciavo andare.
"E di cosa?", disse lui. Mi sorrise ed uscì dalla stanza.
Io tornai a sedermi sul letto. Guardai il cellulare, ma non c'era nessuna chiamata da parte di Anna. Voleva stare sola, ormai l'avevo capito.
Eppure se anche lei non aveva bisogno di me, come sembrava, io avevo bisogno di lei.

Quando ero già a dormire mia madre bussò alla mia porta. Ma non aprì. Parlò da fuori.
"Non vedrai più quella ragazza", disse. "Ci siamo capite?"
Io non risposi. Dopo qualche istante sentii i suoi passi che si allontanavano.
Schiacciai la faccia contro il cuscino e mi lasciai uscire un urlo soffocato. Odiavo tutti, in quel momento. Odiavo tutti. Mi avevano tolto la mia felicità. Mi avevano tolto Anna. L'unica cosa che avevo sempre temuto di perdere. Perché sapevo che non l'avrei potuto sopportare. E infatti ora lo sentivo, lo sentivo con chiarezza impressionante il mio corpo che andava in frantumi. Sentivo la rabbia che ribolliva dentro, la sentivo tutta quanta.
Ma non avrebbero potuto tenermi lontana da Anna, no. Il giorno dopo me la sarei andata a prendere, non avrebbero potuto impedirmelo. Sarei andata a casa sua, e poco importava se mia madre non mi avrebbe più permesso di mettere piede in casa mia, non ne avevo bisogno, avrei benissimo potuto restare da Anna, avremmo potuto... avremmo potuto scappare, avremmo potuto andare lontano, avremmo potuto vivere finalmente la vita che ci spettava...
Mi addormentai facendo simili promesse a me stessa, sebbene sapessi che erano solo illusioni.
Il giorno seguente, infatti, mia madre mi impedì di uscire.
"So dove vorresti andare", mi disse.
"Non mi lascerai mai più uscire di casa? Mi vuoi anche legare al letto, per caso?"
"Quando deciderai di comportarti da persona sensata ti tratterò di nuovo come tale. Per il momento, non esci di casa."
"Dovrò pur andare a scuola!"
"Andrai a scuola ma tornerai subito a casa. Non indugerai neanche un secondo. Subito a casa. E non parlerai con quella ragazza a scuola. E neanche al cellulare. Se scopro che la chiami di nascosto te lo requisisco. Quindi sii ragionevole. Non farmi penare, ti prego."
La guardai dritto negli occhi. "Ti odio", le dissi. "Ti odio."
Mi guadagnai un altro schiaffo, ormai tanto sembravo esserci abbonata.
Non avevo altra scelta che tormarmene in camera mia. Me ne stetti lì tutto il giorno a fissare il muro. Verso sera mi decisi a controllare se Anna mi avesse risposto su facebook - lì mia madre non avrebbe controllato. Ma niente, ancora niente. Sempre quel tremendo odioso silenzio.
"Anna", mi ritrovai a bisbigliare fra le lacrime. "Dove sei, Anna?" Mi premetti il braccialetto che mi aveva regalato contro le labbra. "Dove sei?"
Mi guardai intorno, guardai la scrivania, le pareti, la mia stanza persa nell'oscurità. E mi sentii in gabbia.
Ero davvero una carcerata. Non potevo uscire. Ero come una criminale, come un'assassina.
Eppure non riuscivo a capire quale fosse il mio crimine.
Che cos'avevo fatto di così grave?
Che cos'avevo fatto?
    Mi ero innamorata di una ragazza. Quello era il mio crimine.

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Capitolo 20
*** Capitolo XX ***


Il lunedì cercai Anna a scuola, ma non la trovai. Cristina poi mi confermò che non era venuta.
Il martedì lo stesso. Il mercoledì invece sapevo che c'era perché l'avevo vista per un secondo in corridoio prima che iniziassero le lezioni. Tentai in tutti i modi di raggiungerla, di parlarle, ma ogni volta che provavo ad avvicinarmi lei scappava. Letteralmente. Scappava. E, quel che mi fece ancora più male, non mi guardava negli occhi. Mai.
Non mi rimase altro da fare se non stare seduta in classe e lasciare che le lacrime scendessero silenziose. Tutto quello che sapevo era che la mia ragazza mi stava evitando. Come se non bastasse l'inferno che avevo a casa mia.
Ma questo era peggio, molto peggio. Anna mi stava uccidendo, mi uccideva facendo finta che non esistessi.
  Per tutti i giorni seguenti le tentai tutte. Chiesi a Cristina di dirle che avevo bisogno di parlarle, la aspettai davanti alla loro classe ad ogni intervallo, cercai di beccarla nei bagni, ma Anna continuava a sfuggirmi. Io ingoiavo, chiudevo gli occhi, e non volevo crederci. E cercavo di non piangere.
 
Una mattina non potei più sopportarlo. Stavo impazzendo per davvero.
Non appena fu iniziato l'intervallo, prima che potesse nascondersi chissà dove, feci irruzione nella sua classe. A costo di dare nell'occhio. A costo di farla arrabbiare. A costo di fare una scenata davanti a tutti e spazzare via tutta la discrezione su cui avevamo lavorato per tutti quei mesi.
Mi diressi rapida verso i suoi capelli biondi. Era di spalle, al fondo dell'aula.
"Anna." La presi per un braccio perché non potesse scappare.
Lei si girò, e la sua espressione era di paura.
Paura. Di chi? Di me? Sì. Paura che la compromettessi, paura di quello che avrebbero pensato gli altri. Ma non mi importava più. Avevo perso tutto. L'unica cosa che volevo era non perdere anche lei, solo quello.
"Anna", continuai, "dobbiamo parlare."
Lei continuava ad opporre resistenza, benché io cercassi di trascinarla con me fuori dalla classe. Ad un certo punto sottrasse il braccio dalla mia presa con uno strattone.
"Ma che vuoi?!", urlò contro la mia faccia. "Ma chi ti conosce?"
I suoi occhi erano di ghiaccio, era tornata ad indossare la maschera inespressiva che le avevo già visto indosso. Mi fissava con gli occhi di ghiaccio e sembrava non vedermi, io la guardavo sbalordita cercando di non piangere. E in quel momento sentii che anche il mio cuore si era fatto di ghiaccio. Serrai le labbra.
"Scusa", mormorai, "ho sbagliato persona."
Tutti i ragazzi presenti risero, così mi accorsi che ci stavano guardando. Dall'inizio.
Lentamente mi girai ed uscii da quell'aula.
Non provai più a parlare con lei, non la cercai più. Passavano i giorni ed io iniziavo ad abituarmi al ghiaccio nel petto. Eppure ancora sentivo il ghiaccio incrinarsi ogni volta che la vedevo a scuola.
Non volevo crederci, non poteva essere finita così.
Non era finita. Quella era solo una farsa, era un modo per sviare i sospetti, come tutti gli statagemmi che avevamo sempre ideato. La ragazza che mi aveva urlato non era la vera Anna, stava fingendo, lo sapevo. Avevo visto il suo sguardo duro vacillare per un secondo prima che me ne andassi. La vera Anna stava aspettando che si calmassero le acque per tornare da me. La vera Anna mi amava ancora. Ed io amavo lei. Dovevo solo aspettare.
   Ed aspettai. Passarono le settimane. La tortura continuava. Mia mamma continuava a tenermi sotto vigilanza. Nel frattempo io cercavo di farle capire come mi sentivo, cercavo con tutta me stessa di farle vedere il mio amore per Anna, con le parole cercavo di tirarlo fuori dal mio cuore per mostrarglielo nella sua più vera natura. Ma lei non vedeva. Lei non ascoltava. Lei non mi guardava.
Io provavo e riprovavo lo stesso, convinta che se avessi ottenuto il consenso dei miei avrei riavuto anche Anna automaticamente. Ma era una battaglia persa in partenza.
Non potevo far altro che starmene rinchiusa nella mia stanza a piangere.

Paura.
Tutto ciò che sentivo era paura. E buio, e il nulla, tutto intorno a me.
Sola.
Ero sola. Ancora una volta. Ora però non avevo neanche più la possibilità di fingere.
Mia mamma sapeva, mia mamma non mi guardava più negli occhi.
Non c'era modo di tornare indietro. Non potevo più recuperare quella che ero stata. La Maya di prima mi aveva lasciata già da un pezzo, ed ora che non esisteva neanche più negli occhi di mia madre non avrei più potuto nascondermi sotto i suoi capelli arruffati e il suo sorriso inconsapevole. Ora dovevo camminare col volto scoperto, esposto, senza più maschere di ferro.
Nessuna armatura, non c'era più un cuore da proteggere. La ragazza bionda se l'era portato via con lei.
La ragazza bionda che non rispondeva più alle mie chiamate. La ragazza bionda che sembrava avesse smesso di amarmi, la ragazza bionda che sembrava avesse dimenticato. Tutto.

Corsi a casa sua, una notte. Scappai di casa. Come nei film. Aspettai sveglia fino alle tre circa, poi aprii la porta della mia stanza con il cuore in gola. Facendomi coraggio scesi le scale cercando di non fare rumore. Raggiunsi la porta di casa. E via. Di corsa, per le strade.
Correvo per il paese buio e non m'importava più che mi potessero scoprire, non mi importava di ricevere un'ulteriore punizione: dovevo solo vederla. Dovevo vederla. La sua versione quella vera. Il suo sorriso. Quello vero. E poi avrei alzato le mani e mi sarei fatta trascinare di nuovo in prigione, o da qualsiasi altra parte. Non mi sarebbe più importato.
   Quando raggiunsi il palazzo di Anna i polmoni mi stavano per scoppiare. Mi fermai e presi aria. Nel mentre fissavo il suo appartamento dal di fuori, la sua finestra. La luce, ovviamente, era spenta. Come avrei fatto a farla uscire, se non rispondeva mai al telefono?
Le scrissi un messaggio:
"Anna. Sono fuori casa tua. Ho bisogno di vederti. Ti prego scendi. O fa' salire me. Qualcosa."
Aspettai per un po', ma niente. Non potevo sperare che la vibrazione del telefono la svegliasse.
Decisi di provare a fare come nei film fino in fondo, così andai alla ricerca di alcuni sassolini. Una volta trovati, fu una bella impresa riuscire a raggiungere la sua finestra. I primi tre tentativi fallirono miseramente. Dal quarto in poi, però, ci presi la mano. Tutti i seguenti lanci andarono a colpire il vetro. Mi fermai al decimo. Aspettai ancora un po'.
Niente, ancora niente.
Non sapevo più cosa fare. Mi sentivo talmente stupida.
Fui sul punto di andarmene, buttando all'aria tutta la fatica che avevo fatto per arrivare lì, ma poi decisi di tentare il tutto e per tutto: suonai il citofono. Avrei svegliato anche la madre di Anna, sì. Ma non avevo altra scelta.
Feci di nuovo qualche passo indietro per vedere se qualcosa, in quella finestra, fosse cambiato.
No, era ancora scura. E nessuno rispondeva al citofono. Suonai ancora una volta e tornai a guardare. Niente.
Trascorsi alcuni minuti, però, la finestra finalmente si illuminò. Il mio cuore perse un battito.
Mi lasciai sfuggire un grido con la voce che mi tremava: "Anna!"
Continuai a fissare gli occhi sulla finestra, cercando di vedere dentro la stanza, ma mi era impossibile. Finalmente, dopo un tempo che mi parve lunghissimo, una figura comparve dietro il vetro. Era lei. Non vedevo bene, ma i capelli erano i suoi, il viso era il suo.
"Anna!", urlai di nuovo.
La sagoma si portò un dito alle labbra, eppure mi sembrava sorridesse - così, almeno, mi era parso. Poi alzò l'altra mano per aprire la finestra. Io fremetti di gioia: finalmente avrei potuto chiederle di farmi salire; avrei corso su per le scale facendo due gradini alla volta, lei avrebbe aperto la porta e si sarebbe lanciata fra le mie braccia, e allora avremmo iniziato a scusarci a vicenda, a sorridere, finalmente, di nuovo, e a rimettere le cose a posto.
Ma all'improvviso qualcosa mi strappò dal mio fantasticare. Mi trascinò via, proprio. Qualcuno. Mi trascinò via. Mi prese per le spalle e mi sollevò di peso.
Mio padre.
Mio padre mi portò così, braccata, fino alla macchina parcheggiata di traverso sulla via. Io avevo ancora gli occhi fissi sulla finestra illuminata, che ora era aperta; ma non riuscivo più a vedere Anna.
Mi dimenai, all'inizio. Poi smisi. Rimasi immobile sul sedile freddo della macchina, mentre mio padre guidava in silenzio verso casa.

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Capitolo 21
*** Capitolo XXI ***


"E' notte, dannazione, possiamo parlarne domattina?"
"Sempre rimandare, sempre rimandare, è questa la nostra rovina, non si parla mai in questa casa!"
I miei genitori litigavano da almeno un quarto d'ora, giù nel salotto. Io ero chiusa nella mia stanza, ma li sentivo come se fossi stata lì anch'io.
"Almeno smettila di urlare, cosa diranno i vicini?" Questo era mio padre.
"I vicini, già, i vicini... cosa diranno? Cosa diranno se scoprono perché nostra figlia è scappata di casa, questa notte? Cosa diranno se scoprono..." Sentii i singhiozzi di mia madre e i passi di mio padre che pian piano le si avvicinavano.
"Ora smettila. Non devi farne un dramma."
"Non devo farne un dramma?!", urlò mia mamma. "Ma ti rendi conto di quello di cui stiamo parlando? Stiamo parlando di nostra figlia! Vuoi lasciare che si rovini? Vuoi lasciare che i vicini, i compagni, tutto il mondo parli?" Abbassò la voce, le sue seguenti parole mi raggiunsero appena. "Non so te, ma io ho intenzione di impedirlo. Non lascerò che una stupida ragazzetta bionda rovini la vita di mia figlia." Abbassò ancora di più la voce, io corsi ad aprire la mia porta per riuscire a sentire. "Chissà quali strane idee le ha messo in testa... Ah, se sapessi! Se avessi letto quello che si scrivevano, saresti preoccupato quanto me. Mi fa... rabbrividire. Maya crede di essere innamorata, capisci? Ne è davvero convinta! Oh, povera figlia mia..."
Aveva preso il mio cellulare. Aveva letto i miei messaggi, aveva letto tutto...
No. Questo no. Questo non potevo sopportarlo. Questo che mi trovavo davanti ora era proprio quello che temevo fin dall'inizio, e stava succedendo, e mi stava uccidendo, e mi toglieva il fiato, e immaginavo mia madre che leggeva le nostre parole, quelle solo nostre, mie e di Anna, solo mie e di Anna... e cercavo l'aria, e ansimavo... e vedevo il mio amore, il nostro amore lì in bella mostra, il mio cuore in mezzo ad una piazza come un condannato a morte, e tutto intorno la gente guardava e rideva, guardava e rideva, e inziava a tirare pietre, e il cuore sanguinava, ma loro non si fermavano, e me lo sentivo proprio, me lo sentivo dentro il petto il cuore che sanguinava, e non potevo sopportarlo, e scuotevo la testa e le lacrime schizzavano via, e volevo urlare, volevo urlare di smetterla, urlare che non ne avevano il diritto, che non sapevano, non sapevano niente...
Stavo per uscire dalla mia stanza e correre di sotto, ma un brusco movimento alla mia destra mi fece fermare. Mio fratello uscì dalla stanza e si diresse come una furia giù per le scale. Io restavo lì, immobile, sulla porta della mia stanza.
Poi sentii la voce di Simone sovrastare le altre due.
   "Ora basta!", urlò. "Smettetela! Non vi rendete conto di quanto siete ridicoli!"  
I miei genitori erano ammutoliti. Non si udiva più altro al di fuori della voce di Simone.
"Parlate di cose che non conoscete, pretendete di sapere voi quel che è giusto e quel che è sbagliato... Credete che sia impossibile che Maya sia davvero innamorata? Perché? Perché si tratta di una ragazza? Be', svegliatevi, vi dico. Ci sono ragazze che amano altre ragazze. E mi dispiace darvi una notizia che probabilmente non volevate sentire, ma vostra figlia è fra queste. E non c'è niente che possiate fare per cambiarlo. Niente. Non potete cambiare quello che lei è. Potete impedirle di vedere Anna. Potete rinchiuderla in casa, potete legarla, anche, se volete. Potete fare quel che vi pare. Ma niente, niente potrà cambiare quello che sente. Non può innamorarsi di un ragazzo solo perché lo volete voi. Potrebbe tornare insieme ad Andrea, sì, certo, tu mamma ne saresti contenta. Ma sarebbe solo una finzione.
  "Lei ama lei. Dovete ficcarvelo in testa. Lei non ama lui... Lei ama Anna. E non potete usare la scusa del 'lo facciamo per il suo bene', perché questo non è il suo bene. Non ci avete mai pensato? Che forse il suo bene è diverso dal vostro? Che forse non potete sapere quello di cui realmente lei ha bisogno per essere felice? Be' ve lo  dico io cos'è che la rende felice: lei la rende felice. Lei è quello di cui ha bisogno.
"E non importa se non lo capite, non importa se disapprovate o ne siete addirittura disgustati: se voi realmente amate vostra figlia, allora dovrete accettare il fatto che lei ama lei."
"Lei ama lei", ripetè ancora un'ultima volta. Poi tacque.
Mio fratello non aveva mai parlato tanto.

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Capitolo 22
*** Capitolo XXII ***


Non so come avesse fatto, ma le parole di Simone sortirono il loro effetto.
Il giorno dopo ebbi una lunga conversazione con i miei genitori, alla fine della quale mia madre dichiarò che avrei potuto rivedere Anna. "Ancora non lo capisco", disse con un sospiro, "ma cercherò di farmene una ragione."
La ringraziai, l'abbracciai e corsi a prendere la giacca.
"Dove vai?", chiese lei sorpresa.
"Da Anna", risposi con un sorriso.

Ancora una volta correvo verso casa sua, ma adesso lo facevo con la certezza che tutto sarebbe tornato a posto. Avevamo, se non l'approvazione, il consenso dei miei genitori. La mamma di Anna era stata più che entusiasta fin dall'inizio. Quindi non c'erano più ostacoli, giusto?
Appena raggiunsi il portone suonai al citofono per due o tre volte di seguito, impaziente. La voce di Anna, il suono più bello che avessi sentito, rispose dopo qualche istante.
"Sono Maya", dissi quasi urlando. "Fammi salire, porto buone notizie!"
Non arrivò nessuna risposta dal citofono, ma sentii lo scatto del portone. Lo spalancai e mi fiondai su per le scale. Mi fermai solo davanti alla porta di Anna. Era socchiusa, e una striscia del suo viso sbucava appena.
"Ciao", le dissi sorridendo.
"Ciao", rispose lei piano.
"Posso entrare?"
Anna sembrò indugiare un attimo, ma poi aprì del tutto la porta e lasciò che entrassi.
Mi fece segno di seguirla in camera sua e così feci. Una volta lì, si fermò dritta davanti a me ed aspettò che io parlassi. Così iniziai a raccontarle di quello che era successo dopo quel dannatissimo giorno in cui mia madre entrò in camera mia. Le dissi che non mi avevano più permesso di vederla, che mia madre era impazzita; non commentai il fatto che Anna stessa non avesse più risposto alle mie chiamate; le riferii anzi con un sorriso il discorso di Simone, e conclusi dichiarando che i miei genitori si erano arresi e che avevano finalmente accettato la cosa.
"Ora non c'è più nessun problema, quindi! Vedi? E' tutto a posto. Può tornare come prima. Possiamo... possiamo tornare come prima." Quando finii di parlare feci un passo verso di lei. Volevo finalmente prendere di nuovo la sua mano fra le mie.
Eppure lei me lo impedì. Si allontanò da me con un passo rapido indietro.
La guardai, sorpresa. I suoi occhi però erano fissi sul pavimento.
Aspettai che mi desse delle spiegazioni, aspettai che parlasse. Ma niente, lei stava lì in piedi, muta, e non mi guardava.
"Anna?"
Iniziavo a preoccuparmi. "Anna, cosa c'è?" Provai di nuovo ad avvicinarmi. "Anna, è tutto a posto, hai capito? Non c'è più nessun ostacolo..."
"No, Maya!", scattò lei. "Sei tu che non capisci! Non è tutto a posto. Per niente. Non è cambiato niente."
"Ma i miei genitori..."
"I tuoi genitori non erano il solo ostacolo. Erano il minore dei problemi, a dire la verità."
"E' allora qual è il vero problema, Anna?" Non capivo. Non capivo. Scuotevo la testa e non capivo.
Poi un dubbio iniziò ad insinuarsi nella mia testa.
"Anna...", iniziai con la voce che tremava. "...non mi ami più, Anna?"
"No, non è questo."
"Stai con qualcuno, Anna? Qualcun altro?"
Non rispose. Quel silenzio mi faceva impazzire. Le tempie mi pulsavano, la testa quasi esplodeva.
"Stai con qualcun altro?"
"Sì. Ma..."
"Sì?!" Ero esterrefatta. Non ci potevo credere. Non ci volevo credere. Iniziai a scuotere convulsamente la testa mentre la fissavo. Ora anche lei mi guardava.
"Sì, ma è un ragazzo."
"UN RAGAZZO?!" Aveva ancora meno senso. "Non capisco. Proprio non capisco." Gli occhi iniziarono a riempirsi di lacrime, mentre continuavo a sussurrare sempre la stessa frase. "Proprio non capisco."
Anche gli occhi di Anna erano bagnati di lacrime.
"E' una copertura, Maya... lo sai che non può piacermi davvero, non significa niente, è solo per..."
"No."
"E' solo per mettere a tacere le voci... se mi vedono con un ragazzo, allora..."
"No." No.
"Iniziano a parlare, capisci? Sospettano di noi. Stanno iniziando a capire. Uno dopo l'altro. Andrea, le tue amiche, i tuoi genitori... quanto passerà prima che tutti lo vengano a sapere?"
E' proprio quello che voglio io, pensai. Non era quello che sarebbe dovuto succedere ora? Il prossimo capitolo della storia? Quello in cui finalmente si usciva allo scoperto?
"Io non posso lasciare che accada di nuovo, Maya, lo capisci? Me ne sono andata da quella scuola perché mi avevano reso la vita terribile, sono scappata qui, e ora... non sopporterei di rivivere tutto di nuovo. Non posso permettere che rinizi tutto."
No.
"Mi stai lasciando?"
"Mi dispiace, Maya. Lo sai che io ti amo. Amo solo te. E sarà sempre così. Ma non ce la faccio, non sono forte come te. Mi dispiace."
No.
"Mi stai lasciando?"
Lei non rispose, iniziò a singhiozzare. E mi guardava, con quegli occhi pieni di lacrime. Quegli occhi azzurri orribilmente belli che non sarei mai riuscita ad odiare per quanto mi fossi sforzata.
Scossi un'ultima volta la testa, rassegnata.
"Cosa pensi di fare, quindi?", le chiesi con la voce più dura che riuscii a trovare. "Starai con lui per sempre? Non pensare solo ad ora, pensa al futuro. Andrai avanti a mentire per tutta la vita? Pensaci. Pensa quant'è lunga una vita. E' il tempo più lungo che conosci, ed è ancora più lungo se trascorso continuamente nella menzongna. E nell'infelicità. Perché lo sai, Anna, lo sai meglio di me che lui, nessun lui ti potrà mai rendere felice."
Lei mi fissava e taceva.
"Allora? Che mi dici? Ci dovrai pur pensare."
Abbassò gli occhi e iniziò a parlare piano, in un sussurro simile a quello di una bambina.
"Se vuoi... se vuoi possiamo continuare a stare insieme di nascosto, io ufficialmente sto con lui ma..."
La bloccai subito.
"No, così non mi va bene. Non più. Io voglio stare con te. Voglio camminare al tuo fianco tenendoti per mano. Voglio che la gente ci guardi e ci veda insieme e non possa far a meno di accorgersi di quanto siamo dannatamente felici, più di quanto loro lo saranno mai, e voglio urlare al mondo che questa, diamine, questa è la mia ragazza, e guarda quant'è bella, Mondo, guarda quant'è bella, e io la amo, e lo urlo al mondo, che la amo.
Questo, voglio. E se dici che non è quel che vuoi anche tu allora stai mentendo. Hai troppa paura. Ma forse prima o poi te ne renderai conto. E io sarò ancora qui ad aspettarti. Perché non riesco a fare altro che aspettarti, dannazione."
Questa volta fui io a sottrarre la mia mano dalle sue.
Nel farlo mi cadde l'occhio sul braccialetto che lei mi aveva regalato. Me lo strappai dal polso e glielo lanciai. Lei lo prese al volo, poi rimase con la mano in aria, immobile, con dentro il braccialetto. Mi fissava con il dolore dipinto in viso. Ma quando mi voltai sapevo che non mi avrebbe seguita.
Prima di uscire definitivamente dalla sua stanza mi fermai.
"Come si chiama?", le chiesi.
"Chi?"
"Lui."
Sospirò.
"Andrea", disse infine in un sussurro pieno di vergogna.

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Capitolo 23
*** Capitolo XXIII ***


Corsi. Corsi fuori da quella casa, corsi lontano da lei, via dopo via, isolato dopo isolato, sempre più veloce, sempre più accecata dalle lacrime. Via. Corsi fino a casa, corsi su per le scale, corsi in camera mia. Chiusi la porta a chiave. Rimasi con le spalle appoggiate alla porta mentre le gambe venivano lacerate da un dolore insopportabile e i polmoni sembravano andare a fuoco. Ma peggio di tutto, peggio di tutto era il dolore al petto.
Poi costrinsi il mio corpo a muovermi e mi fiondai verso la scrivania.
Cercai l'ipod con le lacrime che mi offuscavano la vista e mi cadevano sulle mani mentre frugavo fra i cassetti. Le mani tremavano, le cose mi cadevano mentre le spostavo. Un singhiozzo sembrò risucchiarmi da dentro. Finalmente trovai l'ipod. Lo afferrai come se fosse la mia sola ed ultima salvezza. Mi infilai le cuffie mentre i singhiozzi diventavano sempre più frequenti e mi toglievano il respiro. Trovai la canzone che cercavo. Premetti play.
Mi stesi sul letto, la faccia premuta sul cuscino, e i singhiozzi si trasformarono in urla.
Ero lì, con le mani che stringevano le lenzuola, il corpo contratto in un dolore quasi fisico, e urlavo. Urlavo.
E intanto la canzone si faceva spazio fra il suono della mia stessa voce attutito dal cuscino.
E delle immagini mi passavano nella mente, una dopo l'altra.
C'era lei, in quelle immagini. E ogni tanto c'ero anch'io. C'erano le nostre mani strette insieme, c'erano le nostre gambe vicine, c'erano le foto, e i sorrisi.
La prima volta che la vidi.
E tutto quello che avevamo vissuto.
Il biglietto.
La felpa.
Il braccialetto.
Time After Time.
Manna.
San Valentino sulla spiaggia.
Andai a prendere la foto dalla scrivania, tornai al letto e la osservai a lungo, poi me la strinsi contro lo stomaco e mi lasciai cadere su un fianco.
Ancora scuotevo la testa. Ancora non volevo crederci.
No.
Non era possibile che finisse così. Noi ci amavamo. Noi eravamo Maya ed Anna. Non poteva esserci solo Maya e solo Anna. Era Maya ed Anna. Insieme. Manna. Una cosa sola. Non c'era solo Maya, non esistevo solo io, io non esistevo senza Anna, io...
No.
Anna. Ti prego. Anna. No.
Scuotevo la testa, e la voragine nel petto sembrava volesse risucchiarmi.
E la canzone andava avanti, e sembrava scavare ancora più a fondo.

"In case you don't find what you're looking for, in case you're missing what you had before, in case you change your mind, I'll be waiting here, in case you just want to come home."

"Strong enough to leave you, but weak enough to need you, cared enough to let you walk away."

"In case you're looking in that mirror one day and miss my arms, how they wrapped around your waist, I say that you can love me again even if it isn't the case."

[https://www.youtube.com/watch?v=TL0-B6dvauE]

 

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Capitolo 24
*** Capitolo XXIV ***


Ancora una volta piombai in un tunnel senza uscita. Questa volta era ancora più buio, totalmente immerso nell'oscurità. Il mio corpo veniva trascinato in avanti dalla sola forza d'inerzia, ma non rimaneva più niente di vivo in me.
Non avevo più Anna, e allora che senso aveva tutto il resto?
Che senso aveva svegliarsi.
Che senso aveva tirarsi su dal letto.
Che senso aveva andare a scuola.
Che senso aveva mangiare.
Che senso aveva respirare.
Che senso aveva vivere.
Non lo sapevo più, io, com'è che si facesse a vivere. Non vivevo prima di lei, non vivevo ora dopo di lei. Senza lei.
Dicono che ognuno ha solo un limitato periodo di tempo nella propria vita in cui vive davvero, il resto non conta. Possibile che il mio dovesse essere così breve?
Ripensavo a quei suoi occhi azzurri, e non potevo evitare di sentirmi fortunata, nonostante tutto. Seppur breve, il mio limitato periodo di tempo era stato comunque il migliore che avessi mai potuto desiderare. Quindi mi stava bene, tutto sommato. Ma non riuscivo ad arrendermi al fatto che fosse finito.
E, soprattutto, Anna mi mancava. Mi mancava con un'intensità che sembrava in grado di lacerarmi i polmoni, la notte quando mi concedevo di ripensare al tempo passato con lei.
Mi mancavano i suoi capelli d'oro e i suoi occhi di mare. Ma quelli li vedevo ancora a scuola, da lontano. Quel che più di tutto mi mancava era parlare con lei, poterla chiamare mia, poterla sfiorare o anche solo sentire che era vicino a me.
    Essere costretta a guardarla da lontano mi uccideva. Ogni mattina mi si presentava davanti agli occhi la testimonianza di quello che avevo perso.
E ancora peggio era quando la vedevo con Andrea. Quello faceva ancora più male, se possibile. Ed al dolore si aggiungeva la rabbia. La frustrazione, l'impotenza.
La prima volta che li vidi camminare insieme nei corridoi della scuola non riuscivo a crederci. Era così assurdo da essere quasi ridicolo. Ma non avevo affatto voglia di ridere. Rimasi pietrificata mentre mi passavano sotto il naso tenendosi per mano. Sentii l'ultima parte ancora viva in me, sopravvissuta per miracolo, che si spegneva in quel preciso istante.
Dov'era la speranza? Dov'era la speranza in quell'assurdo, illogico mondo? Quel mondo dove la ragazza lesbica si vedeva obbligata a mettersi insieme all'ex-ragazzo della sua ex-ragazza? Era forse una barzelletta, uno scherzo di cattivo gusto?
Sei tu quello perverso, mondo, non gli omosessuali, pensai con rabbia dentro di me. Guarda che risultati impensabili riesci a generare. Guarda, guarda quanto poco senso ha la tua morale.
E Andrea, come aveva potuto? Cos'era quello, un morboso tentativo di vendetta?
E Anna, dov'era la mia Anna? Non era certo quella lì, quella ragazza bionda che teneva per mano una menzogna.
Come poteva sopportarlo?
Perché io non ce la facevo. Non potevo sopportarlo.

Eppure dovetti. Non avevo altra scelta. Non potevo far altro che andare a scuola ogni mattina e sperare di non vedere nessuno dei due. E stare zitta, se li vedevo. Mordermi le labbra fino a farle sanguinare e stare zitta. Costringere i miei polmoni ad andare avanti a respirare e stare zitta. E spostare lo sguardo altrove. Ignorare il dolore, ignorare la voglia di piangere. Va bene così, far finta che va bene così.

Dopo un po' riuscii quasi a convincermene. Furono necessarie diverse settimane, ma riuscii ad abituarmici. Non che me ne fossi fatta una ragione, perché ancora non riuscivo a comprenderlo. Ma ero rassegnata. E riuscivo quasi a non pensarci.
   
Un giorno andai al mare da sola. Presi un treno diretto in Liguria. Qualsiasi paese in Liguria, tanto quello dove ero andata con Anna non sarei stata in grado di ritrovarlo. Mi bastava che ci fosse il mare.
Era aprile, il cielo era grigio e faceva ancora freddo. Quando arrivai sulla spiaggia alcuni gabbiani stavano volando via, verso l'acqua. Mi sedetti sulla sabbia fredda e avvolsi le braccia intorno alle gambe. Il vento mi sbatteva con forza i capelli sulla faccia, ma io rimanevo immobile a guardare il mare.
Pensavo a tutto e a niente. Immagini del giorno di San Valentino mi ballavano davanti agli occhi e sembravano prendere vita sulla spiaggia. Richiamai alla mente il profumo del fuoco mischiato all'aria di mare. La meravigliosa sensazione della spalla di Anna appoggiata alla mia.
Chiusi gli occhi e sorrisi. Lasciai che una lacrima mi percorresse il volto fino al mento, poi la raccolsi con la lingua. Era salata, proprio come doveva essere il mare di fronte a me.
Scacciai tutti i pensieri dalla mente e per una volta presi una decisione improvvisa. Mi tolsi la felpa, i pantaloni, le scarpe, poi iniziai a correre. Accelerai sempre di più man mano che la distesa d'acqua si faceva più vicina. Iniziai ad urlare mentre correvo, sempre più forte, lasciando uscire tutta la rabbia. Urlavo contro il cielo, le braccia alzate in quella corsa disperata.
Infine mi tuffai nell'acqua gelata.
E quando riemersi con il respiro mozzato non riuscivo più a distinguere le lacrime dal sale dell'acqua.

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Capitolo 25
*** Capitolo XXV ***


In qualche modo il tempo andò avanti. Al tempo non importa: lui tira dritto, e non si cura di chi è rimasto indietro.
Arrivò maggio e per la prima volta il caldo e il risvegliarsi del mondo intorno a me non mi portarono sollievo - al contrario, il contrasto tra i colori accesi di quest'ultimo e il grigio  del mio stato d'animo rendeva il tutto insopportabile.
L'unica cosa che mi dava un po' di speranza era il mio compleanno, a cui mancava ormai poco. Non che mi importasse poi tanto del mio compleanno - se per qualsiasi altra cosa il mio interesse era pari a zero, in questo caso poteva raggiungere al massimo lo zero virgola uno.
C'era solo una cosa di cui mi importasse ancora, sebbene cercassi di negarlo a tutti e a me stessa. Quella cosa era una persona, e quella persona era, ovviamente, Anna.
Sapevo che mi stavo solo illudendo, ma non potevo fare a meno di pensare che il mio compleanno fosse il giorno ideale perché lei tornasse finalmente da me.
Ero un'illusa, me lo continuavo a ripetere, ma poi mi sorprendevo nuovamente a fantasticare su come sarebbe stato andare ad aprire la porta e trovarmela lì, con i suoi occhioni azzurri che mi imploravano di perdonarla...
Non poteva non presentarsi per il mio compleanno, vero? Almeno gli auguri, almeno un messaggio, qualcosa...

Finalmente arrivò il 15 maggio. La prima cosa che feci appena sveglia fu controllare il cellulare. C'erano già un paio di post su facebook che mi auguravano buon compleanno, ma nessuno arrivava da lei.
Sospirando, mi alzai dal letto. Risposi ai messaggi per pura cortesia, mentre nella mia testa mi chiedevo chi fossero quelle persone; poi mi vestii con movimenti svogliati.
Sebbene non fossi affatto dell'umore adatto, Cristina e Laura mi avevano convinta ad organizzare una festa a casa mia. La gente avrebbe iniziato ad arrivare nel pomeriggio. A dire il vero non sapevo proprio chi sarebbe potuto venire - c'erano buone possibilità che tutti si fossero dimenticati della mia esistenza, così che mi aspettavo di vedere arrivare solo  Laura e Cristina, le uniche amiche che mi rimanevano.
    Eppure qualcuno venne. Compagni di scuola, vecchie conoscenze, gente che evidentemente non si faceva scappare l'opportunità di divertirsi e possibilmente bere a prescindere da chi desse la festa. Molti di loro, infatti, si fiondarono sul tavolo che avevamo imbandito senza neppure salutarmi o farmi gli auguri.
A me però non importava. Ero sollevata, anzi: non avevo affatto voglia di fare conversazione, non avevo voglia di fingere sorrisi quando l'unica cosa che desideravo in quel momento era lasciarmi cadere in un angolo e piangere.
Laura e Cristina però non mi mollavano un attimo. Continuavano a seguirmi, come consapevoli di sarebbe successo se mi avessero lasciata sola. Io sapevo che volevano aiutarmi, ma iniziavano comunque a darmi sui nervi.
Le ore passavano mentre io scambiavo qualche parola prima con uno poi con l'altro e fingevo di divertirmi.
"Ti stai divertendo, Maya?"
"Oh sì, il compleanno più bello di sempre!"
"Già, è la festa più bella di sempre!"
"La festa più bella di sempre!"
E tutti giù ad urlare e battere sui bicchieri.
      I miei occhi si spostavano dalla porta all'orologio, dall'orologio alla porta. E man mano che il tempo passava anche il più piccolo barlume di speranza dentro di me si spegneva.

"La torta!"
"Arriva la torta!"
La torta è stata sempre la parte che più odiavo ai compleanni.
"Evvai, la torta", commentai anch'io con tono annoiato.
Mangiai la mia dannatissima fetta di torta. Aprii quegli stupidissimi e banalissimi regali. Risposi a tutti i miei doveri di festeggiata. E intanto mi chiedevo dove fosse Anna in quel momento. Se mi stesse pensando.
Sì, mi stava pensando. Ne ero certa. Sapeva che era il mio compleanno, lo sapeva.
La immaginai nella sua stanza a lasciarsi divorare dai sensi di colpa e mi si strinse il cuore. Non riuscivo ad odiarla, non riuscivo. Non avrei mai potuto desiderare che soffisse, non importa quanto dolore avesse inflitto lei a me.
      All'improvviso suonò il campanello. Feci un salto sulla poltrona dove ero seduta, anche se stavo segretamente aspettando quel suono da ore.
La maggior parte delle persone nella stanza neanche se ne accorsero, ma io scattai immediatamente verso la porta. Mi ci fermai davanti. Feci un respiro profondo. Allungai la mano verso la maniglia. Un altro respiro. Infine aprii, certa di trovarmi davanti i capelli biondi e gli occhi azzurri che mi avrebbero fatto tornare a respirare.
E invece non fu così. I capelli biondi c'erano, ma erano quelli sbagliati. E gli occhi non erano azzurri ma castani. Non era Anna. Era Alessia.
"Cosa... cosa ci fai qui?" Non riuscii ad impedire che la mia voce uscisse carica di delusione.
Alessia sembrava più piccola e fragile di quanto non lo fosse mai stata. Mi guardava titubante.
"Sono venuta a farti gli auguri. Ho portato questo." Mi porse un pacchetto con un sorriso non troppo convinto.
Non mi mossi. Alessia era l'ultima nella lista delle persone con cui avrei voluto parlare in quel momento, non potevo sopportare un altro confronto con lei, non quando avevo creduto di essere sul punto di riconciliarmi con la ragazza per essere per l'ennesima volta delusa.
"Posso entrare?", ritentò la mia ex-amica. Quando vide che non accennavo a farla passare sospirò e prese a guardarsi le scarpe. "Senti..."
"Cosa?", tagliai corto.
"Mi dispiace. Sono venuta a scusarmi."
Scossi la testa.
"Non ti credo. Ma non ho voglia di discutere con te. Quindi entra pure, fa' quel che ti pare. Laggiù c'è da mangiare." Indicai il tavolo affollato di gente. Nel farlo incrociai lo sguardo di Cristina e Laura dall'altra parte della stanza; erano in piedi una di fronte all'altra e ci fissavano, a metà fra l'incredulo e lo speranzoso.
Alessia indugiò un attimo, poi finalmente entrò.
E io potei correre a chiudermi in bagno e arrendermi alle lacrime.
Non era venuta. Non era venuta. Non era venuta. Non c'era proprio più speranza, allora.
Illusa. Povera illusa.
Mi lasciai sfuggire un grido.
Poco dopo qualcuno bussò alla porta. Probabilmente erano le mie amiche che volevano consolarmi. Ma io non avevo bisogno di loro. L'unica persona di cui avrei avuto bisogno non si era neanche degnata di farmi gli auguri il giorno del mio compleanno.
Come aveva potuto? In cuor mio sapevo che lei stava soffrendo quanto me, ma non per questo faceva meno male.
"Maya, apri. Sappiamo che sei lì dentro." La voce era quella di Cristina.
Non risposi. Dopo alcuni istanti di silenzio pensai se ne fossero andate.
Invece un'altra voce tornò a farsi sentire attraverso la porta. Questa volta era Alessia.
"Smettila di fare la bambina! La tua festa fa schifo e tu te ne stai rinchiusa in bagno a piangere, è la cosa più deprimente che si sia mai vista!"
L'unico risultato fu quello di farmi infuriare, ma forse era proprio questo il suo intento, perché non appena aprii la porta per scaraventarmi contro di lei le altre due ne approfittarono per intrufolarsi dentro il bagno.
Così mi ritrovai circondata da tutte e tre. Andai a sedermi sulla vasca e le implorai di lasciarmi in pace, ma loro non ne volevano sapere di andarsene.
"Sono venuta a portarti il mio regalo", disse Alessia. "Con quello che mi è costato non ti permetto di lasciarlo di là buttato su un divano."
Riluttante, presi il pacchetto che  teneva in mano.
"Grazie", borbottai.
"Aprilo."
"Okay, dammi il tempo!"
Cristina e Laura ridacchiarono sommessamente, così io rivolsi anche a loro un'occhiataccia.
Ma aprii il regalo.
"Una camicia. Grazie Alessia." Mi sforzai di essere cortese e riuscii a tirare fuori un mezzo sorriso. Questo però non cambia niente, pensai.
"Non è una camicia qualunque", mi corresse. "E' una camicia di flanella. Pare che vada molto fra voi..."
"Lesbiche." Finii la frase per lei. Subito però mi pentii di averle tolto quel peso scomodo. Non avrei dovuto aiutarla, non le dovevo niente.
"E tu come fai a saperlo?", le chiesi.
"Be', mi sono informata", disse con un sorriso. "E' il mio modo di chiedere perdono per quanto stupida sono stata."
La fissai per qualche secondo. Sembrava sincera.
Questo allora cambia tutto, pensai. Si stava impegnando. Stava provando.
Non riuscii a negarle un sorriso.
"D'accordo, Alessia. Ti perdono."
Lei si fiondò ad abbracciarmi, io mi irrigidii, ma non mi sottrassi all'abbraccio.
   Almeno avevo riavuto indietro un'amica. Non era esattamente quella la mia priorità, ma era già qualcosa.

Quella notte sognai Anna ancora una volta. Il sogno era simile a quello che avevo avuto a settembre, la primissima notte in cui lei si era presentata nel mio subconscio.
Ora però non ero più io a scappare e ad essere poi stretta fra le sue braccia: le parti si erano invertite. Correvo sempre, sì, ma correvo dietro di Anna. Ed era lei a scappare, questa volta. E io la seguivo, e lei correva sempre a diversi metri di distanza, là, lontana, irraggiungibile... quando mi svegliai non l'avevo ancora raggiunta.
La delusione tornò a pesare come un macigno sullo stomaco mentre mi sforzavo di alzarmi dal letto.
Appoggiai un piede vicino all'altro per terra. Mi misi in piedi. Rimasi a fissare il muro spoglio davanti a me. Il nulla. Fuori e dentro di me. Sentivo il nulla.
La vibrazione del telefono spezzò per un secondo il silenzio. Lo schermo inizialmente si illuminò, poi tornò nero mentre lo fissavo dall'altra parte della stanza.
Senza nessuna curiosità lo andai a prendere e aprii il messaggio.
Quando lessi il mittente il cuore mi salì in gola. Anna. Era Anna.
Il testo era brevissimo, tre parole:
     "Mi dispiace. Perdonami."
Restai immobile con il cellulare davanti agli occhi. Aspettavo le lacrime, ma queste non arrivarono. Sentivo soltanto l'aria uscire ed entrare dai miei polmoni a ritmo vertiginoso, ma non riuscivo a formulare un pensiero coerente, non riuscivo a capire come mi sentissi né a trovare una reazione adeguata. Cosa avrei dovuto fare?
Per cosa ti dovrei perdonare?, avrei voluto scriverle. Per non essere venuta al mio compleanno? Per esserti dimenticata completamente di me? Di tutto? Per avermi lasciata per metterti con il mio ex ragazzo?
No, non era questo quello che volevo davvero scriverle.
Mi sedetti sul letto e aprii il mio laptop. Sapevo che c'era una canzone che era proprio quello che cercavo, ma non riuscivo a farmela venire in mente.
Poi all'improvviso mi ricordai: 'Soil, Soil', di Tegan and Sara. Quella era la mia risposta per Anna, quello  era ciò che volevo dirle.
Copiai il link sul telefono e glielo mandai.

 

All you need to save me
Call
And I'll be curled on the floor hiding out from it all
And I won't take any other call

All you need to say to me
All you need to say to me
Is call


[https://www.youtube.com/watch?v=kcVcm3LDXAk]

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Capitolo 26
*** Capitolo XXVI ***


Non rispose.
Il lunedì mattina era là, al fondo del corridoio. Non l'avevo più vista lì nell'intervallo.
Mi soffermai a guardarla per un po'; volevo cercare di capire cosa le passasse per la testa.
Proprio come il primo giorno di scuola, non sembrava né triste né felice. Sembrava distaccata, fuori dal mondo. Avrei voluto esserci anch'io nel luogo mentale in cui si rifugiava.

"Non sta più con Andrea", sussurrò al mio orecchio Cristina mentre stavo ancora osservando Anna.
Guardai Cristina con aria interrogativa.
"Sei contenta?", fece lei con quella sua espressione idiota ed adorabile al tempo stesso.
"Ah-ah..." mormorai io, cercando di suonare indifferente.
E ineffetti lo ero - abbastanza.
Tornai a rivolgere un'occhiata ad Anna e scoprii che proprio in quel momento lei mi stava guardando. Come ai vecchi tempi, i nostri occhi si incontrarono per un breve istante.
Poi però lei abbassò lo sguardo. Come ai vecchi tempi. Solo che questa volta l'aveva fatto perché il senso di colpa la divorava, come avevo fatto in tempo a leggerle negli occhi.
La guardai mentre si allontanava fino a sparire dietro l'angolo.
Sospirai. Sarebbe rimasta sempre così distante, intangibile. Sapevo benissimo che il semplice fatto che non stesse più con Andrea non l'aveva resa più vicina - anzi, non sarebbe cambiato proprio niente finché la sua paura l'avesse tenuta lontana.

Quello che successe quel pomeriggio mi fece tuttavia sperare che avesse deciso di intraprendere la strada giusta.
Rispose al mio messaggio con un'altra canzone.
'Dark Come Soon'.
Mentre la ascoltavo riuscii a sentire perfettamente quello che lei provava. La paura, i dubbi, l'angoscia, l'incompatibilità fra i suoi desideri e il suo istinto di autoconservazione.
Parte del testo diceva:

"E quindi? Ho imbrogliato. Ho mentito. Ho mentito anche a me stessa."


Almeno lo ammette, pensai. Era un inizio, no?
Un'altra parte, poi, mi dava ancora più speranza: "I need you", "Ho bisogno di te".

Mi venne voglia di correre da lei e avvolgerla fra le mie braccia, per dirle che sarebbe andato tutto bene, e che la perdonavo, eccome se la perdonavo, e l'avrei protetta, e sarebbe andato tutto bene... Ma non ero sicura che la canzone mi desse quel diritto. In più, sapevo che non era così che funzionava con Anna. Dovevo avere pazienza, dovevo sperare che percorresse da sola la sua strada.

Perciò non la cercai, non le misi fretta. Aspettai che fosse lei a venire da me.
E una mattina sentii la voce che aspettavo che mormorava un timido "Ciao", finalmente di nuovo rivolto a me. Avevo incrociato Anna nei bagni della scuola, ma avevo continuato a camminare aspettandomi di essere ignorata come sempre. Questa volta però lei si era fermata e mi aveva parlato.
Non mi sembrava vero, tant'è che rimasi alcuni istanti con un'espressione allucinata come davanti ad un'apparizione divina.
Solo dopo qualche secondo riuscii a rispondere al suo saluto.
"Come stai, Anna?" Quant'era che non pronunciavo il suo nome ad alta voce?
Lei non rispose, prese a fissarsi le scarpe.
Mi guardai intorno, imbarazzata da quella distanza fredda fra noi che sembrava cancellare tutte le parole e i sussurri che ci eravamo scambiate fino a qualche mese prima.
Un istante dopo però Anna fissò gli occhi nei miei, i suoi occhi azzurri da cucciolo spaventato, e io ritrovai la sincerità.
"Sei stanca", le dissi. "Sei stanca, di' la verità."
Lei non disse niente. Continuava a guardarmi, gli occhi le si facevano sempre più tristi.
"Sei stanca di fingere", continuai.
Finalmente le sue labbra si mossero.
"Sì", sussurrò. "Tanto."
Le lacrime iniziarono a bagnarle quegli occhi già liquidi.
In quel momento una ragazza di prima entrò nei bagni, si diede un'occhiata allo specchio e uscì di nuovo.
Anna però si era già allontanata di qualche passo. Dopo un lungo sospiro, si diresse anche lei verso la porta.
Mi venne da allungare la mano come per trattenerla, un gesto ridicolo nella sua futilità.
"Mi manchi", bisbigliai alle sue spalle che sparivano dietro l'angolo.




[ "Dark Come Soon":https://www.youtube.com/watch?v=pPQN-nC8e6Y]

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Capitolo 27
*** Capitolo XXVII ***


Con mia delusione, il tempo continuava a passare senza che succedesse altro. Senza che Anna si decidesse a metter fine alla sua battaglia e tornare finalmente da me.
L'avrei accolta a braccia aperte, quello lo sapevo dall'inizio. Sarei stata disposta a cancellare tutto il dolore che mi aveva causato e guardare solo l'immensa felicità che mi aveva regalato nei mesi precedenti - se solo avesse trovato il coraggio di ammettere che aveva bisogno di me. Ma non avevo più ricevuto nessun messaggio, nessuna canzone era arrivata a parlarmi per conto suo.
Ormai era giugno. La scuola stava per finire, tutti pensavano già alle vacanze. Tutti tranne me: io cosa me ne facevo senza Anna con cui andare al mare?
Quel cielo estivo così azzurro mi faceva solo male, ricordandomi gli occhi altrettanto azzurri che erano stati miei ed avevo perso.
Inoltre, non riuscivo a sopportare il pensiero di non vedere più Anna per tre mesi; a scuola almeno la vedevo ogni tanto passare nel corridoio - e non era tanto, ma era tutto quello che mi rimaneva. Oltre alle mie amiche, ovviamente, e ad una media inaspettatamente alta - che mi ero riuscita a guadagnare concentrandomi quasi involontariamente sulla scuola in mancanza di cose più piacevoli verso cui indirizzare i miei pensieri.

Diamine, se mi sentivo vuota. Le giornate di sole non mi scaldavano. L'atmosfera generale di allegria non mi toccava. Avrei voluto anch'io entusiasmarmi per la fine della scuola, ma evidentemente non ero più capace di entusiasmarmi.
L'ultimo giorno di scuola per me era un giorno come tanti.
Mi svegliai infatti come tutte le altre mattine, mi preparai come tutte le altre mattine, mangiai quello che avevo mangiato tutte le altre mattine, camminai verso scuola con lo sguardo in terra come tutte le altre mattine.
Quello che mi aspettava a scuola, però, non si avvicinava neanche lontanamente alle altre mattine. Chi mi aspettava a scuola, dovrei dire. Qualcuno che non mi aveva più aspettato davanti a scuola da mesi, ormai. Anzi no, pensandoci bene non mi aveva mai aspettato davanti a scuola. Aveva troppa paura per aspettarmi davanti a scuola. Aveva così tanta dannata paura...
Ora però sembrava proprio che tutta quella paura l'avesse all'improvviso lanciata nella Fossa delle Marianne per un viaggio di non ritorno.
Perché era là in piedi davanti a tutti, Anna. E non cercava più di passare inosservata, anzi era al centro dell'attenzione. E diamine, guardava me. Stava proprio guardando me, non c'erano dubbi - mi ero girata a controllare e dietro non c'era nessuno, quindi sì, guardava me. Ed evidentemente non le interessava che gli altri capissero che mi stava guardando; sembrava piuttosto il contrario. Aveva indosso la felpa con scritto "She keeps me warm" - non moriva di caldo? - e in mano aveva... una chitarra?
Cosa diavolo sta succedendo. Credetti davvero di essere rimasta addormentata, persa in questo sogno così vivido... perché non poteva essere altro che un sogno. Non poteva succedere nella vita reale che Anna stesse lì davanti a tutti con una chitarra in mano, e che iniziasse a...
Oh mio Dio sta iniziando a cantare.
A cantare e suonare con gli occhi sempre fissi nei miei e il sorriso che pian piano le si apriva...
E' completamente pazza. Qualcuno l'ha drogata. Qualcuno deve averla drogata.
Su quel viso dannatamente luminoso, più luminoso che mai, più del cielo azzurro, più del sole. Con quegli occhi che brillavano tanto che sembrava avessero finalmente lasciato il bagliore  libero di uscire e riempire tutta l'aria intorno a sé, fino ad arrivare a me, che...
Quello che sta succedendo non può star succedendo. Ma non sarò io a fermarlo se proprio  vuole star succedendo.
Che ero morta. Ma proprio morta. Paralizzata. Dalla sorpresa, sì, e dalla felicità.
Non che fossi arrivata a credere a quello a cui stavo assistendo, quello no. Ma era tutto così dannatamente perfetto che decisi di assecondare la realtà nella sua estemporanea follia.
Mi concentrai su Anna, laggiù dall'altra parte dello spiazzo, e il cerchio di persone che si era formato intorno a noi sparì. Esistevamo solo più noi due. Eravamo sempre esistite solo noi due; per tutto il tempo.
La sua voce partì timida, attraversò lo spazio che ci divideva e arrivò fino a me. E nel momento stesso in cui capii cosa stava cantando, mi ritrovai gli occhi inondati di lacrime contro la mia volontà. Aveva proprio azzeccato la canzone, Anna. Aveva proprio azzeccato tutto. Aveva rovinato tutto, dannazione, ma ora stava rimettendo insieme ogni pezzetto nel giro di un minuto. Con una canzone. Con tutto quello che mi stava dicendo, con quella canzone. E con il sorriso che mi regalava. E con i suoi occhi tremendamente azzurri che erano pieni di lacrime proprio come i miei, ed erano fissi su di me proprio come i miei erano fissi su di lei.
E non esisteva più nient'altro, sul serio. Gli applausi intorno a noi li percepimmo appena.
Tutte quelle persone che ci erano state da ostacolo ora forse non lo erano più, ora forse approvavano il nostro amore. Ma il nostro amore non aveva bisogno della loro approvazione. Il nostro amore era forte. Il nostro amore era bello. Il nostro amore era sacro. Il nostro amore era nostro.



 

"Elevator buttons and morning air
Strangers' silence makes me wanna take the stairs
If you were here, we'd laugh about their vacant stares
But right now, my time is theirs

Seems like there's always someone who disapproves
They'll judge it like they know about me and you
And the verdict comes from those with nothing else to do
The jury's out, but my choice is you.

So don't you worry your pretty little mind
People throw rocks at things that shine
And life makes love look hard
The stakes are high, the water's rough, but this love is ours

You never know what people have up their sleeves
Ghosts from your past gonna jump out at me
Lurking in the shadows with their lip gloss smiles
But I don't care 'cause right now you're mine

And you'll say don't you worry your pretty little mind
People throw rocks at things that shine
And life makes love look hard
The stakes are high, the water's rough, but this love is ours

And it's not theirs to speculate if it's wrong and
Your hands are tough but they are where mine belong in
I'll fight their doubt and give you faith with this song for you

'Cause I love the gap between your teeth
And I love the riddles that you speak
And any snide remarks from my father about your tattoos will be ignored
'Cause my heart is yours

So don't you worry your pretty little mind
People throw rocks at things that shine
And life makes love look hard

And don't you worry your pretty little mind
People throw rocks at things that shine
But they can't take what's ours, they can't take what's ours
The stakes are high, the water's rough, but this love is ours"

(Taylor Swift, Ours)



 
E vissero per sempre felici e contenti.


No, un attimo, riproviamo:
E vissero per sempre felici e contente.

Ecco, così va meglio. E' solo questione di abitudine, no? Alla fine suona bene uguale.

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