Senses

di SweetHell
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ruki ***
Capitolo 2: *** Aoi ***
Capitolo 3: *** Reita ***
Capitolo 4: *** Uruha ***



Capitolo 1
*** Ruki ***


SENSES
 
Ruki _ Voice
 
Sforzo la gola con tutte le forze che ho, ma neanche un mormorio esce dalle mie labbra socchiuse in un urlo che nessuno sentirà.
Le mie mani corrono ad aggrapparsi alla mia gola dolorante. Posso sentire i muscoli del collo tendersi fino allo stremo nel tentativo di riprodurre quell’urlo che mi sta lacerando da dentro. Fa male. Sento la gola bruciare come stessi realmente gridando a squarciagola, ma per quanto io mi sforzi, la mia stanza rimane immersa in un silenzio tombale, rotto solo dall’ossessivo ticchettio della sveglia che scandisce i secondi del mio fallimento.
Gli occhi mi si inumidiscono per la frustrazione, ma non smetto di provare.
La voce era la cosa più preziosa che avevo. Grazie a lei sono arrivato dove sono, sono uscito dal buio…sono diventato qualcuno.
Non posso accettare di aver perso tutto così.
Non posso accettare di non poter più urlare al mondo quello che sento.
Impazzirò, lo so.
Ora che neanche un piccolo gemito, o un rantolo, riesce a spezzare la coltre di silenzio in cui sono intrappolato, mi sento come se potessi morire soffocato dai miei stessi sentimenti. Voglio poter urlare al mondo quanto io mi senta male, voglio poter piangere e singhiozzare, voglio poter di nuovo canticchiare sotto la doccia e lamentarmi al telefono con il mio migliore amico. Tutto quello che prima esprimevo con la voce ora è schiacciato, mi comprime i polmoni, impedendomi di respirare.
Non posso continuare così.
Esploderò prima o poi.
O forse alla fine tutto ciò che agita il mio cuore riuscirà a scavarsi a forza una via d’uscita attraverso la mia stessa carne?
Stremato, sento la gola in fiamme e sono costretto a fermarmi per riprendere fiato.
Ma le mie mani non si spostano dal mio collo. Non riesco a compiere quel semplice movimento…qualcosa le tiene incollate là.
Con rabbia, conficco le unghie nella mia stessa carne, sempre più a fondo, sempre con più forza. Finchè non sento le dita viscide di sangue, finchè non comincia a fare male, male da impazzire.
Forse se riesco a provocarmi abbastanza dolore allora quella morsa che mi stritola il cuore si allenterà, penso, guardando la disperazione negli occhi del mio riflesso allo specchio. È difficile fare pensieri coerenti. La mia mente è piena di urla e grida che non riescono a uscire.
Stringo i denti e continuo ad affondare le unghie fino alla base del collo.
Dieci sottili strisce rosse vengono incise su quella carne tenera e il sangue denso inizia a colare dalle ferite fino a raggiungere il mio petto nudo, rigandolo.
Mi osservo le mani macchiate di cremisi con gli occhi appannati di lacrime silenziose.
I lunghi graffi che mi sono auto inflitto bruciano come se mi avessero marchiato a fuoco, ma nonostante il dolore intenso, nessun suono esce dalla mia gola martoriata.
Osservo questi squarci sanguinolenti che ora ornano il mio collo simmetricamente, cinque da un lato e cinque dall’altro. In mezzo, neanche a farlo apposta, spicca la piccola cicatrice rosea, l’unico segno che mi è rimasto dell’operazione.
Ci passo sopra con i polpastrelli ancora viscidi di sangue, macchiando quella riga in rilievo di cremisi.
Mi sembra quasi impossibile che un così piccolo taglio mi abbia potuto provocare tanto dolore. Non potevano solo lasciarmi in pace con il mio tumore? Avrei potuto morire intero, avrei potuto cantare ancora per un po’…anche solo qualche mese ancora. Sarei stato più felice se invece delle corde vocali mi avessero dovuto amputare una mano.
Lo stomaco mi si contrae violentemente e io reprimo un conato di vomito, mentre mi avvicino di qualche passo al grande specchio davanti a me.
Guardo la mia patetica immagine, una figura pallida, macchiata di sangue e lacrime, e scossa da violenti singhiozzi che le squassano il petto magro.
Sembro una bambola rotta.
Una marionetta a cui hanno tagliato i fili.
L’immagine è talmente vivida che non riesco più a controllare i conati e vomito ai piedi dello specchio, sul costosissimo parquet di acero. Mi chino a osservare i la sostanza trasparente che imbratta il pavimento, passandomi la lingua sulle labbra screpolate. Hanno un gusto così amaro che se mi fosse rimasto qualcosa nello stomaco lo vomiterei di nuovo.
Mi rialzo, passandomi un dito lungo le costole che hanno iniziato a sporgere dal mio petto, facendo intravedere la cassa toracica sotto quel sottile strato di pelle.
Le lacrime hanno lavato via la maggior parte del sangue sul mio petto, ma sul collo i segni del mio autolesionismo brillano nella penombra, più rossi che mai, anche se intorno alle ferite il sangue ha giù iniziato a coagularsi…senza per questo smettere di bruciare.
Ma cosa me ne importa del mio corpo? Tutto ciò di cui avrei dovuto curarmi di più ormai era finito in un cestino insieme alle mie corde vocali.
Se ancora avessi la mia voce, credo che mi metterei a ridere.
Evidentemente la mia vita stava andando troppo bene perché potesse continuare. Stavo persino iniziando a sentirmi felice. Sul palco, le urla dei miei fans, il peso del microfono tra le mani, la secchezza alla gola dopo aver cantato per ore…quella era la mia felicità.
Ma forse non è destino per noi uomini essere felici.
Tutto ha un prezzo.
E quello era il prezzo per essere arrivato ad aver avuto la presunzione di pensare che per me le regole potessero essere diverse.
Qualcuno deve avermi voluto ricordare come in realtà io non sia che un uomo come tanti altri, nonostante tutto.
 
Mi sento di nuovo invadere da una rabbia tale da farmi ribollire il sangue nelle vene. Il mio cuore batte così forte da farmi temere che possa fratturarmi qualche costola.
Senza pensare, afferro la lampada e la scaglio contro lo specchio, proprio contro quel riflesso che mi è diventato tanto odioso guardare: il mio.
Un altro urlo silenzioso nasce in me per poi spegnersi di colpo non appena raggiunge le mie labbra, ma non importa perché in quello stesso istante il boato della superficie riflettente che  va in mille pezzi copre il mio ennesimo fallimento.
Mi lascio cadere in terra pure io, incurante dei piccoli pezzi di vetro che mi si conficcano nella carne delle cosce, lacerandomi e facendo versare altro mio sangue in quella stanza odiosa.
Singhiozzi silenziosi mi squassano il petto, mentre le lacrime scorrono liberamente lungo tutto il mio corpo appiccicoso di sangue. Di solito piangere aiuta a sfogarsi, ma su di me ora ha solo l’effetto di deprimermi ancora di più.
Ho bisogno di gridare, non di bagnarmi le guance.
Con gli occhi ancora appannati, vago con lo sguardo per la stanza, ignorando i tagli sulle gambe e sulla gola, nonostante mi renda conto di star perdendo parecchio sangue. Su ognuno di quei taglienti frammenti di vetro vedo riflessa l’immagine deformata e distorta di me stesso.
E allora mi blocco.
Smetto di piangere e capisco.
Quello specchio sono io. Sono rotto, fratturato dentro come questo oggetto lo è fuori.
Di me, ormai - del vero me - non sono rimaste che poche schegge, piccole, deformate e soprattutto affilate. Inutili.
Perché, per quante volte si possa provare a rimettere insieme i pezzi, uno specchio rotto non tornerà intero mai più. Non sarà mai più bello, non sarà mai più in grado di riflettere le cose se non in modo distorto.
Brutto.
Per questo li si butta.
 
Con un brivido, prendo un frammento di specchio macchiato di rosso. Me lo rigiro tra le mani, quasi gioendo del dolore acuto che provo quando il suo bordo tagliente mi squarcia i polpastrelli. La mia mente è magnificamente vuota, mentre avvicino quel pezzo di vetro al mio polso sottile. Tutto sembra così semplice.
Basterebbe poco e non dovrei più soffrire.
Una strana apatia si impadronisce del mio cuore, avvolgendolo con le sue spire confortanti. Non sono costretto a vivere se la vita è diventata una sofferenza, vero?
Il bordo tagliente incide la carne tenera del polso prima che io abbia veramente deciso cosa fare, facendo urlare il mio corpo stanco e indebolito di dolore.
Ma è proprio quel dolore a fermarmi.
Mi tornano in mente tutti quelli che mi hanno voluto bene. Tutto quello che mi ero ripromesso di fare e che ancora non sono riuscito a fare, troppo impegnato con i vari tour in giro per il paese.
Voglio davvero scrivere la parola fine a tutto? Scappare?
Il frammento di specchio mi scivola via dalle mani, mentre io mi stringo le ginocchia al petto, affondando il viso tra di esse mentre nuove lacrime escono dai miei occhi gonfi e arrossati. Non sono ancora pronto a lasciare tutto, per quanto l’idea di continuare a vivere bloccato in quell’eterno silenzio mi strazi il cuore.
Eppure adesso so di poter porre fine a tutto quando voglio.
Questo pensiero stranamente mi aiuta a risollevarmi. Mi da la forza di trascinarmi fino al bagno per pulire dal sangue e dal vetro le ferite che mi ricoprono il collo, le mani e le cosce.
Non era il giorno giusto per morire.
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: C-ciao(?)
*passa balla di fieno rotolante*
Non avrei mai pensato di postare più qualcosa su questo fandom che non fosse Captivity, ad essere sincera. Eppure eccomi qui…e il merito(?) è tutto dei Three Days Grace che mi ispirano coseh depressive.
Sì. *cerca disperatamente di scaricare la colpa per aver scritto questa cosa*
No comunque, divagazioni a parte, spero davvero che questa prima shot vi sia piaciuta, ma, soprattutto, vorrei sapere se vi ha trasmesso qualcosa. Un’emozione. Un qualcosa. Un boh(?). questo tipo di ff sono forse un po’ più complicate di altre proprio per questo…se chi legge non sente nulla, allora la ff di per sé può anche essere cancellata. Spero non sia questo il caso ovviamente! Dai, dite a zia quanto vi siete depressi (?).
La prossima shot sarà incentrata su Aoi, penso. Dipende da come mi gira, ma la sua l’ho già quasi del tutto ideata, ormai devo solo scriverla…e lo farò dopo aver iniziato e finito il prossimo capitolo di Captivity, probabilmente.
Ok, la finisco qui prima di sparare altre stronzate, visto che sono quasi le due di notte. Posterò questa shot domani, dopo averla ricontrollata, anche se è molto probabile che mi sia sfuggito qualcosa (anzi, è praticamente sicuro).
Un bacione a tutti quelli che hanno avuto il coraggio di leggere fino a qui.
Tante belle cose,
 
FraH.

 
 

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Capitolo 2
*** Aoi ***


Aoi _ Sound
 
Seduto sul divano a gambe incrociate, lotto per trattenermi dall’iniziare ad urlare fino a scorticarmi la gola. Anche se so che servirebbe a poco. Dopotutto, io posso anche non sentire più, ma Daisuke ci sente eccome. E non sopporto di farlo preoccupare più di quanto non sia già. È disperato quasi quanto me. Perché mi capisce troppo bene…è un chitarrista pure lui, dopotutto.
Non so neanche se è tornato a casa oppure no.
Di solito me ne accorgevo sempre…dal rumore della porta che sbatteva o dal suo allegro saluto. Ma adesso…adesso è come vivere sott’acqua.
Come annegare a poco a poco nel silenzio.
Ho sempre odiato il silenzio.
È uno dei motivi per cui ho cominciato a suonare la chitarra.
Che ridere, non è vero? Ormai il silenzio è tutto ciò che mi resta.
E non è giusto. Non è giusto per niente.
Le mie dita continuano a muoversi sulle corde, agili come un tempo. So che stanno suonando. So il suono che dovrebbero fare. Il problema è che non posso più sentirlo…e questa cosa mi sta uccidendo.
Mi sento mutilato.
Per colpa di un incidente mi è stata tolta una delle cose fondamentali. Più della voce, più della vista, più di una gamba…l’udito era tutto ciò che mi manteneva sano di mente. Mi permetteva di sentire la voce della mia piccola.
Tolto la mano dal manico della mia adorata chitarra e la osservo con curiosità morbosa. Come se non fosse neanche mia quella mano, come se non fosse mio il dolore atroce che si propaga dai polpastrelli lungo tutto il braccio, solo per andare a sommarsi all’angoscia schiacciante del mio cuore.
Le mie mani sono viscide di sangue.
Chissà da quanto tempo sto muovendo le dita su quelle corde senza neanche accorgermene. Sono così abituato ai movimento che ormai posso farlo anche sovrappensiero…anche senza poterlo in realtà sentire.
Ho suonato fino a squarciarmi i polpastrelli…per cosa? Per la speranza di udire almeno un soffio? Una minuscola frazione di melodia?
Sono così idiota.
Il medico lo ha detto chiaramente, no? Il danno è permanente. Non vale neanche la pena sperarci, perché niente tornerà come prima.
E io non potrò più suonare.
Mai più.
Una fitta lancinante sembra volermi dividere a metà la testa. Porto una mano alla tempia, solo per poi toglierla subito dopo, sentendo il sangue viscoso sulla pelle.
La stanza ha iniziato a girare.
Tutto il mio corpo brucia di dolore.
Forse è momento. Il mio momento.
Morirò? Una parte di me quasi lo spera…mentre l’altra si vergogna di averlo anche solo pensato. Voglio davvero fuggire? Come un codardo?
Combattendo contro i giramenti di testa, abbasso lo sguardo sulla mia piccola, ancora pacificamente appoggiata alle mie gambe. Il manico e le corde sono viscidi e rossi di sangue. Alcune gocce cremisi stanno scendendo dal manico fino alla cassa.
Sembra che pianga.
Vederla così fa male. In mano mia, adesso è inutile. Nient’altro che un pezzo di legno ben modellato. Buono solo da attaccare sopra il parete, il vuoto trofeo della vittoria che la vita ha avuto nei miei confronti, lasciandomi spezzato e sconfitto.
Piegato.
Quel pensiero, tra tutti, è insopportabile. Il sangue mi ribollisce nelle vene, facendomi pulsare più forte la testa già dolorante. L’orgoglio e la rabbia si mescolano con la mia angoscia, facendomi scoppiare.
Perché lei, la mia compagna, dovrebbe rimanere intera quando io sono a pezzi?
In un raptus, la prendo e la scaglio via, il più lontano possibile da me, contro il pannello di vetro che divide il mio studio dalla stanza di registrazione.
Vedo lo strumento infrangere la finestra e cadere nell’altra stanza. Ma posso solo immaginare tutto il rumore che deve aver fatto. Il fragore del vetro che si rompe in mille pezzi. O il tonfo sordo della mia chitarra che cade malamente sul pavimento. Magari anche un lamentoso stridio di corde maltrattate, che attraversa l’aria come un urlo di dolore.
Cercando di calmare il mio respiro affannoso, mi prendo la testa tra le mani ancora umide di sangue, tentando di nascondere i singhiozzi che mi squassano il petto.
Il sapore salato della lacrime si mescola a quello ferroso del sangue, nella mia bocca.
Cosa sono diventato?
Cosa posso essere se non uno storpio, mutilato come sono fin nell’anima?
Sono un uccello senza ali.
Un leone senza zanne.
Non sono più niente.
Se penso a tutti i miei sogni, tutte le speranze che avevo quando da ragazzino ho preso il treno per Tokyo, avendo solo la mia chitarra in palla e 50 yen in tasca…tutti i miei sforzi, tutte le difficoltà superate per diventare ciò che sono ora…è tutto perduto.
Forse avrei dovuto rimanere a Mie, come diceva mio padre. Avrei dovuto rimanere, trovare una ragazza, un lavoro, magari in qualche noioso negozio della mia noioso cittadina, qualcosa che mi avrebbe permesso di sposarmi e mantenere la mia famiglia. Fare una vita più semplice, meno priva di rischi.  
È la volta della lampada di finire in frantumi sul pavimento, altra vittima della mia disperazione.
Fisso i piccoli frammenti di vetro, amareggiato. Fare a pezzi le cose non mi da nessuna soddisfazione. Se non posso sentirle mentre si rompono, perché continuare? Mi ricorda solo dei miei limiti.
Alla fine mi decido ad alzarmi. Senza curarmi del disastro che c’è per terra, calpesto i le schegge sul pavimento e vado a riprendermi la mia bambina. La ritrovo riversa sul pavimento, tra i frammenti di vetro.
La raccolgo, con delicatezza, e la studio alla luce impietosa del lampadario, che mi permette di vedere ogni più piccola ammaccatura e graffio. È anche saltata una corda. E probabilmente si è anche scordata. Non che faccia tanta differenza, in effetti, visto che io non sono più in grado di percepire nessuna differenza.
Ma la cosa mi fa quasi piacere.
Ora anche lei è un po’ come me.
Un po’ mutilata.
Cullandola tra le braccia, la riporto sul divano e me la rimetto sulle gambe, amorevolmente. Lei è stata l’unica costante della mia vita. La prima chitarra che ho comprato…ho dovuto consegnare giornali per un anno prima di riuscire a mettere via abbastanza soldi per permettermela.
Non avrei mai pensato che sarei stato così disperato da scagliarla via così.
Accarezzo la sua vernice graffiata e insanguinata, ripensando a tutte le cose che abbiamo passato insieme…e prendo una decisione.
Con la forbice che prendo dal cassetto, le recido le quattro corde che le rimangono, lasciando attaccate le estremità.
Se io non posso sentire la sua musica allora nessuno lo farà più.
Deglutisco, sforzandomi di ignorare il groppo alla gola che quasi mi impedisce di respirare. Le forbici mi cadono di mano, tornando ad accarezzare la mia bimba mutilata.
Il sole tramonta, allungando le ombre nella stanza, ma io non mi muovo dalla mia postazione, né le mie dita smettono di scivolare sul manico graffiato della chitarra muta. Le lacrime mi impediscono di vedere chiaramente, ma non ha importanza. Niente ce l’ha. Tanto ormai anche se sbagliassi accordo nessuno se ne accorgerebbe, vero?
Soffoco una risata amara tra i singhiozzi che si fanno via via sempre più forti e – immagino – rumorosi.
Non avrei mai immaginato che la mia vita sarebbe avrebbe avuto un finale tanto patetico. E piangendo, continuo a suonare la mia melodia silenziosa, in attesa che le tenebre uccidano la tenue luce del tramonto.
Proprio come la vita ha fatto con le mie speranze.
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Salve gente ^^
Sì, sono ancora io. Sì, dovrei andare avanti con Captivity, visto che ormai è passato un mese. Ma mentre ero al mare mi è venuta l’ispirazione…e mi pareva un peccato lasciare la shot a metà visto che dopotutto non sono lunghe né particolarmente elaborate. Spero che la storia di Aoi ci sia piaciuta <3
In realtà avevo abbozzato anche una continuazione DiexAoi…ma ho preferito lasciar perdere perché fin dall’inizio volevo che questa raccolta non trattasse di coppie se non in maniera molto accennata. E così…eccola qua.
Ora le shot di Ruki e Aoi sono andate…spero di non essere stata ripetitiva. Le loro erano forse le più simili e le meno angst. Dalla prossima, quella di Reita, si inizia a cambiare registro <3
Detto ciò, smetto di parlare a vanvera e me ne torno nel mio angolino…fatemi sapere se questa shot vi ha fatto sentire qualcosa!
Un bacione,
Fra.

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Capitolo 3
*** Reita ***


Reita _ View
 
Raggiungo la mia stanza tenendomi raso al muro, per poi avanzare a tentoni alla ricerca del letto, le mani stese in avanti per evitare eventuali ostacoli. Ma nonostante questo, rischio lo stesso di schiantarmi sul pavimento per colpa di qualcosa che ho urtato con la scarpa. Riacquisto l’equilibrio appena prima di cadere e mi rimetto dritto, tentando di calmarmi. Non mi piace essere colto di sorpresa, soprattutto ora che devo imparare a fare i conti con il mio nuovo problema.
Il cuore mi batte forte in petto, squassato da emozioni violente che non era abituato a provare, non prima di quel maledetto incendio.
È rabbia, forse? O paura?
Ma di cosa dovrei aver paura, poi? Sono solo e sono a casa mia.
Il pensiero dovrebbe rassicurarmi, ma invece non fa che accrescere la rabbia. Sono davvero patetico. Adesso basta così poco per farmi perdere il controllo.
Mi sento vulnerabile. Nudo.
Razionalmente so che nella stanza non c’è nessuno oltre a me, eppure non riesco a scrollarmi di dosso la fastidiosa sensazione che qualcuno mi stia guardando. Giudicando. Che qualcuno stia ridendo di me, della mia goffaggine.
Mi chino a raccogliere l’oggetto che per un momento ha rischiato di farmi cadere, tastandone i contorni e la consistenza.
Odio essere così.
Odio essere messo in difficoltà persino da quella che, al tatto, sembra essere una normalissima scarpa.
Non sono ancora bravo a muovermi, anche se è già passata una settimana da quando mi hanno fatto lasciare l’ospedale. Nonostante io conosca a memoria la mia casa, vado ancora a sbattere contro gli spigoli. Inciampo. Rompo le cose.
A volte non sono neanche sicuro della stanza in cui mi trovo. Mi sento come quelle volte in cui ci si sveglia di soprassalto nel bel mezzo della notte, completamente al buio, senza avere idea di dove ci si trovi, senza sapere neanche qual è la destra e la sinistra.
È come vivere in un incubo perenne.
Ormai per me non esiste più luce. Sono confinato a vita in questo limbo…un limbo fatto di tenebre e suoni amplificati.
Il rumore è forse la cosa più terribile di tutte, perché mi coglie sempre alla sprovvista. Mi spaventa. Se mi avessero detto che la mia passione più grande sarebbe diventata anche la mia paura di grande, mi sarei messo a ridere, solo poche settimane fa. Invece ora…ora persino sentir sbattere la porta del condominio affianco a mio mi fa saltare sulla sedia. Mi giro verso la fonte del rumore, ricordandomi solo troppo tardi che è inutile: qualunque cosa succeda attorno a me, ormai devo immaginarla.
Perché attorno a me c’è solo buio.
L’oscurità mi ha intrappolato, mi sento ricoperto delle sue vischiose tenebre. Mi si è appiccicata addosso e non c’è più nulla da fare. Non posso liberarmene…il fuoco ha mangiato tutta la luce che avevo.
L’ha divorata tutta, nel giro di pochi minuti, e avrebbe preso anche tutto il resto se i miei compagni non avessero avuto la prontezza di estinguere la fiamma.
Anche se era ormai troppo tardi per salvare i miei occhi.
E la mia faccia con loro.
Getto via la scarpa, irritato, anche se so che poi ritrovarla sarà un casino.
Mi toccherà mettermi a quattro zampe e tastare tutto il pavimento, strisciando come un cane, ma in questo momento non mi importa. L’irritazione e la rabbia, così intensa da serrarmi la gola, rendendomi difficoltoso persino respirare, coprono tutto il resto. Perché a me? Perché non a qualcun altro?
Ma non è il senso di ingiustizia che provo a fomentare la mia ira, no.
È qualcosa di peggio.
È l’impotenza.
La consapevolezza che posso dibattermi e lamentarmi come una farfalla nella tela appiccicosa del ragno, ma non per questo potrò mai cambiare le cose. Non potrò più andare in moto. Non potrò fare più tante di quelle cose che solo a pensarci mi viene da dare di stomaco. Ma ingoio la rabbia, ignorando l’amarognolo sapore della bile che mi ha invaso la bocca, e continuo a camminare finchè non vado letteralmente a sbattere contro il letto.
Sono stanco, ma so che non riuscirò a dormire.
Forse non ci riuscirò mai più.
E comunque, sono stufo di svegliarmi in un lago di sudore ogni volta che il mio corpo si concede qualche minuto di riposo. Se ne andranno mai quei maledetti incubi?
Il solo pensarci mi da ai brividi.
La sola cosa che distingue il sogno dalla veglia, ormai, è che mentre dormo posso ancora vedere. Ricordo perfettamente la mia ultima notte. Lo spaventoso spettacolo della villetta completamente invasa dalle fiamme, tanto alte da uscire dalle finestre e innalzarsi fino al cielo buio.
Mi siedo sul bordo del letto, con le mani che tremano.
Devo smetterla di pensare a queste cose.
Me lo ha detto anche lo psicologo…rimuginarci renderà solo l’adattamento più difficile.
Al pensiero, non posso trattenermi dal serrare la mascella così forte da sentire i denti scricchiolare, mentre una nuova scarica di rabbia mi percorre il corpo, facendomi rabbrividire. Adattamento, dice lui…io non voglio adattarmi.
Non voglio dimenticare quel che ero e nemmeno reinventare me stesso.
Stavo bene prima, grazie.
Dopo aver lavorato una vita per costruire me stesso nel modo in cui lo volevo…ora dovrei ricominciare da capo? Perché?
Ah già. Perché la maschera ignifuga mi si è sciolta in faccia dopo che sono stato seppellito sotto un ammasso di detriti divorati dalle fiamme.
Porto le mani al mio viso, sentendo sotto i polpastrelli il tessuto morbido della fascetta che mi copre il naso. Sciolgo con delicatezza il nodo dietro la nuca, lasciando che il pezzo di stoffa mi scivoli via dal mio volto, strappandomi un sospiro di sollievo. Per quanto sia morbido, è comunque abbastanza doloroso tenerlo su per troppo tempo…le ustioni di secondo grado sono quasi guarite, ma la mia pelle rimane dolorante e tesa, quasi fosse sul punto di spezzarsi ogni volta che faccio un sorriso. Cosa che ultimamente mi succede piuttosto di rado, comunque.
Se c’è una cosa di cui sono felice, è di non potermi vedere allo specchio.
Le mie dita sfiorano quell’ammasso di tessuto cicatriziale che una volta era il mio viso. La prima volta che l’ho fatto, in ospedale, sono quasi svenuto.
Non resta più niente dei miei lineamenti.
Di tutto ciò che ero.
Ho completamente cambiato fisionomia…ma in peggio, molto peggio.
Il danno peggiore lo ha subito il mio naso, di cui ora rimane giusto quel poco che mi permette di respirare. Per il resto, è come se qualcuno mi avesse fissato con la colla una maschera di halloween sul viso.
Ritraggo le mani da me stesso.
Sento freddo e sono scosso da brividi.
Oggi sono uscito per la prima volta dopo settimane…ho voluto provare a passeggiare nel cortile condominiale, giusto per dimostrare a me stesso che potevo farcela.
Beh, mi sbagliavo.
E di grosso anche.
Quelle urla…e i pianti di quei due bambini…non penso di poterle dimenticare, mai.
Nonostante la fascetta che mi copriva quel che resta del mio naso, li ho spaventati. Con amarezza, mi chiedo se il mio ricordo non tornerà a tormentarli nel sonno.
Mi raggomitolo sul letto, stringendomi le ginocchia al petto, ad occhi chiusi…anche se questo è solo per abitudine, visto che per me fa ben poca differenza ormai, aprirli o chiuderli. Il tessuto cicatriziale ha ricoperto la cornea, proprio come ha fatto con il resto della mia faccia.
Ma forse è stato meglio così.
Mi ha risparmiato la visione del nuovo, inutile me stesso.
A volte mi sembra di impazzire. Sono successe troppe cose in troppo poco tempo…a volte spero ancora che sia solo un brutto sogno. Che da un momento all’altro tutto possa tornare a essere normale, che basti solo svegliarsi.
Mi sfugge un singhiozzo strozzato. Cazzo, vorrei davvero poter piangere in questo momento. E lo farei, se il fuoco non avesse consumato anche le mie lacrime, giusto per privarrmi anche quell’ultimo, amaro sfogo.
Sento i palmi umidi, coperto di una sostanza appiccicosa e calda. La lecco, rendendomi solo allora conto di cosa sia. Deve essere sangue…neanche mi ero accorto di aver stretto in quel modo i pugni. Devo essermi lacerato con le unghie…tagliarle è una delle tante cose che non ho ancora imparato a fare senza il supporto della vista.
E d’improvviso mi sento così…stanco.
Del buio.
Del mio viso sciolto.
Di tutto.
Sono solo stanco di tener duro.
Mi passo una mano sul viso – la pelle della mia nuova faccia è bollente e dura al tatto, mi da la disgustosa sensazione di star accarezzando del cuoio – e cerco di non lasciarmi inghiottire dal vuoto che sento formarsi nel mio petto. Mi sfugge il significato stessa della mia vita. Mi sento senza scopo, perso nell’infinità delle tenebre di cui ora è composto il mio mondo. La mia sola realtà.
Come posso orientarmici? Come potrei mai abituarmici?
E per cosa poi? Come posso ricominciare? Come posso anche solo pensare a un’alternativa, a diventare un’altra persona? Non ho neanche abbastanza forze da rimanere arrabbiato. Per la maggior parte del tempo, semplicemente, non sento più niente. Non penso più a niente.
Sto lentamente diventando niente.
Il mio cuore è un grande buco nero che assorbe tutto, mi anestetizza, avvolgendomi ni un velo d’apatia quando la mia rabbia diventa così forte che sento che potrei scoppiare. Ma se esplodo di nuovo, non riuscirei a rimettere insieme i pezzi…e ho paura di cosa potrebbe succedere.
Ho già perso il controllo di fin troppe cose, questo mese.  
Stendo la mano destra alla ricerca della confezione di sonniferi che so trovarsi sopra di esso. Dopo un po’ di tentativi la afferro e la stappo, facendomi scivolare qualche pillola nel palmo della mano. Queste sono l’unica cosa che riesce a farmi dormire qualche ora. Senza, probabilmente morirei per mancanza di sonno.
Morire…questa parola ha una strana dolcezza.
La sussurro a fior di labbra, lasciando che la mia voce riecheggi nella stanza vuota.
Possibile che sia questa la risposta?
Possibile che l’unico modo per svegliarmi da quell’incubo? Dopotutto cos’è la morte se non un eterno sonno senza sogni? O almeno, è quello che spero io. Non reggerei un’eternità intrappolato nei miei incubi di fuoco.
Stordito da queste riflessioni, la mano mi scivola, versando troppi sonniferi nel mio palmo proteso.
Per alcuni attimi che mi sembrano eterni, resto fermo, cercando di farmi almeno un’idea del numero delle pillole che mi sono scivolate. Quindici? Dieci? Forse di più.
Sento il cuore battermi fino ad assordarmi, ma è strano, perché allo stesso tempo non provo niente. Non paura. Né agitazione.
Non sento nulla.
Potrei mettere giù tutto e passare il resto della mia vita chiuso in questa camera, a compiangermi. Oppure posso scappare. Forse è da codardi. Anzi, lo è di sicuro.
Ma piuttosto che languire nell’autocommiserazione aspettando una fine che è inevitabile per tutti…beh…in realtà il mio è solo un anticipo.
La batterei sul tempo.
La mia mano non trema neanche quando schiudo le labbra e mi lascio scivolare in gola tutte le pillole che tengo in mano.
E dopo averlo fatto, mi sento meglio.
Anche il mio cuore ha rallentato, anche se so che è troppo presto perché sia colpa dei sonniferi.
Mi lascio ricadere all’indietro, finendo prono sul letto.
Una pace che non sentivo da tempo mi pervade, scacciando l’apatia e la rabbia che si sono contese il mio cuore nell’ultimo mese. E ancora, so che potrei ficcarmi due dita in gola e vomitare tutte le pasticche, per prolungare la mia miserevole esistenza in questo mondo ormai buio. Ma non lo faccio.
Dopotutto, ho chiuso gli occhi sul mondo già un mese fa.
Magari, ora potrò riaprirli altrove, rifletto, mentre sento i miei muscoli rilassarsi progressivamente. Ciò che resta delle mie labbra si apre in un piccolo sorriso.
Dopotutto, sto per scoprirlo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice Rompiscatole
Buonasera pulzelle belle (e pulzelli/? Se ci siete)
Alla fine sono riuscita a finire anche quella di Reita…mah. Ad essere sincera, mi aspettavo di meglio. Non mi piace, credo. Ma so che, per quante volte io possa riscriverla, non riuscirò a tirare fuori niente di meglio, purtroppo. Quindi chiedo perdono (anche se una piccola parte di me vuole sperare che in queste quattro pagine ci si possa trovare qualcosa di salvabile).
A voi il giudizio.
Spero che mi arrivino più pareri di quanti non ne siano arrivati nell’ultimo capitolo di Captivity LOL. Ma amen, così è andata. Non mi scoraggerò certo per così poco(?).
Non voglio annoiarvi, perciò dirò solo un’ultima cosa. La prossima shot sarà di Uruha. Ho già quasi tutto in testa e spero mi venga molto ma molto meglio di questa…cosa. Perciò abbiate pazienza, posso fare di meglio. Credo.
Ok, ora me ne vado sul serio.
Un bacione a tutti voi che avete letto.
 
Fra <3

 

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Capitolo 4
*** Uruha ***


Uruha _ Touch

 

Un leggera brezza fa ondeggiare le finestre bianche alla mia finestra, mentre il dottore esce dalla stanza accostando delicatamente la porta.

Lo fa sempre, quando entra e quando esce, per paura che i rumori troppo forti e improvvisi possano mettermi in agitazione.

Cosa importa se vengo colto di sorpresa, se chiudono la porta con un po’ più di normalità? Che cosa importa?

Se potessi, spalancherei io stesso quella dannata porta e la sbatterei così forte da farla saltare dai cardini.

Ma non posso, non più.

È tutto così umiliante.

A cosa serve stare al mondo in queste condizioni?

Posso sentire, è vero, e vedere, fino a poco tempo fa riuscivo ancora persino ad articolare qualche suono. Ma ormai anche la bocca è andata, riesco solo ad aprirla e chiuderla, se mi sforzo.

E a cosa mi serve la vista, a cosa mi serve l’udito se sono impossibilitato a dare una qualsiasi risposta, se non posso reagire? A cosa serve poter ascoltare la voce rotta dal pianto di mia sorella, a cosa, se non a tormentarmi? Non posso più neanche abbracciarla, non sono neanche più in grado di avvertire il calore del suo corpo, quando si protende per abbracciarmi stretto. Non posso risponderle, non posso dirle che ho fiducia in lei, che so che è abbastanza forte da superare questa cosa anche per me.

Non sono stato abbastanza forte da proteggerla.

Ormai non sento più niente se non il sapore amaro del fallimento.

E la rabbia.

Una rabbia così forte e scottante che mi chiedo come possa essere contenuta in questo fragile corpo.

Eppure le emozioni forti sono l’unica cosa capace di ricordarmi che sono vivo, almeno finché la paralisi non raggiungerà anche il mio cuore, fermando finalmente questo tormento infinito.

Avrei preferito mille volte essere morto, piuttosto che ritrovarmi alle prese con questo surrogato scadente di vita. I miei occhi sono fissi sulla finestra davanti al mio letto. Penso di conoscerne a memoria ogni cazzo di particolare, ormai.

Ora che anche i muscoli della mia faccia stanno iniziando a cedere, irrigidendosi sempre di più. Tra qualche settimana sarò in grado di muovere solo gli occhi.

Sono una coscienza intrappolata in un corpo morto.

Una tomba vivente.

Una bambola rotta.

Imprigionato nel corpo che ora invece giace inerte sulla poltrona che apparteneva al nonno, conto i secondi di vita che mi rimangono. E che scivolano via senza che io possa fare niente per sfruttarli. Se potessi, donerei tutti quei preziosi minuti alla mia bellissima nipotina. Tanto a me questo tempo è inutile.

L’unica cosa che mi rimane da fare in questa vita è aspettare che la morte venga a prendermi, infine.

Di tempo per mettere ordine in me stesso ne ho avuto fin troppo. Ho analizzato la mia intera vita, istante per istante, catalogandola. Ho perdonato i miei sbagli, giustificato quelli altrui.

Potrei morire anche adesso, in pace. Sono pronto.

Anche la morte è preferibile a una vita così.

Non posso più neanche prendere la mia chitarra tra le mani e suonare tutta la mia frustrazione, facendo urlare lei al posto mio. Non sentirò più la durezza delle corde sotto i polpastrelli…e dire che per me lei era quasi un’estensione naturale del mio corpo. Si muoveva con me, mi accompagnava. Adesso il massimo che posso fare è ascoltare vecchie registrazioni di mie composizioni. Senza la musica mi sento ancora più vuoto. E più mi svuoto, più la rabbia e l’amarezza si fanno largo. Non ho idea di come sfogare tutto questo, che si accumula minuto dopo minuto, ora dopo ora, e mi avvelena da dentro.

Perché non ha sfogo, non ha nessuna via d’uscita.

Ma ne sono anche contento, in un certo senso. La rabbia mi ricorda che sono ancora vivo, che respiro e penso e sento, anche se non posso fare molto altro. Mi fa accelerare il cuore, me lo fa battere così forte che a volte fa quasi male.

E allora lascio che mi consumi dall’interno, annidandosi dentro di me come un disgustoso verme, consumando quello che ancora non si è portato via la malattia. Lascio che il dolore mi bruci, per convincermi che ci sia ancora qualcosa da bruciare. Lascio che la frustrazione mi divori lo stomaco, tenendomi sveglio la notte, perché ho paura che se mi addormento potrei sognare di suonare di nuovo, di correre sul palco.

I ricordi dei concerti sono il peggiore dei miei incubi e allo stesso la cosa migliore che io possa sognare.

 

Ma poi, sono davvero vivo? Anche i fantasmi vagano sulla terra senza requie, tormentati dalla rabbia, legati per l’eternità al luogo in cui sono morti. Con un brivido freddo, immagino di morire e risvegliarmi fantasma, su questa stessa sedia a rotelle, a guardare fuori dalla finestra della mia stanza l’eternità che scorre davanti ai miei occhi. a guardare un mondo di cui io non faccio più parte.

Avrei dovuto mettere fine a tutto prima di arrivare a questo punto, lo so. Avrei dovuto tagliarmi le vene o impiccarmi alle travi della soffitta finchè ero ancora in tempo per farlo. E invece avevo esitato, spaventato dal dolore e dall’ignoto, preferendo affrontare, come il codardo che mi sono rivelato di essere, quest’agonia che sembra non dover finire mai.

Si fosse trattato almeno di agonia fisica, avrei potuto sopportarla o almeno cercare di superarla con l’aiuto di qualche forte antidolorifico. Ma il mio corpo ormai da molto non sente più niente. La mia è un’agonia dell’anima. Come alleviare queste spaventose ondate di rabbia e paura, come attenuare la disperazione che alle volte mi serra la gola così strettamente che quasi non riesco a respirare?

A volte spero di poter vomitare. Almeno avrei la possibilità di morire soffocato ora, invece di dover aspettare che mia sorella vada in bancarotta per continuare a prolungare la mia esistenza pietosa.

Non so come ho fatto a non essere ancora impazzito. O forse lo sono già senza essermene accorto? Ci sono giorni in cui sento la follia premere ai limiti della mia coscienza, quella tentazione terribile di rifiutare tutto, di sparire, anche solo a livello psichico. Vorrei non ricordare chi sono, vorrei non ricordare affatto come le mie dita si rincorrevano lungo il manico della mia chitarra elettrica, o la sensazione del vento addosso, quando prendevo la moto per sfrecciare lungo le strade di Tokyo.

Dimenticare.

Questa sì che sarebbe un’ottima medicina.

Sicuramente meglio delle porcherie che il medico ancora insiste a darmi. Perché sprecarsi a farmi battere il cuore? Voglio solo riposare in pace. Mettere a tacere questi pensieri. mettere a tacere tutto, tutto, tutto. Perché nessuno lo capisce? Perché nessuno capisce quanto io sia dannatamente stanco?

Sento due gocce bollenti correre lungo il profilo delle mie guance. Almeno i condotti lacrimali funzionano ancora. Ben presto, molte altre lacrime vanno seguire le prime due. Ho lo sguardo appannato. Sbatto gli occhi per schiarirmi la vista, ma non serve a niente. Il groppo che mi serra la gola si fa ancora più stretto, il mio respiro affannoso, mentre il mio corpo lotta contro la paralisi, per sfogare i singhiozzi che mi restano intrappolati nel petto. Eppure neanche un rumore esce dalle mie labbra sigillate.

Il mio corpo, nonostante l’intensità dell’emozione che mi travolge, riversandosi a ondate, non si muove di un millimetro. Non trema, non ha spasmi, niente di niente. Mi sono trasformato in una statua piangente.

Lascio che le lacrime sgorghino, sperando di esorcizzare un po’ di quel dolore. Ma so che non sarà così, non è la prima volta che succede. Quel pianto non è che un’ombra di ciò che mi si agita dentro, è un sollievo momentaneo, menomato, che quando termina non mi lascia altro se non un disgustoso senso di liberazione negata. Come se fossi stato sul punto di ottenere qualcosa solo per rendermi poi conto che invece sono sempre rimasto al punto di partenza. E così, quando le lacrime iniziano a calmarsi, l’ansia torna a serrarmi lo stomaco e quel vago senso di nausea mi fa desiderare di avere qualcosa nello stomaco da rimettere.

 

Quando finalmente la crisi si calma, mi sono stremato. Completamente a pezzi, pur non essendomi mosso di un millimetro.

Gli occhi sono gonfi e bruciano, il mio cuore non ha ancora rallentato la sua corsa, lo sento rimbombare nelle orecchie. Il nodo alla gola si è un po’ allentato, permettendomi di respirare più liberamente.

Con un senso di spossatezza addosso, alzo di nuovo lo sguardo verso la finestra davanti a cui mia sorella mi ha sistemato. Fuori, gli alberi hanno cominciato a perdere le foglie, assumendo colori sempre più aranciati. Un altro giorno sta per volgere al termine, le ombre si allungano e i colori del mondo si fanno di ora in ora più freddi.

Chiudo gli occhi, cercando di tenere a bada l’angoscia che sento agitarsi sotto pelle.

Spero di non svegliarmi, domani, ma sento che non sarò così fortunato.

E allora lancio un ultimo desolato sguardo ai rami quasi spogli degli alberi, con gli occhi che ancora bruciano per le lacrime versate.

Un altro giorno è passato, quante ora interminabili sarò costretto a passare così? quanti altri giorni? Quanti mesi, prima che il mio corpo si arrenda?

Chiudo di nuovo gli occhi.

Non mi resta che aspettare con pazienza che arrivi anche per me l’inverno. E allora, come le foglie secche sugli alberi, anche io potrò staccarmi e volare via, trasportato dal vento. 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice: Beh, che dire…alla fine ho aggiornato di nuovo. Mi dispiace di avervi fatte aspettare, ma per questa raccolta di solito per scrivere devo aspettare un’ispirazione decente (senza contare che la maturità mi svuota di tutte le energie /piange). E così, questa è la penultima shot…il tatto. Come vedete, mi sono dovuta un po’ giostrare. Spero vivamente che vi sia piaciuta, perché scriverla mi ha lasciato addosso un sottile senso di angoscia…fatemi sapere.

Spero di riuscire a scrivere presto la shot conclusiva (e magari anche di finire la parte Reituki che mi tiene bloccata su Captivity da MESI), quella di Kai.

A presto e un bacio,

Fra.

 

 

 

 

 

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