fireproof

di Marti Lestrange
(/viewuser.php?uid=168998)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chances and choices ***
Capitolo 2: *** Master of fate/Captain of soul ***
Capitolo 3: *** Demons ***
Capitolo 4: *** Run boy run ***



Capitolo 1
*** Chances and choices ***


AVVERTENZE PRELIMINARI: come ho già scritto nell'introduzione, ho preferito inserire l'avvertimento OOC perché i personaggi, calati in un contesto alternativo molto diverso da quello della serie tv, potrebbero adottare comportamenti leggermente discordanti dai loro corrispettivi televisivi. In ogni caso, mantengono comunque la caratterizzazione originale - almeno spero.
Grazie per l'attenzione e buona lettura.




"We don't give a fuck cause that's just who we are 
And we are, we are we are, we are we are 
The crazy kids, them crazy, them crazy kids 
And we are, we are we are, we are we are 
The crazy kids, we are the 
We are the crazy people."
 
 
fireproof
capitolo 1
chances and choices
 
{Clarke}
Ho capito che se non puoi strappare una singola pagina della tua vita, puoi sempre bruciare l'intero libro. Certo, brucerei volentieri una biblioteca intera se ciò potesse essermi d'aiuto.
 
Il fatto è che è difficile, archiviare un errore, se come me frequenti l'Anacostia Young Correction School, luogo infernale costellato di metaforici specchi, pallidi riflessi dei tuoi stessi crimini: le persone. Sì, le persone che ti circondano sono proprio come te, piccoli criminali di strada più o meno organizzati - chi rubacchia nei supermercati locali, chi scippa le vecchiette sulla Mainstreet - "condannati" a scontare la loro pena in una "speciale accademia per ragazzi difficili", una "scuola correttiva giovanile", tutte frasi da opuscolo illustrato. Una vera noia, insomma.
 
Tutto ciò a cui riesco a pensare ora è il rimbombare sordo che minaccia di spaccarmi la testa, sfondandomi la fronte e spargendo massa cerebrale ovunque, unito al tragitto da casa a scuola, in bicicletta, da vera "outsider" quale sono - tratto distintivo che mi ostino a sottolineare quotidianamente - e ad una reale carenza di caffè, un vero problema se la notte prima hai dormito solo quattro ore. Dannazione. 
 
Dannazione. Il professor Kane mi ucciderà. Letteralmente.
 
Per inciso, Anacostia è il quartiere in cui vivo, nei sobborghi di Southeast Washington, composto essenzialmente da una Mainstreet completa di un supermarket, un pub, una manciata di bar - compreso uno Starbucks, miracolosamente -, una chiesa anglicana, quattro negozi di abiti che non ci metterebbe piede neanche mia nonna - che possa riposare in pace - e qualche altro esercizio commerciale di dubbia reputazione. Il Southeast, dove il tasso di criminalità è il più elevato della contea. Noi di Anacostia abbiamo sempre contribuito a far lievitare la percentuale nazionale. In effetti, qui c'è poco altro, a parte un piccolo cimitero, un centro commerciale piuttosto degradante vicino al fiume omonimo, le vie residenziali - solo una di queste abbastanza rispettabile da poter essere definita tale - e, ovviamente, il comprensorio dell'Anacostia High School, composto dal liceo regolare, frequentato da ragazzi "perbene", e la Correction School, il "ghetto", ossia cento studenti afflitti da problemi mentali e/o comportamentali più o meno gravi e con la fedina penale che necessita una bonifica. 
 
E quei noiosi della Regular ci chiamano proprio così, "i Cento". Fino a qualche mese fa, anche io utilizzavo quel soprannome. Ora ne faccio parte.
 
Trovo il mio migliore amico Wells ad aspettarmi accanto ai cancelli, come al solito. Le braccia incrociate, osserva con sguardo torvo i Regular - come chiamiamo gli studenti "rispettabili" - che si affannano a raggiungere le loro aule, site nell'edificio principale.
 
«Non dovreste stare qui, voi dei Cento» commenta una ragazza, guardandoci con disprezzo. In effetti ha ragione, ma sia io sia Wells siamo troppo maleducati per ammetterlo. Ci limitiamo a guardarla e a farci gli affari nostri. Quella decide di proseguire: nessuno attacca briga con noi. Non seriamente. Scendo dalla bicicletta e il mio amico si stacca dal basso muretto in mattoni rossi al quale era appoggiato. 
 
«Andiamocene, Clarke» mi intima e io silenziosa mi affianco a lui e insieme ci incamminiamo verso il "nostro" edificio, leggermente discosto, situato nel vecchio parco, oltre una cancellata - che bizzarramente non è elettrificata, stranezza incomprensile, visto che siamo reclusi. La Correction School occupa quello che era l'edificio originale dell'Anacostia High School, fino a che il nonno di Wells non ha deciso di fondare la "nuova scuola". Ed eccoci qui, ad occupare locali pieni di spifferi e infiltrazioni d'acqua, solo per lasciare spazio all'élite di quartiere. Bello schifo. Grazie, antenato di Wells. Complimenti. 
 
«Non capisco come mai ti ostini a volerci incontrare qui» commento alzando le spalle.
«Voglio guardarli in faccia ogni mattina, quei pervertiti, solo per ringraziare Dio di non essere diventato uno di loro. Con un padre come il mio, ho rischiato seriamente» risponde lui.
«Lo sai che non sei diventato uno di "loro" solo perché hai scelto di fare il delinquente, no?»
«Non si tratta solo di questo. Mancano le mezze misure, Clarke. O ci siamo noi o ci sono loro. Bianco o nero.»
«Non credo sia così. Ci sarà qualcuno dei Regular che non abbia la puzza sotto il naso.»
«Sì, tu. Ma sei diventata una di noi, ormai. Non puoi tornare indietro.»
Annuisco. Wells forse ha ragione. Forse avrei potuto costituire un'eccezione. E forse è anche per questo che la mia natura mi ha portato a fare una scelta. Ho scelto il nero. Ho scelto i Cento.
 
 *
 
Conosco Wells Jaha da che ho memoria. Siamo amici da sempre. Prima compagni di giochi innocenti, intrappolati nella gabbia dorata dell'infanzia, poi di scorribande più o meno tranquille. Wells è in ogni mio ricordo, in quasi ogni foto, spettatore e allo stesso tempo attore della grande tragi-commedia che è la mia vita. Mi è stato accanto quando è morto mio padre, nei giorni terribili in cui mi rifiutavo di mangiare e la mia negazione era un po' come negare la morte, e così la vita stessa: a quel tempo ignoravo che la gente, effettivamente, morisse. I miei genitori rientravano nella categoria delle "persone immortali", c'erano sempre stati e mai mi avrebbero lasciato. E la realtà mi ha travolta: erano mortali, sensibili alle beffe del destino, deboli
 
Anche io ero debole. Ora mi piace credere di esserlo un po' meno. 
 
E Wells ha assistito alla perdita della mia innocenza, alla fine dell'infanzia così come dovrebbe essere per tutti i bambini, fatta di giochi spensierati, notti passate nel sacco a pelo e meravigliosi tramonti sul fiume. 
 
Finiti i giochi, è iniziata la vita vera. La morte è stata solo un piccolo passo iniziale sulla strada dell'età adulta. Poi è arrivata la solitudine, la povertà, la fame, il dolore, ed era tutto riflesso negli occhi dei pazienti di mia madre. Ogni singola sfumatura. 
A volte, quegli stessi stati d'animo venivano a casa con me, al piano superiore dell'ambulatorio, nella mia stanza, e allora mi raggomitolavo sul letto, stringendomi le ginocchia, incapace di emettere suono. E tante di quelle volte, Wells era lì con me. Se ne stava semplicemente seduto, in silenzio. 
 
Per lui, ogni occasione è buona per fuggire di casa, adesso come allora. Lo spazio di una piccola villetta a due piani è troppo, per due sole persone, soprattutto se una di queste è tuo padre, nonché preside dell'Anacostia High School - uno dei diretti responsabili del tuo ingresso alla Correction School, lui e il capo del distretto di polizia locale. 
 
Wells e io sorpassiamo l'ingresso, composto da una facciata regolare intervallata da colonne bianche ormai ingrigite e finestre dai serramenti traballanti e parecchi vetri rotti. In alto, campeggia la vecchia scritta annerita dell'ormai ex "Anacostia Senior High School". Prima di diventare la sede della Correction School, quegli edifici ospitavano le classi più anziane del liceo. Dopo che la dichiarazione di parziale inagibilità è stata presentata all'ufficio del sindaco ed essendo stata da lui bellamente ignorata, Theodore Jaha - il nonno di Wells - ha ben pensato di utilizzari i locali per "altri più alti scopi". 
 
Bellamy Blake, John Murphy e altri ragazzi dell'ultimo anno stanno tormentando alcuni studenti più giovani e noi li sorpassiamo senza prestare loro molta attenzione. Le gerarchie e i gruppi sono ben chiari, qui. Nessuno si lamenta dell'operato della "cricca di Bellamy" - come viene chiamata da tutti - ma loro sanno benissimo quali soggetti importunare e quali sarebbe meglio togliere dai radar. Ho già ampiamente scontato il mio arrivo a scuola, qualche mese fa. Ora nessuno mi da fastidio. Neanche a Wells, nonostante all'inizio fosse costantemente preso di mira per via del padre. E io ero considerata "snob", sia per via dei miei precedenti alla Regular, sia per via di mia madre e del suo lavoro: fare il medico è considerato un mestiere di alto livello, ad Anacostia. Mia madre ha però sempre prestato regolare assistenza a chiunque si sia presentato all'ambulatorio e questo mi ha permesso di sopravvivere in mezzo ai nuovi compagni. 
 
Ci fermiamo ai nostri armadietti e recuperiamo i libri. 
«Mi aspettano due ore di letteratura inglese con Kane» borbotto. Marcus Kane è il nostro professore, nonché direttore della Correction School. In pratica, collabora con il preside Jaha nella gestione di noi "Cento".
«Io vado a matematica, invece. E dopo fisica. Ci vediamo in pausa pranzo?» dice Wells.
«Va bene. A dopo» rispondo. Gli lancio un'occhiata sconfitta e poi mi avvio verso l'aula di inglese. 
Entro e mi siedo al primo banco. Nonostante sia finita qui, me la cavo discretamente, a scuola, e preferisco che Kane mi consideri interessata alla sua materia, piuttosto che una da ultima fila come Octavia Blake. Parlando del diavolo, la reginetta della Correction entra in quel momento nell'aula, seguita dalla sua "corte" di amichette e ammiratori. Mi sorride e mi si siede accanto.
 
È bellissima, Octavia, e sa di esserlo. Capelli lunghi e scuri e due occhi azzurri profondi come il mare. Provoca svenimenti fra gli esseri di sesso maschile da quando è nata. E alla Correction la conoscono tutti, sia per il suo aspetto e il suo carettere "allegro", sia per essere la sorella di un altro Blake, altissimo, muscoloso e dai modi minacciosi. 
Nonostante tutta la sua popolarità - e nonostante Bellamy - Octavia mi ha considerata un'amica sin dal mio primo giorno alla Correction. Spesso e volentieri siede accanto a me in aula e ogni tanto siamo anche uscite a bere un caffé. 
 
«Stasera c'è una festa. Dovresti venirci» butta lì tirando fuori dalla borsetta un piccolo specchio e ammirando così il suo riflesso perfetto. 
«Una festa?» ripeto. «Dove?»
«A casa di un amico» risponde, evasiva, alzando le spalle. Io tiro fuori il libro di inglese dalla borsa e la osservo. Non me la racconta giusta, ma non insisto: fa parte del "mistero Octavia".
«E perché dovrei venirci?»
«Perché è una festa piuttosto privata, se capisci cosa intendo» no, non intendo, ma evito di dirglielo. «Tu, io, e altre personcine selezionate. E no» aggiunge lanciandomi un'occhiata «non puoi portare Wells. Scordatelo. Farebbe raggrinzire anche la pelle di un neonato da quanto è noioso.»
Non posso fare a meno di ridere. Forse il paragone è un po' forte, ma capisco cosa intende. Wells è talmente serio che non si lascia andare mai, soprattutto se fra persone che conosce poco.
 
«Ci penserò» dico poco prima che Kane faccia il suo ingresso in aula.
«Bene. Dopo ti mando un messaggio con l'indirizzo» conclude lei facendomi l'occhiolino.
In cosa mi sono appena cacciata?, penso subito dopo.
 
 
* * *
 
 
{Bellamy}
«Verrai alla festa di stasera?»
Alzo gli occhi dal piatto. Mia sorella Octavia sta prendendo posto accanto a me al solito tavolo che occupo in mensa, in compagnia di Murphy, Atom e gli altri ragazzi. Atom automaticamente le lascia il posto, in silenzio. Ho sempre pensato che abbia una cotta per lei. Si vede da come la guarda senza dire niente, gli occhi che la seguono per la stanza, uno studio impercettibile dei movimenti. Non ho mai voluto approfondire la faccenda: Atom sa bene che Octavia è fuori dalla sua portata. 
 
«Ah, giusto» rispondo annuendo. «Me n'ero scordato.»
«Sei sempre il solito, Bell» ridacchia lei dandomi una pacca sul braccio. Io le sorrido e continuo a tormentare le mie carote. Odio le carote, non so nemmeno perché le ho prese. In questa dannata scuola - che io chiamo molto simpaticamente "Detention" School, invece di Correction - ci rifilano tutta una serie di schifezze improponibili che mi sorprende come ci siano ancora persone sovrappeso, fra noi Cento. Allontano il piatto e mi rilasso sulla sedia.
 
«Chi ci sarà?» mi informo, guardingo.
«Un po' di gente. Non troppa» si affretta a precisare Octavia spiluccando la sua insalata. «Amici di amici. Conoscenze varie.»
«Ci penserò» concludo.
«È già qualcosa, orso che non sei altro. Una volta sapevi divertirti molto di più, fratellone. Che ti è successo?»
«Le persone cambiano, sai?»
«Sì, ma non cambiano mai fino in fondo. E io so che c'è ancora qualcosa del vecchio te stesso, lì dentro. Ti serve solo qualcuno che lo tiri fuori.»
«Può darsi, sì» ammetto, ma non sono così convinto che Octavia abbia ragione. 
 
Sono cambiate tante cose, in questi ultimi quattro anni. Quando, tre anni fa, Octavia è stata arrestata dopo l'ennesimo, piccolo furtarello nei negozi di Anacostia - e dopo varie denunce ritirate - è cambiata non solo la sua vita, ma anche la mia. Eravamo in strada, sulla Mainstreet. Sono capitato lì per caso, quel giorno ero da solo. Octavia era proprio fuori dalla piccola profumeria della signora Smith, e un agente la stava ammanettando per portarla in centrale. Una piccola folla si era radunata all'esterno, per lo più curiosi e impiccioni. 
 
Per tutta la mia vita, non ho fatto altro che difendere mia sorella. Anche in quel momento. Il pugno che ho rifilato all'agente mi è costato caro: avrei trascorso i successivi tre anni e mezzo all'Anacostia Young Correction School. E Octavia è finita lì con me il settembre successivo, all'alba del mio secondo anno di liceo. E siamo qui da allora. Insieme. 
 
Il mio ingresso alla Correction School ha finito per tracciare i confini della mia vita. Ora, il prima ha dei contorni più sfumati, mentre quelli del dopo sono netti, determinati, reali. Adesso le cose mi appaiono come sono veramente, a colori vivavi, e le persone hanno perso tutto il loro disincanto. Non mi aspetto più nulla di straordinario, a dire il vero. E so che può apparire triste e rassegnato, come chi si arrende ai trascorsi della vita senza combattere, ma preferisco non aspettarmi niente piuttosto che soffrire nella delusione. La verità è che non mi fido di nessuno, ormai. Solo mia sorella continua a costituire per me un'eccezione. 
 
«Bellamy Blake è pregato di recarsi immediatamente nell'ufficio del coordinatore didattico, al secondo piano. Ripeto: Bellamy Blake nell'ufficio del coordinatore. Grazie.»
 
La voce squillante della segretaria, la signorina Prim, mi riscuote dai miei pensieri. 
«Cosa vuole Kane da te?» mi chiede Octavia stupita.
Gli altri ragazzi mi osservano, altrettanto curiosi. 
«Cosa hai combinato senza di noi, Bell?» ride Murphy.
Gli lancio un'occhiata e lui alza le mani al cielo, i palmi larghi. Inarca le sopracciglia, ironico.
«Scusa, la prossima volta mi mordo la lingua» bofonchia.
Atom gli sferra un calcio sotto il tavolo e io scuoto la testa.
«Dì pure quello che vuoi, Murphy, per quello che mi importa» dico alzandomi.
Adesso, tutti i presenti in aula mensa mi stanno guardando.
 
L'unica che si fa gli affari suoi è l'ultima arrivata, Clarke Griffin, che continua a leggere il suo libro, apparentemente disinteressata, e si trova solo a qualche tavolo di distanza dal mio. Il suo amico, invece, quel tale Jaha figlio del Preside, il "principino" della Correction, mi guarda male, come al solito. Probabilmente l'ultima volta non ne ha prese abbastanza e mi chiedo come mai abbiamo deciso di lasciarlo vivere serenamente per tutti questi mesi. Mi riprometto di ficcargli la testa nel water alla prima occasione, quella sua testa del cavolo e quegli occhi da imbecille pesce lesso, poi mi avvio in silenzio verso l'uscita. 
 
L'ufficio di Marcus Kane si trova al secondo piano, nell'ala dedicata all'amministrazione e agli uffici della segreteria. Quante volte ci siamo intrufolati lì dentro... Per allagare i locali, distruggere documenti, imbrattare muri o per hackerare i computer. Peccato che nessuno di noi sia un hacker: non ci siamo mai riusciti. Pensandoci, sarebbe utile averne uno dalla nostra. 
Busso alla pesante porta in mogano e la voce di Kane mi intima di entrare, seria. L'ufficio è semplice, fin troppo ordinato per i miei gusti. L'ultima volta che sono stato lì, Murphy e io abbiamo fatto a pezzi il vecchio divano in pelle. Prima di sedermi sulla scomoda sedia in plastica di fronte alla scrivania, gli lancio un'occhiata: Kane ha evidentemente cercato di aggiustarlo, perché si notano le toppe improvvisate e mal riuscite. 
 
«Si accomodi pure» dice Kane ironico lanciandomi un'occhiata. Io non ho aspettato un suo invito e ho già comodamente allungato le gambe davanti a me. I piedi - e le mie scassate scarpe da ginnastica - poggiano contro il legno pregiato della scrivania. 
«Grazie» rispondo osservandomi le unghie distratto.
« Signor Blake» comincia Kane. Lo guardo negli occhi e l'uomo ha già sfoderato il suo classico sguardo storto, lo "sguardo alla Kane", come lo chiamano tutti: ha qualcosa da dirti, e qualcosa di serio, e non ha la minima intenzione di indorarti la pillola. «Si è chiesto il motivo della sua convocazione nel mio ufficio?»
«Me lo sono chiesto, in effetti. Non ho combinato nulla, oggi. Non ancora» aggiungo.
Kane si limita a guardarmi, poi scuote la testa e sposta alcune carte di fronte a sè.
«Sta ufficialmente per concludere il suo percorso, qui all'Anacostia Young Correction School, credo che se ne sia reso conto.»
Kane non aspetta una mia risposta e continua: «Per ogni studente dell'ultimo anno è previsto un percorso finale di correzione, una specie di prova o esame per concludere il ciclo di studi qui da noi.»
 
Comincio a preoccuparmi: una prova finale?
«Il preside Jaha e io abbiamo concordato insieme quale sarà la sua prova, signor Blake. Come per ogni studente, si tratterà di due mesi di lavori socialmente utili da trascorrere qui ad Anacostia, a stretto contatto con gli abitanti del quartiere, e questi due mesi le saranno utili per il suo reinserimento nella società locale. Frequentare qui il liceo - soprattutto per periodi lunghi come il suo - comporta una sorta di isolamento, un estraniamento dalle dinamiche sociali della città, un estraniamento che noi assolutamente non vogliamo. Per cui, se questi due mesi avranno un esito positivo, lei sarà ufficilamente un nostro ex studente. Altrimenti prenderemo provvedimenti per trattenerla almeno altri sei mesi.»
 
Fisso Kane come stordito. Due mesi di lavori utili. Due mesi. Cioè, scuola e lavoro, lavoro e scuola. Fantastico. Addio, vera vita.
 
«Credo che il suo silenzio sia sinonimo di comprensione, signor Blake. Ci sono domande?»
Mi riscuoto. Mi passo una mano nei capelli. 
«Non ho mai sentito parlare di una fesseria simile» affermo.
Kane alza gli occhi al cielo, scuotendo la testa. «Mi aspettavo una risposta del genere, da lei. Sappia che il preside Jaha ha varie volte insistito per darle una seconda possibilità, signor Blake. Fosse stato per me, l'avrei spedita direttamente in riformatorio, senza biglietto di ritorno. Quindi mi aspetto che lei si impegni in questa prova, a fondo, perché la nostra pazienza non è infinita, come voi studenti credete. La vita raramente offre delle seconde chances, veda di ricordarlo. Sono stato abbastanza chiaro?»
 
Non posso fare altro che annuire. Che cosa potrei dire? Temo che mi convenga stare in silenzio e vedere cosa succede, perché qualsiasi replica sarebbe inutile. Questa volta, Kane mi sembra intenzionato a non farmela passare liscia, al contrario del vecchio Jaha. 
 
«Ah, dimenticavo un altro dettaglio importante» esclama Kane. «Vediamo un po'...»
Sfoglia alcuni documenti e afferra un foglio. 
«Questo è un modulo che dovrà compilare e presentare dopodomani, al suo primo giorno di lavoro» e me lo porge. 
Lo afferro e lancio un'occhiata veloce. 
«Ambulatorio Griffin?» esclamo alzando lo sguardo su Kane.
«Sì, ha letto bene. La dottoressa Abigail Griffin ha bisogno di un aiuto extra, da quando sua figlia Clarke non l'aiuta più come un tempo. Abbiamo pensato che lei sarebbe perfetto. E Abby ha gentilmente accettato. Ovviamente non sarà ricompensato, e passerà lì tutti i pomeriggi dopo la scuola.»
 
Il modo in cui Kane dice "Abby" mi fa mal pensare: che i due si conoscano più a fondo di quanto vogliono far credere? Mi riprometto di indagare.
 
Ambulatorio Griffin. Perfetto, sono proprio fottuto.  

 
 
NOTE
  • La citazione iniziale arriva da "Crazy Kids", la canzone di Ke$ha; il titolo significa, letteralmente, "possibilità e scelte".
  • La frase d'apertura del capitolo non è mia, ma di Blair Waldorf, personaggio - geniale - di "Gossip Girl".
  • Il quartiere di Anacostia esiste veramente, e si trova appunto nella zona Southeast di Washington. Ho scelto Washington come "location" della mia AU riferendomi alla puntata in cui Lincoln e Octavia sostano accanto alla statua del presidente Abraham Lincoln, che si sorge appunto all'esterno dell'omonimo Memorial, nel Nation Mall a Washington. 
  • Esiste anche l'Anacostia High School. L'unica cosa da me inventata è l'Anacostia Young Correction School. Effettivamente, non so come funzioni negli Stati Uniti. So che, come qui, esiste un riformatorio per i minorenni, ma l'idea del Centro di Correzione è tutta di mia invenzione, vogliate perdonare eventuali imprecisioni o inesattezze. 


Ed eccomi qui con la mia prima long sui Bellarke. Non ho molto altro da aggiungere, a dire il vero, a parte che spero vi sia piaciuta, nonostante sia un po' particolare, lo ammetto. Per qualsiasi chiarimento, potete contattarmi qui su Efp oppure via Facebook, trovate il collegamento al mio profilo nella mia pagina autore. 

Colgo l'occasione per ringraziare tutte quelle anime che mi hanno sostenuta e incoraggiata e spronata anche in questa avventura. Per quanto riguarda il prossimo aggiornamento, rimando tutto a quando sarò tornata da Parigi, cioè il 17 febbraio. Intanto, spero comunque di iniziare la stesura del capitolo due, sul quale ho già parecchie idee. 

Qui trovate il link al mio gruppo Facebook, se vi va:
https://www.facebook.com/groups/159506810913907/

A presto, Marti



 


 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Master of fate/Captain of soul ***


AVVERTENZE PRELIMINARI: visto che nelle recensioni allo scorso capitolo mi avete detto che trovate i miei Bellamy e Clarke IC, ho fatto che togliere l'avvertimento OOC. Non sapete quale peso mi avete tolto! Grazie!

 
"Well, look who I ran into," crowed Coincidence.
"Please," flirted Fate, "this was meant to be."
 
 
fireproof
capitolo 2
master of fate/captain of soul
 
 
{Clarke}
Prima di oggi, non ho mai veramente pensato alle coincidenze. Da qualche parte, non ricordo dove, ho letto che "sono le cicatrici del destino", ma lì per lì mi sono fatta una mezza risata, arricciando le labbra e senza farci troppo caso. Ci sono persone, invece, che credono a queste cose veramente, giustificando ogni piega della vita con la banale scusa del "fato". "Si vede che era destino", dicono. Tutte cazzate. Non c'è nessun cammino già scritto per noi chissà dove. Ogni essere umano costruisce la propria storia, determina le sue proprie gioie e i dolori in eguale misura, forgia il proprio carattere e, di conseguenza, ogni nostra decisione è soltanto nostra, interamente. Non c'è nessun progetto celeste, nessuna divinità che scrive il libro della vita, siamo noi che possiamo decidere di vivere alla bellemeglio oppure soccombere sotto la nostra stessa stupidità. 
 
Ad ogni azione corrisponde una reazione, giusto? Forse siamo noi stessi a causare il nostro stesso male. Agendo come agiamo, abbiamo due scelte: farlo nel modo giusto oppure no. Nel primo caso, di solito va tutto bene. Magari non proprio come vorremmo, ma le conseguenze solitamente non sono poi così gravi. E almeno siamo apposto con la coscienza. Nel secondo caso, invece, sappiamo bene cosa succederà. Dolore, guai, problemi, punizioni, non necessariamente in quest'ordine. E il dolore, anzi, ci accompagna costantemente, sin da quando capiamo l'enormità del nostro sbaglio. Posso considerare il mio "crimine" come facente parte della seconda categoria di azioni. Sin da quando ho cominciato, già sapevo dove mi avrebbe portato. Rimbombava nel mio cervello una strana musica, come un martello che colpisce un muro di metallo. Il rumore che provocava mi rintronava le sinapsi e, mano a mano che il tempo passava, perdevo una parte di me. 
 
A quanto pare, oggigiorno, il nostro sistema giudiziario considera un reato aiutare i più deboli. Un reato gravissimo. Il mio status di minorenne mi ha salvato, e la Correction School mi ha accolta fra i suoi studenti come un porto sicuro. Lì, fra quelle quattro mura scrostate, non posso fare a meno di pensare che rifarei comunque tutto da capo, nonostante la punizione. Non c'è nulla per cui mi debba pentire o sentire spiritualmente contrita. Ho rubato medicinali dalle scorte dell'ambulatorio di mia madre e le ho passate illegalmente a tutti quei pazienti che non potevano permettersi l'assicurazione sanitaria. E l'ho fatto per un anno intero, prima di venire beccata. Per fortuna, mia madre è stata ritenuta "estranea alle vicende" e ha potuto così continuare ad esercitare. Da quel giorno, non mi ha più guardata allo stesso modo. 
 
All'improvviso, sono diventata Clarke l'Adulta, Clarke che fa delle scelte coraggiose e stupide nella stessa misura, Clarke che se ne frega del pericolo, che infrange le regole e ne paga le conseguenze in silenzio. Fino a quel giorno, per mia madre ero solo una bambina sconvolta che ha perso il padre, che sfoga il suo dolore facendo delle marachelle da poco conto, che si chiude in se stessa e che comincia ad aiutarla all'ambulatorio solo perchè costretta. Non ho mai fatto nulla contro la mia volontà, nella mia breve vita. Ho sempre aiutato mia madre perché volevo farlo. E ho fatto ciò che ho fatto ben sapendo di stare correndo un rischio immenso, ben sapendo che avrei potuto determinare la fine della carriera di mia madre, la dottoressa Griffin che aiuta gli ammalati e gli sbandati di Anacostia. Sarei finita sulla bocca di tutti, sarei stata descritta come una figlia incosciente e ingrata che agisce senza pensare. Invece, ora tutti mi rispettano. Apprezzano il mio gesto, nonostante non possano ammetterlo pubblicamente. Mi guardano come a voler dire "grazie, Clarke, per quel che è durato". Ed è per questo che lo rifarei. Ancora e ancora. 
 
 
*
 
 
«Ciao, Clarke.»
«Raven.»
L'officina di Raven Reyes è sempre il solito caos. La mia amica è seminascosta sotto una macchina rossa, dalle quale spuntano solo le sue lunge gambe magre. La sua voce mi arriva attutita, come dall'interno di una bolla. 
 
«Come hai fatto a capire che ero io?»
Si fa scivolare da sotto la macchina e si mette a sedere, un sopracciglio inarcato e un leggero sorrisino ironico dipinto sul volto. È sempre abbronzata, Raven. Merito di un cocktail genetico proveniente da qualche paese del centroamerica. Si pulisce il viso sporco di grasso e si alza in piedi, stiracchiandosi.
«Riconosco il tuo passo, ormai. E poi la mattina arrivi sempre con una tazza di caffè, aroma inconfondibile. Non potevi che essere tu» spiega molto semplicemente. 
 
Le sorrido, scuotendo la testa. Le porgo la tazza fumante e lei l'accetta di ottimo grado. Sorseggia il caffè lentamente, mentre esamina con cipiglio professionale alcuni pezzi di ricambio poggiati sul tavolo da lavoro. 
«A cosa lavori?» le chiedo avvicinandomi. 
«Mi è stata portata questa vecchia Camaro del '70. Ha bisogno di una bella ripulita e le mancano alcuni pezzi interni. È una bella sfida, ma lavorare su automobili del genere è un privilegio.»
 
Io non capisco niente di motori, non riesco a comprenderne il fascino, ma cerco di immedesimarmi in lei e immagino me stessa quando aiuto mia madre all'ambulatorio, soprattutto in casi delicati. Tecnicamente, non potrei. Nel senso che la mia punizione implica non solo trascorrere almeno un anno della mia carriera scolastica alla Correction School, ma anche il divieto di aiutare mia madre e addirittura di mettere piede in ambulatorio. Né io né mia madre ci siamo scomodate a rispettare questa nuova regola. Continuo ad aiutarla regolarmente, checché ne pensino gli altri.
 
«Come stai?» mi chiede Raven riscuotendomi dalle mie riflessioni. 
Scrollo le spalle. «Al solito.»
Raven annuisce e poi torna a trafficare con i suoi "giocattoli".
«E tu?»
La ragazza alza il viso. Fissa senza vederlo un punto imprecisato della parete di fronte a lei, pensierosa.
«Sono andata a letto con Wick» butta lì. Io per poco non cado a terra, stecchita dalla notizia.
«Come, scusa?» esclamo.
«Hai capito» continua lei agitando una mano. «È successo l'altra sera. È venuto qui per chiedermi un aiuto su alcuni iniettori e sai... insomma... è successo e basta.»
 
Raven se ne sta appoggiata al tavolo e si dondola avanti e indietro. 
«Vi siete sentiti?»
Scuote la testa, mordendosi un labbro.
«Raven» sospiro scuotendo la testa a mia volta. «Lui ti piace. Tu piaci a lui. Non vedo dove sia il problema.»
«Il fatto è che... Insomma, tutta quella vecchia faccenda mi ha segnato. È stato il mio primo amore, Clarke, e l'ho perso. Mi ha lasciato una voragine dentro, un nodo di insicurezze che non accenna ad allentarsi.»
Annuisco in silenzio, ben sapendo a cosa si riferisca la mia amica. 
 
Raven e io siamo diventate veramente amiche dopo la fine della mia storia con Finn Collins. Finn, l'ex ragazzo di Raven. Non sapevo nulla della loro storia, quando ho baciato Finn la prima volta. E nemmeno quando ho fatto l'amore con lui, alla luce delle candele, nella sua piccola stanza nei dormitori della scuola. L'ho saputo solo molto dopo, quando Raven è piombata nella mia vita all'improvviso, presentandosi come "la fidanzata di Finn". E lì mi è crollato il mondo addosso. Lì, credo che sia finita la parabola discendente che era sempre stata la mia storia con lui. L'ho lasciato e da quel giorno cerco di evitarlo: nei corridoi, in mensa, in giardino. Persino in giro per Anacostia. E Raven e io abbiamo riscoperto la bellezza di un'amicizia nata in circostanze strane e dolorose, quando entrambe ci siamo sentite prese in giro e usate, quando anche il più bello degli istanti trascorsi con la persona che credevi di amare viene contaminato dal germe della bugia. 
 
Da allora, Raven occupa il vecchio garage di mia madre, che è diventato la sua officina, e una delle stanze al piano di sopra che è riuscita a trasformare in un piccolo e modesto monolocale, perfetto per le sue semplici esigenze. Wick è una vecchia conoscenza di Raven, ben prima che si innamorasse di Finn. Ho sempre pensato che fosse innamorato di lei, pur non avendo la benché minima speranza. Da qualche tempo, invece, credo che Raven stia seriamente cambiando idea su di lui. 
 
«Chi meglio di me ti può capire, eh?» rispondo sedendomi accanto a lei sul tavolo sporco, incurante del grasso che potrebbe attaccarsi ai miei jeans. «Il ricordo di Finn - e della vostra storia - non dovrebbe in alcun modo alterare il presente, Raven. Non è giusto.»
«Hai ragione» concorda sospirando. «Ci penserò sopra.»
«Brava ragazza.»
Raven mi sorride, incerta. 
«Ora ti lascio al tuo lavoro. Vado a finire un saggio breve da consegnare domani e poi preparo il pranzo. Ti unisci a noi?»
«Non vorrei disturbare...»
«Nessun disturbo. La domenica si sta in famiglia» rispondo senza esitazioni. «Ed Abby sarà felicissima di vederti.»
 
 
* * *
 
 
{Bellamy}
«Mamma» chiamo a mezza voce.
«Mamma» ripeto alzandola di un tono.
Scuoto il corpo di mia madre, avvolto nel piumone, e lei bofonchia, infastidita. 
«Mamma!» esclamo infine, spazientito.
«Bellamy, si può sapere che c'è?» mi chiede, la voce impastata dal sonno.
«Volevo solo dirti che non torno a casa, dopo scuola. Vado direttamente all'ambulatorio Griffin per il volontariato.»
«Mhm-mhm» borbotta nascondendo la testa sotto le coperte.
Io sospiro ed esco dalla stanza.
 
Mia madre Aurora lavora all'Anacostia Market - il supermercato locale - praticamente da sempre. Ricordo ancora quando si portava dietro me e un'Octavia ancora neonata e ci metteva nel retro, negli spogliatoi femminili, perché non poteva permettersi una babysitter e doveva lavorare come una disperata per farci mangiare. Durante le varie pause, lei e le sue colleghe ci venivano a dare un'occhiata ed erano tutte premurose e gentili con noi "piccoli Blake". C'era chi ci portava la merenda o da bere o semplicemente ci faceva giocare almeno per un po'. Era bello. 
 
Quando io sono cresciuto quel tanto che bastava, venivo lasciato a casa con Octavia e ho sempre badato a lei come un perfetto fratello maggiore responsabile. Non sono mai stato all'asilo, dovevo badare a mia sorella, io. E ne andavo fiero. Octavia è stata la mia ancora. Quando è arrivato per me il momento di andare a scuola, però, mia sorella ha ripreso a frequentare il retro dell'Anacostia Market. 
 
Non siamo mai stati dei semplici bambini. Abbiamo imparato a cavercela da soli fin da subito. Mia madre lavorava - e lavora ancora - dieci ore al giorno e ultimamente, da quando il Market ha deciso di stare aperto ventiquattro ore su ventiquattro, fa anche il turno di notte, perché "la paga oraria è più alta e ci servono soldi".
Octavia e io abbiamo imparato a convivere con le sue lunghe assenze e con la sua tendenza a vuotare la bottiglia, soprattutto dopo una giornata particolarmente stressante. Sono presto diventato l'uomo di casa, da quando mio padre ci ha lasciati. Ero piccolo, Octavia era nata da poco e quel bastardo ha ben deciso di piantarci in asso, perché era stufo di "pulirmi il culo" e "farselo per mantenerci", quando tutto ciò che guadagnava lo spendeva in scommesse illegali e lo stipendio di mia madre copriva a malapena le spese. 
 
Ricordo ancora le cene a casa di Atom, che abita a due numeri di distanza da noi. Quando non c'era abbastanza da mangiare, venivo spedito lì ad orari tattici, in modo che la madre del mio amico mi invitasse a rimanere con loro. Ho sempre pensato che sapessero tutto, i genitori di Atom, e che tacessero perché in fondo mi volevano bene, mi avevano visto crescere e comprendevano la tragica situazione in cui versava casa mia. Non è mai stata un luogo adatto ad un bambino. I litigi furiosi dei miei genitori mi tenevano sveglio per delle ore e mi addormentavo solo per sfinimento, dopo l'ennesimo pianto silenzioso e disperato. Le porte sbattevano, si lanciavano piatti e si urlavano insulti di ogni genere. Mi tappavo le orecchie, ma quei pochi centimetri cubici di pelle e nervi non riuscivano mai a metterli a tecere. Li sentivo rimbombarmi nelle orecchie anche quando ormai tutto si era spento e la casa soffocava nel buio di notti incerte. 
 
Da quando mio padre se n'è andato, ce la caviamo. Sopravviviamo, come tutti qui ad Anacostia. Galleggiamo in quest'aria rarefatta, veniamo sospinti dalla corrente e cerchiamo di affiorare in superficie - cerchiamo di stare meglio. Cerchiamo di vivere davvero.
 
 
*
 
 
L'ambulatorio Griffin è uno dei luoghi più puliti che io abbia mai visto. Pareti bianche, pavimento verde pallido, quadri e fotografie alle pareti. All'ingresso c'è una piccola scrivania che funge da reception, con alle sue spalle alcuni vecchi schedari e, di fronte, le sedie che compongono la sala d'attesa. In quel momento c'è soltanto una donna, che attende lì seduta, così mi siedo anche io e aspetto che la dottoressa Griffin mi riceva. Tengo in mano il modulo che mi ha dato Kane, che ho compilato soltanto da qualche minuto, in tutta fretta durante la colazione. Me n'ero dimenticato e l'ho ritrovato soltanto per caso, sotto una t-shirt abbandonata sul mio letto. 
 
Non sono propriamente agitato. No. 
Diciamo che rapportarmi con persone come Abigail Griffin mi crea sempre qualche problema. Di solito ho a che fare con elementi peggiori, come i miei amici a scuola o le persone che bazzicano intorno a casa mia, in quella parte di Anacostia che è meglio non osservare. 
Sono stato all'ambulatorio solo un paio di volte. La prima quando avevo cinque anni: mi sono sbucciato un ginocchio al parco e la madre di Atom ha insistito a farmi disinfettare - mia madre mi avrebbe lanciato la bottiglia dell'alcol da medicazione che teniamo nell'armadietto in bagno e mi avrebbe detto di arrangiarmi. La seconda soltanto un paio di anni prima. Con Atom, Muprhy e gli altri ci siamo tipo ubriacati, nel giardino sul retro a casa mia, e abbiamo poi vomitato tutta la nostra misera cena sull'erba mal curata. Peccato che io sia stato male più degli altri, che hanno quindi deciso di portarmi all'ambulatorio. Esito: una bella colica renale. Non dimenticherò mai quel dolore. 
 
Entrambe le volte, la dottoressa Griffin è stata gentile. Ovviamente, la prima ha usato una premura che durante la mia seconda visita ha pensato bene di moderare. Mi ha seriamente rimproverato, ha chiamato mia madre, ma lei si è limitata a dirle di "lasciarmi tornare a casa che sicuramente non era niente di grave". Tipico.
 
La porta si apre e Abigail Griffin esce accompagnata da una bimba. Avrà sì e no sei anni e ha gli occhi rossi di chi ha pianto tanto. La donna mi lancia un'occhiata prima di rivolgersi alla madre della bambina, la donna che attendeva in sala.
 
«Si rimetterà» le dice. «Il dolore è passato, ma le darò qualcosa per spegnere l'infiammazione, d'accordo?»
La donna annuisce abbracciando la figlia.
La Griffin si dirige alla scrivania e scribacchia qualcosa su un blocco bianco. Poi strappa il foglio e lo porge all'altra. 
«Grazie, dottoressa Griffin.»
«Dovere» replica. Poi si alza e si inginocchia di fronte alla bambina, che stringe spasmodicamente la mano della madre. «Starai bene, okay? La mamma si prenderà cura di te.»
Le da un buffetto sulla guancia arrossata e poi le osserva uscire, come faccio io. La bambina mi lancia un'occhiata e io piego la bocca in una pallida imitazione di un sorriso. Non mi riesce bene.
 
«Tu devi essere Bellamy Blake.»
Mi riscuoto e osservo la dottoressa Griffin. Indossa il camice e tiene i capelli raccolti dietro la nuca. È seria.
Mi alzo in piedi e mi avvicino.
«Dottoressa Griffin» borbotto.
Le porgo il modulo, così lei smette di osservarmi per leggere il foglio spiegazzato. Poi lo poggia sulla scrivania e torna a guardarmi, le mani puntate sui fianchi.
«Vieni con me» dice.
 
La seguo oltre la porta dalla quale l'ho vista uscire solo qualche minuto prima e mi ritrovo nello studio medico vero e proprio. Ed è proprio come lo ricordavo, anche se vagamente. Un lettino, alcuni tavoli con sopra attrezzi medici di varia natura, credenze addossate alle pareti e un'ampia finestra proprio di fronte alla porta. Sulla destra, un'altra porta conduce all'ufficio privato di Abigail Griffin. Intravedo una scrivania, più elegante di quella nell'ingresso, una poltrona e altri mobili in legno di pregiata fattura. 
 
«Mettiamo subito in chiaro una cosa» comincia la donna. Io mi fermo di fronte a lei, in silenzio. «Non ho davvero bisogno di un assistente o di un aiuto. Come tutti sanno, nonostante mia figlia Clarke abbia ricevuto il divieto di aiutarmi, continua a farlo. Tutti sanno anche che è molto occupata con la scuola, la Correction School la impegna molto più che un normale liceo. E ho accettato di averti qui perché conosco Marcus Kane e il preside Jaha e ho voluto far loro un favore. Nessuno ha accettato di averti come assistente, Bellamy. Nessuno, in questa città. Tranne me.»
 
Le sue parole non mi colpiscono più di tanto. So bene di non essere amatissimo e di dare fastidio a molte persone.
 
«Come dicevo, nonostante questo ho accettato. Ti parlo con franchezza perché hai praticamente la stessa età di mia figlia e perché ti ho conosciuto da bambino e conosco tua madre, seppur non strettamente. Ti meriti una seconda possibilità. Tutti noi la meritiamo. E mi aspetto che tu non mi deluda, Bellamy. Siamo intesi?»
 
Annuisco, attento. Non pensavo si ricordasse di me e della mia prima visita al suo ambulatorio. Nessuno si ricorda mai dettagli così insignificanti.
 
«Mi dica solo cosa devo fare» dico io. In fondo, collaborare risulta essere la via più facile. Portare a termine questa prova mi serve per andarmene finalmente dalla Correction School e, chi lo sa, magari dalla stessa Anacostia. Abigail mi osserva per un momento e poi mi sorride. Ha capito che l'aiuterò e può permettersi di abbassare la guardia almeno un po'.
 
«Per adesso, comincerai ordinando tutti gli schedari che si trovano di là» e indica la sala d'ingresso. «Non ho mai tempo per farlo e ti sarà utile come lavoro di classificazione.»
«D'accordo, comincio subito.»
 
La dottoressa mi accompagna nella stanza accanto e mi fa sedere alla scrivania. 
«Se squilla il telefono, rispondi e poi passami la chiamata sulla linea interna due, è quella del telefono dell'ufficio. Okay?»
«Ricevuto.»
«Se entra qualcuno, invece, fallo accomodare e vieni pure a chiamarmi.»
Annuisco.
«Non appena avrai finito qui, comincerai nell'assistermi. Affiancherai Clarke e farai quello che lei ti dirà di fare. Dopo di che, forse potrai aiutarmi direttamente, senza la sua intermediazione, dipende da come te la cavi.»
«Va bene» rispondo solo. Penso a Clarke Griffin. Non le ho mai parlato, da quando è arrivata alla Detention. Certo, io e Murphy e gli altri le abbiamo combinato qualche scherzo, ma erano tutte cose innocenti. 
 
All'improvviso ricordo di averla vista l'ultima volta alla festa che Octavia ha organizzato a casa di Lincoln, il suo ragazzo. Se ne stava da sola, in disparte e ogni tanto chiacchierava con mia sorella o con qualche altro presente. Non da confidenza a nessuno e credo che in questo mi assomigli molto.
 
«Per qualsiasi chiarimento o domanda, io sono di là. Su quel mobile trovi del caffè, prendine pure quanto vuoi. Buon lavoro, Bellamy.»
Abigail Griffin mi lancia un sorriso e sparisce oltre la porta dello studio medico. Io osservo il primo schedario e sospiro.
 
 
* * *
 
 
{Clarke}
Scendo le scale di casa velocemente, una pila di garze appena lavate stretta fra le braccia. Il solito cicaleccio proveniente dallo studio medico comincia a farsi più intenso. So già che mi aspetterà una giornata piena, oggi. Lo sento dalle voci che arrivano alle mie orecchie e da quella più alta di mia madre che da indicazioni.
 
Spalanco la porta che collega l'ambulatorio alla nostra abitazione al piano di sopra e scopro che quello che all'apparenza mi era sembrato un piccolo caos è in realtà soltanto la famiglia Morgan, che ha accompagnato il più piccolo di casa a fare il vaccino. Tutti e sette i Morgan affollano la piccola sala d'attesa. Individuo mia madre in mezzo alla mamma e alla nonna del piccolo, che sorride in piedi accanto a loro. Il bimbo si tiene una mano sulla spalla, quindi vuol dire che ha già fatto la puntura, ma non sembra dare segni di fastidio. È sempre stato coraggioso. 
 
Dapprima non lo noto. È soltanto una presenza ai margini del mio campo visivo, una presenza che all'inizio tendo ad ignorare. Poi gli lancio un'occhiata. Sta in piedi "dietro" la scrivania, le mani su alcuni fogli, e osserva la scena. Bellamy Blake.
 
Forse captando il mio sguardo, si gira verso di me. Stringo forte le garze al petto. Cosa ci fa qui Bellamy Blake? Guardo mia madre, che sta salutando i Morgan, che si avviano rumorosi verso l'uscita. Si volta e incontra i miei occhi sbarrati, la mia aria interrogativa e sorpresa, quasi scocciata. 
 
«Bellamy starà con noi per due mesi, per la sua prova finale. Bellamy, conosci mia figlia Clarke, vero?»
 

 
NOTE
  •  La citazione iniziale l'ho trovata su Google, non so a chi sia attribuita. Se qualcuno lo sa, sarei felice di specificarlo qui nelle note; il titolo è liberamente tratto da una più ampia citazione di William Ernest Henley e significa letteralmente "maestro del fato/capitano dell'anima".
  • La frase citata da Clarke, "le coincidenze sono le cicatrici del destino", è tratta dal bellissimo "L'ombra del vento" di Carlos Ruiz Zafon.


Ebbene, ce l'ho fatta. Sono finalmente riuscita a scrivere e postare il secondo capitolo. Avevo promesso notizie dopo il mio rientro dalla Francia il 17 febbraio, ma per un po' ho sofferto di quella diffusa forma di malattia che si chiama "malanno da post rientro". Insomma, mi mancava Parigi e non riuscivo a scrivere una riga. Inoltre sto lavorando alla revisione e riscrittura di una long sulla New Generation di Harry Potter e sono SOMMERSA. Per cui vi chiedo scusa. Spero di essermi fatta perdonare e che il capitolo vi sia piaciuto. Nel finale assistiamo al primo incontro faccia a faccia fra i nostri eroi, proprio all'ambulatorio Griffin. Nel prossimo capitolo ovviamente avremo la loro prima interazione. 
Detto ciò, vi saluto e vi lascio come sempre il link al mio gruppo Facebook dedicato agli aggiornamenti/spoiler:
https://www.facebook.com/groups/159506810913907/

A presto, Marti.

ps ringrazio tutte le belle anime che hanno recensito lo scorso capitolo: lilyhachi, Ally M, Emma Bennet, Helena Kanbara, MelBlake e tfpeel. E tutti coloro che leggono silenziosamente <3

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Demons ***


"Vi giuro, signori, che l'esser troppo consapevoli è una malattia, un'autentica, assoluta malattia."
 
 
fireproof
capitolo tre
demons
 
 
{Clarke}
Dapprima non lo noto. È soltanto una presenza ai margini del mio campo visivo, una presenza che all'inizio tendo ad ignorare. Poi gli lancio un'occhiata. Sta in piedi "dietro" la scrivania, le mani su alcuni fogli, e osserva la scena. Bellamy Blake.
 
Forse captando il mio sguardo, si gira verso di me. Stringo forte le garze al petto. Cosa ci fa qui Bellamy Blake? Guardo mia madre, che sta salutando i Morgan, che si avviano rumorosi verso l'uscita. Si volta e incontra i miei occhi sbarrati, la mia aria interrogativa e sorpresa, quasi scocciata. 
 
«Bellamy starà con noi per due mesi, per la sua prova finale. Bellamy, conosci mia figlia Clarke, vero?»
 
Se prima ho accuratamente evitato di guardalo negli occhi, ora accade. Ed è forse la prima volta nella mia vita che guardo Bellamy Blake dritto negli occhi, ma sono pronta. Non riesce a cogliermi impreparata, anche se vorrebbe. 
 
Se c'è una cosa della quale sono certa, è la mia consapevolezza. "So" chi è Blake. È un bullo, un arrogante, un prepotente. Se la prende con i più deboli, servendosi di loro come gli pare, e poi li getta via, come qualcosa di inutile. Si circonda di tirapiedi, finti amici, persone che lo adulano e che lo fanno sentire importante, il loro "capo". Crede di essere "qualcosa", ma in realtà è niente.
 
Raddrizzo le spalle e assumo un cipiglio severo. Imperscrutabile. Non è mai riuscito ad intimidirmi. 
 
«Conoscenza non è il termine che userei» intervengo prima che lui possa anche solo formulare un abbozzo di risposta. Mia madre si gira e mi guarda. «Frequentiamo la stessa scuola, questo è quanto.»
 
So di apparire insopportabile, e forse lo sono anche un po'. Diciamo che non mi importa. 
 
«Non avrei saputo definirlo meglio» dice Bellamy, forse ritrovando la parola. 
 
La sua voce roca riempie la stanza e sentirla qui, all'ambulatorio, a casa mia, è strano e irreale. I miei occhi lo sondano e ancora non mi sembra vero che lui sia qui, seduto alla scrivania - la "mia" scrivania - e che debba passare con noi tutti i pomeriggi, cinque giorni a settimana, per i prossimi due mesi. 
 
Mi giro nuovamente a guardarlo, le garze ancora strette al petto, così strette che quasi mi manca il respiro. Non so che cosa sia, ciò che mi disturba. Forse è quell'aria così sicura che ostenta, le braccia poggiate sul piano in legno - con naturalezza, quasi con sprezzo, solo per darmi fastidio. Oppure sono i suoi occhi che mi fissano insistenti e quasi mi bucano la pelle, scuri e pieni di cose che non conosco. O è semplicemente l'aura che lo circonda, qualcosa di malsano, un sentore di tragedia, qualcosa che si espande e invade l'aria e che ti si attacca addosso senza lasciarti via di scampo. Mi manca l'aria e tutto ciò che vorrei è che lui si alzasse e se ne andasse, che ci lasciasse in pace, che ci dicesse che ha cambiato idea, che la prova finale andrà a farla da un'altra parte, che c'è stato un errore, qualsiasi cosa, purché se ne vada. Non lo voglio qui. 
 
Guardo mia madre, in piedi poco lontano, a metà strada fra me e Bellamy. Le mani sui fianchi, non sa evidentemente cosa dire o cosa fare, perché temporeggia, spostando il peso da un piede all'altro, indecisa. Io mi avvicino e la prendo per un gomito.
 
«Posso parlarti un momento?» ringhio. Lei mi guarda e annuisce. Poi si rivolge a Bellamy. «Tu continua pure con il tuo lavoro.»
 
Senza degnarlo di uno sguardo, mia madre e io ci chiudiamo dentro il suo ufficio. Lei si va a sedere alla sua scrivania, sospirando, e io rimango in piedi. Lascio cadere le garze sulla poltrona di fronte e comincio a misurare la stanza a grandi passi. Avanti e indientro. Avanti e indietro. Attendo che sia lei a dire qualcosa. Qualsiasi cosa. In fondo, mi aspetto quanto meno una spiegazione. E invece no. Se ne sta zitta, le mani intrecciate. 
 
«Perché non mi hai detto niente?» esplodo alla fine. Mia madre alza il viso sul mio, lo sguardo limpido. «Perché non mi hai detto che Bellamy Blake sarebbe venuto a lavorare qui per due mesi? Due mesi, mamma, non due giorni. E si tratta di Blake, per Dio!»
 
«Clarke!» esclama lei severa. Io mi porto un dito alle labbra, nervosa. Comincio a mordicchiarmi un'unghia, una cattiva abitudine che riemerge quando sono nervosa. «Vediamo di moderare il linguaggio, innanzitutto.»
 
Dopo un attimo di silenzio, nel quale continuo a soppesare la stanza in lungo e in largo, mia madre si alza e si dirige alla finestra. Quando fa così vuol dire che è pensierosa e che cerca di dosare le parole, di solito per non ferire le persone. Sospira.
 
«Bellamy ha una storia difficile alle spalle. Anzi, ce l'ha ancora. La scorsa settimana, Marcus Kane è venuto qui e mi ha chiesto un favore.»
 
Io ascolto con attenzione, adesso immobile, appoggiata contro la parete di fronte alla finestra.
 
«Stava cercando una sistemazione per Bellamy, per la sua prova finale. Ha detto che nessuno, ad Anacostia, nessuno di quelli che ha chiamato, ha accettato di averlo come stagista per due mesi. Sai cosa vuol dire, Clarke? Vuol dire che Bellamy rischiava di rimanere alla Correction un altro anno ancora. Sai che ha ripetuto già alcune volte, per una cosa o per l'altra, e in fondo non è poi così tremendo come lo dipingono.»
 
«Come fai ad esserne sicura?» chiedo. La sua sicurezza mi fa infuriare e in essa riconosco anche la mia consapevolezza, quella di essere qualcosa. "Io" sono qualcosa. E Bellamy non è niente.
 
«Conosco Bellamy da quando era un bambino, Clarke» spiega lei girandosi a guardarmi, la voce all'improvviso più calda. «So che non è come appare, è solo che deve capirlo anche lui. Tutto qui.»
 
«Quindi è solo a causa del tuo spirito caritatevole che hai accettato la richiesta di Kane.»
 
«Non l'ho fatto per carità. Non vederla in questo modo. L'ho fatto perché tutti meritiamo una seconda possibilità. Anche Bellamy.»
 
Annuisco, ancora non convinta. 
 
«So che non siete amici. Lo so bene. E so anche che questa convivenza forzata potrebbe diventare piuttosto critica. Avete due caratteri forti e non sarà facile, ma potreste stupirmi e cercare di andare d'accordo e chissà, magari diventerete anche amici, con il tempo.»
 
Mi metto a ridere, passandomi una mano fra i capelli. «Non credo succederà. Troppo visionario.»
Mia madre sospira un'altra volta. Sembra che non abbia fatto altro, da che abbiamo cominciato a parlare. 
 
«In ogni caso, starà qui per due mesi, che ti piaccia o no, quindi vedi di non essere troppo ostile» continua dirigendosi alla scrivania e assumendo un tono professionale, un tono da "Abby è contrariata e seria". «Per adesso l'ho messo a riordinare i fascicoli, ma quando avrà finito comincerà ad affiancarti nei tuoi compiti e mi aspetto che tu sia quanto più professionale possibile, siamo intesi? Questa sarà una prova anche per te.»
 
Annuisco nuovamente e sciolgo le braccia che avevo così strettamente incrociato poco prima. Mi fanno male e ho i muscoli indolenziti. Il mio corpo ha cominciato a tendersi da quando ho visto Blake seduto a quella dannata scrivania. 
 
«Fai entrare un altro paziente, quando esci» conclude lei sedendosi e rovistando fra alcune carte.
Io la guardo ancora per qualche istante e poi esco dalla stanza. Odio quando mia madre mi tratta come se fossi una stupida. Il mio muro inizia a creparsi, minacciando seriamente di crollare. È tutto ciò che mi circonda, il mio riparo contro il mondo, tutto un insieme di consapevolezze - su me stessa, sulla mia forza, sul mio carattere - e parti di me stessa perse negli anni che ora fatico a tenere insieme, solo per sopravvivere - sentimenti pietrificati, cose troppo a lungo trattenute, amori dimenticati. È qualcosa che mi protegge, soprattutto dalle persone. Non voglio farmi male. Non di nuovo.
 
Una volta lasciato l'ufficio di mia madre, mi ritrovo nella sala d'attesa. Bellamy è chino alla scrivania, alcuni fascicoli impilati alla sua sinistra e una tazza di caffè dall'altra parte. Poggia la testa sul palmo della mano e cerca di dare un senso al caos di anni di cartelle cliniche mai seriamente riordinate. Questo è un lavoro che avrei dovuto fare io da parecchio tempo, ma che ho sempre rimandato. L'inizio della mia "esperienza" alla Correction ha ritardato ogni cosa. All'inizio non volevo neanche mettere piede all'ambulatorio. Era qualcosa che semplicemente negavo, secondo un processo controproducente e nocivo che mi portava a trascorrere i pomeriggi nella mia stanza, la testa sprofondata nei cuscini, ascoltando i Pink Floyd - il gruppo preferito di mio padre - a tutto volume, cercando ostinatamente di disturbare il vicinato - e mia madre. Facevo i compiti di notte, solo per tenere la luce della scrivania accesa e fare la trasgressiva. Ho anche cominciato a fumare, soprattutto sigarette, e qualche spinello procuratemi dal mio amico Jasper. Il sabato sera uscivo e stavo fuori fino a tardi. Qualche volta sono anche tornata ubriaca. Faceva tutto parte del pacchetto "procuriamo delusioni su delusioni ad Abigail Griffin, così la prossima volta che farò una cazzata non apparirà come una sorpresa". Non so cosa mi abbia fatto tornare sulla retta via. Forse vedere mia madre distrutta tutte le sante sere, quando si addormentava sul divano o quando rientrava il mattino alle prime luci dell'alba, stanchissima dopo il turno di notte all'ospedale, in città. O forse il fatto che l'ambulatorio fosse diventato un vero caos e che una persona da sola non ce l'avrebbe mai fatta. Ho smesso di bere e fare tardi, anche se non di fumare - solo sigarette, però - e sono tornata ad aiutare mia madre. 
 
Mi avvicino alla signora Collins, seduta su una rigida poltroncina.
«Buongiorno, Clarke» mi saluta sorridente.
«Signora Collins, come sta, oggi?»
 
Sento addosso lo sguardo di Bellamy - che continua a bucarmi la pelle - mentre aiuto la vecchia signora ad alzarsi e l'accompagno verso lo studio. La signora Collins viene tutte le settimane, per via del suo perenne mal di schiena. Una volta lasciatala con mia madre, torno da Bellamy e mi avvicino agli schedari. Ne apro uno e tiro fuori alcuni fascicoli, che poi lascio cadere sulla scrivania con un tonfo.
 
«Cosa fai?» mi chiede lui ed è la prima volta in cui Bellamy Blake mi fa una domanda veramente interessata. Mi segue con gli occhi e io alzo i miei a guardarlo, seria. Le mani sui fianchi, lo osservo attentamente.
 
«Piccola premessa» inizio. «Ho accettato il fatto che tu debba stare qui con noi due mesi. Mia madre mi ha spiegato tutto del tuo misero caso. Nessuno ti voleva e così eccoci qui, a fare beneficienza. Va bene, okay, in fondo è mia madre a decidere. Questo non vuol dire che dobbiamo per forza parlare di cose che non siano lavorative o strettamente legate all'ambulatorio e alle tue mansioni. Mentre facciamo qualcosa insieme - perché a quanto pare dovremmo, anche se a malincuore - non è necessario sfoderare chiacchiere di circostanza che tanto sappiamo bene non interessano a nessuno dei due, men che meno a me. Non mi interessa parlare con te, Blake, tanto meno esserti "amica". Una volta terminati questi due mesi, se Dio vuole il più presto possibile, potremo tornare ad ignorarci come abbiamo sempre fatto. Siamo intesi?»
 
Prima che Bellamy possa aprire bocca, torno all'attacco. «Dimenticavo. Visto che, a quanto pare, mia madre ha deciso che presto mi affiancherai nel mio lavoro di assistente, farai esattamente ciò che ti dico, senza controbattare o replicare o dire cose stupide e futili, d'accordo? Vedi di non starmi fra i piedi, Blake.»
 
Così dicendo, prendo una sedia e mi siedo di fronte a lui. Afferro la sua tazza e bevo un lungo sorso di caffé, ormai freddo. Apro un fascicolo e comincio a cercare di trovare un ordine in quel caos. Sento che Bellamy ancora mi guarda. «Prima finiamo, meglio è» concludo a mo' di spiegazione senza neanche alzare lo sguardo dai fogli. Sento che lui torna a lavorare sui suoi e tra noi scende il silenzio.
 
 
* * *
 
 
{Bellamy}
Alzo lo sguardo dai fogli. Clarke Griffin è ancora seduta di fronte a me, si sorregge la testa con una mano e si morde le labbra. I suoi occhi scorrono fra le parole fitte dei fascicoli e sono stanchi. 
 
Fuori, la luce del tramonto tinge di arancione le foglie degli alberi e penetra all'interno, accendendo i capelli di Clarke di mille fiamme dorate. Non posso fare a meno di vedere in lei una certa dose di bellezza, una di quelle bellezze stropicciate e fresche e totalmente inconsapevoli. 
 
Deve sentire il mio sguardo su di sé, perché alza il suo su di me, interrogativo. Io sfodero il mio solito ghigno, dietro il quale mi rintano da quando sono nato.
 
«Che c'è?» mi chiede lei. Poi deve accorgersi dell'orario, perché lancia un'occhiata fuori dalla finestra alle mie spalle e subito dopo all'orologio appeso sopra la porta dello studio.
 
«È tardissimo» esclama alzandosi in piedi. «Il tuo turno termina alle sei e sono già le sette. È meglio che tu vada, non vorrei ci denunciassi per sfruttamento» aggiunge poi con sarcasmo.
 
«Non preoccuparti, non lo farò» dico solo. Mi ritrovo a parlare dopo parecchie ore e sento la gola farmi male. Sono abituato a stare da solo, ma è strano avere una persona accanto e non parlarci affatto. Riordino i fogli e li impilo sugli altri.
 
«Qui continuiamo domani. Ancora un paio d'ore e dovremmo finire» spiega Clarke. Ha messo di nuovo le mani sui fianchi in posizione da battaglia e mi osserva mentre raccolgo le mie cose e mi appresto ad andarmene. Posso captarne il palpabile sollievo.
 
Indosso nuovamente la camicia di jeans che mi ero tolto qualche ora prima e mi carico su una spalla lo zaino con i libri di scuola. Incosciamente, rallento i miei movimenti. Rimando il momento. Sento ancora le sue parole ostili riecheggiarmi nella testa e mi sforzo per trovare qualcosa da dirle che non sia "non ho bisogno della vostra dannata beneficienza" o "vai al diavolo, Clarke Griffin". Ecco, mandarla al diavolo mi farebbe sentire bene. Davvero bene. 
 
Mi mordo la lingua e torno a guardarla. Lei ricambia, e per la prima volta capto dell'incertezza, qualcosa che la fa vacillare, ma solo per un piccolo istante, un secondo infinitesimale. Poi torna la solita Clarke, il cipiglio serio e lo sguardo fermo, l'aria ostile e distaccata.
 
«Ci vediamo domani» dice solo, facendosi da parte per farmi passare.
Le passo accanto e sento profumo di pulito e di sole, unito a qualcos'altro che non riesco ad identificare. 
 
«A domani, principessa» concludo lanciandole un ultimo sguardo. Vedo i suoi occhi sbarrarsi, farsi grandi, sorpresi. E capisco che ricorda. È da una vita che non uso quel soprannome, "principessa", fin dai suoi primi giorni alla Correction, quando, con Murphy e Atom, non le davo pace. Poi le cose sono cambiate. E quel soprannome è caduto nel dimenticatoio. Fino ad ora.
 
La verità è che mi è sempre piaciuto provocare Clarke Griffin, la "principessa" della Correction. E mi piace ancora. 
 
 
*
 
 
La strada verso casa è piuttosto breve e in quel momento mi accorgo di quanto sia vicina a casa Griffin. Un paio di isolati ed eccole qui, le casette a schiera di Anacostia, tutte uguali, un susseguirsi di porte e finestre e muri scrostati e giardini incolti. Sono così da sempre e nessuno sembra tenere alla manutenzione. 
 
Apro la porta e sento nell'aria un vago sentore di alcol. Gin. Ne trovo una bottiglia sul tavolino nell'ingresso, quello dove poggiamo le chiavi e il telefono e le bollette da pagare. La raccolgo e mi trascino in salotto. So già cosa troverò.
 
Mia madre è stesa sul divano, una bottiglia ancora mezza piena stretta tra le dita, la mano abbandonata oltre il bordo. Ha gli occhi chiusi e dorme. Indossa ancora l'uniforme del personale dell'Anacostia Market, che è tutta spiegazzata. Le sfilo la bottiglia dalle mani e la svuoto nel lavandino della cucina, che è un caos di piatti sporchi e panni ancora da stendere che spuntano dalla lavatrice e odore di toast al formaggio. Storgo il naso.
 
Una volta tornato in salotto, la osservo ancora per un momento. È tutta lì, la mia infanzia ormai dimenticata. È racchiusa in quel metro e sessantotto rannicchiato sul divano, i capelli sfatti, l'incarnato pallido, le palpebre tremolanti nel sonno. È lì davanti a me, mi si spiega davanti agli occhi e io tento ancora di afferrarla. Non tanto per riaverla indietro, no, non più, ma soltanto per riviverla, per riassaporare quei lontani pomeriggi in cui il sole splendeva ancora e io sorridevo. Capisco che non ci sono più e che addirittura non ci sono stati mai. Sono solo il frutto della mia immaginazione, qualcosa che non esiste, una chimera. Le stendo una coperta addosso e salgo stancamente le scale, diretto in camera mia. 
 
Trovo mia sorella Octavia rannicchiata ai piedi del mio letto, tremante. 
«O!» esclamo lasciando cadere a terra lo zaino e inginocchiandomi accanto a lei.
Ha gli occhi rossi e il trucco sbavato e mi guarda, aggrappandosi alle mie braccia.
«Che è successo?» le chiedo, preoccupato.
Respira forte, cercando di trovare le parole sul fondo della gola.
«Quando sono arrivata stava bevendo» mi spiega singhiozzando. «Le ho detto di smetterla, che fra poco avremmo cenato, che sarebbe stata male. Ha cominciato a gridarmi dietro, di stare zitta, di finire di controllarla, che non è una bambina. Mi ha insultata e poi sono scappata di sopra.»
 
L'abbraccio, la stringo nelle mie braccia e lei si rannicchia contro di me, cercando di regolarizzare il respiro. Le carezzo i capelli profumati di lavanda. Rimaniamo così, stretti l'uno all'altra. Octavia è tutto ciò che ho. È tutta la mia famiglia.
 
«Come è andata oggi? Da Clarke?» mi chiede dopo un po'. Sembra essersi calmata.
Il pomeriggio appena trascorso mi piomba addosso con prepotenza. Per un attimo l'avevo dimenticato. Mi stringo nelle spalle.
«È andata» rispondo solo.
«Non è come sembra, sai?»
Io cerco i suoi occhi; cerco una spiegazione.
«Clarke» risponde. «Non è come sembra. Dalle una possibilità.»
«Sembra che lei non voglia darne una a me, però.»
 
Le racconto tutto, persino le parole dure della sua amica.
«Clarke è piuttosto sicura di sé e questo spaventa le persone. Ha fin troppa sicurezza, una consapevolezza di chi è e cosa vuole che è fin troppo chiara. La porta ad essere dura e a non fidarsi facilmente degli altri. Protegge se stessa, tutto qui.»
«La conosci bene» constato dopo la sua spiegazione.
È il turno di mia sorella di stringersi nelle spalle.
«Osservo le persone. Nessuno può dire di conoscere "bene" Clarke Griffin, ma diciamo che la capisco.»
Annuisco, riflettendo sulle parole di Octavia.
 
Il sole tramonta, sparendo dal cielo, e noi continuiamo a rimanercene lì, seduti a terra, in silenzio, abbracciati. Octavia sonnecchia sulla mia spalla, sfinita ma tranquilla. Io indugio con la mente, viaggio fra i pensieri, ed è tutto un caos.
 
Rifletto sul pomeriggio appena passato, sull'accoglienza di Abigail Griffin e sull'ostilità della figlia. Le parole di Clarke mi investono nuovamente in pieno, dritte nel petto, dove fa più male. So che non dovrebbe importarmene niente delle sue minacce, della sua arroganza e finta sicurezza laddove nasconde solo dubbi, ma è così, sento tutto, e un po' mi ferisce. Io non sono altro che una ferita nel passato di Clarke Griffin, qualcosa che le ha fatto male; sono le parole che io e gli altri le rivolgevamo nei corridoi, in mezzo a tutta la scuola, parole che si infrangevano contro la sua corazza, contro la sua consapevolezza: lei era "qualcosa". Era qualcosa e noi eravamo niente. Siamo niente. Ora lo so. Ora lo capisco. Le parole uccidono. E ti si imprimono a fuoco sulla pelle, anche se non vuoi, anche se tenti di fartele scivolare addosso. 
 
E ho visto le mie stesse parole impresse sulla pelle di Clarke, sul suo collo bianco, sull'incavo del braccio, sulle guance. Le vedo ancora come se fossero state appena pronunciate. E me ne vergogno. Vorrei tornare indietro e cancellarle, ripulirle, cambiarle. O semplicemente ritirarle. Ma capisco che è troppo tardi. Capisco che siamo chi decidiamo di essere. Nessuno ci dice cosa fare, o dire, o essere. Determiniamo ciò che siamo. E ne paghiamo il prezzo. Clarke ha deciso di essere dura, fredda come ghiaccio, forte contro tutte le parole di tutti i Bellamy Blake del mondo. E io? Io ho deciso di essere ciò che sono per mia sorella, per proteggerla, per difenderla, renderla felice; per mia madre, che non sa più chi è e lotta contro le ombre; per i miei amici, che sono l'unica parvenza di famiglia che io abbia mai avuto; per me. Sì, anche per me.
 
E il pensiero torna di nuovo a Clarke, inevitabile. Un giorno riuscirò a trovare le parole per chiederle scusa, per farle capire che sì, ricordo tutto quando vorrei dimenticarmene, ma solo perché non posso sopportare il peso che quei ricordi costituiscono. Un giorno lei mi guarderà negli occhi senza durezza alcuna e riuscirà a vedermi per come sono davvero. E capisco che non è il "suo" perdono che cerco, che anelo, che desidero con tutte le mie forze. È quello che quel perdono costituisce che mi tormenta: la possibilità di essere migliore, di guardare i miei stessi occhi riflessi nello specchio senza vedervi un velo che li oscura, di andare avanti con la mia vita e finalmente affrontare i miei demoni. 
 
Torno a guardare fuori. La notte si sta allungando sul selciato e nel cielo brillano poche stelle. Octavia accanto a me dorme e anche io piano piano cedo al sonno, cullato dal suo stesso respiro.
 

 
NOTE
  • Il primo pezzo del capitolo, fino alla battuta di Abby («Bellamy starà con noi per due mesi, per la sua prova finale. Bellamy, conosci mia figlia Clarke, vero?») compresa, è ripreso passo passo dalla fine del capitolo due.
  • I Pink Floyd che sono il gruppo preferito di Jake Griffin è un piccolo omaggio a mio padre: sono anche il suo gruppo preferito.
  • La citazione a inizio capitolo appartiene a Fëdor Dostoevkij.

Be', eccomi qui. Devo dire che questi aggiornamenti stanno avvenendo più in fretta del previsto - e dei miei standard geologici XD
Sono contentissima dell'accoglienza che avete riservato a "fireproof", questa cosa mi fa saltellare per tutta la casa. E sono doppiamente contenta perché a quanto pare questo Alternate Universe vi sta piacendo molto, nonostante sappiamo bene quanto sia difficile rendere i personaggi IC quando ci spostiamo in un mondo totalmente diverso da quello originale. Mi avete rassicurato molto, nelle vostre recensioni. Tra l'altro, ringrazio as usual le ragazze che hanno recensito, siete dei tesori ^^ lilyhachi, thegirlonfire__, Helena Kanbara, Emma Bennet, MelBlake e MysteriousLabyrinth. Ringrazio ovviamente tutti coloro che hanno aggiunto fireproof alle seguite e/o alle preferite: siete tantissimi e vi adoro tutti. Grazie <3
Detto ciò, vi do appuntamento al prossimo capitolo. Sono parecchio ispirata, al momento, per cui non dovrebbe tardare molto.

Un abbraccio, Marti.  

ps 1 dimenticavo il mio gruppo FB, per chiunque voglia aggiornamenti e spoiler sulla storia:
https://www.facebook.com/groups/159506810913907/

ps 2 vorrei solo precisare una cosa sul "mio" Bellamy: è un Bellamy diverso da quello che abbiamo conosciuto all'inizio della serie tv. Non è più il Bellamy di "we do whatever the hell we want" (mi sembra di ricordare XD), è un Bellamy più maturo, diciamo che si avvicina molto al Bellamy che è adesso e che tutte noi amiamo, pur mantenendo qualcosa della sua versione precedente. Ci tenevo a specificarlo perché MysteriousLabyrinth, nella sua ultima recensione, mi ha scritto che non è pienamente convinta della "redenzione" di Bellamy, e quindi ho fatto che spiegarlo a tutte voi, giusto per chiarire quesa cosa ^^ Spero si sia capito il mio pensiero XD  Alla prossima :D
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Run boy run ***


{Mi scuso immensamente per l'imbarazzante ritardo con il quale mi ritrovo ad aggiornare questa storia. Non me ne vogliate, ma l'ispirazione era andata in vacanza e ora sembra tornata. Mi perdonate? Buona lettura a tutti!}


“Forse non si desiderava tanto essere amati quanto essere capiti.”
 
 
fireproof
capitolo quattro
run boy run
 
 
{Bellamy}
Credo che il silenzio sia un'arma. A volte pronunciamo così tante parole da stordirci, facciamo lunghissimi discorsi senza un senso logico apparente, ci attacchiamo a certi aneddoti e li raccontiamo appassionatamente, senza neanche chiederci se chi siede di fronte a noi - chi ascolta - sia effettivamente interessato o anche solo minimamente attento. Riversiamo sugli altri la nostra vita, ci perdiamo nei ricordi e andiamo avanti così, quasi per inerzia, una tazza di caffè tra le mani infreddolite e la neve che cade oltre il vetro. 
 
Ci fermiamo così poco a chiederci se chi ci ascolta stia ascoltando davvero oppure simuli un interesse fioco, stagnante, corroso dalla noia. Magari annuisce ma sta pensando ai fatti suoi; ci guarda ma in realtà ci fissa senza vederci davvero, lo sguardo vacuo, chiedendosi quanto manchi alla prossima lezione solo per non sentire più il nostro stupido ciarlare; si fissa le mani implorando una pietà di un dio lontano. 
 
E riscopriamo la virtù del silenzio. In rari momenti della vita - nel bel mezzo di una confusionaria lezione di matematica, mentre siedi in mensa e i tuoi amici gridano e scherzano e sparano fesserie, oppure quando all'improvviso ascolti parole che non avresti mai voluto sentire - capisci che sarebbe molto meglio tacere, quando la lingua ti prude e il cuore ti batte così forte che non rispondi di te stesso, quando sei così arrabbiato da non riuscire a trattenerti, quando parole affilate come coltelli volano per la stanza e non puoi fare altro che rimediare come puoi, dopo, quando è troppo tardi per rimangiartele. 
 
Entro all'ambulatorio Griffin e nella sala d'attesa ordinata e pulita non c'è ancora nessuno. Mi sembra strano vederla vuota e mi chiedo quando, durante la mia prima settimana di lavoro, mi sia abituato al suo caos famigliare di bambini urlanti e madri preoccupate e padri pensierosi. Sto per avvicinarmi allo studio della dottoressa Griffin per annunciarle il mio arrivo, quando sento il litigio. Le voci della Griffin e di sua figlia Clarke risuonano alte attraverso la porta leggermente dischiusa e arrivano fino a me. 
 
«Sei tu che non capisci, allora!» urla Clarke. 
Non l'ho mai sentita agitarsi così, lei che non si scompone mai, che raramente perde il controllo, anche nelle situazioni più difficili. 
 
In quella prima settimana l'ho vista aiutare sua madre con i pazienti, l'ho osservata mentre lei credeva che lo facessi solo per imparare, per poi affiancarla nel suo lavoro, l'ho guardata passare dalla dolcezza con la quale rassicurava i bambini spaventati e atterriti, alla sicurezza di sè esibita davanti al sangue e al braccio rotto di un bimbo di cinque anni, che era stato rassicurato in attesa dell'intervento di Abigail. 
 
E ora la Principessa urla contro sua madre, per ragioni a me sconosciute, incurante di chi possa entrare e sentirla. 
«E allora fammi capire, Clarke» replica la Griffin, esasperata. «Fammi capire cosa vuoi.»
«Ciò che voglio non potrò mai ottenerlo» dice la ragazza con tono più contenuto, più basso, quasi incrinato. «Mai più.»
«Io sono qui, Clarke. Sono qui. E tutto ciò che vorrei è aiutarti, in qualche modo, farti capire che potrai sempre contare su di me.»
Non sento più niente, tranne silenzio. 
 
Eccola, la pace prima della tempesta. Quel barlume di serenità che anticipa un uragano. E il silenzio è così bello e immoto che mi ci perdo, in piedi al centro della sala d'attesa, lo zaino in spalla, lo sguardo vacuo. Immagino di non essere lì, di non essere mai entrato, di non aver mai picchiato quel dannato poliziotto e di essere lontano da Anacostia miglia e miglia, via dal passato e dall'aria rarefatta della periferia. Lontano da Clarke.
 
«Tu non sei papà, e non lo sarai mai!» grida lei improvvisamente. 
Poi, un rumore di passi, la porta che si apre, e Clarke è di fronte a me. Se ne sta in piedi, il viso rigato di lacrime salate, gli occhi lampeggianti e lucidi di un pianto mal trattenuto, le mani tremanti strette a pugno.
 
«Blake!» esclama, furente. «Cosa ci fai qui?»
Rispondo a mezza voce, forse perché capisco che alzare i toni non mi porterà da nessuna parte, in questa situazione, forse perché le sue lacrime calde su quelle guance rosee mi destabilizzano, forse perché vedere Clarke Griffin in lacrime è troppo per questa vita. «Sono qui per lavoro, ricordi?» 
«Hai sentito tutto?»
Mi stringo nelle spalle. «Ti direi una bugia se negassi.»
«Piaciuto, lo spettacolo?»
 
Mi chiedo perché debba per forza cercare a tutti i costi di farmi passare per lo stronzo che non sono - che almeno non sono in quel momento, con lei, oggi. 
«Che domanda del cazzo, Principessa» replico e a questo punto voglio comportarmi da stronzo, voglio ferirla anche io, voglio replicare, voglio levarle dalla faccia quel ghigno insopportabile da so-tutto-io.
«Vai al diavolo, Blake!» mi grida in faccia prima di passarmi accanto e prendere la via dell'uscita dell'ambulatorio. La porta d'ingresso sbatte dietro le sue spalle tese e io la guardo andare via, percorrere con foga e passo marziale il vialetto e sparire oltre una siepe. Andata. Scomparsa come fumo, o come un'apparizione infernale o una furia. 
 
E rimango lì, in piedi, le braccia lungo i fianchi, statico e cristallizzato. Mi chiedo come sarebbe andata se invece di provocarci come al solito fossimo rimasti in silenzio, se io l'avessi guardata andare via o semplicemente fossi andato via io stesso, lontano da casa Griffin e dai problemi di una famiglia incompleta e spezzata, lontano dalle lacrime di Clarke e dal suo viso sconvolto. Oppure sarei dovuto stare zitto, e muto, inerme di fronte alla rabbia di Clarke, senza mettere altra carne al fuoco. In tutti e due i casi, non sarei stato coerente con me stesso, è questo il punto. E non vorrei mai diventare incoerente, soprattutto agli occhi della Principessa di Anacostia. 
 
Abigail Griffin esce lentamente dal suo studio, il passo stanco di chi ha finito le parole e le intenzioni, scuotendo la testa mollemente. Poi si accorge di me, che me ne sto ancora in piedi lì in mezzo come un cretino. Ed è proprio così che devo apparirle. Un cretino.
 
«Bellamy?» mi chiede, stupita, come se l'ultima settimana si sia all'improvviso volatilizzata e lei si stupisca di vedermi nel suo ambulatorio.
«Non avrei dovuto sentire niente, lo so» la anticipo alzando una mano, sulla difensiva. Non ho affatto voglia di prendermi un'altra strigliata. Per altro immeritata, per una volta. 
«Stavo per dirti che mi dispiaceva, per qualsiasi cosa avessi sentito o ti avesse gridato addosso mia figlia.»
 
Ammutolisco. Un adulto si scusa con me, è incredibile. E suona così irreale...
«Non si deve scusare, sono arrivato troppo presto e-»
«No, Bellamy» questa volta è Abigail ad alzare una mano, scuotendo la testa «non avrei mai dovuto affrontare quel discorso adesso, qui all'ambulatorio, dove chiunque avrebbe potuto sentirci. Sei arrivato tu, e per assurdo è meglio così.»
Sto in silenzio, in attesa di altre parole che sento sospese sulle labbra della donna.
«Conosci Clarke, hai avuto modo di conoscerla ancora meglio in questa prima settimana di lavoro qui con noi, e so che potresti capirla, anzi, so che la capisci. È una cosa che sento.»
Non so cosa replicare e scelgo ancora una volta la via del silenzio e capisco quanto sia sacro e quanto poco lo abbia considerato, prima di questo momento.
 
«Quello che ti sto per chiedere è forse troppo, lo capisco» continua la Griffin passandosi una mano tra i capelli castani legati in una coda scomposta. 
So già cosa sta per chiedermi. Lo so e mi risale dalle viscere un sapore di bile. Il pensiero è amaro e sorprendentemente elettrizzante allo stesso tempo, come qualcosa che temi ma che aneli, che ti fa paura ma che comunque non vedi l'ora di affrontare, e forse capisci quanto tu lo abbia desiderato, in fondo.
«Parleresti con Clarke?» mi chiede in un soffio, timorosa della mia reazione. «Magari ti manderà al diavolo» e quelle parole sulle bocca di Abigail Griffin mi strappano un sorriso «ma magari potrebbe ascoltarti, invece, chi lo sa, e addirittura parlare con te...»
 
Un istinto irrazionale mi raschia la gola, l'innata tendenza a proteggere i deboli - coltivata a lungo con mia madre e poi con Octavia - mista ad un senso di ineluttabile obbligo mi spingerebbe a mettere un braccio sulla spalla della donna, per rassicurarla e dirle che farò del mio meglio, perché è questo che faccio, con le persone che sono gentili con me gratuitamente, la maggior parte delle volte senza ricevere da me nulla in cambio, pur non volendo effettivamente nulla. Abbatto le mie mura e faccio uscire il vero me, ciò che ero tanti anni fa, nella mia vita ingenua di bambino, nella mia cameretta con i poster di Superman. 
 
Vorrei ma non posso. Non posso travalicare quel confine che mi separa dalla verità e non posso e non voglio che altri la vedano, chiara come la sto vedendo io adesso, così mi limito ad annuire, silenzioso. Di nuovo il silenzio, compagno di questa mia strana giornata. «Ci proverò.»
La Griffin mi sorride. È stanca e all'improvviso tutti gli anni che ha le esplodono negli occhi, si riversano nelle rughe che le increspano la fronte, nelle mani che tremano e che cercano un appiglio, nelle gambe malferme che la portano a sedersi su una sedia lì accanto, gli occhi bassi, quelle stesse mani sul viso teso, a coprire gli occhi lucidi.
 
E di nuovo vorrei sederle accanto, stringerle quelle mani tra le mie, grandi e ferme, e borbottarle che andrà tutto bene, che avrebbe imparato a parlare con sua figlia senza averlo mai fatto prima, che Clarke l'avrebbe perdonata, che sarebbe riuscita a riempire i vuoti lasciati dalla morte del padre, che un giorno si sarebbe svegliata e avrebbe capito di essere andata avanti e sua madre sarebbe sempre stata lì, accanto a lei. Quindi non doveva mollare, non doveva arrendersi, perché Clarke era come lui: respingeva chi le voleva bene, in un gioco pericoloso e controproducente che la spingeva verso la solitudine e sere nere passate nella sua stanza, a chiedersi come sarebbe stato, mentre fuori il mondo mutava e lei era sempre la stessa, cristallizzata e immobile, imbalsamata nel suo dolore. 
 
«Ci proverò» ripeto passandole accanto.
Abigail alza il viso su di me e mi sorride debolmente. «Grazie, Bellamy.»
Quel ringraziamento suona come un congedo.
 
 
* * *
 
 
{Clarke}
A quest'ora del pomeriggio il parco è praticamente deserto. Comincia a fare caldo e le solite mamme con bambini urlanti e casinisti si riparano all'ombra delle loro case prima di portarli a giocare nel tranquillo parchetto dietro casa. L'acqua del piccolo laghetto è tranquilla e immota e fissarla mi restituisce una parvenza di calma. Osservo un gruppo di papere che nuota placido e il mio sguardo si perde all'orizzonte, sul profilo degli alti edifici del centro di Washington, luccicanti al sole, e sulle cime verdi degli alberi lì intorno. Uno stormo di uccelli si alza in volo e per un momento oscura il cielo. 
 
La rabbia sorda che mi ha attanagliato lo stomaco poco prima comincia pian piano ad affievolirsi, sgonfiandosi come un palloncino. È così da un po': l'iniziale ribellione è passata da un tetro mutismo a scoppi d'ira improvvisi. Forse è tutta questa dannata situazione a farmi perdere il controllo, e stento a riconoscermi. Forse è la palpabile mancanza di mio padre a farsi sentire più che mai, è la mancanza di fiducia da parte di mia madre da quando hanno scoperto il mio "raggiro ai danni della sanità pubblica" e mi hanno mandata alla Correction, è la presenza destabilizzante di una terza persona all'ambulatorio e nell'orbita gravitazionale della mia vita a casa, nei rapporti già tesi con mia madre, nella percezione che ho di me stessa. 
 
Ammettere con me stessa che Bellamy Blake mi confonde non è facile e la rivelazione ha un che di soprannaturale. Non posso permettermi di dargli questo potere su di me, eppure è così: lui con i suoi silenzi discreti - totalmente differenti dalla sua irritante presenza a scuola -; lui che osserva - e mi osserva - senza dire niente, quasi come se gli importasse veramente; lui che appare così diverso dall'idea di Bellamy Blake che presenta al mondo da spingermi a stare zitta io stessa, ad abbandonare il sarcasmo e l'ironia pungente, ad affiancarlo e dargli indicazioni senza malizia alcuna e senza filtri. Mi spinge ad essere me stessa ma in una maniera nuova e disarmante, lontana dai modi bruschi di cui mi sono appropriata negli ultimi tempi, distanziandomi da quella nuvola di malumore che mi accompagna da mesi, abbandonando le maschere con le quali mi proteggo dal mondo e lasciandomi così ogni paura alle spalle.
 
Un rumore di passi alle mie spalle mi riscuote e l'oggetto dei miei pensieri si materializza di fronte a me, alto e silenzioso, ed è così strano, quel silenzio, che mi chiedo quando e come se ne sia appropriato e se sia davvero possibile pensare a Bellamy Blake come una presenza rassicurante e insieme incalzante, mentre lui, guardandomi, mi spinge ad essere coraggiosa, a tirare fuori la vecchia me - la Clarke che rideva spesso e volentieri, che sorrideva ad una giornata di sole, che sapeva divertirsi con poco e che coltivava l'ironia con spirito logico e un'innata acutezza -, a sotterrare l'ascia di guerra che brandisco contro gli altri, a distendere la fronte e aprire lo sguardo. Ed è strano e spiazzante quanto l'idea di Bellamy sia diversa da Bellamy, quanto le maschere che ha sempre indossato non corrispondano a chi c'è sotto di esse, quanto quello sguardo fisso e fiero possa trasmettermi, se in modo consapevole non posso saperlo, ma comunque con intenzione ferma e modi schietti e diretti. 
 
«Ero certo che ti avrei trovata qui» dice lui prendendo posto accanto a me sulla panchina ricoperta di scritte e incisioni sulla quale sono seduta. Non mi chiede il permesso. 
«Ah, sì?»
Annuisce. «Venivi sempre qui, da bambina, quando io e gli altri ti facevamo arrabbiare e volevi scappare via.»
«E tu come fai a saperlo?»
«Una volta ti ho seguita. Avevamo litigato furiosamente, come dei matti, per il predominio sullo scivolo. Ti ricordi?»
Quasi quasi mi scappa una risata. Eccome se me lo ricordo...
«Come fosse ieri» rispondo solo annuendo, divertita.
«Ecco, quella volta ti ho seguita fin qui. Ero curioso di sapere dove scappavi ogni volta. »
«Perché non hai mai detto niente?»
 
Bellamy sospira e il suo sguardo si perde lontano, anche il suo sulle cime degli alberi verdi. «Perché ti capivo. Capivo la tua voglia di scappare via, per stare da sola e leccarti le ferite» e devo aver fatto una smorfia piuttosto rumorosa perché lui si volta a guardarmi e scoppia a ridere. «Ammettilo, la nostra è sempre stata una guerra alla pari, con alti e bassi piuttosto oscillanti.»
«Se lo dici tu» borbotto. Non mi va di ammettere che il piccolo Blake è riuscito a ferirmi ben più di una volta, in passato. 
«E niente, ti capivo perché anche io scappavo via. Scappavo via da casa quando la situazione si faceva insostenibile e mi rifugiavo nel giardino di Atom, nella sua casa sull'albero, dove prima o poi lui mi trovava  e allora mi trascinava dentro e l'arrabbiatura passava.»
 
Annuisco, silenziosa. La situazione famigliare di casa Blake è nota in tutta Anacostia. E l'abbandono del capofamiglia subito dopo la nascita di Octavia è ancora sulla bocca di tutti, come se fosse l'unico evento mai accaduto nel quartiere. Cose ben peggiori si sono succedute, negli anni, eppure i Blake fanno ancora notizia e pettegolezzo, soprattutto per via delle "strane abitudini" di Aurora Blake. Personalmente, non ho mai badato molto alle dicerie e ai "gossip". Più della metà di essi sono cavolate.
 
«Scappi ancora?» gli chiedo alla fine, quando il silenzio diventa troppo spesso.
«Ogni tanto» sospira di nuovo. «La maggior parte delle volte vorrei, poi mi dico che sono grande, sono il capofamiglia, ormai, e tocca a me proteggere mia madre e mia sorella, anche da loro stesse. E allora resto.»
Osservo per un momento il suo profilo fermo, la curva del naso e delle labbra piene, i capelli scompigliati e mossi, scuri e selvaggi, la linea del collo e delle spalle, le braccia poggiate sulle ginocchia, le mani serrate. In parte imbarazzata, in parte spaventata, distolgo lo sguardo quando lui si volta verso di me. Non voglio che mi legga dentro, non voglio svelargli troppo. Non voglio e non posso. Abbassare la guardia con Bellamy significherebbe dargli troppo vantaggio, un potere che so potrebbe annientarmi, una confidenza che è troppo difficile da concedere. Non sono pronta a cambiare idea su di lui, non ancora. E sento il petto dilaniarsi, contratto, diviso tra ciò che vorrei e ciò che devo. 
 
«Stai cercando di dirmi qualcosa?» gli chiedo ancora. 
Lui apre le braccia, come a volermi dire "forse, ma mi ritrovo inerme".
«Qualunque cosa io ti dica, molto probabilmente tu faresti l'esatto opposto, Principessa. Nonostante tu non voglia ammetterlo, io ti conosco. Forse non in modo convenzionale, ma conosco le parti di te che rifiuti di mostrare e che cerchi disperatamente di nascondere. Le conosco perché siamo uguali, tu e io. La cosa sconcerta me per primo, sia chiaro, ma l'ho sempre saputo, e forse anche tu.»
Mi alzo in piedi, spolverandomi i jeans, prendendo tempo.
 
Bellamy ha ragione. Ha dannatamente ragione. Il bello è che mi piacerebbe abbassare le armi e dichiararmi sconfitta, oppure annunciare una resa che non mi uccida del tutto, e ammettere che sì, siamo uguali, e lo so anche io. Lo so da tempo, forse, e i segnali sono sempre stati fin troppo evidenti persino per chi non voleva cercarli. 
 
«Cosa vuoi che ti dica, Bellamy?» Pronunciare il suo nome ha un che di intimo, sulle mie labbra, come se lentamente stessi valicando ostacoli e abbattendo mura.
«Non mi aspetto niente» risponde lui con il tono rassegnato e tipico di chi sa già che dovrà battere in ritirata. «Non mi aspetto assolutamente niente.»
Scrollo le spalle e osservo ancora una volta il laghetto, gli alberi, gli scivoli e gli altri giochi per bambini disseminati nel parco, le panchine sparse, e assaporo la quiete che ci circonda, irreale e quasi onirica, spruzzata di sole e di un inizio d'estate. 
 
«Bene» inizio facendo qualche passo. Bellamy non si muove dalla panchina e segue attento ogni mio movimento. Mi studia e mi chiedo se ne sia consapevole. 
«Immagino che tu debba scappare via» mi sorprende rompendo il silenzio. E lo guardo per un attimo negli occhi, dove una scintilla di divertimento misto a rassegnazione mi coglie impreparata, così distolgo lo sguardo altrettamente velocemente, fissandomi le Converse luride. 
«Ci vediamo dopo all'ambulatorio, Blake» dico solo, incamminandomi.
«A dopo, Principessa» mi grida dietro lui, mentre io lentamente mi allontano. 
 
Sento i suoi occhi piantati sulla mia schiena, come se fossi un bersaglio mobile. Solo quando esco dal parco e faccio ancora qualche metro e mi lascio alle spalle Bellamy e tutto ciò che ci siamo detti mi permetto di respirare. Poggio la schiena al muro di una casetta a schiera lì vicino, la prima della mia via, e respiro. Mi chiedo quando Bellamy abbia cominciato a farmi vacillare: nel momento in cui ha preso posto accanto a me o quando, infine, con quell'ultima domanda, ha solo confermato le sue parole? Davvero sono scappata via, ancora una volta? Davvero sono scappata via da lui e dalle sue parole così come sono scappata via da mia madre, da casa mia, dal passato, dai ricordi troppo dolorosi, dalle fotografie appese alla parete e che mi parlano di una vita fa, di pomeriggi spensierati e domeniche al lago? Davvero sono scappata via da me stessa, per tutto questo tempo? 
 
Ripenso alle parole chiare e limpide di Bellamy Blake, a quella strana conversazione in un altrettanto strano pomeriggio, mentre sulle mie palpebre è ancora impresso il suo profilo serio e la sua voce risuona nelle mie orecchie. E capisco ciò che Bellamy ha cercato di dirmi. Siamo uguali, lui e io. Siamo uguali e questa cosa mi consuma, mi disturba, mi destabilizza. Questa cosa mi rende insicura, mentre in solitudine rifletto tra me e me e mi perdo nei miei pensieri e il silenzio mi avvolge, nell'immobilità di quel primo pomeriggio. Per la prima volta nella nostra vita, Bellamy e io ci siamo "capiti". Ci siamo capiti così chiaramente che sa di epifania. E capisco che la comprensione di un'altra persone è un po' come un regalo inaspettato, soprattutto se arriva da chi meno ti aspetti. 
 
È strano, quando essere capiti diventa all'improvviso più importante di essere amati. Mia madre mi ama con tutta se stessa, ma non mi capisce. Non mi capisce e forse non mi capirà mai. Bellamy invece mi capisce, nonostante tra noi non ci sia nessun sentimento. Mi capisce e, per la prima volta in quel giorno strano, so che non è un male. Non è un male. Inesplicabilmente, sorrido e mi allontano lungo la via, diretta a casa. 

 


NOTE
  • La citazione iniziale è tratta da quel capolavoro che è "1984" di George Orwell {straconsigliato, tra l'altro}; il titolo significa, letteralmente, "corri, ragazzo, corri" ed è il titolo dell'omonima canzone di Woodkid {ascoltatela, gente, se ancora non l'avete fatto}.

Non ho particolari note da fare su questo capitolo, sono sincera. Vediamo un Bellamy ancora più consapevole e credo che questa prima settimana di lavoro con la dottoressa Griffin abbia cominciato a cambiarlo notevolmente. Come avrete intuito, è Bellamy quello che capirà per primo i sentimenti che lo legano a Clarke, mentre lei - testona - ci metterà di più, ma ovviamente, avendo entrambi i POV, sarà più facile per voi comprendere i due protagonisti. In questo capitolo, Clarke comincia a considerare Bellamy sotto una luce differente: capisce che qualcosa c'è, un legame, una connessione latente, un trait d'union che la unisce a Blake, e ne è spaventata e attirata allo stesso tempo, insomma, vuole capire cosa succede e vedremo una vera e propria evoluzione nei loro rapporti a partire dal prossimo capitolo. Specifico solo un'ultima cosa: nella serie tv siamo abituati ad un'Abby poco gentile con Bellamy, insomma, non le piace granché. Qui invece Abby chiede a Bellamy di parlare con sua figlia, di aiutarla, e sembra capire lei stessa Bellamy e i suoi problemi - per quanto possa saperne lei, ovviamente. Quindi Abby è molto meno acida, ecco, e si adatta molto meglio all'Abigail Griffin di questa storia. Ci tenevo a fare questo appunto per spiegarvi bene la cosa. 

E niente, ringrazio come sempre le anime belle che recensiscono, leggono e seguono e mettono tra i preferiti: aumentate sempre di più <3 E ovviamente a tutti coloro che hanno aspettato pazientemente un aggiornamento :3

Marti.

Vi ricordo il mio gruppo FB, se vi va:
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3015146