Won't you be my bloody Valentine

di Lost In Donbass
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Angeli che fanno l'autostop ***
Capitolo 2: *** Destinazione, negozio di Bill ***
Capitolo 3: *** Non è ottuso, è solo occidentale. ***
Capitolo 4: *** Gli uomini che sanno di fumo sono più affascinanti ***
Capitolo 5: *** Birra scura, ma stiamo scherzando?! ***
Capitolo 6: *** Te l'avevo detto che ci saremmo rivisti presto! ***
Capitolo 7: *** Riprendiamo il discorso interrotto, gattino? ***
Capitolo 8: *** Dove vai, Toooom? ***
Capitolo 9: *** L'amore può essere una menzogna? ***
Capitolo 10: *** Tu lo salverai ***
Capitolo 11: *** Non ti piace il succo di mirtillo? ***
Capitolo 12: *** Ha un volto, finalmente! ***
Capitolo 13: *** Tutti i fighi sono delle checche! ***
Capitolo 14: *** Vado all'Inferno, ma torno per cena ***
Capitolo 15: *** Insieme ce la faremo ***
Capitolo 16: *** La Regina sarà tua ***
Capitolo 17: *** Tu non sei niente! ***
Capitolo 18: *** Sesto senso, gattino! ***



Capitolo 1
*** Angeli che fanno l'autostop ***


CAPITOLO PRIMO: ANGELI CHE FANNO L’AUTOSTOP

Tom si passò una mano tra i dreadlocks con aria affranta. Di nuovo. Un altro fottuto omicidio aveva scosso Berlino, con conseguenti notti in bianco per l’Anticrimine, occhiaie e troppi caffè per rimanere svegli ore e ore senza chiudere occhio. Sospirò rumorosamente, prendendo il referto medico che il piccolo agente Muller gli aveva portato e sfogliandolo svogliatamente. Era quasi un mese che passava le sue notti sveglio, chino sul computer, impegnato a ricostruire, inviare, ragionare, catturare. Sembrava quasi che tutti i criminali della città si fossero messi d’accordo per farne passare di cotte e di crude all’Anticrimine e, in particolare, all’agente Kaulitz, che puntualmente veniva chiamato in causa in quanto “migliore agente di tutta Berlino. Un fiuto come quello di Kaulitz non ce l’ha nessuno”, citando il capo incontrastato della Polizia, la vecchia acida e sfruttatrice Angela Strauss. Solitamente Tom era fiero di essere, nonostante la giovane età, considerato così bene dai superiori, ma in quel momento ne avrebbe fatto volentieri a meno. Bevette un sorso di caffè e si concentrò sul referto. Le immagini era alquanto raccapriccianti, raffiguravano una ragazza piuttosto giovane legata come un salame a una brandina abbandonata in un vecchio ospedale psichiatrico, con due profonde incisioni ai lati del collo causate, diceva il referto, da un kris malese particolarmente affilato, alcuni tagli sulle braccia fatti post mortem e una croce di sangue sul cuore. Il rapporto diceva chiaramente “La vittima è stata prima legata, grazie all’ausilio di una dose di morfina, poi uccisa con un colpo di pistola calibro 12 dritto nel cuore quando era cosciente, dunque, una volta morta, sono stati incisi i vari tagli sulle braccia e sul collo utilizzando probabilmente un coltello di manifattura malese, comunemente detto kris, in quanto i tagli sono evidentemente stati inflitti da un lama ondulata. Successivamente, il sangue è stato prelevato e spalmato sul petto della vittima creando una croce cristiana di grandi dimensioni attraverso l’uso di un pennello.”
Tom osservò ancora un attimo le foto, e rilesse l’e-mail che gli era arrivata poco prima “La defunta si chiamava Ann-Katrin Wolf, di anni 22, la scomparsa è stata denunciata da un’amica che la stava aspettando nella discoteca della Frankfurt Strasse. Ann-Katrin era uscita a fumarsi una sigaretta, ma siccome ci stava mettendo troppo, l’amica è andata a vedere e lei non c’era più. Ha provato a chiamarla sul cellulare e l’ha sentito squillare a pochi passi da lei, abbandonato per terra. Era circa mezzanotte e mezza. Abbiamo interrogato sia la famiglia che gli amici più stretti, e sembra che la ragazza non avesse nemici e fosse piuttosto beneamata da tutti. 0Dobbiamo ancora controllare le telecamere e interrogare la gente relativa al locale.”
E-mail semplice ed essenziale, per una volta Georg non si era perso a fare i soliti commenti idioti su ogni cosa. Tom sbuffò rumorosamente, a metà tra il frustrato e il triste per la morte di quella ragazza così giovane. Diamine, aveva solo un anno meno di lui e ora, invece che essere da qualche parte a spassarsela, era sepolta nel freddo gelido della camera mortuaria due piani sotto. Certo che la vita era proprio ingiusta. Pensare che dopo tanto era riuscito a prendersi un giorno di tregua (era più che sicuro che senza una microscopica pausa sarebbe morto lui), subito gli era arrivato il messaggio di Georg “Tom, mi dispiace disturbarti anche in vacanza, ma il giorno di ferie è revocato. Torna in città, omicidio alquanto macabro e bisogno del tuo fiuto”.
Era tornato, dopo aver bestemmiato contro il corpo di polizia, contro i criminali e contro la macchina che non partiva, ma era arrivato troppo tardi. Che cavolo, da Magdeburgo a Berlino non era proprio uno sputo, e ovviamente lui aveva beccato l’unico giorno di traffico nel nodo tra le due città.  E così, in quel momento, alle undici di sera di una calda serata di maggio, era ancora in centrale a rimettersi in pari sul nuovo caso che gli si era presentato, in compagnia di una tazza di caffè rancido e il sordo ronzio dell’aria condizionata irrimediabilmente rotta. L’Anticrimine di Berlino non aveva mai avuto un soldo, non li aveva in quel momento e non li avrebbe mai avuti. Anche lo stipendio di Tom, il più valente degli agenti, era talmente misero che lo obbligava a dover dividere l’appartamento con due ragazze rigorosamente fidanzate tra loro (troppa grazia Sant’Antonio, pensava sempre Tom. Che poi, manco lui era etero, ma si divertiva a dirlo ai suoi amici per farli impazzire di rabbia) e con un ragazzo svedese fissato con il gotico. Non che non si divertisse, a vivere con quei tre fenomeni da baraccone che ora erano parte della sua famiglia, ma a volte era piuttosto imbarazzante rivelare di essere un poliziotto dell’Anticrimine ed essere costretto a vivere con un tatuatore, una cameriera e una hacker. Ascoltò le dichiarazioni dei conoscenti della povera ragazza morta. Ormai Tom aveva fatto l’abitudine, ai cadaveri, alle morti ingiuste, ai criminali che uccidevano a sangue freddo, ma ogni volta non poteva reprimere un brivido al pensiero di quanto poteva essere crudele l’Uomo in sé, più sanguinario di qualsiasi belva e più spaventoso di qualunque malattia. Quando il suo cellulare squillò, rischiò l’infarto secco sul posto. Tastò le tasche dei pantaloni sformati (ok, non era in divisa. Errore piuttosto grosso, se l’avessero beccato sarebbero stati guai, ma Tom di quelle regole se ne faceva un baffo) e tirò fuori il telefono, sperando in una telefonata miracolosa di Georg o di Gustav che gli dicevano che era tutto finito, che l’assassino era stato beccato e che lui poteva tornarsene in pace a Magdeburgo. Ovviamente, no. Era semplicemente Raghnild, la sua coinquilina hacker. Rispose controvoglia
-Raghnild, senti, sto lavorando, quante volte ti ho detto che …
-No, Tom, non riattaccare ti prego, è una questione di vita o di morte!- la vocina squillante e agitata dell’amica fece desistere il ragazzo dal riappendere. E se fosse stato veramente importante?
-Che succede?
-Oddio, Tom, devi venire subito a casa, è successo un emerito disastro!
-Ragh, non posso venire a casa, lo sai, spiegati!
-Oh, mamma mia, la caffettiera!
-La caffettiera?
-Si! Kalle ha deciso per non so quale motivo di far bollire nel caffè tre pezzetti di banana, ma poi ce la siamo dimenticata sul fuoco, e così … aaah!
-Raghnild, Dio Santo, cosa succede?!- urlò Tom, sentendo uno strillo dall’altro capo del filo e in sottofondo varie urla e imprecazioni.
-Sta esplodendo!!!! Tom fai qualcosa!
-Oh, porca ciabatta ma non vi si può lasciare soli un giorno che distruggete tutta la casa?!- ruggì il rasta.
-Lo sappiamo, scusaci, siamo tre splendidi disastri …
-Evita le citazioni da fan fiction, grazie.
-Allora non vieni?- il vocino di Raghnild si era fatto piccino.
-No, non vengo per una demenza simile! Cercate di spegnere il fuoco, piuttosto.
-Ma si è spento, solo che il caffè continua a esplodere insieme alle banane e alle fragole …
-Che c’entrano le fragole?
-Va beh, ho capito, ripuliamo tutto e quando arrivi sarà tutto lindo.
-Sarà meglio … a dopo.
-A dopo.
Prima di chiudere la chiamata sentì altre urla scomposte in sottofondo e poi il silenzio della centrale, interrotto solo dal ronzio dell’aria condizionata. Avrebbe preferito essere a casa a ripulire caffè e banane dalla cucina invece di morire di caldo sul posto di lavoro, con un referto raccapricciante in mano e il peso sul cuore della morte della ragazza. L’avrebbe vendicata, sicuramente. Avrebbero trovato il suo assassino e l’avrebbero sbattuto in cella senza pensarci su un secondo. Appoggiò la testa sul ripiano della scrivania e sospirò. Ci mancavano solo quei tre paciughi dei suoi coinquilini, con il loro caffè alla banana. Erano semplicemente disastrosi, ma Tom voleva loro un gran bene; perlomeno, lo facevano sorridere quando ne aveva bisogno e lo aiutavano quando proprio non ce la faceva più. E lui faceva lo stesso con loro, come una vera famiglia.
Sbadigliò e si alzò stiracchiandosi. Se ne sarebbe andato a casa, decise. Era l’ultimo idiota rimasto in quel posto bollente d’estate e gelido d’inverno. Tanto, aveva capito di cosa si trattava e il giorno dopo avrebbe potuto tranquillamente lavorare come se anche lui fosse stato lì, sulla scena del delitto. Afferrò la giacca e il berretto da skater e uscì dalla centrale spegnendo le luci mal funzionanti. Più che Anticrimine quella sembrava una Discarica Per Relitti In Divisa, come la chiamava Gustav ogni volta che la macchinetta delle merendine si bloccava. E tutti conoscevano la furia del pacioccone agente Schafer quando la macchinetta non funzionava.
La strada era malamente illuminata da qualche lampione polveroso e qualche falena volteggiava pesantemente attorno alla luce; chiuse la porta e rabbrividì nonostante la calura per il sordo rumore che la porta produsse nella via vuota. Si diresse velocemente verso il vecchio ma pur sempre funzionante maggiolino verde scuro che si divideva con i suoi coinquilini (anche se alla fine lo usava solo lui). Appena entrò sentì l’odore tipico di caffè stantio, di tabacco, di inchiostro e di cioccolato che pervadeva qualunque cosa appartenesse ai quattro. Lui era il caffè, Raghnild il tabacco, Kalle l’inchiostro e Claudia il cioccolato. Una miscela eccezionale che ognuno di loro chiamava casa.
Stava per mettere in moto quando sentì una voce soffocata dietro di lui urlare
-No, un attimo, fermo per piacere!
Si irrigidì meccanicamente. Da buon poliziotto era piuttosto sospettoso, ma abbassò comunque il finestrino scassato abbastanza per vedere un viso nascosto dall’oscurità abbassarsi e dirgli, ansimando evidentemente per una corsa appena fatta.
-Senti, scusa se ti ho fermato ma … avrei bisogno di un passaggio!
Tom aggrottò la fronte impercettibilmente. Voce giovane, affannata ma melodiosa. Nessuna cadenza straniera, anzi, tipico accento berlinese.
-Stai scappando da qualcuno?- chiese Tom, trasformando abilmente la deformazione professionale in una battutina di spirito.
-Potrei dirti che sto scappando da me stesso, ma in questo momento non sarebbe vero.- rispose la voce, sfoderando a sua volta un tono ironico.
-E chi mi assicura che una volta in macchina non mi assalirai e mi deruberai dei tre euro che ho in tasca?
-Nessuno. Solo la tua buona fede negli sconosciuti.
Tom si trovò a sorridere nel buio. Moriva dalla voglia di vedere quel tizio, anche se la sua testa da Anticrimine gli sconsigliava vivamente di far entrare uno sconosciuto in macchina di notte fonda. Ma poi, che avrebbe potuto fargli? Dai, aveva la pistola di servizio li attaccata e poi mica era uno sprovveduto (“non sarai sprovveduto Tom, ma sei terribilmente avventato; dovresti smetterla di giocare col rischio” gli diceva sempre Gustav).
-Dove devi andare?
-Dove devi andare tu, piuttosto. Così so dirti dove lasciarmi.
Lo sconosciuto fece il giro della macchina, aprì la portiera (Tom ringraziò mentalmente il cielo che si era premurato di aprirla con delicatezza. A Gustav era rimasta in mano, una volta) e si lasciò cadere pesantemente sul sedile vicino al suo sbuffando.
-Davvero, grazie che mi hai tirato su, non avrei saputo come fare.
Tom fece un grugnito che valeva come un “figurati”, e accese la torcia che Claudia aveva appeso al soffitto della macchina per illuminare l’abitacolo e vedere in viso l’autostoppista. E ne rimase piacevolmente sconvolto. Cioè, nessuno gli aveva detto che gli angeli facevano l’autostop. E nessuno lo aveva avvertito che gli angeli avevano senso dell’umorismo. Davanti a lui, un ragazzo che avrà avuto suppergiù la sua età, pallido, dotato di un sorriso accecante, lineamenti perfetti, occhi neri come mai Tom ne aveva visti, talmente profondi che ci si sarebbe potuti perdere dentro circondati da un pesantissimo strato di trucco che non faceva che accrescerne il magnetismo. I capelli corvini gli ricadevano ben sotto le spalle, tenuti da un lato, a ricadergli morbidamente su una spalla. Il viso da bambola si intonava alla perfezione con le collane e i bracciali borchiati che gli decoravano il collo da cigno e i polsi, così come i vestiti neri gli fasciavano alla perfezione le curve, che Tom dovette convenire, non erano niente male, anzi.
-Vogliamo andare?- la voce del ragazzo lo riscosse dalla crisi mistica che lo aveva colpito quando aveva acceso la pila. Forse faceva meglio a starsene al buio. Guidare con una bellezza così tossica al fianco poteva essere pericoloso. 
-Si, certo, allora … - boccheggiò Tom, partendo troppo velocemente e facendo lamentare il maggiolino.
-Dove sei diretto?
Dio, era intossicante anche la voce. Una serie di pensieri pervertiti bussarono alla stressata mente del rasta, ricordandogli i piaceri della carne a cui da tanto lui non si concedeva e una vocina perversa gli fece presente che non sarebbe stato male rompere la monotonia quotidiana e farsi il ragazzo. Si zittì da solo e rispose, tentando di sembrare disinteressato. Ok, che attore scadente che era. Valeva solo come detective.
-Sulla Brandenburg Strasse- evitò di dire che ci abitava.
-Dalla tua ragazza?- miagolò il suo vicino di macchina, con un sorrisino malizioso.
-Eh?!- Tom per poco non sbandò. Lui, una ragazza?! Ma manco nel peggior film romantico! E poi, cosa gli veniva in mente? Mica si conoscevano!
-Non è la tua ragazza?- il ragazzo sembrava un po’ risentito – Eppure qua c’è un biglietto con scritto “Buon Anniversario, amore mio. Ogni giorno è come il primo per me. Siamo indistruttibili, come la Millennium Falco”.
-Ah, ma no, quello è il biglietto dell’anniversario di due mie amiche.- Tom sospirò di sollievo. Come al solito Claudia lasciava in giro i biglietti degli anniversari tra lei e Raghnild e poi si lamentava che non li trovava. Ma … un attimo! Dove l’aveva beccato? – Ehi, dove l’hai trovato?!
-Beh, era posato qua davanti.
-Farsi gli affari propri è troppo difficile, vero?- sbuffò sarcastico Tom.
-Per il sottoscritto, si. Comunque, io devo andare piuttosto lontano, quindi quando tu scendi, scendo anche io. Poi andrò a piedi, cosa ti devo dire?- il tipo sbuffò una risata che a Tom fece fare una capriola al cuore.
-Come ti chiami?- disse il poliziotto.
-Bill.
-Bill?!- Tom dovette ammettere che si aspettava un nome un po’ più epico dall’angelo lì vicino. Ah, ma forse i nomi angelici erano troppo difficili da pronunciare per un umano, quindi per il suo bene ne aveva scelto uno comune. Ok, stava letteralmente impazzendo. Il caffè e il lavoro gli facevano molto male. – Ma è un nome da cane!
-E perché tu come ti chiami? Astolfo?- sbottò Bill.
-No, mi chiamo Tom.
-Nome da gatto.
-Non è vero!
-Miaoo- Bill miagolò in modo alquanto “piccante” facendo finta di graffiargli il braccio con le unghie piuttosto lunghe e acuminate.
-Sto guidando, ti ricordo!
-Ti eccito, Tooom?- strascicò il suo nome apposta, come se fosse un gatto.
-No, maniaco!- ok, quella era una bugia bella e buona, ma pace.
Bill fece un risolino divertito ma tacque. Tom sospirò rumorosamente. Avrebbe dovuto scrivere qualcosa su quella straordinaria giornata che sembrava non finire mai e sembrava destinata a riservargli una serie di sorprese gradite e non. A partire dalla mattina, quando era tornato da sua madre e da suo padre nella casa natale, al pranzo consistente in pollo alle prugne che Tom odiava ma che si ostinava a dire a sua mamma che fosse il suo piatto preferito, alla chiamata di Georg, all’intoppo sulla statale, alle ore passate nel forno centrale a documentarsi, alla mancata cena, alla chiamata di Raghnild, e infine all’incontro con  un angelo maniaco. Beh, niente male come giornata. Complimenti Tom, se volevi uscire dalla monotonia ce l’hai appena fatta.
-Ti ho visto uscire dalla centrale di polizia. Che ci facevi lì a quest’ora?- chiese Bill, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Il rasta gli lanciò un’occhiata di sfuggita e lo beccò che si specchiava in un microscopico specchietto da borsa.
-Ci lavoro, magari? Agente Tom Kaulitz al tuo completo servizio.
-Come?!
Tom inchiodò giusto in tempo per evitare il semaforo fattosi rosso all’improvviso, quasi per permettergli di fissare interrogativamente Bill e scorgere sul viso perfetto un’espressione strana. Tom era sempre stato una persona particolarmente empatica, e non gli sfuggirono le moltitudini di espressioni che vorticarono negli occhi inchiostro dell’altro, come un ventaglio che gira vorticosamente. Dubbio, ansia, paura, animale braccato. Strane emozioni. Tom vide le mani del ragazzo stringersi convulsamente attorno allo specchietto, le spalle incurvarsi, il viso farsi tutt’un tratto guardingo, come se fosse finito in un campo probabilmente minato.
-Sono un agente dell’Anticrimini- continuò Tom, guardandolo sempre di sottecchi. Bill sembrò rilassarsi impercettibilmente e annuì
-Capito. Un piedipiatti, quindi?- c’era una nota sarcasticamente amara nella sua voce, Tom la percepì chiara.
-Preferirei essere chiamato agente investigativo, comunque si, in sostanza, un piedipiatti. Problemi, cagnolino Bill?
-Assolutamente no, gattino Tom.
E quel sorriso malizioso, bastardo e scaltro si impresse a fuoco nelle retine del rasta, che ripartì una volta scattato il verde. Il maggiolino faceva sempre più fatica ad arrancare per la salita della Kartoffeln Strasse, e ansimava come se stesse per tirare le cuoia da un momento all’altro.
-Non vi pagano bene, all’Anticrimini.
-Come fai a saperlo?
-Beh, per avere una macchina così scassata … vuol dire che non hai denaro sufficiente per comprartene una decente e così sei costretto a usare sto catorcio.
-Che ne sai? Potrei anche essere appassionato di macchine vecchie, o potrebbe essere un caro ricordo della mia famiglia!
-Non ci credo nemmeno per un secondo, Tom. Non mi sembri il tipo che per legami affettivi si tiene sto coso macilento e ci va in giro per Berlino. Mi dai l’idea che tu sia uno di quelli che se potesse andrebbe in giro con una Porsche Cayenne o una Volkswagen sportiva.
Tom rimase segretamente sorpreso dalla lucida deduzione di Bill sul maggiolino. Sicuramente, era stato piuttosto intelligente e, doveva ammetterlo, aveva anche subito inquadrato il suo tipo di macchina ideale se avesse avuto i mezzi economici.
-Ottima deduzione, Watson.- ghignò Tom
-Preferirei che mi chiamassi Moriarty. Ho sempre preferito la parte cattiva di Sherlock Holmes, invece che quella buona.
-Permettimi di dissentire. Sherlock è meglio di Moriarty.
-Questo lo dici tu.
Tom si stava convincendo sempre di più che forse, invece che un angelo, aveva caricato in macchina un diavoletto in vena di scherzi. Beh, creatura divina per creatura divina, era un piacere avercelo a bordo.
-Che lavoro fai, Bill?
-Uhm, un po’ di tutto. Non ho un lavoro fisso. Comunque per ora lavoro nel negozio di un mio caro amico orientale. Anzi, ti lascio qua il biglietto da visita, se ti va di farci un passo.
Bill cavò di tasca un bigliettino rosso e lo posò sul cruscotto con un gesto languido e studiato per essere affascinante. Beh, anche senza gesti studiati, rimaneva particolarmente seducente.
-Una cosa che mi sono sempre chiesto, ma ai poliziotti è permesso portare i dread?
-Evidentemente si. Ti piacciono?- Tom andava fiero dei suoi capelli, e anche se ai primi tempi gli avevano fatto storie, ora erano diventati la mascotte della stazione del decimo distretto. “Una tiratina ai tubi di Tom, e il caso ci andrà di culo” diceva sempre Georg, ogni volta che si presentava qualcosa di nuovo.
-Diciamo che su di te sono straordinariamente sexy.
Bill si leccò le labbra in modo terribilmente seducente. Tom tentò di non far capire al ragazzo che lo stava eccitando da impazzire. La sua lucidità se ne stava andando a farsi un bel viaggetto nel Paese delle Meraviglie, così come il suo cervello fuso. Ma no, che stava blaterando? Lui era un poliziotto, una persona più o meno seria, e doveva riposarsi per bene per essere pronto a indagare a fondo sulla morte di Ann-Katrin Wolf. Non si poteva far distrarre da un tizio raccolto per strada che non faceva che ficcanasare e fare allusioni sconce. Non poteva, insomma, si trattava del suo buon nome. Eppure avrebbe dato pure il maggiolino per avercelo nel letto quella notte.
-Senti, Bill, posso chiederti che ci facevi tu lì a quell’ora?
-Sospettoso, agente?- di nuovo il tono finto innocentino che mandava nel pallone  sia il cervello che le parti basse  di Tom.
-No, curioso. Deformazione professionale.
-Beh, mi ero perso.
-Non ci credo nemmeno se me lo giuri sulla Bibbia.
I due ragazzi si scambiarono un’occhiata a metà tra il divertito e il provocatorio.
-Troppo lungo da spiegare, Tom. E comunque, se non te ne fossi accorto, siamo sulla Brandenburg e mi avevi detto che ti saresti fermato qui.
Acc … si era lasciato abbassare le difese da quel angelo con le corna! Dannazione, doveva avere proprio il cervello in pappa quella sera. Inchiodò di botto (anche perché se no il maggiolino non si sarebbe mai fermato) e sospirò
-Bene, allora il nostro viaggetto finisce qui.
-Peccato, mi stavo divertendo- sussurrò Bill, imbronciato. E lo era veramente, mostrando una smorfia talmente tenera che Tom fece fatica a non sbavare – Comunque ti ho lasciato il biglietto del negozio. Ti prego, facci un salto uno di questi giorni. Così ci facciamo un’altra bella chiacchierata.
-Ci sto. Verrò allora- Tom prese il biglietto e se lo infilò in tasca, ripromettendosi di leggerlo una volta a casa e andarci, un giorno. Per rivedere l’angelo cornuto.
-Beh, grazie ancora e buonanotte, Tom. - Bill sgusciò fuori dalla macchina e solo allora Tom poté constatarne l’altezza considerevole e le gambe che avrebbero fatto invidia a una modella. Per non parlare del posteriore. Tom cercò di soffocare un sospiro pervertito alla vista. Bill si chinò ancora e dal vetro rifece di nuovo l’unghiata piccante da gatto sillabando silenziosamente ma molto seducentemente “Miao, agente”.
-Buonanotte Bill.
Non gli uscì altro se non quella frase scontata e un sorriso ebete. Proprio quello che l’altro desiderava, oltretutto.
Lo vide dissolversi di corsa nella nebbiolina che di sera invadeva le strade di Berlino, ingranò la marcia e si diresse verso il fondo, dove c’era il suo appartamento. Aveva la testa completamente fuori uso. Bill, oddio. Un nome, un volto, una voce. Erotismo allo stato puro, pensò il rasta posteggiando il maggiolino e chiudendolo a chiave, anche se era una precauzione piuttosto inutile.
Sospirò e notò, con una nota di disappunto ma allo stesso tempo di sollievo, che le luci di casa erano accese e intravide la sagoma di Kalle dietro alla finestra che leggeva un libro. A volte i suoi amici lo aspettavano alzati, per non fargli trovare la casa al buio dopo “un’orrorifica giornata nel cinema horror più spaventoso che ci sia” come Raghnild definiva spesso il suo posto di lavoro. E forse la hacker non aveva tutti i torti, in fondo. Era veramente un cinema horror di ottima qualità.

***
nota dell'autore psicotico (muahahahahah)
ciao a tutte,
questo è il mio primo vero thriller dopo un'indigestione di Criminl Mind e di dischi dei nostri amati TH. Questo tossico connubio ha dato vita a ciò che avete appena letto (oh, eroiche lettrici!)
Gli aggiornamenti saranno settimanali, salvo imprevisti tipo serial killer infuriati che mi vogliono eliminare.
Grazie a tutte,
a presto
Charlie 
xxxx

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Capitolo 2
*** Destinazione, negozio di Bill ***


CAPITOLO SECONDO: DESTINAZIONE, NEGOZIO DI BILL

-Questo è un problema. E anche grosso.
Tom e Georg si scambiarono un’occhiata disperata. Il cadavere che giaceva ai loro piedi era conciato esattamente come la povera Ann-Katrin, con l’unica sostanziale differenza che era un ragazzo di 25 anni e che era stato trovato sul binario morto di una stazione appena fuori Berlino.
-Ci mancava giusto un serial killer.- commentò Gustav, smettendo di rosicchiare patatine per un secondo, che già era tanto.
-Cosa sappiamo?- fece Georg con aria mogia, guardando Tom di sottecchi.
-Beh, non è uno stupratore, non gode nell’uccidere le vittime ma nel torturarle post-mortem, ha un kris malese che non è cosa da poco e nasconde le sue vittime in luoghi abbandonati. Non gli fa schifo il sangue, è particolarmente preciso, ha molta morfina e, o è un fervente cristiano, oppure disprezza il cristianesimo.
-Ti rendi conto che hai appena detto un contro senso?
-Idee migliori, agente Listing?
-No, però dico tra un fervente cristiano, che quindi ragionevolmente richiama Dio anche in una situazione così mostruosa e uno che lo vuole disprezzare ce ne passa.
-Allora, riformulo la frase. Se è credente, potrebbe richiamare Dio proprio come se stesse facendo una “pulizia divina”. Potrebbe credere che le vittime avessero compiuto uno sgarbo al Creatore e lui si crede il prescelto per punirle.
-Pregate che non sia così- interruppe Gustav – I criminali religiosi sono i peggiori. Non li smuovi manco con una pistola puntata alla tempia.
-Se invece non crede- continuò Tom, ignorando l’amico – Potrebbe essere una forma di denigrazione della religione cristiana.
-Tipo un musulmano convinto o un ebreo?
-No, solitamente questa forma di violenza religiosa è fatta da ex credenti. Gente che è convinta di essere stato tradito dalla propria religione, e si vendica in questo modo. – spiegò Tom con aria saputa.
Georg e Gustav lo guardarono scuotendo la testa.
-Ci fai sentire stupidi, Kaulitz.
-E voi mi fate sentire un secchione stronzo.
-Teoricamente era un complimento, il nostro- ribatté Georg.
-Sapete sempre come far sentire una persona a suo agio.
Tom si passò una mano tra i dreadlocks sbuffando.
-Non ti puoi, tipo, mettere in malattia per due giorni?- chiese Gustav – Magari così ti riposi e sei meno nervosetto con i tuoi amici.
-Con un serial killer in giro e con una manica di poliziotti incapaci io non mi metterò mai in malattia, neanche se mi prendessi l’ebola.
Tom si diresse a passo spedito dall’agente capo Mann, pronto a esporre il suo giudizio di base e a chiedere coordinazione per le indagini. Se fosse stato per lui, avrebbe volentieri agito di testa sua, ma da quando era entrato in Polizia gli era stato chiaramente detto “Se non obbedisci, sei fuori”. E Tom non voleva rimanere fuori, anche se già più di una volta aveva seriamente rischiato che lo cacciassero per la sua indipendenza. Ma a volte erano così inetti di fronte all’evidenza … così schiavi della burocrazia, così approfittatori da non preoccuparsi minimamente della gente su cui loro avrebbero dovuto vigilare. A Tom quello non andava giù. Era entrato in Polizia per un motivo ben preciso: proteggere la popolazione dai malintenzionati e assicurarli alle patrie galere. Si, come si vedeva nei film e si leggeva nei libri. Sua madre lo aveva avvertito che non sarebbe stato così, e non aveva torto, quello no. Comunque fosse, Tom faceva di tutto per essere “il poliziotto da film”, pronto a sacrificarsi per la patria e la giustizia. Ragazzo ammirevole, di certo. Troppo compreso nella parte per sopravvivere, senza ombra di dubbio.
-Allora, Kaulitz, senti qua. Il ragazzo si chiamava Wolfang Goethe, 25 anni, lavorava come pizzaiolo in città, denunciata la sua scomparsa questa mattina presto dalla madre con cui viveva. Non l’ha visto rientrare dopo il giro delle pizze e stamane non era ancora tornato. Teoricamente la caccia sarebbe dovuta scattare entro quarantotto ore, ma caso vuole che un passante fermatosi per espletare bisogni fisiologici qui, abbia visto il cadavere.
-Colpisce vittime a basso rischio- Tom si accarezzò il mento pensieroso.
-Appunto. È sicuro di sé, questo assassino. Tutta gente del centro, vite normali, con famiglie e amici pronti a cercarli.
-Come pensiamo di agire?
-La cosa spaventevole è che ha un tempo ristrettissimo. La Wolf è stata uccisa ieri notte, verso l’una e mezza circa. Goethe questa mattina verso le tre. Un solo giorno di distanza tra gli omicidi.
-Secondo me pesca a caso le sue vittime. Non ha un criterio, le trova e colpisce.
-Ma cos’è, gira con kris, morfina, pistola e tutto l’occorrente?
-Non sarebbe una novità. Porta tutto l’occorrente per gli omicidi e quando vede una vittima da sola che lo ispira, colpisce.
-Spudorato, eh?
Tom e l’agente capo Mann si guardarono. Ci mancava veramente un serial killer …
-Bene, Kaulitz, manda Listing a parlare con i familiari di Goethe. Tu, vedi di attivare il tuo fiuto e vai con Schafer dal medico legale per sapere qualcos’altro.
Ogni volta che gli dicevano così, a Tom sembrava sempre che lo stessero volgarmente usando come jolly. Incassò in silenzio, annuì e andò da Georg e Gustav a illustrare velocemente.
-Ma perché mandano sempre me a parlare con i familiari?- si lamentò Georg – Lo sapranno che ho delle capacità limitate di dialogo con la gente in lacrime!
-Piantala di lamentarti Geo, e vai veloce. Ah, e poi, dopo aver esposto la questione agli altri esponila a me in privato. Sai che preferisco.- disse Tom, acchiappando Gustav per un braccio e trascinandolo in auto.
Quando furono nello studio del anatomopatologo Gustav trattenne un conato di vomito. E allora, perché mandavano sempre lui dai cadaveri, che poi gli rovinavano la digestione? La direzione dell’Anticrimine era veramente ingiusta!
-Trovato qualcosa, Heike?
Una bella ragazza con i fluenti capelli biondi si girò verso di loro e rivolse a Tom un sorrisone da copertina. Era esattamente un anno che Heike cercava di estorcere un appuntamento a Tom, o perlomeno un bacio. Ed era anche stato inutile la sfuriata esasperata del ragazzo che, dopo che lei per l’ennesima volta aveva cercato di baciarlo, aveva urlato “Basta Heike! Sono gay, ok? Non me ne frega niente dei tuoi baci!”. Ma lei niente, non gli aveva creduto, e se ne era andata con un sorrisino malizioso e la frase “Quando sarai pronto dimmelo”.
Dal canto suo, Gustav sbavava da tre anni dietro a Heike, e prontamente veniva ignorato. La vita era ingiusta, per il povero agente Schafer. Tom, che era bello e avrebbe avuto solo l’imbarazzo della scelta tra poliziotte, dottoresse e scienziate, nemmeno le guardava. Lui che avrebbe fatto scintille veniva relegato alla dimensione della friend zone e dell’ “orsacchiotto tenero”. Veramente sfigato.
-Allora, guardate qua. – li fece avvicinare al cadavere del ragazzo – Il colpo di pistola è stato sparato direttamente nel centro del petto, poggiando l’arma sulla pelle, infatti noterete la leggera bruciatura del calore sulla pelle. Morti immediatamente, e fortunatamente la pallottola è rimasta incastrata nella cassa toracica delle vittime. Provenienti dalla stessa pistola, calibro 12. Prima di essere uccisi, li droga pesantemente con la morfina. Sembra che gli inietti con una siringa la droga direttamente nella vena del collo.
-Morfina?- chiese Gustav – E perché non utilizzare il cloroformio? Almeno la vittima dorme e non ci sono possibilità che si ribelli.
-Li vuole vivi, Gus. Non vuole che soffrano, ma li vuole vivi prima di ucciderli- rispose pensieroso Tom.
-E non sarebbe più semplice dargli una botta in testa? Innocui per un po’, e poi si svegliano abbastanza addormentati.- suggerirono in coro perfetto Heike e Gustav, scambiandosi un’occhiata. Quell’espressione nata sul viso del rasta rappresentava solo una cosa: il segugio era all’opera, e seguirlo non sarebbe stato semplice.
-A meno che l’assassino non sia fisicamente debole- ribatté Tom, incrociando le braccia al petto – Potrebbe non essere in grado di tramortire le vittime, entrambi giovani e in forma e ricorre quindi alla droga.
-Si, ma ti ricordo che la morfina si somministra solo in endovena. Per via orale, ci mette anche un’ora per fare effetto.- disse Heike.
-Allora vuol dire che li avvicina con una scusa e poi li droga quando loro non se ne accorgono.
-Ma non ha senso, Tom!- sbottò Gustav.
-Sentite, è solo una supposizione fatta sul momento. Heike, vai avanti per favore.
-Bene, dicevo, dopo aver sparato, pratica dei tagli piuttosto profondi, ma non troppo, sulle braccia delle vittime. Vedete?
Tom e Gustav osservarono i tagli lunghi e obliqui che sfiguravano le braccia del cadavere. Effettivamente, sembravano praticati con una lama obliqua.
-Che mi dici dell’arma?- borbottò Gustav.
-Potrei scommettere che si tratti di un coltello a lama obliqua, quindi ragionevolmente potrebbe trattarsi di un kris malese. Leggeri, pratici, affilatissimi, letali. Anche ai lati del collo ci sono due incisioni. Parlo di incisioni perché sono corte, profonde, quasi scavate. Il sangue è poi stato prelevato con un pennello.
-Un pennello?!- i due poliziotti fecero tanto d’occhi.
-Ho trovato un pelo di cinghiale, che solitamente sono utilizzati nei pennellini da artista dei tempi che furono nel sangue secco sul petto; sembra che abbia dipinto le sue vittime con questa croce. Vorrei farvi notare che non è tremolante, la mano è sicura, decisa ma aggraziata allo stesso tempo.
-Vuoi dire che il nostro S.I. potrebbe essere un pittore?- ragionò Gus.
-Non lo so, è solo un’idea- Heike si strinse nelle spalle.
-Bene, grazie Heike. Ti faremo sapere. Andiamo Gus.
Tom si avviò a passo di carica verso la porta, seguito dal biondo che lanciò un’occhiata innamorata alla dottoressa; quest’ultima nemmeno se ne accorse, tanto presa a fissare Tom sospirando.
I due salirono in fretta negli uffici dove trovarono Georg con un sorriso soddisfatto sul viso.
-Che hai da sorridere, Georg?
-Per una volta, la fortuna ci ha sorriso. Poco fa, dopo che ho parlato con la madre della seconda vittima, che, per inciso, non ha fatto che piangere, è venuto in centrale un tizio. Questo qui ha detto di aver visto i telegiornali mattutini e di aver riconosciuto Goethe.- il ragazzo si mise comodo, fiero di poter, per una volta, raccontare lui a Tom qualcosa di utile sul caso – Ieri notte, stava passando per la Norimberga Strasse e si è scontrato proprio con la vittima, che evidentemente stava rientrando a casa dopo la consegna pizze. Fin qui, niente di strano, ma poi ha sentito un rumore sordo alle sue spalle, si è girato e indovinate cos’ha visto?
-Il nostro assassino illuminato da un lampione così ora abbiamo l’identikit e ce ne possiamo andare a casa a pranzare?- ironizzò Gustav.
-No, troppa grazia Sant’Antonio. Ha detto però che ha visto Goethe chinarsi di colpo e qualcuno che non è riuscito a vedere per terra nel vicolo. Il testimone stava già per andare a vedere che stava accadendo, quando, per nostra sfiga, gli squilla il cellulare. È suo padre che si è sentito male nella notte e quindi il testimone è corso subito in ospedale, lasciando evidentemente l’assassino libero di compiere il proprio omicidio.
-Cristo, perché i genitori si sentono male sempre e solo nei momenti inopportuni?!- cristò Gustav.
Tom si sciolse i dread e sorrise
-Perfetto. Allora andiamo a fare un passo in questo vicolo misterioso e cerchiamo indizi. Vedi Gus, te l’avevo detto io che li attirava con una scusa!
I tre ragazzi salirono sulla vecchia volante che perdeva i pezzi e che era stata battezzata “Berta, la vergine di ferro”. Gustav aveva anche inaugurato il nuovo proverbio della centrale del decimo distretto, ovvero: ai tempi in cui Berta andava …
Nel percorso verso la Norimberga Strasse, Gustav e Georg si scambiarono i rispettivi dati d’indagine, fingendo per un po’ di essere seri poliziotti dell’Anticrimine.
Tom intanto ragionava febbrilmente su quello che aveva loro detto Heike e lo incrociò con la testimonianza raccolta da Georg. Se veramente l’assassino drogava le sue vittime, poteva essere che le attirasse nei vicoli con una scusa e poi le coglieva di sorpresa … cosa avrebbe fatto lui?  Una cosa per cui sei certo che la gente si fermi? Fingere di stare male! Ecco, e se l’assassino avesse finto di stare male e le vittime fossero andate lì per soccorrerlo, lui avrebbe benissimo potuto iniettare la droga prendendole di sorpresa … tanto più che con quel caldo tutti giravano in maglietta o canottiera. Ma erano solo supposizioni insensate, avrebbe dovuto fare un sopralluogo serio. Però, ragionandoci, mettendo che non avesse la forza di stordire le vittime, come avrebbe fatto a portarle in quei luoghi sperduti? In macchina. Ma per trascinarle in macchina senza farsi vedere? Forse … ma la voce di Georg lo distolse dai suoi pensieri.
-Eccoci qui. Questo è il vicolo indicatoci dal testimone.
Il trio scese e si ritrovò davanti a un vicoletto stretto e sudicio, schiacciato tra due vecchi palazzi della corta Norimberga Strasse, una via piccola e antica, poco frequentata, se non dagli abitanti. Posto tranquillo, di quelli in cui non succede niente, fino a quel momento.
Tom si fece avanti nel buio del vicolo, e le nubi plumbee che ricoprivano Berlino quel giorno non aiutavano.
-Cosa cerchiamo di preciso?- chiese Gustav.
-Il naso di Gogol- rispose sarcastico Tom.
-Il naso di chi?
-Lascia perdere e cerca qualunque cosa possa aiutarci.- li zittì Georg.
Tom si inginocchiò per terra e, tappandosi il naso per non sentire il tanfo nauseabondo che usciva dai bidoni trasbordanti spazzatura, osservò con attenzione le pietre dismesse del vicoletto. Cercò di ricostruirsi la scena nella mente. L’S.I. lì per terra, raggomitolato, in attesa che qualcuno passi a “soccorrerlo”. Goethe passa, lo vede lì per terra e si affretta a chinarsi su di lui. Cosa fa l’assassino? Aspetta un po’, fa la sceneggiata, e quando la vittima è in posizione svantaggiata gli pianta con violenza la siringa nel collo. È buio, deve sapere benissimo dove si trova la vena. Agisce, e la vittima cade per terra. Cosa fa allora? La morfina ha effetto immediato?
-Ragazzi, qualcuno sa se la morfina ha effetto immediato o no?
Georg prese il cellulare e cominciò la ricerca. Dopo poco spiegò
-Beh, qua dice che se presa per endovena ha effetto più o meno immediato e che i sintomi sono sonnolenza, liberazione dai problemi, trasognatezza, roba simile.
-Allora vuol dire che il nostro S.I. le droga apposta per lasciarle in stato semi comatoso.- fece Gustav.
-E fino a prova contraria, fa così perché non avrebbe la forza né di dargli una botta in testa e nemmeno di trascinarle in macchina!- Tom saltò in piedi. – E oltretutto non desterebbe sospetti. Nella notte sarebbero semplicemente due persone che salgono in auto, nessuno si accorgerebbe che una è drogata.
-Giusto! E allora l’assassino potrebbe essere  anche una donna, o un uomo molto debole- continuò Georg.
-Sicuramente- annuì Tom – Torniamo in centrale, tanto qui non c’è più niente da vedere.
Una volta in centrale, Tom prese un foglio e cominciò a scrivere tutto quello a cui era giunto, che fosse giusto o meno.
“S.I. = donna, oppure uomo molto debole. Possiede molta morfina (Morfinomane? Medico? Paziente in cura? Farmacista?) e relativa siringa; possiede una calibro 12 e un kris malese; cristiano fervente o denigratore del Cristianesimo; pittore? Pennello di peli di cinghiale; luoghi solitari”
-E’ proprio un bel casino- sbottò alla fine, buttandosi a peso morto sulla sedia girevole. A causa di quel brusco movimento, un bigliettino gli scivolò fuori dalla tasca. Si chinò e lo tirò su con curiosità, rigirandoselo tra le dita.
Era un biglietto da visita rosso fuoco, scritto in blu e ricco di delicate decorazioni in giallo canarino. Citava scritto:
“Chincaglieria e ammennicoli vari”
Tutto per la magia!
Dai vasi cinesi alle bambole voodoo
Costanze Strasse, n13
Tel&fax: 003936667
 
Tom fece un mezzo sorriso. Era il negozio dove lavorava l’angelo Bill, l’autostoppista sexy della sera prima. A pensare al sorriso malizioso e al “Miao agente” con cui si era congedato, una scarica di eccitazione si ripercosse nella spina dorsale di Tom. Si, sicuramente sarebbe dovuto ritornare in quel negozio, e anche di corsa. Per rivedere Bill, per chiacchierare ancora con lui, per poterlo vedere alla luce del sole e poterlo studiare per bene. Sospirò rumorosamente al pensiero di quel ragazzo così strambo e così bello, perdendosi per un attimo nel suo mondo, fissando la finestra polverosa, sfarfallando ogni tanto gli occhi. Così bello …
-Tom? Sei tra noi? Terra chiama Tom!
La voce spoetizzante di Georg lo riportò bruscamente alla puzzolente centrale e alla calda e umida Berlino, strappandolo dalla sdraio a Malibù con Bill in braccio intento a sbaciucchiarlo e a imboccarlo di acini d’uva fragola.
-Cosa c’è?
-E’ tanto che non ti vedo trasognato in questo modo. Hai visto la Madonna?
-No, meglio … - sussurrò Tom, ripiombando a Malibù con Bill appeso al braccio e la luna che sorgeva sulle acque scure dell’oceano Pacifico e lui che ogni tanto gli baciava i capelli mentre passeggiavano e il suo angelo con le corna che gli accarezzava la spalla e …
-Ok, ho capito, lasciamo stare le tue perversioni e torniamo al killer- sbuffò Georg scuotendo la testa.
-La vedi questa croce?- gli sbatté davanti al naso la foto della croce sui cadaveri.
-La vedo Georg, e allora?
-Heike, che detto fra noi non sai cosa ti perdi, ha notato qualcosa che prima non aveva notato assolutamente. Le croci non sono semplici croci cristiane, ma hanno un piccolo dettaglio. Guarda bene.
Tom se le avvicinò agli occhi e, effettivamente, notò qualcosa che prima non aveva minimamente visto. La croce aveva due “sbavature”, che evidentemente sbavature non erano, che dal incrocio dei due bracci si dipartivano due bracci più piccoli uno in su e uno in giù, laterali.
-Oh, cazzo- soffiò, spalancando gli occhi.
-Quello che ho pensato anche io. Oh, cazzo- fece Georg
Tom fissò l’amico sbattendo gli occhi, stupefatto.
-Allora l’idea del criminale religioso muore ancora prima di essere espressa- disse Tom.
-E meno male- commentò Gustav, sedendosi vicino al rasta con un hamburger in mano. – L’avevo detto io, che dovevamo pregare affinché non ce ne capitasse uno.
Tom non lo stette nemmeno a sentire. Si girò dal computer e digitò una serie di dati a raffica, facendo gemere il computer sotto le sue dita veloci e allenate. Georg e Gustav si scambiarono l’occhiata che poteva solo che significare “E’ partito. E non saremo di certo noi a fermarlo.”
Poco dopo, videro Tom balzare in piedi come una molla e afferrare la giacca
-Ragazzi, ho una missione da compiere. Credo di aver capito qualcosa sul disegno fatto dall’assassino.
-E no, bello, tu non vai da nessuna parte. Spiegati!- lo rimproverò Gustav, afferrandolo per la manica della felpa.
-Dai, Gus, appena ho finito giuro che vi dico tutto tuttissimo. Ora … non sono nemmeno certo di fare la cosa giusta, quindi lasciatemi andare. A dopo!
Tom eluse la mano di Georg pronto ad agguantarlo e si precipitò fuori dalla porta, sul maggiolino e partì rombando.
Destinazione, negozio di Bill.

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Capitolo 3
*** Non è ottuso, è solo occidentale. ***


CAPITOLO TERZO: NON E’ OTTUSO, E’ SOLO OCCIDENTALE.
Quando Tom arrivò al n13 della Costanze Strasse, si trattenne a forza nel ritornare in macchina e fuggire nuovamente al sicuro in centrale. Il negozietto che aveva davanti sembrava un piccolo covo da Chinatown, dalle vetrine polverose ridondanti di roba alquanto strana che il ragazzo non si perse ad osservare. L’insegna, di led blu mal funzionanti, citava “Chincaglierie e ammennicoli vari”. Prese un profondo respiro e si arrischiò ad aprire la porta, che tintinnò rumorosamente a causa di un grosso grappolo di campanelle appeso sullo stipite. Appena entrato un pesante odore di legno, muffa, incenso e qualcosa di indefinito gli riempì le narici in una vampata. Si 0guardò attorno: la saletta, stipata di roba assurda, era tutta di legno. Enormi arazzi stavano arrotolati per terra, grossi vasi di chiara manifattura orientale riempivano una madia dipinta, cianfrusaglie e roba di cui Tom non riusciva nemmeno a capire la forma e la provenienza riempivano ogni angolo, sembravano soffocare tutto l’ambiente, gravando sull’acquirente come enormi mostri che aspettavano nell’ombra di slanciarsi sulla vittima. Il rasta sospirò rumorosamente e si arrischiò a chiedere, tenendo a freno il tremito della voce:
-Ehi, c’è nessuno?
-Cosa desidera, giovane di belle speranze?
Una voce languida, musicale, dallo strano accento lo fece voltare di scatto. Da un lato, al buio, si accese una lampada cinese e prese forma nell’oscurità un divanetto Luigi XVI, dove sedeva un uomo giovane, evidentemente asiatico.
Tom si avvicinò, respirando profondamente, stampandosi sulle labbra un sorriso serio e cortese. Si stampò per bene l’immagine del ragazzo nella testa: delicato, proporzionato, vagamente femmineo, occhi grandi pesantemente glitterati, cresta malfatta ricoperta di brillantini, anelli, collane, vestito di lamé dorata e pelle. Un tipo piuttosto originale. “Meglio” pensò Tom “se mai dovessi richiedere di lui in giro, saprei benissimo come identificarlo”.
-Salve, allora, io vorrei porle qualche domanda in merito a una certa simbologia di origine asiatica.
Il ragazzo si drizzò meglio sul divano e assunse un’espressione segretamente divertita. Non curiosa, non sospettosa. Semplicemente divertita.
-Miao Toooom …
Tom sobbalzò leggermente a sentire quell’inconfondibile voce angelica e demoniaca al tempo stesso. Si voltò e vide emergere dall’oscurità Bill, in tutto il suo splendore. O meglio, Tom si trattenne a stento (solo perché c’era il cinese) dal fare un laghetto di bava ai suoi piedi. Bill avanzò gattonando sul divano, che doveva essere più lungo di quanto sembrasse, e si accoccolò con la testa in grembo al coso cinese, fissando Tom con aria particolarmente soddisfatta, come un grosso gattone beato. Il cinese scoppiò a ridere e sussurrò qualcosa in una lingua strana all’orecchio di Bill, che mugolò contento.
-Vedo che conosce Bill-chan, agente.
-Come fa a sapere che sono un agente?!- Tom strabuzzò gli occhi.
-Sesto senso. Comunque mi chiamo July Choy, onorato- il tipo piegò la testa verso il basso, in un rapido inchino, anche se il tono e il sorriso non erano certamente lusinghieri, ma piuttosto maliziosi.
-Ehm, Tom Kaulitz, piacere mio … sono dell’Anticrimini del decimo distretto. Questa non è una perquisizione, e nemmeno un interrogatorio, solamente …
-Vuole delle risposte, com’è logico. Chieda e vedremo di risponderle, vero Bill-chan?
-Certamente July-chan. Tom, siediti lì e esponici i tuoi dubbi esistenziali.
-Ah, e ci tenevo a dirle, signor Kaulitz, che io sono nordcoreano, non cinese.
-Ma come fa a sapere che io pensavo che lei fosse cinese?!
-Sesto senso. Vada avanti.
I due ragazzi risero, al contrario Tom grugnì e si sedette su una vecchia poltrona lì davanti. C’era qualcosa che non gli quadrava, che gli dava fastidio in quel posto, nello sguardo di July, ma tutto affogava nel sorriso di Bill e nei suoi occhi profondi come l’oceano in tempesta. Tom veniva risucchiato in quelle iridi, veniva fagocitato da quel sorriso e veniva assorbito pian piano dall’essere intero di quel ragazzo così bello. Avrebbe dato non si sa cosa per poter essere al posto di July in quel momento, con la testa di Bill in grembo. Sospirò e si preparò a parlare davanti a quello che pareva un buffo tribunale.
-Bene, ehm, signor Choy le ricorda qualcosa questo simbolo?
Allungò la foto della croce, che July prese con un tocco languido, come una pantera che aggira la preda, mettendo in mostra unghie curate e abilmente smaltate di fucsia metallizzato con i brillantini.
-Cosa dovrebbe ricordarmi?
Il ragazzo alzò lo sguardo e Tom vide che il divertimento era scomparso completamente, lasciando il posto a una certa diffidenza, percepibile a distanza. Ah ah, allora stava smuovendo qualcosa! Pensò Tom, orgoglioso di se stesso.
-Non lo so, ovviamente, se no non sarei venuto, le pare?
Tom osservò le facce dei due ragazzi davanti a lui. Visi entrambi algidi, sospettosi, non propriamente spaventati ma insicuri. C’era qualcosa in quella “croce”, evidentemente qualcosa di grosso dietro.
-Dove l’hai trovato, Tom?- disse Bill, assumendo una buffa smorfia interrogativa, artigliando la coscia di July.
-Gli omicidi, Bill-chan. Quelli di cui ti ho parlato- lo precedette July, accarezzandogli i capelli. Solo in quel momento Tom si accorse delle meche bianche, che rendevano il tutto ancora più ammaliante.
-Ah, quelli.- Bill perse immediatamente interesse nella conversazione, e si mise a giocherellare con gli anelli che ornavano le dita di July, come un gatto con il gomitolo di lana.
-Come le è venuto in mente di cercare risposte da me?
Tom sobbalzò di scatto, sentendo il cambiamento nella voce del coreano. Ahia, ora sarebbe stato molto più difficile cavargli qualcosa.
-Senta- Tom prese in mano la situazione, cominciando a sentirsi veramente a disagio in quel negozio, dove sembrava che mille occhi ti seguissero in ogni movimento – Me lo dica chiaro, tanto è inutile che menta, posso smentirla in qualsiasi momento. Lei fa parte della yakuza?
-No.
-Non ci credo.
-La yakuza è giapponese, io sono nordcoreano, glie l’ho già detto.
-Che c’entra?! Siete tutti uguali!- la smorfia che fece Tom, innocente e stupita fece ridere Bill e July che si guardarono scuotendo la testa, come se il rasta avesse appena fatto una battuta divertentissima.
-Si vede che non ha dimestichezza con l’Estremo Oriente, signor Kaulitz. Cina, Corea e Giappone non hanno nessun legame, anzi. È più facile vedere un giapponese che uccide un cinese, e viceversa, tutto coronato da una bomba fatta esplodere da un coreano che imparare a cucinare il sushi.
-Davvero?
Tom strabuzzò gli occhi come un pesce bollito, boccheggiò e poi riprese la sua migliore espressione seria e compassata. Glielo avevano sempre detto: che attore scadente che era!
-Allora, beh, seriamente, è per il caso. Le ricorda qualcosa la croce?
July si guardò le unghie con aria di sufficienza e cinguettò
-Quella croce, vuol dire tutto e niente.
-Si spieghi.
Il ragazzo sospirò e tornò a fissare Tom, studiandolo con quegli occhi nerissimi sbrilluccicanti di glitter.
-Potrebbe voler dire vendetta, oppure perdono. Potrebbe essere amore, oppure odio. Dove erano diretti i bracci piccoli?
-Ehm, sinceramente non ci abbiamo fatto caso … - il poliziotto arrossì.
-Non ci speravo, in effetti. Comunque, se erano rivolti a est nella ragazza significa pentimento, nel ragazzo indicano scuse. Se invece erano a ovest, allora potrebbero indicare indecisione. Se erano a nord, indicano rabbia mentre a sud … niente che la interessi. Anzi, niente che lei possa capire.
-Mi prende in giro?! Una croce non può stare a significare tutto ciò!- sbottò Tom.
July si limitò a scuotere la testa e a dire
-Occidentali.
-Toooom, non puoi capire. Sei troppo ottuso- miagolò Bill, risvegliandosi all’improvviso e rivolgendogli uno sguardo carico di malizia misto a sbigottimento.
-Io non sono ottuso!- si lamentò Tom, agitandosi sulla poltrona.
-No, non lo è. È solo occidentale- concluse July.
-Ed è un peccato essere occidentali?!- grugnì Tom, e ringraziando il cielo che non ci fosse con lui Gustav e i suoi discorsi di estrema destra. I due avrebbero fatto una brutta fine, con il biondo nei paraggi.
-Per certi versi, si.
July si alzò, accarezzò i capelli di Bill sussurrandogli qualcosa in coreano, si inchinò davanti a Tom con un sorriso e si congedò
-Mi scusi, signor Kaulitz, ma ora devo andare a finire alcune pratiche. Torni a trovarmi quando vuole.
E scomparve dietro una tenda di seta verde smeraldo con fiori bianchi e rosa.
Tom boccheggiò un po’, instupidito da tutta la situazione. Gli pareva di essersi irrimediabilmente cacciato in un caos assurdo … quel negozio, quel tipo ricoperto di glitter e brillantini, i significati della croce, e Bill lì davanti a lui con un sorrisone accecante stampato in viso. Forse avrebbe fatto meglio a trascinarsi dietro Georg come supporto, anche se conoscendolo, avrebbe mandato tutto all’aria borbottando insulti vari come suo solito e trascinandolo via senza dargli il tempo di parlare un po’ con Bill. Immediatamente, si dimenticò dell’indagine, del serial killer, per concentrarsi su quella bellezza rara che in quel momento si era alzata e stava dicendo, mentre spazzolava un vaso di ceramica giapponese.
-Allora, Tom? Cosa ne dici?
-E’ un casino. Senti, ma July … è il suo vero nome? Cioè, uno non può chiamarsi “luglio”!
-Com’è acuto, agente- Bill si voltò, ridacchiando – No, non è il suo vero nome. Quello vero è impronunciabile. E che ne dici della croce?
-Mi prende in giro, sicuro.
Tom  si alzò e si stiracchiò, cercando di non guardare troppo Bill, che gli saltellava in giro leggiadro come una libellula mentre puliva le infinite ceramiche della madia.
-Forse. Ma fidati, lo sa quando è il momento di prenderti in giro, e quello in cui ti dice parte della verità.
-Cosa vuol dire che mi dice “parte della verità”?
-Lui non dice mai la verità a nessuno.
-Nemmeno a te?
-Io che c’entro?
-Non sei tipo il suo amante?
Bill scoppiò a ridere, scrollando i capelli. Una risata cristallina, chiara, dolce, una risata che emozionò il rasta che si trovò a sospirare rumorosamente. Gli fissò il collo lungo e bianco e di nuovo gli venne la voglia matta di baciarglielo ma anche quella volta si trattenne. Era lì per lavoro, non per sollazzarsi.
-Ma figurati!- Bill gli sorrise di nuovo, scuotendo la testa – E’ solo il mio datore di lavoro e amico di vecchia data. Ok, siamo andati a letto qualche volta, ma chiamarci amanti mi pare eccessivo!
Tom si ritrovò a respirare di sollievo, dentro di sé.
-Forse è meglio che vada …
-E perché? Non vuoi restare ancora un po’ a studiare le meraviglie nascoste del Grande Impero del Sol Levante?
Tom sbuffò una risata, e si guardò in giro
-Vediamo, mi spieghi a che servono questi ammennicoli?
-Sei occidentale, Tooom!- ridacchiò Bill, facendogli una linguaccia.
-Beh, non mi pare che tu sia tanto asiatico!
-Non lo sono, infatti. Ma ne capisco di più di te.
-Quello cos’è?
Tom indicò un manichino con sopra un buffo completino nero. Si avvicinò a studiarlo con attenzione e notò che consisteva in gonnellina inguinale nera a balze, camicetta nera e  grembiulino bianco.
-Tenuta da cosplayer- spiegò Bill, avvicinandosi anche lui, ancheggiando ben bene.
-Da che?!
-Dio, Tom, ma sei tardo forte, eh?! Vestito che usano in molti manga, e questa è la riproduzione per umani, che vengono indossate per le fiere del fumetto.
-Ah, capito!- Tom ebbe una grande illuminazione e si ritrovò a ringraziare i suoi coinquilini – Una volta Claudia, Raghnild e Kalle mi hanno portato con loro a un affare simile, dove la gente era vestita in modi strani e tutti parlavano con parole assurde, tipo “gambatte”, “omedetou”, “arigato ko sai mas”.
-E’ la fiera del fumetto e dei cosplayer, gattino Tom. E quello era giapponese, la patria dei manga e degli anime.- disse Bill.
Tom annuì in silenzio, e osservò il vestitino, poi Bill, poi di nuovo il vestitino. Beh … non sarebbe stato affatto male anche se …
-Se vorrai un giorno me lo metterò solo per te, Tooom.
Bill si leccò le labbra in modo, Tom ne convenne da solo, molto sexy. Forse troppo.
-Facciamo una scommessa, Bill.- dannazione, cosa stava dicendo? I poliziotti non fanno scommesse, tanto più con gente poco raccomandabile in una negozio da Chinatown. Cosa gli stava succedendo? Perché lui, Tom Kaulitz, si stava comportando in quel modo così sconsiderato con un perfetto sconosciuto?
-Adoro le scommesse.
-Se io, alla fine di questo caso, riuscirò ad avere una nuova macchina e a buttare il maggiolino catorcio, tu ti metterai questo vestito. Se non ci riesco …
-Se non ci riesci, ti farai vedere dai tuoi colleghi truccato da me.
Tom deglutì, fissando Bill. Eh?! Ma come, in cosa si era cacciato? Come aveva anche solo potuto pensare di stringere un patto, una lurida scommessa con l’angelo? Doveva essere veramente ai minimi termini.
-Allora, Tom? Accetti la scommessa?
Bill gli girò attorno, sfarfallando gli occhi, ancheggiando. Tom lo guardò con un sospiro, e annuì tendendogli la mano. Quando Bill gliela strinse ebbe una seria voglia di farselo su quel divano, immediatamente, con buona pace per Luigi XVI. Una mano così morbida, fredda, pallida, inanellata … quelle mani che vorresti poter tenere mentre cammini e che non ti stancheresti mai di toccare.
-Torno in centrale, Bill. Buona giornata.
Stava già per uscire dalla porta tintinnante, quando il ragazzo lo fermò, stringendogli una spalla; il rasta ebbe l’impressione che gliela stesse stringendo in maniera un po’ equivoca, ma cancellò immediatamente il pensiero pervertito. A son di stare con Kalle era diventato pervertito anche lui. Anche se i livelli del suo buffo coinquilino con i capelli blu non li superava nessuno.
-Io stacco alle cinque.
Bill gli sorrise maliziosamente, appoggiandosi allo stipite della porta, scostandosi i capelli dal viso con un gesto studiato del capo, facendo rilucere le unghie smaltate alla luce del pallido sole berlinese.
-E’ un modo alternativo per dirmi di venirti a prendere?- commentò Tom.
-E’ un modo alternativo per scroccare l’aperitivo a qualcuno- ridacchiò Bill.
Tom scosse la testa sbuffando e si ritrovò a dire, pur di stare ancora un po’ con l’angelo autostoppista:
-Va bene, alle cinque vengo qui a recuperarti.
-Lo sapevo che su di te potevo contare! A dopo, gattino.
Bill gli scoccò un bacino a distanza, corredato da strizzatina d’occhio, e saltellò nell’oscurità del negozio.
Tom si ritrovò a fissare la porta come vittima di un incanto. Anche Heike una volta gli aveva detto una cosa simile, con strizzata d’occhio e bacio a distanza, ma a lui era parsa solo un orrendo cacatua spelacchiato a differenza di Bill, paragonabile a un gatto persiano di razza.
Sospirò ancora, tenendo a bada ormoni impazziti e cervello fuso e salì nel vecchio maggiolino puzzolente, pronto per dirigersi nuovamente in centrale a esporre i dati appena raccolti, e cominciando a prepararsi psicologicamente a quella sera.

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Capitolo 4
*** Gli uomini che sanno di fumo sono più affascinanti ***


CAPITOLO QUARTO: GLI UOMINI CHE SANNO DI FUMO SONO PIU’ AFFASCINANTI.
 
-Fammi capire: siamo capitati in un pieno giro di trafficanti cinesi con manie?- sbottò Georg, rompendo il silenzio che era calato in centrale dopo che Tom aveva accuratamente riportato quanto detto da July, omettendo abilmente le varie figuracce. Si sentiva particolarmente importante in quel momento, con tutti i poliziotti che pendevano dalle sue labbra, curiosi di sapere cosa avrebbe tirato fuori.
-Non lo sappiamo, ma abbiamo la certezza dell’origine di quel simbolo. E questo è già tanto, no?
-Ehm, la dottoressa Herder le vuole parlare.- il piccolo Muller si avvicinò titubante a Tom, facendosi ancora più piccolo di quanto già non fosse.
-A proposito di cosa?
-Rilevamenti tossicologici sui cadaveri.
Tom scambiò un’occhiata con Georg e i due si precipitarono nella camera mortuaria situata due piani sotto di loro. Entrando, Heike regalò il solito sorriso da star hollywoodiana a Tom, che desiderò per un secondo avere lì al fianco Bill e dirle chiaro e tondo che lui era occupato. No, dannazione. Lui non era occupato, e benché mai con Bill. Lui era felicemente single, erano il caldo e l’agitazione a fargli bollire il cervello. No, Tom, a chi la racconti? Tu sei tristemente single ed è solo quel dannato ragazzo a farti andare in palla la testa. Perché aveva deciso di dargli quel fottuto passaggio? Perché non se ne era partito ignorandolo? “Perché il destino ha un corso che nessuno di noi può cambiare.” Gli risuonò in testa la frase di Claudia, sfruttata ogni volta che combinava qualche disastro.
-Allora, splendore, i rilevamenti?- Georg tentò per un sorriso copiato male da qualche film scadente, riuscendo solo a far ridacchiare Heike. Non era il primo a provarci con lei, e non sarebbe stato l’ultimo: a ben vedere, era una cosa ingiusta. L’unico uomo per cui lei avrebbe fatto l’impossibile non la degnava di uno sguardo, mentre tutti gli altri sgorbi e ranocchi dell’Anticrimine le facevano il filo, intrappolandola nella loro ragnatela di fili.
-Ho analizzato il tipo di droga utilizzata dall’S.I.
Heike prese un foglio accuratamente compilato e lo allungò a Georg, scostandosi i capelli biondissimi
-Cosa hai trovato?- chiese Tom, abbassandosi sull’amico e dando una scorsa al foglio.
-La morfina è di tipo medico, e posso dirvi che è di quel tipo utilizzato come antidolorifico molto pesante. Diciamo che non si trova tutti i giorni, ci vuole una ricetta specifica per poter averla.
-Da ciò ne deduciamo che l’S.I. potrebbe essere un dottore o un infermiere dell’ospedale.- iniziò Georg, grattandosi il mento.
-Oppure un paziente che lo usa.- concluse Tom. – Heike, per cosa si usa la morfina? Dico nel caso sia un paziente.
-Oddio, Tom, si usa soprattutto per lenire dolori terribili in seguito a operazioni chirurgiche molto grosse. Per esempio, se subisci un’operazione dolorosa, te la danno in ospedale per addormentarti, e capita che talune volte prescrivano piccole dosi all’operato anche per la convalescenza, nel caso poco dopo l’intervento il male fosse insopportabile. Il problema della morfina è che può creare una terribile dipendenza.
Tom si passò una mano tra i dread e scambiò un’occhiata con Georg.
-Quindi il paziente può dapprima prenderla per motivi medici e poi esagerare e diventarne dipendente.- borbottò Georg.
-E’ un pericolo, sì.- Heike guardò i colleghi con una smorfia sul viso perfetto – In  più, ho analizzato il pelo di cinghiale trovato in entrambe le vittime. Provengono da pennellini utilizzati dai pittori soprattutto per ritratti, o dipinti di precisione. Sono sottili, precisi, ma molto comuni.
-E’ attento a non utilizzare roba strana, ma comune e alla portata di molta gente.- disse Tom, con uno sbuffo. Si rivelava più complicato del previsto.
-Ma aspettate un attimo- Heike fece una mezza giravolta, facendo deglutire rumorosamente Georg e alzare gli occhi al cielo Tom, e mostrò loro una boccetta con infinitesimali residui neri.
-Cosa sarebbero?
-Residui di smalto.
-Smalto?!
-Esatto. Nero. Li ho trovati nel sangue sparso sul petto, ma anche nelle ferite. Sono microscopici, ma non si possono cancellare. Lo smalto si sfalda come niente.
I tre ragazzi si scambiarono un’occhiata greve. Quel caso si stava rivelando veramente difficile, e la calura non aiutava. Come non aiutava la procura, la giustizia, la vita. Dovevano cavarsela da soli, con i vecchi mezzi dell’Anticrimine e i vecchi consigli di Poirot e Holmes. E se vogliamo anche della Marple.
-Quindi l’assassino è ragionevolmente una donna.- ragionò Georg, sventolandosi.
A Tom bastò pensare alle splendide mani di Bill, alla loro freddezza, allo loro stretta, alle loro unghie splendide, per ribattere
-Non è detto. Anche gli uomini portano lo smalto.
-Sì, le checche!
Tom grugnì di disapprovazione. Bill non era una checca. Era un angelo caduto, polvere d’inferno interstellare caduta sulla Terra per lui.
-Non è detto, omofobo!
-Non sono omofobo, visto che ho te come migliore amico!
-Piantatela!- sbottò Heike, incrociando le braccia al petto – Non è il momento ne il luogo per litigare. Ha ragione Tom, anche alcuni uomini portano le unghie smaltate. Per esempio i punk, basti pensare a gente come Billie Joe Armstrong o similari.
-Uffa, e così il campo si restringe poco.- sbuffò Georg. – Piuttosto, che tipo di smalto è?
-Normale, marca standard. Niente di niente, insomma. Questo assassino è molto sicuro di sé, ma anche molto cauto.
Tom pensò immediatamente a July: unghie smaltate, troppo delicato per poter stendere qualcuno, conosceva la croce, aveva un kris nel negozio … ma che diavolo andava pensando! Non sapeva nulla di quel tizio, non aveva basi per affermarlo se non che aveva una faccia da trafficone, e che non ispirava fiducia. O forse era solo geloso. Geloso perché aveva tenuto Bill in braccio per tutto il tempo. Perché gli aveva accarezzato i capelli. Perché si capivano al volo. Perché ci era andato a letto. O solo perché lui era troppo coglione per poter combinare qualcosa con Bill, e July al suo contrario troppo furbo.
-Tom, sei tra noi?- Heike gli scosse la spalla con delicatezza, accarezzandolo, e questo diede irrimediabilmente fastidio al rasta. Dopo la carezza di Bill, le altre gli sembravano solo goffi tentativi di orsi che toccavano un topolino. Eppure non poteva essere innamorato di uno che manco conosceva! Dovevano solo essere i suoi ormoni che cercavano qualcosa su cui sfogarsi, e guarda caso gli era capitato uno splendore stellare.
-Sì, certo. Scusate, mi sono distratto. Dicevamo dello smalto.
-Esatto- Georg gli lanciò un’occhiata preoccupata  -Va beh, sarà meglio che torniamo su. Chiamaci se trovi qualcos’altro.
Tom si ritrovò catapultato nelle scale, con la faccia di Georg a mezzo centimetro dalla sua, una smorfia con un che di truce.
-Ora tu mi spieghi che hai Tom! Sei trasognato, ti addormenti a occhi aperti. Non sei mai stato così, amico. Cosa sta succedendo? Esigo una risposta.
Tom si passò una mano sul viso, scuotendo la testa. Lo sapeva che Georg sarebbe arrivato all’attacco, pronto a fare la predica. Era dannatamente impressionabile, quel ragazzo, quando si trattava di comportamenti che non comprendessero ridere, bere, urlare e avere idee geniali. Alla minima smorfia, andava in paranoia.
-Davvero, sto bene. È il caldo che mi stona, Geo, tranquillo.
-Con la peppa che me la bevo, Kaulitz! Sei un attore di merda, fattelo dire. Ora non ti faccio salire finché non me lo hai detto chiaro e tondo.
Tom guardò di sottecchi l’amico, indeciso a dirgli tutto. Conosceva Georg, e non era sicuro che la prendesse bene. Avrebbe cominciato a lamentarsi, a dire che lo stavano traviando. Sarebbe entrato in modalità “Mamma Impaurita”, e solo Tom e Gus potevano sapere quanto era terribile quando entrava in quella modalità.
-Dai, per favore, un’altra volta … - Tom tentò di sfuggire dalla presa ferrea dell’altro e di prendere le scale.
-Pensi proprio che io non ti possa aiutare?- Georg assunse un’espressione abbattuta, sentendosi improvvisamente inutile per l’amico.
-Non è quello … ho solo bisogno di tempo, ok?- Tom ridiscese qualche gradino e gli strinse una spalla.
-Ti sei cacciato in qualche guaio? Casini amorosi che possono succedere solo a te?
-Forse.
Tom si guardò attorno con attenzione e poi si tuffò su Georg, soffocandolo in un abbraccio troppo stretto.
-Georg ti voglio bene!
-Ahia, cazzo, Tom, mi stai soffocando!- Georg si scostò dal corpo del rasta, lanciandogli un’occhiata divertita e esasperata al tempo stesso. Solo Tom lo faceva impazzire a quel modo. – Anche io ti voglio bene, finocchietto adorato.
-Non chiamarmi finocchietto!
-E tu smettila di abbracciarmi a tradimento!
I due risero, come ai vecchi tempi, quando ballavano ubriachi sui tavoli dei pub e quando decidevano di insudiciare i muri dei palazzi con le loro oscene scritte.
Salirono in fretta al primo piano, dove li aspettava uno stanco Gustav, abbarbicato al computer come un grosso primate paleolitico con una grossa barretta in una mano, e un sacchetto di biscotti salati nell’altra, branditi come fossero armi nucleari.
-Che faccia truce Gus, è successo qualcosa?- chiese Tom, sedendosi sulla scrivania del biondo e fregandogli abilmente un biscotto.
-No, ladro infido di biscotti a tradimento.- grugnì Gustav, agitando invano un braccio per riprendersi il biscotto che Tom ingoiò con un sorriso sadico.
-Che ha detto Heike?- continuò, dopo aver sottratto dalle zampe di Georg la barretta e dopo essersi trincerato dietro una serie di computer e fogli onde evitare altri saccheggiamenti da quei due.
-Morfina medica, pennellini comunissimi, e tracce di smalto nero nel sangue.- elencò stancamente Tom, guardando l’orologio. Ancora tre ore e sarebbe uscito con Bill. Emozionante, da un certo punto di vista. Orribile, dall’altro.
-E non dire che l’S.I. è una donna che qui ci pelano- ridacchiò Georg, dando di gomito a Gustav, che si limitò ad ammiccare con un risolino.
-Non mi sembra il momento di scherzare su questa- iniziò Tom, ma venne interrotto dall’agente Muller, che irruppe nella stanza, rosso in faccia e ansimante.
-E’ … è … di nuovo! L’assassino … ha colpito ancora!
Tom, Georg e Gustav si scambiarono un’occhiata allarmata, e si precipitarono in auto con il piccolo Muller, che partì sgommando, per quanto possa sgommare una vecchia 850 che aveva visto tempi migliori con sopra malamente montata una sirena, che faceva concorrenza a quelle della Mattel.
-Dove, quando, come, chi, perchè?- urlò Gustav, tentando di sistemarsi sul sedile troppo piccolo per lui e di allacciarsi la cintura troppo stretta. Perché Muller andava decisamente veloce. Troppo anche quello, per il sovrappeso agente.
-In  un palazzo abbandonato sulla Kartoffeln, circa un’ora fa, stesso modus operandi, trovato da un barbone che si apprestava a entrare per prendere una coperta dimenticata lì, non le so dire né il perché né l’assassino, visto che è quello che dobbiamo scoprire.
L’efficienza del piccolo Muller era unica e inimitabile, sempre attento e sempre preciso, quasi maniacale nella ricerca dei dettagli e della perfezione assoluta. Impacciato, sì. Ma preciso come un orologio svizzero.
-Ma porca miseria, è una macchina da guerra sto S.I.?!- sbottò Georg, quando sbarcarono dall’850 che fumò dopo la brusca frenata alla Muller.
-No, è solamente dannatamente intelligente e assetato.- Tom scavalcò le travi del palazzo in rovina e i nastri della Polizia, ritrovandosi davanti il cadavere – Di sangue.- completò amaramente, vedendo disteso lì un uomo sulla trentina, con le braccia e il collo brutalmente martoriati e la croce sul petto.
-Fermi tutti!- urlò, fermando gli uomini che stavano per portare via il cadavere.
Si inginocchiò accanto al corpo, respirando solo dalla bocca per via del tanfo di sangue ancora non troppo secco e osservò la croce, distinguendo i braccini più piccoli e constatò che erano diretti verso …
-Che punto cardinale è quello?- e tese il braccio lungo la direzione dei braccini.
-Il nord- disse qualcuno.
“Se sono diretti a nord indicano rabbia …” gli risuonarono in testa le parole di July, con il suo sorriso affascinante e sardonico. Rabbia. Un assassino gonfio di ira, di rancore. Ma verso chi? E verso cosa? E perché quel codice?
-Si chiamava Johan Schubert, 35 anni, segretario in un ufficio di avvocati.- recitò Georg, raggiungendo Tom con una smorfia.
-Vedi? Non sceglie le vittime, le prende a caso, cosa gli capita sotto gli occhi al momento. Ucciso qua?
-Questo sì. Ragionevolmente, dovrebbe avere una pistola con il silenziatore.
-Probabile. E tanto tempo a disposizione.
Tom si alzò, si spazzolò i pantaloni e disse
-Cercate qualcosa, anche minima, che possa legare le tre vittime. Analizzate con cura il corpo, la minima imperfezione. Gustav, noi diamo un’occhiata in giro.
La squadra cominciò ad organizzarsi, tra polizia e scientifica, mentre Gus e Tom girellavano per la scena del crimine.
-Ma chi cazzo si mette a fare ste messinscene paradossali?- sbottò Gus, addentando un hot dog portato dal piccolo Muller.
-Un pazzo, evidentemente. Uno che non ci sta con la testa, ma che è dannatamente furbo. Molto più furbo di noi. Non lascia tracce, è rapidissimo, organizzato. Un genio, a modo suo. Eppure non è possibile, perché qualche errore lo dovrà pur fare.
Gustav annuì gravemente, leccandosi le labbra sporche di senape.
-Diamo ancora un’occhiata, e poi torniamo in centrale.
Dopo mezz’ora di infruttuose ricerche, tornarono in centrale abbattuti. Era tutto così complicato … e il caldo era sempre più opprimente.
-Ehi, guardate un po’!- disse Georg, dopo un bel po’ di tempo passato a correre di qua e di là per l’Anticrimine e cacciando il tecnico del condizionatore che loro non pagavano da due settimane abbondanti.
-C’è un collegamento tra le vittime!
In un attimo, tutti si furono affollati attorno all’agente Listing, che sorrideva come un bambino a Natale.
-Frequentavano tutti e tre piuttosto assiduamente il Bite Vampire, quel pub sulla Colonia Strasse pieno di gente strana e originale. Quello un po’ kitsch, la disco degli anticonvenzionali.
-Che l’assassino li abbia trovati lì?- commentò Gustav.
-Potrebbe anche, con la gente folle che ci gira- commentò acido Georg.
Tom sgranò gli occhi. Il Bite Vampire era quel dannato locale da malati di cervello dove Kalle si stabiliva ogni santa notte e dove faceva un mucchio di soldi tatuando la gente. Era lì che trovava la maggior parte dei suoi clienti, gente sballata quasi quanto lui. Ed era anche quel posto in cui ogni tanto ci trascinava lui e le ragazze, costringendoli a bere drink dall’aspetto poco rassicurante e a ballare su musiche che mischiavano abilmente il tribale, il noise e la New Wave anni 80. Tom odiava quel posto, anche se doveva ammettere che era estremamente interessante, sia dal punto di vista di originalità che da quello sociale.
-Qualcuno dovrebbe andare a fare un sopralluogo questa notte.- ordinò il commissario capo Mann – Quindi, Kaulitz, domani mattina voglio i risultati della tua indagine notturna.
Tom gemette. Ma perché a far ste cose ci spedivano solo lui?! Chissà perché ispirava sempre le missioni più sconsiderate … che dire, Kalle sarebbe stato contento di potercelo avere al fianco tutta la sera. Al diavolo.
-Va bene.- annuì, fulminando Georg e Gustav che cominciavano a ridacchiare.
Guardò l’orologio. Solo un’ora prima dell’appuntamento, avrebbe fatto bene a smontare, andare a casa, dare la “buona” notizia a Kalle e poi andare nella finta Chinatown. Sospirò troppo rumorosamente, acchiappò il berretto e uscì dalla centrale. Il turno per quel giorno era finito, poteva tornare a respirare fuori da quello schifo di Anticrimine. Che poi che diavolo, quelli del primo distretto avevano dei mezzi fantastici, perché loro del dieci non avevano manco le suole delle scarpe?
Prese il maggiolino e si diresse verso casa, pensando. L’assassino aveva ucciso prima verso l’una di notte circa, poi verso le quattro, e poi alle tre del pomeriggio. Orari assurdi, a ben vedere. Non poteva essere un vecchio in pensione, non avrebbe avuto la forza e la precisione dei tagli. E i vecchi non mettono lo smalto. Escludeva il lavoro fisso, per l’impossibilità dell’orario alle tre, ma poteva trattarsi di un lavoro a turni. Oppure un universitario. Quello era piuttosto accreditato. Non sapeva perché ma qualcosa nel suo inconscio gli diceva che si trattasse di una persona piuttosto giovane, sicuramente sotto i trent’anni. L’istinto premeva forte, e lui si fidava del suo istinto, lo conosceva, sapeva che raramente prendeva delle steccate. E quella volta era una di quelle in cui era certo di aver ragione, anche se non sapeva spiegarsela. E presumibilmente era un uomo. Che metteva lo smalto. Interessante.
Corse in casa sua, dando un calcio alla porta come di consueto, perché quella dannata porta non si apriva in altro modo e irruppe letteralmente nel piccolo appartamento esempio unico di “caos indescrivibile”. Nel salotto vigeva la legge del più forte e la tv giaceva sotto i suoi pantaloni mentre il divano era occupato dai disegni di Kalle. Il tavolino resisteva eroico sotto una pila di dischi che passavano da Lady Gaga, a Bob Marley, a qualche gruppaccio metal inascoltabile, a quelle urla sconclusionate degli Stooges. Le tazzine da caffè di dieci giorni prima occupavano il tappeto sporco. Tom ridacchiò e corse in camera sua, notando con piacere che la chitarra era ancora al suo posto e che Claudia non l’aveva usata per picchiare Kalle. Il suo letto ancora sfatto e pieno di macchie di qualcosa di indefinito, su cui Tom preferì non indagare. Si buttò nell’armadio dove regnavano vestiti sfondati e cappelli da rasta fallito e ne riemerse poco dopo vestito in maniera decente. Cioè, con gli unici vestiti non puzzolenti e lavati. Sospirò rumorosamente, passandosi una mano tra i capelli. Bill. Porca miseria, stava per uscire con l’angelo demoniaco. Quella sì che era una cosa pericolosa, quasi più che il pazzo assassino che batteva le strade di Berlino quell’estate. Molto di più, per la sua sicurezza mentale, e anche fisica.
-Tom, perché ti stai preparando?
La voce soffocata di Kalle gli giunse da dietro. Si voltò e vide il suo buffo coinquilino in boxer e maglietta che lo fissava con aria allucinata e una sigaretta che gli pendeva spenta dall’angolo della bocca, la massa informe di capelli blu oltremare che gli ricadeva sul visetto pallido.
-Devo uscire con uno.
Gli occhi azzurro ghiaccio di Kalle si animarono di colpo, come se lo avessero attaccato alla corrente elettrica.
-Eh?! Devi uscire?! Non ci credo! Con chi?! Perché non me l’hai detto prima?!
Gli saltellò al fianco eccitatissimo, nemmeno gli avesse detto che sarebbe andato a fare l’attore a Hollywood. Anzi, probabilmente se gli avesse detto così si sarebbe limitato a un grugnito d’assenso.
-Kalle, non c’è il caso di fare tutto sto casino- Tom arrossì, anche se erano da soli.
-Come no?! Quant’è che non esci? Bisogna festeggiare sta sera.
-Si festeggerà.- grugnì amareggiato Tom.
-Perché fai quella faccia sconvolta?
Tom lo guardò, studiando i lineamenti delicati dell’altro e la sua pelle un po’ smunta.
-Stasera, ti accompagno al Bite Vampire. E semmai ci portiamo dietro anche le ragazze.
Kalle spalancò gli occhi a palla, sfarfallando le ciglia.
-Mi prendi in giro, Tom?
-No. Ma sia chiaro che è per lavoro, e non mi costringerai a ingurgitare quell’affare schifoso che sapeva di cannella rancida.
-Hai la lingua troppo delicata, fratello. E perché ci dovresti andare per lavoro?
-Te lo spiego dopo, ok? Quando arrivano, diglielo anche alle ragazze e vedete di farvi trovare pronti per le dieci.
-Agli ordini agente!- Kalle balzò sull’attenti, in una ridicola scimmiottata di un soldato – Non ti ho mai visto così ansioso di andare al Bite Vampire.
-Se fosse per me infatti non ci sarei andato, ma si da il caso sfigato che mi tocchi. Ora devo andare che farò tardi.
-Certo, non vorrai fare aspettare il tuo splendido ragazzo, no?
-Non è il mio ragazzo!
-Dicono tutti così, Tom. A presto.
Kalle lo spinse fuori dalla porta con il solito sorrisetto che gli piegava le labbra sottili.
-Kalle.- Tom si voltò, prima di uscire del tutto dalla porta.
-Cosa?
-Smettila di tradire le due Eva.
Tom sapeva che Kalle aveva due fidanzate gemelle, Eva Lisa e Eva Lotta, su, in Svezia, anche se le aveva viste solo in foto. Sapeva però che non era per niente fedele, anzi. Era il traditore di donne per eccellenza, e quello Tom non lo aveva mai capito. Non che gli importasse, ma gli sembrava ingiusto.
-Ma io non tradisco le Eva. Io amo loro, loro amano me. Il resto non conta.
Kalle si accese una sigaretta, soffiando una voluta di fumo in faccia  Tom con una risatina
-Gli uomini che sanno di fumo sono decisamente più affascinanti.
Detto ciò chiuse la porta ridendo. Tom alzò gli occhi al cielo, si passò una mano tra di dread e respirò profondamente, mentre correva nel vecchio maggiolino e partiva a tutta birra verso il negozio di July. Pronto a uscire con l’angelo Bill.
 
 

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Capitolo 5
*** Birra scura, ma stiamo scherzando?! ***


CAPITOLO QUINTO: BIRRA SCURA, MA STIAMO SCHERZANDO?! Quando Tom arrivò di fronte al negozio “Chincaglieria e Ammennicoli vari”, vide la porta ancora chiusa e nessuno ad aspettarlo. La campana della chiesa di Santa Winifred scoccò le cinque meno un quarto: bene, avrebbe ancora avuto un quarto d’ora circa a disposizione per calmarsi e prepararsi una serie di discorsi intelligenti invece che qualche uscita stupida di quelle che aveva tirato fuori in negozio. Si sistemò meglio sul sedile bucherellato del maggiolino, come quando facevano gli appostamenti con Georg. Solo che nel secondo caso, spesso e volentieri, gli appostamenti andavano a farsi benedire e a loro toccava inseguire potenti Mercedes di ultima generazione con Berta che più di 80 all’ora non andava, nonostante i suoi pugni sul cruscotto e le imprecazioni di Georg. No, quella sera niente inseguimenti in programma, solo una semplice uscita in un bar. Sospirò, riprendendo in considerazione il misterioso quanto terribile serial killer che si aggirava per Berlino. Da un lato avrebbe volentieri chiamato in centrale e dire di concentrarsi in una fascia di uomini indicativamente tra i 20 e i 30, universitari o con lavori a turni, come gli consigliava il suo insistente istinto da detective. Eppure, lo sapeva purtroppo molto bene, non poteva uscire con queste decisioni azzardate e senza base scientifica. Ed era perfettamente inutile che i suoi colleghi sapessero che aveva quasi sempre ragione, e che il suo fiuto era quasi infallibile, perché i Grandi (o, come li chiamava Gustav, “le frittelle di cervello”) volevano prove inconfutabili, pulite, asettiche: di sicuro, non le intuizioni di un poliziotto rasta del decimo distretto, conosciuto più comunemente come Distretto degli Sfigati. Però, a dispetto delle Frittelle di Cervello, Tom aveva a disposizione i tre coinquilini più folli del pianeta, e quindi tre mani molto utili quando si trattava di indagini “non pulite”. Come in quel caso, in realtà. Tom prese il cellulare, e compose il numero di Raghnild. Un sacco di volte aveva chiesto la mano della giovane hacker per risolvere certi quesiti che nel decimo non riuscivano a venire a capo, anche perché lì dentro non ce ne era uno veramente bravo con il computer. Prima o poi tutti loro incappavano in qualcosa di troppo grosso per le loro elementari capacità, come quella volta che il povero Gustav era erroneamente incappato in un sito porno e aveva intasato per due giorni tutti i computer dell’Anticrimini, senza riuscire a sbloccare un bel nulla. Ed era scoppiato un vespaio, con tre casi aperti, i computer in panne e l’agente capo Mann che non ne voleva sapere di chiamare degli hacker che risolvessero il problema e potessero quindi accedere ai dati della centrale. Non aveva tutti i torti, ma fortunatamente Tom aveva assoldato Raghnild, che gli aveva risolto in pochissimo tempo il problema, senza rubare nulla dai loro siti. O quasi nulla. -Pronto, Tom, cosa vuoi?- rispose la ragazza, emettendo una serie di gemiti strani. -Ehm, ti sto disturbando?- Tom era specializzato a chiamare nei momenti meno opportuni. Sempre. -No, tranquillo, sto solo cercando da tipo mezz’ora di aprire la birra che c’è in frigo ma non c’è verso … e come sai quel buono a nulla di Kalle non è d’aiuto. -E Claudia? È una cameriera, dovrebbe sapere aprire una bottiglia! -Non c’è, se no ti sembra che sarei qui a sudare sette reggiseni?! Comunque, cosa ti serve? Qualche problema all’Anticrimine? -Esatto. Quando puoi mi dovresti fare una ricerca che non posso fare sul lavoro, per i motivi che sai bene. -Agli ordini genio incompreso dell’investigazione!- la vocetta trapanante della ragazza si fece subito più allegra. Evidentemente era riuscita a stappare la bottiglia, oppure si era semplicemente gasata all’idea di ficcare il naso in cose che non la riguardavano. Perché se non si è un briciolo curiosi, non si fa l’hacker di mestiere. -Bene, allora, sarà una ricerca un po’ complicata, ma non credo ti dia troppe difficoltà. Mi servirebbe una lista di ragazzi tra i 20 e i 30 anni che 1, lavorano in ospedale, o 2, che hanno subito interventi chirurgici pesanti e che hanno dovuto usare della morfina come antidolorifico post-trauma. Ce la fai? -Beh, per il primo punto nessun problema, per il secondo temo che ci metterò un bel po’ di tempo … comunque, altri dati per ristringere la ricerca? -Ehm, temo di no. Anzi, aggiungici qualcosa legato alla pittura di precisione, tipo ritrattistica o restaurazione. -E’ per via di quel serial killer? -Proprio lui e la sua maledetta perfezione. -Capito. Bene, T., mi metto d’impegno e vedo di cavar fuori qualcosa. A proposito, Kalle ha detto che stasera serata d’eccezione al Bite Vampire! Per quale oscuro motivo l’irreprensibile agente si lancia in quel marasma di tossici? -Lasciamo stare, per piacere. - Va beh, mi metto al lavoro e vedo di trovare qualcosa entro il tuo rientro. Buon uscita con il tuo ragazzo! -Non è il mio ragazzo! Ma Raghnild aveva già messo giù con una risatina. Dannati amici ficcanaso … Tom sbuffò, infilando il cellulare in tasca. Almeno un pezzo l’aveva fatto; sicuramente la ragazza avrebbe trovato qualcosa, era troppo in gamba con il computer, una specie di Lisbeth Salander tedesca. -Hai intenzione di lasciarmi qui fuori a morire di caldo? Tom sobbalzò, mettendosi le mani al cuore in un gesto automatico. Affacciato al finestrino c’era Bill, che lo squadrava con un sorrisino antipatico. Cristo, che infarto secco gli aveva fatto prendere … e anche qualcos’altro. Non fece nemmeno in tempo a spiccicare parola che Bill era seduto al suo fianco sorridendo come una specie di stella del cinema. -Puntuale, gattino. Hai spaccato il minuto. Gli fece pat pat sulla testa, e solo Dio sapeva quanto a Tom dessero fastidio i pat pat sulla testa. Ma stranamente, quelli di Bill, leggeri e maliziosi come il suo essere intero erano accettabili. -Ciao, cagnolino Bill. Come va?- “Tom, però, secondo me non hai nessuno perché sei rozzo e volgare. Devi imparare a essere più educato e meno borbottante nei confronti della gente che incontri!” gli aveva detto una volta Claudia, nel tentativo di insegnargli le buone maniere. Vano, perché Tom era nato borbottando e sarebbe morto borbottando. -Come vuoi che stia? Con sto caldo i capelli si rovinano orribilmente, il trucco non regge, e io non trovo niente di adatto da mettermi.- Bill fece una mezza smorfia, accavallando le gambe e aprendo lo stesso specchio da borsa della sera prima. Tom gli lanciò un’occhiata attenta, notando che si era cambiato rispetto a quando era andato a parlare con July. Gli stivali non erano più neri, ma rosso fuoco, decisamente sexy addosso a lui, con un tacco a stiletto di quelli che potrebbero cavare un occhio come niente. La maglietta con il teschio era stata sostituita da una camicia bianca con il colletto di pizzo, mentre la bocca era stata accuratamente ricoperta di rossetto rosso. -Perché hai una camicia col collo di pizzo?- non riuscì a trattenersi dal chiederlo. Lui odiava le camicie, e ancora di più il pizzo. -Non ti piace?- Bill atteggiò il viso perfetto in una smorfia splendidamente corrucciata, quasi triste, molto da attore. -No, no, hai frainteso- si affrettò a riparare il povero Tom, sgridato dal maggiolino che fece un sordo scoppio. Chissà perché che ogni volta che il rasta diceva qualcosa che non doveva dire, la macchina faceva uno scoppio di rimprovero. – Stai molto bene, è solo che … beh, non ho mai visto camicie fatte così. -Certo che non le hai mai viste! Me l’ha cucita May Ran Mao, la sorella di July. -Pezzo unico, quindi? -Esatto. Solo per me, molto esclusivo, trovi? Tom annuì, fissando lo scollo di delicato pizzo. Per un momento, ma solo per un momento, amò alla follia le camicie, e ancora di più i colletti di pizzo trasparente. -Dove ti porto?- chiese, sperando ardentemente che Bill scegliesse un posto economico. Tom aveva le tasche bucate, più di una birra non era in grado di offrire, anche perché lui più della birra non beveva. Ricordava con un brivido Kalle che gli offriva un bicchiere di Mescal … da nausea al solo pensiero. -Dove vuoi. Mi fido di te, Toooom.- Bill fece un sorrisino maniaco e gli accarezzò il mento con quelle sue unghie lunghe e nere, poggiandogli quasi la testa sulla spalla. Tom non riuscì nemmeno a dirgli “Sto guidando, idiota”, soffocato da tutte le emozioni che lo travolsero in quel momento. Sembrava che il maggiolino si fosse sollevato e stessero volando in una dimensione paranormale fatta di zucchero filato e baci, e tanto amore che si trasformava in ciliegine candite, mentre le carezze prendevano le forme di canditi che si depositavano attorno al maggiolino diventato di marzapane e panna … -Lì per esempio!- lo strillo del suo vicino lo fece sobbalzare e quasi investire una vecchietta che attraversava la strada al ritmo di una lumaca artritica. -Dove? -Quel pub, Tom, aprì gli occhietti da gattino!- Bill gli schioccò le dita davanti agli occhi, svegliandolo del tutto dalla sua trance di pan di zucchero. Non disse nulla e parcheggiò il vecchio maggiolino costellato da adesivi della Svezia e da darkettoni falliti, aprendo molto cavallerescamente la porta a Bill, che gli regalò un’occhiata e un sorriso che avrebbero sciolto anche il più etero degli uomini. Figurarsi Tom. Si era miracolosamente ricordato del consiglio di Claudia “Quando posteggi la macchina, ricordati sempre, e sono categorica amico mio, di aprire la portiera alla tua ragazza. È una cosa che fa sempre piacere, è come sentirsi un po’ principesse per un giorno”. E quando lui aveva provato a ribattere “Ma Cla, io non avrò mai una ragazza, cosa devo fare?” aveva ricevuto come risposta “Beh, non credo che tu ti vada a scegliere un body builder nerboruto e taglialegna, no? Allora cosa rompi, e apri le portiere!” Claudia era un po’ violenta, ma dava sempre dei consigli validi, tipo quello. Bill gli si aggrappò al braccio, e Tom ringraziò di essere almeno stabile sulle gambe. In effetti si era chiesto come potesse Bill anche solo pensare di camminare su quei trampoli a stiletto. Si avviò a passo di lumaca con quella stella accecante al fianco verso l’entrata del pub, che a quanto vedeva, doveva essere uno di quelli da morti di fame. Forse Bill aveva capito da solo con che pezzente aveva a che fare, e aveva preferito non metterlo in difficoltà. Che buon cuore. Sentì chiaramente la mano di Bill stringergli possessivamente il gomito, e spostargli la mano sul fianco. Ok, perfetto. Gli stava stringendo quel fianco da modella, grandioso. Poteva anche morire felice a quel punto; o forse era meglio vivere per vedere se riusciva a mettere le mani da qualche altra parte, come avrebbe detto Kalle. Non si rese nemmeno veramente conto quando la mano cominciò a scendere pian piano verso il basso, quando sentì Bill soffiargli nell’orecchio, malizioso e tagliente allo stesso tempo: -Quello non si tocca, gattino. Proprietà del sottoscritto. E la mano gli venne rispostata sul fianco. Tom volle seriamente sprofondare a quel punto. Ma Cristo, era veramente un malato pervertito simile, come i vecchi usurai dei libri di Dickens?! E non poteva nemmeno usare la scusa del caldo, perché nel pub c’era una perfetta aria condizionata. No, nessun attenuante per l’agente Kaulitz: maniaco compulsivo per lo splendore interstellare, malato ormonale per i diavoli, chiamatelo come volete, ma era sempre la stessa solfa. Si sedettero al bancone, Bill sorridente come una stella, Tom con lo sguardo basso e rosso come un pomodoro per la figura meschina appena fatta. -Ehi, Tom, perché fai quella faccia? Bill lo guardò preoccupato, sfarfallando gli occhi truccatissimi. Sembrava seriamente impensierito, per quanto sembrasse impossibile immaginarlo con un’espressione simile addosso. -Scusa per … per prima … - borbottò Tom, girandosi i pollici nervoso. -Ma ci pensi ancora?!- Bill scoppiò a ridere, scuotendo i lunghi capelli corvini e lasciando che le meche bianche rilucessero alla luce pallida del pub. – Sai quanta gente ci ha provato? Mica mi formalizzo troppo, io! Tom alzò lo sguardo sconcertato: cosa voleva dire con quel semplice “gente ci ha provato?!”. Ouh, ma come si permettevano … già. E lui perché? Manco che fosse il suo ragazzo, era veramente andato. -Però forse tu avrai qualche speranza in più … - il ragazzo lasciò la frase in sospeso apposta per far quasi morire Tom, che si ritrovò a guardare come un cane guarda l’amato padrone Bill. -Davvero?- si ritrovò ad ansimare, a bassa voce, quasi più a se stesso che al ragazzo. -Forse. Ordiniamo? Tom si riscosse, tossicchiò, lanciò un’occhiataccia a Bill per cercare di mantenere un po’ di finta autorità e chiamò il barista. -Due pinte di birra scura. -Bene, arrivano sub … Il barista venne interrotto dal dito di Bill che si agitò freneticamente davanti alla sua faccia suina, e chiuse di scatto lo spinatore, spaventato. -No no e no! Dico, scherziamo?! Birra scura?! Il barista si grattò la testa, lanciando un’occhiata interrogativa a Tom, che alzò le spalle ancora più stupito. -La preferisci chiara? O rossa? -No, assolutamente no!- strillò ancora Bill, continuando ad agitare la mano e rischiando di accecare il barista, se Tom non gliela avesse afferrata e gliel’avesse messa in grembo a forza. – Ce l’ha del sakè? -Del cosa?- il barista e Tom si guardarono sconvolti. -Il sakè è un distillato giapponese alcolico de-li-zio-so! Deve incominciare a tenerne un po’ in negozio, buon uomo.- spiegò Bill, con aria di superiorità – Comunque, allora mi serva del Calvados. -Non ce l’ho … -Oddio, allora va bene anche una vodka. -Ehm, ho una Keglevich.- balbettò il barista, che solitamente non aveva paura di niente e di nessuno e faceva filare tutti, ma che venne brutalmente messo in soggezione da quel ragazzo strillante. -Ma diamo i numeri qui dentro?! Lei mi propinerebbe una Keglevich?! Com’è scaduta la Germania di questi tempi … allora che liquori ha? -Ma Bill- interruppe Tom – Non ti va bene una birra? -Dio, Tom!- Bill si girò verso il rasta mandando lampi – Andiamo fuori e ti limiti a offrimi una birra?! No e no, caro, non funziona così. Capisco che sia un luogo squallido, ma io certa roba non la bevo! Guardi, ho già perso la pazienza! Mi dia un whisky, di marca decente. Il barista annuì e fuggì a riempire un bicchiere (il più bello che aveva) del whisky migliore e lo portò a Bill in tutta fretta. Ma solo quando diede la pinta a Tom riuscì a sussurrargli, con una smorfia sconvolta -Contento te, amico … -Come, scusa? -Contento te con questa principessina … Tom arrossì vistosamente e si limitò a biascicare qualcosa di poco chiaro. Veramente, contento lui con il diavolo angelico. Affondò il viso nella birra, osservando con malcelata ammirazione Bill che sorseggiava signorilmente il suo whisky. Non era fine, ma nemmeno volgare. Era una cosa senza paragoni. -Su cosa stai indagando, Tom? Bill volse lo sguardo verso di lui, sfarfallando le ciglia. -Penso che tu li abbia visti in televisione. Il serial killer delle croci, quello di cui stavo parlando con July questo pomeriggio. -Ah ah. – Bill si guardò le unghie. – Non mi sono mai interessato alla cronaca nera, sinceramente. July aveva detto qualcosa a proposito di questi fatti osceni, ma sapresti dirmi qualcosa di più? Tom si sistemò sulla sedia, tossicchiando, e cominciò a spiegare la bollente situazione dove si trovava Berlino in quel momento. Ma più spiegava, nonostante non si spingesse troppo in là e continuasse a parlare come un giornale, vedeva il viso di Bill assumere un colorito smorto, quasi triste, come se la spiegazione del poliziotto gli ricordasse cose brutte, ricordi sensibili e delicati. Impallidiva sempre di più, mentre gli occhi gli si fecero meccanicamente bassi, concentrato a fissarsi le punte degli stivali come se fossero divenuti particolarmente interessanti. -Ehm, Bill, tutto ok?- si arrischiò a chiedere Tom. Il ragazzo alzò di scatto la testa, come una marionetta, aprendo gli occhi più del normale e dicendo freneticamente una serie scomposta e quasi isterica di -Sì, certo, tutto benissimo, sì, mi stavi dicendo?! Tom lo guardò severamente, incerto se continuare o no a spiegare. Gli nascondeva qualcosa, lo percepiva a pelle, come se le sue parole fossero state un grosso boa che pian piano stava avviluppando Bill nelle sue spire, e lui senza accorgersene lo stesse spingendo a stringere più forte attorno al collo del ragazzo, sempre più forte, fino a farlo soffocare. Decise di ritirare il boa, e farlo tornare al riparo dentro di sé. -Beh, ma le indagini sono ancora in alto mare. Caso spinoso, non c’è dubbio. Bill annuì velocemente, sospirando beato una volta che il boa aveva mollato la presa, accarezzandosi gli anelli che portava alle dita e i bracciali che gli ornavano i polsi sottili. -Sai il coreano, Bill?- Tom decise di cambiare radicalmente argomento, per provare a metterlo a proprio agio. Magari gli faceva schifo tutta la faccenda. -Certo. Anche l’inglese e qual cosina di russo, se servisse. Bill tornò a sorridere, bevendo un altro sorso di whisky. -Wow. Io so giusto un po’ di inglese e basta.- Tom arrossì un po’, grattandosi la testa. Tanto per far vedere che lui era ignorante in lingue … e nel distretto degli Sfigati era anche un grande poliglotta. Tutto detto. Bill ridacchiò in modo un po’ cattivello, facendo risplendere la pallina di metallo che aveva sulla lingua. Tom strabuzzò gli occhi. Chissà com’era baciarlo e sentire il piercing andargli su e giù nella bocca … avrebbe fatto bene a dimenticarlo. A dimenticarsi del piercing e del brutto effetto che gli poteva fare. -Non hai fidanzati, vero Tom? Bill gli accarezzò la mano posata sul bancone, di modo che al povero Tom venisse il cuore in gola e lo stomaco nei piedi. Perché, dannazione, era troppo eccitante il tocco gelido ma allo stesso tempo “bollente” di quel ragazzo troppo bello; era un qualcosa di lascivo ma allo stesso dolce, esattamente come quello di un gattone persiano che fa le fusa. E Tom avrebbe tanto voluto avere Bill in braccio che faceva le fusa, magari già che c’era in uno di quegli alberghi da James Bond a Malibù, in una notte rinfrescata dal venticello del Pacifico, con una scala reale minima di cuori pronto per incassare tutte le fiche del tavolo, sorridendo con una punta di malizia davanti ai suoi avversari che si mangiavano le mani perché lui aveva vinto tutto il tavolo e perché aveva per sé il ragazzo più bello del creato. Peccato che lui perdesse anche con il suo cuginetto di cinque anni. -No, single da un po’ di anni.- borbottò – E tu? Bill rise e contò sulle lunghe dita, guardando il rasta con divertimento -Ora come ora, sono single anche io … però ho alle spalle un buon numero di amanti di vario genere. Sai com’è, la gente va, viene, crede, molla … non c’è mai un ordine preciso delle cose. È tutto così confuso in questo mondo. Tom osservò la mano di Bill roteare con grazia nell’aria, come quella di un filosofo mancato, che disegna strani cerchi di fumo nel vuoto. Era così … celestiale, perfetto. Come un soffio di tramontana nella calura del deserto. Bill si alzò, lisciandosi i pantaloni di pelle e invitando Tom a fare lo stesso. -Scusa, gattino, ma non mi piace rimanere seduto a parlare troppo a lungo. Facciamo due passi. Tom annuì e si alzò, prendendolo nuovamente a braccetto. Ringraziò mentalmente i tacchi a stiletto, che gli permettevano di sfoderare tutta la sua cavalleria, accompagnandolo fuori da quel puzzolente pub. Perlomeno, aveva speso pochissimo, le sue tasche non ne avevano risentito. Guardò il profilo perfetto di Bill, come quello di un dipinto surrealista di Ernst, una nuova “Vestizione della Sposa”, con un tocco onirico nella calura berlinese. -Sai sparare, Tom?- Bill si voltò verso di lui, piegando le labbra carnose in un sorriso e stringendosi un pochino a lui. -Beh, si, ma di norma cerco di non farlo. Non mi piace. -A me sì.- cinguettò Bill – E’ così divertente sentire lo sparo, e vedere la pallottola impiantarsi nel corpo del tuo nemico, e sentirla bollente tra le mani! Tom deglutì. Cosa?! Stava parlando per esperienza? Ma … -Ovviamente sto scherzando, gattino mio. Sto scherzando. Bill sembrò avergli letto nel pensiero, quando gli posò la testa sulla spalla, gioendo segretamente del sussulto di Tom; il quale non solo per poco non perse l’equilibrio, ma si trovò vittima di un’agitazione unica e indescrivibile, eccitato come non mai, ma allo stesso tempo agitato. Perché Bill non poteva mettergli la testa sulla spalla come se niente fosse, come fosse normale. Era cattiveria, la sua. Perché stava cominciando a dare di matto, seriamente, come un ragazzino alle prese con la sua prima cotta irraggiungibile e intoccabile; peccato che lui fosse tutto meno che un ragazzino alle prime armi. Il telefono che vibrò nella tasca lo salvò da una pericolosa crisi di arrossimento infantile. “Ho qualcosa! Vieni a casa ora? Come va con il tuo ragazzo? Ti interrompo mica in qualcosa di “hot”? Se è così scusa, capo, ma la tua hacker preferita ha fatto il suo lavoro con estrema precisione! A proposito, Claudiuccia bella ha picchiato Kalle con la tua chitarra. Non prendertela, ti prego.” Citava il messaggio di Raghnild, corredato da faccine e cuoricini. Tom fischiò tra i denti: grande Ragh, come al solito di lei ci si poteva fidare ciecamente! Il caso senza di lei era bello che archiviato … rilesse il messaggio e inviò qualche maledizione a Kalle che faceva andare su tutte le furie Claudia (“perché sei uno schifoso maschilista! Mi chiedo ancora come facciano le due Eva a stare con te, bifolco pervertito inutile sessista!”) e che quindi la invitava, per così dire, a usare la SUA chitarra come arma impropria. Cristo, che vita con quei tre a mezzo. -E’ una tua amica?- si intromise Bill, occhieggiando come una scimmietta il suo cellulare. Ficcanaso, decisamente. -Sì, a volte mi aiuta per il lavoro.- rispose secco Tom, portando via dagli occhi curiosi di Bill il cellulare. C’era qualcosa che gli diceva che quelle pupille perverse sarebbero state in grado di leggere attraverso i libri chiusi, attraverso i cellulari spenti, i muri e perché no, anche attraverso la mente della gente: come se avesse un trapano che ti scava dentro fino a tirarti fuori i segreti più reconditi. -Beh, noi non stiamo facendo niente di “hot”, no?- miagolò Bill, strusciandosi contro il fianco di Tom, sorridendo in maniera maliziosa e leccandosi le labbra. Tom, da un lato, e al diavolo le convenzioni, avrebbe veramente essere nella condizione di maledire Raghnild perché era impegnato altrimenti. Peccato che non era vero, era solo per strada tenendolo a braccetto. Uffa. -No.- borbottò in risposta, scostandosi un po’ per pudore. -Da quello che ho capito, la tua amichetta ha trovato qualcosa di interessante sul caso che stai seguendo. Vuoi andare? -Beh, diciamo che magari … non so, forse.- ma al rasta bastò vedere l’espressione teneramente imbronciata di Bill per cambiare registro .- No, cioè, può aspettare, figurati, io … Bill scoppiò a ridere, scostandosi i capelli dal viso -Ma figurati, gattino, vai a casa, vai. La sicurezza della nazione è più importante, no? Con me ci puoi uscire anche ogni giorno. Tom si sentì un po’ meno colpevole, un po’ tanto più eccitato, e un po’ stranito dall’ironia calcata sul “la sicurezza della nazione è più importante”. Si passò una mano tra i dread, leggermente imbarazzato e si limitò ad annuire dicendo: -Ok, beh, allora ti riaccompagno a casa. -No, caro Tom. Riaccompagnami in negozio, a casa ci torno da solo. Bill lo trascinò fino al maggiolino che aspettava paziente l’arrivo del padrone, che come al solito non lo aveva chiuso a chiave, ma lo aveva lasciato aperto alla mercé di ogni ladro e malvivente possibile. Anzi, come avrebbe detto Kalle “Derubarci?! Noi?! Semmai sono gli stessi ladri che ci danno l’obolo per la pensione”. Una volta partiti, e dopo aver educatamente chiesto a Bill di non studiarsi i biglietti della spesa sparsi sul cruscotto e di non leggere le bollette mai pagate e nemmeno di ficcanasare nei biglietti d’amore tra Claudia e Raghnild (seriamente, avrebbe fatto bene, visto che l’angelo li stava tirando fuori tutti, a farne un sacco e riportarli in casa), si decise a chiedere perché mai voleva che non lo accompagnasse a casa. La risposta non gli piacque per la sua sanità mentale e fisica, con quel tono malizioso e sottile che solo Bill sapeva fare. -Perché i bravi ragazzi non dicono mai agli sconosciuti dove abitano. Tom sospirò rumorosamente e lo mollò davanti al negozio di July -Bene, allora ci si vede. -Ma gattino, che serietà! Bill si sporse di nuovo da quel benedetto finestrino rotto che rimaneva sempre aperto e gli graffiò il braccio con mossa consumata e piccante. -Ho come l’impressione che ci vedremo molto prima di quanto tu pensi. -Mi farebbe piacere, cagnolino.- Tom optò per un’espressione di normale serenità, ma fallì miseramente con la bavetta alla bocca. -Non sai a me. E con questa frase Bill accarezzò il collo di Tom e si avviò per strada, ancheggiando, come se fosse in passerella, cosciente dello sguardo trasognato e incantato del rasta sul suo fondoschiena *** Scusate se é impostato alla cavolo ma sto pubblicando dal cellulare:( grazie a tutte e sorry:*

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Capitolo 6
*** Te l'avevo detto che ci saremmo rivisti presto! ***


CAPITOLO SESTO: TE L’AVEVO DETTO CHE CI SAREMMO RIVISTI PRESTO!

-Ti rovino, Kalle Nyman, giuro che ti rovino!
Le urla sconclusionate di Claudia accolsero Tom appena mise piede nell’appartamento, evitando con grazia un cucchiaio volante. Normale routine, se era per quello. Ma bastò che i due litiganti, più una Raghnild semi addormentata sul divano, si accorgessero della sua presenza, che immediatamente gli saltassero addosso ululando come al loro solito:
-Oddio! Tom! Come è andato l’appuntamento? L’hai baciato? Gli hai aperto la portiera?!- lo sommerse Claudia, saltellandogli in giro e scuotendo la massa di ricci rossi.
-Ma che bacio e bacio! Hai combinato qualcosa?!- strillò Kalle, scuotendolo.
-Seriamente, ma ti ho disturbato prima? No, perché sai, mi dispiacerebbe.- attaccò Raghnild, fissandolo dal basso del suo metro e sessanta scarso di altezza.
Tom prese un profondo respiro, prima di abbaiare qualcosa che calmasse i suoi appiccicosi coinquilini e spedirli sul divano, come un tenente con i suoi sottoposti.
Una volta che si furono tutti e tre raggomitolati sul divano, e che Tom si fu seduto davanti a loro tormentando il berretto, iniziò a raccontare l’appuntamento per filo e per segno, osservando l’orgoglio, lo stupore, e il divertimento negli occhi dei suoi tre amici.
-Bene,- concluse infine – Questo è stato il succo dell’appuntamento.
-Sei troppo fine, Tom. Dovevi arrischiarti di più.- commentò Kalle, accendendosi una sigaretta.
-No, maniaco!- lo ripresero in coro le due ragazze.
-Dai, Kalle, smettila.- ridacchiò Tom, scuotendo i dreadlocks. – Ma più importante, adesso, è ordinare il piano per stasera al Bite Vampire.
-Ma rischiamo di venire quindi uccisi, stasera?- disse Claudia, infilandosi in bocca una caramella, e sfarfallando i grandi occhi verdi.
-No, Cla, no. Nessun pericolo per voi tre.- sorrise Tom – Basta che non veniate a disturbare mentre indago.
-Certo che no, capo. Ci nasconderemo abilmente nella folla.- asserì Kalle.
-Bene. Mi raccomando.
Tom sospirò. Aveva voglia di tutto meno che di andare in discoteca ad indagare e soprattutto … in quella discoteca. Non voleva ammetterlo, ma gli faceva un po’ paura. Nemmeno il tempo di finire di parlare, che Kalle e Claudia ripresero il punto della litigata dove erano stati interrotti, come se niente fosse intervenuto. Facevano sempre così, quei due, come leoncini che litigano per l’ultimo boccone di gazzella.
Raghnild si alzò, scostandosi i lunghi capelli neri dalla fronte, e disse:
-Dai, Tom, andiamo in cucina. Ti mostro ciò che ho trovato, sperando che serva a qualcosa.
I due ragazzi si sedettero al tavolo della cucina, orribilmente bucherellato, inciso e rovinato, dopo essere stato usato per anni da ogni possibile generazione di ragazzi che abitavano quel piccolo appartamento all’ultimo piano del palazzo più male in arnese della Brandenburg Strasse.
-Qualcosa di interessante?- chiese Tom, attaccando voracemente il barattolo di Nutella abbandonato sul tavolo.
-Beh, il detective sei tu, caro. Qui ci sono i risultati dei medici ed infermieri tra i 20 e i 30 anni. Se vuoi sapere la mia modesta opinione da hacker, nessuno mi sembra troppo il tuo serial killer.
Tom prese i fogli stampati e lesse rapidamente la lunga lista di nomi che gli si presentava davanti, scuotendo la testa. Magari l’avrebbe potuta affidare a Georg e Gustav, anche se da loro non c’era molto da aspettarsi. Li chiamò tutti e due, spiegando loro in breve la faccenda, e inviandogli la lista di nomi.
-Tom, sei sicuro di essere sulla strada giusta?- gli chiese con un punta di perplessità Gustav.
-Certo, Gus. Il fiuto non mente, lo sai anche tu.
E con questa frase lasciò il biondo alle prese con metà della lista dei medici. Sapeva che per quanto Gustav fosse scettico, prima o poi l’avrebbe fatto. Perché si fidava ciecamente di lui e dei suoi dreadlocks portafortuna.
Prese l’altro fascio di fogli, molto più magro dell’altro, e ci passò un dito sopra.
-Ragh, questi sono quelli operati?
La ragazza si sporse verso di lui, facendo tintinnare gli orecchini e i piercing che le decoravano orecchie, labbra e naso.
-Esatto. Mi dispiace, Tom, ma ho fatto un po’ fatica a trovarli, sai, la privacy, quella roba là. Questi sono quelli che hanno subito operazioni molto pesanti negli ospedali pubblici, nelle cliniche  private c’ho provato ma finora, nisba. Ho cercato casi piuttosto recenti, ma non recentissimi, entrando nei sistemi degli ospedali e degli stessi primari.
Tom annuì dandole un bacio sulla guancia. Era un regalo divino quella ragazza! Sfogliò i vari fascicoli, e poi chiese:
-Scusa, ma potresti provare a incrociare questi uomini con qualcosa legato alla pittura di precisione? Mi servirebbero tipo restauratori, o pittori, anche studiosi dell’Accademia di Belle Arti.
Raghnild sorrise, prendendo un altro fascicoletto, infilando il dito nel vasetto della Nutella e sporcandosi irrimediabilmente le labbra di cioccolato:
-Ecco qua, capo. Me l’avevi blaterato, al telefono, e ho ubbidito come ho potuto. Vedi, - si sedette vicino a lui, indicandogli il foglio – Ho incrociato i nomi dei pazienti con quello che mi hai detto, e mi è uscito fuori questo.
Tom sospirò, passandosi una mano tra i dread e andando in camera sua a studiarsi quei nomi per bene. Chissà che lì non ci fosse quel pazzo geniale a cui lui stava alle calcagna. Si buttò sul letto con le coperte di Spiderman, accendendo la luce di Batman e cominciando a leggere attentamente i nomi stampati, cercando di isolarsi dalle urla degli altri tre alle prese con chissà quale scemenza. Ok, in realtà non era molto attento a quello che stava studiando. Aveva la testa ancora annebbiata da Bill, dal suo carattere, dalla loro uscita, da tutto. Era ancora piacevolmente incantato da lui, come se stesse vivendo qualcosa di metafisico. Un sogno, chiamato Bill. Chiamato Angelo Autostoppista.
Solo un nome lo colpì, mentre leggeva. E lo colpì perché c’era scritto “Hansi Spiegelmann” e, al contrario di tutti gli altri, non aveva nessuna foto. Solo un nome.
-Raghnild!- gridò a pieni polmoni, sperando che il gruppo metal svedese messo al massimo (roba che solo Kalle poteva sentire) gli facesse la grazia di abbassare i toni affinché lei lo sentisse. Cosa che per grazia ricevuta successe.
-Che c’è?
La ragazza si affacciò alla porta, grattandosi la pancia. Molto fine, veramente.
-Perché sotto il nome Hansi Spiegelmann non c’è nessuna foto?
Raghnild si avvicinò, e scrutò i fogli, per poi esclamare, facendo risplendere i grandi occhi neri malamente truccati. Bill era molto meglio.
-Ah, sì! Sto qua me lo ricordo appunto perché non aveva foto. Non so, T., quando l’ho trovato mi sono resa conto che non appariva la sua faccia da nessuna parte. Fidati, ho cercato su qualunque sito, blog, social network, ma non c’è traccia di lui. Su internet, mi dispiace dirlo, non esiste nessun Hansi Spiegelmann.
Tom annuì, grattandosi la pancia a sua volta.
-Qua c’è scritto che era stato operato due anni fa. Al Bach Hospital. Motivo?
Raghnild si sedette sul letto, continuando a smaltarsi le unghie dei piedi di un brutto verde menta.
-Incidente in moto. Una cosa oscena, davvero. Vedi, ho cercato notizie sull’incidente, ma c’è scritto poco e niente. Insomma, sembra, a vedere dalle notizie online, che il ragazzo sia andato a sbattere con la moto contro un capannone, lungo la statale. Foto non le ho trovate, ma c’era scritto che si era completamente distrutto. Tipo che la moto aveva slittato sulla strada bagnata e lui era rimasto mezzo schiacciato contro il capannone e la moto in fiamme, una cosa orrenda. Non oso immaginare il dolore.
Tom rabbrividì. Quel tipo di incidente gli aveva da sempre dato i brividi più brutti, come se fossero incubi.
-Ed è sopravvissuto?
-Evidentemente sì. Ma come ho detto, niente foto, niente altro.
-Perfetto. Grazie Ragh, sei un tesoro!
-Come faresti senza di me?- ridacchiò la ragazza, alzandosi e saltellando fuori dalla stanza urlando – Claudiuccia mia, come sto?!
Tom afferrò il telefono e chiamò Georg, pronto a informarlo della situazione:
-Capito … - grugnì l’amico dopo il resoconto – Quindi oltre al serial killer ora abbiamo per le mani un tizio stile Freddie Krueger di cui non si conosce la faccia?
-Boh, Geo, sono così confuso! Il mio sesto senso mi dice che è così, eppure non so nemmeno io perché. I dati sono quelli, e la cattura è impellente, e io ho trovato strano questo ragazzo proprio per il fatto che non ha foto. È ben sospetto, no?
-Beh, diciamo che tutti noi, almeno da qualche parte abbiamo una nostra foto su internet, o perlomeno da qualche parte appariamo. A proposito di internet, Tom, lo sai che Heike mi segue su Instagram?!
-E chissene frega!- ma non poté trattenere una risata al pensiero degli occhi a cuore di Georg una volta scoperto che la bella dottoressa lo seguiva.
-Come chissene frega! È un passo avanti nella sua conquista!
-Dobbiamo concentrarci sull’indagine!
-Sei un’ipocrita, Kaulitz! Fai a me la ramanzina perché gioisco, e poi tu te ne esci con un ragazzo!
-Chi te l’ha detto?!
-Kalle, ho chiamato che tu eri già andato via per dirti di Heike. E lui mi ha detto che eri uscito con  il tuo ragazzo. Quindi, da quanto hai un ragazzo?! E perché non l’hai detto a quel santo del tuo migliore amico?
-Smettetela! Non è il mio ragazzo! È solo … magari un giorno te lo presenterò.
-Se è una checca isterica, passo, grazie.
-Spiritoso! Ci scommetto che quando lo vedi rimani come un pesce lesso. Posso dirti che magari io sono un po’ più virile di lui.
-Se tu sei virile, allora è una checca al 101%, perfetto.
I due ragazzi risero e il pensiero di Tom corse subito al momento in cui Georg e Bill si sarebbero incontrati. Non osava immaginare.
-Comunque, seriamente Tom, ritornando a questo fantomatico tizio, non è che potrebbe essere un nome falso?
-Intendi dire che Hansi Spiegelmann sia una falsa identità? Cosa te lo fa pensare?
-Non saprei, però scusa, uno che fa un incidente praticamente mortale, che per un qualche motivo fortunato riesce a uscirne vivo, uno che comunque deve avere un briciolo di vita sociale se era giovane, non appare assolutamente da nessuna parte, in nessun referto medico? Mi sembra troppo strano.
Tom si grattò la testa, afferrando una matita e scarabocchiò un foglio per pensare meglio, rendendosi conto di stare continuando a scrivere “Bill” in tutti i caratteri possibili e immaginabili.
-Se ciò che dici è vero, allora vuol dire che non aveva documenti in tasca al momento dell’incidente. E che ragionevolmente qualcuno ha detto il nome al posto suo in ospedale; non pensò che riuscisse a parlare dopo un incidente simile.
-E non potevano guardare le impronte digitali?
-E se ce le avesse bruciate? L’hai detto tu, Freddie Krueger. Se la moto è esplosa, potrebbe essersi completamente ustionato.
I due poliziotti rabbrividirono al pensiero.
-Va beh, senti Georg, ti lascio. Domani in centrale esporrò ciò che troverò stasera al quel maledetto Bite Vampire, e magari convinciamo gli altri a concentrarci su questo Hansi Spiegelmann. Non mi quadra.
-Andata amico, a domani. E divertiti stasera!
Dopo qualche insulto, Tom mise giù sbuffando. Ma perché diavolo aveva questa stramaledetta abitudine a complicarsi la vita?! Già che un assassino seriale non fosse un problema grosso … andò in salotto, e si buttò sul divano, vicino a Kalle intento a disegnare qualche strano mostro tribale da proporre ai suoi clienti. Tom era ancora terrorizzato all’idea che di notte gli infilasse un ago da qualche parte facendogli qualche orrido disegno.
Guardò Raghnild e Claudia truccarsi a vicenda per la serata, e decise di non cominciare a romperle di nuovo l’anima chiedendole di analizzare il referto medico del misterioso tipo. Magari sarebbe riuscito a convincere i propri colleghi a darsi da fare, una volta tanto.
***
-Ma sto posto peggiora di volta in volta!- sbottò Tom, una volta che furono tutti e quattro fuori dalla porta del Bite Vampire, illuminati dalla luce bluastra che proveniva dall’interno del locale, osservando la grossa insegna a led verdi luminosa come un faro, che rischiarava il vicoletto buio e opprimente.
-Non capisci un tubo, fratello!- lo rimbeccò Kalle, spingendolo all’interno. – Ci sarà da divertirsi un mondo, stasera!
Sospinto dalle mani ricoperte di tatuaggi dell’amico, Tom caracollò dentro, catapultandosi in una dimensione blu, dove si sentivano le note basse e pesanti di un organo sintetico. E solo Dio sapeva quanto Tom odiasse l’organo sintetico.
Il bancone, che conteneva all’interno un acquario di enormi dimensioni dove grossi pesci verdi e rossi nuotavano lentamente, era ricoperto di bottiglie dei liquori esotici più strani e maleodoranti. Il pavimento era decorato con grandi disegni nero su bianco concentrici che facevano irrimediabilmente girare la testa al rasta, come se fosse su una giostra.
-Sei sicuro di non svenire, Tom?
Claudia lo guardò preoccupata, sotto uno spesso strato di rossetto fucsia, stringendo una borsa anche essa di paillettes fucsia, le cosce costrette in una gonna vertiginosa di brillantini neri, i seni messi in risalto da una specie di top ricoperto come il resto di brillantini neri, un paio di scarpe fucsia orribilmente brillantinose. Sarebbe piaciuta a July, conciata a quel modo.
-Certo, Cla. Non sverrò.- grugnì, anche se sentiva già la testa in palla.
-Beh, chiama se ti senti male.- gli ricordò la ragazza, abbracciandolo e ricoprendolo di glitter. Orrore e raccapriccio. Poi scomparve ballonzolando tra la folla, alla ricerca delle borchie di Raghnild.
Tom sospirò rumorosamente, come un condannato che deve andare al patibolo. L’unico punto a suo favore era, giustappunto, il fatto di essere un rasta; poteva passare inosservato, in quel marasma di gente strana.
Si avviò spintonando di qua e di là verso il bancone, dove avrebbe cercato di farsi dare qualcosa di bevibile, e non dei beberoni alla cannella vomitevoli, e avrebbe provato a cercare notizie, cercando di non dare nell’occhio. Ma Tom dava sempre nell’occhio, dovunque andasse.
La musica lo rintronava, andando avanti e indietro come fosse un’unica traccia ripetuta mille volte di seguito, e le luci stroboscopiche roteavano sempre più veloci. La discoteca era piuttosto gremita, come ogni sera, più o meno. Odore di alcol, droga, sudore, odore di corpi schiacciati, di amore, di profumi, di tinte per capelli. Odore di anticonvenzionalismo, di rivalsa, di musica, di etnie diverse. Tom era così distratto dai rumori, dagli odori che gli riempivano le narici a vampate, dai colori che gli confondevano gli occhi, da tutto quel caos del posto che odiava, di non accorgersi di essere inciampato miseramente, colpa le sue braghe enormi, su un tizio.
Se ne rese conto quando si trovò sopra a un poveraccio. Se ne rese conto quando sentì la sua coscienza esclamare il motto della sua vita “Tom Kaulitz, sei un coglione!”.
-Scusa, oddio, scusami tanto, non ti ho visto, le luci, io … - balbettò a raffica, tendendo una mano all’investito.
-Ma figurati, non preoccuparti. Non mi sono fatto niente, gattino.
Gattino. Gattino. Solo una persona al mondo poteva chiamarlo con quello stupidissimo appellativo. E quella persona era …
-Bill!
-Te l’avevo detto che ci saremmo rivisti presto Tom!
Bill era davanti a lui, di nuovo in piedi, con un sorriso smagliante sulle labbra rosso fuoco, e lo abbracciò. Tom pensò anche di svenire quando le braccia del ragazzo gli si appesero al collo e quando il corpo slanciato gli si aggrappò addosso; cercò di ricambiare goffamente l’abbraccio, sentendo l’intero corpo andare in fiamme. Perché Bill lo stava abbracciando e lui si sentiva un maniaco in quel momento, ma non poteva farne a meno. Perché sentiva addosso il suo profumo intossicante, che mischiava cose che il naso di Tom non riusciva a distinguere: sapeva solo che sembrava una droga, qualcosa che avrebbe sempre voluto sotto le narici.
-Cosa ci fai qui?- miagolò Bill, senza mollarlo. E quello al poliziotto faceva particolare piacere.
-Lavoro. Per l’indagine.- Tom cercò di assumere un’espressione intelligente.
-E perché sprecare il tempo per lavorare, quando si è in un posto eccitante come questo?- Bill scoppiò a ridere, e Tom pensò che se anche lo avesse baciato non se ne sarebbe nemmeno accorto.
-Lo dici tu! Odio questo posto.
-No, gattino, perché?
Bill gli prese le mani e cominciò a ondeggiare al ritmo dell’organo a cui si era aggiunta una miracolosa chitarra e quelli che sembravano piatti in lontananza. Tom non sapeva ballare. Non aveva mai imparato, nonostante le lezioni di tango o quello che diavolo era a cui Georg aveva obbligato lui e Gustav a partecipare con il disastroso risultato che lui e Gus erano costretti a fare coppia fissa e che puntualmente l’insegnante costringeva entusiasta a far fare il casché al biondo davanti a tutti gli allievi e puntualmente Tom lo faceva cadere per terra perché si ingambava nei suoi stessi piedi. Un anno da dimenticare.
Cercò comunque di concentrarsi e di acchiappare Bill per la vita (“Tom, guai a te se gli tocchi il posteriore” lo sgridò la coscienza), mettendo alla prova la sua memoria sulle lezioni di liscio a cui quell’ignobile di Georg aveva imposto di partecipare, sempre lui e Gustav ovviamente, in qualità di “amici e supporter”. Avevano 18 anni e tanta, tanta sfiga, perché anche lì Tom e Gustav facevano coppia e si pestavano i piedi a vicenda, scivolavano, e anche lì l’insegnante li faceva esibire a fine lezione davanti agli altri. Dannazione. E poi due anni dopo era stato il turno del tango. Quando aveva provato a proporre lezioni di polka e salsa, lo avevano picchiato.
-Wow, Tom, dove hai imparato a ballare?- chiese Bill, trascinandolo con finta nonchalance verso il centro della pista, perché Tom era talmente preso dalla cosa di poterlo abbracciare che manco se ne accorse.
-Io? Ballare? Ma no, io non so ballare!
-Però il fianco me lo tieni perfettamente … - sorriso malizioso.
“Beh” pensò Tom “Dopo aver tentato di tenere Gus che oltretutto soffre anche il solletico, tenere te è uno scherzo”. Ma si limitò a un semplice:
-Qualche anno fa un mio amico mi aveva costretto a frequentare un corso di tango.
Bill rise forte, e in effetti Tom non gli diede torto, perché aveva visto il video di quando, alla festa del santo patrono di Magdeburgo, lui e Gustav, ubriachi persi, avevano dato sfoggio alla cittadina della loro abilità di ballerini con un’esibizione imperdibile di quello che loro chiamavano “ballo liscio”.
-Allora, sei “caliente” come i veri ballerini di tango?- Bill sorrise, e gli posò la testa sulla spalla, soffiandogli sull’orecchio, strusciandosi contro di lui.
A quel punto Tom si sentì veramente andare a fuoco, la testa, il collo, tutto il suo essere, il corpo, completamente infiammato. Avrà avuto una temperatura corporea di 40 gradi, ma stava eccezionalmente bene. Troppo esaltato per provare qualcos’altro. “Comunque, cagnolino, a questo gioco si può giocare in due” pensò, mentre si faceva forza e lo afferrava meglio, cominciando a ricambiare gli strusci e il fiato caldo sul collo.
-Forse.- gli sussurrò tra i capelli corvini, così morbidi da potertici addormentare sopra, come un cuscino.
E le sentiva, le mani di Bill aggrappate alla sua schiena, e il suo bacino attaccato al suo, lo percepiva sorridere, miagolare piano. Ed era tutto troppo bello perché non finisse immediatamente, con uno strillo che conosceva purtroppo troppo bene:
-Tom, ma è un tuo amico quello là?!
Claudia. Maledetta lei e la sua cecità di fronte alle scene da film.
Tom si girò fulminandola, furioso come Cerbero, con quella faccia da cattivo che non faceva altro che far ridere i destinatari.
-Claudia, che c’è?!- ruggì.
La ragazza lo squadrò un po’, per poi finalmente accorgersi che magari c’era anche Bill, che ridacchiava divertito, ancora appoggiato alla spalla di Tom. E beato lui che ride, accidenti al diavolo.
-Uuuh, ma scusa Tom! Non avevo visto il tuo ragazzo!
-Non è il mio ragazzo, cazzo, quante volte te lo devo dire?!
Bill scoppiò a ridere, e tese la mano inanellata, con lo smalto blu notte alla rossa:
-No, cara, io e Tom siamo semplicemente amici. Non è ancora il mio ragazzo. Comunque, piacere, Bill.
Claudia guardò schifata il rasta, incantata Bill, e gli strinse vigorosamente la mano, forse troppo. Si era dimenticato di dire all’angelo che lei era una campionessa di arti marziali russe.
-Aaah, scusa, piacere allora, Claudia! Comunque, wow! Che look faaaantastico che hai, non come questo sciattone di Tom!
-Grazie, Cla, lo sai che ti voglio bene anche io … - grugnì Tom, dandole un pizzicotto.
-Ma no, dai, Tom non è sciatto, è solo … beh, si tiene male, è vero. Però è carino così, no?- Bill gli stritolò le guance e a quel punto il rasta si sentì come il pupazzo innocente di due bambinette che si atteggiano a principesse. Comunque, cosa da notare, gli aveva detto che era carino. E che non era ancora il suo ragazzo. Quindi contava di diventarlo presto. Ormai non se la contava manco più da solo, lo aveva accettato di essere cotto perso di Bill e del suo comportamento, l’ennesima battaglia persa contro se stesso.
-Comunque, cosa vuoi?- abbaiò Tom.
-Ti spiego.- Claudia si mise in mezzo a loro due – C’è a bordo pista, un tizio vestito come me, tutto di glitter che è uno spettacolo (detto fra noi, se non fossi dell’altra sponda e se non fossi occupata ci sarebbe da farci un pensierino), che ha detto a due tipe orientali con la faccia da mastini, in senso ironico, che “il signor Kaulitz”, citando le sue esatte parole, “si sta adattando alla presenza di Bill-chan.  Non so se considerarlo un buon presagio o no”. Ecco perché sono venuta a chiederti se lo conoscevi.
Bill rise forte, Tom divenne livido, e Claudia sorrise fiera di se stessa.
-Sì, July-chan è il mio migliore amico. E ha conosciuto Tom per l’indagine.- rispose Bill deliziato, come se la cosa fosse particolarmente comica.
-Grandioso!- esclamò Claudia – Allora me lo presenti?!
Come al solito non attese risposta e li trascinò entrambi a bordo pista, ignorando gli insulti di Tom a raffica. Una volta essersi fatta violentemente largo a spintoni tra la folla, li piazzò con forza eccessiva davanti a un divanetto blu, dove sedeva compostamente July, ancora più brillante della volta scorsa, con un sorrisetto sardonico come se sapesse che sarebbero venuti tutti e tre da lui. Ai lati, stavano due tipe con un fisico da modelle, vestite rigorosamente di pelle nera, i visi come maschere di cera, i capelli sciolti e accuratamente pettinati, una neri e l’altra tinti di rosso porpora. Veramente un terzetto eccezionale.
-Lieto di rincontrarla così presto, signor Kaulitz.
July sorrise, chinando il capo ricoperto di brillantini violetti.
-Ehm, il piacere è tutto mio, signor Choy.- Tom si tirò un po’ il colletto della felpa, improvvisamente impacciato.
-Ma guarda, Bill-chan, hai trovato il tuo saeloun jangnangam.- miagolò July, ammiccando a Tom, che non fece altro che arrossire vistosamente.
Bill arrossì di colpo e borbottò qualcosa in una lingua oscura, dando un calcetto a July e mordicchiandosi il labbro. Ma nei suoi occhi si leggeva tutt’altro che imbarazzo.
-Signorina, molto piacere. Noto con piacere che anche lei stima il look dei brillantini.
Sentita quella frase, Claudia partì in una specie di fangirlamento acuto, saltellando e strillando frasi sconclusionate sotto gli sguardi indagatori delle due modelle.
-Ehm, Bill, ma sarebbero queste le due sorelle di July?- sussurrò Tom, tentando di non farsi sentire.
-Sì, signor Kaulitz, sono le mie sorelline.- rispose July, facendo ridacchiare Bill – Lei è May Ran Mao – indicò la finta rossa – Mentre lei è June Mei Rin – e indicò la nera.
Le due ragazze chinarono la testa verso Tom, sempre impassibili.
-Le scusi, ma non parlano tedesco.
-Parlano la lingua dei calci- sogghignò Bill – Sai, gattino, sono campionesse di taekwondo, kendo, jujitsu e bojutso.
Tom deglutì spaventato, ma fece finta di niente, fulminando l’amica che continuava a svolazzare attorno a July. Claudia era fastidiosa, quando voleva.
-Mi dica, come va l’indagine?- chiese July, sfarfallando gli occhi ricoperti di brillantini blu e argentati.
-Non benissimo.- grugnì Tom, sistemandosi il berretto e sedendosi davanti ai tre coreani, che lo fissavano con le loro maschere di cera. – Comunque, le sue indicazioni sulla croce mi sono state molto utili.
-Ne sono lieto.
Prima che Claudia combinasse qualcosa, Tom se la fece sedere vicino, insieme a Bill che continuava a ritoccarsi il trucco in quel benedetto specchietto. Non si accorse nemmeno di quando gli si accoccolò vicino, se Claudia non gli avesse dato una gomitata nel fianco. Male, perché rischiò lo svenimento.
-Avete qualche vaga idea di chi possa essere?
A quella frase Tom si ricordò che magari avrebbe dovuto passare la serata indagando, non parlando con quella strana gente. Anche perché il giorno dopo che avrebbe detto in centrale?
-No, niente di niente.- sbuffò il rasta, un po’ demoralizzato. E cullato dalla mano di Bill che gli accarezzava la spalla. Odiò per un momento tutti, tutta la gente che c’era lì attorno, perché dannazione ora avrebbe voluto afferrarlo e baciarlo per ore e ore sotto le luci blu che cominciavano a diventare violette, tenerselo tra le braccia fino a non poterne veramente più. Ma non poteva. Non poteva perché aveva una schifosa reputazione da mantenere.
-Toooom, ti è caduto questo.- interruppe Bill, chinandosi di scatto, lasciandogli la spalla e raccogliendo da terra un pezzo di carta accuratamente ritagliato.
Tom ringraziò tra i denti e afferrò il foglietto con “i dati” del misterioso Hansi Spiegelmann, anche se probabilmente come diceva Georg era solo una copertura. Che idiota, nella fretta si era scordato di lasciarlo sulla scrivania e se l’era infilato in tasca come faceva in centrale. Se l’avesse perso …
-Grazie Bill, cavolo, se l’avessi perso- borbottò, cercando di rinfilarselo in tasca. Ma fu troppo lento, come al solito, vittima della naturale lentezza del Distretto degli Sfigati che prendeva tutto con le dovute misure di sonnolenza.
Perché vide Bill sbiancare per un attimo e dirgli, a voce più bassa del solito, spalancando gli enormi occhi truccati con un fondo di ansia mai vista:
-Che ne sai di Hansi Spiegelmann?
E gli bastò vedere i tre coreani irrigidirsi completamente e il viso di Bill quasi spaventato, alterato, per capire che forse, seriamente, aveva smosso qualcosa nel caso del serial killer di Berlino.
 

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Capitolo 7
*** Riprendiamo il discorso interrotto, gattino? ***


CAPITOLO SETTE: RIPRENDIAMO IL DISCORSO INTERROTTO, GATTINO?

Quel grosso fiocco rosso fuoco che gli decorava la fronte cominciava seriamente a dargli fastidio, insieme al collare di jabot che puzzava irrimediabilmente di antico e muffa. Chissà dove lo aveva trovato, quale soffitta aveva frugato per tirarlo fuori. Si mosse un po’, roteando in quella camicia da notte stile babydoll che gli stringeva fastidiosamente le scapole, in bilico sulle scarpette di lacca rossa.
“Stai fermo”. La sua voce era perentoria, come al solito, soffocata, arrochita dal fumo della sigaretta che gli pendeva perennemente dalle labbra.
Si irrigidì, appoggiandosi al muro di mattoni rossi della vecchia casa, nella posizione predisposta, respirando pesantemente sotto il trucco pesantissimo che gli ricopriva il viso. Aveva caldo, così caldo che si sarebbe sciolto.
“Ci vuole ancora tanto?” pigolò, fissando l’armamentario sparso poco più in là.
Scosse la testa, prendendo la vecchia, grossa, Polaroid e cominciando ad aggiustare l’obbiettivo. Poi si alzò, lo prese per la vita, e lo girò un po’ verso il muro, sollevandogli il braccio e appoggiandoglielo sulla superficie di mattoni, aggiustandogli il fiocco e la camicia da notte.
“Sei perfetto, Alice” gli soffiò nell’orecchio.
Sorrise, aspettando il click della macchina fotografica.
 
Tom guardò stupefatto Bill. Ma che diavolo stava succedendo? C’era qualcosa che sicuramente legava (e a quel pensiero un brivido gli corse giù per la spina dorsale) l’angelo a quello stramaledetto serial killer. Ma cosa? E perché diavolo tutto si stava così orribilmente complicando? Si voltò verso Claudia, e le fece un veloce cenno di levarsi da mezzo. Almeno, non voleva che una delle sue migliori amiche finisse nei guai. Lei annuì stranita e scomparve tra la folla, stringendogli affettuosamente una mano. Conoscendola, avrebbe subito chiamato a raccolta gli altri due per schierarsi in posizione “protezione Tom”. Deglutì, cercando con gli occhi l’oceano in tempesta di Bill, per trovarci solo smarrimento, come se fosse partito per un viaggio in cui solo lui poteva auto ritrovarsi e auto distruggersi.
-Lo conoscete?- disse, assumendo la solita e grandiosa espressione da segugio all’opera, visto che magari poteva seriamente trovare qualcosa da esporre il mattino dopo a quegli incompetenti dei suoi colleghi.
-Non propriamente.- intervenne July. E a Tom bastò vedere tutta la carica esplosiva di acidità e gelo negli occhi brillanti per sentirsi rattrappire di colpo, come un limone a cui viene portato via tutto il succo.
-Non ci è nuovo il nome, ma non lo conosciamo di persona.- continuò glaciale, guardandosi le unghie lunghe e dipinte di giallo canarino con le stelline nere. Qualcosa, però, nella testa di Tom, gli diceva che July stava mentendo. E non sapeva come spiegarselo, ma il suo subconscio glielo urlava a pieni polmoni “Mente!”. Bene, e allora? Cosa avrebbe potuto dirgli? So che lei mente, ma non so il motivo? Avrebbe dovuto tacere, e pensare. Scavare a rovescio dentro di loro, fino a estrarre il motivo della bugia.
Passarono un buon minuto a fissarsi intensamente negli occhi, come se fosse una sfida silente, finché June Mei Rin non si alzò, prese il fratello per un braccio e sussurrò qualcosa, subito seguita da May Ran Mao. I tre fratelli si guardarono, parlottando velocemente, poi si girarono verso di lui e si inchinarono rispettosamente, mentre July si congedava con un semplice:
-Mi scusi, ma mia sorella mi ha giustamente ricordato che domani sarà una giornata particolarmente impegnativa. Dovremmo andare. Bill-chan, vieni?
Bill scosse la testa, e Tom fu quasi sicuro che entrambi sapessero che lui avrebbe detto di no. Ma per quale motivo oscuro quel nome li aveva messi così in allarme?
E così, nel rumore assordante del organo sintetico, i tre coreani scomparvero alla vista, dissoltisi così come erano apparsi.
Tom guardò Bill che sembrava ancora perso nel suo mondo, con lo sguardo fisso sul muro, e decise di scrollarlo delicatamente per la spalla.
-Ehi, Bill, tutto bene?
Il ragazzo si riscosse di colpo, come si fosse svegliato da un lungo sogno a occhi aperti, si stropicciò gli occhi e lo guardò leggermente stralunato.
-Oh, scusa Tom, io … forse sono solo un po’ stanco. Quel nome, beh, mi ha ricordato qualcuno che avevo sentito, ma non saprei …
Tom guardò premuroso Bill che gesticolava nervosamente per poi sbuffare di colpo e afflosciarsi sul divanetto blu, come una marionetta che finisce lo spettacolo e sussurrare, a voce così bassa che il rasta pensò di essersela sognata:
-Mi accompagneresti a casa, per favore? Sono stanco.
Non disse nulla, si limitò ad annuire vigorosamente, e a prenderlo per mano, prendere la mano pallida e tremebonda, andare dai coinquilini  e limitarsi a un semplice “lo riaccompagno a casa”, salutarli mollemente e trascinarlo fuori come se non fossero altro che foglie lasciate all’autunno, due barche alla deriva nell’oceano morte su una spiaggia di un continente sconosciuto. Si sentiva come sospeso in una  bolla di sapone troppo pesante e al contempo troppo leggera. Rimbalzava da una parte all’altra con Bill vicino, una stessa bolla che li proteggeva dal resto, e li faceva saltare, sollevandoli dal terreno. Meno quando furono fuori, che allora la bolla esplose con un sordo “pop” e li lasciò cadere per terra, di nuovo ancorati al suolo sconnesso del vicolo.
-Dove abiti?- chiese Tom, chinandosi su Bill e accarezzandogli con mano tremante le spalle avvolte in quella camicetta di pizzo.
-Al 13 della Amburg Strasse. Non guardarmi così Tommuccio, lo so che fa schifo come via.- Bill alzò lo sguardo e il sorrisino bastardo tornò al suo posto, con una sfumatura finale quasi dolce, diversa da tutte le varie differenze microscopiche che Tom poteva vedere nel modo in cui muoveva le labbra.
-Beh, non è che la Brandenburg sia molto meglio.- Tom si passò una mano tra i dread sorridendo, avviandosi a braccetto con l’angelo lungo la stradina dismessa che si snodava verso il fiume. – Comunque, perché mi hai chiamato Tommuccio?
Calma, non che non gli piacesse come soprannome. Certo, se gliel’avesse detto qualcun altro si sarebbe trovato con il naso rotto o un dente scheggiato, ma Bill no. Sembrava qualcosa di così sexy detto da quella vocina che se lo sarebbe fatto ripetere mille e mille volte senza stancarsi.
-E’ un soprannome tenero, no? Come te.- rispose, scostandosi una ciocca dal viso ricoperto di fard bianco e facendogli l’occhiolino.
 
-Quante volte ti ho detto di non guardare sta roba?
La sua voce risuonò nella stanza, immobilizzandolo completamente sul divano logoro. Non si girò, rimase semplicemente fermo a fissare lo schermo senza vederlo veramente, gli occhi diventati opachi tutt’a un tratto. Si sedette vicino a lui, composto come al solito, le catene che tintinnavano tra loro. Tic tac. Gli prese dalle mani il telecomando e spense la televisione.
-Ma a me piace questo programma … - sussurrò, raccogliendo le gambe al petto e scostandosi i ciuffi di capelli corvini dalla fronte pallida, sperando che per una volta lo lasciasse libero di fare quello che voleva.
-Non importa se ti piace. Non devi guardarlo.
Non riusciva a resistere a quello sguardo gelido, che non lasciava trasparire nulla se non l’incredibile freddezza che lo permeava. Si guardava i piedi nudi, conscio di essere arrossito come un pomodoro.
-Perché non posso?- sussurrò, aspettandosi qualche smontante risposta, oppure la catena stringersi attorno al suo collo fino a lasciargli il segno per giorni. La catena stringeva così tanto, gli faceva così male, ma in qualche modo gli piaceva. Gli piaceva la pelle escoriata dal ferro delle catenine che gli avvolgeva addosso.
-Perché ti fa male, tesoro, dicono cose sbagliate.
A dispetto dei suoi pensieri la sua mano gelida gli accarezzò i capelli delicatamente, avvolgendo una sua ciocca attorno al dito. Si raggomitolò di più sul divano, posandogli la testa sulle ginocchia, gioendo segretamente delle carezze che gli faceva. Anche se non aveva ancora capito perché voleva fargli vedere solo certi programmi e non ve ne era uno di suo gradimento.
 
Tom arrossì silenziosamente, felice del nuovo soprannome e di essere considerato tenero da qualcuno; finalmente una persona che non gli diceva che era borbottante, chiuso in se stesso e pigrone. Tenero. Lui, Tom Kaulitz, era tenero. Oh, che cosa bella. Strinse meglio il braccio di Bill e cercò di tenerlo in piedi prima che crollasse sui tacchi per colpa del selciato rovinato.
-Perché ti ostini a metterti i tacchi se non ci sai camminare?- chiese, sorridendo.
-Perché ti ostini a metterti le braghe sformate se poi ti inciampi?- ribatté l’angelo, ridacchiando e dandogli una spintarella leggera.
-Abbigliamento rasta.- rispose Tom, dandogli una spinta a sua volta. – Dread e roba sformata. Non ti va bene, cagnolino?
-Affatto, gattino.- Bill gli accarezzò il collo – Te l’ho detto, sei la cosa più hot che abbia mai visto.
Tom fu percorso da un brivido di eccitazione che tentò malamente di mascherare alzando gli occhi al cielo. E fu solo per una frazione di secondo, talmente veloce che il ragazzo pensò di essersela immaginata. Ma lo aveva visto, alla luce della luna annebbiata dall’umidità notturna, una sagoma in piedi sul tetto del palazzo sopra di loro, una sagoma che aveva qualcosa di inquietante come i tatuaggi di Kalle, che si stagliava contro il cielo notturno come un’impronta che sembrava proprio fissare loro due. Gli andò il cuore in gola, sentendosi scandagliato per un orrendo secondo dalla figura sul tetto. Ma subito dopo era sparita, dissoltasi nella luna, con uno sbuffo silenzioso. Tom strabuzzò gli occhi, bloccandosi di colpo. Ma cosa aveva adesso, anche le visioni mistiche? Beh, fra discoteca, caldo, mistero e Bill poteva anche dire addio alla sua già precaria sanità mentale.
-Che c’è, Tom?
-Aehm, niente. Mi è sembrato di vedere qualcosa sul tetto ma mi sono sbagliato.
Bill rise della sua scemenza, ovviamente. Perché Tom era specializzato a rendersi ridicolo di fronte alle persone più belle, sin da quando era stato capace di intendere e di volere.
Passeggiarono silenziosamente verso la Amburg Strasse, la via con i palazzi popolari più malmessi di Berlino. Dove un sacco di volte il distretto dieci era andato a fare retate di spacciatori, di protettori che pestavano le loro prostitute, di casi sociali al limite della normalità. Insomma, l’ultimo posto dove Tom avrebbe voluto andare e dove avrebbe voluto veder vivere Bill. Gli sembrava una cosa così pura, bella, innocente, anche se palesemente non lo era.
-Tooom, io vivo qui.
Il rasta si bloccò, guardando prima Bill e poi il palazzo di cemento con le finestrelle tutte uguali e con i poggioli di lamiera bucherellata, un tanfo terribile di vino usciva dalla guardiola del custode, come il tappeto rosicchiato dalle tarme che si dispiegava verso l’ascensore ricoperto di scritte oscene e segni neonazisti malfatti.
-Qui?- borbottò, additando le luci mal funzionanti che si accendevano e spegnavano a intermittenza e cercando di non aspirare troppo vino marcio.
-Sì, al sesto piano.
Bill fece un sorriso un po’ imbarazzato, e lo trascinò verso l’ascensore di metallo, che si aprì dopo un calcio ben assestato con il tacco.
-Ma … siamo sicuri che regga?- Tom deglutì a vuoto, vedendo l’interno ermetico e i pulsanti quasi scardinati.
-Spero di sì, Tommuccio. Fino a oggi pomeriggio reggeva.
Bill ce lo trascinò dentro a forza, ignorando volutamente la faccia sconvolta del poliziotto, perché, dannazione, lui aveva paura degli ascensori al diavolo tutto! E soprattutto di quelli mal funzionanti che non avevano prese d’aria.
Il pulsante con il numero 6 venne brutalmente schiacciato, e il vetusto ascensore si mise in movimento con un sordo rumore di ferraglia molto poco sicuro, sobbalzando leggermente e scuotendosi come un cane. “Sicuro come l’oro, io al ritorno faccio le scale” pensò Tom, afferrando con non troppa nonchalance la sbarra di metallo e raccomandandosi subito a Dio.
-Hai paura dell’ascensore?- miagolò Bill, guardandolo con una dolcezza infinita negli occhi troppo truccati e avvicinandosi ancheggiando, posandogli una mano inanellata sulla spalla.
-No, assolutamente, è solo che … beh … - mentì Tom, deglutendo rumorosamente e cominciando a respirare a velocità esagerata.
-Hai paura.- Bill ridacchiò piano e Tom si trovò a voler grugnire perché, porca troia, cosa aveva da ridere quel piccolo demone sadico?!
Tom annuì, abbassando lo sguardo e stringendosi istintivamente al corpo dell’altro non appena l’ascensore diede uno scossone più forte e sferragliò con più potenza di prima, lasciando che le luci lampeggiassero e se ne spegnesse una.
Bill gli mise un braccio attorno alla vita e gli posò la testa sulla spalla. E il problema di Tom aumentò vertiginosamente. Perché aveva Bill appeso addosso in un ascensore da incubo, e lui non era in grado di reggere tutta quella carrellata di emozioni che vorticavano nell’abitacolo perché era solo un povero poliziotto rasta, diavolo. Era solo un povero ragazzo di ventitre anni!
-Allora, forse non ti dispiacerà se mi invento qualcosa per non farti star male, no?- tubò l’angelo, avvicinando troppo pericolosamente i loro visi.
-Tipo?- pigolò Tom, senza rendersi nemmeno conto delle sue mani che si erano incastrate alla perfezione nei fianchi del ragazzo.
Bill non rispose, si limitò a posare le sue labbra truccate sulle sue. E Tom rischiò di svenire lì, attaccati uno all’altro, perché lo stava baciando. Bacio. Kiss. Bisou. Beso. Kussen. Forse era tutto un dannato sogno, però quella lingua e quella pallina tanto sognata non potevano essere frutto delle sue perversioni, e nemmeno quei fianchi e quei capelli che gli accarezzavano il viso, e quelle braccia appese al suo collo. Era tutto vero. Bill, l’Angelo, il Diavolo, l’Autostoppista maniaco lo stava baciando nell’ascensore. “E allora approfittane, idiota! Tom, sei veramente un  coglione!” lo rimbrottò la sua coscienza, e per una volta le diede ragione, prendendo Bill in braccio e approfondendo il bacio sempre di più, fino a sentirsi parte di lui, fino a diventare una stessa, splendida cosa.
Solo il sordo “tuuut” dell’ascensore che si fermava e che apriva le dannate portiere sferragliando li fece staccare e respirare come due mantici, due sorrisi vagamente ebeti stampati sui visi ancora appoggiati uno all’altro.
-Io … - iniziò Tom, posando Bill per terra, aggiustandosi il berretto sulla testa.
-Shh, zitto gattino.- Bill fece un sorriso radioso come un sole e lo afferrò per il polso, trascinandolo verso una porticina di legno scrostata, che venne spalancata con un calcio e chiusa con una taccata.
Tom si guardò intorno, trovandosi in un atrio scrostato pieno zeppo di stivali e scarpe col tacco di ogni forma e dimensione, illuminato da una bella lampada Tiffany sul verde azzurro. Imitò Bill e si levò le scarpe sfondate e il berretto, osservando incuriosito la casa piccola ma dignitosa lungo cui veniva trascinato, decorata con dei quadri che non ebbe nemmeno il tempo di vedere, tanto Bill sembrava desideroso di trascinarlo in quella che era una grande camera da letto, con un grosso letto matrimoniale con le coperte nere accuratamente piegate, due cassettoni di legno dipinto ricoperti di libri e quelli che a prima vista parevano trucchi di ogni genere, un quadro appeso sopra la testata e una lunga serie di bambole di pezza vestite come tante Gothic Lolita sopra una cassapanca di legno intagliato. Bella camera, confortevole, fresca rispetto al caldo del resto del palazzo.
-Wow, che camera figa!- non poté trattenersi Tom, accarezzando il piumone così morbido e non sghimbescio come il suo di Spiderman.
Bill rise, accarezzandogli una guancia e cominciando a pettinarsi i lunghi capelli neri con una grossa spazzola decorata con perle, sedendosi vicino a un estasiato Tom.
-Ti piace?
-Caspita.
Tom si voltò, e dovette convenire che Bill, visto alla luce della luna che filtrava dalle spesse tende, era ancora più bello del solito. Era come un dio, una ninfa, un nuovo sole. Un qualcosa di una bellezza tossica, fatale, ammaliante, assassina. Un amore velenoso. Si levò la felpa, lasciandola scivolare sul pavimento di parquet scuro e gli si avvicinò accarezzandogli la schiena. La sua parte maniaca, giovane, imprudente, avventurosa, lo stava spingendo a continuare, ad andare oltre, fosse anche solo per una notte. “Le cose perdute non ritornano mai più indietro, Tom, ricordatelo sempre” diceva sempre sua madre, prima di metterlo a dormire, sin da quando era piccolo. E questo valeva anche per i momenti. Se avesse perso l’occasione, magari non l’avrebbe più potuto fare. Il treno va preso nell’orario giusto, perché non ti aspetta se ritardi anche solo di un secondo.
Bill si voltò, sorrise, lasciando cadere la spazzola e buttando il rasta sul letto, sedendoglisi a cavalcioni, mentre si slacciava la camicia.
-Riprendiamo il discorso interrotto, gattino?
-Certamente, cagnolino.
E a Tom bastò anche solo rotolare sopra Bill, che ridacchiava sfarfallando gli occhi, e baciarlo mentre si spogliavano a vicenda, per sentirsi, per forse la prima volta dopo tanti, troppi anni, in pace con se stesso e con il mondo esterno.
 
 

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Capitolo 8
*** Dove vai, Toooom? ***


CAPITOLO OTTO: DOVE VAI, TOOOOM?!
Tom aprì gli occhi impastati dal sonno, piano, girandosi lentamente in un letto caldo che non sembrava il suo, sentendo delle coperte molto più gonfie delle sue accarezzargli la pelle nuda. Aspetta, ma perché diavolo era nudo? E dov’era finito? Sbatté le ciglia, fregandosi gli occhi con le mani, distinguendo un quadro sopra la sua testa che sicuramente non c’era in casa sua. Un sordo mugolio vicino a lui lo fece quasi sobbalzare, e qualcosa di freddo ma incredibilmente morbido sul suo braccio gli fece scattare finalmente la risposta ai suoi interrogativi mattutini: era a casa di Bill. Era nel letto di Bill. Si erano baciati (e uno stormo di farfalle cominciò a svolazzare nel suo stomaco mentre un sorriso addormentato tornava al suo posto). Avevano scopato (le farfalle aumentarono vertiginosamente e una fitta di piacere gli riverberò nella spina dorsale).
Si girò, sorridendo come un ebete, gli occhi ancora assonnati, e vide una pallina di coperte da cui uscivano una quantità immensa di capelli neri e bianchi tutti arruffati.
-Buongiorno. – mugolò, scostando un po’ il piumone e vedendo il viso di Bill disteso e rilassato nel sonno, come un angioletto precipitato dal Paradiso.
Aprì gli occhi, girando la testa, e Tom vide con gioia immensa un sorriso dispiegarsi su quelle labbra che finalmente aveva potuto baciare fino a star male. Bill si mosse un po’, avvicinandoglisi come un gattone bisognoso di coccole.
-Buongiorno, Tommuccio.- gli si accoccolò tra le braccia, appoggiandogli la testa arruffata sul petto.
Tom gli accarezzò la schiena pallida, mentre Bill gli sbaciucchiava come una ventosa la scapola, il collo, la guancia e infine la bocca.
-E’ stato grandioso, stanotte.- grugnì Tom, tirandosi un po’ su e scompigliandosi i dread, cercando disperatamente un orologio da cui sapere l’ora. Non sarebbe voluto arrivare in ritardo in centrale proprio quel giorno, anche se parte di lui avrebbe voluto ributtarsi sotto le coperte con Bill e farla finita con tutti i problemi dell’assassino e grane varie. Semplicemente, starsene ancora un po’ a letto a coccolarsi, poi alzarsi con molta calma, fare colazione con ancora più calma, e poi forse, ma solo forse, decidersi a fare una capatina in ufficio. Un piano splendido, peccato fosse assolutamente irrealizzabile.
-Bellissimo.- l’angelo rise, mettendosi a sedere e avvolgendosi come una specie di ninfa nelle coperte, e scostandosi i capelli sparati in aria dal viso soddisfatto. Tom non riuscì ad evitare di ripensare alla notte appena trascorsa, i loro corpi sudati allacciati in una danza sensuale, la bocca di Bill sulla sua, sul suo collo, sui suoi capezzoli, sul suo membro gonfio e duro da impazzire. Bill che era ovunque, sopra e sotto di lui, dentro di lui, come un’onda di piacere folle che lo aveva invaso e devastato senza pietà. Bill che lo aveva fatto gemere e gridare il suo nome come una preghiera blasfema. Bill che gemeva e lo implorava, facendolo impazzire di desiderio, mentre Tom gli spingeva dentro, gli occhi persi nel pozzo nero dello sguardo del suo angelico demonio, ogni spinta un passo verso l’abisso, fino all’esplosione finale, il piacere assoluto che sciabordava via lentamente, lasciandolo ansante e felice, sì, felice come mai era stato in vita sua.
Tom fece una smorfia con un sorriso, e lo prese per il polso trascinandoselo vicino, e provò per un momento a estraniarsi da tutto e coccolare il suo angelo autostoppista, quando il suo stramaledetto cellulare cominciò a squillare come una sirena, rovinando del tutto il bel momento. Il rasta lanciò qualche improperio al telefono maledetto, alzandosi e lanciando uno sguardo apologetico a Bill, che sogghignò piano, arrossendo leggermente.
-Georg, guarda, non ti butto giù solo se stai morendo o se sta morendo Gustav, ok?- abbaiò Tom nel cellulare, sedendosi sul bordo del letto con aria stufa, e sentendo Bill aggrapparsi alla sua schiena per sentire la conversazione.
-No, T., per tua informazione io e Gus stiamo benissimo, ma credo che starai male tu tra poco. Sono quasi le nove e mezza, e Mann sta sclerando di brutto perché non sei ancora in centrale a esporci il tutto. Dove sei finito?!
Tom strabuzzò gli occhi. Le nove e mezza?! Oddio, non pensava che fosse così tardi, accidentaccio! Bill ridacchiò, perché forse lui non capiva la gravità della sua situazione.
-Ah, ehm, io … senti, arrivo subito, promesso, mi sbrigo, poi ti racconto!
E buttò giù la chiamata, saltando in piedi e cominciando a vestirsi a razzo.
-Devi andare, Tooooom?- miagolò Bill, alzandosi a sua volta e infilandosi una vestaglia bianco latte di quella che pareva seta.
-Sì, scusa, lo so che è da villani, ma sono in ritardo, non rischio il posto perché hanno troppo bisogno di me, ma devo andare.
Il rasta schizzò dalla porta, aprendola di scatto (e rischiando di scardinarla completamente) e bloccandosi poi in corridoio. Fece dietrofront e come pensava trovò Bill fermo immobile sull’uscio ancora spalancato con la testa piegata su un lato che aspettava il classico bacino dell’arrivederci. “Bravo Tom, te lo sei ricordato in tempo!” lo lodò la coscienza, sorridendo.
Gli diede un bacio a stampo e prima che volasse giù per le strette scale sporche e irregolari, Bill gli strillò:
-Tranquillo, gattino, oggi ci vedremo presto.
Tom sentì il cuore fargli una capriola felice, prima di spalancare la porta scassata del palazzo e fiondarsi a piedi verso l’Anticrimine.

-Tu aspettami qui.
Alzò lo sguardo, timoroso, sul suo viso. Era fermo sulla porta, con la borsa dei pennelli e dei colori appesa alla spalla, la solita sigaretta in bocca, annoiato.
-Posso venire con te?- sussurrò, rigirandosi una ciocca attorno al dito, sfarfallando gli occhi, avvolto nella vestaglia. Aveva tanta paura, non voleva rimanere da solo, voleva stare con lui, solo con lui.
-No, rimani a casa.- gli si inginocchiò accanto, pettinandogli i capelli con le dita – Torno presto, tesoro, stai tranquillo.
Si guardarono per un secondo, fisso, e poi lui si alzò, chiudendosi la porta alle spalle con la solita, gelida, frase:
-Stai in casa.
E solo quando fu sicuro che lui fosse ormai già sulle scale, lontano da lui, cominciò a singhiozzare tristemente, affondando il viso tra le mani e sentendo il mascara colargli tristemente sulle guancie.

Quando Tom entrò col fiatone all’Anticrimine, spalancando la porta della sala riunioni, computer, vita sociale (insomma, l’unica sala veramente usata dallo sfigato Distretto Dieci), una grande quantità di occhi gli si fissò addosso, alcuni severi, alcuni interrogativi, alcuni esasperati, altri curiosi.
Si grattò la guancia imbarazzatissimo, facendo vagare lo sguardo per la sala, senza fissarsi su nessuno in particolare, mentre avanzava verso la “Poltrona della Star”, ovvero l’unica poltrona veramente bella della centrale, dove si accomodava chiunque dovesse dire delle cose importanti, come le grandi decisioni, oppure gli indizi trovati in un determinato sopralluogo.
-Bene, Kaulitz, a parte il fatto che dopo mi spiegherai il motivo del tuo ingiustificato ritardo e del perché come al solito non sei in divisa, ora raccontaci per filo e per segno cosa hai scoperto. Listing e Schafer hanno cominciato a dirmi qualcosa, ma come al solito non si è capito niente perché continuavano a smentirsi a vicenda. A te la parola.
Georg e Gustav si guardarono un po’ in cagnesco, perché come al solito entrambi erano convinti di dire la cosa giusta e che l’altro stesse sbagliando, anche se solitamente steccavano abilmente entrambi.
Tom sospirò qualche volta, prendendo fiato e bevendo un sorso dell’acqua che il previdente Muller gli aveva portato, e quindi cominciò a spiegare attentamente ciò che aveva scoperto su Hansi Spiegelmann, omettendo abilmente le perplessità di July e Bill (anzi, omettendo proprio la loro presenza) e insistendo sul fatto che al Bite Vampire non aveva trovato un tubo.
Alla fine del lungo discorso, molti occhi avevano assunto luci emozionate, stupefatte, intrigate, dimentiche del ritardo del rasta. Quest’ultimo, alla fine, si girò verso Georg e Gustav, che come al solito, dopo ogni suo discorso, per rassicurazione, agitavano un calzino con su scritto “Grande Tom!” e gli facevano vari gesti in silenzio, come pollici alzati, sorrisi a trentadue denti e vari applausi silenziosi. Ok, Tom aveva decisamente dei problemi di ego, ma quando vedeva queste scenette messe su apposta per lui si rassicurava come un bambino dopo la prima recita scolastica che riceva applausi.
-Non ho capito.- intervenne il piccolo Muller – Questo Hansi Spiegelmann non esisterebbe? E allora perché lo cerchiamo?
-E’ un nome falso, Muller!- lo rimbeccò Gustav – Quindi esiste con un altro nome.
-Ah. E perché proprio lui?
-Uffa, perché non ha foto ed è una cosa strana!- sbottò Georg, mettendosi le mani nei capelli.
-Capisco. Ma allora per quale motivo avrebbe dovuto dare un nome falso?
-Perché magari nasconde qualcosa, no?- sbuffò esasperato Tom, passandosi una mano tra i dread e rimpiangendo Bill e quel letto fantastico.
-Bene. Come facciamo a sapere che nasconde qualcosa?
-Muller!!!- urlarono tutti in coro, scuotendo le teste.
Il piccolo agente li guardò tristemente, e poi scattò verso la macchina del caffè:
-Faccio un caffè a tutti, va bene?
-Bravo, e non rompere!- lo rimbeccò Gustav.
Almeno, Muller sapeva alla perfezione tutti i gusti di caffè di ogni persona del Decimo e faceva benissimo quel lavoro.
Gli altri conquistarono ognuno al propria posizione, e il capo commissario Mann ordinò:
-Bene, Kaulitz e Schafer, gambe in spalla e andate al Bach Hospital a farvi dare il referto medico di questo misterioso tizio. Listing, tu cerca qualcosa per quell’affare della croce. Muoversi!
I tre amici si guardarono scuotendo la testa, e ognuno partì per fare il loro lavoro. Mentre erano per strada, Gustav grugnì furibondo, azzannando un hot dog appena comprato da un baracchino sudicio sul ponte. Insomma, c’era troppa senape scadente, e il wurstel non era cotto come lo cuoceva sua nonna. E poi i cetriolini erano decisamente troppo impregnati di aceto.
-Dai, Gus, smettila di lamentarti per sti benedetti panini. Nessuno li farà mai come tua nonna, rassegnati. E comunque siamo all’ospedale, non puoi mangiare.
Gustav lo fulminò.
-E figurati che non posso mangiare! Siamo in un ospedale, non vorranno mica che gli crepi lì davanti di fame, no?
Tom rise, aggiustandosi il berretto da skater, e si trascinò dietro l’amico nella grande hall dell’ospedale, asettica, caldissima, deprimente quasi più di un cimitero.
-Belandi, che allegria.- sussurrò Gustav, adocchiando qualche vecchietta decrepita aggrappata alle poltrone della hall.
-Veramente. Da suicidio.- gli diede man forte Tom sospirando. Chissà dov’era Bill in quel momento .. cosa stava facendo, se gli stava pensando, se gli mancava. A lui, sicuramente, mancava e anche tanto.
-Qualche problema, ragazzi? Un attacco di ulcera? Uno svenimento? Una crisi di dissenteria? Avvelenamento da senape? Febbre equina?
Una vecchia megera li guardava sorridendo da dietro la guardiola di vetro, con i denti marci in vista e un sorriso malvagio e sadico.
-Ahò, ma facciamo le corna!- sbottò Gustav, toccando ferro, mentre Tom si toccava gli attributi con faccia sconvolta. Per un attimo, un solo intensissimo attimo, il gesto scaramantico gli fece riverberare nel cervello l’immagine di Bill chino sul suo piccolo Tom, i capelli setosi come una tenda corvina che gli solleticavano l’inguine mentre la lingua di Bill …. Si riscosse, un gonfiore pulsante nei pantaloni, cercando di concentrarsi sulla megera in modo che il piccolo Tom tornasse a dormire.
-No, stia tranquilla, noi stiamo benissimo, siamo venuti per …
Ma la vecchietta lo precedette, sempre sadica come pochi.
-La tua ragazza sta partorendo? È morto il bambino? È nato storpio?
-No, non abbiamo nessuna ragazza, siamo della Polizia!- urlarono in coro i due ragazzi, guardandosi sconvolti. E Tom si ritrovò a pensare quanto sarebbe bello venire lì con i G&G per vedere il suo angelo che partoriva il loro primogenito … oh, che cosa tenera … un bambino bello come Bill e con il fiuto da detective come il suo. Sarebbe stata una cosa bellissima … “Tom, ma dai i numeri?! Bill è un uomo tale quale a te, come diavolo fa a rimanere incinto e a partorire, razza di idiota?!” lo rimbeccò la coscienza, esasperata della sua vena romantica. Però aveva ragione. Era impossibile. Uffa.
-Ah, e cosa volete?- grugnì la vecchia, improvvisamente senza sorriso perverso.
-Stiamo cercando il referto medico di Hansi Spiegelmann, ricoverato qui due anni fa in seguito a un incidente stradale. Serve per il caso che stiamo seguendo sul serial killer.
-Capisco. Chiamo il primario della rianimazione.
Poco dopo, un ometto grassoccio e rubicondo si fece avanti, osservando Tom e Gus con curiosità negli occhietti porcini.
-Siete della Polizia, voi due?
-Sì, lo so che le apparenze ingannano, ma siamo i detective incaricati- esclamò Gustav tutto fiero – Necessitiamo del referto per compiere alcune indagini.
-E magari- aggiunse Tom – Parlare con il dottore o le infermiere che hanno curato il signor Spiegelmann.
Il primario grugnì, e li fece accomodare in una stanza asettica enorme, dove grandi librerie in metallo contenevano centinaia e centinaia di referti di ogni genere.
Li fece sedere su due seggioline di alluminio che scricchiolarono pericolosamente sotto il loro peso. Il primario cominciò a frugare nei vari cassetti contenti tanta di quella carta da poter riedificare una nuova Amazzonia, fino a uscirne fuori con un referto stretto tra le dita grassocce.
-Ecco qua agenti, questo è il referto che mi chiedevate.
Gustav e Tom si chinarono sul foglio, preparando i quadernetti degli appunti.
-T., perché il tuo block notes è rosa con i brillantini?
-Me l’ha prestato Claudia. Se vuoi ci sono anche le ricette della torta di patate che ti piace tanto. Te lo do?
-Scherzi?! Ma grande Cla! Raghnild è fortunata ad avercela come ragazza, và!
Gus fotografò la ricetta della torta di patate con un sorriso soddisfatto, e pensando che, dannazione, perché quelle due erano lesbiche?!
Tom prese il fascicolo, e lo sfogliò accuratamente, mentre il biondo prendeva appunti. Spiegava dettagliatamente cos’era accaduto al ragazzo, Hansi Spiegelmann, anni 24, professione meccanico, residente al 28 della Franz Joseph Strasse. Incidente in moto il 3 maggio di due anni prima, la moto era scivolata sull’asfalto bagnato della statale e il ragazzo ne aveva perso il controllo, andando a sbattere contro un magazzino di lamiera. La moto prese fuoco e il ragazzo venne ricoverato al Bach Hospital in fin di vita. Insomma, tipico incidente sfortunato.
Quello che venne dopo, ovvero la descrizione delle condizioni del giovane, fece venire un attacco di nausea ai due agenti. “Schiena completamente ustionata, gamba destra fratturata scompostamente, braccio destro ustionato, braccio sinistro spappolato, mani bruciate, viso semi ustionato (solamente parte del collo e parte della guancia destra.), ginocchio sinistro rotto, cassa toracica schiacciata.” Scrisse con un certo disgusto il biondo agente.
-Scusi, doc, ma mi vuol far credere che sto qui è sopravvissuto?!- sbottò Gustav, e Tom si spiaccicò una mano sulla fronte. Gus era unico per certe uscite.
-Le vie del Signore sono infinite.- commentò il primario – E’ stato molto fortunato.
-Capisco. Potrei parlare con il medico che all’epoca lo curava?- chiese Tom – Si chiama, dice la relazione, dott. Martin Olbrich.
Il primario annuì, e li portò lungo una serie di corridoi verdolini, dove si aprivano mille e mille porte bianche, fino a uno studio asettico come il resto.
-Sì?- il vecchio dottor Olbrich li squadrò al di sopra di un paio di occhialini pince-nez dalla montatura dorata.
-Buongiorno, agenti Schafer e Kaulitz dell’Anticrimine. Siamo qui per porle qualche domanda su quest’uomo.- Gustav gli porse con aria seria, anche se l’effetto era rovinato da un baffo di senape residuo, il referto.
Il dottore li guardò un po’, guardò il documento grattandosi la guancia, per poi fare un cenno ai due ragazzi di accomodarsi su due poltrone alquanto scomode, sfogliando distrattamente il referto.
I due ragazzi si scambiarono un’occhiata interrogativa, aspettando con ansia che venisse loro comunicato qualcosa di interessante, mentre Tom, cercando di non farsi vedere, mandò un messaggio a Georg “Appena puoi, vai al 28 della Franz Joseph. Qualcosa non quadra”. Ormai era diventato un asso a mandare sms senza guardare, pronto per qualunque evenienza che consistesse nel fare le cose con precisione e senza farsi notare dagli altri. Come si vedeva nei telefilm che guardava da ragazzino.
-Sì, me lo ricordo.- disse finalmente il medico, alzando lo sguardo gelido e leggermente sadico sugli agenti.
-Ce lo potrebbe descrivere?- chiese Tom, passandosi una mano sui dread e rendendosi finalmente conto delle perplessità dimostrate da quest’uomo, dal primario e dalla pazza della hall. In effetti vedersi arrivare davanti un ragazzo rasta con la faccia ancora semi addormentata e un’altro con un panino in mano e un berretto del Bayer Monaco che se la spacciano da poliziotti poteva essere un po’ assurdo, anche se i suddetti due avevano presentato i due tesserini della Polizia.
-Non è che lo ricordi proprio alla perfezione, ovviamente, siccome sono passati due anni e ne ho visitate moltissime di persone vittime di incidenti.- il dottor Olbrich rigirò tra le dita nodose e scure una matita – Comunque, posso dirvi che il ragazzo aveva il viso ricoperto di piercing. Glieli avevo dovuti togliere tutti, perché si erano conficcati nella carne, dentro il naso, nel labbro.
La mente di Tom volò immediatamente al suo piercing al lato della bocca, a cui oltretutto teneva moltissimo e non osava immaginare di vederselo impiantato come una pallottola nella bocca. Come un collegamento mentale, la sua testa volò a Bill. Alla pallina che aveva in bocca, a tutti gli orecchini, ai piercing sul sopracciglio. Alla loro combinazione eccitante.
Gustav trattenne un conato, perché lui odiava con tutto se stesso quegli aggeggi, e poi si arrischiò a chiedere:
-Per quanto era rimasto in convalescenza?
-Era in coma, e c’è stato per un bel po’, poi si è svegliato. Ci sono le date, qui in fondo. Comunque circa cinque mesi.- indicò loro le date sul foglio, per poi dire, rigirando di nuovo la matita – Non è che ve lo possa descrivere particolarmente bene, come ho detto, comunque, se potesse servire mi pare che avesse i capelli biondi. Ma un biondo strano, platino, abbastanza lunghi. Comunque erano mezzi bruciati.
-Biondo platino?- insisté Tom – Le parevano tinti?
-Non lo so, agente. Potevano come no.
-E il fisico? Alto, basso, magro, grasso- elencò Gustav, scrivendo veloce sul suo block.
-Era magro.- ricordò il medico, che sembrava faticare a mettere a fuoco – Sì, sì, era magrissimo. E alto.
Improvvisamente sembrò riuscire ad avere l’immagine in calce del loro misterioso tipo, gli occhi gli si illuminarono di colpo, riempiendo di speranze Gus e Tom che quasi si battevano il cinque per la gioia. Forse ce la stavano facendo una volta per tutte. Forse non tutto era perduto con la loro oscura indagine.
-Mi avete fatto venire in mente una cosa.- il medico giocherellò con un fermacarte a forma di elefante – Dopo le varie operazioni, nelle convalescenza, non potevano dargli un determinato tipo di medicinali, è inutile che vi dica il nome tanto non credo proprio che sappiate cosa sia.
-Simpatia portatelo via- grugnì Gustav, mentre Tom alzava gli occhi al cielo. L’occhiata di superiorità che l’uomo aveva loro lanciato aveva subito fatto capire come li considerasse degli inetti incapaci. Solo perché erano un po’ folkloristici la gente si permetteva di considerarli degli incompetenti.
-E perché?- chiese Tom.
-Perché assumeva pesanti dosi di Zolpidem. È un medicinale ipnotico/sedativo, che va preso solo in casi di insonnia particolarmente grave correlata con disturbi di ansia e depressione.- il medico li guardò in tralice.
-Tom, ma a me fanno paura quelli che si imbottiscono di ipnotici.- tremolò Gustav, lanciando un’occhiata preoccupata al rasta, che si limitò a fare una faccia interrogativa e continuare nell’interrogatorio.
-Capisco. Non sa altro che possa aiutarci?
-Non credo, anche perché altro non mi ricordo. Però posso dirvi che aveva un tatuaggio sul fianco, vicino all’inguine, come se fossero due triangoli sovrapposti.
Tom spalancò gli occhi. Triangoli sovrapposti sul fianco?! Immediatamente, cominciò a sudare copiosamente sotto la felpa, perché era lo stesso tatuaggio di Bill. Lo aveva visto, quella notte, mentre erano impegnati a far dell’altro, i due triangoli. Gli era piaciuto, oltretutto, accarezzarglieli. La pelle candida, un po’ fredda, disegnata, che gli scivolava sotto le mani. La risentì sotto i polpastrelli e un brivido di eccitazione gli percorse la spina dorsale. Si vide nella testa, come un film, lui seduto su un letto di un albergo sulla spiaggia di Malibù, le finestrone aperte su un basso poggiolo e due lunghe tende bianco trasparenti che svolazzavano nella fresca aria serale, con lo sciabordio delle onde a cullarlo, e Bill che usciva dalla vasca da bagno avvolto da una nuvola di vapore, e gli si avvicinava ancheggiando, e poi gli si sedeva sulle ginocchia, e un raggio di luna filtrava perpendicolarmente dalla finestra illuminando i loro visi catturati in un lungo e intenso bacio e …
-Tom, ci sei?!
Si voltò e vide Gustav che lo guardava spaventato, e il dottor Olbrich che lo fissava con sguardo di superiorità e schifo allo stesso tempo.
-Eh? Ah sì, ci sono, dicevamo del tatuaggio.
Gustav scosse la testa e poi si rivolse al dottore:
-Doc, si ricorda mica di qualcuno che veniva dal ricoverato? Che so, un familiare, un amico, insomma, della gente che si interessasse della sua salute?
L’uomo li guardò per bene entrambi, passando da uno all’altro con serietà.
-Diciamo che me la ricordo solo perché una più insistente e disperata di quella non l’avevo mai vista.
Tom lo guardò interessato, protendendosi un po’ verso di lui, gli occhi brillanti di curiosità mal celata.
-Me la sa descrivere? Come si comportava? Cosa diceva?
-Beh, posso dirle che era una ragazzina molto giovane. 20 anni, più o meno. Era bella, fine nei tratti anche se mi ricordo che si conciava in modi molto appariscenti. Dopo averla vista per praticamente cinque mesi tutti i santi giorni, tutto il giorno, avevo capito come si conciava. Truccata, forse troppo, magra, alta. Aveva i capelli neri, lunghi, ma li aveva sparati in aria, come se l’avessero attaccata alla corrente. A volte li aveva lisci.
-Una che non si dimentica facilmente, insomma.- commentò Tom.
-No. Piangeva sempre, china sul letto, non faceva che lamentarsi e straparlare. A volte veniva da me a piangere e pregarmi di salvarlo. Immagino fosse la fidanzata, visto che più di una volta mi diceva “La prego, lo salvi, ci dobbiamo sposare, mi aveva detto che ci saremmo dovuti sposare” e piangeva.
-Una lagna unica, a dirla brevemente.- criticò Gustav, meritandosi un calcio negli stinchi da parte di Tom.
-Non posso smentirla.- disse l’acidissimo dottore – Sì, ce l’ho chiara in mente, la fanciulla piagnucolosa. A volte diceva “E’ l’ultima persona che mi rimane, senza di lui come farò?”. Comunque, ora devo andare. Ho degli esami da fare.
Il medico si alzò, imitato dai due agenti, strinse loro le mani e si congedò, lasciandoli da soli nella stanza a guardarsi negli occhi come due scemi.
-T., ma tu ci hai capito qualcosa?- Gustav si diede una grattatina alla testa.
-Spero di sì, GusGus. Dai, gambe in spalla e torniamo in centrale con i dati. Chissà dov’è Georg e se è riuscito ad andare a quel benedetto indirizzo.
-Beh, non sarà come nei libri perché lo stadio è dall’altra parte della città.- asserì Gustav, uscendo da quel mortorio e comprando all’angolo un fragrante pacchetto take away di patatine fritte con tanto ketchup.
Tom sorrise fregandogli una patatina e ingoiandola. Aveva davvero fame, quella mattina non era nemmeno riuscito a fare la sua amata colazione con i suoi biscotti e il suo latte caldo con tanto miele.
Un breve squillo gli fece riesumare il cellulare dalle profonde tasche delle braghe. Il messaggino di Georg citava:
“Ci hai visto giusto, T. Perché il 28 della Franz Joseph non esiste e non è mai esistito”.

***
Ciao ragazze! Allora, come mi è stato richiesto, ho messo qualche accenno finto hot … contente ;) ? Il mistero si infittisce sempre di più, e spero che continui a piacervi sempre. Non mi dilungo mai nelle note, quindi chiudo qui ringraziandovi tutte un sacco e mandandovi un bacione!
Charlie.
P.S. le mie qualità mediche fanno schifo, il Zolpidem esiste ma non so se abbia della controindicazioni quindi non formalizzatevi troppo! Scusate se é impostato male ma pubblico dal cell :(

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Capitolo 9
*** L'amore può essere una menzogna? ***


CAPITOLO NOVE: L’AMORE PUO’ ESSERE UNA MENZOGNA?

Trattenne il fiato quando le sue mani gelide con quelle unghie orribilmente lunghe gli si conficcarono nelle cosce, aprendogliele di scatto. Gemette come un topolino quando gli afferrò le mani e gliele legò una all’altra con una catena che aveva legato ai pomelli della testata del loro letto. Gli tiravano i muscoli, i nervi, sollecitati da quella posizione orribilmente scomoda e ignominiosa, un misto di violenza e arte erotica che gli scorreva addosso, come l’acqua che gli stava rovesciando in quel momento sul corpo nudo e scosso da brividi di freddo. Gli mise a posto i capelli, di modo che gli ricadessero mollemente sul visino sporco di trucco.
-Dovevi proprio bagnarmi?- pigolò, seguendo il suo corpo sinuoso raccogliere la Polaroid, scostarsi i capelli dal viso pallido e fissarlo come fosse una bella bambola con cui giocare.
-L’effetto da asciutto non sarebbe stato lo stesso, tesoro. Tira giù la testa.
Obbedì, tremando di freddo, aspettando che lo fotografasse per l’ennesimo quadro perverso che gli faceva.
 
-Non esiste il 28. Arriva fino al 25, poi basta, anche perché iniziano le fabbriche.
Georg si grattò la testa, osservando con un certo disgusto Gustav che si sbrodolava di noodles take away mentre Tom guardava il vuoto con aria addormentata.
-Allora avevi ragione quando dicevi che era un nome falso.- disse Gus, ingoiando felice un rotolino di noodles e rovesciando la soia sulle pratiche, come al solito.
-Evidentemente sì. Però non si trova un tubo di niente comunque sul computer; e poi diciamocelo: se non trova nulla Raghnild, figuriamoci noi del Dieci. Tom, qualche idea geniale?
Tom alzò lo sguardo sull’amico, stranito, grattandosi la guancia e si limitò a scuotere la testa mollemente, ma un dubbio lo assillava da quando erano usciti dallo studio del dottor Olbrich. Ovvero, perché diavolo Bill aveva in bagno, nascoste nell’armadietto, dietro cinque smalti accuratamente ordinati, due confezioni di cui una aperta di Zolpidem? Subito, li aveva solo notati da buon detective abituato a notare qualsiasi piccolo particolare, ma non ci aveva fatto caso, primo perché aveva tipo la libidine a mille, secondo perché non sapeva nemmeno cosa fosse. Ma ora ci stava ripensando. E rivedeva Bill, che dormiva come un bambino, senza aver preso nessuna pastiglia. E che sembrava tipo tutto meno che depresso e ansioso. Cioè, se sei depresso non vai in discoteca e ci provi spudoratamente con un poliziotto, no? E non ti metti sin dal loro primo incontro a far battute a sfondo sessuale a raffica.
No, c’era qualcosa sotto. Qualcosa di losco, che c’entrava con l’assassino, che lo avrebbe tirato fuori dalla bratta in cui era finito. E c’era solo un modo per approfondire quel contatto, sempre che poi adesso si potessero considerare una semi coppia: farsi invitare ancora una volta a casa sua, se non proprio a dormire, almeno un pomeriggio. Oppure, anche se pareva più macchinoso, estorcere qualcosa a July; magari lui non aveva delle specie di crisi depressive.
-Ottimo lavoro, Geo. Io vado, vengo dopo, ho un’idea.
Non lo fermarono come al solito, limitandosi a dargli della ragazzina misteriosa ed incosciente, lasciandolo volare fuori dalla centrale e a slanciarsi verso il negozio Chinatown.
Quando arrivò non aveva la minima idea di come iniziare il discorso, di come rendersi furbo, di come gestire la situazione, insomma, non aveva la minima idea del perché era lì, ma si limitò a entrare in quella oscurità puzzolente di incensi. Ricordò per un attimo l’infarto che gli era venuto la prima volta che era entrato, e un brivido gli corse giù per la spina dorsale. Mille occhi che lo fissavano. Ora erano duemila. Gli occhi degli antenati che scuotevano le loro barbe infinite di fronte al piccolo infedele occidentale che andava a disturbare il loro sonno sacro, puntando le loro unghie lunghissime sulla sua testa per decapitarlo e ..
-Ciao, gattino mio, qual buon vento ti porta qui?
Sobbalzò, quando un’altra lampada cinese si accese rivelando Bill seduto a gambe incrociate sulla scrivania di legno scuro, che lo fissava sorridendo maliziosamente, arrotolandosi una ciocca attorno al dito.
Bill si alzò ancheggiando su un paio di scarpe nere con quella che poteva essere una zeppa col plateau, dondolandogli incontro e abbracciandolo, con un sorriso sollevato e furbo, mentre gli strofinava il naso nel collo.
-Avevo voglia di vederti.- mentì spudoratamente Tom. Che poi in realtà era vero che lo voleva vedere, anche se ora era leggermente imbarazzato da quella situazione; probabilmente Bill lo sapeva che stava mentendo, se lo sentiva addosso, nel modo in cui ridacchiò impercettibilmente quando glielo disse, ma non se ne preoccupò minimamente. Perché, anche se gli sembrava impossibile, sembrava che se mai avessero avuto una vera storia (e Tom sperava tanto che fosse così), sarebbe basata sulle bugie che si dicevano uno all’altro. Ma può essere amore, se è una menzogna?
-Anche io.- miagolò l’angelo, mentre i due si scambiarono un leggero bacio sulle labbra. E Tom si ritrovò a chiedersi perché fu solo uno sfiorarsi di bocche. Perché si
limitarono a quello.
Gli fece strada verso la scrivania, tirando una tenda di velluto verde a fiori bianchi, indicandogli l’interno buio e puzzolente di chiuso e di muffa.
-Vuoi parlare con July, immagino. Vai fino in fondo.
Tom si voltò verso di lui, spaventato da quel corridoio buio che si snodava nelle profondità dell’incubo. Aveva paura degli antenati.
-Ehm, tu non vieni con me?
Bill scosse la testa, con aria dispiaciuta, e quella era troppo realistica per poter essere creata dal nulla. Gli accarezzò il collo, sfarfallando gli occhi gonfi di trucco:
-Devo aspettare una nuova consegna di occhi finti dei santoni mongoli. A dopo, cucciolo.
Tom deglutì, annuendo e limitandosi a fare un mezzo gesto di “a dopo”, che assomigliava più a un S.O.S mal fatto, e poi avviarsi nel corridoio troppo basso per lui, sentendo la tenda richiudersi pesante dietro di lui, e tremolando mentre si addentrava lì dentro, come entrando nella pancia del drago.
In fondo al corridoio c’era un tenda rosso amaranto con i soliti fiorellini bianchi, che il rasta si trovò a scostare con molto poco coraggio, infilando il naso in una stanza dal soffitto basso, di legno scuro, con una lampada cinese penzolante dal soffitto, e due grossi candelabri che gocciolavano cera. Due divanetti verde scuro erano attorno a un tavolino basso con sopra una grosso mazzo di fiori appassiti che emanavano un odore poco piacevole mentre bruciavano, una scacchiera e alcuni libri gettati alla rinfusa. Non poteva vedere i muri della stanza, ma percepiva qualcosa di grosso alle pareti, di ridondante. Qualcosa che non avrebbe voluto vedere.
-Signor Kaulitz, benvenuto.
Sobbalzò di nuovo, e vide July, talmente sbrilluccicoso da far male agli occhi, avvolto in un kimono rosso con grossi disegni di quelli che potevano essere uccelli acquatici in mezzo alle canne, che gli cadeva troppo grosso sul corpicino delicato, i capelli acconciati in una buffa cresta colorata di viola, semi sdraiato su uno dei due divanetti intento a fumare mollemente una lunghissima pipa.
-Buongiorno signor Choy. Comunque, ehm, mi chiami pure Tom. Mi sento vecchio, se no.
Tom si grattò una guancia, un po’ in imbarazzo, guardandosi attorno e tentando di  non aspirare quegli odori di incensi orientali terribili. Se Bill avrebbe voluto andare in viaggio di nozze in Corea, o Giappone, o Cina, o quello che diavolo era, se lo scordava già adesso. Ma poi, chi gli diceva che si sarebbero addirittura sposati? Quella droga gli faceva un brutto effetto.
-Allora tu chiamami pure July. Accomodati. – gli indicò con un languido gesto della mano l’altro divano, dove il ragazzo si sedette tormentandosi il berretto, sprofondando tra le coltri morbidissime verde smeraldo – Vuoi?
July gli allungò una lunga pipa ad acqua, sfarfallando gli occhi.
-Cos’è?- chiese Tom. A lui non piaceva molto fumare, a parte ogni tanto qualche sigaretta quando c’era l’occasione.
-Kiseru. Pipa giapponese.- July la riportò alle labbra dipinte di un buffo blu scuro. Aspirò ed espirò il fumo trasparente, con una grazia e una disinvoltura degne di un grande attore. Una finezza unica, come se fosse solo una bambolina.
-Senti, July, ehm … - iniziò Tom, sentendosi subito imbarazzato dallo sguardo penetrante del coreano – Devo farti qualche domanda riguardo a Hansi Spiegelmann. Lo so che in qualche modo lui è … legato, se posso dirlo, a Bill. E in qualche modo io devo capire come. Non me le spiego, le sue reazioni. E ho bisogno di te, che lo conosci più che bene.
Non sapeva che effetto avesse fatto il suo stupido discorso su July, intento a fumarsi la sua Kiseru come se lui non avesse nemmeno parlato, perso nel suo mondo, il corpo immobile, senza dare il minimo segno di vita. Forse si sarebbe chiuso anche lui in se stesso. O forse l’avrebbe fatto picchiare dalle due sorelle ninja. Forse gli avrebbe risposto seriamente. Forse gli avrebbe mentito.
-A volte i quadri nascondono più di quello che vogliono dare a vedere.
Tom guardò sbigottito July fissarlo con la sua maschera di cera al posto del viso, i tratti immobili, le labbra quasi congelate.
-Cosa vorresti dire?- sussurrò, come a non voler turbare la pace di quel luogo quasi sacro, come un tempio. Peggio di quando lui e Georg erano andati dalla Maga Esmeralda, a casa, a farsi leggere la mano durante la festa del patrono di Magdeburgo, che oltretutto però aveva a lui predetto “ci saranno dei bugiardi nella tua vita, ragazzo. Ma verranno smascherati”. Beh, due li aveva già trovati e anche smascherati: forse Esmeralda non aveva ceffato del tutto.
-Ci sono persone che hanno perso anche il loro onore, e una volta che l’hai perso non ritornerà mai più. Ci sono altri che si nutrono dell’onore degli altri.- continuò il ragazzo, per poi girarsi verso Tom e metterlo di nuovo a fuoco – E poi ci sono quelli che non hanno più niente da perdere, perché li hanno già spogliati di tutto quello che avevano.
Tom spalancò gli occhi, avvicinandosi a July senza nemmeno rendersene conto, impregnato della sua voce melodiosa e cantilenante.
-E questo cosa mi servirebbe?- sussurrò, senza volerlo chiedere veramente.
-Sai, Tom-sama, ci sono certi segreti che non dovrebbero essere portati alla luce, e proprio ora tu mi chiedi di farlo.- July gli si sedette accanto, fumando in pace, con lo sguardo perso nel vuoto – E poi, c’è l’amore, in fondo.
-L’amore?
July gli posò una manina, che era quasi metà della sua, sul gomito, avvicinandoglisi ancora un po’, i grandi occhi neri spalancati come due pozzi, inquietante nella sua bellezza orientale, diametralmente diversa da quella di Bill ma mostruosamente simile. Il fascino dei perduti.
-Tu ti chiedi se possa esistere l’amore, se è una menzogna. Sì, Tom-sama. L’amore può essere un’unica, orrenda, bugia.
-Ma come facevi a sapere che io me lo stavo chiedendo?- sbottò Tom, scostandosi di scatto dall’altro, e allontanandosi un po’, quasi spaventato dalla piega che aveva assunto la conversazione.
-Sesto senso. Comunque, bada alle mie parole. Non dare il tuo cuore al chong bulmyeong-ye. Sarebbe il tuo più grande errore.
-Non dare il mio cuore a chi? A Bill? E come diavolo l’hai chiamato?!
-Chong bulmyeong-ye, Tom-sama. E no, non è un insulto a Bill-chan.
Il rasta scosse la testa, guardando storto July. Oddio, non ci stava seriamente capendo più niente. Era tutto confuso nella sua testa, tutto così ammonticchiato come una valanga di fumetti usati e strappati. Grugnì, incapace anche solo di affrontare la situazione paradossale in cui era finito. Un agente dell’Anticrimini in balia di un mezzo mafioso nordcoreano con il rossetto blu. Deplorevole, se non ci fosse l’Inferno di mezzo e con lui l’angelo più demoniaco del cosmo.
-Che … che vuol dire saeloun jangnangam?- chiese poi di punto in bianco. Glielo aveva detto al Bite Vampire, e non l’aveva dimenticato perché Bill era arrossito e lui si era sciolto in brodo di giuggiole alla vista di quella guanciotte rosse. Oh, che dolce.
July alzò un sopracciglio e sorrise, lisciandosi il kimono con le mani:
-Vuol dire “nuovo giocattolo”, Tom-sama. Ed era riferito a te.
-Ma io non sono il nuovo giocattolo di Bill!- sbottò, incrociando le braccia al petto.
-In effetti no. Mi devo ricredere, non sei un giocattolo.- July sorrise, guardandosi le unghie troppo lunghe e dipinte di blu come le labbra.
-Cos’è successo a Bill?- a quel punto della conversazione Tom era quasi tentato di prendersi la Kiseru, anche se poi ci ripensò: chissà quali droghe c’erano dentro.
-Lo scoprirai da solo, Tom-sama. La risposta è nei quadri e nell’odore della sua pelle. La risposta è celata nei suoi occhi, dietro ai suoi specchi. Il motivo di tutto questo lo troverai se sarai abbastanza abile da ritrovare l’onore che ha perduto. Ho giurato, mio caro. Non posso dirti altro.
Tom lo guardò storto, perché gli aveva complicato ancora di più la vita, eccitandolo inaspettatamente. Ormai c’era troppo dentro per poter non prenderne attivamente parte. Avrebbe proposto anche ai coinquilini quell’indizio, chissà che loro non ci fossero arrivati. Si concesse un’ultima domanda, prima di andarsene dalla stanza maledetta. Una domanda fatta a bassa voce, che si perse nelle pareti.
-Che cosa sono i triangoli sovrapposti?
-Aspettavo questa richiesta.- July si passò una mano tra i capelli – In Corea indicano il legame tra schiavo e padrone.
-Schi … schiavo? E padrone?
-Sì, Tom-sama. Il legame tra il mio servo e io, la schiavitù che va ben oltre la parte economico produttiva della cosa. I triangoli sovrapposti sono l’appartenenza spassionata di una persona a un’altra.
Tom annuì, quasi spaventato. E allora, chi era Bill? Lo schiavo, o il padrone? Aveva il comando, o subiva in silenzio? Amava la sua testa, o il suo cuore? E, fondamentale, chi era stato la seconda parte del filo?
-Vai per la tua strada, Tom-sama. E raddrizza il nostro piccolo Chong bulmyeong-ye.
July si inchinò, posandogli la mano sul petto e sussurrando qualcosa di intellegibile alle orecchie del rasta.
Tom annuì in silenzio, inchinandosi goffamente a sua volta. Si girò a guardarlo solo quando fu sul punto di chiudersi la tenda alle spalle, scosso, spaventato da se stesso e dagli altri, incredulo, pieno di dubbi sulla sua sanità mentale e ancora più intenzionato a smascherare l’assassino.
-July, cosa vuol dire Chong bulmyeong-ye?
-Disonore con la pistola.- rispose secco il ragazzo, scomparendo in uno sbuffo di fumo azzurrino della Kiseru, come se si dissolvesse con l’aria stessa della stanza.
Tom ebbe per una qualche ragione sconosciuta un terribile conato di vomito, e cominciò a correre verso l’uscita, felice di essere uscito da quella casa degli orrori fuori programma.
 
-Ma tu mi ami, vero?
Stava immobile sulla porta dello studio, fissandolo mentre era impegnato a finire il suo splendido ritratto, quello della fabbrica. Quello dove lo aveva vestito con veli, come una nuova Salomè nordica e impregnata di metallo fin nell’anima.
Non si girò, come al solito, continuando il suo metodico lavoro, i capelli talmente biondi da sembrare bianchi che ondeggiavano leggermente ogni volta che piegava la testa, il fumo della sigaretta che si innalzava dalla sua figura.
-Certo, tesoro. Io ti amo alla follia.
Si avvicinò piano, ciabattando un po’, i capelli che gli ricadevano arruffati sulle spalle avvolte nelle sue magliette. Era così bello vestirsi con i suoi abiti.
-Anche io ti amo. Però non mi porti mai fuori con te. Non mi hai ancora portato a cenare fuori per il nostro anniversario.
Incrociò le braccia al petto, con una smorfia infantile stampata sul volto. Lui si girò un attimo, fissandolo con quei suoi occhi completamente apatici, il suo mezzo ghigno che aveva un qualcosa di maligno dentro, ma che a lui piaceva così tanto, stampato sulle labbra. Gli accarezzò una guancia, e li sentiva i polpastrelli rovinati dai colori e dagli oli che usava così spesso per ristrutturare e dipingere quadri.
-Lo so. Deciderò io quando portarti fuori, tesoruccio. Vai a letto adesso, sei stanco.
Si passò una mano tra i capelli corvini, indeciso se farlo o no, e poi lo abbracciò di slancio, seppellendogli la testa nelle spalla e sussurrò:
-Quando ci sposiamo, allora sarò sempre tuo? Nessuno mi porterà via.
-No, tesoro.- lo abbracciò a sua volta, accarezzandogli i capelli – Sarai solo di mio uso e consumo. Nessuno ti sfiorerà più con un dito
 

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Capitolo 10
*** Tu lo salverai ***


CAPITOLO DIECI: TU LO SALVERAI

-Ehi Tommuccio, già vai?
La voce di Bill lo fece voltare di scatto, quasi sobbalzando. Si sentiva la testa completamente andata, come se fosse leggerissima, ma allo stesso tempo pesante come il piombo. Qualcosa di dolciastro nella bocca, nelle narici, come se fosse stato a contatto con della droga, cosa che probabilmente era successa.
-Sì, Bill, devo … tornare in centrale.- si torturò il labbro inferiore, i piedi che gli prudevano dalla voglia di correre fuori, nel caldo osceno di Berlino, mentre il suo cuore prudeva disperato dalla voglia di stare con il suo angelo autostoppista. La sua mente era orribilmente divisa a metà.
-Ma no, è maleducazione.- Bill smise di riordinare gli occhi di vetro dei santoni mongoli e andò ad abbracciarlo, sorridendo maliziosamente. – Resta …
-Davvero, non posso.- sussurrò Tom, abbracciandolo goffamente a sua volta, e accarezzandogli delicatamente i capelli corvini, così morbidi e fluenti.
-Allora vieni almeno a dormire da me, stanotte.- ribatté il ragazzo.
-Eh? A dormire? Sì, certo!
Tom si rese conto di averci messo troppo trasporto, ma fu inaspettatamente contento. Primo, perché avrebbe indagato direttamente “sul campo”. Secondo, ma non meno importante, si prospettava una dolce e piccante serata con il suo mezzo fidanzato. Bastava che l’eccitazione non lo ubriacasse.
-Tanto hai visto dove abito, no? Vieni dal tuo Billuccio per le sette e mezza. Ci sarà da divertirsi, cucciolo.
A Tom bastò sentire “dal tuo Billuccio”, per eccitarsi già subito lì. Aveva un modo così languido, così sporco ma allo stesso tempo innocente che avrebbe fatto impazzire chiunque, dal più retto al più perverso degli uomini. Era una forza della Natura, era veramente un angelo caduto dal Paradiso. Un messo di Satana risalito dall’Inferno per trascinarlo nella perdizione.
-Va bene, piccolo. Verrò per quell’ora.
Si baciarono, e questa volta Tom fu decisamente più contento, perché non fu uno sfiorarsi di labbra. Oh no, fu ben di più, sempre nei limiti di una dolcezza imposta dai loro cuori e dalle loro teste, di un romanticismo sconosciuto eppure palpabile. Come fossero i protagonisti ignari di una qualche commedia divina.
Si staccarono solo quando apparve una cliente sulla porta che lanciò loro un’occhiata di rimprovero, e Tom sentì immediatamente le guance andargli a fuoco. Un po’ si vergognava, ok. Anzi, un po’ tanto. Bill semplicemente ridacchiò, lo spinse fuori dal negozio e gli schiacciò l’occhio, chiudendogli la porta alle spalle.
Il rasta si ritrovò dalla frescura del negozio in un forno crematorio, talmente umido che si sarebbe volentieri disciolto come il cemento sotto le sue scarpe sfondate.
Nemmeno il tempo di prendere fiato nella calura, che arrivò puntuale la chiamata di Georg, con voce sconvolta.
-Tom, amico, sbrigati, vai nel primo magazzino della Franz Joseph. C’è stato un altro fottuto omicidio. Noi stiamo arrivando.
-Cosa?! Un altro?!
-Sì. Muoviti, piuttosto. Non so che diavolo tu abbia trovato, dovunque tu sia andato, comunque sbrigati.
Tom mise giù boccheggiando. Ancora. Maledetto Hansi Spiegelmann, sempre che fosse lui, lo aveva fregato sul tempo. Lo stava mettendo alle strette, come se stessero giocando uno con l’altro. E lui era in testa.
Prese il maggiolino e partì sgommando verso la benedetta Franz Joseph. Che gli avesse letto nel pensiero, quel figlio di buona donna? Forse, per il bene del caso e della gente della città avrebbe fatto bene a mettere al corrente Georg e Gustav circa Bill e July. Non gli sembrava giusto escluderli da quella parte fondamentale del giallo; dovevano sapere. Dovevano essere al suo stesso piano d’indagine. Mentre guidava troppo velocemente per le strade sempre trafficate, pensò bene di portarseli a casa nel pomeriggio e mettere loro e i coinquilini a conoscenza di tutta la parte “proibita”. Erano troppo nei casini per avere dei segreti uno con l’altro. E poi erano i suoi migliori amici, cazzo, li avrebbe voluti come testimoni al suo matrimonio con Bill, non poteva … non doveva distrarsi, per esempio. Anche se Bill con un lungo vestito bianco di pizzo e crinoline poteva sembrare particolarmente allettante. Magari anche con un mazzo di rose nere e un lungo velo di seta.
Arrivò sgommando davanti al primo, orrendo, magazzino di metallo, dove c’era già la Scientifica e alcune volanti, tra cui vide sbarcare da Berta i G&G, di cui Gus già con in mano un pacchetto di caramelle gommose. Ne voleva una. Forse era pazzo.
Scambiò un gesto di saluto, e tutti e tre si presentarono di fronte alla quarta vittima. Era una ragazza (di nome Hanna Siepen, 30 anni appena compiuti, cassiera. Un’altra povera innocente vittima della furia di quel pazzo mostruoso), anche lei addormentata con la solita dose di morfina medica, il solito sparo in pieno petto, segni di trascinamento sul terreno, la solita croce sul petto e i segni del kris sulle braccia e sul collo. Ma in più, e Tom lo vide con chiarezza, intorno al corpo della poverina, che pareva già morta da qualche ora, segni sul terreno.
Il ragazzo si chinò per terra e Georg commentò, accucciandoglisi accanto:
-Quanto ci dai che questi sono i segni del trascinamento di Hanna?
-Sicuro. E questi, quanto è vero che odio il pollo alla prugne, sono tracce confuse di passi. Qui la terra è fangosa, rimangono un po’ le tracce, per fortuna.
-Beh, un maledetto errore finalmente è riuscito a compierlo!
Georg si alzò soddisfatto, aiutando alcuni membri della Scientifica a studiare le impronte sicuramente ricavate da stivali da uomo, mentre Tom si concentrava ad osservarle. Eppure gli sembrava troppo strano, paradossale, assurdo quasi che un assassino così preciso, così metodico, così … perfetto, potesse compiere un errore grossolano come quello delle impronte. Cioè, meglio per loro, e poi ci stava anche che uno un piccolo errore potesse farlo, ma non lui. Era troppo per la Polizia, era troppo per tutti. Era il serial killer delle croci, mica uno qualunque.
Le guardò con attenzione, quando Georg riferì
-Sono circa un 45 di taglia. E sembrano lasciate da stivali tipo da equitazione.
Tom annuì distrattamente, continuando a guardarle quasi spaesato, toccandole con reverenza. C’era qualcosa che non quadrava, e lui la vedeva con il “terzo occhio”, senza però poterla mettere veramente a fuoco. Stonavano, quelle impronte di piedi, non erano … e finalmente capì tutto quello che vedeva con il terzo occhio. Beh, era pur sempre il Segugio di Berlino, non l’aveva mica preso per niente quella nomina fruttuosa.
-Ho capito!- urlò, balzando in piedi e facendo tacere tutti immediatamente.
-Che cosa?- chiese Gustav, mollando addirittura le caramelle alla menta, le sue preferite in assoluto.
-Guardate qui.- Tom fece avvicinare i suoi amici, e cominciò ad illustrare – Quando cammini, posi il peso prima sul tallone e poi sulla punta. Eppure qui, è chiaro il peso messo nel tallone ma quasi inesistente quello sulla punta. Che ne deducete?
Tutti si guardarono alzando le spalle incuriositi.
-Che ha il piede molto più piccolo del 45. Non sono le sue scarpe. Le ha messe apposta per sviarci, per farci vedere che lui è molto più in gamba. Non è così idiota da lasciare un indizio simile, è tutto voluto. E quindi ha il piede piccolo, sicuramente non un 45, e non credo nemmeno un 44.
-Minchia, Tom, sei un genio.- soffiò Gustav.
-E ora, ho visto un’altra cosa.- continuò imperterrito il rasta, nel silenzio attento della scena del delitto – Vedete qui?
Si alzò e indicò il movimento chiaro, anche se ora un po’ corrotto, dei passi del serial killer, mischiato con i segni del trascinamento della vittima.
-Cosa notate?- non attese risposta, come al solito – Che le impronte del lato sinistro, quindi queste, sono molto più pesanti rispetto a quelle del lato destro, che vedrete anche che sono molto meno impresse nel fango e sicuramente più corrotte.
-Vuoi dire che … - iniziò Georg, con gli occhi brillanti.
-Sì, agente.- Tom incrociò le braccia al petto – Il nostro assassino zoppica. E anche tanto, a giudicare dalla profondità delle impronte. E qui ce ne rendiamo ancora più conto per il fatto delle scarpe più grosse. Immagino che sia una zoppia piuttosto grave, e aumentata dall’instabilità delle scarpe.
Nel silenzio si levò un breve applauso, molto poco professionale, ma molto meritato dal nuovo scasso Holmes tedesco.
-Ma aspetta un attimo, T.- lo richiamò Gustav, prendendolo per la manica della felpa sformata che sapeva ancora così tanto del profumo dolce di Bill – Il referto di Spiegelmann diceva chiaro e tondo che aveva la gamba destra completamente bruciata. Quindi ragionevolmente zoppica non poco. E allora …
Tom si voltò verso il biondo con occhi penetranti, carico dell’adrenalina da detective che lo assaliva ogni volta che giungeva a qualche soluzione.
-Allora sì, Gus. Abbiamo l’assassino. E vi devo dire un casino di cose.
***
-Thomas Kaulitz, sei un coglione!
L’urlo in perfetta sincronia che si levò qualche ora dopo nel piccolo appartamento del quinto piano del n°3 della Brandenburg Strasse riverberò tra le pareti, saltellò sul frigo, virò sulla tv, e si infranse addosso al rasta, travolgendolo in pieno e facendolo barcollare quanta era la potenza.
Tre ragazzi e due ragazze lo guardavano in cagnesco, dall’alto del divano, gli occhi cattivi che si piantavano addosso al ragazzo seduto sul pavimento come aghi su un puntaspilli.
-Ma che c’hai in quella testa?!- grugnì Gustav, attaccando voracemente il piatto di lasagne che Claudia gli aveva tenuto in caldo, sbrodolandosi di sugo.
-Ti rendi conto delle dimensioni di quello che ci hai appena detto?!- urlò Georg, alzandosi dal divano di scatto – Hai compromesso l’indagine!
-Io non ho compromesso un bel niente.- si difese Tom, ma venne subito interrotto da Raghnild che strillò:
-Ti sei bevuto il cervello?! Sei andato a letto con un tizio paradossale, che con altissime probabilità è implicato nel mistero, con strane amicizie che nascondono segreti inconfessabili, e pensi che non sia niente?!
-Sei un irresponsabile di prima categoria!- le diede man forte Claudia – Avresti potuto morire, idiota che non sei altro. Sembri un bambino!
-Ma Bill … - tentò ancora Tom, facendosi piccino piccino in un angolo.
-Per quanto possa essere un figo che c’è n’è uno, ciò non ti autorizza a scamparti la sgridata!- continuò imperterrita Claudia – E’ una persona pericolosa!
-Avrebbe potuto ucciderti!- drammatizzò Raghnild, tirandogli una forchetta, come faceva ogni volta che si arrabbiava.
-Appunto!- abbaiò Georg – Perché non ci hai avvertito subito?
-Perché sei un dannato romantico eroe pronto ad immolarti per blabla, che diavolo ne so!- inveì Gustav, sputazzando un pezzo di lasagna, e recuperandolo subito dopo.
-Basta, ragazzi, basta. Stiamo calmi.- intervenne Kalle, accendendosi una sigaretta con estrema calma e zittendo quella banda di persone preoccupate.
Tom lo guardò speranzoso, magari lui sarebbe stato meno nevrotico degli altri. Magari lo avrebbe capito. Kalle si sedette mollemente in poltrona, soffiando il fumo dalla sigaretta e scostandosi qualche ciuffo blu dalla fronte.
-Premettendo che Tom è stato veramente un coglione, anche se questo già si sapeva, anche noi non dobbiamo gravargli troppo addosso. Serviamo svegli e attivi, quindi diamoci tutti una calmata, e tu, Tom, alzati dal buco e vieni qui.
Tutti obbedirono, e rivolsero la loro attenzione al ragazzo svedese.
-Hai detto che il muso giallo …
-Non chiamarlo muso giallo, razza di razzista fascista!- lo rimbeccarono subito in coro le ragazze. Gustav stava per ribattere in favore della destra e di Kalle, ma poi il pensiero che per punizione Claudia non gli facesse più le lasagne lo fece tacere.
-E quanto rompete, non c’è, quindi non si offende. La stirpe di Mao ha detto che chiama la tua principessa …
-Si chiama Bill.- corresse meccanicamente Tom.
-E’ uguale, non interrompere. Che lo chiama “Disonore con la pistola”. Quindi, dobbiamo concentrarci accuratamente su questa strana denominazione.
-Beh.- intervenne Georg – Ragionevolmente, dopo che ci hai spiegato tutta la vicenda, mi viene da pensare che lo chiami “disonore” per il fatto che aveva questo legame dei triangoli. Abbiamo il 50% di probabilità sia che fosse lo schiavo, sia che fosse il padrone, ma ragionando, evidentemente se è disonorato era lo schiavo.
-Georg ha ragione.- annuì Raghnild – Se poi July ha fatto tutto quel discorso contorto sull’onore perduto, sulla gente che si nutre dell’onore degli altri eccetera, vuol dire che quasi per forza Bill aveva un “padrone”. Anche se non riesco a capire il tipo di rapporto che avrebbe potuto esserci.
-Magari una cosa come “50 sfumature”.- commentò Claudia, con aria sognante – Che bella storia d’amore …
-E’ vero!- strillò Raghnild, appoggiandosi alla fidanzata con aria ancora più sognante.
-Qualche appunto sulle perversioni del tizio l’ho preso, può sempre venire utile.- annuì Kalle, con aria saputa.
-Uh, sì, è un libro fantastico!- asserì Georg, entusiasta.
-Basta!- urlò Tom – Vogliamo parlare del caso o di quella rumenta di libro?!
-Giusto. Bene, quindi, caro Tom, abbiamo appurato che la tua principessa ha un oscuro passato di perversioni sessuali a suo danno.- continuò Kalle.
-Ma mica sappiamo se era legato a delle perversioni.- disse Gustav.
-Vero, ma tanto queste cose vanno sempre a finire così. Ora dobbiamo capire che c’entra in tutto questo “la pistola”.
-Bill sa sparare. Me l’aveva detto, la prima volta che siamo usciti.- ricordò Tom, pensando con un sospiro al suo angioletto. Cosa mi nascondi, Bill?
-Non basta.- disse Claudia – Deve esserci qualcosa di più profondo, sotto.
-Fratello, non è che il tuo bambolotto è invischiato nel traffico della prostituzione coreana? Magari tu non lo sai, ma di notte va a battere.
-Kalle!!!- urlarono tutti, fulminandolo. Tom gli tirò una sberla. Bill era puro come l’acqua di fonte. O quasi.
-Era una battuta, calmini, era una battuta … manco si può ridere in sta casa … Dicevo, comunque, hai mai fatto ricerche su di lui?
-Ehm, no.- ammise Tom, grattandosi nervosamente una guancia.
-E porcaccia, Tom, meno male che sei il più valente agente dell’Anticrimine!- Georg scosse la testa – Già che tanto siamo tutti qui insieme, tanto vale darci da fare e cercare qualcosa su di lui su Internet.
I sei amici si guardarono, e abbracciarono l’idea di Georg. Si affollarono tutti sul divano, mettendo la piccola Raghnild in mezzo con uno dei suoi fidi “bambini”, tutti lì lì per esplodere dalla curiosità per quel caso assurdo e paranormale. Tom sentì il cuore fargli una capriola nel petto: si stava tutto dispiegando ma ancora più complicando … terribile. E in effetti, cosa aveva Bill che lo aveva indotto a non fare ricerche su di lui come faceva su tutti, anche sulla vecchia vicina di casa? Perché Bill era diverso?
-Spara il cognome, T., e vediamo di scoprire qualcosa su questo affascinante personaggio che ha fatto perdere la testa all’agente più irreprensibile di Berlino.- disse la hacker, pronta a digitare.
Tom aprì la bocca per parlare quando … si rese conto che non lo sapeva. Bill gli aveva solo detto di chiamarsi Bill, basta. Non aveva mai citato cognomi, o altri spunti da cui tirare fuori qualcosa. Era anonimato completo, e ora quasi a Tom venne paura che anche Bill fosse un nome falso. Troppe maschere a Berlino. Troppa pantomima per i suoi gusti. Troppa illusione per quel caldo.
-Io non … non lo so.
-Non sai come si chiama di cognome?- sbottò Gustav.
-No, non me l’ha mai detto e io non ho mai pensato di chiederglielo.
-E beliscimu, Tom, capirei se fosse stata una cosa da una botta e via, ma visto che sembri proprio cotto … dai i numeri?!- esclamò Georg, guardandolo severamente.
Tom arrossì e affondò il viso nella felpa enorme, sperando di scomparire.
-Ma è un casino adesso trovare qualcosa.- grugnirono Kalle e Claudia.
-Nah, tranquilli, vedremo comunque di cavar fuori le notizie.- li rassicurò Raghnild, scostandosi una ciocca corvina dalla fronte. – Intanto, sappiamo che si chiama Bill, sappiamo che vive nella Amburg, che lavora nel negozio “Chincaglierie e Ammennicoli Vari”, e che è tedesco senza ombra di dubbio. Via!
Tutti trattennero il fiato mentre la ragazza pestava sui tasti, concentratissima, con una smorfia teneramente impegnata sul visino pallido.
-Quanti anni ha Bill?
-Ventitré. Come me.
Ancora qualche minuto di silenzio assoluto, mentre gli altri si guardavano speranzosi ed emozionati al tempo stesso, tutti tesi come corde di violino.
-T., credo di aver trovato qualcosa. Mi basta solo sapere questo: che tu abbia notato, Bill ha un tic alla mano?
Tom chiuse gli occhi, e ripensò a tutti i momenti in cui era stato con lui. Lo rivide a fondo, lo studiò, la sua perfezione maledetta, fino a tornare alle sue mani pallide, affusolate, bellissime, con quelle unghie smaltate perfette, quelle dita splendide e … il mignolo. Della mano sinistra. Che impercettibilmente andava continuamente su e giù, come se stesse battendo il ritmo di qualche canzone sconosciuta. Non ci aveva quasi fatto caso, talmente era minimale il tic.
-Sì, Ragh. Al mignolo sinistro. Come se stesse battendo il tasto di un pianoforte.
Gli altri quattro drizzarono le antenne e si strinsero tutti sulla hacker, curiosi, appassionati della vicenda, e la ragazza cominciò a leggere ciò che aveva trovato su internet.
-Allora, con quei pochi dati che mi hai fornito, sono giunta a questo articolo di cronaca nera di otto anni fa. Dice che di fronte a uno dei palazzi della Amburg, quindi dove vive il tuo ragazzo. – Tom evitò di ribattere che non era il suo ragazzo, anche perché non ne era più così sicuro – C’era stato una specie di “attacco” di un gruppo di teppistelli neonazisti.
Tutti si voltarono verso Gustav, che alzò le mani in segno di difesa
-Ehi voi cosa avete da guardare?! Io sono semplicemente di destra, estrema, ok, ma mica sono un nazista! È come se dicessi a voi, maledetti adepti della sinistra, siete tutti come Stalin o come Mao! Che storia è questa?!
L’attenzione ritornò sull’articolo risolutivo.
-Beh, dice che questi bravi figlioli avevano dato fuoco ai cassonetti, e questo ok, avevano borseggiato due anziane signore e ... che avevano picchiato a sangue e violentato quasi fino alla morte un ragazzino di quindici anni che li aveva “offesi”. Ma poi era intervenuto un ragazzo poco più grande, che aveva salvato il ragazzino da morte certa per le botte. Era stata poi chiamata la Polizia, ovviamente, che aveva arrestato i fautori dell’aggressione. Però qui dice che il ragazzo, quello che ha tirato fuori dai guai il piccolo, appena è arrivata la Polizia è scappato.
-E perché? Non era mica in torto, aveva salvato una persona!- intervenne Claudia.
-Quello sì, ma ci credo che è scappato. Quando la Polizia è arrivata e ha trovato la masnada di teppisti, che ha subito arrestato, si è resa conto che i tizi erano tutti feriti. Da un coltellaccio. E da quei bracciali borchiati, come quelli che hai tu, Kalle.
-Quelli che se li sai usare, possono anche ammazzare uno.- soffiò il ragazzo, accendendosi un’altra sigaretta.
-Allora il tipo se l’è data a gambe perché avrebbe potuto essere accusato di eccesso di difesa e di uso improprio di arma da taglio.- dissero Georg e Tom.
-Esatto. Un violento, evidentemente, uno che non si è fatto il minimo scrupolo ad accoltellare i violentatori del ragazzino.- aggiunse Gustav.
-Tutta la testimonianza è stata data da una vecchietta del palazzo dirimpetto che ha visto tutto e che ha chiamato la Polizia. Quindi, la vecchietta è stata a vedere tutta la scena e ha potuto riferire a grandi linee la fisionomia del ragazzo accoltellatore.
-Ma dove la trovi tutta sta roba?!- esclamò sconvolto Georg.
-Dati segreti della Polizia. Non arrestatemi, agenti!- ridacchiò Raghnild, facendo scuotere le testa ai tre agenti dell’Anticrimine.
-Quindi? Com’era il nostro Robin Hood?- insisté Claudia.
-La vecchietta aveva detto che dall’alto sembrava una stanga, alto ma eccessivamente magro. Molto agile. E, soprattutto, indovinate come aveva i capelli?
-Biondo platino e piuttosto lunghi.- rispose senza fiato Tom.
-Bingo, ragazzi. E la vittima si chiamava Bill. Bill Schadenwalt. E aveva i capelli corvini, un faccino da bambola e un corpo da far invidia a una modella. In più, e qui è sempre un dato detto dalla vecchia, che conosceva di vista Bill, ma poi accantonato. E cioè che aveva un tic al mignolo, come se stesse battendo lo stesso tasto del pianoforte.
-Quindi la tua principessa ha avuto un passato non propriamente roseo.- commentò Kalle.
Tom si sentì girare la testa, e ringraziò il Cielo di essere seduto. Quindi il suo angelo aveva vissuto tutte quelle cose orrende; e certamente era implicato negli omicidi, esattamente come quel dannato tizio biondo. Si sentì stringere il cuore al pensiero, ma qualcosa dentro di sé gli disse chiaro e tondo la cosa che più gli servì in quel momento, per superare tutto “Bill ha bisogno di te, Tom. Bill ha bisogno che qualcuno lo salvi una volta per tutte da se stesso e dal suo passato, e quella persona non può altri che essere tu. Forza, Tom. Tu lo salverai”.
 
-Tesoro, vieni qui.
Si alzò da letto, stiracchiandosi, e si diresse quasi di corsa nell’altra stanza, dove lui stava seduto compostamente su una poltrona bucherellata, l’elastico dei boxer ripiegato quel minimo da far vedere un tatuaggio piuttosto piccolo vicino all’inguine, sul fianco, come fossero due triangoli. Ghignava, come al solito, fumando con grazia una sigaretta, i capelli sciolti sulle spalle, le gambe troppo magre accavallate. Era una cosa così erotica, così inquietante, così enigmatica, che gli venne voglia di fargli una fotografia e tenersela sempre sul comodino. Ma la sua macchina fotografica lui non la poteva toccare.
-Cosa c’è?- miagolò, cominciando a levarsi da dosso la vestaglia trasparente, e avvicinandosi ancheggiando come era abituato a fare.
Lui non disse nulla, semplicemente  lo fece sedere al suo posto sulla poltrona e gli si inginocchiò in mezzo alle gambe. Cominciò ad eccitarsi già così, leccandosi il labbro inferiore. Lui gli sistemò la biancheria quel tanto che bastava per lasciargli scoperto l’inguine e prese dal tavolino una stilo da tatuaggi. Ma che diavolo …
-Che fai?- la voce gli tremolò impercettibilmente, quando si rese conto che non l’aveva trascinato lì per del sesso, ma per qualcosa di più spaventoso. Ma cosa? Si passò nervosamente una mano tra i capelli corvini accuratamente sparati in aria.
-Un tatuaggio, tesoro. Stai fermo.
Sentì la stilo penetrargli nella carne e soffocò un urlo. Faceva malissimo. Era una sensazione orrenda, ma elettrizzante. Come tutto quello che faceva con lui, d’altronde: orrendo, ma elettrizzante.
-Ti sto incidendo due triangoli, tesoro. Dicono che siano il simbolo del padrone e del suo schiavetto … come io e te, giusto?
Annuì, mordendosi il labbro per non strillare. A lui non piacevano le urla.
-Ci apparteniamo a vicenda, quando avremo entrambi questo segno sulla pelle. È indelebile, come il nostro amore, no?
Annuì di nuovo, ma questa volta gli brillavano gli occhi. Oh, sì. Lo amava davvero. Anche se non era sicuro che lui lo amasse nel vero senso della parola.
 
 

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Capitolo 11
*** Non ti piace il succo di mirtillo? ***


CAPITOLO UNDICI: NON TI PIACE IL SUCCO DI MIRTILLO?

Tom si grattò nervosamente una guancia, osservando con malcelata inquietudine il portone aperto del palazzo del suo Bill. Non aveva paura, era solamente … agitato. Perché era come se stesse per entrare nelle fauci del leone di sua spontanea volontà, vestito di carne. Se avesse sospettato qualcosa, se lui si fosse lasciato sorprendere con le mani nel sacco, sarebbe stata la sua fine. E, in più, avrebbe dovuto essere come al solito, e fare una bella figura. Killer o no, implicato nel caso o no, era pur sempre il suo semi fidanzato. Doveva essere perfetto, non voleva che l’angelo lo considerasse un cretino impedito e lo scaricasse per qualcuno di più sveglio e intraprendente. Non pensava di poter reggere una simile umiliazione.
Sospirò, e si decise finalmente a entrare nell’androne puzzolente di vinaccia, con le luci mal funzionanti nell’oscurità della periferia berlinese. I palazzi distrutti si oscuravano a vicenda, senza lasciar filtrare il più sottile raggio di luna o di stelle per le strade dissestate dove ragazze semi nude facevano l’occhiolino e ragazzi pelle e ossa osservavano le loro siringhe nella speranza di trovare un’ultima goccia di droga.
Prese le scale, sporche, disordinate, buie e strette, puzzolenti di ammoniaca. Si sentiva in lontananza il pianto di un bambino e alcune risate sguaiate. Tom si passò una mano tra i dread sospirando, stringendo il mazzo di tulipani e rose che aveva comprato al chiosco della fioraia, giusto per non presentarsi a mani vuote. E poi, i fiori piacevano più o meno a tutti, no? E i tulipani rossi si abbinavano benissimo ai capelli corvini di Bill, così come le rose color pesca erano una fine opposizione ai suoi occhi meravigliosi. Sì, Tom si sentiva decisamente poetico, e al diavolo la sua maestra delle elementari che diceva che non aveva vena artistica. Lui era aulico, la sua poesia era su un altro piano rispetto a quella della signorina Rottermeyer. Avrebbe potuto comporre le “Billiadi”, e Omero si sarebbe roso nella tomba alla vista del suo diretto discendente e grande poeta Tom Kaulitz, con la sua monumentale opera sia in prosa che in versi sull’eclatante bellezza dell’Angelo Autostoppista. Si riscosse di colpo quando inciampò nei suoi piedi, ritrovandosi a un palmo di naso da una bottiglia di vino rotta. Si rialzò di scatto, accelerando il passo verso il quinto piano, ricordandosi finalmente del passato di Bill. Avrebbe tanto voluto avere per le mani quegli schifosi, stronzi, figli di puttana eccetera che lo avevano stuprato. Avrebbe volentieri finito quello che aveva iniziato il serial killer delle croci, e al diavolo se era un agente, avrebbe fatto loro rimpiangere di essere nati. Fare una cosa simile a un essere così bello, così puro, così idealizzato. Con che cuore? Con che occhi?
Bussò titubante alla porta dell’angelo, schiarendosi la voce e mettendosi velocemente a posto berretto e felpa, stampandosi sulle labbra il sorriso migliore; sorriso che si trasformò in una splendida espressione da pesce bollito quando Bill spalancò la porta, raggiante come un piccolo sole, abilmente truccato, i capelli perfettamente lisciati che gli ricadevano sulle spalle, un paio di pantaloni di pelle talmente aderenti che sembravano cuciti addosso, una maglietta troppo larga che gli ricadeva addosso, lasciando intravedere la pelle candida delle spalle e del collo, ingioiellato da far invidia a una gioielleria di Parigi. Tom deglutì rumorosamente perché no, lui non poteva stare con una cosa così. Sembrava un errore della Natura.
-Tommuccio!- Bill gli saltò al collo, stringendolo affettuosamente e stampandogli un rumoroso bacio sulle labbra.
-Bill!- preso da non si sa quale strana divinità inviata dal cielo, lo prese addirittura in braccio. Forse era veramente contento di vederlo. Di avere una serata solo per loro, come una vera cosa romantica, magari con le candele sul tavolo e il suo mazzo di fiori a centro tavola.
-Ti aspettavo con ansia, gattino.- Bill chiuse la porta con un sordo “clack”, prendendo il mazzo di fiori che era caduto per terra, ammaccandosi leggermente.
Tom arrossì immediatamente, mentre tentava di levarsi le scarpe senza cadere rovinosamente per terra. Accidenti a Claudia che faceva quei fiocchi assurdi … ok, magari anche lui a ventitré anni suonati poteva imparare ad allacciarsi le scarpe, però … già che aveva i coinquilini che lo facevano per lui …
-Ehm, sì, sono per te. I fiori. Spero ti piacciano.
Bill sorrise soddisfatto, affondandoci il nasino perfetto dentro, annusandoli e sorridendo radioso.
-Sono bellissimi, cucciolo. I tulipani sono il mio fiore preferito in assoluto, come hai fatto a indovinare?- la sua espressione felice era il massimo per il rasta, che si sentì sollevare in aria da una serie di angioletti con la cetra che cantavano le prodi gesta del divino Tom durante le Billiadi.
-Sesto senso.- disse, sorridendo timidamente a sua volta. Davanti a Bill, non riusciva a parlare normalmente senza impappinarsi o dire scemenze; erano ancora in stallo.
-E le rose … che grazia, che romanticismo … Tom, davvero, mi sorprendi!
L’agente non seppe se considerarsi contento dell’affermazione o leggermente imbarazzato, ma optò per un semplice gesto che stava a dire “figurati”.
Bill ridacchiò, prendendolo per il polso e trascinandolo nella piccola ma fresca cucina, che affacciava sul triste cortile interno del palazzo, dove vi era un piccolo tavolo rotondo accuratamente apparecchiato per due con estremo gusto di porcellane cinesi, un vaso di chiara manifattura giapponese sembrava aspettare il suo mazzo di fiori, che subito venne messo dentro per vivacizzare la tavola, una fine tovaglia di pizzo con lo stesso motivo della camicia di Bill probabilmente cucita anch’essa da May Ran Mao. Due candele ardevano, lasciando colare la cera sui piattini sotto di esse, romantiche, scoppiettanti come loro due.
Bill gli fece cenno di accomodarsi e di versare il liquido strano contenuto nella caraffa di cristallo nei rispettivi calici da champagne. L’intera tavola sembrava un’accozzaglia di mistero orientale, pacchianeria e finezza occidentale. Insomma, rifletteva perfettamente l’avvenente padrone di casa.
-Tooom, spero tanto che ti piacciano le cose che ho tentato di cucinare … non sono molto ferrato in cucina …
-Sarà buonissimo, cagnolino.
Tom deglutì. Aveva realizzato solo in quel momento di essere una piaga assurda per mangiare. Ingurgitava solamente pochissime cose, e cotte solo in un certo modo, e servite solo in determinate maniere. Non lo faceva apposta, era nato così e sarebbe morto così. Sperava che Bill non si fosse lanciato in estrose cucine alternative o orientali, sennò si vedeva già ben preso. Non avrebbe toccato cibo, e il suo ospite si sarebbe offeso a morte. E lui non voleva mica offenderlo. Magari se glielo avesse detto già da subito che era uno dai gusti difficili … ma no. Che figura ci avrebbe fatto?
-Ecco qui. Spero che la pasta al forno sia di tuo gradimento.
Bill gli sottrasse il piatto da davanti, e glielo riconsegnò poco dopo con dentro una pappetta rossa, bianca e giallastra, che sapeva di forno ma anche di qualcosa di poco identificato, odorante di qualcosa di indefinito, che poteva essere cavolfiore come pomodoro seccato. A Tom venne già un conato di vomito, ma tentò di nasconderlo bevendo di scatto un sorso di quella roba che aveva messo nei bicchieri. Magari era vino rosso italiano … no. Aveva riposto male le sue speranze. Tentò di non sputare tutto per la sorpresa: cioè, ma da quando si pasteggiava a succo di mirtillo?!
-Oh, Tommuccio, non ti piace il succo di mirtillo?- Bill lo guardò sinceramente preoccupato, portandosi una mano alla bocca, quasi arrossendo.
-No, no, tutt’altro.- tentò di recuperare il rasta, tossicchiando – E’ solo che non me l’aspettavo. Comunque tranquillo, mi piace.
Bill non gli credé nemmeno per un secondo, e fece una smorfia triste. In realtà a Tom piaceva il mirtillo, ma farsi addirittura una cena intera … era un po’ troppo.
-Mi dispiace, ma io non bevo vino, né birra. Solo acqua, succo di mirtillo e calvados. Vuoi quello?
Tom si affrettò a scuotere la testa, tanto per non cominciare a vomitare che non aveva nemmeno toccato la pappa di pasta, o quello che cavolo era.
Con un sorriso poco sicuro, infilò la forchetta nel piatto e saggiò la consistenza gommosa della sua cena. Prese un profondo respiro e ne assaggiò un bocconcino microscopico. Gli bastò quello per ingoiare un attacco di vomito. Ma quella non era pasta al forno, era plastica fusa bagnata di benzina e impregnata di colla da carpentiere! Nemmeno Kalle cucinava così male, che era tutto dire.
-Ok, fa schifo. Tom, non mangiarla.
Bill scoppiò a ridere, sputando senza problemi la forchettata che aveva messo in  bocca. Tom tirò un sospiro di sollievo e allontanò quel veleno da sé.
-Spero tu non ti offenda, ma è leggermente … tossico.- disse, felice che Bill rovesciò senza problemi la loro cena nel lavello, ridendo di gusto. E Dio, come era sexy quando rideva buttando all’indietro la testa. Davvero troppo.
-Te l’ho detto che non so cucinare, gattino, scusa. Sono un pessimo padrone di casa.- Bill si passò una mano tra i capelli, recuperando il secondo piatto. – Questo è pollo alle prugne. Ti piace, vero? Non l’ho cucinato io, tranquillo. Ha fatto tutto la rosticceria della Colonia Strasse.
Rise di nuovo, portando a tavola un orrendo pollo che puzzava di prugne da lì a un chilometro. Ma bene, pensò Tom, forzando un sorriso. Il piatto che più odio in vita mia, geniale. Porcaccia.
Tentò di mascherare il ribrezzo bevendo ancora quell’acidissimo succo di mirtillo, che sembrava di quelli senza zuccheri aggiunti con cui Heike riempiva il frigo della centrale e che faceva schifo a tutti. Oddio, allora anche Bill era un mezzo salutista da roba macrobiotica! In realtà, a ben vedere, non dovette nemmeno fingere che gli piacesse, siccome si trovò già in difficoltà nella sezione “taglio coscia di pollo”. Uffa, non era possibile. A casa, c’era sempre la mamma che glielo tagliava per benino e gli preparava le fettine togliendogli tutti i filamenti e gli ossicini. Lì a Berlino, ormai anche Georg aveva capito l’antifona e gli dava sempre lui due tagli alla roba ogni volta che c’era della carne nelle vicinanze. Oppure Kalle, se proprio non c’era nessuno, visto che le ragazze si rifiutavano di farlo chiamandolo “bamboccio americano” e Gustav invece che tagliare e preparare, mangiava della grossa.
Prese un profondo respiro, armandosi di coltello e forchetta come fossero armi nucleari, pronto allo sfondamento di una corazzata nemica che aveva l’aria di un polletto morto, che rideva della sua incapacità di maneggiare le posate.
-Si fa così, gattino mio.
Tom si irrigidì come un blocco di ghiaccio, quando sentì la braccia di Bill avvolgerlo, prendergli di mano le posate e cominciare a tagliargli il pollo. Da un lato, avrebbe voluto sotterrarsi una volta per tutte: non poteva essere così infantile, Cristo! Dall’altro, qualcosa gli diceva che quella era la prova che Bill provava più di semplice attrazione per lui, ma qualcosa di più profondo. Sennò non gli avrebbe mai tagliato il cibo, no? C’era qualcosa di romantico e dolce, in fondo. Sotto la vergogna del rasta e la malizia dell’angioletto infernale.
Tom non si rese nemmeno veramente conto di come si ritrovò Bill in braccio, che lo imboccava con pazienza estrema, sorridendo dolcemente. Fatto sta, che per la prima volta in vita sua trovò accettabile il pollo alle prugne, vittima delle attenzioni di Bill, comodamente seduto sulle sue ginocchia, che gli portava alla bocca la cena, pezzettino per pezzettino, sorridendo soddisfatto.
Si ritrovò a pensare a quanto sarebbe stato dolce se la loro storia fosse andata avanti, e se Bill avesse continuato ad aiutarlo a mangiare in quel modo. Anche se subito la coscienza lo rimproverò per la sua inettitudine e per lo sfruttamento di Bill.
Il resto della “cenetta a lume di candela ormai sciolta” lo passarono imboccandosi a vicenda, e facendo un gran casino con le prugne che non ne volevano sapere di infilarsi nella forchetta, ridendo per le più grandi scemenze che Tom avesse mai detto, pentendosi amaramente di aver raccontato a Bill delle lezioni di tango con i G&G, facendo stupidi giochetti con la cera della candele, e, soprattutto, dimenticandosi completamente del motivo tecnico per cui era lì, e lasciandosi sopraffare dalla simpatia contagiosa di Bill e dal suo sorriso.
Gli rivenne tristemente tutto in mente quando il ragazzo lo accompagnò in un salottino piccolo e ridondante di libri di ogni genere, con appese alle pareti quelle che a Tom parevano inquietanti armi bianche orientali, come coltelli, sciabole, shuriken, e molti altri oggettini inquietanti, un divano verde simile a quello di July sotto una bella lampada Tiffany. Manca un kris, registrò meccanicamente Tom. Ma non ci diede peso, vedendo la quantità spropositata e strana di quelle armi: magari July usava la casa di Bill come deposito momentaneo di roba leggermente scottante. Non pensava che ci andassero giù leggeri se avessero scoperto che teneva armi di quel calibro in negozio.
-Aspettami qui, Tommuccio, vado a fare il caffè e te lo porto. Guarda ciò che vuoi.
Bill mostrò con un gesto della mano la stanza piccola ma confortevole e corse in cucina, i piedini nudi che facevano un buffo “cick cick “ sul pavimento di parquet.
Tom si passò una mano tra i dread e si guardò attorno con aria ebete, non vedendo l’ora di poter chiacchierare amabilmente con Bill su quel divano dall’aria comoda, davanti a una bella tazza di caffè decente, su quello che concerneva il caso. Meglio togliersi il dente subito, e poi divertirsi un po’. Era già sovraeccitato dalla splendida serata che stava vivendo da non capire molto quello che accadeva, come fosse dietro a uno strato di ovatta, dall’altra parte di una cascata.
Passò un dito sulla copertina del primo libro che vide nella libreria dell’Ikea marrone scuro, osservando incantato la quantità di volumi che si teneva in casa il suo angelo. Prese con delicatezza il libro in questione, dalla copertina verde scuro, con la scritta in oro, piccolo e compatto, che sapeva di vecchio e di bancarella dell’usato. “Lolita”, diceva il titolo. Come non conoscere uno dei capolavori del grande Nabokov? Tom accarezzò la copertina cartonata, leggermente morbida al tatto, e lo aprì a una pagina a caso, sfogliandolo senza pensarci, senza leggere, con distrazione. Quando sentì qualcosa scivolargli tra le dita e cadere per terra. Si abbassò di scatto, per raccogliere ciò che era caduto dalle pagine consunte del libro, e si rese conto che erano foto. Tantissime, piccole, Polaroid. Aggrottò le sopracciglia, osservando attentamente le foto cadute, sedendosi per terra come quando da bambino leggeva i libri di favole in casa di sua nonna. E rimase per un secondo sconcertato, con la bocca aperta di fronte alla prima. Era Bill, senza ombra di dubbio: Bill, con addosso un vestito rosso amaranto che ricordava tanto quelli settecenteschi, i capelli sparati in aria e un calice vagamente medioevale stretto in mano, seduto in mezzo a un cerchio di candele accese, come fosse una strega in preda a una crisi mistica. Ma cosa diavolo …? Tom afferrò le altre fotografie, guardandole come impazzito, sfogliandole velocemente, prima che Bill lo vedesse ravattare tra le sue cose. Ed erano tutte foto dell’angelo; avvolto in dei veli e semi sdraiato su un tetto, vestito come Alice nel Paese delle Meraviglie, seduto a cavalcioni di un grosso tubo di una qualche industria, messo in posizioni assolutamente disonoranti, vestito in tutti i modi possibili, dalla volgarità più assoluta, a una principesca tenuta.
Tom strabuzzò gli occhi, stupito. Non riusciva assolutamente a capire cosa fossero quelle foto, perché fossero state fatte, cosa volessero dire. E soprattutto, a chi fosse venuto in mente di scattarle.
-Tom, dove … - Bill si interruppe di scatto, soffocando uno strillo, fiondandosi addosso al rasta che puntualmente non si era accorto che il padrone di casa era arrivato, strappandogli di mano foto e libro.
Tom alzò la testa, e incrociò gli occhi dell’altro. Vi lesse un qualcosa di indefinito, che sarebbe potuta essere vergogna, mischiata al terrore più puro che avesse mai visto. Come se avesse appena liberato la sua paura più orrenda, come se lo stesse costringendo a misurarsi con la sua fobia assoluta. Una cosa talmente bruciante, sconvolgente, oscenamente vera che fece pentire amaramente Tom di aver tirato fuori quel libro e di aver guardato quelle paradossali fotografie.
Bill si alzò di scatto, infilando alla rinfusa le Polaroid nel libro e rimettendolo velocemente al suo posto, schiacciandoci la mano sopra con troppa tensione.
-Ehm, Bill, io, scusami, ma sono cadute, io … - balbettò Tom, senza sapere che pesci prendere, sicuro che l’angelo l’avrebbe cacciato di casa seduta stante.
-Zitto. Dimenticatele. Tu … tu non hai visto niente. Non hai mai preso quel libro.
Bill si voltò, la voce tremante come quella di un agnellino lasciato da solo nella brughiera, gli occhioni truccati gonfi di quelle che potevano essere lacrime, le mani tremolanti, le labbra strette.
-Va bene; io non ho visto niente.- Tom sospirò, abbracciandolo, aspettando che Bill la smettesse di tremare e singhiozzare, aggrappato alla sua felpa, il viso affondato nella sua spalla, così innocente e così cristallino. Eppure così impregnato di sangue.
Rimasero immobili così per quelle che a Tom parvero ore, mentre furono soltanto pochi minuti, congelati nell’attimo, proprio come se fossero i protagonisti di una fotografia. Colti nel secondo, fotografati nel momento. Immaginò un’istantanea delle sue lacrime, del loro calore, di quel secondo intrappolato per sempre su carta, per rimanere impresso nella testa di qualcuno. Di quel qualcuno che fotografava Bill. Ma per farne cosa? Per quale perverso motivo incastonare nel tempo quelle scenografie degne di un teatro, bruciare il secondo per tenersele addosso come un veleno? Alzò la testa, lentamente, accarezzando la schiena di Bill, e lo vide. Il motivo. Il secondo bruciato e innalzato al cielo. Un quadretto, grande più o meno sui 40X40, appeso esattamente di fronte a lui, nel corridoio. Che raffigurava, senza ombra di dubbio, una sirena sdraiata su un tavolo da cucina, che giocherellava con un kris, un sorriso malefico stampato su un viso che Tom conosceva ma che non riusciva a mettere troppo a fuoco, nella penombra del corridoio. E poi capì, al volo, come una specie di rivelazione: prima, guardando le foto, ne aveva trovata una raffigurante Bill sdraiato su un tavolo da cucina, a pancia in giù, le gambe semi incrociate, nudo, che stringeva tra le mani un coltello, i capelli sparati in aria e il solito sorriso dolce e malizioso. E allora, nella testa di Tom, si fece largo il perché di quelle foto: erano la “brutta copia” dei quadri; prima quel qualcuno che allora era sicuramente il killer posizionava Bill in un certo modo, lo fotografava, e poi nei quadri aggiustava con elementi “sovrannaturali” la foto. Ed ecco che quindi il suo angelo sdraiato sul tavolo, diventava una sirena maligna. Non osava immaginare negli altri quadri cosa avesse modificato quel pazzo criminale. Comunque, innegabilmente, era uno dei pittori più dotati che avesse mai visto.
-Ehi, Bill, come ti senti?- sussurrò, dandogli un bacio sui capelli.
Bill si staccò impercettibilmente, quel poco che bastava per guardarlo negli occhi, un timidissimo sorriso stampato sulle labbra e le guance dolcemente arrossate.
-Grazie, Tommuccio. Scusami …
Tom scosse la testa, facendolo sedere sul divano, mettendogli nelle mani la tazza di caffè che si era raffreddato nel frattempo. Gli si sedette vicino, bevendo un sorso del suo caffè (l’unica cosa mangiabile finora), passandogli un braccio attorno alle spalle, pronto a immedesimarsi nello psicologo della situazione, come a scuola. Chissà perché chiamavano sempre lui per calmare le crisi isteriche di alunni e insegnanti.
-Che cos’è successo?- mormorò, facendogli posare la testa sulla sua spalla.
-Forse dovrei spiegarti delle cose.- la voce di Bill, anche se sempre sottile, si fece più determinata e convinta. Alzò la testa, scostandosi un ciuffo corvino dalla fronte pallida, aggiustandosi un po’meglio sul divano. Aveva proprio l’aria di stare per intraprendere un discorso particolarmente serio, e Tom non vedeva l’ora di sapere cosa nascondesse il suo angelo con le corna. Come diceva sempre Claudia: “Per vivere una buona storia d’amore, bisogna sapere tanto uno dell’altro. Ma qualche segreto bisogna sempre tenerselo, non si sa mai cosa possa succedere”.
-Gattino mio, intanto tu sai chi è July-chan, vero?
Tom si grattò la testa, assumendo un’espressione non proprio intelligente.
-Ehm, il tuo migliore amico?
-Sì, questo ok, ma oltre a quello?
Bill alzò gli occhi al cielo, con un sorrisino rassegnato, e Tom si sentì il solito tonto: e meno male che al Decimo era anche il più sveglio di tutti …
-Ehm … il proprietario del negozio “Carabattole e Ammennicoli vari?”
-Sì, caro, ma oltre quello?- insisté Bill, accarezzandogli il collo.
Tom scosse la testa, arrendendosi: non era mai stato bravo con gli indovinelli, addirittura di quel calibro poi! Accarezzò distrattamente i capelli di Bill e gli sembrò di sprofondare in una dimensione magica. No, doveva stare sveglio. Ma come faceva con il suo angioletto praticamente in braccio?!
-Bene, allora, mi raccomando non ti sconvolgere, ma hai mai sentito parlare dello hwajae ui jeongal?- Bill arrossì un pochino, ridendo all’espressione da tonno bollito di Tom, che si grattò una guancia con aria interrogativa.
-Non credo … non esiste una traslitterazione in tedesco?- borbottò, anche se non era così sicuro di volerlo sapere.
-Scorpione di fuoco, gattino. Vuol dire Scorpione di fuoco.
Tom rischiò di sputazzare tutto il caffè per terra, sentito quel nome. Cioè, come non conoscere lo Scorpione, chiamasi anche “il terrore delle Polizie di mezzo mondo”?! Se ne era sempre discusso e fantasticato, sin da quando era entrato in polizia, sentendo gli agenti più anziani raccontare loro di questo Scorpione, ovvero il più grande, inafferrabile, sfuggente trafficante d’armi di tutto il mondo. Si era spesso pensato di essere riuscito a catturarlo, dall’America all’Europa, dall’Asia all’Africa, ma alla fine si scopriva che colui che era stato catturato al suo posto era un fantoccio, messo lì apposta per ingannare le forze dell’ordine o i servizi segreti.
Tom strabuzzò gli occhi e quasi urlò
-No, fammi capire, July sarebbe lo Scorpione?! Ma mi prendi in giro?!
-No, gattino. Sconvolto?
Bill si lisciò i capelli con una mano, ridacchiando alla vista della faccia del rasta, sorseggiando l’ultimo sorso di caffè con la sua solita grazia.
Tom annuì, affondando ancora di più nelle coltri del divano verde. Aveva avuto sotto gli occhi tutto quel tempo lo Scorpione di fuoco, e non se ne era mai accorto?! Avrebbe potuto diventare famoso, catturarlo, diventare Tom Kaulitz Colui Che Superò Addirittura L’F.B.I. Catturando Lo Scorpione. E invece niente. C’era anche stato da solo, a chiacchierare pacificamente nel retro del negozio. Ma porcaccia, era veramente messo male! Tutta colpa di Bill, e del suo effetto maledetto sulla sua normalità. Anche se adesso, forse, gli sarebbe dispiaciuto mettere in carcere July perché, ok, gli sembrava folle dirlo, ma gli stava quasi simpatico. E gli sembrava di tradire qualcuno, affidandolo per sempre alle patrie galere.
-Comunque, non siamo qui per parlare di July-chan, o perlomeno non solo. Quindi, ora che lo sai, cosa ti viene in mente?
-Beh, è il più grande trafficante di tutto il mondo. Armi, droga, tesori. Tutto. E quindi le sue sorelle saranno le due ninja che si dice ammazzino chiunque osi anche solo avvicinarsi a lui. Quei due mostri che hanno mandato la testa mozzata senza occhi di un concorrente dello Scorpione al suo mandante. Una cosa orrenda.
-Esatto gattino. May e June sono le ninja migliori del mercato in assoluto.
-E questo cosa c’entra con te, Bill?
-Penso che July-chan te l’abbia detto. Che mi chiamano Chong bulmyeong-ye.
-Beh, si. E mi ha detto che vuol dire “disonore con la pistola”. Che vuol dire, cagnolino? Non ci sto capendo più niente!
Tom si mise una mano tra i dread, scuotendo la testa. Era tutto così confuso. Sembrava che si stesse completamente aprendo una nuova visuale delle cose, come se Berlino fosse un teatro in cui continuavano ad aprirsi sfondi infiniti, girando velocissimi uno sull’altro, sovrapponendosi e mischiandosi.
-Cosa ne dici di questo, Tommuccio?
Il rasta non si rese nemmeno conto di quando Bill gli si presentò davanti con una pistola doppia canna che gli puntò fastidiosamente alla tempia, un coltello a doppia lama indiano sul fianco e una freccia tra i denti.
Tom boccheggiò un attimo, per poi mettersi a strillare terrorizzato, chiudendo gli occhi, finché Bill non gli levò quella roba altamente pericolosa da dosso e gli saltò addosso dicendo, con un vocino preoccupatissimo
-Oddio, Tommuccio, cosa c’è?
-Ma come cosa c’è?! Mi stavi per uccidere!- abbaiò Tom, spalancando gli occhi più del normale, tremando di fifa nonostante il caldo opprimente di quel maggio che sembrava peggiorare ancora in quella casa.
-Io? Ma caro, figurati. Era solo per farti capire senza dirlo cosa faccio, oltre al commesso in negozio. Non ti farei mai del male.
-Oh.- Tom si grattò il collo, sventolandosi un po’. – Mi sono preso un colpo.
“Molto coraggioso, Tom, complimenti. Piscia sotto!” lo rimproverò la coscienza, sgridandolo senza pudore. Bill scosse la testa, accoccolandoglisi vicino, sfarfallando gli occhi, dandogli un bacino sulla guancia con aria maliziosamente colpevole.
-Scusa, gattino. Comunque, ora hai capito perché mi chiamano così.
-Sei un mercenario.- soffiò Tom, picchiandosi mentalmente per essersi perdutamente innamorato di, addirittura, un mercenario, che chissà quante leggi avrà infranto. Però, come diceva sempre Raghnild “L’amore è cieco: non è che puoi scegliere chi amare. È una cosa che va contro la legge”. E forse era vero, l’irreprensibile agente caduto nella rete del criminale, come nelle peggiori storie d’amore. Come una schifosa fan fiction romantica. Che cliché, Tom, che terribile, maledetto, splendido stereotipo.
Bill miagolò, e gli diede un altro bacio sul collo. Forse lui non vedeva il pericolo, l’errore, la diversità, l’ … l’amore. Giusto, lui era più in bolla di Tom: ci vedeva l’amore, che poteva anche essere tra un’ameba e un orso. Quindi, a quel punto, se proprio un angelo mercenario infernale era il suo destino, doveva accettarlo. E comunque Bill, era Bill. Non pensava di riuscire a sopportare qualcun altro dopo di lui e il suo sorriso.
Decise di soffocare tutto quello che pensava la parte stupida e ragionevole, e prese il viso di Bill tra le mani, stampandogli un sonoro bacio sulle labbra ricoperte di rossetto viola.
-Si, Tommuccio, sono un mercenario. Che lavora per l’hwajae ui jeongal. Potresti anche arrestarmi, a questo punto. Sul nome del mio mandante, del sangue che mi impregna le mani, dei peccati che mi saturano l’anima.
A quel punto a Tom venne quasi da ridere, dimenticandosi completamente delle foto, della storia contorta, della pistola, del coltello a doppia lama, di tutto quello che era relativo alla parte investigativa della serata, lasciandosi semplicemente circondare dalla voce melodiosa del suo Bill, delle sue mani tra i tubi, dei suoi baci. Lo prese in braccio, lo trascinò in camera, rovesciandolo sul letto, cercando di ignorare quell’inquietante quadro sopra la testata, che, ci avrebbe scommesso raffigurava Bill in qualche orrenda mise. Ci avrebbe comunque pensato il giorno dopo. Adesso aveva altro da fare.

***
Ciao ragazze! Volevo solo dirvi che lo so che il finale del capitolo è uguale a quello del settimo capitolo, ma per motivi tecnici è uscito così ... comunque l'inizio del dodicesimo sarà differente dall'inizio dell'ottavo, tranquille ;)
Vi ringrazio tantissimo tutte, a presto.
Baci XD
Charlie.

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Capitolo 12
*** Ha un volto, finalmente! ***


CAPITOLO DODICI: HA UN VOLTO, FINALMENTE!

Tom osservò con una dolcezza che gli fece quasi schifo il corpo di Bill sdraiato accanto al suo, che lo teneva bloccato per un braccio, i lunghi capelli corvini che gli facevano da aureola maledetta attorno al visino addormentato, gli occhi chiusi toglievano ogni sorta di malizia proveniente da quelle pupille da gatto. Era una cosa così dolce, così pura, così eterea, che a Tom venne da sospirare rumorosamente. Gli sembrava ancora un sogno troppo bello quello di poter avere un tale splendore divino al proprio fianco, avvolti in un abbraccio quasi infantile tra quelle coperte fresche e aggrovigliate, le fronti poggiate una contra l’altra, lo stesso sorriso beato su entrambe le labbra, le mani intrecciate. L’unica differenza, era che uno dormiva profondamente, perso in chissà quali sogni, e l’altro era sveglio, incantato a fissarlo.
Si riscosse di colpo, cercando di sciogliersi il più silenziosamente possibile dalla stretta di Bill; si era prefissato una missione da compiere, non poteva fallire proprio in quel momento. Se si trovava a dover stare con una specie di ninja ultra addestrato e lui altro non era che un povero agente sfigato, allora doveva giocare d’astuzia. Anche se probabilmente Bill lo era molto più di lui.
Tom sospirò, passandosi una mano tra i dread e scostandosi controvoglia dalle braccia del ragazzo, sentendo mugolare leggermente nel sonno. Si bloccò, attento che non si svegliasse, ma Bill sembrava intenzionato a dormire per bene ancora per un po’. Tom fece un sospiro di sollievo, alzandosi con estrema lentezza e rischiando di inciamparsi nelle coperte che erano finite mezze giù dal letto, insieme ai loro vestiti. Imprecò tra i denti per il proprio impedimento di non saper camminare senza cadere miseramente per terra, facendosi anche un male cane. Era alle solite comunque: poteva anche essere vicino a un diavolo, ma la sua sfortuna proverbiale non sarebbe mai cambiata. Cercò di tenersi in equilibrio su un piede solo mentre tentava di togliersi quelle stupide coperte dal piede senza svegliare Bill. Uffa, poteva anche assicurarsi che era impedito al massimo a camminare.
Quando riuscì a eludere la morsa della coperta, lanciò un’ultima occhiata al suo Bello Addormentato (e a quel punto gli sarebbe tanto piaciuto poterlo svegliare per sempre con un bacio appassionato, e ricevere in risposta un “Oh, mio eroe, mi hai salvato la vita dalla terribile matrigna”, esattamente come nella favola. Lui, Tom, il coraggioso principe che affrontò le mille peripezie per salvare il principino Bill dal suo infausto e sonnolento destino. Anche se forse nella storia il principe Tom sarebbe dovuto essere accuratamente abbigliato e con una spada la fianco, non completamente nudo e con i dread sugli occhi.) e si diresse il più silenziosamente possibile in corridoio, i piedi congelati a causa del pavimento freddo, le assi del parquet che scricchiolavano in modo troppo rumoroso per i suoi gusti, gli occhi vigili alla ricerca di quello che avrebbe potuto essere uno studio, una stanza dove trovare qualche indizio per il caso. Quello sì che era una cosa dannatamente importante. E doveva sacrificare un po’ di sonno tra le braccia di Bill, per quello. Sgattaiolò, un po’ come faceva la Pantera Rosa e l’ispettore Clouseau nei film che puntualmente Claudia costringeva loro a vedere. Perché puntualmente, ogni mercoledì era dedicato a “Serata Cinema”, e a rotazione sceglievano un film da vedere tutti assieme e da commentare, come fossero un piccolo e scassato club di cinefili mal riusciti. Beh, ogni volta che toccava a Claudia ci si doveva sorbire o la Pantera Rosa o Uccelli di Rovo. Tom era più che sicuro di sapere le battute di Padre Raphael a memoria, dopo la ventesima volta che lo vedeva.
Si avvicinò facendo il meno rumore possibile all’unica porta chiusa del piccolo appartamento, appoggiando delicatamente la mano sulla maniglia e sentendola aprirsi sotto il suo tocco. Sorrise felice, infilandosi nella stanzetta piuttosto calda rispetto alle altre, senza azzardarsi ad accendere la luce e pregando che Bill fosse ancora tra le braccia di Morfeo e ci restasse per un bel po’. Si guardò attorno, notando alcuni quadri alle pareti che, ma guarda, ritraevano Bill in pose a dir poco oscene. Tom si chiese, senza riuscire a trattenere un brivido, chi diavolo potesse essere un simile perverso. Cioè, ma ce ne voleva per inventarsi quella roba! E gli parve anche così strano il fatto che Bill fosse stato così remissivo nei confronti di quest’uomo, lui, che pareva un’anima così libera e orgogliosa … ma cosa nascondi dietro agli occhi, Bill?
Avanzò circospetto fino a una scrivania di legno scuro, illuminata da un pallido raggio di luna che fendeva perpendicolarmente la tenda bianco trasparente, dove giacevano grossi pacchi di fogli disordinati. Si sedette piano sulla sedia di legno chiaro, sprofondando in un cuscino verde come il divano, cercando di acuire la vista al buio pesto della stanza. Non aveva il coraggio di accendere la luce, temendo che Bill potesse vederla. Prese qualche foglio con delicatezza, usando la luna come torcia provvidenziale. Si rese conto che molti erano scritti in caratteri coreani, quindi incomprensibili per lui, come altri in cirillico e certi altri in inglese; non perse tempo a cercare di capire che roba fosse: sicuramente qualcosa legato ai traffici internazionali di July. Cercò qualcosa in tedesco, qualcosa che potesse fregare in qualche modo Bill, spostando molto delicatamente tutti quei pacchi di fogli inutili per la sua indagine, e incappando dopo molte interruzioni dovute a rumori probabilmente immaginari che l’avevano bloccato col terrore che Bill si fosse accorto della sua assenza nel letto, in un qualcosa di freddo. Spostò i vari documenti con calma, per arrivare a quella cosa dura che le sue dita avevano colpito. Al tatto poteva essere qualcosa dalla consistenza vetrosa e infatti … il rasta soffocò a stento un urlo emozionato quando incappò in una fotografia. Non avrebbe mai sperato di trovare una simile fortuna! La prese delicatamente in mano, spostandola verso la luce lunare, e si avvide che il vetro era completamente rigato, come se fosse stata gettata a terra e calpestata furiosamente, come la cornicetta mezza distrutta. Strinse gli occhi per riuscire a distinguere al buio i soggetti della foto, e soffocò un altro urlo, mettendosi quasi a ridere. C’era un divano, e su quel divano un ragazzo eccessivamente magro, vestito completamente di nero, con i capelli platino che gli ricadevano fin sotto le spalle, tenuti ordinatamente a coprirgli parte del viso, un sogghigno che solo dalla foto fece rabbrividire Tom, e, timidamente accoccolato vicino al ragazzo, Bill. Più giovane, con un sorriso più innocente e aperto, i capelli sparati invece che lisci, conciato in maniera ancora più appariscente, raggomitolato come se fosse un gatto, con la testa in grembo a quella specie di demonio.
Allora era lui il serial killer delle croci. Aveva il volto, finalmente! Anche se mancava nome e movente. Avrebbe voluto mettersi a saltare e a urlare, chiamare tutti i suoi conoscenti e dire che aveva scoperto che faccia aveva il loro assassino. Lo fissò ancora per un secondo, incrociando un paio di occhi quasi a mandorla, accuratamente truccati, con più sobrietà rispetto a Bill. Non ne distingueva il colore, ma la freddezza la poteva comunque percepire nella spina dorsale, come se davvero fosse un demonio la cui sola foto poteva dannare una persona. La girò di scatto, come volendo interrompere quell’assurdo gioco di sguardi che si era instaurato tra lui e la foto. Era veramente troppo suggestionabile, doveva smetterla di leggere tutti quei libri urban fantasy per ragazzine. Cercò qualche noticina sul retro, e poté vedere, anche se ormai quasi sbiadita dall’usura, una piccola scritta nell’angolino. Strinse gli occhi più che poté e riuscì a leggere, con estrema fatica, qualcosa che sembrava “Will e Bill, l’unica foto che io sia mai riuscito a fare loro”. Ma che strano modo di datare un ricordo … la ripose delicatamente sotto i fogli, dove l’aveva trovata e frugò il più rapidamente possibile, cercando almeno qualcosa che potesse ricondurre al nome “Will”, sempre che avesse letto bene. Quasi ironico, avere Bill e Will, entrambi diminutivi dello stesso nome. Si scostò qualche dread dalla fronte, ripescando per caso quello che sembrava un piccolo post-it giallo dimenticato sotto la lampada da tavolo, dove sembrava esserci scritto a caratteri piccolissimi e un  po’ infantili un indirizzo “Nietzsche Strasse, 13 b.” e poi, più sotto, un piccolo appunto “Porta i colori a Will” e quello che poteva essere un cuore stilizzato. Benissimo! Sorrise entusiasta di aver trovato tutto quello che cercava. Memorizzò l’indirizzo, rimettendo il post-it dove l’aveva trovato, cercando di trattenersi dal correre a svegliare Bill e urlargli “Tranquillo, tesoro, l’abbiamo trovato! Non ammazzerà più nessun innocente”. Non lo fece perché comunque non sapeva come potesse comportarsi di fronte a una tale scoperta.
Sgattaiolò di nuovo in camera da letto, pian pianino, guardando dall’alto Bill che dormiva beato, allargato tra le coperte, come un bambino. E quasi gli venne da piangere: perché non riusciva a capire come una tale meraviglia potesse essere stata vittima di un essere così terribile come il fantomatico Will alias Hansi. Come avesse potuto anche solo concedersi a quell’orrore, per quale prezzo, per quale scelta. Bill sospirò rumorosamente nel sonno, girandosi, lasciando intravedere il tatuaggio dei triangoli. Un piccolo, splendido schiavo fatto di polvere stellare al servizio di un messo di Satana gonfio di tutti i peccati di quella Terra. Tom fece un verso strano, quasi un miagolio, e di rimise a letto, sentendo meccanicamente le braccia esili ma forti di Bill attaccarsi a lui con possessività, mentre un leggero filo di bava infantile colava giù dalla bocca perfetta, come se fosse ancora un bambino piccolo. Tom lo abbracciò delicatamente a sua volta, sentendo le gambe dell’angelo circondargli il bacino, un vago sorriso addormentato farsi largo sul viso e una vocina impastata dal sonno mormorare
-Toooooom …
-Shh, sono qui, dormi cucciolo, dormi … - mormorò a sua volta Tom, accarezzandogli i capelli, posandogli un delicatissimo bacio sulla fronte.
Bill si riaddormentò, accoccolandosi tra le sue braccia, ignaro di tutte le geniali scoperte del rasta poco prima.
Tom si limitò a sospirare, e a cercare di addormentarsi una volta per tutte, cullato dal respiro regolare dell’angelo, ignaro completamente della figura che si stagliava nitida nella notte sul tetto spiovente quasi attaccato alla finestra di Bill che li fissava con un sogghigno cattivo, illuminata dalla pallida luce lunare.
****
-Cioè, fammi capire, il nostro nuovo Christian Grey dovrebbe stare nella Nietzsche Strasse?- Georg alzò un sopracciglio, sorbendo rumorosamente il caffè al caramello con cui iniziava ogni giornata.
-E smettila di tirare in ballo quella bufalata delle 50 sfumature.- grugnì Gustav, addentando con gusta una grossa ciambella alla crema chantilly.
-Beh, è l’unico indirizzo che ho trovato in casa di Bill- disse Tom, grattandosi distrattamente il collo nel ricordare la sua seconda fuga a gambe levate dalle braccia dell’angelo, piuttosto da cafone, ma dettata dall’urgenza di non beccarsi un richiamo sul lavoro. La risatina di Bill che riverberava giù dalle scale dopo la battuta sconcissima che gli aveva fatto prima che si precipitasse rotolando giù dalla scale lo faceva ancora arrossire.
-Vedremo di darci un’occhiata, allora.- Georg si sfregò la mani, prendendo le chiavi di Berta, abilmente nascoste sotto la stampante dove dormiva il grosso gatto nero che portava fortuna al Distretto 10. Per qualche motivo, gli agenti del 10 erano convintissimi che presto qualcuno gli avrebbe rubato Berta, e quindi con lei tutto il “Mox Maiores” dell’Anticrimini.
Gustav sputò un po’ di crema chantilly quando gli venne ricordato da Heike che quel giorno sarebbe toccato a lui fare da balia asciutta a quel “grasso, sfatto, odioso felino approfittatore”, o più semplicemente Mr.Mistake, trovato da Tom una cupa sera di gennaio quando era ancora un cucciolino cieco e cresciuto da tutta la centrale all’insaputa dei grandi capi della Polizia tedesca. Fondamentalmente, il biondo agente non lo sopportava per il fatto che Heike faceva più moine al gatto o a quella checca isterica di Tom che a lui. Solo che Tom era un conto, ma quell’animale! Lo sapeva che in realtà era un demone venuto per rovinargli la vita e per rubargli la porchetta da sotto il naso.
-Allora muoviamoci, il tempo stringe.- Tom diede un calcio alla portiera mezza scassa di Berta, ansioso come pochi di scoprire cosa potesse nascondersi a quell’indirizzo.
 
-Ahia, smettila, ti prego.
Ormai non aveva nemmeno più la forza di piangere, raggomitolato sul pavimento, il sangue che colava dal naso, il corpo talmente indolenzito da non sentirlo nemmeno più, i capelli appiccicaticci di sangue dove aveva sbattuto la testa contro lo spigolo del mobile. Si sentiva uno straccio, un inutile pezzo di stoffa.
-Ma tesoro, cosa ti è successo?
Lo stava fissando con la testa piegata da un lato, un ghigno di un sadismo quasi assurdo stampato sulle labbra, gli occhi spalancati sulla sua figura dolorante, famelici, maligni. Si limitò a gemere ancora, raggomitolandosi di più se stesso sentendolo avvicinarsi. Chiuse gli occhi, cercando di immaginare che fosse tutto un brutto sogno, che prima o poi l’avrebbe smessa di picchiarlo come se fosse una bambola. Che l’avrebbe di nuovo preso tra le braccia, dicendogli che andava tutto bene, che finché erano insieme sarebbe andato tutto bene.
-Chi ti ha ridotto così?- la sua mano gelida gli accarezzò i capelli, facendolo tremare da capo a piedi.
-T … tu.- sussurrò, anche se sapeva che non sarebbe servito a niente. Lo sentiva ridere, nella sua testa. Lo sentiva bearsi del sangue che gli faceva versare.
-Su, tesoro, vieni qui. È stato solo un incubo. Solo un sogno.
Si ritrovò di nuovo stretto tra le sue braccia, il viso ricoperto di lacrime premuto contro la sua camicia slacciata, le mani aggrappate alle sue spalle sottili. Avrebbe tanto voluto che fosse stato un sogno, che non fosse veramente lui la stessa cosa che lo picchiava senza motivo, quasi per sfogarsi se qualcosa non andava per il verso giusto, per poi ritirarlo in piedi ancora più brillante di prima, come se fosse una bambola che cade e viene ricostruita fino a raggiungere l’apice della perfezione. Lui era una bambola, la sua bambola. Ed era speciale, glielo aveva sempre detto.
 
Quando Berta, con un sordo scoppio, li depositò di fronte al 13 della Nietzsche Strasse, Tom aveva i nervi a fiori di pelle, un braccio addormentato per aver dovuto reggere la portiera rotta per tutto il tragitto, e un brutto presentimento che non riusciva a scacciare dalle scoperte della notte prima ma che sfortunatamente non metteva a fuoco adeguatamente. Sarebbe tanto volentieri rimasto tra le braccia di Bill quella mattina, a dormire quello che non aveva dormito la notte, a bearsi della sua vocina soave, a non pensare a niente che non fosse lui.
-Ma questo è uno studio di restaurazione di quadri nonché galleria d’arte!- sbottò Georg, fermandosi come un palo davanti all’insegna piuttosto colorata che citava “Galleria del Vecchio Vascello”, e più sotto, un piccolo “Restaurazione quadri, sculture e qualsiasi opera d’arte”.
-Beh, evidentemente … ti preoccupa?- Tom si sistemò il berretto in testa, perché anche quel giorno non era in divisa. A ben vedere, le volte in cui si era degnato di fare la persona seria si potevano contare sulle dita di una mano.
-Dai, lo sai meglio di me, questa gente, gli artisti, sono gente strana, malata di cervello … - Georg abbassò la voce, guardandosi attorno come se da un momento all’altro Gli Artisti li potessero attaccare con forconi e pugnali.
-Ma piantala! Sei sempre il solito prevenuto!- Tom scosse la testa alzando gli occhi al cielo, mentre Georg sbuffava. Non era mica colpa sua se l’ultimo omicidio che erano riusciti a sventare era durante l’inaugurazione di una mostra e che un’ ottantenne pittrice piuttosto arrapata  aveva tentato in tutti i modi di sedurlo! Lo aveva mentalmente destabilizzato, quel mostro perverso.
Tom spinse la porta, che scricchiolò rumorosamente, e precedette Georg in una saletta buia e caldissima, completamente avvolta nel silenzio più pesante che i due ragazzi avessero mai sentito. La porta si chiuse alle loro spalle, facendoli piombare nella più totale oscurità, opprimente, snervante.
-Geo, ma dove siamo?- balbettò Tom, da buon claustrofobico da manuale.
-Nello … nello studio d’arte … - farfugliò il ragazzo, schiarendosi la voce e provando a sillabare un alquanto terrorizzato – Ehm, c’è qualcuno? Siamo della Polizia …
-Geo, ho paura.- Tom si aggrappò al braccio dell’amico, resosi orribilmente conto che non c’erano finestre in quella saletta e che il caldo si stava facendo veramente insostenibile.
-E piantala adesso, Tom, mica sei un bambino, siamo …
Ma Georg venne interrotto da una vocina squillante, accompagnata da una porta spalancata di scatto e quindi da un grosso fascio di luce che si riversò addosso ai due agenti. Una ragazza stazionava nel vano della porta con un largo sorriso
-Salve, come posso esservi utile?
-Siamo della Polizia!- Tom si slanciò con troppa enfasi verso la luce, rischiando di inciamparsi come suo solito nei suoi stessi piedi, ma, ehi, gli stava già venendo un attacco di panico!
-Ehm, saremo qui per farvi qualche domanda … niente di cui preoccuparsi comunque.- Georg seguì Tom e la ragazza con il camice macchiato di colori in una sala più vasta e decisamente più illuminata dove due altre persone lavoravano alacremente dietro un quadro molto grande, evidentemente da ristrutturare a giudicare dalla situazione piuttosto disastrata della grossa cornice barocca.
-Oh, ehm, certo, chiamo il capo, allora.
La ragazza si scostò i codini carota dalla fronte lentigginosa e scomparve dietro una porticina a scomparsa nel muro, mentre una delle due tipe impegnate dietro al quadro si voltò verso di loro, squadrandoli con una certa, fastidiosa, aria di superiorità.
-Che cercate?- chiese, lanciando un’occhiata non propriamente casta a Tom, che avrebbe voluto volentieri seppellirsi sotto l’ammasso di tele abbandonate in un angolo perché, dannazione, da quando aveva baciato Bill, quel tipo di sguardo che gli rivolgevano le ragazza gli dava ancora più sui nervi di prima.
-Notizie su una persona che probabilmente lavorava qui.- grugnì secco, legandosi i dread in una coda ed evitando accuratamente lo sguardo insistente della tizia.
-Come si chiama?- intervenne l’altra.
-Teoricamente, le nostri fonti dicono che dovrebbe chiamarsi … Will?- Georg parve molto poco sicuro quando disse quel nomignolo, ma bastò quello per mettere in allerta le due tipe, che, Tom se ne accorse, si irrigidirono come due bacchi a sentire pronunciare quel nome.
Il rasta tossicchiò, passandosi una mano tra i capelli, quasi contento della reazione delle due, come se quello sicuramente avrebbe potuto costituire una base di indizio.
-Hai … hai detto Will?- balbettarono, scambiandosi un’occhiata preoccupata.
-Will?- una voce nuova, grossa, si aggiunse a quelle stridule delle ragazze, facendo voltare di scatto i due agenti. Davanti a loro si presentava un uomo piuttosto avanti negli anni, grasso, vestito in modo troppo antiquato e pesante per quel caldo, un pincenez stretto sul naso rubicondo. E un’espressione inequivocabilmente sconcertata.
-Noi saremmo … - non fecero nemmeno in tempo a presentarsi che il ciccione, asciugandosi un rivoletto di sudore che gli rotolava giù dalle tempie, li anticipò
-Scusate, davvero, non vollero essere maleducato. Mi chiamo Otto Levi Strauss. Sono il proprietario di questa galleria d’arte nonché studio di restaurazione di opere d’arte. Per cosa posso esservi utile?
Si asciugò un altro rivoletto di sudore, fissando le tre ragazze che alzarono le spalle in maniera un po’ disturbata, tornando al loro quadro.
Tom e Georg si scambiarono un’occhiata, e Tom prese parola, ormai sicuro di essere sulla strada giusta. Fuoco Bill, fuochino. Forse ce l’avrebbe fatta anche questa volta a scoprire la verità, a tirare fuori il suo angelo dall’incubo che stava vivendo, a sviscerare quel passato rimasto chiuso troppo a lungo nella sua mente, a far riprendere luce e a dare fuoco una volta per tutte a quei segreti ossidati nella sua testa, a soffocare l’orrore di giorni che non sarebbero più ritornati.
-Stiamo cercando notizie di una certa persona, di cui sappiamo che ha suppergiù 25 anni, che risponde al nome di Will, che ha i capelli biondo platino e che lavorava qui. Ho perlomeno aveva dei grandi contatti con questo posto.
Il signor Strauss si passò un fazzoletto sulla fronte, dando un’occhiata nervosa all’orologio a cipollotto che portava nel taschino, guardando con aria quasi allucinata con due piccoli occhietti porcini nascosti da borse di grasso i due ragazzi per poi sussurrare, a voce bassa e agitata, tossicchiando
-Vogliate venire nel mio studio, per favore. Ci sarebbero un sacco di cose da dire su Wilhelm Schadenwalt.
 
 

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Capitolo 13
*** Tutti i fighi sono delle checche! ***


CAPITOLO TREDICI: TUTTI I FIGHI SONO DELLE CHECCHE!

Tom e Georg vennero fatti timidamente accomodare in un piccolo salottino piuttosto buio, dove alcune rozze riproduzioni di busti di finto marmo facevano la loro brutta immagine, insieme ad alcuni Kandinsky palesemente falsi alle pareti. Due grosse poltrone rosse li ospitarono, dure e scomode, davanti a una scrivania di noce con pesanti rifiniture di similoro: piuttosto volgare, a volerla dire tutta.
Il signor Levi Strauss si sedette sulla sua poltrona, facendola scricchiolare sotto la pesante mole, aggiustandosi gli occhialini sul naso da maiale e disse
-Cosa … cosa cercate da Will?
I due agenti si scambiarono un’occhiata, e Georg, il più professionale di tutto il Distretto Dieci, prese parola, girando intorno al vero motivo. Anche perché sarebbe stato leggermente spinoso dire che era probabilmente un serial killer e che il suo ex ragazzo se la faceva con quel rasta lì presente.
-Ci servono tutte le informazioni che lei possa essere in grado di fornire, in quanto crediamo che questa persona abbia delle informazioni fondamentali su un caso che stiamo seguendo.
Il gallerista tossicchiò, guardandosi intorno con aria leggermente allucinata, cercando di sfuggire dall’indagatore sguardo di Georg. Tom intanto studiava i finti Kandinsky con aria genuinamente interessata.
-Beh … io … è tanto che non lo vedo …
-Partiamo dalle cose semplici. – interruppe Tom, tormentando il berretto da skater – Parta semplicemente con nome, età, cose di questo genere. Al resto pensiamo dopo. Per esempio, ha detto che si chiama Wilhelm Schadenwalt?
Quello, a Tom, proprio non andava giù. Ma cosa voleva dire quel nome, lo stesso vero nome del suo piccolo angelo? E a proposito, chissà cosa stava facendo in quel momento. Magari era da July a raccontargli tutto e a farsi due risate alle sue spalle. Com’era ovvio.
-Sì. Cioè, non è il suo vero cognome; tecnicamente, si chiamerebbe Wojciechowsky, è polacco di origine, ma comunque usava un cognome tedesco per una serie di motivi alquanto strani …
Levi Strauss sembrava terribilmente impacciato e guardava con un certo terrore dipinto negli occhietti porcini gli appunti lampo di Georg. I due agenti si scambiarono un’occhiata che per loro era il tipico “Questo è un piscia sotto, ma dobbiamo cavargli le parole di bocca”. Sospirando, Georg fece gesto di andare avanti, e il gallerista si asciugò l’ennesimo rivoletto di sudore dalla fronte, tormentandosi le dita a salsicciotto.
-Will … è, cioè era, uno dei pittori più, ehm, apprezzati della galleria e dell’intero giro artistico di Berlino. Ha una mano terribilmente perfetta, divina, oserei dire.
Georg alzò un sopracciglio mentre Tom si ritrovò ad annuire senza rendersene nemmeno conto: ok, si sentiva leggermente maniaco in quel momento, ma un brivido lo percorse quando ripensò a quei pochi quadri che aveva visto a casa di Bill. Violenti, perversi, era d’accordo. Ma qualcosa di così splendidamente somigliante a una fotografia lui non l’aveva mai visto. Il cervello sovraeccitato di Tom partì per un trip mentale che “50 sfumature di grigio” sembrava un raccontino per educande. Immaginò che la prossima volta in cui avesse potuto stare solo con Bill avrebbe portato con sé le manette, e magari avrebbe fatto ordinare da Kalle pure un frustino e una maschera. Il solo pensiero di Bill vestito con un completino di pizzo, legato al letto, con il suo adorabile fondoschiena sollevato gli fece salire il sangue al cervello. Beh, non solo. Grugnì, e cercò di pensare a qualcosa di brutto che facesse tornare a cuccia il piccolo Tom. Accidenti a lui, non poteva pensare a quelle cose proprio adesso!
-Ha cominciato a lavorare qui circa … otto anni fa. Aveva diciotto anni.
-Aveva … ehm, un modello particolare?- Tom puntò lo sguardo più perforante che gli riuscì sul gallerista, cercando di apparire sicuro di sé e in qualche modo intimidatorio. Anche se non sapeva nemmeno lui bene come fare, siccome semmai era lui che era intimidito da tutta la faccenda e terrorizzato dal vespaio assurdo che gli si era rovesciato addosso quella sera che aveva tirato su Bill. Come se gli fosse apparso un nuovo mondo parallelo alla sua Berlino. Un mondo fatto di inganni, bugie, occhi truccati e sangue che impregnava i muri e le anime di chiunque vivesse nella Berlino Dietro Lo Specchio; e Tom era ormai sicuro di farne in qualche modo parte, come se anche la sua anima candida fosse stata impregnata di sangue dagli strani pagliacci incontrati in questo nuovo, inquietante, scenario.
Levi Strauss sbatté le palpebre, prendendo tempo chinandosi a raccogliere una penna che palesemente aveva fatto cadere apposta per quello scopo. Esitò, prima di rispondere, come se stesse ponderando i vari esiti della sua risposta; sembrava che stesse combattendo una profonda lotta interiore, quando finalmente si decise a sputare un “sì”, piuttosto strascicato.
-Chi era?- si affrettò a chiedere Georg, immaginando già dove voleva andare a parare quella testa contorta del suo migliore amico: Bill, la sua nuova fiamma infernale. Tom lo aveva aggiornato sulle ultime novità della notte, e Georg non poteva dire di essere troppo contento da un lato. Si stava irrimediabilmente incasinando da solo, e lui e Gustav non avrebbero sempre potuto parargli il culo per i problemi che combinava da solo. Ci mancava solo quel famoso Bill, che una personcina tanto tranquilla non lo doveva essere. Scintille, scintille pericolose.
-Un ragazzo, ma non lo conosco.- Levi Strauss non sapeva mentire, quello era poco ma sicuro. I due ragazzi si scambiarono un’occhiata, e quindi Tom si alzò
-Bene, allora Georg tu continua pure qui, io vado a dare un’occhiata in giro per la galleria. – lanciò un’occhiata che voleva essere penetrante al grassone – Con permesso, signore.
-Prego, vada … per di là. – Levi Strauss fece un sorriso nervoso, indicando la porta di mogano scuro.
Tom si avviò verso la sala dove c’erano le tre ragazze, che come poté vedere, erano sempre dietro al grosso quadro, tutte e tre che parlottavano nervosamente, le mani concitate che saettavano sulla cornice e sulla tela piuttosto rovinata dove campeggiava un grosso veliero in balia delle tempeste.
La prima che si accorse dell’entrata piuttosto silenziosa di Tom nella stanza fu quella con i capelli biondi, che gli rivolse un’occhiata non propriamente casta e disse, con voce roca e suadente (cioè, a Tom parve più l’ultimo rantolo di agonia di una marmotta lebbrosa, però aveva capito che agli altri uomini quella voce doveva apparire particolarmente accattivante), facendogli un mezzo occhiolino.
-Allora, dolcezza, cerchi qualcosa?
-Sono fidanzatissimo.- Tom pensò bene di mettere le mani avanti, notando con un certo terrore le tre fanciulle mollare i pennelli e cominciare ad avvicinarsi leccandosi le labbra. Visto che quella con i ricci neri stava per ribattere, urlò – E con un uomo. Quindi, no. Non mi interessate nemmeno in quel senso.
Le tre smisero immediatamente di avvicinarsi, anzi, spalancarono gli occhi a palla e quella con i codini che li aveva accolti sbottò
-E ma che palle, tutti quelli un po’ fighi sono delle checche!
-Veramente!- grugnì la bionda – Non uno che si degni di apprezzarci.
-Cosa c’è, allora?- la mora incrociò le braccia al petto, squadrandolo al di sopra degli occhiali.
Tom si sentì piccolo di fronte agli sguardi acidi e in grugniti delle tre ragazze, imbarazzato ed esasperato allo stesso tempo, richiamando alle mente Bill. Perché quando serviva da mostrare come fidanzato non c’era mai? Per esempio, sarebbe stata una cosa terribilmente romantica vedere loro due, per mano, sulla spiaggia di Malibù, tutta la gente che si inchinava al loro supremo passaggio come se fossero dei nuovi dei, così divini nella loro lucentezza che si rifletteva sulle onde cristalline dell’oceano che con la sua voce chiamava …
-Ti sei mangiato la lingua?- insisté la rossa, sventolandogli una mano davanti al naso. Tom si riscosse di scatto, arrossendo in quel modo che Bill trovava irrimediabilmente tenero, tormentandosi i cordini della felpa sformata. Prese un profondo respiro, e poi si decise ad affrontare quelle tre arpie sul piede di guerra.
-Allora ragazze, seriamente. Che potete dirmi di Wilhelm?
Tom si ritrovò a sorridere interiormente quando vide gli sguardi delle tre farsi rapidamente corrucciati e agitati, indecisi. Come se costasse loro molto rivelare qualcosa alla Polizia. E chissà perché, poi. Cioè, nemmeno che fosse il demonio, tutta questa gente che sembrava esserne così follemente terrorizzata … insomma, che diavolo avrebbe potuto avere quel ragazzo per assoggettare così tutta quella gente? E soprattutto, per assoggettare Bill? Cosa poteva usare? Ricatto, false promesse, terrore … sembrava quasi che tutti coloro che conoscevano questo Hansi/Will fossero spaventati a morte da lui. Oppure c’era altro sotto? Chi poteva avere un carisma così forte da tenere nel pugno tutta quella gente?
-Lui era … - la bionda si morse il labbro ricoperto di scadente rossetto, scambiandosi qualche occhiata stanca con le amiche – Lui era geniale. Nessuno era in grado di dipingere meglio di lui. E nessuno sapeva le cose che sapeva lui. Era semplicemente il migliore in assoluto. E, anche se non dovrei dirlo, era un po’ il sogno erotico di tutte, qui dentro.
Le altre due annuirono con gli occhi bassi, diventate improvvisamente impacciate.
Tom si grattò il collo; poteva immaginare il tipo … com’è che si soleva dire? Bello e dannato? Anche se qualcosa irrimediabilmente stonava nell’insieme, come se stesse disperatamente cercando la piccolo pausa sbagliata in un brano di centinaia di pagine, ma che nonostante tutto quella pausa rovina completamente l’intero concerto. E la pausa era proprio Wilhelm.
-Era simpatico? Un tipo amichevole?- le aiutò Tom appoggiandosi distrattamente al muro, giocherellando con i cordini, non riuscendo a stare fermo per un secondo.
-Un figlio di puttana.- mormorò la mora, pulendosi gli occhiali e alzando i grandi occhi neri su Tom – Non so se mi spiego, ma non era assolutamente disponibile. Anzi, se devo proprio dirla tutta, parlava poco e niente e quel poco che diceva era solamente per sminuirti o per farti sentire uno sbaglio della Natura. Freddo come la morte. Apatico. Ecco, sì: potrei dirti che era l’apatia fatta persona.
Tom annuì. Bella differenza per l’angelo: da uno misantropo e violento a un compagnone che non farebbe male a una mosca. Wow.
-Era uno di quelli che si vestivano sempre di nero, che si faceva sempre i cavoli suoi, però aveva un aura di dannazione che avrebbe incantato chiunque. Un po’ come i vampiri dei libri per ragazzine, solo che lui lo era per davvero. Forse è anche un vampiro- la rossa fece una risatina infantile, arrotolandosi un dito attorno a un codino.
-Smettila, Cloe. Non dire cazzate.- sbuffò la bionda, e prima che potesse continuare Tom la interruppe
-E sapete chi usava come modello fisso per i suoi quadri?
Le tre ragazze si guardarono un po’ con un’espressione di difficile interpretazione, quando la bionda disse
-Hai visto dei quadri di Will?
-Mi è capitato, sì.- rispose evasivo il rasta. Sì, li ho visti in casa del mio ragazzo e gli è pure venuto una crisi isterica per colpa di certe foto. Fantastico, no?
-Era il suo fidanzato.- grugnì la mora. Ora Tom capiva perché prima se ne erano uscite con quel “tutti i fighi sono delle checche”: in effetti, non avevano tutti i torti … beh, meglio per lui. Più carne al fuoco e più succulenta. – Un tipo strano.
-Perché strano?- Tom aggrottò la fronte. No, non voleva che quelle tre arpie dessero dello strano al suo Bill. Aveva un diritto di proprietà su di lui, che cavolo.
-Dai, Dafne, non era strano.- Cloe alzò le spalle – Era solo originale.
Dafne ignorò le parole dell’amica e continuò, guardando fisso Tom
-Mi pare si chiamasse Bill, ma non sono sicura, visto che praticamente non parlava. Non era muto, perché ogni tanto vedevo che diceva qual cosina a Will, ma con noi si limitava a sorridere e ad annuire o a scuotere la testa. Cioè, ma quello non ci stava, proprio no. E non mi stupisco che uno come Will stravedesse per lui. Sembrava una ragazza: giuro, ci ho messo a capire che era un maschio.
-Noi non lo conosciamo, però possiamo dirti questo se ti interessa.- continuò la bionda. Tom fu quasi preso da una voglia irrefrenabile di fermarle, di supplicarle di piantarla di parlare in quel modo del suo Bill; non ci voleva credere, proprio no. Avrebbe voluto non sapere nulla, tapparsi le orecchie di fronte a tutto quello ma non poteva. Perché non voleva che il suo amore fosse una menzogna. – Vedevamo come lo trattava, era palese. A parte il fatto che non gli si staccava mai da dosso, quelle poche volte che lo portava qua in studio vivevano praticamente appiccicati, poi era assolutamente succube. Anche se non parlavano, potevi benissimo vedere le occhiate che si scambiavano. E bastava che Will schioccasse le dita che subito lui obbediva sorridendo.
-E’ come dice Leila. Schiavismo puro.- Dafne e Cloe annuirono.
Tom sentì il cuore stringerglisi in una morsa d’acciaio. È come dicevano i triangoli, allora: schiavismo puro, senza limiti imposti dalla legge. Dopo tutte quelle fastidiose rivelazioni, sarebbe andato da July. Non sapeva nemmeno bene lui il perché, forse solo per la sicurezza che si era reso conto solo lui poteva dargli; gli bruciava irrimediabilmente pensare che addirittura lo Scorpione lo potesse mettere in pace con se stesso come nessuno prima di lui, ma era così, e fin che gli giovava non vedeva perché allontanarlo da sé. E poi avrebbe rivisto Bill. Il Bill che conosceva lui, bastardo, malizioso, indipendente, orgoglioso. Il Bill che gli sarebbe saltato al collo uscendosene con una qualche battuta a sfondo sessuale. Il Bill che non si faceva mettere sotto da nessuno. Il Bill che giocava e non la smetteva, che lo faceva impazzire, che lo spingeva al limite e poi lo ritirava indietro.
-Bene; e poi che mi sapete? Sapete se era solito prendere dei tranquillanti? Medicinali, roba omeopatica, per qualche problema depressivo?
Le ragazze si guardarono come alla ricerca di un qualche ricordo perduto e seppellito nell’anticamera del cervello, quando Leila intervenne
-Dirti che tipo di medicinale fosse non ne sarei in grado, però posso dirti che prendeva in continuazione psicofarmaci, tipo tranquillanti, roba contro l’ansia e contro l’insonnia.
-Vero- annuì Dafne – Lo vedevamo ogni santo giorno. Non mangiava un tubo, in compenso non faceva che ingoiare pastiglie su pastiglie. E poi Otto si chiedeva perché fosse perennemente in uno stato pietoso. Si rovinava, con tutta quella roba.
Tom annuì, riconducendo immediatamente il tutto al dottor Olbrich e al Zolpidem, che aveva anche trovato in casa di Bill. Magari vecchi rimasugli di quando ancora (e qui gli si strinse il cuore) vivevano insieme. Pastiglie … però, a maggior ragione, quella roba lì costava un casino, se poi ne prendeva in quelle quantità esagerate … come faceva a permettersi tutta quella roba? Anche perché non pensava che il lavoro come restauratore di quadri fruttasse più di tanto.
-Soffriva di ansia. Tipo manie di persecuzione, credo. E insonnia grave.- si intromise Cloe – Era abbastanza palese, no? Ed era piuttosto violento.
-Violento? Spiegati.- Tom sorrise tra sé e sé. Pian piano nella sua mente allenata si stava creando il perfetto profilo del misterioso S.I.; filava perfettamente, anche troppo. Incominciavano finalmente ad incastrarsi i pezzettini del puzzle.
-In realtà, non è che potremmo dirlo con certezza- riparò Leila – Però, ma tienitela per te questa, tesoro: una volta, tre anni fa, prima che scomparisse, aveva portato il suo ragazzo, come faceva ogni tanto. – a quel punto Tom non avrebbe più voluto ascoltare ma cercò di farsi forza e di non far trasparire le sue emozioni tempestose – Beh, lui era lì seduto per terra come al solito, che sorrideva e non parlava (e ti giuro, era inquietante un casino), quando poi prese in mano la Polaroid che Will si portava sempre dietro e …
-E Will gli mollò uno schiaffo da far girare la testa.- concluse Dafne – Giuro, un manrovescio terribile. E il ragazzino si è messo a piangere, piano, in silenzio, e così Will l’ha preso per la collottola e gli ha detto una cosa tipo “se ci riprovi, a casa ti ammazzo di botte”. Una cosa veramente brutta.
Tom e le ragazze vennero scossi contemporaneamente dallo stesso brivido.
-Perché nessuno ha fatto niente?- soffiò il rasta, sentendosi improvvisamente soffocare in quella stanza troppo bianca.
-Perché … - Cloe guardò le altre due, arrossendo.
-Perché era Will.- conclusero quindi tutte e tre, gli sguardi bassi, le guance arrossite e gli occhi mostruosamente colpevoli, tanto che Tom non se la sentì di arrabbiarsi con loro, ma aggiunse un po’ di furore verso quel bastardo. Non sapeva cosa avrebbe potuto trattenerlo dall’ucciderlo una volta che ce l’avrebbe avuto sotto le mani. Una vendetta per tutto quello che aveva fatto al suo angelo, l’unica cosa bella che fosse mai capitata a Tom.
 
Si girò nel letto, le coperte appiccicaticce avvolte attorno al corpo, dolorante come mai, i capelli corvini arruffati come il nido di una rondine. Sfarfallò gli occhi, abituandoli al buio pesto di quella tempestosa notte di Gennaio. Sarà stato particolarmente nervoso, quella notte: non che a lui non piacesse quando se lo scopava così, a lungo, facendolo urlare fino a perdere la voce, sbattendoselo come un uovo, però dannazione, dopo rimaneva veramente a pezzi.
Lui era in piedi, la sua figura longilinea che brillava alla luce dei lampi, una sigaretta tra le dita scheletriche, appoggiato allo spigolo della finestra in una posa sensuale come solo lui poteva esserlo anche se non se ne rendeva conto.
-Devi andare di nuovo via?- sussurrò, tendendo il braccio per trascinarlo di nuovo a letto, per potersi aggrappare al suo corpo e non lasciarlo più.
-Sì, tesoro. Ma starò via solo tre giorni.
Lui si sedette sul bordo del letto, infilando dolcemente la sigaretta tra le sue labbra semi dischiuse, accarezzandogli quindi il viso.
-Perché non mi porti mai con te?- soffiò una voluta di fumo pallido, leccandogli maliziosamente il collo.
-E’ troppo pericoloso per te, amore mio. Non sei abbastanza bastardo per uscirne vivo.- lui sogghignò, accarezzandogli l’interno della coscia, baciandogli la fronte.
-Ma quello che faccio con July-chan … - spalancò gli occhi neri, sfarfallando innocentemente le lunghe ciglia.
-Tu sei la sua difesa, tesoro. Quello che faccio io è molto più pericoloso. Tu sei la spada, io sono la parola, la bugia. Non ci pensare, dormi.
-Ma io vorrei venire con te. Voglio starti vicino. July-chan mi ha detto che …
Gli si aggrappò alla schiena, facendo sporgere il labbro inferiore in una tenera smorfia dispiaciuta.
-Lascia perdere quello che dice July. E ora ti ho detto di dormire.- si girò di scatto, gli occhi fiammeggianti.
E a lui non rimase che rituffarsi sotto le coperte, gemendo di disappunto, lanciando un’occhiata drammaticamente innamorata al ragazzo seduto vicino a lui, che continuava a fumare come se nulla fosse la sua sigaretta.
 

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Capitolo 14
*** Vado all'Inferno, ma torno per cena ***


CAPITOLO QUATTORDICI: VADO ALL’INFERNO, MA TORNO PER CENA.

-Potresti scriverci un libro, sul passato tormentato della tua bambola “Torture cinesi per una geisha dai discutibili gusti in fatto di uomini”. Sarebbe un successo editoriale senza precedenti!
Kalle ridacchiò, evitando con grazia la penna lanciata da Tom e andandosi a sistemare sulla scrivania, fumando con nonchalance una sigaretta. Incredibilmente, tutta la faccenda che Tom aveva appena raccontato lo faceva quasi ridere.
-Smettila di fare ste battute da angiporto di Goteborg.- grugnì Gustav, mangiando felice la vaschetta di pasta al forno che gli aveva portato Claudia.
-E poi, dovete spiegarmi che diavolo ci fate voi tre qui!- sbottò Tom, mettendosi le mani tra i dreadlocks. Quando lui e Georg erano tornati in centrale a riferire, lui con un’espressione da funerale, che si teneva all’amico, quasi sul punto di implodere per via di tutta l’energia negativa, la rabbia, la consapevolezza di essere arrivato sempre troppo tardi, avevano sentito delle urla sconclusionate già dalla strada. E era loro bastato mettere il naso dentro per trovare tutto il Distretto Dieci a soqquadro e i coinquilini di Tom che spadroneggiavano nell’ufficio, facendo rumore, disordinando le pratiche, sconvolgendo i colleghi, buttando tutto all’aria e mettendo la musica a tutto volume. Insomma, il paradosso dei paradossi: anarchia totale nel servizio di Polizia dello Stato. C’erano voluti qualche ululato di Tom insieme a qualche ordine abbaiato da Georg per ristabilire un minimo di dignità in quella stanza rivoltata come un calzino.
-Diciamo che avevamo voglia di vedere come stavi, per prima cosa, siccome non siamo idioti e abbiamo visto che in questi ultimi tempi, se da un lato hai sempre gli occhi a cuore, hai la testa incasinata. E siccome noi siamo la tua famiglia, abbiamo deciso di prendere parte a tutto.- spiegò Claudia, mettendosi le mani sui fianchi in quella posizione che, lo sapevano bene, voleva solo dire “Io questo ho detto e io questo farò, e non sarai di certo tu a fermarmi”.
-E poi, per seconda cosa, volevamo semplicemente fare un saluto al buon, vecchio Anticrimine. Era da tanto che non ci divertivamo così!- esclamò Raghnild riemergendo da una postazione computer.
Tom alzò lo sguardo al cielo, scuotendo la testa, ma gioendo segretamente nel suo cuore del supporto che comunque in ogni occasione gli davano quei tre matti. Ormai non avrebbe più saputo dove sbattere la testa senza averli in casa, con le loro litigate, le loro urla, i loro casini, i loro problemi, semplicemente senza la loro rumorosa e liberatoria presenza.
-Bene, e avete intenzione di invadere il campo in questa maniera?- chiese Georg, osservando incerto i disegni di Kalle aver preso il sopravvento e che strani disegni stile manga stavano invadendo gli schermi dei loro computer di servizio.
-Forse. Non si può mai dire, amico!- Raghnild gli strizzò l’occhio vispo.
-Bando alle ciance, smettetela di fare casino che qui si deve indagare!- esclamarono Gustav e Tom, salvando in extremis alcune pratiche che Claudia stava tentando di usare come carta assorbente da cucina.
-Devo cercare qualcosa su questo pittore dannato?- Raghnild fece un largo sorriso, sistemandosi meglio sulla sedia girevole che aveva già provveduto a svitare.
-Facciamo così- ordinò Tom – Ragh, sì, cercaci qualcosa su questo bastardo e poi riferisci tutto ai G&G e vedete se dovete prendere dei provvedimenti, Georg invece tu cerca qualcosa circa la sua abitazione o perlomeno dove abitava prima dell’incidente. Io devo andare.
-E dove?- i coinquilini lo guardarono straniti, mentre Gus e Georg alzavano gli occhi al cielo.
Tom ritornò dentro giusto in tempo per guardarli con una faccia abbastanza simile a quella che avrebbe potuto fare l’eroe di un qualche romanzo arturiano dimenticato in procinto di salvare la principessa addormentata, e disse
-Vado all’Inferno. Comunque torno per cena.
E si mise a correre il più veloce possibile verso “Chincaglierie e Ammennicoli Vari”, come si era ripromesso. Giusto il suo Inferno personale, dove poter tornare a parlare con July e a sentire indovinelli apparentemente indecifrabili, dove farsi rintronare dalle droghe perennemente aleggianti nell’aria, dove guardare tutte quelle piccole stranezze esotiche, dove sentirsi assurdamente al sicuro in luogo nemico, dove poter semplicemente vedere Bill che contava gli occhi di vetro dei santoni mongoli. Certo che in qualche modo doveva ancora darsi una spiegazione plausibile della sua recentissima mania di fare visita a quel posto. Non gli faceva per niente bene, alla sua mente già troppo eccitabile. E benché meno alla sua sanità mentale, che tanto ormai sembrava già essersene andata a farsi benedire.
Quando arrivò davanti al negozio, aveva il fiatone per la corsa appena fatta. Poteva anche giocarsela da sportivo con la gente, ma proprio sapeva che persona meno atletica di lui non sarebbe potuta esistere. Forse Kalle. Anche se tra tutt’e due se la potevano giocare, visto che passavano tutte le ore libere davanti alla televisione a giocare a qualche stupido videogioco in malese (quindi, incomprensibile. In realtà, stavano ancora cercando di capire come mai quel dannato videogioco si fosse fissato in malese e non ci fosse verso di cambiare lingua. Probabilmente Raghnild ci aveva messo lo zampino) e a mangiare latte condensato direttamente dal tubetto. Chissà perché qualcosa gli diceva che se mai avesse potuto vivere il resto della propria vita con Bill, cosa di cui si augurava, il latte condensato sarebbe stato bandito perennemente dalla loro casa. Uffa.
Si schiarì la voce, prima di aprire la porticina e sentire l’ormai familiare tintinnio delle campanelle sopra lo spigolo. Buio completo dentro l’androne. Tom sentì la porta sbattere dietro la sua schiena e si ritrovò nell’oscurità più assoluta, ancora più cosciente degli sguardi degli antichi mandarini che lo fissavano dalle loro sacrosante posizioni nel Celeste Impero. Deglutì, non sentendo alcun rumore intorno a lui. Un po’ come in un film horror di prima categoria.
-Ehm, Bill, amore … - tentò, rendendosi conto da solo di quanto la sua voce fosse più che un sussurro. Se non fosse che ormai conosceva quasi perfettamente il negozio, sarebbe già fuggito a gambe levate da quel posto inquietante, con le pareti impregnate di incensi talmente forti da far girare la testa. Ma cosa bruciavano in quel benedetto negozio per impestarlo così di droghe e oppi sconosciuti?!
-C’è qualcuno?- ritentò, ancora meno sicuro di prima, indietreggiando verso la porta quasi senza rendersene conto. Comunque fosse, lui era claustrofobico e stare lì proprio ne avrebbe fatto volentieri a meno.
-Ubag, chong bulmyeong-ye ui wangja. Mueos-I dangsin-eul jegonghabnida?
Due vocine dolci e sottili lo fecero sobbalzare di scatto con un urletto mal trattenuto. Guardò verso il bancone della cassa e vide accendersi una lampada cinese che illuminò sinistramente June Mei Rin e May Ran Mao, bellissime e letali, con due sorrisi educati e simili a quelli dei manga, vestite con due completini stile studentesse che lasciavano molto poco all’immaginazione.
-Aehm, ciao, io … - Tom si grattò impacciato una guancia, avvicinandosi con un certo timore alle due ragazze quasi finte nella loro perfezione. – Scusate, non ho capito cosa mi abbiate detto, però sto cercando July e Bill. Sapete dove posso trovarli?
Senza nemmeno rendersene conto, Tom si trovò una ragazza per lato e non poté trattenere un brivido pensando a quello che gli aveva detto Bill, che loro erano le due terrificanti guardie del corpo dello Scorpione. Non andava bene per niente, cavolo! Indubbiamente, quelle due lì gli facevano un po’ paura …
Mentre June gli faceva segno di fare silenzio, May lo spingeva delicatamente verso il corridoio oscuro che aveva percorso la volta precedente. Tom barcollò dietro di loro finché non si fermarono davanti a una tenda blu con fiorellini bianchi ricamati e gli fecero cenno che erano lì dentro.
-Oh, bene, ma … - a quel punto il rasta non era manco più così sicuro di entrare. C’era qualcosa lì che disturbava il suo istinto di sopravvivenza. E non erano solo le due ninja. Si grattò il berretto per prendere tempo, non sapendo che pesci pigliare né come fare a liberarsi dei sorrisi inquietantemente vuoti delle due ragazze.
June allora gli fece cenno di aspettare, sfoderando dai seni il cellulare e cominciando a digitare velocemente, imitata da May. Poi, entrambe sorridendo e in perfetta sincronia, gli mostrarono i due schermi che recavano la traduzione in tedesco su Google Traduttore di una frase in coreano. “Stai tranquillo, Tom-sama: gli amici di nostro fratello sono anche amici nostri. E poi, sappiamo cosa ti lega a Bill-chan. E chi è in grado di far innamorare veramente il nostro fratellino, allora è degno del nostro pieno rispetto”. Tom sorrise, improvvisamente sollevato: quindi, July lo considerava suo amico e di conseguenza non doveva temere le due piccole ninja. E poi quella cosa di Bill. Si trovò a sospirare e sentì il cuore battere appena più forte. Fece un gran sorriso alle due che si produssero in un buffo versetto simile a un “Kyah!!” e corsero velocemente verso il negozio principale, lasciandolo lì, pronto ad affrontare da solo il duo più buffo di tutta Berlino. Prese un gran respiro e si preparò ad entrare, quando percepì chiaramente degli strani rumori sospetti nella stanza dietro la tenda. Si bloccò, appoggiando l’orecchio alla tenda con delicatezza e poté sentire, chiari come l’acqua di fonte, dei singhiozzi rumorosi che potevano essere di una sola persona. Bill. Il suo Bill stava piangendo! Ma non era forse vietato che gli angeli versassero lacrime? Si trattenne dall’entrare di corsa, la parte ragionevole del suo cervello che gli intimava di rimanere dov’era per non peggiorare ancora la situazione che doveva essere evidentemente molto tesa. Ma che diavolo stava succedendo? Aggrottò le sopracciglia, mentre tentava di capire i discorsi dei due ragazzi dietro quella dannata tenda di velluto pesante.
-E’ tornato, July, è tornato … - piangeva Bill, evidentemente continuando a tirare su col naso. Tom si sentì improvvisamente triste, una tristezza che veniva dal cuore, un qualcosa di archetipico che lo avvolse come una coperta.
-Shh, Bill-chan, non devi piangere. Lui non può farti niente, non può ... – la voce di July appariva tesa come una corda di violino, evidentemente nemmeno lui credeva a ciò che stava dicendo. Brutto segno.
-Sì che può!- la voce di Bill si era alzata di un’ottava – Lo sai com’è, me l’aveva detto che mi avrebbe comunque trovato, è tornato per riscattarmi indietro!
-Come può riscattarti se non sei mai stato suo?
-I triangoli, July-chan. I triangoli. Io sono suo, lo sai anche tu, lui è il mio padrone, io il suo schiavo, non posso …
-Smettila!- Tom, ammutolito dallo sconcerto, intuì che July doveva essersi alzato di scatto – Sei quasi più convinto dello stesso Will! Dannazione, Bill, non sei più suo, te ne sei andato! Devi piantarla di credere che lui sia il tuo padrone, non è possibile che dopo due anni tu lo possa anche solo continuare a concepire. Siete due cose diverse, tu e Will, mettitelo in testa.
Bill si mise definitivamente a piangere forte, singhiozzando.
-Ma Will … io … Tom …
Sentendosi chiamato in causa, il ragazzo drizzò ancora di più le orecchie, cercando di raccapezzarsi con tutte le follie che aveva sentito.
-Ecco, Tom.- la voce di July si era raddolcita – Se vuoi essere di qualcuno, tu sei di Tom e di nessun altro. Chi ami di più, Bill-chan? Tom o Will?
-Tom …
L’interessato si trovò a tirare il fiato.
-Appunto. Ed è un agente dell’Anticrimini. Lui ti può proteggere, Bill.
-No, non può! Nessuno può!- urlò Bill – Non contro il demonio. Will è un diavolo, lo sai, non c’è niente che possa salvarmi dalla sua furia.
-Will è un uomo, non è un diavolo. Sei solo tu a doverti convincere.
-Invece sei tu che devi capire, July! Dovunque io vada, lui mi troverà e mi riporterà indietro, mi farà più male di quanto me n’abbia mai fatto in sei anni. Posso anche nascondermi in carcere, ma nemmeno lì sarò al sicuro. Sono morto, morto per sempre!
Vi fu un momento di silenzio terrificante, quando la voce di July annunciò:
-Puoi anche entrare, Tom-sama.
Tom non se lo fece ripetere ed entrò nella saletta fumosa, barcollante, nauseato da quello che sembrava aver preso forma in quell’orrendo maggio. Non riusciva a credere a quello che aveva sentito.
July, glitterato come al solito, era in piedi, il viso contratto in una smorfia finemente furibonda, mentre Bill era raggomitolato su un divano, arruffato e piangente.
Quando vide entrare Tom, emise un lungo lamento distrutto.
-Ma si può sapere che sta succedendo?- Tom fece vagare lo sguardo prima su Bill e poi su July, per poi ritornare sull’angelo. Era così diverso da come era solito vederlo, un po’ come quando in casa si era messo a piangere dopo aver visto le fotografie. Guardò July, quasi come se aspettasse un gesto che gli desse il permesso di abbracciare quel fagotto sul divano, e vide un impercettibile movimento del capo in assenso. Non sapeva nemmeno lui perché avesse aspettato, comunque si limitò a sedersi e a stringere Bill tra le braccia come se fosse una bambola.
Bill, dal canto suo, continuò a singhiozzare, incapace di pronunciare alcuna parola, stringendosi alla felpa di Tom come se fosse l’unico mezzo per non soffocarsi di pianto, lasciandosi accarezzare i capelli stranamente scompigliati, lasciando il trucco colare sulle guance arrossate.
July li guardava con un’espressione assolutamente indecifrabile sul visino perfetto, congelato in quell’enorme kimono blu con le farfalle ricamate d’oro, come se stesse osservando un quadro che non aveva nulla di interessante ma che anzi, fosse quasi un peso per la vista.
-Fagli bere questo sonnifero, Tom-sama. Lo calmerà.
Tom ricevette in mano una tazzina di finissima porcellana cinese decorata di giallo, contenente un liquido verdognolo, emanante un forte profumo inebriante di ibisco e qualcosa di indecifrabile. Sospirò rumorosamente, facendo controvoglia alzare Bill e sussurrandogli, nel modo più dolce che gli riusciva
-Ehi, piccolo mio, bevi questo.
Bill alzò gli enormi occhi arrossati dal pianto sul viso di Tom, e sembrava così dannatamente fragile e innocente che al rasta venne quasi da piangere. Non sapeva nemmeno lui perché, però sentiva una sorta di magone farsi largo dalle profondità del suo cuore e arrivargli al cervello, fino a pizzicargli gli occhi.
-Cos’è?- lacrime o no, Bill rimaneva comunque di un’inguaribile curiosità.
-Bevilo e basta.
Tom gli diede un bacio sulla fronte e gli portò alle labbra la tazzina. Bill bevve senza commentare, facendo qualche smorfia schifata mente ingoiava la tisana, e pian pianino, nel silenzio religioso che era calato nella stanzetta così simile a quella della volta precedente, Bill sembrò assopirsi dolcemente stretto tra le braccia di Tom.
Il ragazzo non si rese nemmeno conto di quanto tempo passò in quella posizione, immobile nell’attesa che il suo angioletto si addormentasse, la mente talmente vuota da fargli quasi male, consapevole dello sguardo tagliente di July su di sé, il respiro rallentato al massimo, come se fosse sospeso in una specie di dimensione di incoscienza, lontano da tutto e tutti, da solo con Bill e la sua mente stravolta.
-Sta dormendo?- la voce di July lo fece quasi sobbalzare.
Si voltò a osservare il viso addormentato di Bill sul suo grembo, il petto che si alzava regolare, i tratti rilassati nel sonno. Annuì e poi rivolse a July uno sguardo quasi implorante
-Ora mi vorresti spiegare senza indovinelli astrusi che succede? Perché Bill piangeva? Che c’entra Will con lui? Perché è in pericolo?
July sospirò, sedendosi compostamente sul divano dirimpetto al loro, fumando voluttuosamente la sua kiseru, guardandolo con quei grandi occhi contornati di brillantini azzurri.
-Devi capire che ci sono cose che forse avrebbero avuto un loro equilibrio senza che qualcos’altro intervenisse per cambiarle … forse abbiamo solo sbagliato.
-Sbagliato a fare che?- Tom spalancò gli occhi. – July, dannazione, vuoi tentare di essere un po’ più chiaro?! Rispondi semplicemente alla domanda: perché Bill piange!?
-Perché c’è qualcuno che può riscattarlo. Bill è una cosa di proprietà. O meglio, lo era.
-Ti sbagli: Bill non è di nessuno se non di se stesso! Questo è andare contro ai diritti umani.- sbottò Tom, mettendosi le mani tra i dread, cercando di non rompere qualcosa per la rabbia che si stava accumulando dentro di sé.
-I triangoli non tengono conto dei diritti umani. Ma sei occidentale, non mi aspetto che tu capisca questo.
-E allora, se non posso capire, dimmi almeno chi è questo dannatissimo Will. Tutta la gente che me ne ha parlato l’ha dipinto come un demonio.
July sospirò, lisciandosi il kimono, sollevando un leggero cerchio di fumo che roteò nella stanza come una ballerina, e iniziò a raccontare
-Era un segreto, Tom-sama. E i segreti come ben saprai anche tu, non devono mai essere rivelati. Ma questa volta farò una sorta di strappo alla regola, visto che la situazione sta degenerando in maniera piuttosto pericolosa.
Come saprai, Bill è la mia guardia del corpo. Immagino te l’avrà raccontato, no?
Tom annuì e ripensò alla serata splendida che avevano passato. E pensare che era solo la sera prima … sembrava essere passata un’eternità. Accarezzò distrattamente i capelli di Bill, sorridendo impercettibilmente.
-Bene. E ti sei chiesto come sia venuto a conoscenza della mia esistenza?
Tom scosse la testa, imbarazzato. Accidenti, avrebbe dovuto chiederselo in effetti. Stava perdendo troppi colpi, non andava bene.
-Diciamo che mi è stato presentato da Will.
-Cosa?!
-Su, ragiona, Tom-sama. Te lo sei chiesto anche tu, lo sento: come faceva a procurarsi i soldi per gli psicofarmaci se era solo un pittore? Come può possedere una pistola col silenziatore, visto che abbiamo appurato che deve essere lui il serial killer? Come faceva a conoscere così bene tutta la simbologia coreana?
Tom si ritrovò a boccheggiare. In effetti, oramai che aveva capito che il loro S.I. era proprio lui, anche se il movente era ancora sconosciuto, avrebbe dovuto porsi seriamente quelle domande e arrivare da solo alle risposte. Tutti quegli interrogativi che come fantasmi di una vita passata si erano presentati alla sua mente, immediatamente però oscurati da quel sole nero e infernale che era Bill. Lo aveva sviato, per così dire, facendogli perdere il filo dell’indagine che già da solo andava e veniva, come se dovesse tenere un filo in mezzo a un pantano e lui fosse l’alga che si divertiva a tirare sempre più giù il filo, portandolo irrimediabilmente a perdersi e a soffocare nelle sabbia mobili. E lui non aveva fatto nulla per non farsi trascinare giù, al contrario lo aveva anche forse favorito, pronto a sacrificarsi per un angelo divino di cui a stento poteva osservare la luce abbagliante, come un credente che si immola per il proprio dio. E Bill era il suo dio, il suo demonio, la sua luce, la sua ombra. Bill era tutto quello che non aveva mai avuto, e tutto quello che aveva avuto in abbondanza. Bill era semplicemente la persona che si era divorata il suo cuore, come una nuova Tiamat, che si era bevuto i suoi sogni e strafogato con la sua passione. Bill era l’unico che avrebbe potuto dire di aver fatto morire d’amore Tom.
-Ma allora … - Tom alzò lo sguardo su July, come colpito da un’idea particolarmente geniale, tornato di nuovo il Segugio di Berlino – Allora fammi indovinare! Will era anche lui una specie di mercenario, o come vogliamo chiamarlo, insomma qualcuno invischiato in traffici mondiali particolarmente grossi e bollenti. Evidentemente aveva avuto a che fare con te per qualche questione importante, e allora dovevate essere abbastanza in confidenza, così a un certo punto anche se non riesco a immaginare il motivo, ti ha portato Bill. E poi, lui è diventato la tua guardia del corpo come June e May. Un po’ come un matrimonio antico, sancito però dal fattore protezione. Magari per mantenere buoni e fruttuosi i rapporti tra te e lui, ti ha dato il suo fidanzato come protezione speciale e tu in cambio avresti potuto fare qualcosa per lui nei vari traffici che conducevate. Correggimi se sbaglio.
July sorrise, un sorriso sardonico e misterioso, lasciandosi avvolgere dal fumo azzurrino della kiseru. Si alzò e si avvicinò a Tom, accarezzandogli una guancia con quella manina calda dalle lunghissime unghie smaltate di verde foglia con grossi brillantini incastonati. Il rasta venne catturato da quelle iridi simili a perle maledette, sentendo un fastidioso brivido lungo la spina dorsale. Qualcosa di sbagliato ma allo stesso tempo magico. Bill si mosse un po’ nel sonno, interrompendo il loro gioco di sguardi e facendolo ritrarre quasi di scatto.
-Vedo che hai cominciato a ragionare.- July sembrava soddisfatto – Hai detto il vero: Will era uno dei miei goyang-y chaeneol. Tradotto, sarebbe “gatti dei canali”. Sono quegli uomini, o quelle donne, particolarmente astuti, scaltri, senza scrupoli, che formano la mia milizia privata, se così posso dirlo. Sono i miei inviati in giro per il mondo, quelli che fanno molte trattative al mio posto in determinati casi.
-I tuoi scagnozzi, detta brutalmente- semplificò Tom, trovandosi decisamente a disagio a parlare così tranquillamente con lo Scorpione di intenti criminali. Lui, l’integerrimo agente. Com’era caduto in basso.
-No, Tom-sama. I miei gattini. C’è differenza.- July fece una mezza giravolta e tornò a raccontare, guardando con aria quasi sognante un arazzo coreano della prima dinastia – Vedi, Will era uno dei migliori, anzi il migliore. Intelligente, sveglio, bastardo quanto bastava per poterlo mandare anche in un covo di serpi sicuro che ne sarebbe uscito non solo vivo, ma anche vincitore. Quel tipo di persona di cui non ti puoi fidare nemmeno volendolo, volubile, cattivo. Potrei anche dirti che era semplicemente malvagio nel cuore, avvelenato nell’animo.
-Non capisco cosa c’entri con Bill, però.
-Lasciami spiegare. Ho detto che ti avrei dovuto raccontare tutta la storia, quindi ascoltami senza parlare. Proprio perché non mi fidavo minimamente di Will, e lui non si fidava di me ovviamente, decisi di legarlo a me in modo da poterlo sempre avere sotto controllo. Quindi, sapendo che aveva un fidanzato, me lo feci portare e lo studiai per bene. All’epoca Bill aveva sedici anni, era poco più di un anno che stavano insieme. Bill era così innocente all’epoca, completamente plasmato da Will, sembrava una bambola di porcellana in attesa di rompersi in mille pezzi. Però decisi che faceva al caso mio; troppo infantile per poter realizzare qualcosa di malvagio contro di me, troppo intelligente per essere sprecato, e troppo bello per non averlo attorno. Lo feci diventare la mia guardia del corpo, dopo una serie di allenamenti e studi. Così, attraverso di lui, avrei tenuto sotto controllo Will. Erano legati come una collana, quei due. Passarono gli anni, e io e Bill diventammo ottimi amici come hai potuto vedere. Lui è cambiato molto, hai visto come si è trasformato soprattutto in questi due anni in cui è stato disintossicato da Will.
-Aspetta un attimo- interruppe Tom, che non ci stava capendo più nulla – Ma perché prima non mi parlavi quasi e ora mi stai raccontando tutto ciò?
-Perché è successa una cosa imprevista, Tom-sama. Una cosa che forse neppure io sarò in grado di contrastare. Ed è ora di calare le maschere una volta per tutte.
Tom annuì, e fece cenno a July di continuare quello straordinario racconto che avrebbe fatto invidia a un film di 007.
-Tornando a prima, riuscii a studiare il rapporto malato che legava Will e Bill. E ammetto che non mi piaceva; era qualcosa di irrimediabilmente perverso, anche per uno come me. Però non feci nulla.
-E perché?- Tom si mordicchiò nervosamente il piercing all’angolo del labbro, facendolo quasi sanguinare.
-Perché non erano affari miei. Non mi intrometto nelle questioni che non mi riguardano, per principio. Comunque, siccome cominciavo ad affezionarmi al piccolo Bill, cominciai a indagare a fondo sulla loro vita privata e a vedere di quanto squilibrio e crudeltà fosse fatto il loro “amore”. Iniziai a fare qualcosa per convincerlo a mollare Will, ma non ve ne era verso.
-Ma perché?!- ripeté Tom, lanciando un’occhiata disperata al suo angelo addormentato.
-Il carisma, prima di tutto. Il fascino innegabile che aveva. Il carattere così forte, in contrapposizione a quello debole di Bill.
-Bill non è debole!- puntualizzò Tom, sentendosi offeso nell’orgoglio. Se Bill era debole, lui cos’era?
-Non dire cose che non sai.- July lo fulminò – Bill-chan è debole di carattere, non è capace a ragionare di testa propria, non sa fare le cose da solo. Può sembrarti forte, non lo nego, ma è fragilissimo. Al primo vento, stai certo che Bill-chan  si distrugge. È malleabile, plasmabile. Sarà tutto quello che vuoi, ma non ha carattere.
Comunque, dipendeva in tutto e per tutto da Will. E ci ho messo troppo a fargli capire che lo stava semplicemente torturando psicologicamente fisicamente.
-Mi hanno detto che era violento … che … - Tom sentì le parola morirgli in gola – Che lo picchiava …? Ma allora perché non reagiva? Puoi essere debole quanto vuoi, ma se uno ti mena a un certo punto ti renderai pure conto che c’è qualcosa che non va.
-Sì, ma il punto è che Bill era convinto di meritarsi le botte.
Tom rischiò di soffocarsi lì sul momento. Ma in che razza di incubo era finito?
-Tu non sai cosa vuol dire essere deboli, Tom-sama. Lo hai appena dimostrato.
 

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Capitolo 15
*** Insieme ce la faremo ***


CAPITOLO QUINDICI: INSIEME CE LA FAREMO

-Hai capito, tutto? Ricordati di sorridere, di non parlare se non ti interpella, e di rimanere immobile.
Lui lo stava tenendo a braccetto, sogghignando in maniera oltremodo inquietante, la treccia tenuta su un lato che riluceva alla luce della luna. Era così bello … il ragazzino si limitò ad annuire e a passarsi una mano tra i capelli accuratamente lisciati per l’occasione.
-Certo, Will. Farò tutto quello che vuoi.
-Bravo, tesoro. E non farmi fare brutta figura: July si aspetta molto da te.
Annuì ancora, sorridendo entusiasta, guardando la sua mise piena di lustrini neri e di gioielli di giada. Era così felice, la prima volta che lo portava in un ambiente così speciale. Si strinse meglio a lui, facendosi trascinare in una sala piuttosto piccola, illuminata con un grande candelabro di ottone e terribilmente calda. Davanti a loro, seduto su un divano verde, sedeva un ragazzo orientale, vestito completamente di lustrini, con i capelli blu elettrico e il viso completamente truccato come una bambola. Ai suoi lati, due ragazze anch’esse orientali, abbigliate di nero, congelate nell’attimo. Lui si inchinò, spingendolo a fare altrettanto.
-Buonasera, July. Buonasera, June e May. Vi ho portato Bill, come richiesto.
L’uomo chiamato July batté le manine entusiasta, alzandosi e sorridendo sardonicamente.
-Will, caro. Come sei stato gentile.- poi si girò verso di lui, sfarfallando le ciglia ricoperte di stelline dorate – E così tu saresti Bill … io sono July. Piacere.
Gli porse la mano e Bill gliela strinse, arrossendo vistosamente. Non era abituato a vedere gente di quel tipo. In realtà, non era abituato a rapportarsi con nessuno che non fosse la sua vicina di casa prima e Will ora.
-Su, tesoro, presentati.- lui stranamente gli sorrise quasi dolcemente, pungolandogli la spalla.
-Sono Bill, piacere mio.
Arrossì ancora un po’, stringendosi a Will, imbarazzato da quelle inquietanti persone che lo fissavano come fosse un fenomeno da baraccone.
-Quanti anni hai, caro?- July si alzò sulle punte dei piedi, e gli accarezzò il viso.
-Sedici.- Bill si lasciò accarezzare controvoglia.
July alzò un sopracciglio perfettamente disegnato, guardando prima Will e poi Bill, con un’espressione vagamente divertita.
-Sedici, diciannove … precoci, ragazzi miei. Forse troppo?
-Oh no!- strillò Bill, sorridendo a trentadue denti, dimenticandosi completamente del non dover parlare se non interpellato – Io e Will siamo una coppia bellissima!
-Stai zitto, Bill. Ti avevo detto di non parlare.
Gli bastò un occhiata gelida da parte sua per zittirsi immediatamente, abbassando lo sguardo. Aveva sbagliato. Di nuovo. Ma perché?
-No, Will. Lascialo stare; mi è simpatico.- July sorrise, facendogli segno di sedersi sul divano. Ed era la prima volta che vide Will obbedire a qualcuno.
 
Tom si grattò il collo, guardando July con aria triste, per poi guardare il suo angelo addormentato stretto a lui.
-Che situazione del cazzo … ma perché proprio lui?- fu l’unica cosa che riuscì a sussurrare, intrecciando le proprie dita con alcune ciocche dei capelli corvini di Bill.
-Esiste qualcosa chiamato Destino, Tom-sama. E il destino di Bill era trovare prima Will e poi te. La grazia esiste per tutti, anche per i perduti.
July aspirò un po’ di fumo dalla kiseru e tornò a sedersi, accavallando le gambe.
-Ora quindi mi puoi spiegare che è successo di così grave per farlo piangere?
-Leggi questa, e forse te ne renderai conto da solo.
Tom ricevette in mano un foglio di carta da lettera, accuratamente scritto con una calligrafia fine e spigolosa, piena di arzigogoli. La carta era spiegazzata, con alcune macchie nerastre, che il rasta poté intuire fossero le lacrime truccate del suo Bill che erano scese sulla carta durante la lettura. Prese un profondo sospiro, e iniziò a leggere quel dannato pezzo di carta:
Mio caro, dolce Bill,
per una serie di fortunate coincidenze sono tornato a Berlino.
Ti sono mancato, in questi due anni? Tu sì, come potrai immaginare.
A parte comunque questi inutili convenevoli di facciata,
cosa mi puoi dire di quel ragazzo?
Pensi forse che non ti abbia visto?
Dolce, illuso: io so tutto tesoro mio. Tutto quello che ti riguarda.
Si chiama Tom, quella specie di rasta idiota che ti sei trovato, no?
Pensavo avessi un gusto più raffinato. Vi ho seguiti, vi ho ascoltati.
Patetici, mio caro, patetici. Sia tu che lui.
Non ti ricordi più quello che ti avevo insegnato “Non esistono
sogni, credenze, e nemmeno dei. Esiste solo la meschinità,
la caparbietà e la cattiveria che tutti noi abbiamo dentro”.
E ora guardati, guardati Bill. Incastrato con un ragazzino
che vive nel suo mondo fatto di sogni, che magari
pensa anche di poterti sposare, di poter vivere con te per sempre.
E sono certo che tu gli avrai dato corda, che magari gli hai anche creduto.
Tu dovevi sposare me, te lo ricordi almeno questo?
Tu hai mai pensato a tutto il dolore che posso aver
provato dopo che ho scoperto che te ne sei andato?
Sono tornato a casa da quello stramaledetto ospedale, sfigurato
per l’eternità, e tu dopo pochi giorni scompari per sempre?
Sei un bastardo ingrato. Ti sei lasciato
corrompere da July, hai permesso che rovinasse noi.
Ti sei dimenticato proprio tutto? Io no.
Mi ricordo anche la più piccola imperfezione della tua pelle,
mi ricordo tutto di te, sei l’unica cosa che non potrò mai cancellare.
Non hai più pensato alla mia situazione, come può essere
peggiorata nel tempo? Sono distrutto, Bill. Avevi paura,
paura delle mie ustioni inguaribili? Paura di dormire con un mostro?
Paura che ti rovinassi ancora?
Comunque sono tornato, tesoro mio. Sono tornato e ti riporterò indietro.
Pensavi che ti avrei lasciato nelle braccia del tuo Tom? Che vi avrei
lasciati in pace? Sono il tuo padrone, Bill, non dimenticarlo.
Posso riscattarti quando voglio e tu non puoi fare nulla.
Ti vengo a prendere, tesoro, e lo sai che non puoi scappare.
Il tuo Will.
 
Tom si ritrovò a dover leggere la lettera circa tre volte prima di potersi anche solo capacitarsi della follia del mittente. E così li seguiva. Sapeva anche chi era. Nessuno era più al sicuro lì dentro, nemmeno lui stesso. Si ricordò la figura che gli era sembrato di intravedere la sera in cui era stato al Bite Vampire: e se non se la fosse sognata? E se allora fosse stato veramente il loro serial killer? Non ci poteva quasi credere di essere stato seguito, spiato, controllato da un pazzo. E poi che diavolo, come osava anche solo pensare certe cose … nemmeno che Bill fosse un giocattolo. Una bambola di pezza. Gli girò la testa, mentre alzava lo sguardo pieno di rabbia e qualche lacrima sul viso apatico di July.
-Hai capito adesso?- chiese il coreano, lisciandosi ancora in un gesto quasi ossessivo il kimono. Quella calma affettata fece infuriare Tom, come mai prima di allora.
-Capito?! Capito?! Ma che cazzo, July, ma ti rendi conto della follia di questo pazzo? E smettila di guardarmi come se fossi solo un bambino che gioca con i Lego, perché non lo sono, dannazione, non lo sono! So come devo comportarmi, sarò occidentale e tutto quello che cazzo vuoi, ma non sono così deficiente!
Si alzò di scatto, lasciando il viso di Bill ciondolare mollemente sul divano, mentre si mise a gesticolare e a girare nervosamente per quella stanza fattasi improvvisamente bollente e piccolissima.
-Non ho detto questo. E non ho mai dubitato della tua intelligenza. Comunque, vediamo, cosa penseresti di fare ora?- July sospirò tranquillo, versandosi del the verde in una delicata tazzina di porcellana.
-Io … io … - Tom si ritrovò a boccheggiare, le mani nei capelli, la faccia stravolta e allucinata – Non lo so, va bene, non lo so! Però Bill è in pericolo. E so che è mio dovere proteggerlo sino in fondo. Quindi … potrei metterlo sotto protezione!
-Sotto protezione? Tu?- July alzò un sopracciglio sarcastico.
-Senti, lo so che il Distretto Dieci non sarà una garanzia, ma proprio così scassi non lo siamo. Potrei convincere i miei colleghi ad aiutarmi sinché non catturiamo Will a fargli tipo protezione armata. Lo hai detto anche tu prima a Bill, che io avrei potuto proteggerlo in quanto agente!- Tom si sentì stranamente esaltato, un misto di rabbia, sconcerto, eccitazione, un qualcosa di altamente distruttivo gli impregnava il cuore, l’anima, la pelle, rendendolo una bomba sul perenne punto di detonare.
-Lascia perdere, Tom-sama. Lo avevo detto solo per calmarlo. Non dimenticarti che Will era uno dei miei gattini; per lui quattro agenti dell’Anticrimine tedesca non sono nulla. Non sottovalutarlo mai, ti prego. Non fare l’errore che ho fatto anche io e che ha portato a questo.- in quel momento a Tom July parve come invecchiato di moltissimi anni. Sotto il trucco pesante si intravedevano delle rughe stanche, come le occhiaie sotto gli occhi accuratamente mascherate dai brillantini; tutto il suo essere sembrava essersi afflosciato come una marionetta.
-E allora me lo porto a casa.- Tom incrociò le braccia al petto – Lo tengo con me. Sarà al sicuro, e poi Claudia è una campionessa di arti marziali russe e krav maga. E anche Kalle e Raghnild se la cavano.
-Evita di portarti i demoni in casa, e di mettere in pericolo i tuoi amici.
-E allora cosa proponi?- Tom si lasciò cadere di nuovo vicino al suo angelo dormiente – Anzi, perché non lo proteggi tu? Insomma, con te non dovrebbe essere al sicuro?
-L’avrei già fatto, non credi?- July lo fulminò e fu come se tutte le rughe e i fantasmi di un’età fossero passati in un secondo – Con me è ancora più a rischio.
Tom si passò le mani sul viso, respirando rumorosamente.
-Va bene. Ho capito, Bill è in una posizione assolutamente pericolosa e pare quasi impossibile salvarlo in qualche modo. Ma ora la mia domanda è: se Will vuole il mio Bill – il rasta si premurò di calcare per bene sul “il mio Bill” – perché avrebbe dovuto ammazzare tutti quegli innocenti, e in quei modi orrendi? Non bastava farlo tornare di nuovo suo schiavo e portarlo via dalla Germania?
-Non so risponderti, Tom-sama. Me lo sto chiedendo anche io, ma finora non sono giunto a nessuna conclusione plausibile.- July alzò le spalle.
-E allora è un bel casino. Però tu, come mai non puoi fermarlo? Insomma, eri il suo capo. Non puoi cercare di farlo fuori?- disse Tom, grattandosi la testa.
-Come si vede che sei un agente.- July sogghignò – Nessuno tocca i jejag doen inkgeu. Comunque, queste sono sottigliezze del nostro sistema che non concernono il nostro problema. Sappi solo che è come se avessero un Marchio di Caino.
Un gemito prolungato interruppe la risposta di Tom sul nascere. Bill si stava svegliando.
-E ora devi sbrigartela da te con il nostro Bill-chan. Non lasciare che le vostre stesse ceneri vi seppelliscano.
Con questa frase sibillina, July scomparve nel fumo azzurro della kiseru, e nuovamente Tom si chiese dove diavolo passasse, per nebulizzarsi via con quella velocità inquietante e rapidissima.
Si voltò verso Bill, che cominciava a stiracchiarsi come un gatto intento a fare le fusa sul divano, sentendo un groppo in gola e un terribile mal di testa. Quanto avrebbe voluto dormire, nascondersi nel buco di Alice e cancellare tutte quelle cose dalla sua testa pesante e sconvolta.
Bill nel frattempo aveva aperto gli occhi, ancora leggermente arrossati da tutte le lacrime che doveva aver versato, la bocca contratta in una smorfia con i rimasugli di rossetto sbavato e il trucco simile a quello di un piccolo e indifeso Pierrot.
-Ehi, Bill … - Tom fece un sorriso stanco, sedendosi ai piedi del divano e posando una mano su quella del angelo, fredda come quella di un morto.
-To … Tom … - il ragazzo cercò di sopprimere un singhiozzo, nascondendo il viso nel cuscino, facendosi schermo con le braccia, come se si vergognasse troppo per guardarlo in faccia.
-Non piangere, piccolo, va tutto bene.- sussurrò il rasta, accarezzandogli i capelli.
-Non va tutto bene.- pigolò Bill da sotto cuscino, capelli e braccia.
Tom sospirò rumorosamente di nuovo, avvicinandosi ancora al divano e posò la testa di fianco a quella dell’angelo, soffiandogli nei capelli l’ombra di un bacio.
-Mi guardi o vuoi tenere il muso per sempre?- gli solleticò la schiena, cercando di ottenere una piccola reazione.
-Io non ti merito.- Bill si raggomitolò ancora di più su se stesso, cominciando di nuovo a piagnucolare, stringendosi il cuscino sulla testa.
-Tu mi meriti più di tutti, Bill. Non dirlo nemmeno per scherzo!- scattò Tom, riuscendo a tirargli su il viso sconvolto dal pianto e rosso come un pomodoro. No, quello non era pronto ad accettarlo! Lui e Bill dovevano diventare un “noi”, che diavolo, e entrambi si meritavano più di qualunque persona al mondo. Loro erano due anime che insieme facevano combaciare perfettamente lo specchio; per loro non esisteva “il futuro di Tom e quello di Bill”. No, per loro esisteva “il nostro futuro, quello di Tom&Bill”. Non poteva mandare tutto al diavolo a quel modo: non ora che si erano finalmente trovati, in un mare di anime sconosciute e scorrette.
-Non è vero!- lo strillo di Bill riverberò tra le pareti, insieme alle sue lacrime che scorrevano incessanti sulle dita di Tom – Io non merito una persona perfetta come lo sei tu. Ti prego Tom, lasciami andare. Dimenticami. Seppelliscimi nel tuo cuore come una sbandata giovanile e rifatti una vita! Non puoi amarmi, Tom, non ti rovinare così, sono solo un assassino, una puttana, un inconcludente, una persona debole e senza carattere! Non sono niente di bello, sono solo una bambola fatta di sangue altrui e violenze che tu non puoi nemmeno immaginare!
-E non me ne frega un cazzo!- Tom si meravigliò da solo per aver alzato così la voce, ma si sentiva troppo arrabbiato in quel momento per poter anche solo permettersi il lusso di ragionare lucidamente – Puoi anche essere un assassino, una puttana, un inconcludente, che a me non importa. Ti ho trovato una sera per caso, solo perché mi ero attardato in ufficio, e mi sono innamorato di te appena ti ho messo gli occhi sopra. E non mi sono innamorato del tuo viso perfetto, del tuo culo da favola, dell’aura maledetta che ti grava addosso, del tuo sorriso malizioso. Il Bill che ho amato quasi da subito non è stato quello orgoglioso, lussurioso, peccaminoso. No, il Bill che mi ha semplicemente lasciato di stucco è quello che hai dentro le tue pupille, chiaro come la luce del sole. È il Bill tenero, quello che mi imbocca perché non sono ancora in grado di mangiare da solo, quello che mi abbraccia appena mi vede, quello che affonda il naso nel mazzo di fiori più male assortito del pianeta, che io ho amato da subito. Il primo Bill che ho letto nei tuoi occhi.
A quel punto mollò la presa dal viso del suo angelico demonio, e sentì delle lacrime di fuoco rigargli gli occhi. Eppure lui non avrebbe dovuto piangere, non adesso, doveva mostrarsi forte per qualcuno che non lo era. Doveva farsi coraggio per qualcuno che l’aveva perso.
Bill continuava a piangere, un pianto liberatorio, di sfogo per qualcosa che aveva tenuto dentro troppo tempo.
-Io non voglio farti del male, Tom. Non voglio, perché penso di amarti. Ma per favore, renditi conto del casino in cui sono finito: sto per morire!
-Non stai per morire, Bill, porca troia, lo vuoi capire!? Finché io sarò a questo mondo, quel bastardo non ti toccherà più nemmeno con un dito. Sei solo tu che devi convincerti. Cosa devo dire per fartelo capire?
Tom era esasperato mentre seguiva i movimenti incontrollati ma comunque sinuosi di Bill in giro per la stanza, i capelli che ondeggiavano sulle spalle, le collane e i bracciali che cozzavano tra loro come campane tibetane.
-Il fatto è che non sono nemmeno sicuro di quello che voglio, ok?
-Come sarebbe a dire? Che sei indeciso tra lui e me? Tra una specie di mostro e un deficiente? Complimenti, Bill, vedo che hai delle ottime scelte.
Tom sentì immediatamente le lacrime asciugarglisi sul viso, come se fosse stato appena picchiato a sangue da mani invisibili. Era così allora? Lui, che aveva dato tutto, la sua mente, il suo corpo, tra un po’ avrebbe rischiato il posto al commissariato per tutti i casini che stava combinando solo per vederlo, lui che aveva pensato di aver finalmente trovato l’unico uomo degno di prendersi il suo cuore, che si era completamente dimenticato del resto per il suo amore, con cosa veniva ripagato? Con indecisione? Ma verso cosa? Il rasta si sentì punto al cuore, smontato pezzettino per pezzettino, e la coscienza tornò a farsi sentire “Te lo avevo detto, Tom: tu non vali nulla. Nemmeno lui ti vuole. A nessuno frega niente dei tuoi patemi mentali e delle tu voci in testa. Sei solo, Tom. Come lo sei sempre stato”. Ma lui non voleva più restare solo: voleva solo essere amato da qualcuno che non fossero i suoi amici. Aveva solo bisogno di amore.
-Tu non mi puoi capire!- Bill lo afferrò per la manica della felpa enorme e se lo tirò vicino. Tom avrebbe tanto voluto scostarsi, ma la presa ferrea del ragazzo gli impediva di farlo, costringendolo ad ascoltare – Non lo puoi capire, perché hai avuto una famiglia che ti ha cresciuto, una casa dove poter tornare ogni notte, degli amici che ti hanno voluto bene e che ti aiutano ad affrontare le difficoltà, una vita normale che ha avuto il suo corso tranquillo e regolare. Quindi non venirmi a dire che capisci me, perché non puoi! Non puoi, perché io non ho mai avuto altro che una vecchia zia che a stento sapeva il mio nome, non ho mai avuto una casa che sia stata degna di essere chiamata così, non ho mai avuto il minimo stralcio d’amico. Quando hai perso la verginità, Tom? Eh, dai, dimmelo!
Tom rimase boccheggiante di fronte alla faccia distorta dalla furia, dal pianto e dal dolore del suo angelo, che ora sembrava l’esatta reincarnazione di uno dei famosi angeli cacciati dal Paradiso. Si ritrovò a sussurrare con voce strozzata
-Diciotto anni …
-Appunto! Io ne avevo dodici, ok? E fammi indovinare, magari sarai andato a letto con un ragazzo che ti piaceva, oppure una ragazza, non lo so. Bene, io mi sono venduto a un tizio che la parola osceno è un eufemismo, solo per pagare quel dannato affitto di quel buco di casa. Primo esperimento del sesso per il sottoscritto. E fammi indovinare, tu non avrai mai ucciso nessuno, no? Io ho ucciso il mio primo uomo che avevo sedici anni! Ti sembra di potermi capire, Tom?!
-Io non ho detto di capirti! Ho solo detto che mi sembra assurdo …
Tom non fece nemmeno in tempo a finire la frase, che subito Bill lo interruppe urlando, aggrappandosi alla sua felpa come fosse una roccia.
-E quindi, quando hai vissuto un’infanzia inesistente, perché tu non sai cosa vuol dire non essere mai stato bambino, mi sembra logico che puoi vedere un angelo anche dove si annidano demoni di ogni sorta. Beh, diciamola così Tom: lui mi ha salvato la vita, prima di tutto. Mi ha portato con lui in una casa decente, mi ha fatto sentire amato, mi ha cresciuto, mi ha insegnato tutto quello che non avevo mai imparato in quasi quindici anni di vita. Se non fosse per lui, io sarei già morto da anni! Quindi, scusa se a questo punto, per quando ammetto che mi abbia rovinato, che mi abbia picchiato, che mi abbia distrutto, sono ancorato a colui che mi ha fatto diventare quello che sono. È stato come un fratello maggiore, un migliore amico, un fidanzato, un padrone, è stato tutto quello che non ho mai avuto in vita mia. Non ti sto dicendo che lo amo, ma ti sto dicendo che il rapporto che ci lega non è facile da spezzare. E ti ho appena spiegato perché.
A quel punto Tom si sentì semplicemente svuotato da tutto. Gli aveva appena raccontato la sua vita, e lui non avrebbe potuto far nulla per cambiare il passato. Ma forse avrebbe potuto cambiare il presente per tenere in piedi un futuro che potesse reggere, per entrambi. Lui non voleva rinunciare a Bill, voleva il meglio per il suo angelo. Voleva essere in qualche modo all’altezza di Will, voleva salvarlo da se stesso ancora una volta. Ma invece che tirarlo su e poi distruggerlo, lo avrebbe tirato su e poi se lo sarebbe legato alla vita e non l’avrebbe mai più lasciato andare. Si limitò a stringerlo tra le braccia, e sentì il corpo di Bill tendersi e poi cominciare a rilassarsi, schiacciandosi contro il suo petto.
-Bill, io … voglio solo salvarti.
-Come puoi salvare una persona che si è uccisa da sola, Tom?- Bill alzò lo sguardo, inchiodandogli quegli occhi nerissimi e arrossati, rovinati e stanchi con quelli di Tom.
-Perché io ti amo. E lo so che potrà sembrare una cosa banale, da quelle sullo stile dei Baci Perugina, ma non mi interessa. Ti amo, Bill. Ti amo quando ridi, ti amo quando piangi, ti amo quando urli, ti amo quando mi chiami “gattino”, ti amo quando balli, ti amo quando ti vesti in quei modi assurdi, ti amo quando ti diverti a prendermi in giro, ti amo quando mi racconti aneddoti della tua vita, ti amo quando facciamo l’amore, ti amo quando mi baci, ti amo quando dormi, ti amo quando ti arrabbi, ti amo quando ti autodistruggi, ti amo quando mi tiri su di morale, ti amo quando se mi punti le tue pistole e i tuoi coltelli alla gola, ti amo quando sei dolce, ti amo quando sei malizioso, ti amo e basta. Ti amo per come sei, per come ti comporti. E questa volta sei tu che ti sbagli, Bill: perché io posso salvare la persona che si è uccisa da sola. Lo posso fare perché la amo più della mia stessa vita. Lo posso fare perché so che il mio amore per te è più forte di qualunque altra cosa.
Tom tirò il fiato quando finì quel discorso, il più lungo, romantico, appassionato, vero discorso che avesse mai fatto nella sua intera vita. E a quel punto si sentì completo: aveva fatto a capire al suo angelo tutto quello che provava per lui, non rimaneva che affidarsi a qualcuno lassù in cima per far sì che non avesse rovinato tutto un’altra volta. Si sentiva felice, comunque. Felice perché sentiva che qualcosa aveva smosso nel cuore dell’altro.
Gli bastò solo un secondo fatto di occhi incrociati e tutte le parole dette che ballavano tra di loro come impazzite. Gli bastò solo uno sguardo carico di tutto quello che erano loro due insieme.
E poi, semplicemente, forse anche troppo, Bill si alzò sulle punte dei piedini nudi e posò il primo, dolcissimo, bacio sulle labbra di Tom, circondandogli il collo con le braccia. Il primo bacio carico di dolcezza e di sentimento, senza la minima passione divoratrice che li aveva scavati dal loro primo incontro. Il primo bacio da innamorati come si deve, il primo bacio per qualcosa di molto grosso. E un sussurro a fior di labbra, come un altro passetto per la loro casa di nuvole
-Ti amo, Tom. Ti amo davvero, e ti credo. Ti credo, amore mio, ce la faremo.
 
****
Ciao ragazze, volevo solo dirvi che tra circa quattro capitoli la storia si concluderà. Mi dispiace se questo capitolo fa schifo, ma stavo sentendo canzoni allegre come Run Run Run e Invaded e così mi sono lasciata andare a ste scene orrende.Chiedo venia! Vi ringrazio un sacco tutte, baciiiiiii
Charlie.
P:S: quanto sono belle le due canzoni citate sopra?

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Capitolo 16
*** La Regina sarà tua ***


CAPITOLO SEDICI: LA REGINA SARA’ TUA

-Dammi la morfina.
Bill alzò timidamente lo sguardo su di lui, smettendo di riordinare i libri nello scaffale. Lo guardò, seduto per terra con un pennello in mano e una grande tela davanti, gli acrilici che brillavano sul bianco mettendo in risalto un suo ritratto intento a mordere una mela grondante sangue, coricato sul letto con la testa ciondoloni e una strana espressione perversa. Sospirò, arrischiandosi a dire
-Ma il dottore ha detto che non devi prenderne tanta. La dose della mattina è sufficiente.
Lui si girò, gli occhi fiammeggianti e Bill fece fatica a non mettersi a piangere a causa di una sorta di terrore misto a depressione nel vedere il viso che tanto amava sfigurato da una bruttissima ustione che gli scavava dentro come un fuoco che continuava a bruciare. Percorse con gli occhi il torso bruciato, con pezzi di pelle trapiantata e alcuni lembi quasi incartapecoriti, le mani sottili rimesse a posto da qualche operazione di chirurgia plastica di urgenza, giusto per non tagliargliele del tutto. Gemette, quando lui ringhiò
-Ti ho detto di darmela. Ora.
-Però Will, io …
-Dammi quella stradannatissima morfina!
Bill si irrigidì di colpo, perché quelle poche volte che lui alzava la voce veramente, stringendo i pugni, allora sì che era in guai seri. Sarebbero arrivate le torture. Tante, brutte torture. E Bill non voleva che gli facesse di nuovo male, ne aveva abbastanza. Corse in bagno, afferrando quante più scatolette di pastiglie poteva e gliele portò, gli occhi gonfi di lacrime che tentava di trattenere a stento. Lui cominciò a ingoiare una dietro l’altra piccole pillole bianche, fissandolo con quei suoi occhi talmente azzurri da sembrare bianchi. Mentre Bill si sentiva male dentro, a vedere il suo peggioramento, la sua caduta in una china senza possibilità di risalita. Una china dettata dal dolore, dalla depressione, dalle stesse medicine, da tutto l’insieme di elementi che si erano succeduti in quei mesi. Una china che lo portava ad essere ancora più spietato e violento; e a pagarne le conseguenze, alla fine, era sempre Bill che tentava di nascondere i tagli e i lividi con quintali di trucco. Forse avrebbe dovuto prendere seriamente in considerazione i discorsi di July e tagliare i ponti. Ma poi come avrebbe fatto senza Will? Chi avrebbe mai potuto essere così pazzo e così unico da prenderlo con sé? No, era sicuro che nessuno, una volta andatosene, lo avrebbe preso sotto la sua ala protettrice. E Dio solo sapeva quanto avesse bisogno di un uomo che lo comandasse a bacchetta.
 
-Mio Dio Tom, vuoi proprio farmi venire il diabete, eh?- borbottò Gustav, non appena il collega ebbe finito tutto il panegirico che era accaduto nel negozio, costellato da vari urletti soffocati di Heike e Claudia, occhi impressionati di Georg e Raghnild, frecciatine di Kalle per una volta senza allusioni sconce, e smorfie orrende di Gustav.
-Gustav, razza di cafone, scusati subito!- strillò Heike, mentre Claudia gli tirava un sonoro coppino sul collo.
-A questo punto non posso che chiederti: a quando le nozze?- Georg assunse un’espressione a metà tra il divertito e il serio e compassato.
-Vero! Posso farti da testimone?!- ululò Kalle.
-E noi da damigelle!- aggiunsero le tre ragazze elettrizzate.
-Le hai già comprate le fedi?- continuò Georg.
-E la luna di miele? Dove la fate?- Raghnild lo scosse per i gomiti, visto che più in su non arrivava.
-E in che chiesa celebrate? Santa Winifred?- Heike, evidentemente rassegnatasi all’idea che il suo principe azzurro fosse palesemente, evidentemente, senza ombra di dubbio, dell’altra sponda, si era trovata trascinata in quella girandola di discussioni. Dopo che i G&G l’avevano messa al corrente di tutta la scottante vicenda, si era sentita in dovere di spalleggiare la sua vecchia anche se mai spenta fiamma. Però, sinceramente, cosa ci trovava negli uomini quel cretino di Tom?
-I vestiti li avete già ordinati? Tu ti metti lo smoking vero?- insisté Claudia.
-E Bill il vestito bianco con lo strascico lungo tre metri con bouquet di rose bianche, proprio da checca fino all’ultimo?- esclamò Kalle.
-Comunque, il pranzo dove lo fate? Posso consigliarti qualche posticino carino dove si mangia da Dio e si spende poco, anche se non mi pare che il tuo promesso abbia problemi di soldi.- proseguì Gustav, fregandosi le mani.
Tom li guardò sconcertato, uno per uno, aprendo e chiudendo la bocca più volte per poi urlare, paonazzo
-Ma si può sapere chi cazzo vi ha messo in testa questa idea cretina?!
-Il tuo racconto, no? Sembrate quelle coppie inossidabili stile Danielle Steele.- fu la risposta corale che il rasta ricevette.
Sbuffò esasperato, sentendo però scaldarsi un angolino di cuore. I suoi amici continuavano a non rendersi conto della gravità della situazione e forse, però, anche quello era un bene: come dire, qualcuno che sdrammatizzasse ci voleva. E poi, in effetti, non sarebbe stata una brutta idea quella del matrimonio … anzi, in realtà ci aveva che già pensato un milione e mezzo di volte, ma ogni volta sorgeva la Grande Domanda: come diavolo faccio a dargli l’anello? Ci aveva anche provato davanti allo specchio, ma ogni volta si impappinava, cadeva nel tentativo di tenersi su un solo ginocchio, ci metteva mezz’ora a tirar fuori l’anellino di plastica di Raghnild che usava per le prove, e tanti altri piccoli inconvenienti. Certamente l’appoggio appena dimostrato dai suoi amici lo avrebbe caricato ancora di più al momento della Grande Domanda, ma non era ancora sicuro della reazione tecnica di Bill. Cioè, lui confidava in “Sì, Tom, lo voglio” con tanto di abbraccio appassionato e lacrime di gioia (va bene, va bene: vedeva troppi film romantici), ma qualcosa gli diceva che non sarebbe andata proprio così. Già si immaginava un deprimente sorriso tirato e un finto “Ehm, Toooom, non ti sembra un po’ presto?” oppure un annoiato “Tommuccio, sei un pessimo attore, te l’hanno mai detto?”. E non pensava di poter reggere una simile reazione; subito la coscienza gli diede del pavido inconcludente e il ragazzo, per zittire le sue antipatiche e ficcanaso vocine interiori, disse
-Va bene, ma ora bando alle ciance che abbiamo un serial killer da far fuori! Claudia, Kalle, per favore levatevi da mezzo che il vostro casino ci distrae; Heike, procuraci una mappa il più dettagliata possibile di Berlino, specialmente la zona della Amburg; Raghnild, esponici ciò che hai trovato su quel bastardo negli ultimi due anni; G&G, prendete appunti.
Solitamente, quando l’agente Kaulitz parlava così, tutti obbedivano senza fiatare. E così fu anche quella volta, con Claudia e Kalle che si congedarono in fretta e scomparvero nella calura pomeridiana che appesantiva orribilmente l’Anticrimine, Heike che corse nel magazzino a recuperare la cartina richiesta in mezzo a tutto il materiale teoricamente vietato in una centrale ma tenuto in gran considerazione dal 10 (come una bella dose di bottiglie di vino per il commissario, varie parole crociate, mangime per gatti, borse dell’acqua calda, tutti i cartoni animati della Disney, una chitarra elettrica per Tom. Sarebbero stati guai se le Frittelle di Cervello li avessero scoperti, ma come si dice “occhio non vede, cuore non duole”), e Raghnild che si sistemò meglio sulla poltroncina girevole e iniziò a parlare
-Allora, miei cari, non sarete contenti. Ovviamente, sotto al nome Will Schadenwalt non appare nulla se non giusto roba legata ai quadri e nemmeno con il suo vero cognome polacco, da ciò ne ho dedotto che usasse sempre delle false identità.
-Beh, se era uno degli scagnozzi di July ne avrà un centinaio e mezzo di identità segrete da sfruttare … siamo svantaggiati.- grugnì Georg.
-Però, Cristo, non può essere perfetto! Ci sarà pure un buco da qualche parte, un qualche errore o imperfezione venuta alla luce, un passo falso.- sbottò Gustav.
-Mi dispiace darti torto, Gus, ma io non ho trovato esattamente nulla!- Raghnild li guardò avvilita – Forse non sono abbastanza brava per scavare nella vera bratta.
-Tu sei bravissima, Ragh. Devono essere cose veramente sepolte e dimenticate se riescono a sfuggirti.- la rassicurò Tom – E con Hansi Spiegelmann non c’è nulla?
-Figurarsi. Niente! Quest’uomo è un fantasma, non esiste da nessuna parte.
I quattro si guardarono scoraggiati. Se continuavano così, non avrebbero mai scoperto dove abitasse in quel momento. Bill poi, non era per niente d’aiuto, sapeva quasi meno di loro e poi non faceva che piagnucolare da quando aveva letto quella lettera. Forse aveva ragione July, quando diceva che Bill aveva bisogno di qualcuno di forte che lo tenesse in piedi; era troppo delicato e troppo sensibile per poter sopportare il peso dell’esistenza senza qualcuno che non lo tenesse con sé.
-Qui c’è la cartina. Non è dettagliata come speravo, ma potrebbe venirci bene.
Heike entrò nella stanza, scostandosi i biondissimi capelli dal viso e stendendo sulla scrivania una grossa pianta della città.
-Allora, cosa pensiamo di farci?- grugnì Gustav, addentando un panino con la porchetta.
Tom sospirò, passando stancamente un dito lungo la cartina, arrabbiato. Era come se la presa in giro di Will continuasse senza fermarsi, un gioco perverso in cui loro due erano i giocatori e la posta in gioco era Bill. Berlino era la loro scacchiera, le loro menti erano le pedine, i morti erano le mangiate anche se finora Tom  non aveva mangiato esattamente nulla. Pian piano si avvicinavano alla resa dei conti, lo scacco al re era sempre lì presente. Bastava solo una mossa mal fatta e avrebbe fatto scacco matto, appropriandosi una volta per tutte della loro posta in gioco. E Tom non poteva permetterlo anche se, accidenti al diavolo, lui non sapeva giocare a scacchi.
-Facciamo così- disse Georg, prendendo un pennarello – Segniamo tutti i luoghi degli omicidi. Forse potrebbe colpirci una grande illuminazione.
Cerchiò prima di tutto l’ospedale psichiatrico in disuso dove era stata trovata la prima vittima, poi il binario morto all’esatto opposto della città, il palazzo in ristrutturazione nella Kartoffeln e infine i magazzini della Franz Joseph.
I ragazzi osservarono tristemente quei quattro cerchietti rossi, che sembravano quasi deriderli sulla carta.
-Lo so che sembrerà stupido, ma sembrano formare un quadrato.- commentò Raghnild seguendo col dito le linee che in effetti creavano un quadrato quasi perfetto.
Tom si passò una mano tra i dread, cercando senza nemmeno rendersene conto la Amburg Strasse. Ed eccola lì, all’esatto opposto del “quadrato” dei luoghi dei delitti, in cima a tutto, come la punta di una stella fatta di sangue. Stella fatta di sangue … Tom posò il dito sulla Amburg, cercando di rincorrere l’ombra di un’idea che si era intrufolata nella sua testa; la sentiva, che correva e si nascondeva come se giocasse a rimpiattino nel fondo della sua anima. Non era nemmeno la prima volta che si trovava a dover combattere ferocemente con la parte investigativa della sua testa, che non ne voleva sapere di apparire chiara e pulita ma che si divertiva a confonderlo e a palesarsi solo dopo una guerra senza esclusione di colpi. Pensa, Tom, pensa, si ripeteva il rasta socchiudendo gli occhi e tentando di afferrare l’idea ballerina e fuggitiva come uno stupido fuoco fatuo.
-Ci sono!- urlò, quando finalmente le sue dita si chiusero attorno al collo del folletto-idea che si dibatteva impotente. Ce l’aveva fatta!
I suoi amici lo guardarono speranzosi e curiosi, spalancando gli occhi.
-Ho scoperto il suo piano!- continuò, non riuscendo a trattenersi dal saltellare – Guardate qui!
Prese il pennarello e cerchiò la casa di Bill, per poi collegare i cinque punti con delle righe che portarono alla creazione di una stella.
-E questo a che ci porta?- borbottarono Raghnild e Gustav, guardando storto il disegno un po’ storto di Tom.
-Una stella a cinque punte! Ma certo!- urlò invece Heike – Il pentacolo!
-Il penta che?- chiese dubbioso Georg.
-Il pentacolo è uno spazio magico entro il quale si possono evocare i demoni oppure attuare degli incantesimi.- spiegò saputa la ragazza. – Anche se devo dire che non ho capito dove ci possa aiutare per rintracciare l’S.I.
Tom si grattò una guancia e cominciò a spiegare, gli occhi brillanti per la geniale idea che lo aveva colpito come un fulmine a ciel sereno.
-E’ estremamente semplice ma allo stesso tempo terribilmente complesso. Se guardate, le quattro vittime formano la base del pentacolo, e la casa di Bill la punta, la parte fondamentale. Per l’appunto, l’ultima vittima. Immagino lo voglia rapire, riprenderlo con sé, probabilmente per farlo espatriare. E le cinque punte della stella ci sono. Ma comunque, dov’è che solitamente esce il diavolo quando si fa un rituale satanico?
-Dal centro … - sussurrarono gli altri.
-Appunto!- strillò Tom, elettrizzato come non mai – E questo è tutto un piano che attendeva che io risolvessi! È un gioco, il suo, non capite? Vuole giocare con me e mi mette alla prova. Lui si crede il diavolo, sa di esserselo, sa che Bill lo teme come l’Inferno. E quindi cosa fa? Organizza i suoi omicidi di modo che casa sua risulti sempre in mezzo al pentacolo. Lui è Satana, da lui nasce il male. Credo quindi che il nostro uomo abiti esattamente al centro della stella di sangue che ha tirato su.
-Megalomania portatelo via … - sbuffò Gus non riuscendo a nascondere un brivido.
-Però scusa Tom, non è una cosa controproducente? Perché tentarti a trovare direttamente il suo covo? Non si frega da solo?- chiese Georg, grattandosi il mento.
-E no, amico!- esclamò Tom, sedendosi sulla scrivania – Will non mi teme; semplicemente mi affronta. È pazzo, completamente fuori di testa, non sa nemmeno cos’è la paura. Quindi, come ho già detto, gioca e nel suo gioco io lo devo stanare. Aspetta che io vada da lui. E anche come ha detto Gustav, è megalomane:  ha la certezza di vincere, in qualche modo. E noi non glielo permetteremo!
-Allora è fatta- Heike prese una riga – Tiriamo le righe e vediamo dove portano. Il centro equivarrà alla casa del pazzo.
-Ancora una domanda e poi vado, che mi hanno commissionato un lavoro- interruppe Raghnild, infilandosi il chiodo stracciato – T., parli sempre di questo mafioso coreano come uno che tiene le redini di mezza malavita mondiale. Ma allora perché non può fermarlo lui? Cioè, dovete farvi il mazzo voi sfigati del 10 che, con tutto il rispetto, combinate ben poco.
-Perché i musi gialli sono tutti così, no? Dei loschi approfittatori e i vietcong- cominciò a polemizzare Gustav, venendo subito duramente schiaffeggiato dalle due ragazze.
-In realtà, non ho capito bene.- confessò Tom, grattandosi la testa – Ha blaterato qualcosa riguardo al Marchio di Caino …
-Eh sì, cos’è? Shadowhunters 2-la vendetta?- ironizzò Georg.
-Chiama un po’ Bill e chiediglielo. Non è che vorrei che ci mettessimo nei casini senza aver appurato che il muso giallo non possa fare nulla- ruggì Gus.
-Ma no!- strillò Tom – Che figura ci faccio?!
-Se vuoi lo chiamo io. Una chiacchierata di presentazione, sono pur sempre il tuo migliore amico! Mi dovrai pur presentare al tuo promesso, no?- Georg tese la mano verso il cellulare di Tom, e lo afferrò prima che il proprietario potesse muoversi.
-Listing, non ci provare!- il rasta balzò in piedi, slanciandosi contro l’amico, che fu più svelto a lanciarlo a Gustav, il quale balzò stranamente agilmente su una sedia e cliccò sul numero.
-No, maledetto trippone, cosa fai!- Tom cercò di afferrare il cellulare senza riuscirci, mentre Raghnild scuoteva la testa e correva fuori e Heike si limitava a prendere tranquillamente le misure sulla piantina per trovare l’ubicazione.
-Tom, che succede?- la vocina melodiosa e stranamente infantile di Bill si levò nella stanza. Aveva risposto. Porcaccia.
-Ehi Bill!- urlarono i G&G.
-Ridatemelo subito, razza di coglioni!- abbaiò Tom.
-Bill, ciao caro, sarò la vostra damigella di nozze, te l’ha detto Tom?- squittì ridendo Heike.
-Ehm, tesoro, stai bene?- la voce dell’angelo era leggermente interrogativa con una sfumatura preoccupata particolarmente dolce.
Tom riuscì con uno scatto felino molto simile a quelli che si fanno per fare canestro a riappropriarsi del maledetto piccolo oggetto e a scappare dalla stanza inseguito dalle risate di quei tre stolti colleghi.
-Ehi angelo, scusa, è colpa di Gustav, ha fatto partire la chiamata, non volevo disturbarti … - prese un profondo respiro. Comunque, Bill gli faceva sempre un certo effetto, anche al telefono.
-Ma non disturbi affatto, Tooooom. Comunque …
Ma Tom lo interruppe rapidamente
-Senti, Bill, tu piuttosto come stai?
-Sto. Né bene né male. Vorrei solo che fossi qui con me.
A quelle parole Tom sentì uno stormo di farfalle fargli visita allo stomaco e arrossì.
-Anche io- sussurrò – Però, mi chiedevo, ecco … ti peserebbe rispondere a una domanda un po’ delicata?
Silenzio tombale.
-Bill, piccolo mio, sei ancora lì?
-Che tipo di domanda delicata?- la voce era fredda, gelata come un ghiacciolo.
-Aehm, veramente … - si maledisse per il suo poco tatto – Un qualcosa sul vostro sistema mafioso. Su una cosa che mi ha detto July.
-Oh, va bene. Chiedimi pure. Ah, e sono in negozio ora; stai tranquillo.
-Come hai fatto a capire che stavo pensando a dove fossi?!
-Sesto senso, Tommuccio. Sei il mio fidanzato, dovrò capire le sfumature della tua voce, no?- l’ombra di una risatina pestifera rimbombò nel telefono.
-Ok. Bene, allora- Tom prese un profondo respiro e si fece forza. Odiava ammetterlo, ma aveva un po’ paura. Non sapeva nemmeno lui di cosa, ma se la sentiva addosso, perennemente dietro alla nuca – Che vuol dire jejag doen inkgeu?
Poté percepire un sussulto dall’altro capo del filo, e la voce abbassarsi notevolmente
-“Intoccabili di inchiostro”.
-E ciò significa?
Bill sospirò rumorosamente e il rasta intuì dei movimenti e dei fruscii come se il suo angelo si fosse abbandonato su una qualche sedia.
-Se tu fai parte dei giri mafiosi collegati con l’Estremo Oriente, come nel nostro caso, puoi “avvalerti” del diritto di diventare un jejag doen inkgeu. Ciò può comportare la fine di molti, ma la fortuna a vita di quei pochi che lo sanno sfruttare, come Will per esempio- Tom sentì chiaramente la voce tremargli nel nominare il loro killer – Sei intoccabile. Nessuno può ucciderti, ferirti gravemente, farti del male fisico pesante. Come se fossi in una campana di vetro, salvo dalla morte per mano di altri uomini. Però, per contrappasso, devi lavorare da solo. Nessuno ti aiuta, né ti è amico, né ti spalleggia. Sei solo contro il mondo, e devi cavartela da te. Vedi, Tooom, tu non puoi capire questi meccanismi, è difficile spiegarti. Se qualcuno del giro uccide o fa del male fisico a uno degli Intoccabili, paga con la propria vita. Ecco perché July-chan non può fare nulla contro di lui. Ciò comporterebbe la sua morte per mano della nostra giustizia.
-E hai il coraggio di chiamarla giustizia, Bill?!
-Dai, Tom, non ho voglia di litigare su questo. Anche i malviventi hanno il loro codice d’onore, che tu lo creda o no! E spesso lo seguiamo più noi che voi persone per bene. Quindi, ecco il motivo per cui noi a Will non possiamo fare nulla.
-Ma non ho capito la parte negativa della cosa …
Bill ridacchiò e sospirò quasi dolcemente
-Essere soli nel nostro mondo, comporta quasi sempre la fine. È un mondo di squali, non si sopravvive senza aiuto e senza spalle. Per questo ti ho detto che solitamente diventare jejag doen inkgeu è pericolosissimo: i più non sono in grado di reggere il nostro mondo da soli. Poi c’è la gente come Will, e per loro esserlo diventa l’arma letale contro tutti e tutto. Sono bastardi quanto basta perché possano sopravvivere in solitudine forse ancor meglio di quando erano sotto un padrone. È una società a gradini la nostra, tutti sono schiavi e sono padroni di qualcuno. Gli Intoccabili sono un po’ come gli Untori dell’età della peste.
-Cavolo.
A Tom sembrò di essere catapultato a razzo in un film di 007. Era un sistema così contorto che proprio non riusciva a comprendere.
-Ora devo andare, tesoro mio. Sono entrati dei clienti, finalmente; cosa pensi di fare ora?
Tom si grattò la guancia. Già, che avrebbe fatto adesso? Dirgli tutto, o evitare accuratamente di trascinarlo nei suoi casini? Forse avrebbe fatto meglio a starsene zitto, a cercare di proteggerlo ancora in qualche modo. Aveva la testa così straordinariamente confusa che proprio non sapeva più che fare. Si limitò a un
-Studiamo qualcosa con i miei colleghi. Ci sentiamo, cucciolo.
Sbuffò, intascando il telefono e dirigendosi a passi pesanti verso i suoi colleghi, intenti a guardare su Google Maps quella che evidentemente doveva essere il punto risultato dai calcoli sulla mappa.
-Allora? Trovato qualcosa?- si appoggiò alla sedia di Georg con aria stanca.
-Secondo i nostri calcoli- ripose Heike – Il palazzo dovrebbe essere questo qui. Abbiamo calcolato un posto che distasse esattamente uguale da tutti i luoghi segnati sulla pianta e l’unico che potrebbe risultare buono è il n°17 della Schwartz Rose Strasse. Tecnicamente, la distanza è sempre la stessa. Palazzo abbastanza scassato, di quelli del dopoguerra, cemento armato puro e mattoni. Anonimo. Un ottimo luogo da usare come casa, per un serial killer assetato di sangue innocente.
-Perfetto- Tom prese un profondo respiro, annotandosi l’indirizzo e prendendo la pistola carica sulla mensola.
Ce la poteva fare. Ce la doveva fare. Per il loro futuro, per il loro amore, per la loro vita. Doveva essere coraggioso, sfidare la sorte, far vedere che anche lui sapeva essere un uomo come si deve. Doveva buttarsi a capofitto nel fuoco del diavolo, lasciarsi bruciare senza lamentarsi. Lo doveva al suo angelo, lo doveva a se a stesso, lo doveva a quella cosa che si chiama amore che lui aveva appena conosciuto. Coraggio, disperazione, abnegazione, sprezzo del pericolo. Oh, sì. Ce l’avrebbe fatta, avrebbe conquistato la posta in gioco. Aveva ancora le pedine in mano, non aveva perso del tutto. Il suo alfiere era ancora in gioco e poteva ancora fare scacco matto. Hai una sola mossa, Tom, per riscattare la Regina. Una mossa, un alfiere, un re da ammazzare. Ce la puoi fare, amico. Una mossa ben piazzata e la Regina sarà tua.
Una mossa ben piazzata e l’incubo di Bill sarà finito una volta per tutte.

***
CAPITOLO NON RILETTO!!!!! Quindi scusate se fa vomitare, ma era da un casino che non aggiornavo e quindi ci ho voluto provare. Lo so che fa schifo, per favore abbiate pietà della povera autrice. Basta, mi nascondo e vedrò di sbrigarmi di più col diciassettesimo e credo penultimo capitolo :( la resa dei conti è vicina, e chi mai vincerà? (sì, Tom, lo sappiamo che c'hai culo e vinci ...)
Baci e tantissimi infiti grazie,
Charlie

 

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Capitolo 17
*** Tu non sei niente! ***


CAPITOLO DICIASSETTE: TU NON SEI NESSUNO!
Tom aveva paura. Tanta, tantissima paura, quel terrore ancestrale che ti attanaglia le viscere e non ti lascia stare, che ti divora dentro. Non sapeva nemmeno lui di cosa avere paura, forse di tutto ma allo stesso tempo di niente. Era semplicemente spaventato all’idea di dover incontrare quel essere mostruoso; non sapeva cosa aspettarsi, non sapeva nemmeno che reazione avrebbe avuto una volta che lo avesse avuto sotto gli occhi. Se lo avesse tentato di ammazzare per tutto quello che aveva fatto a Bill o se sarebbe riuscito a mantenere una sorta di self-control. A essere sinceri, non sapeva nemmeno perché stava correndo da solo, come un perfetto idiota verso la tana del lupo. Anzi, la sua antipatica coscienza lo stava rimproverando di aver lasciato la Centrale con la meschina scusa “Questa è una regolazione di conti. Devo andare da solo, voi preparate la squadra e seguitemi ma … fatemi andare da solo”. E poi era scappato, la pistola di servizio infilata nella tasca del felpone, perché no, lui non ce la faceva a stare in divisa, gli occhi lucidi, la mente focalizzata solo su quello: andare da lui e sbatterlo in galera. Non poteva negare a se stesso di star facendo un’emerita scemata, a presentarsi praticamente su un piatto d’argento al serial killer delle croci; e doveva ammettere che il fatto che fosse il migliore “gattino” di July non lo rassicurava affatto. E ancora, l’avrebbe trovato in casa? Oppure era andato a mietere un’altra sfortunata vittima approfittando dell’orribile temporale che si era scatenato su Berlino e delle nebbia che aveva avvolto i palazzi? Tutti questi interrogativi facevano aumentare pericolosamente le pulsazioni del cuore di Tom, terrorizzandolo, mentre cercava di aumentare il ritmo della sua corsa scoordinata sotto la pioggia battente. Svoltava scivolando nelle strade, scontrava alcune persone che si affrettavano a rincasare, saltava pozzanghere profonde quanto un fosso e cercava di non starnutire troppo. Non sapeva la reazione dei suoi colleghi, probabilmente furibondi con lui e pronti a linciarlo una volta finito quell’orrore, ad aspettare con i ritmi burocratici e naturalmente rallentati del Dieci di poter finalmente decidersi ad andare ad arrestare il loro S.I. L’unica cosa che non lo faceva collassare, che gli dava il coraggio di fare quello che stava facendo era giusto il pensiero di poter salvare Bill. Quello valeva più di mille promozioni, di mille onori: valeva più di tutto. Anche se gli sarebbe costato il posto di lavoro, non si sarebbe pentito. Bastava vedere Bill al sicuro e sorridente, e allora anche il probabile licenziamento in tronco e estromissione a vita dalle forze dell’ordine di tutto lo Stato sarebbe andata in secondo piano. Ormai era diventato Bill il suo tutto, aveva assunto la posizione d’oro nel cuore di Tom al posto della Giustizia. Ora il resto era diventato qualcosa di accessorio, e l’amore che provava per quel ragazzo così assurdo e fuori dalle righe si era calcificato nella sua testa e nel suo cuore.
Svoltò un’ultima volta, fradicio fin nelle ossa e sentì un tuono rimbombare proprio sulla sua testa, quasi come un divino avvertimento: che fossero i santi mandarini del negozio di July pronti a spalleggiarlo nella sua missione suicida?
Alzò lo sguardo al cielo nero e turbinoso come quello che stava accadendo sotto di sé, la cappa di umidità che avvolgeva tutta la città gli penetrava nelle ossa, ma rivolse comunque un sorriso incoraggiante al cielo, sillabando un “grazie signori mandarini”. Forse era ammattito del tutto, ma in quel momento si sentì di nuovo carico di qualcosa che non era coraggio ma che ci assomigliava molto.
Si avvicinò a palazzo piuttosto male in arnese che teoricamente avevano individuato come potenziale abitazione del loro omicida. Prese un profondo respiro e guardò i nomi sui campanelli: ovviamente, nessuno corrispondeva. Scosse i dread sbuffando, e si rese conto solo in quel momento che era sudato fradicio; prese un profondissimo respiro e notò che il numero sette era l’unico senza targhetta. Avrebbe iniziato da lì la sua disperata ricerca. Guardò il portone aperto, e entrò in un androne buio e puzzolente, così simile a quello del palazzo di Bill, puzzolente di urina di cani e di birra scadente. E lui che si lamentava anche della Brandenburg. Si avviò verso le scale, strette e buie, irregolari, ogni scalino insudiciato di cose che Tom non voleva nemmeno guardare, tra siringhe e bottiglie rotte. Chissà perché ogni momento che passava si pentiva sempre di più di essersi lasciato prendere dalla frenesia e di essersi cacciato in quel casino da solo. Non poteva aspettare di attuare la cattura normalmente, con i suoi colleghi? No, perché lui era Tom e doveva distinguersi, quindi doveva andarsi a incasinare la vita da solo come un perfetto masochista. Doveva raccattare un ragazzo sconosciuto in piena notte, doveva finire coinvolto in un traffico di armi coreane, doveva innamorarsi perdutamente dell’angelo più problematico di tutta Berlino e probabilmente di tutto l’universo, doveva ritrovarsi a fronteggiare da solo il nuovo inviato satanico sulla Terra, doveva insomma fare quello da cui tutte le persone normali si tenevano bene alla larga: ma in fondo lui era il poliziotto rasta del Decimo Distretto. Quindi, una garanzia di follia.
Scavalcò il corpo di un tossico ronfante e sfuggì dalla grinfie di una vecchia megera con la scopa, stringendo spasmodicamente la pistola in tasca. In quel momento avrebbe tanto voluto avere Bill lì vicino a tenergli la mano e a dirgli che avrebbe trionfato, con quel suo sorriso dolce e malizioso, sfarfallando i suoi occhi splendidi.
Sbucò al terzo piano, sventolandosi per il caldo opprimente delle scale e sobbalzando quando un lampo illuminò una bottiglia rotta davanti a lui, attraverso il vetro della finestrella ricoperto di scotch. Il numero sette era lì davanti a lui, che sembrava squadrarlo e deriderlo. “Tom, questa potrebbe essere la tua tomba, ricordalo” gli ricordò acidamente la sua coscienza. Cercò di non ascoltarla, di tapparsi le orecchie interiori e concentrarsi solo sul fattore “Salvataggio Angelo Autostoppista”; doveva rimanere lucido, sveglio, attivo e non doveva avere la testa confusa in un momento così delicato. Glielo aveva detto Bill, glielo aveva detto July, glielo avevano detto le ragazze della galleria, glielo aveva detto il direttore: Will è un demonio, è capace di assoggettarti solo con lo sguardo, ha un carisma mostruoso. Resistergli è praticamente impossibile. Questo preoccupava non poco il rasta; se già Bill e a modo suo anche July erano in grado di confonderlo completamente, mandandolo in palla, cosa avrebbe fatto quest’uomo? Come avrebbe gestito il suo famigerato sguardo assassino?
Era così preso dai suoi pensieri terrorizzati che si accorse solo poco dopo che la porta era solo accostata. Tom aggrottò le sopracciglia: perché? Che lo stesse aspettando? Che fosse già entrato qualcun altro? Ma oramai era lì, era troppo tardi per scappare. Aveva compiuto l’ultimo passo oltre il limite e non gli rimaneva che lasciarsi cadere nell’abisso. Era troppo tardi per trovare un appiglio.
Estrasse la pistola dalla felpa e sbloccò la sicura, tenendola tra le dita sudate e tremanti. Era inutile raccontarsela: se la stava facendo sotto.
Posò la mano sul legno duro e freddo della porta, chiudendo gli occhi e concentrandosi solo su Bill e sulla sua salvezza. Prese un altro profondo respiro, e si decise a spingerla di scatto, catapultandosi dentro l’abitazione, gli occhi ancora semi chiusi, urlando
-Polizia, lei è in arresto, su le mani, non tenti movimenti o …
-O cosa, Thomas? Mi uccidi?
Tom spalancò gli occhi, mordendosi il labbro fino a farlo sanguinare. La voce. L’incubo che lo aveva perseguitato da quando aveva cominciato a indagare su di lui si stava avverando. Allora era vero che lo stava attendendo. Sentì il cuore accelerare i battiti e fare un gran casino nella sua cassa toracica, come se volesse uscire fuori a tutti i costi e scappare al sicuro da Bill. Si guardò nervosamente attorno e notò che era in salotto illuminato a stento da due lampade Tiffany terribilmente simili a quelle che c’erano a casa di Bill, piccolo, appesantito da enormi quadri alle pareti e aveva davvero paura di vedere chi fosse il soggetto di quelle pitture immense. Abbassò lo sguardo, tentando di rallentare i battiti impazziti del suo cuore e di non far trasparire la paura dai suoi occhi ancora innocenti. C’era un divano verde piuttosto piccolo e male in arnese davanti a lui e grossi tappeti persiani ai suoi piedi. E c’era lui, il loro serial killer, seduto a gambe incrociate sul divano.
Tom ebbe un tuffo al cuore quando finalmente, dopo secondi in cui il suo cuore sembrava essersi fermato, poté vedere in faccia l’uomo che aveva tanto dannato Bill e aveva sconvolto l’intera Berlino. Percorse con lo sguardo le gambe lunghe e scheletriche, intrecciate in quella che sembrava una posizione quasi yoga, fasciate in un paio di skinny che facevano concorrenza a quelli di Bill, risalì lungo il busto pelle e ossa, lasciato scoperto dalla camicia completamente sbottonata e orrendamente ustionato, tanto che a Tom venne quasi un conato di vomito, le braccia esili e le dita lunghe, terminanti in artigli smaltati che in confronto quelli di July erano unghiette da infante. Risalì lentamente con lo sguardo le spalle ossute che parevano quasi i rimasugli di un paio di ali, fino a soffermarsi sul viso. Tom si trovò a trattenere il respiro inconsciamente, perché era uno dei visi più belli che avesse mai visto. Lo sapeva che non avrebbe dovuto pensarlo, che era colpa solo dello stress nervoso a cui era sottoposto, che sicuramente stava commettendo un errore madornale, ma non poté trattenersi dal pensarlo. Aveva gli occhi esattamente come glieli aveva descritti July: carismatici, quegli occhi a cui sei portato ad obbedire, e in quel momento si sentì quasi in grado di capire il suo piccolo Bill. Non ci voleva credere prima, ma ora che anche lui poteva fissare quegli occhi sottili e talmente azzurri da fare male, poteva cogliere le sfumature del suo pianto. Per un ragazzino da solo quegli occhi potevano essere un faro nel buio. E figurarsi, lo diceva lui, a ventitré anni suonati, con una vita sicura alle spalle e le sue credenze ben radicate nella testa, quindi non osava immaginare per Bill cosa avessero significato. Un nuovo mondo, un nuovo inizio, una sorta di Paradiso.
I capelli di un biondo praticamente bianco gli ricadevano sotto le spalle, coprendogli parte del viso scavato e semi ustionato. E davvero, se fosse stato meno ustionato, se non fosse stato il serial killer delle croci, se non fosse stato quel bastardo che Tom avrebbe volentieri strangolato con le proprie mani per tutto quello che aveva fatto a Bill, se non fosse stato la pedina fondamentale in quella partita, se non avesse conosciuto Bill, e se fosse stato in tutt’altro contesto, allora se ne sarebbe probabilmente innamorato a prima vista.
-Io … la dichiaro in … - Tom si vergognò da solo della voce strozzata e imbarazzante che gli venne fuori e arrossì sotto lo sguardo tranquillissimo e divertito dell’altro, vittima di quel ghigno sadico e malvagio che gli incorniciava le labbra bianche.
-Ti prego, stai zitto e non renderti così ridicolo. Siediti, forza. Ti stavo aspettando.
Will gli indicò con un’elegante gesto della mano una poltrona verde semi sfondata e gli fece segno di posare la pistola sul tavolino di cristallo, dove giacevano un pugnale di fattura yemenita, una P38 carica e senza sicura e un kris malese.
Tom si sedette tremebondo, posando la pistola dove gli era stato indicato. Tanto a che sarebbe servita? Quello non era un arresto come si deve, quella era una regolazione di conti tra due uomini che lottavano per averne un terzo. Quello era il momento che l’agente stava aspettando con tanta ansia per poter porre finalmente la sua firma sul corpo e sul cuore dell’angelo e allora perché tremava? Cercò di farsi forte per se e per Bill. Cercò di trovare il carattere che mancava al suo bambolotto e che lui doveva dimostrare. Cercò di dimostrarsi all’altezza della situazione in un mondo che sicuramente non riconosceva come suo.
-Allora avevo ragione?- sussurrò, cercando di non guardare troppo negli occhi il suo nemico giurato – Ma come hai fatto a fidarti? Sarei potuto venire con tutta la squadra e per te sarebbe stata la fine.
-Saresti, appunto.- Will sogghignò, scostandosi una ciocca di capelli dal viso – Ma sapevo che non l’avresti fatto. Ti sto seguendo, caro Thomas. Da quando mi sono reso conto che il mio adorato Bill frequentava un altro, ho cominciato a studiarti da lontano. Vi ho seguiti, sempre. Ho visto tutto quello che potevo vedere e ne sono giunto alla conclusione che saresti venuto da solo, per affrontare la questione da soli. Una regolazione di conti come nel Far West, vero?
Tom si sentì assalire da una sordida rabbia, che spazzò completamente la paura che lo attanagliava. Come si permetteva quel bastardo di chiamarlo “mio Bill”?! E soprattutto, con che mente malata li aveva pedinati? Quindi aveva visto proprio tutto? Li aveva studiati come se fossero finiti in una brutta satira di 1984? E da ciò ne aveva tratto le sue perverse conclusioni?
-Perché tutto questo?- ringhiò, tentando di non impazzire e di non saltargli al collo prima dell’arrivo degli altri colleghi.
-Come perché?- Will rise piano, e Tom sentì un brivido di terrore corrergli giù per la spina dorsale – Perché lo rivoglio indietro. Lui è mio, Thomas. Te l’ha raccontata la storia dei triangoli? Immagino di sì.
-E’ … è una cosa abominevole!- urlò Tom, non riuscendo a staccare lo sguardo  dal petto di Will, senza nemmeno lui sapere perché – E chiuditi quella dannata camicia!
-Ti dà così fastidio? Potrei scommettere che se non fossimo in questa paradossale situazione mi avresti già pregato in ginocchio di venire a letto con te. Ammettilo, Thomas, su. Tanto con me non puoi mentire. Dillo che ti eccito, forza, dimmelo … - Will ghignava sadicamente, sfarfallando maliziosamente le lunghissime ciglia bianche, scostandosi i capelli dagli occhi, la vera essenza della lussuria.
 -Stai zitto, maledizione!- Tom si mise le mani tra i capelli, chiudendo gli occhi e scuotendo ripetutamente la testa. Ma perché diceva tutta quella marea di stronzate? A cosa servivano? “Per confonderti” gli suggerì la coscienza, che stranamente aveva la vocina dolce e preoccupata di Bill “per favore, gattino, non ti lasciare traviare e scombinare dalle sue parole. Sono la sua arma, non caderci dentro. Lui farà di tutto per trascinarti nel suo orrore, come ha fatto con me per anni e anni. Ma tu sei più forte, sei coraggioso: tu devi resistere”.
Will rise di nuovo, leccandosi le labbra e disse
-Bene, Thomas, allora da dove vuoi cominciare? Dal fatto che ormai nella scacchiera siano rimasti solamente due alfieri neri e una regina bianca?
-E i re dove sono finiti?- si trovò a sussurrare Tom controvoglia, rapito dal tono mellifluo e sottile del ragazzo seduto compostamente davanti a lui.
-Scacco matto Thomas.- Will si girò e prese una scacchiera su un tavolino vicino al divano, posandola davanti a loro. C’era la regina bianca esattamente al centro del ripiano e i due alfieri, di cui uno occasionalmente dipinto di nero, agli esatti opposti. Entrambi con una mossa avrebbero potuto mangiare la regina e vincere la posta in gioco. Ma nessuno era bianco e nessuno avrebbe potuto fare la prima mossa.
-Il tuo venire da me è lo scacco matto. Ci siamo mangiati a vicenda, ora rimane un’ultima mossa. E così finalmente la partita finirà.
Will estrasse una sigaretta dal pacchetto e l’accese voluttuosamente, offrendone una a Tom con un gesto misurato e un sorriso che non prometteva nulla di buono.
Scosse la testa, grattandosi nervosamente il collo.
-Ora, dovresti spiegarmi delle cose.
-Tutto quello che vuoi, zuccherino.
Tom si mise le mani tra i capelli, prendendo un profondo respiro. Non era così sicuro di voler sapere quello che si nascondeva dietro quegli osceni delitti. Avrebbe solamente voluto annientarlo, sbatterlo in prigione per l’eternità e poi semplicemente vivere il resto della sua pacifica vita con Bill. Perché diavolo doveva essersi aggiunto quel demonio al loro già non proprio stabile equilibrio? Tom sospirò: Bill era proprio come una principessa, dovevi lottare con i denti e con le unghie per ottenere la sua mano. “Ma tu hai già la mia mano, Tom, devi solamente accertarti di potermi tenere stretto” gli disse la nuova coscienza con la voce melodiosa del suo angioletto infernale.
-Perché hai ucciso tutta quella gente innocente. Cosa c’entrano con te e Bill?
-C’entrano, Thomas, c’entrano eccome.- Will soffiò una voluta di fumo – Sono i miei avvertimenti per quella testa dura di Bill.
-Avvertimenti? Che significa? Non ha senso!
-Sì che ha senso, tesoro. Vediamo, cosa pensi che avrei fatto se non ci fossi stato tu a complicarmi la faccenda e a costringermi a giocare?
Will rise di gusto, gli occhi esaltati di qualcuno che non doveva avere più la minima traccia di sanità mentale. Quel ragazzo non era da carcere, ma da manicomio.
-E continui a paragonarlo a un gioco. Ti sembrano un gioco quattro ragazzi morti?!- sbottò Tom, fulminandolo.
-Sì, e anche piuttosto divertente. Forza, rispondi alla mia domanda.
Tom si grattò la testa, e si arrischiò a dire
-Se non ci fossi stato io, dici? Beh, immagino che avresti rapito Bill e lo avresti fatto espatriare … no? Mi ha detto che sei un “Intoccabile di Inchiostro” e mi ha spiegato cosa vuol dire, quindi da ciò ne posso dedurre che avresti trasformato anche Bill in un Intoccabile e avreste continuato la vostra vita così.- Tom sentì una serie di fastidiosissimi brividi corrergli lungo la spina dorsale, provando una sorta di freddo al cuore nonostante il caldo che c’era fuori. Un fulmine cadde, illuminando a giorno uno dei quadri appesi alle pareti. Bill, ovviamente. Seduto per terra, completamente nudo e ricoperto di tagli, graffi e morsi, un collare al collo con una catena che scompariva nel buio della base, due enormi ali da pipistrello semi spiegate.
-Non mi dire che lo avevi seriamente incatenato con un collare … - sussurrò.
-A volte. Per i quadri serviva, non trovi?- Will rise di nuovo, alzandosi e zoppicando verso quell’enorme tela. – Non ti piace la mia arte?
Sfiorò con quelle unghie terribilmente lunghe e arcuate il viso di Bill, così triste e disperato anche se incastonato nei colori, accarezzandolo con un sogghigno perverso.
-L’hai mai visto piangere di dolore?- si voltò verso Tom, il viso sfigurato rilucente alla luce dei lampi che si riversavano come impazziti sulla città.
Tom sentì il cuore cominciare ad accelerare i battiti, il viso diventare rosso di qualcosa che mischiava rabbia, paura e tanta, troppa, tristezza. Non voleva ammetterlo a se stesso, ma in quel momento avrebbe tanto voluto tapparsi le orecchie e non sentire più niente. Ogni cosa orrenda che riemergeva dal passato di Bill era come una coltellata al suo cuore, uno sprazzo di dolore insostenibile. Ogni cosa brutta fatta al suo angelo si ripercuoteva sulla sua anima lasciandolo stravolto.
Non rispose, pietrificato com’era a seguire i movimenti sinuosi e ammalianti, e dannazione se non era qualcosa di straordinariamente seducente. Avevano ragione, quando gli avevano detto che resistere a Will era quasi impossibile. Maledizione.
-Sai, Thomas, forse tu non hai mai visto la parte di Bill più interessante. Per esempio, quando piange dal dolore; il sangue colava, rosso brillante, colava giù e lui rimaneva così, fermo immobile, e piagnucolava piano, quei diamanti di lacrime che scorrevano giù e si mischiavano al suo sangue. Immaginatelo, zuccherino. Immagina quanto poteva essere splendido. E poi immaginatelo incatenato al letto, con un collare al collo che singhiozza. L’avrai sentito piangere almeno una volta, no? Non è il suono più dolce che tu abbia mai sentito? Su, non dirmi di no, lui piange sempre, per qualsiasi cosa. E ora immaginatelo a strillare sempre più forte, sempre di più, e il sangue che scorre e infradicia le lenzuola insieme al suo pianto. Era una fonte divina dell’arte gotica, ragazzo mio.
-Smettila subito. Sei un mostro! Tu non puoi … non puoi … - strillò Tom, non sapendo bene che diavolo dire e nemmeno che fare, le mani premute infantilmente sulle orecchie come a voler allontanare il suono di quella voce carezzevole e l’ombra di quel ghigno malvagio e folle. Avrebbe potuto sparargli, in quel momento. Aveva davanti due pistole e due coltelli, accidenti, mentre Will era dall’altra parte della stanza, disarmato. Eppure perché non faceva nulla? Cosa lo fermava?
-Io non sono un mostro, Thomas. Sono un artista, un edonista, un seguace di Epicuro, chiamami come preferisci, ma non darmi del mostro. Tu non riconosci la vera essenza dell’arte, zuccherino.
Will rideva, lo guardava contorcersi al suono delle sue parola affilate come lame, fumando in pace la sua sigaretta e aspettando che collassasse, evidentemente.
Per ora solo le parole della “coscienza-Bill” gli avevano permesso di non impazzire del tutto “Resisti Tom, resisti e non concentrarti su quello che dice. Lo fa apposta per farti impazzire, perché lui sa che quella è la sua arma più letale. Sa che può giocare sulle menti degli altri e sfrutta questa sua innata capacità, ma su di te non deve avere presa. Tom, tappati le orecchie.”
-Questa non è arte! È follia! E ora, di grazia, vorresti spiegarmi cosa diavolo avresti fatto se io non fossi finito coinvolto in questo caso?
-Ah, sì, giusto.- Will fece una smorfia stufata, tornando ad appollaiarsi come un corvaccio sul divano – Vedi, caro, non sarebbe proprio andata come hai detto tu.
-Non avresti rapito Bill?!- Tom fece tanto d’occhi.
-E’ una cosa poco artistica, poco raffinata e poco divertente.- si accese un’altra sigaretta – Pensa in grande, Thomas.
Siccome Tom rimaneva immobile, pallido, e muto come un pesce, Will si rispose da solo, con un sorriso maligno e soddisfatto
-Avrei fatto qualcosa di artistico, raffinato e divertente. Lo avrei …
-Mi avresti ucciso, vero, Will?
Tom ci mise solamente una frazione di secondo a riconoscere quella voce melodiosa e sottile che si ripercosse tra la caduta del fulmine e quella del tuono in quel piccolo salotto saturo di fumo. Quella voce che aveva sentito quella fatidica notte fuori dal maggiolino, quella che lo aveva praticamente obbligato a offrirgli da bere, quella che lo aveva trascinato a ballare al Blue Vampire, quella che gli gemeva nell’orecchio le cose più sconce che avesse mai sentito durante le loro notti, quella che gli augurava il buongiorno miagolando, quella che ogni volta che si vedevano si alzava di un’ottava e lo assordava, quella che lo aveva convinto a mangiare il pollo alle prugne, quella che singhiozzava nella sua felpa, quella che lo aveva cacciato e se lo era ripreso, quella che aveva paura di morire, quella che lo amava e continuava a dirglielo, quella che lo chiamava “gattino”, quella che lo prendeva in giro, quella che lo cullava in ogni momento della sua esistenza. La voce del suo adorato, piccolo, Bill.
Si voltò di scatto, con un suono strozzato, mettendo finalmente a fuoco una figura slanciata in piedi di fronte alla porta del salotto, che teneva spianata davanti a se quella che poteva benissimo essere una pistola a doppia canna.
-Bill … - pigolò, alzandosi di scatto.
-Tesoro mio, sei tornato finalmente!- cinguettò Will, ridendo.
Tom guardò sconcertato il suo angelo, sempre vestito impeccabilmente come al solito, con i suoi tacchi quindici e i suoi gioielli, i suoi vestiti assolutamente glamour, il suo trucco perfetto e i suoi capelli senza il minimo filo fuori posto. Insomma, il solito Bill se non avesse avuto una pistola senza sicura e gli occhi prossimi al pianto, le mani insicure e la mascella tremante.
-Non … non sono tornato per te … - balbettò Bill, facendo oscillare lo sguardo da Tom a Will, terrorizzato. E vedendolo così con una pistola in mano non rassicurava di certo il povero rasta, che se ne stava abbarbicato alla poltrona, come lo spettatore di un orrendo film horror.
-Ma come sei diventato bello.- continuò imperterrito Will – Sei sempre uno splendore, Bill.
Si alzò, zoppicando verso Bill, il sorriso malefico apparentemente incancellabile.
-Non provare a toccarlo!- Tom non si rese nemmeno conto di quando balzò in piedi e afferrò la pelle gelida di Will, torcendogli il braccio per tentare di evitare che toccasse il suo angioletto. Mossa affrettata, come al solito per l’agente Kaulitz, che si ritrovò di nuovo sulla poltrona con la mano mostruosamente dolorante, quasi peggio di quando si era rotto il polso giocando a baseball a dieci anni.
-Te l’aveva detto July, vero zuccherino? “Non sottovalutarlo come ho fatto io”. Fai quello che ti dice, evita di metterti nei guai senza motivo.- Will lo guardò con aria divertita, mentre Tom si teneva la mano dolente e lo guardava con le lacrime agli occhi. Lacrime arrabbiate e impotenti. Aveva realizzato, come al solito con troppo ritardo, che quello era un nemico più pericoloso di quello che dava a vedere. Non lo aveva propriamente sottovalutato, quello no, però lo aveva semplicemente classificato come un pazzo psicotico da trattare con le pinze. Qualcuno che semplicemente aveva bisogno di una terapia intensiva di cure, della lobotomia, di essere seguito per il resto della sua vita da degli psichiatri, che riuscire in qualche modo a catturare fosse relativamente complicato. Uno che in fondo poteva avere delle sorte di freni, se riuscivi a capirlo nella sua mente contorta; qualcuno che forse aveva solo bisogno di aiuto. Ma ora capiva: di fronte a lui, erano loro ad avere bisogno d’aiuto. Non aveva il minimo freno inibitore, ed era fin troppo intelligente per farsi fregare. Will non aveva bisogno di essere aiutato, ma di essere eliminato. E c’era molta differenza; avrebbe forse fatto impazzire anche un gruppo di psichiatri esperti, se mai fossero riusciti a catturarlo, cosa di cui oltretutto cominciava a dubitare seriamente.
Bill gli si slanciò davanti, sfoderando i denti come se fosse una specie di cucciolo di pantera e se non fosse stato semplicemente terrorizzato Tom avrebbe sorriso. Ora riconosceva il suo piccolo Bill, il suo tigrotto della Malesia che lottava con i denti e con le unghie per tirarsi fuori dal mondo dove era stato a forza trascinato.
-Lui con noi non c’entra niente! Lascialo in pace!- ringhiò, mentre qualche lacrima trasparente cominciava a colare sulle guance pallide.
-Dici, tesoro? Però non è forse Thomas la causa di tutto questo stupido gioco, che oltretutto sta cominciando ad annoiarmi?- Will si arrotolò attorno a un dito una ciocca di capelli, tornando ad accoccolarsi sul divano, accendendosi un’altra sigaretta e soffiando una voluta di fumo sul viso di Bill.
-E allora smettila di giocare, no? Anzi, perché hai semplicemente iniziato? Cosa cerchi ancora da lui?- esplose Tom, cominciando a sudare freddo. Quella stanza si stava facendo troppo piccola e il caldo troppo pressante.
-La vendetta, ovviamente.- Will sfarfallò gli occhi, dirigendo il suo penetrante sguardo su Bill – Te ne sei andato senza nemmeno salutarmi, nonostante tutti quegli anni spesi a seguire la tua educazione. Ti sembra che ti abbia insegnato a comportarti così, Bill? Cosa ti avevo detto?
Tom seguì con lo sguardo sconcertato il suo angelo rannicchiarsi ai suoi piedi, abbassando la testa e stringendo spasmodicamente tra le mani tremanti la pistola, cercando di arginare le lacrime che cominciavano a scorrergli copiose sulle guance, trascinandosi dietro tutto il trucco. Non sapeva nemmeno perché non riusciva a fare qualcosa, ad abbracciarlo, a provare a consolarlo, a fargli sentire che c’era anche lui lì vicino. Eppure rimaneva fermo immobile, aggrappato a quella poltrona verde, troppo sconvolto per fare qualcosa e vittima delle parole secche della sua coscienza “Ormai tu non c’entri più in questo quadro. Sono loro i protagonisti, tu sei solo un’aggiunta che non c’entra e che deve starsene al suo posto. Te lo ricordi quel Velázquez  che avevi visto alle medie? Loro sono las meninas, tu sei il riflesso dei reali di Spagna nello specchio”.
-Che prima di andarsene bisogna sempre congedarsi educatamente dal padrone di casa.- recitò a memoria Bill, con la voce rotta.
-Esatto, amore mio. Tu l’hai fatto con me?
-No.
-E cosa ti avevo detto a proposito di me e te?
-Che non ci saremmo mai … mai dovuti … separare.
-Giusto, e ciò è successo?
-No.
-E di chi è la colpa?
-Mia.
-Da ciò cosa ne deduciamo, zuccherino?
-Che ora mi metti in castigo.
Tom si svegliò da quella specie di trance in cui era caduto una volta iniziato quello scambio di botta e risposta tra Bill e Will. La voce di uno, così zuccherosa e fastidiosamente stucchevole, ma con un fondo così malvagio e crudele da far accapponare la pelle e la voce dell’altro, terrorizzata e sottomessa, orribilmente pesante da ascoltare tanto si trascinava dietro quintali di tristezza e paura.
Non capiva perché Bill avesse di nuovo potuto cadere nella rete di quel ragno senza morale, come avesse potuto essersi distrutto in mille pezzi con il primo vento, come si fosse nuovamente lasciato soffocare dal passato ed essersi dimenticato del presente, però capiva chiaramente che ora solo lui poteva cercare di combinare qualcosa di buono. Dai, Tom, l’hai giurato a July, l’hai giurato a te stesso, l’hai giurato a Bill: tu l’avresti protetto e salvato. Tira fuori le palle e fai vedere chi sei.
-Ora, intanto che siamo solo noi tre, potresti farci la tua confessione. Perché tutto ciò? Come hai fatto? Che stava a significare?- la sua voce risuonò stranamente profonda in quella stanza, facendolo anche arrossire leggermente.
Bill alzò i suoi enormi occhi scuri su di lui, come se avesse appena fatto l’errore più madornale della sua vita, e gli si strinse contro la gamba in un gesto quasi di preghiera. E quello a Tom piacque particolarmente, un po’ come una rivendicazione della sua proprietà sul piccolo angelo autostoppista.
Will semplicemente sorrise, rimettendosi nella posizione in cui l’aveva accolto, fumando sempre con grazia la sua sigaretta e cominciò a parlare
-Come vuoi, Thomas. Ti racconterò tutto, per filo e per segno, tanto ormai nessuno di noi ha più tanto da perdere, no?
Su quel punto Tom avrebbe avuto di che obiettare, ma tacque e gli fece segno di andare avanti nel loro orrore.
-Ritorniamo a due anni fa, circa, quando mi sono svegliato dal coma. Te lo ricordi, Bill? Un brutto periodo, effettivamente, da dimenticare. Ero rimasto incosciente per circa cinque mesi, sei, non saprei dare una datazione precisa; in quel tempo Bill aveva avuto modo di farsi fare un lavaggio del cervello da parte di quel bastardo di July. Su, Thomas, questa parte non ti sarà nemmeno tanto nuova, e se non sei un completo idiota avrai già tratto le conclusioni che dovevi trarre.
-Lo stava convincendo a mollarti, vero? Insisteva affinché il vostro rapporto malato cessasse. Sì, questa parte la so.- grugnì Tom, sentendo Bill dare piccole e ripetitive testate sul suo polpaccio. – Da ciò ne ho poi potuto trarre le deduzioni che tu, una volta tornato a casa dall’ospedale, fossi diventato molto più violento e nervoso del solito e che quindi la pressione di July fosse andata a buon fine e che Bill se ne sia andato via una volta per tutte.
-Ma bravo, zuccherino. Sapevo che in fondo Bill non poteva andarsi a cercare un perfetto deficiente.- Will si guardò soddisfatto gli artigli – Esatto. Una mattina mi sono svegliato e Bill era scomparso; sai a quell’epoca dovevo prendere un sovradosaggio di tranquillanti e ansiolitici, se già non dormivo prima, figurarsi dopo tutti quei mesi di dolori indicibili. Quindi, per quelle poche ore che riuscivo a dormire, non sentivo niente. Quel piccolo, schifoso ingrato ha pensato bene di scomparire nella notte e di lasciarmi un misero bigliettino d’addio. Puoi ben capire che un’onta simile non può essere perdonata se non in un bagno di sangue.
-Ma ti ha solo mollato, cazzo! Non ti ha ucciso la madre!- urlò Tom.
-Toooom, Tom, è inutile!-  strillò istericamente Bill, alzandosi in piedi – Ho messo nei guai tutti, è colpa mia se quei ragazzi sono morti, è tutta colpa mia se anche tu sei finito in questo casino, non dovevo farlo! Avrei dovuto prevedere che si sarebbe scatenato questo pandemonio, sono un disastro!
-Invece sì che dovevi andartene! Ognuno in questo mondo è libero di fare quello che gli pare! Tu non hai colpe, Bill!- il rasta si alzò a sua volta, mandando lampi.
-Invece le ha, perché i triangoli parlano chiaro.- Will continuava a ridere, e questo a Tom dava più che sui nervi.
-I triangoli non vogliono dire un tubo, sei solo un malato di testa! Lui ha solamente seguito la sua strada!- a quel punto Tom non sapeva più da che parte girarsi, se verso il suo assassino che rimaneva imperturbabile o verso Bill che aveva cominciato a piangere lacrime gonfie di rabbia trattenuta per troppo tempo.
-La sua strada ero io, Thomas. Lo sono sempre stato.- Will ghignò, muovendo i due alfieri fino a che fossero tutti e due davanti alla regina. Un solo passo.
-La strada verso la mia autodistruzione! Tu non hai fatto altro che rendermi un pupazzo nelle tue mani, mi hai rovinato completamente, è tutta colpa tua se adesso non so nemmeno cosa vuol dire essere un ragazzo normale. Mi hai fatto diventare una marionetta solo perché avevi bisogno di qualcuno che ti fosse schiavo! Ho capito, io ho sbagliato il modo di farlo, ma la colpa è di entrambi.
Tom non riconobbe quasi più Bill in quel momento; stava dicendo esattamente quello che gli aveva detto lui qualche ora prima, lo stava imitando. Quello fu un gran sollievo: aveva smesso di cercare un modo contorto per proteggere Will, stava semplicemente auto dicendosi quello che aveva bisogno di udire solo da se stesso.
-Ti ricordo, caro, che se non fosse stato per me tu ora saresti morto e sepolto. O se per qualche miracolo fossi sopravvissuto, quel giorno di nove anni fa, non saresti altro che una baldracca qualsiasi, o un ladro da due soldi, se non addirittura la concubina di qualche magnate del petrolio. Se non avessi trovato me, ti potrei immaginare mezzo divorato dall’Aids, scavato dall’eroina e dal crack a poco prezzo. Quindi, se non ti dispiace, una parte di meriti dovrei averla anche io, se ora sei sano, bello come il sole, ricco perché lo so che July ti paga molto bene, felice, sistemato con questo zuccherino e, soprattutto, vivo.- Will sottolineò l’ultima parola calcandoci per bene sopra, beandosi delle espressioni di Tom e Bill.
-C’è modo e modo di avere dei meriti nella vita di qualcuno.- sbottò Tom.
-Se lo dici tu, Thomas.- Will si accese l’ennesima sigaretta, e a quel punto per il rasta respirare si stava facendo sempre più difficile. C’era troppo caldo, troppo fumo e troppa tensione in quella stanzetta. – Quei due tristi anni passati senza la dolce compagnia di Bill li spesi in giro per il mondo, impegnato in affari che non vi riguardano, mentre stendevo il piano per attuare una vendetta degna del mio genio. Poi sono tornato a Berlino, per poter finalmente ucciderti, tesoro mio. Solamente che mi sembrava piuttosto meschino limitarmi a venire da te e spararti un insipido colpo di pistola in testa, non trovate? Dovevo in qualche modo organizzare un qualcosa di grandioso, di divertente, perciò pensai bene di creare una rete di omicidi per avvertirti del mio ritorno. Anche se ammetto che ero certo fossi più sveglio, Bill. Ci hai messo troppo ad arrivarci.
-Avvertimenti?- balbettò Tom – Hai ucciso quattro persone per “avvertirlo”?
-E anche per divertirmi, zuccherino. Due anni passati in completa solitudine sono noiosi, sai? Devo raccontarti nei minimi dettagli come ho organizzato i miei omicidi, immagino. Bene, iniziamo dal principio. Ovviamente non avevo una vittimologia precisa, come nemmeno un orario, invece i luoghi li avevo prestabiliti di modo da poter creare il pentacolo che hai così brillantemente scoperto. La morfina iniettata direttamente in endovena nel collo ha effetti pressoché immediati e terribilmente disastrosi, e come puoi immaginare io ho moltissime dosi di morfina medica. E ho visto che hai anche capito come facevo ad attirare le mie vittime; certo, fingendo di stare male. In questo mondo chi non cerca di aiutare un ragazzo moribondo?
-Approfittavi della bontà della gente!
-Smettila di interrompermi, Thomas, mi sto innervosendo. Una volta drogati li facevo salire in moto e li portavo nei posti prestabiliti; l’unico che non ho dovuto trascinare per mezza Berlino è quello della Kartoffeln. Poi gli sparavo un colpo esattamente al centro del cuore. Ovviamente è una simbologia; Bill, caro, ora pensi di aver capito?
-Dritto al cuore, dove io ti ho ferito.- mormorò Bill, sempre più pallido, con una voce talmente vuota da non sembrare nemmeno la sua.
-Esattamente. E poi non avevo nulla contro quei quattro ragazzi, non mi interessava che soffrissero. I tagli li ho fatti con questo, se ti interessa.- Will indicò con un gesto del capo il kris malese posato sul tavolino – Su, vediamo se hai studiato: perché le braccia e il collo?
-Perché le braccia sono le vie di Sobyeol, mentre il collo di Daebyeol.- lo sguardo di Bill era mano a mano diventato più sottile, più furibondo. Forse avere Tom lì vicino a ricordargli che era diventato una persona nuova gli serviva da contrappeso. – Tom, sono i due gemelli padroni dell’Oltretomba e della Terra secondo la cosmologia coreana.
-Hai un’ottima memoria, caro. La croce immagino sai già che cosa voglia dire, no?
-Rabbia cieca.- rispose prontamente Tom.
-Quindi la ricostruzione ormai è perfetta: cuore, divinità ancestrali, sangue, ira e il pentacolo. E devo dire che all’inizio è stato abbastanza divertente, sfidarti e aspettare la reazione di Bill, che avrebbe dovuto capire alla perfezione le mie intenzioni sin dal primo cadavere.- Will ghignò – Però poi mi sono annoiato. Tu non capivi assolutamente, e tu eri troppo eroico per i miei gusti. E ora non solo mi tocca uccidere Bill, ma anche te, Thomas. Mi hai rovinato il piano.
-Tu non ucciderai né me né Bill! Arriveranno i miei colleghi e ti sbatteremo in carcere per il resto della tua miseranda esistenza, e ringrazia piuttosto che in Germania è stata abolita la pena di morte, perché sennò saresti stato il primo a finire nel Braccio- sbraitò Tom.
-Tu dici, tesoro? Non credo proprio che andrà come hai detto.
-E io credo proprio di sì. Ma salterai la galera.
Tom pensò di essere diventato pazzo di colpo, quando si trovò davanti Bill in lacrime che stringeva tra le dita la pistola e la puntava esattamente sulla tempia di Will, sempre tranquillissimo che fumava pacifico.
-No, Bill, stai calmo, che cosa stai facendo … - Tom si alzò barcollando. Non voleva che il suo angelico demonio fosse arrestato per omicidio, proprio no. Stava accadendo tutto così in fretta, come se stesse precipitando sempre più velocemente in un vortice di sangue e orrore da cui non riusciva a uscire. Avrebbe solo voluto svegliarsi ansante e sudato nel suo letto, con Bill stretto accanto che lo rassicurava dicendogli che era tutto un orrendo sogno. Che non era successo nulla di tutto ciò, che Will non era mai esistito, che era tutto frutto della sua mente eccitabile. E poi tornare a dormire insieme, pacifici, come se nulla fosse accaduto. Eppure sapeva che non era così. Che se si fosse dato un pizzicotto e si fosse schiaffeggiato sarebbe comunque rimasto lì, in quel salotto, pronto a dover testimoniare per un brutto omicidio fatto dal suo fidanzato. Però non voleva assistere a niente, voleva solo chiudere gli occhi e scomparire, sapere che Bill non lo avrebbe fatto. Gli sembrava di non essere pronto a vedere certe cose, a sentirne altre, a trovarsi di fronte al dubbio tra la Giustizia e Bill. Anche se forse, lo sapeva, anche se il suo istinto da poliziotto gli diceva di dover spalleggiare la Giustizia, il suo cuore e il suo cervello gli urlava di stare dalla parte di Bill. E lui sarebbe stato sempre dalla parte del suo piccolo angelo, anche a costo di tradire la Giustizia. Anche a costo di seguirlo all’Inferno.
-No, Tom, non ci sto calmo!- strepitò Bill, premendo con più forza la pistola sulla tempia di Will – Questo lo sto facendo per noi due! Me l’hai detto anche tu: non esisterà il futuro di Tom e quello di Bill, esisterà il futuro di Tom&Bill. E mi spieghi come potremo vivere la nostra vita in pace se sarò costretto a sapere che lui è vivo, che potrebbe evadere, che potrebbe tornare ogni momento? Come riuscirei a resistere alla pressione psicologica di essere sempre in pericolo, e soprattutto di sapere che tu saresti in pericolo esattamente come me solo perché ci siamo trovati e ci siamo innamorati?! No, non ci sto! Se lui morisse, e se fossi sicuro che lo facesse sul serio, potrei metterci una pietra sopra e stare tranquillo per il resto della mia vita. Tom, ti rendi conto di quello che potremmo fare? Potremmo sposarci, potremmo essere felici, potremmo raggiungere un’ipotetica vecchiaia e non separarci mai; forse addirittura morire insieme.
-E’ buffo come queste cose le ripetevi sempre a me, fino a tre anni fa.- interruppe Will, spostando delicatamente la canna della pistola dalla sua tempia per poggiarsela sul cuore. – Vedo che non sei cambiato, tesoro. Sempre la solita puttana che si vende al migliore offerente, che ripete le solite tre frasi volute dalle circostanze, che si adegua al suo nuovo padrone, che non sa vivere da sola. Non cambierai mai, Bill, ricordatelo: non cambierai mai.
-Io sono cambiato!- strillò Bill – Sono cambiato e non sono una puttana, mettitelo bene in testa! Tom mi ama e io amo lui, non è amore a senso unico come quello che provavo per te!
-Io ti amavo, caro. Sei tu che non te ne sei mai accorto.
-Non ti voglio più sentire! Non mi rovinerai più la vita.
Will rimase immobile quando Bill spinse ancora più a fondo la canna della pistola sulla sua pelle ustionata, con il ghigno incancellabile sulle labbra e un’aura di tranquillità percepibile anche a distanza. Tom non sapeva nemmeno che dire, che fare. Rimaneva immobile, impietrito sulla poltrona, lo sguardo congelato sulla orrida piéce che stava giungendo alla sua naturale conclusione che aveva luogo davanti ai suoi occhi inumiditi dalla paura.
-Ti mancherò, Bill. Quando mi avrai ucciso ti pentirai amaramente di non sapere più che io esisto. Hai bisogno di me, e lo sai.
-Avevo bisogno di te. Ma ora ho bisogno di Tom; e tu sei finito, Will, finito! Mi volevi ammazzare, bene non ce l’hai fatta. Forse è un segno della tua non più proprietà su di me. Siamo finiti tutti e due, è ora di dirci addio, cosa ne dici?
Bill piangeva, parlava a fatica, soffocandosi con le sue stesse lacrime. L’amore che provava per Tom era più potente di qualsiasi ricordo che la sua mente continuava a proiettargli davanti agli occhi. Stava pian piano tirando giù le barriere di qualcosa che lo aveva tenuto segregato per troppo tempo, che lo aveva lasciato schiavo della memoria impedendogli di vedere lucidamente il presente.
-Allora premi il grilletto, tesoro. Fammi vedere che sei cambiato e uccidimi. Forza, sono qui, davanti a te, sto aspettando. Dai, amore mio, spara.
-Gu … guarda che lo faccio, Will … lo … lo faccio- balbettò Bill, cominciando a premere impercettibilmente sul grilletto.
-Lo so, dolcezza. Lo so che lo farai. E so anche che non sei cambiato proprio per nulla, sei sempre il Bill che conoscevo io, che ha bisogno di un uomo che lo tenga sotto alle proprie redini, che deve essere comandato e cresciuto. Sì, tesoro, tu senza di me non sei niente. Bill, ricordati questo: tu non sei nessuno.
Will rise in modo cattivo, acido, stringendo il viso di Bill tra le proprie dita scheletriche, sillabando per l’ultima volta “Tu non sei nessuno”.
E Bill sparò.

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Capitolo 18
*** Sesto senso, gattino! ***


CAPITOLO DICIOTTO: SESTO SENSO, GATTINO
Tre settimane dopo la risoluzione del caso.
 
-E ora che hai intenzione di fare?
Georg bevve rumorosamente un sorso del caffè bollente e acquoso delle macchinette. Ormai era giugno, avrebbe preferito volentieri un qualcosa di fresco, ma il Dieci era ancora troppo indietro rispetto agli altri distretti per potersi permettere qualcosa che non fosse la vecchia macchinetta che faceva solo caffè annacquati e dava barrette energetiche scadute da tre mesi.
-Mi ha chiesto di trasferirmi da lui.
Tom assunse un’espressione sognante, guardando il suo riflesso nello schermo rigato del computer, quello di un ragazzo rasta senza divisa che poteva sembrare tutto meno colui che era riuscito a risolvere il caso del serial killer delle croci. Aveva avuto orribili incubi durante la prima settimana dopo che la squadra aveva fatto irruzione nella casa maledetta; si erano trovati davanti un salotto caldissimo, impregnato di fumo da dare la nausea, con il cadavere del loro assassino ancora sorridente e spiritato, Tom semi svenuto sulla poltrona in stato confusionale, e la finestra distrutta, come se qualcuno ci si fosse buttato contro. Non era stato un bello spettacolo. Era riuscito a superare il trauma, ovviamente, dopo che aveva saputo che Bill stava bene e che non gli sarebbe successo niente per quella strana cosa degli “Intoccabili d’Inchiostro”. Non aveva chiesto spiegazioni dettagliate, gli era solo bastato il “Bill-chan sta bene, Tom-sama. Oserei dire, meglio di prima” che gli aveva detto July per telefono. Si erano potuti vedere solamente dopo una settimana dal fatto. Certo, Bill aveva una faccia poco in salute, abbastanza scioccata e Tom non poteva dargli torto. Anzi, si meravigliava invece di quanta forza d’animo aveva in realtà il suo angelo per essere riuscito addirittura a uccidere il suo incubo. Forse stava maturando anche lui, e July non avrebbe più potuto dire che era debole. Ce ne voleva di forza, coraggio e disperazione per fare quello che aveva fatto, per cancellare senza rimorsi il passato e aprirsi a un nuovo presente, per eliminare senza mezzi termini la propria fonte di paura. E Bill aveva superato anche quella fase; si poteva dire che fosse risorto a nuova vita, dopo che era incappato in Tom, quella calda notte di maggio. Era cambiato dentro, senza in realtà cambiare mai. Aveva rimarginato una ferita che continuava a sanguinare e a infettarsi, l’aveva chiusa una volta per tutte superando dolori indicibili nel farlo. Avrebbe fatto male, certo, anche in futuro. Ma gli avrebbe comunque permesso di fare tutto ciò che voleva senza sentirsi legato al sangue che scorreva copioso da essa.
-E tu che pensi di fare?- chiese Gustav, addentando con gusto un panino al salame.
-Mi trasferirò da lui, è ovvio!- Tom rise. Era così felice quando glielo aveva chiesto, col suo sorriso dolce e malizioso, abbassando la testa e arrossendo deliziosamente, come se fosse una cosa così difficile e pericolosa da dire.
-Quindi i ragazzi dovranno trovarsi un altro coinquilino che abbia il coraggio e la follia di sopportarli.- ridacchiò Georg.
-Non credo proprio.- Tom si alzò, aprendo la finestra della stanza – Queste due settimane sono state ricche di avvenimenti per tutti noi; a parte il mio prossimo trasferimento, Claudia e Raghnild hanno trovato un piccolo appartamento a poco prezzo vicino al bar dove lavora Cla e hanno deciso di trasferirsi lì. Non dovranno condividere la casa con investigatori svitati e svedesi naziskin e si faranno la loro vita in pace. Per quanto riguarda Kalle, mi ha detto che torna in Svezia. È riuscito ad aprirsi uno studio di tatuaggi a Goteborg, e poi Eva Lisa e Eva Lotta, sapete, le sue due fidanzate gemelle, sono incinte.
-Cosa?! Non ci dire che quello svitato, razzista, casinista, tossicomane, neo nazista, folle ragazzino con quei fottutissimi capelli blu diventa padre!.- urlarono in perfetta sincronia Georg e Gustav, lasciando cadere caffè e panino.
-Che vi devo dire, è la vita. E poi lui è contentissimo. Sembreranno una comune hippy.- Tom sorrise, infilandosi il suo fido berretto da skater – Quindi la casa rimane vuota. E chissà che non troverà qualche altro ospite matto come lo siamo noi quattro.
-Dove vai ora?- grugnì Georg, cominciando a mettere a posto le pratiche sbuffando. Aveva chiesto a Heike di uscire, quel piovoso pomeriggio, ma lei non si era ancora decisa a dirgli sì o no. E questo lo mandava in bestia: cioè, ma era così difficile dargli una risposta senza mezzi termini? Avrebbe preferito un no secco, a tutta quella snervante attesa costellata dai commenti idioti alla Gustav.
-Al negozio, July mi aveva detto di andare lì per le cinque che mi deve fare una sorpresa. Non oso immaginare cosa abbia combinato.- Tom continuava a sorridere con aria ebete. Quella sera sapeva che sarebbe andato a dormire da Bill, ed era ben tre settimane che non dormivano insieme. Ammetteva che a volte di notte si sentiva solo, e abbracciare il suo orso di peluche non serviva a sostituire l’appiccicosa presenza del suo adorato angioletto infernale.
-Ah, e di a Bill che però la prossima volta farebbe meglio a non uccidere i nostri indagati. Non è stato semplice mascherare l’omicidio.- gli urlò dietro Gustav.
Già, l’omicidio. Tom prese il maggiolino più scasso del mondo, che sapeva sempre di cioccolato, caffè, inchiostro e sigarette, il suo profumo preferito, e ripensò a quando era arrivato in ufficio, il giorno dopo, e il commissario capo Mann lo aveva preso da parte e gli aveva detto con aria grave
-Senti, Kaulitz, si può sapere che è successo in quella casa? Chi ha ucciso quel bastardo? E perché la finestra era distrutta?
Tom si era sentito in dovere di raccontare tutto all’anziano commissario, per filo e per segno. Si fidava di lui, in fondo era stato il suo mentore e nonostante le lavate di capo, le minacce di cacciarlo per sempre dalle forze dell’ordine, e i vari insulti che gli urlava dietro ogni momento, lo aveva aiutato e spalleggiato per qualunque cosa. E poi ormai che era tutto finito, poteva anche raccontare a qualcuno tutto il casino in cui si era cacciato, anche se comunque omise la presenza di July nella scena. Lo accennò solo, per sentito dire. Ormai si era affezionato anche allo Scorpione, era diventato suo amico, non poteva tradirlo così, anche andando contro ai suoi principi morali di una vita. Ma tanto, a quel punto, ne aveva ancora di principi morali?
Il commissario Mann gli aveva dato un pugno in testa alla fine del racconto e se ne era andato borbottando “sti giovinastri d’oggi …”; però poi, non si sa come, su tutti i rapporti venne trovato scritto che Wilhelm Schadenwalt si era suicidato con la pistola che era stata trovata sul tavolino, e che la finestra era già rotta prima dell’intervento dell’Anticrimine. Non veniva menzionato da nessuna parte che un certo Bill Schadenwalt lo aveva ucciso e poi, appena sentito il trambusto dell’arrivo della Polizia, aveva rotto la finestra con un calcio ed era scomparso di corsa per i tetti di Berlino. E di questo Tom fu immensamente grato al buon, vecchio, antiquato ma pur sempre buono commissario capo.
Arrivò davanti al negozio “Carabattole e Ammennicoli vari” e posteggiò il vecchio maggiolino dietro a una Porsche Cayenne a due posti nuova di zecca. Sbuffò. I soliti riccastri che si potevano permettere gioiellini simili … lui, come minimo, avrebbe continuato fino alla morte a guidare quel benedetto maggiolino che perdeva i pezzi oppure a fare inseguimenti su Berta. No, come al solito, niente aumento di stipendio per l’agente Kaulitz, anche se aveva scoperto il serial killer di Berlino. Erano o no il Distretto Dieci, quello dei ritardatari, del casi clinici, degli sfigati e soprattutto, quello sempre in bolletta da quando era nato?
-Annyeonghaseyo, Tom-sama. Sei stato veloce a venire.
La voce melodiosa e cantilenante di July lo accolse non appena mise piede nel buio pesto del negozio. La solita lampada cinese era accesa in fondo alla stanza, i soliti incensi e droghe appesantivano l’aria, i soliti mandarini ti squadravano dall’alto delle loro nuvolette celesti. Ma ora a Tom non facevano più paura.
-Annyeonghaseyo, July.- “buongiorno” era l’unica parola coreana che Bill era riuscito a fargli imparare dopo lotte furibonde con suoni che le corde vocali di Tom si rifiutavano di assimilare – Mi hai cercato?
-Ho un regalo per te.
July scivolò silenziosamente vicino a lui, spingendolo verso l’uscita con le sue manine ingioiellate, le unghie lunghe e dipinte di viola acceso con le strisce zebrate. Il kimono nero con gli angeli della cosmologia giapponese gli cadeva troppo grosso sul corpo, come al solito. Accanto a lui comparvero, dalle oscurità più recondite del negozio, June e May, entrambe perfettamente pettinate, truccate, e abbigliate come due splendide e letali geishe. Sorrisero a Tom, abbracciandolo forte e il rasta ricambiò impacciato l’abbraccio, sorridendo nervosamente allo sproloquio che gli rovesciarono addosso saltellando. Era inutile che tentasse di raccontarsela: le due ragazze continuavano a fargli un po’ paura, come fossero due tigrotti ammaestrati che comunque in qualsiasi momento avrebbero potuto azzannarlo e divorarlo.
-Perché mi avresti dovuto fare un regalo?- chiese Tom, non sapendo se essere contento della cosa o leggermente spaventato.
-Beh, Tom-sama, intanto hai salvato il nostro piccolo Bill-chan e questo è una cosa encomiabile. Hai avuto abbastanza coraggio da rischiare la tua stessa vita per lui; e nel nostro regolamento quando qualcuno fa una cosa del genere per salvare un familiare di uno dei Signori con cui non è imparentato, insomma, viene giustamente ricompensato.
July sogghignò vedendo l’espressione ancora infantile di Tom. Perché in fondo era ancora un bambino dentro, un buffo, coraggioso, eroico, innocente bambino.
-Ehi, però io non sono uno di voi! Sono un agente dell’Anticrimine, non un malavitoso!- sbottò il rasta, sentendosi avvampare sotto gli sguardi divertiti dei tre coreani.
-Certamente, Tom-sama. Non ne abbiamo mai dubitato. E poi anche perché hai ucciso il mio adorabile gattino siamese. Era impazzito del tutto, povero caro.- July ghignò sinistramente, sussurrando qualcosa alle sue sorelle, che si limitarono a ridere forte, ondeggiando sui sandali da geisha.
-Ma io non l’ho ucciso. L’ha fatto Bill.- corresse Tom, grattandosi la guancia.
-E’ come se l’avessi fatto tu; senza il tuo aiuto, Bill-chan non ne sarebbe stato in grado. Sentiti importante, per quello che hai fatto. Hai salvato e tirato fuori dall’orrore un’anima candida.- July si girò, prendendogli le mani tra le sue, fissandolo con i suoi grandi occhi neri ricoperti di glitter e brillantini – Tu hai recuperato quel piccolo gattino solitario, lo hai fatto vivere di nuovo, gli hai mostrato un nuovo presente e gli hai tolto le cicatrici del passato. Prenditi cura di lui, Tom-sama. Non abbandonarlo mai. Non sarebbe in grado di reggere anche la tua scomparsa; devi esserci sempre per lui. Devi amarlo per sempre. Bill vive per te. Non lasciarlo morire.
Tom si ritrovò ad annuire come uno scemo, congelato dalla ferrea stretta del ragazzo, perso in quelle iridi nere, come se un flusso di qualcosa di inumano gli stesse fluendo dentro. Si sentì trasportato in un’altra dimensione paradigmatica, dove c’erano dragoni cinesi, e geishe ridenti, e mandarini che lo scrutavano dall’alto delle loro nuvolette. E poi c’era Bill, seduto su un altare, che sorrideva e gli tendeva la mano, lo chiamava dolcemente, e lui scalava le nuvole e correva da lui, sotto lo sguardo di July, che non era da nessuna parte ma era allo stesso tempo dappertutto, come se fosse un dio. Il dio.
-No, non lo lascerò mai. Lo amo, e lo amerò tutta la vita. Sarò il suo tutto, ora e sempre.- sussurrò Tom più a se stesso che altro, vedendo se stesso arrivare ad afferrare la manina di Bill, farsi tirare su quell’altare e ritrovarsi tra le braccia del suo angelo, l’altare che si tramutava in una specie di carrozza trainata da un dragone rosso e verde che solcava i cieli, e le geishe, i draghi, i mandarini che applaudivano e si inchinavano al loro solenne passaggio, e di nuovo la sensazione che July stesse manovrando dall’alto del suo mondo le fila della loro carrozza.
-Bravo, Tom-sama. Ora guarda!
Tom aprì gli occhi, leggermente trasognato da quella visione lampo ma estremamente pregnante, e vide July che sorrideva radioso insieme a June e May che gli mostravano la Porsche Cayenne a due posti dietro cui aveva posteggiato.
Il rasta si grattò i dread, spalancando gli occhi.
-Ehm, sì, la macchina del riccone … perché?
-E’ il tuo regalo, sciocchino. La Porsche è un piccolo gesto della nostra eterna gratitudine.- July sorrise sardonicamente.
Tom spalancò la bocca, boccheggiando più volte.
-Cioè, fatemi capire. Ora ho una Porsche Cayenne?!
-Sì, Tom-sama.
-Ho una Porsche. Mio Dio, la Porsche dei miei sogni!
Tom si spalmò sul cofano della vettura argentata, sentendo il suo cuore aumentare i battiti e un sorrisone farsi largo sul suo viso. Addio maggiolino, addio Berta, addio agente squattrinato. Aveva la macchina sportiva che sognava da quando era un bambinetto che dormiva coi peluche! Beh, non che ora non ci dormisse.
-Ho sentito della scommessa fatta da te e Bill prima che iniziasse questa scottante faccenda.
Tom si immobilizzò, girandosi con lentezza e con una smorfia sconvolta sul viso.
-Qu… quale scommessa?
-Ma quella in cui tu avevi detto che se fossi riuscito a ottenere una macchina nuova alla fine del caso, Bill si sarebbe dovuto vestire con uno dei nostri cosplay da cameriera, mentre se non ce l’avessi fatta ti saresti dovuto presentare in centrale truccato.
-E tu come fai a saperlo?- Tom assunse un’espressione abbastanza ingenua.
-Nel negozio ci sono mille occhi e mille orecchie, Tom-sama. Niente di quello che accade mi sfugge.- July sogghignò, dando un delicato buffetto sulla guancia del rasta.
Vero, Tom se l’era già quasi scordata quella scommessa. Con tutto quello che era successo, non ci aveva minimamente pensato. Certo che sarebbe stato in guai grossi se Bill se lo fosse ricordato … non osava immaginare la sua entrata in ufficio con la faccia impiastricciata di trucco. L’avrebbero preso in giro fino alla morte, sarebbe rimasto negli annali del Dieci per secoli e secoli. E con la sua fortuna, sarebbe stato proprio il giorno in cui il sovraintendente sarebbe andato a controllare come funzionava il distretto più sfigato di Berlino.
-Ma allora me l’hai regalata anche per farmi vincere?
-Certamente; sai, Bill-chan ha la brutta abitudine di vincere qualsiasi scommessa e questo dopo un po’ può essere snervante. Non mi sembrava una brutta idea quella di farti vincere.- July gli indicò il sedile del passeggero, dove vi era accuratamente piegato e incartato il vestito da cosplay che aveva scatenato l’interesse di Tom qualche tempo prima.
-Wow, cioè, grazie mille, non so che dire- Tom si passò una mano sul viso, gli occhi brillanti di gioia. Non vedeva l’ora di andare a casa di Bill con la sua nuova, bellissima, fantastica macchina. – Io le perdo tutte le scommesse che faccio …
-E allora buona fortuna, Tom-sama. A proposito, sappi che per due mesi circa il negozio lo gestirà Bill da solo. Ce ne andiamo.
Tom si girò con la bocca aperta verso i tre coreani, sbattendo le palpebre
-Ve ne andate? E dove? Ma poi tornate, vero?
-Torniamo a Pyongyang per affari e perché ci manca casa. Ma tra qualche mese torneremo, certamente. Quindi buona fortuna, Tom-sama. Sindeul-i hamkke issda.
Gli posò la mano sul cuore, sorridendo, e Tom si sentì nuovamente avvolgere da quella strana sensazione di leggerezza e magia che lo avvolgeva ogni qualvolta che July lo toccava. C’era qualcosa di strano e magico, in lui, anche se non sapeva cosa.
-Ulineun dangsi-eul salanghabnida!- strillarono May e June, abbracciandolo di nuovo. Ah, quello Tom sapeva che voleva dire ti vogliamo bene.
-Anche io vi voglio bene.- rispose, riabbracciandole a sua volta. – Ci si vede presto.
-Forza, vai da Bill-chan, Tom-sama. Ti starà aspettando.
Tom annuì contento, saltando al volante della sua nuova, bellissima, macchina. Chissà che faccia avrebbero fatto Georg e Gustav quando lo avrebbero visto arrivare sgommando di fronte all’Anticrimine.
Si diresse verso la Amburg Strasse, guardando la strada sognante e non vedendo l’ora di dare il vecchio e malconcio maggiolino a Claudia, l’unica che veramente stravedeva per lui. Pioveva, ma non gli importava. Nonostante la strada dove abitava l’angelo, e dove si sarebbe trasferito a breve (e questo pensiero gli dava sempre dei brividi di gioia), fosse piena come sempre di scarti umani, sporcizia di ogni genere, sangue rappreso per strada e altre brutture, a Tom sembrò luminosissima, di una luce nuova e splendida. Anche il caldo era diventato più accettabile del solito, come anche l’umidità terribile e l’afa pesante.
Posteggiò gongolante la Porsche proprio sotto la finestra di Bill, non vedendo l’ora di dirgli che aveva perso la scommessa. Prese il vestito e si diresse quasi di corsa su per le scale strette e puzzolenti di vinaccia, superando le solite robe che costellavano le rampe, evitando con grazia le bottiglie rotte per terra, e lanciando un’occhiata quasi affettuosa al vecchio e mostruoso ascensore che aveva assistito al loro primo bacio. Sì, certo, non era quello che si chiama posto romantico, ma è stato pur sempre un posto importante per la loro buffa e sregolata storia d’amore. E poi, come esisteva l’archeologia industriale, poteva esistere anche  il romanticismo industriale, no?
Si fermò davanti alla porta di legno scuro, poco stabile e prese un profondo respiro. Non sapeva nemmeno bene lui perché, ma Bill gli continuava a fare l’effetto devastante della prima volta che lo aveva incontrato. Lo sfasava, lo bistrattava, lo sconvolgeva. Era qualcosa di cui ormai il corpo e il cervello di Tom non potevano più farne a meno, erano la sua droga, la sua overdose. Bussò delicatamente, calcandosi meglio il berretto in testa e schiarendosi la voce. Nemmeno fossero al loro primo appuntamento, doveva darsi una calmata, accidenti.
-Tommuccio, finalmente sei arrivato, temevo te ne fossi dimenticato!
La voce deliziosamente acuta di Bill si ripercosse nel pianerottolo, e davanti a Tom apparve in tutto il suo splendore di trucco appena rifatto e capelli perfettamente lisciati che gli ricadevano sulle spalle magre. Però aveva addosso solo una vestaglia di seta rosa con lo jabot. E questo non andava bene per la sanità mentale di Tom. Era qualcosa di troppo. Gli occhioni delineati da strati di trucco erano ancora più belli di prima, come fossero una cascata stellare. Se prima erano un fiume turbinoso e intenso, bloccato prima di cadere nell’abisso e tempestoso di mille pensieri e mille problemi, ora erano una cascata splendida e gioiosa, sollevata dalla pesantezza del passato e dei ricordi. Scorreva libera da qualsiasi trappola, sorrideva al mondo, riconosceva la sua libertà che così faticosamente aveva conquistato. Ora Bill sembrava veramente felice, ancora di più. Sembrava completo.
-Ho avuto un fortunato contrattempo, tesoro.- Tom lo prese in braccio, stampandogli un sonoro bacio sulle labbra carnose.
-Uhm, che genere di contrattempo?- miagolò Bill, sistemandosi meglio tra le braccia di Tom e appoggiandogli la testa sul petto, giocherellando con i suoi tubi e col berretto.
-Ti ricordi la nostra scommessa?- il rasta lo trasportò fino alla finestra del salottino, affacciandosi e strofinando il naso nei suoi capelli incredibilmente profumati.
-La scommessa! Me ne ero quasi dimenticato!- Bill rise, battendo le manine – E quindi, mio bellissimo rasta? L’hai conquistata la macchina nuova o hai sempre quel macinino catorcio?
Gli leccò il lobo sogghignando e Tom si sentì invadere da una doppia eccitazione. Perché lui l’aveva la macchina nuova, caro il mio Bill!
-Quindi, mio bellissimo angioletto, ti posso portare dove ti pare visto che quella Porsche lì sotto è del sottoscritto.
Sentì Bill irrigidirsi completamente tra le sue braccia e saltare giù, affacciandosi pericolosamente alla finestra e guardare la macchina con la sua carrozzeria brillante e lucida di pioggia.
-Quella macchina è tua?!- strillò poi, girandosi verso Tom con gli occhi fiammeggianti.
-Pare di sì.- Tom rise, dandogli una sonora pacca sul fondoschiena, grattandosi le guancia – La scommessa l’ho vinta io, Billuccio del tuo Tom.
-Tu non hai tutti quei soldi!- strepitò l’angelo furibondo, cominciando a gesticolare nervosamente. Colpito e affondato bambolotto, pensò sogghignando il rasta.
-Infatti è un regalo; non avevi specificato come dovevo ottenerla. Accetta la sconfitta.
Bill grugnì, squadrandolo e aveva una smorfia arrabbiata così tenera che a Tom venne quasi da ridere. Il suo piccolo, dolce, Bill.
-Immagino sia stato July a dartela, no?- mugugnò.
-Esatto. E mi ha dato anche questo, visto che ho vinto.- Tom sventolò il pacco del cosplay ridendo a più non posso – Forza, caro, mettitelo. I patti sono patti.
-I patti sono patti.- ripeté Bill, strappandogli il pacco di mano con una smorfia di orgoglio ferito e si avviò a passo di carica nell’altra stanza.
Tom si lasciò andare a un sospiro divertito, legandosi i dread in una coda alta. E così Bill era veramente abituato a vincere le scommesse … beh, un altro nuovo inizio col botto. D’ora in avanti avrebbe trovato pan per focaccia con Tom al fianco. “Tom, razza di coglione, a chi vuoi darla a bere? Questa sarà la prima e ultima volta che fregherai Bill, ricordatelo” lo zittì come al solito la sua acida coscienza.
-Sei contento adesso?
Tom alzò la testa verso Bill, appena entrato nella stanza, il mitico cosplay da cameriera addosso. La camicetta con le maniche a sbuffo gli stava un po’ larga sul petto, ma la gonnellina inguinale gli andava letteralmente perfetta, così come il grembiulino bianco. Tom fece un fischio di apprezzamento, beccandosi uno schiaffetto sulla guancia.
-Sembri una di quelle tipo che disegnava Kalle. Quelle dei come si chiamano …
-Manga, gattino, si chiamano manga. E sì, è un cosplay, no?
Bill fece una giravolta, scostandosi i capelli dal viso.
-Ti piaccio?
-Accidenti se mi piaci.- Tom lo guardò con la bavetta da cane alla bocca.
-Allora è un peccato che tra poco non lo indosserò più … - fece Bill sfarfallando le ciglia con fare allusivo mentre appoggiava una mano sul petto di Tom, spingendolo delicatamente verso il divano. Tom indietreggiò e cadde seduto sul vecchio divano, gli occhi comicamente dilatati. Bill gli si sedette addosso a cavalcioni, leccandosi le labbra con un sorriso malizioso, mentre sbottonava con esasperante lentezza la camicia del rasta. – Ma poi, chi l’ha detto? Posso sempre tenermi il grembiulino. Che ne dici, gattino?
Tom emise un mugolio strozzato che si trasformò in un gemito quando le lunghe unghie laccate di Bill iniziarono a solleticargli i capezzoli.
-Allora? Ti piace l’idea? –Bill leccò con golosità il lobo dell’orecchio del ragazzo sotto di lui, guadagnandosi un altro gemito eccitato, mentre finiva di sfilargli la camicia lanciandola da qualche parte sul pavimento. Tom non riuscì ad impedirsi di spingere i fianchi contro l’inguine del ragazzo seduto sopra di lui, la deliziosa frizione che lo faceva andare sempre più su di giri. Gli affondò le mani tra i capelli e gli tirò il viso verso il proprio, catturandogli le labbra in un bacio passionale. Si baciarono a lungo, le lingue intrecciate in una danza sensuale, sempre più eccitati. Le mani di Tom viaggiarono sulla schiena di Bill, giù, fino alla cintura del gonnellino e quindi sotto, ad afferrare i glutei sodi. Bill mugolò e scese a baciargli la mascella e la clavicola fino a succhiargli quel punto speciale sul collo che sapeva far impazzire Tom, succhiando e leccando fino a che fu certo di lasciare il suo marchio.
-Cazzo, Bill … - imprecò Tom che a quel punto rischiava di venire nei pantaloni. Cercò di ribaltare il ragazzo ma si ritrovò le mani bloccate dietro la schiena. Ci mise qualche secondo a realizzare di essere ammanettato.
-Bill! Ma … le mie manette?! Cosa ….
Bill sorrise malefico e lo spinse indietro sul divano.
-Ora facciamo a modo mio …. Puoi chiamarmi Padrone, se ti va, gattino!
Ogni eventuale rimostranza di Tom venne spenta sul nascere dalla bocca di Bill che si schiudeva sulla sua colossale erezione. L’ultima cosa che pensò prima che il suo cervello partisse per un viaggio interstellare fu che le sue vecchie manette non erano mai state usate in modo migliore.
 
Quando Tom si svegliò, avvolto nel piumone nero di Bill, si sentiva particolarmente rilassato. Un sorriso ebete, il tipico sorriso che gli decorava le labbra ogni mattina che si svegliava accanto al suo angelo, apparve sul suo viso. Aprì lentamente gli occhi, ricordando con piacere tutto quello che avevano fatto la sera prima. Da quella elettrizzante scopata sul divano, alla cena fatta di wurstel e crauti (le uniche cose che effettivamente Tom mangiava senza piagnistei) con Bill che lo imboccava con una dolcezza e un’amorevolezza quasi magica, il mattone romantico che avevano visto la sera (cioè, che aveva visto Bill. Tom aveva pensato bene di addormentarsi dopo il primo quarto d’ora), l’altro round di scopata celestiale sul letto e finalmente il sonno, leggero e senza incubi, la dormita migliore dopo quasi un mese di semi insonnia, dove c’erano solo lui e il suo angelo nel loro amore. E basta.
Si girò tra le coperte, grattandosi i dread che gli ricadevano scompigliati sulle spalle, sentendo i loro due profumi mischiati sul lenzuolo. Se ne sarebbe drogato, di quell’odore che adesso era diventato la sua casa.
-Ehi, Billuccio … - mormorò con voce roca, vedendo Bill raggomitolato tra le coperte che ticchettava con le lunghe dita su un computer, ancora nudo come si era addormentato la notte prima.
-Buongiorno, amore, finalmente ti sei svegliato.- Bill gli fece un largo sorriso, lasciandosi dare un bacio sulle labbra ma continuando imperterrito a scrivere.
-Che stai facendo?- grugnì Tom, mettendosi seduto e accarezzandogli i capelli corvini tutti arruffati. Cercò di vedere la schermata del computer, ma vide solamente della roba scritta in inglese. E lui di inglese ci capiva poco e niente, come di tutte le lingue del resto.
-Sto progettando la nostra vacanza.- Bill sorrise ancora – Dopo tutto quello che è ci è successo, dopo tutto quello che abbiamo affrontato, mi pare giusto farcene una, no?
-Beh, sì, wow, ma con che soldi?- Tom non era mai andato in vacanza da quando aveva quindici anni e andava con i suoi in campeggio dalle parti di Colonia.
-Con i miei, cucciolotto del tuo Bill. Non sono mica uno squattrinato come te, sai?
-Ehi!
Si diedero qualche schiaffo e cuscinata a vicenda, ridendo come due bambini. E Tom si sentiva così dannatamente felice vicino a lui che tutto sembrava scomparire.
-E dove andremo?
Tom si sporse di nuovo verso il computer, ma Bill lo chiuse di scatto, ridendo e rovesciandolo sul letto
-Andiamo in un posto che ti piace tanto.
-Un posto che mi piace? Che posti mi piacciono?- borbottò Tom, assumendo un’aria vagamente stranita.
Bill rise forte, chinandosi su di lui e stringendolo in un forte abbraccio
-Andiamo a Malibù, Tommuccio.
Tom sfarfallò gli occhi. Aveva capito bene? Il posto dei suoi sogni? Quello dove viveva tutte quelle situazioni assurde nella sua mente contorta?
-E come hai fatto a capire che è la spiaggia dei miei sogni?
Bill rise ancora dolcemente, posando le labbra sul sulle sue in un dolcissimo, innamorato, tenero bacio, mettendoci tutto quello che erano loro due insieme.
-Sesto senso, gattino.
 
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Ciao a tutte splendori!
Eccoci qui alla fine di questa storia, iniziata nel bollente agosto 2015 e finita nell'altrettanto caldo gennaio 2016 ... che dire? Mi mancherà. Mi mancheranno questo Bill e questo Tom, mi mancheranno July, June e May, mi mancheranno i coinquilini, mi mancherà il Dieci con i G&G e Heike, mi mancherà questa Berlino, mi mancherà anche Will. E' tanto che non concludevo una storia, e devo dire che in questa ci ho proprio messo il cuore e tutta la mia passione da detective e fan di Criminal Minds. Vi voglio ringraziare tutte, chi ha recensito, chi ha messo tra preferite/ricordate/seguite, chi ha letto e basta, siete state gentilissime tutte! Credo non ci sia più niente da dire, penso che i personaggi abbiano già parlato abbastanza da soli. Ditemi cosa ne pensate, se anche voi vi siete immedesimate come ho fatto io nelle situazioni vissute da questi ragazzi svitati e illogici.
E qui chiude la vostra Charlie, mandandovi un bacione :*

P.S.1 l'ultima cosa che July dice a Tom significa "Possano gli dei proteggerti".
P.S.2 tra più o meno un'oretta scarsa pubblicherò la mia nuova ff long assolutamente twincest e assolutamente romantica. Se qualcheduno volesse farci un salto sarà più che benvenuto; cliccate sul mio profilo perchè il titolo non lo so ancora XD

 

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