I'm half-sick of shadows

di Lost In Donbass
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ritratto ***
Capitolo 2: *** La giostra ***
Capitolo 3: *** L'automa ***
Capitolo 4: *** Il giardino ***
Capitolo 5: *** L'orologio ***
Capitolo 6: *** Le discussioni ***
Capitolo 7: *** Il vortice ***
Capitolo 8: *** L'abbraccio ***



Capitolo 1
*** Il ritratto ***


 
Se la regina Vittoria avesse saputo dei misteri che albergavano alla Midford High School, ci avrebbe pensato due volte prima di considerarla “Scuola migliore dell’anno”. Se solo avesse avuto la più pallida idea di quello che succedeva dentro quel severo istituto fuori Londra, non si sarebbe arrischiata ad iscriverci uno dei suoi tanti nipoti. Ma cosa succedeva di tanto inquietante in quella vecchissima e prestigiosissima scuola maschile, dove venivano iscritti tutti i rampolli dell’Inghilterra, e dove le tradizioni erano d’obbligo?
Beh, siamo qui riuniti attorno al fuoco per scoprirlo, per addentrarci nei misteri che nascondeva la Midford High School. È ora di tacere e ascoltare, è l’ora di rivelare tutto quanto. Silenzio, ragazzi, che la storia abbia inizio
 
Midford High School, Aprile del 1888. Venticello fresco, i fiori cominciano a sbocciare.
Viole MacMillan era uno dei ragazzi più dotati e ricchi di tutto l’istituto. La sua famiglia poteva vantare il supremo rispetto della regina Vittoria, in quanto la sua casata si era sempre distinta per essere stata di grande aiuto alla regina nei momenti più fragili, per aver sventato vari attentati alla Corona e, si diceva in giro, per aver sempre protetto la nazione da misteriosi “attacchi malefici”. Su quel punto, nessuno aveva mai precisato niente, ma nei salotti si parlava spesso di una famiglia capace di interagire con le forze del Male. Però quelle erano solo storie.
Comunque fosse la verità, Viole, terzogenito e ultimo maschio della stirpe dei MacMillan, era un ragazzo particolare. E non solo perché portava i capelli lunghi e scompigliati e usava truccarsi il viso dai tratti androgini. Oh, fosse stato solo quello a determinare la particolarità del giovane! A scuola era considerato quasi un demonio; ammirato e temuto dai più, era uno dei preferiti dall’austero rettore. Ciò non faceva che aumentare la paura mista a ammirazione degli studenti più giovani e l’odio di quelli della sua età. Dotato di un’intelligenza fuori dal comune, riusciva in ogni disciplina con il massimo dei voti, se ovviamente escludiamo lo sport, settore in cui Viole preferiva astenersi. I suoi ritratti e i suoi disegni parevano dotati di vita propria, e non raramente le amiche della madre lo pregavano di ritrarle per conservare per sempre la loro giovinezza in un cassetto.
Viole era solito starsene per conto suo, a disegnare, a pensare. a cosa pensasse, nessuno lo sapeva. Si sapeva che aveva un cuore di pietra, freddo come lo può essere il ghiaccio nelle gelate invernali. Era risaputo che non andava d’accordo con nessuno, ma che non era combattivo. O, perlomeno, nessuno lo aveva mai visto partecipare ai battibecchi che usualmente si accendevano tra gli allievi.
Insomma, c’era chi concorreva per farselo amico e chi cercava in tutti i modi di sabotarlo e di rendergli impossibile la vita scolastica. In entrambi i casi, il fallimento era assicurato.
Viole, dal canto suo, non desiderava legami di alcun tipo con nessuno. Gli andava bene così, nella sua solitudine colorata dai disegni.
Se nell’Istituto vi erano personaggi ambigui e misteriosi come MacMillan, non potevano mancare individui che erano il suo esatto contrario. Fra questi, il più esimio e il più osannato era Edgar Cole, figlio del cugino di terzo grado della regina, e in assoluto il più ricco fra tutti gli allievi. Mai si era visto ragazzo più bello, orgoglioso e arrogante in tutta la scuola. Non era simpatico, ma quando parlava tutti pendevano dalle sue labbra sottili. Non era generoso, ma quando la sua voce vellutata ordinava qualcosa, erano in molti, soprattutto fra i più giovani, ad obbedirgli senza battere ciglio. Se la sua intelligenza, grazia, e beltà erano l’esempio per tutti i ragazzi della Midford, non lo erano per la persona verso la quale Edgar provava più attrazione : ovvero, come avrete già inteso, Viole MacMillan.
Questo Edgar non se lo era mai saputo spiegare, ma sin da quando era entrato in quella scuola, a 13 anni e aveva visto quel suo strano coetaneo, aveva sempre desiderato conoscerlo a fondo, scavare in quella psiche contorta ma non vi era mai riuscito. Lo stuzzicava sempre, certo. Gli parlava spesso e volentieri. Lo tormentava da anni, oramai. Ma niente sembrava scalfire la scorza dura e insensibile di Viole. Il che era strano, per Edgar, abituato a sottomettere chiunque con il suo fascino carismatico.
Come ogni giorno da cinque anni, oramai, Viole era raggomitolato sul divano del dormitorio. La scuola era suddivisa in quattro dormitori. Uno a ovest, uno a nord, uno a sud e uno a est. Solitamente a est ci stavano i novellini, a sud quelli del secondo e terzo anno, a nord quelli del quarto anno e a ovest quelli del quinto anno. A prima vista poteva sembrare una disposizione casuale, ma nulla alla Midford era casuale. Se i novellini erano a est, vi era un perché; infatti a est sorge il sole, “sorgono i nuovi allievi”. A sud quelli di mezzo, come a nord, zone di transizione come gli studenti dal secondo al quarto anno. A ovest, quelli che dovevano uscire, verso il sole morente. Una poetica rappresentazione delle fasi solari.
Viole quindi abitava nel dormitorio ovest, e passava gran parte delle sue serate o chino sui libri, o a disegnare sul divano blu oceano della Sala Comune della Zona Ovest. Quel giorno, aveva optato per la raffigurazione dei giovani studenti che passeggiavano ridendo per il cortile. Vederli dall’alto era particolarmente divertente, anche se si sentiva un po’ come una di quelle vecchiette curiose che spiano la gente dalle finestre dei loro salotti. Viole trovava spassoso osservare le abitudini delle nuove matricole della scuola. Si ricordava quando la matricola era lui, e ogni volta giungeva alla solita conclusione “questi nuovi arrivati sono particolarmente idioti. Io alla loro età era molto più astuto”. Ma non bisogna considerare Viole MacMillan una persona boriosa e egocentrica. Semplicemente, era realista.
-Viole, caro, quanto tempo!
La mano ben curata che si appoggiò sulla spalla del pittore e la voce suadente non potevano che annunciare l’arrivo di Edgar Cole. E con lui, una bella quantità di seccature per Viole.
-Ci siamo visti stamane alla lezione di latino, Cole.
La risatina frivola e frizzante si ripercosse nella Sala Comune, per l’occasione vuota. Edgar scostò il cappuccio del mantello di tweed scuro che copriva la testa del giovane MacMillan, costringendolo a voltare il viso. Viole squadrò il sorriso brillante del compagno d’istituto. Trovava irrimediabilmente stupido l’atto del “sorriso perenne”. Cosa c’era da sorridere?! Cosa poteva mai ispirare la gente al sorriso?
-Hai la luna storta?- il buonumore di Edgar era sicuramente contagioso. Ma non attecchiva su Viole, neanche a dirlo. Anzi, non faceva che innervosirlo ancora di più di quanto già non fosse per conto suo. E poi quegli occhi azzurri … tanto azzurri da parere zaffiri puri e splendenti, così volubili e celestialmente blu. E i capelli biondi come il sole estivo, lunghi, raccolti morbidamente in una coda, i ciuffi sul viso come raggi di un sole esuberante. La pelle color porcellana, paragonabile alle porcellane cinesi. Sicuramente, per quanto Viole si ostinasse a considerare Edgar una mosca fastidiosa e stupida, consisteva nella sua fonte di ispirazione. Se avessero perquisito i quaderni del pittore, avrebbero trovato centinaia e centinai di ritratti di Edgar Cole in ogni posizione e con qualsiasi luce. Era indubbiamente un perfetto modello per Viole, che amava la bellezza ideale da poter ritrarre alla ricerca della perfezione. Peccato che il modello per quegli anni della sua adolescenza avesse dovuto essere Edgar, l’odiato, intrigante personaggio che amava stuzzicarlo da una vita.
Edgar, dal suo punto di vista, trovava Viole un personaggio affascinante. La sua intelligenza lo rendeva uno splendore per il biondo marchese, abituato alla noiosa ignoranza e stupidità degli allievi che frequentava. E poi, quest’aria dannata e misteriosa, quest’aura di inquietante fascino attirava Edgar come un’ape è attratta dai fiori. I capelli corvini che gli ricadevano sul volto pallido (Edgar amava i visi pallidi, che parevano baciati dalla luna), così lunghi e fluenti … e gli occhi verdi, verdi come il muschio che ricopriva le pareti della loro magione in campagna (ogni qualvolta faceva visita nella casa di campagna con la sua famiglia si soffermava a paragonare gli occhi del compagno di scuola al muschio). Il trucco pesante che ricopriva i tratti androgini del ragazzo faceva da sempre sorridere il giovane Cole. A modo suo trovava irrimediabilmente tenero Viole, ma si guardava bene dal farglielo presente. Non era sicuro della reazione …
- Cos’hai, Viole? C’è qualcosa che non va?- a dirla tutta, Edgar sapeva di essere stressante, ma non conosceva altro modo per attirare l’attenzione del pittore.
-Hai notato che tonalità ha assunto il cielo in queste ultime sere?- Viole si scostò e rindossò il cappuccio tossicchiando.
-Posso dirti che pare decisamente il sipario di un teatro … rosso come la tela che cela la scena, leggere tonalità del giallo e del blu, delicate inflessioni violacee e indaco coronate dall’arancione del sole che tramonta come fossero i lembi dei vestiti dei protagonisti che si scoprono man mano che il sipario si alza.
Edgar era rinomato per la sua vena poetica, ed era per questo che Viole chiedeva spesso dei suoi pareri sulle cose. Aveva un modo di descriverle che evocava sentimenti talmente profondi nel pittore che a volte lo privava del sonno per una notte o due, troppo impegnato a riprodurre su carta le parole del marchese.
Annuì distrattamente, cercando la luce ideale da utilizzare per il suo acquerello e non poté fare a meno di notare di come gli ultimi raggi rosso sangue del sole tingessero di un colore inimmaginabile i capelli di Edgar. Fu quasi tentato di chiedergli di posare per lui, ma si trattenne. Che figura ci avrebbe fatto a chiedergli una cosa simile? Avrebbe semplicemente tentato di fotografare con gli occhi il colore e avrebbe provato a riprodurlo dopo cena. Anche se era sicuro che se avesse avuto il modello sarebbe stato decisamente meglio.
-Dai, Viole, ci conosciamo da tanti anni oramai! Un ritrattino potresti anche farmelo, che dici? Magari ora, con questa luce paradisiaca …
Viole rimase per un secondo spiazzato. Cosa alquanto strana per lui, che non rimaneva sconvolto davanti a nulla. Però avere il modello perfetto che ti chiedeva addirittura di fargli un ritratto … sarebbe stato da idioti lasciarsi sfuggire un’occasione simile, un dipinto che già si prospettava meraviglioso. Nonostante si trattasse di Cole, decise di obbedire e di fare il ritratto.
Silenziosamente andò a recuperare gli acquerelli e una tela di piccole dimensioni e si sedette sul bracciolo del divano intento a sciogliere i colori.
-Lo sai che è vietato usare acqua nella Sala Grande, vero?- disse Edgar, sciogliendosi la coda e rassettandosi la divisa.
Viole mugolò qualcosa di poco gentile in risposta e passò a dedicarsi al suo modello. Doveva trovare la posizione ideale …
-Siediti sul davanzale, lascia una gamba penzolare e l’altra stringila al petto. Volta lo sguardo verso l’esterno e non sorridere.
Ordinò perentoriamente Viole. Quando dipingeva voleva il massimo silenzio, la massima attenzione e assolutamente nessuno che sorridesse. Com’era fastidiosa la gente che sorrideva!
Edgar obbedì e si posizionò come era stato richiesto. Eppure era una posizione scomoda … sospirò, ma d’altronde se voleva avere un suo ritratto da mettersi sopra al letto e da rimirare poteva rivolgersi solo ed esclusivamente a MacMillan. Edgar era molto egocentrico, e decisamente vanitoso. Provava una gioia unica a essere circondato di specchi e suoi piccoli ritratti nei quali potersi rispecchiare, visto che a scuola era vietato avere specchietti personali. Niente specchi, riparava con i disegni di Viole. Quest’ultimo si mise celermente all’opera. La luce, doveva coglierla a tutti i costi. La luce, i riflessi dorati, le ombre che si allungavano sinuose sul pavimento di legno scuro, lo sfondo della finestra gotica di ferro in contrasto con la pelle candida di Edgar. Perfetto, assolutamente un dipinto perfetto … la mano scivolava flessuosa sulla tela, gli acquerelli si scioglievano languidamente assecondando i movimenti leggeri ed effimeri del pennello.
Più Viole osservava il suo nascente dipinto, più si compiaceva. E badate bene, non era di sicuro un tipo presuntuoso. Semplicemente, la cosa che più lo emozionava, a volte a tal punto da commuoverlo, era l’arte in ogni sua forma ed espressione. L’arte e i suoi significati nascosti, l’arte che dai primordi fino ad allora era il mezzo di espressione più diretto ed essenziale, l’arte che pulsava di vita dal primo momento di esistenza del pianeta Terra. A pensare a certe cose, la mano di Viole ebbe un singulto. Un tremito impercettibile ma riscontrabile sulla tela, dove un occhio attento avrebbe potuto notare un leggero e quasi invisibile, ma pur sempre presente, tratto più spesso e grezzo rispetto agli altri.
-Pensi di doverci stare ancora tanto? Avrei un certo languorino e come ben sai, la cena te la servono solamente a partire da ora. Voglio andare a mangiare- mugolò Edgar, tentando di non muovere i muscoli del collo e della mascella.
-Un ritratto ha bisogno del suo tempo- ribatté acido Viole, indispettito dal tratto scoordinato e impegnato a recuperare l’errore compiuto.
-Mi si stanno intorpidendo le membra … - si lamentò il marchese, sperando che gli fosse concesso almeno di poter muovere il collo dolorante. Insomma, a casa sua i pittori facevano esattamente quello che voleva e se si scocciava di posare lo facevano riposare. Perché Viole no? Perché il conte MacMillan era così complicato?
Siccome non gli arrivò risposta, decise di smuovere un po’ il collo e distendere i muscoli formicolanti. Neanche il tempo di voltare la testa, che un paio di mani gelide gli afferrarono il collo e glielo rimisero violentemente nella posizione originaria, strappandogli un gemito di dolore.
-Ahio, Viole, che modi per un conte!
-Immobile ha un solo significato, Cole. Cioè, non muoverti. Un poeta come te dovrebbe avere una buona padronanza della lingua, no? Sai che vuol dire immobile. Perciò, non azzardarti a cambiare posizione.
Viole non sopportava quando il modello si prendeva delle libertà non consentite. Stessa cosa facevano le amiche di sua madre quando faceva loro dei ritratti. Solo che lui non poteva sgridare le dame, era disdicevole. Anche se le avrebbe strigliate volentieri a dovere.
Edgar sbuffò sonoramente. Trovava molto poco carino il modo di comportarsi del suo compagno d’istituto. Era poco educato.
-Senti Viole, apprezzo il fatto che tu mi stia facendo un dipinto senza aver chiesto nulla in cambio però … magari ora non ti sembrerebbe ora di andare? Sarebbe ora di cena, e se i prefetti ci beccassero qui con colori, acqua e arrampicato sul davanzale non penso sarebbero molto contenti. E’ vietato oltretutto, e di punizioni ne farei volentieri a meno …
-Me l’hai chiesto tu- ribattè l’interessato, senza alzare lo sguardo.
-Lo so, infatti ti ho ringraziato, ma facevo solo presente che il rischio è alto in questo momento e sai bene quanto sia intransigente il nostro college per quanto riguarda la disciplina, l’osservazione delle regole e le tradizioni.
Edgar non voleva affatto essere colto in flagrante perché il suo “status scolastico” ne avrebbe nuociuto. A quanto pareva, a Viole non poteva importarne di meno. Ma tanto Viole era un ribelle, si era sempre saputo. Un ribelle silenzioso e oscuro, un rivoluzionario tutto speciale che non cercava mai di proteggersi quando lo beccavano e non si preoccupava minimamente delle punizioni. Un tipo strano il conte MacMillan …
-Beh, ho quasi finito, stai tranquillo ancora due minuti- fu la secca risposta. Viole capiva benissimo l’agitazione che in quel momento tartassava Edgar e da un lato se ne doleva perché comunque avere davanti uno che soffriva e che aveva paura non gli rendeva semplice ultimare il dipinto. E proprio per quello lo tratteneva. Doveva concluderlo ad ogni costo. Sarebbe potuta andare a fuoco la scuola ma lui non si sarebbe staccato da lì.
Persi in quegli esistenziali pensieri, i due si presero un colpo, quando, con un tonfo sordo, la porta della Sala Comune si spalancò di scatto e quattro prefetti dall’aria arrabbiata si stagliarono sull’uscio
-Cole e MacMillan si può sapere che state combinando?!

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Capitolo 2
*** La giostra ***


 
Edgar saltò giù dal davanzale arrossendo. Viole si limitò ad alzare un sopracciglio con aria interrogativa, senza preoccuparsi minimamente della punizione in arrivo.
-Stavamo commentando la bellezza del tramonto e io stavo semplicemente ritraendo Cole che ha gentilmente deciso di posare per me. Tutto qui.
La tranquillità serena di MacMillan prese in contropiede i prefetti, ragazzi dell’ultimo anno che supervisionavano gli allievi ed erano in diretto contatto con il rettore.
-Semplicemente? Non so se ti ricordi, ma le regole di questa scuola prevedono il non arrampicarsi sui davanzali e il non utilizzare acquerelli nella Sala Comune né in camera- il prefetto James Greenhill squadrò arcignamente i due.
-Oh, davvero? Non ero stato informato, me ne scusino- il sogghigno beffardo di Viole fece innervosire non poco i prefetti. Ma cosa si credeva quello lì?! Va bene che era uno dei preferiti del rettore ma era inaccettabile il suo comportamento canzonatorio e perennemente sarcastico. Le labbra di Edgar si incresparono in un sorrisetto; certo che quando Viole sorrideva (se quel diabolico ghigno poteva definirsi un sorriso) era veramente bello.
-Devo però rendere presente il fatto che non abbiamo imbrattato la Sala Comune con i colori, né abbiamo rovinato l’arredamento- intervenne Edgar, rilegandosi i capelli in una coda fatta alla bell’e meglio.
-E’ inutile che cerchiate piccole scuse; avete trasgredito al regolamento e ora vi porteremo dal rettore- ribatté stizzito il prefetto William Redford, aprendo la porta della Sala Comune e facendo strada.
Edgar e Viole si scambiarono una fugace occhiata leggermente mortificata. Per quanto, nessuno dei due ci teneva a finire davanti al preside; Edgar perché sapeva benissimo che se il preside avesse avuto la malaugurata idea di riferirlo alla sua famiglia … beh, per lui non sarebbero stati tempi rosei, in quanto tutti gli uomini della sua famiglia avevano frequentato lo stesso istituto e nessuno aveva mai avuto grandi rimproveri. Però che noia la tradizione, che noia questa opprimente pressione da parte di tutti perché “lui doveva diventare il nuovo maggiordomo della regina”. Un destino fissato sin da quando ancora non era venuto al mondo. Ma a Edgar la prospettiva di passare la sua vita al servizio di una vecchia donna scorbutica non andava giù. Lui voleva diventare un poeta, passare la sua vita alla ricerca della perfezione e farne delle commedie che dilettassero la gente comune. Anche se con la sua famiglia a sbavargli sul collo la vedeva molto dura. Ricordava ancora le parole sconvolte dei suoi quando aveva provato a far presente che lui voleva diventare un letterato e trasferirsi in campagna; gli avevano urlato di tutto, dandogli “dell’ingrato nullafacente”. E allora aveva taciuto, reprimendo la sua tristezza a quando poteva soffocarla nel cuscino prima di dormire, o quando poteva illustrarla nelle sue poesie. Non voleva diventare come gli altri maschi della sua famiglia. Voleva distinguersi, avrebbe voluto diventare famoso per i suoi scritti.
Sospirò, mentre veniva sospinto giù per le scale dai prefetti cercando con lo sguardo il suo compagno di sventura.
Viole, dal canto suo, non esplodeva certo di gioia all’idea di finire davanti al rettore ma non era che gliene importasse poi molto. Nella sua famiglia non veniva considerato più di tanto, in realtà. Aveva due sorelle maggiori e tre sorelle minori, e i MacMillan non avevano mai seguito la linea di discendenza patriarcale. Per quello meglio, pensava Viole. Lui era il terzo e non aveva nessuna possibilità di diventare capo della “protezione segreta della regina Vittoria”. Forse sarebbe stato tenuto ogni tanto a dare una mano a sua sorella Saoirse, primogenita, se si fossero presentate situazioni particolarmente delicate, ma di norma sarebbe stato libero di vivere la sua vita come meglio avrebbe creduto. Ovvero, dipingendo. Ogni tanto Viole pensava a casa sua, dove veniva considerato poco o niente, a parte dalle sorelle minori che lo adoravano. Ma per il resto veniva lasciato stare. Nessuna chiedeva la sua opinione e a lui non dava fastidio. Meno gli parlavano, meglio era. Più lo isolavano, più era contento. Si strinse meglio nel mantello che si ostinava a portare e si lasciò condurre silenziosamente anche se conosceva alla perfezione ogni angolo della scuola. Già dal primo anno, quando non riusciva a dormire, vagabondava come un’anima in pena per il castello. Conosceva ogni angolo, ogni colonna, ogni fiore del giardino. Aveva ficcanasato ovunque, anche in posti categoricamente vietati agli studenti.
-Eccoci arrivati. Mi raccomando, almeno non fate innervosire il rettore- dissero freddamente i prefetti.
I due ragazzi si guardarono seri per un attimo
-Devo bussare?- mormorò Edgar, mordendosi il labbro inferiore
-Vedi te, se dobbiamo rimanere qua fuori- ribatté acido Viole
Edgar scosse la testa alzando gli occhi al cielo e bussò timidamente alla porta
-Avanti- la voce grave e stanca del rettore risuonò e spinse i due ragazzi ad aprire con timidezza il pesante portone di noce seguiti dai prefetti, che li seguivano come avvoltoi che aspettano la morte della preda.
Quando entrarono un brivido percorse la schiena di Edgar e dei prefetti. Per quanto, il cupo e anziano rettore metteva una certa inquietudine a chiunque. Viole non sembrava per nulla intimidito dall’austera figura, al contrario. Avrebbe voluto aver carta e matita per ritrarlo.
-Signor rettore, chiedo la parola- disse con voce stridula il prefetto Maurice Bluer
-Concessa. Che accade, figlioli?- l’uomo continuava a tenere il capo chino sulla pila di pergamene che invadevano la scrivania, senza guardare in faccia nessuno dei ragazzi che gli stavano davanti.
-Gli alunni MacMillan e Cole hanno mancato di rispetto al regolamento scolastico- disse serio  il prefetto Lawrence Anderson, con un leggero inchino.
-Si sono permessi di utilizzare degli acquerelli nella Sala Comune del quinto anno e Cole ha osato stare seduto in una posizione poco consona sul davanzale della finestra- rispose Bluer.
Per un momento la tensione fu palpabile nell’aria, mentre i sei attendevano la risposta. Viole si guardò attorno e notò che sul camino vi era una giostra a manovella smaltata. Si fece l’appunto mentale di riprodurla su carta appena fosse uscito da lì. Ma che splendore … che smalti delicati, che perfezione nelle proporzioni dei cavallini che dovevano girare … lui amava le giostrine a manovella. Le amava perché nascondevano qualcosa nel loro interno, perché sembravano giocattoli per bambini ma nascondevano un cuore di alta ingegneria meccanica. Le amava per la musica malinconica che spandevano nell’aria, per i colori che giravano veloci senza posa.
-Lasciateci soli, per piacere- l’ordine perentorio del preside stupì i quattro prefetti
-Ma noi … - iniziò Redford, tirandosi il colletto della camicia
-E’ un ordine. Lasciateci soli- ripetè il preside, senza alzare la testa.
I quattro prefetti si scambiarono qualche occhiata stupefatta, ma poi con un inchino si congedarono chiudendo il pesante portone dietro di loro.
Edgar aprì bocca per spiegare, per trovare qualche scusa campata sul momento, per chiedere spiegazioni dello strano comportamento ma la mano gelida di Viole gli si chiuse attorno al polso. Il marchese voltò di scatto la testa e guardò interrogativamente il compagno : perché lo voleva far tacere? Incontrò gli occhi verdi dell’altro, e vi lesse chiaramente una cosa “Taci”. Edgar tacque e continuò a fissare le pupille nere di Viole; nere come l’oceano in tempesta, come l’inchiostro che colava sulle pergamene. C’era qualcosa di strano in quegli occhi e in quella mano che continuava a stringergli il polso; oltretutto quella mano emozionava Edgar come mai niente; si sentiva l’anima congelata ogniqualvolta veniva toccato dal pittore, si sentiva la mente ammantata da un manto invernale, si sentiva il cuore ricoperto di ghiaccio, i sentimenti diventavano statue di brina. Letteralmente, Viole aveva un effetto terribile su di lui.
Il silenzio ora era diventato imbarazzante per Edgar. Un po’ il fatto di essere nel torto, un po’ l’assurdo comportamento del rettore che non aveva mai alzato il capo da quando erano lì, un po’ l’ambiente austero e inquietante (trovava irrimediabilmente angosciosa la giostra dei cavalli posata sul camino) e un po’ il fatto che Viole non accennava a mollargli la mano.
-Allora, perché?- la voce del preside suonava strana alle orecchie dei due ragazzi. Era stanca, decisamente stanca. Ma non era quello, piuttosto il fatto che sembrasse appartenere a un’altra persona. Sì, era quello il problema di fondo. La voce sembrava essersi sdoppiata. Un brivido percorse la schiena di Edgar, e le gambe gli prudevano dalla voglia di scappare a gambe levate, da quella voce e da quella giostrina che sembrava squadrarli dal fondo dello studio. Viole, al contrario, trovava il tutto stranamente emozionante. Perché era diverso. Viole amava tutto ciò che si discostava dalla monotona realtà a cui era abituato, tutto quello che per quanto potesse essere crudele, spaventoso o granguignolesco riusciva a solleticare il suo interesse. Si nutriva di stranezze, per lui le novità erano come l’aria che respiriamo, ogni cosa particolare che riusciva a stimolare la sua sempiterna noia poteva spingerlo a non dormire per intere notti.
-Spero voglia scusare la nostra impudenza, rettore. Abbiamo avuto una semplice svista del regolamento- iniziò Edgar, con voce reverenziale.
-Dovreste sapere che la tradizione e il regolamento sono le basi della nostra scuola.
-Solitamente la gente mi guarda in faccia mentre mi parla- interruppe Viole, con un sottile tono di sfida nella voce.
Edgar sobbalzò. Ma come osava rivolgersi così al rettore?! Era semplicemente follia! Guardò sconcertato il compagno, che sembrava del tutto tranquillo e a proprio agio. Certo che era strano forte … ma la cosa che strabiliò ancor di più Cole fu il fatto che il rettore non rispose. Semplicemente, non si mosse. E quello era particolarmente assurdo! Un uomo che era da dieci minuti nella stessa identica posizione, con la voce sdoppiata e che non puniva uno studente insolente. C’era qualcosa che non andava, decisamente.
Sentì un fruscio accanto a sé e si voltò sobbalzando. Con orrore, si avvide della mano di Viole che si allungava verso il rettore.

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Capitolo 3
*** L'automa ***


PARTE TERZA :
 Non cercò nemmeno di fermarlo, tanto era lo sconcerto. Rimase pietrificato, come una delle statue che decoravano il giardino all’italiana della scuola. La pallida mano di Viole, con la delicatezza propria dei petali di rosa che ondeggiano nell’aria, sollevò il mantello verdone che ricopriva le spalle dell’uomo con un gesto veloce e saettante. Quello che si presentò agli occhi dei due ragazzi fu decisamente scioccante. Il mantello andò a posarsi delicatamente al suolo, con un suono soffocato mentre sulla grossa poltrona altro non vi era se non un automa di ferro.
Un terribile senso di nausea pervase Edgar alla vista di quel manichino di ferro ossidato che sedeva compostamente al posto del rettore, con quel suo viso senza lineamenti e quel gelo unico che solo gli automi possono trasmetterti. Il ragazzo barcollò, la vista annebbiata da quello che gli stava davanti. Perse l’equilibrio e le sue ginocchia rischiarono di non reggerlo più. Il braccio di Viole gli si avvolse attorno alla vita poco prima che crollasse sul tappeto finemente intessuto. Edgar rischiò di soffocare, sentendo il braccio dell’altro premergli attorno alla vita. Viole MacMillan lo stava stringendo tra le braccia. Poteva anche morire in quel momento.
-Ma che diavolo è?- biascicò il marchese, rendendosi conto di avere la bocca secca come il deserto.
-Un automa- rispose secco Viole. A dir la verità, l’ipotesi che al posto del rettore vi fosse un automa si era fatta largo nella sua mente già da prima, quando gli aveva lanciato apertamente il guanto. Certo che da una semplice fantasia a un vero automa … beh, ce ne passava. Socchiuse gli occhi, osservando il finto rettore. Dando un’occhiata preliminare, pareva decisamente un fantoccio ben fatto, anche se i tratti del viso erano appena accennati. Avrebbe dovuto studiarlo più a lungo. Solo in quel momento si rese conto che aveva Edgar ancora avvinghiato addosso; sospirò e se lo scrollò di dosso. Anche lui che va ad acchiapparlo manco stessero ballando …
-Che si fa?- la voce di Edgar suonava alterata e leggermente terrorizzata. Viole al contrario non era propriamente spaventato quanto … stupito. Ecco, stupito. Insomma, dov’era finito quell’idiota del rettore?! Fondamentalmente era indispettito. Avevano scambiato il preside e lui non l’aveva capito?! Stava perdendo colpi … per colpa di quei maledetti occhi azzurri che da un po’di giorni non lo lasciavano quietare, come un’oscura presenza che lo perseguitava anche nei sogni. Altra domanda : perché diavolo quello stupido marchese cominciava a popolare i suoi incubi?! Il ragazzo scrollò la testa e borbottò, avvicinandosi all’automa, che ora giaceva silenzioso sulla poltrona
-Guarda che fuori non ci sia nessuno, controlla bene e fai da vedetta, io devo studiare la situazione. Se c’è qualcuno fischia e ce la filiamo.
Edgar alzò le sopracciglia perfette leggermente stupefatto, ma obbedì e senza esitazioni si diresse verso il portone.
Viole si avvicinò all’automa e lo studiò, ritraendolo sul suo blocco. Molto semplice, elementare, quasi infantile. Accarezzò con delicatezza il metallo freddo e una serie di brividi gli percorsero il braccio. Ma da dove proveniva la voce? Guardò la schiena del burattino e si rese conto che  non vi era nessuno dispositivo che avesse potuto riprodurre la voce. E allora da dove veniva?
-Oh Cristo Santo!
Lo strillo di Edgar lo fece riemergere dalla scrivania
-Che c’è?
-La porta è … chiusa. Siamo imprigionati qua dentro!
Viole balzò in piedi e si fiondò vicino al suo compagno, osservando il portone e tentando di aprirlo. In effetti, era chiusa a chiave.
-Ma ci hanno chiuso dentro i prefetti?- disse stizzito il marchese, sentendo lo sguardo vuoto dell’automa sulla sua schiena.
-Impossibile- Viole si voltò a guardarlo, scostandosi i capelli dal viso – La porta è chiusa dall’interno.
Il marchese rimase per un secondo a bocca aperta
-Quindi … noi …
-Esatto, Cole. Qualcuno ci ha chiusi qui, ma qualcuno in questa stanza, e si è portato via la chiave.
-Ma il tuo ragionamento non ha senso, MacMillan! Non c’è nessuno qui!
-E allora come lo spieghi questo?!- Viole sbuffò facendo un giro nervoso su se stesso
-Non lo spiego, semplicemente. Ma sai, stare in una stanza chiusa con un automa non è proprio il massimo e poi c’è quello!- Edgar puntò un dito accusatore verso la giostra che posava come prima sul camino.
-E ora che c’entra la giostra?- ribatté Viole, stringendosi il mantello sulle spalle.
Edgar alzò gli occhi al cielo sbuffando nervosamente e cominciò a girellare per la stanza, tormentandosi le mani. Viole diede un calcio alla porta, ma, com’era prevedibile, non ottenne risultati.
-Si può sapere da dove veniva la voce allora?!- Edgar era isterico. Decisamente. Non ottenendo risposta, si voltò verso Viole e lo trovò seduto per terra intento a raffigurare la scena su un foglio con aria deliziata
-Ma ti pare il momento di trastullarti con i dipinti?!
-E cosa pensi di fare, genio? Comunque non mi sto “trastullando”, sto semplicemente creando una testimonianza della nostra avventura. Prego, stai fermo così che sei perfetto!
Viole era convinto che quel poco di divertimento che la scuola offriva bisognava prenderlo al volo. Chissà quando avrebbero avuto l’occasione di divertirsi così tanto …. E chi se ne importa se erano in una stanza chiusa dall’interno con un automa che parlava misteriosamente. Finché c’era da divertirsi perché non approfittarne?
Edgar al contrario aveva i nervi a fior di pelle e tentava di darsi una risposta che puntualmente non arrivava. Aveva paura, ok? Voleva mettere il cuore in pace, convincersi che sarebbe andato tutto bene, che c’era l’erede dei protettori della Corona con lui e che presto li avrebbero tirati fuori, che … un bel niente. Come un ombra quatta e malefica, la paura serpeggiava dentro di lui, viscida e strisciante. Respirò forte, imponendo al suo cuore di calmarsi
-Hai paura, Cole?- la voce tranquilla e annoiata di Viole irritò decisamente il marchese. Decisamente, lo faceva andare in bestia la sua tranquillità e la sua apatia. Una creatura insensibile come quella non l’aveva mai vista.
-Non ho paura.- la voce di Edgar suonò assolutamente più inferma di quanto lui avesse desiderato. Con un fruscio, il conte gli fu accanto, il viso distorto in un sogghigno che aveva un non so che di sadico. Edgar aveva la convinzione che Viole sapesse qualcosa più di lui, qualcosa che solo il dannato conte poteva capire e dalla cui si divertiva a tenerlo all’oscuro.
Viole piroettò lentamente su se stesso e si diresse rapidamente verso la giostra. La sfiorò con reverenza, passando le dita sugli smalti. Così brillanti, così terribilmente perfetti … la prese tra le mani e la portò vicino a Edgar
-Che vuoi farci?- rispose quello, con aria indagatrice
Viole non rispose, abbagliato dalla perfezione degli arti dei cavallini. Dalle rifiniture degli occhi, dei muscoli guizzanti, dei pennacchi colorati. Osservò rapito il tettuccio della giostra, a righe rosse e gialle. Splendide, meravigliose, inarrivabili. Doveva ritrarle; il momento era suo,
-Parla- aveva la voce bassa, strozzata – Parla!- ripetè a Edgar, alzando di poco la voce. Bramava la voce poetica del compagno come un pesce brama l’acqua; lo desiderava, quella voce delicata che gli raccontasse quello che i suoi occhi non potevano vedere, che esprimessero quello che il suo gelido cuore non voleva esprimere.
Edgar rimase un secondo interdetto, ma poi iniziò a parlare
-E’ una giostra … rossa, rossa come le rose che fioriscono d’estate. Rossa come il sangue che scorre sulla pelle degli amanti, rossa come il tramonto che preannuncia l’eterna morta del sole, rossa come  il melograno di Persefone, catena invisibile che la lega al regno degli Inferi. Bruciante come l’inestinguibile fuoco delle Vestali romane, ardente come la passione spropositata, dolce come il succo di melograno che disseta le gole dei morti. E’ una giostra gialla come un canarino costretto in una gabbia, gialla come il sole brillante nel cielo che risplende sulla rugiada, gialla come gli esotici limoni dei paesi dove il sole ustiona le pelli delle genti. E’ una giostra colorata, tinta del blu notte che come un enorme rapace notturno avvolge la terra alla morte del sole, come quel buio che ustiona gli animi, come l’oscurità, immonda madre. E’ la giostra colore dell’ …
Edgar venne interrotto da Viole. Sobbalzò.
-Senti, mi dispiace interromperti ma … credo che quello sia particolarmente interessante.
Lo sguardo di Edgar fu guidato fino al grosso e imponente camino che decorava la parete ovest dello studio. La polvere si era sollevata in aria, volteggiava come le delicate fanciulle durante un valzer e si posava sul pavimento con leggerezza. Una frase di polvere apparve sul tappeto persiano :” Entrate”.
I due ragazzi si scambiarono un’occhiata agitata. Entrare? Polvere? Ma che …
Un sordo cigolio squarciò il silenzio tombale calato nello studio. Il camino girò lentamente su se stesso, scuotendosi di dosso chili di polvere. Un sonoro clack annunciò l’apertura completa del camino, rivelando una voragine oscura. La povere cambiò forma e divenne una freccia che indicava l’interno del camino.
-Oh Sant’Iddio!- Edgar si coprì la bocca con le mani, sconvolto. Non era possibile, o no, non era possibile, lui …
Viole al contrario si avvicinò incuriosito alla voragine e notò delle strette scale di pietra che si snodavano nel buio. Il giovane cadde vittima di una spropositata curiosità. Cosa ci sarebbe stato là infondo? Che li avrebbe aspettati? Che altra meraviglie gli avrebbe riservato?
Mosse un passo sulla scala umida e una serie di candele si accesero nell’oscurità perdendosi in lontananza.
-Vieni, Cole, muoviti.
-Ma tu sei fuori MacMillan! Vieni via da lì!- strillò Edgar terrorizzato.
Non ottenne risposta, vide solo il mantello dell’altro che scivolava silenzioso nella scala. Si guardò attorno e vide l’automa che pareva sorridere, la giostra che cominciava a girare e un dipinto sulla parete che pareva muoversi. Viole era scomparso.
Edgar scattò all’inseguimento del compagno, lasciando che il pesante camino si chiudesse pesantemente alle sue spalle e che la giostrina cominciasse a girare da sola, spandendo nello studio vuoto un’angosciante musichetta.
 
 
 

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Capitolo 4
*** Il giardino ***


PARTE QUARTA : IL GIARDINO
Edgar si ritrovò circondato dall’oscurità più nera e soffocante, incerto sulle gambe. Vedeva perdersi in lontananza piccole fiammelle, lungo una stretta scala scivolosa. Toccò le pareti strette e opprimenti, di pietra bagnaticcia. Quanta umidità aleggiava in quel passaggio segreto! Chiamò a bassa voce il suo compagno di sventura, pregando silenziosamente che fosse ancora nei paraggi e che non si fosse avviato troppo nei meandri di quel cunicolo
-Viole! Sei ancora         qui?! Viole!
-E piantala di strillare Edgar sono qua sotto!
Edgar non seppe se rallegrarsi per la presenza di Viole o se offendersi per essere stato trattato ancora una volta come uno sguattero appena assunto. Decise di lasciare correre e si affrettò per i gradini scivolosi, finché non raggiunse il conte che lo aspettava con aria annoiata. I due si guardarono con un misto di ansia mista a voglia di avventure e si avviarono silenziosamente giù per le scale. Più si addentravano, più l’umidità cresceva e più le candele si infittivano. Ora che la misteriosa galleria era illuminata, i due ragazzi poterono constatare che era completamente scavata in quella che pareva ossidiana. Roccia nera, vetrosa, smerigliata, muschiosa, gelida. Nessuno dei due osava parlare, semplicemente camminavano fianco a fianco da quando il cunicolo si era allargato e spianato. Probabilmente ora sarebbero usciti, siccome una vampata di aria fresca aveva sferzato delicatamente i loro volti. Affrettarono senza rendersene conto il passo, curiosi di sapere dove sarebbe sbucata quella galleria misteriosa. Nei giardini? In un aula? Nella sala grande? Nell’aula dei professori? Eppure, erano scesi talmente tanto … pareva quasi di essere scesi al livello delle cantine. Che fosse la strada segreta del rettore per andare a ubriacarsi? Che fosse … milioni di interrogativi danzavano nelle teste dei due, mentre si avvedevano di una pallida e fredda luce in fondo al corridoio. Si scambiarono un’occhiata emozionata, carica di curiosità. Aumentarono il passo, verso la luce che inondava la fine del cunicolo. Giunti alla fine, si resero conto che la luce che li aveva avvisati della fine del passaggio proveniva da quella che pareva … una luna?! Eppure dovevano essere le sette di sera, non poteva già essere sorta la luna.
-Viole, ma secondo te usciamo fuori dalla scuola? Perché sai … - iniziò Edgar.
Viole non lo ascoltò nemmeno e si immerse nella luce lattea che li attendeva al varco. Sbucò fuori, all’aperto, accolto da una brezza gelida che sembrava soffiare direttamente dalla luna, gigantesco occhio ciclopico che riluceva in mezzo al cielo notturno. Tese il collo e si avvide di trovarsi all’ingresso di un giardino fiorito, ben curato.
-Ma io non sapevo che a scuola ci fosse un giardino così bello!- esclamò Edgar, piombatogli vicino. Viole alzò gli occhi al cielo : ma possibile che non sapesse tenere la bocca chiusa?! Erano sul gradino più alto di una breve scaletta di pietra che portava in un viale acciottolato circondato da archi composti di enormi rose fiorite. La porta che avevano appena traversato, anch’essa di pietra grigia, era finemente scolpita. Piccoli fauni guardavano verso la grossa iscrizione che troneggiava sull’arcata. Tutto intrecciato da grossi fiori blu e delicati serpenti che si protendevano verso l’iscrizione, la quale riportava scritto, con caratteri talmente arzigogolati che i ragazzi fecero fatica a decifrare “La vita che cos’è, se non un sogno?” Viole fece un rapido schizzo di ciò che lo circondava mentre Edgar fissava intensamente un piccolo fiore blu, che colpito dai raggi pallidi della luna, si tingeva dello stesso verde degli occhi di Viole. Fu quasi tentato di prenderlo e di appuntarglielo sul mantello quando un sordo rintocco li fece sobbalzare. Pareva quasi il triste rintocco delle campane da morto che si sentivano a volte nelle bucoliche campagne intorno a Londra. Si voltarono simultaneamente verso il corridoio di rose e notarono un piccolo corvo nero come l’inchiostro inchinarsi maestosamente al loro cospetto, abbigliato con un colorato papillon a strisce e un elegante paio di ghette.
-Se lor signori vogliono seguirmi … - gracchiò il corvo, alzando lo sguardo su di loro.
I due ragazzi ci misero qualche secondo a registrare il fatto di avere veramente un corvo parlante vestito di tutto punto davanti.
-Ma … ma … Viole, che significa?- Edgar si voltò verso il compagno con gli occhi fuori dalle orbite. Non era possibile … assolutamente no … era un terribile incubo, sicuramente, non poteva essere vero, i corvi non parlavano, lui era …
-Cerca di non essere sconveniente Edgar – gli sussurrò Viole, con uno strano sorriso stampato in volto, a metà tra il sarcastico e il serio –Se sua Grazia volesse gentilmente comunicarci il luogo dove siamo stati così gentilmente invitati … - disse poi rivolto al corvo, atteggiando le labbra a un sorriso che aveva un qualcosa di irriverente e terribilmente oscuro, come ebbe modo di notare Edgar.
-Ma mio Conte, non è il caso di chiamarmi Grazia … sono solo un umile paggio, che risponde al nome di Esso. Vorrei introdurvi al Regale banchetto del Solstizio di Mezz’Inverno, al quale siete stati formalmente invitati da coloro la quale identità è segreta ai comuni mortali.
-Scusatemi, Esso, non vorrei sembrare maleducato, ma precisamente, quando ci è arrivato l’invito?- interruppe Edgar, schiarendosi la voce e dandosi un contegno. Era comunque il prossimo maggiordomo reale, doveva essere pronto a qualunque situazione. Per quanto incredibile fosse.
-Vi è arrivato, graziosissimo Marchese, la prego guardare nel suo taschino.
Viole e Edgar si guardarono stupefatti e infilarono meccanicamente la mano nel taschino del panciotto, da dove ne trassero due delicati biglietti di carta di riso, finemente decorati con inchiostri rossi e verdi e sui quali vi era scritto, in una complessa e arzigogolata calligrafia
“E’ ufficialmente invitato al Grande Banchetto del Solstizio di Mezzo Inverno, la notte delle Calende della settima luna”
-Solstizio di mezzo inverno?! Ma noi siamo a Maggio!- esclamò Edgar, spalancando gli occhi azzurri.
-Taci, Cole, piantala di essere così convenzionale!- lo rimbrottò Viole, guardandolo in tralice
-Ma mi hai detto tu di esserlo!- ribattè il marchese, non capendo più nulla. E poi da dove veniva quel vago profumo di miele e di orchidee?
-Non hai capito niente, come al tuo solito. Sii educato e cortese come sempre, ma sappiti adeguare alla bizzarria di questo mondo come si addice a un vero lord inglese dell’alta società.
-Sinceramente, Viole, non avrei mai immaginato che saresti stato tu a farmi certi discorsi … - commentò Edgar assumendo un’aria il più possibile adeguata.
-Infatti non ti avrei mai fatto un discorso simile, se non si fosse presentata quest’occasione e siccome so che tu sei facilmente impressionabile, è meglio che ti bacchetti come farebbero i nostri professori. Quindi, schiena dritta, sorriso serio, galanterie e assolutamente, bocca chiusa.
Edgar scosse la testa e si rassegnò a ubbidire a Viole, che puntualmente si mostrava come il genio che era.
-Bene, Esso. Guidaci allora.
Il corvo si inchinò blaterando una serie di parole senza senso e si avviò ballonzolando lungo il corridoio di rose.
-Ehm, Viole, ma è proprio tutto vero?- Edgar non riuscì a trattenersi dal prendere il pittore sottobraccio.
-Beh, Edgar, si da il caso che le probabilità che sia tutto reale sono decisamente alte. E comunque, anche fosse un sogno, sarebbe particolarmente strano il fatto che entrambi stiamo sognando la stessa cosa.
-E se invece tu fossi parte del sogno?
-E se invece di riempirti la testa di domande a cui ora non possiamo rispondere, ti dessi una calmata e ti stampassi sul viso il tuo splendido sorriso?
-E se tu ti decidessi a dipingere invece che sulle tele un sorriso sulle tue labbra? Non sarebbe poi male, non trovi, MacMillan?
Il conte si voltò verso il marchese con un’espressione di difficile interpretazione, e Edgar si ritrovò a pensare a come sarebbe stato splendente Viole se avesse tentato di sorridere e non si ostinasse ad avere sempre la stessa smorfia annoiata e sarcastica. --Se sorridessi, saresti il ragazzo più bello del Creato- sussurrò a bassa voce, anche se l’altro non lo sentì. Le sue parole si persero nel vento, furono soffiate alla Luna, dove giacevano tutte le cose perdute dagli uomini. Le sue parole si erano perse, come sempre. Perse nel vento e nel mare, verso il cielo nero come l’inchiostro. Ricordò un libro che gli avevano fatto leggere, un libro italiano del 1500, intitolato “Orlando Furioso”. Ser Astolfo era andato a recuperare il senno perduto di Orlando sulla Luna, dove giacevano in ampolle tutte le cose smarrite dagli uomini e ora lui era sicuro che su quel gigantesco occhio bianco vi erano mille ampolle con le sue parole e … parte di sé voleva cavalcare un ippogrifo, come ser Astolfo, andare a ripescare l’ampolla che recava scritto “Sorriso del conte Viole MacMillan” e riportarglielo, soffiarglielo delicatamente sul volto e bearsi dell’ottava meraviglia del mondo. Ma sapeva che per sua sfortuna era impossibile. Sempre che Viole fosse capace di piegare le labbra all’insù, avrebbe dovuto cavarglielo lui di bocca.
-Miei Signori, eccoci arrivati- annunciò il corvo, anticipandoli in una piazzetta circolare circondata da siepi fiorite – Mie Graziose Signorie, il marchese Edgar Cole e il conte Viole MacMillan ci onorano della loro presenza.
Viole si guardò velocemente intorno. Erano in uno spiazzo circolare dal pavimento finemente decorato, le siepi emanavano un fortissimo profumo di fiori esotici e esattamente davanti a loro stava un immensa tavolata imbandita come una merenda pomeridiana, alla quale sedevano ogni sorta di persone. O meglio, erano quelle persone umane? Il ragazzo ne dubitava fortemente. Imitò Edgar e si inchinò, lasciando frusciare il mantello per terra, il più graziosamente possibile.
-E così siete finalmente arrivati, milords.
Una risata gracchiante si levò, e un uomo dai lunghi capelli arancioni si alzò dal tavolo, dirigendosi verso di loro. Le mani di Viole fremettero, tanta era la voglia di dipingere le meraviglie che aveva davanti, eppure si trattenne. Edgar lo guardava spaventato, e sicuramente il pittore non lo rassicurava. Viole raccolse tutta la sua curiosità e il suo coraggio, inspirò una boccata d’aria che sapeva di miele e fiori, alzò la testa e disse, serio e composto come si addiceva a un vero lord inglese
-Ci scusiamo per il ritardo, milord.
-Siamo onorati di essere qui adesso- intervenne Edgar, stupendo non poco Viole. Era sicuro di dover fare tutto da solo … insomma, il marchese che per una volta si dimostrava intelligente … certo che non finiva mai di sorprenderlo. Viole realizzò in quel momento che Edgar era l’unica cosa che lo teneva legato a quel suo noioso mondo. Perché Edgar era un mistero per lui, ancora tutto da capire, da studiare, da realizzare. Quasi lo stupiva più il proprio compagno di viaggio che tutta quella strana faccenda.
-Miei Preziosissimi, non perdiamo tempo! Accomodatevi, forza- l’uomo indicò loro due posti vuoti attorno al tavolo, mentre tutta la tavolata li fissava sorridendo. Viole guardò per bene colui che li aveva accolti. Era un tipo alto, longilineo, vestito completamente di nero, dai capelli di un arancione quasi abbagliante che gli ricadevano fino sotto la vita, le mani ricoperte di strani disegni tribali e un viso affilato e pallido. Sorrideva, mostrando una dentatura decisamente troppo aguzza. Viole tentò di individuare gli occhi di quello strano figuro  sotto la frangia terribilmente lunga per poi ritrarlo, perché meritava sicuramente un ritratto, quando lo sentì esclamare, facendo addirittura tacere il vento
-Vi diamo il benvenuto al Grande Banchetto del Solstizio di Mezzo Inverno! Mio conte, mio marchese, ecco a voi … il Giardino degli Scacchi Caduti.
 

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Capitolo 5
*** L'orologio ***


I due ragazzi si scambiarono un’occhiata imbarazzata e si sedettero al tavolo, dove erano miracolosamente apparse altre due poltroncine rosse. Il servizio da the  era sicuramente di finissima porcellana di Sevrés, decorato da smalti blu e oro. Esso servì loro due tazzine, due piattini e due interessanti cucchiaini d’argento con sopra incastonati quelli che potevano essere enormi rubini. La ricca compagnia rideva sguaiatamente, e si lanciavano tazze di the e teiere madreperlate che venivano prontamente rifornite da corvi in ghette grazie a giganteschi samovar d’argento posizionate a gli angoli della tavola. Torte e pasticcini dall’aspetto succulento volavano per il tavolo, senza colpire nessuno e posandosi delicatamente sui piattini. Viole e Edgar si ritrovarono infatti con tre pasticcini al miele per uno posati ordinatamente sul piatto.
-Non mangiare nulla mi raccomando. Ho letto che chi mangia cose provenienti dal regno dei morti rimarrà per sempre incatenato lì- sussurrò Edgar, con aria saputa, quasi come fosse un pettegolezzo particolarmente succoso sussurrato nei salotti aristocratici.
Viole scosse la testa, ma si guardò bene dal toccare qualcosa. Lo sapeva anche lui che le leggende dicevano che bisognava guardarsi dal mangiare il cibo magico. E di rimanere per sempre lì, beh, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Decise di chiedere qualche spiegazione al tizio dai capelli rossi, che a quanto pareva, era il capo di tutta quella masnada, e magari di rispondere ad almeno una delle domande che danzavano nel suo cervello.
-Se mi è permesso, milord, potremmo sapere chi siete voi, così gentile da invitarci e chi sono questi incantevoli commensali che insieme a noi rallegrano questo delizioso banchetto?
Edgar rimase un attimo stupefatto. Come faceva il ragazzo che a scuola e normalmente era già tanto se si ricordava di salutare a mostrarsi come se fosse abituato a partecipare ala vita mondana londinese? Semplice. Aveva la faccia più tosta d’Inghilterra e un coraggio da far invidia a Riccardo Cuor Di Leone. Edgar sospirò guardando con aria sognante il viso pallido di Viole che risplendeva alla luce della pallida luna.
Il tizio con i capelli rossi, seduto su di un immensa poltrona argentata a capo tavola si alzò, facendo sventolare le chiome e facendo così alzare il vento. Un brivido percorse le schiene dei due ragazzi quando alcune camelie bianche che adornavano un albero poco distante precipitarono a terra, posandosi come ballerine dell’Opera. Un pesante profumo di oleandri riempì l’aria, con il loro odore che dava facilmente alla testa, inebriante e mortale.
-Mi perdonino allora la dimenticanza- l’uomo fece un inchino cerimonioso, facendo rilucere alla luna i denti affilati come rasoi – Nocche Digtheground, demone di prima categoria e alchimista del primo ordine dei sapienti.
-Più semplicemente, quello che ha ideato la Pietra Filosofale e tutti i danni che ne sono conseguiti- una voce acida si levò dal tavolo e un ragazzo vestito blu notte, dai capelli viola accuratamente intrecciati con perline colorate e gli occhi sapientemente truccati con stelle e lacrime si avvicinò ai due ragazzi.
Nocche Digtheground sbuffò e scostò poco delicatamente il ragazzo, per riottenere la scena, che però si rifece avanti e tese la mano pallida dalle lunghe unghie blu
-Il mio nome è Trickster. Onorato, conte. Onorato, marchese.
-Divinità minore di decima categoria, Trickster è il mio fedele servitore- intervenne Nocche con un sorriso il più possibile accomodante.
Edgar e Viole si scambiarono un’occhiata divertita a vedere l’occhiataccia di Trickster al capo e si voltarono verso i due, curiosi di sapere ch altro sarebbe emerso da quella strana avventura. La paura di Edgar sembrava quasi essere scomparsa. Che fosse stato per la magia, per i fiori o per la gente ch aveva intorno, beh, sicuramente si sentiva il cuore molto più leggero di quanto non lo sentisse a scuola.
-E’ già da qualche tempo chi vi osserviamo, nella vostra simpatica scuola al piano di sopra …
-Piano di sopra?!- Edgar non riuscì a trattenersi e ciò gli costò una fulminata da parte di Viole
-Certamente. Questo è TerraCapovolta, che t’aspettavi?- disse Trickster, alzando un perfetto sopracciglio verde.
-TerraCapovolta è il mondo di sotto, milords- intervenne Nocche – Voi umani state nel mondo vero, noi stiamo nel contrario. Vi osserviamo – qui il demone indicò una grossa sfera nera e turbinosa posata in cima a una colonnina di marmo – E valutiamo chi possa essere degno di entrare a TerraCapovolta.
-E sono passati centoquattordici noiose lune prima che si decidessero a far scendere qualcuno … non vi dico la noia … però ora ci siete voi … - una giovane donna si era aggiunta al gruppetto. Aveva la pelle chiara, dai riflessi bluastri, i lunghi capelli neri e due grandi occhi neri come l’abisso. Portava un sontuoso abito rosso e bianco, lacerato in più punti.
-Mi presento, Donna Cibele, al vostro servizio.- la dama fece frusciare il mantello cremisi sul selciato, lasciando intravedere le spalle nude. Viole e Edgar, da buoni gentiluomini inglesi, distolsero pudicamente lo sguardo
-E si può sapere cosa abbiamo di così interessante da stimolare la vostra solenne attenzione?- chiese Edgar
-E’ un discorso complesso, marchese, se – iniziò Nocche
-Dai, capo, riassumi! Primo, siete belli. Secondo, siete divertenti. Terzo, siete molto più svegli che quella manica di imbecilli che impestano l’Inghilterra. Quarto, boh, mi ispiravate- Trickster rise sguaiatamente, prima di venir afferrato per un orecchio da Nocche e rispedito al suo posto
-Beh, il vecchio Trick non ha poi tutti i torti, no?- miagolò Donna Cibele, accarezzando la guancia di Edgar. Il ragazzo volle sprofondare e si irrigidì istintivamente al tocco gelido della donna.
-E poi sono anche più vecchio di te!- ululò Trickster dal fondo della tavolata
-Ora basta!- urlò Nocche, con voce sinistra, e il silenzio più assoluto calò sulla tavola.
-Il momento è giunto, Mr. Digtheground- intervenne un paggetto corvo, giungendo svolazzante da sopra le loro teste. Viole avrebbe giurato di averlo visto calare direttamente dal bianco latte della luna.
-Il momento di far cosa?- chiese Edgar, con gli occhi brillanti.
-Meraviglioso!- esclamò Nocche, ignorando la domanda di Edgar e avviandosi a passo spedito verso la fontana di marmo sistemata alle spalle del banchetto. Tutti i commensali si voltarono a guardare con risolini eccitati.
La fontana riluceva di luce spettrale, mentre l’acqua zampillava argentina da mostruose figure di marmo raffiguranti diavoli e ninfe deformi. Nocche si inginocchiò di fronte alla fontana e tutti trattennero il fiato emozionati quando il demone affondò le lunghe braccia nell’acqua, che a contatto con la pelle diafana di Nocche si tinse di un inquietante color amaranto. Con un certo ribollio, il demone tirò fuori dalla vasca marmorea un grosso orologio d’oro, abbastanza rovinato.
-Ha tirato fuori il Painikòs Doima!- una serie di commenti eccitati cominciò a serpeggiare tra la gente.
-Viole, che cos’è?- chiese Edgar, tendendo il collo verso l’oggetto che Nocche teneva trionfo tra le mani nodose.
-Non lo so … - disse pensoso Viole. Ed era strano, perché lui solitamente sapeva tutto. Anzi, il fatto di non riconoscere l’orologio gli diede abbastanza sui nervi. Lo coglieva impreparato e Viole odiava essere colto alla sprovvista; doveva avere sempre più o meno tutto sotto controllo, sapere cosa stava succedendo per comportarsi di conseguenza. Non poteva mostrarsi “scoperto”.
Quando Nocche tornò al suo posto a capotavola, nuovamente calò un silenzio che si sarebbe potuto tagliare col coltello e il grosso orologio venne innalzato in modo che tutti potessero vederlo. Aveva tre quadranti, montati su una cipolla vecchia e rovinata. Ognuno dei tre quadranti aveva tre lancette e al posto delle ore dei disegni stilizzati. Le tre lancette del primo quadrante giravano velocissime, una in senso orario, una in senso antiorario e la terza andava avanti e indietro come l’ago impazzito di una bussola. Quelle del secondo quadrante facevano solo mezz’ora a testa, meno la terza che passava dalle 9 alle 3. Quelle del terzo rimanevano ferme, una sul 3, una sul 12 e una sul 9.
Dopo che tutti ebbero visto l’orologio, Nocche Digtheground aprì con delicatezza il secondo quadrante e disse, con voce bassa e suadente, con una nota melodiosa che rimbombò nella cassa toracica dei due straniti ragazzi.
-Windust, vieni.
Neanche il tempo di rendersi conto di cosa avesse mormorato il demone, che in uno sbuffo di fumo violaceo emerse al loro cospetto un ragazzino basso e magrolino, vestito con una grande tonaca violacea, dai capelli nero corvino arruffati sul viso lentigginoso
-Che c’è?
-Ma guarda, Viole! Sembra il tuo fratello minore!- urlò Edgar, sorridendo
Viole volle scomparire sotto il tavolo e arrossì, borbottando
-Ma che diavolo dici, Cole taci per l’amor di Dio!
Come poteva essere così infantile?! Come avrebbe potuto diventare il maggiordomo della Regina? Viole lo avrebbe volentieri schiaffeggiato se non fosse che era un gentiluomo e che tutto il banchetto li fissava con curiosità elevata
-E questi chi sono?- la voce di Windust, il nuovo arrivato dell’orologio, fece nuovamente voltare tutta la tavolata
-Sono quelli che abbiamo scelto! Nuovi di trinca, i più succulenti bocconcini di tutta la cara, vecchia Inghilterra.
Trickster si alzò e saltellò incontro a Windust, sorridendo sardonicamente
-Questi?! E io che ci faccio qui, allora?
Viole ritrasse rapidamente l’affascinante nuovo venuto.
-Windust, è dalla morte del mondo che fai questo sporco lavoro e ancora chiedi che ci fai qui?
-La morte del mondo? Ma noi … - attaccò Edgar, che evidentemente non si era stufato di fare brutte figure, pensò Viole con uno sbuffo.
-Dopo avrà le dovute spiegazioni, dolcissimo marchese- lo liquidò Donna Cibele, con un sorriso lascivo, che a Viole diede molto fastidio. Ma no, perché avrebbe dovuto dargli fastidio? Cioè, era Edgar Cole. La persona più appiccicosa e odiosa di tutta la Midford. Eppure quel sorrisino piacque molto poco al conte, che sentì risvegliare dentro al cuore una sorta di possessività nei confronti del compagno di sventure. Non ebbe modo di continuare a indagare sui suoi sentimenti, siccome Nocche aveva preso la parola.
-Ebbene, Windust, ti abbiamo chiamato per discutere della faccenda di TerraCapovolta insieme ai nostri onorevoli ospiti, il marchese Edgar Cole e il conte Viole MacMillan.
-Oh, quella storia. Speravo in qualcosa di meglio- brontolò il ragazzino, per poi voltarsi verso i due stupefatti ragazzi e tendere loro la mano
-Windust. Servo vostro, signori.
La prima cosa che Viole registrò quando porse la mano al demone e quando egli si liberò il delicato viso dai capelli, fu, con orrore e raccapriccio da parte del giovane conte, che Windust, al posto degli occhi, aveva due terribili orbite vuote.
 
 

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Capitolo 6
*** Le discussioni ***


PARTE SESTA : LE DISCUSSIONI
Viole fece fatica a non spalancare la bocca in una smorfia sconvolta. Non erano semplicemente vuote quelle orbite, erano … nulle. Ci si perse dentro per un attimo, nel’infinità di quel nero che non era nero e per quel secondo in cui lo fissò negli occhi poté provare nella sua stessa mente il senso di infinito e di inconcepibile profondità. Un terribile senso di vertigini lo colse, talmente forte da farlo quasi accasciare al suolo; c’era il nulla, ed era terrificante. Un qualcosa di talmente immenso e immortale da sconquassare la mente di un normale umano. Dentro c’era morte, vita, eterno ritorno e quell’infinità di concetti troppo forti per la nostra testa, tutti gli arcani, il sapere, i concetti del mondo. Quello che l’Umanità mai avrà era nascosto nelle orbite del demone. E meno male che era stato Viole MacMillan a vedere per un secondo tutto quell’orrore meraviglioso, che qualche possibilità di resistenza le aveva ancora nel sangue. L’eternità poteva uccidere, tanto vasta è la sua potenza di fronte all’essere umano.
Edgar, vedendo il suo amico barcollare, lo sostenne fissandolo interrogativamente:
-Viole, stai bene?
La voce di Viole, solitamente insolente, sottile e sarcastica si era trasformato in un sibilo tremolante e disturbato.
-Non guardarlo negli occhi, Edgar.
-Cosa? Viole ma che …
Il marchese venne interrotto dal miagolio di Donna Cibele
-Windust, ma come pensi di mostrare i tuoi occhi ai giovani umani? Potrebbero non reggere alla vista!
La strega fece frusciare il rosso vestito attorno a Edgar, lanciando a Viole un’occhiata fulminante. Viole se ne accorse, ma la ignorò. Non era proprio il caso di mettersi a litigare con una strega e ben che meno in quel momento.
-Giusto. Sono umani. Che stupido che sono! Vogliate scusarmi, conte MacMillan, per la mia poca accortezza.
Windust rimise a posto i ciuffi ribelli sugli occhi e si voltò verso Nocche che li squadrava severamente.
-Allora, Nocche? Che si mormora nel Giardino?
-Siediti, e ne parliamo. Conte, marchese, vogliate tornare ai vostri posti e finire di godervi il banchetto.
Viole e Edgar obbedirono senza fiatare, mentre tutta la tavolata si era voltata verso i due demoni che sedevano gloriosamente, e forse con aria melanconica, a capo tavola. I corvi si affrettarono a servire al nuovo venuto una grossa dose di quella che pareva torta ai mirtilli e che Windust attaccò voracemente, come un bambino davanti al dolce preferito. 
-TerraCapovolta non è più il mondo sicuro che era una volta. Corrono voci pericolose sul conto di alcuni traditori della “Bolla Sacratae”.
-Di sovversivi ve ne sono sempre stati- disse Windust, leccandosi le dita per rimuovere gli ultimi rimasugli di torta.
-Penso che tu capisca bene che se ora viene violata la Bolla, potrebbero esserci degli scompensi troppo gravi per poter essere cambiati da noi e dovremmo chiedere il Suo aiuto, cosa che non mi sembra il caso di dover fare.
-Ci stiamo fregando con le nostre stesse mani, gente. Se va avanti così, ci ritroveremmo a dover svegliare le Lontre della Tempesta. E quelle non le ho mai sopportate troppo- ridacchiò Trickster, nascondendo sotto il sorriso malandrino e la pesante maschera di trucco una certa aria preoccupata. Lui era il giullare di corte, non poteva mostrarsi preoccupato. Trickster l’aveva orami imparato : era il dio dei bugiardi, degli inganni e della frode, il patrono del divertimento, della finzione e del cieco scherzo. Per ciò non poteva mostrarsi preoccupato davanti a nulla; per quanto grave fosse stata la situazione, doveva continuare a fare dell’ironia e del divertimento. Anche se avesse assistito al processo dei suoi amici, non avrebbe potuto piangere, ma ridere. D’altronde, un giullare ci voleva sempre.
-Sei un angelo caduto dopotutto. Qualcosa potresti sempre fare- aggiunse Donna Cibele.
-Non sono un “angelo caduto”. Sono semplicemente un “demone divino”. Angelo caduto è un termine terribilmente obsoleto e pacchiano da usare, Cibele.
-Chiamati come vuoi, ma tanto rimani sempre quello che sei : la feccia più incredibile di tutto il Paradiso. Il dio dei traditori, di quelli che hanno perso tutto. Non so se c’è da vantarsi- ribattè velenosa Donna Cibele.
-Anche i perduti hanno un dio- concluse con noncuranza Windust.
-Cibele, smettila di importunare il nostro ospite- ordinò Nocche – Vedi cosa puoi fare, allora?
-Sospetti?- Windust, infilzò con un unghia una grossa ciliegia e se la portò alla bocca, in un gesto languido e calcolato.
-Parlare ora, non ci sembra il caso- la nuova voce, sdoppiata, fece sobbalzare Viole e Edgar. Quasi senza accorgersene, il marchese afferrò spasmodicamente la mano del conte. Quel freddo cadaverico, quella mano bianca dalle sottili vene e dai polpastrelli rovinati dal prolungato contatto con i colori a olio erano per Edgar la cosa più delicata che potesse esserci al mondo. Ricordava, come fosse il giorno prima, quando sua zia Anne gli aveva chiesto cosa fosse per lui la cosa più bella della scuola. Lui aveva esitato per un attimo, nella puntigliosa ricerca della cosa che più l’aveva colpito del giovane conte e poi aveva dichiarato, facendo impallidire tutti gli ospiti “La cosa più bella della nuova scuola, cara zia, sono le mani del mio compagno Viole MacMillan. Ha le dita più delicate e sublimi che abbia mai avuto il piacere di vedere. Mi basta sfiorargli le mani per sentirmi a casa.” Era piccolo, dannazione. Piccolo e innocente. Gli sembrava una cosa bella da dire, dolce. Non gli aveva riservato che astio da parte della sua bigotta famiglia; più gli anni passavano più Edgar si sentiva fisicamente e psicologicamente attratto da Viole, tanto che decise di confidarsi col vecchio giardiniere di casa sua. Gli aveva raccontato tutto, e il giardiniere si era limitato a ridere e a borbottare “Padroncino, se questo non è amore, io sono una capasanta”. Edgar aveva coltivato il suo “amore”, a detta del vecchio giardiniere, come un fiore delicato. Lo aveva annaffiato, protetto dalle intemperie, curato. Gli aveva parlato, come si parla a un grosso fiore malaticcio eppure bellissimo che ha difficoltà a sbocciare. Continuava a lavorarci ogni giorno, riservandogli un ritaglio di tempo ogni sera per vedere come cresceva.
Viole, dal canto suo, odiava ammettere che ora che Edgar gli teneva la mano, avrebbe voluto rimanere così, mano nella mano per sempre. Non sapeva nemmeno lui cosa provava per il marchese; cercava di convincersi di odiarlo eppure non ci riusciva, qualcosa di più forte dell’odio sorgeva dentro di lui quando si parlava di Edgar. Forse perché disegnarlo così tanto li aveva resi segretamente complici, e doveva ammettere che non era stupido come se l’era immaginato, solo … innocente. Talmente puro da sembrare cristallo, e talmente candido da incantare un’anima ribelle, scura e acida come quella di Viole. Viole non era innocente, tutt’altro. Come i suoi dipinti, che nel cuore avevano sempre qualcosa di sporco, di corrotto, di scorretto. Edgar no. Era tutto quello che Viole non era, quello che lo completava. Ricordava quando le sue sorelline gemelle, Deirdre e Morvenna avevano visto i disegni di Edgar e gli avevano chiesto, con i loro sorrisi cristallini “E’ il ragazzo che ti piace, Vì?”. Erano troppo piccole per capire cos’era l’amore, cos’era l’attrazione fisica, per capire le distinzioni tra i due sessi. Lui si era limitato ad annuire forzando un sorriso, per farle contente, visto che insistevano affinchè si trovasse qualcuno da amare. Non aveva mai accolto l’ipotesi di amare Edgar Cole, perché non era possibile. Dai, no. Anche se  in certi momenti, tipo quello, era tentato di dare ragione a Deirdre e Morvenna e ammettere che, forse sì : gli “piaceva”il marchese.
I due ragazzi si voltarono verso la nuova voce doppia che era risuonata nel silenzio del Giardino degli Scacchi Caduti. Apparteneva a due strani figuri, entrambi avvolti in grossi mantelli verde smeraldo. Erano due tipi dagli enormi occhi gialli, le lunghe lingue nere e biforcute che saettavano ogni momento e i capelli lunghi, bagnati e inquietantemente verde palude. I due si alzarono in contemporanea, facendo frusciare i mantelli
-Pain e Sorrow Forktongue- si presentarono, con un inchino. Inchinandosi, aprirono i mantelli, rivelandosi, in maniera molto poco consona, a torso nudo, con le gambe lunghe e secche fasciate in quelli che parevano pantaloni troppo stretti verde bottiglia. La cosa che più sconvolse Edgar, oltre al fatto della loro semi nudità, che non si addice a un vero gentiluomo, era la loro pelle. I visi, identici peraltro, erano fini e pallidi, delicati, ma dal collo in giù la pelle diveniva verde malato e completamente squamosa. Parevano serpenti. In forma umana.
-Perché non vi sembra il caso, gemelli serpenti?- sghignazzò Trickster.
-Lo dicono i Mocassini D’Acqua, che l’ora non è adesso- ribatterono in coro i due serpenti, facendo saettare le lingue.
-Scusate il loro linguaggio poco accurato, ma non sono abituati a discorrere con umani- intervenne Nocche Digtheground.
-Il cobra dagli occhiali non ha detto nulla. Noi non parliamo- ribatterono i due.
-Ehi, Edgar, hai notato che la voce sdoppiata dei serpenti è uguale praticamente a quella del rettore?- biascicò Viole.
-Che siano loro?- sussurrò Edgar, con gli occhi blu che brillavano di curiosità.
-Beh, non è un’ipotesi tanto peregrina.
-Che sia stato tutto un trucco per incastrarci e farci scendere qua sotto?
-Ci stavo pensando anche io, ma per averne la certezza dovremmo aspettare.
-E perché? Aspetta, glielo chiedo.
Viole non fece in tempo a dire una sola lettera che Edgar aveva esordito
-Mi scusino lor signori, ma io e il mio compagno vorremmo sapere se è causa vostra l’automa al posto del rettore e l’inganno della porta chiusa a chiave!

***
Volevo scusarmi per la lentezza degli aggiornamenti, ma non avevo ispirazione e senza quella non si va avanti. Il settimo capitolo arriverà prima di un mese, tranquilli.

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Capitolo 7
*** Il vortice ***


CAPITOLO SETTIMO : IL VORTICE

Un momento di tesissimo silenzio nel giardino. L’unica cosa che si muoveva erano le rose blu che ondeggiavano leggere sulle note di una musica muta.
-Mica scemo, il nostro eccellentissimo marchese.- la voce impertinente di Trickster si fece sentire, interrompendo la strana musica muta.
-Non mi avete visto, prima?- sorrise Cibele, facendo frusciare l’abito.
Viole ricordò, improvvisamente, il grande quadro appeso sopra la scrivania del rettore. Raffigurava una donna straordinariamente bella, avvolta in un pomposo vestito rosso e bianco. Come Donna Cibele, in effetti. Che fosse lei, lo spirito che aveva smosso la cenere, chiuso la porta e incantato la giostra? In che razza di perverso trucco magico erano finiti?
-Si, milady, se permette, l’abbiamo notata … è lei forse che ha provveduto a chiudere la porta a chiave?- chiese Viole.
-Certamente, mio conte. Ero sempre io, a vegliare i vostri sogni e le vostre meraviglie, a curare la vostra psiche contorta e le vostre idee sconsiderate e libertine.
Donna Cibele piegò le labbra rosse in una smorfia affettata. Aveva un che di sporco, nel modo in cui sorrideva, in cui i suoi occhi che parevano non avere pupilla si muovevano veloci per la tavolata, in cui muoveva le piccole mani ingioiellate.
In che senso vegliava i loro sogni? Viole corrugò al fronte. Non gli quadrava quella cosa … che i suoi sogni fossero sempre stati ideati da una seconda persona? Era un pensiero irrimediabilmente fastidioso. Non gli era rimasto più niente di suo se non sognare, e ora quella specie di maga voleva dirgli che nemmeno quello faceva per conto suo? Viole non era pronto ad accettarlo. In un mondo in cui lui era qualcosa di nocivo come le lumache per la lattuga, in cui non poteva far nulla se non subire, gli veniva portata via la sua ispirazione?! Le sue notti erano le sue ispirazioni per i disegni. Ci si perdeva dentro, in orrori e osceni incubi che nutrivano la sua mente perversa, in mondi in cui lui era qualcosa di più che un semplice studente.
Inconsapevolmente, Edgar pensava la stessa identica cosa. Lui era messo male, come maschio, come discendenza, come poeta maledetto. Il sogno era il suo modo per poter estraniarsi dal mondo crudele, in cui trovava le parole per i suoi lunghi poemi. Nel sogno poteva fissare Viole per ore senza stancarsi e senza dover fingere disinteresse. Se gli trascinavano via anche la notte con le sue meraviglie, cosa avrebbe potuto fare?
-Vogliate seguirmi- Nocche si alzò e invitò con un gesto autoritario i due ragazzi in un angolo più buio del giardino, non illuminato dalla luna.
C’erano solo due grandi poltrone rosso sangue, rovinate dall’usura, dove vennero fatti accomodare i due. Come per magia, apparvero altre due poltrone, dove Nocche e Windust si sedettero.
-Vi dobbiamo delle spiegazioni, forse- disse Windust, ingoiando con una smorfia golosa una grossa ciliegia ricoperta di glassa verde.
-Qualcuno ha violato la Bolla Sacratae- esordì Nocche, passandosi una mano tra i capelli arancioni.
-La che?!- se ne uscì Edgar, con gli occhi brillanti dalla curiosità.
-La Bolla Sacratae è un editto, un contratto, compilato molto tempo fa dagli uomini e dalle creature magiche. Consiste in un giuramento dei due mondi di non interferire l’uno con l’altro. Ovvero, voi umani non dovete interferire con le nostre attività e lasciarci compiere il nostro dovere. Noi, non dobbiamo creare problemi alla vostra società recandovi danni fisici e morali.
-Vì, perché io non ne sapevo nulla?- Edgar fissò il suo compagno con aria stupefatta e allo stesso tempo indispettita.
-Nessuno di noi ne poteva saper nulla, è una cosa segreta, razza di … e non chiamarmi Vì!- esplose Viole. Ok che era innocente, ma a tutto c’è un limite. non poteva uscire con quelle domande così, davanti a un diavolo, poi! E non poteva dargli un soprannome. Soprattutto non quello che gli davano le sue sorelle. Anche se doveva riconoscere che detto da lui assumeva una sfumatura terribilmente deliziosa …
-Però ti sta bene Vì! Comunque, voglia scusarmi per l’interruzione, la prego di continuare il discorso.
Nocche fece un sorriso di uno che la sapeva lunga, mettendo in mostra i denti aguzzi. Windust sorrise, il sorriso di un ragazzino che però nasconde, dietro la sua innocenza da bambino, qualcosa di già adulto. Il sorriso di uno che ha visto più cose di quelle che avrebbe voluto e dovuto vedere.
-Bene, allora, dovete sapere che qualcuno, di cui nemmeno noi conosciamo l’identità, ha rotto la Bolla Sacratae. Ha infranto il patto secolare che lega i nostri mondi, e ha cominciato a creare situazioni incresciose nel vostro mondo.
-Mi permetta, e noi cosa c’entriamo in questo?- chiese Viole, assumendo un’espressione a metà tra l’interrogativo e l’apatia, sua caratteristica principale.
-Siete umani, miei cari. E dovete scoprire cosa hanno fatto gli umani per far sì che il patto venisse rotto- spiegò Windust, guardandosi le unghie.
-Ehm, penso di non aver compreso appieno …. – balbettò Edgar. Cominciava a girargli la testa con quei discorsi e quelle meraviglie tutte nuove. E forse era anche colpa dei gelsomini che adornavano il gazebo dove erano sistemati.
-Le rispiego, mio Marchese – Nocche si accese un lungo narghilè, da cui uscirono volute di fumo rosa e arancione e si accinse a spiegar loro la situazione. – Qualcheduno nel vostro prestigioso istituto, ha infranto le regole della Bolla Sacratae, in qualche modo a noi sconosciuto, senza però esserne consapevole. Alcuni dei nostri “colleghi” più indisponenti verso la Bolla ha interpretato l’atto come l’infrazione del patto, e perciò si sentono liberi di compiere qualsiasi misfatto loro aggradi nel vostro mondo. Perciò ci servono due “infiltrati” umani che devono capire che genere di reato hanno commesso i vostri simili, riferircelo, e da lì noi troveremo le creature ribelli e le fermeremo, riconsacrando la Bolla una volta per tutte. Chiaro?
-Certamente. Molto chiaro e anche molto complesso … si potrebbe ricevere una copia di questa Bolla?- intervenne Viole, soppesando la situazione. Che forse la sua vita stesse prendendo una via decisamente più interessante? Se lo augurava vivamente, soffocato dalla noia delle convenzioni.
-Me ne dolgo, Conte MacMillan, ma ciò è impossibile. Comunque ora vi rimanderemo nel vostro mondo, perché l’ora è ormai vicina. Oltre al settimo battito non potete trattenervi al Giardino degli Scacchi Caduti. Domani, una persona vi recapiterà le istruzioni necessarie per cominciare la vostra indagine, che salverà il vostro mondo dalla distruzione e il nostro dall’onta che ne deriverebbe.
Edgar e Viole si guardarono con una punta di apprensione. O meglio, Edgar con una punta di apprensione. Viole semplicemente con apatia, la sua patina contro i sentimenti scomodi.
-Come faremo a riconoscere il messo?- disse Edgar, sentendo improvvisamente un caldo terribile che gli fece venir voglia di spogliarsi completamente.
-Si farà riconoscere lui, state tranquillo.
All’improvviso un grosso corvo in livrea atterrò vicino a loro, si mise a posto la marsina, si schiarì la gola e declamò
-I signori Conte e Marchese sono gentilmente invitati a lasciare il Giardino degli Scacchi Caduti. Il settimo battito è scoccato, e oltre non possono trattenersi.
-Bene, dov’è l’uscita?
Edgar non fece in tempo a finir la frase che, con un turbine di petali di rose blu terribilmente profumate e sulle ultime note della voce di Nocche che si congedava deferentemente, i due ragazzi vennero sollevati in aria.
L’ultima cosa che videro fu il banchetto dove gli invitati li salutavano festosamente, e poi svennero.

****
SCUSATE PER IL RITARDO. Davvero, mi sento uno schifo ad aggiornare così lentamente e vi ringrazio da morire per la pazienza che dimostrate nei miei confronti. Siete unici davvero! Spero (e non prometto) che il prossimo capitolo arrivi a fine giugno e non tra due mesi ... beh, un bacio a tutti e grazie infinite. Anche i miei personaggi mi odiano perchè li muovo poco :(

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Capitolo 8
*** L'abbraccio ***


PARTE OTTAVA : L’ABBRACCIO

Comunicazione di servizio per i miei amati lettori, che ringrazio infinitamente: intanto, scusate il ritardo, come al solito (il bradipo che c’è in me è tornato e non lo sconfiggerete facilmente). I capitoli, per motivi tecnici di computer e montagna senza linea, saranno pubblicati ogni due settimane (fosse vero, pensano i lettori), se riesco anche settimanalmente ma ne dubito fortemente.
Grazie e a presto.

 

Quando Viole aprì gli occhi, sentì un terribile mal di testa colpirgli le tempie. Sbatté le ciglia, tentando di capire dov’era finito. Gli sembrava di essere sospeso in una bolla d’acqua, dove tutti i suoni erano attutiti, e dove pareva impossibile potersi muovere. Tentò di girarsi, su quella cosa morbida dov’era adagiato e sentì qualcosa di caldo circondargli le spalle, qualcosa di così terribilmente rassicurante che il ragazzo non avrebbe voluto più alzarsi. Chiuse di nuovo gli occhi, crogiolandosi in quel calore e in quel qualcosa di indefinito che stava abbracciando e da cui si stava facendo abbracciare. Profumava di rosa, di colonia, di inchiostro e di mirtillo, sempre che il suo naso non l’ingannasse. Profumava di casa, di sicurezza, di una dolcezza che a Viole era sempre mancata, emanava la sottile fragranza dell’innocenza e della protezione. Viole sentiva la testa girare piano, sempre più piano, costringendolo quasi a stringersi e ad abituarsi a quello che pareva un abbraccio metafisico. Voltò il viso, posandolo su qualcosa di pulsante. Una pulsazione leggera, lontana, eppure presente, rassicurante, insieme a un tocco indefinito a cui le sue gambe stavano avvinghiate. Si sentiva al riparo da qualunque cosa, attaccato alla forma invisibile che lui toccava, si sentiva la testa finalmente vuota dalle preoccupazioni, le tensioni delle mani e delle spalle sciolte, il respiro regolare dopo tanti anni di respiri sconnessi, il battito del cuore regolare e non ballerino come sempre. Avrebbe voluto non sciogliersi mai da quell’abbraccio, ma sotto di lui si mosse delicatamente qualcosa. E i suoi occhi si spalancarono, di nuovo vigili e attenti, quando una voce soffocata, che conosceva sin troppo bene mormorò
-Ma che diavolo è successo?
Viole si immobilizzò. Quella voce … no, non poteva essere, non … si drizzò di scatto, con una lancinante fitta alla testa e agli occhi ma nonostante la vista leggermente annebbiata, si rese conto di essere ancora avvinghiato a Edgar Cole.
-Oh Cristo!- imprecò a mezza voce, scostandosi i capelli dal viso.
-Viole, si può sapere che … oh Santa Madre!
Anche Edgar fece un sobbalzo. Viole?! No, cioè, lui aveva appena dormito stretto a Viole MacMillan? Eppure, gli era piaciuto così tanto bearsi di quell’abbraccio, di quel calore che lo aveva scaldato sin nel cuore, lasciarsi invadere le narici da un profumo di pittura, muschio, rosa e dannazione che solo, effettivamente, Viole poteva emanare.
-Dimmi che non abbiamo dormito insieme- mugugnò, anche se il suo cuore avrebbe voluto dirgli “Forza, Viole, smettila e torna a letto”. A volte, aveva sognato di dormire con lui, doveva ammetterlo, e spesso al risveglio non era stato particolarmente contento di trovare solo lenzuola fredde. In quel preciso istante, in cui Edgar era consapevole che la sua vita non sarebbe più stata la stessa, avrebbe davvero voluto che quella specie di idillio con il suo nemico durasse ancora. E forse, sarebbe stato il primo a dirgli chiaro e tondo “Voglio dormire con te”. Anche se sapeva già la risposta offesa di Viole.
-Direi proprio di si- borbottò l’altro, acido come il limone. Nonostante tutto, il Conte però sapeva, anche se faticava ad ammetterlo a se stesso, che se avesse potuto si sarebbe gettato nuovamente tra le braccia di Edgar, senza pensarci, seppellendo anni di odi e insulti silenziosi. Avrebbe copiato i quadri che faceva di notte per auto conciliarsi il sonno, che raffiguravano sempre e solo il Marchese in camicia da notte, sdraiato a letto, intento ad abbracciare qualcuno di cui non era data sapere l’identità, ma che, ad occhio attento, avrebbe rivelato avere capelli neri tendenti al violaceo, sotto certe luci. E l’unica persona ad avere capelli lunghi, neri tendenti al violaceo era Viole. Che nei dipinti non appariva mai veramente, se non per indizi, come i ciuffi di capelli che uscivano da sotto le coperte e Edgar che lo abbracciava stretto. Dipinti sbagliati, perversi. Dipinti dannatamente giusti. Viole tentò di soffocare la voglia di rifugiarsi nei capelli biondi dell’altro, di continuare a dormire tra le sue braccia, dormire finalmente, dopo mesi di sonni agitati, fastidiosi, notti passate a vagabondare, a disegnare, senza riuscire a dormire veramente. Aveva solo bisogno di sonno, e se a quel punto solo il Marchese poteva darglielo, lui se lo sarebbe preso.
-Beh, io … non so … allora … - balbettò Edgar, fissando gli occhi verdi del ragazzo. Nessuno dei due accennava a muoversi dalla loro posizione ambigua, ancora semi incastrati. Sapeva, eccome se sapeva, che se per caso qualcuno fosse entrato in quel momento, sarebbe stata la loro Fine. Ma, buffamente, non gli importava minimamente. Che lo cacciassero, esiliassero, diseredassero: finché poteva stare così bene, niente lo avrebbe toccato. Finché aveva Viole lì vicino, niente sarebbe potuto andare storto.
-Allora freghiamocene, Edgar.
E Viole gli si ributtò addosso, incurante di tutto, di nuovo menefreghista come al solito, anticostituzionale, rivoluzionario scanzonato, testa matta che andava contro tutto e contro tutti. Edgar se lo ritrovò di nuovo tra le braccia, le gambe incastrate, il viso pallido del pittore perfettamente nascosto nel suo collo, le mani a stringerli il gilè e solo i capelli a testimoniare che fossero una cosa diversa e non un unico ammasso umano.
Edgar trattenne il fiato per un attimo. Bene, perfetto, il futuro maggiordomo della Regina a letto, seppur senza losche intenzioni, con un membro dell’inquietante e misteriosa casata MacMillan mentre tutti gli studenti erano in refettorio … se suo padre, o un suo qualunque familiare, lo avesse visto lo avrebbe diseredato a vita. Ma in quel momento non gli importava più di tanto. Anzi, che lo diseredassero pure, a quel punto, se poteva avere la sua Musa Ispiratrice direttamente in braccio. Sospirò rumorosamente, rilasciando il fiato trattenuto: avrebbe scommesso il suo intero patrimonio che erano stati i demoni di TerraCapovolta a farli svegliare in quell’incresciosa posizione. TerraCapovolta, quell’inquietante mondo nascosto sotto la loro scuola. Chi avrebbe mai potuto pensare che esistesse una terra parallela dove era sempre notte ed era sempre l’ora del the? E chi avrebbe mai potuto pensare che addirittura quel mondo avesse stretto un patto con il mondo normale? E, ancora, perché andare a scegliere proprio loro due? Un sacco di domande ballavano il valzer nella testa del giovane Marchese, senza lasciargli chiudere occhio. Girò lentamente la testa e guardò il viso di Viole addormentato. Sembrava così diverso dal Viole a cui era abituato: questo qui era più dolce, più fanciullesco, più innocente. Quando apriva gli occhi, cambiava tutto. Si trasformava; diventava di una bellezza tossica, sbagliata, adulta. Come se si rompesse un vaso di cristallo e ne uscissero fuori enormi serpenti cobra. Con che coraggio, con che forza poi riusciva a dormire? Come poteva anche solo riuscire a riposarsi tranquillamente dopo tutto quello che era accaduto loro? Come?! Ma forse era quello il bello: quello che faceva di Viole quello che era.
Edgar ripassò mentalmente gli strani personaggi che avevano incontrato, a partire da Nocche e dai suoi modi galanti e appiccicosi, per poi passare a Trickster e alla sua villania condita dal sarcasmo, passando per Donna Cibele, viscida e lussuriosa come le peggiori donne di malaffare che abitavano i Docks, osservando Windust e la sua fanciullezza rovinata e finendo con Pain e Sorrow dagli occhi gialli e la parlata villica. Che mondo strano, assurdo, fuori dalle righe. Eppure pareva talmente bello, senza pensieri, oppressioni, ognuno libero di mostrare il proprio Io senza aver paura di essere diseredato, additato, portato in tribunale. Tutto così nuovo per Edgar da costituire per lui un sogno a occhi aperti, un meraviglioso sogno dal quale non si sarebbe voluto svegliare. Ma si era già svegliato. Gli effetti magici erano finiti, dissolti come nebbia al mattino, lasciandoli al freddo del letto del dormitorio dell’odiata scuola.
-Signor Marchese?
Una voce doppia, soffocata, acuta, fece sobbalzare Edgar e con lui Viole, svegliato dalla gomitata che gli era stata rifilata.
-Ma sei idiota? Mi tiri le gomitate adesso?- sbottò Viole, mettendosi seduto e stropicciandosi gli occhi, sporcandosi irrimediabilmente le mani di trucco.
-Scusa Vì, ma ti giuro che ho sentito una voce!
Edgar, che nonostante tutto quello che avesse appena passato, rimaneva comunque un ragazzo impressionabile, si nascose dietro la schiena del Conte.
-Ma te la sarai sognata- biascicò Viole, scostandosi i capelli dal viso troppo pallido.
-Ah, e vieni anche a parlarmi di sogni dopo che ci siamo praticamente finiti dentro?
Viole alzò gli occhi al cielo, si schiarì la voce e disse, con tono annoiato:
-Se c’è qualche sogno vagabondo in questa stanza, è pregato di palesarsi ora, se no il nostro caro Marchese se la fa sotto, e, sapete com’è, non so come riusciremo a spiegare tutto ciò ai nostri compagni di dormitorio.
-Ma Viole! Che linguaggio!- Edgar si dimenticò immediatamente di aver paura e fissò l’altro ragazzo negli occhi. Verde dentro azzurro.
-Dai, Edgar, non sottilizzare … - Viole lo liquidò con un gesto della mano e uno sbuffo seccato.
-Io sottilizzo eccome! Stavi parlando come una di quelle losche persone che abitano nei Docks, ovvero un linguaggio che non si addice a uno della tua estrazione sociale. Mi chiedo anzi come tu possa … - Edgar si interruppe un secondo. Viole gli lanciò un’occhiata interrogativa e il Marchese esplose, arrossendo di colpo – Viole oddio, ho capito! Non mi dirai che … che vai con quelle infide donne di malaffare che si vendono per pochi soldi!
-Si, infatti. Eh, non te l’ho detto perché mi sembrava volgare, ma io vado spessissimo con le ragazze che battono giù i moli.
-Come?!- Edgar sentì le lacrime affiorare – Mi … mi prendi in giro, vero?
Viole volle sprofondare. Dio, ma quanto era stupido Cole?!
-Razza di deficiente, io non vado a donne!- urlò.
-Ah, meno male. Mi ero preso un colpo- Edgar si ritrovò a sospirare segretamente di sollievo, e si rasserenò di colpo. – Comunque, ciò non toglie che tu usi parole non adatte. Come le hai imparate?
Viole sospirò profondamente, trattenendosi dal non tirargli uno schiaffo e rispose
-Se tu di notte non dormissi come un ciocco, potresti seguirmi nei Docks. Per vincere la noia a volte prendo e vado al porto. Non faccio niente di strano, semplicemente faccio un giro, parlo con chi mi capita, a volto gioco a carte, a volte resto ad ascoltare storie. Vita vera, Edgar.
-Ora non mi prendi in giro, vero Viole?
-No, ora no.
I due ragazzi si guardarono un po’, scrutandosi a vicenda, finché Edgar non sussurrò, talmente piano che quasi non si sentì da solo
-Beh, sembra divertente …
-Lo è. È molto divertente.
Edgar abbassò lo sguardo, mentre Viole lo rivolse alla finestrella gotica. Non si guardarono, non volevano che i loro sguardi si incrociassero, fin quando di nuovo la vocina sdoppiata si fece sentire, poco più forte, poco più decisa
-Signor Conte, signor Marchese, scusate l’interruzione, ma siamo arrivati.
I due ragazzi si voltarono di scatto e videro,  Edgar con un certo orrore negli occhi e Viole con sguardo incantato, due serpenti verdi e dorati salire sul letto e fischiare, facendo guizzare le lingue nere e biforcute
-Siamo tornati, signori. Pain e Sorrow, per servirvi ancora.

 

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