Wood and Clay

di Ellie_x3
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The World that might have been ***
Capitolo 2: *** Graveyard ***
Capitolo 3: *** Forever ***
Capitolo 4: *** London ***



Capitolo 1
*** The World that might have been ***


Lucretia.
Fu certamente il primo e l'ultimo nome a sfiorare le mie labbra.
Lucretia, in una tomba di fango.
Lucretia, in vestito bianco.
Lucretia, cantava a bocca chiusa.
In delirio.

Lucretia, viva.
Che trascinò con sé nell'ombra anche me, il mio corpo ed i miei sentimenti.

 
First Sight - London
The World That Might Have Been




"London Bridge is broken down,
Broken down, broken down."

[London - 1876]


 
 
La seggiola scricchiolava, puzzava di legno marcio e una delle gambe, mozzata da quello che sembrava il colpo di un'ascia maldestra, rendeva impossibile sedersi comodi senza la minaccia di ruzzolare a terra.
Il minimo movimento la sbilanciava e, a metà del primo atto, iniziai a chiedermi quanto ci avrebbe messo a cedere. Mi chiesi se, proprio quella sera, avrei dovuto sopportare l'umiliazione di rendermi ridicolo davanti al pubblico e agli attori.
Già mi immaginavo il resoconto della serata, urlato ai compari del pub tra una pinta e l’altra: la storia non era delle più avvincenti, ma metteva d’accordo tutti insultando un terzo, non presente. Raccontava di come un borghese alticcio fra i malmessi signori che frequentavano il Queen's Head -teatro nella zona del porto, pessima compagnia, ma lo scellino per vino e pomodori da tirare agli attori lo rendevano competitivo a sufficienza - fosse crollato a terra durante la rappresentazione, attirando su di sé risate e insulti.
Causa sedia marcita, rosicchiata dai topi, mai cambiata.
Potevo vivere con l'imbarazzo, quando avevo già sputato sul nome di mio padre; era lo spettro dell'attenzione che avrei attirato ad annodarmi lo stomaco.
Ah, ma cominciava, e la voce sovrastò ogni altro pensiero.

Her father loved me, oft invited me;
Still questioned me the story of my life
From year to year... the battles, sieges, fortunes
That I have passed.

Otello era sul palco, strizzato in una calzamaglia rosso scuro d'eco medievale. Si comportava come se fosse vestito all'ultima moda e nessuna vergogna trapelava dal fatto di essere in balia d'una pessima sarta, ma le frasi, che nella sua gola iniziavano possenti, terminavano in parole sottili come cristallo, tremanti.
Le movenze e le frasi mal cadenzate di quella malferma imitazione di attore mi scivolavano addosso. Emozioni.
Ero andato dunque a cercarle nel luogo sbagliato?
Scagliai il primo pomodoro sul palco senza nemmeno accorgermene, senza prestare attenzione al suono liquido della polpa quando si schiantò contro il palco.
Non trovavo nulla di buono in quella performance stiracchiata, noiosa...
...E quel maledetto 'crick' continuo che veniva dalla sedia, Signore, quello mi stava facendo uscire matto, matto, matto...

Ma, no, c'era dell'altro.
Non solo il teatro era intriso del tanfo di uova marce ed era sporco e freddo: la mia intera esistenza era buia. Era agli sgoccioli, seppur da così poco che potevo sentire ancora sulla pelle le ultime scintille di vitalità.
In fin dei conti, che Otello fosse bravo o no, non mi importava.
Dopo il mio, volarono altri pomodori; uova, persino, che Otello evitò danzando verso una Desdemona che avrebbe potuto essere morta, dal pallore del suo volto e dalla vacuità del suo sguardo. Era mollemente abbandonata su un letto impolverato, le membra molli come un cadavere - eppure, quell'abbandono mi ricordava come i veri cadaveri fossero rigidi e grigi e freddi. 
La fissai.
Lei.
I suoi occhi vitrei, azzurri come acqua, fissi come pietre, mi scagliarono una scarica d'adrenalina lungo la schiena.
“…My story being done,
She gave me for my pains a world of sighs.”
Sospirai.
Sarebbe stato così bello sentirla confortarmi di nuovo: un angelo in quello che era niente di più che un miserabile mondo di sospiri, come l'aveva chiamato Shakespeare.

Non avevo mai frequentato il teatro.
Vent'anni passati sulle poltrone di pelle nera del Club ti insegnano che nulla può competere con le feste private e che l'arte è sopravvalutata; il teatro, povera imitazione della vita, è un passatempo svenduto a chi non conosce oppio o whisky costoso.

Però Lucretia lo amava.
Ed io, che avevo amato lei, avevo iniziato ad assistere allo stesso spettacolo tutte le sere.



 
#



Non ditemelo; lo so.
Lo so.
Le voci nella mia testa lo urlano costantemente, con il ruggito di mio padre e il gracchiare di mia madre. Lo sostengono i miei compari, John e Vincent e Richard, anche se le mie scarpe non hanno mai più varcato la soglia del club, e lo sussurrano i miei pari alle mie spalle.

“La mia Lucretia non era una donna rispettabile.”
Lo so perfettamente.

Non conto le notti in cui le sue membra erano abbandonate come quelle della Desdemona sul palco, il polso piegato in un arco grazioso nonostante la presa ancora malferma sulla pipa. A volte la vedo sui divani di seta dell’oppieria, e la sua risata mi scrolla come un’improvvisa pioggia gelata. “Svegliati” dice e ride ancora, ma un momento dopo le sue dita sottili sono strette sulla mia pipa, e le sue labbra sono chiuse per aspirare il fumo. 
A volte è a terra. Mi guarda, aggrotta la fronte.
“É appena andato via.” Mi sussurra. “Non l’hai incontrato?”
Trovavo ingiusto che la mia mente la ricordasse così, con labbra tumide e seni scoperti, sul pavimento e con la gonna malmessa attorno alle gambe scoperte, piuttosto che mentre mi sussurrava che mi amava, che avrebbe amato solo me.
Col tempo, mi ero convinto che la mente fosse alleata di mio padre – il perfetto borghese che mi aveva piantato nel cranio, inculcato con il bastone, nutrito con compagnie scelte, doveva essere più forte dell’essere umano. 
Il problema era che non sapevo mai chi dovevo aver incontrato; il fatto che non avesse contratto il Mal Francese è un miracolo con cui non ero ancora riuscito a capacitarmi.
Non era pia, e c’è chi dice non fosse nemmeno saggia.

Ma lo sgarbo che le fu fatto fu immensamente grande ed immensamente ingiusto.
Questo, tuttavia, avvenne molto dopo.

 
#
 


La vidi per la prima volta in un buio angolo di Whitechapel nel ventoso marzo dell’ottantatré; con l’ultimo decennio dell’ottocento che avanzava su tutti noi, inesorabile, portando onde di cambiamento e tecnologie, non avrei mai immaginato di trovare in una donna le pieghe più oscure del passato, e di tutto quello che era magico ed oscuro. Il nostro non fu un incontro particolare, ma non lo è mai quando si entra in un bordello e si chiede di poter pagare per avere compagnia.
Era bella, questo sì: con occhi e capelli scuri, quel colore che acquisisce il terriccio nelle giornate di pioggia, la pelle olivastra e i tratti affilati.
Magra e bassa, era una bestiola più che una donna: selvatica, parlava poco. Viveva dall'alzarsi del sole fino al tramonto senza mai farsi i fatti degli altri.
Lucretia definiva alla perfezione l'essere schiva, a volte persino tetra. C’erano momenti in cui odiava il mondo, in altri lo compativa.
Aveva quindici anni.

Iniziò ad ammalarsi a ventitré: nevicava, ed era da poco passato Natale. Senza nessun preavviso iniziarono le crisi epilettiche, alle quali seguì l'anemia.
Sulle prime, mi dissero a causa dell'amenorrea, il medico diagnosticò una gravidanza.
Anche se anche in seguito fu chiaro che la diagnosi era errata, e il medico pagò per la falsa speranza offerta al mio cuore, nessuno all'epoca poteva sapere quanto la medicina fosse impotente di fronte al male della donna che amavo. 
Buon John Winchester, mi sussurravano I fantasmi della mia mente, quando chiudevo gli occhi e la candela si spegneva,Non dirà più il falso a nessuno.
Nel frattempo sognavo il figlio che Lucretia mi avrebbe dato.

L'incanto venne svelato pochi mesi dopo: niente nausea, niente rotondità che preannunciava il lieto arrivo. Niente bambini; solo un pallore sempre più cinereo, e I capelli della mia bellissima Lucretia che cadevano ciocca dopo ciocca, colpo di spazzola dopo colpo di spazzola. Il sogno divenne incubo.
I miei occhi la videro diventare più magra che mai, la carne che si ritraeva fino a diventare come carta velina sulle ossa in rilievo. Tremava, quando le sfioravo le costole visibili sottopelle, e si grattava le braccia così forte da lasciare segni infuocati e carichi di sangue più nero che rosso. 
“É un’influenza.” Diceva, scrollando le spalle, e mi sembrava di sentire il suono delle ossa che scricchiolavano per un gesto tanto semplice.
 Non lavorava più in quel vecchio bordello e non la si vedeva più nelle fangose vie di Whitechapel. 
Non vedevo più il suo sorriso, e le sue dita si chiudevano più spesso attorno alla pipa che attorno ai fiori che avevo l’abitudine di portarle. Non vedevo più nulla della donna che amavo, eppure il mio sentimento non era mai stato così forte.
In quel momento, vedevo la sua fragilità. 
La luce, scomparsa da quei suoi occhi profondi come pozzi, non era mai stata così attraente.



 
"London Bridge is broken down,
My fair lady."
 
 

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Capitolo 2
*** Graveyard ***


Il mio nome è Lucretia. 
Amavo un Lord, ma ci sono luoghi in cui non c'è posto per l'amore.
Temevo la tomba, ma non sapevo quanto breve sarebbe stato il mio soggiorno in quella cassa di legno.

Mi chiamavano donna; la nebbia fra le tombe mi ha parlato diversamente.




 

Second Sight- Graveyard
Loss
 

"Build it up with wood and clay,
Wood and clay, wood and clay."

London - 1876]


 
La prima cosa che sentii fu un forte odore di terra smossa, di bagnato e di legno.
Fu così forte da farmi credere di essermi svegliata in una foresta secolare, nel regno di fate e nani.
Sotto il velo calato delle palpebre vedevo nero; mi pareva di non avere la forza di aprire gli occhi e una voce mi suggeriva che comunque sarebbe stato inutile, che non c’era nulla da vedere.
Non foresta, non spiriti. Non campi di terra rivoltata.
Solo il buio.
Non la mancanza di luce, ma l’invenzione dell’anti-luce.
La quintessenza del nero.
Il vuoto.

Mi resi conto di essere distesa. Mi fu difficile rendermene conto, avendo passato gli ultimi mesi in un letto: le gambe erano molli e pesanti sotto la carezza del lino, la cui leggerezza mi sembrava invece fuoco, sale sparso sulla pelle piagata dalle ginocchia in giù.
Mossi la testa.
C'era qualcosa di duro sotto di me e, ogni volta che tentavo di voltarmi, ciocche di capelli spettinati mi finivano in bocca, appiccicati al viso dal sudore.
Faceva caldo.
Faceva freddo.
Era stretto, strettissimo. Una farfalla, nel mio quadrato di mondo, nella mia prigione, non avrebbe potuto battere le ali.
Il languore si tramutò gradualmente in panico, stringendomi le viscere con la sua stretta gelita, man mano che la burla alla quale ero stata sottoposta si faceva più chiara, ed i suoi contorni si delineavano con cruda chiarezza.
Muovi le mani, trovi legno. Muovi la testa, trovi legno. Legno che preme sui piedi e sui fianchi.
Con una stretta alla bocca dello stomaco mi resi conto di giacere in una tomba.
Spalancai gli occhi, e subito li richiusi per via della polvere.
Li riaprii, sbattendo le palpebre. Non fu davvero un cambiamento: tanto era scuro in me quanto lo era fuori.
Non c’è posto per il sole, sottoterra.
Non c’è più posto, pensai in quel folle attimo, per il sole.
Non a me-
Vi prego, non io.
Le mie mani inciamparono, cieche, nel coperchio della bara. Le unghie vi rasparono contro. Schegge si infilavano nei miei polpastrelli, facendomi male, facendomi sanguinare.
Non mi importava.

Vogliouscirediquivogliovipregoqualcunofareiqualsiasicosa.
Vi prego.
Ora.
Non voglio.
Non posso.
Ho paura. Paura, vi prego, ne ho tantissima.
Vipregosalvateminonvogliomorire. Oh, Dio. 

Strillai e ne venne un urlo senza suono, inghiottito da sangue, vermi e fetore mortale.
Sarei morta.
Di nuovo.
A funerale celebrato ero già stata inviata verso Dio: che io volessi vivere o no, poco importava.

Ho paura. E’ buio. C’è puzza. Non voglio.

"Non sono morta", mormorai; stavolta ero certa di averlo detto ad alta voce. Non un muto muoversi di labbra, ma una richiesta d’aiuto.
Eppure, nel mio cuore dal battito impazzito, sapevo che nessuno mi avrebbe sentita.
O così pensavo.
Improvviso come il risveglio, come il destarsi della coscienza, venne il tuono.
Non fu preceduto da un rumore di scavi o di voci, ma così come inizia un temporale estivo, senza preavviso, il rumore del legno spaccato mi colpì e venni investita da una valanga di terriccio e radici. Viscidi, mi scivolavano addosso mentre mi sentivo strappare fuori dalla mia prigione.
Una mano –umana, cinque e dita, ne ero più che certa!- mi prese per il polso, trascinandomi con tanta foga da strapparmi il sudario e tagliarmi sulle schegge del legno squarciato.
Respirai e la bocca mi si riempì di terra.
Ma non importava: stavo per essere salvata.
Vivi. Vivi, Lucretia.

Mi avevano sentito.
Non so come, né perchè.

Ce la stai facendo. Stai vivendo.
Ancora poco, e vivrai per sempre.
Non riuscii nemmeno a pensare, o a morire di spavento o per soffocamento o per qualsiasi altra cosa: un attimo prima sentivo il respiro della morte, quello dopo ero sotto le stelle.
Sì, ero sporca e senza fiato, ma l’aria fresca della sera mi sfiorava ed io sentii la vita. Forse troppo.
Vomitai.
 

 

#



Quando ripresi coscienza di chi fossi, di dove mi trovassi e della situazione da cui ero appena uscita, avevo la gola riarsa e in bocca il sapore pungente della bile.
Ma ero più lucida, anche se svuotata, e finalmente mi concentrai su chi mi aveva salvato e che, senza muovere un dito e rimanendo in silenzio, mi aveva guardata rigettare.
Ora era in ginocchio e non provava nessuna paura nel mostrarsi ai miei occhi, nonostante fosse terribile.
Non so cosa fosse, ma certamente non era un essere umano. Una parte era carne e ossa, con un viso dai tratti affilati e lunghi ciuffi di capelli scuri che gli cadevano sugli occhi. L’altra parte, che era un'entità a sé, pareva composta di fumo denso e scuro.
Mentre la Carne mi rivolse un ghigno che di cordiale non aveva nulla, sul viso dell’Ombra si aprì in una mezza luna trasparente, che lasciava vedere il paesaggio oltre la figura.
“Salve, Lucretia.”
Non sapevo come potesse conoscere il mio nome ed io mi irrigidii quando la sua risata mi accarezzò. La Carne parlava, ma l’Ombra mimava e non produceva suono.
“Non avere timore. Non ti succederà nulla.”
“I...“
“Non parlare.” Mi intimò, bruscamente, ed una linea comparve improvvisamente sulla fronte pallida della Carne. Ma fu un istante: i suoi occhi color notte persero immediatamente quell’assurda, repentina oscurità, e il viso si distese. “Pazienta. Hai avuto paura, là sotto. Io ti ho sentita. Noi ti abbiamo salvata.”
Noi.
Mi stupii che parlasse dell’Ombra come di un essere staccato, ma, guardandola con più attenzione, notai che i movimenti dei due erano differenti.
La mano della Carne si tese verso di me, andando però a sfiorare il bordo della mia gonna; dove c’era stato bianco, ora era sporco.
Mi ritrassi con un gemito, nonostante le gambe fossero dure e immobili come ramoscelli: il leggero formicolio dalla carezza delle dita del mio salvatore che scostavano la stoffa fu tutto ciò che sentii.
“Pazienta.” disse, laconico. “Non vogliamo farti del male.”
E stavolta fu l’Ombra a muoversi, sganciata da qualsiasi spiegazione razionale. Il suo indice tracciato dal fumo tremante si posò sulla mia gola, e sentii gelo.
Lucretia, Lucretia, caduta dentro al pozzo.” Canterellò Carne, inarcandosi. Prima ancora di sentire le labbra contro la mia caviglia, la consistenza morbida dei suoi capelli mi sfiorò la gamba.
Erano caldi, bollenti, innaturali.
Quella notte era spaventosa e pregavo che finisse. La sensazione, però, era quella di essere stata dimenticata da Dio.
Lucretia, Lucretia, che gran fortuna che ci fossero i Fratelli a salvarti.”
La carezza di Ombra mi sfiorò la giugulare, il mento, le labbra. Poi riscese sul collo e lo sterno, tracciando i contorni delle ossa.
Carne cantava sommesso, la bocca ad un soffio dalla mia pelle piagata.
“Lucretia, Lucretia sudicia e tentatrice, dai una ricompensa ai Fratelli che passavano per caso? Che fortuna.”
Che gran fortuna, Lucretia.
Morta e risorta e di nuovo nelle mani del diavolo.
Ombra affondò le sue mani impalpabili fra i miei capelli sporchi. Erano spiacevoli, fredde, e sussultai quando si posarono sulle mie orecchie, sulla mia nuca, sulla mia schiena.
Lucretia, Lucretia, che si doveva sposare. Ma è caduta nel pozzo ed aspetta di uscire. Lucretia, sepolta, che attende ed attende. E i Fratelli la sentono.”
Carne sembrava un bambino assonnato: ciondolava con la testa, tutto accucciato, e teneva fra le lunghe dita pallide la mia gamba. Poco più in su, un taglio da cui usciva una mezza scheggia di legno sanguinava disegnando un lungo, rosso torrentello lungo la cute.
Di nuovo, Ombra si aprì in un sorriso senza volto.
“Lucretia, che gran fortuna. Sei caduta nel pozzo, ma Legno e Argilla ricostruiranno un ponte dove acqua e fango hanno distrutto.”
Sanguinavo sempre di più, nonostante non sentissi alcuna pressione sulla ferita, e nel suo dondolare Carne si avvicinava al taglio.
Ora lo sfiorava e ora lo dimenticava.
I Fratelli la sentono, recitava la nenia dei miei salvatori.
Ma nessun altro avrebbe sentito noi.
Avrei urlato, se non avessi avuto Ombra ad un soffio; quando le sue labbra di vento calarono sulla mia bocca socchiusa, ancora sporca di terra e radici, Carne smise di cantare.
Si aprì in un sorriso zannuto e accettò la mia ferita come dono e pegno, affondandovi i denti.


 

"Build it up with wood and clay,
My fair lady."

 

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Capitolo 3
*** Forever ***


  Third Sight - Forever

Wicked Souls

 

Oh, Dio.
Perdonami, perdonami, perdonami.

"How will we build it up,
build it up, build it up?"

 

"C'è un corvo che canta sulla torre di Londra, perché la Regina ha perso la testa.
Hanno ucciso il suo innamorato e suo fratello è stato arrestato."


Ero viva per miracolo.
O, per meglio dire, ero viva grazie alla dannazione eterna così graziosamente concessami dai Fratelli: nel mio piccolo mondo egoistico lo consideravo un regalo, un dono. Il mondo puzzava di putrido, di fango, di marcio, ma erano odori che mi facevano sentire viva: il fumo nero dei camini era cento volte meglio della terra bagnata e dei vermi.
La mia tomba era una semplice cassa di legno non aveva un boccaglio né una campana: mi avrebbero uccisa la disattenzione e la fretta di chi diceva d'amarmi se non fossero giunti Loro a salvarmi.
Il mio amato non conosceva la morte, non la distingueva dal sonno profondo.
La morte apparente regala i più dolci fra i sogni, ma il risveglio nel buio riserva la più cruda realtà.

Per questo smisi di avere paura dei Fratelli, che per me divennero padri, guide e amanti. Grazie ad un solo tributo di sangue, grazie al pungere delle zanne di belva di Carne affondate nella mia ferita. La vita al prezzo di un fiume scarlatto -- ma non veniamo tutti al mondo così?
Tra luce e urla di dolore e carne lacertata e sangue.
Togliendo la vita a chi ce la dona.


"Oh sorella, sorella amata, quale torto vi ho fatto mai?
Vivrai col tuo John lontana da Corte, ma il corvo piange su questa mia torre. "

 

"Smettila, Carne. Non è affatto una canzone piacevole".
Carne non mi guardò nemmeno, ma Ombra mi rivolse un sorriso affilato. Era fatto di nebbia e fumo, Ombra, etereo e minaccioso come una nube temporalesca all'orizzonte, ed gni movimento della sua bocca era una mezza luna aperta sull'oltretomba.
Era un presagio, le sette Vacche Magre delle scritture, il Vitello Rosso dell'apocalisse. Se Carne era il Nilo intriso di Sangue, Ombra era l'Angelo della Morte e la Carestia.
Quella creatura si rivolgeva a me spesso, a volte come un padrone ed altre come un fratello, ma non emetteva mai veri e propri: i suoi sussurri erano refoli d'un vento fetido.
Amava mimare le risate, però.
"Pazienta." 
"Mi infastidisce questa canzone, Ombra. Ti prego, digli qualcosa..."
Improvvisamente il canto di Carne si placò, smettendo di inondare il porto con la sua voce piena.
“Con più dolcezza, piccola." mi rimproverò lo spettro, amabilmente. Era più beneducato del mio Lord, più aggrazziato sotto la luce fumosa del Tamigi, ma il suo ghigno scricchiolava di denti che sbattevano tra loro e tendini sul punto di spezzarsi. "Non puoi imbrogliare la morte con dei modi da contadina."
Aggrottai la fronte ma non dissi nulla; punta sul vivo, mi scostai i capelli dal viso. Avevo raccattato un abito consunto grazie alla carità di una vecchia signora e mi ero lavata nelle acque del fiume, tuttavia mi sentivo ancora piccola e sciocca.
"Allora come posso mai fare?" domandai.
“Stando con noi, piccola. Impara."
Più che mai conscia della sua forza e saggezza, nonostante ignorassi dove un tale Essere avesse mai potuto diventare tanto simile ad un dio, sapevo di volerlo ascoltare.
Ditemi: cos'altro avrei potuto fare?

Ormai vivevo con i Fratelli da due notti. Mi nutrivo della loro compagnia come un assetato nel mezzo del deserto e loro, inaspettatamente, apprezzavano la mia.
Quando mi ero svegliata, Carne aveva accettato in tributo in Sangue e Ombra ne aveva preteso uno in spirito: era il loro prezzo per l'avermi ascoltata, poiché nessuna bambina nel pozzo viene salvata senza pagarne lo scotto.
A modo loro, in fondo, non chiedevano molto.
Non spiegarono mai cos'ero diventata, ma sapevo di non dover mangiare né bere. Sapevo che i Fratelli vivevano abitualmente vicino alle acque torbide e nere del Tamigi e, se finivamo per allontanarci troppo, Ombra piagnucolava. Se pioveva, però, il suo sorriso di fumo si addolciva.
Carne si spalmava sulle membra giallognole i liquami del fiume; se non lo faceva, gli avevo visto pendere la carne dalle ossa, staccarsi brandello dopo brandello.
Ma nelle giornate di pioggia diventava quasi bello, come un principe il cui sortilegio è stato spezzato dal bacio silenzioso di un cielo che piange.
La sua voce e il suo canto, però, rimanevano echi di sventura.

"Il re era una preda ambita ed una sorella ha perso la vita.
A Mary per Anne si stringe il cuore, ma ora nulla la salverà dalla scure."

 

#

 

Alla vigilia della terza notte passeggiavamo per una strada senza nome, costeggiando il fiume.
Avevo visto gli ultimi studenti uscire dalle biblioteche, poi coppie di amanti nascosti, infine giovanotti ubriachi. Passando accanto ai loro gruppetti ridanciani mi vergognai dei miei abiti laceri, ma nessuno si accorse di noi.
"Non possono vederti a meno che tu non lo voglia. E, quando lo vorrai, potrai far tua la loro assenza." mi istruì Carne con voce dolce, sfiorandomi lo zigomo con un indice ossuto.
Mi avvicinai per accettare quella carezza, come un cane.
"Qualcosa ti turba, Lucretia?" mi chiese e, in quel momento, una ruga grigiastra gli solcò la fronte cinerea. Ero la loro preziosa Bambina Salvata dal Pozzo, non potevo stare male.
Annuii.
"Ultimamente, sento la fame." risposi.
Non mi offrì consolazione, sul momento, ma la notte seguente Ombra mi guidò in un angolo del porto infestato dai topi. Fischiò una melodia che pareva uscire da un flauto traverso, malinconica e seducente, etereo sotto la luce lunare.
Apparve una giovane donna dall'aspetto pulito, con un cestino di violette al braccio e una cuffietta graziosa.
"Chi suona?" chiese, e capii che era stata incantata dalla canzone fatata dello spettro.
Ombra stava di spalle, rivolto al fiume, ma colsi il guizzo famelico nel suo sorriso a mezzaluna.
Sfamati, invitava. Menti.
"Io." risposi, con un passo avanti. La ragazza sbatté le palpebre e si posò una mano sul petto florido e coperto di pizzo. Era bella, quella bambina strappata troppo presto all'infanzia; sentivo già la sua carne sotto le mie dita, il suo fiato caldo contro i miei denti.
"Voi non avete strumenti." notò, ma la sua voce era flebile.
Forse le stava tornando un barlume di lucidità, forse era solo un'ovvietà sfuggita alle sue labbra distratte, ma fui assalita dalla paura -- paura che si svegliasse, che scappasse, e che tornassi ad avere più fame di prima.
Non le lasciai dire altro, folle di orrore verso me stessa, verso Ombra, verso Carne e il suo canto che mi esplodeva nelle orecchie. Folle di fame e paura.
Le fui accanto in una sola falcata, e ricordai i vermi che mi erano corsi addosso nella tomba e il sangue e la terra bagnata.

Il primo morso su quel bel braccio dalla pelle bianca rivelò zanne che non sapevo di possedere. La mia mente si strinse su sè stessa come un fiore di notte, cercando di ignorare la realtà di una bocca enorme, da lupo, da demone, e dell suono gorgogliante della carne lacerata.


Ma era solo un primo, goffo tentativo: provavo la fame dei mostri.


La ragazza non urlò quando le sfilai i nastri dal corpetto, lo aprii e sfiorai la pancia piatta e morbida; aveva già chiuso gli occhi e sembrava una figura sacra. Una Vergine Maria dai fianchi piegati all'indietro, abbandonata con il capo riverso e le vene scoperte sul collo che a malapena si reggeva in piedi.
Inarcai la dita, sentendo le giunture scricchiolare; le nocche si fecero pallide per lo sforzo. Tirai indietro il braccio e subito, senza pensare, lo feci scattare in avanti: l'effetto fu quello di una freccia scagliata ad una terribile velocità, e non prestai attenzione al sangue che mi schizzò viso e capelli. La fioraia era verde in volto e il suo cuore batteva forte, ciò nonostante io mi aprii la strada tra la massa scarlatta e molle del suo stomaco. Sentii l'involto dell'intestino, il sacchetto che era il fegato, i tubicini delle vene, ma non era quello che volevo. Sorrisi quando le mie unghie impastate di carne incontrarono la consistenza morbida dell'utero, e la fame ruggì in me. Strappare il mio pasto non fu difficile, poiché si staccò con quel rumore feroce e meraviglioso che sono gli organi umani producono. Mi portai quel tenero brandello di carne alle labbra e non sentii più fame.

Ombra continuava a fischiare.

Ore dopo, quando oramai della fioraia rimanevano solo le ossa sul fondo del fiume ed avevo appreso che potevo apparire a prestanti giovani e ad attricette per soddisfare la mia fame, Carne mi consegnò un borsellino di velluto verde.
Erano le prime luci dell'alba e rabbrividii quando le sue lunghe dita gelide grattarono il palmo della mia mano.
"Compra profumo e stivaletti nuovi. Poi dei vestiti e un mantello per tenerti al caldo. Fa' che siano di buona fattura e scuri." un ghigno si disegnò sulle sue labbra "Siamo ancora in lutto, mia cara."
Dal momento che anche in vita non amavo i colori sgargianti non protestai: il nero mi andava bene, poiché aveva il potere di nascondermi e coccolarmi. Carne mi aveva dato ordini tali da assecondare i miei gusti e non potevo che essere grata per quella che era, certo, una fortunata coincidenza.
Tuttavia inarcai un sopracciglio e mi guardai attorno: tutti i lampioni erano ancora accesi e aveva appena cominciato ad albeggiare.
"È ancora notte fonda.” replicai “Nessun negozio sarà aperto adesso."
Ombra, che si era allontanato attirato dalla luce della luna riflessa sul Tamigi, tornò accanto a suo fratello nel momento esatto in cui questi gettava indietro la testa e scoppiava in una risata febbrile. Avrebbe potuto svegliare tutta Londra, ma non uno dei balconi si aprì per permettere massaie assonnate di affacciarsi sulla strada; non ci sentivano.
Non esistevamo, eppure lasciavano impronte e sbuffi di respiro condensato.
Tracce di morte.
Come angeli dell'Apocalisse, come Demoni nella notte.

Oh, Dio, cosa mi hai fatto?

“Sappiamo dove mandarti, bambina, fidati."
Naturalmente ciò mi bastò poiché mi fidavo dei Fratelli. Come avrei potuto fare altrimenti? Mi avevano salvata dalla condanna dell'essere divorata dall'eternità, dai vermi. Quando chiudevo gli occhi e mi immergevo nel fiume, mi sembrava ancora di sentire il silenzio infernale della bara: lo scricchiolio dei sassi attutito dal terriccio, lo strisciare dei vermi.
Feci come mi dicevano e, a partire da quella stessa notte, fui sempre abbigliata come una regina.

Anna Bolena; la mia testa rotolava giù dal ceppo ogni notte. La mia carne veniva tranciata dalla Spada Francese.
Jane Grey; morivo sola e bendata, trovando a tentoni il sollievo nella morte.

Una regina grondante di sangue, ma giuriai che la tomba non mi avrebbe riavuta.

Oh, Dio, non morirò mai, non è vero?
La realtà era che ero morta quella notte; i Fratelli mi avevano ucciso.
Ma non nasciamo tutti così?

#

 

Nonostante il cibo, il vino, il profumo dell'acqua e i vestiti, rimanevo una creatura insaziabile: non ero ancora del tutto felice.
La mia ultima domanda giunse la notte di metà settembre, mentre Ombra riposava con il suo capo impalpabile appoggiato sulle mie ginocchia. Quella sera Carne era di buon umore; ci aveva salutati con un bacio ciascuno e le sue risate folli erano riecheggiate per tutta la città, esplodendo nel silenzio come echi di tuoni. Ad un certo punto della notte era sparito per ore, ma al suo ritorno il suo bell'abito era lordo di sangue e liquidi.
Mentre Ombra suonava per noi l'avevo lavato e pulito, partendo dai suoi folti boccoli castani fino ai fianchi dalle ossa sporgenti, rendendomi conto di quando fosse grottesco non solo il suo viso, ma l'interezza della sua persona. I suoi occhi cerchiati di viola, scavati nel cranio, andavano cercando il mio sguardo e quello di suo Fratello.
Poi, con un fruscio, di nuovo allungò una mano e mi sfiorò il viso con le nocche ossute.
"Sei triste, Lucretia?" domandò.
Trassi un profondo sospiro e la musica di Ombra si chetò per un momento. Mi domandai, in silenzio, se quell'entità fumosa provasse curiosità nei confronti della mia richiesta.
"Confesso di essere triste, ultimamente."
Ah, avevo già pronunciato quelle parole!
Dovevo sospettare che non avrebbero portato ad altro che ad una realizzazione egoistica del mio desiderio. Dovevo sapere che qualcuno avrebbe perso la vita.
Tuttavia l'uomo è la peggiore e più crudele delle bestie.
Carne si leccò le labbra secche e screpolate, gocciolando acqua color del sangue.
"Perché? Non ti abbiamo dato tutto, mia piccola?"
"Non tutto." esitai. Prendendo un po' di acqua fra le mani a coppa la versai sul capo di Carne, che abbassò la testa docilmente.
Una bestia.
"Ero innamorata, prima di morire. Temo che quel sentimento non sia sparito."
"Ah...Milord è ancora nel tuo cuore, anche se quel cuore è polvere?"
"Ho paura di non liberarmene mai."
Dopotutto, l'amore provato dai fantasmi è una maledizione.
É amore, sempre amore, sempre, ma diverso; ossessivo, violento. Spettrale.
"É passato, bambina mia."
"Ma è amore." insistetti, in un sussurro. 
Amore, sempre amore, sempre.
Come per sempre eravamo noi.


Carne sorrise e fu come se l'intera città si facesse fetida e febbricitante. Un movimento di quella creatura in grado di causare una pestilenza, un sentimento di gaia perversione che prendeva forma su un viso solo apparentemente umano. Anche io risultavo tale agli occhi umani?
Forse ero come Ombra, invece: colui che quietamente soffiava una brezza sabbiosa e soffocante sul genere umano, portatore silenzioso di piaghe che, seppur penose come quelle in Egitto, non erano neanche lontanamente altrettanto sante.
O forse...forse ero solo Lucretia, una donna morta in una bara profonda come un pozzo, con ancora un cuore in grado di amare.
“Ti porteremo a vedere Milord, Lucretia." promise Carne e, in lontananza, sentimmo il rombo d'un tuono. "E se vorrai, se è davvero tuo desiderio, potrai averlo di nuovo."

 

"How will we build it up,
My Fair Lady?"

 

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Capitolo 4
*** London ***



Fourth Sight - London  

Whatever You’ve Lost, It Will Surely Return to You 



Vidi Lucretia.
La sognai, forse? 
  

“Stone so strong will last so long, last so long 
Stone so strong will last so long, My Fair Lady.” 

 


“Lucretia, Lucretia, Milord sta scappando.” 

 

Era la sua mano quella posata delicatamente sul legno del palco? Che Dio m'aiutasse, in un mondo senza Dio alcuno, erano i suoi capelli corvini quelli sfiorati dalla seta del sipario, come se un velo da sposa rosso sangue volesse renderle omaggio?  
Oh, ma io ero certo che non fosse più su questa terra. La ricordavo tra le mie braccia, il suo corpo abbandonato e il cuore immobile.  
Eppure Lei era lì. 
Bella come una strega in una notte senza luna, col sorriso appena accennato delle Fate nelle storie di campagna.
Ballava nei cerchi d'erba, la mia Lucretia, e aveva i piedi scalzi e sanguinanti. 


Ah, la fine d’una tragedia a teatro non segna che l’inizio della feroce vita reale, più terribile di qualsiasi rappresentazione.


Era Lucretia il mio fantasma, un Banquo in vesti funeree, un’Ofelia riemersa dal fango?

Non rimasi lì a lungo per chiedermelo: preso dal panico, fuggii. Calciai indietro la sedia muffita e lasciai la bottiglia di rum che mi aveva fatto compagnia durante lo spettacolo con l'unica intenzione di correre, correre il più lontano possibile senza voltarmi indietro. 
Una parte di me si chiedeva come Lucretia potesse essere bella anche nella morte e se non fosse stata sempre, dall’inizio, uno spirito mandato a tormentarmi. 

Mi passai una mano sulla fronte: le dita si bagnarono e sembrarono rattrappirsi al contatto con il sudore, che era freddo come ghiaccio. Mi era difficile ricordare dove fossi o cosa stessi facendo.  
I dettagli si confondevano: la strada fangosa, i muri di mattoni rossi. L'aria fetida.  

Alle mie spalle il teatro scuro e chiuso mentre davanti a me si apriva il dedalo delle tortuose, sporche vie dell’area portuale. 
Il gelo, non comune anche per quelle impietose serate del settembre londinese, mi tappava il naso e faceva fischiare le orecchie, mentre la foschia densa come fumo in un’oppieria offuscava la mente e gelava le mani. 
Non vedevo quasi più nulla. 
Ero certo di avere la più piccola parte del mio essere fuori, fuori, fuori. Fuori controllo. 
Fuori da questo mondo. 
Come un masso ero stato gettato nella palude dei racconti del terrore, dei fantasmi, degli esseri tornati dalla tomba per trastullarsi coi vivi. 
Ma la mia Lucretia... Lei, tra tutti?
Lei non poteva essere parte di quell'orribile famiglia.
 
Lei non doveva essere viva e non lo era; riposava nella sua tomba, gracile e graziosa com'era stata in vita, bella anche scarnificata dai ratti, intoccata anche con la carne corrotta dalle infiltrazioni.

Eppure l'avevo intrav
ista tra le tende del teatro.  

Ah, no. Era impossibile. 
Stavo diventando pazzo. La mia mente si stava rintanando nella follia per via del troppo dolore e cosí deliravo, credendo d'averla vista ed ero scappato e lei aveva detto "Aspetta" e io...Io...  

…Ora basta. 
Non riuscivo a mettere insieme pensieri coerenti, né a vedere dove stessi andando oltre il velo annebbiato della paura. 
Ricordavo che i cavalli avevano il dono di ritrovare la via per la scuderia in cui erano nati e cresciuti grazie al puro istinto; per la prima volta nella mia vita, pregai d'essere più bestia che uomo, e di trovare la strada di casa.

 

“E' un peccato, dolce Lucretia, davvero un peccato. Milord non ti vuole.” 
La voce nella mia mente canterellava, incessante, con le melodie soavi di Carne; nei suoi vestiti nuovi appariva quasi bello, anche se certamente non umano. Cantava e non si curava di me, del mio amore deluso, dell'essenza profondamente mortale del Suo terrore, del vuoto che avevo visto nei Suoi occhi. 
Milord non ti vuole.
Che parole crudeli sapeva dire quella creatura. 
Ombra, al mio fianco, mi teneva per mano. Le sue dita d’aria scura brillavano nella notte ed il sorriso disegnava una falce di luna candida.  
Come se si fosse accorto di aver detto una cattiveria, Carne mi guardò; si umettò le labbra e, sbattendo le palpebre come un animale perplesso, mi assicurò:
“Mia piccola, i Fratelli lo salveranno per te.” 

Quella promessa mi strappò un sorriso. 
“Ma oramai le luci del teatro sono spente, Carne.” Mormorai, alzando gli occhi alle stelle ammiccanti nei ritagli di cielo fra le nuvole. 
Erano cosí luminose e lontane, proprio come la vita che avevo conosciuto. Quella che avrei potuto avere, invece di essere solo Lucretia in un consunto abito da gitana, prigioniera di un bordello dove la moquette era sporca di piscio e le donne erano burattini.
“Non mi è sembrato che il mio sacrificio fosse stato compreso, o anche solo intuito. Non l'hai visto anche tu? È fuggito." sospirai, posando le mani in grembo. Giunte; forse, inconsciamente, volevo pregare. Mi domandai se Dio avrebbe sputato sulle preghiere d'una prostituta o su quelle d'un fantasma. "Forse hai ragione: Milord non mi vuole.” 

Da giorni, ormai, la terra era stata lavata via dal mio corpo che non puzzavo più di tomba: una donna era stata pagata per profumarmi, truccarmi, pettinarmi davanti ad un imponente specchio d'argento e avevo ucciso altri innocenti.
Qualcuno era morto per sfamarmi.  

Con un vestito che valeva più di quanto avrei mai potuto guadagnare, nero, dalla gonna ampia e dal corsetto stretto, ero rimasta in un angolo buio a guardare il mio amore che si struggeva per me, incapace di dargli ciò che desiderava. Avrebbe visto la vita, oltre il pallore della mia pelle? Avrebbe visto il sudario che mi stringeva sotto i bei vestiti da Regina? 
Quando avevo sperato di sollevarlo dal suo dolore e mi ero mostrata, Milord aveva indietreggiato; quando avevo iniziato a seguirlo, lui era scappato a me.

"Non vi lascerò mai. Non temete."

Bugie, Bugie, solo Bugie.
Non capite che non dovete mentirmi, amore mio?
Perchè continuate a 
mentirmi?


La mia apparizione l'aveva sconvolto tanto non fermarsi nemmeno alla solita oppieria con i balconi storti e cigolanti, quella che avevo scoperto essere la sua meta abituale dopo il teatro. 
Quella notte lui si guardava indietro, affannato, e sbatteva contro i mendicanti e i ragazzi di strada e i ladri, senza pensare che rischiava la vita in modo sciocco. Sentivo l'odore del sale sulla sua fronte imperlata di sudore, la terra che si accumulava sotto le sue scarpe mi ricordava quella della tomba.
Tutto per fuggire da ciò che avevo mostrato. 

Aveva paura di una sola cosa: io, che l'amavo ancora. 

 

 #
 

Mi guardai indietro, il più veloce possibile. Mi rispose una coltre nebbia bianca, fitta come una coperta, che sbiadiva le forme e ovattavai suoni.  
Una cosa, però, era chiara: d'improvviso il nero del progresso, che da anni si posava sui muri bianchi di belle case borghesi, avvea sostituito la muffa del porto.  
Porte londinesi si ammassavano una dietro l’altra, porte di cittá, porte benestanti. 
Sarei solo dovuto arrivare alla mia, che ormai non era così distante, e sarei stato salvo.  
Solo un altro metro ancora…pochissimo, ormai…oltre quella nebbia, dietro quella strada, sì, quella, poche case ancora e -- 
Affrettai il passo, e il cuore mi fece male dalla tanta felicità. Ma Lucretia era viva. Ah, eccola: nella coltre fitta di nebbia, lo spigolo bianco della casa dei Kingsley, il loro batacchio d'ottone. 
Nonostante la salvezza vicina lo sentivo, però, lo sentivo ancora: il rumore dei miei passi sull’acciottolato, il fiato freddo dei morti sul mio collo. 
Prima che me ne potessi accorgere, con un tonfo leggero, andai contro una giovane donna. Aveva il viso di Margery, la maggiore delle figlie di un notaio che soggiornava due isolati più in lá.  
“…Ah, mi scusi signorina.” Le dissi, prendendola per le spalle e spostandola da in mezzo alla strada, guardando oltre la sua spalla ossuta. 
“Signore, state bene? 
Margery- non ero certo fosse lei, con quella voce acuta e l'accento volgare delle città del sud, dove i gabbiani urlavano sopra le scogliere. Eppure il viso era il suo, senza dubbio. 
Le sorrisi, mi scusai, ma non mi fermai oltre.  
Lucretia avrebbe potuto raggiungermi da un momento all'altro. Anche se era morta. Anche se l'avevo vista morire. 
“Signore? Siete ubriaco!” sentii Margery urlarmi dietro.
Buffo: Margery non urlava mai.
 
Tuttavia non le prestai attenzione, poiché vedevo la mia casa. Sì, là, non era lontana, ancora qualche passo e l'avrei raggiunta. 
Il sorriso di una prostituta si disegnò nella luce spettrale della notte. 
“Gradisce, milord?” miagolò, facendo un passo avanti e inarcandosi in un inchino beffardo che metteva in risalto il corpetto. 
Non la guardai nemmeno. 
“No.” replicai,  incespicando e superandola di fretta, inebriato dalla salvezza e dalla presenza rassicurante del quartiere bene. Ero vivo. Ero salvo.  
“Sto andando a casa.” aggiunsi, in un pressoché inspiegabile moto di esuberanza, con il tono che può avere un bimbetto felice.  
Senza ascoltar risposta, proseguii. 

Sono quasi a casa, amore mio.

Nella notte, il suono cupo dei miei passi e quello sommesso di una risatina –che, mi resi conto, veniva da me.
 
Folle di gioia e potenza per aver sconfitto anche lei, anche la Morte, che con le sembianze della mia bella compagna sperava di trascinarmi con sé. 
E a questo non fece eco che la voce della prostituta, debole come un filo di vento. 
“Perdonate… Mi… Porto.”  
Non compresi le sue parole, ma non mi soffermai nemmeno.

Sto andando verso casa.

Chi fosse quella donna e che ci faceva in un quartiere abitato da persone per bene non
 era affar mio: proseguii, girai un angolo e un altro ancora. Proprio come i cavalli che ritrovano la strada di casa, la mia testa era un mondo sottosopra ma i miei ricordi mi guidavano verso la luce.
Il rumore di una carrozza, in lontananza, assomigliava quasi allo sciabordio di un’onda o una nave. Dovevano essere i ragazzi Kingsley che tornavano dal circolo. 
La nebbia si faceva più fitta, ma non importava: sorridendo tanto da cominciare a sentire un forte dolore alla mascella, intravidi i mattoni, le finestre, la porta. 
La mia casa. 

Mossi un ultimo passo e finalmente alzai la gamba per salire il primo dei tre gradini dell’ingresso. 
Poi fu il vuoto. 
E il freddo, e l'acqua, e i gabbiani.  

 #
 

Carne, seduto sul fumoso molo sul Tamigi, dondolava una gamba spaventosamente magra. 
Twinkle twinkle little star, only you can guide my path.” Lo sentii mormorare, a labbra strette, occhieggiando la superficie dell’acqua. Avevo l’impressione che potesse vedere oltre le onde, fin nel fondale. “Ma pare che la stella non abbia guidato Milord dove voleva.” 
Mi sporsi oltre la balaustra in ferro battuto: sembrava freddo, quell’immenso mare d’inchiostro, e il mio povero Milord vi annaspava dentro. All'idea, sentii lo stomaco stringersi in una morsa. Accecato da rum, paura e follia, sordo ai richiami di chi l'aveva voluto aiutare, annegava in un fiume senza parapetto in cui si era gettato da solo. 

Quanti ubriachi sono caduti nel Tamigi, morendo col sorriso sulle labbra? Quanti uomini vi si sono gettati, piangendo una persona cara? Ma no, Milord vi era inciampato come si inciampa su una pozzanghera. 

Era stato reso pazzo dalla mia vista, anche se non me ne ritenevo responsabile.
Bugie, solo Bugie.
Eppure, oltre tutte quelle bugie, io non potevo che amarlo.
“Non si può fare nulla?" domandai e mi morsi le labbra, con una fiammella di speranza accesa nell’animo. Poteva diventare come me, ora, e forse saremmo potuti vivere insieme sciolti dal giogo mortale. 
La mano invisibile di Ombra mi accarezzò i capelli.
"Sciocca, non è colpa tua. Era pazzo, era pazzo.” 

“Non lo era prima che mi mostrassi: era solo ubriaco e poi mi ha vista. Ora è caduto nel fiume.” 
“Milord è caduto nel fiume.” cantilenò Carne, sommestamente, piegandosi in uno scricchiolio d'ossa per vedere meglio nell'acqua turbinante, resa densa dai liquami del progresso. Sospettavo che potesse distinguere il corpo esangue di Milord, stordito dal freddo e dall'alcool. “Non piangere, Lucretia. E' caduto in un fiume con un ponte di ferro, ma che era un tempo d'argilla e di legno. Se sai quello che vuoi, chiedi ai Fratelli di salvare il tuo cuore.” 

Tirava un vento freddo, a Londra, per essere solo settembre.
Era stato evocato dal canto di Carne, forse? Quell'assurda presenza che sconvolgeva gli elementi, i Gemelli senza volto, senza alcuna anima oltre a quella della città stessa.  
Erano il London Bridge, e venivano sciacquati via ogni mattina dai raggi del sole per poi tornare la notte. 
Erano la Torre di Londra, maestosi nell'ombra e crudeli nelle segrete di pietra. 
Ma mi era affezionata, quell'essenza bifora che m'aveva salvata dalla tomba: la stretta impalpabile della mano di Ombra mi rasserenava e la cantilena di Carne garantiva le più dolci promesse. 

“Dovremmo salvarlo.” ripetè Carne, senza guardarmi. 
“Sarebbe un peccato non tentare, giusto?”  
Ombra annuì. 
“Un gran peccato, mia piccola.” continuò Carne, col viso coperto da ciocche di capelli disordinate, ancora rivolto all’acqua. Si chinò per immergere le dita nel fiume e, per un attimo, apparve come un feto rattrappito e scheletrico, una bestia d'ossa e bei vestiti. “E’ una gran fortuna che ci fossero i fratelli ad assistere al suo suicidio. Esprimi il tuo desiderio, mia cara: non è pericoloso se sai cosa vuoi.” 
Ci pensai su un istante, prima di lanciare uno sguardo a Ombra. Al posto degli occhi vi erano due buchi neri, e la bocca era come un ramo: diritta e scura. Mi sfiorò la spalla e, se fosse stato umano, avrei potuto definirlo incoraggiante. 
Presi, così, la mia decisione. 
“Vi prego, Fratelli.” esordii, prendendo un respiro profondo “Riservate a Milord la stessa cortesia che riservaste a me.”  


Oh, Dio, potrai mai perdonarmi?

Bugie, tutte Bugie.
Non tornerai mai a casa, sei troppo lontano.

Nessun essere umano si sarebbe mai avventurato fuori casa a quell’ora e, anche se fosse, eravamo protetti dalla nebbia chiamata dalla cantilena di Carne. 
Io, nonostante tutto, lo vidi benissimo: non appena formulai la mia preghiera, Carne alzò il capo con un movimento liquido che, guardandolo, si sarebbe detto troppo repentino per un essere umano. 
Sul volto scavato era disegnato un sorriso folle e gli occhi immensi erano più rossi che mai. 
Sibilò come un serpente e si alzò il vento e calò il gelo.   
Mi dannai con una preghiera. Non che mi importasse, dopotutto. 
“Richiesta accettata.” 

 

“Non piangere, bimba, anche se il gattino è caduto nel pozzo. Chiedi ai Fratelli di recuperarlo. 
E Lucretia, Lucretia era caduta nel pozzo. Chiese di essere salvata. 
E Milord, Milord è caduto nel Fiume.  
E le stelle, le stelle brillano in una notte di pioggia.

C’era un ponte fatto di sabbia, d’argilla, di legno e di sangue; Il pozzo è nato per i desideri, ma il ponte deve bruciare. 

 
 
Anima perduta, vuoi essere salvata?” 

 

 

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