A whole new world

di Kilian_Softballer_Ro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Metal City ***
Capitolo 2: *** Two girls ***
Capitolo 3: *** Normal and surreal ***
Capitolo 4: *** When a old friend meets new friends ***
Capitolo 5: *** Beginning ***
Capitolo 6: *** Thumping ***
Capitolo 7: *** Nightmares are coming to town ***
Capitolo 8: *** Two don't always make a couple ***
Capitolo 9: *** Children of the City ***
Capitolo 10: *** The white man rules ***
Capitolo 11: *** Council ***
Capitolo 12: *** Something is wrong and something is not ***
Capitolo 13: *** Hide and seek ***
Capitolo 14: *** Everyone says there is love near you ***
Capitolo 15: *** Boom ***
Capitolo 16: *** When calm people lose their mind ***
Capitolo 17: *** A good man goes to war ***
Capitolo 18: *** Lies ***
Capitolo 19: *** Black and white ***
Capitolo 20: *** Madness takes control ***
Capitolo 21: *** If this is to end in fire,then we should all burn together ***
Capitolo 22: *** I see fire ***
Capitolo 23: *** It's raining,it's pouring ***
Capitolo 24: *** Coming home ***
Capitolo 25: *** Brave new world ***



Capitolo 1
*** Metal City ***


Estratto dal comunicato radio delle 20.00 di RadioMetalCity, 14/02/2013:
“….e dunque la crisi epidemica che si sta allargando per l’intera America Settentrionale sembra non preoccupare le autorità. Charles Evenstel, vicepresidente del Dipartimento Scienze Sperimentali, ha rilasciato una dichiarazione dove afferma che l’epidemia non avrà le proporzioni di una peste medievale e intima a non farsi prendere dal panico.
Le cause di diffusione del morbo non sono ancora state confermate, ma le voci insinuano che siano da ricondurre agli esperimenti del Centro di Ricerca Finitevus, che ha sede in una località mai definita nell’Ohio…
…Gli appelli alla calma si susseguono, ma c’è già chi si espone a definire questo giorno “il San Valentino di morte”…”
 
Estratto dal comunicato radio  delle 12.30 di RadioMetalCity, 25/4/2013:
…le vittime dell’epidemia si moltiplicano a velocità impressionante. Le città si svuotano, il panico sembra aver preso piede. I sintomi della malattia, che ormai tutti conoscono – tosse, prurito, eruzione di lividi senza un motivo – si presentano sempre in più individui, non soltanto negli Stati Uniti, ma in tutto il resto del mondo.
Oramai sembra certo che-cough cough-scusate, sembra certo che il morbo abbia cominciato a diffondersi partendo dal Centro Ricerca Finitevus, anche se-cough- scusate ancora, questa tosse non mi da tregua, comunque pare certo, anche se nessuna autorità lo ha confermato.
C’è da dire che, però, un’alta percentuale delle autorità è defunta o affetta dal morbo…”
 
Comunicato radio del 07/06/2013 di RadioMetalCity:
Questo posto è un letamaio, ci sono cadaveri ovunque, sono vivo solo io qua, eh eh, ma il lavoro è lavoro e io devo far sapere al mondo che l’epidemia è una MERDA, haahahahahhaha, e qui ci siamo io, io lo stupido operatore rimasto per ultimo, io e la mia bella pistola e la bottiglia di whisky, eh eh, è ora di usare la vecchia pistola e dire addio a questo mondo di merda , tanto siam tutti morti e tutta la città è morta, ciao ciao città, ciao ciao mondo!”
 
BOOM.
 
Rimbombo. Soltanto il rimbombo dei passi.
Non sentiva praticamente altro rumore da giorni, solo i propri passi e ogni tanto il vento. E poi, di notte, il silenzio. Quello era, se possibile, ancora più assordante.
Non faceva altro che camminare da giorni, più probabilmente da settimane. E mentre camminava, pensava.
Non era una buona cosa. Pensare significava ricordare. E Shadow non voleva ricordare.
Purtroppo, non aveva ancora incontrato nessuno di abbastanza vivo con cui parlare. Se avesse potuto farlo, avrebbe potuto distrarsi, ma era solo, e quindi poteva solo camminare e pensare, pensare e ricordare. E mano a mano che avanzava, la sua rabbia aumentava.
L’epidemia era stata terribile. Morti ovunque. Erano morti tutti quelli che aveva intorno, ma non lui.
Perché non lui? Perché diamine era sopravvissuto?
Forse non era stato il solo a sopravvivere. Ogni tanto gli era parso di sentire dei passi, lontani,o dei fruscii….Ma forse era solo la sua immaginazione. Magari stava diventando pazzo, a forza di stare solo.
Tanti erano impazziti durante l’epidemia. Il panico di non avere scampo, di dover morire per forza, e in modo così atroce…Parecchi si erano suicidati.
Alzò la pistola che stringeva nella mano destra e se la puntò alla tempia. Che senso aveva stare da solo? Poteva farla finita anche lui. E avrebbe smesso di pensare. Avrebbe raggiunto Maria….
Scoppiò a ridere e abbassò l’arma. – Non dire cazzate, Shadow the Hedgehog – esclamò rivolto a sé stesso – non saresti mai capace di farlo.
Sì, ragionò, stava davvero diventando pazzo.
Avere la pistola, istinti suicidi a parte, era stato davvero molto utile. L’aveva rubata qualche giorno prima in un negozio d’armi, insieme a un considerevole numero di pallottole. Anche se non era proprio rubare. Erano tutti morti, non se ne facevano nulla di soldi o cibo.
Comunque, con la pistola si era sentito più al sicuro. Non sapeva da cosa si sentisse al sicuro, ma era meglio in ogni caso avere un’arma a portata di mano.
Mentre rifletteva, non aveva mai smesso di camminare. Era nel bel mezzo di un’autostrada, fra macchine schiantatesi contro i guard-rail e piene di cadaveri, finalmente vide quello che si aspettava. Il cartello di una città.
-          Benvenuti a Metal City – sogghignò. – Un paradiso della scienza moderna.
E continuò a camminare, sagoma di un riccio nero che si inoltrava nella città.
 
Si accampò nel bel mezzo di un parco, l’unica zona verde della città,  da dove poteva facilmente trovare ciò di cui aveva bisogno. Estrasse tutto ciò che gli serviva dallo zaino –sacco a pelo, fiammiferi, cibo in scatola – e accese il fuoco.
Certo, avrebbe potuto infilarsi in una delle case abbandonate, ce n’erano centinaia, ma gli faceva ancora uno strano effetto. Saccheggiare un supermercato era una cosa, ma una casa? C’erano troppi ricordi. E ne aveva già abbastanza di suoi, di ricordi.
Dopo aver mangiato, si sedette vicino al fuoco, riflettendo come al solito. Era partito da Washington chi sa quanto prima, e chissà dove era finito ora. Aveva camminato a lungo, decisamente. E non aveva intenzione di fermarsi tanto presto.
Il piano era semplice: andare avanti finché non avesse trovato qualcuno di vivo, anche se era poco probabile. Anzi, era direttamente impossibile. Comunque, se proprio fosse riuscito a trovarne uno, magari che sapesse anche il perché della sua sopravvivenza… Lui aveva smesso di chiederselo.
Quando tutti intorno a lui avevano cominciato a tossire, a sputare sangue e a grattarsi come delle scimmie, si era spesso chiesto perché nulla fosse toccato a lui. Ma non aveva mai trovato risposte, per cui aveva capito che era inutile farsi domande.
Uno scricchiolio lo distolse dai suoi pensieri. Alzò lo sguardo. Qualche animale selvatico attratto dal fuoco?
-          C’è nessuno? – Esclamò. Nessuna risposta, solo lo stesso scricchiolio, un po’ più vicino di prima. Qualcosa come un ramo spezzato. Si alzò in piedi, caricando la pistola quasi in automatico. “Preparati a darti del gran coglione, Shadow the Hedgehog, spaventato da uno scoiattolo” si disse, sogghignando amaramente. – Ehi, c’è qualcuno?
Nulla. Non si sentiva più nulla. Inquieto, il riccio spense il fuoco. “Meglio non attirare l’attenzione di nessuno” pensò “fosse anche un ratto di fogna”.  Dopodiché si infilò nel sacco a pelo, tenendo una mano sulla pistola e preparandosi a una lunga notte insonne.
Invece, dopo poco si addormentò, nonostante l’inquietudine. Aveva pur sempre camminato dalla città precedente quasi  senza fermarsi, e nonostante fosse ormai abituato alle lunghe fatiche, il sonno ebbe la meglio su di lui.
 
Aprì gli occhi, confuso. Cosa diavolo lo aveva svegliato? Ma dopo pochi minuti l’annebbiamento che sempre accompagnava il risveglio si dileguò e capì. Era stato un altro rumore strano, e alzando appena gli occhi sopra la coperta capì anche da cosa era provocato.
Una sagoma su due gambe (su due gambe, cazzo, non era un’allucinazione) stava frugando dentro al suo zaino. Sembrava una sagoma di riccio, argentata, così a vederla.
-          Ehi! – Urlò, sollevandosi dal sacco a pelo. Il riccio sconosciuto alzò un paio di occhi gialli su di lui e, terrorizzato, si mise a correre.
-          Ehi, tu, fermo! – Shadow si mise ad inseguirlo. Diamine, era il primo essere vivente ( bestie selvatiche a parte)che incontrava da settimane! D’istinto, fece la prima cosa che gli venne in mente di fare:  armò la pistola e, badando a non colpire il fuggitivo, sparò un colpo a un paio di metri da lui.
L’effetto fu quello sperato: il riccio si raggomitolò su sé stesso, tremando di paura. Shadow gli si avvicinò di corsa e lo prese per una spalla, costringendolo a girarsi. – Ma che cazz…
Il resto della frase gli morì in gola. Non si era accorto di quanto era piccolo, prima: non poteva avere più di cinque o sei anni. Argentato, occhi gialli, un assurdo ciuffo sulla testa, e soprattutto sporco e magro come un chiodo. Sembrava non mangiasse da giorni, e probabilmente era così.
E  poi stava piangendo.
-          Non mi sparare signore – piagnucolò il bambino – non volevo rubare, non volevo rubare niente!
-          Non…non ti sparo. Stai calmo. Ma….tu cosa ci fai qui?
-          Cercavo qualcosa da mangiare, signore, ma non volevo rubare.
Shadow sospirò e mise una mano sulla testa del piccolo, che tremò di paura ma non si ritrasse. – Sono sicuro che non volevi rubare. Come ti chiami, ragazzino?
-          D-Dodgeball.
Era uno dei nomi più assurdi che avesse mai sentito, ma forse era meglio non dirlo. Si trattava pur sempre di un moccioso morto di fame e in piena crisi isterica. – Bene, Dodgeball. Vieni con me. Credo di avere qualcosa da mangiare anche per te.
Lo ricondusse al suo accampamento improvvisato e lo fece sedere a terra, poi aprì una scatoletta di tonno e gliela porse, insieme alla sua forchetta. Dodgeball spalancò gli occhi; si vedeva benissimo che era diviso fra la fame e la paura di prendere quel cibo.
-          Forza, mangia, non avere paura- lo incoraggiò l’altro.
Il bambino si buttò sul pesce. Sì, Shadow aveva visto giusto, era praticamente morto di fame. Gli si sedette di fronte e lo osservò divorare il cibo. Era troppo felice di aver trovato qualcuno di vivo per tenere conto di quanto era stato incapace con i bambini, prima dell’epidemia. Non aveva importanza, al momento. – Dì un po’, dove sono i tuoi genitori?
-          Sono morti quando ero piccolo – rispose lui ripulendo il fondo della scatoletta, poi alzò gli occhi, come alla ricerca di qualcos’altro. Il riccio nero gli allungò una tavoletta di  cioccolata, e Dodgeball prese a mangiarla a grossi morsi.
-          E con chi vivi, allora?
-          Con mio fratello Silver…signore. – Il bambino abbassò le orecchie, con aria triste.
-          Smettila di chiamarmi signore, sembro vecchio. Mi chiamo Shadow, okay?
-          Okay, signor Shadow.
Shadow rinunciò, scuotendo la testa. – Okay…E tuo fratello dov’è?
-          E’ morto. Si è ammalato.
Chiaro, penso l’altro. Era già stato abbastanza fortunato a trovare qualcuno di immune, cosa si aspettava, di trovare un’intera famiglia?
Solo dopo un attimo si rese conto di che effetto avesse avuto quel discorso su Dodgeball. Il piccolo riccio aveva messo da parte il cioccolato, e ora aveva di nuovo le lacrime agli occhi.
“Merda” pensò Shadow. No, decisamente non era mai stato capace di badare a un bambino. Si alzò e gli accarezzò goffamente la testa. Lui tirò su col naso, mordendosi il labbro. “No, no, ti prego, moccioso, non metterti a piangere, se ti metti a piangere vado in crisi io e vai in crisi tu.”
Fortunatamente Dodgeball non pianse. Tirò su col naso un’altra volta, poi riprese a mordere la tavoletta di cioccolata. Il riccio nero tirò un sospiro di sollievo.
-          E’ tanto che vai in giro da solo? – Chiese, cercando di cambiare argomento.
-          Non lo so. Quando Silver si è messo a letto….non, non si è alzato più e io mangiavo quello che avevamo in frigorifero. Solo che poi il frigo si è spento, e Silver mi ha detto che quando un frigo è spento non conserva niente e quello che c’è dentro non si può più mangiare. Allora sono andato a suonare ai vicini a chiedere se a loro funzionava il frigo, ma non ha risposto nessuno.
Era ovvio. Se tutti quelli che dovevano occuparsi della centrale elettrica erano morti, altro che il frigorifero, non funzionava più nulla. Men che meno il campanello delle case. Ma un bambino non poteva capirlo.
-          Sono andato avanti in tutte le case, ma non rispondeva mai nessuno, poi sono andato troppo avanti e mi sono perso. Solo che non sapevo più dove trovare da mangiare.
-          E quando hai visto me hai pensato che magari avevo qualcosa da mangiare.
-          Sì, signor Shadow.
Shadow guardò dentro lo zaino. La sua scorta di cibo non era più così fornita, dopo la cena del giorno prima e l’arrivo inaspettato di quel ragazzino famelico. Se lo caricò in spalla e porse la mano al bambino.
-          Beh, è ora che tu impari come procurarti del cibo.
 
Metal City era una piccola città, e perciò anche il supermercato era di dimensioni piuttosto ridotte. Il riccio nero spaccò la porta vetrata e fece cenno a Dodgeball di seguirlo all’interno. Il supermercato era buio, ma alla luce del giorno ci si poteva orientare facilmente.
Si diresse senza esitazioni verso la corsia degli articoli da bambini e tirò fuori un piccolo zaino che porse al piccolo riccio. – Mettitelo in spalla e mettici tutto quello che ti do.
-          Sissignore! – Esclamò lui. Sembrava perfettamente felice del fatto che ci fosse di nuovo qualcuno ad occuparsi di lui. Shadow non avrebbe mai voluto che andasse a finire così (come detto, non era mai stato bravo con i bambini), ma che altro poteva fare? Non poteva certo abbandonare un moccioso così piccolo al suo destino. Sarebbe morto quasi subito. Era già strano che fosse sopravvissuto fino ad allora.
Si mise a girare fra gli scaffali, fermandosi ogni tanto per estrarre qualcosa e infilarlo nello zaino oppure passarlo a Dodgeball.
Quella di andare alla ricerca di cibo nei supermercati era stata un’idea che aveva seguito quasi immediatamente il fatto di essere solo. Tutti erano morti, i soldi avevano l’utilità di carta straccia, e il cibo che aveva a portata di mano sarebbe finito presto. Per questo era finito a forzare la porta del primo supermercato e a recuperare tutto ciò che non sarebbe andato a male. Cibo in scatola, pacchi di biscotti, cose simili. Faceva “la spesa” così da parecchio tempo, e si era dimostrata un’idea molto utile.
Si era anche abituato alla vista dei rari cadaveri che potevano trovarsi, ma evidentemente Dodgeball no. Shadow dovette trascinarlo via di forza da quello di un gatto in giacca e cravatta rimasto steso dietro a una cassa. Di sicuro non era una bella visione,ma anche lui doveva farci l’abitudine. Così come doveva fare l’abitudine ai pranzi in scatola e a tutto il resto.
Quando entrambi gli zaini furono pieni, i due ricci uscirono dall’edificio. Shadow cominciò a vagare per la città, cercando di farsi un’idea di dove si trovava. Lo aveva sempre fatto, in tutte le città, da quando aveva iniziato a viaggiare. Però questa sembrava diversa.
Innanzitutto c’erano molti meno cadaveri per strada. Di solito se ne trovavano a decine, qui invece uno o due per ogni strada erano già molti. Forse era per questo che Dodgeball ( che ora lo seguiva mangiando biscotti ) non era ancora indifferente a loro.
E poi, forse proprio perché non c’era così tanto materiale a decomporsi, l’aria era più pulita,e inoltre le strade erano sgombre da automobili e simili.
“Potrei fermarmi qui” pensò Shadow all’improvviso. Era un’idea strana, ma..perché no? Era la città migliore che avesse incontrato fino ad allora, e in fondo era stanco di vagare. E poi sarebbe stato difficile mantenere la stessa andatura che aveva di solito con Dodgeball al seguito.
Sogghignò, felice della decisione presa. E anche sollevato. Sì, sentiva uno strano senso di solievo, anche se non capiva perché.
Però era piacevole.
 
Era calata la sera. I due erano tornati all’accampamento, e dopo la frugale ( per Shadow; Dodgeball aveva mangiato per due, per recuperare ) cena, il riccio più piccolo si era raggomitolato nel sacco a pelo e ora dormiva tranquillamente. L’altro lo guardava, con un misto di emozioni. Perplessità, preoccupazione e-anche se non voleva ammetterlo-un briciolo di tenerezza.
Sembrava che avesse ripreso il ruolo di fratello maggiore, ancora una volta, dopo…No, non voleva pensarci. Era riuscito a tenere a bada i brutti ricordi per tutta la giornata, e non poteva lasciare che lo assalissero adesso, altrimenti gli avrebbero impedito di dormire. Ed era stata una giornata abbastanza piena di emozioni, aveva bisogno di sonno.
Spense il fuoco e con un sospiro si infilò nel sacco a pelo. Nel sonno, Dodgeball si girò e gli si aggrappò addosso. In altre situazioni l’avrebbe spinto via, invece non poté trattenersi dal sorridere leggermente, dandosi mentalmente dell’idiota.
“Sto diventando davvero pazzo”, pensò. Poi si liberò dalla stretta del bambino e si addormentò.

Premetto che sto incrociando le dita, perché a questa storia tengo molto e spero che almeno a qualcuno che ha letto questo primo capitolo ispiri.
Poi dico: salve! =D non pensavo che avrei avuto il coraggio di pubblicare questa storia, ma eccomi qua. Non c'è molto da dire, a parte che (ancora? Sì, sto diventando ripetitiva) spero che vi piaccia. E che cercherò di aggiornare il più in fretta possibile, tanto in goni caso passo più tempo a scrivere che non a studiare seriamente.
A presto!
Ro =)
P.S. Il libro di King di cui parlavo si chiama L'ombra dello scorpione, nel caso interessasse a qualcuno.
P.P.S. Ultima cosa: se questa storia ha da essere dedicata a qualcuno, dev'essere dedicata a eritrophobia, che ha una pazienza infinita anche se ha più di un motivo per mandarmi a stendere. Live long and prosper <3

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Capitolo 2
*** Two girls ***


Il mattino dopo si svegliò con la strana sensazione che qualcuno lo avesse incatenato. Si scosse, finché un gemito non gli fece capire cosa fossero davvero quelle “catene”.
Durante la notte Dodgeball era tornato ad attaccarsi a lui, stavolta stringendolo con le braccia e le gambe come un koala al suo albero. Adesso, nonostante l’agitarsi di Shadow, dormiva ancora, in quel modo profondo e impossibile che hanno tutti i bambini e gli adolescenti del mondo.
Con tutta la delicatezza di cui era capace (non molta) il riccio nero sciolse l’abbraccio e uscì cautamente dal sacco a pelo. Era ancora molto presto, e nonostante fosse piena estate faceva freddo.
Shadow riaccese il fuoco e stava per mettersi alla ricerca di qualcosa di commestibile nello zaino, quando Dodgeball cominciò a parlare.
-          No…Silver voglio dormire...con te…
Si girò di scatto. Il riccetto artigliava il sacco a pelo con le dita, come se dovesse esserci qualcuno accanto a lui che voleva trattenere.
-          Non…via no….poi non…ti alzi più…
-          Sssssssh – l’altro gli sfiorò la fronte cercando di calmarlo. – Non c’è nessuno, Dodgeball. Dormi.
-          Nononono! – Il bambino scoppiò a piangere. Questo mandò Shadow a un passo dalla crisi. Non era mai, assolutamente mai stato in grado di gestire qualcuno che piangeva. Men che meno un moccioso. A parte….A quel punto fermò i pensieri, costringendosi a tornare al presente. I ricordi dopo. Ora doveva pensare a quel che stava succedendo.
D’istinto, aprì il sacco a pelo e prese Dodgeball fra le braccia, tentando di farlo tornare a un sonno silenzioso. L’effetto fu però quello contrario. Il bambino, sballottato, fece ancora un paio di versi, poi sbatté le palpebre e si svegliò.
-          Shadow? – Borbottò cercando di mettere a fuoco.
Il più grande non riuscì a mascherare il suo sollievo. – sì?
Dodgeball si aprì in un enorme sorriso. Sembrava non avere neanche mezzo ricordo di quello che stava sognando un attimo prima. – Ho fame!
 
I giorni seguenti furono un vero capovolgimento per Shadow, dopo tutte quelle settimane di silenzio e solitudine. Si era trovato in ogni possibile situazione movimentata, ma l’accudire un bambino ventiquattrore su ventiquattro le batteva tutte.
Non che Dodgeball facesse il sostenuto o cose del genere. Sembrava talmente entusiasta del fatto di non essere più solo che gli avrebbe obbedito ciecamente anche se si fosse trattato di dare fuoco alla città. Lo seguiva dovunque lui andasse, a meno di non ricevere il preciso ordine di restare all’accampamento, sempre con quel sorrisone allegro. Era cambiato radicalmente da quel primo momento di paura e fame in cui l’altro lo aveva trovato.
E anche Shadow stava cambiando, anche se non se ne accorgeva. Forse era il fatto di avere qualcosa da fare costantemente, in ogni minuto, oppure la nuova (seppure piuttosto assillante) compagnia che non lo costringeva a parlare da solo come un folle, ma i suoi ricordi si stavano allontanando, centimetro dopo centimetro. Di giorno. Di notte tornavano ad assalirlo come avvoltoi, tenendolo sveglio o presentandosi sotto forma di incubi, da cui si svegliava ansante e sudato.
Cosa che spesso succedeva anche a Dodge. L’unica differenza erano i pianti e i gesti inconsulti che faceva durante il sonno, svegliando spesso anche il suo compagno di letto. Le loro notti erano agitate come non mai, ma Shadow non si era ancora deciso a prendere un altro sacco a pelo. Aveva come il sospetto che, se per caso avesse cercato di dormire separato da quel piccolo riccio, se lo sarebbe probabilmente ritrovato a strisciargli nel sacco a pelo di notte, col rischio di non riconoscerlo e di finire per aggredirlo o sparargli. Era meglio andare avanti così.
 
Un giorno il riccio nero decise di tornare a fare scorta di cibo nel supermercato, e Dodgeball lo seguì trotterellando di buon grado. Quel suo atteggiamento positivo e accomodante normalmente non gli dava fastidio, ma quel giorno non era del tutto normale. Era una delle giornate cattive. Quelle in cui i ricordi non ne volevano sapere di stare al loro posto nemmeno durante il giorno e continuavano a tornare. Quelle in cui l’ottimismo era lontano anni luce dalla sua mente,e spesso e volentieri lo infastidiva. Ecco, era uno di quei giorni.
Per questo non disse al bambino di seguirlo durante la “spesa”. Lo lasciò nella corsia dei giocattoli, intimandogli di non muoversi per nessuna ragione, e si allontanò, massaggiandosi le tempie nel tentativo di tornare in sé. Doveva concentrarsi. C’era un trucco che funzionava di solito, quando i ricordi erano talmente pressante da fargli venire il mal di testa, come quel giorno. Qual era il trucco? Ripetere all’infinito qualcosa di monotono. Una filastrocca. Possibilmente stupida.
-          C’era una volta un re seduto sul sofà che disse alla sua serva”Raccontami una storia” e la storia incominciò – recitò fra sé e sé. – C’era una volta un re seduto sul sofà che disse alla sua serva raccontami una storia e la storia cominciò. C’era una volta un re seduto sul sofà che disse alla sua serva-
Sbucò nella corsia degli articoli per la prima colazione e gli passò totalmente dalla mente cosa stessero facendo il re o la serva sul sofà, quando vide la ragazza.
Una giovane echidna arancione stava scegliendo pacchetti di cibarie dagli scaffali. Non era bellissima, o appariscente, in un’altra situazione non l’avrebbe guardata nemmeno di striscio, ma era lì ed era viva. Tanto bastò a farlo bloccare, con la bocca spalancata e la mano che correva d’istinto alla pistola.
L’echidna sembrò sentire quell’ultimo passo e si voltò nella sua direzione. La sua espressione calma si trasformò in una di stupore, gemella di quella del riccio. Spalancò la bocca e  gli occhi azzurri, e pacchi e scatole le caddero dalle mani.
-          Chi…diavolo sei tu? – Esclamò Shadow, riprendendosi.
-          P-potrei farti la stessa domanda – balbettò lei. – Oddio, ma sei vero? Oppure sono diventata pazza e sto sognando?
Era brutto ammetterlo, ma lui si stava chiedendo la stessa cosa. – Tu non puoi essere reale….E’ più di una settimana che sono qui, dovrei averti vista!
La ragazza puntò il dito oltre le spalle del riccio. – Se io non sono reale…quello cos’è?
Shadow girò gli occhi e sobbalzò sentendo Dodgeball aggrapparglisi alla gamba. Il bambino aveva l’aria spaventata, e saettava gli occhi da lui alla ragazza.
-          Non ti avevo detto di restare là? – Esclamò Shadow, più preoccupato che irritato dalla sua disubbidienza. Non sapeva se poteva fidarsi di quella sconosciuta, non voleva il piccolo riccio troppo vicino.
-          Chi è lei? – Piagnucolò Dodge invece di rispondergli, indicando l’echidna. Lei cercò di mascherare la sorpresa per quel nuovo venuto (un occhio adulto sarebbe stato in grado di accorgersene all’istante) e gli sorrise.
-          Ciao, piccolo – disse chinandosi verso di lui. – Io mi chiamo Tikal. Anche tu devi avere un bel nome, per essere così carino. Ce l’hai?
-          Mi chiamo Dodgeball – mormorò lui, ancora incerto, ma non molto. L’aria tranquilla della giovane stava facendo effetto. Sorrise anche, appena appena.
-          Dodgeball. E’ strano. Mi piace. - Tikal alzò gli occhi sull’altro riccio. – Invece non so ancora come ti chiami tu, signor….
-          Si chiama Shadow. Però non lo devi chiamare signore, sennò sembra vecchio. – E il bambino ridacchiò di gusto.
-          Hai ragione. – Anche l’echidna rise leggermente. Shadow aggrottò la fronte, ma non era più così preoccupato. Dopotutto sembrava innocua. Però aveva ancora alcune cose da chiederle, pericolosa o no.
-          Su, Dodge, vai a farti un giro, io e Tikal dobbiamo parlare – disse quasi distrattamente, senza spostare gli occhi da lei.
-          Va bene. Ciao ciao, Tikal. – Il ragazzino si staccò da lui. – Shadow?
-          Sì?
-          Perché hai la pistola?
Il nero abbassò lo sguardo, rendendosi solo allora conto di avere l’arma stretta nella mano destra. – Oh. - Avrebbe potuto sparare alla ragazza in un attimo. Sarebbe bastato un secondo di sorpresa di troppo. – Niente. Vai, vai.
Il riccetto trotterellò via, e Shadow tornò a concentrarsi sulla ragazza. – Stabilito che non sei un’allucinazione, potresti dirmi per favore chi diamine sei?
-          Direi che potrebbe utile. Okay, come ho detto mi chiamo Tikal. Vengo dal Maine. Laureanda in psicologia pediatrica, se ti interessa. – Allargò le braccia. – Almeno prima di tutto questo disastro.
-          E cosa ci fai qui?
-          Ho viaggiato per un po’, e questo è il posto più accogliente che abbia incontrato. Così ho deciso di fermarmi. Ma dimmi….tu, invece. Chi sei, cosa fai e perché sei qui. Avanti.
-          Mi chiamo Shadow. E sono qui più o meno per le tue stesse ragioni, ma abitavo a Washington. – Non aggiunse altro. Quasi tutto il resto era parte di ciò che non voleva ricordare.
-          E quel bambino…Dodgeball…è tuo fratello?
-          Oh, no. Assolutamente no. L’ho trovato qui. Credo sia orfano. Era solo e così l’ho preso con me.
-          Sembra un gesto da persona molto…buona.
Shadow fece un sogghigno amaro. – Già. Se hai un concetto strano di persona buona.
 
Mentre i due stavano ancora parlando, Dodgeball stava ubbidendo all’ultimo ordine del suo ( come lo definiva lui nella propria testa, in segreto. Il diretto interessato non doveva saperlo, magari si sarebbe arrabbiato) nuovo fratello maggiore. Ovvero si stava facendo un giro.
Quel posto non gli era sconosciuto. Ci era venuto qualche volta con Silver.
Oh, se faceva ancora male pensare a Silver.
Scosse la testa e si diresse deciso verso il settore dei libri, sapendo perfettamente dove si trovava. Si fermò dove c’erano quelli per bambini, sistemati alla sua altezza, ma, come aveva sempre fatto, lanciò un’occhiata anche dietro lo scaffale, dove c’erano quelli per adulti. Alcuni a volte avevano dei titoli buffi. Una volta ne aveva trovato uno intitolato “Lo hobbit”, che era una parola buffa davvero: non esisteva! Ma Silver non gli aveva permesso di sfogliarlo. Diceva che era troppo piccolo per capire.
Scosse la testa di nuovo per scacciare ancora quel pensiero e si concentrò sul posto dov’era, senza sapere quanto somigliante fosse a Shadow in quel momento di ricordi.
Si era ormai abituato alla vista dei morti di ogni genere, perciò non si preoccupò quando vide il cadavere di un giovane riccio (maschio o femmina, non sapeva dire: i capelli rossi erano corti, ma non abbastanza da definirlo di sicuro un maschio ) seduto a terra, con la testa china su un libro che aveva appoggiato alle gambe. Shadow gli aveva insegnato a non aver paura dei morti, perché non potevano fargli nulla. Per cui dedicò tutta la sua attenzione ai titoli dei libri da grandi.
Poi il cadavere girò pagina.
 
-          Tutto questo è pazzesco – sospirò Tikal raccogliendo lo scatolame che aveva lasciato cadere prima. - Come è possibile che io non abbia mai neanche intravisto nessuno di voi due? In quale quartiere vi siete fermati?
-          Nel parco al centro della città.
-          Davvero? – Sembrava confusa. – Non sapevo ci fossero case nel parco.
-          Quali case? – Adesso era il turno di Shadow di sembrare confuso. – Aspetta. Tu vivi in…una delle case?
-          Beh, certo. E’ molto più comodo che accamparsi per strada come facevo mentre viaggiavo. – Lo guardò come se fosse ovvio.
-          Ma non ti…impressiona? Intendo…probabilmente hai spostato i suoi precedenti abtanti per poter abitare quella casa. Loro prima avevano una vita lì. Non fa effetto.
-          Certo che fa effetto. Ogni giorno. Ma è una cosa a cui bisogna fare l’abitudine. Dopotutto, questo è il posto dove dobbiamo vivere. Spostare….morti e prender quello che prima era loro fa e farà sempre parte delle nostre giornate.
-          Molto poetico.
Tikal rise. Anche Shadow si concesse un sorrisetto, ma non durò a lungo. Solo finché non avvertì l’urto di qualcosa che si precipitava contro la sua gamba.
-          Shadow! C’è…C’è…- Era Dodgeball, ansante. Ansante, con le lacrime agli occhi e in piena crisi di panico. – E’ là! Sta…Sta…
-          Dodge? – Il riccio nero spalancò gli occhi. – Ehiehiehi, calma, ragazzino, calma.
-          Ma….ma c’è! E’ là!
-          Ma cosa c’è? – Tikal guardò il bambino negli occhi. Che cosa hai visto là?
-          C’è….c’è uno morto! Che legge!
Shadow alzò gli occhi al cielo, esasperato. – Dodge, te l’ho già spiegato, se osno morti non possono farti nulla. Anche se sono morti leggendo.
-          Ma…ma questo gira le pagine!
I due adulti si scambiarono uno sguardo sconcertato. – Di solito, se un morto legge è probabilmente vivo – disse Tikal lentamente.
-          Già – convenne Shadow, ma sollevò di nuovo la pistola in posizione di guardia. – Ma qui niente va come al solito, giusto?
Alla vista dell’arma, il piccolo riccio scoppiò a piangere ancora più forte. La pistola veniva sempre fuori quando Shadow aveva paura di qualcosa. E se Shadow, addirittura Shadow aveva paura, nei suoi ragionamenti infantili sentiva di doversi spaventare più di quanto già lo fosse.
L’echidna, svelta, lo prese in braccio. Dodgeball non protestò, anzi si strinse fiducioso a quel qualcuno che lo voleva consolare. Anche se si trattava di una sconosciuta.
Tikal si rivolse di nuovo a Shadow. – Che cosa facciamo?
-          Andiamo a vedere cosa sta succedendo. Chiariamo la faccenda.
Lei annuì. – Dov’è che hai visto quel….quel morto, Dodge?
-          Do-dove c’erano i libri…
-          So dov’è quel settore, andiamo.
Il terzetto si avviò lentamente, circospettamente verso lo scaffale da cui poco prima Dodgeball era fuggito. Quando furono solo a pochi passi di distanza, Shadow fermò Tikal e le fece cenno di restare dov’era. Quindi, con i passi silenziosi che aveva imparato ad usare tanto tempo prima, si avvicinò alla corsia e girò l’angolo.
C’era, in effetti, un riccio seduto a terra. Ma solo un bambino avrebbe potuto scambiarlo per un cadavere. “Diamine” fu il suo primo pensiero “quel ragazzino mi farà venire un infarto prima della prossima settimana”. Innanzitutto girava le pagine del libro che aveva in grembo. Poi dalle sue orecchio spuntavano i fili di una coppia di cuffie, che spandevano musica a volume talmente alto che riusciva a sentirlo perfino. E poi respirava. Diamine.
Però , anche se non era quello zombie per cui si era praticamente preso un colpo, era pur sempre qualcosa di cui preoccuparsi. Era qualcuno di vivo. Il secondo in un giorno.
“Tutto questo è folle” disse la parte della mente di Shadow che  lo faceva sentire più pazzo ogni giorno che passava. “ TU sei folle. Questa è un’allucinazione da cui fra poco ti sveglierai. Oh sì. Toccherai quel tizio e lui svanirà e tu avrai la certezza di essere pazzo”.
Il riccio nero esitò solo un secondo, poi toccò la spalla dell’altro.
Non svanì. Trasalì e alzò gli occhi, alzando d’istinto il libro che aveva in mano quasi potesse usarlo come arma. Shadow si rese conto, in quel secondo di sbalordimento che ebbe, di tre cose. Primo, quel riccio esisteva davvero e quindi probabilmente lui non era così pazzo. Secondo, era molto giovane. Terzo, era una ragazza. I due si guardarono negli occhi.
-          Chi cazzo sei tu? – Urlò la ragazza alzandosi in piedi, sempre con il libro sollevato. Le cuffiette caddero a terra vicino al loro lettore cd, ancora emettendo la melodia di prima, ora riconoscibile: Stayin’ Alive, dei Bee Gees.
-          Ferma un attimo, chi cazzo sei tu!
-          Ah, non lo so: non posso neanche starmene a leggere tranquilla che un pazzo psicopatico con una pistola tenta di farmi venire un infarto, quindi non mettere su quell’aria da fuori di testa e dimmi chi sei.
Shadow sospirò seccato. – Sono un altro sopravvissuto. E tu? Lo sei o sei morta?
-          Ti sembro morta?
Il riccio la squadrò per un attimo. Era pallida, e vestita completamente di nero, il che accentuava molto il suo pallore. Quindi sì, forse agli occhi di un moccioso di neanche sei anni poteva anche sembrare morta. – Conosco una persona a cui lo sei sembrata.
Lei sbuffò, scuotendosi i corti capelli rossi via dagli occhi gialli. – Ah sì? E chi era, visto che qui non c’è nessuno di vivo oltre a noi? Il tuo ego che ha deciso di andare a fare due passi? E’ abbastanza grande da riuscirci, sai.
-          Tikal? Dodge? Potete venire, non c’è nessun pericolo.
I due sbirciarono da dietro lo scaffale, lei preoccupata, lui, ora che il panico era svanito, incuriosito proprio come doveva essere un bambino.
-          Oh, dio. – La ragazza rossa aveva spalancato gli occhi, sbalordita. – Oh, signore del tempo, quanti siete?
-          Sei uno zombie? – Esclamò Dodgeball. Stava tornando ad aprirsi nel solito sorriso enorme. Buon segno.
-          Ancora?
-          E’ lui che ti ha trovato per primo. – Shadow sogghignò. La sconosciuta guardava il bambino come se lo stesse odiando fin nel profondo. – Non ti piacciono i bambini?
-          Non se mi prendono per un cadavere ambulante.
-          Okay, okay, fermatevi un attimo. – Tikal alzò la mano che non stringeva Dodgeball come a stopparli. – Tutto questo è assurdo, ma  dobbiamo darci una calmata. Tutti quanti. Io, Dodge, tu, Shadow, e tu…
-          Alice. Alice Cross.
-          Alice. Ho una proposta. Venite a casa mia. Davanti a una tazza di tè potremo spiegarci e parlare, con calma.
Alice guardò Shadow. – Ho qualche possibilità di rifiutare?
-          Non credo.
-          Fantastico. – Sbuffò e prese a infilare in una borsa nera che aveva a tracolla il libro e il lettore cd.
Il riccio nero si passò una mano sugli occhi. Sapeva che avrebbe dovuto sentirsi seccato come quella ragazza (non avrebbe mai pensato che prendere un tè con due sconosciute e un bambino potesse essere una proposta ragionevole), ma non riusciva, si sentiva solo estremamente confuso. E poi come continuava a ripetersi, quella non era una situazione normale.
E minacciava di diventare sempre più assurda.                                             

Ho già paura che i lettori mi inseguano all'urlo di STERMINARE! STERMINARE! E siamo solo al secondo capitolo!O.O
Lo so, lo so. non dovrei essere così pessimista. Ma è più forte di me, anche se spero che non sia un capitolo COSI' pessimo. con tutti questi personaggi che spuntano, poi.....
Fra parentesi Alice non è mia. E' un personaggio di eritrophobia (sì, sempre lei <3 ) e spero di averlo reso abbastanza bene. Non mi assassynare, se no ç_ç
A presto, a tutti!
Ro =)

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Capitolo 3
*** Normal and surreal ***


La casa di Tikal si rivelò essere non molto lontana dal supermercato, una tipica villetta a schiera con tanto di giardino. A vederla da fuori non si sarebbe mai detto che i suoi proprietari erano morti e che adesso la sua proprietaria era un’echidna piombata lì da chissà dove al massimo pochi giorni prima. Persino il cortile era curato , a differenza di quelli vicini, ormai praticamente allo stato selvaggio.
Anche l’interno era in ordine e pulito. Shadow era quasi in soggezione, mentre entrava; era la prima volta da settimane che metteva piede in una vera e propria casa, e quelle che aveva intravisto dalle finestre erano completamente diverse negli ultimi tempi, dove con tutta probabilità si sentiva aria di morte fin dall’ingresso.
Qui non c’era un granello di polvere su mobili e soprammobili, e mazzolini di fiori selvatici spuntavano in ogni angolo. Anche prima dell’epidemia aveva visto poche case così ordinate, ma non era sicuro che l’insieme fosse davvero piacevole per lui. Alle sue spalle Alice si guardava incontro corrucciata, come se anche lei non gradisse tutto ciò che vedeva.
- Fa molto Anna dai capelli rossi – sibilò mentre Tikal si infilava nella cucina per preparare il famoso the. – O Heidi, fai tu.
Shadow soffocò una risata. Era esattamente quello che aveva pensato lui. Al suo fianco, Dodge si teneva aggrappato alla sua gamba e si guardava intorno, e il riccio nero fu colto da un pensiero improvviso: si stava  sentendo a disagio? Probabilmente anche lui non entrava in una casa da tempo.
-          Va tutto bene? – Gli chiese, piegandosi su un ginocchio.
-          Certo! – Rispose lui con un sorriso smagliante. Sembrava perfettamente a suo agio. I bambini erano davvero imprevedibili…E incomprensibili.
L’echidna fece capolino dalla porta, osservandoli, tutti e tre ancora in piedi dove li aveva lasciati. – Non penso che quel tavolo e quelle sedie vi assaliranno, sapete? Andiamo, sedetevi. Ci mancherebbe solo che faccia stare in piedi i miei primi ospiti da mesi. – Aggiunse con una risatina e poi scomparve.
Alice e Shadow si guardarono, inarcando le sopracciglia, poi si sedettero intorno a un largo tavolo da pranzo. Dodgeball sedeva in grembo al riccio nero, ora perso in una di quelle estasi infantili in cui i bambini chiacchierano da soli e fanno credere agli adulti di avere qualche problema di testa.
Dopo una decina di minuti di silenzio imbarazzato, Tikal tornò con un vassoio con tanto di tazze e teiera e un pacchetto di biscotti. –Scusate se ci ho messo tanto – disse – un fornelletto da campeggio non è il massimo per preparare il the.
Shadow fece un gesto a dire che non importava poi si servì e le ragazze lo imitarono. Ci fu un altro momento di silenzio, sempre più imbarazzato. D’altronde, cosa potevano raccontarsi tre persone che non si erano mai viste prima? Si sentiva solo il tintinnare delle tazze e simili. Poi fu Alice a parlare.
-          E’ surreale. Tutto questo è surreale.
-          Scusa? – Tikal si voltò verso di lei, con un’espressione confusa.
-          Siamo nel mezzo di un’apocalisse, e che cosa facciamo? Beviamo the. Con i biscotti. Come fossimo tre vecchiette che hanno voglia di spettegolare. Volete negare che sia surreale?
-          Detto da una che “nel mezzo di un’apocalisse” leggeva un libro e ascoltava musica del secolo scorso – replicò Shadow in tono sarcastico – faccio fatica a crederci.
-          Posso ricordarti, senza nulla di personale, che tu avevi una pistola e ti comportavi come uno psicopatico? In una verifica di assurdità temo che tu prenderesti il massimo dei voti. Con lode.
-          Okay, okay, per favore stiamo calmi. – Tikal alzò le mani  in quel gesto di pacificazione che le avevano già visto fare. – Per favore. Siamo qui per parlare come siamo finiti tutti in questa  città, non per discutere su chi sia il più folle.
-          Anche perché non c’è storia, ha vinto lui. – Borbottò Alice.
 
 Sembrava che Tikal non avesse aspettato altro che di poter raccontare  la sua storia. Quando finalmente i due litiganti smisero di discutere su chi fosse il più malato mentalmente e si limitarono a guardarsi in cagnesco ogni tanto, fu lei a iniziare a parlare.
Raccontò loro che era partita dal Maine quando il suo ragazzo  era stato contagiato, già verso le ultime ondate di malattia, e successivamente era morto. Disse che aveva iniziato a vagare senza una meta, senza nemmeno sapere bene dove stesse andando, e così aveva continuato, fino a raggiungere Metal City.
-          E’ il posto migliore che mi sia capitato di trovare. Aria buona, strade libere, quel nonsoché che da sicurezza….In alcune delle altre città, le più affollate, credo, l’aria era irrespirabile da tanto puzzava di cadavere.
Shadow annuì. Aveva visto molti posti di quel genere lungo la strada. Con la coda dell’occhio notò che Dodgeball, sporgendosi dalle sue gambe, stava esplorando con grande interesse la borsa di Alice, che però non sembrava essersene accorta, essendo scivolata in uno stato di totale apatia durante il discorso dell’echidna. Decise di non avvertirla comunque. Occhio non vede, cuore non duole, no?
-          E voi? – Continuò Tikal. - Da dove venite?
-          Middletown – rispose la riccia laconica. – Ohio. Orfanotrofio. Sì, sono tutti morti lì dentro. No, non c’era nessun altra città migliore di questa lungo la strada. Nel nome del padrefigliospiritosantoamen.
-          Sei la persona più amabile e socievole che abbia mai incontrato – commentò Shadow sarcastico. – E anche la più loquace.
-          Ho detto più parole io nell’ultima frase che non tu da quando mi hai puntato una pistola addosso. Sentiamo, signor “Ho-un-biglietto-di-prima-classe-sul-treno-degli-scassacazzi”, perché non ci racconti qualcosa di te?
Il riccio nero dovette ammetterlo: Alice aveva segnato un punto a proprio favore. Non avrebbe mai raccontato ad altri quello che non permetteva neanche a sé stesso di ricordare. –  Più o meno la stessa storia: vengo da Washington e ho viaggiato a piedi fino a qui. Hai un’ottima lingua, signorina Cross.
-          L’ultimo che mi ha chiamato così è stato il mio professore di letteratura ha fatto una brutta fine.
-          Che cosa ha fatto? – Chiese Dodge ingenuamente, sfogliando un quadernetto nero che aveva trovato.
-          Si è suicidato in cima a un palazzo per…GIU’ QUELLE MANI! – Con uno scatto rapidissimo Alice gli strappò di mano il taccuino e lo tenne alto, fuori dalla sua portata. – Ma chi ti ha insegnato a frugare in mezzo alla roba altrui, eh?
-          Ho sbagliato? – Chiese lui spalancando gli occhi. Shadow notò che non era spaventato da quella reazione: sembrava piuttosto incuriosito. E pensare che fino a poche ore prima uno scatto del genere lo avrebbe fatto scoppiare in lacrime. Che diamine gli stava succedendo?
Ma nonostante quei pensieri non poté fare a meno di sogghignare divertito. Quella ragazza aveva delle reazioni molto diverse dalle altre persone, qualunque cosa le stesse succedendo. Ogni tanto era seccante…ma in un certo senso anche divertente.
Alice lo guardò storto e infilò il quaderno nella borsa, che spinse con il piede lontano dal bambino. Poi si chiuse in un mutismo impenetrabile, lanciando ogni tanto occhiatacce di sbieco ai due ricci.
-          Dov’è che vivete voi due, Shadow? – Disse Tikal ,cercando goffamente di riprendere la conversazione.
-          Abbiamo un piccolo accampamento in mezzo al parco.
-          Perché non avete scelto una casa? Ce ne sono centinaia, e tutte libere.
Il riccio nero tacque, cercando un modo per evitare la risposta che pensava. Non poteva certo dire che voleva evitare un sovraccumulo di ricordi, perché gli avrebbero chiesto quali ricordi voleva evitare. – Ho pensato che Dodgeball potesse sentirsi a disagio, dentro una casa che non è la sua – mentì alla fine.
L’echidna gli lanciò un’occhiata curiosa, poi si protese attraverso la tavola per fare il solletico al piccolo, che fino a quel momento aveva ignorato completamente la  conversazione fra gli adulti. – E tu, Dodge? A te piacerebbe andare a vivere in una casa? Una casa vera, come questa. Con i letti, e la cucina…
-          Sì! – Rispose lui entusiasta. Poi sgranò gli occhi e si morse il labbro. – Però da solo no.
-          Certo che no. Da solo non sarebbe bello. Ma se venisse con te il tuo amico Shadow? Ti piacerebbe?
-          Davvero possiamo?
-          Chiedilo a lui.
-          Shadow, possiamo? – Il riccetto alzò la testa verso di lui. L’altro si costrinse a non fissare quegli occhioni da cucciolo implorante, ma guardando altrove si ritrovava a guardare il sorriso trionfante di Tikal o quello sarcastico di Alice, che confermavano solo una cosa: l’avevano fregato.
 
Shadow si rigirava nel grande letto matrimoniale, senza riuscire a prendere sonno.
Era stata una lunga giornata. Prima l’incontro con quelle due ragazze e la loro lunga discussione. Poi si era ritrovato a svuotare la casa accanto a quella di Tikal. Aveva tolto tutto quello che  gli era sembrato compromettente, cadaveri compresi, e l’aveva nascosto nella piscina da giardino sul retro (fortunatamente vuota) mentre l’echidna badava a Dodgeball. Alice se ne era già andata da un pezzo, in silenzio, a quel punto. Infine aveva portato il bambino e tutto quello che aveva recuperato dal loro accampamento nella nuova sistemazione, cercando di tenere a bada l’entusiasmo di Dodge con scarsi risultati, fino a che non era riuscito a metterlo a letto nella stanza dei bambini. Era stata dunque una giornata lunga e stancante….ma non riusciva ad addormentarsi.
Non era un problema legato alla casa. Si era reso conto di essersi sbagliato: dopo averla praticamente svuotata del tutto, conservava ricordi né più né meno di una casa già ammobiliata presa in affitto. Ma non riusciva a togliersi dalla testa le immagini delle ultime volte in cui aveva dormito in un letto vero, non un sacco a pelo o, ancora prima, una brandina,  prima che tutto il suo mondo si ribaltasse  e andasse a catafascio.
La porta della camera cigolò aprendosi. La mano gli scattò verso la pistola, ma era ormai solo un gesto automatico: sapeva benissimo di chi si trattava. Ritirò la mano e ascoltò i passetti leggeri e i nuovi  cigolii quando il materasso si piegò sotto il peso di Dodgeball. Non si mosse finché non sentì il bambino che gli si raggomitolava contro e gli appoggiava la testa sul fianco. Probabilmente anche a lui sarebbe servita qualche notte per abituarsi e per evitare i propri ricordi e non voleva stare solo.
In fondo lo capiva.
Allungò un braccio e circondò il riccetto, avvicinandolo di più a sé, e lui, già mezzo addormentato, gli afferrò un dito come poteva fare un neonato.
Si addormentarono insieme così.
 
Come Shadow scoprì nei giorni successivi, avere Tikal come vicina era un grande guadagno.
Prima di tutto, sembrava non essere mai stanca di occuparsi di Dodgeball. Era brava con i bambini, molto più brava dello stesso Shadow, che per questo glielo lasciava ogni volta che doveva allontanarsi da casa. Per ricambiare, si occupava lui di procurarle le scorte alimentari. Dodge stesso non vedeva l’ora di andare a trovarla, forse perché con lei poteva giocare e non doveva soltanto girare per la città senza una metà.
E poi, con lei il riccio nero poteva finalmente conversare normalmente. Sì, con Dodgeball aveva parlato, ma era pur sempre un moccioso di neanche sei anni, con cui bisognava scegliere attentamente gli argomenti di dialogo. Con Tikal invece riusciva a parlare liberamente, e anche in modo piacevole.
Parlando, aveva scoperto che non era la ragazza che gli era sembrata la prima volta, leziosa e invadente, tutta the, fiori e pace hippie, come una principessa Disney. Aveva mostrato quella parte di sé, gli aveva spiegato, solo per l’eccitazione di aver finalmente trovato qualcun altro di vivo. In realtà era intelligente, e una brava conversatrice. Un giorno, mentre parlavano appoggiati alla recinzione che separava i loro giardini,  gli spiegò anche perché lo aveva “convinto” a stabilirsi in una casa, invece di mantenere il loro accampamento precario.
-          L’ho fatto per lui – disse accennando a Dodgeball, che in quel momento stava giocando sul marciapiede della strada con alcune macchinine. – Ai bambini serve normalità, più normalità possibile. E anche se in questa situazione non c’è nulla di normale….né una famiglia, né una vita…almeno una casa poteva averla.
-          Sai molte cose sui bambini.
-          Te l’ho detto, dovevo laurearmi in psicologia pediatrica, e poi…mi piacciono i bambini. Sono meglio di molti adulti, e imprevedibili. Non sai mai cosa aspettarti da loro, a parte una tonnellata di fiducia.
Shadow avrebbe voluto commentare quella risposta poetica (aveva incontrato molti bambini, e tutti, tranne forse un paio, gli erano sembrati piccole bestie selvagge), ma in fondo alla strada vide comparire una figura familiare dai capelli rossi.
In quei giorni Alice era stata vista di rado dalle loro parti. Compariva in silenzio, restava nei paraggi silenziosamente e dopo non molto se ne andava, sempre senza una parola. Sembrava più voler essere veramente sicura che c’era davvero qualcuno di vivo, che non se lo era sognato, piuttosto che fare conversazione con loro. A meno che Shadow non la stuzzicasse ( cosa che lui faceva spesso, e con grande piacere: adorava vedere le sue reazioni); in tal caso rispondeva con frasi piene di arguzia, e anche di parolacce.
In quel momento non stava arrivando con la solita lenta camminata scazzata: avanzava a passo spedito, quasi correva verso di loro.
-          Ehi, rossa, ti sta bruciando il negozio di musica? – Le urlò il riccio quando fu abbastanza vicina.
-          Sì, così magari appicca il fuoco anche a casa tua, produttore sano di domande imbecilli – replicò Alice fermandosi davanti a loro.
-          Cosa ti porta da queste parti? Ti sei resa conto che da sola non hai nessuno da disturbare?
-          In realtà anche parlarti è puro masochismo per me, grazie, e comunque avevo intenzione di raccontarvi qualcosa di importante, ma visto che una certa persona di cui non dirò il nome né il basso quoziente intellettivo non mi lascia parlare… - E fece per tornare sui suoi passi.
-          Aspetta, Alice – la frenò Tikal, alzando come al solito le mani e lanciando c contemporaneamente un’occhiataccia a Shadow. – Non intendeva dire nulla. Cosa volevi raccontarci?
-          Ero andata in periferia a cercare qualche altro negozio di alimentari più vicino, e da lì si vede la collina a est. E c’era qualcuno che la stava scendendo. Tre persone, ragazzi. Tre persone.

Ho cercato di aggiornare più in fretta che potevo, ma il blocco dello scrittore ha colpito ancora. Mi dispiace.  Come continuo a dire, spero che vi piaccia il  capitolo. Se recensite, grazie in anticipo.
A presto!
Ro =)

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Capitolo 4
*** When a old friend meets new friends ***


La città sembrava enorme ora che dovevano attraversarla in fretta. Shadow correva, ed era in testa il gruppo, nonostante il peso aggiuntivo di Dodgeball che gli rimbalzava sulla schiena a ogni passo.
Persone. Tre persone. Ora non potevano esserci più dubbi. Se erano già in sette, ad essere sopravvissuti, allora era quasi certo che ce ne fossero altri, chissà quanti altri. Era questo a metergli le ali ai piedi, lasciando indietro le due ragazze.
Fu solo quando si furono lasciati alle spalle la piazza centrale, infilandosi in una delle strade che portava nella zona periferica, che li trovarono. Si fermarono, entrambi i gruppi, a pochi metri di distanza, guardandosi con sorpresa che non cercavano neanche di nascondere.
Shadow si concentrò su ognuno di loro per qualche secondo, come cercando di memorizzarli. Un gatto bianco, che senza dubbio le ragazze avrebbero trovato molto affascinante, con l’aria del classico vagabondo: capelli lunghi che gli ricadevano sugli occhi azzurri, mani in tasca, chitarra a tracolla. Al suo fianco (e attaccata al suo braccio) una riccia rosa, rotondetta, con corti aculei e grandi occhi verdi spalancati. E infine un riccio, anch’esso bianco, anch’esso con gli occhi azzurri, con gli aculei terribilmente simili ai suoi, la canna di un’arma di grosso calibro, portata a tracolla, che spuntava da dietro la schiena…
Si immobilizzò. Conosceva quell’arma. E conosceva anche il riccio che la portava, e non poteva essere lì davanti a lui, non poteva, era impossibile. Non poteva essere Soter.
Il bianco sorrise, un sogghigno misurato e sarcastico. – Salve, Shadow. Quanto tempo.

Ci fu un attimo di sbalordito silenzio, poi Tikal balbettò: - Vi conoscete?
-Abbiamo lavorato insieme non molto tempo fa – rispose Shadow lentamente. Era ancora abbastanza incredulo. – Ero sicuro che fossi morto come tutti gli altri.
-In realtà me ne sono andato poco prima che la zona fosse messa in quarantena – disse Soter. – E tu? Anche tu sei sfuggito a quella porcata?
-Così pare. – Tese la mano. – E’ quasi un piacere rivederti.
-Lo stesso per me. – Il riccio bianco gliela strinse.
-Fermi un momento, voi due –li interruppe Alice – sappiamo che siete felici di vedervi, e cazzi e mazzi, ma sareste così gentili da spiegarci dove di preciso lavoravate insieme?
-Questa è un’ottima domanda – commentò la riccia rosa dell’altro gruppo.
Shadow strinse i denti. Sperava che non gli avessero più fatto quella domanda. Non aveva pronta nessuna bugia al posto di una verità che non aveva intenzione di raccontare, ma Soter lo salvò con una risposta, vera almeno in parte. – Eravamo collaboratori dell’esercito. Stesso reparto.
-Tu facevi il soldato Shadow?? – Gli chiese la vocina acuta di Dodgeball nell’orecchio.
-Più o meno, ragazzino, più o meno. Ah – aggiunse, indicandolo ai tre nuovi arrivati – questo piccolo fracassone si chiama Dodgeball. E loro sono Tikal e Alice.
-Che saprebbero presentarsi anche da sole, grazie – disse Alice fra i denti.
-Io mi chiamo Aster – disse il gatto bianco con voce profonda – e questa è la mia ragazza, Amy Rose.
Amy sorrise. – Bene, non me l’aspettavo. Pensavamo di essere rimasti solo in tre, non è vero, As?
-Anche noi credevamo di essere soltanto in quattro – replicò Tikal. – Venite? Dovete trovare una casa o qualcosa del genere anche voi.
I nuovi arrivati si guardarono fra loro, poi Soter annuì. Dava l’impressione di essere il capo.
- Seguiteci, allora – continuò l’echidna, togliendo Dodgeball dalle spalle di Shadow e prendendolo per mano.
Il gruppo tornò sui suoi passi; Tikal e Amy parlavano animatamente, probabilmente della città o dei rispettivi viaggi o simili, mentre Aster teneva un braccio intorno ai fianchi della riccia. Alice camminava in disparte, lanciando ogni tanto un’occhiata perplessa a Shadow e Soter, che erano rimasti indietro.
-Hai detto loro qualcosa riguardo a quello che facevamo? – Disse il riccio nero a mezza voce.
-Non più di quanto gliene potresti aver detto tu.
-Non è esattamente una cosa allegra da raccontare.
-Già.
-Hai visto qualcosa di sospetto dopo che sei partito?
-Perché me lo chiedi? Stai ancora indagando?
-Non proprio. Ho intenzione di dimenticare tutto quello che è successo a Washington. Ma le ultime cose che abbiamo scoperto prima della quarantena…
-So cosa intendi. Sono state quelle a farmi decidere di andarmene.
-Ecco. Se dovesse succedere qualcosa troppo vicino a questo posto…- Non riuscì ad andare avanti e fece un vago gesto della mano verso Dodgeball, che si era staccato da Tikal e ora trotterellava poco distante da Alice. Non sapeva come esprimere quella strana preoccupazione, non l’aveva provata molte volte. Ma si sentiva responsabile di quell’assurdo gruppetto, essendo quello che sapeva più di tutti ciò che era successo davvero. Si preoccupava per Dodgeball, per Tikal…Persino per Alice, anche se probabilmente lei gli avrebbe detto di farsi i fattacci suoi, se l’avesse saputo.
Soter comunque sembrò capire. Scosse la testa. – Niente di cui preoccuparsi. Non abbiamo visto nulla di sospetto, né lontano, né vicino. Sì, ogni tanto mi sembrava di sentire o vedere qualche movimento strano, ma probabilmente era qualcuno che aveva paura a farsi vedere. Ce l’avevano anche Aster e Amy, la prima volta che li ho incrociati.
-Anche Dodge. Sembra che incutiamo timore.
-Chissà perché. Andiamo, quante possibilità c’erano che due membri della stessa compagnia sopravvivessero?
-Ci vuole una considerevole dose di fortuna.
-O di sfortuna, non è normale che qualcuno sia felice di rivedermi dopo essersi liberato di me.
Scoppiarono in una risata roca. Alice si fermò a guardarli, aggrottando le sopracciglia, e il piccolo riccio che la seguiva come un’ombra ne approfittò per allungare la mano verso di lei. La rossa lo guardò perplessa, come quando si guarda un libro in una libreria prima di aprirlo e ci si chiede se sarà leggibile oppure no. – Che ti prende?
-Sei da sola – replicò semplicemente lui.
-E allora?
-Allora posso stare con te, così non sei più da sola?
Alice piegò la testa da un lato, sempre più perplessa, poi si sfilò una mano di tasca e prese quella piccola che aveva davanti. Ripresero a camminare.
-Quel ragazzino mi ricorda te – commentò Soter.
-Improbabile? – Replicò Shadow.
-No, poetico in modo pessimo.
-Lo prenderò come un complimento.


Nelle settimane successive Shadow dovette rendersi conto di una cosa: la città si stava riempiendo.
Non era questione di quei primi tre che Alice aveva visto sulla collina. Continuava ad arrivare gente da ogni direzione che si fermava a Metal City. Le strade ora non erano più vuote e silenziose, ma si vedeva spesso qualcuno che entrava o usciva dalla casa che aveva occupato o che faceva provviste. Pochi vivevano da soli, parecchi avevano formato gruppi e famiglie, e ogni giorno arrivavano nuovi abitanti. Dodgeball ora non voleva più restare in casa con Tikal, ma uscire per vedere “la gente”. Probabilmente era esaltato, Metal City stava tornando a sembrare una città normale, con persone che si incrociavano in giro e qualche bambino (per la verità non molti) nel parco. Shadow lo accontentava ogni volta che era possibile, ma in realtà non riusciva a togliersi dalla testa una domanda ricorrente. E non era il solo, visto che fu Aster ad esprimerla ad alta voce.
-Ancora mi chiedo perché si fermino tutti qui – disse il gatto rivolto a lui e a Soter. Stavano tornando dal supermercato, ognuno con una confezione da sei di birra. I tre avevano continuato a incontrarsi, quando ancora la popolazione della città era ridotta. I due ricci erano stati amici, quando avevano lavorato insieme, e lo erano tuttora, mentre Aster era un tipo abbastanza tranquillo, che si aggregava agli altri. E una birra fra amici, dopo giorni in compagnia solo di due donne e un bambino, era sempre una birra fra amici. Avrebbe convinto uomini molto più diffidenti di Shadow a uscire dal proprio guscio. – Voglio dire, cosa c’è di diverso dalle altre città?
-Si fermano per lo stesso motivo per cui ci siamo fermati noi. Qui c’è qualcuno – rispose Soter. – I primi ad arrivare trovavano noi dopo settimane di viaggi in città deserte e si fermavano, e così via. Probabilmente dall’altra parte dell’America ci sono altre città così, con quell’ “aria buona” che sentono tutti.
-Io non so neanche in che stato siamo, figuriamoci pensare a certe cose.
-Nessuno sa in che stato siamo – disse Shadow. – Abbiamo viaggiato tutti in un modo talmente discontinuo che abbiamo perso il senso dell’orientamento. Siamo più a sud del Maine, questo è certo.
-Non che ci voglia molto, non c’è quasi niente più a nord del Maine – sogghignò Aster.
-Finitela, capire in che parte dell’America siamo non è la cosa più importante, al momento. – Soter si grattò la testa con la mano libera. – Vi siete chiesti se questo posto resterà così allegro e ordinato ancora a lungo?
Shadow se l’era chiesto. Sapeva che una comunità così variegata non avrebbe potuto andare avanti così come faceva ora. Non c’era ordine, né gli apparati principali che dovevano mantenerlo: medici, insegnanti, poliziotti. Anche se forse la polizia era il problema minore.
-E’ ovvio che non durerà a lungo. Ci vorrebbe qualcuno che spiegasse a tutti il loro ruolo per ristabilire la società, per dire a ciascuno cosa fare.
-Esatto. Ho parlato con alcune persone, e sono ancora molto confuse. Diverse vorrebbero rendersi utili, ma non sanno come fare. Hanno bisogno di una specie di guida – concluse Soter.
-Ci vorrebbe qualcuno che sia abile in tutti i campi….che sappia qualcosa di governo e non intenda prendere il potere….- Al riccio nero non veniva in mente nessuno. Rimpiangeva di non aver parlato con qualcuno dei nuovi arrivati, ma non era mai stato il massimo a fare amicizia. Continuò a rimuginare, finché non si accorse che gli altri due lo stavano fissando in modo strano. – Cosa c’è?
-Andiamo, Shadow – disse il suo vecchio compagno. – Non farti considerare meno intelligente di quanto già ti consideri io.
-Ma cosa…..no. – Aveva capito. Ed era inaccettabile. – Non puoi pensare che sia io.
-Perché no? Ti ho già visto in azione, saresti perfetto. E l’ultima cosa che ti interessa è il potere.
-Non posso farlo. Non sono più in grado di fare queste cose. – E non voleva più farle.
-A Washington eri il migliore. E qualunque cosa sia successa, so che non sei cambiato fino in fondo.
-Ti avevo detto di non parlare più di quel posto.
-Okay okay, basta. – Aster si intromise guardandoli di sbieco. – Non ho idea di cosa sia successo dove lavoravate, e non ne voglio sapere niente finché non vi deciderete a raccontarlo voi, ma almeno su questa storia del capo o come volete chiamarlo lasciatemi parlare. Shadow, tu mi sembri a posto. Tikal parla di te in modo talmente entusiasta che non la si può quasi contenere. Sei stato il primo ad arrivare in questo posto. E a quanto pare avevi un impiego nell’esercito o cose del genere. Vuoi qualche ragione in più?
Shadow girò lo sguardo scocciato dall’uno all’altro. – Vi eravate già messi d’accordo per fregarmi?
Soter ghignò. – Cosa te lo fa pensare?

Alla fine reputarono che il modo migliore per informare la popolazione era radunarla e annunciare i cambiamenti a tutti. Prepararono insieme i punti chiave del discorso. Ne discussero per giorni, mentre Amy e Tikal e (seppur controvoglia) Alice si occupavano degli aspetti più materiali. Scovarono il teatro cittadino, grande abbastanza per contenere tutta la popolazione, e decisero che quello sarebbe stato il luogo ideale. Non avevano a disposizione delle stampanti, così scrissero a mano i manifesti che avvisavano dove e quando si sarebbe tenuta l’assemblea e li attaccarono in tutte le strade, con l’aiuto di Dodgeball, che lo prendeva come un gioco nuovo.
La sera del raduno Shadow era teso. Gironzolava sul palco guardando nervosamente i cittadini arrivati in anticipo. Per la verità erano molti. Non vedevano l’ora di sentirsi di nuovo partecipi e utili, ma lo innervosivano ancora di più. Erano passati mesi da quando aveva fatto l’ultimo discorso ufficiale, e non era entusiasta di ricominciare. Ma perché mai aveva dato ascolto a Soter?
Quando finalmente furono le nove, ora fissata per l’inizio, si presentò alla folla armato di megafono. Aster aveva trovato un generatore elettrico ancora carico e funzionante, perciò le luci della sala erano tutte accese, ma non si erano fidati a collegare anche dei microfoni. Era un generatore piccolo, avrebbe potuto sovraccaricarsi.
Si sentiva gli occhi di tutti puntati addosso. Guardò in basso e vide Soter fargli un cenno di incoraggiamento dalla prima fila dov’era seduto. Resistendo alla tentazione di fargli un gestaccio, si schiarì la voce e attaccò a parlare.
-Salve a tutti. Grazie per essere venuti questa sera. Mi chiamo Shadow, e sono io che parlerò stasera. So che aspettavate da tempo che succedesse qualcosa del genere, e che volevate rendervi utili. Siamo qui tutti per parlare proprio di questo. La situazione in cui ci troviamo è tutto fuorché normale, ma non dobbiamo dimenticare che dobbiamo tenere la testa a posto in ogni caso. Siamo diventati una comunità e come tale dobbiamo comportarci. Per questo ci servono tutte le persone utili di cui possiamo disporre. Quanti di voi, prima dell’epidemia, hanno studiato o stavano studiando medicina?
Si alzarono una ventina di mani.
-Molto bene. L’ospedale è una delle prime cose che dovremo rimettere in funzione: anche se non ci sono più contagi dell’epidemia, restano tutte le malattie e le ferite più normali. I medici e gli infermieri saranno importanti.
-So che vi starete chiedendo cosa fare dei cadaveri. – Aveva deciso di parlare chiaro, usando tutte le parole giuste, anche se crude, ma lanciò lo stesso un’occhiata al gruppetto di bambini che giocava in un angolo della sala. Stavano completamente ignorando tutta la situazione. Bene. – L’ospedale è uno dei posti che ne sono più pieni, ma per questo io e alcuni miei colleghi abbiamo avuto un’altra idea. Se istituissimo un gruppo di seppellitori, potrebbero prendersi loro il compito di svuotare l’ospedale e tutti gli altri edifici, e tutto sarebbe più semplice. – Osservò le loro reazioni. Praticamente tutti annuivano e lo fissavano, aspettando che proseguisse. Volevano sapere cos’altro avrebbero potuto fare, erano entusiasti di sentirsi coinvolti. – Sareste disposti a offrirvi volontari?
Si alzò un coro di sì. – Perfetto. Un altro argomento importante è l’elettricità.- Aveva fatto un sopralluogo apposito, stavolta. - Molti di voi si sono procurati dei generatori, a quanto ho visto, ma non dureranno a lungo. E’ essenziale far ripartire la centrale elettrica e per questo servono dei tecnici. Ce ne sono, qui?
Qualcuno urlò “Sì” e si alzarono altre mani. – Siamo i migliori! – Gridò una voce in una delle file in mezzo, scatenando un coro di approvazione.
-Ne sono sicuro. Sapete, noi siamo ancora qui proprio perché siamo i migliori, e da migliori dobbiamo ripartire. Siete d’accordo?
Stavolta tutti urlarono il loro assenso. Erano elettrizzati. – Che cosa dobbiamo fare? – Chiese una donna in terza fila.
-Per i medici, gli infermieri e i praticanti, direi che se vi incontraste domani mattina davanti all’ospedale potrete fare il punto della vostra situazione. Direi anche che chi si offre per far parte dei seppellitori potrebbe radunarsi nello stesso posto, così da cominciare a svuotarlo. Non sono un esperto – “Forse sì” pensò, ma non lo disse ad alta voce – ma vi consiglio di portare i guanti da lavoro, non è una questione pulita. A dirla tutta, è un bello schifo.
Risate. – I tecnici possono raccogliersi direttamente alla centrale elettrica. Sono andato a controllare, e lì non ci sono molti morti. E’ una situazione accettabile.
-Ma tu chi sei per darci ordini? – Gridò una volpe grigia, alzandosi dal suo posto nelle ultime file. – Che ne sai? Sei forse il nostro capo?
Shadow osservò le reazioni degli altri. Si aspettava qualche protesta, ma non sapeva quanti sarebbero stati d’accordo. Notò con piacere che quasi tutti guardavano storto il contestatore e riprese a parlare.
-No, non sono il vostro capo. Sono solo il primo a cui sia venuta questa idea e volevo parlarvene per aiutarvi. Ma non voglio comandarvi, assolutamente no. Sarete voi a eleggere qualcuno che vi rappresenti e, se volete proprio un capo, vi comandi. Comunque chi crede che io abbia detto una montagna di sciocchezze è libero di pensarlo e può non presentarsi dove ho detto. L’ultima volta che ho controllato, il libero arbitrio non si era preso il virus.
Qualcuno sogghignò.- Chiudi il becco, Terry! – Urlò un altro rivolto alla volpe.
-Ci sono domande? – Non ci fu cenno di replica. - Andate pure. Spero di rivedervi domattina.
Si alzarono e si diressero verso l’uscita. Molti erano a gruppetti e parlottavano, e tutti quelli che Shadow riusciva a vedere avevano l’aria soddisfatta. Scese dal palco e si trovò davanti Soter con un sorriso beffardo che gli occupava l’intera faccia. – Non sei peggiorato di una virgola dall’ultima volta che ti ho sentito.
-Vaffanculo, tu e tutti i tuoi discendenti.
-Pensò che funzionerà – commentò Tikal, raggiungendoli con in braccio Dodgeball. – Ho scambiato due parole con alcune donne ed erano entusiaste.
Shadow non poté fare a meno di convenire. – Già, hai ragione. – Per una volta si sentiva anche lui ottimista. – Anch’io credo che funzionerà.
Mi dispiace di aver aggiornato così tardi. Teoricamente, l'ultimo mese di vacanza dovrebbe essere quello in cui non hai niente da fare...ma in realtà è l'unico periodo in cui passi l'intera giornata a fare i compiti che non hai fatto per il resto dell'estate. Non sono neanche così soddisfatta del capitolo, ma spero che comunque apprezzerete.
P.S. Aggiungo ora perché mi era totalmente passato di mente: Soter non è un mio personaggio, è di The New Riddler. Che sì, può spezzarmi tutti gli ossicini che vuole se non rendo bene il suo personaggio :D
A presto!
Ro =)

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Capitolo 5
*** Beginning ***


Alice si chiedeva tuttora perché avesse accettato la proposta di Shadow. Anche adesso che il peggio era passato.
La proposta era stata quella di prendere il comando della squadra di seppellitori. Un lavoretto allegro, insomma. Da accettare con una buona dose di masochismo. Purtroppo il masochismo sembrava prendere il controllo, ogni tanto, ed aveva accettato. Dopotutto non avrebbe mai lasciato al riccio la soddisfazione di vederla come una ragazzina debole e paurosa. Va bene che era bassa, ma non era uno stuzzicadenti, non si rompeva al minimo sforzo.
Quanto al peggio…L’ospedale e la chiesa della città non erano stati il massimo. Per fortuna aveva abbastanza volontari, ed erano riusciti a svuotare entrambi gli edifici, impiegando solo un giorno per ognuno. Ma serviva uno stomaco altamente resistente. Nonostante portassero tutti guanti e stivali e mascherine (qualcuno i normali tondi bianchi, altri le maschere antigas, che le mettevano addosso una paura folle, anche se non l’avrebbe rivelato a nessuno), la puzza e il contatto con i cadaveri a volte erano insostenibili. Comunque, a fine giornata avevano sempre raggiunto l’obiettivo scelto, caricando tutti i corpi su un enorme camion che li portava in una zona dove una parte dei volontari scavava fosse grandi a sufficienza. Non aveva idea di come fossero riusciti a procurarsi la benzina: ma c’era, e tanto bastava.
In quei giorni era riuscita a farsi rispettare da tutta la squadra. All’inizio molti l’avevano guardata con sarcasmo, perché era giovane e bassa e dava l’aria di essere una mezza cartuccia. Ma nessuno poteva contraddirla. Oh, no. E dopo che l’avevano sentita urlar loro addosso usando epiteti che avrebbero fatto arrossire un camionista turkmeno, avevano cominciato a darle retta.
In quel momento non c’era bisogno di urlare, però. Tutti svolgevano il loro lavoro con efficienza, entrando e uscendo dalle case della via dove si erano fermati quel giorno e caricando i cadaveri sulla ribalta del camion. Fra poco ci sarebbe stata la pausa pranzo. Adesso erano tutti abbastanza abituati al lavoro da riuscire a tenere giù il cibo, ma alcuni di quelli che arrivavano ancora, i novellini, rimettevano qualunque cosa. Pazienza. Ci avrebbero fatto il callo.
Era nell’ingresso di una delle case, a controllare di non essersi dimenticata nessun pezzo (era così che li chiamavano molti, per sentire meno senso)  quando qualcuno la fece trasalire battendole sulla spalla. – Scusa, sei tu il capo qui?
Si voltò furibonda. Doveva essere un nuovo arrivato, tutti gli altri avevano imparato a non coglierla di sorpresa. Riusciva a essere molto più incazzata del solito, se le facevano prendere un mezzo infarto.
Davanti a lei stava un giovane lupo nero, con una massa di capelli ricci e occhi scuri e penetranti. Il tipico bel tenebroso, avrebbe detto qualunque altra ragazza della sua età, tutta sfrigolante di ormoni. Beh, non lei. Per lei quello era l’ennesimo rompipalle. – Chi diavolo sei?
-Aidan. Aidan Turner. Sono venuto ad offrirmi volontario, e mi hanno detto che qui sei tu a dare gli ordini.
-Chiunque te l’abbia detto ha ragione, Aidan Turner. Io sono Alice Cross e ti consiglio di muoverti a darti da fare. O sei venuto qui solo per scroccare il pranzo?
-No. Sono qui per dare una mano. – All’improvviso sorrise, in un modo che doveva giudicare seducente. – Pensi che potrei aiutare te? Non mi dispiacerebbe se mi insegnassi…a non combinare casini in questo lavoro.
Oh, signore del tempo. Un pervertito. Un altro che le metteva gli occhi addosso e non vedeva l’ora di far andare la lingua e anche qualcos’altro. C’erano stati già un paio di casi di quel tipo, e sapeva che era meglio non incoraggiarli. – Ci penserà qualcun altro a spiegarti. – Si staccò il megafono dalla cintura e lo accese. – Ansell! Rich! Venite qui un attimo.
Ansell e Rich, un nerboruto gatto e un grasso uccello, si girarono verso di lei e la raggiunsero. – Che succede, capo? – chiese Ansell, guardando storto il nuovo arrivato.
-Abbiamo un nuovo volontario che ha bisogno di spiegazioni. Ve lo affido.
I due sogghignarono. Alice a loro affidava sempre i novellini che non tenevano a mente le regole base. Punto primo: qui si lavora, non si scherza. Punto secondo: al capo non si fanno avances. Di solito le imparavano dopo la prima giornata passata a caricare e scaricare cadaveri.
I due misero le mani sulle spalle di Aidan e lo “convinsero” a seguirli. Non erano mai violenti, certo che no. Erano due forzuti dal cuore di burro. Ma incutevano abbastanza timore da dissuadere tutti a fare scherzi, anche se si limitavano a tenere d’occhio i nuovi arrivati.
Il lupo la guardò con una smorfia da sopra il braccio di uno dei suoi controllori. Ad Alice salì spontaneo il sorriso altamente bastardo che sempre arrivava in quei momenti. Un altro problema risolto.
 
-Fammi capire…Quant’è che state insieme, tu e Aster?
-E’ successo alla fine dell’epidemia. Io ero in stato abbastanza catatonico dopo che era morto il mio fidanza toma lui stava già viaggiando e mia trovata. E poi….paf! Colpo di fulmine. Sono stata fortunata. Molto fortunata.
Tikal e Amy si trovavano nel vecchio asilo della città. Avevano scoperto che diverse famiglie arrivate da poco avevano con sé anche dei bambini e si erano offerte di badare a loro durante la giornata, in modo che i “genitori” potessero lavorare come volontari. Al momento in quell’aula dipinta di rosa e giallo c’erano una decina di ragazzini sotto i dieci anni: loro due, sedute sul pavimento,  si prendevano cura dei più piccoli, mentre Vanilla, una coniglia che durante l’epidemia aveva perso la figlia, teneva d’occhio i grandicelli.
-Li adoro quando sono così piccoli – confessò Amy sollevando una volpina sui quattro anni che cercava di scappar via e facendole il solletico. – Sono dolcissimi.
-Poi crescono e cominciano a combinare disastri. – E le due ragazze scoppiarono a ridere.
-Sai, devo cominciare ad abituarmi a queste cose…- La riccia lasciò sgattaiolare via la bambina e si appoggiò una mano sulla pancia. – Temo che presto mi troverò a doverci avere a che fare a tempo pieno.
-Cos…Aspetti un bambino? – Tikal spalancò gli occhi, mentre l’altra annuiva lentamente. – E’ fantastico! E’…è di Aster?
-No, purtroppo no. E’ del mio ragazzo di prima, Scourge. Era un gran bastardo, ma almeno sarebbe stato suo padre.
L’echidna le appoggiò una mano sulla sua. – Avrà Aster come papà. Non è una brutta cosa.
-No, ma…Sono preoccupata.
-Perché?
-A quanto dicono, noi siamo tutti immuni a quella malattia che ha ucciso tutti gli altri. Ma i bambini che sono nella pancia, come il mio…La maggioranza di loro ha un padre che è morto nell’epidemia, quindi hanno solo il cinquanta per cento di probabilità di essere immuni. Potrebbero morire appena nati e…ho paura di questo.
-Vedrai che andrà tutto bene.
-Lo spero. Non sarei qui a tormentarmi se non fosse per gli incubi.
-Quali incubi?
-Faccio quasi tutte le notti dei brutti sogni. A te non capita mai?
Tikal ci pensò su. In effetti le era capitato spesso negli ultimi tempi di svegliarsi di soprassalto nel mezzo della notte, senza però ricordare di preciso cosa stava sognando. Solo lampi di colore, bianco, nero e giallo. – Qualche volta. Cosa succede in quei sogni?
-Di solito sono in una nursery, o in un ospedale. Sento che sta arrivando qualcuno di…di cattivo, non c’ altro modo per definirlo. Poi mi giro e lo vedo, ma è troppo distante e capisco solo che è bianco. Ma so che è lì per il mio bambino, è lì per portarmelo via. Aster dice che tutte le donne incinte fanno strani sogni, ma io credo che sia qualcosa di diverso.
-Sei sicura che non sia lui che sogni?
Amy scosse la testa. – No, non è lui. Ne sono sicura, perché nel sogno cerco sempre di chiamarlo in aiuto. Non so più cosa pensare, Tikal.
-Non ci pensare, sono solo incubi. E’ l’ansia che te li fa fare.
-Speriamo.
L’echidna le mise un braccio sulle spalle. Non riusciva a trovare un altro modo per confortarla.
 
Alice sentiva di provare un odio spontaneo verso il nuovo arrivato. Era proprio una sensazione a pelle. Già normalmente le persone sempre allegre le sopportava poco. Figuriamoci poi se erano dei pervertiti che ci provavano con lei un nanosecondo che l’avevano incontrata. Ma quel lupo, poi, le faceva venire i nervi al solo guardarlo.
Mentre mangiava di malavoglia il suo panino rimase a osservare Aidan che rideva e scherzava con gli altri del gruppo. Si erano trovati subito tutti pappa e ciccia. Uomini. Persino Ansell e Rich gli davano pacche sulle spalle, ed erano passati solo due giorni da quando quel disturbatore della quiete aveva cercato di farle prendere un infarto.
La pausa pranzo era quasi finita. Lei stava appoggiata allo steccato di una casa con il suo panino, abbastanza vicino da sentire i discorsi dei suoi compagni ma abbastanza lontana perché non cercassero di metterla in mezzo. Non era un’asociale, solo una sociopatica ad alta funzionalità. E le andava bene così, grazie tante e vaffanculo.
Peccato che qualcuno non fosse abbastanza furbo da capirlo. Aidan si staccò dal gruppo e le si avvicinò sorridendo. – Che fai qui tutta sola?
Ovvero: Le peggiori frasi per rimorchiare una donna, capitolo uno. – Non sono sicura che siano affari tuoi.
-No, probabilmente no. – Si appoggiò allo steccato al suo fianco. – Disturbo?
-Vuoi una risposta sincera o una educata?
-Credo di aver intuito. – Si staccò immediatamente dal legno. – Non è un problema, comunque.
-Ah sì? E perché?
Il lupo sogghignò e allungò una mano, arrotolandosi una ciocca rossa di capelli intorno al dito. – E’ sempre un piacere farsi insultare da una bella ragazza.
Alice si ritrasse, livida di rabbia. Estrasse il megafono e resistendo all’impellente necessità di darglielo sul naso ci urlò dentro: - Okay, squadra, al lavoro! E cercate di tenere giù quel che avete ingoiato!
Ridendo, il gruppo si disperse, per tornare dove si trovavano prima. La riccia si reinfilò il megafono alla cintura e guardò Aidan di traverso. – Ho precise istruzioni per te, Turner.
-Non vedo l’ora di conoscerle.
-Presto detto: vai. A. Farti. Sterminare. – E si allontanò a grandi passi, stringendo i denti perché non le uscisse niente di peggio. Fare buon viso a cattivo gioco non era mai stato il suo talento migliore, ma troppi insulti avrebbero potuto creare qualche contrasto nella sua squadra.
Ma appena ne avesse avuto l’occasione, oh, se ne avrebbe sentite, quel Turner.
 
Shadow aveva passato l’intera giornata a fare sopralluoghi in ospedale e alla centrale elettrica. Niente di allegro. In ospedale arrivavano continuamente nuovi pazienti, soprattutto per infezioni da ferita o intossicazione alimentare. Molti non avevano un’idea chiara di quando il cibo andasse a male, avrebbero dovuto dare dei consigli a tutti in qualche modo. Si era ripromesso di parlarne con Soter o con qualcuno degli altri.
Invece alla centrale elettrica non c’erano stati miglioramenti notevoli. I tecnici a disposizione erano diversi, ma non molto preparati. Avevano fatto progressi minimi. Sì, era stata decisamente una lunga giornata.
Per questo aveva recuperato Dodgeball prima che fosse Tikal a riportarglielo. In questo modo avrebbe potuto ascoltare le sue chiacchiere apparentemente senza senso lungo la strada, e una volta a casa lo avrebbe lasciato a spassarsela da solo e avrebbe potuto farsi una  dormita. Al momento il sonno era l’obiettivo principale. Non aveva praticamente dormito quella notte: si era svegliato diverse volte, ansimando, cercando di ricordare quali incubi stava facendo…Incubi su prima, di questo era sicuro. Su quello che era successo prima che arrivasse a Metal City.
Comunque, non doveva pensarci. Doveva arrivare a casa e farsi un sonno, possibilmente senza sogni. Per fare prima, imboccò quella che sperava fosse una scorciatoia (non conosceva ancora l’intera città a memoria, anche se adesso che tutti lo vedevano come “il capo” avrebbe dovuto farlo: quantomeno per evitare figure imbarazzanti).
-Shadow, è sbagliato, Tikal fa un’altra strada – gli disse Dodgeball aggrappandosi alla sua mano.
-Lo so, Dodge, ma questa è più corta. – In realtà non ne aveva la più pallida idea.
Proseguirono, ma più andavano avanti più Shadow era sicuro di aver sbagliato qualcosa. Non capiva assolutamente dove diavolo fossero, e Dodge gli stava appiccicato come una piccola cozza grigia, guardandosi intorno con evidente nervosismo.
Il riccio nero camminando si dava mentalmente del coglione. Eccolo qua, il grande capo, perso nelle stradine di una città grande come uno sputo. Mentre stava ancora camminando, sentì la mano di Dodgeball sgusciare fuori dalla sua. Con la coda dell’occhio Shadow lo vide correre verso una delle case che avevano appena superato, una di quelle di cui si vedeva subito che era stata di nuovo abitata.
“Non è che ci abita qualcuno che conosciamo?” Si chiese , frugandosi nella memoria. “Magari qualcuno che la strada la conosce.”
Intanto il piccolo riccio aveva raggiunto la porta dell’abitazione. Si alzò in punta di piedi e bussò con forza.
BAM BAM BAM.
-Dodge! – Chiamò, raggiungendolo. – Fai piano, non puoi buttarla giù! – “Ma chi diavolo ci abita, qui?”
-Silver! – Gridò il bambino, picchiando ancora sulla porta. – Silver, apri!
“Oh, merda.” Non poteva essere quella casa. La casa di suo fratello. Ci sarebbe voluta una sfortuna impossibile per trovarla, e una impossibile il doppio per trovarla mentre era insieme a Dodgeball. “Oh, merda santissima.” – Dodge, vieni via…
BAM BAM BAM.
-Silver! Apri!
La porta si aprì. Per un attimo Shadow fu convinto che avrebbe visto una versione più grande di Dodgeball, magari mezzo decomposto come nel peggiore dei film horror…poi il reale abitante sbucò fuori con aria perplessa e  lui tirò un sospiro di sollievo.
-Ehm…buongiorno?
Era un riccio blu, con occhi verde chiaro che li fissavano sconcertati. Shadow lo aveva già visto…ma dove? Ah, giusto. All’ospedale, quella mattina. Era uno dei medici che vi si erano radunati.
-Salve – disse in fretta. – Credo ci sia stato uno  sbaglio, quindi adesso ce ne…
-Dov’è Silver? – Piagnucolò Dodgeball.
Il riccio blu si piegò sulle gambe e sorrise al bambino. – Chi è Silver, piccolo?
-E’ mio fratello! Era qui l’ultima volta, me lo ricordo!
L’altro alzò uno sguardo interrogativo su Shadow, che allargò le braccia e formulò solo con le labbra la parola morto.
-Non l’ho visto, mi dispiace. Ma io vivo qui da poco tempo. Non so dove possa essere.
-Sei sicuro che non è qua?
-Sì, ragazzino. Vuoi venire dentro a vedere?
Dodgeball scosse la testa e si morse il labbro, sull’orlo delle lacrime, aggrappandosi alla gamba di Shadow . Il riccio blu gli arruffò il pelo e si alzò in piedi.
-Mi dispiace – disse Shadow. – Non ho idea di cosa gli sia preso.
-Figurati, non ho capito molto nemmeno io. I bambini a volte sono strani. – Tese la mano. – Comunque, io sono Sonic. Ma il tuo nome lo conosco già. Lo conoscono tutti, in città.
-Non so se sia un bene – replicò l’altro con un sogghigno, stringendogliela. – Shadow. – Si sentiva nell’imbarazzo più totale, anche se cercava di non darlo a vedere. Conoscere una persona tentando di fermare un bambino in crisi isterica non era di certo il modo migliore. – Adesso ce ne andiamo. Dodgeball, chiedi scusa per il fracasso che hai fatto.
-Scusa. – Mormorò il bambino, in modo quasi impercettibile.
-Nessun problema, ragazzino. – Replicò Sonic, poi si rivolse all’altro adulto. – Beh, allora…arrivederci.
-Già. Ascolta…- Imbarazzo per imbarazzo, tanto valeva dire anche questo. – Sai come si arriva alla piazza centrale?
-Sicuro. Prosegui in quella direzione per due isolati e poi giri a sinistra.
Semplice. Semplicissimo. Quasi ridicolo. Shadow lo ringraziò e lo salutò con un cenno, trascinando via Dodgeball. L’altro replicò allo stesso modo e chiuse la porta.
I due proseguirono in silenzio. Il riccio nero si sentiva vagamente irritato nei confronti di quello strano piccoletto che camminava al suo fianco e che continuava a provocargli figure non proprio piacevoli. Per cui si voltò di  scatto quando lo sentì singhiozzare.
-Adesso spiegami perché piangi! – Si accovacciò davanti a lui e lo fissò malamente. – Hai fatto tutto da solo. Che cosa ti è preso?
-Io credevo…Io p-pensavo…
-Cosa?
-Que-quella  è casa mia e quando ho visto che c-ci abitava qualcuno ho pensato che…che Silver… - Non finì la frase e Shadow si sentì sbollire la rabbia in un attimo, guardando quel bambino distrutto e in lacrime. Lo afferrò sotto le ascelle e lo prese in braccio, mentre lui gli si aggrappava e sussultava per i singhiozzi. Quante volte aveva già dimostrato di non saper trattare con i bambini? Lo aveva di nuovo capito troppo tardi. La morte era ancora un concetto troppo astratto per uno così piccolo, che probabilmente credeva ancora che fosse reversibile.
-Ho capito, ho capito. Andiamo a casa.
Mentre portava via Dodgeball (ma quanto era diventato pesante? Prima era talmente leggero-sottopeso e sull’orlo della morte per fame, a dirla tutta- che non lo sentiva quasi) gli venne in mente una cosa che gli aveva detto Alice, giorni prima:”La speranza E’ l’ultima a morire. Ma prima muori tu. “
Macabro, ma efficace.
 
Quella notte rimase sveglio a pensare, come all’inizio della sua permanenza. Ma stavolta, fortunatamente, non erano i ricordi a tenerlo vigile, ma qualcosa di molto più attuale. Tutti i vari problemi che stava avendo la città a  diventare una comunità funzionante, intervallata da fotogrammi di quello che era successo nel pomeriggio. Continuava a venirgli in mente l’espressione di Sonic quando si era trovato davanti due sconosciuti di cui uno rumoroso come un toro alla carica. Era rimasto praticamente impassibile. Lo invidiava.
Drizzò le orecchie. Qualcuno stava camminando nel corridoio verso la sua camera, come succedeva spesso. Anche se non ultimamente.
Restò ad ascoltare i soliti cigolii della porta, quelli del letto e poi la vocina di qualcuno in piedi su di esso.
-Sei arrabbiato?
-No, Dodge, non sono arrabbiato. – In effetti non lo era. Era solo stanco morto, la fine della giornata non era stata riposante come aveva previsto. Dodgeball si lasciò cadere sul materasso e gli si raggomitolò contro. – Hai avuto un incubo? 
Lo sentì annuire contro di lui. – C’era l’uomo bianco. Vuole portarvi via. Tu e Tikal e Alice. E anche Amy e Aster. Tutti quanti.
-Va bene, va bene. Dormi adesso. Non verrà nessuno, qui.
Il bambino annuì di nuovo e dopo poco Shadow lo udì respirare pesantemente. L’uomo bianco. Sicuro. Avrebbe scommesso la sua pistola ( ora chiusa nel cassetto del comodino) che era tutto da collegare alla botta di emozioni di poche ore prima e che quel “bianco” era suo fratello. Ma certo.
Non c’era niente di cui preoccuparsi.
 
Avrebbe avuto qualche dubbio, poche ore più tardi, quando si svegliò di soprassalto, e tutto quello che riusciva a ricordare era una sagoma bianca che lo guardava…e lo aspettava.
Ho aggiornato con una velocità quasi imbarazzante (e con un risultato più imbarazzante ancora), ma la colpa non è del tutto mia. Eritrophobia ha avuto una parte considerevole in tutto questo. E' il suo capitolo, abbiate pazienza.
Però succedono abbastanza cose e spero che sia soddisfatto anche qualcun altro. Ad esempio una certa persona che chiedeva dell'uomo nero. Sì, avevi ragione, anche se qui è bianco. C'est la vie. Dopotutto l'Omino Bianco è nero.
Tralasciando queste battute pessime....a presto!
Ro =)

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Capitolo 6
*** Thumping ***


La prima, vera buona notizia arrivò alcuni giorni dopo, quando si era ormai ai primi di settembre.  Shadow era andato a controllare la situazione alla centrale elettrica, dove Soter lo aveva accolto con un sogghigno che poteva voler dire di tutto, da una novità eccellente a una di merda.
Lo aveva eletto capo della squadra di tecnici, e Soter aveva preso le redini della centrale in un modo ottimo. Era intelligente, maledettamente intelligente, e faceva rigare dritto chiunque. Ma nessuno era ancora riuscito a dirgli qualcosa di confortante.
Quel giorno il riccio bianco gli venne incontro e gli disse: - Abbiamo novità.
-Buone o cattive?
-Non posso certo raccontarti tutto, ti rovinerei la sorpresa. Vieni.
Shadow lo seguì nell’intrico di stanze quasi labirintico, fino a raggiungere il centro operativo. I tecnici ( che tutti tecnici, poi, non erano: all’assemblea erano sembrati tutti preparatissimi, ma in realtà si andava da quello che aveva lasciato la scuola per fare il meccanico a quello che sapeva a malapena cambiare una lampadina. E lo stesso valeva per i medici. Non pochi erano studenti al primo anno di università o giù di lì, o pensionati settantenni, o addirittura veterinari. Erano rari i veri dottori e i veri tecnici) andavano e venivano, indaffaratissimi.
-L’altro giorno è arrivata una persona che ci è stata di immenso aiuto – continuò Soter. – Abbiamo avuto una fortuna sfacciata. E’ persino più intelligente di me.
-Non che ci voglia molto, a dirla tutta.
-Quanto sei spiritoso, grande capo. Te lo presento. – Si erano fermati sotto un’apparecchiatura collegata a innumerevoli cavi, e sotto di essa, su quello che sembrava un carrello da meccanico, stava lavorando qualcuno. – Tails! Vieni fuori, devo farti conoscere una persona.
Shadow non sapeva cosa aspettarsi: magari un tipo occhialuto e con l’aria da esperto. Di sicuro, si aspettava un adulto. Quello che vide lo lasciò di stucco. Era un volpino giallo, con due code e enormi occhi azzurri da bambino. Un ragazzino. Magari dimostrava meno della sua età, ma era pur sempre un ragazzino.
La volpe si alzò in piedi, pulendosi le mani in uno straccio. – Cosa succede, capo?
-Shadow, ti presento Miles Prower, ex bambino prodigio laureato in ingegneria. Prima dell’epidemia avevano anche parlato di lui su alcuni giornali. Qui alla centrale lo chiamiamo Tails. Tails, lui è Shadow, il nostro attuale presidente. O capo branco, se vogliamo essere completamente sinceri.
Tails arrossì violentemente. – Pia….Piacere – balbettò, tendendo una mano. Shadow la strinse, squadrandolo perplesso.
-Il piacere è mio, credo. Quanti anni hai, Tails?
-Quattordici, signore.
Se non l’avessero smessa di chiamarlo così avrebbe ucciso qualcuno. Probabilmente in modo violento. – Solo Shadow. E’ vero quello che mi ha detto questo individuo qui accanto? Sei già laureato in ingegneria?
-Sì, sign….Shadow. Stavo studiando per prendere anche la laurea in aeronautica, ma non credo serva più a molto adesso.
-Non si può mai dire. – Bene. Avevano a che fare con un ragazzo prodigio che probabilmente ne sapeva più di tutti quelli presenti nella centrale messi insieme. Shadow compreso. Si prospettava una storia interessante.
Soter si intromise, battendo una mano sulla spalla del ragazzo. – Tails ci ha assicurato che se tutto va bene, in due settimane riusciremo a riottenere l’elettricità.
-Due settimane? Stai scherzando? – Il riccio nero si voltò verso Tails. – Ne sei sicuro?
-E’ molto probabile che ci riusciamo. E’ meglio non fare pronostici. Potrebbe succedere di tutto. Ma se tutto funziona…Due settimane.
-Due settimane. – Era ancora stordito. Se avessero potuto riavere l’elettricità sarebbe stato un gran colpo per il morale della comunità,dopo settimane di lampade portatili e  generatori mezzi scalcagnati. Sarebbe stato…beh, probabilmente l’avvenimento migliore da mesi. – Bene. Grazie, Tails. Continua così. Non eseguire gli ordini che ti da questo disgraziato, altrimenti riavremo l’elettricità fra mesi.
Il ragazzo rise. – Sarà fatto.
Soter scosse la testa fingendosi indignato. – Ecco a chi ci siamo affidati. A un irrispettoso idiota che si gratta la testa con la pistola.
Shadow sogghignò, mettendo la mano sulla fondina. – Vuoi che la gratti a te?
-Stavolta passo.
 
Quando uscì dalla centrale elettrica non tornò a casa immediatamente come aveva progettato. Non che non volesse andarci, era stanco come tutti gli altri giorni, ma sentiva che non era il momento.
La verità era che, nonostante durante il suo incontro con Soter e Tails avesse cercato di mantenere un basso profilo, gli stava crescendo un mal di testa atroce, quasi avesse uno scalpello che gli si stava piantando nel cranio, oppure un tamburo che gli suonava dentro.
Riconosceva quel genere di emicrania, quello che saliva ogni volta che i ricordi spintonavano per farsi largo. E sapeva anche cosa li aveva scatenati. Era stato il deja-vu fortissimo che lo aveva colpito come se fosse stato qualcosa di solido contro cui andare a sbattere. Quel momento alla centrale in cui sembrava che finalmente avessero risolto qualcosa, un punto da cui pareva che le cose avrebbero cominciato a girare per il verso giusto….Aveva già visto qualcosa del genere. A Washington. Ma non era finita bene.
E cosa mai è finito bene, Shadow? Gli disse una vocina subdola nella testa. Anche quella era familiare. Tornava ogni tanto, come in quei giorni in cui era solo con i suoi pensieri. Non si era più fatta sentire molto, ultimamente: troppe cose da fare, troppa gente a cui parlare. Ma c’era. Stava lì, in un angolo, e aspettava ogni momento buono per saltar fuori. Non è andato bene assolutamente niente, ragazzo mio, sono tutti morti e quelli che sono rimasti non riescono a  combinare nulla di buono. Ha ragione Soter, la città è nelle mani di un pazzo armato di pistola.
- Io non sono pazzo – esclamò Shadow, poi si guardò intorno rapidamente, rendendosi conto di aver parlato a voce alta. Il suo vagare lo aveva portato nel parco, dove si era accampato i primi giorni. C’erano svariati bambini, ma tutti più lontani. Gli unici abbastanza vicini da poterlo sentire erano una giovane coppia dietro un albero non molto più in là, ma sembravano troppo impegnati l’uno con l’altra per accorgersi di lui.
Si lasciò cadere su una panchina, teso. La voce riprese, gioviale.
Non sei pazzo? Questa è bella!E allora perché continui a girare armato, quando sai che non c’è nessun pericolo? Tieni la pistola vicino a te anche la notte, anche se sei convinto che sia diverso perché è chiusa nel cassetto. Ehi, Dodgeball lo sa che vive nella stessa casa con uno come te,talmente suggestionabile da avere i suoi stessi incubi? Con uno pazzo che parla da solo e che si è lasciato alle spalle delle scene degne di un film dell’orrore? Lo sa che metà della colpa di tutto questo è tua, di Soter e dei vostri vecchi amici? Chissà come si sentirebbe al sicuro se lo sapesse!
-Smettila – sussurrò il riccio. Non poteva permettere che cose del genere continuassero a tornargli in mente. Non poteva, ma  continuava a farlo. Perché sentiva che erano vere. Compresa la storia degli incubi. Quell’uomo bianco, di cui non riusciva mai a vedere il volto, ricompariva quasi ogni notte. E lo faceva sentire più fuori di testa che mai.– Adesso smettila.
Ehi bambino, sai che vivi in un posto sicuro?
Shadow si prese la testa tra le mani.
Ehi bambino, sai che vivi in un posto sicuro?
 
Alice arrivò mentre Tikal stava lavorando alle piante del suo giardino. Dodgeball era lì vicino, intento a giocare con la terra. Era tardo pomeriggio, la scuola per i bambini era finita, ma Shadow non era ancora tornato, perciò il piccolo riccio aspettava con lei.
La ragazza camminava in mezzo alla strada, con gli auricolari nelle orecchie e l’aria di una che non vorrebbe vedere nessuno per il resto della sua vita, ma deviò comunque per salutarli. Tikal sospettava di non essere lei l’oggetto d’interesse della ragazza, ma Dodgeball. Anche se Alice non lo avrebbe mai ammesso, era palese che stesse cominciando ad affezionarsi a lui.
-Ciao, Alice – la salutò con un sorriso, che lei ricambiò con una mezza smorfia. – Cosa fai da queste parti?
-Passavo per caso. Torno ora dalla squadra seppellitura – rispose lei, sfilandosi le cuffie dalle orecchie.
-Alice! – Dodgeball si precipitò verso di lei, gli occhi che brillavano, tutto sporco di terra. La rossa alzò le braccia per tenerlo a distanza, ma si vedeva lontano miglia che era felice di vederlo.
-Ehi, ehi, stammi lontano, tu , sei lurido.
-Io non sono lurido. Io sono un aeroplano. – Annunciò il bambino, allargando le braccia e mettendosi a correre su e giù lungo il marciapiede, emettendo rombi poco convincenti. Alice si voltò verso Tikal con un sopracciglio inarcato. – Ma come se le pensa?
-I bambini seguono strade mentali molto complicate. – L’echidna indicò il megafono e i guanti da lavoro che l’altra aveva infilato nella cintura. – Dove siete stati, stamattina?
-Al liceo della città. Forse il posto più allegro da svuotare, dopo l’ospedale e a chiesa. E io credevo che avrebbero tenuto a casa degli adolescenti se si fossero ammalati, ma a quanto pare la stupidità prevale sempre. Era pieno, quel posto. – Fece un cenno verso la casa accanto. – Sempre in tema di menti stupide, Shadow non è ancora tornato?
-Oh, no. Dopo l’assemblea l’avrò visto arrivare prima del tramonto sì e no tre volte. Ha una marea di impegni.
-Oh, già. Lui adesso è il grande capo, il master, il boss. Comanda l’intera Metal City. Inginocchiamoci tutti e adoriamolo! – La rossa alzò le braccia in modo teatrale.
-La butti sempre così sul pesante? – Rise Tikal.
-Solo quando si tratta di idioti. – Sembrò vedere qualcosa con la coda dell’occhio e si girò in quella direzione. – Oh, cazzo. Non un altro idiota.
L’echidna seguì il suo sguardo e vide un lupo nero venire verso di loro. Quando le raggiunse, notò che era molto alto (non solo superava in altezza Alice, il che non era poi tanto difficile, ma anche lei) e anche molto carino. Anzi, decisamente molto figo. Il ragazzo sorrise ad Alice, che lo guardò di sbieco. – Aidan.
-Capo. Rich mi ha detto di comunicarti che domani una mezza dozzina dei nostri volontari non verranno al lavoro. L’intervento di oggi li ha spinti al limite, a quanto pare, e dicono di aver bisogno di una giornata di riposo.
-Era una comunicazione così importante da darti diritto di seguirmi?
-Non ne ho idea. – Il lupo tese la mano verso Tikal, che la strinse. – Aidan Turner. Sono agli ordini di Alice nella sua squadra.
-Tikal, molto piacere. Da quanto tempo sei arrivato?
-Una decina di giorni.- Le lanciò uno sguardo penetrante. -  E’ interessante scoprire che ogni ragazza di Metal City che conosco sia sempre più carina.
Il complimento la fece arrossire, mentre Alice, al contrario livida, si dava una manata sulla faccia. Probabilmente, se avesse potuto avere una didascalia, questa sarebbe stata “facepalm”, come nelle vignette su Facebook, prima dell’epidemia. Colpita da questi assurdi pensieri vaganti, si trattenne a malapena dallo scoppiare a ridere in faccia ad Aidan.
Per fortuna furono interrotti da un tonfo. Dodgeball, tutto perso nelle proprie fantasie infantili, nello spiccare il volo come aeroplano era andato a sbattere contro Aidan. Barcollò all’indietro, timoroso di quello sconosciuto che probabilmente adesso lo avrebbe sgridato.
-Dodgeball! – Lo redarguì Tikal. – Chiedi scusa subito!
-Oh, non preoccuparti, quando ero piccolo io andavo a schiantarmi persino contro me stesso. – Il lupo guardò in basso, con un sorriso. – E tu chi saresti, ragazzo?
Il riccetto parve pensarci un po’ su, poi allargò di nuovo le braccia. – Io sono un aeroplano! – Scandì.
–Ma davvero? - Il sorriso di Aidan si allargò. – E allora io sono un missile antiaereo. Fermati, bandito! – E cominciò a corrergli dietro, imitando il rombo di un razzo in modo appena più convincente. Dodgeball strillava eccitato, felice di aver trovato un compagno di giochi.
Tikal scoppiò a ridere, non tanto per l’assurda scena che aveva davanti, quanto per l’espressione di Alice mentre fissava i due che si rincorrevano in mezzo alla strada. La ragazza aveva gli occhi spalancati e la bocca contratta in una smorfia perplessa.
-Uomini – borbottò alla fine. – Non cambiano mai, dalla culla alla tomba. – Scosse la testa.
-Ti piace quel ragazzo? - Le chiese l’echidna, in un sussurro cospiratore.
-Stai scherzando? Neanche se l’alternativa fosse di scegliere fra lui e uno psicopatico pluriomicida.
-E’ molto carino. E tu sembri piacergli molto.
-Lo vuoi? Puoi tenertelo. – Alice si passò una mano fra i capelli. – E’ irritante. Sto ponderando l’idea di dirgli che sono lesbica. Così. Solo perché vada a ronzare intorno a qualcun'altra.
-Ah, fai pure. Ma attenta, a volte dire di essere lesbica causa effetti persino controproducenti, te lo assicuro.
-Perché, tu sei lesbica?
-Hai presente quella teoria secondo cui gli etero sono di una sponda e i gay sono dell’altra sponda?
-Sì?
-Fai conto che io non sia né di una sponda né dell’altra. Nuoto nel mezzo.
-Oh. – Non sembrava molto stupita  da una rivelazione del genere. Di sicuro aveva un’aria meno inorridita di tante persone a cui aveva detto la stessa cosa, prima dell’epidemia. Ma forse Alice aveva un cervello almeno un po’ più grande di quelle persone. Sentì che cominciava a provare un grande rispetto, per lei.– Sai, c’era un personaggio, in una serie che guardavo in tv prima. Jack Harkness, si chiamava. Ci provava con chiunque e qualunque cosa, per lui non c’era differenza, che si trattasse di uomini, donne, alieni e cabine del telefono. E’ più o meno la stessa cosa?
Tikal ricominciò a ridere, stavolta senza fermarsi. – L’idea è quella.
-Perfetto. Posso dire a…..a Aidan, quello là, che sono la tua ragazza. Sarebbe un alibi perfetto. Posso dirglielo?
-Se vuoi. – Ma aveva la sensazione che non l’avrebbe fatto. Non sapeva perché, ma sentiva che sotto sotto, nascosto dietro quella patina di irritazione, c’era qualcos’altro. Non era sicura di cosa si trattasse, se affetto o un odio ancora più profondo, ma sarebbe spuntato fuori.
E sarebbe stato divertente restare a vedere cosa sarebbe accaduto.
Non un capitolo lunghissimo, è vero. Ma è stata una settimana piena di cose di scuola. Per fortuna non stavo abbastanza attenta da non poter progettare un po' di storia.
Comunque, è passata. Ragazzi, ho preso sette meno di greco. SETTE MENO. Concedetemi un attimo di autocompiacimento :D
In ogni caso, lasciando perdere questi piccoli scleri, spero vi piaccia il capitolo. A presto.
Ro =)
 

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Capitolo 7
*** Nightmares are coming to town ***


Quando vide la rondine viola che gli stava venendo incontro, il primo pensiero che Shadow ebbe fu “E questa cosa vuole, ancora?”
Capitava fin troppo spesso che qualcuno lo intercettasse mentre era all’ospedale, alla centrale o semplicemente camminava per strada. Di solito nuovi arrivati, ma anche qualcuno già residente a Metal City da tempo. E avevano in comune una cosa sola: pensavano tutti che, essendo lui il “capo”, sapesse ogni cosa che accadeva in città. Quanti abitanti c’erano, cosa sarebbe stato fatto per migliorare la situazione, e ovviamente le immancabili domande sull’elettricità. Domande, domande, domande. Sempre uguali. A cui lui, ovviamente, dava risposte sempre uguali. Sì, l’elettricità tornerà a breve. No, non so di preciso quante persone ci siano. Eccetera eccetera.
Per questo la vista della ragazza gli faceva salire l’irritazione automaticamente. Proprio perché quasi sicuramente lo avrebbe assillato con le sue domande….oppure provandoci con lui. Accadeva anche questo. Non poche avevano già tentato di flirtare con lui più che altro perché lo vedevano “importante” e “misterioso”. Purtroppo per loro, avevano scoperto che era abbastanza misterioso da riuscire a ignorarle tutte. Non voleva una relazione, era l’ultimo dei suoi pensieri. Aveva tutta una serie di problemi prima di preoccuparsi di quelli mentali delle fanciulle che gli correvano dietro.
Però continuavano a dargli fastidio.
-Ciao – gli disse la rondine, sorridendo nel palese tentativo di sembrare seducente – sei tu Shadow?
-Possibile. – Non gli andava di sembrare troppo cordiale. – Tu sei…?
-Mi chiamo Wave, sono arrivata da pochi giorni e avevo sentito parlare di te, così ho voluto conoscere chi comanda qui.
-Oh, beh, piacere. Ma io non comando un bel niente. Tengo solo d’occhio la situazione.
-E’ importante anche quello – replicò Wave, socchiudendo gli occhioni blu. Shadow si trattenne a malapena dallo scoppiarle a ridere dritto in faccia. Era quasi ridicola. Sembrava lo stereotipo della farfallona.
-Mh.  Grazie. – Ricominciò a camminare, sperando che la ragazza desistesse. Ovviamente non lo fece. Sarebbe stato troppo fortunato, se fosse accaduto. Wave lo seguì, sempre tentando di attirare la sua attenzione.
“Questa non me la stacco più di dosso” gemette Shadow nella sua testa. Aveva, come si ritrovava spesso a ricordarsi, una sopportazione minore per le ragazze flirtanti che non per i bambini che piangevano. Anche perché i bambini, a un certo punto, smettevano. Le altre no, a meno che non si dicesse loro chiaro e tondo in faccia di andare a svolazzare da un’altra parte. E talvolta nemmeno in quei casi.
Wave gli tenne dietro finché non furono arrivati alla casa del riccio. Nel giardino accanto, Tikal stava (ancora, come ogni giorno, ogni attimo in cui non aveva altro da fare) lavorando alle sue piante, inginocchiata dietro un cespuglio. Si alzò con un sorriso vedendolo arrivare. – Ciao, Shadow. Non è un po’ troppo presto per tornare? Non sono ancora le nove.
-Spiritosa. Non avevo nulla da fare. – Si guardò intorno. – Dodgeball dov’è?
-E’ passato di qui Aster e se l’è portato via. Credo siano andati a scassinare un negozio di musica.
Un colpetto di tosse alle spalle del riccio gli fece ricordare di non essere (purtroppo) da solo. – Lei è Wave. Wave, ti presento Tikal. – Disse a malincuore.
L’echidna per un attimo impallidì, poi arrossì di botto. Shadow ebbe la sensazione che fosse rimasta molto colpita dalla sconosciuta. La cosa lo sconcertava. Sapeva, ovviamente, delle preferenze che lei aveva, ma non riusciva a capire come potesse essere attratta da Wave. Non gli era sembrata una ragazza di cui potesse essere possibile desiderare una conoscenza più profonda. Si guardò alle spalle per accertarsene. No, niente di eccezionale.
Tikal balbettò un “piacere” con voce flebile, mentre la rondine le rispose con tono piatto e disinteressato. Non pareva che le importasse molto di lei, e ora nemmeno di Shadow, visto che non aveva più la possibilità di flirtare. Salutò in fretta e se ne andò, lasciando il riccio a guardarla più allegro. Forse aveva pensato che lui e Tikal avessero una relazione. “Meglio così” decise.
Entrò nel proprio cortile, rivolgendo un ghigno alla sua vicina. – Ti è piaciuta la rompipalle della settimana? – La ragazza sapeva tutto di ogni povera sciocca che ci aveva provato con lui, e rideva di gusto dei loro tentativi di acchiappare un bel tenebroso.
Lei arrossì di nuovo. – Non essere sciocco.
-Buona fortuna. Se vuoi, posso chiederle il suo indirizzo, credo non aspetti altro.
-Stai zitto.
 
Qualche giorno dopo, Shadow decise di portare Dodgeball dal medico.
Non che fosse ammalato. Ma quegli strani incubi dove un misterioso uomo bianco appariva e scompariva continuavano a tormentarli entrambi,impedendo loro di dormire decentemente. E mentre Shadow era stato a suo tempo addestrato ad essere in piena forma anche dopo due ore di sonno, Dodge era solo un bambino, e come tutti i marmocchi diventava apatico e insofferente quando si sentiva stanco.
Gli avrebbe dato volentieri qualche pillola per il sonno, anche solo per poter riavere la pace notturna di prima del suo arrivo, ma temeva di dargli qualcosa di troppo forte. Non aveva certo intenzione di drogare un bambino. Di qui la decisione di andare da un dottore.
L’ambulatorio accanto all’ospedale funzionava ventiquattr’ore su ventiquattro, per evitare che chi aveva problemi fisici ridotti finisse a importunare i medici dell’ospedale. Quel giorno, comunque, era vuoto, fatta eccezione per loro e per il paziente all’interno dello studio medico.
Dopo una decina di minuti, la porta si aprì e ne uscì una ragazza con in mano un mazzo di foglietti di carta. Alle sue spalle comparve il medico di turno, che si rivelò essere…Sonic.
Shadow si sentì immediatamente preso dall’imbarazzo. Non era il massimo ritrovarsi faccia a faccia con una persona a cui il tuo bambino aveva prima martellato alla porta e poi piagnucolato davanti. Dodgeball doveva pensarla allo stesso modo, perché si nascose dietro di lui, sbirciando a occhi spalancati il riccio blu.
Riccio blu che peraltro si sentiva perfettamente a suo agio. Fece un largo sorriso. – Ma chi si rivede. Venite dentro.
I due entrarono, con un disagio quasi palpabile. Sonic si sedette alla poltrona del dottore. – Allora, chi dei due è il malato?
- Lui – replicò Shadow. – In realtà non è malato, ma ha dei problemi a dormire.
- Davvero? – Sembrava sorpreso. – Beh, vediamo se ha fatto qualche danno, questo problema di sonno.
Issò Dodge sul lettino e lo osservò attentamente. – A prima vista sembra tutto normale. Quali sarebbero questi problemi, ragazzino?
Dodgeball si girò verso Shadow con uno sguardo implorante. Il riccio nero decise di rispondere . – Dorme poco. Si sveglia in continuazione e ha degli strani…incubi.
-Incubi? Che genere di incubi?
-Sogna sempre la stessa persona, uno sconosciuto.
-E cosa fa questo sconosciuto, ragazzino?
-Non lo so. Fa un sacco di cose diverse. Stanotte aveva mandato qui un…un…- Il riccetto aggrottò la fronte. – Non me lo ricordo.
-Non importa. – Ridacchiò Sonic.
 
La visita di controllo durò solo pochi minuti, dopodiché Sonic tornò a parlare con Shadow.
-Non ha niente sul piano fisico, sta benissimo. Credo sia una questione di stress,  dopotutto siamo nella situazione più assurdamente stressante che esista.- Scrisse qualcosa su un foglietto e glielo porse. – Dagli queste. Una ogni giorno, un’ora prima di andare a letto. Sono pastiglie di melatonina, niente di troppo forte, ma dovrebbero funzionare.
-Grazie. Mi dispiace di essere venuto fin qua, ma non volevo rischiare di…..drogarlo, o che so io.
-Un’ottima idea. Non sai quante mamme, o in questo momento madri adottive, si improvvisano infermiere e poi fanno stare peggio i bambini. – Si sedette sulla poltrona e incrociò le braccia dietro la testa. – Sai, è curioso. Ultimamente sembra che tutti i ragazzini di Metal City abbiano cominciato ad avere incubi come il tuo.
Shadow drizzò le orecchie. – Come?
-Vengono quasi tutti i giorni, per i bambini e a volte anche per gli adulti. Dicono che fanno brutti sogni….inquietanti, a dire il vero. E io non posso fare a meno di unirmi alla massa, anch’io sogno cose strane in questo periodo.
-Sei sicuro?
-Credo di sì….Perché?
-Non è una cosa molto normale.
-Potrebbe essere dovuto all’ansia.
-Un’ansia collettiva? Tutti nello stesso momento?
-Hai ragione.
Il riccio nero esitò. Aveva un’idea, ma non era sicuro di volerla proporre. Decise di buttarsi. – Ascolta – disse abbassando la voce, perché Dodgeball si era infilato il pollice in bocca e li fissava con enorme interesse – potresti informarti su questi incubi? Magari con la scusa di vedere le loro condizioni di salute?
-Mi stai chiedendo di farti da spia?
-Qualcosa del genere.
-Forte. Il medico investigatore. Com’è che si chiamava quella vecchia serie? Un detective in corsia, ecco.
-Lo farai? Credo che sia…..discretamente importante.
-Sicuro. Da adesso in poi chiamami Agente ZeroZeroSonic.
-Grazie. Fammi sapere cosa scopri.
-Spero di non scoprire niente, a dirla tutta. Non è molto rassicurante l’idea di uno sconosciuto che si intrufola nei sogni altrui.
Shadow sbirciò con la coda dell’occhio il bambino che era ancora sul lettino e sembrava sul punto di addormentarsi lì dov’era. – Non sai quanto tu abbia ragione.
 
Sonic gli portò i risultati che aveva ottenuto alla sua successiva ispezione nell’ospedale. E, come avevano temuto, non erano risultati tranquillizzanti.
Il riccio blu non era riuscito a incrociarlo durante la giornata, ma praticamente si scontrarono mentre uno entrava e l’altro usciva dall’edificio.
-Sei esattamente la persona che stavo cercando. – Sonic pilotò Shadow fino a una panchina in disparte, dove poi estrasse di tasca alcuni foglietti strappati da un quaderno o qualcosa di simile, dove aveva segnato tutto per paura di scordarselo. – E’ qualcosa…..di assurdo.
-Cosa hai scoperto? – Shadow era parzialmente incuriosito, ma soprattutto preoccupato. Di qualunque cosa si trattasse, non poteva trattarsi di nulla di buono. E coinvolgeva anche lui stesso. E Dodgeball. E anche Tikal, come aveva scoperto dopo alcune domande discrete un paio di sere prima.
-Ascolta. Sono andato a parlare con i bambini che avevo visitato. Prima ho chiesto loro se continuassero a fare brutti sogni, e la maggior parte ha detto di no. Ma quelli che non hanno preso la melatonina mi hanno risposto di aver continuato a vedere questo sconosciuto bianco che voleva da loro…ogni volta una cosa diversa. E anche i ragazzini che avevano preso la medicina mi hanno parlato dei loro incubi delle settimane passate me lo hanno descritto come una persona mai vista. Due o tre giurano di averlo visto più da vicino e di sapere che è un echidna. Qualche possibilità su chi possa essere?
-Nessuna. Mai visto uno così in questa zona. – Shadow sfogliò i pezzi di carta. – Hai scoperto altro?
-Oh. Sì. Non ho ancora sfoderato la mia arma migliore: le mamme ansiose. Alcune, preoccupate, mi hanno riferito di aver avuto a loro volta degli incubi come quelli dei loro bambini. Mi hanno chiesto se ci fosse da aver paura.
-E tu cosa hai risposto? Le hai rassicurate, vero?
-Ovvio. Ogni medico deve essere anche un po’ psicologo. Ho detto loro che potevano stare tranquille e che, se proprio volevano farla finita con gli incubi, potevano prendere le stesse pillole dei bambini. – Fece una pausa. – Il fatto di non aver paura…..è ancora la verità, per ora, no?
-Credo di sì. – Ma non era sicuro che sarebbe stato così ancora a lungo. Aveva un brutto presentimento su ciò che stava accadendo, davvero molto brutto.
-Beh, io ho fatto il mio lavoro. – Sonic si alzò in piedi. - Se hai ancora bisogno di me, fai un fischio.
-Grazie. Ho la sensazione che questa roba sarà abbastanza utile.
-Non c’è di che. – Gli batté una mano sulla spalla e si allontanò fischiettando. Shadow restò ancora per un po’ sulla panchina, a fissare i foglietti scarabocchiati di appunti senza vederli, riflettendo. Poi, quando capì che i suoi pensieri stavano arrivando a risultati troppo pessimistici, si alzò, accartocciò le pagine ed entrò in ospedale infilandosele in tasca.
Meglio cercare di pensare positivo, finché era possibile.
Questo capitolo è così USELESS. In inglese, proprio. Per render meglio l'idea. Ma la scuola si mette sempre in mezzo, e non riesco a tirar fuori nulla di buono. Mi dispiace T-T
Spero che qualcosa almeno vi piaccia. Incrocio le dita, davvero.
Alla prossima!
^Ro^

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Capitolo 8
*** Two don't always make a couple ***


Alice si bloccò sui due piedi, girando l’angolo e trovandosi di fronte quell’alta e purtroppo familiare figura dai capelli ricci.
Aveva visto poco Aidan nei giorni precedenti, cosa di cui non poteva che essere grata, nonostante fosse arrivata, con il lupo, se non al livello di amicizia, a quello di sopportazione. Ma nessuno aveva più bisogno della squadra di seppellimento; avevano ripulito praticamente ogni edificio della città. Perciò il gruppo si era sciolto, e ognuno dei suoi membri ammazzava il tempo come poteva. Come Alice in quel momento, che aveva nei suoi progetti solo il deludente reparto elettronica del supermercato e una scorta di pile che durasse fino a che non avessero ridato l’elettricità.
Questo finché non aveva visto Aidan cercare di scassinare la porta di un negozio.
Si fermò e lo osservò, cercando di resistere alla tentazione di avvicinarsi e ridergli in faccia. Lui non l’aveva notata. Era troppo concentrato a cercare di aprire la porta, che si rifiutava ovviamente di obbedirgli, restando ferma al suo posto.
Si sedette sul marciapiede ad osservarlo. Sembrava immensamente stupido. Non che abitualmente brillasse per la sua intelligenza, ma in una situazione del genere non poteva che peggiorare.
Il bruno lasciò apparentemente perdere la delicatezza e iniziò a spingere la porta. Ma nemmeno questo funzionava. – Fanculo. – Borbottò, raddrizzandosi.
Per un attimo Alice pensò che se ne sarebbe andato, terminando lo spettacolo, o che l’avrebbe vista. Forse questo sarebbe stato ancora meglio. Sapeva perfettamente quanto gli uomini odiassero le battute sulle “porte che non si aprono” davanti a loro, soprattutto uomini come Aidan.
Ma Aidan non lasciò perdere, né la vide, nonostante fosse solo a un paio di case di distanza. Si diresse verso l’abitazione più vicina, vi entrò e ne riemerse dopo una manciata di secondi imbracciando un estintore.
“E questo cosa vuole fare?” Si chiese Alice perplessa, anche se non era molto sicura di volerlo sapere. “Magari è solo uscito di testa definitivamente. Sarebbe anche ora.”
Il ragazzo ritornò davanti al negozio in cui stava cercando di entrare, più precisamente davanti alla vetrina. Ondeggiò su se stesso un paio di volte, poi si gettò contro il vetro puntandovi contro l’estintore. La vetrata si sgretolò, spandendo pezzi tutt’attorno. Aidan si arrampicò dentro e scomparve nel negozio buio.
Alice si riscosse dalla sorpresa che l’aveva immobilizzata. “Beh, questo è qualcosa di nuovo”. L’ultima volta che aveva visto qualcuno fare qualcosa del genere era stato in una serie televisiva, e a farlo era stato un attraente criminale psicopatico, non uno spilungone pervertito.
Si alzò e andò a infilare la testa nel buco sfrangiato dove prima era la vetrina. – Ehi, scassinatore!
Si udì un tonfo seguito da una sfilza di imprecazioni. – Merda. Mi hai fatto sbattere la testa, capo!
-Scusa, stellina, tanto non c’era niente da rovinare là dentro. – Entrò a sua volta, sbattendo le palpebre e cercando di abituarsi alla semioscurità.
Era un negozio di articoli sportivi. Intorno a lei erano appesi palloni, ginocchiere, sci e quant’altro. A terra, in mezzo alla confusione di polvere e frammenti di vetro, spiccava una grande borsa da ginnastica che sembrava essere stata appena tirata fuori. Aidan era in piedi accanto ad essa, strofinandosi la testa. – Grazie, capo.
-Non c’è di che, Turner. E ho un nome, se la botta non te l’ha fatto scordare.
-Oh, scusa….Cross. Cosa ci fai qui?
-Ho visto la tua performance con l’estintore. Che cazzo ti è preso?
-Era l’unico oggetto contundente che ho trovato.
-Geniale. Cosa stai facendo, qui?
-Mi procuro del…materiale.
Alice sbirciò nel borsone. Nella fievole luce intravide degli arnesi che somigliavano a dei….fucili?
-Hai intenzione di sparare a qualcuno, Turner?
-Solo a qualche cervo, se li trovo in giro. Non ne posso più di carne in scatola, e me la cavo abbastanza col fucile.
Non era una novità. Ultimamente sempre più uomini avevano iniziato ad andarsene appena fuori città con armi di genere vario per andare in cerca di cervi, daini e simili. Una scelta intelligente, fino a che non avessero iniziato a puntarsi le stesse armi l’uno contro l’altro. Dopotutto le scatolette erano davvero monotone a lungo andare.
Aidan staccò un arco professionistico dalla parete e lo infilò nella borsa, insieme a una serie di frecce dalla punta colorata.
-Anche l’arco?
-Ehi, sono bravo! Meglio che con il fucile.
-Non ci crederò finché non lo vedrò.
-Hai tempo? Ti mostro subito quel che so fare, se vuoi.
-Credo di aver altro in programma, Turner, grazie. Non ho tutta questa fretta di vedere un uomo adulto rendersi ridicolo con un arco giocattolo.
-Sentiamo, cos’altro dovresti fare?
-Non avrai intenzione di venire con me, vero?
-Certo che no.
 
Il supermercato era abbastanza affollato, un fatto stupefacente,  se si considerava quanto fosse ridotta la popolazione della città. Fino a poche settimane prima, sarebbe stato impossibile trovare un tale numero di persone anche soltanto entro i confini cittadini, figurarsi in un solo edificio.
Alice avrebbe volentieri approfittato del viavai di gente per liberarsi del ragazzo che continuava imperterrito a seguirla, ma Aidan, approfittando della sua altezza assolutamente fuori misura, la individuava ovunque da sopra le teste altrui e ricompariva all’istante al suo fianco. Quasi irritante.
-Sembra che tu non abbia niente da fare nella tua vita se non venirmi dietro. In tutti i sensi. – Gli disse dopo essere stata ripescata per la terza volta.
-Come se ti dispiacesse.
-Sì, mi dispiace. Mi sembra di avere con me uno di quei cani da riporto ingombranti e irritanti.
-Questa era pesante. Se ti dispiace così tanto, vado a trovare la tua amichetta Tikal. Sarebbe molto più felice di vedermi.
-Non direi. E’ lesbica dichiarata.
-Mi stai prendendo in giro.
-Vuoi chiederglielo?
-Non la vedo in giro. – Aidan finse di guardarsi intorno, poi si fissò su un punto alle spalle di lei. – In compenso c’è quel bambino che ti ama. Il piccolo aeroplano.
Alice si voltò. – Toh, Dodgeball. – In fondo alla corsia, caricandosi allegramente di pacchi di dolciumi, vi era proprio il riccetto argentato. Il suo riccetto argentato.
Non le erano mai piaciuti i bambini. In orfanotrofio, tutti quelli che c’erano non facevano altro che frignare o rompere qualcosa. Ma Dodge era diverso. Diceva una quantità assurda di cose improbabili, era un inguaribile ottimista e sembrava convinto che lei fosse meravigliosa. Ma, nonostante tutto questo, era adorabile. Se non avesse cercato di contenersi, avrebbe detto di essersi innamorata di lui. Come quasi tutti in città d’altronde. I bambini erano pochi rispetto agli adulti, e venivano coccolati e viziati da ognuno di loro. E da quel bambino in particolare, poi, era difficile non farsi intenerire.
Adorava Alice, ricambiato come detto. Ma anche Aidan, e questo era un fatto assolutamente inspiegabile. Probabilmente, fra mocciosi si intendevano.
Camminando velocemente, quasi correndo, la ragazza si avvicinò a lui. Dodgeball non l‘aveva vista (ma cosa avevano tutti quel giorno? Era forse diventata un fantasma estremamente nervoso? Un poltergeist?  Non si accorgevano di  lei neanche da venti centimetri di distanza) e lei si prese il gusto di sussurrargli nell’orecchio: - Ti riempirai di carie e ti verranno i funghi sui denti.
Il bimbo trasalì, lasciando cadere le confezioni di dolci, poi si girò con un enorme sorriso stampato sulla faccia. – Alice! – Le saltò addossò, stringendola in un abbraccio che raggiungeva solo le gambe. Lei l’avrebbe volentieri preso in braccio, ma fra la sua altezza ridotta e la repentina crescita del ragazzino (era già la metà di lei, cosa non difficile, se non si fosse trattato di un individuo sotto i sei anni) era impossibile.
-Che cosa fai qui da solo, tu? Sei venuto a derubare qualche vecchietta?
Dodgeball rise di gusto. – Non sono da solo! C’è Amy!
-E tu che hai fatto? Sei scappato?
-No-no. Però Amy ha incontrato delle altre signore e parlavano tanto taaaanto…
-Dodge, se cominci a cercare compagnia nel cioccolato a quest’età, da grande diventerai come me.
-Io VOGLIO essere come te da grande! – Sorrise lui.
Beh, questa era una novità. – Dormi troppo poco per essere come me. – Sapeva, anche se non si ricordava che gliel’avesse spettegolato (probabilmente Tikal), che il piccoletto aveva dei problemi di sonno. Cosa che lei fortunatamente non aveva mai avuto, il dormire era la parte migliore della giornata.
-Adesso no! Prendo le medicine e dormo tuuuuutta la notte!
-Le medicine? Che medicine?
-Delle pastiglie piccole piccole – Dodgeball avvicinò due dita per mostrarne la dimensione.
Oddio, quel esemplare dal cervello minuscolo che era Shadow si era messo a drogarlo? Cosa gli dava, Valium? – Come si chiamano? Te lo ricordi?
-Cominciava con una mela. Melaqualcosa.
Melatonina. Almeno non creava dipendenza. – E dormi, adesso?
-Io sì. Shadow no. – Aggrottò le sopracciglia e  si rabbuiò di colpo.
-Perché lui no?
-Non lo so, però stanotte secondo me ha fatto i brutti sogni anche lui, perché… - Ma non finì la frase, perché si sentì un botto poco lontano. Si voltarono contemporaneamente, e videro Aidan (di cui Alice si era completamente scordata) bagnato fradicio, mentre una pozzanghera di chissà cosa si allargava ai suoi piedi.
-Turner? Cosa-hai-fatto.
-Aidan? – Dodgeball guardò in alto, verso di lei, con negli occhi la voglia di chiedere “Posso ridere o è una brutta cosa?”.
-Mi è….caduta…una Coca-Cola. – Sillabò il lupo con una smorfia. Si passò la lingua sulle labbra, poi fece un largo sogghigno. – Ehi, qualcuno ne vuole un sorso? – Urlò, rivolto alle persone che si erano interrotte nello scegliere pacchi dagli scaffali e ora lo guardavano perplesse.
-Fai schifo, Turner. – Alice chiuse gli occhi per non vedere quello spreco di neuroni che gli stava davanti, e verso cui Dodge stava correndo, ora ridendo senza trattenersi, ma intanto i suoi neuroni stavano lavorando intensamente.
Perché il piccoletto era tanto sicuro che Shadow avesse avuto degli incubi? Perché lo aveva spaventato tanto questo fatto? E soprattutto…come si permetteva quel riccio psicopatico di mettere paura al suo bambino?
 
Mentre Alice, dall’altra parte della città, si stava scervellando sui suoi incubi, Shadow avrebbe desiderato tanto di trovarsi in uno di essi. Almeno, presto avrebbe potuto svegliarsi senza avere più ragazze insopportabili alle calcagna.
Wave sembrava pedinarlo. Compariva imperterrita ovunque lui andasse. E nonostante fosse ormai chiaro come il sole a mezzogiorno che stava flirtando con lui, c’era qualcosa di strano, di falso, nel suo modo di agire. Oltre che fastidioso, dunque, era anche inquietante.
Quel giorno era tornato alla centrale elettrica senza nemmeno ricordarsi di lei. La sua unica intenzione era chiedere a Soter perché cazzo non c’erano novità sull’aspetto dell’elettricità. E la rondine, puff! Gli era spuntata davanti come un fagiolo a primavera. In quel momento l’avrebbe volentieri uccisa a mani nude, ma per fortuna Soter l’aveva trascinato via per parlargli in privato.
-Conosci Wave? – Gli chiese il riccio bianco.
-Mi ronza intorno come un moscone. Cosa diamine ci fa qui?
-E’ un genio della tecnica. Non hai livelli di Tails, certo, però…..ci sa fare.
-Piantala e dimmi  cosa sta succedendo. Avevate parlato di due settimane per riottenere la luce. Le due settimane sono passate, la luce dove cazzo è?
Soter si guardò intorno, poi abbassò la voce, in modo che nel rumore della centrale nessuno sentisse ciò che diceva. – La versione ufficiale è che c’è stato un problema imprevisto, ma è successo un vero e proprio casino.
-Spara.
-Sembra che qualcuno abbia sabotato l’impianto. So cosa stai pensando, no, non è stato prima che arrivasse qui tutta questa gente. Erano parti dove avevamo messo le mani noi da poco. Alcune le avevo controllate io stesso.
Shadow restò un attimo impietrito. Un sabotaggio nella sua città. Una città che stava andando avanti alla perfezione…se venivano lasciati da parte gli strani incubi che si diffondevano a macchia d’olio. Stava andando tutto bene. Ma la sempre attuale legge di Murphy diceva che se qualcosa avesse potuto andar male, lo avrebbe fatto,no? – Dimmi un solo motivo per cui qualcuno avrebbe dovuto sabotare la centrale. Uno solo.
-Non sono riuscito a trovarne nessuno. E neanche una sola persona abbastanza stupida da poter decidere di farlo.
-Bene. Fantastico. Adesso dobbiamo preoccuparci anche di un folle che va in giro a distruggere il nostro lavoro. Sono tanto gravi, i danni?
-Non tanto gravi da rovinare tutto, ma abbastanza da farci ritardare di almeno un’altra settimana. Due, se scopriamo che quell’imbecille ha messo le mani in altri posti.
Il riccio nero imprecò. – Ma dovremo anche indagare su questa storia. Non possiamo permettere che un pazzo del genere continui a girare tranquillo e a sabotare quello che gli capita.
-Stai dicendo che devo ricominciare a girare armato? – Soter alludeva al fucile ad alta precisione che si era portato fino da Washington, lo stesso con cui l’aveva visto entrare a Metal City la prima volta, e che adesso aveva smesso di portare con sé, giudicando la situazione tranquilla abbastanza da avere un po’ di fiducia.
-Io non ho mai smesso di farlo.
-Tu non sei esattamente un esempio di sanità mentale.
Shadow sorrise amaramente, pensando a quanto con tutta probabilità potessero essere vere quelle parole. – Come sei spassoso. Comunque, non intendevo quello. Tieni solo gli occhi aperti, e io terrò aperti i miei.
-D’accordo. Ora lasciami tornare a lavorare, se vuoi riavere l’elettricità in tempi brevi. – Alzò la testa e alzò la voce, per farsi sentire sopra il frastuono dei macchinari. – Wave! Lascia perdere quei cavi, non serviranno a nulla se Ralph non sistema quel generatore di sopra! – Lanciò una breve occhiata a Shadow. – E riaccompagna questo brutto ceffo alla porta, ho paura che si perda in un tragitto così lungo.
L’altro gemette. – Sei un tale bastardo…
Soter sogghignò, allegro. – Ci vuole uno stronzo per conoscerne un altro, e tu li conosci tutti.
 
Wave ovviamente non si limitò ad accompagnarlo fino alla porta. Lo seguì  fino sulla strada, parlandogli, tentando di sembrare sensuale (fallendo. Su di lui aveva la carica sessuale della Signora in Giallo), appoggiandosi a lui con fare noncurante, ma in modo che potesse sentire le curve del suo corpo.  Shadow era arrossito, non per imbarazzo, come probabilmente pensava lei, ma per rabbia repressa. Stava tentando di convincersi a non estrarre la pistola per spararle lì dov’era, ripetendosi che era lì per mantenere l’ordine, non per inaugurare gli omicidi a Metal City.
Oltretutto, aveva altro a cui pensare che non i flirt di una ragazza appiccicosa. Quella notte era stata movimentata come poche. Ma stavolta non era stata colpa di Dodgeball, che dormiva pacificamente, ma sua.
Gli incubi sul suo mestiere a Washington erano tornati, più bastardi che mai, ora conditi ogni tanto da una sagoma biancastra in un angolo che scatenava più panico ancora. Nel sonno, sapeva di avere urlato. Sperava che le grida fossero state soltanto nella sua testa, e che non fossero uscite dalla sua bocca. Non aveva nessuna intenzione di far sapere a tutti quale confusione ci fosse nella sua mente, men che meno al bambino che si trovava poche stanze più in là.
Aveva continuato a sperarlo fino alla mattina seguente. Aveva cercato di ignorare il fatto che Dodge fosse più taciturno del solito, e anche le occhiate preoccupate che gli lanciava, autoconvincendosi che erano un prodotto della sua immaginazione. Ma più tardi, per caso, si era reso conto che il ragazzino aveva bagnato il letto durante la notte. E a quel punto, non poteva più illudersi.
Per cui, Wave era l’ultimo dei suoi problemi, anche se era il più assillante.
Per fortuna arrivò un aiuto a liberarlo, nella persona di Tikal.
L’echidna era inspiegabilmente attratta da Wave. Era stato un vero e proprio colpo di fulmine, unilaterale, purtroppo per lei e per Shadow. Ma da quando si era accorta che la rondine ronzava sempre intorno a lui, anche lei aveva iniziato a spuntare nei posti dove sapeva che sarebbe andato il riccio, con varie scuse. Non aveva l’invadenza dell’altra, anzi un giorno gli aveva chiesto ansiosamente se tutto ciò potesse dargli fastidio. Ma non gliene dava, e se anche fosse stato così, non gliel’avrebbe certo fatto notare, non visto che si trattava della persona che si accollava Dodgeball tutti i giorni, per evitare a lui di portarselo dietro.
Tikal si avvicinò sorridendo.  – Ciao, Shadow….Wave. – Le guance le diventarono color papavero.
-Salve – disse la rondine, laconica.
-Ciao, Tikal. Cosa ci fai qui?
-Amy ha voluto a tutti i costi che Dodge andasse con lei, oggi. Vorrebbe tenerlo a casa sua anche a dormire, stanotte, ma ho pensato che fosse meglio chiedere prima a te, visto che in teoria sei tu il suo…”tutore”.
-Figurati se mi da problemi. Se si divertono ad avere quella piccola peste intorno, possono tenersela anche tutta la settimana – sorrise lui.
-Amy dice che vuole fare pratica con tutti i bambini che può, prima del parto. Non so poi perché proprio con Dodgeball, visto che è il bambino più calmo dell’universo, ma…
-Avete un’amica incinta? – La interruppe Wave, improvvisamente interessata. A Tikal non parve vero che le avesse rivolto la parola.
-Oh, s-sì. E’ una delle poche che sono rimaste incinte prima dell’epidemia. A quanto sembra, è anche quella che lo è da più tempo.
-Davvero? Questo vuol dire che da suo figlio capiremo se i bambini con metà sangue infetto sopravvivranno?
-Credo proprio di sì. Spero che vada tutto bene, tutte quelle madri devono avere i loro piccoli.
-Già, speriamo… - A Shadow non piacque la scintilla che vide nei suoi occhi mentre pronunciava queste parole. Era anche vero che niente di Wave gli piaceva. Sentì il bisogno di andarsene. Se se ne fosse andato ora, si sarebbe liberato di lei e avrebbe lasciato le due ragazze da sole. Due piccioni con una fava. Ma serviva una scusa credibile.
All’improvviso gli venne in mente. – Tikal, se Dodge resta a dormire fuori stanotte, gli hai fatto portare la melatonina?
L’echidna si diede una manata sulla faccia. – Ero sicura di essermi dimenticata qualcosa.
-Non importa. Stavo tornando a casa, gliela porterò io.
-Oh, d’accordo. Grazie.
-Allora arrivederci…signore.
Wave non gli dedicò più di un’occhiata mentre lui si allontanava. Sembrava che i pettegolezzi che Tikal tirava fuori fossero diventati all’improvviso di importanza vitale. Nonostante il riccio fosse ormai a diversi metri di distanza, sentiva la sua voce ora più alta accalorarsi nel raccontare lo scoop della settimana: un prete, che aveva lasciato perdere il suo mestiere dopo l’epidemia, si era insediato nella chiesa svuotata e ora predicava tutti i giorni, mentre molti andavano ad ascoltarlo e a pregare, di qualunque religione fossero.
Shadow sorrise fra sé. Se l’echidna riusciva a farsi una fidanzata, tanto meglio.
Almeno lui avrebbe avuto un po’ di pace.
Comincia a preoccuparmi la lentezza con cui aggiorno. Andiamo, domani è dicembre! Quasi imbarazzante. Ma anch'io sto avendo qualche incubo, ultimamente (grazie al cielo senza Omino Bianco), per cui sto facendo tutto il possibile.
Incrocio le dita (quante volte l'ho ripetuto? Troppe mi sa ) e aspetto le vostre recensioni. A presto!
^Ro 

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Capitolo 9
*** Children of the City ***


Soter tornò a cercarlo quando non erano passati nemmeno due giorni, ovvero quando in teoria non avrebbe potuto aver indagato granché. Shadow in quel momento era miracolosamente in casa, tentando di mettere in pratica la sua  abilità in cucina.
-Salve, Shadow, posso parlarti un attimo? – Esordì il riccio bianco, entrando in casa senza bussare. Era diventata un’abitudine in città, ormai, almeno fra chi si conosceva di più. La gente non chiudeva più le porte a chiave le porte, non aveva più paura dei ladri: d’altronde, ora che ogni cosa che si potesse desiderare si trovava gratis, che bisogno ci sarebbe stato di rubarle?
-Sicuro – rispose l’altro, abbandonando una pentola sul fornelletto. Gli bastò intercettare lo sguardo dell’amico per capire che si trattava di qualcosa che era meglio discutere in privato. – Dodge, vai a giocare fuori un momento.
-Tikal ha detto che non devo stare fuori adesso. Dice che fa troppo freddo. – Protestò il bambino dal pavimento dov’era seduto.
-Solo cinque minuti. Poi mangiamo.
-‘Kay. – Dodgeball si alzò e trotterellò via. Soter aspettò  che si fosse chiuso la porta alle spalle, poi attaccò senza preamboli.
-La storia del sabotaggio alla centrale ci è sfuggita di mano. Non so chi se lo sia lasciato scappare, ma adesso credo lo sappia tutta la città. Non che siano molti, ma stanno diventando tutti sospettosi.
-Va sempre a finire così. Basta una parola di troppo e si da il via ai pettegolezzi. Tu hai scoperto qualcosa?
-Nulla di positivo, se è questo che intendi. Ma quel bastardo ha fatto ben altro.
-Che intendi dire?
-Intendo dire che ha collegato diversi di quei cavi che ha spostato in modo pericolosissimo. Non mi aspetto che tu con la tua piccola mente possa capire i vari aspetti tecnici, fatto sta che era tutto pronto per un corto circuito. Se avessimo provato ad accendere, anche solo per una prova, sarebbe certamente esploso qualcosa.
A Shadow si gelò il sangue nelle vene. -  Ma per quale motivo….uno dovrebbe essere uno stronzo tale da….
- Non ne ho idea, ma ho messo degli uomini a guardia della centrale. Anche di notte. Chi se lo aspettava, cazzo? Andava tutto a meraviglia. Quando mai della gente, degli americani soprattutto, si erano fidati tutti gli uni degli altri? Nessuno chiude più le porte di casa la notte.
- Io lo faccio.
- Tu sei paranoico, non conti. E ci sono stati altri problemi. Hai sentito di quel tipo che se l’è presa con il vicario?
Sì, aveva sentito. Il vicario non finiva mai di essere sulla bocca di tutti, prima per aver riaperto la chiesa, poi per questo. A quanto pareva un omaccio gli aveva ingiunto  di smetterla con le sue prediche, perché stava riportando tutti alle vecchie superstizioni e durante l’epidemia quelle non avevano portato da nessuna parte. Il prete aveva caparbiamente risposto di no, e l’altro lo aveva malmenato. Non che Shadow fosse dalla parte del prete (la religione gli era sempre sembrata qualcosa di un po’ troppo paranoico), ma passare alle mani era un po’ troppo. – E’ una grana bella grossa. Ma non so cosa fare, non so come gestire le situazioni come questa. Non posso gettare la gente in cella senza un processo. Non abbiamo neanche una polizia, diamine!
-Esattamente. La polizia ci serve. E la gente se lo aspetta. Era una delle cose che avevi promesso durante l’assemblea.
-Hai ragione. Dobbiamo scegliere delle persone che si occupino di queste faccende. Hai qualche idea?
-Aster – disse senza esitazioni Soter.
-Aster? Ma sei matto? Un agnello è meno calmo di lui!
-Appunto per questo. Riesce a mantenere la calma anche nelle situazioni più impensate. Non ci servono poliziotti isterici che diventino peggio di chi devono arrestare.
-Dovremo chiedergli se è d’accordo.
-Lo sarà. Ma non può farlo da solo.
-Dovremmo organizzare una riunione….Per parlare a lui e ad altri che potrebbero essere le persone giuste.
-E dovremo aprirla anche ad alcuni membri del gruppo dei tecnici. Avranno qualcosa da dire, credo.
-Sicuramente. – Shadow alzò la testa, colpito da un odore acre di cui si accorgeva solo allora.
-Credo ti stia andando a fuoco il pranzo.
-Merda! – Il riccio nero si slanciò sul fornello, dove il cibo contenuto nella pentola si era raggrumato in un ammasso nero e carbonizzato, mentre sentiva Soter ridere a crepapelle.
 
Quando pochi minuti dopo uscirono dalla casa (Shadow aveva fatto sparire i resti bruciacchiati del pranzo), Dodgeball era seduto sul bordo del marciapiede, accanto a un familiare riccio blu. Sonic alzò lo sguardo e sorrise ai due adulti. Shadow ricambiò il sorriso.
-Shadow, è pronto? Io ho fame! – Esclamò il bambino in tono lamentoso.
-Credo…Credo che dovremo scegliere un’opzione alternativa – replicò l’altro mentre al suo fianco Soter ricominciava a sogghignare.
-Che cosa vuol dire?
-Non ne ho idea. – Si sentiva non solo stupido. Sentiva proprio la stupidità prenderlo  e riempirlo completamente. – Suppongo che dovremo andare a cercare qualcos’altro.
-Posso sceglierlo io?
-Va bene, quello che vuoi.
-Se permettete vi accompagno – si intromise Sonic alzandosi e spazzolandosi il didietro. – Devo andare da quelle parti.
-Io invece vi saluto. Shadow. Sonic. Ciao, ragazzino.
-Arrivederci, Soter.
Si incamminarono. Shadow si caricò Dodgeball sulle spalle, altrimenti non avrebbero avuto speranze di arrivare prima che facesse buio.
-Perché mi tiri su?
-Perché sei lento.
-Oh. – Il bambino ci riflette un attimo su, poi sorrise. – Allora voglio essere sempre lento.
Sonic scoppiò a ridere. – Ecco un ragazzo che ha già capito tutto.
Camminarono a lungo. Metal City poteva sembrare una città piccola, ma fisicamente le strade erano belle lunghe. Comunque Shadow quasi non se ne accorse. Parlare con Sonic era piacevole quasi come parlare con Tikal. Era una persona intelligente. E non aveva più tirato fuori il “piccolo” errore compiuto da Dodgeball al loro primo incontro, cosa di cui gli era profondamente grato.
Quando arrivarono in vista del supermercato, il bambino cominciò a scalciare per poter scendere. Il riccio nero lo poggiò a terra e lui corse avanti.
-Niente dolci! – Gli urlò dietro Shadow.  – Te ne fanno mangiare già troppi!
Si voltò e vide che Sonic stava sogghignando. –E’ un bravo bambino – commentò.
-Tutta apparenza. A volte è ingestibile.
-Tutti i bambini sono ingestibili. E questo qui mi sembra uno abbastanza calmo.
-A proposito, di cosa stavate parlando, prima?
-Ah, quello.- Gli brillò una luce divertita negli occhi. – Vedi, mi ha sottoposto un dubbio medico di grande importanza.
-Sarebbe a dire?
-Mi ha chiesto se sarebbe possibile che Babbo Natale avesse contratto la Malattia Vagante. Non ridere, per favore, è una questione altamente seria.
Shadow non rise. Si limitò a guardarlo con un’aria a metà fra inorridito e perplesso. – Stai scherzando, vero?
-Per niente.
-Oh, eccellente. Un dubbio molto preoccupante.
-Beh, per lui lo è. E forse è meglio che si concentri su queste cose piuttosto che su altre più paurose,no?
L’altro provò una punta di vergogna. Naturalmente aveva ragione. Ma come si ripeteva da solo fino alla nausea, non era esperto di bambino. Dodgeball era la sua prima esperienza ravvicinata con loro. Beh…la seconda. Maria era stata la prima. Anche se Maria era stata quasi un’adolescente, allora...Scacciò il pensiero in un angolo remoto della sua testa. - Probabilmente è così. Tu cosa gli hai risposto?
-Gli ho spiegato molto seriamente che è difficile che una malattia del genere sia arrivata fino al Polo Nord, e che in ogni caso ogni medico che si rispetti sa che Babbo Natale è invulnerabile a questi rischi.
I due si guardarono in faccia, poi scoppiarono a ridere insieme.
- Sei un genio. Mi dispiace dirlo, ma lo sai.
- Ehi, non me lo sono inventato! E’ universalmente riconosciuto!
- Ovviamente. Beh, è meglio che vada dietro a quell’altro. Potrebbe fare di tutto, lì dentro.
- Certo. Ci si vede, mh? – Shadow annuì e gli batté la mano sulla spalla, poi si girò verso il supermercato. Sonic parve volergli dare una normale pacca sulla schiena, ma il riccio nero se ne senti appioppare una sulla natica.
Sconcertato, si bloccò e si voltò indietro, ma Sonic stava già correndo via, incredibilmente veloce.
Restò a fissarlo mentre se ne andava per un lungo momento, poi tornò sui suoi passi, scuotendo la testa e sfregandosi la natica.
Non riusciva a spiegarsi perché lo turbasse così tanto.
 
Si accordò con Soter perché la riunione avvenisse tre giorni dopo che ne avevano accennato la prima volta. Il riccio bianco si occupò di avvisare i membri del gruppo tecnico che avrebbero dovuto intervenire, ma fu lui a chiedere ad Aster e ad altri che sarebbero potuti diventare i futuri poliziotti. Si sarebbero riuniti a casa di Soter, sul lato nord della città.
Quando ebbe sistemato tutti i particolari più importanti della riunione, si rese conto che avrebbe dovuto cercare qualcuno che si occupasse di Dodgeball per quella sera. Il bambino, oltre che annoiarsi a morte, sarebbe stato d’impiccio e avrebbe potuto sentire cose non adatte.
Si presentò a casa di Tikal con l’intento di chiederle se avrebbe potuto badare lei al piccolo. Entro automaticamente, ma bussò un paio di volte sulla porta aperta mentre esclamava – Si può?
-Vieni! – Gli rispose l’echidna dalla cucina, per poi uscirne con un vassoio carico di tazze fra le braccia. – Sei sempre di un tempismo omicida. Per fortuna avevo scaldato dell’acqua in più.
Shadow rinunciò all’idea di rifiutare il tè, bevanda che Tikal riteneva quasi sacra, e la seguì in salotto, dove fu sorpreso di vedere Alice sdraiata sul divano. – Che ci fa lei qui?
-Si nasconde da Aidan, il suo spasimante. – Rispose Tikal versando il tè. – E’ un bravo ragazzo, ma un po’ ossessivo. E poi mi fa compagnia.
-Non vedo come. – In effetti la ragazza aveva le cuffiette nelle orecchie e l’aria  completamente assente.
-Non capiresti mai, lupo solitario. – Rise l’echidna passandogli una tazza.  – Allora, cosa ti porta qui?
-Giovedì sera c’è una riunione a cui devo partecipare. Potresti badare a Dodgeball?
Tikal pareva imbarazzata. – Veramente avrei un appuntamento.
-Davvero, con chi?
-Con Wave, se proprio ti interessa. Credo che tu ti sia liberato completamente di lei, contento?
-Molto. Solo che dovrò cercare qualcun altro che dia un’occhiata a Dodge.
-Mi dispiace. – Tikal punzecchiò Alice sul fianco. – Ehi, il tè è pronto, imboscata.
-Ah. – La rossa si tirò su lentamente, sfilandosi gli auricolari e sorseggiando la bevanda calda.
-Si saluta, Cross. – La provocò Shadow.
-Perché mai? Se una persona è educata con me io ricambio. Se no, no, tesoro bello.
-Allora buongiorno.
-Troppo tardi.
-Alice, Shadow avrebbe bisogno di una babysitter – li interruppe Tikal. La riccia gli puntò gli occhi addosso.
-Che c’è? Non hai ancora imparato a cambiarti il pannolino da solo?
-Non è per me, è per Dodgeball.
-Ah. Quando? – Dava l’impressione di avere aumentato appena l’interesse.
-Giovedì sera. Impegnata anche tu?
-No. Va bene. Ma se mi addormento prima io di lui non voglio recriminazioni.
-Sta bene. – Lo colse un’improvvisa illuminazione. – A proposito, Alice, ti è capitato ultimamente di fare qualche incubo…bizzarro?
-Cosa intendi per “bizzarro”?
-Non so, con un tipo sconosciuto, magari bianco…
-Stai ancora cercando cose del genere? – Chiese Tikal perplessa.
-In un certo senso.
-Non ne ho idea,è possibile. Non ne sono sicura.
-Come fai a non esserne sicura?
-Hai idea di quanti sogni assurdi faccio io? Una volta ho sognato che Kermit la rana si infilava nel mio letto e…
-Okay, okay, non voglio sapere.
 
 
Era già buio quando finalmente riuscirono a cominciare la riunione. Nell’appartamento che Soter occupava, al pianoterra di un condominio che probabilmente prima dell’epidemia era occupato soltanto da ricchi, si trovava una dozzina di persone. Oltre al padrone di casa e a Shadow vi erano Aster e altri quattro aspiranti poliziotti, e un gruppetto di tecnici dall’aria nervosa, tra cui anche Tails. Erano tutti uomini, tranne una scoiattolina da capelli castani fra i tecnici e una pipistrella dal seno prosperoso seduta accanto ad Aster.
Quando tutti furono arrivati, Soter si schiarì la voce e cominciò. – Credo che possiamo iniziare. Aster, è possibile che la tua donna partorisca in questo momento?
-E’ un rischio improbabile.
-Allora iniziamo. Credo che sappiate tutti perché siete qui. Dopotutto i pettegolezzi sul sabotaggio hanno fatto il giro della città.
-Pettegolezzi è dire poco – sbottò la pipistrella, che is era presentata come Rouge. – Fandonie è la parola giusta. C’è gente che giura di sapere con esattezza chi, dove e come è stato.
-Queste sono balle vere e proprie. Non sappiamo ancora chi possa essere stato, ma sappiamo perfettamente cosa ha fatto. Ha manipolato le apparecchiature della centrale non solo bloccando il nostro lavoro, ma anche mettendo a repentaglio la vita di tutti quanti. La centrale sarebbe potuta esplodere.
Questo li lasciò tutti ammutoliti per qualche secondo, poi il riccio bianco riprese a parlare. – Questo è uno dei motivi  principali per cui vi abbiamo chiesto di venire. Ci siamo resi conto che, come già Shadow aveva accennato nella prima assemblea, abbiamo tutti bisogno di un organo di polizia o simili che ci protegga da situazioni del genere, che vigili sull’andamento della città e trovi una giusta…non mi piace molto la parola “punizione”, ma l’idea è quella, per coloro che commettono un reato.
-Come quel tipo che ha picchiato il vicario? – Domandò Espio, un camaleonte compagno d Aster e Rouge.
-Esattamente. E’ l’esempio perfetto.
-Ma non dovrebbe pensarci Shadow? – Interloquì la ragazza dai capelli castani, Sally, con uno sguardo interrogativo al riccio nero. – Non è lui che comanda, qui?
Shadow prese la parola per la prima volta. – Io non ho questo potere. Io posso dare consigli, prendere decisioni tecniche, ma non posso certo dare ordini alle persone. Perché mai, se mi mettessi in mezzo in una rissa, l’aggressore dovrebbe darmi retta e non malmenarmi come l’altro? La polizia si occuperebbe della giustizia,e credo e spero che sappiano farsi rispettare.
-Quindi ci avete convocati per chiederci questo? – Chiese Aster.
-Precisamente. Sappiamo che siete persone di polso, ma non isteriche. Non vorremmo che metteste mano a un’arma e cominciaste a sparare all’impazzata.
-Dovremmo girare armati? – Esclamò il gatto sorpreso.
-In realtà speriamo di no – rispose Soter. – So che la situazione attuale invoglierebbe a portare un’arma, ma non vogliamo tornare indietro a prima dell’epidemia, dove metà delle notti moriva qualcuno per una sparatoria.
Aster si appoggiò allo schienale della sedia, come riflettendo, poi parlò come a sé stesso. – Un teaser? Se utilizzato con giudizio tramortisce solo, senza provocare danni seri. E andrebbe utilizzato soltanto con malviventi molto pericolosi, e non credo ce ne siano molti.
Shadow incrociò lo sguardo di Soter, che sogghignò in risposta. Sì, Aster era la persona giusta.
 
A casa di Shadow l’atmosfera era molto più silenziosa. Illuminati da torce e lampade Coleman, Alice e Dodgeball erano in salotto. Il bambino costruiva case di Lego sul pavimento, mentre la ragazza sfogliava un vecchio numero della rivista Doctor Who senza staccare gli occhi dalle pagine. Non aveva idea di che giochi potessero piacere ai bambini, perciò si asteneva dal provare.
Dodgeball, però, non era di questa opinione. Voleva che la sua Alice giocasse con lui, o che almeno gli prestasse attenzione.
Ad un certo punto si arrampicò sul divano dove lei era seduta, fissò il giornale per un po’ e poi puntò il dito sulla copertina. – Perché questo signore esce da una cabina nel telefono?
-Non è una cabina del telefono, è un Tardis.
-E che cos’è un Taddis?
-Un Tardis è una macchina del tempo che può volare anche nello spazio.
-Forte!
-E quello non è un signore, è il Dottore.
-E chi è?
-E’ il pilota del Tardis. Lui va in giro a salvare i pianeti e a fare altre cose importanti.
-Ci sono gli alieni?
-Qualcuno. Anche il Dottore è un alieno.
-Fammi vedere!
Alice gli fece spazio e lui le si sedette in grembo, fissando le fotografie affascinato. – Perché questo qui è verde?
-Perché è un alieno. E’ uno Slitheen del pianeta Raxacoricofallapatorius.
-Raxa…Raxacari…E’ troppo lungo. – Indicò un’altra immagine. – Perché c’è un cestino della spazzatura?
-Non è un cestino, è un Dalek. Il peggiore nemico del Dottore.
-Secondo me è un cestino.
-Tu non capisci niente.
-Non è vero! Non è colpa mia se il Dottore bisticcia con i cestini. – Il bambino mise il broncio.
-Non te la prendere, Doctor Who è una cosa complicata.
-Tanto?
-Tantissimo. Ecco, vedi lui è il Maestro. Il fidanzato di uno dei Dottori.
-Ci sono tanti Dottori?
-Undici. No, in realtà dodici a novembre, e tredici a Natale, quando il Dottore cambierà faccia… - D’un tratto si ricordò che non ci sarebbe stato nessun episodio speciale a novembre, né a Natale, né in nessun altro momento, perché tutti, dall’attore principale al più basso macchinista,probabilmente erano morti, se l’epidemia aveva raggiunto anche l’Inghilterra come molti credevano. Addio Doctor Who, arrivederci a mai più.
Questo pensiero la colpì più in profondità di quanto immaginasse. Certo, sapeva in linea teorica che non ci sarebbero state più serie tv, o film, o altro, ma non si era mai spinta a rifletterci davvero a fondo. Nessuno avrebbe più fatto la fila vicino a un tappeto rosso per la prima di un film, o aspettato in fibrillazione una nuova stagione di una serie. Non ci sarebbero più stati attori da ammirare con le ovaie in esplosione. Nessuno avrebbe mai visto gli ultimi due film de Lo hobbit, o di Hunger Games, o la terza stagione di Sherlock. Non più. No more.
Non aveva avuto veri amici prima dell’epidemia, e i personaggi che popolavano gli schermi e le pagine dei libri erano stati la sua prima compagnia. E ora era andata a sbattere di faccia contro la verità: non li avrebbe ritrovati mai più.
Si rese conto di essere rimasta a fissare il vuoto a lungo quando sentì Dodgeball che le dava dei leggeri pugnetti sulla spalla, chiamandola con voce preoccupata. – Alice? Alice?
Scosse la testa per schiarirsi le idee. – Sono qua, ragazzino.
-Stai bene?
-Certo. Io sto sempre bene. Ora perché non torni a giocare?
-Non voglio. Voglio giocare con te.
-Dodgeball, io non so giocare.
-Ti insegno io! Per favooooore…..
Lei si arrese. – D’accordo, d’accordo. A cosa vuoi giocare?
Il bambino si grattò il naso, riflettendo, poi si illuminò. – Giochiamo al Dottore!
Era il primo a cui sentisse dire una cosa del genere. – Sei sicuro?
-Sì! Io faccio il Dottore, e tu il Dalec!
Era troppo. Era decisamente troppo dolce per poter rifiutare. – D’accordo.- Si alzò. – Sei stato catturato, Dottore!Sterminare!Sterminare!
E nonostante Dodgeball non stesse capendo granché, cominciò a ridere in modo irrefrenabile.
 
Shadow camminava in fretta attraverso la città quasi del tutto al buio. Era maledettamente tardi, e solo in poche finestre erano ancora accese le luci delle lampade.
Camminava e rifletteva. La riunione aveva avuto dei risultati, anche se non tutti quelli che si aspettava. Aster, Rouge, Espio e gli altri de candidati avevano confabulato brevemente fra loro, dopodiché avevano accettato di diventare i nuovi poliziotti d’eccezione di Metal City. Qualcuno, però , aveva sollevato l’obiezione che forse il resto della cittadinanza non sarebbe stato d’accordo;al che si erano accordati per organizzare un’altra assemblea, in cui tutta la gente avrebbe potuto dare la sua opinione, su quello e sulla possibilità di dotarli di un teaser, anche se non era un’idea che andava a genio a molti, nemmeno allo stesso Aster, che l’aveva proposta. La verità era che quasi tutti desideravano che la società cambiasse, e in meglio. Che non ci fosse più bisogno di qualcuno che facesse rispettare la legge o girasse armato. Una vita pacifica e idilliaca. Purtroppo, forse non materialmente possibile.
Dopo questa discussione, erano intervenuti i tecnici. Tails, impappinandosi visibilmente teso di trovarsi in mezzo a tanti adulti che lo guardavano come un salvatore del popolo, aveva spiegato che erano riusciti a rimettere in sesto tutte le parti sabotate, o quasi, e stavano riprendendo il lavoro precedente. Se l’assemblea di cui parlavano si fosse tenuta la settimana seguente, aveva concluso, sarebbero stati pronti ad accendere. Avevano accolto allegramente questa notizia e, fissata una data per il “referendum poliziesco”, come l’aveva definito Aster, avevano sciolto la riunione.
Una seduta positiva, dunque, eppure non riusciva a togliersi dalla testa il tarlo che avrebbe potuto chiedere di più. C’era questa storia dell’uomo bianco che gli frullava nella mente. Aveva un che di abbastanza inquietante. Ma non aveva osato tirarla fuori, per timore che lo guardassero come un mentecatto, anche se  non riusciva a darsi pace.
Arrivo finalmente a casa sua. Le luci erano accese nel soggiorno, e sentiva del fracasso che proveniva da lì. Gli stavano distruggendo i mobili, per caso?
Con un mezzo sorriso entrò, e silenziosamente si affacciò sulla sala. Il sorriso gli si allargò.
Dodgeball, in piedi sul divano, con uno strofinaccio avvolto intorno alla testa a coprirgli un occhio, maneggiava un cucchiaio di legno e tirava di spada con Alice, armata di uno sturalavandini trovato chissà dove. Entrambi lanciavano esclamazioni piratesche.
Shadow fece un passo avanti ed entrò nella stanza. – Vi state divertendo?
Alice si voltò verso di lui e con aria per niente imbarazzata lo minacciò con lo sturalavandini. – Stai indietro, vile canaglia!
Il bambino rise di gusto e corse ad attaccarsi a lui. – Shadow! – L’altro lo prese in braccio e a quel punto anche la ragazza abbassò l’arma. – Guastafeste, mi stavo divertendo.
-Vedo. E questo giovanotto perché non è a letto?
-Voleva aspettarti. Io gliel’ho detto che non era il caso, per gente come te.
-Fai sempre meno ridere. Forza, Dodge, saluta Alice, è ora di andare a dormire.
-Ancora cinque minuti! – Implorò il piccolo.
-Assolutamente no.
-Va bene. Ciao ciao, Alice . – Si sporse dalla sua spalla e inaspettatamente le diede un abcio sulla guancia. – Grazie per il Taddis.
-Tardis, Dodge, Tardis,quante volte te lo devo dire? Vai a dormire, vai.
Dodgeball le fece la linguaccia e la salutò aprendo e chiudendo la mano mentre Shadow lo portava via. – Lo sai, Shadow, che il Taddis vola? Però non come un aeroplano. Vola fra le stelle.
-Va bene, va bene, me lo racconti domattina.
Quando l’adulto tornò, Alice stava contemplando il pavimento, cosparso di oggetti alla rinfusa. Si girava ancora lo sturalavandini nella mano. – Sai, questo è stato un’arma Dalek, prima. E quello lì – indico una scatola di cartone, anche quella di provenienza ignota – quello è il suo Tardis. Abbiamo fatto gli alieni, gli indiani e i pirati.
-Ti è piaciuto, ammettilo. Ti stavi divertendo un mondo.
-Sì, possibile. Com’è andata la riunione?
-Normale, ma non cambiare discorso. Dovresti giocare coi bambini più spesso, sei nel tuo elemento.
-Parliamo di te? Siamo arrivati al livello “padre perfetto”, e se non lo ammetti sarai trovato bugiardo davanti a questa corte.
Naturalmente aveva ragione. – Siamo pari, allora?
-Sì. Posso andarmene o vuoi giocare ai pirati anche tu?
-No, grazie, passo.
Ma mentre lei usciva dalla porta,non poté trattenersi dal dirle dietro: - Ti ha dato un bacio ed eri in imbarazzo! E’ stato il tuo primo bacio?
Lei si limitò ad alzare il dito medio continuando a camminare. – Nei tuoi sogni, verginello. E chiudi la porta, che svegli tutto il vicinato.
 
Si infilò a letto ancora immerso nei pensieri su quello che avrebbe voluto dire alla riunione, senza nemmeno mettere a posto il disordine che i due bambini (non poteva non riferirsi a entrambi nello stesso modo dopo quello che aveva visto) avevano lasciato.
In seguito l’avrebbe trovato un terribile errore.
Si addormentò pochi minuti dopo e sprofondò nei sogni-anzi,negli incubi-quasi all’istante.
Era in un ufficio, un luogo senza assolutamente nulla di personale, pieno di fogli e cartelle con il timbro dell’esercito. Non che le vedesse da vicino:sapeva semplicemente che quello era lì, perché conosceva quella stanza, così come l’edificio che la conteneva. La base, naturalmente. La base a Washington. Un posto che avrebbe volentieri fatto a meno di rivedere.
Sentiva urgenza di uscire di lì. Non sapeva esattamente perché;non era uno dei soliti ricordi carichi d’ansia del suo passato, il sentimento non era quello. Ma doveva andarsene.
Non corse semplicemente fuori, nei sogni non accadeva mai così. L’incubo sfumò, mentre nella realtà lui sprofondava in un sonno più pesante, poi ricominciò, trovandolo a correre in un corridoio fisicamente molto lontano dall’ufficio di prima.
Stava scappando. Non poteva girarsi a guardare il suo inseguitore, ma sapeva chi era. E sapeva cosa stava portando con sé.
Continuò a correre, su e giù per stanze e scale e corridoi, senza mai smettere, senza mai trovare l’uscita. Ogni tanto l’incubo sfumava e dopo poco ritornava, spedendolo in un punto diverso della base militare.
All’ultimo si ritrovò finalmente all’esterno dell’edificio, prima del terzo cancello di sicurezza. La persona (anche se non era sicuro che “persona” fosse un termine corretto) era lì davanti a lui, una sagoma bianca dagli occhi dorati, con fra le braccia un corpo familiare dai lunghi capelli biondo.
L’uomo bianco sorrise, un sorriso terrificante di denti appuntiti, e allungò le braccia, cosicché il cadavere si spostò voltandosi verso di lui.
L’ultima cosa che vide furono gli occhi sbarrati di Maria.
Si svegliò premendosi un pugno sulla bocca per soffocare le urla. Non poteva urlare di nuovo, era un divieto che si era imposto da solo e l’avrebbe rispettato. Perciò si tappò la bocca, respirando affannosamente, aspettando che il suo cuore rallentasse la corsa.
Quando i battiti smisero di assordargli le orecchie, sentì una vocina provenire dall’altro capo del corridoio. – S-Shadow? Shadow?
Si alzò lentamente, cercando di riprendere a respirare in modo normale, e si avviò verso la camera di Dodgeball. Dalle finestre filtrava già una luce debole: fra incubi e fasi di sonno profondo, aveva dormito fino all’alba.
Quando entrò, il bambino era raggomitolato nel letto, praticamente annodato nelle  coperte, sull’orlo delle lacrime. Shadow lo sollevò di peso e lui gli si avvinghiò addosso.
-Sssssssh. Mi dispiace, non volevo svegliare anche te. – Dodge scosse la testa. – No? Non ti ho svegliato io?
-Ho fatto un brutto sogno.
Il riccio nero si trattenne dal dire “Anche tu?”. – Davvero?
-Lui vuole Tikal. Le f-farà male.
-L’uomo bianco, ragazzino? – Ricevette un cenno di assenso. – Ssssh, era solo un incubo.
-Ho paura, Shadow.
-Lo so, lo so. – Anche lui sentiva che la paura stava prendendo piede,ma stava cercando di restare razionale. Non c’era niente di soprannaturale. Lui stava pensando a quel tipo prima di addormentarsi e quello si era mischiato ai suoi ricordi maligni. Nessuno aveva dato la medicina a Dodgeball e lui aveva ripreso a fare incubi. Era tutto molto semplice.
Solo che non ci credeva neanche un po’. Ma non voleva pensarci ora.
-Mi sa che da oggi in poi la melatonina ce la prendiamo tutti e due, ragazzo mio. – Sussurrò stringendolo, cullandolo inconsciamente a destra e sinistra.
Chiedo immensa venia per l'altrettanto immenso ritardo. Ci sono stati dei problemi qui da me e spero che siano in via di risoluzione. In ogni caso, ho cercato di compensare con un luuuuungo capitolo, fondamentalmente inutile come sono sempre i miei, ma lascio a voi decidere. Ave Cesari!
^Ro

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Capitolo 10
*** The white man rules ***


Non c’era niente che potessero fare.

L’uomo bianco venne troppo in fretta perché potessero fermarlo. Solo una parte della popolazione aveva avuto quel primo incubo, ma ne vennero altri. E tutti videro l’uomo bianco che utilizzava le loro peggiori paure contro di loro.

Ne furono devastati.

Rivedere ogni notte ciò che temevano di più al mondo logorò le loro menti e li lasciò tramortiti e persi.

E a quel punto, lui arrivò fisicamente.

E nessuno poté più fermarlo. Né Shadow, né nessun altro. Gli ultimi esseri viventi sulla Terra furono spazzati via come polvere su un pavimento.

E stavolta, non ci furono sopravvissuti.

Solo l'uomo bianco nel suo regno di terrore. Lui, e un immenso, infinito....
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                                            PESCE D'APRILE.
 
LALALALAALA (?) io sono abbastanza certa che perderò qualunque lettore io abbia mai avuto perché sono una testa di cavolo, ma non importa, ne vale la pena :3
Buon Primo d'Aprile! Vi amo tutti u.u
^Ro
P.S. Se qualcuno a questo punto non mi sta tirando mattoni, no, non sono morta. Mi sono resa conto che per scrivere mi ci vuole un sacco di tempo e il prossimo capitolo (sarà serio, lo giuro) è insidioso. Lo metterò appena l'avrò finito, state trà u.u

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Capitolo 11
*** Council ***


Quando Tikal si presentò a casa loro, un paio di ore dopo, per portare Dodgeball con sé all’asilo che ancora veniva mandato avanti (metaforico asilo: alcuni dei bambini erano fin troppo grandi per quello), Shadow stava cercando di convincerlo a bere alcuni sorsi di Pepsi, sperando che potesse svegliarsi un po’. Dal canto suo, era già al terzo caffè solubile, e sospettava che avrebbe presto avuto bisogno di un quarto.
-E’ calda. Fa schifo. Non la voglio. – Si lagnò il bambino, seduto sul tavolo.
-Beh, mi dispiace, ragazzino, ma i frigoriferi non funzionano più da qualche mese. O bevi o ti arrangi. – Il riccio nero si sentiva ancora troppo intontito per mostrarsi cordiale. L’attimo di tenerezza avvenuto subito dopo la sveglia era passato.
-C’è qualcuno che sta bisticciando qui dentro?  - Si intromise Tikal entrando dalla porta della cucina con fare allegro. Come la vide Dodgeball parve fulminato. Saltò giù dal tavolo e corse ad attaccarsi alle sue gambe con aria preoccupata. – Ehi, piccolo, che cosa succede?
-E’ stata una nottata…lunga. – Replicò Shadow  prima che il bambino potesse dire qualcosa di compromettente.
-Ha un’aria patita. Sei sicuro che non stia covando qualcosa?
-Sicuro. Ha solo dormito poco. E non riesco a fargli bere niente che contenga caffeina.
L’echidna osservò perplessa la lattina di Pepsi. – Non posso biasimarlo. Tiepida è davvero orribile.
-Già, ma cadrà lungo disteso prima della fine della mattinata senza.
-Io non lo porterei a scuola, è troppo stanco. Glielo si legge in faccia. – Si girò verso il riccetto. – Cosa ne dici, Dodge? Saltiamo la scuola? Così possiamo riprenderci, tu ed io.
Allora Shadow la osservò con più attenzione e vide che non sembrava aver dormito molto più di loro, ma pareva aver appena passato la notte più bella della sua vita. Al novantanove per cento era così. Ma non c’era qualcos’altro, una briciola di altro in fondo al suo sguardo? Ansia, forse. O simili.
Si decise a scacciar via la paranoia, ripetendosi che doveva trattarsi di preoccupazione per Dodge. – Com’è andato l’appuntamento?
Lei fece un largo sorriso. – E’ stato meraviglioso. Abbiamo cenato insieme. Abbiamo fatto un picnic notturno. E poi siamo andate a casa mia.
-E lì cosa avete fatto?
-Un ragazzo grande e grosso come te dovrebbe conoscerlo da sé. E non farmi altre domande, o ti costringerò a raccontarmi tutta la tua riunione, per filo e per segno. – Agitò una mano. – Ora fila. Hai affari da capo da sbrigare, mentre il mio appuntamento è già andato a casa. Se esci in fretta, forse io e questo signorino potremo riposare un po’ prima che io gli dia un po’ di caffè per bambini e  ce ne andiamo a cercare qualche abito più pesante. E’ praticamente ottobre, se tu non te ne sei accorto.
-Caffè per bambini?
-Caffè d’orzo. Funziona sempre. Ne ho un armadietto pieno, in casa.
-D’accordo. Non me lo intossicare.
-Uh, come siamo diventati protettivi. – Prese Dodgeball sotto le ascelle e se lo issò in braccio. – Vai a guadagnarti il pane, forza.
-Solo tu sei capace di buttarmi fuori da casa mia. Me ne vado, me ne vado. – Si voltò e stava già imboccando la porta quando gli sovvenne un pensiero. – Tikal?
-Sì?
-Sei sicura che stanotte sia andato tutto bene?
La ragazza lo fissò sconcertata, ma sembrò capire che era una domanda seria. – Certo che è andato tutto bene, perché non dovrebbe? Solo…
-Solo che?
-Ma niente, ho avuto un attimo di panico. Nel mezzo di due….tu sai cosa. Ma è una sciocchezza. Ansia da prestazione, presumo. Paura di non essere abbastanza. Anche le psicologhe hanno bisogno di qualche analisi ogni tanto, sai?
-Se lo dici tu. Ci vediamo più tardi. Dodge, non farla impazzire.
-No no. – Il bambino scosse la testa. – Non voglio andare a dormire.
-Certo che no. – Tikal sorrise. – Ma puoi stare seduto tranquillo mentre mi racconti cosa avete fatto tu e Alice ieri, vuoi?
Shadow uscì di casa prima di sentire la risposta, sorridendo fra sé.
 
 
Inforcò la motocicletta (era stata una scelta recente: aveva stabilito che perdersi seduti su un sedile era più difficile, e non voleva girare in automobile in una città dove molti avevano preso l’abitudine di camminare in mezzo alla strada) e si diresse verso l’ospedale. Non sapeva precisamente cosa avrebbe detto a Sonic, ma di qualunque cosa si fosse trattato, non avrebbe potuto parlarne ad altri. Tikal si sarebbe spaventata a morte, Alice avrebbe creduto che lui fosse pazzo. E forse avrebbe avuto ragione.
Mentre attraversava la città, gli sembrò di vedere molte facce stanche tra la gente.  Sperò che si trattasse solo di una sua ennesima falsa impressione.
Una volta entrato nell’edifico scrostato dell’ospedale, incrociò una ragazza in divisa da infermiera e le chiese se sapesse dove fosse Sonic. Lei gli disse che era da qualche parte e gliel’avrebbe trovato subito. Avuta questa informazione, Shadow si accasciò sulle sedie della sala d’aspetto più vicina.
“Resta sveglio, idiota, o non ti sveglierai per ore” fece in tempo a pensare prima di scivolare nel sonno.
Per fortuna non restò addormentato a lungo. Fu svegliato da  qualcosa che lo colpiva in testa. Aprì gli occhi e vide Sonic, seduto sulla sedia di fronte,  che strappava metodicamente pezzi di carta da un foglio, li appallottolava e glieli tirava addosso. Gli rivolse un sorriso serafico in risposta al suo sguardo perplesso. – Eri una visione troppo bella per essere ignorata.
-Francamente avrei preferito che lo facessi – grugnì il riccio nero sollevandosi sui gomiti.
-Ma cos’avete tutti oggi? Cadete addormentati anche in piedi.
-E’ esattamente di questo che volevo parlarti. Stanotte ti è…successo qualcosa di strano?
Il sorriso di Sonic si allargò, diventando indulgente. – Se intendi durante il sonno, non credo. Sono stato sveglio tutta la notte. Non hai saputo?
-Cosa avrei dovuto sapere?
-Ieri sera è arrivata in città una donna in stato di shock e con una grave emorragia. I suoi compagni di viaggio mi hanno detto che era incinta e che aveva partorito a poche miglia da qui. Non si parla d’altro, oggi.
-Avevo…da fare, ieri sera. La donna sta bene?
-Fisicamente, sì. Mentalmente…..Sai, aveva concepito prima dell’epidemia. E’ possibile che il problema sia stato quello, ma anche qualunque altro, compresi i fattori ambientali, dopotutto ha partorito all’aperto…..
-Spiegati, non ti seguo.
Il riccio blu sospirò. – Il bambino è morto. Non si sa perché. Potrebbe essere stata la Malattia Viaggiante, o qualunque altra cosa, come ho detto. Gli avrei fatto l’autopsia,non sarebbe stato un gran lavoro ma l’avrei fatto, ma la madre lo ha fatto sparire. I suoi compagni credono che l’abbia seppellito, e che questo abbia aggravato l’emorragia, in ogni caso….. – Trasse un altro respiro profondo. – Chissà.
-Ma se si è trattato dell’epidemia, vuol dire…
-Già. Che tutte le donne incinte da prima non hanno speranza. Prega che non sia così, o questo le devasterà. No, cazzo, smettiamo di parlarne. E’ una gran brutta faccenda. Dimmi perché mi hai cercato, così possiamo andarcene a dormire tutti e due. – Sembrò sorridere di nuovo sotto i baffi, come per qualche strano pensiero.
-Giusto. Ricordi quella storia di cui ti avevo parlato tempo fa? Quegli incubi….
-Oh, sì, ricordo. E allora?
-E’ certo che ci sia qualcosa di strano. Tutti sono stanchi perché stanotte non hanno dormito. O, se hanno dormito, hanno sognato quello che ho sognato io.
Gli raccontò in breve il suo incubo notturno (omettendo la presenza di Maria: non si sarebbe mai sentito a proprio agio a parlarne), e l’espressione di Sonic divenne a mano a mano più grave. Si incupì definitivamente quando sentì la parte di Dodgeball, e scosse la testa.
-Non ha senso.
-No, ma sembra collegato molto bene, no?
-Purtroppo sì. Cosa pensi di fare?
-Non lo so. La settimana prossima ci sarà un’assemblea, e vorrei parlarne, ma cosa potrei dire? “Ehi, qualcuno di voi ha sognato un tipo inquietante negli ultimi giorni”?
-Ma in realtà potresti chiederlo. Se la tua supposizione è giusta, ti diranno di sì. Altrimenti farai la figura dell’idiota
-Non so quale opzione dovrei temere di più.
-Se ascolti la mia opinione, la prima opzione è di sicuro la peggiore. E’ troppo inquietante. Lo era già quando solo i bambini sognavano questo tizio, ma adesso è molto peggio. – Si grattò la testa. – A proposito, ma questo…uomo bianco…chi diavolo è?
-Mai visto, da sveglio. Quindi, o è una persona reale che tutti abbiamo incontrato ma che abbiamo scordato, ed è poco plausibile, oppure…
-…oppure stiamo parlando di qualcosa di soprannaturale ed è una prospettiva agghiacciante.
-Esatto. – Shadow avvertì un senso di sollievo. Si era sentito ai limiti della sanità mentale (più ancora del solito) credendo che quell’essere fosse una specie di spettro o simili, e il fatto che qualcun altro lo pensasse era confortante. – Dunque, che cosa facciamo?
-Io direi, per ora chiediamo in giro e scopriamo se davvero avete sognato tutti la stessa cosa. Dopodiché, se davvero è così, dovrai parlarne nell’assemblea. E’ meglio che non tardiamo troppo un confronto,altrimenti la gente comincerà a farsi idee per proprio conto. E quando succede questo, è quasi certo che certe idee li manderebbero nel panico.
- Hai ragione. – Il riccio nero si passò una mano sugli occhi. – Beh, credo che sia il momento di muoverci.
 - Giusto. – Sonic si alzò, stirando la schiena con un grugnito. – Anche se il mio primo obiettivo sarà un materasso dove spendere due o tre ore di sonno almeno. Senza incubi. Dopodiché potrò fare quello che abbiamo pensato…forse. Ci si vede. – Gli lanciò un lungo sguardo che sembrò percorrerlo da capo a piedi, sorrise in segno di saluto e si avviò lungo il corridoio.
Non c’era nient’altro da fare che imitarlo. Se avesse di nuovo appoggiato la testa sulla sedia, si sarebbe addormentato di colpo, e non voleva tardare ancora l’inizio delle indagini. Non adesso che aveva le idee più chiare e aveva parlato con qualcuno che si trovava sulla sua stessa lunghezza d’onda.
Si strofinò gli occhi e si rese conto solo allora che aveva tenuto tutta la conversazione in una posa semi-sdraiata e semi-sexy da pin up anni ’50. Di fronte, ora che se lo ricordava, a un uomo che pochi giorni prima gli aveva toccato il sedere e che lo aveva rimirato in tutta la sua lunghezza come se fosse stato un pezzo di carne di prima scelta….
Shadow si alzò di scatto prima che il pensiero arrivasse alla conclusione e si affrettò verso l’uscita più che poté.
 
Chiedere a chiunque incontrasse per la strada che cosa avesse sognato quella notte sembrava una mossa un po’ troppo da invasato per lui, perciò si limitò a cercare ogni persona che conosceva per interpellarla, impiegandoci comunque molto tempo. Non era in contatti personali con molta gente, ma questo metteva in difficoltà più che aiutare, dato che avevano scelto di abitare nei posti più disparati della città.
Comunque, si mise d’impegno a cercare informazioni e la ricerca, purtroppo, si rivelò fruttuosa. Quando,alla fine della mattinata, decise che aveva raccolto abbastanza esperienze e si fermò sulla panchina di un ex fermata per gli autobus a controllare gli appunti che aveva preso, il risultato lo preoccupò, anche se non lo sorprese. Aveva sempre saputo, in un angolo remoto della sua mente, che i sogni non erano un fenomeno legato solo a Dodgeball…o agli altri bambini…o anche a lui stesso e agli altri adulti, anche se in misura molto minore, ma non erano comunque qualcosa per cui gioire. Fra tutte le persone a cui aveva posto la stessa domanda, in modo più o meno diretto, tre quarti circa avevano sognato l’uomo bianco, anche se ognuno in situazioni diverse, probabilmente legate ai loro ricordi passati. Del restante quarto, alcuni erano bambini che avevano, a differenza di Dodge, preso la loro medicina, e loro avevano avvertito comunque qualcosa,anche se non avevano saputo specificare cosa,come se avessero sentito un rumore nella stanza accanto e non fossero potuti andare a scoprirne la fonte. Altri avevano passato la notte svegli, per un motivo o per l’altro. E c’era una piccolissima percentuale di chi aveva dato una risposta negativa che mentiva chiaramente. Glielo si poteva leggere in faccia.
C’erano decine e decine di interrogativi che gli riempivano la mente mentre scorreva i fogli di carta stropicciata, ma uno in particolare lo martellava insistentemente.
I bambini.
Erano stati i bambini a sentire quella presenza prima di tutti, con dovizia di particolari. Soltanto un intervento medico aveva fermato la loro….come poteva chiamarla? Ricezione? LA loro ricezione. E adesso, anche se non avevano visto niente, avevano avvertito qualche cosa. Avevano ricevuto, per così dire, un segnale radio molto distante.
Era troppo assurdo anche solo per poterlo pensare, eppure….
Eppure aveva maledettamente senso. Un senso folle, però si trovavano pur sempre in un mondo folle, perciò dovevano adeguarsi.
Si cacciò i fogli in tasca (lasciandone cadere alcuni pezzi, senza accorgersene;pezzi che poi sarebbero stati raccolti da qualcuno  molto distante da lui come intenzioni) e si precipitò a riferire ciò che aveva raccolto a Sonic. Ne avevano discusso chiaramente: se c’era uno schema, dovevano riferirlo in assemblea; e se dovevano riferirlo in assemblea, voleva che lui lo sapesse il prima possibile.


La sala dove si erano riuniti erano ancora più gremita della volta precedente. Gente seduta, gente in piedi, gente in braccio ad altra gente. Insomma, gente ovunque. Solo il palco era sguarnito, ma per ovvi motivi. Sopra vi erano solo Shadow, Sonic, Soter, Tails e i candidati al posto di “poliziotti”.
Quando il brusio di sottofondo si fu quasi del tutto placato, il riccio nero prese il microfono (stavolta erano riusciti a procurarsi un generatore dalla portata più grande) e iniziò a parlare.
-Molto bene, prima di cominciare devo avvertirvi che questa sera non avremo soltanto buone notizie. Avremo domande da fare e affari….pessimi affari da trattare. Voglio che lo sappiate prima di iniziare a darmi addosso. Capite?
Ci fu un mormorio di assenso e lui si sentì incoraggiato a continuare. – Proposte per iniziare?
-Prima le buone notizie, così se cominciate a sparare stronzate posso andare a dormire! – Gridò una voce dal fondo, seguita da risate sparse.
-Grazie per il delicato intervento. In questo caso…Tails?
La giovane volpe si alzò dalla propria sedia e con passo malfermo gli si avvicinò. Soter aveva insistito che fosse lui a parlare. Sosteneva che un buon attacco di panico da palcoscenico fosse quanto di meglio potesse esserci per renderlo meno nervoso.
Il ragazzo prese il microfono, si schiarì la gola e, dopo aver guardato le decine e decine di occhi che lo fissavano, disse con voce acuta per il nervosismo: - Domani accendiamo.
Ci fu un attimo di silenzio in cui ognuno cercò di assimilare ciò che aveva appena sentito, dopodiché con la comprensione arrivò anche un applauso fragoroso, talmente forte da riempire l’intera stanza e assordare chiunque fosse presente. Shadow li capiva. La luce elettrica era la sola  cosa che potesse risollevarli tanto, a parte il riavere le proprie famiglie. Una luce accesa la sera, il ronzio di un frigorifero, erano qualcosa di confortante. Torce e lampade Coleman non erano abbastanza.
Tails sembrava meno convinto. Fece un sorriso imbarazzato e poi scappò di nuovo in fondo al palco. L’applauso continuava ad aumentare e diminuire d’intensità, e raggiunse l’apice quando tutti i tecnici si alzarono in piedi per ricevere la gratitudine dei loro concittadini. Shadow vedeva Wave in piedi accanto a Tikal, che applaudiva tanto da spellarsi le mani. Le due adesso erano una coppia fissa. Alice, quando lo aveva saputo, aveva storto il naso, ma non aveva fatto commenti, il che non poteva essere che un bene. Dodgeball, invece, non le aveva mai viste insieme. Quanto a lui, si manteneva neutro. Wave non gli piaceva granché, ma era affare di Tikal. Come dicevano i latini, de gustibus.
La folla si placò a poco a poco, e reagì allegramente quando il riccio nero riprese la parola. – So che è un’ottima novità, ma dobbiamo andare avanti con l’ordine del giorno. Come forse saprete, sono successi alcuni…fatti…non proprio piacevoli. Non scenderò nei dettagli e non farò nomi, anche se sono certo che li conoscete tutti. In ogni caso, credo abbiate intuito che ci servono dei tutori della legge. Abbiamo raccolto alcuni candidati e vorremmo proporveli. A noi sembrano adatti, ma serve il parere della maggioranza.
Li presentò a uno a uno, e a ogni nome l’assemblea applaudì. Aster ricevette l’applauso più sonoro: lo conosceva  molta più gente, poiché era stato uno dei primi abitanti.
-Saranno armati?- Domandò una donna. Shadow sapeva che quella domanda sarebbe stata posta, era un argomento caldo dal punto di vista di tutti.
-No – rispose. – Non all’inizio, almeno. Se poi sarà necessario, e tutti speriamo che non lo sia,  li doteremo di armi leggere come i teaser.
Ci fu un breve intervallo di riflessione, dopodiché qualcuno gridò – Io li voto tutti!
-Anch’io!
-Li appoggio!
Esclamazioni di quel genere si susseguirono a raffica, e l’ultima questione piacevole della serata si concluse con l’elezione del gruppo di poliziotti onorari. Shadow sistemò tutte le formalità, dopodiché si accinse malvolentieri ad occuparsi dell’ultimo argomento in lista, quello che, segretamente, gli stava più a cuore di tutti.
-E’ stato constatato che ci sono stati altri avvenimenti – cominciò – che, a quanto abbiamo potuto vedere, non possono essere risolti da dei poliziotti. Qualche tempo fa, alcuni abitanti hanno notificato di avere avuto degli incubi molto particolari. La maggior parte di questi abitanti erano bambini. Nessuno ci ha dato molto peso, d’altronde chi pensa mai agli incubi dei bambini? Ne fanno in continuazione. Peccato che questa faccenda non sia finita lì.
-Sappiamo che questo fenomeno si è ripresentato. – Sonic si infilò nel discorso con la naturalezza di chi non ha mai fatto altro nella vita che intromettersi in faccende altrui. Il riccio nero lo lasciò fare, riconoscendolo come il suo modo tipico di fare – Siamo certi al cento per cento che la maggior parte di voi ha avuto degli incubi nell’ultimo periodo, e questi incubi si somigliavano pericolosamente. Il loro punto centrale era sempre la stessa persona…posto che fosse una persona.
Ora le persone erano ammutolite. Molte erano pallide e guardavano verso di loro con occhi sgranati.
La maggior parte di loro non sapeva che l’uomo bianco non aveva agito solo sulle singole notti, ma in scala molto più grande, e non era una scoperta  che si potesse prendere alla leggera.
-Vedo che capite di cosa sto parlando. Quello che noi chiamiamo “l’uomo bianco”, lo avete visto anche voi. Se  non tutti, almeno la maggior parte. E’ stato provato che le medicine per il sonno tengono lontani gli incubi, da qualunque causa siano provocati. Stasera vorremmo provare a scoprire il più possibile su questo fenomeno. Beh, “scoprire” è una parola  grossa. “Intuire” è più adatta, dato che non c’è nulla di certo.
-Dunque, ci sono tre possibilità: numero uno,  qualche avvelenamento nell’aria o nel cibo di questa zona fa sì che tutti abbiamo delle allucinazioni molto simili. Difficile da credere, è vero, sembra più un film catastrofico di bassa qualità, ma ricordatevi che siamo ancorai n America, perciò tutto è possibile.
Ci fu un coro di deboli risate, ma molti non si spinsero più in là di un sorriso. Shadow, a cui quelle parole rievocavano molti dei ricordi che cercava di seppellire, non sorrise nemmeno.
Sonic continuò con lo stesso tono di voce: - In ogni caso non è un’opzione molto probabile, quindi passiamo alla numero due:è un effetto collaterale dello stesso virus che ha ucciso buona parte degli abitanti del pianeta. Più semplicemente, qualcosa che colpisce solo i sopravvissuti, in qualche modo. Ma nemmeno questa mi è sembrata attendibile.
-E poi, ovviamente, resta la terza possibilità. Il soprannaturale. Quello che c’è al di fuori della scienza. Fantasmi, alieni, entità misteriose. Ed è incredibile a dirsi, ma abbiamo vagliato ogni idea, e questa la più probabile.
-Oh, ma per favore! – Esclamò una voce stridula e sconosciuta in mezzo alla folla. – Soprannaturale? Credevo che Adam Kadmon fosse morto durante l’epidemia! Non è pensabile che ci sia qualche…MOSTRO pronto ad attaccarci appena andiamo a letto! Siamo ragionevoli!
La sua dichiarazione fu seguita da un attimo di silenzio intervallato da pochi brusii in cui Shadow vide molti scuotere la testa: la voce anonima non aveva riscosso molto successo. Poi qualcun altro rispose, e stavolta il riccio nero sorrise appena:il tono era inconfondibile.
-Se potessi smettere di parlare, eviteresti di abbassare il quoziente intellettivo dell’intero isolato – disse Alice, a un volume alto ma perfettamente calmo. – Stranamente, si stanno dimostrando fin troppo ragionevoli. Ti ricordo che abbiamo assistito a un’epidemia di una malattia mai conosciuta prima che ha ucciso praticamente tutti. E chi è rimasto ha cominciato a convergere verso questa città. Non fate quelle facce sconvolte, è la verità: prima sembrava che tutti quelli che passavano di qui per caso si fermassero incontrando qualcuno che risiedeva qui, ma adesso le persone vengono attirate a Metal City. Come se sapessero che qui sta succedendo qualcosa. Alzi la mano chi degli ultimi arrivati sa di essere arrivato qui per un motivo, e viaggiando sentiva che la strada giusta era quella verso Metal City.
Numerose mani si alzarono, sotto gli occhi sbigottiti di tutti gli altri, compresi quelli presenti sul palco. Alice riprese a parlare, e si poteva sentire che stava sogghignando.
-Visto? Quindi, a meno che non ci sia una calamita gigante nascosta da qualche parte e noi non abbiamo tutti ingoiato metallo, qualche cosa di innaturale trascina la gente qui. Perciò no, non è per niente irragionevole pensare che abbiamo un novello Freddy Krueger che gioca a nascondino negli incubi altrui.  Anzi, non dovrebbe nemmeno stupirci.
La ragazza tacque, e molti ripresero a mormorare, molto più convinti di prima. Shadow e Sonic si scambiarono uno sguardo stupito, poi il riccio blu alzò le spalle e riprese il controllo della situazione.
-Adesso capite perché l’idea di un evento soprannaturale ci sembra credibile. Senza tralasciare il fatto che i bambini lo hanno avvertito prima di noi. Come potrebbe fare effetto prima sui minorenni e poi sugli adulti, se non si trattasse di qualcosa di altamente particolare?
-Ma perché i bambini? -Chiese una donna.
-Qualunque scrittore che spaziasse dal fantasy al thriller prima dell’epidemia ti avrebbe risposto che tutti i bambini hanno un nonsocchè di più. Un dono, o simili, che si perde crescendo. E io, a questo punto, comincio a pensare la stessa cosa.
Ci furono sbuffi scettici sparsi, ma molto pochi. Shadow si rese conto che ormai niente poteva più stupirli. Anche lui, che solo l’anno prima si sarebbe dichiarato uno scettico completo, ora accettava ogni cosa come se l’avesse vista per tutta la sua vita.
Decise che doveva riprendere la parola. Dovevano concentrarsi sull’aspetto più importante della questione. Sfilò destramente il microfono dalle mani di Sonic, che si finse offeso, e pose la domanda. – Il punto focale di tutto questo è uno solo: chi è l’uomo bianco? Che razza di creatura può essere se riesce a entrare nei sogni altrui?
-Ma lo sanno tutti – rispose una voce sottile ma sicura. – E’ l’uomo nero. Quello che secondo le mamme viene a prenderti se non dormi. E’ solo di un colore diverso, ma perché è un travestimento.
A parlare era stato un bambino, e tutti si voltarono nella direzione da cui era venuta la voce. Per un attimo Shadow temette che a parlare fosse stato Dodgeball (lo voleva fuori da quella faccenda il più possibile), ma non era stato lui. Era un bambino più grande. In ogni caso il piccolo riccio era alle sue spalle, insieme a un paio di altri ragazzini. I bambini avrebbero dovuto essere nella stanza accanto, sorvegliati da alcuni volontari, ma probabilmente questi ultimi erano troppo presi dalla discussione da accorgersi che i piccoli avevano aperto la porta. Si chiese,a disagio, quanto potessero aver sentito.
Un uomo in mezzo alla folla si alzò in piedi. – Lloyd, torna subito di là! – Gridò.
Il bambino lo ignorò. – Lui è l’uomo nero, ma non come nelle storie. Peggio. Lui è male. Tutto il male. Ho visto in un film che l’uomo nero mandava incubi alla città come dei cavalli neri, ed è la stessa cosa, però più brutta.
Una pappagallina bionda gli toccò una spalla e lui, dopo averle lanciato un’occhiata, annuì e aggiunse: - E quest’uomo nero ha mandato qualcuno a spiarci. Una specie di…talpa? – Guardò dietro di sé e Dodgeball oscillò la mano tenuta di piatto, all’incirca. – Sì, una talpa. Più o meno. Come nei film di spie.
Tutti li fissavano sbalorditi, quasi ipnotizzati. Shadow vedeva qual era il particolare che sembrava spaventare tutti: quei ragazzini parlavano come adulti, sgrammaticature e inflessioni a parte. Si guardavano come a chiedersi conferma l’un l’altro, si ricordavano a vicenda ciò che dovevano dire. Pareva quasi che avessero tenuto consiglio, e molto probabilmente l’avevano fatto. Lloyd era solo un portavoce, occupava il ruolo che lui stesso stava avendo in quel momento, e gli altri erano ambasciatori.  Tutto ciò era inquietante, soprattutto la serietà che era sui loro volti, che lasciava capire quanto sinceramente stessero parlando. Il riccio nero rabbrividì. “Dio mio” pensò “cosa diamine è accaduto che possa aver cambiato dei bambini così?”.
Lloyd proseguì. – Per lui noi non siamo niente. Non gli facciamo paura. Però ci tiene d’occhio. Lui vede tutto, però ha lasciato qualcuno qui a guardarci da vicino. Così nulla può sfuggirgli.
-Dove avete visto queste cose? – Lo interruppe Sonic, atterrito come tutti i presenti.
-Durante un sacco di notti. E non sono sogni, sono vere, ne siamo sicuri. E anche voi lo sapete, solo che avete paura a crederci.
-E l’uomo nero vuole che abbiamo paura – aggiunse Dodgeball – così non cercheremo di fargli nulla. Anche se secondo lui noi non possiamo fargli niente, perché lui è troppo forte. E se ci proviamo…
-Adesso basta. – Vanilla, la coniglia che aiutava a gestire la scuola e che avrebbe dovuto badare a loro quella sera, si alzò in piedi e cercò di spingerli nella stanza da cui erano usciti, parlando con voce resa stridula dal nervosismo. – E’ molto tardi e voi non dovreste disturbare i grandi mentre discutono. Tornate a giocare, avanti.
Loro la guardarono come si guarda qualcuno che abbia pronunciato parole fuori luogo. Alzarono tutti le spalle, e in quel gesto misto di scherno e rassegnazione si poteva vedere come sarebbero diventati anni dopo, da adulti. Si voltarono e tornarono da dove erano venuti. Nel silenzio completo che li circondava, si sentì distintamente uno dei più grandi borbottare a chi era rimasto nella piccola stanza: - Se i grandi sono intelligenti, io sono un lombrico.
La porta si chiuse con un suono secco. Shadow tornò a guardare il pubblico e  vide decine e decine di identiche espressioni scioccate.
Nessuno fiatava.
 
L’assemblea si chiuse non molto dopo.
Erano tutti sconvolti da ciò che i bambini avevano detto loro e avevano bisogno di tempo per pensare e digerire. Shadow li lasciò andare, promettendo un’altra assemblea a breve per raggiungere dei risultati più completi. Uscirono parlottando fra sé, visibilmente confusi. Per giunta, poco dopo il loro discorso i piccoli si erano addormentati o fingevano di dormire e nessuno aveva potuto interrogarli.
Molti trascorsero una notte insonne, allo stesso tempo temendo incubi ancora più spaventosi e riflettendo preoccupati, e il giorno seguente, con il ritorno dell’elettricità, fu colto come un sollievo, poiché dava altro a cui pensare.
Quasi tutti restarono in casa, aspettando, fra cui Shadow. Quando l’elettricità tornò, lui si trovava in salotto con Dodgeball, che giocava nello scatolone che lui definiva “Taddis”.
La lampada sopra di loro si accese, il frigorifero tornò a ronzare, e Dodge sbucò fuori dalla scatola, affascinato e euforico. – Hai visto? Shadow, hai visto?
-Sì, Dodge, ho visto. – Si costrinse a sorridere, ma la sua mente era altrove. Non aveva ancora smesso di pensare alla sera prima, e si chiedeva se avrebbe mai smesso. Se i bambini dicevano la verità, c’era qualcosa che li minacciava, e la luce non avrebbe potuto scacciarlo come un mostro da sotto un letto. Quella parentesi di ricostruita normalità poteva non durare a lungo.
E sarebbe potuto accadere di tutto.
Ohibò. Sono quasi tre mesi che non pubblico (non ho intenzione di contare il capitolo del primo d'aprile, era veramente senza senso) e so alla perfezione perché. La parte dell'assemblea mi ha incasinato tutto. Stavo cominciando a odiarla.
In ogni caso, sono riuscita ad aggiornare e prometto che la prossima volta cercherò di farlo in un tempo più breve. Ho già metà del prossimo capitolo scritta in mente, almeno a grandi linee. Intanto non linciatemi. Nel lungo processo di questa parte sono riuscita a prendere tre più di greco e quattro e mezzo di biologia e ciò non ha aiutato.
Ave, o popolo!
^Ro

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Capitolo 12
*** Something is wrong and something is not ***


(NdA: questo capitolo è veramente chilometrico, forse per farmi perdonare dell’attesa. Chi riesce ad arrivare in fondo vince un Misha collins <3)


Shadow era in grado di gestire discussioni di livello anche molto elevato. Scambi di opinioni furibonde, dialoghi dove un individuo chiaramente decerebrato (ce n’era sempre uno) decideva di comportarsi in modo tale da irritare tutti i presenti. Era abile ed era sempre o quasi riuscito a uscirne vincitore.
Ne era in grado anche quando queste discussioni lo coglievano alla sprovvista, come poi sarebbe finita quel giorno, in cui prima che tutto si agitasse all’improvviso stava praticamente sprofondando nel divano tentando di prendere sonno.
Non gli era possibile, comunque, gestire un litigio in cui uno dei contendenti non aveva ancora raggiunto l’età per togliere le rotelle dalla bicicletta.
Il suddetto contendente, nel momento in cui lui cercava di gettarsi fra le braccia di Morfeo, aveva ricevuto l’ordine di muoversi il più silenziosamente possibile e, bene o male, lo stava rispettando, dialogando a bassissima voce con un mucchietto di statuine dei supereroi sotto il tavolo del salotto.
Quanto a lui, era esausto. La situazione che era sembrata così tranquilla e pacifica dopo il ritorno della luce era degenerata velocemente. I morti di epidemia e coloro che avevano abbandonato la città avevano lasciato un numero impressionante di elettrodomestici e simili accesi. Nei tre giorni precedenti si era trovato a correre da una parte all’altra della città insieme a un gruppo di altre persone per spegnere frullatori, allarmi, aspirapolvere e, santo cielo, una motosega nelle case ancora disabitate. Quest’ultimo oggetto aveva lanciato tutta una serie di congetture fra i suoi colleghi, perché chi poteva essere così pazzo da mettersi a potare una siepe durante un’epidemia?
Comunque, era veramente distrutto. Non aveva avuto quasi più tempo per pensare a nulla e la questione di cui si era parlato all’assemblea era stata relegata in un angolo recondito della sua mente, quasi dimenticata. Gli incubi non erano tornati e tutta la faccenda assumeva quasi le sembianze di un’illusione, se cercava di affacciarsi di nuovo alla sua mente. Sperava di non doverci pensare mai più.
Tutto questo stava premendo all’interno della sua testa, schiacciato però dal sonno che finalmente stava arrivando, quando una voce dubbiosa e sconcertata  gli fece aprire gli occhi.
- Shaaa-dow?- Dodgeball era accanto alla finestra, in punta di piedi e aggrappato al davanzale, un pupazzetto di Capitan America ancora stretto nel pugno. Aveva davvero allungato le lettere, come chi non sapeva se porre la propria domanda.
- Dodge, ti avevo detto di lasciarmi dormire – grugnì lui in risposta, praticamente rotolando giù dal divano. Il bambino lo ignorò e puntò il dito verso l’esterno. – Che cosa succede?
Shadow gli si affiancò e seguì la direzione indicata dal dito. Sorrise appena. – Penso che avremo una nuova vicina, ragazzino.
Davanti a casa di Tikal era parcheggiata un’automobile con la porta del bagagliaio, occupato da scatole varie, aperta. In quel momento Wave stava attraversando il vialetto verso l’ingresso, reggendo un’altra scatola fra le braccia. Una visione perfettamente normale, di quei tempi. Le coppie si formavano in fretta e si vedeva gente che si trasferiva in casa dei propri compagni dopo pochissimo tempo. L’unica cosa che lo sconcertava un pochino era la reazione di Dodgeball. Non c’era nulla di cui avrebbe dovuto preoccuparsi, non così tanto, almeno, anche se non aveva idea di chi fosse la donna che gli passava davanti.
Gli prese la mano libera e lo condusse fuori. – Forza, andiamo a fare conoscenza, okay? – Il bambino esitò solo un istante, poi lo seguì.
Nel momento in cui raggiunsero il giardino accanto Wave stava uscendo di nuovo. Li vide, sogghignò e rimise dentro la testa. – Tesoro! Abbiamo visite!
Shadow era troppo concentrato nel cercare di non ridere all’idea di qualcuno che chiamava Tikal “tesoro” per accorgersi della piccola mano ( e di conseguenza, del resto del corpo) che si irrigidiva improvvisamente nella sua. Nel frattempo, l’echidna era apparsa sull’uscio e sorrideva molto più sinceramente della sua compagna. – Me l’aspettavo. Non si perderebbero uno spettacolo per niente al mondo. – Wave le passò un braccio intorno ai fianchi, le diede un bacio sulla testa  e la ragazza rise. – Vai via, mosca, devo fare delle presentazioni.
-Ma mi conoscono già, e abbiamo così tanto da fare…. Il riccio nero le guardò senza altro commento che il mezzo sorriso che aveva in faccia. Non lo riempiva esattamente di gioia l’idea di Wave che si stabiliva a pochi metri da lui, ma Tikal sembrava scoppiare di felicità, e questo andava bene abbastanza.
Quest’ultima spinse via la rondine con un finto cipiglio e si rivolse a loro. –Allora. Shadow, lasciamo stare. Sai già tutto. Dodge… - La giovane si piegò in avanti per raggiungere l’altezza del bambino, sorridendo ancor più di prima (anche se sembrava impossibile). – Questa è Wave. E’ la mia…come posso dire….fidanzata e da adesso in poi vivrà qui con me. Wave, lui è Dodgeball, il mio bambino.
- Lo conosco. Lo conoscono tutti, ormai, dopo l’assemblea lui e i suoi amichetti sono diventati famosi. – Scoppiò a ridere, ma Shadow sentì qualcosa che stonava in quella risata. Una sorta di incrinatura. Tikal, comunque, stava per ridere a sua volta, ma si bloccò all’improvviso. –Dodge? Dodge, tesoro, stai bene? Shadow abbassò lo sguardo di scatto. Ciò che vide lo spaventò. Dodgeball era teso come una corda di violino, gli occhi spalancati, terrorizzati, quasi fuori dalle orbite. Completamente sconvolto. – Ehi, ragazzino, cosa c’è?
- Sta bene? – Wave mosse un passo verso di loro. – E’ una cosa che gli succ- Dodgeball soffiò come un gatto. Fu un suono talmente improvviso, talmente furioso da farli balzare tutti indietro istintivamente.  Nessuno di loro avrebbe creduto che un esserino così piccolo potesse contenere tanta rabbia.
- Dodge! Cosa diavolo…
- Stai lontana da lei. - Anche quello era un tono innaturale per un bambino. Come lo era lo sguardo che lanciò a Wave stringendo i denti. Shadow spalancò gli occhi e lo prese per la spalla,  più rudemente di quello che avrebbe voluto. – Ehi, senti un po’…
- Stai-lontana-da lei! – Urlò ancora il piccolo, sgusciando via dalla sua stretta. Wave scoppiò in una breve risata nervosa e cercò di avvicinarsi ancora. – Ma cosa sta dicendo? Non capisco. – Tikal, al suo fianco, aveva un’espressione più che sbalordita.
- Io invece capisco. La devi lasciare stare!
- Adesso basta, Dodgeball! – Shadow lo costrinse a girarsi affinché lo guardasse in faccia. Sapeva di non stare avendo la reazione corretta, era certo che ci fosse qualcosa di sbagliato, ma non poteva sentirsi altro che arrabbiato. O meglio, pieno di furia cieca. La vocina che di solito riusciva a costringere in un angolo della sua testa gli diceva che era quello il sentimento giusto, e lui sapeva di non doverla ascoltare, ma semplicemente non ci riusciva. Così il volto che il bambino si trovò a fronteggiare era tutt’altro che calmo. – Ora, o ti calmi e mi dici che cosa ti è preso, oppure te ne vai dritto in castigo, è chiaro? Cosa diamine stai dicendo?
Il riccetto argentato lo guardò ad occhi sgranati. Tutto l’isterismo era improvvisamente scomparso, come se fosse stato riportato alla realtà. Sembrava soltanto un bambino spaventato. – Ma…ma…Tu la vedi, Shadow?
- Vedo solo un ragazzino che non vuole saperne di dire la verità.
- Ma guardala, Shadow, le farà del male, farà del male a Tikal, per favore, per favore
- Adesso basta! – Veloce come un lampo, il riccio nero gli diede un potente ceffone sulla guancia, per poi fissare inorridito la propria mano. “Cosa cazzo ho appena….Oh, no, cazzo, cazzo.” Non sapeva nemmeno lui perché l’avesse fatto. Non capiva più nulla di tutto ciò che stava accadendo, né sembravano capirlo Tikal o Wave. Dodgeball lo fissò per un lunghissimo secondo, mentre la faccia iniziava ad arrossarglisi, poi le lacrime presero a scorrergli sulle guance.
- Ti odio! Tu non riesci a CAPIRE! – Urlò, poi corse via lungo il marciapiede, lontano da loro.  

In teoria,un uomo adulto dovrebbe essere in grado di raggiungere un bambino di sei anni in corsa.
In pratica,è tutto da dimostrare.
Shadow non riuscì a raggiungerlo a causa della sorta di paralisi che aveva colto sia lui, sia le due donne, dopo la scena senza capo né coda a cui avevano appena preso parte. Quando il riccio nero si riprese, Tikal era inorridita, con le mani sulla bocca, e Dodgeball era già in punta alla via.
- Dodge! – Esclamò e iniziò a correre a sua volta, più veloce che poté, ma già sapeva che non lo avrebbe raggiunto. Il piccolo girò l’angolo prima che lui fosse a metà strada e quando a sua volta arrivò in quel punto, non c’era più traccia del suo bambino da nessuna parte.
- Dodge! – Continuava a urlarlo come sperando che potesse richiamarlo indietro, mentre la sua mente viaggiava alla stessa velocità dei suoi piedi. “Dove cazzo può essere andato,è piccolo, ha le gambe corte, dev’essere qui vicino…”
“Cosa gli è preso non riesco a capire”
“Cosa mi è preso non raccontiamoci balle perché l’ho picchiato”
“Se passa in mezzo alla strada e una macchina lo mette sotto potrei uccidere il chi la guida”
“Cosa diamine sto dicendo no”
Ma ormai non riusciva più a controllare i suoi pensieri, né le sue gambe. Non aveva idea di dove Dodgeball potesse essere andato,o di quanto potesse essere lontano, perciò non poteva fare altro che correre senza una direzione logica mentre tentava di scacciare le immagini funeste dalla propria testa. Qualche raro passante lo guardava perplesso, ma lui li ignorava e continuava a girare senza meta.
Si fermò solo quando si rese conto che ormai si era fatto buio. Dovunque Dodge fosse, non avrebbe potuto trovarlo, e poteva solo sperare che avesse trovato un posto dove fermarsi. Un posto caldo, contando quanto leggero era vestito. Una parte di lui, la stessa parte sommersa che aveva colpito il bambino prima, gli diceva che in fondo non gliene fregava granché.
Si appoggiò, ansante, al muro di una casa ancora disabitata, cercando di trovare un senso a quello che aveva visto. Ma un senso non c’era. Non c’era nessuna valida ragione per cui Dodgeball avrebbe potuto mettersi a urlare…o ringhiare….contro Wave. A parte un attacco di gelosia, certo, ma tanto repentino? Era difficile da credere.
Tornò alla realtà sentendo un vago cigolio.  Sapeva a malapena in che zona si trovasse, e intorno a sé vedeva solo un paio di luci accese nelle case. Un’altra luce, insieme al fastidioso rumore, stava risalendo la via. Una bicicletta.
- Buonasera, Shadow. – Disse Aidan frenando davanti a lui. Nella luce fioca del fanale aveva un’aria un po’ sconcertata.  L’altro non rispose, guardandolo di sbieco. Sperava che se ne andasse, ma era troppo sfinito per allontanarsi a propria volta.
- Cosa fai in giro a quest’ora? Giurerei che stasera sia una mania di tutti. – Shadow era tentato di non rispondere nemmeno a quel punto, ma qualcosa che il lupo aveva detto gli fece drizzare le orecchie. Una mania andarsene in giro quella sera?
- Sto cercando Dodgeball. L’hai visto? Aidan spalancò gli occhi. – Ma certo, era….è arrivato a casa di Alice di corsa. Pensavo che tu lo sapessi, voglio dire…Non ho visto granché, perché Alice mi ha detto di levarmi dalle palle più in fretta che potevo, ma sono sicuro che è entrato in casa con lei. Cosa-
Il riccio si era staccato dal muro di scatto. – Da che parte è casa di Alice?
- Di là, ma…
- Grazie. – E senza dargli il tempo di aggiungere altro, si avviò più velocemente  che poté nella direzione indicata. Non sapeva bene cosa avrebbe fatto una volta raggiunta la casa, ma sperava di riuscire a trattenere la rabbia almeno finché non ne fosse uscito. Altrimenti, Alice avrebbe avuto un bel da fare con lui.
 
Dodgeball stava per compiere sei anni. Era ancora in quell’età dove la parola “istinto” non ha alcun significato.
In ogni caso, l’atto di scappare dal giardino di Tikal più in fretta che  poteva non poteva essere definito altro che puro e semplice istinto.
Era corso via per due motivi. Il primo era Wave.
Appena l’aveva vista, qualcosa si era bloccato dentro di lui. Quella donna era sbagliata. Profondamente sbagliata. In quel momento la sua mente gli aveva detto “E’ lei, è lei”, ma non riusciva a capire cosa si intendesse per LEI. Almeno non coscientemente. Comunque questo pensiero aveva scatenato in lui un panico quasi insostenibile, perché qualunque cosa fosse LEI, era male. Male quanto l’uomo bianco, o quasi.
Il secondo motivo, se possibile ancora più spaventoso, era Shadow.
Guardandolo in faccia aveva visto altro male, anche se meno, molto meno, come se lo prendesse solo in parte. Ma Shadow non era del tutto in sé in ogni caso. Quando lo aveva colpito, aveva sbloccato il terrore che lo teneva inchiodato a terra e il bambino era scappato.
Mentre correva, all’inizio non aveva in mente una direzione precisa, ma a un certo punto l’idea era uscita fuori da sé. Se casa non era sicura, la casa di Tikal nemmeno, restava soltanto….casa di Alice. L’unico posto dove non avesse mai trovato nulla di quel male che aveva visto nei suoi sogni.
Ricordava abbastanza bene dove si trovasse (Tikal ce lo aveva portato, alcune volte), ed era riuscito ad arrivarci, anche se completamente senza fiato. Aveva trovato Alice in casa, che cercava di ignorare Aidan appostato fuori, e le si era buttato addosso freneticamente, ancora piangendo, facendola sobbalzare dalla sorpresa.
Alla riccia erano occorsi venti minuti buoni per riuscire a calmarlo, farlo smettere di piangere e fargli riprendere fiato dopo la corsa spaccacuore. Gli aveva medicato una sbucciatura sul ginocchio (che non ricordava minimamente di essersi fatto) e lo aveva forzato ad aprire le dita dove stringeva ancora Capitan America.Poi, quando lui aveva ripreso a respirare normalmente, gli aveva chiesto cos’era successo.
E Dodgeball le aveva raccontato tutto. Aveva parlato di getto, sorprendendosi a sua volta di ciò che gli usciva dalla bocca. Aveva detto che Wave era cattiva, che l’uomo bianco era con lei, che era troppo vicina a Tikal e le avrebbe fatto del male. Che anche Shadow aveva qualcosa di sbagliato, ma non sapeva cosa. Molto di ciò che disse erano pensieri che non si era reso conto di aver realizzato. Quando parlò del fatto che Shadow lo aveva colpito, abbassò lo sguardo di scatto. Sapeva che Alice si sarebbe arrabbiata da impazzire sapendo che qualcuno gli aveva fatto del male, uomo bianco o no.
Alice non commentò quel passaggio. Non disse praticamente nulla. Lasciò che il bambino le restasse seduto in braccio, cosa che non gli dispiaceva. La casa era piccola, ma era un posto sicuro. Dodge se lo sentiva. E Alice poteva, se possibile, tenerlo ancora più al sicuro.
Il silenzio, la fatica per la corsa e il pianto a dirotto lo avevano spossato, senza contare che aveva trascorso una tipica giornata da bambino, cioè movimentatissima. Si era addormentato prima di potersi domandare se avrebbe sognato di nuovo l’uomo bianco o cosa sarebbe successo. Alice lo aveva trasportato nell’unico letto della casa (un’impresa che le meritava un plauso, contando il fatto che al bambino mancava poco per pesare la metà di lei). Era lì che si trovava quando si svegliò.
Tirò su la testa, spaventato. Per un attimo non riuscì a capire dove fosse, poi si rilassò ricordando cosa era successo il giorno prima. La calma, comunque, svanì in un attimo sentendo cosa lo aveva svegliato.
Alice e qualcun altro, nella stanza vicina, stavano parlando. No, non parlando: urlando. E ciò lo scioccò, primo perché la seconda persona con tutta probabilità era Shadow, secondo perché non credeva che Alice potesse urlare. L’aveva vista arrabbiata innumerevoli volte, certo, ma non aveva MAI alzato la voce.
Si alzò e si avvicinò alla porta in punta di piedi. La porta era chiusa e le voci ne erano attutite,ma entrambi parlavano talmente forte che distingueva ogni parola.
- Esci da casa mia immediatamente!
- Dove diavolo l’hai nascosto?
- Nascosto? Ma come parli? E’ un bambino, non una partita di coca! E’ qui, sì, e di qui non si muove.
- Lui viene a casa con me.
- Non se ne parla. Ma tu l’hai visto bene quando se n’è andato?
- So che è stato estremamente maleducato con un adulto e si è messo a dire cose insensate. Ed è scappato facendoci preoccupare tutti. Non puoi difenderlo sempre, Alice!
- Ascoltami bene, coso. Quello che so io è che quel famoso adulto lo ha sconvolto così tanto che non gli si poteva avvicinare, e so anche che tu gli hai messo le mani addosso. Sarebbe abbastanza anche solo per non farlo tornare più a casa.
- Non fare tante storie per un ceffone, cazzo! Tutti i bambini se ne prendono!
Si udì uno schiocco sonoro, tipico di una mano che andava violentemente a segno su un’altra parte del corpo. Dodgeball sgranò gli occhi, scioccato. Chi dei due aveva picchiato l’altro?
- Ecco. Visto che tutti i bambini se ne prendono uno, hai avuto anche tu il tuo. Non stai facendo l’adulto in questo momento, anzi non sei per niente in te a prescindere. Non so cosa tu abbia, se sei ubriaco, se ti sei fatto una dose di metamfetamina formato famiglia, o se semplicemente sei più idiota del solito, ma io non ti lascio un bambino fra le mani in questo momento, perciò ascoltami bene. Non ho capito con precisione cosa è successo, perché Dodge era troppo confuso per spiegarsi bene, quindi aspetterò domattina e mi farò ripetere tutto. Resterà con me finché entrambi non vi sarete calmati e poi forse lo riaccompagnerò a casa. Solo se sarò certa che non ripiomberà a casa mia piangendo e con cinque dita stampate sulla faccia. Chiaro? – Un pausa. – E se non molli il mio polso e non esci da casa mia in questo istante, ti stacco le dita a morsi e ti rimando quelle a casa, altro che Dodgeball.
Un lungo momento di silenzio in cui il piccolo riccio non fu sicuro di quello che sarebbe successo, poi un rumore di passi e la porta d’ingresso che sbatteva. Dodgeball tornò lentamente a letto e sprofondò nelle coperte, tremando. Non capiva cosa stesse succedendo, tutto era agitato e confuso e spaventoso. Shadow colpiva lui e Alice colpiva Shadow, Tikal era in pericolo e non lo sapeva e nessuno voleva dargli ascolto. Non gli piaceva per niente tutto ciò, e non sapeva cosa fare.
Si immobilizzò sentendo Alice che entrava nella camera. Adesso aveva un po’ paura anche di lei. Non per via del ceffone, era abbastanza sicuro che lei non lo avrebbe mai picchiato,ma perché forse nemmeno Alice gli avrebbe creduto. Pensava di sì, ma se si fosse sbagliato? Magari avrebbe dato ragione a Shadow e avrebbe pensato che era stato solo un piccolo maleducato. Chiuse gli occhi e sperò che lo credesse addormentato.
Non doveva essere molto convincente, perché Alice interruppe quello che stava facendo (probabilmente cambiarsi) e cacciò fuori un sospiro secco. – Guarda che lo so che sei sveglio. E di sicuro hai sentito tutto. Merda, gliel’avevo detto di parlare piano.
Si infilò sotto le coperte accanto a lui, facendo cigolare il letto. – Ascolta, non c’è bisogno di aver paura. Non qui, comunque. Non ho idea di cosa sia preso a  Shadow, o Wave…o Tikal, anche se spero in bene, ma se hanno qualcosa di sbagliato, non arriverà fino a qui. Shadow si crede un grand’uomo, ma ha paura di me, non tornerà qui.
Dodgeball non rispose, ma si sentiva rinfrancato, appena appena. Comunque aveva ancora paura, anche di addormentarsi. Magari l’uomo bianco o la donna cattiva sarebbero entrati nei suoi sogni e gli avrebbero mostrato ancora cose brutte.
Alice sembrava leggergli nel pensiero. – Suppongo che adesso non riuscirai a dormire. Io non sono proprio il massimo come babysitter. Farò il possibile, ma….deve restare un segreto, okay?
E fece la terza cosa sorprendente della serata. Iniziò a cantare. Cantava una canzone che parlava  di fuoco e paura, ma era lenta e dolce, e Alice aveva, sorpresa sorpresa, una bellissima voce. Quel suono lo tranquillizzò più di ogni altra parola, chissà come. Lo faceva sentire al sicuro, protetto.
- "If this is to end in fire, then we should all burn together...."
Ripeté la canzone due o tre volte, non avrebbe saputo dirlo con precisione, e fra una strofa e l’altra lui si addormentò, scivolando in un sonno senza sogni.
 
Alice si svegliò sentendo qualcuno che le rubava il copriletto. Non era abituata a dividere il letto con esserini agitati, ma non c’era una stanza degli ospiti in quella casa. L’aveva scelta apposta. Nessun ospite a casa Cross, come al solito.
Faceva troppo freddo, non c’era verso di riaddormentarsi, a meno di non riprendersi le coperte con la forza, e non aveva intenzione di svegliare Dodgeball per una volta che ronfava tranquillo. Anche se erano solo le otto, più o meno. Praticamente l’alba.
Si alzò e cercò qualcosa di pesante da infilarsi, mentre le frullavano in testa le immagini della sera prima. Era una faccenda complicata da qualunque parte la si guardasse. Però le aveva dato modo di colpire Shadow, perciò almeno un lato positivo ce l’aveva, anche se molto piccolo. Aveva sempre desiderato prendere a ceffoni quella faccia di marmo. Ecco, faccia di marmo era un ottima definizione: in realtà a volte sembrava fatto tutto di marmo, freddo e duro  e inutile. Quando si atteggiava a bel tipo tenebroso e depresso diventava praticamente una colonna da cattedrale.
Seguendo il filo dei suoi pensieri (e cercando di riportarlo all’ordine) uscì dalla camera e  si mise a frugare nella dispensa, cercando qualcosa di adatto alla colazione di un bambino. Lei il più delle volte dormiva fino a mezzogiorno e poi faceva direttamente pranzo, perciò non c’era molto.
Intanto seguitava a pensare. Quello che aveva detto a Shadow, di non aver capito cosa gli avesse raccontato Dodgeball, non era del tutto vero. Aveva capito abbastanza da preoccuparsi.
Wave c’entrava qualcosa con quello stramaledetto uomo bianco. E stava con Tikal, che però era beatamente ignara del pericolo. La rondine avrebbe potuto ucciderla in tutta tranquillità durante una nottata di salti sul letto, e poi passare nella casa accanto e fare lo stesso a Shadow e al suo bambino. Poi sarebbe sparita lasciando la città senza un capo e prostrata dal lutto. Una prospettiva agghiacciante. Solo che…
Solo che non sembrava un piano da uomo bianco. Sentiva, a pelle, che non avrebbe fatto una cosa del genere. Troppo semplice, troppo umano. Se proprio Wave avesse cercato di far del male a qualcuno, avrebbe cercato modi più sofisticati. Era un sollievo, seppure lieve: i metodi più sofisticati potevano diventare molto crudeli.
Ah, e naturalmente c’era anche il problema Shadow. Non che quel riccio non fosse stato sempre un problema, ma se era posseduto o qualcosa di simile era un problema al cubo.
- Cazzo, sembra una puntata di Supernatural. – Disse ad alta voce disseppellendo una scatola di biscotti dalla dispensa. Il problema con le puntate di Supernatural era che finivano tutte male. Un rumore dalla stanza vicina attirò la sua attenzione. Ma che sonno leggero aveva quel bambino? – ‘Lice?
- Sono qui. – Si diresse verso la camera da letto. Dodgeball era seduto in una nuvola di coperte, sfregandosi gli occhi. – Buongiorno. Meglio di ieri sera? Il piccolo annuì. – Incubi?
Stavolta Dodgeball scosse la testa. – Ho fame.
- Tra un minuto andiamo a mangiare. Prima devo capire un paio di cose. – Si inginocchiò dall’altra parte del letto. – Ieri sera non  ho capito proprio tutto. Il bambino distolse lo sguardo. – Io non ho detto una bugia.
- Certo che non hai detto una bugia, chi pensi che io sia per non crederti? Amy?
- Tu sei grande, i grandi non credono mai a niente.
- Io non sono ancora un’adulta del tutto, Dodge. Anche io sento che c’è qualcosa di storto in Shadow.
- Shadow ha sempre qualcosa di storto, ma di solito è….meno storto….
- Cosa vuoi dire?
- Non lo so…Alice, non voglio tornare a casa. La donna cattiva farà del male a Tikal, ma nessuno mi ascolta se lo dico.
- Io ti ascolto. E forse c’è qualcosa che puoi fare, ma devi essere molto, molto coraggioso.
Dodgeball lasciò vagare lo sguardo lungo le pareti della stanza, poi puntò il dito verso una di esse. – Alice, perché quel signore non ha i pantaloni?
Stava cercando di cambiare discorso, ma Alice lo lasciò fare, per il momento, e seguì la direzione indicata dal suo dito. Puntava il poster di Ben Whishaw sulla parete, nudo come mamma l’aveva fatto, col posteriore in primo piano. – Perché ha un bel sedere e lo vuole mostrare.
- E perché lo tieni sul muro?
- Perché mi piace quel sedere, e perché è un ricordo. Ce l’avevo anche nella mia stanza in Ohio. Ti dirò un segreto, come quello di stanotte. Visto che quel poster è la prima cosa che vedo quando mi sveglio, appena apro  gli occhi, per un momento mi sembra che tutto sia come prima. Che questo casino non sia mai successo.
- Anche io lo faccio. – Disse Dodgeball a bassa voce. – Quando mi sveglio. Se tengo gli occhi chiusi e penso forte forte, penso sempre che tutto tornerà a posto e che sarà Silver a venirmi a svegliare e non Shadow. Perché io voglio bene a te e a Shadow, e a Tikal e a Aidan, però non mi piace quello che succede adesso. – Si interruppe per un momento. – Ho tanta paura.
- Anche io ho paura. – Non si era resa conto di averne prima di dirlo ad alta voce, ma dopo averlo detto sapeva di esserne certa. – Ma ho un piano, e ho bisogno del tuo aiuto, okay? Solo una lievissima esitazione. – Okay.
- Hai detto che Wave è legata all’uomo bianco, vero?
- Sì.
- Secondo te anche lei può sapere quello che pensiamo?
- Secondo me no. Non è potente come lui. E’ solo cattiva come lui.
- Allora se tu le dicessi una bugia, non lo saprebbe.
- No.
- Allora ascoltami, Dodge, perché è molto importante. Tu devi tornare a casa e devi dire una bugia a tutti. A Wave, a Tikal e a Shadow.
- O…Okay.
- Dobbiamo dire loro che sei scappato perché eri arrabbiato. Eri geloso perché Tikal aveva una fidanzata e avevi paura di Shadow perché ti aveva dato uno schiaffo. Devi chiedere scusa a Wave, però puoi evitarla ancora. Sarai credibile come figlioletto geloso. Capisci quello che sto dicendo?
- Sì.
- Se hai ragione, e io penso che tu ce l’abbia perché sei un bambino intelligente, Wave ci crederà e non si insospettirà. Intanto io potrò indagare e cercare di capire chi sia lei davvero. Hai capito? Mi aiuterai?
- Ci provo. E se sbaglio?
- Non sbaglierai. E se proprio lo farai, gli adulti sono stupidi, non se ne accorgeranno.
- Okay. Lo faccio. Ti aiuto.
- Sei un bravo bambino.
- Dobbiamo andare a casa subito?
- Diamine,no! Ho detto a Shadow che avrei aspettato che vi foste ripresi tutti e due. Lui probabilmente starà ancora dormendo, bestemmiando, bevendo o facendo quel che cavolo gli pare per riprendersi. Lo lasceremo sbollire e intanto faremo in modo che tu ti riprenda. Sai come si fa a riprendersi davvero?
- Si mangia?
- Si mangia e si fanno cose poco produttive. Ad esempio, sapevi che, visto che è tornata la corrente, in questo momento ho un lettore dvd perfettamente funzionante? E che adesso i dvd sono gratis, perciò sono riuscita a procurarmi tutti quelli che desideravo?
- Guardiamo un dvd? – Esclamò Dodgeball, aprendosi in un sorriso. Alice ne fu contenta. Lo aveva visto troppe volte piangere da quando lo aveva conosciuto e,anche se di solito i mocciosi piagnucolanti di quell’età la irritassero e basta, le importava molto che quel moccioso in particolare smettesse di versare lacrime. – Bello! Che cosa guardiamo?
- Cosa ti avevo promesso, quella volta che ero rimasta da te di sera?
- Il Dottore! – Il bambino iniziò a saltare sul letto, finendole praticamente addosso. – Guardiamo il Dottore! Voglio vedere che cosa fa con il Maestro! Dai! Dai!
- Se non mi uccidi di entusiasmo lo possiamo anche fare. Ma naturalmente non c’era verso di frenarlo, e Alice lo lasciò fare. Che si entusiasmasse finché poteva, mentre Wave, l’uomo bianco, Shadow e le sue manie mezzo psicotiche erano lontani. Dopo avrebbero avuto un lavoro da fare, ma per ora l’unica prospettiva erano un divano, una televisione e una scatola di biscotti.
Tutto il resto poteva aspettare.
 

 
Come al solito, ho promesso una cosa che non sono riuscita a mantenere. Chiedo immensa venia. Succedono tante cose, e a volte i personaggi non sono collaborativi. Chiedo anche scusa, se a volte non rispondo alle recensioni. Succede, per mancanza di tempo o di voglia o di memoria. Sappiate però che le apprezzo tutte, e vi ringrazio infinitamente se le lasciate. Davvero, grazie molte.
Detto ciò, spero che questo capitolommerda vi piaccia più di quanto piace a me. A presto!
^Ro
P.S. La canzone di fuoco e di morte, nel caso a qualcuno interessasse, si chiama I see fire ed è di Ed Sheeran. Fa piangere, vi  avverto, ma a me mette anche un sonno terribile. Ho appena provato a usarla per addormentare i miei nipoti e ho rischiato di addormentarmi io.

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Capitolo 13
*** Hide and seek ***


L’aria era tanto fredda da risultare pungente quando uscirono ore dopo. Alice aveva avvolto Dodgeball in una coloratissima sciarpa a righe (era vestito troppo leggero, e sapeva il cielo come avesse fatto a non prendersi un accidente sudando fuori al freddo la sera prima) abbastanza lunga da poterlo imbozzolare come una larva, volendo. Comunque, dopo innumerevoli giri intorno al collo e alla testa e lasciando penzolare le estremità non molto sopra al suoi piedi, il risultato era stato abbastanza decente.
- E’ bellissima questa sciarpa – disse il bambino guardandola con aria rapita mentre uscivano dalla casa, agganciandosi alla mano di Alice come se fosse la cosa più naturale del mondo.
- Puoi tenerla – rispose lei.
- Posso davvero?
- Sì. L’ho presa tempo fa, ma non l’avrei mai messa.
- Perché l’hai presa se non la metti?
- Perché mi ricordava una cosa. Vuoi muoverti?
La ragazza era sicura che Dodgeball  avrebbe puntato i piedi e fatto storie sulla strada di casa, ma si rendeva conto di essersi sbagliata. La certezza di avere un’alleata e un piano (faceva molto film poliziesco per ragazzi di second’ordine), unita a una mattinata di distrazione completa, lo avevano ristabilito, almeno temporaneamente. Così la camminata fu costantemente accompagnata dal suo chiacchiericcio irrefrenabile.
- Ma tu non taci mai?- Lo frenò Alice a un certo punto, appena appena irritata. Per tutta la risposta il bambino esibì un sorriso innocente e smagliante e ricominciò a parlare a tutto spiano.
Camminando, incontrarono Aidan e un gruppetto di altri uomini di ritorno da una caccia mattutina. Trascinavano una grossa carcassa di cervo. Il lupo nero agitò una mano in direzione della coppia. – Ehi dolcezza! Ti porto il pezzo migliore stasera, pulito e spellato! – Urlò, scatenando l’ilarità dei compagni.
Alice trascinò via Dodge che aveva cercato di fermarsi a guardare, affascinato, mentre le risate del gruppo si allontanavano. – Ma io volevo andare a vedere – si lagnò lui.
- Non avvicinarti, è sporco.
- Ma Aidan ha detto che lo ha pulito!
- Non il cervo, Dodge, Aidan è sporco.
Il piccolo rise e riprese a parlare a mitraglietta, beatamente ignaro dei pensieri funesti che affollavano la testa della sua amica.
Evitare Aidan era un fatto consueto, abbastanza da non destare sospetto, ma dopo l’assemblea vedeva un buon motivo per farlo.
I bambini avevano parlato di una talpa. Una spia dell’uomo nero mescolata fra loro. Questo le sarebbe bastato a renderla il doppio più sospettosa con chiunque le si fosse avvicinato,  anche se non avesse avuto un individuo sospetto proprio accanto.
Perché Aidan era sospetto. Le stava appiccicato come una cozza al suo scoglio e faceva domande. Qualunque genere di domande, sul suo passato e sul suo presente. Poteva essere anche l’approccio tipico di un ragazzo che non entra nella grotta della vita (eufemismo che aveva recuperato chissà dove, analogo a decine di altri che le erano venuti in mente quando cercava di evitare il lupo: non battere chiodo, essere a secco, tenere l’uccello nel suo nido o più semplicemente non andare a letto con neanche un’anima) da un bel pezzo. In una situazione normale il motivo sarebbe stato certamente quello. Ma come si era visto, quella era una situazione MOLTO fuori dal normale.
Era possibile che Aidan la inseguisse soltanto per spiarla? Ci aveva pensato a lungo, e la risposta che si era data era sì. Era possibile ed era anche un’eventualità molto pericolosa. Se Wave avrebbe potuto fare del male a Tikal o a Shadow solo cogliendoli di sorpresa, quell’altro era un ragazzone ben piantato. Anche se lei avesse opposto resistenza ( e lo avrebbe fatto, qualunque cosa credessero gli uomini lì intorno lei era tutt’altro che una fragile fanciulla), ad Aidan  sarebbe bastato poco per ferirla o ucciderla nel cercare di ottenere altre informazioni. E parlando di Wave, il fatto che Dodge le avesse detto che era lei l’inviata dell’uomo bianco non l’aveva tranquillizzata granché. C’era la possibilità che fossero due gli inviati, uno con funzione di spia e l’altro come…arma? Messaggero? Qualunque cosa fosse.
Perciò evitava Aidan più del solito. Quel briciolo di amicizia che sembrava essersi formato tra loro era stato spazzato via, almeno dal suo punto di vista. Non rispondeva più ai suoi richiami o alle sue avances idiote, nemmeno in modo sarcastico. Non usciva più di casa quando lo vedeva appostato fuori ad aspettarla, e se il ragazzo la notava dalla finestra e cercava di salutarla, lei tirava le tende.
Si rese conto di essersi persa nei suoi pensieri quando, girando un angolo, vide poco distante la casa di Shadow e accanto quella di Tikal. Dodgeball si irrigidì, fermandosi e costringendo anche lei a fermarsi.
- Alice, devo proprio proprio? – Bisbigliò.
- Sì. Ho bisogno del tuo aiuto. Andrà tutto bene. Non trambasciare.
- Che cosa vuol dire?
- Vuol dire avere angoscia.
- E’ una parola buffa.
- Quando sarà finita questa storia ti insegnerò molte altre parole strane.
- Spero finisca presto.
- Anche io, Dodge. Anche io.
Intanto si erano avvicinati ulteriormente alla casa. Alice percorse gli ultimi passi praticamente trascinando il bambino avvinghiato alla sua mano e bussò alla porta.
Shadow la aprì quasi subito, come se li stesse aspettando. Chiaramente non aveva dormito, e aveva tutta l’aria di aver bevuto qualche bicchiere di troppo. Quando parlò, comunque, la sua voce era ferma e atona.
- Finalmente.
- Ho preferito essere sicura che fosse tutto a posto.
Il riccio nero si rivolse a Dodgeball. – Mi hai fatto preoccupare, ieri sera.
- Lo so. Mi dispiace.
Shadow allungò una mano verso di lui. Il bambino si ritrasse come temendo di venire colpito un’altra volta, ma l’altro si limitò a prenderlo per il mento delicatamente, costringendolo a guardarlo negli occhi. – Non fare mai più una cosa del genere. Mi è preso un colpo. Credevo che ti avrebbe messo sotto una macchina.
- Non lo faccio più. Promesso.
- Lo spero. Devi andare a chiedere scusa a Tikal e soprattutto a Wave.
- Anche Alice. – Dodgeball si strinse ancora di più alla mano della ragazza. – Deve venire anche Alice.
- Lei non deve chiedere scusa.
- E non ho intenzione di farlo – interloquì lei. – Ma se vuole che venga anche io, io verrò. Vedi se puoi impedirmelo.
Shadow alzò gli occhi al cielo. – Non cercherò di impedirtelo, ma lui deve capire che deve chiedere scusa. Lui e basta.
- Oh, ma lui lo sa benissimo. Ma lo accompagnerò lo stesso.
- Non avevo dubbi. Forza, andiamo. Tikal non è andata a scuola oggi.
Attraversarono lo spazio che separava le due case in completo silenzio. Mentre Shadow bussava alla porta, Dodgeball tirò Alice per la manica e la costrinse ad abbassarsi. – Lui è a posto, adesso – le bisbigliò all’orecchio – l’uomo bianco non c’è più. C’è solo Shadow.
La ragazza annuì brevemente e alzò gli occhi su Tikal che apriva la porta, scarmigliata.
- Oh, grazie a Dio. – Mormorò l’echidna, e si precipitò sul bambino. Lo strinse in un abbraccio spaccaossa, come se lo avesse perso di vista per anni. Alice si girò verso Shadow, perplessa. – Non le hai detto che era al sicuro?
- Mi è…passato di mente. Ieri sera ero un po’ confuso.
- Oh, fantastico. – La ragazza alzò gli occhi al cielo, poi tornò a guardare Tikal che prendeva il viso del piccolo fra le mani e lo riempiva di baci.
- Credevo…ommioddio, credevo che ti fosse successo qualcosa di brutto. Shadow non si è più fatto vedere e noi….oh, signore, ma perché sei scappato? Cosa è successo?
- Mi sono spaventato. Non sapevo chi era Wave e ho pensato che ti voleva portare via da….da me. Poi Shadow mi ha…mi ha dato lo scapaccione e allora ho preso paura e sono scappato. Mi dispiace.
Un attore sopraffino, quel piccoletto, Alice doveva ammetterlo. O forse era solo il fatto che quella era la verità, solo un po’ distorta. In ogni caso, funzionava alla perfezione. Tikal lo baciò un’altra volta sulla testa.
- Oh, tesoro,ma tu non devi pensare questo, tu sei il mio bambino. Nessuno potrebbe portarmi via da te, neanche con una gru. Mi dispiace di non averti detto che avevo un’amica come Wave, va bene? Ma non devi preoccuparti. Non cambierà niente.
- Posso chiedere scusa anche a lei?
- Certo. Vieni, è rimasta in casa anche lei. – L’echidna si alzò e lo prese per mano, conducendolo verso la porta. Dodge si voltò verso Alice, che lo incoraggiò con un altro cenno di assenso. Sì, aveva lavorato bene.
- Perché ti guarda come se fossi il suo angelo custode? – Le chiese Shadow, sempre nello stesso tono apatico, mentre li seguivano all’interno.
- Perché vuole sapere se ha fatto la cosa giusta. E perché io sono l’unico adulto mentalmente abile e non ubriaco qui vicino.
- Non sono ubriaco. Lo ero fino a poche ore fa, ma ora sto bene.
- Cosa ti fa pensare che ti crederò?
- Niente. Tutto. Non lo so. Ma puoi provare a fidarti di me, una volta tanto.
- Non cercare di prendermi in giro con le tue stronzate da bel tenebroso, okay?
Si guardarono. Erano nell’anticamera di Tikal, immobili, entrambi con le braccia incrociate. Potevano sentire Dodgeball che parlava con Wave nella stanza accanto, ma non vi badavano. Erano troppo impegnati a costringersi a vicenda ad abbassare gli occhi.
- Hai intenzione di piantarla? – Chiese Shadow.
- No. Ho ripetuto la stessa cosa a  te e a Dodgeball più di una volta, e lo ripeterò ancora: non la pianterò finché non sarò sicura che quello che è accaduto ieri sera non accada mai più.
- Non ne sarai mai sicura. Tu non ti fidi di me.
- Mi hai mai dato motivo per fidarmi? Andiamo, la prima volta che ti ho visto mi stavi puntando una pistola contro. L’ultima hai cercato di colpirmi.
- Non ero in me.
- E ora sei in te? Cos’è, hai vomitato via la stupidità insieme con l’alcol?
- E’ possibile.  Ma ho anche riflettuto a lungo. Una cosa come quella di ieri sera non capiterà mai più, Alice. Ne sono certo.
La ragazza piegò di lato la testa, pensierosa. Passò almeno mezzo minuto prima che riaprisse bocca. – Dodgeball si fida di te.
- Bene.
- Vedi che continui a essere così, o te ne riterrò responsabile in ogni caso.
- Non ho dubbi.
- E prova a sfiorarlo ancora solo con un dito…
- Credi che ne abbia intenzione?
- Non si sa mai. Non con te.
- Mi dispiace di averlo colpito più di quanto non mi dispiaccia di aver cercato di colpire te.
- Dovrei esserne felice?
- Non so. Tu che dici?
Vi fu un altro momento di silenzio, ma più sollevato. La loro conversazione non era ancora tornata al tono consueto, ma vi si stava avvicinando. Alice sentiva che Shadow era sincero, ma era restia a fidarsi del tutto. Non era nella sua natura.
- Dimmelo solo sinceramente:quanto hai bevuto?
- Poco. Un paio di birre, più o meno.
- E ti hanno ridotto così? Andiamo, ma il tuo ragazzo non ti tiene d’occhio quando bevi? Rischi di diventare un pericolo pubblico dopo pochi bicchieri.
- Cosa? – Stavolta l’espressione di Shadow era di genuina confusione. – Io non ho un ragazzo.
- No? – Alice aggrottò la fronte. – Tu e Sonic non…no? Davvero?
- Cosa diamine stai dicendo?
- All’assemblea sembravate marito e moglie. Assenza di spazio personale, scambi di sguardi….Sicuro che non ci sia niente?
- Smettila.
- Andiamo…Lui non è famoso per la sua eterosessualità, d’altronde. Nessuno si stupirebbe né si scandalizzerebbe.
- Cosa cazzo….
- E’ gay. Lo sa tutta la nazione, praticamente. Non che sia rimasto granché della nazione,comunque.
- Non ti sto ascoltando.
- Puoi non ascoltare me, ma non sono stata la sola a pensarlo. Metà della popolazione vi crede fidanzati e l’altra metà quantomeno è convinta che presto farai outing anche tu.
Il riccio nero lanciò un’imprecazione da scaricatore di porto proprio nel momento in cui Tikal, Dodgeball e Wave li raggiungevano dalla stanza accanto. Nonostante cercasse di trattenere l’ilarità alla vista delle loro facce, Alice non poté fare a meno di notare che il bambino cercava di mantenersi il più possibile a distanza da Wave.
- Shadow the Hedgehog! – Esclamò Tikal scandalizzata.
- Andiamo, Tikal, è stata Alice che…Oh, al diavolo. – Abbassò gli occhi su Dodgeball. – Non ripetere in nessun caso questa parola, hai capito?
- No, Shadow.
- Hai chiesto scusa? Per bene?
- Sì, Shadow.
- E’ stato molto cortese – disse Wave. – Non credevo di avergli fatto una così cattiva impressione.
Mentre Alice cercava di trattenersi dal prenderla a pugni, Shadow prese per mano il piccolo riccio, che non si ritrasse. – Sarà meglio che andiamo, ora. Tikal, mi dispiace davvero di non avervi avvertito di dove fosse.
- Non farlo mai più. Non fate mai più quello che avete fatto ieri sera, nessuno di voi due.
- Nossignora. Saluta, Dodge.
Quest’ultimo agitò la manina, lasciandosi portare via.  Alice incrociò il suo sguardo e alzò il pollice. Non c’era bisogno di dire altro. Invece, mentre Shadow le passava accanto, non poté trattenersi dal sussurrargli – Gay.
Lui le lanciò uno sguardo di fuoco, a cui la ragazza rispose con un ampio sorriso innocente. Su quel versante, tutto era (o sembrava essere) tornato alla normalità.
Ora bisognava indagare.
 
Un paio di birre  era un valore molto indicativo. Shadow se ne rese conto quando, rientrato in casa, prese coscienza del mal di testa lancinante che aveva cercato di ignorare mentre parlava con Alice. Postumi di una sbornia più o meno grande, altro che “un paio di birre”.
Il punto era che non sapeva di preciso quanto avesse bevuto. La sera prima era tornato a casa, fuori di sé, schiumante di rabbia verso Alice, verso Dodgeball, verso chiunque, e aveva aperto il frigo nuovamente funzionante, tirandone fuori tutti gli alcolici che vi aveva trovato dentro. Poi si era seduto sul divano, con bottiglie e lattine allineate sul pavimento e la sua vecchia pistola d’ordinanza in mano. Non poteva far altro che spostare ossessivamente il caricatore vuoto. Quando si era reso conto, tempo prima, che qualunque cosa ci fosse nella sua testa non avrebbe potuto portare a nulla di buono, aveva lasciato l’arma scarica in un posto e le munizioni in un altro. Di questo poteva essere grato, la mattina dopo. Una volta iniziato a bere, non aveva avuto più intenzione di spostarsi. E dopotutto, ottenebrato dai fumi dell’alcol, non era neanche più sicuro di ricordarsi dove fossero i proiettili.
Così era rimasto seduto, a bere e passarsi la pistola da una mano all’altra, riflettendo. Più rifletteva, più sentiva il bisogno di bere Sapeva che era stato qualcun altro a urlare contro Dodgeball, a colpirlo e a cercare di schiaffeggiare Alice, non lo stesso Shadow che si era alzato dal letto quella mattina. Era quest’altra persona a parlare nella sua mente, con la solita voce che aveva imparato a riconoscere. Il riccio cercava di soffocarla ubriacandosi, ma non aveva funzionato. La voce continuava a parlare, a raccontargli storie del passato, del suo passato, quello che cercava di dimenticare, gli chiedeva come mai avesse perso il controllo, quanto ci sarebbe voluto prima che gli scatti d’ira e le botte diventassero un fatto quotidiano. Era una voce divertita e sardonica,che a mente lucida gli avrebbe ricordato quella del pagliaccio assassino di un vecchio film.
Non era sicuro di come avesse fatto a farla tacere. Forse si era addormentato. O forse era riuscito a penetrare il muro di immagini violente con altri pensieri, pensieri attuali, freschi,che avessero il potere di riportarlo alla realtà, e solo dopo si era addormentato. Chissà. Sapeva solo di essersi svegliato la mattina dopo con un terribile sapore acido in bocca e la testa che pulsava, ma attivo e di nuovo in sé. Si era alzato, aveva chiuso (a chiave) la pistola in un cassetto e aveva gettato i vuoti nella spazzatura. Non aveva avuto il coraggio di contarli-anche se era certo che fossero più di due-e non l’avrebbe fatto neanche ora, nemmeno dopo aver convinto Dodgeball ad andare in camera sua. Avrebbe portato il sacchetto alla discarica così com’era.
Forse Alice aveva ragione, forse Dodge non sarebbe dovuto restare affidato a lui, ma non aveva intenzione di lasciarlo a nessun altro. Quel bambino era una sua responsabilità. E le responsabilità lo tenevano coi piedi per terra, che si trattasse di un solo bambino o di tutta la città. Era convinto che se fosse rimasto chiuso in casa da solo, in meno di una settimana sarebbe uscito di testa del tutto, avrebbe armato la pistola e avrebbe sparato a qualcuno. A sé stesso, tanto per cominciare.
Ma sarebbe stato troppo facile arrendersi così, bisognava tirare avanti , ignorando i ricordi,  gli impulsi negativi e le insinuazioni di Alice.
Ah, sì, perché ovviamente ora si aggiungeva anche uno spasimante gay. Ma non aveva niente di meglio da fare la gente? Prima Wave, e adesso Sonic. Sempre che Alice non si stesse inventando tutto, cosa che non lo avrebbe stupito.
Il punto era che, una volta messa la pulce nell’orecchio, continuava a ricordare piccoli particolari a cui aveva fatto ben poco caso fino ad allora. Annullamento dello spazio personale? Sì. Nel senso che se lo ricordava sempre addosso,mai lontano più una spanna o due. Comportamenti ambigui? A bizzeffe. Bastava citare il modo in cui lo aveva guardato in ospedale, o l’allegra pacca che gli aveva dato sul sedere. Oh Signore, era proprio vero.
Non che gli desse fastidio l’idea che fosse proprio Sonic, fra tutti, ad andargli dietro. Era semplicemente…il momento sbagliato. Troppe cose a cui pensare. Aveva pensato la stessa cosa quando si era trattato di Wave, anche se la rondine lo aveva irritato molto di più. Almeno Sonic non era pressante. In ogni caso, era inopportuno.
E poi Shadow non era mai stato il genere di persona incline ad avere una relazione. C’erano state, ovviamente, quando era adolescente, alcune ragazze con cui era stato in buoni rapporti per periodi che variavano da una notte a un paio di settimane, ma quello era un fatto naturale. C’era stato, anche, un ragazzo...ma nemmeno lui era durato molto a lungo (questo particolare era noto praticamente solo a lui e al ragazzo in questione, sempre che fosse ancora vivo. L’America poteva anche avere la fama di un Paese  libero, ma certe storie, prima dell’epidemia, non erano del genere da far girare, specialmente se si aspirava a un posto nell’esercito).  Ma relazioni durature, con tutti i crismi del caso? Mai. E per ora poteva andare bene così.
Una volta presa questa decisione, restava solo un problema: problema che consisteva in un pensiero  che continuava a rimbalzargli dentro la testa, non doloroso, non spaventoso, solo assillante.
“Ma se la situazione è la stessa che con Wave” diceva questo pensiero “perché quando hai capito che le piacevi eri solo infastidito, mentre con Sonic sembra quasi che ti dispiaccia di non poter ricambiare?”
Era il genere di pensiero a cui non si poteva rispondere in altro modo che non fosse un vaffanculo, cosa che lui faceva senza problemi. Ma il problema restava.
Dannazione, ma perché doveva accadere tutto in una volta sola?
 
 
Dire che le indagini di Alice erano a un punto morto sarebbe stato troppo gentile. Era più realistico dire che non aveva scoperto praticamente niente di utile.
Eppure non era rimasta con le mani in mano. Aveva fatto ricerche nel modo più discreto possibile:farsi scoprire sarebbe stato come disegnarsi un bersaglio sulla schiena con sopra scritto UOMO BIANCO UCCIDIMI. Non era Sherlock Holmes, certo, capace di trasformare un semplice sguardo in un indizio, ma aveva fatto del suo meglio.
Aveva parlato con  chiunque potesse sapere qualcosa di utile, perfino a Soter, che in teoria era il capo di Wave, ma niente. Non aveva nemmeno potuto fare domande troppo dirette, sempre per mantenere un basso profilo, e tutto era risultato in un buco nell’acqua. Avrebbe avuto davvero bisogno di Sherlock Holmes, magari nella sua versione della BBC, con gli zigomi alti e la voce che ispirava sesso.
Comunque. Di una cosa sola si era accertata: nessuno sapeva molto di Wave. Pareva che la rondine avesse parlato con chiunque, anche solo per poche chiacchiere, ma non c’era una persona in tutta la città che sapesse granché del suo passato. Poteva sembrare un fatto di poco conto: Alice stessa non aveva parlato molto della sua vita di prima con altri, anzi aveva parlato con ben poca gente, ma trattandosi di Wave, ogni particolare era sospetto.
L’altro sistema che aveva messo in atto per scoprire qualcosa era stato presentarsi a casa di Tikal sempre più spesso. L’echidna non si era insospettita minimamente, anzi la accoglieva sempre con calore. La scusa di dover sfuggire da Aidan era sempre valida, e Tikal era una fonte inconsapevole di informazioni. Inoltre aveva la possibilità di osservare Wave da vicino, anche se finora nemmeno questo le aveva portato informazioni.
- Poverina, adesso che la centrale funziona a pieno ritmo, lavora di continuo. – Le disse Tikal un giorno, quando Alice, con falsa noncuranza, le aveva chiesto dove fosse la sua fidanzata. La ragazza era comparsa a casa loro con la scusa di sbolognare a qualcuno le bistecche di cervo che Aidan le aveva recapitato davvero. Si era rifiutata di aprirgli quando lui aveva bussato, ma il lupo non aveva rinunciato e gliele aveva lasciate, ben incartate, sullo zerbino. A quel punto non poteva sprecare della carne fresca, e l’aveva girata a Tikal. Dopo averne assaggiata giusto una strisciolina. Per assicurarsi che non fosse avvelenata.
- Non hanno più avuto….sabotaggi, o simili?
- Oh, no, va tutto a gonfie vele. Magari finalmente avremo una vita tranquilla, senza avvenimenti strani, uomini neri o….cose. – L’echidna riemerse dal frigo dove aveva riposto le bistecche stringendo un omino giocattolo. Alice riconobbe lo stesso Captain America che Dodge aveva stretto nella mano pochi giorni prima. – Per quale assurdo motivo qualcuno dovrebbe infilare un supereroe nel congelatore?
- Nel film, Captain America si ibernava nel ghiaccio. Dodge avrà voluto…ricreare la scena.
- Spero che il film non contemplasse anche che il Capitano venisse scambiato per un broccolo e gettato in pentola. – Buttò il pupazzetto sul tavolo.
- A proposito, Dodge come la sta prendendo? Tutta la storia di Wave, intendo. – Quella di Alice era curiosità, ma non solo. Voleva controllare che il bambino non stesse causando sospetti pericolosi.
- E’ molto educato. – Tikal alzò gli occhi al soffitto, pensierosa. – Sì, non posso dire altro. Si sta comportando molto bene, ma…..Non credo la digerisca ancora. Non è mai molto contento quando c’è lei, ma almeno non la insulta e non mi fa prendere altri infarti scappando via.
- E’ tanto geloso?
- E’ quel genere di gelosia tipica dei bambini, sai, spesso è ingiustificata. Però non mi preoccupo, è abbastanza normale che se la prendano con i nuovi compagni dei loro genitori, o simili, soprattutto se hanno subito delle perdite. Cavoli, mi ricordo che quando facevo la volontaria all’asilo, una bambina orfana della mamma aveva morsicato la convivente di suo padre. E’ tutto nella norma.
- Bene. – Senza darlo a vedere, Alice era sollevata. Se nemmeno Tikal, così esperta di bambini, si era accorta di nulla, voleva dire che Dodge stava andando alla grande. Ma tutto  quel parlare di orfani le stava risvegliando ricordi non proprio piacevoli. Non era quel genere di ragazza che si lamentava e piagnucolava del suo triste passato, ma ciò non voleva dire che fosse stato tutto rose e fiori, in orfanotrofio. Anche se non ricordava di aver mai morso nessuno.
Per fortuna l’altra cambiò argomento. – Grazie per la carne, tra parentesi. Dovrei andare a portarne un pezzo a Amy, sai, l’altro giorno mi stava giusto dicendo che aveva una gran voglia di carne fresca. Le gravidanze fanno questi brutti scherzi.
- Davvero?
- Già. Ma aspetterò che torni Wave, non ho voglia di uscire e lei è sempre così felice di andare a trovare Amy….
A queste parole, Alice drizzò le orecchie. – Sono così amiche?
- Oh, non lo so, ma Wave ha sempre voglia di parlare con Amy, chissà mai perché. Credo che sia incuriosita per la gravidanza come tutti, è la più avanzata della città,dopotutto, sarà la prima a partorire dopo l’epidemia.
Questo era interessante. – Se vuoi porto io la carne a Amy. Non ho nulla da fare.
- Davvero? E tutta questa gentilezza?
- Non ti ci abituare.
- Grazie infinite. Porta a lei e ad Aster i miei saluti.
- Lo farò. – Ma la riccia pronunciò queste parole distrattamente, mentre la sua testa era anni luce dai convenevoli. Wave non poteva essere così interessata a Amy per caso. Come aveva detto Tikal, lei sarebbe stata la prima a partorire un bambino con padre non immune. La sua gravidanza era tenuta d’occhio da tutta la città, perché se il bambino fosse sopravvissuto, avrebbe significato che anche gli altri futuri neonati figli di un padre già morto avevano delle possibilità. C’era qualche secondo fine, dietro a tutto quell’interesse.
E di sicuro non era niente di piacevole.
Squilli di trombe e rulli di tamburi, ho aggiornato in meno di un mese. HOORAY.
Dev'essere il caldo ad ispirare. Comunque, non è che il capitolo sia meglio dei precedenti. E' stato solo molto, molto più veloce.
Non so che dire, leggete, recensite, è tutto nelle vostre mani. Buonanotte
^Ro

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Capitolo 14
*** Everyone says there is love near you ***


Alice non era mai andata a trovare Amy, ma sapeva dove abitava. La riccia rosa parlava così tanto  da poter raccontare la sua vita in cinque minuti e le aveva ripetuto spesso il suo indirizzo, invitandola a passare da lei.
Ad Alice, Amy non era granché simpatica. La considerava troppo frivola e superficiale. Comunque, era disposta a ingoiare la sua antipatia pur di scoprire perché Wave fosse tanto interessata al bambino in arrivo. Doveva solo cercare di non fare destare sospetti.
Ma non ce ne fu bisogno. Amy cominciò a parlare non appena se la vide sulla soglia con il pacchetto di carne in mano e la trascinò dentro senza fermarsi. Alice  tirò mentalmente un sospiro di sollievo. Ora bisognava solo portare il discorso sull’argomento giusto ed era fatta.
- Sono così contenta che tu sia venuta, non ti vedo da un sacco di tempo. Ed è una noia quando sei incinta, sei troppo stanca per fare moltissime cose e la tua vita sociale è cancellata. Ormai non riesco più ad aiutare Tikal con la scuola, sono troppo grossa per giocare con i bambini, posso solo tenerli d’occhio e urlare loro addosso. A proposito,grazie di avermi portato questa carne, sono giorni che ne vorrei un pezzo. Il bambino mi riempie di voglie e non posso esaudirne la metà, per colpa di quella maledetta epidemia. E’ andato tutto a male.
- Mi ha chiesto Tikal di portartela.
- Davvero? Che cara ragazza. Pensa sempre agli altri. Non so come faccia, il mondo è così pieno di persone egoiste anche dopo l’epidemia, ma lei è sempre così gentile. Le vogliono tutti bene.
- Hai conosciuto la sua nuova ragazza?
- Wave? Oh, sì. Non avrei mai pensato che fosse di quella sponda… - Storse un po’ la bocca – ma abbiamo fatto amicizia ed è molto simpatica. Ed è fortunata ad avere Tikal. Credo che anche a lei piacciano i bambini. Non è ancora venuta a scuola , ma chiede sempre notizie sulla gravidanza a me e a un paio di altre in attesa.
- Sì? – Alice cercò di sembrare casuale, ma intanto si era fatta più attenta possibile.
- Già. Mi ha fatto un sacco di domande, ma sai, me le hanno fatte un po’ tutti. Mi è sembrata molto interessata quando le ho detto che il padre non era Aster, e mi ha fatto le congratulazioni perché sarò la prima a partorire. – Rise di gusto. – E’ bello sentirsi fare i complimenti, non sono mai stata la prima in qualcosa.
- Fantastico. Ti ha chiesto così tante cose?
- Oh, sì, era molto incuriosita. Ha anche voluto sapere per quanto tempo resterò ad aiutare Vanilla e Tikal alla scuola, per via della mia condizione. Io le ho detto che vorrei restare il più possibile, quei ragazzini sono delle tali pesti, le ragazze non ce la farebbero mai da sole! – Si sporse in avanti con un’espressione maliziosa. – Ma ora basta parlare di me. Dimmi di te. Non so più in che situazione sei, circolano solo delle voci.
- Voci?- Replicò la ragazza con aria annoiata. Il momento era passato, non avrebbe saputo nient’altro di utile. Ora doveva cercare di andarsene il più in fretta possibile.
- Proprio così. Chi è il tuo ragazzo adesso? Fra le donne c’è chi scommette, puntano su tre nomi, ma nessuna di noi è certa. Allora, chi è il fortunato?
- Io non ho nessun ragazzo. Di quali nomi parli?
- Oh, andiamo! Aidan, quel bel ragazzone che ti ronza intorno da secoli. Shadow. E quel medico che ha parlato all’assemblea…Sonic.Alice aveva l’aria inorridita. – Shadow? Pensate che io stia….con Shadow?
- In  realtà io punto su Aidan, ma…sì. Andiamo, solo due donne sono vicine a Shadow. Tu e Tikal, e Tikal è fidanzata. E’ logico che la gente pensi certe cose.
- Non starei con Shadow neanche se girasse con un sacchetto di carta con stampata la foto di Benedict Cumberbatch sulla testa.
- Chi?
- Lascia perdere.
- Allora è Sonic. Fortunella! Se non amassi Aster ci farei più di un pensierino.
- Sonic è gay. Sono fuori dalla sua portata, e anche tu. – E adesso ronza intorno al nostro “governatore”, aggiunse mentalmente.
- Sì, ma una bella ragazza può fare miracoli, no? – Disse Amy strizzando l’occhio. – Ma se loro sono fuori dalla partita….allora Aidan ha in mano la palla.
- Neanche in un milione di anni. – Si diresse verso la porta. – Devo scappare, ho un impegno.
- Avevo ragione! E’ Aidan! Oh, Alice, che fortuna!
- No. Fortunatamente non stiamo insieme. Arrivederci.
Uscì dalla casa mentre Amy rideva e le gridava dietro:  - Tanto prima o poi lo ammetterai che ti piace! – Alice si allontanò più in fretta che poteva.
In definitiva, la visita era stata un buco nell’acqua. Aveva scoperto che razza di domande aveva fatto Wave, sì, ma a cosa potevano portare? Non poteva intuire i suoi piani da una manciata di parole, ed era un fatto preoccupante. E poi, perché diavolo aveva voluto sapere per quanto tempo Amy sarebbe rimasta alla scuola? No, non poteva ancora risolvere niente.
Inoltre,tutta questa insistenza da parte di Amy e delle sue amichette di accoppiarla con Aidan la irritavano nel profondo. Quindi, tutto il viaggio era stato tempo sprecato. Non poteva fare altro che aspettare l’occasione buona per scoprire qualcosa.
E, se possibile, non avvicinarsi più alla casa di Amy.
 
 
Shadow scese dalla moto praticamente prima che si fosse fermata. Era stanco. Anzi, più che stanco,era esausto. Era uscito di casa all’alba e non vi aveva più messo piede fino a quel momento, nonostante l’ora di cena fosse passata da un pezzo. Aster e i suoi colleghi avevano preso due ragazzotti pesantemente fatti di qualcosa (gli spacciatori erano morti, per trovare delle droghe bastava andarsele a cercare) che giocavano a nascondino nel parco in piena notte e non avevano idea di cosa farne. Uno di loro, un certo Jesse Pinkman che non conosceva assolutamente (cominciava a non ricordarsi più i nomi di tutti gli abitanti), era talmente andato che al momento dell’arresto era abbracciato appassionatamente ad un albero. Avevano concordato di tenerli nella piccola prigione cittadina finché non avessero trovato qualcuno abbastanza esperto di diritto penale da sapere per certo cosa fare, ma per prendere quella decisione ci era voluto un pezzo, soprattutto a causa dei due che continuavano a fare baccano e a non dire le proprie generalità, tanto che del secondo tizio ancora non sapevano il nome. Dopodiché, visto che i problemi non arrivano mai da soli, ne erano capitate di tutti i colori e Shadow non aveva potuto fermarsi un momento. Sperava soltanto di potersi riposare.
Capì subito che neanche quel suo desiderio sarebbe stato esaudito quando entrò in casa e Tikal apparve nell’ingresso con un’espressione preoccupata. Passati diversi giorni da quell’incidente a cui era seguita la fuga di Dodge tutto era ripreso nel solito tran tran, e l’echidna si occupava di nuovo del bambino per gran parte della giornata.
- Dodgeball non sta bene – annunciò la ragazza appena se lo trovò davanti.
- Cosa intendi dire?
- Stamattina aveva mal di gola e tossiva e oggi mentre tornavamo a casa gli girava la testa. E a cena non ha mangiato niente. Temo che abbia la febbre. L’ho portato a casa perché ho pensato che senza Wave in giro sarebbe stato molto più tranquillo.
- Hai fatto bene. Pensi che dovremmo portarlo all’ospedale?
- Non lo so,vedi, sembra una cosa da niente, ma dopo l’epidemia non riesco a esserne sicura. Ho pensato che se l’avessi portato all’ospedale….
Shadow capiva. Se davvero Dodge fosse stato colpito da una nuova ondata del morbo, portarlo all’ospedale sarebbe servito solo a contagiare tutti i presenti. D’altronde non poteva trattarsi di quello,no? Era impossibile, erano tutti immuni, giusto? Giusto?
Sentì una fitta di panico colpirlo, ma si costrinse a respingerla. – Dov’è?
Tikal gli indicò il salotto e gli fece strada. Il bambino era sdraiato sul divano, sotto una pesante coperta, e guardava una vecchia videocassetta con occhi stanchi e apatici. Shadow gli si accoccolò davanti. – Buongiorno, ragazzino.
- ‘Ao. – Disse l’altro senza cambiare espressione. Il riccio gli posò la mano sulla fronte e la ritrasse subito. Era bollente, e il piccolo aveva le guance arrossate.
- Che facciamo? – Chiese Tikal ansiosamente.
 Credo…. – Si interruppe, riflettendo. Era restio ad andare a cercare altre persone, per non contagiarle nel malaugurato caso che fosse epidemia (ma no,non poteva permettersi di pensare che fosse quello), ma senza un medico non sarebbero mai stati sicuri di nulla. E quale medico sarebbe venuto con lui se gli fosse piombato in casa in quel momento? Ne conosceva solo uno. – Vado a cercare un dottore. Resti con lui?
- Certo.
Shadow uscì in fretta e risalì in sella alla moto ancora calda. Intanto cercava di schiacciare in un angolo l’attacco di panico che insisteva per assalirlo, insieme a tutti i ricordi del caso. Non poteva pensarci in quel momento. Bisognava porsi delle priorità e Dodgeball era una priorità.
Attraversò la città a una velocità quasi omicida e frenò davanti alla casa di Sonic, lasciando probabilmente metà degli pneumatici sull’asfalto. Bussò alla porta con i nervi a fior di pelle e quando il riccio blu la aprì poco ci mancò che gli saltasse addosso. Si impose di calmarsi.
- Ho un bambino a casa ammalato. C’è una remota possibilità che si tratti dell’epidemia ma non posso esserne sicuro. Vieni con me o devo portarlo all’ospedale?- Aveva parlato talmente in fretta che quasi si stupì quando Sonic annuì, allungò una mano per prendere una giacca e lo seguì.
Si sedette dietro di lui sulla moto e lo circondò con le braccia per tenersi, e ci fu un momento, nel mezzo del viaggio di ritorno, in cui Shadow si rese conto di chi era la persona che portava con sé, e pensò fugacemente “Se metti le mani nei posti sbagliati ti falcio giù dalla moto, Dodgeball o non Dodgeball”. Per fortuna Sonic era un medico serio quando veniva chiamato. Non ci furono spostamenti di mano e riuscirono a raggiungere la casa entrambi.
Dodgeball alzò appena gli occhi quando entrarono. Shadow non lo aveva mai visto così abbacchiato ed era questo a preoccuparlo di più. Sonic gli si sedette vicino e gli sorrise. – Ciao, piccolo. Come stai?
- Ho sete.
- Magari Tikal può andarti a prendere un po’ d’acqua mentre ti visito. Okay?
Il bambino annuì. – Devo andare in ospedale?
- Mah, secondo me no. Però adesso lascia che ti dia un’occhiata, così ne siamo sicuri sicuri.
Dodgeball annuì di nuovo e il riccio blu cominciò a visitarlo. Shadow non li perse mai di vista e notò che apparentemente Sonic girava sempre con gli strumenti del mestiere in tasca, visto che uno stetoscopio parve apparire dal nulla. Il riccio sentì il petto del bambino, gli controllò la schiena e gli guardò in fondo alla gola.
- Gli avete misurato la febbre? – Domandò senza interrompersi. Shadow alzò lo sguardo su Tikal, che rispose in fretta: - Sì. Trentanove,l’ultima volta che gliel’ho presa.
Sonic annuì senza dire nulla, ma sembrava rilassato. Si rimise lo stetoscopio in tasca e sorrise di nuovo al bambino. – Tutto a posto. Niente ospedale per te stasera. Torna sotto le coperte. – Si alzò e andò verso i due adulti, che lo fissavano ansiosi.
- Non è epidemia – disse, facendoli esplodere in sospiri di sollievo.
- Sei sicuro? – chiese Shadow.
- Al novantanove virgola nove per cento. Vedete, all’inizio della malattia che si è diffusa quest’anno, i primi lividi spuntavano dietro la schiena, alla base del collo. E non ce n’è tracce. E la febbre,se veniva, non si alzava mai così tanto. Questo è un normalissimo attacco di influenza.
- Grazie al cielo. – Tikal si passò una mano sugli occhi.
- Fatelo bere molto, mi raccomando. Acqua, e tutti i succhi di frutta che trovate e che non siano ancora scaduti. La febbre scenderà da sola entro un paio di giorni.
- Sicuro. E se non ci pensa quest’uomo qui,me lo ricorderò io. – L’echidna si tirò su i capelli con la mano. – Beh, meglio che vada ora. Wave si starà chiedendo dove sono finita. – Si voltò verso Shadow. – Tienimi informata, okay? Guai a te se non lo fai.
- Sissignora. Grazie di essere rimasta.
- Figurati. – Tikal si avvicinò al divano per dare un bacio a Dodgeball, ne diede uno sulla guancia di Sonic a mò di ringraziamento e uscì. Il riccio blu sogghignò. – Baci così non ne ho più avuti da una donna. Almeno non negli ultimi anni.
- Tikal è una donna a parte.
- Hai ragione. Ehi, dovresti metterlo a letto, credo si sia addormentato.
Aveva ragione. Dodgeball, spossato, era crollato e dormiva profondamente. Con tutta probabilità aveva rischiato di addormentarsi già da prima e Tikal lo aveva tenuto sveglio giusto il tempo necessario per la visita. Shadow lo prese tra le braccia e alzò gli occhi seccati su Sonic. – Pesa sempre di più. Mi terresti aperta la porta?
Sonic obbedì e rimase sulla soglia ad osservarlo mentre infilava il bambino a letto e gli rimboccava le coperte. Quando Shadow alzò lo sguardo, vide che sorrideva e notò (non per la prima volta, ad essere del tutto sinceri) che aveva un bel sorriso, per essere un uomo. – Con un po’ di fortuna, dormirà tutta la notte e domattina starà già meglio – sussurrò il riccio blu. – Ma comunque non farlo uscire di casa finché non sarà guarito del tutto, okay?
- Certo. – Shadow uscì, seguito dall’altro, e accostò la porta, di modo che, se Dodge lo avesse chiamato, lui avrebbe potuto sentirlo. – Ascolta, posso offrirti qualcosa? Dopotutto ti ho trascinato fuori di casa a un’ora impossibile.
- Ti direi di non disturbarti, ma se hai una birra l’accetto volentieri.
- Vieni con me. – Dopo l’incidente con Dodgeball, aveva cercato di ripromettersi di essere cauto con l’alcol e di non procurarsi più grandi quantità di birra, ma alla fine il suo intimo di maschio americano medio aveva prevalso, e ora c’erano due confezioni da sei nel frigorifero. Però non ne aveva ancora toccata una.
Fino a quel momento.
 
Un’ora dopo stavano ancora parlando. Parlare con Sonic era piacevole, leggero, e con l’aiuto di una lattina di birra tutto diventava più naturale. Lattina che poi si era trasformata in due lattine, poi in tre, e dopo ancora…non ne era sicuro. Sapeva solo che la prima confezione da sei era già andata e probabilmente avevano intaccato anche la seconda. Ma Shadow non si sentiva ubriaco, almeno non ubriaco come si era sentito l’ultima volta. Lì si era trattato di una vera e propria perdita di conoscenza, invece adesso si sentiva solo piacevolmente brillo.
Continuarono a parlare a lungo, ridendo e chiacchierando più silenziosamente che potevano (dopotutto c’era un ragazzino che dormiva a poche stanze da lì), finché Sonic non si alzò dal tavolo della cucina. – Devo andare – disse – domani mi aspettano all’ospedale e devo essere il più sobrio possibile.
- Giusto. – Shadow lo accompagnò alla porta, grato della ventata d’aria fredda che arrivò quando la aprì. Anche lui era tutt’altro che sobrio, ma con la scusa di doversi occupare di Dodge avrebbe potuto restare a casa. – Grazie di essere venuto, anche se ti sono piombato in casa all’improvviso.
- Figurati. Sono un medico, è il mio lavoro.
- Sono stato un idiota a spaventarmi così.
- Nah. E’ normale. La paura va bene, finché non diventa panico.
Shadow tacque. Meglio non rivelargli quanto vicino  fosse arrivato al panico. – Non ti trattengo, tu devi riposare e io anche.
- Giusto. Prima il dovere, no?
- Purtroppo.
- Ti saluto, Shadow.
- Arrivederci, Sonic.
- Siamo troppo ubriachi per mettere fine ai convenevoli, vero?
- Già. – I due risero di gusto, poi Sonic si fermò, con un sorrisetto malizioso.
- Forse conosco il modo per risolvere il problema.
- Uh?
Il riccio blu prese la testa dell’altro fra le mani e lo baciò.
Shadow era così scioccato da non riuscire a reagire immediatamente. Le labbra di Sonic si muovevano contro le sue senza fermarsi, e non poteva fare a meno di sentire il loro sapore, così dolce, così…
Una finestra delle case vicine sbatté e tutto finì. Sonic si staccò bruscamente, ancora sorridendo.
- Erano secoli che volevo farlo – mormorò, poi si voltò e corse via.
Il riccio nero rimase appoggiato allo stipite, in testa un turbine irrefrenabile di pensieri, guardando nel vuoto, finché non sentì la voce di Dodgeball che lo chiamava per avere altra acqua. Gli portò il bicchiere meccanicamente e quando il bambino gli si fu riaddormentato addosso non lo scostò, ma rimase seduto nel buio, ancora in stato di shock.
- Cazzo – sussurrò, così piano da non potersi quasi sentire. – Cazzo, cazzo,  cazzo.
Era probabilmente la descrizione migliore per quello che era appena successo.
Ohimè. Che disastro questo capitolo. Sapete che ogni volta mi riprometto di non aspettare più un mese a pubblicare e poi succede di tutto? Ecco.
Stavolta non è colpa mia. Il mio computer ha fatto ciao ciao e non potevo scrivere. Poi son partita per due tornei e quando sono tornata, puff! Misteriosamente funzionava di nuovo. Quindi, in pratica, se il computer avesse collaborato avrei aggiornato in frettissima, perché ho impiegato tipo tre giorni a scrivere questo capitolo.
Fra parentesi, la storia dei due tizi drogati è parzialmente vera. In uno dei tornei io e una mia amica abbiamo visto due ragazzi, palesemente fatti di qualcosa, che giravano per il parco. Sembravano giocare a nascondino, ma uno sembrava anche star facendo robe strane con un albero. Non abbiamo voluto approfondire.
In ogni caso, spero apprezziate il capitolo e il tocco di omosessualità finale *sparge arcobaleni*. Alla prossima!
^Ro

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Capitolo 15
*** Boom ***


Shadow dormì molto poco, quella notte.
Quando Dodge si svegliò, lui aveva già gli occhi aperti da un pezzo. Sostanzialmente era ancora in stato di shock,ma si ricordò di controllare come stesse il bambino, seppure meccanicamente. Il piccolo sembrava in una forma migliore,anche se aveva ancora la fronte calda e le guance arrossate, così Shadow acconsentì a lasciarlo tornare in salotto e guardare qualche cartone animato. Si sedette accanto a lui, un po’ per controllarlo, ma soprattutto perché era un’attività che richiedeva poca concentrazione. Poteva fingere di star guardando lo schermo e intanto lasciar vagare la mente.
E ce n’era, di posti dove vagare. Partendo da Sonic e andando avanti.
Era in un guaio. In un fottutissimo, gigantesco guaio.
Si era ripetuto per giorni, per settimane, di non infilarsi in questioni come una relazione. Non era il momento, non era assolutamente il momento. Erano in una scena post apocalittica, per quel che ne sapevano sarebbero morti al prossimo giro di epidemia, lui era un deficiente che rovinava qualunque persona a cui si avvicinasse e doveva tenere in mano le redini della città. Doveva restare coi piedi per terra.
Ma quel bacio, cazzo. Quel bacio e la persona che glielo aveva dato. Altro che piedi per terra, era caduto ed era finito lungo disteso. E tutto perché aveva bevuto. Di nuovo. Non c’entrava che anche Sonic fosse praticamente ubriaco, era lui che combinava sempre disastri dopo aver bevuto.
Gli era piaciuto,certo. Come avrebbe potuto non piacergli? Era stato così morbido, e lento, e dolce...E ovviamente l’averlo gradito gli creava problemi, perciò CERTO che lo aveva gradito.
Quindi si trovava in un gran bel casino. Sapeva che avrebbe dovuto lasciarsi andare, lasciare che le emozioni facessero il loro corso, ma non poteva, non ci riusciva. Aveva alzato così tante barriere da quando l’epidemia aveva preso piede che non gli era possibile scavalcarle tutte. Era spaccato in due.
Seduto sul divano, in un contesto completamente estraneo a quello dei suoi pensieri, gli occhi vacui fissi su un vecchio cartone animato, si chiese  se sarebbe riuscito a uscirne fuori.
 
 
Per uno di quei casi che sembra accadano solo nei libri e mai nella vita reale, due decisioni importanti vennero prese nello stesso giorno.
Successe alcuni giorni dopo quella disastrosa notte che Shadow sperava con tutto il cuore di dimenticare. E una delle risoluzioni venne presa proprio da lui, e proprio su quell’argomento.
Sapeva di essere in una situazione molto precaria. Doveva agire con immensa cautela, o avrebbe perso la testa. Letteralmente. Sapeva di essere un individuo pericoloso, se non manteneva il controllo,e c’era Sonic di mezzo. Bisognava essere molto,molto cauti.
Così chiese al riccio blu di raggiungerlo a casa sua, per parlare. La sua testa lo spingeva a credere che sarebbe riuscito a costringerlo a porre fine a...a qualunque cosa quel bacio avesse voluto iniziare. Ma il suo cuore era di un’altra opinione. Gli aveva chiesto di venire quando sapeva che Dodge sarebbe stato a scuola, cioè quando avrebbero avuto tutto il tempo per parlare e forse per fare....altro. Perché Shadow non era capace di mentire a sé stesso fino in fondo, sapeva che se Sonic avesse tentato di replicare ciò che aveva fatto quella sera, lui ne sarebbe stato felice. E poi ce l’avrebbe avuta a morte con sé stesso.
La mattina dell’incontro si alzò dal letto cercando di convincersi fermamente di dover fare ciò che aveva intenzione di fare. Ma prima ancora che fosse passata mezz’ora, la sua convinzione iniziò a vacillare.
Fu per colpa di Dodgeball. Durante la notte (passata in bianco, ovviamente) lo aveva sentito agitarsi, ma il bambino non aveva gridato o pianto, perciò non era andato a svegliarlo. E quella mattina, Dodge gli si presentò davanti dicendo di non voler andare a scuola.
- Cosa? E perché mai? – Gli chiese Shadow sorpreso. Lui abbassò la testa, mordendosi le labbra.
- Io...non lo so.
- Beh, allora questo è quello che io chiamo un capriccio. – Il riccio nero era terrorizzato. Più tardi si sarebbe dato dell’idiota, del coglione, del cieco per non aver colto certi segnali, ma in quel momento aveva solo paura che Dodge restasse a casa. Se il ragazzino fosse rimasto lì, lui non sarebbe riuscito a parlare a Sonic,e chissà cosa sarebbe potuto accadere prima che avesse raccolto il coraggio per farlo di nuovo. – Sai che non mi piacciono i capricci, Dodge. Se non c’è un motivo valido perché tu resti a casa, tu vai a scuola. Okay?
- Shadow....- Sembrava che il piccolo volesse aggiungere qualcosa, ma si arrese. – Va bene. Posso mettere la sciarpa che mi ha dato Alice?
- Sicuro? Guarda che è scomoda.
- Ma mi piace tanto. Per favore!
- Se proprio vuoi....va bene.
- Grazie. – Dodge tornò in camera sua ad avvolgersi nella sciarpa (con meno baldanza degli altri giorni, ma Shadow se ne accorse appena) e poco dopo Tikal bussò alla porta per accompagnarlo a scuola.Il bambino esitò solo un istante prima di prenderla per mano e lasciarsi portare via, ma lanciò a Shadow uno sguardo così carico di ansia che per poco il riccio non cambiò idea e lo lasciò restare a casa. Per poco. Poi la porta si chiuse alle loro spalle e il pensiero passò. Poche ore dopo avrebbe già rimpianto questa incostanza.
 
La seconda decisione, di natura totalmente diversa, venne presa da Alice.
La ragazza non era riuscita a trovare niente, niente, che potesse effettivamente accusare Wave di qualcosa. Agli occhi di tutti la rondine era pulita come il culetto di un neonato. Ma Alice sapeva come stavano veramente le cose. E anche i bambini lo sapevano.
Se n’era accertata per caso. Casi di quel genere sembravano essere diventati all’ordine del giorno, come se fossero tutti pedine che dovevano muoversi nel modo giusto al momento giusto. Aveva avuto la “fortuna” di fare una sorpresa a Dodge e di essere andata a prenderlo alla scuola provvisoria nello stesso giorno in cui Wave aveva deciso di fare altrettanto con Tikal.
Aveva visto Dodge nascondersi istintivamente dietro di lei quando aveva notato la donna. E aveva visto le espressioni con cui gli altri bambini la guardavano, il pelo ritto e le piume arruffate, a seconda dei casi. Non era il modo in cui dei ragazzini avrebbero dovuto guardare qualcuno di praticamente sconosciuto.
Così aveva preso la decisione. Doveva smascherare Wave, una volta per tutte, altrimenti quella storia sarebbe andata avanti per chissà quanto. E le erano venuti in mente solo due sistemi: puntarle una pistola alla tempia e minacciarla....oppure entrarle in casa.
Non le piaceva nessuna delle due opzioni. La pistola era un mezzo troppo drastico, e l’entrarle in casa...voleva dire tradire la fiducia di Tikal, frugare anche in mezzo alla sua roba. Ma c’erano cause di forza maggiore in ballo e alla fine Alice decise che entrare in una casa passando dalla finestra sarebbe stato molto più semplice che non procurarsi un arma e rapire Wave e tutto ciò che ne sarebbe conseguito. Non avrebbe voluto farlo da sola, ma l'unico che l'avrebbe seguita senza creare grossi problemi era anche l'unico che lei credeva fosse complice di Wave. Perciò doveva pensarci da sé.
 E scelse di farlo nello stesso giorno in cui Shadow aveva chiesto a Sonic di venirlo a trovare. Anzi, lui e Alice non si incontrarono per un soffio. Il riccio blu girò l’angolo mentre la ragazza saltava dal davanzale e atterrava sul pavimento della casa.
Alice si guardò intorno nella penombra. Aveva tenuto d’occhio la casa per ore e aveva visto uscire Wave, presumibilmente per andare alla centrale, molto presto. Poi era stata la volta di Tikal,per mano a Dodgeball. A quel punto si era affrettata a entrare. Ogni minuto era prezioso.
Ora doveva solo...guardare dappertutto. In fretta, ma con metodo. E sperare di trovare qualcosa.
 
- Mi avevi chiesto di venire? – Chiese Sonic entrando in cucina con Shadow.
- Già. – In realtà non gliel’aveva proprio chiesto. Gli aveva passato un biglietto durante una visita all’ospedale. Come se fossero stati due ragazzini alle medie. Terribilmente stupido.
- Per quale motivo, se posso saperlo?
- Credo che tu lo sappia già. Non sei stupido, Sonic.
- No, certo. Mi pregio di essere molto intelligente. Ma mi sfugge il problema. Non hai un’aria molto felice. Devo credere che le mie abilità di seduttore siano così terribili?
- Non è così semplice.
- Allora spiegati. Perché se il problema non è che non ti sono piaciuto, non riesco a vederne altri. Hai forse una ragazza nascosta dall’altra parte dello stato?
- No. – Dannazione,ma perché continuava a complicargli le cose? – Ma non è il momento...adatto per certe cose.
- Perché? Perché questa non è una situazione normale?
- Pressappoco.
- Un buon motivo per lasciarsi andare. Si sono distrutte tutte le convenzioni,persino se tu volessi cambiare donna...o uomo ogni giorno, nessuno avrebbe niente da ridire. – Sorrise. – Nemmeno io, se per questo. A volte in una notte sola succedono più cose che in un mese.
- E’ una questione più complicata. Credimi, non sono la persona adatta per avere una relazione, soprattutto ora.
- E se a me non me ne fregasse nulla? Non mi sembri un pluriomicida, un pedofilo o qualcosa del genere,quindi, fintanto che ti piacessi, per me non ci sarebbero problemi.
- Non mi conosci abbastanza.
- Ripeto, a me non me ne frega niente. Per la situazione in cui siamo non ho paura di nessuna relazione,nemmeno della più caotica. Anche se si trattasse di fare solo quattro salti in branda per una notte, mi starebbe bene, se fosse quello che vuoi tu. Tu che cosa vuoi?
- Non è importante quello che voglio io.
- Dio mio, un altro di quelli che sono convinti della propria inutilità.
- Non è una questione di utile e inutile, cazzo. Ma non sono la persona giusta. Fattene una ragione e non ficcarti nei guai.
- Sono un uomo adulto, potrò decidere io se voglio ficcarmi nei guai o no? E non dirmi di no, altrimenti prenderò quella padella e te la darò sui denti. – Alzò gli occhi al cielo, poi fermò su di lui uno sguardo rassegnato. – Ascolta, lascia perdere tutte quelle sciocchezze. La questione è molto più semplice . Quel bacio dell’altra sera per me è stato fantastico, e se ce ne fossero altri sarei il riccio più felice della terra. Ma voglio sapere se a te è piaciuto altrettanto, se io ti piaccio altrettanto. Se la risposta sarà no, uscirò bello tranquillo da quella porta e amici come prima. Ma devi essere sincero con te stesso, e con me. Per favore.
Shadow si massaggiò una tempia,evitando il suo sguardo. L’aveva messo in trappola. Sapeva che avrebbe dovuto negare, ma il no gli restava bloccato in gola, come un pezzo di carne stracotta.
- Ti si legge tutto in faccia, stronzo. Tuttavia, nel caso fossi ancora indeciso...
Fu troppo veloce. In un attimo era davanti a lui, gli prendeva la testa tra le mani e lo baciava di nuovo.
Shadow cercò di ribellarsi, di spingerlo via, ma le sue proteste erano deboli e poco convinte. Si arrese dopo troppo poco. Dandosi dell’idiota, ma lo fece. Prese Sonic per le spalle e lo strinse a sé.
Stavolta tutto era più lento, appassionante, un turbine di labbra e lingue e oddio, sembrava un adolescente alle prime esperienze, ma non poteva farci nulla. Si lasciò andare all’indietro e urtò il tavolo, ma quasi non se ne accorse.
Era un momento di stupidità e se lo sarebbe goduto fino in fondo.
 
Una dozzina di metri e un paio di mura più in là, Alice sollevava una trave smossa sotto quello che presumeva essere il letto di Tikal e Wave.
- Bingo. – Sussurrò. Nello spazio fra l’asse e il pavimento c’erano otto o nove quaderni di scuola. Dovevano essere importanti se qualcuno si era preso la briga di nasconderli. Certo, poteva trattarsi del precedente abitante della casa, ma era poco probabile.
Infilò la mano e prese il primo della pila. Lo sfogliò rapidamente e trovò la prova che cercava, una firma in spessi tratti di penna, al fondo di una pagina, Wave Lorraine the Swallow.
- Sei nella merda più di una mosca, bellezza – mormorò, cercando di concentrarsi sulle singole frasi. Poi spalancò gli occhi.
Non c’era un solo nome in tutto il quaderno, eccetto le firme di Wave. Ma ogni persona di cui parlava era riconoscibile dal modo in cui veniva descritto. L’uomo al comando. Il bambino ficcanaso (qui Alice per poco non stritolò il quaderno tra le mani) . La rossa. E infiniti riferimenti a Tikal come la donna che stava usando, la sciocca, l’incapace. E la stava usando...per cosa? Anche qui solo riferimenti vaghi.
Ma c’era un dettaglio inquietante. Uno solo. Ma bastava. Una persona frequentemente tirata in ballo, sempre in tono elogiativo, in pratica inneggiato,  ma con nomi differenti. E questi nomi erano fottutamente spaventosi.
Il re. Il nuovo venuto. Il veggente. Lo sposo, ripetuto più e più volte. E tutti potevano riferirsi solo a un essere.
- Cazzo. – Alice guardò il pavimento con occhi vacui, in un’inconscia replica di quello che Shadow aveva fatto poche sere prima . – Cazzo, cazzo, infiniti cazzi.
Iniziò a raccogliere i quaderni in fretta.
 
 
Nel cortile della scuola, una ventina di bambini iniziò a correre via in tutte le direzioni.
 
 
Nella centrale elettrica, un tasso impegnato in una serie di collegamenti alzò la testa e si girò verso il collega che gli lavorava vicino. – Cos’è questo sibilo?
 
 
Poi ogni rumore venne inglobato da un’esplosione.
 
 
Sonic e Shadow si separarono di botto.
- Cosa cazzo è stato? – Urlò Sonic, ma non fece in tempo a finire che un altro boato squarciò l’aria.
Uscirono di corsa dalla casa. Molti altri facevano lo stesso, e nessuno notò la figura dai capelli rossi che balzava fuori da una finestra. Ma tutti videro lo stesso terrificante spettacolo.
Due colonne di fumo si innalzavano da due punti molto distanti fra loro. Una era fuori città, e non poteva essere altro che la centrale elettrica. Ma l’altra...
Shadow provò un tuffò al cuore.
La scuola. I bambini.
Dodgeball.
Senza pensare, imitato da Sonic e da decine di altre persone intorno a loro, Shadow si mise a correre.
 
 
Per un fuggevole momento ognuno pensò che fosse l’inferno.
La popolazione si era divisa. Molti erano andati alla centrale elettrica, ma la maggior parte era lì,davanti alla scuola in fiamme. Gettavano acqua,usavano estintori presi dalle case, senza nessuna organizzazione, confusi e sparsi. Shadow sapeva che avrebbe dovuto riorganizzarli, dare loro degli ordini, ma non poteva. C’era una cosa da fare prima. La stessa cosa che stavano pensando tutti i genitori. Ognuno cercava il proprio bambino.
Sapevano TUTTI che sarebbe stato impossibile sopravvivere per i piccoli. Tuttavia, la loro piccola, microscopica speranza pareva aver fatto il miracolo. I bambini c’erano.
Erano una piccola fila, lontana dal luogo dove in teoria avrebbero dovuto morire, ed erano uno spettacolo agghiacciante. Stavano lì, in piedi o seduti a terra, e tutti fissavano il fuoco con la stessa espressione di solenne consapevolezza, come se sapessero tutto. Cosa era capitato, perché, per colpa di chi. Erano terribili da guardare con in volto quell’espressione troppo adulta.
Shadow percorse velocemente la fila con lo sguardo e sì, Dodgeball c’era, seduto accanto a una figura ben più alta che però era accasciata a terra. Ma non era....Non poteva essere....
Si mise a correre verso di loro, ma Sonic fu più veloce. Raggiunse il corpo di Tikal e le posò due dita sulla gola. Poi alzò gli occhi su Shadow. – Non è morta. Solo svenuta. Resto io con loro, vai a fare il tuo lavoro.
Il riccio nero esitò appena, poi tornò di corsa verso quelli che stavano cercando di spegnere il fuoco.
Le domande, i “perché” e i “com’è possibile” avrebbero dovuto aspettare.
 
 
L’attesa fu più lunga di quanto chiunque avrebbe voluto.
Quando finalmente Shadow riuscì ad avere cinque minuti di tregua in ospedale, era ormai sera e lui era esausto. Dato che metà della centrale era saltata in aria, avevano perso l’elettricità, e i corridoi e le stanze erano illuminate da torce e lampade Coleman recuperate in tutta fretta.
L’edificio era pieno come non era mai stato. I bambini e le donne che erano con loro non sembravano essere feriti in modo grave, ma erano stati portati lo stesso in ospedale per essere controllati. Quanto agli operai della centrale...questa era un’altra faccenda. Nessuno era ancora riuscito a contare i morti e tantomeno i feriti che ora si trovavano lì, alcuni talmente gravi da urlare dal dolore prima che venisse data loro della morfina.
Aveva visto Sonic di sfuggita mentre correva da un paziente all’altro. Sapeva che anche lui non si era fermato un attimo. Era stato il primo a contattare l’ospedale con il walkie-talkie di cui intelligentemente tutti i medici si erano dotati. Dopodiché nessuno lo aveva più visto fermo.
Era quasi ridicolo pensare che quella mattina stessero parlando di una relazione come se fosse un problema. Già. Peccato che a Shadow non venisse per niente da ridere.
Dopo aver vagato a lungo, alla fine trovò la stanza che cercava. Entrambi i letti erano occupati. In uno Dodge dormiva profondamente, nell’altro Tikal sedeva appoggiata ai cuscini. Accanto a lei stava Alice, seduta su una sedia. La ragazza dai capelli rossi era stata parte integrante delle operazioni di spegnimento, visto che una volta arrivata sul luogo dell’incendio tutti gli uomini che aveva guidato nel  gruppo di seppellitori si erano messi automaticamente ai suoi ordini. Ma ora i fuochi erano stati spenti.
Lei si alzò quando lo vide entrare e gli si avvicinò per parlargli all’orecchio. – Le hanno dato dei calmanti,era sotto shock, ma ti vuole parlare. Però vacci piano o ti spacco i denti.
- Tranquilla – rispose lui nello stesso tono. – Dodge?
- Dorme da ore. Credo sia lo shock anche per lui. Ma fra poco penso si sveglierà e allora avrò bisogno di qualcuno che lo prenda. Non posso badare a entrambi.
- Io non posso fermarmi. Sono passato solo per controllarle che steste bene.
- Infatti ho detto “qualcuno”, non “tu”,fesso. Ora vai a parlarle finché è ancora calma.
Shadow annuì e si avvicinò all’echidna. Lei appariva sconvolta, gli occhi fissi e persi sul muro davanti a sé. Le prese la mano con delicatezza. – Ciao, Tikal. Alice ha detto che volevi parlarmi.
Tikal annuì lentamente. – Hai visto qualcosa?
- Ho....sentito. – Si coprì il volto con le mani. – Dio mio, sono stata una stupida.
- Calma. Respira. Cos’hai sentito?
- Eravamo nel cortile. I bambini erano ingestibili, non volevano saperne di stare dentro, così li abbiamo portati fuori. Ma non stavano tranquilli neanche lì, erano tutti tesi e...neanche io mi sentivo bene. Poi ho sentito la voce. – Ora tremava visibilmente. Shadow pensò che avrebbe dovuto chiudere lì la conversazione, ma poi lei riprese a parlare.
- Ho sentito qualcuno parlare all’interno. Pensavo che qualcuno dei piccoli fosse rimasto dentro e ho mandato Vanilla a controllare. Lì non ho capito di chi fosse la voce,non ho fatto in tempo, perché i bambini si sono messi a correre da tutte le parti. Non nel cortile, se ne stavano proprio andando. Mi sono messa ad inseguirli, e ho visto Amy che cercava di fare lo stesso, ma lei aveva la pancia, era più lenta. Poi tutto è esploso. – Scoppiò a piangere. – Oddio, Amy sta bene? Ce l’ha fatta ad arrivare lontano come noi? Noi eravamo troppo lontani,non siamo stati feriti, ma lei? E Vanilla? Vanilla era dentro, era proprio dentro, oddio, no...
- Adesso basta. – Alice li interruppe e si accovacciò accanto all’echidna. – Tikal, calma. E’ finita. Tu stai bene e i bambini stanno bene. Guarda, Dodge è qui accanto. Dorme, e non è ferito, e sta bene. Non vuoi che si svegli,giusto?
Era il tasto giusto da toccare. I singhiozzi di Tikal si fecero più soffocati. Poi disse, quasi in un sussurro: - Era Wave.
Alice e Shadow spalancarono gli occhi. Si lanciarono un rapido sguardo, poi la ragazza si rivolse a Tikal. – Era Wave...dove?
- La voce. Quella nella scuola. Non l’ho riconosciuta subito, ma dopo ci ho pensato e....era lei. Che cosa è successo? Che cosa sta succedendo?
Nessuno dei due rispose. Alice le posò una mano sulla testa, poi si allontanò di qualche passo con Shadow. – Ero sicura che c’entrasse Wave – bisbigliò con astio.
- Come facevi ad esserne sicura?
- I bambini, cazzo. I bambini ci hanno mandato talmente tanti segnali che abbiamo dovuto essere proprio stupidi per non coglierli. Anzi, voi siete stati stupidi. Io mi sono mossa, ma troppo tardi. E guarda che casino è successo.
- Ma questo vuol dire...che cosa? Che Wave si è fatta saltare in aria con la scuola? Come un kamikaze?
- Se lei era lì dentro,allora come ha fatto l’altra bomba ad esplodere? O aveva un complice, oppure tutto è molto più complicato di quanto sembri.
- Non lo so. Non capisco più nulla. – Shadow sospirò seccamente. – Questo è l’inferno.
- No, l’inferno è pieno di demoni attraenti. Questo è solo...un delirio.
- Ah, siete qui. – La voce intrusa li fece trasalire. Si voltarono verso la porta e si trovarono di fronte ad Aidan Turner in persona. Il lupo aveva un’espressione sollevata. – Vi ho cercati ovunque,avevo paura che foste...
Accadde troppo in fretta, e troppo inaspettatamente. Prima che lui o Shadow potessero muovere un muscolo, Alice si era già precipitata su Aidan e gli aveva sferrato un notevole calcio in mezzo alle gambe. Il giovane si portò le mani all’inguine e cercò invano di gridare di dolore, ma intanto l’altra continuava a colpirlo.
- Alice, ferma! – Shadow cercò di mettersi in mezzo. – Che diavolo stai facendo?
- Tu, bastardo. Tu,schifoso pezzo di merda. C’entri anche tu, vero? Li hai fatti saltare in aria. Io ti distruggo. Ti spello. Bastardo. – Ogni parola era scandita da un pugno o da un calcio. Alice sembrava una furia.
Ora non era più solo Shadow a guardarla impotente. Nel corridoio erano fermi almeno tre o quattro pazienti e medici,attoniti. Dietro a Shadow, anche Tikal seguiva la scena a occhi sbarrati. E dal letto a fianco...
- Alice, cosa fai? Basta! Lui è bravo! – Non notato, Dodgeball si era svegliato a causa del rumore e aveva attraversato di corsa la stanza per attaccarsi alla maglia della sua “sorella maggiore”. – Basta!
- Dodge, vieni via di lì! – Esclamò Shadow, ma il bambino lo ignorò. E comunque non ce n’era bisogno. Alice si era fermata, ansante, lasciando Aidan praticamente a terra.
- E’ stato anche lui, Dodge. Era anche lui una spia dell’uomo bianco.
- Non è vero, lui non ha fatto niente! E’ bravo, ha fatto tutto...Wave...- La guardò con occhi imploranti. – Per favore, mi ascolti solo tu, è questo che l’uomo bianco vuole, che ci picchiamo fra di noi...Per favore....
Alice lo guardò per un momento, poi si girò verso Aidan, che si stava rialzando faticosamente. – Perché cazzo mi seguivi sempre se non eri una spia?
- Perché...sono un pessimo corteggiatore? – Ansimò lui.
- Sei una testa di minchia. – La ragazza si abbassò fino a poter guardare Dodge negli occhi. – Sei sicuro che lui sia a posto? Molto sicuro?
Il piccolo annuì. Ci fu un momento in cui nessuno si mosse, finché Alice non si voltò di nuovo verso Aidan. –Mi fido di lui.
Tutti si rilassarono. La ragazza incrociò le braccia sempre con gli occhi fissi sul lupo. – Se sei ancora abbastanza intero, porta a casa il bambino. Io devo restare con Tikal.
- Certo – assentì Aidan, visibilmente sollevato. D’impeto, allungò una mano a sfiorarle la spalla. – Nonostante tutto, sono contento che voi stiate bene.
Lei strinse le labbra e tornò sui suoi passi, ritornando al fianco di Tikal,mentre l’altro cercava di rassettarsi i vestiti. Shadow gli si avvicinò. – Che fate lì impalati? Via di qui, non c’è niente da vedere – esclamò rivolto ai vari curiosi. Quelli trasalirono e se ne andarono in fretta. Il riccio tirò un sospiro di sollievo. – Tutto a posto?
- Ho visto di peggio, però cavoli, se picchia forte. Canterò con voce da soprano per giorni  dopo il calcio che mi ha dato.
- Bene. – Shadow fu colto di sorpresa quando qualcosa gli si avviluppò intorno alle gambe, poi capì. Prese Dodge in braccio e lasciò che gli si stringesse contro. Qualunque cosa fosse successo in quegli ultimi momenti, era pur sempre un bambino e quella era stata una giornata disastrosa. – Ehi, giovane. Tutto okay. Sei al sicuro.
- Voglio andare a casa – bisbigliò lui in una voce che era praticamente un pigolio, e Shadow non poté fare a meno di sentire la voce nella sua testa, la solita, irritante voce, che gli parlava. “Se stamattina lo avessi ascoltato, ora sarebbe a casa nel suo letto. E anche Tikal. Non sarebbe successo nulla di tutto questo se tu e gli altri adulti foste stati un po’ meno sordi e ciechi a quello che vi dicevano. Idiota.”
La scacciò. Non era quello il momento di lasciarsi prendere dai sensi di colpa. C’erano troppe cose non chiare, e la giornata era ancora lontana dall’essere finita. – Ascoltami. Adesso io non posso venire, ma Aidan ti porterà a casa nostra, e resterà con te. Puoi stare tranquillo.
Lo sentì annuire contro la sua spalla. – Tu vieni a casa presto?
- Più presto che posso. Promesso. – Dodgeball annuì di nuovo e Shadow lo passò con cautela ad Aidan. – Sai dove abito. E’ aperto, fai come se fossi a casa tua, e se capita qualcosa vienimi a chiamare subito. Probabilmente sarò qui.
- Sissignore. – Il ragazzo si assestò il bambino sul fianco. – L’hanno spento? L’incendio, voglio dire. Quello alla scuola. Io ero andato alla centrale.
- Sì. Lì non ci sono state molte vittime. E’ stato...più semplice. – Inarcò le sopracciglia e accennò a Dodge che, con aria assente, giocava con i riccioli di Aidan. Il messaggio era chiaro. Non ci deve sentire.
Per fortuna Aidan lo colse e annuì. – Beh, noi andiamo. Passa il tram numero Aidan, tutti ai posti di partenza.
Shadow rimase a guardarli allontanarsi, poi si stirò le spalle. Doveva ripartire. Quella era stata una parentesi di umanità, seppure di umanità caotica, ma la giornata era lungi dall’essere finita.
E avrebbe avuto bisogno di grandi dosi di umanità quando finalmente lo fosse stata.
 
Okay, ragazzi, okay. Questo capitolo è un caso a parte rispetto a tutti gli altri. L'ho scritto di volata e prima di mettermi al lavoro non sapevo neanche bene cosa ci avrei scritto. Poi ho parlato con una mia amica che mi ha detto che era il momento giusto per inserire un BOOM nella storia, senza sapere che il BOOM ce l'avevo già pronto. E neanche metaforico.
Quindi.....beh, BOOM.
Vi ho lasciato con un sacco di domande senza risposta,vero? La risposta arriverà quando avrò di nuovo un computer decente a disposizione.

Che fine ha fatto Wave? Chi sarà sopravvissuto dopo le due esplosioni? Cosa succederà adesso ai nostri eroi? Scopritelo nella prossima puntata di VOYAGER!



.....no  okay stavo cercando di sdrammatizzare il capitolo. SORRY.
^Ro
 

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Capitolo 16
*** When calm people lose their mind ***


L’ospedale sembrava essere stato diviso inconsciamente in due parti. In una, dove i pochi pazienti già presenti prima dell’esplosione erano stati condensati, erano stati ricoverati i bambini. Nell’altra, infinitamente più rumorosa e caotica,avevano trovato posto i sopravvissuti della centrale.
Fu lì che Shadow si diresse dopo aver lasciato la stanza di Tikal e Dodge, per un paio di motivi. Il primo era, per così dire, professionale: doveva cercare qualche sopravvissuto che potesse dargli almeno un indizio su cosa fosse accaduto.
L’altro motivo, più personale, era capire chi fosse sopravvissuto. Soter, tanto per dirne uno.
A pensarci bene, se fosse riuscito a unire i due intenti e a ottenere risposte da Soter dopo averlo trovato vivo,sarebbe stato meglio. Il riccio bianco era un soldato. Se avesse visto qualcosa, avrebbe potuto trarne più conclusioni che non un semplice cittadino.
Fu fortunato (e non per la prima volta quel giorno, a dirla tutta. Meglio non pensare a cosa sarebbe successo una volta finita la riserva di fortuna). Soter era vivo e apparentemente abbastanza integro, visto che era in piedi invece che in un letto d’ospedale e l’unico segno di una possibile ferita era una fasciatura sul braccio sinistro.
- Dunque sei ancora tutto d’un pezzo. Credevo che ti avrei trovato più a pezzettini di un puzzle – gli disse Shadow quando lo trovò in uno dei corridoi.
- Ci vuole ben di più che un fuocherello come quello per distruggermi. – Rispose l’altro. Sogghignarono entrambi, ma i sorrisi si spensero in meno di un secondo. Era tutto un gesto meccanico, nessuno dei due aveva voglia di scherzare.
- Come stanno andando le cose?
- Male. O forse bene, giudicando lo stato delle cose. Ho perso una buona metà della mia squadra e altri ancora moriranno presto, a giudicare dalle ferite. Ma dobbiamo ringraziare il fatto che la centrale fosse così vasta. Tutti i superstiti, me compreso, erano in zone abbastanza lontane da dove la bomba è esplosa. Quel bastardo non è stato abbastanza furbo da metterla al centro dell’edificio.
- Ci sono possibilità che sia stata una bastarda.
- Cos....sai già qualcosa?
- Quasi nulla. Tu hai visto qualcosa che potrebbe essere importante?
- Niente. Stavo parlando con un tecnico e poi si è scatenato l’inferno.
- Devo parlare con qualcuno dei tuoi uomini, se sono abbastanza in forma. Potrebbero aver visto...o sentito...qualche cosa,anche piccola.
- Non so con chi potresti parlare. – Soter indicò la porta più vicina. –Quella è la stanza di Tails. Sono appena uscito da lì, e lui di sicuro non è nello stato adatto.
- Come sta?
- Non era troppo vicino alla bomba, ma non è riuscito a scampare all’incendio. Ha un lato del corpo completamente ustionato. Se sopravvive,resterà sfigurato tutta la vita.
- Cazzo. – Era quasi impossibile da credere. Il ragazzo d’oro di Metal city, il bambino che lavorava in mezzo agli adulti, che tutti ricordavano dopo l’assemblea...distrutto. Se davvero era tutto colpa di Wave e se fosse riuscito a metterle le mani addosso, sarebbe stato un altro ottimo motivo per spaccarle la faccia.
- Già. – I pensieri di Soter sembrava stessero andando nella stessa direzione. – Dobbiamo scoprire chi è stato. Sono pronto ad andarlo a cercare di persona,se serve. E anche a buttarlo giù dall’edificio più vicino.
- Non sei solo.
- Qualche idea su quel che possiamo fare?
- Neanche una.
- Allora vieni con me. Andiamo a cercare Dorrance. E’ uno degli aiutanti. Era quasi sano,da quel che ho visto , e potrebbe aver notato qualcosa. Poi io andrò a cercare un letto e a sperare di dormire.Somiglia tutto troppo a un campo di battaglia. Non ho intenzione di starci in mezzo un minuto più del necessario.
Shadow annuì,ma non pensava che i progetti di Soter sarebbero stati molto utili. Se quelle esplosioni,come pensava la sua parte pessimista, fossero stati solo la prima mossa di tutta una serie di disastri, si sarebbero trovati ben presto in una situazione molto, molto più simile a un campo di battaglia.
 
 
Alice riportò Tikal a casa poco dopo il sorgere del sole. La città era terribilmente silenziosa, come coperta da una coltre di cupezza,e l’ospedale era un ambiente ancora peggiore. Volevano entrambi allontanarsene il prima possibile. L’echidna, in realtà, non voleva rimettere piede in casa propria per il momento, e Alice non poteva biasimarla, così entrarono in casa di Shadow con l’intenzione di fermarsi lì entrambe.
Aidan e Dodge, già svegli,  erano seduti a gambe incrociate sul tappeto del soggiorno, una pericolante costruzione di cubi di legno a separarli. Sembravano entrambi molto concentrati nel gioco, ma il bambino si precipitò ad abbracciare le gambe di Tikal non appena le vide entrare. La giovane fece un sorriso tremulo e lo sollevò di peso, stringendolo come se avesse paura di vederlo scomparire se lo avesse lasciato andare.
Si ebbe un tacito accordo fra tutti coloro che erano presenti nella stanza: non bisognava ricordare cosa era successo. Se qualcuno avesse pianto, o fosse stato più taciturno del solito,se ne sarebbero occupati, ma non dovevano parlare esplicitamente delle esplosioni. Punto.
Quando finalmente Tikal rimise Dodge a terra, sembrava intenzionata a rispettare questo accordo. Indossava un sorriso leggero(impossibile dire quanto fosse forzato), quando si rivolse a Aidan. – Posso giocare anche io?
- Certo. Prendi il mio posto, dovevo giusto alzarmi – disse il lupo sollevandosi.
- Grazie. – L’echidna si chinò verso Dodgeball. – Che cosa state facendo qui?
Mentre il piccolo (sollevato da come le cose si stessero svolgendo quasi normalmente) si lanciava a illustrare la “base dei supereroi” che avevano costruito, Aidan e Alice si trovarono faccia a faccia e rimasero a fissarsi per un lungo (e imbarazzante)  momento, l’uno incerto, l’altra indifferente.
- Alice...
- Qualunque cosa tu debba dirmi, può aspettare. Ho bisogno di mangiare qualche cosa e potrebbe anche trattarsi di te,se non trovo del cibo in fretta.
- ...c’è del pane e formaggio, in cucina. Il pane è un po’ secco, ma non ho trovato niente di meglio.
- Bene.
Aidan rimase a guardarla  in silenzio mentre lei praticamente divorava il suo panino. In altri momenti questa fissità l’avrebbe fatta uscire fuori dai gangheri, invece continuava a sentirsi sempre più indifferente. Dopo tutto quello che era accaduto nelle ultime ventiquattr’ore, contenere qualunque emozione era una difesa automatica per non impazzire.
Solo quando tutte le briciole di pane e di formaggio furono sparite il ragazzo riaprì bocca. – Stai bene?
- Secondo te?
- ...okay. Stai pensando che sono un idiota,vero?
- Non mi hai mai dato motivo di pensare il contrario.
- Non so tu, ma io non ho mai avuto un manuale che spiega come comportarsi dopo una bomba. O dopo che una ragazza ti ha scambiato per un terrorista. Sto facendo del mio meglio.
Alice alzò le sopracciglia e non disse nulla. Aidan lasciò passare un minuto buono prima di concludere. – Teoricamente dovrei essere io ad essere arrabbiato.
La rossa lanciò un lungo sospiro esasperato e si massaggiò la fronte. – Naturalmente. Un tizio mi sta addosso per settimane, si comporta praticamente come uno stalker, non mi da un attimo di tregua, mi insospettisce, riceve le conseguenze delle sue azioni durante un momento di pesante stress emotivo e OVVIAMENTE è lui a doversi arrabbiare. Chissà perché non ci ho pensato prima.
- Hai cercato di.....di sterilizzarmi con un calcio!
- Sarebbe stato un bene per le future generazioni.
Inaspettatamente,Aidan sorrise. – So che adesso mi darai un altro calcio,ma mi era mancato parlare con te.
- Non vale la pena darti un altro calcio. Ho stabilito che sei un caso perso, non voglio sprecare fatica.
- Anche io ti sono mancato, dì la verita.
- Non tirare troppo la corda, Turner. E’ una situazione particolare. Quando finirà potrei buttarti giù da una rupe senza che nemmeno tu te ne accorga.
- Appunto, devo cogliere l’attimo.
Era così facile scivolare nei vecchi ruoli,tornare a essere i fantomatici nemiciamici che passano la giornata a stuzzicarsi. Neanche Alice riusciva a impedirlo, era un processo troppo rapido. Com’è che li avrebbero chiamati su internet? Best enemies? Ecco. Solo che in questo caso si poteva dire che Aidan fosse il best e lei l’enemy, ovverosia mentre lui era pronto a riprendere la confidenza precedente a tutti i sospetti, Alice si tratteneva. La fiducia non era qualcosa che si potesse perdere e riprendere nel giro di meno di dodici ore. Era più facile attaccare a qualcuno i pidocchi che non concedergli della fiducia.
Avrebbe risposto a tono al degenerato che aveva davanti se non avesse sentito piangere nella stanza accanto, ed era in piedi e in corsa prima ancora di rendersene conto.
Era Tikal, naturalmente, perché non poteva essere altrimenti. L’echidna era seduta sul divano col viso fra le mani, con ai piedi un cumulo disordinato di cubi di legno. Dodgeball era davanti a lei, il faccino contratto,le braccia strette al petto come se temesse di metterle al posto sbagliato. Alice rimase ferma sulla porta per un attimo, incerta su chi andare a consolare, ma prima che potesse decidersi Aidan le passò davanti e andò a sollevare Dodge da terra.
- No no no, figliolo,stai calmo. Cosa succede?
- I cattivi hanno tirato giù la base dei supereroi – piagnucolò il bambino mentre Alice si sedeva cautamente accanto a Tikal. – La ha fatta piangere. Io non volevo farla piangere. Non ci ho pensato che somigliava alla scuola quando è venuta giù. Non ci ho pensato.
- Ma certo che non ci hai pensato. Neanche io ci avrei pensato.  – Lanciando ad Alice uno sguardo eloquente, il lupo cominciò ad allontanarsi dalla stanza. – Vieni a bere un bicchier d’acqua, vuoi?
- Voglio che Shadow torni a casa – rispose lui nel tono in cui qualunque altro bambino avrebbe detto voglio la mamma.
- Eh no, dai, se torna adesso pensa che sono stato io a farti piangere. Che babysitter terribile penserebbe che fossi? – Le loro voci si attutirono quando Aidan chiuse la porta della cucina.
Alice non sapeva cosa dire. Non era il massimo come parole consolatorie,ma era abbastanza refrattaria al contatto fisico da non riuscire a risolvere una cosa con un abbraccio. Le prese una mano in modo impacciato e restò lì.
Tikal sembrò essere scossa in ogni caso da questo gesto e alzò il volto pieno di lacrime. – Sono una stupida – mormorò.
- L’hai già detto troppe volte fra ieri e oggi. Smettila. Non lo sei.
- Ma lo sono. Ho i nervi a pezzi. Guarda, ho spaventato Dodgeball. Tutti i libri che studiavo prima dell’epidemia dicevano che una madre non dovrebbe piangere davanti al suo bambino. Alimenta i suoi sensi di colpa o qualcosa del genere. Ma sono esausta, mentalmente, e anche lui lo è. Se non ci foste tu ed Aidan avremmo perso la testa da un pezzo.
- Siamo qui apposta. – Alice tirò fuori di tasca un fazzoletto appallottolato. – Fammi un favore, soffiati il naso, asciugati la faccia e poi vai a bere un po’ d’acqua anche tu. Devi solo calmarti. Dovete calmarvi entrambi oppure perderete davvero la testa.
- Avrei bisogno di una doccia. Fredda.Ma credo che non possiamo più fare conto sull’acqua corrente,no?
- Credo di no.
- Mi sento sporca. Non di cenere, no,è che....se è stata Wave...mi fa così schifo l’idea che mi abbia toccato...- Ora l’echidna balbettava, la voce sull’orlo della rottura. – Se ha pensato lei queste cose...mentre io ero vicino a lei....
- Tikal, basta. Non è stata colpa tua.
- Ero lì accanto e lei stava pensando a far saltare una scuola,Alice. Ieri sera abbiamo fatto l’amore e lei si stava preparando a questo! – Tikal piangeva di nuovo, in modo straziato, un pugno premuto sulla bocca come a cercare di soffocare tutto. Alice  le mise un braccio intorno alle spalle tremanti e cercò di convincerla ad alzarsi.
- Hai bisogno di sdraiarti. Vieni.
In qualche modo riuscì a tirarla in piedi e, metà conducendola, metà sorreggendola, la portò nella stanza da letto più vicina. A giudicare dalle dimensioni del letto e dalla confusione doveva essere quello di Shadow,ma non gliene importava niente in quel momento. Convinse Tikal a sdraiarsi e si sedette sul bordo del materasso. E lì rimase a lungo, con una mano sulla testa o sulla spalla, a malapena parlando.
Non che ci fosse molto da dire.
 
 
Quando Alice uscì dalla stanza,era ormai praticamente pomeriggio e Tikal dormiva. Doveva essere la sua risposta ai traumi emotivi: piangere e dormire. E dopotutto dormire non era una così brutta idea, per sfuggire a una realtà tanto caotica. Alice stessa credeva di essersi appisolata,e non poteva biasimarsi, contando che praticamente aveva passato la notte in bianco.
Solo che adesso la casa sembrava vuota. Non volava una mosca. Attraversò il corridoio in punta di piedi e raggiungendo il salotto, lo trovò vuoto.  Così come la cucina.
L’unico, flebilissimo suono che si riusciva a sentire era un girare di pagine e veniva....dal bagno.
Normalmente non sarebbe andata a infilarsi in un gabinetto occupato, ma la porta era aperta e lei doveva pur capire dove fossero finiti tutti.
Sbirciò da dietro la porta, e seduto per terra, la schiena rivolta verso di lei, c’era Aidan, e stava sfogliando....si immobilizzò, gelata.
Quando aveva sentito le esplosioni, aveva gettato i quaderni di Wave nella finestra più vicina della casa di Shadow, con l’intenzione di recuperarli in seguito. Poi, complice tutta la confusione delle ore successive, se li era praticamente dimenticati. E adesso erano in mano ad Aidan.
D’istinto, attraversò la stanza e gli strappò dalle mani il quaderno di turno. Il lupo alzò lo sguardo, sorpreso. – Ehi! Lascia quella roba!
- No.
- Sai che cosa sono? Li ho trovati qua per terra, alla rinfusa,ma c’è su la firma di Wave. Cosa cazzo possono essere?
- Li hai letti?
- Certo, ma non capisco. E’ tutto scritto in codice o roba simile. – La scrutò in faccia con attenzione. – Sai qualcosa che non so?
- Io so sempre qualcosa che tu non sai,ma...Lascia perdere.
- Va bene. Non vuoi dirmi nulla. E’ una cosa a cui sono abituato. Ma dimmi solo una cosa. Se sono di Wave, cosa diamine ci fanno qui?
- Ce li ho messi io.
- Che COSA?
- Sono entrata in casa sua, ho frugato dappertutto, li ho trovati e li ho nascosti qui quando è saltata in aria la scuola. E questo è tutto quello che devi sapere. – Si chinò a raccogliere il resto dei quaderni.
- Non credo proprio. – Aidan si alzò in piedi e la prese per le spalle, costringendola a guardarlo in faccia. – Ti ho sentito in ospedale. Dicevi che Wave c’entrava qualcosa con tutta questa merda. E se c’entra lei, perché ti sei messa in mezzo tu? Perché le sei entrata in casa?
- Levami le mani di dosso – sibilò Alice. Lui la fissò un momento,serio, poi abbassò le mani. Ma non si era ancora arreso.
- Se riguarda Wave e la bomba, riguarda tutta la città. Se sai qualcosa di importante, dovresti dirlo a tutti.
- Io non so ancora un bel niente, idiota. Devo scoprire se i sospetti sono fondati e mi servono questi – e agitò i quaderni – per farlo.
- Allora lascia che ti aiuti. Non sono una cima, lo so, ma posso darti una mano.
- Non so ancora se posso fidarmi di te.
- Gesù! – Esplose Aidan,allargando le braccia. – Non ti fiderai mai di me, se continui di questo passo. La mia parola non ti basta, va bene. Ma quella di Dodgeball? E il tuo istinto? Non ti basta niente?
- Non è una cosa che possa prendere alla leggera, Turner! C’è di mezzo un tizio psicopatico e onniveggente che potrebbe ucciderci tutti!
- Appunto. Usa la logica, Alice. Se io fossi una spia, come credevi tu, e io non lo sono, allora saprei già quello che c’è scritto lì dentro! No? L’uomo bianco mi sarebbe entrato nella testa e mi avrebbe spiegato tutto! Ma non lo ha fatto, e se tu potessi fidarti di me almeno per un po’ e lasciare che ti aiuti, potremmo scoprire cosa ha detto a Wave e non al resto della città, me compreso.
Si fermò, ansante, guardandola con aria di sfida. Ci fu un altro di quei momenti di profondo silenzio che sembravano sempre punteggiare le loro conversazioni, mentre Alice pensava. Sentiva che lui era sincero, era qualcosa di istintivo,ma c’era anche una piccola parte della sua mente che rifiutava questa idea. Ma quella era la stessa parte che rifiutava di fidarsi di chiunque, eccetto che di una manciata di persone.
E poi Dodgeball le aveva detto cosa sapeva, e lei si fidava di Dodgeball.
- Bene – disse alla fine. – Se per un solo istante avessi il sospetto che tu mi stai prendendo per il culo, ti spacco qualcosa. Qualcosa di vitale.
- Quando avremo finito potrai anche seguirmi e stare al mio fianco ogni secondo per controllarmi.
- Era un invito contorto a vivere con te,quello?
- No, ma se ne può parlare.
- Scordatelo. E adesso muovi il culo e vieni con me.
Si diressero verso la cucina. Alice si guardò intorno. – Dodge? Dov’è?
- Shadow è tornato a casa ed è andato subito a letto. Ma Dodge non voleva staccarsi da lui, così è andato con lui. Ormai penso che stiano dormendo entrambi.
- Bene. Non deve vedere questa roba.
- Tanto non sa leggere.
- SA leggere, Turner.
- Cosa? Ma è piccolo!
- LUI, a differenza di certa gente, ha un cervello. Sa leggere, e anche se probabilmente non capirebbe niente di quello che c’è scritto, lo voglio lontano da queste cose.  – Alice sbattè i quaderni sul tavolo. – Ora, dobbiamo leggere tutto quello che c’è scritto qua e decifrarlo.
- Ma è in codice o...
- Non è in codice, è più...Hai presente la bibbia? Che non dice mai direttamente niente, ma usa parabole e metafore e simili? Più o meno la questione è questa.
- Mai stato in una chiesa in vita mia
- Buon per te. Siediti, la cosa sarà lunga
Si piazzarono su due sedie vicine e cominciarono.
 
 
Quando Shadow riemerse dalla stanza di Dodgeball con il suddetto sulle spalle , stava già iniziando ad imbrunire e loro erano ancora chini sulle pagine fitte di scrittura. Non erano state ore facili. A entrambi bruciavano gli occhi, ma il problema maggiore non era questo. Era il contenuto.
Tutta quella lista di nomi inquietanti che Alice aveva visto la prima volta non poteva che riferirsi all’uomo bianco, personaggio che chiaramente Wave venerava e adorava, e chiamava continuamente “sposo”. L’idea che potesse considerarlo suo sposo era agghiacciante, ma sembrava proprio così. Parlava di raggiungerlo, insieme ad altri “eletti”. Roba da mania religiosa estremista.
E poi quelle pagine erano piene di così tanto odio nei confronti di Metal city e dei suoi abitanti,soprattutto di quelli che conosceva più da vicino. Era quasi insopportabile. A un certo punto Alice si era trovata a piantare le unghie nel braccio di Aidan per la frustrazione, e entrambi se n’erano accorti a malapena.
Ma avevano trovato la conferma a tutti i sospetti sulle bombe. Non che fosse un bene. Era terribile in ogni caso.
- Buonasera – disse Shadow poggiando a terra Dodge. – Cosa state facendo?
- Stavamo – sospirò Aidan chiudendo l’ultimo quaderno – abbiamo finito.
- ....quindi cosa stavate facendo?
Alice riuscì ad attirare la sua attenzione e accennò brevemente a Dodgeball, scuotendo la testa. Per fortuna Shadow colse e cambiò argomento. – Tikal dorme ancora?
- Già.
- Non ha mangiato nulla, vero? – A un cenno affermativo, il riccio nero tirò fuori un bicchiere, lo riempì d’acqua e  ci versò dentro quella che sembrava una bustina di zucchero. Poi lo passò a Dodge. – Portalo a Tikal. E non andartene finché non l’ha bevuto.
- Ma se dorme?
- Svegliala. E se si arrabbia dille che te l’ho fatto fare io. Ma non si arrabbierà.
Il bambino annuì e trotterellò via. Shadow si voltò verso gli altri due. – Adesso posso sapere cosa state facendo?
- Sappiamo cosa è successo alla scuola e alla centrale, ma è molto....è una cosa molto più grossa di quello che ci aspettavamo. Forse faresti meglio a sederti.
Shadow non si sedette. Ascoltò tutto quello che avevano da dire, con in mano una tazza di caffé solubile che, se non fosse già stata fredda di partenza, si sarebbe raffreddata  di sicuro a forza di non essere toccata. Quando Alice ed Aidan  ebbero finito,  il riccio nero posò il contenitore  sul tavolo e si passò una mano sulla fronte. Gli erano venuti i sudori freddi.
- Cazzo. Se il resto della città sapesse queste cose...
- Sarebbe il panico. – Completò Alice. – Non possiamo dirlo a nessuno. Impazzirebbero.
- A qualcuno dobbiamo dirlo. Tutti quelli che potrebbero sapere cosa fare.
- Non sono molti.
- Soter, Sonic...
- Aster...
- Aster non verrà – scattò Shadow. – E se verrà non sarà di grande aiuto. E’ pura rabbia in questo momento.
- Perché?
- Non hai sentito nulla in ospedale?
- Ero più impegnata a tenere d’occhio tuo figlio, sai. E varie altre questioni.
- La mia castrazione non vale come questione – sussurrò Aidan. Alice gli assestò un calcio sullo stinco, ma era un colpo fiacco. Erano tutti troppo esausti. Anche la parola “figlio” scappata alla ragazza, su cui normalmente Shadow avrebbe protestato, passò senza commenti.
- Comunque,cosa avrei dovuto sentire? – Chiese Alice tornando a rivolgersi al riccio.
- Amy è morta. L’esplosione l’ha investita in pieno. Non c’è stato niente da fare. Aster vorrebbe già uccidere qualcuno,, anche senza sapere quello che sappiamo noi.
- Beh, se vuole uccidere Wave, ben venga. – Alice lo fissò con gli occhi brucianti che spiccavano sulla sua solita espressione impassibile. – Siamo due.
 
Aster venne. Sedette in un angolo con braccia e gambe incrociate tanto strette da sembrare inseparabili e la mascella contratta, senza spiccicare parola, ma venne. Vennero tutti.
Non che fossero molti. Lui, Soter, Sonic che usciva per la prima volta dall’ospedale da quasi due giorni. Tikal, che aveva dormito più di chiunque altro ed era uscita dalla camera da letto con un espressione vagamente feroce che faceva quasi paura a guardarla. Quando le avevano detto cosa avevano intenzione di fare, aveva insistito per essere presente e niente era valso a dissuaderla. Poi era uscita di casa senza aggiungere altro ed era tornata per mano a una ragazzina che non poteva avere più di dodici o tredici anni, una piccola Seedrian che aveva negli occhi celesti la stessa espressione opaca di tutti gli altri abitanti della città quel giorno.
- Si chiama Cosmo – aveva spiegato ad Alice. – Stava con Vanilla. Figlia adottiva? Chiamiamola figlia adottiva. Adesso è sola, ed è stata la prima persona a cui ho pensato quando mi sono svegliata. Può restare con me, visto che sembra che ora io abbia un posto letto libero. E può badare a Dodge mentre noi parliamo. E se a Shadow non va bene, se lo farà andar bene.
Alice aveva solo annuito. Non era sicura di cosa aspettarsi da questa Tikal che sembrava una palla di furia trattenuta a stento.
Quando Shadow chiuse la porta del salotto, lasciando Dodge e Cosmo in camera, era ormai notte fonda. Si appoggiò al bracciolo del divano e fece cenno ad Alice e Aidan, in piedi in mezzo alla stanza, di cominciare. I due si guardarono, poi il lupo diede una leggera gomitata alla ragazza.
- Ovviamente. – Sbottò lei. – Bene. Credo che almeno vagamente sappiate perché siamo qui. Abbiamo scoperto cosa è successo alla scuola e alla centrale, ma c’è molto di più.
- Alice ha trovato questi – e Aidan sventolò un mazzetto di quaderni – in casa di Tikal e Wade. Li abbiamo letti e abbiamo scoperto... – Si voltò verso Tikal. – Se vuoi andare di là coi bambini, è meglio che lo fai adesso.
- Vai avanti o ti tiro qualcosa – disse l’echidna, gelida.
- Okay, uh...E’ stata Wade a far esplodere tutto. Ha usato...un dispositivo a comando vocale. Ha collegato le due bombe a un walkie-talkie e le ha azionate parlando. Le ha spiegato come farlo...l’uomo bianco.
- Wave credeva....crede che l’uomo bianco sia una specie di dio. Lo venera e mentre noi,feccia, perché è così che ci ha definito a un certo punto, facevamo incubi su di lui,lei riceveva sogni ispiratori. – Alice sfogliò alcune pagine. – Lei lo adora, ne parla come se fosse il salvatore del mondo, ma anche come se fossero fidanzati. Sentite qua: “ Chi sa quando verrà lo sposo? La sposa deve prepararsi ad accoglierlo, ed essere pronta quando lui chiama. Così io aspetto il mio sposo, e alla sua venuta tutto sarà distrutto e resterà soltanto ciò che è puro come una vergine .”
La lettura venne seguita da un silenzio di tomba, spezzato da Soter solo dopo un lungo momento. – Cosa intende con....”ciò che è puro”?
- Ci stavo arrivando. In pratica, lei e tutti coloro che sono degni di servire l’uomo bianco, tutti quelli che lo amano,tanto per intenderci, lo raggiungeranno e creeranno una civiltà di eletti,mentre tutti gli altri saranno spazzati via. Una specie di Apocalisse.
- E’ anche implicato – interloquì Aidan, sforzandosi di mantenere un tono neutro – che probabilmente è stato lui...l’uomo bianco...a far scoppiare l’epidemia.
Alice guardò le facce che li fissavano. Shadow aveva già sentito tutto, e non mostrava più alcune emozioni. Soter era un perfetto esempio di spiazzamento. Cercava di celarlo il più possibile, certo, ma era spiazzato. Aster era, se possibile, più furibondo di prima. Ma Tikal era...sconvolgente. Si erano aspettati pianti, disperazione, cose simili. Ma l’echidna era gelida. Nel vero senso della parola. Pallida, immobile, rigida. Tale e quale a un pezzo di ghiaccio. A vederla, avrebbe potuto affondare il Titanic. Solo gli occhi e la rabbia potente che contenevano tradivano il fatto che in quel momento avrebbe potuto affondarlo, e a mani nude.
La riccia riprese a parlare, più che altro per poter distogliere lo sguardo. – Abbiamo scoperto anche un’altra cosa. Ci abbiamo dovuto lavorare su per ore, ma alla fine abbiamo scoperto, più o meno, dove si trova l’uomo bianco. Fisicamente,intendo. Perché sì, qualunque....essere sia, ha un corpo, un’identità, una serie di accoliti e una base. Come un qualsiasi capo. Se il corpo che ha è una maschera, non lo sappiamo noi e non lo sa nessun altro tranne lui stesso. Comunque, si trova in Ohio.  Ohio dell’ovest, in una zona abbastanza lontana dalle grandi città. Di più preciso non abbiamo trovato niente.
Chiuse il quaderno. – Ricapitolando tutto, quella puttana ha agito per mano dell’uomo bianco e poi è partita per raggiungerlo. E’ per questo che i bambini sono scappati. Hanno sentito che l’uomo bianco stava per fare qualcosa. Così probabilmente hanno anche salvato la tua vita, Tikal.
Tikal annuì appena, poi parlò con voce ferma. – Nessuno dei bambini voleva venire a scuola. Se li avessimo ascoltati...
- Forse si sarebbe potuto evitare tutto. Ma non è certo. – Era stato Shadow a rispondere. – Neanche loro sapevano bene cosa sarebbe successo. Erano solo irrequieti e impauriti, ma nessuno sapeva di cosa.
- Ma qualcosa si sarebbe potuto fare. – Aster si alzò in piedi digrignando i denti. – Avremmo potuto evitare tutto questo casino anche solo ascoltandoli. – Puntò un dito contro Shadow. – Tu avevi un bambino in casa, perché non ti sei accorto di niente, cazzo? Ci andava così tanto a prestargli attenzione? – Il riccio nero non rispose.
- E tu – continuò Aster rivolgendosi a Tikal – quella troia viveva con te e non hai notato niente? Montava bombe, era in piena estasi religiosa e tu non hai visto nulla?
- Nascondeva tutto molto bene – replicò lei in tono controllato.
- Sì, ma qualcosa avresti dovuto vedere, cristo. Avevi una terrorista in casa,dannazione! La guardavi solo quando dovevi trombartela? O le davi una mano? Non puoi dirmi che non ti sei accorta di niente! Ti rendi conto di cosa hai fatto?
- Non ci provare! – Scattò lei rizzandosi in piedi, le guance arrossate. – Non provarci nemmeno, Aster! Non provare a dare la colpa a me, o a Shadow, o a chiunque altro che non sia Wave. Ho passato delle ore a darmi della deficiente per non aver capito nulla, per non aver visto nulla, e lo stesso hanno fatto tutti. Ma non è questo che dobbiamo fare, perché la colpa non è nostra. No, Aster, non è colpa di nessuno di noi singolarmente, perché i bambini non ci hanno detto nulla. Perché non sapevano cosa dirci e se dircelo, perché noi non ci fidavamo di loro e non credevamo a quello  che sognavano. Perciò se vuoi dare la colpa a qualcuno dalla a tutta la città, ma sarebbe sbagliato farlo ora. In questo momento l’unica cosa che dobbiamo fare è pensare a cosa potremmo fare di utile per risolvere questa situazione, non incolparci l’un l’altro. Quello non aiuterà. Non cambierà niente di quello che è successo.
Per un momento rimasero lì entrambi a fissarsi, sotto gli sguardi attoniti degli altri, stupiti da quei due elementi di solito tanto calmo esplosi in così poco tempo. Poi il viso di Tikal si raddolcì e lei tornò a somigliare alla pacifica ragazza che tutti conoscevano.
- Lo so cosa stai passando – disse con voce morbida. – So cosa hai perso. Ma credimi se ti dico che questo non aiuterà te, né nessuno degli altri che ha perso qualcuno. E Amy non sarebbe felice di vederti così.
Il gatto le lanciò ancora uno sguardo, poi abbassò lo sguardo e si risedette pesantemente. Dopo un momento, anche Tikal fece lo stesso.
- Bene. – Disse Shadow a bassa voce. – A questo punto dobbiamo decidere cosa fare. Non possiamo restare con le mani in mano.
- Le opzioni non sono molte – fece Sonic. – Se davvero l’uomo bianco vuole venirci a distruggerci, possiamo restare qui ad aspettarlo e armarci...oppure andare da lui e vedere se possiamo fermarlo sul nascere.
Questa uscita provocò una gran confusione.
- Non se ne parla! – Esclamò Tikal.  – Volete farvi uccidere? Quel tizio vede tutto e sa tutto, vi scoprirà prima ancora che lo raggiungiate.
- Vedi qualche alternativa? Preferisci che arrivi lui qui per primo? Che prenda tutti quelli che non è ancora riuscito a uccidere?
- Ma... – Boccheggiò lei. – Ma è un suicidio! Non combinerete niente, chiunque vada. Morirebbe senza scoprire nulla.
- Forse. – Interloquì Soter. – Oppure, se andiamo ognuno per conto proprio , magari non riuscirà a scovarci tutti.
- Siete tutti impazziti! – L’echidna si alzò di nuovo in piedi. – E chi vorreste mandare, sentiamo? Chi farebbe il kamikaze?
- Io sarei pronto ad andare. – Si voltarono tutti. Era stato Shadow a parlare.
- No!
- Anche io. – Aggiunse Soter.
- E io. – Questa volta era stato Aster. – Ha fatto uccidere la mia ragazza e mio figlio. Io andrò a prescindere.
- Ma voi siete pazzi. – Tikal girò intorno lo sguardo. – Volete andare tutti, non è così? Sonic? Aidan? – I due abbassarono lo sguardo. – Alice? – La riccia cercò di sostenere il suo sguardo, ma dovette girare gli occhi a sua volta. – Oh, no. No, no,no. Voi siete pazzi.
- Qui dice che si sta preparando. – Disse Aidan piano. – Dice che l’uomo bianco sta preparando un esercito. Non tarderà ad attaccarci. DOBBIAMO fare qualcosa.
- Sì ma....non questo! Cosa sperate di ottenere? Morireste e basta!
- Hai un’idea migliore?
- Io.... – La giovane rimase un attimo interdetta, poi riattaccò. – Allora vengo anch’io. Andiamo tutti a farci uccidere,no? Tanto non cambierà nulla. Morire prima o dopo non farà differenza.
- No – disse Shadow – tu devi restare. Non possiamo sparire tutti. La gente sospetterebbe qualcosa e scoppierebbe il panico. Devi restare e occuparti dei bambini. Non solo di Dodgeball e Cosmo, di tutti. Dovrai far ripartire la scuola e convincere i genitori che non succederà più nulla, altrimenti chiuderanno in casa i ragazzini. Anche Sonic non può partire. E’ uno dei pochi medici davvero esperti che abbiamo.
- E’ bello sapere che per te sono utile per qualcosa – mugugnò il riccio blu, allungandogli un leggero pugno sulla gamba. L’altro distolse lo sguardo.
Tikal intanto era rimasta dov’era, in piedi, gli occhi fissi a terra. Lentamente tirò su la testa,guardandoli tutti uno per uno. – Molto bene – disse alla fine. – Andate. Fatevi ammazzare tutti. Non m’importa. Non voglio saperne niente. Andate a farvi fottere, per quel che vale. Tanto non mi ascoltate.
Si avviò a grandi passi verso la porta del corridoio, ma girò sui tacchi all’ultimo e puntò il dito verso Alice. – Ma tu – disse- prova solo a pensare di andartene e ti ammazzo io, non avrai bisogno dell’uomo bianco. – Tacque un momento. – Vado a dormire coi bambini. Loro non hanno tendenze suicide. – Uscì dalla porta e se la sbatté alle spalle.
Passò fin troppo tempo prima che Sonic rompesse il silenzio. – Perché tu non dovresti partire, e gli altri sì?
- Non lo so – replicò Alice, lo sguardo perso nel vuoto, come se stesse riflettendo. – Forse ha paura che io rischi di più di voi grandi uomini. Magari pensa che io non saprei difendermi.
- Però ha ragione – la interruppe Aidan. – Non dovresti partire.
- Non provarci, Turner. Mi so difendere come e meglio di te. Deve ancora nascere l’uomo bianco che me lo mette nel culo.
- Lo so che non hai paura, ma penso che dovresti restare lo stesso. E’ troppo rischioso.
- Non sono una donzella da salvare, cazzo. Non cercare di fare il cavaliere e vai a fotterti il drago.
- Io non voglio che tu parta, diamine! Non rischiare di farti ammazzare solo per vendetta e per dimostrare che hai le palle!
- Perché, tu andresti nell’Ohio per motivi diversi?
- Sentite – li interruppe Soter – se volete continuare i vostri litigi da fidanzati, va bene, ma sappiate che l’ideale sarebbe che a partire fossimo in quattro. Ognuno partirebbe da un versante della città, farebbe una strada diversa,non incrocerebbe gli altri né lungo la strada né dove si trova l’uomo bianco e non rischierebbe di tradire sé stesso o gli altri. Se io, Shadow e Aster partissimo, resterebbe un posto solo. Può partire solo uno di voi due.
- Ma queste stronzate ve le pensate sul momento oppure fate piani d’attacco come passatempo?
Sul volto del riccio bianco comparve l’ombra di un ghigno. – Un po’ di entrambi.
- Alice, seriamente.... – Aidan provò a metterle una mano sulla spalla.
- Giù le mani, lurido.....ginocchio.
- Non mi andrebbe di picchiare una donna per farla ragionare, ma se continui così...
- Vuoi vedere come questa donna ti fa ingoiare i denti uno per uno?
- Adesso basta. – Shadow troncò la conversazione alzandosi in piedi. – Urlate pure quanto volete, picchiatevi, ma non qui. I bambini non devono sentire. Non devono neanche sospettare che cosa vogliamo fare. Uscite, decidete chi di voi partirà, poi tornate qui. E tenete conto che, se vogliamo evitare che tutta la città venga a sapere che partiamo, dobbiamo andarcene all’alba o nel cuore della notte. E sto parlando di domani. Dopo tutto quello che è successo, non abbiamo tempo da perdere.
- E la notte non è esattamente il momento adatto, contando con che essere abbiamo a che fare – aggiunse Soter.
- Esatto. Perciò partiamo all’alba. Anche prima. Chiunque torni qui, deve tornare quando fa ancora buio, pronto ad andarsene in fretta. Niente ripensamenti e indecisioni. Ci divideremo allora. Ora fuori.
- Andiamo – disse Aidan trascinando via Alice prima che potesse protestare ancora. La ragazza aveva un’espressione che era tutto un programma, ma non aprì bocca.
E questo più di tutto indicava quanto la situazione si stesse facendo seria.
 
- Resteresti un momento? – Chiese Shadow quando Soter e Aster se ne furono andati, teoricamente per prepararsi al viaggio, in pratica,probabilmente, il primo per armarsi, il secondo per sbollire la rabbia.
Sonic sorrise. – Certo. Ultima cena o ultima notte?
- Francamente? Non lo so.
 
 
Questi bei capitoli lunghi e  disastrosi.

Okay, l'unico rimpianto che ho è  che (causa computer non collaborativo) non ho potuto finire il capitolo in tempo per il compleanno di una certa  persona che mi da il tormento da una vita perché voleva il capitolo. Peccato, peccato. Niente morte e lacrime come regalo.
E poi è un capitolo disastroso ma va beh. Lo sono anche tutti gli altri. E chiedo scusa in anticipo se ci sono delle cose poco credibili. Non essendomi mai trovata (per mia fortuna) in qualche luogo dopo lo scoppio di una bomba, potrei aver scritto qualche baggianata.
Boh, che altro dire, recensite se gradite et cetera et cetera. A presto!
^Ro
 

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Capitolo 17
*** A good man goes to war ***


- Perché hai voluto che restassi? – Chiese Sonic, dopo che ebbero trascorso alcuni minuti senza aprire bocca.
- Perché sentivo di doverti dare una spiegazione – rispose Shadow lasciandosi cadere sul divano accanto a lui. – Sempre che tu voglia ancora ascoltarmi, contando quanto coglione devo esserti sembrato.
- Beh, si da il caso che io voglia ascoltarti . – Il riccio blu sorrise appena. – E poi sembra che non avremo più molte occasioni per parlarne, no? Sputa il rospo.
- Sicuro?
- Parla, o ruberò qualche tattica offensiva a quell’Alice. Ho sentito che ha un’ottima mira per le parti delicate.
- Bene. – Avevano iniziato la conversazione in un tono leggero, quasi a voler dimenticare ciò che sarebbe successo di lì a poche ore, ma ora Shadow scivolò in una voce monocorde, sforzandosi di non lasciar trasparire nessuna emozione. Sperava che sarebbe rimasta tale anche per il resto del discorso. – Ma non interrompermi, o non credo che riuscirò a finire.
Sonic annuì, mettendogli una mano sulla gamba. – Vai.
- Ero un soldato. – Cominciò il riccio nero. – Presumo lo sapessi già, visto come circolano le voci in questo posto. Soter era un mio commilitone, ma non eravamo di stanza in nessun luogo di guerra. Non negli ultimi mesi, in ogni caso. Eravamo a Washington.
- Lavoravamo in un istituto di ricerca, dove cercavano le conseguenze dell’epidemia e, se possibile, una cura. Perché fosse piena di militari era un mistero anche per noi. Probabilmente perché nessuna notizia, e nessuna persona, anche,  uscisse da lì. Gli unici ad entrare, oltre ai medici e a noi, erano stati alcuni contagiati, perché venissero analizzati da ogni parte. Teoricamente erano chiusi in camere sterili da cui non sarebbe dovuto uscire alcun germe. Teoricamente.
- Era una struttura governativa, perciò, in una parte di essa, si trovavano anche le famiglie di coloro che ci lavoravano, per la sicurezza loro e degli stessi ricercatori. Nessuno avrebbe potuto essere ricattato  perché fornisse notizie o compisse azioni pericolose. Io non avevo nessuno che dovesse essere ospitato lì, e così, Soter, ma molti altri avevano mogli, mariti, figli, nipoti...i più giovani anche dei genitori. Uno degli scienziati con cui andavo più d’accordo, il dottor Robotnik, aveva perso tutta la sua famiglia da anni, eccetto sua nipote, una ragazzina. Si chiamava Maria. – Dio, quanto faceva ancora male pronunciare il suo nome.
- Il dottor Robotnik era molto anziano, e lo sentivo più come un padre che non come un amico. Quanto a Maria...era qualcosa di meno che una figlia. Molto di meno, forse,ma non era importante. Le volevo bene, punto. Nient’altro. Ma era cagionevole di salute, e sia io, sia suo nonno temevamo che se la malattia l’avesse raggiunta, non ci sarebbe stata nessuna speranza. Allora credevamo che per qualcuno ci fosse speranza. Pensavamo si trattasse di qualcosa come la peste, in cui qualcuno, di rado, guariva e sopravviveva. Illusi.
- L’epidemia penetrò anche nel nostro istituto, come ovunque. Non so se venisse da fuori o se qualche germe fosse uscito dalle camere sterili, ma era irrilevante. Tanto sarebbe arrivato comunque. Robotnik si ammalò poco tempo prima che l’istituto venisse messo in quarantena e chiuso fuori dal mondo, e mi fece promettere che avrei tenuto Maria al sicuro, più che potevo. Ma non ci riuscii. Ovviamente. Fu contagiata e morì ancora più in fretta di quanto avessero fatto gli altri, perché era troppo debole, mentre io cercavo di uscire da quel posto. Avremmo dovuto fare come Soter, che era scappato prima della quarantena cercando di portare fuori un gruppo di civili. – La mano di Sonic gli si strinse intorno alla gamba:se per tensione o conforto, non sapeva dirlo.Era già tanto sapere che il riccio blu aveva capito cosa stesse dicendo, in mezzo a quelle frasi confuse che stava tirando fuori.
- Sono uscito da lì solo quando tutte le guardie che circondavano il perimetro sono morte. Ero fuori di me. Lo sono ancora. Continuo a pensare che è stata colpa mia se Maria è morta e in ogni caso, ho distrutto qualunque cosa su cui ho messo le mani da quel momento in poi. Ho rischiato di fare del male a Dodgeball più di una volta, e la città di cui avevo la responsabilità ha subito decine di lutti per mano di una donna che viveva qui accanto. Perciò dammi ascolto se ti dico che era solo per il tuo bene se volevo respingerti, anche se  adesso sembra una cazzata, dopo quello che è successo. Era un rischio troppo...
La frase fu interrotta da un paio di labbra che si posavano sulle sue, dolcemente ma con fermezza. Sonic lo stava baciando, tenendolo per la nuca e impedendogli di staccarsi. Fu lui a scegliere quando allontanarsi, con un sorriso mezzo sardonico e mezzo triste.
- Sei un idiota, lo sai? – Disse. – Le uniche cazzate che ho sentito sono state quelle che hai inventato tu. E sono tante.  – Gli mise una mano sulla bocca per bloccare ogni tentativo di protesta.
- Ascoltami. Capisco che hai passato dei brutti momenti e posso solo immaginare quanto sia stato doloroso, ma ricordati quello che ha detto Tikal. Non è colpa nostra.
- Parlava della bomba... – Mugugnò Shadow contro le sue dita.
- Già, e io sto parlando di tutto. Tu non avevi il potere di salvare la tua amica come nessuno aveva il potere di fermare la bomba. O l’epidemia,se è per questo. Eravamo e siamo tutti impotenti. E anche solo dal fatto che non ho usato la parola impotente per fare doppi sensi dovresti capire che sto parlando seriamente. Sono un medico, hai presente quante persone ho cercato di curare? Quanti bambini? Anche se nessuno mi era vicino come lo era quella ragazzina per te, anche io avevo delle responsabilità su di loro. Ma erano responsabilità che non avrei dovuto avere, perché non potevo fare niente. Come non potevi farlo tu. Se Wave non stava solo delirando, allora c’è questo uomo bianco a capo di tutto. La colpa è sua.
- E prova a dirmi che hai maltrattato Dodgeball e ti lancerò da quella finestra. Ho visto dei bambini maltrattati nel mio ambulatorio, con le ossa rotte e lividi sulla faccia, e i genitori che continuavano a dirmi che erano caduti giocando. Il tuo bambino non è uno di quelli. E’ estremamente tranquillo con te, non ha paura di te, ti sta attaccato come una cozza allo scoglio. E non ha lividi da nessuna parte, se non quelli normali che qualunque moccioso ha sulle gambe.  La situazione sarebbe molto diversa se tu l’avessi maltrattato. Magari gli hai dato un ceffone, okay. O una sculacciata. O ti sei incazzato troppo. Conosco un sacco di uomini che avrebbero fatto peggio. Perciò smettila di autocommiserarti, okay? Non hai colpe.
- Ma...- Shadow voleva spiegargli quello che non era riuscito a dire, la voce che insisteva a riempirlo di sensi di colpa, il ricordo di quell’immenso labirinto di stanze che era l’istituto di ricerca, pieno solo di morti e della sua voce che chiamava aiuto, la sensazione di follia che lo aveva perseguitato durante tutte le settimane passate da solo, e anche dopo. Ma alzando lo sguardo si rese conto che l’altro lo sapeva. Magari non nel dettaglio, ma capiva. Capiva tutto. Per questo non oppose resistenza quando Sonic si avvicinò per baciarlo di nuovo, anzi lo strinse a sè.
- Da quel che avevo capito le opzioni erano due....Ultima notte o ultima cena – mormorò il riccio blu nel suo orecchio, staccandosi per un breve momento e insinuandogli una mano sotto i vestiti. – Tu hai fame?
- Per niente – rispose lui cominciando a slacciargli i pantaloni.
E in definitiva, ultima notte fu.
 
Fu una passione lunga e lenta, dolce come sdraiarsi su un morbido cuscino. C’era un dolore che non aveva mai provato portando a letto delle ragazze, che non gli sarebbe stato possibile provare in quei casi, ma non avrebbe potuto desiderare un altro modo in cui passare le ultime ore a Metal city.
Non potevano permettersi di urlare, non con tre persone addormentate poche stanze più in là, ma riuscirono a godersela lo stesso. E se anche Sonic aveva morso Shadow su una spalla per soffocare le urla, non sarebbe stato un problema.
Tanto tendenzialmente presto avrebbe avuto ben altre ferite di cui preoccuparsi.
 
Sonic sprofondò nel sonno molto in fretta dopo l’amplesso. Dopotutto aveva lavorato quasi ininterrottamente per trentasei ore o giù di lì, ed era esausto. Shadow lo coprì con la coperta del divano e gli diede un ultimo bacio,rapidissimo, sulle labbra, poi andò a prepararsi.
Non sarebbe riuscito a dormire, non con l’adrenalina che circolava allegramente per le sue vene, e approfittò del tempo rimasto per vestirsi con abiti adatti a camminare (sarebbero andati a piedi, per cercare di essere notati il meno possibile) e preparare uno zaino con tutto quello che gli sarebbe potuto servire,dal sacco a pelo (ancora quello con cui era arrivato a Metal city) a varie scatolette. Poi abbandonò i bagagli in corridoio ed entrò in camera di Dodgeball.
La casa era al buio, dopo l’esplosione della centrale, ma qualcuno aveva lasciato una torcia accesa sul comodino, data l’alta probabilità che qualcuno si svegliasse nel cuore della notte. Tikal era sdraiata sul tappeto, con un cuscino sotto la testa. Dormiva profondamente, ma aveva in volto i segni di chi aveva pianto a lungo. Cosmo e Dodge dividevano il letto, l’uno raggomitolato fra le braccia dell’altra, anche loro addormentati. Shadow rimase lì fermo per un pezzo, indeciso sul da farsi, poi si chinò e baciò la guancia del piccolo riccio. Non aveva mai fatto una cosa del genere e si sentiva vagamente stupido, ma ora come ora non era il momento di pensarci.
Il bambino si  voltò e socchiuse gli occhi assonnati. – ‘Adow?
- Dormi, Dodge. E’ ancora presto.
Lui annuì e si rigirò nel letto, accoccolandosi addosso a Cosmo, che nel sonno gli mise un braccio intorno alla vita. Shadow gli passò una mano sulla testa.
- Fai il bravo, okay? Non far disperare Cosmo e Tikal.
Dodgeball si era addormentato di nuovo. Il riccio nero lo guardò per un istante, poi lasciò la stanza. Raccolse lo zaino e uscì dalla casa, chiudendosi la porta alle spalle. Avrebbe aspettato gli altri fuori.
Non sopportava l’idea di restare lì dentro un minuto di più.
 
Alice aveva camminato a passo di marcia per un pezzo, senza dire una parola. Aidan le  teneva dietro passo passo, poco dietro di lei, sempre in silenzio. Avevano attraversato strade su strade, tutte al buio, punteggiate solo da rare luci di torce o lampade dietro le finestre, e stavano camminando da quelle che sembravano ore quando il lupo aprì bocca.
- Alice.
- No. – La ragazza allungò il passo. – Puoi dire quel che vuoi, tanto sarò io a partire. Voglio uccidere quella baldracca prima che possa arrivare alla prima notte di nozze con il suo sposo. E poi pensare a lui. Quindi no.
- Molto bene. – Aidan la superò e le si parò davanti,continuando a camminare all’indietro. – Mi avverti se vado a sbattere contro qualcosa?
- No.
- Okay, allora è a mio rischio e pericolo. – Si fece serio. – Alice, tu non puoi partire.
- Taci.
- Va bene. Mettiamo il caso che tu parta. Esci dalla città e vai a prendere a calci il culo dell’uomo bianco. E poi?
- E poi cosa, figlio di un...di un Dalek?
- Tu parti. Le probabilità dicono che o lui ti uccide, o i suoi amichetti ti uccidono prima ancora che tu lo raggiunga, oppure tu muori mentre cerchi di farlo fuori. Non fare quella faccia. Lo so che sei forte, hai cercato di portarmi via i gioielli di famiglia con un calcio, ma quello là è un’entità superiore. Satana, o uno dei demoni che saltellano intorno a Satana. Comunque. Tu parti e al novantanove per cento non torni più. Io resto qui. Anche  se Tikal non mi uccidesse perché non sono riuscito a fermarti, non mi rivolgerebbe più la parola. Sarebbe distrutta. Così come quel bambino scatenato. E a me cosa resterebbe?
- Spiegati.
- Io non ho nessuno qui in città. Sono l’esempio perfetto di lupo solitario, anche se fa ridere detto di me. Sì, okay, vado d’accordo con gli uomini della squadra, ma nessuno sarebbe disperato se sparissi. Hanno tutti le loro famiglie. Io ho solo...te. Lo so che tu non mi vuoi come fidanzato, però mi piaci tantissimo e provarci con te è una cosa divertente. Il massimo. Perciò se parti tu e io resto...Io non ho niente. E tu lasceresti indietro Tikal, che credo ti voglia più bene di quanto non ne volesse a quella rondine del cazzo, e Dodgeball, che ti adora. Ne soffrirebbero loro e ne soffriresti tu, anche se ti fingeresti impassibile come al solito.
- Moriremo tutti, se voi fallite. Cosa cambia?
- Finché c’è una piccola speranza, perché non sfruttarla? Andiamo, lo sai che ho ragione. Non puoi negarlo.
Alice distolse lo sguardo, la bocca serrata. Aidan sorrise, ma era un sorriso amaro, triste. – Abbiamo deciso, quindi.
Sempre nessuna risposta. Il lupo la prese per il mento e le tirò su delicatamente la testa, e bisognava ringraziare il fatto che fosse una situazione particolare e che Alice stesse usando tutto il proprio autocontrollo se non gli staccava qualche dito con un morso.
- Devo andare. Devo prepararmi per il viaggio. Ma prima...mi lasci fare una cosa? Tanto credo che non ci vedremo mai più.
La ragazza continuava a tacere, fissandolo ai limiti del nervosismo. Aidan doveva essere della scuola del “chi tace, acconsente”. Prese l’iniziativa e fece quello che aveva intenzione di fare: si chinò e la baciò sulle labbra.
Alice spalancò gli occhi, sbalordita. Stava per dargli un pugno e fare il bis della sera prima, poi ci ripensò. Sarebbe stata la prima e ultima volta, in tutti i sensi. Poteva sopportare. Poteva lasciar correre. Richiuse gli occhi e aspettò che finisse, immobile.
Non fu il bacio migliore che avesse mai ricevuto, ma nemmeno il più spiacevole. Fu intenso e caldo e se avesse saputo che Shadow stava facendo la stessa cosa in quel momento, probabilmente Alice gli avrebbe detto che lei era più fortunata. Fra Sonic e lo sbandato che aveva davanti, messa alle strette,avrebbe scelto lo sbandato.
Aidan le infilò un mano sotto maglione e maglietta, appoggiandogliela sul seno. – Non andrò più avanti – le sussurrò, prima di baciarla di nuovo. – Lo so che non sono il suo tipo.
La lasciò andare dopo quello che a lei parve un secolo, e a lui un secondo. Alice sprofondò le mani nelle tasche, mentre il lupo alzava la testa e sospirava. – Wow. Desideravo farlo da mesi.
Tornò a guardarla. – Promettimi che non partirai appena Tikal ti darà le spalle.
- Neanche per sogno.
- Alice. Per favore. Guarda che ti bacio di nuovo se non me lo prometti.
- ...okay, d’accordo. Prometto.
- Okay. Ora posso stare tranquillo. A meno che tu non abbia le dita incrociate, lì in quelle tasche. – Aidan rise, un riso spezzato. Alice tirò fuori la mano destra e gli diede un pugno sulla spalla con tutte le sue forze. Sentiva che qualche lacrima stava iniziando a bruciarle negli occhi e non andava bene. Non andava bene proprio un cazzo.
Il ragazzo rise più forte, ritraendosi. – Mi mancherai un sacco, capo. Davvero. – Si passò una mano fra i capelli, come indeciso, poi si girò di scatto. – Addio, Alice.
E si allontanò in fretta, quasi avesse paura di cambiare idea se fosse andato troppo piano. Alice restò dov’era, in mezzo al marciapiede, a guardarlo andarsene finché non fu scomparso in mezzo al buio, i denti stretti e gli occhi umidi. Poi tirò fuori l’altra mano dalla tasca.
Indice e medio erano ancora incrociati.
 
Incredibile dictu, ho scritto il capitolo in una settimana. Io. Che a volte impiego mesi per metter giù due paragrafi. Lo so. E' un miracolo. Un altro, visto che questa storia sembra fare miriadi di miracoli, ultimamente.
Va beh, è corto. So anche questo. E probabilmente dopo questo ci sarà una lunga pausa. Perché...Perché inizia la scuola. E perché devo ancora ragionare bene cosa succederà dopo tutte le partenze. Siamo a un punto cruciale. In tutti i sensi. Perciò se ci metto un po' di più....chiedo venia.
Ragazzi, non so che dire. Non ho idea di come sia uscito questo capitolo, ma volevate tutti lo yaoi, quasi più di me. Bene. ECCO LO YAOI. Come dice una mia amica, "Nel mulino che vorrei, pace amore e sesso gay". Tutti contenti? Spero di sì.Anche perché tutto il mondo voleva sapere cosa facesse Shadow prima di arrivare a Metal city, e finalmente è venuto fuori. Alleluia.
Al nostro prossimo incontro,
^RO
 

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Capitolo 18
*** Lies ***


Secondo quello che erano riusciti a tirare fuori dai quaderni di Wave, il luogo dove sarebbero dovuti andare era nell’ovest dell’Ohio, verso sud-ovest rispetto a Metal City. Il piano era di partire ognuno da un punto diverso della città, per non attirare l’attenzione su tutti e quattro in una volta sola, e poi di proseguire a piedi, sempre per ragioni di sicurezza.
Aster prese una moto abbandonata non appena fu abbastanza lontano dalla città.
Non gli importava di venire scoperto. Se quel bastardo avesse voluto ucciderlo, aveva solo da venire a prenderlo. Non aspettava altro. Chiunque fosse, avrebbe fatto in modo di spaccargli la testa per bene prima di morire.
E comunque, non gli importava più di tirare le cuoia. L’epidemia aveva preso la sua famiglia, e l’uomo bianco la donna che amava e il loro bambino. Non gli era rimasto niente. Non c’era più spazio per la paura di morire, solo per la vendetta. Avrebbe ammazzato chiunque gli si fosse parato davanti e se alla fine di tutto, per caso, fosse rimasto ancora vivo, probabilmente si sarebbe sparato un colpo alla tempia.
Ora che era in strada, non riusciva a pensare ad altro che alla destinazione. Viaggiava senza praticamente fermarsi finché c’era luce, e a volte anche di notte. In ogni caso non riusciva a dormire per più di un paio d’ore, diviso fra ricordi e incubi che spesso si mescolavano. Era un’ossessione, e non avrebbe avuto pace finché non avesse avuto quel che voleva.
Non incontrò nessuno. Nessun profugo dell’epidemia, o tizio equivoco. Se il caro amico aveva messo delle guardie intorno al suo territorio, lui non ne aveva trovata neanche una.
Per questi motivi arrivò alla base dell’uomo bianco molto prima di tutti gli altri. E base era veramente il termine adatto. Sembrava davvero il rifugio segreto di qualche cattivo da film.
Era un enorme edificio bianco. Intonato al suo capo, pensò cinicamente Aster. Non c’era possibilità di sbagliarsi, doveva essere quello per forza. Quale altro posto, in una situazione del genere, avrebbe potuto avere dei guardiani armati davanti all’ingresso?
Dunque era quello, il posto. Un gigantesco blocco bianco con poche finestre e un recinto di filo spinato e un’insegna maledettamente grande con scritto “Laboratori di ricerca Finitevus”. Carino. Chissà quali schifezze succedevano lì dentro.
Beh, stava per scoprirlo.
Lasciò la moto a un paio di centinaia di metri dall’edificio, nascosta dietro un cespuglio, e si avviò verso quella che pareva essere l’entrata, un apertura nel filo spinato presieduta da due tizi armati. Avvicinandosi (con le mani in tasca e l’espressione più neutra che potesse mettersi sulla faccia) notò che dietro il grande parallelepipedo bianco si potevano vedere decine di costruzioni più piccole. Case? Possibile.
Quando fu a una ventina di metri dalla recinzione, i due guardiani lo notarono e imbracciarono i fucili. Mentre si avvicinava, Aster li osservò meglio. Non erano soldati, non indossavano un’uniforme. Uno, un rapace, era in jeans, l’altro, una pantera, indossava una tuta da ginnastica ed era giovanissimo. Non poteva avere più di sedici anni.
“Se ha già la patente mi mangio le chiavi della sua macchina” pensò Aster, e questo pensiero fu abbastanza per farlo sogghignare mentre si fermava davanti ai due.
- Altolà – intimò il più anziano, puntandogli il fucile alla testa.
- E chi si muove. – Il gatto alzò le mani, senza smettere di sorridere. “Dunque ci siamo”.
Il ragazzo estrasse un walkie-talkie dalla tasca. – Crowley? E’ arrivato. Corrisponde alla descrizione.
- Ben fatto, ragazze – rispose una voce di uomo vagamente leziosa. Aster drizzò immediatamente le orecchie. Era quello il fantomatico uomo bianco? Lo chiamavano Crowley? Ma che cazzo di nome era Crowley?
- Cosa ne facciamo?
- Portatelo in cella. Il capo è impegnato al momento. – Quindi forse questo Crowley non era il tizio da incubo.
- D’accordo. – La pantera si rimise la trasmittente in tasca e tirò fuori un paio di manette. – Andiamo, biondino. Voltati.
Aster ubbidì. “E qui finisce la speranza di passare inosservato” pensò.
Non che ci avesse mai creduto davvero.

L’interno dell’edificio era un labirinto di corridoi, tutti affollati di gente. Tutti lo guardavano passare con aria alterata, come se sapessero che non era uno di loro. Beh, probabilmente lo sapevano. Non aveva una faccia di bronzo così impenetrabile.
Le due guardie lo portarono giù per innumerevoli rampe di scale, fino a una fila di celle bianche come il resto della costruzione. Lo chiusero in una di esse e lo lasciarono lì, per ore e ore. Non era sicuro di quante. Non aveva modo di calcolare quanto tempo fosse trascorso.
Lo lasciarono a cuocere nel suo brodo abbastanza a lungo da dargli modo di riflettere. Okay, l’uomo bianco sapeva che sarebbe arrivato,questo era pacifico. Questa idea non lo spaventava nemmeno più di tanto. Sapeva di essere andato a sfidare qualche razza di entità soprannaturale.
No, la cosa che lo lasciava più perplesso in assoluto era il fatto che non lo avessero ammazzato subito. Un accampamento (perché quello gli era sembrato quella costruzione. Somigliava, ovviamente in una versione più moderna, alle immagini di accampamenti romani che aveva avuto sui libri di storia, pieno di gente affaccendata, recintato e sorvegliato) che lasciava vivo un infiltrato aveva davvero una pessima politica.
A meno che non volessero estorcergli delle informazioni. Magari volevano farsi dire se a Metal city avessero delle armi superpotenti, o se stesse arrivando un’orda di combattenti armati. Beh, sarebbero rimasti delusi. La loro orda consisteva in quattro imbecilli che presto sarebbero diventati tre e quanto alle armi...Il massimo di tecnologia in loro possesso era saltato in aria. E se speravano di spaventarlo minacciando di torturarlo o ucciderlo....erano cascati male. Seriamente. Non avevano modo di farlo soffrire più di quanto avessero già fatto.
E poi, che deficienti erano stati. Non lo avevano nemmeno perquisito. Era ancora armato. Volendo avrebbe potuto suicidarsi in ogni momento.
Questo era il tono dei suoi pensieri e non variò minimamente per tutto il tempo in cui rimase chiuso in cella. Aveva ancora il volto di Amy impresso a fuoco nella mente ed era quello che doveva ricordare. Se si fosse ricordato di lei, la sua rabbia sarebbe rimasta accesa e lui avrebbe saputo cosa fare. Non voleva suicidarsi...per ora. Ma non avrebbe esitato a uccidere nessuno. Men che meno l’uomo bianco.
Era ancora risoluto ad approfittare della prima occasione disponibile quando due uomini (non gli stessi che lo avevano fermato all’entrata, ma sempre armati di fucili e di chissà quanta altra roba) vennero a prenderlo, ma la sua faccia non avrebbe potuto essere più impassibile. Non lasciava trasparire alcuna emozione. Una vera faccia da poker.
Lo trascinarono per un’altra miriade di scale e corridoi sempre meno affollati e finalmente arrivarono in quella che sembrava essere un’anticamera, con le pareti bianche come tutto il resto della costruzione e un’unica scrivania, vuota.
Su un lato si apriva una porta. Uno dei suoi accompagnatori la aprì e lo spinse dentro con malgarbo.
- Non venite anche voi? – Chiese Aster in tono sardonico. – Avete paura?
Entrambi tacquero e la porta gli sbatté violentemente davanti al naso.
- Benvenuto, Aster. – Disse una voce melliflua alle sue spalle. Il gatto si girò, preparandosi mentalmente. “Ci siamo”.
Davanti a lui stava un echidna. Non sembrava nulla di particolare. Era bianco, okay. Ma non aveva nulla di eccessivamente strano. Anche se era vestito un po’ all’antica, con alti stivali e mantello, e aveva la testa tatuata con simboli incomprensibili. Gli occhi erano viola chiaro, e l’echidna sorrideva in modo benevolo.
- Benvenuto – ripetè. – Spero che i miei aiutanti non ti abbiano trattato troppo male.
Aster non riusciva a smettere di guardarlo. – Tu chi sei?
- Ma come, credevo che lo sapessi già. Sei venuto qui per questo, no? – Il sorriso parve allargarsi. – Il mio nome è Richard Finitevus, o almeno è così che mi chiamano qui. Sono stato chiamato in molti modi.
Non era possibile che fosse lui l’uomo bianco. Sembrava così....normale. E innocuo. Non pareva credibile che una persona dall’aria così pacifica ordinasse un omicidio di massa.
Eppure non poteva essere che lui. Aster raddrizzò le spalle. – Cercavo giusto te.
- Bene, ti aspettavo. Ma tu non ti aspettavi me, vero? Pensavi che fossi molto diverso, no?
Come cazzo faceva? Gli leggeva nella mente? – Un po’. Forse più alto.
La battuta parve divertirlo. Fu allora che Aster notò gli occhi. Tutto il suo volto sembrava mostrare una grande allegria, ma gli occhi...Gli occhi erano freddi e impassibili.
Si costrinse a concentrarsi mentre l’altro riprendeva a parlare. – Sono certo che molto di quello che ti è stato detto ti abbia dato una pessima impressione di me. Le malelingue sono ovunque, ma sono false. Ho chiesto ai miei...amici...di portarti qui per dimostrartelo. Vieni, sediamoci.
Quella stanza era poco più arredata di quella precedente, con una scrivania e alcune sedie davanti a un’ampia finestra. Fu lì che si diresse Finitevus, che poi si voltò verso di lui. – Non vuoi sederti, Aster?
- Preferisco stare in piedi. – Il gatto si sentiva destabilizzato. Non riusciva a concentrarsi. Era, nonostante tutto, ammaliato da quel tizio che si trovava davanti.
- Okay, allora starò in piedi anch’io. – Si appoggiò alla scrivania con fare noncurante. – Come una chiacchierata tra amici, no?
- Tu non sei mio amico.
- Dici? E’ un gran peccato, perché non vedo quale sia il tuo problema con me. Dopotutto non mi sembra di averti fatto niente di male...no?
- Cosa? – Aster aveva la bocca impastata. Lui aveva ammazzato...fatto ammazzare...tutta quella gente a Metal city. Ma ne era così sicuro? Aveva un’aria terribilmente innocente. – Stai mentendo.
- E perché mai dovrei mentirti? Ascoltami, perché avrei dovuto fare qualcosa di male a te o ai tuoi amici? Ero qui a uno stato di distanza. Sai, magari avrebbero potuto anche mentirti. Qualunque cosa sia successa là da dove vieni tu...io non c’ero. Quindi deve averla fatta qualcun altro. Magari proprio quelli che ti hanno mandato qui.
Quel che stava dicendo non aveva alcun senso. O sì? Aster aveva la testa confusa. Il sorriso di quel tizio era troppo convincente per essere fasullo. E il tono, anche. Doveva stargli dicendo la verità.
Però...però cosa? Non se lo ricordava più. – Tu credi?
- Non credo, ne sono sicuro. Io sono innocente. Ti hanno raccontato molte cose su di me e sono tutte fasulle. Io sono una brava persona. E per dimostrartelo ti lascerò andare. Potrai tornare dai tuoi amici...se amici puoi chiamarli, contando che quello che è successo a Metal city dev’essere stato colpa loro...e raccontare loro la verità. Dirai loro che qui non ti è stato fatto alcun male, e che ti hanno spiegato come stavano le cose. E magari terrai più d’occhio le persone che consideravi così affidabili...dico bene?
Aster annuì. – Molto bene. Ma, capisci, i favori vanno ricambiati. Io ti do una cosa e tu me ne dai un’altra in cambio. Giusto?
Il giovane annuì di nuovo. Era perfettamente logico. – Giusto.
- Allora prima che tu vada,vorrei che mi dicessi se sta arrivando qualcun altro a cercare di fare quel che volevi fare tu. Qualunque cosa fosse, togliermi di mezzo, interrogarmi...unirsi a me...non lo so. Ho molte cose da fare, non posso permettermi di andare a controllare ogni strada.
C’era qualcosa di strano in quella frase, qualcosa che lo solleticava, ma non ci badò. L’influenza dell’echidna era ancora troppo forte. Sorrise divertito, un sorriso un po’ ebete. – Ma credevo che tu sapessi tutto. Se ci fosse qualcuno in arrivo, tu lo vedresti....no?
- E chi te lo ha detto? I bambini? Sai come sono i bambini, hanno queste idee da film...Sono persi nella loro fantasia. – Finitevus sorrise a sua volta. – Non so molte cose. Sapevo del tuo arrivo perché ero stato avvertito. E tu potresti avvertirmi dell’arrivo di altri, così potrei accoglierli e spiegare loro come stanno le cose come sto facendo con te. Comprendi?
- Ecco...- Aster non riuscì ad aggiungere altro, perché la porta sbatté dietro di loro ed entrambi si voltarono a guardare.
Sulla soglia stava Wave. Ma non era la stessa Wave che era stata vista l’ultima volta a Metal city. Persino Tikal si sarebbe spaventata nel vederla.
Aveva un’aria dimessa e poco curata. Non indossava altro che una camicia da notte ed aveva i capelli raccolti alla rinfusa, con ciocche che spuntavano da tutte le parti. Ma i suoi occhi erano il particolare più spaventoso. Sembrava che qualunque luce vi fosse mai stata fosse scomparsa, lasciando solo tracce opache. Erano vacui e parevano guardare senza vedere. Erano gli occhi di una donna che aveva perso la ragione.
Finitevus parve stizzito da quell’apparizione, ma solo per un attimo. Poi riprese l’aspetto rilassato di prima. Si avvicinò alla rondine, la prese per mano e la condusse come una bambina fino a una delle sedie, spingendola a sedersi. – Aster, questa è mia moglie, Wave. Anche se forse vi siete già incontrati. Perdonala, è...come dire....in stato interessante, e questa gravidanza la sta stancando molto.
Ma Aster non ascoltava. Rapidamente, si pizzicò l’interno del braccio. Il dolore pungente lo risvegliò del tutto, liberandolo dallo stato di semi ipnosi in cui lo aveva tratto l’uomo bianco, e ricordò due cose.
La prima era la sua rabbia. Vedere Wave gli aveva fatto tornare in mente tutto. Amy. Il bambino. La sete di vendetta, contro di lei e contro quel bastardo che si proclamava suo sposo.
La seconda era il motivo per cui si era sentito stranito dall’idea che l’uomo bianco (ora era certo che fosse lui) non sapesse dell’arrivo dei suoi tre compari. Ora lo capiva. L’echidna gli ricordava suo padre.
Aster Senior era stato una piaga per il figlio, in molti sensi, ma diventava veramente fastidioso quando si impadroniva del telecomando del televisore. Aveva stressato tutti finché non aveva potuto pagare la tv via cavo per accedere a tutti i canali disponibili e, quando finalmente aveva avuto migliaia di programmi a disposizione, non riusciva mai a trovare nulla da guardare. Faceva zapping a una tale velocità da non fare nemmeno in tempo a vedere cosa ci fosse sui singoli canali, e spesso e volentieri si perdeva moltissimi programmi che avrebbe potuto gradire.
L’uomo bianco faceva la stessa cosa. Stava monitorando talmente tante cose insieme da perdersi le singole persone.
Se lui gli avesse rivelato che stava arrivando gente, Finitevus avrebbe iniziato a cercarli con precisione.
Era un vantaggio che non gli avrebbe mai dato.
Si piegò verso di lui, con un sorriso due volte più largo. – Ma tu dovresti sapere tutto. Sei onniveggente, no? Però non sei furbo.
Per un attimo l’istinto cercò di fargli fare un passo indietro. Per un breve secondo gli occhi dell’uomo erano diventati gialli, e il bianco che li circondava, nero. Erano terrificanti. Ma il momento passò, Finitevus sospirò come seccato e si allungò verso l’interfono sulla scrivania, premendo un bottone. – Mandatemi Crowley appena torna. Deve portare via alcune cose. – Poi tornò a guardare Aster, continuando con lo stesso tono pacifico di prima,quello di uno scambio di confidenze. – Crowley è il mio braccio destro. Molto efficiente a dirla tutta. Ha qualche problema a mantenere la linea, ma....
Mentre lui parlava, Aster aveva estratto la pistola che aveva infilato nella cintura dei pantaloni e gliel’aveva puntata contro. Solo che non era più una pistola. Era diventata una banana. Il grilletto che cercava di premere non esisteva più. Il gatto la guardò allibito. Cosa era successo? Gliel’aveva...trasformata in mano?
L’uomo bianco ridacchiò. – Sei un bambino molto cattivo,Aster. Non dovresti far arrabbiare i grandi che vogliono aiutarti.
Aster era incredulo. Che razza di essere era quello? Preveggenza, trasformazioni...Dio,che disastro.
Ma insieme all’incredulità stava crescendo una furia cieca. Senza pensare gettò via la banana e si scagliò contro l’echidna, sfoderando gli artigli. Bestia soprannaturale o no, gli avrebbe strappato via la carne in ogni caso.
Non riuscì neanche a toccarlo. Si sentì spingere via da qualcosa come uno spostamento d’aria. Volò lontano e sbatté contro il muro. Intontito, alzò lo sguardo e vide l’uomo bianco.
Non c’era più nulla di normale in lui. Gli occhi erano di nuovo gialli, annegati nel nero, freddi e spietati, i denti scoperti in un ringhio. Gli puntava una mano contro. Non c’era dubbio che lo avesse scagliato via solo agitandola, come scacciando una mosca.
La rabbia si fuse con la paura. Non aveva speranze. Tuttavia si alzò, ancora barcollante, e tentò di nuovo di lanciarsi contro di lui. Fu di nuovo lanciato via, stavolta atterrando contro la scrivania.
Sentiva le orecchie fischiare, ma in sottofondo anche una donna che urlava. Era un’allucinazione? O Wave? Non riusciva a capirlo. Si tirò di nuovo in piedi,a fatica, appoggiandosi pesantemente al tavolo.
Finitevus non si era mosso, ma ora sorrideva. – Adesso vedremo se sta arrivando qualche furbo come te.
E a quel punto Aster capì cosa sarebbe successo. Gli avrebbe detto tutto. Non avrebbe potuto farne a meno . Con qualunque potere quel tizio avesse, lo avrebbe costretto. Gli avrebbe tirato fuori tutto e poi lo avrebbe ucciso in qualche modo orribile.
A meno che...
Accadde in un attimo. Non avrebbe avuto una seconda possibilità, e la velocità era fondamentale. Si lanciò verso la finestra, in uno slancio di energia dovuto solo all’adrenalina. L’uomo bianco si buttò verso di lui, ma troppo tardi. Riuscì solo a sfiorargli la giacca mentre Aster infrangeva il vetro.
Non morì subito. In quel breve lasso di tempo, mentre cadeva, riuscì a rendersi conto di cosa stava accadendo, e sorrise. Finalmente. Aveva fatto quel che doveva fare. Poi atterrò di schianto sul cemento sottostante, e ogni suo pensiero si spense.
Una quindicina di metri più in alto, mentre cominciava ad accorrere gente, l’uomo bianco ruggì la sua rabbia.

Al tramonto, l’uomo che si era presentato come Richard Finitevus era ancora in quella stanza.
Sedeva a terra, in mezzo ai frammenti di vetro, incurante dei loro bordi affilati. Tanto non lo avrebbero mai potuto tagliare.
Erano passate ore da quando quel gatto insolente aveva fatto il suo numero. Lo aveva colto di sorpresa, doveva ammetterlo. E lui non era tipo da farsi sorprendere facilmente.
Era solo. Quando Crowley era arrivato, non aveva trovato un corpo morto da distruggere come si era aspettato. Solo Wave che strillava come se la stessero sgozzando e un capo fuori di sé dalla rabbia.
- Portala via di qui!- Aveva urlato, e Crowley si era affrettato a farlo, nonostante detestasse Wave. A nessuno piaceva vederlo arrabbiato, e in quel momento lui era furibondo. Probabilmente poi quel grasso ed inutile uomo che era il suo assistente doveva aver mandato alcuni uomini dei più fidati a portare via il corpo dalla strada e a pulire il sangue.Dunque era solo, se tutti quegli stupidi avevano avuto la buona idea di andarsene da quella stanza e da quelle circostanti. Non sarebbero tornati, per non rischiare, fino a che non fosse andato a cercarli lui.
Sarebbe accaduto presto. Quel gran bastardo di Aster era stato furbo, già. Non gli aveva detto nulla. Ma non era importante. Ora era quasi certo che qualcuno sarebbe arrivato. Altrimenti non si sarebbe dato tanta pena per nasconderlo. Lui doveva solo...concentrarsi su Metal city. E sulle strade che la collegavano a dove si trovava ora. Li avrebbe trovati. Avrebbe risolto tutto. Nessuno lo avrebbe più preso in contropiede.
Avrebbe vinto lui.
Solo, seduto sui vetri ancora sporchi del sangue di Aster, l’uomo bianco iniziò a ridere.

I'm back bitches≈
Ebbene sì, sono tornata e farò in modo di non lasciar più passare così tanto tempo. Anche perché adesso so cosa fare del resto della storia. Incredibile, lo so.
Eeeeeee so anche che questo capitolo pone molte domande. Avrete delle risposte...prima o poi. Intanto godetevi l'arrivo del caro Uomo Bianco (che sì, lo so che in teoria nei fumetti si chiama solo Finitevus. Ma nei libri di Stephen King l'uomo nero ha come costanti le iniziali R. F. Perciò,avendo già la F.....ho improvvisato) e del suo baldo assistente Crowley. Li conoscerete meglio più avanti. Oh, ed è anche tornata Wave!Mancava a qualcuno?
A me no. Meh.
Comunque, spero che questo disastro sia piaciuto a qualcuno a parte eritrophobia che mi stressa da settimane per avere qualcosa di nuovo e che recensiate. A presto!
^Ro


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Capitolo 19
*** Black and white ***


(AVVERTENZA: in questo capitolo ci sono alcune scene non esattamente piacevoli. Ho cercato di restare fedele al rating in cui mi trovo, ma se per caso ne fossi uscita...avvertitemi  e io cercherò di sistemare le cose. Buona lettura!)


Mentre Aster terminava il suo viaggio atterrando su un marciapiede di cemento, i suoi compagni camminavano a parecchi chilometri di distanza. A differenza del gatto, gli altri tre avevano seguito il piano originario e continuavano a proseguire a piedi.
Shadow era più avanti degli altri. Si muoveva più in fretta, per un semplice motivo: quel viaggio gli ricordava troppo quello che lo aveva portato a Metal city, con la differenza che adesso sapeva dove avrebbe dovuto fermarsi. Ed era abbastanza sicuro che non avrebbe avuto un’accoglienza pacifica, laggiù. Comunque, la somiglianza era abbastanza da farlo accelerare. Voleva che quel pellegrinaggio surreale finisse, in un modo o nell’altro.
Si sentiva abbastanza tranquillo, dopotutto. Aveva accettato quello che sarebbe successo. Non c’era nessuna voce a tormentarlo. Il suo unico obiettivo, come era stato quello di Aster, era di cercare di ferire l’uomo bianco il più possibile prima di crepare.
Non ebbe nessun presentimento quando il giovane morì, né, se per questo, lo ebbero gli altri. L’uomo bianco li aveva persi dal momento in cui erano usciti da Metal city . Non riusciva a concentrarsi sulle loro menti, per ora, perciò non avvertivano nulla. I bambini, al contrario, sì. La notte successiva all’omicidio ci fu più di un piccolo che si svegliò urlando, assalito da immagini troppo aggressive.
Ma loro erano troppo lontani. Shadow mantenne la mente sgombra per tutta la giornata e dormì profondamente,anche se per poco. Il giorno dopo ripartì come se niente fosse accaduto. Tutto era tranquillo.
Per il momento.
 
Lo stesso non si poteva dire della situazione ai “laboratori Finitevus”.
La tensione era quasi palpabile. Nessuno voleva vedere il capo quando era arrabbiato, e quella spia che era volata giù dal blocco principale lo aveva fatto infuriare ben bene. Certo, i pochi che lo avevano visto il giorno dopo avevano riferito che sembrava piuttosto pacifico, ma poi era sparito per uno dei suoi viaggi, e nessuno aveva potuto accertarsene. E poi Crowley era nervoso quanto tutti gli altri. E Crowley, in quanto braccio destro dell’uomo bianco, era un termometro quasi infallibile dei suoi umori.
Eppure nessuno pensava ad andarsene. La fede in Finitevus in quasi tutti rasentava il fanatismo. Non se ne sarebbero mai andati.
Prima dell’epidemia i laboratori erano sconosciuti alla maggior parte di loro. Vi lavorava una ristretta cerchia di studiosi biochimici che, sotto la copertura da ricercatori, avevano studiato e testato malattie infettive per anni. Sembrava che nessun burocrate avesse notificato la costruzione dell’edificio centrale e della piccola città sorta dietro. Una città pressoché disabitata, fra l’altro, ma che dopo la diffusione del morbo aveva iniziato a popolarsi pian piano.
I superstiti avevano cominciato a dirigersi verso quel luogo quasi per istinto. Coloro che il Bianco aveva ritenuto DEGNI fra i superstiti, ovviamente. E poi avevano iniziato a sognarlo, prima di quelli che poi sarebbero migrati verso Metal city. Nei loro sogni, Finitevus appariva sotto un’ottima luce, come un salvatore che avrebbe riorganizzato quel caos. E tutti gli avevano creduto.
E come non credergli? Con loro era stato sempre generoso. La loro città aveva luce, calore e acqua corrente. Allevavano animali e avevano campi coltivati che fornivano loro cibi freschi. Sapevano che c’erano dei ribelli che non avevano ricevuto la “chiamata”, ma non si preoccupavano. Il loro capo avrebbe gestito tutto. Se loro avessero provato a danneggiarli, il capo avrebbe pensato a punirli. Molto semplice.
Soprattutto, erano armati.
Un dettaglio che a molti era sfuggito era la grande presenza di tecnici specializzati nelle varie materie. Oh, certo, Metal city ne aveva alcuni, ma quel luogo (non avevano ancora trovato un nome per la città, nonostante i mesi passati) ne aveva tre volte tanti. Come minimo. I migliori medici sopravvissuti, i costruttori. I fabbricanti d’armi.
Erano armati oltre ogni possibile immaginazione. Se i loro avversari lo avessero saputo, avrebbero perso ogni speranza. Da armi manuali di ogni calibro ad aerei militari, non mancava nulla.
Erano pronti a conquistare chiunque avesse cercato di ostacolare il Bianco...o a distruggerli. Erano sicuri di avere pieno controllo della propria situazione.
Ma ne sapevano molto poco.
L’errore comune, fra gli abitanti della città, era quello di credere che Finitevus, a parte alcuni poteri extra (come la capacità di entrare nei sogni, che loro avevano accettato con innaturale tranquillità), fosse fondamentalmente un echidna normale. Una sorta di mago.
Era anche il modo esatto in cui lui voleva che lo vedessero.
Perché lui non era,in nessun modo,normale.
Aveva camminato in quel mondo, e in molti altri, prima che tutti loro venissero alla luce. Era antico oltre l’immaginabile. Il suo aspetto era una maschera perfetta per mimetizzarsi fra i normali esseri viventi. Ma appunto, non era reale. Sotto di esso vi era qualcosa di oscuro, e tutto fuorché naturale.
Ma questo i suoi attuali concittadini, così come coloro che li avevano preceduti, non potevano saperlo. Anche se alcuni avevano un sospetto. Era poco più di una sensazione, una sorta di disagio che avvertivano quando vedevano il Bianco anche da lontano. Di solito lo scacciavano come un pensiero intrusivo. E chi sentiva il sospetto crescere...beh, ogni tanto qualcuno spariva semplicemente. Oppure veniva giustiziato davanti all’intera popolazione, per “crimini contro il governo”. E nessuno indagava più a fondo. Ogni cosa accadeva secondo gli ordini dell’Uomo Bianco. Era lui a dettar legge. Chi gli obbediva veniva premiato. E se a qualcuno succedeva qualcosa di brutto voleva dire che se lo era meritato.
In sostanza, chiunque avesse definito i seguaci di Finitevus degli estremisti religiosi, non avrebbe sbagliato poi di tanto.
 
Wave ne era un chiaro esempio.
Quando l’uomo bianco le aveva parlato, le aveva raccontato molto di più di quanto avesse fatto al resto dei suoi “eletti”. Le aveva mostrato un futuro dove lui avrebbe regnato incontrastato e lei sarebbe stata la sua compagna, se la rondine avesse fatto ciò che lui chiedeva. L’aveva attratta a sé e lei lo aveva seguito, eseguendo tutti i suoi ordini, con la speranza di poterlo chiamare suo “sposo”.
Non era rimasta delusa. Non proprio. Non ne aveva avuto il tempo.
Mentre a Metal city regnava ancora il caos, Wave era già in strada, in sella a una motocicletta. Aveva viaggiato per un giorno intero prima di incrociare Finitevus, che le era venuto incontro per portare a termine il suo piano fuori dalla sua città.
Perché se c’era una cosa che Wave aveva in comune con le altre persone che lui aveva raccolto, era che conosceva solo una parte di ciò che le sarebbe successo. Per l’esattezza, le mancava la parte dove l’uomo bianco l’avrebbe presa con la forza.
Il fatto era questo: il Bianco era una creatura sovrannaturale, di un genere che nessuno avrebbe saputo descrivere sulla Terra (anche perché nessuno lo aveva mai visto nella sua vera forma), e aveva visto passare secoli sotto i suoi occhi. Ma poteva morire. C’era una minuscola, infinitesimale possibilità che potesse morire. Oh, naturalmente era quasi impossibile che si venisse mai a trovare davanti un essere dalla forza pari alla sua, ma se mai fosse capitato, non avrebbe voluto andarsene lasciando quel pianeta nel caos. Non ora che i tempi erano maturi e lui stava prendendo il potere.
Perciò gli serviva un erede. E per avere un erede, gli serviva una donna che potesse ospitarlo nel suo grembo.
Non era stato facile trovarne una adatta. Doveva essere vergine, perché il suo corpo fosse puro e non contaminato. Ma d’altro canto non poteva essere una ragazzina, troppo acerba per un compito così fondamentale. Infine, era necessario che fosse capace abbastanza per poter obbedire ai suoi ordini. Wave era perfetta, secondo queste necessità. Per questo l’aveva contattata.
E per questo l’aveva attesa lungo la strada, paziente. Le aveva sorriso. L’aveva accolta. - Wave, Wave, oh, mia Wave.
Poi l’aveva fatta sdraiare a terra con la forza. Lei si era opposta, cercando di respingerlo, ma naturalmente era troppo debole contro di lui. Bastava un suo tocco per bloccarla contro il terreno. Le aveva strappato di dosso i vestiti e anche se la donna aveva chiuso le gambe, era stato necessario soltanto sfiorarle perché si aprissero come il Mar Rosso davanti a Mosé.
Lei aveva urlato, vedendo cosa la aspettava nei pantaloni dell’uomo. Ma non poteva sfuggirgli. E l’uomo bianco l’aveva presa beandosi dei suoi urli come di un toccasana, uscendo da lei solo quando era stato sicuro che la rondine avesse concepito. Non aveva calcolato che l’esperienza potesse essere talmente scioccante da farle perdere la ragione,ma non ne era rimasto stupito. Dopotutto lui era quello che era. Era comprensibile che un atto d’amore con un personaggio del genere potesse essere tanto doloroso da farla impazzire. E poi non era un grosso problema. Nello stato catatonico in cui era finita, non si sarebbe cacciata nei guai e avrebbe protetto suo figlio come una perfetta incubatrice. Poi, una volta terminata la gravidanza, non sarebbe stato difficile liberarsi di lei.
Perciò l’aveva condotta alla sua città come una bambina e ora la lasciava vagare per l’edificio centrale nel modo in cui la guidava il suo cervello disastrato, con uno dei suoi adepti alle calcagna perché non le accadesse nulla. La trattava con gentilezza,e così avrebbe continuato a fare...per un po’.
Finché gli fosse stata ancora utile.
 
C’era un motivo se Finitevus aveva lasciato la città. Lo faceva spesso, per seguire certe piste oscure che i suoi abitanti non volevano neanche immaginare. Tornando da una di esse aveva riportato con sé Crowley, che a volte dava un’impressione quasi più sinistra della sua. Perciò nessuno voleva indagare.
Ma stavolta era partito per sistemare le spie in arrivo.
La sua immagine era stata danneggiata da quel ragazzo volato giù dalla finestra, ma ora che era certo che altri come lui stessero arrivando, li avrebbe usati per restaurarla. E quando ritornò ai laboratori, dopo nemmeno due giorni, aveva organizzato ogni cosa. Ognuno di loro avrebbe avuto un assaggio del suo potere in modo diverso, ma tutti si sarebbero pentiti di averlo sfidato.
 
Shadow si fermò a osservare con occhio critico il macello che aveva davanti.
Era in viaggio ormai da giorni. Secondo i suoi calcoli non doveva mancare più molto alla destinazione. Non aveva ancora incontrato anima viva, ma riflettendoci ora non gli sembrava più così strano. Era ancora autunno, ma faceva già freddo. Nessuno si sarebbe messo in viaggio in quel periodo, a meno di non avere necessità impellenti o  di non essersi imbarcati in una missione suicida. Avrebbero aspettato che fosse passato l’inverno.
Questo era un bene. Non sapeva come avrebbe reagito nel vedere altre persone. Le avrebbe evitate in ogni caso. Ma era anche un guaio, perché ora avrebbe dovuto spostare da solo il caos di macchine che ingombrava la strada che stava percorrendo.
Era stata una visione normale per tutto il periodo post epidemia. La gente, terrorizzata dal morbo, fuggiva dalle città per sfuggire al contagio, e potevano accadere solo due cose: o creavano ingorghi tali da bloccare un’intera autostrada e dove proseguire a piedi, o morivano durante il viaggio, contagiati a prescindere.
Qui doveva essersi trattato del primo caso, perché i posti dietro al volante sembravano tutti vuoti. Comunque non era importante sapere cosa fosse successo. Il problema fondamentale era come proseguire oltre quel blocco impenetrabile.
Il riccio nero valutò attentamente la situazione. Poteva tornare indietro e cercare un’altra strada, ma così facendo avrebbe impiegato molto più tempo, rischiando anche di incrociare qualcuno degli altri. Poteva arrampicarsi sulle vetture abbandonate, ma era un grosso rischio, visto che potevano cedere sotto i suoi piedi. Oppure poteva cercare di aggirarle.  Era su una strada collinare, il che voleva dire un pendio in discesa a destra e un muro a sinistra. Il declivio era di terreno sassoso, ma  non aveva una grande pendenza. Con un po’ di attenzione sarebbe riuscito a girare intorno alle automobili e a tornare sulla strada senza problemi.
Naturalmente non aveva calcolato gli interventi esterni.
Cominciò l’attraversamento con cautela, cercando di non perdere l’equilibrio. Riuscì ad arrivare più o meno a metà del percorso e stava iniziando a pensare di avercela quasi fatta, quando un uccellaccio nero gli sfrecciò davanti agli occhi all’improvviso, facendolo trasalire e sbilanciare.
Cadde all’indietro e iniziò a scivolare, acquistando sempre più velocità e cercando invano di trattenersi. Provò a girarsi per non sbattere la testa, ma fu peggio. Urtò a tutta velocità con un ginocchio contro un sasso più grande degli altri,e fu sbalzato in avanti con uno schiocco secco,atterrando  sulla stessa gamba. Urlò per il dolore, ma la discesa non era ancora finita.
Finì la sua corsa qualche metro più giù, di schiena. Lo zaino attutì l’urto, ma si sentì lo stesso mancare l’aria di botto.  Quando riuscì a riprendere fiato, cercò di girarsi e il dolore alla gamba lo aggredì, come una lama penetrata fin nelle ossa. La guardò e gemette. Fantastico. Tutto a puttane.
- Ooooh, merda! – Gridò, dando un pugno al terreno.
 
Ora di quella sera, era ormai giunto alla conclusione che la sua situazione fosse un disastro.
Era ancora nello stesso punto in cui era atterrato ore prima. Non poteva in ogni caso muoversi granché. La gamba, probabilmente fratturata in più di un punto, lo riempiva di dolorose fitte in ogni minuto. Impensabile proseguire. Non prima di un mese, forse due.
E bisognava capire se sarebbe sopravvissuto così a lungo.
Aveva passato il resto del pomeriggio cercando di organizzarsi e di capire quali fossero le sue possibilità, e non erano molte. Steso il sacco a pelo in modo che gli fosse agevole entrarne e uscirne e estratte tutte le provviste rimaste,aveva valutato il suo stato e si era reso conto che con il numero di scatolette che aveva non avrebbe mai superato il paio di mesi di forzata immobilità che gli si prospettavano. E non era detto che non sarebbe morto di freddo. Aveva il sacco a pelo,certo, ma non sarebbe bastato quando la temperatura fosse scesa ancora. Non aveva neanche combustibile per il fuoco a portata di mano. E naturalmente non c’era nessuno che potesse aiutarlo. Persino quel dannato uccello che gli aveva tagliato la strada (era risultato essere un corvo, e con un aspetto che per qualche motivo gli ispirava ben poca fiducia) se n’era andato. Era rimasto per un pezzo appollaiato sul pendio, osservandolo attentamente, prima di volare via nella direzione in cui avrebbe viaggiato anche lui, se avesse avuto due gambe intere.
La questione era dunque grigia da qualunque parte la guardasse. La speranza di tornare in strada era veramente flebile, figurarsi quella di arrivare dall’uomo bianco o di tornare a Metal city. Se qualche viaggiatore avventuroso non fosse passato di lì, sarebbe morto nel modo più inutile possibile.
Una voce (sempre la solita,sempre affabile come al solito) cercava di dirgli di farla finita subito, piuttosto che soffrire per settimane. Shadow cercò di ignorarla, e si distese a fissare il cielo scuro, sapendo che fra il dolore e le pressanti preoccupazioni non sarebbe riuscito ad addormentarsi, ma sperandolo in ogni caso.
Se le sue previsioni erano giuste avrebbe avuto molto tempo per dare ascolto a quella voce insinuante...e per seguire i suoi consigli.
 
Sono tornata! Sono viva! E vi ho portato un capitolo osceno come dono. MEH. Che bello.
No, comunque, grazie anche solo perché mi leggete. Davvero. E' bello vedere che avete del tempo da spendere con le mie storie,anche quando sparisco per mesi. Vi amo quasi tutti. E se non rispondo a tutte le recensioni è solo perché non ho tempo.
Detto ciò, spero che gradiate anche tutto questo. Namarie!
^Ro

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Capitolo 20
*** Madness takes control ***


C’erano animali selvatici ovunque.
Una volta morta la stragrande maggioranza degli abitanti, le città si erano svuotate, lasciando il passo a creature di ogni genere che venivano lì per annidarsi o cercare cibo. Per chi cercava un luogo dove insediarsi a sua volta, erano un disastro.
Per Aidan erano una fortuna.
I suoi compagni si erano caricati di cibo in scatola, e qualcosa aveva preso anche lui, ma sapeva che la stagione di caccia non era ancora finita. E non aveva speso anni a farsi insegnare da suo zio come maneggiare arco e fucile per mangiare cibo in scatola,dovunque stesse andando.
Per questo, ignaro di star passando la sua ultima notte sulla strada, si trovava in quel momento a spellare e pulire la lepre che aveva catturato quel giorno. Era soddisfatto. Cacciare con l’arco era una tattica inusuale, ma gli procurava sempre le prede di cui aveva bisogno, e le munizioni erano riutilizzabili. E poi, ora che tutto era riutilizzabile,aveva il miglior arco sulla piazza e una gran quantità di frecce.
Il suo umore era alto. Il più alto di tutta la brigata, probabilmente, contando che a quel punto uno su quattro era morto e un altro si era frantumato una gamba. Sapeva a cosa andava incontro. O meglio, ne sapeva poco, ma quel che conosceva gli bastava. Come gli altri tre, voleva combattere fino in fondo, e sapeva anche che con tutta probabilità sarebbe morto, ma diamine, se non sarebbe morto ridendo. A meno che non lo colpissero alle spalle, avrebbe riso in faccia a chiunque lo uccidesse, per la loro stupidità. Avevano creduto di spaventarli, con quelle bombe? Beh, sbagliato. Li avevano fatti incazzare. E tanto anche.
Quanto a lui, era uscito da Metal city a testa alta e ci sarebbe tornato a testa alta, se ci fosse tornato. Che diamine, una delle ultime persone che aveva visto prima di andarsene era stata Alice. Quello che aveva e detto e soprattutto quello che aveva fatto nei suoi confronti lo avevano riempito di coraggio. Si sentiva completo, adesso. Sapeva che lei non aveva gradito e lo aveva lasciato fare solo perché stava andando, quasi certamente, a morire. Ne era consapevole e questo gli scaldava il cuore, ma nel caso in cui fosse riuscito a tornare a casa, non le si sarebbe avvicinato mai più. Aveva alla fine colto il messaggio. Non l’avrebbe più toccata.
E alla fine, quello fu un proposito che mantenne.
Quella notte dormì come un bambino, nonostante sapesse di essere quasi giunto alla meta. Un giorno di marcia, forse due, e avrebbe incontrato il loro amico a distanza. Che gioia. Quasi quasi era impaziente di sapere cosa gli sarebbe successo. Lo avrebbe fatto saltare in aria? Lo avrebbe torturato per fargli dire ogni cosa che sapeva sui suoi concittadini, uno stato più in là? Nel caso, aveva già pronto un discorso da fargli. Iniziava con Crepa e finiva con Muori.
La spavalderia non lo aveva ancora abbandonato il giorno dopo, mentre camminava a passo spedito verso la sua meta, con l’arco in mano. Era rilassato. Tranquillo come non mai. Non era mai stato un tipo da panico. Qualunque cosa fosse successo, era pronto.
Per questo motivo quando vide i tre uomini che gli tagliavano la strada non sussultò neanche. Nessuna paura. Allungò solo una mano dietro la schiena, come per distrazione, ed estrasse una freccia dalla faretra, incoccandola senza smettere di camminare. Non distolse mai lo sguardo dal trio, all’erta. Quando fu a una cinquantina di passi da loro, abbastanza perché lui iniziasse a distinguere i loro volti  e viceversa, uno degli uomini puntò il dito verso Aidan, attirando l’attenzione degli altri. Questi parvero osservarlo per un attimo, poi annuirono e estrassero quelle che avevano tutta l’aria di essere pistole, facendo immobilizzare il lupo lì dov’era.
Poi tutto accadde molto in fretta.
Mentre uno dei due tizi armati cominciava a urlare, qualcosa sulla linea di “vieni fuori con le mani in alto” o simili, lui stava già sollevando l’arco e scagliandogli una freccia contro. Prima che arrivasse al bersaglio o che uno degli altri due avesse il tempo di reagire,si voltò e iniziò a correre, ritornando sui propri passi. Se fosse riuscito ad allontanarsi abbastanza in fretta, non avrebbe dovuto usare di nuovo un’arma contro una persona, e poco lontano vi era un ingorgo non molto più piccolo di quello  che era costato il viaggio a Shadow. Se fosse riuscito a infilarsi lì in mezzo la questione sarebbe stata chiusa.
Era questo che aveva messo a punto durante il suo viaggio. Non pensieri di vendetta, non ricordi. Logica. Quella era una caccia come tutte le altre a cui aveva partecipato durante la sua vita, solo che dall’altra parte non c’erano animali selvatici, ma persone come lui. Tutto il resto era uguale. Doveva sempre cercare di essere il predatore e non la preda.
Sentì degli spari e qualcosa di piccolo e rapidissimo gli sfiorò la spalla. Dunque i bastardi lo stavano inseguendo. Accellerò. Iniziava già a vedere le prime automobili, se solo avesse potuto arrivarci...
Non ci arrivò. Il proiettile successivo lo colpì al polpaccio e lui cadde a terra, sbattendo la testa e la spalla. Cercò di rialzarsi con un grugnito, ma non ci riuscì, il dolore era troppo forte. Potè solo rotolare goffamente sulla schiena e alzare la testa.
Il tizio che gli aveva sparato stava correndo verso di lui. Aveva ancora la pistola alzata, ma non sparava, nonostante ora potesse colpirlo con grande facilità. Era un’occasione che non poteva permettersi di sprecare. Rapidissimo, ignorando la spalla che pulsava, recuperò una freccia e la scagliò contro l’avversario.
Fu un lancio approssimativo, e infatti la mira fu tutt’altro che precisa, ma funzionò. Colpì l’uomo al fianco, e quello cadde con un grido, lasciandosi sfuggire la pistola. Ansimando, Aidan incoccò un’altra freccia e riuscì a mirare contro il petto dell’altro. Il colpo andò a segno e lo sconosciuto si afflosciò, immobile. Cadde un silenzio totale.
O meglio, quasi totale. Qualcuno risaliva la strada, con un rumore secco di passi. Merda, si era dimenticato del terzo uomo. Faticosamente, si alzò in piedi. La gamba gli esplodeva di dolore, ma riusciva a reggersi, caricando il peso sull’altra. Cercò dietro la schiena e per un momento agghiacciante credette di aver perso tutti i dardi nella caduta, poi la sua mano si chiuse su uno rimasto. Sollevato, lo sistemò sull’arco come gli altri due e quando ebbe piena visuale dell’ultimo uomo rimasto (così bizzarro a vedersi, un individuo in completo e cravatta, che camminava con le mani in tasca, placido, come se stesse facendo una passeggiata) lo lanciò, con quello che sperava essere il colpo migliore della giornata.
A ben guardare, fu un colpo da manuale. La freccia si conficcò nella spalla sinistra dell’altro, facendolo fermare sui due piedi. Ma lui non cadde. Anzi, guardò la freccia con blando interesse, per poi tirarla fuori dalla ferita come se niente fosse. La agitò verso Aidan. – Maleducato.
Il lupo, sbalordito, non riuscì a tirare di nuovo. Restò a guardare a bocca aperta e in precario equilibrio sulle gambe l’uomo che si avvicinava, un essere di razza indefinita, robusto e con corti capelli scuri, così dannatamente fuori posto ,con il suo completo elegante e pulito e la cravatta e la camminata pigra e indolente ,da lasciarlo quasi ipnotizzato . Non reagì finché questo non si fermò a pochi passi da lui, con un sorriso sardonico sulle labbra, e gli parlò di nuovo. – Ciao,dolcezza. Bel numero, davvero.
Poi gli sferrò un calcio sulla gamba offesa che lo fece crollare a terra con un grido. Gli sfilò con facilità l’arco dalle mani e lo considerò per un momento, prima di gettarlo via. Diede un altro calcio al ragazzo, nello stomaco, per sottrargli tutto il fiato rimasto, prima di tirarlo in piedi prendendolo per i capelli e di strappargli via lo zaino, la faretra e il fucile. Sembrava difficile che avesse tanta forza, eppure era così. Intanto continuava a parlare.
- Avevo ragione a non ascoltare il capo. Mi sarei perso tutto questo divertimento a venire da solo. Cammina, bel fusto, c’è gente che ti aspetta.
Iniziò a trascinarlo lungo la strada. Aidan incespicava, cercando di reggersi, ma il dolore lo colpiva da ogni parte. Intanto il suo cervello provava a lavorare a tutto spiano. Era difficile, ma non poteva perdere la lucidità. Così com’era ridotto, sfuggire a quel tipo, anche se era disarmato, era impossibile. Doveva neutralizzarlo in qualche modo. Aveva perso l’arco, che comunque sarebbe stato inutile a quella distanza, ma aveva ancora il coltello che usava per pulire le prede infilato nella tasca posteriore. Era sempre il tipo da armi antiquate, ma funzionavano. Okay, l’uomo che lo trasportava quasi di peso era sembrato immune alla freccia che gli aveva tirato e lo aveva fatto annichilire,e allora? Magari si era solo sbagliato e la freccia si era impigliata nei vestiti. Aveva ancora la vista confusa, dopotutto. Non era mica un mago che poteva farsi bucare come un puntaspilli e ipnotizzarlo. E poi doveva provare. Non aveva altre chance.
Così, quando il suo persecutore sembrò distrarsi alla vista di altri due uomini che sbucavano da una curva della strada (doveva aver chiamato i rinforzi mentre lui scappava, il maledetto), più rapidamente che poté infilò la mano nella tasca, aprì il coltello a serramanico e lo mosse dritto verso la gola dell’altro. Quest’ultimo, purtroppo, fu più veloce. Quasi inumano. In un lampo gli afferrò il polso, lo torse quasi completamente e gli tolse la lama di mano, facendola cadere a terra. I due nuovi arrivati erano corsi a raggiungerli cogliendo i movimenti bruschi, ma nonostante fossero vicini, quando furono accanto a loro quello strano tipo aveva già il polso di Aidan (un dolore in più ,evviva evviva) torto nella sua mano. Spinse il lupo barcollante verso di loro, che furono rapidi a immobilizzarlo e a legargli le mani dietro la schiena. Poi ripresero a trascinarlo via, con il terzo uomo che li seguiva passo passo. Sul bordo della strada, Aidan vide il corpo del primo uomo con la pistola accasciato a terra, la sua freccia ancora piantata nel petto. Non reagì. Ne aveva già viste abbastanza negli ultimi dieci minuti da non riuscire a farsi colpire dal pensiero di aver ucciso due persone. Pensava che il mondo fosse diventato un delirio già a Metal city: ora ne aveva la prova.
Così non mosse un muscolo. Si lasciò portare via, inerte e confuso, fino a un furgoncino parcheggiato , nel cui retro venne buttato senza tante cerimonie. Fu il suo amico della freccia a chiudere lo sportello, e prima di farlo gli lanciò un’ultima occhiata, senza smettere di sorridere.
- Niente di personale, ragazzina – disse con enfasi. – Era un bel tentativo. Sai qual è il problema? Tu sei bravo, ma io sono Crowley.
E così dicendo chiuse le porte, lasciandolo nella semioscurità, dolorante e intontito.
 
L’uomo che si era presentato come Crowley tornò qualche ora dopo.
Aidan sentiva ancora dolore provenire dai punti più disparati del corpo. La spavalderia si era attenuata abbastanza: ne aveva lasciato un bel pezzo sulla strada. Comunque, non era sparita, nonostante tutto.
Non sapeva dove fosse. Aveva viaggiato per chissà quanto tempo nel cassone del furgone, poi, quando questo si era fermato, i due tizi non lo avevano fatto scendere prima di avergli infilato qualcosa sulla testa. Una mossa stupida, a ben pensarci. Cosa pensavano, che avrebbe imparato la strada a memoria e se la sarebbe filata? E che diamine. Ci avrebbe anche provato, sì,ma aveva sempre un proiettile nella gamba. Non è che potesse andare tanto lontano.
In ogni caso, lo avevano condotto alla cieca fino a un luogo sconosciuto dove gli avevano liberato la testa, per poi gettarlo in una piccola cella. Da quello che era riuscito a vedere, alzandosi e zoppicando fino alla grata, ce n’erano altre come la sua lì accanto. Quello che non poteva immaginare era che Aster era stato tenuto prigioniero a solo un paio di metri da dov’era lui.
Si era steso sulla branda e aveva cercato di riacquistare energie e lucidità. Ora che non aveva più il cervello offuscato dalle varie botte, si chiedeva perché lo avessero lasciato in vita. Non ci sarebbe stato niente di più facile che sparargli mentre era lungo disteso sulla strada. Cosa volevano da lui? Strappargli delle informazioni? Minchia, ci sarebbe voluto un bel po’. Non avrebbe aperto la bocca neanche sotto tortura. Anche perché non poteva dir loro molto. Che i bambini erano diventati dei minimedium era probabile che lo sapessero, altrimenti perché cercare di farli saltare in aria? E se gli avessero chiesto se stava arrivando altra gente non avrebbe detto nulla. Facile.
Presa questa decisione,aveva aspettato il prossimo sviluppo, che era arrivato appunto nella forma di Crowley.
Lo aveva sentito arrivare dal fondo del corridoio, ma non si era alzato. Risparmio energetico, Turner. Poi l’uomo era apparso dietro alle sbarre, sempre vagamente assurdo in giacca e cravatta. Che problemi di abbigliamento aveva? Aidan non aveva più visto abiti eleganti addosso a nessuno dai giorni dell’epidemia. Erano tutto tranne che pratici.
L’uomo si appoggiò alle sbarre con nonchalance e lo osservò, interessato. – Guarda un po’, lo spaventapasseri. Mancavi giusto tu, dopo quello che è successo al leone codardo e all’uomo di latta.
Il lupo lo guardò perplesso per un momento. Quello era drogato. Palesemente. Chi mai si sarebbe messo a citare Il mago di Oz in quella situazione? Poi si sentì riempire di sconcerto. L’uomo di latta e il leone? Voleva dire che avevano già avuto a che fare con due degli altri? E cosa era successo? Era forse un bluff? Cercò di nascondere il tumulto di pensieri mentre replicava. La faccia  da poker era fondamentale. – Speravo di incontrare il mago di Oz. Non è in casa?
Crowley tentennò la testa. – Il suo trono è vuoto,ma questo non  vuol dire,no? E poi...cosa volevi chiedergli? Un’acconciatura nuova per quei bei capelli? – Indicò lo squarcio nel pantalone e nella gamba del giovane. – Un muscolo nuovo?
- Preferirei dirlo a lui, sai. Non so neanche chi tu sia.
- Si fida di me, non temere. Più di quanto non si fidi di te.
- Lo sa che ti fai forare come uno scolapasta?
L’altro scoppiò a ridere. – Lo sa, lo sa.
Era un gioco. Nient’altro, doveva tenerlo a mente. Un botta e risposta, come quelli che si era ritrovato a fare con Alice, su a Metal city. Poteva far finta che quel tipo assurdo fosse Alice, se ricordava anche le citazioni random. Non avrebbe avuto neanche la tentazione di baciarlo. Ma doveva continuare a rispondere a tono. Crowley cercava di fargli dire quello che non voleva dire, e viceversa. Si sarebbe visto chi avrebbe avuto la meglio. – E dì, di me cosa sa?
- Non abbastanza, credo. Non pensi che dovresti dirgli qualcosa di più?
- Preferirei farlo di persona, non attraverso un portavoce come te. Sai com’è...la prudenza  non è mai troppa.
- Capisco ma vedi...- Crowley sembrò trasformarsi. L’espressione compiaciuta era scomparsa. Ora era serio, con una luce minacciosa negli occhi. Poteva far paura. Aidan si sforzò di non reagire all’improvviso cambio di tono. – Lui non parlerà con te, quindi dovrai per  forza parlare con me. Se non lo fai, ti dovrò costringere. E fidati. Nessuno, nella storia della tortura,è è stato torturato con una tortura come la tortura con cui verrai torturato tu. Perciò forse faresti meglio a parlare.
Seguì un momento di silenzio. Poi, nonostante l’aria malevola con cui l’altro lo guardava, Aidan non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere. E rise, piegato in due sulla branda. Perché era tutto così assurdo. Era in una gabbia in un posto sconosciuto e quel tizio parlava di estorcergli delle informazioni, eppure faceva giochi di parole e citava favole e pretendeva che lui si comportasse normalmente, dopo che lo aveva visto picchiarlo con la forza di un uomo più giovane e estrarsi una freccia dalla spalla come se fosse robetta. Era folle. Magari stava impazzendo. Magari era pazzo il tipo che aveva davanti. Chissà.
Per questo non riusciva a frenare l’ilarità. Oh, fantastico, era anche riuscito nel suo intento di ridere in faccia al nemico. Bel lavoro, Turner. Così rise fino a farsi dolere la pancia, ignorando le fitte alla gamba, alla testa e alla spalla e Crowley che stava in silenzio davanti a lui. Per un breve momento pensò che somigliava a un grosso avvoltoio nero. Questo lo spedì in un’altra reazione isterica.
Il tipo misterioso non proferì parola. Restò semplicemente a guardarlo finché lui non si fermò, senza fiato e con le lacrime agli occhi. Aidan alzò lo sguardo e lui era sempre lì nella stessa posizione di prima. – Ti chiederei chi sei, ma non penso valga più come domanda – disse, soffocando un’altra risata. – Sei troppo assurdo. Per cui, ti prego, dimmi cosa sei.
- Non so se vorresti saperlo – rispose l’altro, pacato, di nuovo l’immagine della calma totale. Poi all’improvviso stese la mano e il lupo sentì un dolore atroce provenire dalla ferita alla gamba, come se qualcosa lo stesse scavando dall’interno. Mentre urlava, vide il proiettile USCIRE dallo squarcio e attraversare la stanza, per poi posarsi placidamente sulla mano aperta di Crowley.
- Hai un bell’aspetto, ragazzino – continuò questi osservando il pezzo di metallo che aveva fra le dita, mentre Aidan stringeva i denti e cercava di tamponare la ferita. – Forse ti servirà ancora a qualcosa.
E così dicendo si allontanò, lasciandolo lì in preda alla sofferenza.
 
Finitevus era nel suo ufficio, solo.  Non pensava a nulla di particolare. Tutto stava andando come prestabilito. Trovate le tre spie rimaste, era stato estremamente facile sistemarle. Uno a uno sarebbero finiti esattamente come lui voleva che finissero. E poi, come diceva Agatha Christie, non ne sarebbe rimasto più nessuno.
Ora toccava al giovane lupo. L’aveva lasciato nelle mani di Crowley . Un’ottima scelta, dopotutto. Crowley sapeva quello che faceva e aveva il potere per farlo. In fondo, nel luogo in cui era prima, aveva delle cariche molto alte. Il fatto che ora fosse suo sottoposto non cancellava le sue abilità, per quanto oscure e contorte fossero.
Qualcuno bussò alla porta. – Avanti. – Crowley mise dentro la testa. Come si dice, parli del diavolo...L’uomo bianco sorrise a questo pensiero,un sorriso agghiacciante. – Allora?
- Non ha parlato.  – Neanche Crowley riusciva a guardarlo a lungo in faccia, il che era quasi comico.
- Naturalmente. Comunque non ci serve ora. Puoi procedere come avevamo deciso. – Una breve pausa. – Fagli quel che vuoi, ma il volto dev’essere riconoscibile. Non devono esserci dubbi su chi sia.
L’altro annuì e chiuse la porta. Finitevus tornò a guardare fuori dalla finestra. Il vetro era di nuovo intatto, come se il passaggio di Aster fosse stato solo un sogno. Il suo sorriso si fece più largo.
Quando Crowley avesse finito con lui, avrebbero rimandato il ragazzo ai suoi amici a Metal city. Questo avrebbe dovuto convincerli davvero delle poche possibilità che avevano. Quindi il capitolo Aidan era chiuso.
Ora ne rimaneva solo uno.
 
Aidan sentì la porta della cella aprirsi come se fosse lontana chilometri. Alzò la testa e vide due uomini, due nutrie che non potevano essere molto più vecchie di lui, che entravano con aria minacciosa. Lasciò che lo tirassero su bruscamente e che gli ammanettassero le mani dietro la schiena, senza reagire. Aveva mollato. Era quasi completamente intontito, per il dolore e per la realizzazione che non c’era più niente di sano in questo mondo. Si sarebbe lasciato scorrere tutto addosso come se fosse pioggia,niente poteva più turbarlo. Aveva visto troppe cose.
Ciò non gli impedì di rivolgere un sogghigno a uno dei suoi carcerieri. – Ehi,amico, dov’è la festa?
Con sua sorpresa, l’altro ghignò a sua volta. – Non temere,amico mio, è una festa privata. Tutta per te.
Lo trascinarono attraverso lunghi corridoi, scendendo di un paio di piani prima di fermarsi davanti a una porticina scialba e anonima. Per un momento il lupo si chiese se fosse giunto il momento, se lì dietro sarebbe arrivata la sua morte. Poi decise che non gli importava. Anche se lo avessero torturato, non si sentiva più abbastanza ragionevole per rivelare cose importanti.
Una delle nutrie aprì la porta e l’altro lo spinse dentro,, chiudendola subito dopo. Aidan si ritrovò aggrappato alla maniglia per sostenersi, guardandosi intorno perplesso. C’era una sedia con delle cinghie e un tavolo coperto di strumenti che nella semioscurità non riusciva a vedere. Bella merda da film dell’orrore.
Avrebbe ripreso a ridere nel modo isterico in cui aveva riso prima, se non avesse sentito una mano prenderlo per il collo. Si ritrovò faccia a faccia con Crowley, che sorrideva allegramente.
- Vieni, bellezza – disse, spingendolo verso la sedia. – Sali sul trono del mago di Oz.
E in definitiva, non ci fu un finale da fiaba per Aidan Turner.
Dopo poco tempo, in fondo, non ci fu più neanche un ragazzo chiamato Aidan Turner.
 
Che ci crediate o no, sì, sono io che aggiorno così in fretta. Anche se è di nuovo un capitolo non proprio allegro.
Cosa volete che vi dica, King è uno scrittore tutt'altro che allegro, e io mi ispiro a lui. Ma almeno sono riuscita a presentarvi il fantomatico Crowley. Tadaaaa~ Vi sembra familiare? Allora forse dovreste ricontrollare le serie televisive che avete guardato uwu
Per il resto....beh, Buon Natale (in ritardo), Buon Anno (in anticipo) e spero che recensirete. Bye!
^Ro
PS Sì, la citazione del mago di Oz dovevo farla. Perché King lo tira fuori a prescindere in ogni libro e anche il sopradetto Crowley lo cita a un certo punto. Eh....c'est la vie.
 

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Capitolo 21
*** If this is to end in fire,then we should all burn together ***


Il Bianco aveva aspettato che rimanesse solo una spia da abbattere per mettere in atto il suo piano più crudele, ma quell’ultima spia ne era ignara, per sua fortuna. Se avesse saputo cosa lo aspettava, probabilmente sarebbe tornato indietro di corsa. O forse no. Soter era stato abituato al peggio, e il dolore fisico non lo spaventava.
A parte Shadow, il riccio bianco era l’unico ad avere una visione abbastanza vicina alla realtà della situazione. Aster e Aidan erano partiti spavaldi, col sangue bollente. Volevano uccidere.
Anche lui voleva uccidere,ovviamente. Ma sapeva che serviva tattica. Aidan poteva essere un cacciatore, ma lavorava troppo d’istinto. Lui era stato un soldato, e aveva visto cosa accadeva a chi si buttava in mezzo alla mischia  senza riflettere. Di solito finiva con un proiettile in mezzo alla fronte.
Sapeva anche che contro una creatura di questo genere le armi normali sarebbero probabilmente servite a molto poco. L’unica speranza era cogliere il loro nemico di sorpresa,per quanto possibile. L’idea di partire separati e senza clamore era stata sua, ed era fiducioso che avrebbe funzionato, se non per portarli all’obbiettivo, almeno per farli avvicinare il più possibile al fantomatico “uomo bianco”. Sperava solo che gli altri tre non avessero commesso errori.
Se solo avesse saputo che Aster aveva compromesso ogni loro minima chance di non farsi scoprire, avrebbe perso la speranza.
 
 
Lo schema si era ripetuto abbastanza regolarmente per tutti i suoi compagni: venir bloccati prima di essersi avvicinati alla loro meta e essere spediti alla propria punizione personale. Soter non lo sapeva, ma sapeva di dover usare una grande cautela e puntare sulla sorpresa, come tutti.
E su questo fronte riuscì ad escogitare un piano molto più sensato di quello di Aster.
Lo concepì dopo essere riuscito ad avvicinarsi al complesso di edifici dell’Uomo Bianco. Non era certo che fosse davvero la sua “base segreta”, ma il suo istinto (e le indicazioni sommarie di Wave) gli davano abbastanza sicurezza da spingerlo a controllare il perimetro da una distanza di sicurezza, e in questo modo aveva notato alcune cose che Aster non aveva visto, o aveva ignorato palesemente.
Il filo spinato circondava solo il blocco centrale del complesso, che era oltretutto sorvegliato rigidamente. Al contrario, i casolari dietro di esso vedevano continuamente passaggi di gente a gruppi o singolarmente,senza controlli. Evidentemente l’immenso edificio bianco era la centrale operativa, mentre il villaggio ospitava i fantomatici “eletti”, sulla cui sicurezza nessuno sembrava volersi sprecare. Questo non solo gli dava un’idea di quanto l’amico bianco tenesse davvero ai suoi adepti, ma gli forniva anche una via d’accesso molto più pratica e meno suicida di quella di Aster.
In teoria, era un piano infallibile.
Si allontanò dalla zona pericolosa, o almeno da quella che credeva essere la zona pericolosa (non aveva incontrato posti di sorveglianza fino a quel punto, per quanto avesse controllato: gli erano sembrate possibili solo due opzioni, che stesse commettendo un errore madornale o che il loro piano di discrezione stesse funzionando) e si liberò di tutto quello che poteva farlo spiccare in mezzo alla folla: lo zaino rigonfio, la sua arma ad alta precisione.  Gli rimase solo una pistola, che nascose sotto i vestiti. Ora somigliava a un qualunque abitante che si muoveva dentro e fuori dalla propria città.
Tornò ad avvicinarsi all’insieme di edifici e rimase in attesa. Sperava che lungo la strada passasse un gruppo abbastanza consistente da fornirgli una copertura e non fu deluso. Una decina di uomini gli passò davanti in un momento in cui non  vi erano altre persone abbastanza vicine da vederlo apparire e lui colse l’occasione, uscendo allo scoperto e accodandosi a loro. Nessuno lo notò. La prima parte del piano aveva funzionato. Cercò di assumere l’espressione più casuale del suo repertorio, infilò le mani in tasca e seguì gli uomini a qualche passo di distanza. Quando raggiunsero i confini della cittadella, trattenne il fiato e si preparò a reagire a un attacco.
Oltrepassarono la prima serie di edifici senza provocare alcun movimento.
Soter tirò il fiato e si guardò intorno. Nessuna guardia improvvisata nei dintorni, nemmeno in borghese. Solo una normale strada cittadina con il suo traffico quotidiano. Avrebbe potuto inserirsi anche nel periodo preepidemia, volendo. La gente andava e veniva, entrava negli edifici, si fermava a parlare. Tutto nella norma.
Solo che non poteva essere nella norma, non in una situazione del genere. C’erano dei bar aperti, cazzo. La gente entrava e usciva e si sedeva per un caffé. Vi era energia in tale abbondanza  da permettere la gestione di locali del genere? Come? E soprattutto, in quel luogo non doveva insediarsi il male supremo? Un Lucifero Junior? E allora come facevano a essere tutti così tranquilli? Inconcepibile.
Si allontanò dal gruppo di uomini, continuando a percorrere la strada centrale. Era surreale. Quel posto sembrava più tranquillo di Metal City. Non sembrava neanche essere stato toccato dalla devastazione dell’epidemia.  Pareva di essere a Boston nell’estate precedente.
Decise di infilarsi nel primo locale in vista per dare un’occhiata più da vicino alla situazione. Entrò in un bar e si ritrovò immerso in una scena ancora più normale e anormale insieme, in una stanza piena di persone riunite intorno ai tavoli che giocavano a carte, bevevano o altro. Poche teste si alzarono al suo ingresso, ma nessuno sembrò dargli troppa attenzione. Per ora la sua strategia di discrezione sembrava funzionare.
Si diresse verso il bancone e si arrampicò su uno degli sgabelli. La donna prosperosa che stava asciugando un bicchiere gli sorrise. – Ciao, bellezza. Sei nuovo o non mi ricordo di averti visto?
 - Sono appena arrivato, e questo sembrava il posto giusto per trovare un caffé e qualche indicazione.
 - E’ il posto giusto. – La donna schioccò le dita e fece un cenno a un ragazzo a un paio di metri di distanza. – Ben, un caffé, e fai in fretta. Abbiamo una new entry fra noi. – Tornò a rivolgersi a Soter. – Non si vedono più molti nuovi arrivati, di questi tempi.
 - I migliori arrivano sempre per ultimi – replicò lui con un sorriso, e quando lei sorrise a sua volta, si rilassò appena, pur continuando a restare vigile. Quella donna non si era insospettita e avrebbe potuto dargli molte risposte che lo avrebbero aiutato a mescolarsi alla massa. Buon per lui che la sua abilità nell’esercito era sempre stata quella di trattare coi civili. – Quindi...come si pagano i caffé, in questo bel posto?
 - Non si pagano, i lavoratori e quelli che hanno viaggiato a lungo per raggiungerci hanno tutti i diritti di rifocillarsi. Così ha stabilito il capo. E poi i soldi non valgono più nulla, no?
 - No, certo – rispose lui, cercando di non reagire a questa prima menzione di un “capo”. – Allora dovrò muovermi a cercarmi un lavoro se voglio continuare a mangiare.
 - Oh, non preoccuparti, qui è pieno di cose da fare. Abbiamo bisogno di uomini di fatica ovunque. E potrebbero trovarti anche un posto al centro di addestramento, ben piantato come sei.
 - Centro di addestramento?
 - Qualcuno deve pur difendere questo posto, no?
 - Pensavo bastasse...lui – Soter fece un cenno verso l’alto, come a indicare livelli immaginari più elevati.
La barista rise. – I buddisti dicono “prega Dio,ma sella il tuo cavallo”, o qualcosa del genere. Possiamo fidarci del capo, ma dobbiamo essere pronti agli attacchi fisici,capisci?
Il riccio bianco annuì. “Se sapessi chi hai davanti” pensò, e dovette reprimere un sorrisetto. Intanto, un caffé gli era atterrato davanti, e lui lo bevve. Non era un granché, ma almeno era caldo e poteva dargli la carica per proseguire le sue indagini. – Comunque, ha sistemato tutto alla grande, vero? – Non era necessario specificare il soggetto.
 - Assolutamente. Abbiamo avuto l’energia molto in fretta, e ora è tutto organizzato alla perfezione, vedrai. Ci sono ancora diverse cose da risolvere, ma in generale...è un sistema senza falle. Grazie a lui.
 - Fantastico. – Stava riflettendo su cos’altro chiedere, quando un bambino di pochi anni sbucò fuori e corse verso la donna, attaccandosi alla sua gamba. Questa gli accarezzò la testa e Soter sorrise, approfittandone per distendere il tema del discorso. – E’ tuo?
 - Per questa settimana sì.
 - Uh?
 - I bambini non hanno una famiglia fissa, qui. Devono imparare ad essere parte della comunità, visto che non hanno più i genitori. Perciò girano, passano un periodo in una famiglia e quello dopo in un’altra. Serve a non farli legare troppo a un gruppo ristretto di persone.
A Soter vennero in mente i bambini laggiù a Metal City. Piccoletti che avevano perso tutto e non cercavano altro che un po’ di stabilità. Un sistema del genere sembrava poterli solo torturare  ancor di più. Che diamine, persino quel mocciosetto che viveva con Shadow (notoriamente la persona con meno senso materno del globo) poteva avere una vita più tranquilla di loro. Come voleva che crescessero, il Bianco, come soldati?
La realizzazione lo colpì. Ma certo che voleva tirarli su  come soldati. Non vedeva l’ora di avere un esercito di sudditi pronti a mettersi contro ogni persona libera rimasta in vita.
Era un’immagine agghiacciante. Non fece però in tempo a spazzarla via dalla mente che qualcuno aprì la porta con tanta foga da farla sbattere contro il muro. Si voltò a guardare, insieme a chiunque altro nel locale, e riuscì solo a vedere un gruppo di uomini armati prima che una mano lo afferrasse per la collottola e lo tirasse giù dallo sgabello. In mezzo secondo valutò se estrasse la pistola e mettere a frutto quei secoli di addestramento che aveva (aveva sprecato o  no giorni interi a imparare come liberarsi in caso di cattura?), ma rinunciò. Era inutile, erano in troppi e c’era un’intera città dalla loro parte. Non sarebbe mai riuscito a uscirne vivo. Meglio lasciarli fare, magari lo avrebbero portato più vicino ancora al suo obbiettivo. Oppure sarebbe morto, ma erano dettagli.
Si lasciò dunque perquisire, sottrarre la pistola e trascinare via, in mezzo a grida di “E’ una spia!” e esclamazioni soffocate del genere, senza opporre resistenza. Si era preparato anche a questa possibilità.
Gli dispiaceva solo di lasciare l’ultimo caffé caldo della sua vita a metà.
 
 
Nel breve tempo che aveva trascorso nella città, Soter aveva pensato che chiunque in quel posto fosse felice di dove si trovava e si fidasse ciecamente della guida dell’uomo bianco.
In realtà, non era esattamente così.
Oh, erano stati tutti fanatici, all’inizio. Come non adorare un qualunque essere in grado di fornire stabilità e protezione dopo un evento disastroso come l’epidemia? Avevano pensato che la sua fosse la migliore strada da seguire, e qualcuno lo pensava ancora, i più convinti. Ma il numero di persone che cominciavano ad avere dei dubbi continuava a crescere. Perché sì, l’energia elettrica, l’esercito di protezione contro i “nemici”, tutte queste cose, li rendevano più felici;ma c’era altro.
C’erano le punizioni, dolorosissime e eseguite di fronte all’intera popolazione. Quelle non piacevano a nessuno, se non a pochi scellerati. Nessuno riusciva a dimenticare la povera Mary, bruciata viva davanti a tutti, e non si contavano le crocifissioni pubbliche, a quanto pareva il metodo preferito del Bianco per mostrare ai suoi seguaci cosa accadeva a chi sgarrava. E bastava poco per meritare un supplizio del genere: chi beveva troppo, si drogava, o comunque aveva qualunque tipo di dipendenza che lo rendeva inefficiente al lavoro, veniva cancellato, affinché non danneggiasse la comunità. E così anche chi mostrava segno del minimo anticonformismo alle regole della comunità.
Oltre a questo c’era l’atmosfera da guerra che andava diventando sempre più soffocante. Finitevus aveva accumulato potenziali soldati e armamenti fin dal principio, per abbattere chiunque non aderisse al suo pensiero, e ora li metteva in uso. Decine di persone venivano addestrate per essere pronte a combattere non appena si fosse presentata l’occasione. Questo poteva dare sicurezza, ma riempiva anche di un’ansia terrificante, perché mai in nessuna circostanza nessuno degli abitanti si era trovato circondato da così tante armi, e nessuno sapeva cosa aspettarsi. Una guerra all’ultimo sangue? Bombe sulla città? Spie? Mistero.
E a proposito di spie, l’arrivo di quegli stranieri li aveva destabilizzati tutti.
Sapevano che erano stati tre ( la cattura ed eliminazione di Aidan sarebbero dovute rimanere ignote, in caso di fallimenti, ma ovviamente in una piccola città le voci giravano sempre), ma non sapevano se ce ne sarebbero potuti essere altri. E questo fatto stava a dimostrare due cose: primo, la protezione del Bianco non era infallibile. Secondo, i “nemici” dall’altra parte della barricata erano persone come loro. Con tutti  i racconti lasciati girare da Finitevus, molti ormai avevano iniziato a immaginare inconsciamente tutti coloro che non avevano accettato la sua chiamata come delle creature mostruose, dei maligni assassini. E invece, a quanto si sentiva,  due delle spie erano ragazzi che non potevano avere un briciolo di più di venticinque anni. E uno si era sfracellato cadendo giù dal Blocco,lanciato via da quell’uomo che doveva salvarli tutti e proteggerli come un nuovo dio padre, a sentire le voci che giravano. Era quindi naturale che cominciassero a comparire dei dubbi. Che le persone cominciassero a bisbigliare tra loro, a esprimere insicurezze.
Perché le falle nel sistema cominciavano a diventare visibili, e la gente iniziava a guardarci dentro.
 
L’uomo bianco, ignaro delle voci che iniziavano a girare per la città (secondo gli abitanti) e di ciò che sarebbe successo non molto dopo (per davvero), aspettò per meno di un giorno dopo la cattura di Soter prima di mandare a chiamare Crowley. Aveva avuto bisogno di tempo per far preparare il palco che usava per le esecuzioni, per lasciare che la città al completo venisse a sapere della spia che si era infiltrata fra di loro, per organizzare ogni dettaglio del piano che avrebbe reso di nuovo stabile la sua posizione, che aveva iniziato a crollare dopo il voletto di Aster fuori dalla sua finestra. Se avesse funzionato, tutti avrebbero ripreso a temerlo e a credere a ciò che diceva, com’era giusto che fosse, e avrebbero ripreso ad odiare quei maledetti dell’altra sponda, che erano stati in grado di fargli perdere il controllo per la prima volta dopo secoli. Tutto sarebbe tornato alla normalità. A posto. Sì. Bene.
Con lui c’era Wave. La rondine non aveva ancora mostrato segni di miglioramento, ma andava bene così. Finché fosse stata incinta, avrebbe incubato il suo erede alla perfezione, e dopo lui se ne sarebbe sbarazzato. Che nel mentre lei viaggiasse nel suo mondo di follia e parlasse a vanvera non era importante. Lasciava che vagasse per il Blocco come le suggeriva la sua mente distorta, seguita da uno dei suoi uomini di fiducia, giusto perché non facesse qualcosa di stupido come cadere da una rampa di scale o altro, e tanto bastava.
Quel giorno lei sembrava ansiosa di parlargli, e lui la ascoltava, in attesa che il suo secondo in comando si degnasse  di arrivare. – Ho fatto quello che hai detto – ripeteva, tormentando l’orlo della camicia da notte. – L’ho messa. La bomba. E’ pronta. Ho fatto quello che hai detto.
Finitevus sorrise indulgente. – Ma certo, cara. – Rispose. Certamente la sua memoria stava saltando indietro di giorni e giorni, ritornando a prima che lasciasse Metal City lasciando un ricordino. Niente di cui darsi pena.
 - Ho fatto bene? Volevi questo?
 - Sì, Wave. Hai fatto esattamente quello che volevo.
La donna lo fissò per un lungo momento con i suoi occhi stralunati, poi sparì fuori dalla porta. Il Bianco la lasciò fare, sapendo che la sua personale babysitter l’avrebbe seguita. Dopo pochi minuti Crowley entrò e rimase ad aspettare istruzioni.
 - Fai radunare tutti. E’ ora.
L’uomo annuì e scomparve. L’echidna bianco rimase a guardare fuori dalla finestra nuovamente intera. Presto ogni dubbio sarebbe scomparso, suo o dei suoi seguaci che fosse.
E su questo aveva ragione.
 
Chi lo aveva preso era un dilettante.
Soter era finito in più di una cella nella sua  vita, per un motivo o per l’altro, e sapeva bene quale fosse la prassi per torturare a dovere un prigioniero. Bene, qui non erano in grado di farlo.  Lo avevano lasciato senza cibo né acqua, ufficialmente, ma c’era un gabinetto, in quella prigione,e se erano convinti che non si sarebbe spinto a bere da lì, erano veramente imbecilli. Si era trovato in situazioni ben peggiori.
E poi lo avevano perquisito, sì,ma non accuratamente. Anche se gli avevano portato via giacca e camicia. Avrebbe potuto avere un’arma nelle mutande e loro non se ne sarebbero accorti. (Non ce l’aveva, per la cronaca. Niente di letale, quantomeno).
In ogni caso, in quel posto non erano in grado di gestire un prigioniero. Non che fosse fondamentale, al momento. Non si aspettava che lo lasciassero vivere tanto a lungo da dover patire i problemi della cella o l’assenza delle armi. Era probabile che non lo avessero ancora ucciso nella speranza di cavar fuori da lui qualche informazione. Informazione che avrebbero dovuto pagare cara, se gli fosse rimasto anche solo un briciolo di forza da usare.
Il punto era che non aveva assolutamente idea di cosa sarebbe capitato. Se lo avessero interrogato,avrebbe tenuto la bocca chiusa fino alla morte. Se si fosse trovato faccia a faccia col Gran Bastardo in tutto il tuo splendore, avrebbe fatto il possibile per abbatterlo. Le solite cose che avevano pensato di fare tutti. Ma  lui iniziava a preoccuparsi di una possibilità in più. Se davvero il Bianco era un essere soprannaturale onniveggente e onnipotente, era anche possibile che estraesse a viva forza le informazioni dai suoi ostaggi e poi li uccidesse, solo con la forza del pensiero. Oppure (una prospettiva ancora peggiore) avrebbe potuto distorcergli la mente, fargli vedere nero il bianco e bianco il nero (che paragone azzeccato e spassoso). Possederlo come un demone e farlo passare dalla propria parte, mandandolo contro i suoi compagni a Metal city. No, era terrificante da immaginare. Meglio non pensarci. Tanto, se fosse accaduto, non avrebbe potuto opporsi granché.
Mentre saltava da un pensiero all’altro, senza particolare ansia (sembrava impossibile, ma non aveva più neanche paura di morire. La pace dei sensi.), senti dei passi lungo il corridoio e si raddrizzò. “Ci siamo” pensò.
Dietro alle sbarre apparve un uomo robusto, in completo e cravatta, che iniziò ad armeggiare con la serratura. Soter si alzò dalla branda dove era appoggiato e gli si fece incontro. L’uomo apri la porta e gli si piantò davanti. – Voltati, dolcezza. E’ ora di  andare a fare un giro.
Il riccio bianco ubbidì, volgendo la faccia al muro. L’altro gli fece scivolare delle manette intorno ai polsi e lo spinse fuori, tenendolo per un braccio. Nel corridoio aspettavano quattro persone armate di fucili, tre uomini e una donna. Non portavano divise, ma quando si disposero intorno a loro imbracciando le armi Soter li riconobbe per quello che erano: una scorta.
Attraversarono lunghi corridoi e rampe di scale, nel silenzio più assoluto. Non incontrarono anima viva,  il che sembrava assurdo, contando che dovevano trovarsi nell’edificio centrale, il cuore della città. Neanche la loro piccola scorta si scambiò la minima parola, ma Soter notò che si tenevano il più distante possibile da loro due. Che avessero paura di lui...o più probabilmente dello sconosciuto che gli serrava il braccio, anche se non sembrava particolarmente minaccioso. Magari aveva delle doti nascoste. O forse era davvero lui a spaventarli. Chissà.
Dopo quella che sembrò essere la milionesima rampa di scale, raggiunsero una porta anonima, che dava direttamente sul pianerottolo. Il carceriere di Soter sembrò fermarsi un attimo ad ascoltare, poi annuì, come soddisfatto da ciò che aveva sentito (doveva capirne di sicuro più di Soter, che sentiva solo un confuso borbottio provenire dall’interno) e aprì la porta, spingendo dentro il riccio e seguito dai suoi quattro accompagnatori.
C’era gente ovunque. Questa fu la prima cosa che Soter registrò. La stanza dov’erano entrati era enorme, più grande del teatro dove avevano tenuto le loro assemblee giù a Metal city di sicuro, ed era ricolmo di persone.
Sembrava non ci fosse più un angolo libero, eppure un passaggio si aprì non appena le persone si accorsero della loro presenza, schiacciandosi e allontanandosi dal centro della sala per formare una sorta di rozzo corridoio. Allora il riccio vide cosa lo aspettava là in fondo: un palco, sormontato da oggetti che non riusciva a distinguere e da un unico individuo.
Quest’ultimo era troppo lontano perché Soter ne riconoscesse i lineamenti, ma il colore bianco acceso e soprattutto il brivido involontario che gli percorse la schiena gli dicevano che poteva essere una persona.
L’uomo in completo lo spinse avanti, e percorsero il corridoio lentamente. Gli occhi di tutti erano fissi su di loro:alcune espressioni erano facili da decifrare, paura, rabbia, gioia maligna, ma altre erano incomprensibili. Nessuno parlò; non si sentiva volare una mosca.
Quando raggiunsero il palco, Soter vide cosa vi si trovava sopra: un attrezzo di legno che somigliava pericolosamente a quelle gogne che aveva visto nei film sul medioevo, ma con solo due buchi, alcune sagome di oggetti indefinibili sullo sfondo e un echidna bianco che gli sorrise freddamente. Incrociò il suo guardo e Soter rabbrividì ancora. Aveva visto tanto male nella sua vita, anche solo negli ultimi sei mesi, ma niente poteva competere con il male che si trovava in quegli occhi. In quell’uomo. Non c’erano dubbi: era arrivato, alla fine, al cospetto dell’uomo bianco.
Fu spinto su per i gradini che portavano sul palco e si ritrovò direttamente davanti a lui. Il loro fantomatico nemico era a un paio di metri da lui, e non smetteva di sorridere. Era maledettamente agghiacciante.
I suoi cinque accompagnatori erano saliti con lui, e due delle guardie lo tennero fermo mentre gli aprivano le manette e gli fissavano le mani nella “gogna”, mentre l’uomo robusto si avvicinava al Bianco ( anche se a non meno di due metri da lui, non poté fare a meno di notare). Soter si sforzò di distogliere lo sguardo da loro e lo portò sulle persone, ma non era meglio. Lo fissavano tutti, in attesa.
Attesa che si concluse quando le guardie si allontanarono da lui e ridiscesero la scala, in fretta, come se non vedessero l’ora di allontanarsi da lì. L’uomo bianco avanzò fino a trovarsi davanti a lui e iniziò a parlare. Non aveva microfoni, o megafoni, ma la sua voce risuonava in tutta la sala.
 - Siete radunati qui – disse – perché come sapete la pace della nostra comunità è stata turbata molte volte in questo periodo. – Parlava in tono calmo e controllato, ma non c’era alcun tipo di calore in ciò che diceva. La temperatura nella stanza sembrò abbassarsi di parecchi gradi mentre pronunciava il suo discorso.
 - Avete saputo certamente che per ben tre volte i nostri confini sono stati violati da spie che non hanno ascoltato la mia  chiamata e ancora ritengono di essere dalla parte della ragione, cercando di abbattere la società pacifica e protetta che abbiamo tentato di costruire. La prima volta sono intervenuto personalmente e ho eliminato il problema, reagendo a un attacco diretto che quella persona aveva cercato di infliggermi. La seconda ho lasciato che la spia venisse rimandata indietro, anche se...privo di alcuni elementi fondamentali che gli avrebbero consentito di rivelare ai suoi compagni dettagli che avrebbero permesso loro di colpirci in quelli che ritengono essere i nostri punti deboli. Ora ci troviamo davanti a una terza spia.
L’uomo bianco fece un ampio gesto a indicare Soter,immobile e ammutolito alle sue spalle.
 - Io non tollero le spie. Sono subdole, doppiogiochiste e codarde. Sono al servizio di quelle persone che cercano di riportare il caos nelle vite di tutti, favorendo l’anarchia e il disordine. Perciò farò quello che sto per fare per dare a tutti coloro che pensano sia possibile distruggere l’ordine che abbiamo creato un esempio delle conseguenze di una simile possibilità. Le spie e i disturbatori vanno puniti, insieme ai sobillatori. Ricordatevi questo.
Vi fu un sinistro rumore di lama contro lama e tutti, Soter incluso, si voltarono. L’uomo che aveva accompagnato il riccio indossava ora un grembiule sopra il completo e  affilava dei coltelli, presi probabilmente dal carrello che aveva tirato a sé dal fondo del palco, pieno di attrezzi affilati e spaventosi. Sorrideva leggermente, come chi si prepara ad un compito piacevole.
 - Crowley – continuò l’echidna, imperturbabile – punirà questa spia nel modo più efficace: la sua pelle verrà scalzata dal suo corpo ed esposta in modo che chiunque, vedendola, ricordi qual è la mia opinione. Siete tenuti tutti a guardare, per imparare e non dimenticare più la lezione.
Una pausa. Tutti sembravano trattenere il fiato, orripilati dalla prospettiva.
 - Tutti coloro che hanno dei bambini con sé sono esentati.
Ciò detto, l’uomo bianco tacque e fece un passo indietro. Nessuno parlava. In fondo alla stanza, una sagoma con in braccio un’altra sagoma più piccola corse fuori, sbattendosi la porta alle spalle.
Il suono riscosse Soter. Suo malgrado, come tutti, era rimasto ipnotizzato dal discorso del Bianco, ma ora era presente. E non aveva paura: si sentiva ribollire di rabbia. Non solo per i malvagi trucchi del nemico (un demagogo eccellente,oh), ma anche per le reazioni che vedeva. Quanta stupidità poteva volerci?
 - Ma lo avete sentito? – Gridò, la voce rimbombante anche senza aiuti soprannaturali. L’attenzione si focalizzò su di lui all’istante, e lui ne approfittò. – Non capite cosa sta cercando di fare? Lui non vuole riportare l’ordine, vuole che tutto sia sotto il suo dominio! Riuscite a vederlo? A vedere cos’è veramente? Guardatelo! – Lui era impossibilitato a indicare l’avversario, ma gli occhi di tutti si girarono lo stesso su quest’ultimo, che non sembrava sorpreso, ma più che altro divertito. Questo fece infuriare Soter ancor di più. – Guardatelo in faccia e ditemi se vi fidate di lui! Potrebbe distruggervi come niente al minimo errore! Le punizioni non spetteranno solo a chi non è legato a lui, e lo sapete! Svegliatevi! E’...
Fu interrotto dalla sensazione gelida di una lama che gli si appoggiava alla base del collo. – Le tue parole e il tuo bel faccino non ti salveranno la vita,, amico – sussurrò la voce dell’uomo che avevano chiamato Crowley. Soter sentì il sudore scorrergli sulla schiena, ma non era la prima volta per lui neanche nel campo delle armi puntate alla schiena, così alzò la testa per parlare ancora...ma non ce ne fu bisogno.
 - Ha ragione! – Si levò una voce dalla folla. Tutti si voltarono, sorpresi, e istintivamente si allontanarono per creare il vuoto intorno a chi aveva parlato, un grosso orso in camicia a quadri. Anche il Bianco e Crowley sembrarono fermarsi a guardarlo.
 - Non possiamo fidarci di lui! Ci ammazzerà tutti come vuole fare a questo tizio! Non è nemmeno umano, andiamo! Per quello che ne sappiamo potrebbe essere..un mostro, o un demone!
Si levò un mormorio diffuso. Molti sembravano sconcertati,ma qualcuno...annuiva? Proprio così. – E’ vero! – Urlò un’altra voce d’uomo, un po’ più maniacale. – E’ un demone, e Dio non può più aiutarci! Dobbiamo combatterlo noi, col fuoco e col sale! Prendi questo, essere infernale!
Qualcosa volò oltre le teste delle persone nelle prime file e atterrò davanti all’uomo bianco, che non reagì minimamente. Soter lo osservò perplesso raccogliere una manciata di quello che sembrava essere sale grosso.
Poi il Bianco iniziò a ridere. Rise, e rise, ed era un suono così terribile che avrebbe potuto far cadere gli uccelli dagli alberi al solo sentirlo. La risata di un pazzo felice di aver appena fatto esplodere il suo manicomio.
Rise a lungo e quando finì si rivolse alla sua platea con un ampio sorriso. – Davvero? – Disse, soppesando il sale nella mano. – Davvero pensavate fosse così semplice, Bobby, Sam? E tutti gli altri...So tutto, non temete. Non c’era modo in cui poteste sfuggirmi, ma non vi ho fermato perché era un’idea così arguta...e così inutile. Sale con me? Avete fatto male i conti. Avreste dovuto provarlo con Crowley,sarebbe stato più efficace.
Conclusa la frase, lanciò con tranquillità il sale alle proprie spalle. Soter sentì distintamente il rumore dell’uomo in grembiule che si spostava dietro di sé, e le reazioni sconvolte della folla.
L’echidna bianco tese le mani ora vuote, e grida di dolore sorsero da dove prima si trovavano i due contestatori. La folla gemette e si agitò, senza sapere che fare.
 - Io ero qui molto prima dei demoni – disse ancora il Bianco, con una voce profonda all’inverosimile. – Ero già qui quando il vostro Lucifero era ancora un angioletto amato da Dio e sarò qui ancora altrettanto a lungo, e nessuno di voi potrà fermarmi. Unitevi a me e avrete pace. Opponetevi, e avrete...dolore.
Si voltò a guardare Soter, gli occhi che alla prima occhiata erano persi dorati ora di un colore tempestoso e in continuo cambiamento, con un sorriso malato sulle labbra. Parlò ancora, un’ultima volta.
 - Procedi, Crowley.
E fu in quel momento che colei che aveva scatenato molto di quel movimento cambiò le sorti della storia.
 
Nessuno aveva mai cercato di capire cosa accadesse nella testa di Wave.
Tutti coloro che erano entrati in contatto con lei dopo lo stupro avevano dato per scontato che fosse partita completamente, persa in un mondo tutto suo e distaccato dalla realtà, e avevano evitato di approfondire. La rondine viaggiava per il Blocco, gli occhi spalancati e fissi, e sembrava raccogliere ogni oggetto che attirasse la sua attenzione, come i bambini piccoli. Nessuno osava trattenerla o strapparle le cose di mano, a meno che non si trattasse di luoghi proibiti o attrezzi indispensabili, poiché non sapevano come avrebbe reagito e nessuno voleva anche solo rischiare di contrariare il capo. In questo modo Wave si era guadagnata il soprannome di “gazza ladra”, e aveva raccolto una quantità incredibile dell’attrezzatura più disparata.
E tuttavia, nonostante tutti questi contatti, nessuno era riuscito a capire come funzionasse davvero il suo cervello.
Da quando che l’uomo bianco l’aveva violata, ogni elemento che passava nel suo cervello veniva rivoltato, mescolato e rimasticato, formato un groviglio indivisibile di passato e presente, condito con dettagli del tutto immaginari. Ciò che affiorava più spesso, però, erano quei doveri che erano rimasti piantati talmente in profondità da non poter essere spazzati via. Per esempio, era pienamente cosciente di avere un figlio in grembo, e sapeva di doverlo custodire, perché era prezioso. Infinitamente prezioso.
E poi sapeva di dover  distruggere i nemici.
Nella follia che la avvolgeva era convinta di dover ancora far esplodere quella bomba che aveva convinto i quattro viaggiatori a partire da Metal city. Ma quel dovere non si era affacciato subito: era spuntato fuori prepotentemente dopo aver visto Aster nello studio del suo sposo. Lo shock del trovare un elemento della vita che avrebbe dovuto cancellare in quel luogo aveva fatto riaffiorare i violenti pensieri di vendetta.
E così aveva iniziato a lavorare. Sapeva cosa doveva fare, e quali oggetti le sarebbero serviti, perché erano istruzioni che aveva ricevuto dal suo sposo e che le erano rimasta impresse a fuoco nella mente, anche se schiacciate e sporcate dalla pazzia. Aveva terminato le sue opere e le aveva deposte nei luoghi ai confini estremi della sua libertà di movimento.
Ora sedeva sul letto nella stanza che il Bianco condivideva con lei solo per controllarla, rigirandosi un walkie-talkie fra le mani,sicura di quello che aveva fatto. C’era una bomba nella centrale elettrica e una nella scuola, sì. Anche se lo spostamento fra i due luoghi le era sembrato troppo breve. Ma non aveva importanza, doveva essere la sua immaginazione. Nessuno si era accorto di niente, nessuno l’aveva richiamata. Un lavoro perfetto. Ora avrebbe cancellato dalla faccia della terra tutta quella brutta gente che aveva dovuto sopportare,come l’echidna puttana, il suo sudicio bambino e il loro capo, che aveva resistito alle sue avance senza nessun motivo. Lo avrebbe fatto e lei sarebbe potuta vivere felice col suo sposo e il loro figlio in quel nuovo mondo perfetto.
Si portò il walkie-talkie al becco. Nessuno la sentì parlare, perché la sua guardia non aveva il permesso di entrare nelle camere del Bianco. Nessuno sentì le parole che continuava a ripetere davanti al suo oscuro amante.
 - Ho fatto quello che volevi.
E fu così che le due bombe che aveva nascosto nel blocco esplosero senza che nessuno se lo aspettasse. Che l’uomo bianco crollò sotto il suo vero punto debole, che non era fisico, ma mentale, perché neanche lui poteva leggere nella mente di chi non era in linea con essa, e non poteva vedere i pensieri dei pazzi.
E il giusto e l’ingiusto bruciarono insieme.
 
Sapete chi è che sparisce per mesi e poi torna con i capitoli chilometrici e pieni di cose e che ammazza i nemici inaspettatamente?
Proprio io.
E questo capitolo doveva essere più corto e le grandi cose dovevano accadere in quello dopo, E INVECE NO, perché se non porto un po' di confusione io non lo fa nessuno. Ecco.
In ogni caso siamo qui, e per favore non linciatemi. Abbiate pietà di una povera autrice.
Soprattutto tu, The New Riddler. Mi dispiace. Giuro che non avevo niente di personale contro Soter, anzi, lo adoro. Sono pure esigenze narrative. Perdonami.
Detto questo, fuggo per evitare le botte. A presto.
^Ro

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Capitolo 22
*** I see fire ***


Il tempo stava peggiorando.
Shadow ne era certo. Non solo per esperienza,ma anche grazie alle fitte sempre più forti che gli attaccavano la gamba distrutta a causa dell’umidità e non lo lasciavano mai in pace.
Non era un buon segno. Voleva dire che l’autunno stava lentamente degradando nell’inverno, e questo era estremamente pericoloso per lui. Se non fosse riuscito a trovare una soluzione, le sue uniche possibilità sarebbero presto diventate morire di fame (nonostante il razionamento serrato a cui aveva imposto le sue scatolette) o morire di freddo. Spettacolare.
Mentalmente non stava meglio di quanto stesse nel fisico. Quando anche le ossa rotte smettevano di urlare di dolore abbastanza a lungo da lasciarlo dormire un po’, il suo sonno era tormentato da incubi orribili che lo facevano risvegliare sudato e pieno d’ansia. E da sveglio, spesso sentiva in un angolino ben nascosto della mente la solita simpaticissima vocina che gli diceva molte cose che di certo non aiutavano. Sempre le stesse, più che altro. Sempre lo stesso martellante ritmo di ècolpatuaècolpatuamorirannotuttipercolpatua.
Perderai tutto di nuovo,Shadow.
E tutto perché non sei riuscito nemmeno ad arrivare a destinazione.
Se Lui non sarà distrutto e tutti moriranno sarà colpa tua.
Quindi no, in sostanza non era per niente in forma. Anzi, a voler essere più precisi, se non avesse trovato un rimedio probabilmente sarebbe impazzito. Era molto peggio di quando si era trovato a camminare da solo nella sua rotta inconsapevole verso Metal City. Ora era perfettamente a conoscenza di che cosa fosse in gioco.
Meno di ventiquattr’ore prima che la sua situazione venisse ribaltata (e, a differenza di quella dei suoi compari,in meglio), si ritrovò a cadere in un sonno agitato e a sognare qualcosa che avrebbe ricordato a lungo.
Era a Metal City, e per un momento si sentì pieno di aspettativa e speranza....fino a che non si rese conto che non era la Metal City che aveva lasciato. Era pieno giorno,ma non c’era nessuno in strada. Né si sentiva un suono. Vi era un silenzio di tomba.
Cominciò a camminare per le vie. La città era grigia e cupa, e terribilmente vuota. Non c’era anima viva. Rabbrividendo, imboccò una via a caso e come per magia si ritrovò davanti a casa sua. La porta era socchiusa.
Entrò cauto. Tutto era silenzioso come all’esterno. – Dodge? – Chiamò, colto di sorpresa dal suono della sua stessa voce nel nulla. Nessuna risposta. – Tikal?
Non udendo nulla, iniziò a girare per le stanze. Mentre camminava, calciò via alcuni giocattoli sul pavimento. Era,per assurdo, la cosa più strana fra tutte, perché Tikal non avrebbe mai lasciato che Dodge lasciasse così tanta roba in giro, a meno di non dover uscire di casa di corsa. Ma dove sarebbero potuti andare? La città era deserta.
Tutto era in ordine. La cucina pulita, i letti rifatti. Ogni cosa al proprio posto...eccetto gli abitanti della casa. Shadow sentì di non sopportare più il silenzio opprimente di quel luogo chiuso. Uscì.
Non sapeva dove sarebbe potuto andare, ma appena fuori dalla porta di casa si ritrovò trasportato davanti all’ospedale, con una di quelle assurdità che nei sogni sembrano del tutto naturali. E seguendo la stessa naturalezza, il riccio entrò nel grande edificio, sperando di trovare, se forse non il Sonic che desiderava, almeno uno straccio di persona a cui chiedere spiegazioni.
Niente. Nessuno all’interno. Infermieri, medici, pazienti....nessuno.
Sentendo sempre più il peso di quella stranezza, Shadow vagò per i corridoi, scese le scale,le salì. Provò ad aprire molto porte, ma tutte erano chiuse. Finché, in fondo a un lungo corridoio spoglio, come messa lì apposta, trovò una porta anonima che si aprì non appena la sfiorò. Entrò senza pensarci due volte.
Il sangue gli si ghiacciò nelle vene quando si rese conto di essere nell’obitorio.
Quella stanza non era stata più usata dopo la pestilenza, perché priva di energia che alimentasse le celle frigorifere, ma i tavoli di ferro (vuoti,grazie al cielo), gli strumenti, ogni cosa dava alla stanza una denominazione inconfondibile
Spinto da chissà quale ipnosi, attraversò lentamente la stanza e si avvicinò alle cellette per i cadaveri. Lanciò un’occhiata al cartellino identificativo più vicino con l’abitudine di chi scorre in fretta ogni cosa scritta che incrocia, ma il nome che lesse lo fece immobilizzare. Riportò gli occhi sulla scritta.
ALICE C.
Calmati, si disse. Può essere benissimo una donna di prima dell’epidemia. Non c’è ragione che si tratti dell’Alice che conosci tu. Sii logico.
Per provare a sé stesso che la logica era molto più utile del panico, lesse anche il cartellino accanto.
MILES “TAILS” P.
No.
Proseguì per pura inerzia, sentendo la nausea, la paura, lo sconvolgimento crescere dentro di lui. Ogni nome era legato a un volto conosciuto, ogni etichetta un colpo al cuore.
Raggiunse gli ultimi della fila con il cuore che batteva come un tamburo nel suo petto. Sentì le gambe cedere e si appoggiò agli sportelli per non cadere.
TIKAL T.E.. SONIC T.H. . E l’ultimo, con il cartellino scritto con una calligrafia grande e tonda da scuola elementare.
DODGEBALL T.H. .
Avrebbe voluto crollare lì dov’era. Vomitare. Piangere. Cercare di capire. Ma gli sportelli iniziarono a vibrare tutti insieme e lui li guardò, sconvolto, finché non si aprirono, e i cassetti coperti da teli bianchi non cominciarono a scivolare fuori senza l’aiuto di nessuno. Allora scappò.
Corse e corse e gli parve di essere tornato nel suo incubo dove era nell’edificio di Washington,con infinite rampe di scale e corridoi che sembravano non finire mai; solo che stavolta scappava dalle persone che gli erano state care, pronte a inseguirlo, ne era certo, nonostante fossero inspiegabilmente morte.
Corse fino a che non si trovò la strada sbarrata da un enorme cartello posto su cavalletti in mezzo al corridoio. Le grandi lettere rosso sangue sembrarono aggredirlo.
COLPA TUA.
Si guardò intorno, sperando in una via di fuga, ma tutto ciò che vedeva ora era un corridoio vuoto dove quelle stesse parole erano dipinte e stampate ovunque. COLPA TUA. COLPA TUA. COLPA TUA. Niente altro.
Dietro di sé sentì passi rapidi di esseri non più vivi che lo cercavano. Shadow si girò per affrontarli e si ritrovò annodato nel sacco a pelo, ansimante, in un lago di sudore e con la gamba che strillava proteste in ogni frattura. L’accusa gli rimbombava ancora nella mente.
COLPA TUA.
La punizione del Bianco per lui era in atto.
Ma lo sarebbe stata ancora per poco.
 
Accadde nel pomeriggio.
Shadow stava valutando le sue riserve di cibo. Non che gli servisse, sapeva benissimo quanto fosse grigia la sua situazione,ma aveva bisogno di occupare la mente con qualcosa che non fosse l’incubo orripilante della notte prima. L’immagine di quell’obitorio freddo pieno di gente che conosceva era ancora vivida, impressa a fuoco nel suo cervello.
Sapeva che non poteva essere vero. L’uomo bianco non poteva aver già attaccato Metal City e annientato la sua popolazione nei giorni in cui lui era stato lontano. Secondo quello che aveva saputo prima di partire, il loro nemico doveva stare ancora costruendo il proprio esercito. Quell’incubo doveva essere mirato soltanto a farlo uscire di testa. Una mossa astuta per confondergli il cervello e farlo soffrire. Già, doveva essere così. Eppure...
Si stava facendo saltellare sulla mano una lattina di carne, cercando di concentrarsi sulla possibilità di dividerla in quattro porzioni e non sull’eventualità che Dodgeball, Sonic e tutti gli altri abitanti fossero ormai defunti, quando sentì quel suono. Quell’esplosione.
Alzò la testa di scatto. Era venuto dalla direzione in cui avrebbe dovuto proseguire lui. La direzione in cui avrebbe trovato il Bianco. Era possibile che c’entrasse con lui?
Non riusciva a vedere nulla. La scarpata da cui era rotolato gli ostruiva gran parte della visuale. Goffamente, strisciò fuori dal sacco a pelo e sul limite estremo della strada su cui si trovava e spingendosi con le braccia si tirò su sulla gamba buona, ignorando le fitte di dolore. E lì vide.
Era lontano, ma non così tanto. Una macchia rossa e arancione ondeggiante che poteva essere solo un immenso fuoco. Ed era nel posto giusto. Shadow era arrivato abbastanza vicino alla sua meta da vederla bruciare, o almeno così sperava. Anzi, no, ne era certo. Perché nient’altro, saltando in aria, avrebbe potuto riempirlo di un tale sollievo, un sollievo non alimentato dalla sua opinione, ma totalmente incontrollato, come se qualcun altro fosse passato e gli avesse tolto un peso enorme dal cuore.
Sentiva fin nel profondo che stava accadendo qualcosa di giusto, finalmente. E mentre ascoltava altri botti e rimbombi provenire dal rogo del suo peggiore incubo (Chissà quante porcate chimiche e armi da far saltare avevi lì dentro, bastardo si ritrovò a pensare) , ebbe la sensazione che tutto sarebbe potuto davvero andare a posto. Il regno dell’uomo bianco era crollato sul nascere. Erano al sicuro, una volta per tutte.
Restò a guardare la fine di mesi di paura e preoccupazione, senza più sentire l’antipatica voce (che era sempre stata legata al Bianco, ah, maledetto, aveva cercato di lavorare su di lui fin dal principio) che gli consigliava di farla finita, perché  tanto non sarebbe tornato a casa vivo, fino a che le gambe non minacciarono di crollare sotto il suo peso. Allora arrancò fino al sacco a pelo, vi si avvolse e dormì fino alle prime luci del mattino successivo, di un sonno profondo e pacifico come non gli accadeva da quasi un anno.
 
Nei giorni successivi i suoi sentimenti furono contrastanti.
In parte era euforico. Non poteva non esserlo,  praticamente tutto ciò  che avrebbe potuto distruggere le persone libere era saltato in aria (e, Shadow ne era convinto, grazie allo zampino di Soter, anche se non sapeva in che modo) e la loro speranza di vita era appena aumentata notevolmente, ma al contempo la sua speranza che qualcuno passasse per quella strada (che fosse uno dei suoi compagni miracolosamente sopravvissuto o un alleato del Bianco) e lo recuperasse.
Questo finché non vide la figura che camminava in cima alla scarpata.
Non se l’aspettava minimamente. Era un pomeriggio inoltrato e lui era sdraiato nel sacco a pelo (era tornato ancora a guardare l’incendio, anche per accertarsi che non fosse stato un sogno, ma ora la sua gamba protestava  più che mai e il fuoco sembrava esservi praticamente spento), e non avrebbe visto la sagoma là in cima se non avesse alzato per caso gli occhi. Si tirò su di botto.
Quella benedetta persona, chiunque fosse, camminava a passo spedito sulla strada. Per un momento Shadow non riuscì a spiccicare parola, poi, quando la vide fermarsi davanti allo stesso ingorgo di macchine che gli era costato il viaggio, non potè non urlare. – Ehi! Ehi! Quaggiù! Aiuto.
Subito sembrò che non lo avesse sentito. Poi la persona si voltò e si immobilizzò, vedendolo. Passò un secondo. Due. Infine si mise a scendere lungo la scarpata,un po’ camminando, un po’ scivolando, mentre il riccio nero la guardava con il cuore in gola. Se cade anche lei siamo fottuti tutti e due, pensò, prima di fermarsi e chiedersi perché avesse definito automaticamente lo sconosciuto come una donna. E poi capì. Ma certo. Perché quella ERA una sagoma di donna. Una donna spaventosamente familiare. Una donna coi capelli rossi.
Alice Cross atterrò al fondo della discesa, in volto un’espressione altamente perplessa. – E tu cosa cazzo ci fai qui?
Shadow allargò le braccia. – Potrei farti la stessa domanda.
 
Sera, qualche ora più tardi.
Alice aveva più cibo di quanto ne fosse rimasto a lui, nonché la possibilità di muoversi per procurarsi del materiale da bruciare. Per questo motivo ora erano seduti di fronte a un fuoco, e Shadow approfittava del fatto di poter mangiare senza razionare il proprio cibo, cercando nello stesso tempo di capire cosa diavolo ci facesse Alice Cross lì.
- Credevo che tu saresti rimasta a Metal City. Tikal aveva minacciato di inseguirti.
- E?
- E adesso ti avrebbe lasciato andare?
La ragazza gli lanciò un’occhiata,alzando un sopracciglio. Shadow impiegò un secondo per decifrarla. Si portò una mano alla fronte. -...non lo sapeva.
- Bravo, complimenti.
- Seriamente sei partita di nascosto? Diamine,Alice, volevi ucciderla?
- Se me lo avesse chiesto solo lei forse sarei rimasta.
- E invece?
Non lo stava guardando in faccia. – Turner ha cercato di farmi giurare di non partire.
- E tu?
- E io ho incrociato le dita. Lo finisci quello?
Alludeva al barattolo di frutta che Shadow aveva in mano. – No. – Glielo passò e lei sembrò concentrarsi solo sul pescare gli ultimi pezzi di ananas dal fondo. Abbastanza distratta da farlo rischiare e continuare il discorso.
- A proposito di Aidan e degli altri....
- Mh?
- Hai visto l’incendio? Si vede ancora da lassù?
- Qualcosa. E’ quello che credo che sia?
- Direi proprio di sì.
Alice annuì. – Non c’era altra spiegazione. Ho dormito troppo bene nelle ultime notti. Troppa calma. – Una pausa. – Quanto tempo è che brucia?
- Qualche giorno.
- Quindi gli altri tre devono essere arrivati lì prima.
- Sì.
La rossa annuì di nuovo, gli occhi fissi sul fondo del barattolo. Shadow non riusciva a capire quanta di quella noncuranza fosse simulata. Era un territorio troppo delicato. – Senti, sapevano cosa li aspettava. Credo che a loro non sarebbe dispiaciuto finisse così.
- Dubito che avrebbero desiderato andare a fuoco.
- E’ stata un’esplosione. Molto più rapida.
- Oh, grazie. Davvero rassicurante. Ora perché non la pianti di cercare di analizzare i miei sentimenti e di consolarmi, visto che non ne ho bisogno e non ne sei in grado, e non fai qualche domanda più intelligente? Tanto lo so che vuoi sapere solo come vanno le cose a Metal City. Perciò chiedi quello e basta.
Shadow batté le palpebre, colto alla sprovvista da quello sfogo. - ....come vanno?
- Male. Una vera merda, in realtà. Ora dovrebbe essere migliorata, contando che il nostro amico ha fatto kaboom,ma comunque.
- Ma sono vivi? Stanno tutti bene? – Shadow aveva paura della risposta. L’immagine di quella parete di celle frigorifere piene e tremanti era ancora stampata nel suo cervello.
- Vivissimi e sani,almeno fisicamente. Ma per il resto...le notti sono uno spasso, soprattutto. Dodge piange. Tikal non dorme più di tre ore. E pensare che, avendo preso il comando di tutte le operazioni, dovrebbe essere stanchissima.
- Un attimo, ferma, Tikal ha preso il comando?
- E chi volevi che lo prendesse? Sonic, che è ancora lì che piange per il tuo culo partito? O uno dei superstiti devastati dalle bombe? Tikal ha messo tutto in regola. Dirige e dà ordini. Ha una rete di donne che fungono da sue agenti. Un governo migliore non si è mai visto. Se torni e cerchi di prendere il suo posto, ti spacco l’altra gamba.
- Hai intenzione di aiutarmi a tornare?
- Cos’altro potrei fare? Sono arrivata fin qua per ammazzare quel tipo e migliorare la situazione di quelli che sono rimasti là, ma visto che qualcuno mi ha preceduta e qualche altro imbecille si è distrutto una gamba, non mi resta che riportare quest’ultimo indietro.- Si massaggiò una tempia, sospirando. - Anche se è l’ultima cosa che vorrei fare.
Al riccio nero scappò un mezzo sogghigno. – Grazie.
- Non lo faccio mica per te. Lo faccio per Dodge. E se inizi a parlare troppo ti abbandono in mezzo a una strada. Capito?
- Sissignora.
Alice lo fissò per un momento, poi alzò gli occhi al cielo, scosse la testa e si alzò per coprire il fuoco e stendere il proprio sacco a pelo. Shadow si sdraiò, guardando le stelle che affollavano il cielo in massa, senza luci artificiali a soffocarle. Per la prima volta da quando tutto quel disastro era cominciato, osava sentirsi ottimista. Qualcuno era venuto davvero a recuperarlo,alla fine. In qualche modo sarebbe ritornato a casa, da persone che, ora lo sapeva, erano vive e vegete. Spettacolare. Avrebbe detto incredibile, ma ormai non riusciva a trovare nulla, dopo tutto ciò che era successo, di davvero incredibile.
A parte il pensiero che a salvargli la vita fosse venuta Alice.
Gli venne da ridere e ringraziò il fatto che la luce del fuoco non lo rendesse più visibile alla ragazza accanto a lui.
C’era sempre la possibilità che gli svitasse la testa.
 
 
Ora. A parte il fatto che ho scritto il capitolo alla velocità della luce mentre avrei dovuto studiare. A parte il fatto che non mi sento minimamente in colpa per questo. A parte anche il fatto che questo specifico capitolo mette fine al più bel Pesce d'Aprile che io abbia mai fatto....Insomma, a parte tutto, spero apprezziate. Davvero. Anche se all'inizio ho inserito quintali d'ansia e poi BAM! Alice.
A presto!
^Ro

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Capitolo 23
*** It's raining,it's pouring ***


- Dobbiamo andarcene da qui – disse Shadow. Alice, che stava frugando nello zaino alla ricerca dell’apriscatole, alzò gli occhi.
- Davvero? Pensavo volessi stabilirti qui per qualche anno. – Replicò in tono sarcastico.
- Quante risate. – Il riccio nero indicò il cielo verso nord-est, che era notevolmente più nuvoloso del resto. – Intendo dire in fretta. Il tempo sta peggiorando, e l’inverno arriverà ben prima del previsto. E’ un miracolo se non siamo ancora finiti nel mezzo di un diluvio o di una nevicata.
La ragazza si alzò in piedi e osservò la direzione da lui indicata. - D’accordo – disse dopo un po’ – dovremo trovare il modo di spostarti da qui.
- Qualche idea?
- Una. – Mentre lo diceva, le sue labbra si curvarono in un leggerissimo sogghigno, come se le fosse venuto in mente lo scherzo dell’anno. – Posso andare a cercare quello che serve anche subito,se ce n’è bisogno.
- Sarebbe meglio. Prima ce ne andiamo da qui, meglio è.
- Okay. Non muoverti.
- Dove vuoi che vada?
- Un suggerimento ce l’avrei.
Mentre la rossa si allontanava, Shadow restò a guardarla, più innervosito dal vederla andare via che dal loro scambio di battute. Nel paio di giorni trascorsi da quando lo aveva trovato ai piedi di quel declivio, Alice aveva percorso quella strada diverse volte, per procurarsi ciò di cui avevano bisogno. Gli aveva spiegato che una piccola salita la ricongiungeva alla strada principale,che in non più di mezz’ora di camminata portava alla città più vicina. Un percorso senza rischi,certo. Ma Shadow non riusciva a non preoccuparsi. Non potevano essere sicuri al cento per cento che l’uomo bianco non avesse lasciato dietro di sé scagnozzi o trappole.
Non poteva comunque far altro che aspettare. E aspettò. Quando Alice tornò, spingendo la soluzione ai loro problemi, potevano essere passate tre ore, più o meno.
Il riccio non riuscì a capire cosa avesse con sé fino a che lei non fu a un paio di metri dal loro accampamento di fortuna. A quel punto, si coprì gli occhi con la mano. – Stai scherzando.
- Ti piacerebbe – rispose lei, appoggiandosi al suo bottino, che altro non era che uno di quei grandi carrelli piatti usati nei supermercati per spostare oggetti di grandi dimensioni. Chissà dove lo aveva trovato.
- Perché, Alice.
- Perché è impossibile caricarti su una bicicletta o su una moto per colpa di quella maledetta gamba, e anche immaginando che io voglia mettermi alla guida di un’automobile non riuscirei a passare, perché le strade sono intasate. Non ci sono molte alternative. E non iniziare a fare storie, devo solo trascinarti fino in città.
Shadow sospirò. – Te la farò pagare.
- Seh.
Decisero di  non aspettare il giorno successivo, sarebbe stato un rischio troppo grosso. Impacchettarono il poco che avevano e lo caricarono sul carrello. Poi fu la volta di Shadow.
A forza di appoggi e spinte si ritrovò seduto su quell’attrezzo infernale, una situazione tutt’altro che divertente, tanto più che la gamba stava protestando non poco.  – Ma dove sei andata a pescare questo arnese?
- C’è un mobilificio poco fuori dalla città. Lì li usavano per spostare i mobili imballati.
Il riccio grugnì. – Fantastico.
- E smettila, dai. Fai il mobile, così ti adegui e stai zitto. E poi quando arriviamo ti monto.
- Alice...
- Si parte!
La ragazza iniziò a spingerlo di buona lena. Shadow si rendeva conto di quanto l’intera scena la divertisse, e non poteva biasimarla.  Vedere un uomo fatto più o meno nella stessa situazione di un bambino seduto nel carrello al supermercato doveva essere davvero uno spettacolo,anche se non per lui. Sono sopravvissuto all’apocalisse per finire a farmi scarrozzare così da una ragazza psicopatica. Non so neanche se devo ridere o piangere.
 
Nonostante la corporatura minuta Alice riuscì a spingerlo anche su per la brevissima salita, ma arrivò alla fine notevolmente più sudata. Shadow non poté fare a meno di prendersi una piccola rivincita.
- Ti sei pentita della tua idea adesso, vero.
- No, perché se adesso ti dessi una  spinta, tu torneresti giù e ci resteresti – ansimò lei in tono minaccioso. – Continua a tacere.
Dopodichè non si rivolsero più la parola fino a che non furono entrati in città. A quel punto Alice  fermò il carrello e si guardò intorno. – Dobbiamo trovare un posto dove stabilirci. E’ quasi buio.
- Sì, hai ragione. – Anche Shadow si mise a osservare le costruzioni che li circondavano. – Non una casa, vero?
- No. – Non c’era bisogno di porsi altre domande. Potendo scegliere, nessuno dei due avrebbe optato per una casa, dove avrebbero trovato probabilmente cadaveri e di sicuro un carico emotivo troppo grande. – Quello, invece?
Shadow seguì la direzione indicata dalla ragazza. A un centinaio di metri da loro sorgeva un piccolo e anonimo hotel. Perfetto.
- Ottimo. Andiamo.
Alice lo spinse fino all’interno, dove regnava sovrana la polvere, ma non si vedeva alcun cadavere. La rossa lo trasportò in una delle stanze al pianterreno e lo aiutò a salire su un letto, poi sparì, per ritornare non molto dopo carica di provviste. – Così non dovremo uscire di nuovo, se il tempo peggiora. – Decretò.
Fu un’ottima idea. Infatti, più o meno un’ora dopo il tramonto iniziò a diluviare.
 
Piovve per giorni e giorni, poi cominciò a nevicare.
Alice tentò un’ultima sortita quando lo strato di neve aveva già superato i trenta centimetri di altezza e ritornò con una borsa piena di ogni genere di oggetti.
- Ho preso tutte le batterie e le lampade che ho trovato. Direi che siamo a posto per un bel pezzo – comunicò a Shadow, rovesciandogli una gran quantitativo di pile sul pavimento. – Siamo stati fortunati, sembra. Non accenna a smettere per i prossimi....due secoli.
- Almeno siamo al riparo.
- Già. – La ragazza si sedette sul letto vuoto. – Cosa pensi di fare, adesso?
- Aspettare. Che la gamba guarisca e poi che le strade siano di nuovo praticabili.
Lei stava già annuendo. – Certo. Quanto, quindi?
- Un mese? Un mese e mezzo? Due? Non ne ho idea, sinceramente.
- Fantastico. – Alice si passò un mano fra i capelli. – Quindi prima che torniamo a Metal City...
- Saremo di sicuro nel 2015.
La riccia non replicò, ma si alzò dal letto e si mise a frugare nel borsone. – Vuoi del tè?
- Magari.
Nessuno dei due disse niente mentre lei versava acqua nei bicchieri di carta e ci mescolava dentro la polverina. Solo quando Alice gli passò il suo bicchiere, Shadow commentò: - Tè solubile. Un tradimento. Se Tikal ci vedesse, ci ucciderebbe.
- Ci ucciderà comunque. Se sarà ancora lì quando torneremo.
- Alice. Stanno bene.
- Non puoi saperlo. Come non posso saperlo io. Nel lasso di tempo da quando sono partita fino all’esplosione potrebbe essere successo di tutto.
- Ormai avranno imparato qualcosa. Non sono indifesi. E hanno i bambini. Ora sanno di doverli ascoltare. – Si rifiutava di usare il passato. Non poteva permettersi di pensare che gli abitanti di Metal City fossero altro se non vivi e in salute.
- Non sono delle stazioni meteo. – Alice si interruppe, sorseggiando il té, come riflettendo. – Sai, un giorno, prima di andarmene, sono andata ad aiutare con la nuova scuola. Adesso si sono organizzati un po’ meglio, la tengono dove prima doveva esserci una scuola di catechismo. Dividono  i bambini per età, insegnano loro qualcosa per davvero. Bene, quel giorno sono nel corridoio ad aiutare a tenerli d’occhio e tutt’a un tratto alcuni si mettono a urlare. Altri a piangere. Correvano da tutte le parti, si tenevano la testa. Caos totale. E quando finalmente sono riuscita ad acchiappare Dodge e a chiedergli cosa stesse succedendo, sai cosa mi ha risposto?
Shadow scosse la testa, in silenzio.
- Che l’uomo bianco era arrabbiato. Molto arrabbiato. E che faceva male. Aveva perso il controllo a un livello tale che loro lo percepivano come se gli stesse perforando il cervello. – Il riccio nero strinse i denti al sentire queste parole, ma non disse nulla.
- Ovviamente tutti gli adulti sono venuti a saperlo in un nanosecondo e si è scatenata una confusione enorme. Pensavano tutti che lui sarebbe venuto presto a distruggerli. Si nascondevano in cantina e cose così. – Alice alzò gli occhi al cielo. – Imbecilli. Non sarebbe servito a niente nascondersi, se davvero fosse arrivato. Comunque, vedi quanto sarebbe stato utile ascoltare i bambini. Gli adulti non avrebbero fatto altro che farsi prendere dal panico.
- Però loro sentivano. Sentivano le sue....frequenze, diciamo. Sarebbe potuto servire in ogni caso.
- Forse.
- Credi che abbiano sentito anche quello che è successo a me?
- Non ne ho idea. Non avevo contatti con molti bambini, di solito. Il mio punto di riferimento era Dodgeball, e lui ti cercava e ti chiamava per metà del tempo, per cui non ti saprei dire.
Shadow lasciò andare un sospiro seccato. – Stai cercando di farmi sentire in colpa?
Alice lo guardò da sopra l’orlo del bicchiere. – No. E’ un fatto. E’ solo naturale se, visto che per qualche motivo che non riesco a comprendere si è affezionato a te, sente la tua mancanza. Probabilmente ora chiama sia me che te, mentre Tikal progetta il nostro omicidio.
- Non avrà il coraggio di ucciderci.
- Ora è a capo di tutto. Se ordinasse a qualcuno di spararci quel qualcuno obbedirebbe senza porsi problemi.
- Non riesco ancora a credere che Tikal sia al comando.
- Perché? E’ organizzata, efficiente e tutti si fidano di lei. Ha convinto tutti che chiudersi in casa non sarebbe servito a nulla e che bisognava continuare a ricostruire la civiltà. Ha messo a punto la scuola e trovato qualcuno che facesse lezione ai bambini. Ha riarrangiato il corpo di polizia e ha tolto loro i teaser.
- E con cosa pensa che possano difendersi?
- Con lo spray al peperoncino. Ha parlato con Sonic e insieme hanno stabilito che fosse meno rischioso.
Sonic. Un nome, una nuova  fitta. Non ne poteva più di sentire la mancanza di certe persone. Ma non poteva lasciarsi andare a certi pensieri, soprattutto perché Alice lo stava fissando con espressione disgustata. – Ti prego, non fare quella faccia. Non pronuncerò più quel nome, se reagisci così.
Lui cercò di ricomporsi. – Quale faccia?
- La faccia di chi rimpiange tutto il sesso che non ha fatto in vita sua.
- Pensi di essere simpatica?
- Lo sarei, se tu possedessi quel dono che hanno tutte le persone normali chiamato “senso dell’umorismo”. – La ragazza si alzò di nuovo dal letto. – In ogni caso, visto che il sesso non è un’opzione, mi sono procurata qualcosa per passare il tempo. – Pescò nel borsone e ne estrasse alcuni libri, che lanciò di malagrazia addosso a Shadow.
- Ouff! Era questa la tua priorità? Libri?
- Non era la priorità, ma se preferisci passare il prossimo mese a guardare il vuoto, me li riprendo. E poi....- Si bloccò per un attimo. – Nel tuo piccolo e nebuloso cervello, ricordi ancora il mio quaderno? Quello che non volevo assolutamente che Dodgeball toccasse?
- Sì. – Era abbastanza difficile scordare cosa fosse avvenuto durante il loro primissimo incontro.
- Conteneva tutto ciò che avrei voluto ricordare del mondo di prima, più che altro citazioni di libri e di film. Pensavo non ci sarebbe stato più nessuno che le avrebbe ricordate. Però visto che io sono viva, e purtroppo anche tu, preferisco rileggermi quei libri e ricordarmele così, e magari rieducare un po’ anche te.
- Come, leggendo....Stephen King? O...per l’amor del cielo, George RR Martin? – Commentò lui scorrendo gli autori dei libri.
- Sono in tema.
- Con morte, sangue e budella?
- Esattamente.
- Io non ti capisco, Alice.
- Mi stupirei se accadesse il contrario. – Si buttò sul letto e prese a sfogliare uno dei volumi Shadow restò a guardare per un po’, prima di riprendere la conversazione.
- Alice?
- Eh?
- Quel quaderno adesso...chi ce l’ha?
Lei esitò un attimo prima di rispondere, ma quando lo fece, fu in un tono appena appena più morbido. – Dodgeball. A differenza di te, che se non sai qualcosa è perché sei stato troppo lento per coglierla, lui non ha conosciuto molte cose, e avrà bisogno di qualcuno che gliele ricordi.
- Gliele ricorderemo.
- Quando riusciremo a uscire da questo posto pieno di neve. Ora taci e lasciami leggere. Ho  tempo per sentirti sproloquiare.
Shadow obbedì, ma  con il più leggero dei sorrisi sulle labbra. Potevano essere passati mesi; lei poteva aver abbassato certe barriere e lasciato che Dodge mettesse mano sui suoi preziosissimi averi; ma certe cose non erano cambiate affatto dal loro primo incontro.
Fuori continuava a nevicare.
 
SONO IN VACANZA e quindi se Dio vuole i miei capitoli arriveranno un po' più in fretta. Anche se potrebbero essere assurdi come questo. Va beh. Posso solo incolpare il caldo.
Spero che ora siate tutti in vacanza e  che non siate stati rimandati o bocciati u.u a presto!
^Ro
PS Sì, POTREI aver caricato Shadow su un carrello dell'Ikea. Ssssssh.
PPS Potrei anche aver fatto leggere ai miei amati protagonisti Stephen King in un mondo pseudo-Stephen King. Dettagli, su. Dopotutto King si autocita sempre nelle sue storie.

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Capitolo 24
*** Coming home ***


Fu lungo. Lungo ed estremamente lento.
La gamba di Shadow dovette finire di saldarsi, e già lì ci furono problemi. Era una frattura scomposta, e lui non aveva avuto modo di steccarla, per cui si sarebbe saldata male anche se non avesse dovuto continuamente muoversi. Quando alla fine l’osso si fu saldato e Shadow poté piano piano riprendere a camminare, zoppicava così tanto che Alice non riusciva nemmeno a prenderlo in giro.
Una volta aggiustato e più o meno rimesso in movimento l’arto, lui e Alice sarebbero anche potuti partire, ma il tempo non accennava a migliorare. Oramai nevicava quasi tutti i giorni, e le strade erano tutt’altro che praticabili.
Poi, finalmente, sembrò che le giornate di cielo sereno aumentassero. Faceva sempre più freddo, ma le nevicate erano sempre più lontane le une dalle altre. A quel punto capirono entrambi che era ora di muoversi. In mancanza di previsioni meteo, non sapevano quanto sarebbe durata quella finestra di bel tempo.
Restava però ancora da trovare un mezzo di trasporto adatto. Camminare, soprattutto ora che avevano tre gambe sane in due, sarebbe stato un metodo troppo lento e avrebbero rischiato di venire colti di sorpresa da un’altra perturbazione. D’altra parte anche guidare sarebbe stato impossibile: entrambi avevano visto gli ingorghi lungo la strada e non avevano nessuna intenzione di restare bloccati (e poi Shadow continuava a ritenere l’idea di mettere Alice al volante una prospettiva agghiacciante, ma questo era un altro discorso).
Fu poi per pura fortuna che trovarono il mezzo perfetto. Saltò fuori mentre scavavano nel garage della polizia locale, e dovettero spingerlo fuori a braccia, ma ne valeva la pena.
Era un quad attrezzato a viaggiare sulla neve, grande e in ottimo stato. Non si capiva se fosse stato modificato o no, ma dietro ospitava anche un vano portapacchi che sarebbe stato di certo utile. Shadow provò ad accenderlo e il motore diede un rombo soddisfacente, ma la spia del serbatoio segnalava la presenza di pochissima benzina. Quello,tuttavia,  non era un problema. Sapeva quale valvola del distributore avrebbe dovuto aprire perché uscisse la benzina.
Il vero problema era chi si sarebbe messo alla guida. Shadow non si sarebbe fidato delle prestazioni della propria gamba neanche in condizioni stradali migliori, ma Alice  sarebbe riuscita a governare quell’affare?
Le pose la questione la sera stessa, e lei si limitò ad alzare le spalle.
- Se non riesco a guidarlo, imparerò. A Metal City hanno imparato tutti a guidare una motocicletta perché era il mezzo più comodo, vuoi che io non riesca a gestire quel coso? – Sospirò. – E poi voglio andarmene da qui il più in fretta possibile. Non voglio restare bloccata con te troppo a lungo.
- Ah no?
- No, non ti ricordi il proverbio? Se vado in giro con te imparerò anche io a zoppicare.
Shadow alzò gli occhi al cielo, ma la decisione era presa. Dopo svariate prove di guida e qualche incidente di percorso (nulla di più pericoloso di qualche spegnimento e frenata brusca, ma sufficienti a far sì che lui potesse ridere dietro ad Alice per un pezzo), furono di comune accordo nel decidere che non avrebbero potuto aspettare di più. Impacchettarono le cose necessarie, le caricarono sul quad e partirono.
 
Quel viaggio fu senza dubbio uno dei più strani che Shadow avesse mai fatto. E questo contando anche il trasporto via carrello. Mai avrebbe pensato che il suo ritorno trionfale in città sarebbe avvenuto su un mezzo di quel genere, appollaiato dietro ad una ragazza strana e potenzialmente pericolosa come Alice Cross. Non che avesse mai pensato di ritornare vivo, in effetti.
Eppure l’atmosfera di quella traversata era così singolare che non riusciva a lamentarsi. Anche se doveva viaggiare seduto dietro ad Alice. Anche se spesso dovevano fermarsi  a spingere il mezzo per aggirare ingorghi di automobili o ostacoli simili. Anche se una sera sì e l’altra pure, sia  che si accampassero al chiuso sia all’aperto, la sua gamba iniziava a cantare l’Ave Maria per l’umidità e gli sforzi. Il silenzio completo che solo il motore del loro quad rompeva e l’aspetto quasi surreale di quei luoghi completamente deserti e ricoperti di neve gli facevano ingoiare ogni protesta.
Gli animali selvatici incrociavano la loro strada quasi tutti i giorni. Avevano preso possesso di molte strutture civilizzate, ormai. Durante il terzo giorno di viaggio un giovane cervo tagliò loro la strada e si fermò a guardarli, come se stesse decidendo se considerarli un pericolo. Shadow meditò se sparargli e approfittarne per ottenere della carne fresca, ma scacciò subito l’idea. L’idea di far risuonare un colpo d’arma da fuoco in quel silenzio surreale sembrava quasi un sacrilegio. E poi voleva evitare di mettere di nuovo mano a un’arma il più a lungo possibile. Lasciò quindi che Alice ingranasse la marcia e mettesse in fuga l’animale con il rumore.
Loro due parlavano poco, e mai di argomenti spinosi. Gli eventi dei mesi passati non venivano mai citati, nemmeno di sfuggita, e raramente le persone che li aspettavano a Metal City venivano nominate. Non si trattava di delicatezza: avevano entrambi la sensazione di trovarsi in una sorta di bolla temporale, dove vedevano con chiarezza solo il presente e tutto il resto assumeva contorni sfumati. A pensarci di sfuggita, il periodo precedente finiva per assomigliare a un sogno (anzi, più che altro un incubo) molto realistico, mentre il loro viaggio sembrava dover proseguire all’infinito, con una meta molto distante e imprecisa.
Sì, fu un viaggio decisamente straniante.
L’unico argomento che sentivano di poter toccare con relativa tranquillità era l’ambito letterario. Nelle settimane di riposo forzato in quell’hotel, Shadow si era trovato a leggere opere che non si era mai sognato di toccare prima, tutte scelte da Alice. Molte lo avevano lasciato perplesso, ma almeno era riuscito a dare un’occhiata in quel mondo di citazioni che la ragazza faceva.
 
Quel giorno stavano parlando proprio di questo. Si stava facendo buio, e andavano piano per non correre rischi. – Quindi dici che Martin è morto prima di finire la sua saga? – Chiese Shadow.
- Esatto – rispose Alice in tono funesto. – Nessuno saprà mai chi siede sul trono di spade. Anche se non è detto che lui sia morto. Per quel che ne sappiamo potrebbe essere ancora vivo e prendere ispirazione da tutto questo per il prossimo libro.
- E’ possibile. Non possono essere morte tutte le celebrità, sarebbe impossibile.
- Appunto. – La ragazza fece una curva e frenò. – Ehi, sai che strada è questa?
Il riccio controllò e il cuore gli balzò in gola. – Questa è l’autostrada giusta. Se andiamo dritti di là e non succede nulla...Saremo a Metal City domani.
- Seriamente?
- Sì.
- Allora non fermiamoci adesso. – Alice rimise in moto il mezzo e proseguì.
 
Si accamparono per la notte in una stazione di servizio abbandonata, in modo da avere carburante a disposizione per fare il pieno la mattina dopo. Non volevano rischiare di restare appiedati a così poca distanza dalla città.
Nessuno dei due riuscì a dormire granché quella notte. Shadow rimase sdraiato nel suo giaciglio improvvisato dietro il bancone, ma Alice restò in piedi per un bel pezzo. Poteva vederla ingannare il tempo scorrendo gli oggetti esposti sugli scaffali alla luce della torcia.
Quanto a lui, era insieme elettrizzato e preoccupato. Non vedeva l’ora di tornare a Metal City e rivedere le persone che aveva temuto di non incontrare più. Tikal, Dodgeball. Sonic. Però era anche spaventato dalla prospettiva che, nonostante tutto, qualcosa fosse successo mentre né lui né Alice erano presenti. E se tornando avessero trovato la città deserta, o peggio, distrutta?
Questi pensieri lo accompagnarono fino a che non cadde in un sonno breve e inquieto, ma al mattino cercò di non darlo a vedere. Dopotutto in una manciata di ore sarebbero arrivati a destinazione e avrebbero visto cosa li aspettava. Preoccuparsi troppo non avrebbe cambiato nulla.
Anche Alice non sembrava al massimo della forma, ma il tono della loro conversazione rimase leggero, perfino troppo, mentre si preparavano. Mentre salivano sul quad, però, a Shadow venne in mente qualcosa che lo lasciava davvero perplesso.
- Cosa stavi facendo ieri notte? Sembrava che stessi cercando un tesoro su quegli scaffali.
- Non si può tornare da un viaggio senza prendere qualche cazzata in una stazione di servizio. Soprattutto se a casa c’è un bambino che aspetta.
- E questa regola dove l’avresti imparata?
- Sapessi.
- Parti, va.
- Ammetti che neanche tu avresti resistito di fronte a un macinapepe a forma di Dalek.
- Sicuramente.
Dal quel momento,però, scambiarono meno parole ancora di quanto avessero fatto prima. La tensione del non sapere che cosa li aspettava  a casa di sicuro non incoraggiava a parlare.
 
Avrebbero dovuto viaggiare per poche ore, ma un ingorgo di proporzioni notevoli (era lì da mesi, avrebbero dovuto fare qualcosa) li costrinse a fermarsi.  Non c’era modo di girarci intorno con il quad, e trovare un’altra strada avrebbe richiesto troppo tempo. L’unico modo era farla a piedi.
- Ce la fai con quella gamba? – Chiese Alice aggrottando la fronte.
- Arrivati a questo punto? Sì.
- Okay, allora muoviamoci.
E così camminarono. O zoppicarono, a seconda. Nonostante l’andatura lenta e le occasionali fitte alla gamba, Shadow riusciva a vedere un’amara ironia in quello che stava succedendo. Quella era la stessa strada che aveva percorso per arrivare in città la prima volta: sembrava fosse passata un’eternità, invece era stato meno di un anno prima. Da allora era successo di tutto: praticamente ogni cosa era cambiata, compreso il tenore dei suoi pensieri mentre camminava (allora era sull’orlo di un esaurimento nervoso e pronto a puntarsi una pistola alla tempia; ora, fortunatamente,no), ma la strada era rimasta uguale. Ciò era confortante, ma anche un po’ inquietante.
A causa dell’intoppo, era già sera quando oltrepassarono il cartello che. Si fermarono per un momento, per riprendere fiato e osservare le case e i palazzi davanti a loro. Shadow sentì un leggero brivido lungo la schiena. La città c’era ancora: e i suoi abitanti?
A quanto sembrava, anche loro. Infatti, poco più avanti una figura che imbracciava un’arma indefinita. – Chi siete? – Intimò. La sua voce era familiare, ma Shadow non riusciva a collocarlo. Per fortuna Alice prese parola.
- Non siamo nemici, Espio – disse ad alta voce. Dunque si trattava del camaleonte viola che faceva parte della polizia provvisoria. – Siamo Alice Cross e Shadow the Hedgehog. Spero che ti ricordi.
- Siete davvero voi?
- Chi altri dovremmo essere?
- Se siete davvero voi, e non è un trucco...Saprete qualcosa di cosa è successo a Metal City prima che partiste. No?
- Hai intenzione di farci delle domande per controllare che non siamo delle spie? Tipo parole d’ordine? – Alice sospirò seccata. – Ascolta, non so da quanto Tikal abbia deciso di mettere delle guardie intorno alla città e questo dovrebbe darti un’idea di quante settimane siano passate da quando me ne sono andata, e lui se n’era andato anche prima, perciò se vuoi chiederci qualcosa su, diciamo, gli ultimi due mesi caschi male. So che il nuovo capo della polizia è Antoine D’Coolette e che sta facendo un lavoro terribile. So che quando ho lasciato Metal City erano nati tre bambini e Annie Sawyer doveva partorire a momenti. So che dei bambini nati Ralph è morto e Ginevra era in pericolo di vita per l’epidemia. So che hanno offerto a Tikal di vivere nel palazzo municipale perché potesse gestire la  città da lì e che lei si è rifiutata perché non voleva governare nessuno. So che fa un freddo osceno e che vorrei andare in un posto al chiuso il più in fretta possibile. Possiamo passare?
Per un momento Espio non rispose, come interdetto. Poi sembrò riscuotersi e disse: - Tu sei Alice, sicuramente. E se lui è con te, va bene. Come diavolo avete fatto a tornare? Vi avevano dati tutti per dispersi.
- In teoria non avrebbero neanche dovuto sapere della nostra assenza.
- Le voci girano.
- Ovvio. – Alice mise una mano sulla spalla di Shadow e lo spinse avanti. – Muoviti, dai, andiamo in un posto più riparato.
Passarono oltre Espio, che non disse niente fino a che non furono lontani di qualche metro da lui. Poi esclamò : - Tikal vorrà essere informata!
- E informala. – Rispose Alice accelerando il passo. – Dille che siamo andati all’ospedale.
- All’ospedale? – Per quanto felice di vedere che tutto era rimasto alla normalità e tutti sembravano star bene, Shadow era confuso dalla piega che stavano prendendo gli eventi, e soprattutto dall’agitazione della ragazza. – Alice, per quale motivo non vuoi andare a casa? Siamo in viaggio da una vita!
- Devi far vedere a qualcuno quella gamba al più presto – replicò lei senza girarsi.
Era una spiegazione debole, e al riccio occorse un attimo per capire quale fosse il vero motivo della deviazione. -....oddio, Alice, tu hai paura di incontrare Tikal.
- Non è paura, imbecille, è spirito di sopravvivenza. Nel momento in cui la incrocerò voglio che sia alla presenza di testimoni.
- Andiamo, non cercherà di ucciderti.
- Puoi  giurarlo?
No, in effetti, per come stavano le cose, non avrebbe potuto giurarlo, perciò si arrese e si lasciò trascinare verso l’ospedale. Almeno lì avrebbe potuto trovare Sonic, pensò. E Tikal e Dodgeball li avrebbero raggiunti presto.
E così attraversarono la città quasi completamente al buio, punteggiata solo di poche finestre illuminate. Era quasi silenziosa come gli altri territori che avevano visitato, perché sicuramente molti stavano dormendo, ma si sentivano comunque quei rumori che classificavano con certezza la città come una  città viva.  Da una finestra sentirono uscire una musichetta da carillon e da un’altra il pianto di un bambino. Quando lo udì, a Shadow tornò in mente una  cosa che Alice aveva detto a Espio e si affrettò a chiedergliela, bisbigliando.
- Hai detto che sono nati dei bambini, prima che partissi?
- Già. I primi da donne che hanno concepito prima dell’epidemia. Eva, Ralph e Ginevra. Hanno festeggiato tutti...all’inizio.
- Perché, hanno....hanno preso il morbo?
- Sì. Tutti e tre, perché i loro padri non erano immuni. Eva è guarita, Ralph è morto e Ginevra era ancora in bilico.
- Stai dicendo che quindi non tutti quei bambini devono per forza morire?
- Esatto, le teorie dei medici sono andate tutte a puttane. E naturalmente tutti i bambini concepiti dopo l’epidemia vivranno, perché avranno due genitori immuni.
- E’...fantastico.
- Non fermarti a festeggiare, siamo quasi arrivati.
Era vero. Dalla parte da cui erano entrati in città, l’ospedale era molto più vicino di quanto non lo fosse la casa destinazione di Shadow. Oltretutto era riconoscibile anche a distanza, poiché era l’edificio più illuminato. Probabilmente quasi tutte le lampade della città erano finite lì.
Prima di entrare, Alice prese un braccio di Shadow e se lo appoggiò sulle spalle, anche se con il volto contratto in una smorfia. – Devi passare per uno zoppo credibile – disse in risposta allo sguardo interrogativo di Shadow.
- Okay. – Il riccio nero era anche grato di potersi appoggiare un po’ su qualcun altro, dopo ore di camminata su una gamba che tutto era tranne che salda, ma evitò di dirlo. Quel briciolo di orgoglio che aveva voleva conservarlo.
Fecero così il loro ingresso nella hall semi-illuminata da una manciata di lampade Coleman e raggiunsero in precario equilibrio il banco di accettazione. Alice si rivolse all’infermiera seduta dietro. – Abbiamo una frattura scomposta tenuta sottosforzo. Possiamo trovargli un letto e un dottore, per piacere?
- Certo, cara. – La ragazza, una giovane volpe dalla lunga chioma di capelli scuri, si alzò e si avvicinò a loro per aiutarli, ma arrivata davanti a loro spalancò gli occhi e la bocca. – Oh Signore, tu sei...
- Janine, per favore, no. Dimenticati chi siamo finché non arriverà Tikal a cercarci. Dacci un po’ di tregua.
L’infermiera rimase un attimo interdetta, poi raddrizzò le spalle e assunse un atteggiamento professionale. – Certo. – Squadrò Shadow con occhio clinico. – Sedia a rotelle?
- No, per carità. – Si affrettò a rispondere lui. – Ce la faccio, è una vecchia frattura, è lei che insiste per farmi visitare.
- Credo che abbia ragione. La tua gamba ha un aspetto strano. Beh, se proprio insisti su quella sedia...seguitemi.
Mentre tenevano dietro a Janine lungo un corridoio piuttosto buio, Shadow bisbigliò: - Com’è che adesso ti conoscono tutti, Alice?
- Tikal mi usa come assistente non pagata, devo sempre andare in giro con lei.
- Tipo first lady?
La ragazza non rispose, e quando Janine indicò una stanza vuota lo scaricò sul letto di malagrazia.
- Vado a vedere chi c’è di turno stanotte. – La giovane infermiera sparì. Shadow si appoggiò alla scomoda spalliera di ferro del letto. Ora si trattava solo di aspettare e vedere chi sarebbe arrivato per primo, se un dottore ( magari Sonic, anche se non ci sperava) o una Tikal in preda all’agitazione. Si rese conto che non gli importava. La realizzazione non gli era ancora caduta addosso, ma lo fece adesso. Non solo tutti erano vivi e in relativa salute a Metal City, ma c’erano anche loro.
Erano tornati a casa.
Tutto il resto non aveva importanza.
 
E sono riuscita a finire in fretta anche questo capitolo nonostante la gente che pressa.....E siamo quasi alla fine, ragazzi. I nostri baldi giovani sono tornati a Metal City sani (più o meno) e salvi. Il prossimo capitolo chiuderà la questione e anche la storia. Siamo alla frutta. Manca pochissimo. Fra un po' piango.
Vi saluto, prima di commuovermi. A presto!
^Ro

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Capitolo 25
*** Brave new world ***


Tante cose erano successe in quei mesi: alcune pericolose,altre spassose, molte decisamente assurde. Ma niente avrebbe mai superato in stranezza (e forse anche in pericolo, per alcuni di loro) il ritorno a casa vero e proprio di Shadow e Alice.
Cominciò con una porta sbattuta. I due reduci ne avevano passate abbastanza da poter sobbalzare appena sentendo il rumore, ma era solo Dodgeball. Un piccolo,scarmigliato riccio in pigiama che piombò nella stanza come un tornado e praticamente si catapultò sul letto. Incrociò Alice per prima e la avvolse in un abbraccio che durò a lungo, più a lungo di  ogni normale contatto in cui si vedesse la ragazza abitualmente, ma poi sgattaiolò via e arrancò sul letto fino a trovare Shadow, che lo strinse a sua volta e godette di quel contatto, immergendo il naso nei suoi aculei.
- Ero sicuro che tornavi – sussurrò il bambino. – Mi sei mancato tantissimo
- Anche tu, Dodge. Anche tu. – Shadow si staccò da lui per guardarlo in faccia. – Dovevo tornare, no? Come avresti fatto senza di me?
Dodgeball sorrise e Shadow pensò finalmente. La prova che niente era successo alle persone a cui teneva sedeva sul suo grembo, forse un pochino più alto, e più pesante, e con due spazi nuovi in mezzo ai denti, ma vivo. VIVO. Niente loculi da obitorio, per nessuno di loro. Non ancora.
- Siete vivi, alla fine. – Una voce nota lo distrasse da questi pensieri e il riccio alzò lo sguardo, sorpreso. Non si era accorto dell’ingresso di altre persone, ma Tikal e Sonic erano lì comunque, fianco a fianco davanti alla porta. Sonic esibiva un sorriso radioso, mentre Tikal, nonostante avesse le labbra curvate in un sorriso, sembrava rigida, come se qualcosa la sconvolgesse. Tuttavia, quando si avvicinò a Shadow, girando al largo da Alice, e lo strinse tra le braccia, fu calorosa e emozionata come lui si era aspettato, e lui l’accolse con piacere.
- Grazie – sussurrò l’echidna.
- Per cosa?
- Per essere tornato. – Fu un attimo, e poi lei scivolò via. Quando Shadow alzò lo sguardo, era in piedi di fronte ad Alice, il volto impassibile, le braccia lungo i fianchi. L’aspetto disordinato avrebbe potuto farla sembrare innocua, con solo il cappotto sopra la camicia da notte, ma in quel momento dava più l’idea di una persona molto pericolosa. La ragazza dai capelli rossi appariva nervosa sotto il suo sguardo, ma si alzò comunque. – Ciao?
- Ciao. – Tikal ripeté la parola come se non l’avesse mai sentita. – Ciao. Certo.  – Si girò appena. – Dodge, tesoro, mettiti sotto la coperta. Prendi freddo, a piedi nudi.
Il bambino obbedì subito, e appena i suoi occhi furono rivolti da un’altra parte, Tikal assestò un potente ceffone sulla guancia di Alice. La ragazza barcollò e Shadow spalancò gli occhi, sbalordito. Ecco, quella era una scena che non si sarebbe mai aspettato di vedere. Incrociò lo sguardo di Sonic, sconvolto quanto lui. Ora cosa sarebbe successo?
Dodgeball si voltò a guardare le due donne, senza capire cosa fosse accaduto, ma prima che potesse fare qualunque domanda Tikal afferrò bruscamente il braccio di Alice e la trascinò fuori dalla stanza, il volto contratto in una smorfia furibonda. Sbatté la porta dietro di sé con tanta foga che questa si riaprì, e tutti e tre rimasero a fissarla sconcertati finché Sonic non si avvicinò per accostarla di nuovo. – Lasciamo che se la sbrighino da sole, okay?
Shadow annuì. Ci fu un attimo di silenzio, che si espanse per la stanza come una nebbia, poi il riccio blu sorrise e tutte le perplessità si dissiparono. Shadow non poté fare a meno di ricambiare. Era per salvare questo che era partito in missione, cribbio. Era per questo che era tornato.
- Non avresti mai potuto avere un ritorno tranquillo, vero? – Disse Sonic accostandosi al letto.
- Mai.
- Lo sospettavo. – Si chinò a baciarlo sulle labbra e Shadow chiuse gli occhi. Per ritrovare un sapore così valeva la pena anche sopportare settimane di scatolette.
Avrebbe fatto durare quel bacio per l’eternità, potendo, ma non aveva considerato il terzo elemento nella stanza, che si fece sentire subito con un sonoro – Bleeah!
Sonic e Shadow scoppiarono a ridere senza riuscire a fermarsi. – Mi dispiace, Sonic, non possiamo darci a queste pratiche sconvenienti di fronte a un gentiluomo.
- Chiedo perdono. – Il riccio sorrise a Dodgeball, che gli fece una linguaccia e si accoccolò più vicino a Shadow.
Sonic si sedette sul letto. Com’era prevedibile, voleva sapere del viaggio e dei suoi esiti, e l’altro cercò di riassumere tutti gli avvenimenti passati, nonostante fosse estremamente difficile.  Raccontò (in maniera edulcorata, ovviamente, visto che Dodge era ancora lì) le sue vicende, la caduta, l’arrivo di Alice. L’incendio e tutte le sue conseguenze. Quando concluse, Sonic non replicò per un po’, e l’unico suono udibile era il brusio di una discussione fuori dalla porta, in cui la voce di Tikal si alzava sempre di più. Alice non avrebbe avuto una riunione pacifica quanto la sua, a quanto pareva.
- Quindi è finita. Se n’è andato. – Disse Sonic alla fine.
- Così pare.
- Lo sospettavo, sai. Lo sospettavano tutti. Un giorno, di punto in bianco, hanno iniziato tutti a sentirsi meglio. Più leggeri, più felici. Ho avuto un sacco di madri preoccupate perché i loro figli non solo non avevano più incubi, ma non si svegliavano più. Dormivano ore e ore. Probabilmente recuperavano mesi di sonno.
- Molto probabile.
- Porca puttana, guardami quando ti parlo! – L’urlo dall’altra parte della porta li fece trasalire tutti e tre. – Non è che te ne vai nel mezzo della notte, sparisci per settimane e quando torni ti permetti di ignorarmi!
- Perché Tikal grida? – Chiese Dodgeball, visibilmente preoccupato.
- Non è niente, Dodge, stai tranquillo – rispose Shadow, grattandolo dietro un orecchio. – Deve solo sfogarsi, poi le passerà tutto.
- Ne aveva da sfogarsi, d’altra parte. L’ho vista subito che Alice se n’era andata ed era...piuttosto alterata. – Aggiunse Sonic.
- Immagino. E’ vero che ha preso lei il comando?
- Oh, sì. Gestiva tutto col pugno di ferro. Lavora molto meglio di te. Penso che non ti darà più retta nessuno.
- Non ho intenzione di farmi dare retta da nessuno. Ne ho abbastanza di fare il capo. Mi ritiro.
- Molto saggio. – Il riccio blu sembrò esitare prima di continuare. – Non pensi che qualcuno degli altri possa tornare, vero?
Shadow scosse la testa. – Quasi certamente no. A quel punto avremmo dovuto essere tutti lì. Se lui non si era già occupato di loro prima, l’incendio ha distrutto tutto. Io sono stato fortunato.
- Dobbiamo ringraziare questa gamba, quindi – replicò Sonic con un sorriso appena appena triste. Si alzò in piedi. – Gamba che dovrò visitare....dopo aver controllato quelle due là fuori. Non vorrei che Tikal facesse qualcosa di cui potrebbe pentirsi. Questo silenzio mi piace poco.
In effetti, dopo il poco ignorabile grido dell’echidna, non si era sentito più molto, e ora sembrava non venisse più alcun suono da dietro la porta. Sonic si avvicinò alla porta e sbirciò fuori, dopodichè, sotto gli occhi perplessi di Shadow, tirò di nuovo indietro la testa, chiuse precipitosamente la porta e scoppiò a ridere.
- Cosa c’è? Cos’hai visto?
- No, Shadow, non posso dirtelo. Non mi crederesti.
- ...adesso devi dirmelo per forza.
- Non ce la faccio. – Il riccio medico si interruppe, travolto da un altro accesso di risa.
- Sonic.
- E va bene, va bene. Guarda, ti faccio una rappresentazione visiva, perché non riesco a dirlo a voce. Fai finta che io sia Tikal e tu Alice, okay?
- Perché devo fare io Alice?
- Perché devo coglierti di sorpresa. – Senza altri commenti, Sonic tornò da lui, gli prese il volto tra le mani e lo baciò senza troppa delicatezza. Shadow spalancò gli occhi. Okay, era sempre piacevole quando succedeva qualcosa del genere, ma se quel bacio rappresentava ciò che stava succedendo là fuori.....oddio, veramente?
- Stai scherzando – commentò senza fiato, quando l’altro si staccò.
- Neanche un po’.
Non era possibile. - Mi stai dicendo che Alice e Tikal sono là fuori che...Oh mio Dio. No.
- E invece. Devo dire che non me l’aspettavo. Certo, avevo intuito che potesse esserci qualcosa fra di loro, ma a questi assalti nel corridoio dell’ospedale non ero pronto.
- Momento, momento, mi stai dicendo che è già successo qualcosa del genere?
- Non lo so con certezza, ma diciamo che i segnali c’erano tutti. – Notando la sua espressione, il blu scoppiò di nuovo a ridere. – Dovresti vederti in faccia, sembra che ti  abbiano colpito in testa con un martello pneumatico. Davvero non te l’aspettavi? Come pensi che si siano consolate mentre non c’eri?
- Non....non COSI’. – Shadow si fermò per un attimo. – Oh cavoli, prima ho detto ad Alice che probabilmente era lei la first lady di Tikal....mi stai dicendo che è la verità?
- Ecco, credo che tu non ti sia allontanato molto dalla verità.
In quel momento la porta si aprì e i soggetti del loro discorso entrarono. Shadow si limitò a fissarle, ancora sconvolto. Alice sembrava sconcertata quanto lui, lontana dalla sua solita impassibilità; Tikal non sorrideva, ma appariva molto, molto più distesa. Tese subito le braccia verso Dodgeball.
- Dodge, tesoro, vieni. Andiamo a casa.
- Nooooo! – Protestò lui appendendosi al braccio di Shadow.
- Ascoltami, piccolo, adesso Sonic deve visitare Shadow perché si è fatto male alla gamba, e noi non dobbiamo disturbarli. Alice deve dormire, e anche per te è meglio dormire ancora un po’. Adesso andiamo a casa tutti e tre, e dopo che Alice si sarà lavata potete andare a dormire insieme nel letto grande, okay?
- Okay – sospirò il bambino, rassegnato. Stampò un bacio umido sulla guancia di Shadow e scivolò fuori dal letto, per poi lasciarsi prendere in braccio da Alice, agganciandosi saldamente al suo collo come se non volesse più lasciarla andare. Probabilmente era davvero così. Tikal li guardò entrambi con un misto di affetto e nervosismo, poi tornò a voltarsi verso gli altri due adulti. – Vi lasciamo al vostro lavoro. Fate quel che dovete fare,ma mi aspetto che torniate a casa il più in fretta possibile. Non voglio perdervi di vista per un altro secondo, chissà cosa potreste combinare. Ci siamo capiti?
- Sì, signora – replicò Shadow, mentre Sonic scattava in un comico saluto militare. L’echidna sospirò e alzò gli occhi al cielo, ma sorrideva. In fondo non poteva che essere felice della piega che aveva preso quella nottata. Fece un cenno della testa ad Alice e uscì nuovamente, seguita dalla ragazza e dal suo carico.
Quando la porta si chiuse per quella che si sperava fosse l’ultima volta, il riccio blu si girò di nuovo verso Shadow. – Allora, fammi vedere questa gamba.
Con fatica, l’altro arrotolò la gamba del pantalone per mettere in mostra il disastro annunciato. – A tua disposizione.
- Potrei prenderti in parola...Dio santo, cosa hai fatto a queste ossa? – Trasformato in meno di un secondo in medico di turno, Sonic sfiorò con le dita il profilo del polpaccio
- Fratturate male,saldate peggio, tenute sotto sforzo...fai tu.
- Quanto ti fa male?
- Adesso non molto. L’umidità  crea problemi, e gli sforzi anche, ma se la tengo a riposo non si sente quasi niente.
- Lo spero per te....Beh, non posso farci nulla, ora come ora. Andrà spezzata di nuovo e ingessata perché si saldi come si deve, o zoppicherai per il resto della tua vita.
- Che gioia – grugnì Shadow. Sonic reagì con un sorriso malizioso alla sua faccia tutt’altro che entusiasta, e allontanò le mani dalle ossa rotte per portarle alla cintura dei suoi pantaloni.
- Sonic. Cosa stai facendo.
- Devo toglierteli per effettuare una visita più accurata.
- Ah sì?
- Certo. Sarei un dottore poco affidabile, altrimenti.
- Naturalmente. – Quel discorso poteva avere solo un risultato...e stare al gioco era un piacere. – E ci sono altre pratiche che ti renderebbero più attento alle necessità dei pazienti?
- Beh, in realtà ce ne sarebbe una...Una pratica di distrazione dal dolore. – Sonic si liberò delle scarpe e si arrampicò sul letto, ora privo di ragazzini che avrebbero potuto scandalizzarsi. – Oltretutto sarebbe meglio utilizzarla subito, visto che è più complicata da eseguire con una gamba ingessata.
- Chi sono io per impedirti di fare il tuo dovere?
Saltò fuori che non avrebbe potuto (né voluto) impedirglielo in alcun modo. E alla fine anche l’ultimo pezzo del puzzle andò a posto, e l’ultima cosa che di cui aveva sentito la mancanza era lì a sua disposizione. Tutto era perfetto.
Shadow the Hedgehog era finalmente e completamente tornato a casa.
 
 
 
 ...
 
 
 
 
Maggio
 
Il maggio di quell’anno fu particolarmente caldo, e i ventilatori a pile vennero trafugati in massa da negozi e magazzini. Shadow fu molto grato di aver già tolto il gesso dalla gamba a quel punto. Già era stato insostenibile avere quel peso bollente durante l’inverno, non voleva neanche pensare a come sarebbe stato sopportarlo ora che iniziava l’estate. Anche se aveva iniziato ad apprezzare il reticolo di firme che lo ricopriva. Sembrava che l’intera città avesse voluto scrivere qualcosa; tuttavia la sua preferenza personale sarebbe sempre andata alla firma in letteroni irregolari con cui Dodgeball aveva occupato più o meno un quarto della superficie. Ogni tanto si era ritrovato a pensare, con una stretta al cuore, che gli sarebbe piaciuto vedere la firma di Soter, Aidan o Aster in mezzo alle altre, ma anche quella ferita, insieme a quelle più evidenti delle ossa, era lentamente guarita.
Ora come ora era perfettamente felice steso su una sedia sdraio fuori da casa, a prendere quanto più fresco possibile, in attesa che il sole tramontasse e che Sonic riportasse a casa Dodgeball dal loro giro al parco. In effetti, a giudicare dal rumore che sentiva sulla strada, dovevano essere di ritorno. Si alzò per andare loro incontro.
Dodge gli corse incontro appena lo vide. Era sporco di fango dalla testa ai piedi, quindi probabilmente si era divertito un mondo. – Abbiamo preso un sacco di girini, Shadow! – Esclamò estasiato.
Shadow inarcò le sopracciglia e si voltò verso Sonic, che tirò su le mani in un gesto difensivo. – Li abbiamo liberati tutti. Era puro interesse scientifico.
Essendo molto difficile prendere sul serio un uomo adulto con le scarpe e i pantaloni completamente fradici, Shadow scosse la testa. – Certo. Fammi un favore, prendi quell’altro e fatti un bagno.
- Guastafeste. – Il riccio blu fece una smorfia, poi assunse un’espressione più seria. – Ti devo parlare.
- E’ urgente?
- No, ma è abbastanza...importante.
- Dopo cena. Andate a lavarvi.
Sonic annuì e si avviò verso il bagno con Dodgeball. Shadow li seguì con lo sguardo, poi entrò a sua volta. Non sapeva di cosa volesse parlargli il suo compagno, ma non gli piaceva la sua serietà improvvisa. La preoccupazione gli impedì di godersi la cena e il racconto di Dodge delle mirabolanti avventure che lui e Sonic avevano vissuto presso lo stagno del parco, anche se non era frequente che avessero una giornata così tranquilla e potessero mangiare tutti e tre insieme.
Dopo il suo ritorno e la sua completa guarigione, Shadow si era unito alla polizia d’eccezione che pattugliava la città, lasciando l’amministrazione vera e propria a Tikal. Sonic, ancora molto impegnato dal suo ruolo di medico, si era trasferito in casa sua in pianta stabile e aveva stravolto completamente la vita sua e  di Dodge, movimentandola. A sorpresa, lui e il bambino si erano trovati ad andare molto d’accordo. Dodge non aveva nessun problema a dividere Shadow con qualcun altro (anche se era ancora piuttosto ostile alle dimostrazioni fisiche di affetto fra di loro), e oltre a questo, a quanto il riccio nero aveva scoperto, mentre lui era via, Sonic aveva legato molto con il ragazzino e lo aveva anche portato nella casa che aveva diviso con il fratello, perché cercasse qualche ricordo. A quanto pareva aveva reagito abbastanza bene all’esperienza e si era procurato diversi oggetti, fra cui un album di fotografie che ora aveva trovato posto in fondo a un cassetto. Nel complesso, quindi, tutto andava bene, nonostante l’atmosfera molto casalinga che Tikal non mancava mai di rinfacciargli ridendo. Shadow si lasciava scorrere tutto addosso; dopo una serie di disastri tanto assurdi, un po’ di normalità non avrebbe fatto alcun male, e soprattutto non si sarebbe mai lasciato prendere in giro da una persona che aveva una relazione così complicata ( nessuno ne aveva ancora capito la natura) con Alice.
Non riuscì però a far scivolare via la preoccupazione, quella sera. Fremette di impazienza finché Dodge, stremato dalle emozioni della giornata, non si addormentò e lui non poté tornare in salotto ad affrontare Sonic. – Avanti, parla.
- Sai che un sacco di gente se ne sta andando – iniziò il riccio blu. Shadow annuì. Era una cosa nota. Distrutta la  centrale elettrica e cancellata la minaccia dell’uomo bianco che aveva tenuto tutti uniti, non c’erano grandi motivi per rimanere. Ora che era tornata la bella stagione, sempre più gruppetti si spostavano alla ricerca di luoghi migliori.
- E sai anche che come medico il mio compito è essere dopo ci sono dei malati da curare.
- Te ne vuoi andare. – Non era una domanda.
- Non è così semplice. Vedi, questa era la comunità più grande: tutti quelli che erano dalla parte dei buoni venivano qui perché sentivano che qui c’erano le armi giuste per sconfiggere l’idiota supremo. Ora che lui è saltato in aria però non sentono più il bisogno di insediarsi in questo posto. Chi si era fermato altrove per l’inverno resta dov’è; chi era già qui se ne va. Si stanno formando molte piccole comunità sparse per i vari stati, e non tutte avranno un vero e proprio medico.
- Cosa stai cercando di dirmi con questo?
- Sto cercando di dirti che vorrei spostarmi fra le varie comunità a seconda delle loro necessità. Ma non mi allontanerei mai da te e da Dodgeball.
Shadow si grattò la testa, confuso. Quella proposta gli piombava addosso all’improvviso. Gli era passato per la mente di partire come gli altri, ogni tanto, ma non ci aveva mai pensato davvero. E ora, un progetto del genere...- Vorrebbe dire non avere mai una posizione stabile.
- Sì. Ma anche viaggiare e girare l’America. So che non ti aspettavi un’idea così in questo momento, e non ti sto chiedendo di decidere subito, però non pensare solo agli aspetti negativi.  Allontanarsi da questa città dove è successo di tutto potrebbe rendere tutto più facile, e vedremmo tante cose nuove. E lo so che stai pensando a Dodge, ma penso che non si opporrebbe ad andarsene. Ho tastato il terreno, e secondo me è pronto a lasciarsi alle spalle la vita di prima. Se non ha avuto problemi con la sua vecchia casa e noi saremo con lui, ce la farà. E Tikal è d’accordo con me.
- ...Tikal?
- Tu pensi che ci saremmo liberati così facilmente di lei e di Alice? Ho già parlato con loro. Sarebbero pronte a partire. Alice non ha legami forti con questo posto, e Tikal non ce la fa più a gestire una comunità che si sta sbriciolando. Tu dovevi essere l’ultimo da convincere.
Il riccio nero non rispose subito. Era una proposta insolita, e avrebbe potuto rivelarsi un disastro, ma...Ma. Andarsene. Cominciare una nuova vita, per davvero. Stravolgere tutto in positivo. Avrebbero potuto farcela. – Possiamo...provare. – Disse lentamente.
Sonic finalmente sorrise. – Grazie.
- Se arrivassimo a capire che è una pessima idea...
- Ci fermeremo. Promesso.
- Va bene,allora. Si parte.
- Ti assicuro che non te ne pentirai. – Il blu fece una pausa. – Tanto siamo al sicuro adesso. No?
Shadow esitò. Erano al sicuro? Di primo impulso avrebbe detto di sì. Il loro nemico era stato debellato. Il peso maggiore era sparito dai loro pensieri. Però...C’era qualcos’altro. Non avrebbe saputo definire cosa, ma c’era. Sentiva quella presenza a volte, la notte, quando non riusciva a dormire. L’aveva sentita la volta in cui, mettendo a letto Dodge, si era sentito chiedere da lui perché Alice non avesse riportato a casa anche Aidan, una domanda che avrebbe potuto essere la confusione di un normale bambino di sei anni (ora compiuti) di fronte alla morte di una persona cara, ma sembrava nascondere qualcosa di più. Quello stesso qualcosa, che pareva dire che non sarebbero mai stati al sicuro. Mai. Anche se avessero voltato pagina e fossero partiti.
Ma non poteva dire tutto questo a Sonic. Sarebbe stato troppo lungo da spiegare.
- Sì – disse dunque. – Siamo al sicuro.
O almeno lo sperava.
 
 
 
 
 
 
 
 
- Beh, alla fine non è stata una grande idea – commentò Crowley rivolto alla figura accanto a lui. Quest’ultima non rispose.
L’uomo robusto osservò la distesa di macerie davanti a loro, che fino a poco tempo prima era stata la base d’azione del cosiddetto uomo bianco, e ora non era altro che un insieme di detriti bruciacchiati.
- No, non una grande idea affatto. Beh, pazienza. Caramella? – Chiese, allungando il sacchetto che aveva in mano verso il suo silenzioso compagno, che ancora non rispose. – No? Peccato. Non sai cosa ti perdi. A un certo punto tutte queste delizie scadranno e non ne potremo mangiare nemmeno una senza farci venire la diarrea.
Nessuna risposta. Crowley si guardò ancora intorno. Una pessima idea davvero, ma non aveva importanza,alla fine. 
C’era sempre il piano B.
Batté una mano sulla spalla dell’altro. – Su, andiamo. Abbiamo degli affari da sbrigare, non c’è da perdere tempo.
Insieme, i due si voltarono e si allontanarono, lasciando orme profonde negli strati di terra e cenere.
Presto sparirono all’orizzonte.




 
 

Demons run, but count the cost
The battle's won, but the child is lost
When a good man goes to war.
 




THE END.
 
 E HO FINITOOOOOOOOOOOO. Ragazzi, sembrava impossibile, ma ce l'abbiamo fatta. Due anni. Fra una settimana saranno due anni che  ho pubblicato il primo capitolo e in questo momento li sto sentendo tutti. Sono lievemente commossa, perché due anni sono lunghi. E' successo di tutto, e questa storia ha segnato cambiamenti di stile, e di fandom, e di tanto altro. Quindi mi mancherà un bel po'.
Ora, siccome sono una persona quasi seria, voglio fare le cose per bene e ringraziare della brava gente.
In primis Claireroxy che avendo letto il libro originale ha capito abbastanza i miei deliri e ha suggerito per prima la coppia Tikal/Alice (ci ha ispirato tanto, questa cosa. Sappilo). Grazie. Sì, anche se non hai recensito sempre.
Poi The New Riddler, anche se è scomparso dalla mia vista, per avermi prestato Soter ( MIDISPIACEMIDISPIACENONVOLEVOCHEMORISSE).
E infine, ultima ma non ultima, naturalmente Eritrophobia che oltre ad avermi prestato Alice (te ne sei pentita a un certo punto, vero) mi ha sopportato per due anni e si è lanciata in conversazioni deliranti al sapore di Saikebon e piene di nutrie. Ti voglio bene, scema. Che il sedere di Ben Whishaw sia con te.
Ovviamente grazie anche a tutti quelli che hanno letto tutta la storia. Mamma mia, ragazzi. Che pazienza.
Cosa dire ancora? Ho lasciato delle questioni in sospeso, come il finale e la poesia (citazione estremamente necessaria di Doctor Who). Oh, sì. Ispirandomi a King non potevo fare altrimenti. Ma non temete, ci sono tanti agenti all'opera dietro questa storia. Potrebbero arrivare delle sorprese in seguito. Dopotutto, alle undici di sera c'è chi dorme, c'è chi fa festaccia, e poi c'è gente a caso che si lancia in idee assurde. Restate pure in attesa.
Detto ciò...boh, ragazzi, è finita. Ci rivedremo in un'altra storia.
Grazie e buonanotte!
^Ro

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