Things you said ~ Challenge

di ReaRyuugu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1# • Things you said at 1 am {ImaHana} ***
Capitolo 2: *** 2# • Things you said through your teeth {ImaHana} ***
Capitolo 3: *** 3# • Things you said too quietly {MidoTaka} ***
Capitolo 4: *** 4# • Things you said over the phone {AoKaga} ***
Capitolo 5: *** 5# • Things you didn’t say at all {HaiKise} ***
Capitolo 6: *** 6# • Things you said under the stars and in the grass {AoKise} ***
Capitolo 7: *** 7# • Things you said while we were driving {MuraAka} ***
Capitolo 8: *** 8# • Things you said when you were crying {ImaHana} ***
Capitolo 9: *** 9# • Things you said when I was crying {ImaHana} ***
Capitolo 10: *** 10# • Things you said that made me feel like shit {Mibuchi Reo} ***
Capitolo 11: *** 11# • Things you said when you were drunk {AoKagaKuro} ***
Capitolo 12: *** 12# • Things you said when you thought I was asleep {HaiKise} ***
Capitolo 13: *** 13# • Things you said at the kitchen table {SilverGold} ***
Capitolo 14: *** 14# • Things you said after you kissed me {KagaKuro, AoKuro} ***
Capitolo 15: *** 15# • Things you said with too many miles between us {KiyoHyuu} ***
Capitolo 16: *** 16# • Things you said with no space between us {HimuNiji} ***
Capitolo 17: *** 17# • Things you said that I wish you hadn’t {MidoTaka} ***
Capitolo 18: *** 18# • Things you said when you were scared {ImaHana} ***
Capitolo 19: *** 19# • Things you said when we were the happiest we ever were {MitoKoga} ***
Capitolo 20: *** 20# • Things you said that I wasn’t meant to hear {MidoTaka, accennata} ***
Capitolo 21: *** 21# • Things you said when we were on top of the world {MuraAka} ***
Capitolo 22: *** 22# • Things you said after it was over {KiyoHyuuRiko} ***
Capitolo 23: *** 23# • Things you said [make your own] » under the fireworks {AoMomo} ***



Capitolo 1
*** 1# • Things you said at 1 am {ImaHana} ***


Preambolo!
Questa challenge l’ho presa in prestito da qua, ed è stato il mio modo di riavvicinarmi alla scrittura durante questi mesi estivi. L’ultima volta che ho messo le mani sulla tastiera per comporre qualcosa, prima di iniziare questa challenge verso metà Giugno, è stato per gli inizi di Aprile – e siccome so quanto stare in stallo così tanto possa nuocere alle mie già discutibili capacità, ho ben pensato di dare ascolto a uno dei consigli che ho visto dare spesso per sconfiggere il blocco dello scrittore: scrivi anche quando non ne hai voglia.

E così ho deciso di forzarmi più o meno ogni giorno su un foglio di word, imponendomi di concludere questa avventura nel giro di un mese. In realtà ci ho messo giusto un paio di giorni in più, ma alla fine ce l’ho fatta!
… e siccome mi dispiaceva lasciare il tutto a marcire, ho deciso anche di postare il tutto da queste parti. Ho trattato di diverse ship (anche magari che propriamente non amo alla follia, più una certa prevalenza ImaHana che è un po’ la mia coppia-jolly su cui scriverei sempre) e a volte anche di singoli personaggi, cercando di mettermi il più possibile alla prova.

Ma ciancio alle bande, taccio e vi lascio alla prima storia!

 

 

Genere: Introspettivo, un po’ angst, generale

Tipo di coppia: Shonen-ai

Personaggi: Hanamiya Makoto, Imayoshi Shoichi

Rating: Verde

Parole: 2400+

Note: Si basa tutto sull’idea che ho di una coppia di genitori –quelli di Hanamiya- che con il proprio figlio è infinitamente distante, così distante che certe differenze sembrano non avere possibilità di essere appianate. Ma forse c’è qualcuno, al di fuori di tutto questo, che può alleviare un po’ una situazione tanto angosciante.

Scritta il: 13/06/2015

 

1# • Things you said at 1 am

 

 

Era decisamente una cosa positiva che, nonostante fossero quasi le una di notte, Imayoshi fosse ancora sveglio.

Non che potesse fare altrimenti, in ogni caso: con gli esami di ammissione dietro l’angolo, era più che normale che la caffeina si sostituisse al sangue, e che le sessioni di studio intensivo si protrassero ben oltre orari considerati sani. Fece dunque poco caso all’orario in cima allo schermo del telefono quando lo sentì risuonare di una musichetta allegra che aveva dimenticato di disattivare, domandandosi chi fosse a contattarlo proprio nel cuore della notte.

Hanamiya Makoto”

Oh? Questa era una sorpresa. Da quando avevano iniziato a vedersi già era raro che fosse lui a cercarlo per primo, figuriamoci ad orari improbabili come quelli! Sollevò le sopracciglia sopra un’espressione curiosa, esplorando il contenuto di quell’inaspettato messaggio.

Aprimi.

Sarà stato pure un piccolo genio, ma doveva smettere di abusare così tanto del suo dono della sintesi. Sospirò, ma un sorrisetto malizioso gli increspò le labbra mentre digitava la sua risposta.

Di solito sei così audace solo in camera da letto.

Idiota, aprimi la porta, sono fuori dal dormitorio.

Stava succedendo davvero, o erano gli effetti del sonno, del troppo studio, dei troppi caffè bevuti per mantenere il focus dell’attenzione? Distolse lo sguardo dallo schermo, domandandosi per caso se fosse una sorta di allucinazione, ma quando tornò con gli occhi sul rettangolo luminoso il messaggio era ancora lì.

Si precipitò fuori dalla stanza quasi senza pensarci, senza nemmeno considerare che potesse trattarsi di uno dei suoi tentativi di coglierlo alla sprovvista e di giocargli così qualche brutto tiro. Non avrebbe avuto senso, d’altronde, o no? Non avrebbe comunque potuto vederlo cadere in un’eventuale trappola, non avrebbe avuto nessuna soddisfazione papabile da uno scherzo del genere… !

E infatti, quando si ritrovò nel corridoio d’ingresso, la prima cosa che vide oltre la porta vetro fu una figura stretta in una felpa troppo leggera per il clima notturno ancora pungente, la testa incavata nelle spalle e le mani sprofondate nelle tasche. Come era riuscito ad entrare nel plesso senza farsi beccare? Attento a non far troppo rumore lasciò che varcasse quella soglia, concedendogli qualche secondo per tornare ad un’umana temperatura corporea prima di porgli qualsiasi domanda e limitandosi dunque ad osservarlo con attenzione.

Era raro, davvero, vederlo completamente sereno, quindi non si preoccupò neanche eccessivamente della solita espressione accigliata che gli adornava il viso. C’era qualcos’altro a catturare la sua attenzione - una specie di ombra scura a velargli gli occhi puntati chissà dove, la schiena incurvata, e nessuna apparente volontà di dargli contro in alcun modo. Da dove arrivava tutta quella mesta passività? Il più grande si sistemò gli occhiali sul dorso del naso, decidendosi finalmente a rompere il ghiaccio.

- Vogliamo rimanere qui tutta la notte? - ad essere del tutto sinceri, di battute anche più fastidiose ne aveva in serbo parecchie, ma l’atmosfera pesante non aveva fatto tardi a suggerirgli di tenere tappata la bocca per evitare rumorose ritorsioni. Hanamiya, infatti, si limitò a tirargli una semplice occhiataccia mentre il moto tornava nelle sue gambe, e con passo deciso si avviava verso quella stanza che ormai conosceva quasi meglio della propria, non aspettando nemmeno il legittimo proprietario per fiondarcisi dentro e imbozzolarsi, immobile e silenzioso, sul materasso.

… era venuto solo per un posto letto? Che piccolo lunatico, era proprio incorreggibile! Gli si avvicinò con passo felpato e appena percettibile, sperando che parlare con l’ostinata schiena che gli stava mostrando potesse sortire qualche risultato.

- Come mai qua? Ti sei perso, Mako-chan? -

E sì che a quell’appellativo reagiva sempre - ma non stavolta, se non per un irritato sussulto. Ci sarebbe stato verso di cavare dalla sua bocca una qualsiasi informazione? Non che gli pesasse avere quel ragnetto in giro per casa, ma almeno uno spettro di motivazione sarebbe stato gradito…!

Sospirò per l’ennesima volta, come arreso. Poteva vantarsi, era vero, di capirlo molto più di chiunque altro - ma persino per lui, per quanto fosse difficile ammetterlo, a volte Hanamiya era un mistero. Non esprimeva mai i suoi veri pensieri, quando aveva un problema preferiva tacerlo piuttosto che parlarne; e per quanto riuscisse quasi sempre in un modo o nell’altro a ricavare le informazioni che voleva, quando si trovava davanti ad un silenzio più freddo e impenetrabile del solito sapeva che le cose che potevano fare erano ben poche.

La prima, fare finta di niente. Sarebbe potuto tornare alla sua scrivania e studiare, aspettare che l’emergenza fosse rientrata da sola e proseguire quella serata nell’esatto modo in cui era cominciata. Sarebbe stato sicuramente più facile, ma altrettanto facile era prevedere le conseguenze: come avrebbe potuto fronteggiare un offeso, imbronciato e particolarmente manesco Hanamiya, poi?

La seconda, dunque, per quanto dall’esito incerto, era senz’altro la più consigliabile: si defilò dalla stanza per tornarne poco dopo con qualcosa in un bicchierino di plastica, il cui odore si librò presto in quelle quattro mura. Vide chiaramente il naso dell’ospite reagire al profumo, e subito il suo sguardo fu puntato su di lui.

- Cioccolata calda della macchinetta? - borbottò - Ti sei sprecato. -

- Eh, questo passa in convento, lo sai. - se non altro, pensò, almeno aveva attirato la sua attenzione.

Prese posto sulla sua seggiola, scorrendo verso il letto e porgendogli la bevanda calda. L’altro lo fissò come una specie di bestiolina iraconda, prendendosi qualche secondo di esitazione prima di accettare e allungare le mani verso di lui. Non poterono sfuggire, agli occhi di Imayoshi, le nocche arrossate e a tratti tumefatte, facendo un po’ di resistenza prima di consegnargli il bicchiere per osservare ancora un po’ quelle ferite che proprio non si aspettava. Era per quello che era così tanto sulla difensiva?

- Hai fatto a botte? - domandò, sorpreso. L’altro schioccò, seccato, la lingua sul palato, tirandogli via dalle mani il dannato bicchiere e accoccolandosi con la schiena contro il muro.

- No, fatti i cazzi tuoi. - soffiò, distogliendo immediatamente lo sguardo e poggiando le labbra sul bicchierino. Shoichi incrociò le braccia.

- Vorrei, ma sei sbucato a casa mia alle una di notte con un broncio lungo fino a terra e un’aria da funerale! Sono preoccupato per te, lo sai? - … o forse era solo curioso, e il suo animo un po’ pettegolo non voleva fare a meno di ficcanasare in certe questioni. Hanamiya lo sapeva benissimo, e l’occhiataccia che gli rivolse fu più che eloquente.

Non durò più di qualche secondo, però. L’espressione sul suo viso parve rilassarsi, e la stretta sul povero bicchiere divenne meno marcata. Tornò a guardare il vuoto davanti a sé, le labbra leggermente dischiuse come a cercare le giuste parole.

- C’è davvero… un motivo, uno solo, per cui io possa andare bene alla mia cazzo di famiglia? -

 

 

Non era convinto che fossero solo le tante piccole stranezze di quella serata a tenerlo così in allerta.

Certo, era strano che suo padre fosse in casa e per di più a cenare con loro, sempre lontano com’era per il proprio lavoro. Era anche strano, in effetti, stare tutti seduti attorno al tavolo, col solito silenzio riempito stavolta dalla tv accesa poco lontana da loro.

Ma non era solo questo, Makoto lo sapeva. Non era una persona ‘tranquilla’, ma persino per lui quell’inquietudine di fondo era fuori luogo. Voleva finire e defilarsi di lì alla svelta; voleva scongiurare ogni ulteriore eventuale rottura di palle, voleva prendere le distanze dall’indifferenza che permeava le relazioni di quella famiglia e non farsene inquinare ancora più del necessario. Stava per succedere qualcosa da cui doveva assolutamente sottrarsi, ma il fulmine che squarciò quell’apatica calma arrivò prima di quanto pensasse.

- Riconoscere le unioni gay? - biascicò disgustosamente il padre con la bocca ancora piena, commentando severamente le notizie del telegiornale - E poi cos’altro, si potranno sposare gli animali? -

- Certi politici sono pronti a qualsiasi cosa per ottenere il consenso di certi deviati. - la risposta della madre fu invece quasi un sussurro, ma Hanamiya sentì con tutta la forza possibile la cattiveria di quelle due affermazioni. Non era solito lasciarsi turbare da simili frasi, ma, per quanto per loro non nutrisse praticamente alcun tipo di rispetto— erano i suoi genitori.

- … oi, non vi sembra di esagerare? Siamo nel ventunesimo secolo. - di solito era quello che rimaneva in silenzio, lui. Di solito non metteva bocca in quelle discussioni, soprattutto da quando si era reso conto che il suo parere, in quella casa, valeva meno di zero. Persino gli altri due parvero sorpresi da quell’intervento, e non incontrando ostacoli continuò incoscientemente a parlare - Cosa fareste se fossi io quello gay? -

Lo stupito silenzio si protrasse ancora troppo, troppo a lungo, diventando sempre più pesante e gonfio di biasimo. Si pentì di quelle parole, di aver deciso di irrompere nella discussione senza che nessuno gliel’avesse richiesto, di essere andato così palesemente incontro al suo presentimento. Vide il genitore aggrottare le sopracciglia, protraendosi minacciosamente verso di lui.

- Un frocio in famiglia sarebbe un disonore. - sentenziò duramente - Ti allontaneremmo da questa casa e tu da noi non avresti più niente. -

 

 

Imayoshi ascoltò senza proferir parola, lasciando che l’altro si sfogasse.

Conosceva anche fin troppo bene che aria si respirava in casa Hanamiya. Lui mal sopportava i suoi genitori e loro non avevano nessuna considerazione di lui, e la situazione andava avanti in questo precario equilibrio da che ne avesse memoria. Era pure normale che a volte le cose precipitassero così tanto che tirare pugni al muro non bastasse più a sfogarsi, e che quelle mura domestiche diventassero tanto opprimenti da voler solo scappare. Era la prima volta, tuttavia, che succedeva così tardi - e che di tutte le persone molto più fisicamente vicine a lui da cui poteva rifugiarsi almeno per una notte, avesse deciso di fare tutta quella strada per andare proprio da lui. Era quasi onorato!

… anche se non era certo il momento di farne un vanto.

- E poi cos’è successo, hai risposto, o… - tentò di domandare, ma l’altro gli parlò immediatamente sopra.

- Certo che no, non sono un deficiente! Non che possa permettermi di farmi lasciare col culo per terra, ho fatto finta di nulla! - ringhiò, accartocciando il bicchierino adesso vuoto, prima di lasciarlo cadere e infilarsi le mani nei capelli - Non ho un altro tetto sotto cui stare, ma non ce la faccio più, non ce la faccio più a stare lì, cazzo… ! -

Poche, pochissime cose riuscivano ad incrinare, nel bene o nel male, la sua caratteristica apatia. E tutte le volte che vedeva Makoto uscire così drammaticamente dal suo tipico personaggio, magari riducendosi in uno stato del genere, non poteva fare a meno di ricordarsi che al di là del Bad Boy, del ragazzaccio violento contro cui nessuno voleva giocare, c’era una persona piena di conflitti irrisolti, di problemi che andavano oltre a ciò che chi lo conosceva solo superficialmente poteva immaginare.

Non stava cercando di giustificarlo, sia chiaro - solo, voleva dire che anche lui meritava ascolto e consolazione, laddove le sue azioni poco carine non c’entravano nulla. Si sedette vicino a lui, invadendo quello spazio vitale che sapeva di essersi duramente guadagnato, stringendogli un braccio attorno alle spalle e tirandolo verso di sé.

Era l’unico, probabilmente, a poterlo vedere in simili condizioni. E come tale, l’unico ad avere la responsabilità, o il potere, di alleviare un po’ quell’angoscia.

- Ascolta… - cercò di richiamare la sua attenzione - … è ovvio che non potrò stare in questo dormitorio per sempre… quindi, magari quando troverò una casa dove stare quando inizierò l’università, potresti venire a stare da me, no? Avresti un tetto sotto cui stare E saresti lontano dai tuoi senza far nascere nessun sospetto. -

Quasi non ci sperava, ma quella soluzione così poco pensata innescò un’immediata reazione nell’altro ragazzo, che si riscosse come se stesse svegliandosi da un brutto sogno.

Guardò verso di lui, le palpebre sgranate sugli occhi sorpresi. C’era di tutto, in quello sguardo - la speranza che non fosse uno scherzo, il timore di non poter davvero fare qualcosa del genere, la… gioia, segreta, appena percettibile, di avere una mano a cui aggrapparsi per sfuggire a un destino avverso.

Durò poco più di qualche secondo - quanto bastasse per far sì che la sua familiare espressione strafottente tornasse a dominare incontrastata sul suo viso.

- Due ragazzi che non sono neanche compagni di scuola che vivono insieme in un appartamento. Bello. Molto etero, mi permetto di aggiungere. - uno sbuffo divertito lasciò traditore le sue labbra - Scommetto che non sospetteranno niente. -

Imayoshi scoppiò a ridere - Dettagli, dettagli, non che possano avere conferme ad eventuali sospetti! Meglio di niente, comunque, no?  -

Era un’idea improvvisata, qualcosa a cui stava pensando, sì, ma che non credeva gli avrebbe proposto così presto. Non sapeva neanche se avrebbe potuto farlo, o se una convivenza tra di loro potesse funzionare senza che non finissero per uccidersi a vicenda… ma sapeva che era ciò che Hanamiya aveva bisogno di sentirsi dire.

- Magari ci penserò, hm. - lo sentì infatti mormorare. E non poteva vederlo, no, perché da bravo furbo aveva di nuovo abbassato la testa.

Ma sapeva benissimo che, almeno stavolta, era per concedersi un riservato e breve sorriso.

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Capitolo 2
*** 2# • Things you said through your teeth {ImaHana} ***


Genere: Commedia, slice of life

Tipo di coppia: Shonen-ai

Personaggi: Hanamiya Makoto, Imayoshi Shoichi

Rating: Verde

Parole: 500

Note: Avete presente quelle persone che hanno sempre le mani fredde, anche se fuori fanno quaranta gradi all’ombra?

Combo ImaHana due volte di fila perché sono una brutta persona.

Scritta il: 14/06/2015

 

2# • Things you said through your teeth

 

 

- Hanamiya, la finisci? -

- No, non penso proprio. -

Ah, quante volte l’aveva accusato di ‘troppa serietà’ o di essere ‘troppo musone’. Però, quando decideva di divertirsi un pochino, non gli piaceva che fosse a sue spese, hm?

Sorrise nel buio, Hanamiya, tentando l’ennesima, scomodissima manovra per infastidire il ragazzo sdraiato accanto a lui su quel letto fin troppo piccolo. Non che ciò rappresentasse un problema, in ogni caso: per qualche motivo, lo spazio limitato rendeva il tutto ancora più divertente. E mentre piegava quasi innaturalmente le gambe per raggiungere coi piedi la schiena di Imayoshi e piantarceli sopra, i lamenti infastiditi che emetteva ogni volta lo ripagavano di qualsiasi contorsione.

 

Gliel’aveva detto mille volte, d’altronde: era freddo.

Non nel senso strettamente emotivo, ovviamente — il suo corpo era dannatamente gelido. E non esagerava: era ben conscio, d’altronde, di quell’ipotermia fisiologica che rappresentava tuttavia la sua temperatura naturale, ma c’erano delle determinate controindicazioni a quella condizione cronica.

 

Anche se, chiaramente, più dannose per gli altri che per lui stesso.

 

Era un piccolo potere che possedeva da sempre.

Avere le estremità degli arti fredde, molto più fredde del normale, a prescindere dalla stagione o dal clima, gli conferiva un senso di superiorità che quasi neppure l’incrinare e distruggere l’animo di suoi avversari sul campo riusciva ad eguagliare. Quanto poteva essere soddisfacente, d’altronde, avvicinarsi di soppiatto alle sue “vittime”, cogliendole di sorpresa con una presa gelida sulla pelle nuda e magari pure accaldata dagli allenamenti? L’aria si riempiva immancabilmente di quei gridolini acuti che lo facevano sempre ridere come uno stronzo, subito seguiti dagli inevitabili insulti che, in tutta sincerità, gli scivolavano addosso come se neppure lo riguardassero.

Era pure ovvio che, tra le sue usuali prede, figurasse anche quel maledetto quattrocchi. Erano poche le soddisfazioni che poteva prendersi su di lui, quindi perché non approfittarne?

Ecco perché, da poggiargli le piante dei piedi sulle gambe scoperte, era salito sempre più in alto, finendo per premersi contro la sua schiena. Era stato un crescendo di reazioni di cui non riusciva a saziarsi, non era poi così strano che non volesse smettere!

 

… anche se, in effetti, si trattava di una decisione estremamente incauta da parte sua.

Già quando l’aveva chiamato per cognome, e non affibbiandogli il solito nomignolo seguito dal più umiliante degli onorifici, avrebbe dovuto capire che non era pronto a subire ancora.

Sentì le proprie caviglie venir strette in una morsa irresistibile, bloccate adesso sotto le braccia dell’infastidito ragazzo più grande. Grr… che palle!

E poi cos’era quel sussurrare soffiato, quel bofonchiare che sentiva provenire come un ringhio da dietro i suoi denti stretti?

- Certe volte non ti fai proprio sopportare, hm? -

Inarcò le sopracciglia, sbuffando beffardamente. Oh, ora solo perché gli stava dando le spalle, era convinto di poter dire quello che voleva? Ghignò di nuovo, slanciandosi verso di lui.

- Ti ho sentito, quattrocchi. - sibilò, tetro, prima di far sgusciare le mani sotto la sua maglietta e premerle contro i fianchi indifesi.

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Capitolo 3
*** 3# • Things you said too quietly {MidoTaka} ***


Genere: Slice of life… sentimentale, credo?

Tipo di coppia: Shonen-ai

Personaggi: Takao Kazunari, Midorima Shintaro

Rating: Verde

Parole: 600+

Note: Ironico se si pensa quanto vociante e allegro sia Takao durante il resto della sua vita.
Prima MidoTaka che io abbia mai scritto, credo, una cosina molto easy ~

Scritta il: 15/06/2015

 

3# • Things you said too quietly

 

 

Tutto intorno regnava il più incontrastato e rigido silenzio, ma Takao proprio non riusciva a concentrarsi sui libri che aveva davanti al naso.

E non era solo perché, in fin dei conti, di quelle cose (e della necessità di prepararsi per il prossimo compito in classe) non gli interessava quasi per niente; e neanche perché l’ambiente quieto della biblioteca in cui si trovava lo annoiava terribilmente. C’era un ben preciso motivo di distrazione proprio accanto a lui, proprio seduto nella postazione adiacente alla sua.

Sospirò, sorridendo tra sé e sé mentre una mano chiusa a pugno diventava l’appoggio perfetto per perpetuare quella silenziosa contemplazione: davvero, l’unico motivo per cui aveva seguito Shin-chan fino a lì era perché, ormai da un po’ di tempo a quella parte, i minuti che poteva concedersi perso nell’osservare i suoi lineamenti perfetti erano un po’ come un anelato, settimanale angolo di paradiso.

Seguì con lo sguardo il contorno del suo profilo, soffermandosi lungamente sulle sue labbra sottili, eleganti, e poi salendo di nuovo fino agli occhi; le ciocche di capelli che ricadevano davanti alla fronte non gli impedivano di osservare quei due smeraldi attenti, incorniciati dalle lunghe ciglia che solo raramente vedeva chiudersi su di essi. Non c’era niente di sbagliato in quella visione così perfetta, non riusciva a trovare niente, neanche sforzandosi, che stonasse in mezzo a quell’armonia.

Avevano la stessa età, certo, ma certe volte era come se Midorima fosse molto più grande di lui. Non solo in quell’aspetto maturo e deciso, in quella statura ridicolmente titanica, o in quella serietà inflessibile che non lo abbandonava mai: all’inizio, per lui, era come se vivesse su tutto un altro piano, inarrivabile, imbattibile, immenso. Era il miracolo che con la sua presenza aveva benedetto la loro squadra; e lui, un ragazzino talentuoso ma non così tanto da essere ricordato negli annali, non poteva che percepirlo come… lontano. Lontano mille miglia da qualsiasi punto di contatto.

Era stato orribilmente difficile aprirsi un varco in quel muro invalicabile che aveva intorno, ma non era mai stato un tipo prono all’arrendersi. Si era fatto beffe di quella distanza e di quella sensazione di irraggiungibilità, quasi imponendosi nella routine di quel musone indisponente che non andava d’accordo con nessuno; aveva scoperto che sotto l’etichetta del “miracolo” si nascondeva un ragazzo come gli altri, con le sue fisse, le sue -rare- insicurezze e anche qualche debolezza, e pur non negandosi mai il piacere di ridergli in faccia tutte le volte che il suo lato ridicolo sbocciava più rigogliosamente del solito, a forza di stare con lo Shin-chan umano che nessuno, inizialmente, sospettava esistesse davvero… se ne era innamorato perdutamente.

Che cosa patetica e cliché, vero? E dire che di cotte e di fidanzatine varie ne aveva avute, ai tempi delle medie — l’ultima persona per cui credeva di poter perdere la testa era un ragazzo alto il doppio di lui!

Ma non poteva, e non voleva, negarsi i sentimenti che nutriva nei suoi confronti. Al contrario, a costo di spingere mille volte quella dannata carretta di legno, di seguirlo in qualsiasi noiosissima biblioteca nel mondo, di assecondare ogni suo stupido rituale portafortuna, era deciso a lasciarli crescere ancora e ancora, rimanendogli vicino senza mai lasciare il suo fianco.

- … e chissà se nel mentre ti accorgerai quanto mi piaci, Shin-chan… ? - si lasciò sfuggire, in un singolo e breve sospiro. Vide l’altro distogliersi pacatamente dall’attenta lettura, voltando gli occhi verso di lui.

- Hm? Hai detto qualcosa? -

Ah… eccome se l’aveva detta. E non era neanche la prima volta, ma non era ancora il momento di dirgli la verità. Non certo così, non in un modo del genere.

- Hai le allucinazioni per il troppo studio, Shin-chan? Facciamo pausa e andiamo altrove, eheh~! -

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Capitolo 4
*** 4# • Things you said over the phone {AoKaga} ***


Genere: Erotico, vagamente introspettivo… ?

Tipo di coppia: Yaoi

Personaggi: Kagami Taiga, Aomine Daiki (+Himuro Tatsuya)

Rating: Rosso

Parole: 980+

Note: Ops.

In genere tutti (e io pure) vedono Kagami come un angelo tontarello incapace di malizia ma ho deciso di dargli un’accezione un po’ diversa dal solito.

Il prompt, se non sbaglio, mi era stato più precisamente suggerito dalla Odu.

Scritta il: 16/06/2015

 

4# • Things you said over the phone

 

 

- Pronto… ? -

- Taiga? -

 

Ah… questo era male.

 

Non ci aveva nemmeno pensato. Aveva sentito vibrare il telefono nella tasca, aveva visto il nome e, pur razionalmente sapendo che non era il caso di rispondere, aveva comunque lasciato scorrere il dito sullo schermo.

Poggiò la testa contro il muro dietro di sé. Cretino, stupido, deficiente imbecille. IdioTaiga era davvero il soprannome perfetto per uno come lui, pensò, anche se avrebbe preferito morire piuttosto che ammetterlo ad alta voce.

 

Però sapeva che l’altro non sarebbe stato molto tollerante.

Sentiva già i suoi occhi addosso, crudeli, affamati.

 

- Non sei agli allenamenti? Che fai, batti la fiacca? - lui, però, non doveva sospettare nulla. Inghiottì l’inquietudine, l’eccitazione e il nervosismo, sperando che lo statico del telefono riuscisse a mascherare le oscillazioni della sua voce. Sbuffò, di un divertimento pateticamente falso, ma dall’altra parte non parve arrivare nessun segno di dubbio.

- Come on, sai che non potrei permettermelo. Sono in pausa e… avevo voglia di sentirti. -

Proprio ora, pensò Kagami. E gli incisivi affondarono sul labbro inferiore.

 

Solo qualche tempo fa non si sarebbe mai nemmeno sognato di pensare una cosa del genere, ma forse era ovvio che sarebbe finita così. Troppi sentimenti, troppo alla svelta; una conciliazione così profondamente desiderata era sfociata con tutta la sua forza in un amore repentino e bruciante, in una passione sconvolgente che, credeva, fosse ciò che aveva sempre effettivamente provato.

Era l’amico della sua infanzia. Si era quasi convinto anche lui che quella, in fondo, fosse solo una naturale evoluzione degli eventi.

 

“E invece guardami, adesso, mentre mi lamento del tuo pessimo tempismo.”

 

Pessimo davvero, ma non perché fosse lui ad essere nel torto. Come poteva sapere, d’altronde, che l’altro aveva ben deciso di ignorare quella telefonata, stringendo tra i denti la cerniera dei jeans mentre, lento, gliela tirava giù?

Voleva fargliela pagare per quell’interruzione, Kagami lo sapeva. Non gli serviva nemmeno guardarlo per immaginarsi il ghigno soddisfatto che sicuramente aveva stampato sulle labbra — e nemmeno voleva guardarlo, in realtà, cercando di estraniarsi per il minimo indispensabile da quel contesto.

 

- Lo apprezzo, Tatsuya. -

Stavolta fu l’altro a sbuffare divertito. E per poco non gli tirò un calcio.

 

in un certo senso, sì, apprezzava - ma quel sentimento di gioia che provava tutte le volte che gli faceva ‘sorprese’ del genere era presto andato a scemare. Non voleva dire di essere arrivato al fastidio, ma al non necessario poco ma sicuro.

Il fuoco aveva bruciato tutto ciò che aveva a disposizione per alimentarsi, e la fiamma aveva iniziato a diventare sempre più flebile, sempre più fredda. Le conseguenze erano ovvie.

Avrebbe dovuto sentirsi in colpa, disprezzarsi, e pure farsi in quattro per fargli capire che quell’amore travolgente era stata solo un’effimera illusione, però…

 

Un singulto lo scosse e una mano andò a premersi sulla bocca, evitando di lasciar trapelare ciò che non sarebbe dovuto arrivare alle orecchie di un Himuro che sembrava però troppo impegnato a raccontargli della sua giornata per rendersene conto. Ogni filo di pensiero si ingarbugliò su se stesso, diventando una confusa massa informe via via che sentiva una certa lingua curiosa prima muoversi mediata dalla stoffa dei boxer, e poi scivolare maliziosamente lungo un’erezione assolutamente imperturbata dalla situazione.

 

… non ci riusciva, non ci riusciva a dirgli che era finita. Sapeva di stare sbagliando, ma era come se una simile consapevolezza non facesse che rendere le cose ancora più interessanti.

Lo appagava in modo malato e contorto sapere di essere ancora legato a qualcuno in modo ‘ufficiale’ e, allo stesso tempo, di concedersi di lasciarsi consumare da un amore tutt’altro che sacro, fatto di incontri fuggevoli e clandestini, di notti immerse in un misto velenoso di tentazione e lussuria che anche adesso, anche in quel momento, stava iniziando a dargli alla testa.

 

Non sentiva più neanche la sua voce al telefono.

Sentiva solo il cuore pulsare come un tamburo impazzito, gli ansiti che rimanevano strozzati nella gola, incapacitati ad uscire, il suono umido delle labbra bagnate che frizionavano intorno alla sua eccitazione.

 

“… Aomine.”

 

Bastò quel singolo nome a riscuoterlo, a fargli sgranare gli occhi nella penombra da cui era avvolto. La mano, che intanto era scivolata tra i capelli dell’altro, si strinse su quella presa ancora più forte.

 

- … come? -

- Sì, mi ha mandato un messaggio ieri sera, qualcosa tipo… “io starei attento al tuo ragazzo, e che la gente che frequenta non gli stia troppo intorno”, come se mi tradissi o roba del genere. L’ho cancellato senza nemmeno pensarci, hahah! Chissà che gli è preso… -

 

Era la stessa domanda che vorrebbe porgli, pensò, e per la prima volta dall’inizio di quella chiamata si decise a guardare verso il basso.

Oh, sapeva benissimo che stavano parlando di lui e di quello che aveva fatto, lo leggeva nel luccicare orgoglioso di quelle iridi rigonfie di malizia. “Tanto ti piace, no?” sembrava quasi volergli dire, e per rimarcare la sua posizione si spinse più avanti, più a fondo, accogliendolo senza esitazione nella propria gola. E ogni barlume di rancore svanì come se non fosse mai esistito

 

Cosa era diventato?

Amava alla follia tutto questo. Amava sentire la voce ignara di Himuro risuonargli limpida nelle orecchie, e sotto la sua mano sentire la testa di Aomine muoversi avanti e indietro, mentre le sue dita gli affondavano possessive contro le natiche come se tutto ciò non appartenesse che a lui.

 

Aveva avuto un assaggio del frutto più peccaminoso di tutti, e adesso non riusciva a farne a meno.

 

- Ah… pausa finita, devo andare via. Devo andare, ci sentiamo più tardi, mh? -

- M-… mh-hm. -

- Ti amo. -

 

Stavolta non arrivò nessuna risposta.

Il dito si era premuto tremante sull’icona rossa, in un ultimo barlume di lucidità. E fu sicuramente meglio così: neppure lui sarebbe riuscito a mentirgli, a dire che lo amava, mentre un inevitabile, proibito orgasmo lo scuoteva senza pietà.

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Capitolo 5
*** 5# • Things you didn’t say at all {HaiKise} ***


 

Genere: Generale, angst verso la fine

Tipo di coppia: Nessuna (se proprio proprio, shonen-ai)

Personaggi: Haizaki Shougo, Kise Ryouta

Rating: Verde

Parole: 1700+

Note: Altro Headcanon altra corsa (yee…). È stato il mio primo tentativo con       questi due, una specie di prova per vedere un po’ come muovere Kise che è la mia grande incognita. E Haizaki è un moccioso immaturo e gli voglio un mondo di bene. #apologist #notreally

Scritta il: 17/06/2015

 

5# • Things you didn’t say at all

 

 

- Non si leggono le riviste senza comprarle. -

- Non sto leggendo, sto guardando le figure. -

Il negoziante gli tirò un’occhiata storta, ma Haizaki neppure ci fece caso. Non poteva dirgli nulla, d’altronde, per una volta stava dicendo la verità!

Non che in una rivista di consigli di bellezza per ragazze della sua età ci fosse altro da vedere oltre le figure, in ogni caso. Non erano certo gli articoli sulla moda mare o sulla boutique del momento ad attirare la sua attenzione, quanto magari l’idea rifarsi gli occhi con quelle bellezze che sembravano esistere solo tra le pagine di quei giornali. Non che si lamentasse di tutte quelle che già riusciva ad imbroccare, però… !

«L’intervista con l’idol del momento!»

I suoi occhi notarono solo distrattamente quel titoletto, ma fu abbastanza per scatenare la sua curiosità: scorse indietro, ansioso di conoscere questa new entry nel pantheon delle Dee delle pose carine e dei vestitini fruscianti al limite del decente, ma tutte le sue aspettative si distrussero nel giro di pochi secondi.

«È giovane e pieno di energia, ma pur frequentando appena le superiori, il modello-…»

Modello?

Storse il naso, insoddisfatto dalla piega che avevano preso quegli eventi. Non era quello che stava cercando, cosa poteva interessargli di un modello delle superiori?

modello delle superiori?

Pur avendo già voltato pagina, bastò quel dubbio a farlo tornare sull’articolo incriminato. I suoi occhi scivolarono immediatamente sul resto del sottotitolo, spinti da una curiosità che neppure credeva di poter nutrire.

«… il modello delle superiori Kise Ryouta è già estremamente popolare e richiesto dalle più grandi marche. Come farà a conciliare studio, sport, lavoro e vita privata? Siamo riusciti a farci svelare alcuni dei suoi segreti!»

E c’era davvero gente disposta a farsi i cazzi suoi in modo così palese? Scosse il capo, ma l’attenzione saltò sul resto dell’intervista prima ancora che potesse ordinarle di soffermarsi altrove. Come previsto, comunque, l’articolo non diceva assolutamente niente: la sua routine mattutina, il suo rapporto con i professori, i fan, i compagni di squadra… la sua vita non aveva niente di diverso da qualsiasi altro liceale, ma nessuno aveva mai dedicato la pagina centrale di un magazine a Shougo Haizaki!

Aggrottò le sopracciglia, facendosi cogliere da un profondo, bruciante, senso di fastidio… e forse di invidia. Non che ce ne fosse bisogno, davvero: a suo sfavore, certo, ma ogni conto in sospeso tra di loro ormai si era chiuso, e lui pure aveva per una volta cercato di farsi maturo e di lasciarsi alle spalle una questione che non faceva altro che avvelenargli lo stomaco; nonostante tutto questo, però, il fatto che quello esistesse e che tramite la sua esistenza avesse tolto i riflettori che splendevano su di lui per farli risplendere solo su di sé, ancora lo mandava in bestia.

Al diavolo ogni regolamento di conti- lui era per primo nel team che sarebbe poi diventato la ‘Generazione dei Miracoli’, e se quel biondino ossigenato non fosse mai sbucato ne avrebbe ancora fatto parte… !

Ecco, appunto, ci stava cascando di nuovo. Fanculo a lui e fanculo a quell’articolo di merda!

«Questa è una domanda che ci è arrivata da molte fan… c’è qualche storia particolare dietro quell’orecchino?»

Stava per chiudere tutto e andarsene, ma leggere quelle parole lo distolse dai suoi intenti. Alzò gli occhi verso una delle tante foto che costellavano la pagina, adocchiando immediatamente l’anellino argentato al suo orecchio sinistro.

Cazzo, certo che c’era una storia dietro. Se la ricordava persino lui - forse perché era uno dei pochi momenti della sua vita in cui aveva effettivamente fatto qualcosa per qualcuno; o forse perché era anche uno dei pochi dialoghi che aveva avuto con quello là senza ancora provare il desiderio di spaccargli la faccia.

Non che ne avesse davvero motivo, all’epoca: era stato da poco cacciato dalla squadra, e non aveva ancora deciso quanto grande fosse stato il ruolo di Kise nel proprio personale fallimento. Senza contare che la fidanzata che gli aveva fregato se ne era andata con un altro un paio di settimane dopo, motivo per cui si sentiva quasi di avergli fatto un favore ad averlo liberato di quella stronzetta vanesia: fu per quelle ragioni che la voglia di attaccar briga, appena lo vide a curiosare nel negozietto del suo piercer di fiducia, non si fece neppure sentire, limitandosi a rimanere in attesa del padrone del posto. Anche se, di grazia, che diavolo ci faceva in un posto come quello?

- Se stai cercando degli orecchini di perla per tua madre di certo non li troverai qui, Ryota. -

Lo vide sobbalzare, e subito dopo guardarsi intorno come se fosse stato scoperto a compere il più grave delitto. Quanto poteva essere patetico?

Ci mise ben più di solo qualche attimo ad individuare la fonte di quell’annoiata provocazione. Shougo se lo ricordava ancora, quello sguardo da perfetto imbecille, e pure il silenzio che intercorse fino a che non si decise ad aprir bocca.

- Mi scusi, ma lei chi è? -

Cosa cazzo voleva dire?! Era serio?! Tutta l’ostilità che aveva messo da parte per poco non salì di nuovo, e per la precisione diretta verso i pugni che già stavano per chiudersi.

- Come ‘chi sono’? E poi che cazzo mi dai a fare del lei?! - sbottò, irritandosi ancora di più quando vide l’altro rimanere sorpreso da quella reazione. Fortunatamente, un attimo dopo il lume della ragione parve tornare in quella testa vuota.

- Shogo! - esclamò infatti - È che… i capelli! Non ti riconoscevo… -

Già, che aveva deciso di tornare del suo colore di capelli naturale. In effetti poteva concedergli un margine di dubbio — ma da lì a non riconoscerlo proprio?

Sospirò, facendo sprofondare le mani nelle proprie tasche. Il discorso poteva pure chiudersi lì, ma non appena distolse lo sguardo sentì che quello di Kise era ancora puntato su di lui, un po’ incerto, un po’ severo. Beh, in effetti non che lui fosse consapevole del favore implicito che aveva ricevuto quando gli aveva soffiato la ragazza, non era strano che lo guardasse con così tanto astio.

- Tu che ci fai qua, invece?-

- Una rapina. -

- EH?! -

- S-… sto scherzando, idiota! - si voltò verso di lui, solo per vederlo già col cellulare in mano. Diavolo, ma non sapeva distinguere uno scherzo dalla realtà?

- Voglio farmi bucare di nuovo l’orecchio, che diavolo sarei venuto a fare altrimenti? - borbottò, annoiato - Sei quasi più sospetto tu, scemo. -

- Ma non è colpa mia! - si affrettò a replicare l’altro, aggrottando offeso le sopracciglia - È solo che voglio farmi mettere un orecchino anche io, ma non so scegliere quale… -

- E stai ancora scegliendo? - lo fissò, incredulo - Da quanto sei qui? -

- Eh… da un po’. -

-Un po’’ quanto? -

- … un po’. -

Non voleva crederci. Perché gli ci voleva così tanto a scegliere un dannato orecchino? Non è che una volta messo, allora era definitivo!

Fortuna volle che la sua attenzione fu proprio in quel momento attirata direttamente dal negoziante, che non mancò di tirare un’occhiata impietosita all’altro ragazzo presente (“Almeno è comprensivo e lascia passare avanti le persone”, fu il suo unico commento) prima di condurre Haizaki via con sé.

Chissà se quando sarebbe uscito l’avrebbe trovato ancora impegnato a scegliere? Probabilmente sì, e più se ne convinceva, più d’altro canto si rifiutava di credere di essere stato silurato dalla squadra a favore di uno svampito come quello.

Naturalmente, tutti i suoi sospetti non furono che confermati: solite raccomandazioni di routine, e non appena tornò nella parte normalmente agibile del negozio quella testolina bionda era ancora riversa sugli scaffali, come alla ricerca di chissà quale tesoro.

… che razza di scemo.

- Oi. - non sapeva neppure lui da cosa era mosso. Anzi, lo sapeva benissimo: era pietà. Era pietà quella che aveva nello sguardo quando Ryota si voltò verso di lui, ed era pietà quella che lo spinse a mettergli una minuscola bustina di plastica tra le mani.

- Senti, non ce la faccio a vederti qui. Mettiti questo e basta, lasci cicatrizzare il foro, nel mentre ti chiarisci le idee e poi torni qua a scegliere. Ma per ora usa questo, Cristo. -

Kise lo guardò sorpreso, per poi abbassare lo sguardo alla bustina. Dentro c’era un piccolo anellino di metallo.

- … è usato? Che schifo… -

- No che non è usato, cretino! Ma per chi mi hai preso? - ora ricordava perché non era mai gentile con nessuno, se quelli erano i risultati! - L’avevo comprato per farmelo mettere oggi ma alla fine ne ho scelto un altro. -

Lo ascoltò a malapena in quel sorpreso ringraziamento che gli rivolse, e da lì in poi, dal momento in cui mise piede fuor da quel posto, aveva sempre notato quello stesso orecchino in ogni sua foto. Lo aveva perfino durante la loro partita, heh… chissà che non si fosse ancora deciso con quale cambiarlo?

 

«Nessuna storia in particolare, davvero… mi dispiace deludervi, ahah!»

 

Come— come no?!

E tutto quello che era successo se lo ricordava solo lui?!

Eppure era lì, quel dannato orecchino. Era in tutte le foto, non poteva non essere lui! Se ne sarebbe accorto se fosse stato diverso!

Ma no, a quanto pare dietro non c’era nessuna storia. Neanche che magari fosse un “Regalo di un suo ex compagno di squadra”, o qualche vaga stronzata del genere. Non pretendeva di leggere nome e cognome, o magari la storia intera per filo e per segno, ma cazzo!

Non era niente di così importante da essere citato, e questo, non poté negarlo, gli fece male. E allora perché lo stava tenendo ancora? Non pensava che quelle poche parole in fila sarebbero bastate a rivoltargli così tanto l’umore, chiudendo la rivista e riponendola nello scaffale prima di dirigersi fuori di là come alla disperata ricerca di una boccata d’aria.

 

Ma quando mise piede all’esterno, in realtà, non era nemmeno arrabbiato, quasi neppure deluso od offeso.

Perché avrebbe dovuto esserlo? Ormai, tanto, c’era abituato. Era solo l’ultima di mille altre situazioni simili a queste, in cui si era ritrovato senza nemmeno rendersene conto ad essere l’ultima ruota del carro. Non che non se lo meritasse, almeno la maggior parte delle volte…

 

Quindi perché mai Ryouta avrebbe dovuto valere la pena di tenere di conto di qualcuno come lui?

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Capitolo 6
*** 6# • Things you said under the stars and in the grass {AoKise} ***


Genere: Generale, slice of life

Tipo di coppia: Nessuna

Personaggi: Aomine Daiki, Kise Ryouta

Rating: Verde

Parole: 1000+

Note: … la odio. È la storia della challenge che meno sopporto, è piatta, banale, non succede niente, mi è uscita malissimo e mi dispiace per questo. Purtroppo non posso semplicemente ‘non postarla’, per il bene della complettezza della challenge, e il fatto che sia così credo renda il mio “esperimento” ancora più genuino (bello arrampicarsi sugli specchi…)

Comunque, prompt e ship mi sono state suggeriti—alla fine non è uscito niente di particolarmente shipposo, probabilmente sia perché l’AoKi non è esattamente tra le mie OTP, sia perché non ho molta confidenza con scrivere di Kise, come menzionato nella ff postata ieril’altro. Spero sia almeno leggible… !

… anche se dal prompt iniziale ho deviato molto più che “solo un po’”.

Scritta il: 18/06/2015

 

6# • Things you said under the stars and in the grass

 

 

- Aominecchi! One on one? -

Era una voce così squillante che per poco Aomine non credette di farsi sentire da tutto il dormitorio. Allontanò il telefono dall’orecchio, aggrottando le sopracciglia. Chiaramente, l’unico possibile proprietario di quella voce si era fatto di qualcosa di pesante.

- Non ho sbatti, è tardi. -

- Daaaai sono già di sotto! -

Uno sguardo fuori dalla finestra ed eccolo lì, quello scemo biondo, appostato sotto un lampione come se si fosse trattato del suo personale riflettore.

- Fammi capire. - borbottò - Hai perso l’ultimo treno e sei venuto a rompere qui? -

- Beh… ! Forse! Però voglio sfidarti, qui, adesso! -

Ma chi glielo faceva fare di essere così pieno di energia e per giunta così tardi la sera? Roteò gli occhi verso il soffitto, annoiato.

- Te l’ho detto, non ho sbatti. -

- E io non mi tolgo di qua finché non scendi! -

- Ok, fai come ti pare. -

 

Gli aveva attaccato il telefono in faccia, ma alla fine era sceso comunque. Maglietta leggera e pantaloni comodi, era il vestiario perfetto per giocare una partitella tranquilla alla luce di una notte piacevolmente calda; l’altro, invece, con addosso ancora la camicia e i pantaloni dell’uniforme, rese ancora più palesi i sospetti di poco fa.

Scemo.

- Oi. - gli tirò la palla da basket addosso, attirando la sua attenzione - Lo sai che non possiamo rimanere nel cortile, hai altre idee? -

- Intanto usciamo e vediamo se troviamo qualcosa! -

Appunto, zero idee.

Non si lamentò oltre, comunque, limitandosi a seguirlo: ormai era là, tanto valeva almeno fare quattro passi.

- … sei sicuro di trovare qualcosa, comunque? Anche il campetto comunitario a quest’ora sarà chiuso. -

- Quanto sei negativo! Se non avevi voglia potevi rimanere chiuso in casa! -

- E rischiare di vederti arrampicare sul tubo della grondaia per entrarmi in camera? -

Sorrise, però, mentre lo diceva, e anche Ryouta rise con lui. L’iniziale e fastidiosa cappa di noia si stava finalmente dissolvendo, al punto che l’idea di uno one-on-one stava quasi iniziando a scaldarlo…

 

… sennonché, di nuovo, i suoi sospetti si rivelarono fondati.

- Uffaaaaa… - si lagnò Kise, strattonando la porta metallica saldamente chiusa da una pesante catena. Il parco intorno a loro era deserto, ogni potenziale avventore era sicuramente già a casa - il campo da basket, dunque, non aveva motivo di essere lasciato aperto.

Il biondino, però, non sembrava volersene fare una ragione.

- Volevo giocare… - borbottò, accasciandosi arreso contro la grata. Aomine gli si avvicinò, le mani in tasca e gli occhi puntati verso l’alto.

-… alto… -

- Eh? -

- Dicevo, non è così alto. Non ci dovrebbe voler nulla a scavalcare. -

Non aspettò neanche di ricevere risposta: si arrampicò su per la recinzione come fosse la cosa più naturale del mondo, un Kise a metà tra l’esterrefatto e il terrorizzato che lo fissava dal basso. Ma non c’era nulla da temere: qualche secondo, ed eccolo già dall’altra parte.

- Passa la palla e vieni pure te. Non muori, te lo prometto. -

- La fai facile, te… - un broncio si dipinse sul suo viso corrucciato, ma le sue proteste morirono lì: bravo com’era ad imitare le doti degli altri, neppure per lui si trattò di una sfida così esageratamente insuperabile.

 

L’atmosfera si tese fin da subito, non appena si ritrovarono faccia a faccia. Non li stava guardando nessuno, erano solo loro e per di più in procinto di sfidarsi in quello che doveva essere unsemplice’ one-on-one, ma era dalla sconfitta durante la loro prima Interhigh che Kise era alla ricerca di una personale rivincita.

- Arriviamo a dieci. - mormorò con un ghigno di sfida - Non ci andrò giù leggero solo perché sei Aominecchi, sappilo. -

- Mi offendo se ci vai leggero. - fu la risposta che ottenne, accompagnata da un sogghigno che era il riflesso del suo - E quando vincerò mi offrirai il pranzo. -

- Ah? E se vinco io cosa ottengo? -

- Hmm… la gloria? -

Ryouta sbuffò divertito. Sì… in effetti, pure quella poteva bastargli. Tenne la palla tra le mani, non staccando mai gli occhi da quelli del proprio avversario.

- … uno, due… -

 

“Tre”, sarebbe stata la logica conclusione, ma ciò che arrivò alle orecchie di Aomine fu un urletto straziato. E, subito dopo, una sensazione fastidiosa di freddo e di bagnato.

Si guardò intorno come se non si ricordasse più nemmeno dove fosse, rendendosi ben presto conto dell’origine del problema.

I dannati irrigatori automatici, naturalmente, arrivavano pure lì.

Si diresse correndo verso l’unico punto cieco della recinzione, iniziando a scalarla e urlando a Kise di fare altrettanto. Di nuovo, non fu difficile giungere dall’altra parte - ma appena i suoi piedi toccarono terra, fece giusto in tempo a sentire un acuto dolore alla testa, e tutto per qualche secondo divenne nero.

 

Quando si riprese, sotto di sé sentiva l’erba fresca, e sopra solo le stelle. Strano, come ci era arrivato in quella posizione?

- Aominecchi! Scusa, scusa!! Stai bene?! -

Kise entrò di prepotenza nel suo campo visivo, prendendogli la testa tra le mani. Testa che, per inciso, gli faceva ancora male: stai a vedere che questo scemo…

- Mi hai tirato la palla in testa? -

- Non l’ho fatto apposta! Scusami! Scusa! -

Sospirò, Aomine, tirandosi di nuovo su con la schiena. A volte era davvero capace di essere un imbranato, pft

Non riuscì a non ridere, spingendo quell’altro con una mano. Chissà come diavolo riusciva a passare da idiota, a temibile avversario, a idiota un’altra volta!

Aspettò che si riprese da quella spinta, allungandosi verso di lui e scompigliandogli un po’ i capelli. Era sempre stato divertente, ai tempi della Teiko, stuzzicarlo in quel modo, finire in situazioni stupide per colpa sua… che gli mancassero, forse, quei momenti di spensieratezza?

Possibile. L’unica cosa di cui era certo, però, era che averne avuto un assaggio dopo così tanto tempo lo rallegrò più del previsto.

… nonostante la botta.

- Torniamo a casa che hai tutti i vestiti bagnati, idiota, ti presto qualcosa. - commentò, divertito. Si rialzò in piedi, spolverandosi i pantaloni dei rimasugli di erbetta.

- … e ah, dopo questa il pranzo me lo offri comunque. -

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Capitolo 7
*** 7# • Things you said while we were driving {MuraAka} ***


Genere: Comico/demenziale… un po’ fluff alla fine

Tipo di coppia: Shonen-ai

Personaggi: Murasakibara Atsushi, Akashi Seijuro

Rating: Verde

Parole: 790

Note: Neanche questa in realtà ha nulla di speciale, ed è un po’ sottotono rispetto ad altre, ma almeno scriverla è stato divertente---

Le prossime due però saranno tra le mie preferite della challenge, e non vedo l’ora di postarle!

Scritta il: 20/06/2015

 

7# • Things you said while we were driving

 

 

In tutti quegli anni al suo fianco, come silenzioso e fidato osservatore, di cose su Aka-chin ne aveva scoperte davvero tante, forse pure più di quante ne conoscesse chiunque altro.

Nonostante, fortunatamente, dopo gli avvenimenti della Winter Cup il suo atteggiamento non avesse mai avuto altri gravi sbalzi, non aveva mai smesso di eccellere in ogni campo in cui metteva piede. Dopo le superiori era diventato un eccellente studente universitario, e dopo ancora aveva preso in mano il business di famiglia nel più responsabile e fruttuoso de modi; il tutto mantenendo salde le sue relazioni sociali e i suoi hobby, facendo leva sul suo solito carisma magnetico che aiutava laddove l’impegno, a volte, non riusciva ad arrivare.

Era davvero sorprendente vedere come non avesse praticamente alcun tipo di punto debole. Ogni volta che c’era una difficoltà o un imprevisto non l’aveva mai visto fare un passo indietro, anzi, era più facile vederlo continuare ad avanzare con la stessa sicurezza, fino a che l’ostacolo non finiva definitivamente disintegrato.

 

Era per quello che, nonostante fosse rimasto con lui da sempre, era strano perfino per lui vederlo così. L’aria stravolta, il viso pallido, le mani che tremanti erano ancora strette sul volante… Atsushi sbatté pigramente le palpebre, sporgendosi verso di lui.

- Aka-chin… ora stai meglio? -

Due iridi scarlatte si puntarono verso di lui, e internamente non poté che sospirare di sollievo.

Nessuna variazione, nessun ritorno sospetto. Per fortuna.

 

Mai avrebbe pensato che l’unica, assoluta debolezza di Seijuro Akashi, l’unica cosa in cui non riuscisse ad eccellere, si nascondesse in qualcosa che persino LUI era ormai capace di fare con una certa decenza.

 

Guidare.

 

E sì che gliel’aveva detto, con una punta di preoccupazione.

- Non è meglio chiamare il tuo autista? - gli aveva infatti mormorato, abbassandosi su di lui. Akashi aveva negato, tranquillo, sfoderando il suo solito, affabile sorriso.

- Non ne vedo il motivo. Il tragitto è breve e aspettare il suo arrivo sicuramente ci porterebbe via più tempo di quanto ce ne metteremmo facendo da soli. -

- … vuoi che guidi io? -

- Non è da te quest’apprensione, Atsushi. - sembrava davvero tranquillo mentre lo diceva, concedendosi una risata tranquilla e allungando una mano per carezzargli il viso - Cosa può andare storto? -

 

Tutto.

 

Appena si era messo al volante, era come se non avesse mai guidato in vita sua. Era solito farsi scarrozzare in giro dai suoi autisti, certo, ma il livello della sua guida era pericolosamente pari a quello di un dilettante.

Si muoveva per le strade come se non ne conoscesse minimamente i rischi, finendo sull’orlo del frontale più di solo ‘qualche volta’. Chiunque, intorno a lui, non era che un nemico, qualcuno pronto a mettere in discussione le sue capacità: Murasakibara, sbirciando verso di lui, poteva vedere il suo viso contrarsi sempre di più in un’espressione di pura e autentica rabbia, e l’atmosfera nell’abitacolo diventare sempre più tesa. Morse nervosamente la caramella che aveva in bocca, azzardandosi a prendere la parola.

- Aka-chin, credo che questa strada… -

- Ho tutto sotto controllo, non devi preoccuparti. -

L’aveva liquidato con quelle parole, ma fortunatamente ci pensò qualcun altro a fermare la sua avanzata: un vigile a breve lontananza intimò loro di fermarsi, e sebbene per un attimo la macchina accelerò, persino Akashi si ritrovò costretto ad obbedire alla legge.

- Questa è una strada a senso unico, dove crede di andare? -

- Come sarebbe a dire, dove credo di andare? Non può rivolgermi queste parole, io sono ass-… ! -

- … ssolutamente dispiaciuto. - Atsushi cercò di non soffermarsi sullo sguardo iracondo che l’altro gli rivolse, mettendo da parte la sua solita apatia e cercando di prendere la parola. Ehh… non che fosse davvero troppo felice di farlo, ma prima di beccarsi una multa per affronto a pubblico ufficiale… ! - … sono ore che giriamo a vuoto, sa, ci siamo persi… eh… non è che potrebbe indicarci la strada? -

 

Quella piccola pausa fu fondamentale. Murasakibara sapeva di star dicendo una balla, ma quella bugia fu necessaria a dare a Seijuro la possibilità di calmarsi e di tornare in sé.

Si allontanarono ringraziando, ma appena fu possibile, il giovane uomo coi capelli rossi parcheggiò e si abbandonò in un lungo silenzio, spezzato solo dalla frase preoccupata che l’altro gli rivolse.

- Sto… sto meglio. - mormorò, annuendo, ed Atsushi gli rivolse un mezzo sorriso.

- Per un attimo mi sono preoccupato, hm… la prossima volta fai più attenzione. -

Sorrise anche Akashi, sporgendosi verso di lui. Lasciò che questi si appoggiasse contro la propria spalla, e di riflesso fece riposare la testa sulla sua, strusciando la guancia contro i suoi capelli.

 

- … adesso però guido io, hm. -

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Capitolo 8
*** 8# • Things you said when you were crying {ImaHana} ***


Genere: Angst, introspettvo

Tipo di coppia: Shonen-ai (… ?)

Personaggi: Makoto Hanamiya, Imayoshi Shouichi

Rating: Verde

Parole: 960+

Note: Torniamo alle origini con la mia coppia del kokoro. Ammetto che l’idea per questa ff l’ho avuta sin dal momento in cui ho visto Imayoshi con gli occhi arrossati dopo la sconfitta della Touou alla Winter cup, ma alla fine l’ho stesa solo durante questa challenge.

Scritta il: 21/06/2015

 

8# • Things you said when you were crying

 

 

Non era da lui esitare così tanto.

Con le mani infilate nelle tasche dell’uniforme e l’aria immancabilmente accigliata, Hanamiya Makoto si aggirava lentamente tra i corridoi deserti di un palazzetto dello sport in fermento. Da quanto in qua si faceva così tanti scrupoli ad andare a porgere i suoi irrispettosi omaggi alla parte perdente?

L’idea non gli aveva neppure solcato la mente, all’inizio. Si era limitato ad avviarsi verso l’uscita non appena le due squadre in gioco si erano salutate, con grande sorpresa dei suoi compagni di squadra che l’avevano subito fermato.

- … e al tuo senpai non vai a dire nulla? -

Era come se dessero per scontato che non vedesse l’ora di rigirare il coltello nella piaga della sconfitta di Imayoshi e della sua squadra - e, realisticamente, sarebbe stato qualcosa che si sarebbe fiondato a fare appena ne avrebbe avuto la possibilità. Ma perché aveva opposto quella specie di passiva resistenza (“Non mi va, si è già umiliato abbastanza da solo”, aveva detto), e anche dopo essere stato convinto dagli sguardi di quei dannati avvoltoi sentiva quella brutta, antipatica sensazione premergli nel mezzo del petto?

Cos’era, senso di colpa? E per cosa, di grazia?! Non aveva ancora fatto nulla, una volta tanto!

Era più una sorta di… brutto presentimento, a cui per altro aveva già dato voce. “Si è già umiliato da solo”, o meglio, “Sta’ a vedere che una volta nella vita non è neanche il caso di fare lo stronzo?”

Ma aveva deciso di non darvi importanza, cercando di individuare lo spogliatoio della Touou. Adocchiò in breve lontananza il nome scritto vicino ad una porta, ma, mentre la raggiungeva, un suono sommesso, una specie di singhiozzo soffocato, attirò la sua attenzione.

Si paralizzò in mezzo al crocevia tra due corridoi, voltandosi lentamente nella direzione di quel rumore. Non poteva sapere con certezza di cosa si trattasse e chi fosse il proprietario di quei lamenti, ma in un certo senso era come se la risposta fosse, inevitabilmente, una sola.

I gomiti che si sorreggevano sulle ginocchia stanche; il viso affondato e nascosto tra le mani, la schiena scossa da occasionali e disperati singulti. Non lo vedeva bene in faccia e, sebbene la sua disperazione fosse così forzatamente contenuta, era decisamente ovvio che lui— Imayoshi Shouichi, stava piangendo.

Hanamiya lo guardò in silenzio, a qualche passo di distanza da lui, completamente disorientato davanti a quello spettacolo. Da quando lo conosceva non aveva mai visto in lui un attimo di debolezza o di instabilità; e averlo davanti in quello stato, in quelle condizioni, era una scena di cui forse non voleva neppure essere testimone. Per quale motivo, poi? Non era lui il primo a bearsi delle lacrime dei suoi avversari, della disperazione dolce come miele?

Era arrabbiato perché sapeva di non essere la causa di quella tristezza?

… o perché in fondo, in una specie di egoistica e infantile convinzione, non voleva accettare l’esistenza di un vero punto debole in una persona come lui?

Incerto se rimanere estraneo a tutto ciò, fingendo magari di non aver visto nulla, oppure se provare ad avvicinarsi, ci mise parecchio a muovere i primi, lenti passi verso di lui. Sperò con tutto il suo cuore che quello alzasse la testa, che gli rivolgesse una delle sue solite battute pungenti, ma non successe neppure quando senza pensarci si accovacciò davanti a lui, il profilo alzato come alla ricerca del suo sguardo.

- … sei qui per ridermi in faccia? -

Sussultò, Makoto, mordendosi l’interno della bocca. Dunque si era accorto di lui, e chissà quanto tempo fa, hmpf

- Dovrei? - borbottò, aggrottando le sopracciglia. L’altro, in tutta risposta, sbuffò di un amaro divertimento.

- Perché non dovresti, piuttosto? Guardami. - rimarcò, con la voce ancora rotta - Sconfitto all’ultimo momento nella mia ultima partita. Non fa già abbastanza ridere così? -

“La sua ultima partita”, giusto. Tendeva a non soffermarcisi troppo spesso, ma Imayoshi aveva un anno più di lui. Dopo quella partita finita a suo svantaggio, avrebbe dovuto lasciare il titolo di capitano e l’intero team nelle mani di qualcun altro. Era davvero tanto orgoglioso della sua posizione e della sua squadra, al punto di prendersela così sia per l’idea di dover lasciarli, sia per quella del fallimento di cui avevano dato sfoggio? Non aveva mai preso in considerazione questo lato della sua persona, e di nuovo non seppe cosa pensare.

- … non avete giocato così male. -

- E non è da te cercare di consolarmi. - Hanamiya corrugò irritato la fronte a quel commento, ma non replicò, lasciandolo finire - … vorrei che potesse funzionare concentrarmi su questo, ma ora come ora cosa importa come abbiamo giocato? Abbiamo perso. È tutto finito. -

Ancora, quelle parole lo lasciarono in un instupidito e doloroso silenzio.

Aveva ragione, non aveva nessun senso dire il contrario. Eppure sapeva- sapeva di non star facendo la cosa giusta, ad ostinarsi in quel silenzio.

Non era una brava persona, lui. Per quanto negli anni essere unbravo ragazzo’ anche solo di facciata gli fosse sempre ben riuscito, quella era solo una maschera, un espediente per confondere i propri nemici. Non aveva mai imparato ad essere comprensivo ed empatico, a trovare le giuste parole per consolare qualcuno invece che attaccarlo ed abbatterlo. L’avevano sempre definito un genio, sì, ma chiaramente non lo era fino a quel punto,

Poteva solo tacere e contemplare la sua inettitudine, conscio di non poter fare niente per la persona che aveva davanti, l’unica persona che almeno quella volta non avrebbe voluto vedere sprofondare nella più amara rassegnazione. E in un disperato, patetico tentativo di smentirsi per l’unica occasione nella sua velenosa e astiosa esistenza, poggiò una mano sulle ginocchia di Imayoshi, sperando che quello stupido contatto potesse in qualche miracoloso modo trasmettergli ciò che a parole non riusciva ad articolare.

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Capitolo 9
*** 9# • Things you said when I was crying {ImaHana} ***


Genere: Angst, introspettvo

Tipo di coppia: Shonen-ai (… ?)

Personaggi: Makoto Hanamiya, Imayoshi Shouichi

Rating: Verde

Parole: 900+

Note: Praticamente, l’altra faccia della medaglia – ovvero la stessa ff di ieri, ma da un diverso POV.

Scrivere di Imayoshi in modo approfondito per me non è molto facile, quindi è stato un buon esercizio ~

Scritta il: 22/06/2015

 

9# • Things you said when I was crying

 

 

Ahh… questo era male, molto male.

E dire che aveva pure preso la precauzione di prendersi dieci minuti prima di entrare in quello spogliatoio, onde evitare qualsiasi incidente del genere. Non che provasse davvero vergogna o chissà cosa davanti ai suoi compagni di squadra, ma non avrebbe certo fatto bene ai loro spiriti vedere il loro capitano in quello stato, giusto?

Ecco perché tutto voleva meno che sentire quei passi avvicinarsi, e fermarsi giusto a qualche metro da lui. Che fosse qualcuno che era sfuggito alla sua attenzione, e non era ancora ad aspettare dietro quella porta? O forse qualche altro coetaneo - Susa, per esempio - più o meno nelle sue stesse, penose condizioni?

Per un attimo pensò quasi di sforzarsi e di smetterla con quel piagnisteo, ma i singhiozzi furono ben più forti di ogni intento. Si limitò a sbirciare oltre le lenti degli occhiali, la vista ulteriormente appannata dall’umida coltre di lacrime, riconoscendo piuttosto bene quella sagoma vestita di scuro voltata, sconvolta, verso di lui.

Mai avrebbe pensato di desiderare così tanto di non averlo intorno. Era sempre il primo a cercarlo, a punzecchiarlo, a stargli addosso quando poteva, ma adesso il suo caro kohai era l’ultima persona che voleva nel raggio di una ventina di metri. Quale occasione migliore, d’altronde, per Hanamiya Makoto, per sfotterlo e prendersi una sostanziosa fetta di soddisfazione personale?

Non si mosse, tuttavia, e non gli fece capire di essersi accorto della sua presenza. Lasciò che si avvicinasse, comprendendo che allontanarsi proprio adesso l’avrebbe messo in una posizione ancora più sfavorevole; lo intravide accovacciarsi davanti a lui, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa fu lui a prendere la parola e a intuire le sue intenzioni.

- … sei qui per ridermi in faccia? -

Lo disse senza mezzi termini, senza neppure fare in modo che la tristezza non trasparisse eccessivamente da quella manciata di parole. Fu sorpreso, tuttavia, di non sentire la sua caratteristica risata risuonare nel corridoio deserto.

- Dovrei? -

Stava forse portando il suo sfottere ad un livello successivo? Imayoshi sentì un moto di rancore sorgergli nel mezzo del petto, e la sua voce si permeò di un’ironia velenosa.

- Perché non dovresti, piuttosto? Guardami. - più parlava, più sentiva la gola seccarsi e gli occhi bruciare. Era davvero umiliante, mostrarsi davanti a lui in quel modo - Sconfitto all’ultimo momento nella mia ultima partita. Non fa già abbastanza ridere così? -

Eccome se faceva ridere. Se fosse successo sotto i suoi- sotto i loro occhi, si sarebbero entrambi fatti beffe della squadra sconfitta, etichettandola senza troppi complimenti come patetica, misera perdente. Era a dir poco ironico dover riservare lo stesso trattamento a se stesso.

- … non avete giocato così male. -

Cos’era quel mormorio indistinto, quel borbottare così sterile e inemozionale da sembrar provenire da un robot più che da una persona? Era così strano sentire quelle parole provenire proprio dalla sua bocca, ed evidentemente lo era pure per lui.

- E non è da te cercare di consolarmi. - rispose, anche se forse avrebbe semplicemente dovuto dire che non importava, che non aveva senso che si sforzasse così tanto per una cosa del genere - … vorrei che potesse funzionare concentrarmi su questo, ma ora come ora cosa importa come abbiamo giocato? Abbiamo perso. È tutto finito. -

Aveva recepito il messaggio, chiaramente, perché tutto intorno tornò a regnare il silenzio. Non è che non voleva essere consolato, o ricevere parole di incoraggiamento; era solo che non ne trovava il motivo.

… e poi, realisticamente, sapeva benissimo quanto Hanamiya fosse pessimo in questo genere di cose. Lui non consolava, lui non era mai sinceramente dispiaciuto- tutto ciò che sapeva fare era fingere e mortificare. Era pure ovvio che il silenzio fosse la reazione più opportuna, e Imayoshi glielo impose, forse, anche per evitare pure a lui l’imbarazzo di calarsi in una parte che non gli era mai appartenuta (e che mai gli sarebbe appartenuta, per inciso).

Per un momento, quasi, si sentì un po’ meno patetico. Da una parte c’era un capitano che non accettava l’inevitabilità della fine, e dall’altra un pessimo individuo che non era apparentemente capace di bontà alcuna; lo scenario di quei due penosi esseri umani così vicini e così immersi nella loro rispettiva inettitudine gli fu quasi di consolazione, lo fece sentire meno solo, meno stupido.

Che la sua presenza lo stesse consolando seriamente, sciogliendo anche solo in superficie quell’imbarazzante patina di radicata insufficienza? Così pareva.

Sorrise segretamente, il viso ancora raccolto dalle mani tremanti. Erano entrambi due fastidiosi, trascurabili omuncoli, e paradossalmente, più le loro lacune si manifestavano, più l’un l’altro riuscivano ad appianarle e a renderle meno distruttive. Lo sentiva in sé, nel senso di disperazione profonda che si alleviava a favore della… tenerezza, o forse della pietà, che quel ragazzo gli infondeva, e lo sentiva in lui, in quella mano che si appoggiò sulla sua gamba, sconfiggendo in una battaglia silenziosa la sua incapacità di proferir parola.

 

Era adorabile, ma non aveva alcuna voglia di deriderlo. Non anche questa volta.

Una mano scivolò verso il basso, svelando metà del viso ancora intriso di quel pianto di frustrazione. Gli avrebbe fatto capire che pure lui, ogni tanto, aveva bisogno di qualcosa - nello specifico, aveva bisogno della sua incapacità, del suo impaccio.

Non usò parole, ma gli sorrise appena. E le dita si strinsero attorno al suo palmo pallido, aggrappate come al più sicuro degli appigli.

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Capitolo 10
*** 10# • Things you said that made me feel like shit {Mibuchi Reo} ***


Genere: Angst, introspettvo

Tipo di coppia: //

Personaggi: Mibuchi Reo

Rating: Verde… ? Giallo per la tematica?

Parole: 760+

Note: Credo possa catalogarsi come “tematica delicata”—comunque, stavolta non c’è nessuna ship.

Non ho mai approfondito particolarmente il personaggio di Reo, ma appena lessi il prompt non ho potuto figurarmi niente di diverso da questa OS.

Scritta il: 24/06/2015

 

10# • Things you said that made me feel like shit

 

 

Le dita pallide tremavano sull’occhiello delle forbici splendenti, una ciocca di capelli neri già pronta ad essere giustiziata dalle due ghigliottine che non aspettavano altro che chiudersi su di lei.

 

Non aveva neanche il coraggio di guardarsi allo specchio, conscio dello spettacolo pietoso a cui contribuivano non solo quella patetica incertezza, ma anche gli occhi arrossati e le guance rigate di lacrime. Come ci era arrivato a quel punto, com’era possibile che quello che lo faceva sentire a suo agio era ciò a cui gli altri si attaccavano per deriderlo, mortificarlo e schernirlo?

 

Non era colpa sua se Madre Natura gli aveva donato, fin da quando era piccolo, quei lineamenti eleganti e raffinati. Le ciglia lunghe e lo sguardo gentile, i capelli che aveva sempre amato lasciar crescere un po’ più dei suoi compagni maschietti, l’atteggiamento educato che tutte le mamme invidiavano e avrebbero voluto vedere nei loro pargoli… quante volte aveva sentito dire “Dovresti prendere esempio dal piccolo Reo, lui sì che sa come ci si comporta”?

Era un continuo di lodi e di apprezzamenti, almeno nei primi anni della sua vita. Così tanto, così spesso, che quei tratti caratteristici erano diventati il suo più grande motivo di orgoglio.

 

Si piaceva, Reo, e sapeva di piacere anche agli altri. Era un bambino intelligente, anche anni fa, e sapeva perfettamente di essere, in un modo o nell’altro, diverso; sapeva che mentre i suoi amici si interessavano a passatempi sempre più rudi e rumorosi, lui preferiva la calma di attività che i suoi coetanei appellavano come da femminucce. Eppure non ci vedeva niente di male nell’avere interessi più simili a quelli delle ragazze, o anche, a volte, essere scambiato per una di loro, così come testimoniavano le dichiarazioni che gli capitava di ricevere da spasimanti ignari e un po’ confusi.

Quelle attività, quel modo di fare e di presentarsi — era ciò che lo definiva, e continuava ad andarne fiero.

 

Almeno finché l’opinione degli altri non si fece ancora più invadente, e gli stereotipi che per la norma avrebbe dovuto seguire non iniziarono a pressare su di lui.

 

“Eh… ma come mai ti diverti a fare l’ambiguo e a spacciarti per donna?”

Fino a che non gli furono rivolte queste parole, mai aveva pensato a come gli altri, effettivamente, lo vedessero. Si era sempre concentrato sull’essere se stesso, abituato a tutti i giudizi positivi che avevano accompagnato ogni sua scelta, e non credeva che qualcuno pensasse davvero che quella era una sorta di finzione.

Non voleva ingannare nessuno, non era sua intenzione “spacciarsi” per qualcosa di diverso da ciò che era; gli avevano sempre detto che era un esempio da seguire, da quando era diventato ambiguo?

Era come se improvvisamente avesse aperto gli occhi, e la dolce favola in cui aveva vissuto fino a quel momento si fosse disgregata come un castello di carte al fronte di un uragano. Anche le persone che lo acclamavano e si complimentavano con lui, via via che il tempo passava, avevano iniziato a cambiare la loro opinione, invalidando tutto quello che avevano sempre apprezzato.

 

“Non potresti iniziare a comportarti un po’ più come gli altri ragazzi della tua età?”

Certo che avrebbe potuto, ma questo non significava che avrebbe voluto! Nessuno si può sentire a suo agio recitando una parte quasi totalmente opposta a quella in cui ci si sente più in pace con se stessi, perché mai per lui sarebbe dovuto essere diverso?

Eppure non faceva niente di offensivo. Non si reputava una persona fastidiosa, molesta, o in qualsiasi altro modo problematica… o forse lo era, e non se ne era mai reso conto? Cose del genere iniziarono a farlo dubitare di ogni sua azione passata e presente; neppure il maturare del suo aspetto in quello di un giovane adulto bastò a scollarsi di dosso quelle affermazioni.

 

Anzi, se è possibile, diventarono ancora più ignoranti e crudeli.

 

“Senti… stammi lontano.”

“Io te lo devo dire, averti intorno mi mette a disagio.”

“Sei inquietante, non farti più vedere.”

 

Tutte gocce che lente e inesorabili finirono per far traboccare il vaso.

Non aveva mai smesso di apprezzare ciò che era. Lui amava il suo aspetto curato e il suo atteggiamento un po’ altezzoso a volte, certo, ma sempre signorile. Ma quando il suo essere era così insopportabile per il prossimo, allora, cosa avrebbe dovuto fare?

Quanto ancora avrebbe potuto sopportare quelle parole di astio, quelle occhiate schifate, quel continuo isolamento in cui era costretto a rimanere relegato?

 

Sbatté le palpebre, una lacrima che scivolò silenziosa sulla ceramica del lavandino.

E, con essa, il primo della pioggia di ciuffi corvini che la seguirono subito dopo.

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Capitolo 11
*** 11# • Things you said when you were drunk {AoKagaKuro} ***


Genere: Sentimentale, commedia

Tipo di coppia: Shonen-ai, OT3

Personaggi: Kagami Taiga, Kuroko Tetsuya, Aomine Daiki

Rating: Verde… ?

Parole: 620+

Note: … non so scrivere personaggi brilli.

Però non potevo non dedicare almeno una storiellina scema alla mia amata OT3 ~

Scritta il: 26/06/2015

 

11# • Things you said when you were drunk

 

- IdioTaiga, porta sulle spalle anche me… -

- Scordatelo, scemo. Kuroko è leggero, tu mi spaccheresti la schiena… e soprattutto abbassa la voce! -

Come parole al vento. La risata di Aomine risuonò presto nelle rampe di scale del condominio addormentato, immerso nel buio di una notte calata ormai da diverse ore.

Taiga soffiò tra i denti non solo per quella stilla di buon senso che gli impose di non dar retta alla sua testa calda, ma anche perché, onestamente, l’energia di rivoltarglisi contro proprio non ce l’aveva. Dopo una giornata lunghissima e una festa caotica in mezzo a decine di altre persone, di certo avrebbe potuto tollerare l’idea di trovarsi davanti il cartello “guasto” sulla porta dell’ascensore; questo se solo il suo appartamento non fosse stato all’ultimo, dannato piano e non avesse dovuto non solo sostenere la propria stanchezza, ma anche un Daiki che a malapena si teneva in piedi da solo e un Tetsuya quasi completamente collassato. E menomale che almeno uno dei tre era rimasto sobrio!

- … l’hai sentito, fai piano… - dalle spalle di Taiga arrivò un lamento ritardatario e mugugnato, e il ragazzo dai capelli rossi poté chiaramente sentire la mano di Kuroko sollevarsi, agitarsi e cercare di colpire la testa di un Aomine che, per evitare il colpo, per poco non si capovolse oltre la ringhiera delle scale.

- Come se potessi prendermi… Tetsu! L’unico che può battermi sono solo io! - di nuovo la sua voce fu l’unica cosa che riecheggiò ovunque, e Kagami si vide costretto ad afferrarlo per il polso e allungare rapidamente il passo. Non ci teneva ad incontrare l’ennesimo inquilino incazzato di turno!

La corsa fino alla porta d’ingresso fu quasi frenetica, e buttarsi esausto dentro l’appagamento deserto fu praticamente un sollievo. Neppure si trascinò fino in camera, limitandosi a schiantarsi, stanco, sul divano, e portare gli altri due con sé.

- Questa non è la camera da letto… - bisbigliò Kuroko, staccandosi quasi di malincuore dalla salda e forte schiena di Kagami. Questi sospirò, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa sentì il peso di Aomine riversarsi completamente sulla sua spalla mentre si sporgeva verso Tetsuya per rispondergli.

- Scusa, se vuoi andare in camera vai in camera, sennò usiamo Kagami come cuscino, no? -

Da quando in qua era stato relegato a ‘cuscino’? Sentì la palpebra scattare, mentre quel bizzarro dialogo continuava come se lui non avesse il minimo diritto di parola. Stropicciandosi gli occhi celesti, intanto, Kuroko cercò di articolare una risposta.

- Hm… in effetti voglio rimanere con Kagami. - mormorò, prima di buttarsi a peso morto sulle ginocchia del padrone di casa - … vi voglio tutti e due vicini a me… sempre… non voglio mai più dormire da solo. -

Davanti a quella sorta di dichiarazione, Taiga rimase pressoché senza parole. Accolse senza commenti questa ennesima invasione del suo spazio personale, sorridendo segretamente nel buio solo appena illuminato dalle luci della città.

Non c’era dubbio che ciò che fosse uscito da quelle labbra ancora alterate dal sapore dell’alcol fosse anche ciò che passava per la mente di tutti. C’erano state alcune difficoltà per combinare quella relazione che molti avevano definito come assurda o addirittura malata, ma adesso, in faccia a tutti quelli che gli avevano remato contro, non poteva assolutamente pensare di fare a meno di quella luce e di quell’ombra che erano entrate a far parte della sua vita e del suo cuore.

… ecco perché, a conti fatti, poteva ben tollerare due scemi ubriachi fino al collo che gli dormivano addosso.

 

- … però quasi quasi preferirei dormire sul culo di Kagami, è sodo e comodo. -

- Oh, hai sentito Tetsu, no? Girati. -

- Chiudete quelle fogne o giuro che dormite in terrazza. -

 

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Capitolo 12
*** 12# • Things you said when you thought I was asleep {HaiKise} ***


Genere: Sentimentale

Tipo di coppia: Shonen-ai

Personaggi: Kise Ryouta, Haizaki Shogo

Rating: … giallo?

Parole: 1100+

Note: La mia prima HaiKise seria! Visto il mio inguaribile romanticismo, l’angst l’ho dimenticato a casa e ho cercato di dare ai due una relazione un po’ più sana di quanto da questa ship ci si aspetterebbe (e perdonate l’eventuale OOC, anche se in questa ff tratto di un Ryouta e di uno Shougo più maturi e quindi ragionevolmente diversi).

Contiene un cenno vago alle vicende di “Nella stanza ventisei”, fic che la zia Odu mi scrisse tempo fa <3

Scritta il: 27/06/2015

 

12# • Things you said when you thought I was asleep

 

 

Immobile su un fianco, le palpebre presto appesantite dalla stanchezza e calate sugli occhi ancora lucidi, Ryouta sembrava davvero immerso nel sonno più profondo. Solo un respiro leggero e silenzioso muoveva dolcemente il suo petto, interrompendo la altrimenti perfetta staticità; ma la sua testa era un turbinare incessante di pensieri che, quasi crudelmente, sembravano imporgli che non era ancora arrivato, per lui, il momento di dormire.

Il familiare odore di fumo delle sue sigarette gli arrivò alle narici, suggerendogli che, a quanto pareva, non era l’unico ad essere ancora troppo sveglio per anche solo pensare di sprofondare nel mondo dei sogni. Era ovvio, però, che quello fosse del tutto ignaro di avere accanto una persona ancora vigile, o mai nella vita si sarebbe permesso di fumare accanto a lui.

Kise sorrise di nascosto, conscio che, dandogli le spalle, non avrebbe mai potuto vederlo. Odiava, odiava terribilmente il suo tabagismo, odiava il sapore del catrame e del tabacco che si mischiava con quello dei suoi baci, ma stavolta avrebbe fatto finta di nulla. Non che, in realtà, sarebbe stato in diritto di criticarlo o di dire qualcosa contro le sue abitudini: loro, ancora, non erano niente.

Compagni di sesso, scopamici, forse era questo l’unico modo per definirli — anche se, di fatto, di amicizia almeno all’inizio ce n’era stata ben poca. Anzi, inutile ricorrere ad ipocrisie, perché tra di loro non ce n’era proprio mai stata: da quando si erano visti la prima volta alle medie fino ai risentiti, fuggevoli incontri forzati delle partite che li mettevano l’uno contro l’altro ai tempi delle superiori, l’unico sentimento che c’era tra i due era come di profondo, inestimabile rancore. L’ultima cosa che si aspettava, in tutta sincerità, era di arrivare a finire così spesso nella sua camera da letto, i vestiti ammassati in un angolo della stanza, le mani di lui che toccavano avidamente quel corpo come se appartenesse a lui e a lui solamente.

Il tutto era arrivato a quel punto così velocemente che quasi faticava a ricordare come era effettivamente iniziato, forse penalizzato anche da quella stanchezza di fondo che non poteva permettersi di negare: c’era stata una serie di ridicole coincidenze, di incontri improvvisi fatti prima di sguardi fuggevoli e risentiti, poi anche di parole, alle volte piene di sfida, altre di… malizia; una frustrazione segreta, nascosta dietro una maschera che a quanto pare entrambi erano costretti a portare, un bisogno folle di rendere appagante un’intimità che troppo a lungo era rimasta soddisfatta solo per metà; e poi, infine, l’aver deciso di mettere piede nello stesso posto la stessa sera, essersi ritrovati entrambi nell’angolo di quel locale rumoroso e pieno di persone, aver ceduto ad una libido così ansiosa di essere sfogata che ormai era del tutto incontenibile.

Se fosse mancato anche solo uno di quei fattori, probabilmente, adesso lui e Haizaki Shougo sarebbero rimasti esattamente ciò che erano alle medie e alle superiori: due conoscenti in pessimi rapporti, due persone che non sarebbero mai riuscite a compiere lo sforzo necessario per capirsi e venirsi incontro.

Ma il destino aveva preso una piega inaspettata, e dagli incontri fugaci in alberghi di dubbia morale fissati con messaggi ermetici e distaccati, erano passati a qualcosa di più. Non esistevano più, ormai, quelle sveltine insipide e fredde, non esistevano quelle stanza sconosciute e anonime, non regnava più alcun silenzio incontrastato e incontrastabile tra il tempo che intercorreva tra un appuntamento a l’altro.

Era lentamente subentrata una passione più ricca, più intensa, più… dolce. Certo, Shougo non si era comunque mai negato nessun tipo di irruenza, le sue mani si stringevano ancora crudeli, possessive, sulle sue ciocche dorate, scivolavano ancora ossessivamente sulle sue forme armoniose come rivendicandone la proprietà; ma al di fuori di quello, al di fuori della follia lussuriosa che li rapiva in quei momenti, era sempre più facile indugiare nella ricerca reciproca del piacere, nello scambiarsi calore e stille di celata tenerezza. La sentiva sulle sue labbra ad ogni bacio, Ryouta, la coglieva nelle sue azzardate carezze, la vedeva, ben nascosta, nel luccicare dei suoi occhi d’argento.

E quando lo guardava in quel modo, allora era tutto ciò che poteva desiderare. Non ricordava più nemmeno quando un’altra persona gli aveva lanciato occhiate di così silenzioso ma sincero sentimento, senza nascondere nessun desiderio, ma lasciando trasparire quasi inequivocabilmente quel bisogno di saperlo vicino e saperlo suo.

Quasi.

Perché nonostante tutto ciò, ancora non sapeva se la sua fosse solo una visione della realtà che si era impuntato di voler avere. Certe cose difficilmente sarebbe riuscito a fraintenderle, ma altre volte Shougo era lo stesso di sempre: fuggevole, distante, a tratti insensibile. E si domandava se fosse semplicemente quello il suo vero e unico modo di comportarsi, o se anche lui avesse i suoi stessi dubbi sul loro essere “loro”, e cercasse di alleviarli atteggiandosi in quella maniera. Chi avrebbe dovuto fare il primo passo, chi avrebbe dovuto dire per primo le cose come stavano? E soprattutto, chi avrebbe dato la certezza che anche l’altro stesse provando i medesimi sentimenti? Erano domande che gli frullavano in testa ogni volta che lo vedeva, ogni volta che gli arrivava un suo messaggio, ogni volta che anche solo per un attimo si ritrovava a pensare a lui.

- Ryouta. -

Basso, vibrante, quel richiamo si infilò prepotentemente nelle sue percezioni, zittendo per un attimo ogni pensiero. Non si mosse, il biondino, e neppure gli rispose: rimase immobile in quel finto torpore, ricordandosi solo allora che il ragazzo al suo fianco era sveglio come lui. L’odore del fumo stava iniziando a dissiparsi, e i secondi passavano, silenziosi, inesorabili.

- Pft… certo che dormi, non sei scemo come me. - lo sentì mormorare, con quella voce a metà tra lo scherno e una vaga gentilezza, mentre gli si sdraiava di nuovo accanto - … e quando domani mi sveglierò il tuo lato di letto sarà già vuoto, e come un cretino tornerò a chiedermi… “Ma arriverà il giorno in cui aprirò gli occhi e quello là sarà ancora accanto a me?” -

Nel buio, Kise sgranò gli occhi.

Sentiva il cuore scoppiare, battere così forte che per poco non temette che persino l’altro potesse sentirlo. Non era una dichiarazione, certo, ma era ciò di cui entrambi avevano bisogno per uscire da quella situazione di stallo e non era sicuro, stavolta, di riuscire a stare in silenzio e di perdere così un’occasione del genere. Strinse una mano sulle lenzuola, sforzandosi di scacciare ogni ronzante e rumoroso pensiero che già stava tornando a perseguitarlo. Non era ciò di cui aveva bisogno, non adesso, non ora in cui l’unica cosa che contava era ciò che sarebbe riuscito a far uscire dalle labbra improvvisamente tremanti e secche.

- Allora, magari… da domattina potrei rimanere un po’ di più, no? Nel tuo letto… - pausa. Si voltò appena, quanto bastò per incontrare lo sguardo sconvolto che Shougo gli stava rivolgendo. Era arrabbiato? Oh, sì che lo era. Ma sperò, in cuor suo, che ciò che stava per aggiungere basasse a calmarlo, e gli angoli della bocca si piegarono in un sorriso leggero.

- … e nella tua vita. -

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Capitolo 13
*** 13# • Things you said at the kitchen table {SilverGold} ***


Genere: Non ne ho la più pallida idea

Tipo di coppia: Shonen-ai

Personaggi: Nash Gold Jr., Jason Silver

Rating: Credo giallo

Parole: 740+

Note: Ma c’è qualcuno che si degna ‘sti due al mondo, o… ?
Comunque, ho un po’ sconvolto le carte in tavola. Non è proprio un ‘kitchen table’ quello in cui si svolgono le vicende.

… ed è pure più “on” che “at”. Ma comunque…

Contiene linguaggio colorito!

Scritta il: 28/06/2015

 

13# • Things you said at the kitchen table

 

 

- Almeno qualche cosa la fanno giusta, allora, ‘sti giapponesi. -

- Ti immaginavi se ci toccava pure a noi dormire per terra come degli animali? Che razza di paese… -

Jason rise sguaiato accanto a lui, e Nash non poté che rispondere a quella velenosa ilarità con un sorriso altrettanto maligno. Erano nella terra del Sol Levante da solo poche ore, ma erano bastate eccome per rendere più forte il disprezzo che avevano per quella genia. Pft… come la loro prima partita aveva ampiamente confermato, di certo non erano qualificati per tenere in mano una palla - meglio che rimanessero relegati alla posizione di servitori, quello sì che gli riusciva bene!

La prova più palese era quella camera d’albergo così linda e pulita da essere quasi luccicante, fortunatamente in uno stile che rispecchiava le più classiche camere occidentali. Con tutti i soldi che erano stati investiti su quel viaggio, tra l’altro, ci mancava solo che li rifilassero ad una bettola!

- L’unico problema è che mi tocca condividere la stanza con un biondino del cazzo… - quel sarcastico rimarco raggiunse presto le sue orecchie, e il giovane capitano sbuffò divertito. Come se, se lui fosse finito in camera con qualcun altro, a quello avrebbe fatto piacere… si sarebbe lamentato come un moccioso pur di saperlo tra le sue stesse mura!

- Che c’è, hai paura che ti rovini le scappatelle notturne? Da quando in qua ti piace la figa asiatica? - ribatté prontamente, continuando ad esplorare l’ambiente. Non era esattamente una suite (vabbè che di soldi ne avevano, ma non fino a quel punto) ma i lussi c’erano un po’ ovunque; adocchiò anche un tavolino imbandito davanti alla porta-finestra che dava sul bancone, con qualche stuzzichino di benvenuto per gli ospiti. Ugh, non osava nemmeno provare a toccare quella roba…

Intanto, Jason gli si era avvicinato. Quasi incombeva su di lui, fissandolo intensamente dopo il commento acido che gli aveva lanciato. Si era offeso? Nah, tutta scena. Ormai lo conosceva.

- Chissà? Magari la provo e non riesco a farne a meno. -

- Ah? Penso di essere meglio di qualsiasi giapponesina imbecille. - sogghignò, incrociando le braccia. L’altro, in tutta risposta, allungò una mano dietro di lui, afferrando uno di quegli snack lasciati sul tavolo.

- Non è detta l’ultima parola. -

- Io non la mangerei quella roba, te lo dico. -

- Stai cercando di sviare il discorso? -

- No, sul serio, non lo mangiare. -

Parole al vento. Qualsiasi cosa fosse quel cosino rotondo e bianchiccio finì alla svelta tra le labbra del più alto, che masticò lungamente e in silenzio. L’altro, in tutta risposta, lo fissò divertito.

- … che merda. -

- Te l’avevo detto. -

Si sentì spingere da una parte, e la cosa che sentì immediatamente dopo fu il suono di tutti i piatti e le stoviglie che finivano rovinosamente a terra. Il solito spaccone, era quello l’unico modo che conosceva per esprimere il suo dissenso? Fece roteare gli occhi, ancora con quel sorrisetto saputello stampato in faccia, ma non poté dire niente: non fece in tempo, perché due mani forti si strinsero attorno alla sua vita e lo piazzarono a sedere sul tavolino adesso vuoto.

- Mhh? E adesso? - sogghignò, trovandosi il viso di Jason direttamente davanti al suo. Sentì le sue mani rimanere aggrappate su di lui, possessive, e per non esser da meno cinse le gambe intorno al suo corpo per portarselo più vicino ancora.

- E adesso ti tolgo quel sorrisetto del cazzo dalle labbra. - gli sibilò in risposta, affondando le labbra nell’incavo del suo collo. Nash fremette, appagato, allungando una mano e aggrappandosi alla stoffa della maglietta che gli copriva la schiena. Senza se e senza ma aveva già iniziato a servirsi di lui, toccandolo ovunque, marchiandolo come suo… non c’era verso di farlo ragionare, quando era in quello stato, e onestamente non ne trovava il bisogno. Se il suo desiderio era quello di farlo smetterlo di sorridere, allora, ci stava riuscendo proprio male.

- E come pensi di riuscirci? -

- Semplice. - tornò nel suo campo visivo, sporgendosi su di lui così tanto da doversi sorreggere sul piano con una mano. Nash indietreggiò con la schiena, ma né il contatto visivo né la sua espressione si turbarono per un solo secondo, neppure quando si sentì afferrare per il viso tra pollice e indice, e le labbra di Jason farsi così vicine.

- … invece di quella robaccia, adesso mi mangerò te. -

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Capitolo 14
*** 14# • Things you said after you kissed me {KagaKuro, AoKuro} ***


Genere: Sentimentale, angst?

Tipo di coppia: Shonen-ai

Personaggi: Kagami Taiga, Kuroko Tetsuya

Rating: Verde

Parole: 450

Note: Ho deciso di segnare entrambe le ship perché per quanto sia fondamentalmente KagaKuro, c’è anche un cenno non indifferente all’AoKuro.

eeee boh, enjoy?

Scritta il: 29/06/2015

 

14# • Things you said after you kissed me

 

 

“Vaniglia.”

 

Una singola parola.

Una manciata di sillabe carezzevoli, frementi, che con la stessa delicatezza di una piuma scivolarono dalle labbra di Kagami alle orecchie di Kuroko. Era un sussurro leggero, innocuo; un commento quasi ingenuo nella sua spontaneità.

I grandi occhi celesti si schiusero appena, e un sorriso gentile gli piegò le labbra ancora così vicine alle sue. Poteva ancora sentirne il sapore, nonostante il cuore gli pulsasse così forte da nascondere ogni altra sensazione, e la mente fosse vuota, emozionata, leggera come una nuvola.

 

O quasi.

 

Le dita sottili si strinsero più forte sulla sua maglietta. Non voleva pensarci, non adesso, non in questo momento… ma i ricordi arrivarono da soli, imponendogli quello spietato parallelismo con qualcosa che era successo anni fa - neanche così tanti anni fa, ma così lontano, nella sua testa, da sembrare un avvenimento tanto remoto da essere accaduto in un’altra vita.

 

“Vaniglia. Sai di vaniglia, Tetsu.”

 

L’aveva detto con la stessa semplicità, con la stessa naturale schiettezza. Ricordava come aveva sorriso, a quelle parole, e come trovasse buffo che dopo un bacio - il loro primo bacio - fosse quella l’unica cosa che aveva da dirgli.

Però, nonostante le pacate parole di ammonimento che gli aveva rivolto, nonostante il broncio leggero che aveva tirato su… era felice.

 

E pensare proprio adesso a quella felicità gli faceva male, così male da chiudergli la gola in una morsa, da impedirgli di respirare.

 

Abbassò la testa, nascondendola nell’incavo del collo di Kagami.

Era sicuro di essersi lasciato alle spalle tutto questo. Di aver aperto abbastanza il proprio cuore da impedirsi di soffrire ancora per ferite che dovevano ormai essersi rimarginate, di essere in grado di sorridere ancora, di amare ancora, senza più provare alcuna remora; ma era ovvio che gli spettri di quei tempi che furono continuavano a gravare sulla sua anima come il più pesante dei rimpianti.

 

La stretta si fece più forte. Sentì le braccia di Kagami cingersi intorno a lui, e internamente lo pregò di non lasciarlo per nessuna ragione. Stava sentendosi spingere verso la deriva, e quell’appiglio era tutto ciò di cui aveva bisogno.

 

“Oi-… stai bene?”

 

Se rimarrai, starò bene.

 

Non glielo disse, non a parole.

Si limitò ad alzare la testa, guardandolo dritto negli occhi scarlatti. Chissà cosa avrebbe pensato, se avesse potuto sapere cosa gli passava per la testa? Si sarebbe reso conto quanto pessima fosse la sua persona, intenta com’era a pensare a qualcun altro proprio in un momento così speciale?

 

“Perdonami.”

 

Una singola parola.

Una manciata di sillabe carezzevoli, frementi, che con la stessa delicatezza di una piuma scivolarono dalle labbra di Kuroko alle orecchie di Kagami; una scusa tutt’altro che innocente, che senza possibilità di replica fu suggellata dal bacio disperato che seguì subito dopo.

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Capitolo 15
*** 15# • Things you said with too many miles between us {KiyoHyuu} ***


Genere: Non ne ho idea… ?? Generale?

Tipo di coppia: Nessuno, se proprio shonen-ai accennato.

Personaggi: Teppei Kiyoshi, Hyuuga Junpei

Rating: Verde

Parole: 780+

Note: Non ho letto il manga di Kurobas, ma anche prima che la serie animata finisse sapevo già a grandi linee tutti i grandi punti di trama fondamentali.

… sì, insomma, tutti tranne quello di Teppei che se ne va in America a farsi curare. Una cosuccia che mi ha preso un po’ alla sprovvista.

Scritta il: 1/07/2015

 

15# • Things you said with too many miles between us

 

 

Era infinitamente grato di poter essere lì, davvero.

Era grato di aver potuto approfittare di un’opportunità così rara, di aver potuto dare un futuro concreto, vero, alla propria carriera come giocatore. L’intervento era andato straordinariamente bene e la riabilitazione stava procedendo lenta ma senza ostacoli, il tutto in un continente lontano che l’aveva sì accolto con gentilezza, però…

Eh, sì, c’era per forza un però.

Aveva fatto voto di non lamentarsi mai durante questo periodo, ma gli succedeva spesso, quando si svegliava al mattino, di sentire più pesante del solito la consapevolezza di essere solo. La lingua era ancora un problema, non aveva praticamente fatto conoscenze (non che nelle sue condizioni potesse permettersi troppo di andare in giro… !) e, soprattutto, gli mancavano tutti.

Non era un mistero che Kiyoshi Teppei fosse un ragazzo che amava essere circondato dalle persone a cui voleva bene, e saperle tutte così lontane non era sempre un pensiero semplice da buttare giù. Chissà se i suoi nonni stavano bene? E la sua squadra, la sua Seirin? Kuroko, Kagami, Izuki, Mitobe, Koganei, e gli altri? E Riko?

… e Hyuuga?

Sospirò, tirandosi a sedere sul letto e stiracchiandosi. Hyuuga era decisamente quello che stava risentendo più di tutti di quell’assenza, per quanto non volesse ammetterlo nemmeno a lui. Ormai era abituato a riconoscere le sue vere intenzioni celate dietro pareti di indisponenza e, in tutta sincerità, non era certo il solo a starci così male. Magari avrebbe potuto telefonargli, hm… che ore erano in Giappone? Probabilmente era notte inoltrata, o qualcosa del genere.

Allungò una mano per raggiungere il cellulare sul comodino. Lo schermo brillava già di notifiche, tra le quali scorse con gli occhi ancora impigriti.

 

You have 10 missed calls and 13 unread messages.

 

E che diavolo era successo? Deglutì, un po’ nervoso, sentendosi gelare il sangue. Erano tutte chiamate di Hyuuga… e i messaggi erano tutti vocali!

Provò a selezionare il primo, non esattamente sicuro di cosa aspettarsi.

 

Ehi! Sono ore che cerco di chiamarti, vuoi tirare su quel telefono sì o no?! Che diavolo stai facendo, hm?

Per una volta che chiamo un po’ più tardi del solito già smetti di rispondermi! Che hai, l’amante?!

Vuoi tirare su quella cornetta sì o no?! Idiota! Sto iniziando a preoccuparmi!

… uh… lascia perdere, ho realizzato che da te sono tipo le tre di notte. Inutili, stupidi fusi orari… e tu non osare ridere! Scavalco l’oceano se scopro che ti sei messo a ridere!

… comunque qua tutto bene, scusa se non ho telefonato prima ma Riko ci ha ucciso con la pratica, oggi. Stavo seriamente pensando di morire. Tu… tutto bene, sì? Ginocchio a posto, tutto il resto a posto… se non ti sei fatto sentire per primo la prendo come una cosa positiva, quindi va bene. Volevo solo chiamare pe-

… stupido limite di tempo. Dicevo, volevo chiamare per… boh? Dirti come vanno le cose qua? A parte la stanchezza stiamo tutti bene. Stiamo iniziando ad organizzare le prime partite amichevoli, e ci hanno già detto che tra qualche mese verranno da queste parti dei tizi americani. Ne hai sentito parlare, lì? Gente che fa street basket, ti-

… tipo. C’è chi dice che siano più forti della generazione, ma tu ci credi? Bah… in ogni caso magari vedi di rimetterti per allora, così vieni anche te a vedere se sono così fighi come pensano. Comunque, se senti parlare di tali Jabberwock, sono loro. Non fartici appassionare troppo, però! Giuro che se scopro c-

Se scopro che ti sei messo a giocare laggiù invece che stare a riposo ti spezzo personalmente anche l’altra gamba. Stai. Giù. È un ordine, ok? Anche il coach ti direbbe lo stesso quindi stai. GIÙ.

… il resto della squadra è particolarmente vitale, intanto, anche se, boh…

… si sente che manca qualcosa. Si sentiva quando non c’eri prima e si sente pure di più adesso. Non faccio che dire a tutti che non starai via per così tanto, e che se volessimo potremmo raggiungerti facilmente, però…

Ci manchi.

E MI manchi, un sacco.

Fatti sentire, ok?

 

Sentire la sua voce, e sentire che quel sentimento di nostalgia era reciproco, fece sorgere sulle sue labbra un sorriso indelebile. Non pretendeva che gli dicesse sempre e comunque come stava, sapeva benissimo quanto fosse difficile fargli ammettere di star provando certi sentimenti… ma era bello, ogni tanto, sentirlo mettere da parte l’orgoglio per dirgli le cose come stavano.

Non ci pensò nemmeno quando selezionò il suo nome sullo schermo, portandosi il cellulare all’orecchio.

 

- … oi, hai idea di che ore siano qui?! -

Ridacchiò, sereno. Lo sapeva benissimo, eppure chissà come mai aveva risposto subito.

 

- … mi manchi anche tu, Hyuuga. -

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Capitolo 16
*** 16# • Things you said with no space between us {HimuNiji} ***


Genere: Commedia

Tipo di coppia: Shonen-ai

Personaggi: Nijimura Shuuzou, Himuro Tatsuya

Rating: Verde

Parole: 1200+

Note: Non è un segreto che Himuro proprio non mi piaccia, ma questa ship mi ha conquistato il cuore prima che potessi rendermene conto. Dannata novel e dannato Nijimura palesemente infatuato (no, serio, cercate il capitolo della Replace V in cui si conoscono e ditemi voi).

Nijimura è difficile da scrivere. Terribilmente. E dopo il titolo dovrebbe esserci un “that I didn’t listen at all”.
... e ovviamente so che Nijimura non è proprio basso, sta solo esagerando.

Scritta il: 2/07/2015

 

16# • Things you said with no space between us

 

 

Ormai, era lì da abbastanza tempo per dire che il Giappone e gli Stati Uniti non erano così radicalmente differenti.

Ovviamente non poteva dire che fossero esattamente la stessa cosa. Le abitudini erano totalmente diverse, gli atteggiamenti quasi opposti rispetto a quelli in mezzo ai quali era cresciuto e la cultura a tratti ancora incomprensibile; ma c’erano certi elementi che, chiaramente, non potevano che essere uguali per tutti.

La vita era frenetica lì come nella sua terra natale, il caldo dell’estate era afoso lì tanto quanto laggiù e le metropolitane, nelle ore di punta, erano tassativamente così piene da risultare praticamente invivibili. Tutti elementi che, ne era piuttosto sicuro, avrebbe potuto ritrovare in qualsiasi altro angolo di mondo in cui avrebbe potuto mettere piede.

Shuuzou sospirò, allungando a fatica una mano nel marasma di persone per aggrapparsi al palo sopra di lui. Ecco, probabilmente una cosa alla quale non si sarebbe mai abituato era il fatto che, mentre in Giappone era considerabile più alto della media, lì era quasi “basso” — tanto che persino un ambiente così “familiare” come la metro lo metteva a disagio.

Ovunque si voltasse, c’erano ragazzi (e ragazze!) che lo superavano così tanto che, compressato come una sardina in quel vagone sovraffollato, non poteva che sentirsi piccolo e insignificante.

E irritato, per altro. Quante volte, in situazioni simili, gli si erano praticamente addossati in massa perché totalmente nascosto dalle mura invalicabili rappresentate dalla popolazione media di quella città? Cosa che, per inciso, stava succedendo in quel momento: vedeva le persone forzarsi di violenza oltre le porte e imporre alle persone di andare avanti, che ‘tanto c’era spazio’, del tutto ignare che quel vuoto che vedevano era occupato dalle poche altre persone che come lui finivano celate dal resto del mondo.

- Ah, I’m sorry! -

Sorry un corno”, avrebbe voluto rispondere. Non era che la conferma di tutti quei pensieri: qualcuno, pressato con violenza nella sua direzione, gli era finito praticamente addosso, facendo dei suoi alluci il punto d’appoggio perfetto per le suole delle sue scarpe. Si appellò a tutto il suo autocontrollo per non lasciar parlare prima la testa calda che era capace di essere in certe situazioni, limitandosi a voltarsi verso il colpevole.

- No pr-Tatsuya?! -

- Shuu?! -

Seguì un attimo di silenzio perfetto, durante il quale i due si scrutarono da capo a piedi (per quel che l’eccessiva vicinanza gli permise di fare). Si stavano incontrando davvero, o era un’allucinazione dovuta dal caldo? Nijimura si passò una mano sugli occhi, ma quando la rimosse l’altro era ancora là davanti.

In tutta la sua bellezza, per inciso.

- Non avrei mai pensato di incontrarti proprio qui, proprio adesso! - lo sentì esclamare, appoggiandogli una mano sulla spalla. Lui inarcò le sopracciglia, lasciando sporgere il labbro superiore così come gli veniva spontaneo fare ogni volta che qualcosa lo contrariava.

- Io nemmeno! - borbottò - Non mi avevi detto che saresti tornato, brutto-… ! -

- Scusami! Volevo provare a farti una sorpresa, ma immagino che sia tutto vanificato, hm? - ridacchiò, sistemandosi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio. E come diavolo poteva non perdonarlo?

Era stato una delle sue prime conoscenze una volta arrivato oltreoceano, e il loro rapporto si era stretto molto rapidamente. Non importava che Himuro avesse poi deciso di tornare a studiare in Giappone: non era raro vederlo tornare da quelle parti ogni volta che poteva, e, in generale, si tenevano comunque perennemente in contatto.

Era davvero un valido alleato, un grandioso avversario e un ottimo amico.

Amico, giusto.

Annuì vagamente col capo mentre lo vedeva parlare, ma la verità fu che non prestò neppure la minima attenzione alle sue parole. Il suo pensiero stava divagando su tutt’altro, sulle sue labbra perfette piegate da quel suo immancabile, stoico sorriso; sull’unico occhio visibile, brillante di gioia nell’aver ritrovato un amico così presto, sui lineamenti perfetti, sui loro corpi tragicamente premuti l’uno contro l’altro.

Odiava, odiava come poche altre cose sentirsi così vulnerabile rispetto ai propri medesimi sentimenti; ma era dal primo momento in cui l’aveva visto che aveva sentito qualcosa di ben più di un semplice interesse amicale o sportivo ad attrarlo a lui. E mentre prima di allora era sempre stato ben in grado di tenere a bada certi istinti e certe pulsioni, quasi non voleva accettare di come fosse finito per morire dietro a quella manifestazione concreta di bellezza divina.

Alla luce di questo, era quasi un sollievo saperlo lontano chilometri e chilometri. Intratteneva volentieri chiacchierate con lui via chat o al telefono, faceva sempre in modo di farsi sentire spesso e di rispondere per tempo ai suoi messaggi — ma quando ce l’aveva davanti, e soprattutto così appiccicato, perdeva ogni facoltà di intendere e di volere.

Ma la cosa peggiore, forse, e che in realtà avrebbe dovuto consolarlo, era che lui non sembrava accorgersi di nulla. Non sapeva se lo facesse per rispetto o per una qualche ingenuità di fondo che l’aveva reso totalmente cieco davanti a certe manifestazioni così palesi di impaccio, ma anche in quel momento, mentre Shuuzou sentiva la propria faccia andare a fuoco e la punta delle orecchie diventare così rossa da sembrare un semaforo, quello continuava tranquillamente a chiacchierare del suo viaggio di ritorno o di qualsiasi altra cosa stesse parlando.

Tante, troppe volte avrebbe voluto spezzare quel clima ignaro e dirgli in faccia tutto quello che pensava. Quanto fosse felice di aver potuto legare con una persona come lui, quanto fosse maledettamente forte la cotta che si era preso nei suoi confronti e quanto gli fregasse solo relativamente delle turbolenze incontrate durante il viaggio: tutto quello che voleva era finire definitivamente di premere il proprio corpo sopra il suo e di attaccarsi alle sue labbra come se fossero state l’unica esistente fonte di salvezza per la sua discutibile e inopportuna perdizione.

Da lì in poi sarebbe stato tutto più facile, no? Sia che le cose si fossero risolte nel peggiore o nel migliore dei modi, avrebbe avuto finalmente un briciolo di tregua da quel perpetuo imbarazzo.

… chissà se avrebbe potuto portare a suo vantaggio quel momento?

Strinse la mano libera in un pugno, deglutendo nervoso. Avrebbe potuto fare finta che si trattasse di un incidente, approfittarsi magari di una frenata per spiaccicarglisi addosso e servirsi della sua statura trascurabile per rendere la cosa ancora meno visibile agli occhi degli altri. Sì, sì, esatto— se non lo faceva ora, quando avrebbe potuto farlo?!

- Ah, io mi fermo qui! Mi raccomando, chiamami più tardi così magari fissiamo per uscire! A dopo, Shuu! -

Una manciata di parole, e l’obiettivo del suo slancio era già sparito da davanti alla sua faccia. Si sbilanciò, sì, Nijimura, ma l’unica persona su cui finì per spalmarsi non fu certo Himuro - bensì un tizio alto e grosso verso il quel non riuscì ad alzare nemmeno il viso per colpa della vergogna che iniziò a prendere possesso di ogni sua capacità e percezione.

- I’m sorry - aveva mugugnato, rimanendo immobile mentre con la coda dell’occhio vedeva l’altro ragazzo allontanarsi definitivamente dal suo campo d’azione. Un’altra occasione era andata sprecata, e come al solito l’unico motivo era la sua inutile inettitudine ad esprimere le cose come stavano.

… perché diavolo doveva essere così idiota?!

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Capitolo 17
*** 17# • Things you said that I wish you hadn’t {MidoTaka} ***


Genere: Commedia

Tipo di coppia: Shonen-ai

Personaggi: Takao Kazunari, Midorima Shintaro

Rating: Giallo?

Parole: 400+

Note: Ergo, “come trasformare un prompt angst nell’esatto opposto e vivere felici

Scritta il: 3/07/2015

 

17# • Things you said that I wish you hadn’t

 

 

In quel momento, Kazunari Takao si rese conto del vero significato dell’espressione “un secondo che dura più di un’eternità”. Era come se il tempo si fosse fermato, dando occasione ad ogni sua percezione di farsi più viva che ma.

Sentiva il sangue gelarsi nelle vene, e una piccola goccia di sudore scivolargli lungo la tempia. La presa sulle bacchette si era affievolita, e il piccolo ticchettio che produssero scivolando sul tavolo fu l’unica cosa che raggiunse le sue orecchie. Per il resto, c’era solo silenzio.

Tutta l’attenzione era rivolta a lui, come fosse il protagonista di chissà quale spettacolo. Generalmente avrebbe adorato una situazione del genere: amava essere il protagonista, avere gli sguardi degli altri su di sé e mettersi in mostra sotto le luci di chissà quale immaginario riflettore, ma ora come ora l’unica cosa che desiderava era una botola che magari si aprisse proprio sotto la sua sedia.

Doveva imparare a pensare prima di parlare, Shin-chan glielo diceva sempre — e doveva immaginare che ci sarebbe stata almeno una volta su un milione in cui un consiglio del genere doveva essere la prima cosa a risuonargli in testa. Perché non ci aveva proprio pensato, gli era venuto spontaneo dire quelle tre o quattro parole!

D’accordo che ormai i suoi genitori sapevano che frequentava il loro unico figlio maschio non esattamente solo come un amico. D’accordo che, per quanto un po’ rigidamente, avevano comunque accettato la cosa, al punto da invitarlo a volte a rimanere a cena da loro così come era successo quella sera.

ma questo non voleva dire che fosse automaticamente autorizzato a farsi cogliere dalla demenza!

“Fai più piano.” l’aveva ammonito Midorima, alludendo ovviamente alla fame vorace che lo stava portando a spazzolare le portate davanti al suo naso come se l’ultima volta in cui il cibo aveva toccato il suo palato fosse risalita a qualche millennio prima. Ed era talmente assorbito dall’atto di mangiare, così estraniato dal resto del mondo, che aveva risposto come avrebbe fatto in qualsiasi altra situazione.

“Non è quello che mi hai detto l’altra notte!”

 

Sbem. Silenzio.

Il signor Midorima alzò le sopracciglia dietro gli spessi occhiali da vista, e la signora Midorima spalancò leggermente le labbra, come attaccata dalla peggiore offesa. E Shin-chan?

Shin-chan era diventato di tutti i colori. Era passato dal bianco candido, al rosso scarlatto al nero pece. E già lo sentiva, quel lamento che da leggero diventava sempre più forte, quel “Takaaaaaaaoooooooooo…” che aumentava di volume come una sorta di borbottare minaccioso di tuoni prima della tempesta.

 

- … magari… vado in bagno, eh? - esclamò, tirandosi su dalla sedia. Almeno lì sapeva che c’era una finestra… chissà se sarebbe riuscito a scappare per sottrarsi all’ira funesta di Shin-chan?

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Capitolo 18
*** 18# • Things you said when you were scared {ImaHana} ***


Genere: Commedia

Tipo di coppia: Vvvagamente shonen-ai

Personaggi: Hanamiya Makoto, Imayoshi Shouichi

Rating: Verde

Parole: 800+

Note: Torno sul mio fido cavallo di battaglia, la mia amata ImaHana, seppur con una ff che di “ship” ha ben poco.

… però adoro metterli in situazioni del genere, uffa.

Scritta il: 5/07/2015

 

18# • Things you said when you were scared

 

 

- Ti sei perso o cosa, idiota? -

Non è certo il buio a spaventare Hanamiya Makoto, e nemmeno quelle sfilacciose ragnatele finte che pendono dal soffitto e che non ingannerebbero neppure un moccioso. Anzi, a dirla tutta trova il setting di quella ‘casa infestata’ poco credibile e decisamente patetico: passa oltre ai “mostri” che sbucano da ogni angolo come se non esistessero proprio, guardandosi intorno con silenziosa circospezione.

Un altro vicolo cieco, un altro angolo fatto solo di specchi deformanti. Non sono neanche i riflessi distorti a mettergli suggestione, o le registrazioni scricchiolanti che sente provenire da quello che con un po’ di attenzione riesce ad individuare come un chiarissimo amplificatore; l’unico motivo della tensione che gli sta facendo venire la pelle d’oca è il fatto che là dentro, prima, ci sono entrati in due.

Lui, e quel quattrocchi del cazzo.

 

- Non fare l’antipatico, siamo al luna park e non andiamo alla casa infestata? Che, hai paura? -

- No che non ho paura, come potrei quando frequento direttamente qualcuno mette il “tu” in “disturbante”? -

- Allora il problema non si pone, no? Andiamo, andiamo ~! -

 

E, naturalmente, la prima cosa che quello ha fatto è stato sparire alla prima svolta.

Stringe i pugni, ancora nascosti nelle tasche della felpa. Come già detto, non sono gli elementi in sé di quell’atmosfera mal costruita a farlo tendere come una corda di violino; è la consapevolezza che lui è la fuori, pronto ad attaccare. E così, ogni strascicare registrato diventa un possibile indizio del suo avvicinarsi; ogni spiffero d’aria diventa il suo respiro che gli alita sul collo; ogni ombra, ogni riflesso, diventa il suo spettro minaccioso che incombe su di lui. Che poi, anche se fosse, cosa potrebbe fargli?

È totalmente irrazionale e più forte di lui, ma sebbene ormai stiano innegabilmente insieme (ammetterlo è sempre più inquietante di qualsiasi fobia inutile) non ha mai smesso di provare quel terrore di fondo nei suoi confronti. Perché?! Cosa potrebbe fargli quel mostro di tanto terribile?! Strangolarlo, accoltellarlo, spaccargli la testa? Sono tutte cose che gli farebbe più volentieri lui!

Deglutisce a vuoto, avanzando oltre una stanza di sole pareti riflettenti. Vedere il proprio stesso riflesso, anche se distorto, quasi lo rassicura: è il modo migliore per avere la completa certezza di essere solo, senza nessuno ad attentare alla sua sanità fisica e mentale.

Ma basta una fugace ombra fuori posto, e tutti i suoi sensi si allertano come folli. Un singulto strozzato esce dalla sua gola secca, le palpebre si sgranano, le pupille cercano furiosamente in ogni angolo l’origine di quella suggestione.

- Se sei tu smettila, sei patetico. - la voce si incrina leggermente sull’ultima parola, ma spera che non se ne sia accorto - Esco senza di te, chiaro? -

Silenzio. Nessuna risposta, nessun movimento. Adocchia vagamente un cartello “EXIT” in breve lontananza, e senza più esitare si dirige verso quella luce di salvezza: una volta fuori non potrà fargli più nulla, anzi, nel migliore dei casi sarà lui a perdersi in una casa infestata vuota!

Ma ogni barlume di speranza si spegne appena sente il vibrare minaccioso di un passo proprio dietro di sé. Un brivido di terrore si fa strada lungo la sua spina dorsale, e il gelo della paura a malapena lo fa voltare quel poco che basta per sbirciare oltre la propria spalla.

Una sagoma emerge dall’ombra, e due lenti rettangolari sono l’unica cosa che luccica in quella manifestazione di pura oscurità malefica.

 

- Dove credi di andare, Hanamiyaaaaaa?! -

 

Un grido incontrollato si fa strada su per la gola secca, dilaniandola mentre le gambe si muovono da sole verso quella che sembra l’unica possibilità di uscire vivo da quell’inferno. Sente già il sapore della libertà, la freschezza dell’aria sulla pelle…

… il dolore lancinante del proprio muso che si sfracella contro qualcosa… ?

Indietreggia barcollando, sentendo la coscienza farsi leggera e fluttuante. Eh… ora capisce perché all’ingresso gli hanno detto di camminare piano e tenere le mani avanti, pensa, mentre il cervello gli si spegne per qualche secondo.

 

 

- Smettila di ridere. Sono serio, smettila di ridere o ti ammazzo. -

Parole al vento, visto che sente ancora quel bastardo sogghignare come uno stronzo.

Sente, perché quello giustamente si è messo al di fuori dal suo campo visivo. Tenendo la testa alzata e le dita strette sul setto nasale per impedirsi di morire dissanguato, d’altronde, non può permettersi di guardarsi intorno più di tanto.

E non è che gli abbia chiesto scusa, assolutamente. Da dopo quei dieci secondi di blackout totale in poi, tutto quello che ha raggiunto le sue orecchie è stato il suono insopportabile della sua risata.

Lo trova così divertente? È sempre stato quello il suo obiettivo della serata, o cosa? Volta gli occhi da una parte, vedendo finalmente la sua brutta faccia tornare a far parte delle sue percezioni.

- Dai, mi voglio far perdonare, vado a prenderti qualcmpphff—… -

Oh, poco furbo da parte sua mettersi proprio dalla parte della mano ancora libera. Il pugno è un po’ debole, visto che con la sinistra non è la sua mano dominante, ma il rumore del naso di Imayoshi che scricchiola sotto le sue nocche quasi lo distrae dall’umiliazione e dal dolore.

 

- Gentilissimo da parte tua ma no, preferisco fare pari, pezzo di merda. -

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Capitolo 19
*** 19# • Things you said when we were the happiest we ever were {MitoKoga} ***


Genere: Sentimentale, romantico

Tipo di coppia: Shonen-ai

Personaggi: Koganei Shinji, Mitobe Rinnosuke

Rating: Verde

Parole: 1000+

Note: … ma ship comuni io proprio no eh…

A parte tutto, credo che il potenziale romantico di questi due sia un po’ sottovalutato, quindi ho pensato di provare ad esplorare anche loro. Ne ho approfittato anche per infilare uno dei miei headanon su Mitobe che coltivo da più tempo -?- e che tengo più a cuore.

Scritta il: 9/07/2015

 

19# • Things you said when we were the happiest we ever were

 

 

Quando gli dicevano che ormai, a forza di stare insieme, era come se fossero la stessa persona, Shinji ci rideva su, rimarcando quanto le loro differenze fossero così infinite e radicali che non sarebbe mai stato possibile, per lui e Rinnosuke, coincidere al punto da essere “la stessa cosa”. Madre Natura aveva dato loro doni totalmente diversi, da una parte mantenendo intatti e solidi gli svariati centimetri d’altezza che li dividevano fin dalla loro prima adolescenza, dall’altra regalandogli in sovrabbondanza tutto ciò che il più alto non aveva mai potuto avere.

Ah, non che questa cosa avesse mai influito sulla loro relazione! Aveva imparato presto che, a differenza dei suoi sensi un po’ animaleschi, quelli di Mitobe - anzi, uno in particolare - fossero decisamente meno attivi; aveva capito quasi subito che le sue orecchie non erano mai state molto buone, e che in un modo o nell’altro questo si era ripercosso in alcuni ambiti della sua vita ma, nonostante la sorpresa iniziale, non aveva mai permesso a questo dettaglio di influire in qualche modo sul loro legame. Certo, lì per lì si era sorpreso - ma solo perché non se ne era mai minimamente accorto!

E proprio per questo motivo, smettere di pensare eccessivamente a quel dettaglio nelle loro interazioni di tutti i giorni era diventato più semplice che respirare. Non che questo significasse ignorarne l’esistenza: anche tutti quei piccoli accorgimenti fatti di parole articolate con la certezza che lui potesse vederlo e di intuizioni provvidenziali avute per comunicare agli altri le sue intenzioni senza forzarlo ad un linguaggio parlato (che, sapeva bene, per lui era ancora fonte di un certo imbarazzo visto la poca dimestichezza che aveva con esso) divennero presto una componente naturale e spontanea del loro relazionarsi, così tanto che sarebbe stato strano farne a meno.

E più stavano insieme, più le loro differenze venivano a galla. Non c’erano solo quelle ovvie, quelle che tutti quanti potevano vedere anche ad una singola occhiata: i loro caratteri risiedevano in due poli opposti, e Shinji si era spesso domandato se questo, ipoteticamente, non avrebbe dovuto concretizzarsi in un possibile limite al loro relazionarsi. Sarebbe pure stato naturale, no? Lui era sempre stato una persona iperattiva, incapace di star ferma e di fare la stessa cosa per più di qualche minuto; Mitobe, al contrario, viveva la vita con un ritmo placido e tranquillo, prendendo ogni cosa con l’intensità che lui decideva di dedicargli.

“Tu che hai sempre bisogno di stimoli, non ti stancherai di stare con uno del genere?”, “Un ragazzo tranquillo come lui finirà per non sopportare più una molla come te!”: non era buffo che le stesse persone che prima gli dicevano queste cose, erano le stesse che erano finiti per dire che stavano diventando la stessa cosa? Perché, nonostante tutto ciò che li distingueva, erano arrivati al punto in cui non potevano fare a meno l’uno delle differenze dell’altro.

Gliel’aveva fatto capire Rinnosuke, dicendogli che senza di lui forse non avrebbe avuto il coraggio di entrare in una squadra di basket persino alle superiori, e che la sua vitalità gli aveva permesso di essere un po’ meno riservato e un po’ più sicuro di sé. L’aveva capito lui stesso, guardando come era cambiato e maturato, comprendendo che forse, ben più che solo “un pochino”, il rafforzarsi di tutta quella determinazione nel perseguire i propri obiettivi era nato proprio dall’avere vicino una persona così speciale.

Sorrise, intrecciando le dita tra le sue, più grandi, ma tremati ed emozionate esattamente come le proprie. Erano passati così tanti anni, avevano condiviso così tanti momenti — erano arrivati fino a quel punto, ma ancora non se la sentiva di dire che fossero la “stessa cosa”. Non era il modo corretto per definirli, perché ognuno di loro aveva la proprie individualità, le proprie caratteristiche imprescindibili, le proprie doti e le proprie lacune. Non sarebbero mai potuti coincidere completamente nella stessa figura… ma non erano neanche degli sconosciuti che non avevano niente da spartire.

Non era mai stato un gran pensatore, ma alla fine pure lui era giunto alla sua conclusione. Cosa potevano essere, se non due parti distinte della stessa figura, due segmenti complementari di una singola, nuova, ancora più bella immagine? Avrebbero potuto vivere come singoli individui, ma era solo stando insieme che avrebbero potuto essere davvero felici e completi. Sapeva che anche lui lo pensava, lo leggeva nel suo sorriso emozionato, lo vedeva chiaramente nei suoi occhi, in quel momento voltati verso l’uomo che solennemente leggeva i giuramenti per non perderne neanche una singola parola.

Era ciò a cui sarebbero arrivati inevitabilmente, prima o poi, come se fosse una tappa certa della loro relazione; ma nonostante questo non riusciva a smettere di fremere per la felicità. Si stava aprendo davanti a loro una nuova vita, che sarebbe stata allo stesso tempo uguale e ancora più bella di quella che avevano vissuto fino a quel momento… ma fu difficile lasciare la sicurezza delle sue mani quando l’uomo in uniforme tacque per lasciargli la parola, le dita e le labbra che tremavano pericolosamente mentre un “Sì, lo voglio” lasciava la sua gola guidato dai gesti che negli anni aveva imparato propriamente ad usare.

Andava bene? L’aveva guardato negli occhi mentre lo diceva, aveva usato i segni giusti? Un mare di stupidi interrogativi gli riempì la testa, mentre Rinnosuke, sorridendo tranquillo, tornava a stringere le mani attorno sue. Perché lo stava facendo, pensò, fissando le loro dita intrecciate? Adesso era il suo turno di rispondere, non era il caso di stare a consolare il suo compagno scemo… !

- Sì… lo voglio. -

Koganei alzò di scatto la testa, come non credendo a ciò che le sue orecchie avevano appena sentito.  Persino lui aveva sentito rarissimamente la voce di Mitobe, sapeva che non amava parlare, eppure

… eppure si era sforzato di mettere insieme quelle parole per coronare al meglio il loro momento speciale, per lasciare che le sue mani fossero ancora l’appiglio di cui aveva disperatamente bisogno in quell’istante. Sentì qualcosa pizzicargli gli occhi, mentre il suo entusiasmo si sovrappose persino alle parole dell’ufficiale accanto a loro.

- Scemo, non ce n’era bisogno… ! - esclamò, gettandosi contro il suo petto e lasciandosi stringere dalle sue braccia. Forse chi li guardava non poteva capire cosa ci fosse di così speciale in tutto questo, in uno scambio di parole così improvviso e insolito da sembrare incomprensibile. Ma che importava? Era qualcosa che apparteneva a loro e a loro solamente, e mai nella vita potevano dire di essere stati più felici di così.

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Capitolo 20
*** 20# • Things you said that I wasn’t meant to hear {MidoTaka, accennata} ***


Genere: … ? Generale?

Tipo di coppia: In realtà nessuno

Personaggi: Midorima Shintaro, Takao Kazunari

Rating: Verde

Parole: 1100+

Note: … è vero che quando l’ho scritta ero comunque in ritardo, ma shhh, il 10 non è così lontano dal 7. Warning: Midorima estremamente passivo aggressivo incoming.

Scritta il: 10/07/2015

 

20# • Things you said that I wasn’t meant to hear

 

 

 “… ma ricordatevi che anche se questo è il mese di voi Cancro, non tutto potrebbe filare come previsto! Fate attenzione: e se qualcuno di molto vicino a voi stesse nascondendo qualcosa?

 

Per una persona che dell’oroscopo ne aveva fatto il suo più grande punto di riferimento, era ovvio che parole del genere non potessero semplicemente essere ignorate. Seduto in silenzio in fondo alla solita, scricchiolante carretta, Midorima se ne stava con le braccia incrociate e lo sguardo diretto chissà dove, immerso nelle reminiscenze di una giornata trascorsa all’insegna del sospetto e di un briciolo di fastidioso sentimento di tradimento.

Era abituato alle persone che sussurravano alle sue spalle, davvero. Era abituato alle persone che lo guardavano e si voltavano a parlare con la persona accanto, fissandolo e indicandolo di nascosto, ed era anche abituato agli epiteti che di tanto in tanto raggiungevano le sue orecchie. Non che la cosa lo tangesse, in ogni caso: le loro insignificanti opinioni non erano che aria, flebile e trascurabile. Verba volant, soleva dirsi tra sé e sé, e la sua vita continuava esattamente come al solito.

L’ultima cosa che si aspettava era di sentire, però, un certo qualcuno sussurrare alle proprie spalle. Di cose poco gentili Takao gliene aveva sempre dette anche in faccia, senza problemi a sbottargli a ridere direttamente davanti al naso tutte le volte che qualche sua abitudine veniva a galla, ma questo suo atteggiamento inequivocabile era ciò che glielo faceva, dopotutto, sopportare. Quindi perché, all’improvviso, aveva sentito il bisogno di sussurrare qualcosa e di citare anche lui nel mezzo, per poi fingere di non aver fatto nulla l’attimo immediatamente successivo?

Shintaro aveva provato a dirsi che non poteva che essere un errore di valutazione, un caso sporadico, o addirittura una strana e sfortunata coincidenza in cui qualche suo omonimo poteva essere coinvolto. Eppure ormai il tarlo del dubbio si era infiltrato nella sua testa, e di occasioni per confermare che sotto ci fosse qualcosa a danno suo ne aveva avute ben più di solo qualcuna.

Mentre da una parte Takao si comportava esattamente come al solito, dall’altra era quasi più… riservato. Ed era davvero insolito associare una parola del genere a qualcuno come lui, che faceva dell’espansività uno dei suoi punti di forza!

Tuttavia, tutte le volte che gli si approcciava sembrava quasi complottare con il compagno di turno presente vicino a lui, il quale veniva prontamente liquidato non appena i suoi occhi di falco captavano la propria presenza all’interno di un range troppo rischioso per continuare la discussione. Era palese che stesse parlando di qualcosa di cui lui non doveva sapere nulla!

E ormai non c’era più spazio per fraintendimenti: a coronare il tutto era riuscito a captare un frammento di una conversazione telefonica proprio qualche minuto prima di partire verso casa, in cui rimarcava quanto “gli sarebbe bastato tenere Shin-chan all’oscuro di tutto ancora per qualche minuto e finalmente sarebbe stato libero”.

Sospirò, sistemandosi gli occhiali. Era giusto che un ragazzo come lui avesse interessi completamente diversi e passatempi altrettanto opposti ai suoi, ma cos’era quella determinazione a tenerlo fuori dalla sua vita, dai suoi hobby? Lo conosceva, ormai, non si sarebbe certo infiltrato nella sua vita privata senza che lui lo desiderasse! Da quanto tempo lo considerava un intralcio così pesante per la sua esistenza?

- Shin-chan, cos’era quel sospirone? Tutto bene, là dietro? -

Ah, allora anche lui aveva iniziato a sentire cose che non avrebbe dovuto. Si prese qualche attimo di silenzio, sbattendo lentamente le palpebre e calibrando attentamente le proprie parole.

- Cosa farai stasera? Tranquillo, non ho intenzione di metterti i bastoni tra le ruote. Vorrei solo sapere il perché di tutta questa segretezza. -

La carretta seguì un brusco arresto, e per poco Takao non cadde dalla bici per voltarsi verso di lui. Cos’era quell’espressione? L’aveva dunque colto sul fatto?

- … ma che stai dicendo, Shin-chan… -

- Non ho forse ragione? - incalzò, senza batter ciglio - Voglio dire, so di non essere la persona più adatta al divertimento, ma da qui a chiudermi fuori dalla tua vita… -

Non completò neppure la frase, interrotto dalla risata divertita di Takao che si librò rapidamente nell’aria attorno a loro.

- Pfft… non posso crederci che tu sia arrivato a pensare una cosa del genere! Sei… sei incredibile, Shin-chan, davvero! -

Stava… negando?

Sgranò gli occhi, sorpreso, cercando in qualche modo di riallacciare la conversazione; ma Takao si era messo a pedalare ancor più di buona lena, fischiettando e canticchiando tra sé nel mentre. Aveva tutte le prove possibili contro di lui, non poteva semplicemente scrollarselo di dosso con una fischiettata! Ma le orecchie del suo compagno di squadra si dovevano per forza improvvisamente essere foderate di cemento, perché qualsiasi richiamo tentasse di intentare nei suoi confronti, questo non faceva che rimbalzargli addosso e rimanere del tutto inascoltato.

Continuarono così finché la carretta non si fermò davanti a casa sua, ma quando Midorima scese dal veicolo per entrare nell’appartamento Takao non procedette come al solito: lo seguì, mani in tasca e un sorrisetto scemo stampato in viso.

- … cosa staresti cercando di fare? -

- Prendo un po’ d’aria? Riposo le gambe? - rimarcò, con un sarcasmo del tutto fuori luogo. Il più alto fece roteare gli occhi, desiderando solo di porre fine al più presto a quella giornata, ma appena spinse stanco la porta vide tutte le luci accendersi davanti alla sua faccia, e un gruppetto di persone allegre iniziare a lanciargli addosso coriandoli.

- Buon compleanno! - sentì esclamare, e la sua testa si confuse ancora di più.

- … ma non è… il mio compleanno. - mugugnò, sentendo Takao aggrapparsi alle sue spalle. Questi ridacchiò, divertito, scuotendo il capo.

- Andiamo, era due giorni fa, lo so che siamo in ritardo! - esclamò - Ma purtroppo abbiamo potuto organizzare qualcosa solo ora. E tu che pensavi che volevamo lasciarti fuori da chissà cosa, heh! -

E mentre gli altri compagni della squadra di basket lo trascinavano dentro casa, intenti a sommergerlo di regali, auguri, pezzi di torta e frutta, un sorriso leggero non poté che dipingersi sulle sue labbra. Non si poteva dire che l’oroscopo avesse sbagliato — era stato lui, con la sua eterna sfiducia, a pensare male di tutti coloro che si erano impegnati così tanto per dedicare a lui e a lui solamente quella bella serata.

 

- Anche se festeggiare il compleanno in anticipo porta, a dirla tutta, sfortuna. -

- In anticipo? Ma, Shin-chan, siamo in ritardo, casomai! -

- E in anticipo sull’anno prossimo. -

- … m-mangia la torta, che vedo già Miyaji-senpai armato di ananas. -

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Capitolo 21
*** 21# • Things you said when we were on top of the world {MuraAka} ***


Genere: Introspettivo, drammatico

Tipo di coppia: Shonen-ai

Personaggi: Akashi Seijuro, Murasakibara Atsushi

Rating: Giallo?

Parole: 500+

Note: Questa è l’unica storia della challenge che non è esattamente da intendersi come inclusa nella linea temporale canon della trama di KnB – la definirei piuttosto ambientata in un’AU distopica fine a se stessa (molto fine a se stessa), quindi tenete questo in mente~

Inoltre il titolo è un po’ preso in senso figurato, ma, come disse il saggio, e vbb.

Scritta il: 13/07/2015

 

21# • Things you said when we were on top of the world

 

 

Era così piccolo, tra le sue braccia. Così piccolo e indifeso.

Una visione del genere era dedicata solo a lui, nelle ore più tarde della notte, quando persino quegli occhi che tutto vedevano avevano bisogno di riposo. Erano gli unici momenti in cui Akashi Seijuro sembrava quasi una persona normale, e non un maniaco del controllo, un monarca assoluto al capo della potenza più forte e più crudele.

Era un semplice umano stretto contro il suo corpo, e Atsushi, carezzandogli distrattamente i capelli corti con le lunghe dita affusolate, ricordava con nostalgia i tempi in cui era sempre in quel modo. Un ragazzo come tanti, con uno sguardo che andava ben oltre a ciò che gli altri potevano vedere, ma comunque coi piedi a terra e con la consapevolezza che le persone intorno a lui erano - appunto - persone.

Quanti anni erano passati? Quanto tempo aveva passato al suo fianco, vedendolo sprofondare sempre di più in quella ricerca ossessiva di perfezione e controllo totale?

Quante cose erano cambiate, da un incidente tanto ridicolmente banale, da una frase pronunciata in un attimo di frustrazione e stanchezza?

Forse sarebbe successo comunque; forse le pressioni che gli arrivavano da tutte le parti l’avrebbero fatto cambiare in ogni caso. Ma Atsushi non poteva fare a meno di sentirsi responsabile di tutto questo, mentre come sperando di poter prima o poi rimediare a quel danno si era associato a lui alla ricerca di quell’Aka-chin che sembrava essere rimasto sotterrato dietro una maschera di impenetrabile, freddissimo stoicismo.

Non era morto, sapeva che c’era ancora. Lo vedeva celato dietro alcuni suoi sguardi, si muoveva di nascosto assieme ad alcuni suoi gesti, chiamava aiuto, impercettibilmente, nel profondo delle sue parole.

 

Perché tu non mi tradirai, vero?

 

Quelle frecce gialle e rosse lo scrutavano senza pietà alcuna ogni volta che glielo ripeteva, ma sapeva che a parlare non era altro che colui che con fatica estrema riusciva ad arrivare a galla di una coscienza che, ogni volta, lo rispediva sempre più in fondo nei meandri di un inconscio oscuro e torbido.

Non era morto, ma ormai non poteva neppure tornare a vivere. “Non tradirmi, non tradirmi, non tradirmi” - non era che il suo disperato appello, un grido straziato che lo implorava, se non di poter essere riportato alla luce, almeno di non lasciar prevalere l’altro.

Era un obbligo troppo grande per lui, troppo insostenibile. Perché lui non era mai cambiato, non era che un bambino nel corpo di un gigante, un essere umano troppo poco pronto ad affrontare faccia a faccia certi aspetti della vita, e che nonostante questo sentiva il forte gravare della colpa che lo affliggeva con crudeltà. Era l’unico, senza possibilità di tirarsi indietro, che poteva cambiare le cose.

Non riuscì neppure a guardare il viso addormentato di colui che teneva tra le braccia, mentre le lacrime gli annebbiavano la vista già affaticata dal buio della notte. Era l’ultima volta che poteva vedere l’Aka-chin che amava, l’ultima volta in assoluto che avrebbe potuto porre le proprie labbra sulla sua fronte in quel tenero, quasi infantile, gesto d’affetto.

Lo tenne ancora a sé mentre la mano libera si stringeva tremante sul manico della lama che aveva nascosto sotto il cuscino, conscio che quel fendente avrebbe finalmente portato a termine quella lunga, insopportabile agonia.

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Capitolo 22
*** 22# • Things you said after it was over {KiyoHyuuRiko} ***


Genere: Commedia

Tipo di coppia: OT3

Personaggi: Hyuuga Junpei, Kiyoshi Teppei, Aida Riko

Rating: Verde

Parole: 680+

Note: … perché più si avvicina la fine più procrastino per postare le ultime storie?

Comunque, non ho resistito a chiamare in causa un’altra delle mie OT3, anche se in realtà la storia è tutta incentrata su Hyuuga. Che è orribilmente difficile, come al solito, da scrivere.

Di nuovo il prompt suggeriva angst da tutti i pori, ma l’ho plasmato a mio volere.

(… comunque, la sindrome della covata esiste davvero.)

Scritta il: 14/07/2015

 

22# • Things you said after it was over

 

 

Quando gli avevano detto che esisteva una cosa come la sindrome della covata non ci aveva voluto credere. Una cosa così stupida, con un nome così imbecille, non poteva essere una condizione reale, no? Non importava se appena avevano scoperto che Riko era incinta era stato lui quello a sentire tutti i dolori, dal mal di schiena al mal di reni alle nausee mattutine, non importava se, sebbene lui desse la colpa a qualche virus stagionale, sia lei che Kiyoshi erano sani come pesci. Hyuuga Junpei non si era preso niente che avesse un nome come quello.

E sì che la gente non faceva altro che dirgli che era una cosa positiva, che dimostrava quanto fosse attaccato alla madre e al nascituro. No che non era una cosa positiva! In nessun pianeta essere paragonato ad una gallina era una cosa positiva; in nessuna dimensione esistente essere riverso su un lettino di un ospedale mentre la propria moglie partoriva nella stanza accanto era una cosa positiva!

Si accoccolò su se stesso, le mani premute sul ventre dilaniato dai peggiori dolori che avesse memoria di aver mai provato. Lì per lì credeva che fosse solo suggestione, o al limite ansia - le contrazioni, la rottura delle acque, la corsa verso l’ospedale si erano susseguite con una velocità tale da sembrare surreali, ed era normalissimo sentirsi un po’ tesi, no?

Evidentemente no, perché mentre persino Riko si era tranquillizzata alla svelta nonostante i dolori e la situazione e Kiyoshi era rimasto fedelmente al suo fianco, tenendole stretta la mano e beccandosi diligentemente gli insulti che volavano nell’aria quando la suddetta tranquillità barcollava e veniva comprensibilmente meno, lui era passato da ‘dolorino trascurabile’ a ‘penso di stare per morire’, con tanto di infermiera che lo sorreggeva mentre lo portava fino al giaciglio su cui era rimasto a soffrire fino a quel momento.

Non era una scenetta patetica? A volte aveva quasi idea di essere lui la donna di casa, quando la sua stupida emotività di fondo faceva a spintoni col suo desiderio di mantenere la sua solita facciata seriosa e ne emergeva inevitabilmente vincitrice. Chissà quanto se la stavano ridendo i dottori alle sue spalle? Chissà quanto avrebbe riso la sua prole, quando questo aneddoto sarebbe sbucato fuori?

Era tanto immerso in quel vortice di autobiasimo e vergogna che perse tanto la cognizione del tempo quando quella del dolore, che si riacutizzò solo quando sentì qualcuno scrollarlo leggermente da quel pietoso torpore. Alzò lo sguardo, solo per mettere a fuoco il viso sorridente di Kiyoshi rivolto verso di lui.

- … è finita? -

- Sì, è andato tutto bene. Vuoi venire di là, ti senti meglio? -

Non gli rispose nemmeno, mentre aggrappandosi a lui lo istigava a muoversi e a trascinarlo via da quel buco. Sentiva il cuore battergli così forte che qualsiasi altra percezione divenne inutile e insignificante, totalmente incentrato sull’idea di poter finalmente vedere quella creaturina che avevano atteso per così tanto e a cui potevano finalmente regalare tutto l’amore di cui erano dotati. Davvero tutti quei dolori idioti che aveva passato erano segno di un legame che era destinato a instaurarsi fin da subito? Sarebbe riuscito ad essere un buon padre, sarebbe stato adatto a ricoprire un ruolo come quello? Ormai non c’era più tempo per prepararsi, l’attesa era finita; doveva prepararsi a fare i conti con la realtà.

Deglutì quando Kiyoshi spinse la porta della stanza dove si trovava Riko, che subito si voltò stanca ma sorridente verso di loro. Un fagottino riposava tranquillo tra le sue braccia, così piccolo che quasi non sembrava reale.

- Non è bellissima? La nostra bimba… -

Junpei barcollò verso di loro, totalmente estasiato. Era sì bellissima, di più, era un miracolo. Era così perfetta che la sua mente si svuotò completamente di ogni pensiero e preoccupazione, lasciandolo finalmente libero da quell’angoscia insopportabile che l’aveva angustiato nei mesi passati. Era pronto ad intraprendere quella nuova vita, già immerso in una felicità che lo faceva sentire leggero come una piuma.

 

Così tanto, che l’ultima cosa che sentì furono le due persone che tanto amava che gli urlavano impanicate di non svenire.

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Capitolo 23
*** 23# • Things you said [make your own] » under the fireworks {AoMomo} ***


Genere: Sentimentale

Tipo di coppia: Het (incredibile ma vero)

Personaggi: Aomine Daiki, Momoi Satsuki

Rating: Verde

Parole: 800+

Note: Ultima storia! Ma i vari fronzoli li metto alla fine-

Anche questa OS è il risultato di una sfida che mi è stata lanciata, ma a differenza dell’AoKise questa credo mi sia venuta un po’ meglio. Per i convenevoli, ci risentiamo alla fine della storia!

Scritta il: 15/07/2015

 

23# • Things you said [make your own] » under the fireworks

 

 

Sopra di loro imperversava una tempesta di fuochi d’artificio, e fu proprio in quel momento, mentre il naso di tutti era perso per aria, che Aomine si ritrovò più che mai coi piedi per terra, i pensieri che si accendevano di un’unica, sfavillante rivelazione. Lo spettacolo di luci sopra di sé aveva perso ogni significato, mentre gli occhi si fissavano forse con un’indiscreta insistenza su un viso gioioso illuminato di mille colori, su quelle labbra di pesca così lucide, così invitanti, su quei capelli sottili come fili di seta che si muovevano gentilmente, scossi dai rari soffi di vento di quella sera d’estate.

Esattamente dove aveva guardato, fino a quel momento, per non rendersi conto della meraviglia che aveva accanto?

Era come se in tanti anni che le era stata vicino, non si fosse mai accorto che Satsuki non era più l’amichetta della porta accanto, quella bambina che si spaventava continuamente davanti ai suoi scherzi e finiva in lacrime ancora più spesso. Stava diventando una donna, una magnifica donna, ed era come se solo in quell’istante la realizzazione di ciò avesse colpito la sua mente. Quando era successo? Ed era stato solo lui a non accorgersene, a non realizzare quanto il tempo li avesse cambiati? E perché era tutto accaduto in modo così improvviso, tanto che quasi provava vergogna a starle vicino mentre tutto intorno coppiette innamorate si tenevano per mano al lampeggiare gioioso dello spettacolo che solcava il cielo?

Si passò una mano sul viso, la testa che diventava pesante per tutti i pensieri che la attraversavano. Cosa diavolo era, quello, una specie di colpo di fulmine? Non succedeva solo con le persone appena incontrate, o roba del genere?

No, no, no… per quanto improvvisa quella realizzazione fosse, non si trattava di un semplice “colpo di fulmine”. Era più come se, sotto sotto, avesse sempre saputo che Satsuki non era mai stata solo un’amica - per quanto fosse solito negare ogni insinuazione a riguardo! -, ma che non avesse mai avuto idea di come catalogare ciò che provava nei suoi confronti. Si preoccupava per lei, teneva forse più di chiunque altro alla sua felicità e al suo benessere… e forse, forse, questo anche al di là di quel limite sottile che c’è tra l’amicizia e un sentimento più tenero e profondo. Non che adesso, comunque, fosse in condizioni tanto più chiare: era la prima volta che si ritrovava a pensare certe cose, ma per la prima volta si rese anche conto che, in effetti, non gli sarebbe dispiaciuto rimanere al suo fianco in modo più concreto dal solito.

… o stava correndo troppo con le idee, si stava facendo troppe seghe mentali solo per una cosa del genere? Scosse la testa, ormai così intontito dai suoi stessi pensieri che a malapena si accorse che lo spettacolo di fuochi d’artificio era appena finito, e che Momoi si era aggrappata a lui per richiamare la sua attenzione.

- Terra chiama Dai-chan? Ehi? -

Sbatté le palpebre, tornando quasi del tutto in mezzo ai comuni mortali. Satsuki lo guardava dal basso, con aria quasi preoccupata, ma sorrise subito quando vide che Aomine era uscito da quello stato pseudo-catatonico in cui sembrava immerso.

- Hai visto che belli, Dai-chan? - esclamò, contenta - Grazie di avermi accompagnato, venire da sola sarebbe stato troppo triste! -

- Sì, uh… - quasi del tutto, perché la sua testa continuava intanto a spaziare a destra e a sinistra. Che gliene fregava dei fuochi d’artificio? Non li aveva guardati nemmeno per mezzo secondo, ma non è che poteva semplicemente dirgli una cosa del genere - o peggio, tacere completamente!

- … penso che sia bellissima. -

Certo, almeno aveva detto qualcosa. Ma non sarebbe stato meglio filtrare le proprie parole ed evitare di lasciar trasparire immediatamente ciò che stava pensando?

Sentì una vampata di calore salirgli fino al viso, e anche le guance di lei si erano colorate di un rosso vivace.

- … cioè, intendo… -

- … la serata, giusto? Trovi che la serata sia bellissima… eheh, lo è davvero… -

Non ebbe nemmeno la forza di risponderle, lasciando che distogliesse lo sguardo e facendo altrettanto. Si fregava da solo e le permetteva pure di salvargli la pelle? Quanto poteva essere idioticamente inetto coi propri sentimenti?

Sospirò, passandosi una mano dietro la testa e sbirciando, quasi intimidito, verso di lei. Vedeva ancora un rossore allegro sulle sue gote, e due occhi emozionati brillare subito sopra… aveva capito già tutto, vero? E chissà da quanto, pure, conoscendolo molto più di quanto lui conoscesse se stesso. L’unico motivo per cui l’aveva corretto è perché sapeva benissimo che non si sarebbe perdonato una dichiarazione (o presunta tale) così impulsiva e traballante, ancora non del tutto certa della propria intensità. L’aveva detto - teneva a lei più di ogni altro, e l’ultima cosa che avrebbe voluto darle era, eventualmente, una simile falsa verità.

Dio, se lei non si meritava uno scemo come lui. Sorrise impercettibilmente, guardandola ora con tenerezza: era ora che anche lui ripagasse tutta quella pazienza, e con la silenziosa, impercettibile promessa di fare chiarezza nei propri pensieri richiamò la sua attenzione, prendendola per mano mentre la accompagnava nuovamente verso casa.

 

 

Insomma, eccoci qua.

Quando ho iniziato a postare questa challenge su EFP ammetto che non mi aspettavo un eccessivo riscontro, soprattutto perché so bene che le raccolte disomogenee non sono poi così tanto attraenti.

Nonostante questo, però, non posso dire di essere infelice. Perché mi sono arrivate letture, seguiti, segni piccoli e grandi d’apprezzamento, recensioni… insomma, tutti feedback di cui un po’ egoisticamente avevo bisogno per risollevare un po’ quella volontà di scrivere che ultimamente si era affievolita. So di non aver prodotto niente di così speciale o innovativo, ma alla fine sono felice, perché ho potuto dimostrarmi che se voglio arrivare alla fine di qualcosa basta un po’ di disciplina e al proprio traguardo si arriva sempre. Anche quando questo è solo una raccolta di ventitré storielle.

Insomma, grazie davvero a tutti quelli che hanno deciso di leggere, seguire e/o recensire queste storie. Alla prossima!

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