Que sera, sera

di Keep_Running
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** 1/3 ***
Capitolo 3: *** 2/3 ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Que sera, sera


Introduzione




Ci sono storie che incominciano il primo giorno di liceo, altre nel pieno di una giornata londinese piovosa.
Altre ancora, addirittura, in mezzo ad una guerra cruenta, magari con l’amore di una bella donna in mezzo.
Posti diversi, personaggi diversi, morali diverse – bello, no?
Eppure, tutte le storie cominciano allo stesso modo: con una sensazione.
Che sia dell’ansia, un brutto presentimento, o semplicemente dell’immotivato nervosismo mattutino; tutto comincia con una sensazione.
Ebbene, vorrei poter dire la stessa cosa della mia, di storia, solo per dare un pizzico di verità alla mia strana avventura.
Ma quel dodici marzo continuava a rimanere una data estremamente patetica nella storia della terra.
Era tutto nella norma, insomma: sveglia troppo rumorosa, madre troppo ansiosa di vedere sua figlia a scuola, un fratello maggiore troppo fastidioso, e un padre troppo mancante che, alla fine, non mancava proprio a nessuno.
Certo, mamma aveva fatto i pancake ed io ero felice, ma non si può considerare una vera e propria sensazione, quella.
Era solo una conseguenza facilmente fattibile data dal mio stomaco affamato di pietanze diabetiche: niente di nuovo, insomma.
Eppure, ancora oggi, qualche domanda me la faccio: davvero non c’era niente di strano, quella mattina?
Adesso, sono quasi sicura che una cosa o due non andassero proprio secondo il naturale svolgimento delle cose, ma al tempo non mi accorsi proprio di niente.
Che stupida che ero stata.
Che cieca.
E sì, ammettiamolo: anche abbastanza sfigata.

Tutto sta in una semplice domanda: vorresti vedere il tuo futuro?






Angolo autrice
Ebbene sì, lo ammetto: ho la brutta abitudine di scrivere tutte le cagate che mi vengono in mente e di pubblicarle pure.
Alluora, questa sarà una storia breve: oltre all'introduzione, prevedo solo tre capitoli. 
Attenzione: saranno dei capitoli DAVVERO lunghi quindi preparatevi, mi raccomando.
La storia sarà increntrata appunto sull'esperienza della nostra Angie Evans, in cui mi cimenterò per la prima volta con la prima persona.
Spero che non faccia troppe schifezze e che vi piaccia, questo chiaramente è solo un piccolo assaggio di quel che sarà.
Ah, una cosa: non prendetemi troppo sul serio, sarà un'avventura da psicopatici vista dagli occhi di una psicopatica, quindi si prevedono situazioni imbarazzanti, insulti osceni, e personaggi strani.
Non odiatemi pls.
Detto questo, buona lettura :)

 

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Capitolo 2
*** 1/3 ***


Que sera, sera

1/3


When I was just a little girl,
I asked my mother
“What will I be?
Will I be pretty, will I be rich?”
Here's what she said to me
 








Erano le 7.30 del mattino. Anzi no, forse erano le 7.35: la sveglia era suonata da un po’, ma la voglia di alzarsi dal letto era davvero sotto le scarpe quella mattina – o sotto le pantofole, se vogliamo rimanere nell’universo pigiamesco in cui mi sono bloccata.
“Muoviti Angie! Devi andare a scuola!”, sentii gridare mia madre, come se le risatine schernitrici di mio fratello non bastassero.
E sì, lo sapevo che dovevo andare a scuola.
Perché era dodici marzo e il dodici marzo si va’ a scuola.
“Sai, anche io non mi alzavo di letto la mattina. Quando avevo sette anni. E la febbre a quaranta. E fuori c’erano  - 4° e…
“E ho afferrato il concetto, David, grazie
Lui, ad accogliermi la mattina c’era dalle 7.29, tanto per divertirsi a vedermi soffrire prima di scappare nella sua amata facoltà di legge.
Fratello premuroso per alcuni, pressante per altri.
Per me, nonostante la lode alla maturità e una vicina laurea incredibile in legge, rimaneva un pirla fatto e finito.
“Ma non hai un cazzo da fare, tu? – lo schernii, tanto per crearmi l’illusione di poter controllare le sue fastidiose azioni con parole dure – Perché non torni a divertirti con la tua amata Costituzione Americana?”
Ragazzi, il linguaggio!”, si sentì urlare da sotto; ma era una frase plagiata talmente tante volte che ormai non spaventava nessuno.
“Dio benedica l’America, dico io” rise lo stronzo, accompagnando la nobile frase al tipico saluto militare.
“Sei proprio un bastardo”, gli ringhiai contro.
Allora: “Ho detto il linguaggio, razza di maleducati”, urlò più forte.
E ok, forse mentivo quando dicevo che quella stupida frase non faceva più paura a nessuno.
Mio fratello doveva pensarla proprio al mio stesso modo, dato che lasciò la stanza senza aggiungere altro.
Strano.
Davvero strano.
Solitamente la grande frase finale ad effetto la diceva sempre, ed ero sicura che l’avrebbe detta ad ogni costo, anche nel mezzo di un’apocalisse.
Poi, con la sua indole da avvocato presuntuoso, doveva avere sempre l’ultima parol…
“P.s.: con i pigiami di Jessica Fletcher non troverai mai un ragazzo”
E appunto.
Aspettavo solo quella frase – così come aspettavo il mio dito medio alzato, la sua risatina, e la mamma che “muovetevi, checche”, perché proprio non aveva ancora capito cosa volesse dire davvero ‘checca’.
“Mamma, ti ho detto di non chiamarmi checca!”, sentii lamentarsi David dietro la porta.
E con il dolce suono del suo disagio da Maschio Alfa mancato, scelsi il mio outfit scolastico.
Non che ci fosse molto da scegliere, alla fine: tralasciando che metà del mio armadio era occupato da coperte invernali delle Superchicche, non ero una tipa che faceva molto caso al proprio abbigliamento.
E neanche il resto del mondo, ci faceva caso – diciamo che ero una di quelle ragazze anonime ma non troppo che non avevano ancora dato un senso alla propria vita.
E cosa potrebbe indossare una ragazza del genere?
Jeans, maglietta dei The Cure fin troppo scolorita, e delle scarpe talmente vecchie da avere la suola sfondata.
Ma ehi, era il periodo in cui la roba trasandata andava di moda, no?
Beh, la risposta era no. Ma mi piaceva credere che se i ragazzi fighi giravano per i corridoi della scuola sfoggiando con orgoglio i loro pantaloni strappati, potevo ottenere un effetto analogo con le mie scarpe sfondate.
Detto in altri termini, non avevo voglia di comprarmi delle scarpe nuove.
Che poi, era il dodici marzo – che importanza poteva avere il mio abbigliamento?
“An! Se non ti muovi ci vai a piedi, a scuola!”, cercò di minacciarmi l’Evans maschio.
Certo, casa nostra da scuola distava di circa cinque minuti a piedi ma ehi, la pigrizia è un fattore fondamentale nelle scelte della vita.
Così sbuffai, feci una smorfia davanti allo specchio, e presi il mio zaino degli Avengers.
Ora, non fraintendete: lo zaino degli Avengers era una soluzione provvisoria all’improvvisa assenza del mio vero zaino – proprio così, zaino, niente Pinko Bag  per Angie Evans.
L’inutilizzabilità del mio fidato compagno era infatti causata dal vomito verde di quella strana creatura bavosa e pelosa chiamata comunemente cane – o ‘migliore amico dell’uomo’ secondo gli stolti che popolavano il nostro pianeta.
“Tesoro fai in fretta, non puoi arrivare in ritardo a scuola”, fece apprensiva mia madre, quando la raggiunsi in cucina.
Chiaramente lei non sapeva che arrivavo sempre cinque minuti in ritardo in classe per evitare le cheerleader fastidiose, ma questa è un’altra storia.
In quel momento ero troppo occupata a fissare con astio il malvagio artefice del mio disastro sociale (ergo, lo zaino da seienne con i genitori divorziati): Kyle, il cane di David.
“La finisci di guardarlo in quel modo?”, mi riprese quest’ultimo, che proprio non aveva mai sopportato quest’odio reciproco che legava la sua amata sorellina al suo diabolico cane.
“Questo bastardo…” sussurrai, senza abbandonare la mia famosa espressione corrucciata da ‘vorrei che sparissi dal mondo’.
L’avevo dedicata a pochi esseri viventi, nella mia vita: a quel cane, al vecchio postino che frugava i miei pacchi di Amazon, e a Michael Clifford.
“Un’altra brutta parola e ti caccio da casa mia”, fece minacciosa mia madre.
E quando mi girai verso di lei con una faccia da cucciolo – altro che Kyle – persi ogni traccia di nervosismo mattutino.
L’unica e sola causa? I pancake.
Che cosa aveva regalato Dio agli uomini a parte la vita, il mondo, e gli animali fastidiosi?
La pizza, chiaramente. Ma subito dopo c’erano i pancake, quindi avevano comunque un’ottima posizione nella classifica delle cose belle del mondo.
“MAMMA!”, urlai con una gioia indescrivibile, che neanche il vincitore di American Idol.
“Figlia, continua a dire parolacce e i pancake te li metto nel…”
“Mamma!”, urlò quella volta David, con una faccia più sconvolta che altro.
Mamma sbuffò infastidita, ci lanciò uno sguardo di ghiaccio e “Basta! Voi figli siete esasperanti”, disse, uscendo di casa senza aggiungere altro.
Episodio strano, in casa nostra. Ma come ogni problema potenzialmente problematico, decidemmo tacitamente di ignorarlo.
“Pasfafmi ifl fsufcco”, mi disse il fratellone, con la bocca piena e senza nessun rimorso.
Poi si chiedeva perché fosse ancora single.
“Fai più schifo del tuo cane”, dissi disgustata, passandogli comunque il suo amato succo all’arancia.
Io ero una fan di quello alla mela, quindi la nostra unione fraterna poteva andare avanti senza particolari drammi.
Lui deglutì in fretta, strappandomi quasi la bottiglia di plastica dalle mani: “Il mio cane non fa schifo”, lo difese.
Gli lanciai un’occhiata eloquente, facendogli segno di osservare le sporche azioni del suo beniamino: lo scherzo della natura stava cercando di mangiarsi la coda, continuando a girare in tondo.
Che patetico essere.
“E’ stupido”, dissi ovvia.
“Non è stupido. Solo delle volte ha dei momenti di confusione”
“Perché ha un nome da persona”, continuai.
“Perché è un cane speciale”
“E’ l’incrocio di tipo ventitré razze diverse”
“Ha avuto un passato difficile. Lo vuoi forse condannare per questo?”
“Sei proprio un…”
E prima che potessi dire la parola con la s, così come diceva mamma, suonarono al campanello.
Per un attimo temetti che fosse proprio la mia genitrice, pronta a riprendermi per una brutta parola che non avevo neanche fatto in tempo a dire.
Ma in casa Evans, a fare la sua trionfale entrata, non fu altro che Raven.
Semplicemente Raven.
Ed in effetti ce lo dovevamo aspettare dato che le offrivamo un passaggio a scuola tutte le mattine.
“Uh, pancake”, mi salutò così, quando le aprii la porta.
Un’amicizia platonica, insomma.
Tuttavia non toccò cibo: per tenersi in forma si sottoponeva ad una vomitevole dieta di sole cose sane che mi faceva accapponare la pelle ogni volta.
“Ciao Raven”, la salutai, scuotendo la testa ormai rassegnata: quella furia esplosiva di entusiasmo e felicità non sarebbe mai cambiata.
“Ehilà, Angie!”, mi salutò allegra.
A scuola eravamo un po’ come la strana coppia: lei era l’amica felice, bella e brava a scuola; io ero l’amica.
Non che me ne fregasse qualcosa: vivevo la mia vita comunque, e stare all’ombra della mia amica mi proteggeva dal sole, suvvia.
Poi ci conoscevamo da una vita: vicine di casa fin dall’infanzia, genitori amici di famiglia… era inevitabile.
“Ciao Raven”, la salutò pure il preservativo rotto, con un sorriso.
Lei ricambiò con un sorriso, per poi gettarsi verso il cane.
Ebbene sì, ero l’unica haterdi Kyle. Avrei creato un profilo twitter per insultarlo in anonimo.
“Allora, andiamo?”, chiese poi.
“E va bene”, si arrese mio fratello, dirigendosi verso il bagno.
Io lo seguii a ruota.
Un altro particolare?
Beh, potevo considerarmi l’unica ragazza fortunata del mondo ad avere un fratello maggiore e una migliore amica che non avevano mai avuto una cotta reciproca.
Un successone, ragazzi.
Certo, ad alimentare il fuoco di questo disastro di clichè giocava anche il fattore estetico: non eravamo esattamente una bella famiglia.
Ma eravamo intelligenti, almeno: l’avevamo capito fin dalla prima infanzia, quando i nostri parenti al posto di farci i complimenti per i vestitini nuovi ci fissavano con un sorrisino tirato e dicevano ‘Siete simpatici, nipotini!’.
Ed eravamo veramente simpatici, solo che nessuno ci credeva davvero.
“Passami il dentifricio”, interruppe i miei pensieri il ragazzo.
“Ma prenditelo da solo”, ero nel pieno della mia pulizia dentale, non avrei interrotto quel momento idilliaco per un suo stupido capriccio.
“Ma tu sei più vicina”
“E’ un bagno di due metri quadri. Tutto è vicino a tutto”
“Sì ma tu di più”
“Ma quanti anni hai?”, mi lamentai scioccata.
“Più di te, sfigata”
“Aggressione verbale, risarcimento psicologico”
“Convivenza forzata, sequestro di persona. Tre anni di prigione”
“Lamentati con mamma, per quello”
“Sei la sorella peggiore del mondo. Vuoi davvero sfidare un avvocato?”
“Grande avvocato, vuole per caso ricordarmi quanto ci ha impiegato ad imparare a pisciare nel water?”
“Sei femmina, non puoi capire i disagi di prendere bene la mira”, si lamentò, sofferente.
“EVANS! MUOVETEVI!”, ci spronò l’intrusa della casa, più nervosa del solito.
Quella ragazza era più lunatica di una donna incinta.
“E va bene!”, mi lamentai.
Lanciai distrattamente il famoso dentifricio a mio fratello, per poi raggiungere la mia amica bionda.
Ed era nervosa davvero, Raven.
Tanto nervosa da farmi sospettare una possibile ragione particolare.
“Ti devo parlare”, ne ebbi la conferma.
Che mi volesse lasciare?
No, impossibile. Passava metà della sua vita a mandarmi video di gattini che giocavano a palla, non avrebbe più avuto niente da fare nella sua vita ipotizzando una mia imminente assenza.
“Spara”, dissi più tranquilla a causa della recente consapevolezza.
No, non mi poteva rimpiazzare.
“Sto arrivando!”, nessuno calcolò David.
“Ecco… io…”, giocava con il suo braccialetto rosa.
E quando giocava con il suo braccialetto rosa significava che aveva fatto qualcosa di sbagliato.
Non che quel particolare nascondesse rivelazioni shock: per lei era una vergogna anche mettere le calze di colore diverso – quasi piangeva la volta che me l’aveva confessato, nei bagni della scuola.
“Sono arrivato!”, continuammo ad ignorarlo.
“Io… oddio, è difficile da dire”
“Dillo e basta”
Insensibile? Forse, ma lei lo sapeva, eppure continuava ad essermi amica.
“Io esisto”
“Zitto David”, dicemmo insieme, senza neanche guardarlo.
“Stupide ragazze”
E proprio mentre stavo per rivendicare la mia anima femminista con qualche citazione coraggiosa, l’uomo di casa ci trascinò fuori con la forza.
Che poi, forza; non era chissà quale sollevatore di pesi massimi.
Aveva le braccia più inutili di due stuzzicadenti, degli addominali che ogni tanto mandavano delle cartoline dalle Hawaii e i quadricipiti che avevano lasciato la casa per divergenze artistiche.
Ma io e Raven eravamo persino peggio di lui.
“Maiale”
“Manesco”
“Non si trattano così le donne”
“La delicatezza l’hai venduta su ebay per comprarti lo shampoo anti-forfora?”
“Wow, calmatevi tigri”, ci sgridò bonariamente.
Tuttavia ci diede le spalle, ma solo per nascondere il fiatone: era un pappamolle, niente da fare.
Entrammo in macchina solo per non fargli venire un infarto in vista di un futuro sforzo fisico.
“Stavi dicendo?”, mi rivolsi alla bionda, che ancora non aveva rivelato la sporca verità.
“Di che cosa state parlando?”, chiese curioso l’autista.
Io sbuffai e “Tu fatti i cazzi tuoi”
“Ok, te lo devo proprio dire”
Raven prese un respiro profondo, mentre sia io che David continuavamo a guardarla curiosi.
Fortunatamente il mio fratello genio lanciava anche uno sguardo alla strada, ogni tanto.
Così, giusto per non morire prematuramente.
“Stasera esco con Michael Clifford”
e l’avete presente quando l’unica cosa bella della vostra vita se ne va?
Ecco, io non provai quello.
Ma avevo l’orribile sensazione che quella cosa bella sarebbe stata rovinata.
Ci fu un primo momento di sorpresa.
Subito seguito dalla rabbia, poi dal panico, e infine dalla confusione.
Una domanda sorse spontanea nella mia testa: ‘Che cazzo sta succedendo?’
Poi mi ripresi un attimo, e la rabbia tornò.
“Michael Clifford? Sul serio?”, quasi le urlai contro, dimenticandomi per un momento la fragilità emotiva della mia amica.
“Oh mio Dio! Michael Clifford?!”, mi fece il verso l’Evans stupido.
“Ecco sì, mi ha chiesto di uscire e io…”
“E tu hai deciso di far finta che non abbia una faccia da stupratore?”, chiesi ovvia.
Mio fratello intanto, dai sedili anteriori, continuava a ridacchiare.
“Solo perché ha i capelli blu non significa che è uno stupratore” sussurrò Raven, cercando di farsi più piccola possibile.
Mi temeva, in quel momento.
E per quanto mi sentissi potente al pensiero che qualcuno potesse aver davvero paura di me, era pur sempre la mia migliore amica – e la mia migliore amica non poteva aver paura di me.
Così mi calmai e “I capelli sono l’ultima cosa che lo rendono un possibile stupratore”, dissi una cazzata.
“Lo dici solo perché lo odi”
Certo, lo odiavo.
Ma il mio parere era assolutamente, puramente, completamente oggettivo.
E seh, certo.
“E’ la troia della scuola!” dissi ovvia.
“Ma non è maschio?”, chiese confuso il ragazzo.
“Oh, stai zitto – mi lamentai, nuovamente – rimane la troia della scuola”
“Ma voglio dargli una possibilità”, disse più sicura.
E allora che altro potevo aggiungere, io?
Non erano affari miei, alla fine.
Certo, la mia migliore amica che usciva con i mio peggior nemico non era una rosea prospettiva, ma alla fine cosa potevo farci?
Era una ragazza intelligente: non si sarebbe fatta abbindolare da quel bel faccino, e quel cazzone di Michael Clifford si sarebbe arreso in fretta.
Nessun si sarebbe fatto male, no?
“Va bene”, diedi voce ai miei pensieri.
“Va bene davvero?”, e non capivo il luccichio dei suoi occhi.
Aveva davvero bisogno del mio permesso?
“Certo, basta che stia attenta”, le sorrisi, intenerita dalla sua preoccupazione nei miei confronti.
Lei rise gioiosa, per poi abbracciarmi forte.
Ah, l’amicizia.
“Ora che avete raggiunto il momento top della vostra amicizia, potete uscire di casa il sabato sera ed evitare i pigiama party a casa nostra?”
“No”, risposi secca a mio fratello.
“Veramente, non ho ancora finito”, ci sorprese Raven.
Aveva davvero un’altra bomba?
Non poteva essere peggio della prima.
Eppure, sembrava persino più nervosa di poco prima.
“Eco… io…”
“Oh no, adesso ricomincia”
“Ti vuoi tappare la bocca?!”
Lui mi fece una linguaccia, ma alla fine ubbidì.
Che fratello di merda che avevo.
“Non voglio andare all’appuntamento da sola”, sputò fuori, ancora timorosa.
E ok, non sarò stata una cima di ragazza, ma capii subito cosa intendesse.
Inutile dire che mi si gelò il sangue.
Come potevo mandare a fanculo l’unica persona che mi stava sempre vicino?
Non volevo morire accompagnata solo dalle lacrime di mio fratello: sarebbe stato imbarazzante.
Sicuramente, poi, l’avrebbe fatto lui il discorso sulla me defunta: quante cazzate avrebbe detto?
No, non potevo perdere la mia unica amica.
Ma Michael Clifford ne valeva davvero la pena?
“No”, risposi a voce alta.
“No cosa?”, chiese l’homo erectus della situazione.
“Ti prego”, mi supplicò la bionda, quasi con le lacrime agli occhi.
Ma non mi faceva pena, non quella volta.
Quando si trattava di Michael Clifford non guardavo in faccia nessuno.
“Lasciami elencare le cose brutte del mondo…”, cominciai.
“Oh no, ancora…”
“Ancora cosa?”, mi rivolsi infastidita a David.
“Ti metti ad elencare le cose brutte del mondo ogni tre secondi”, si lamentò lui.
“E ogni volta dici cose diverse”, gli diede man forte Raven.
E fu nel momento in cui si allearono contro di me che mi sentii pienamente tradita.
Cosa stava succedendo al mondo?
“Allora sarete ben lieti di sentire la classifica ufficiale”
I loro sbuffi mi fecero credere che non ne erano affatto entusiasti, ma non mi fermarono di certo.
“Al primo posto troviamo Kyle”
“Stronzetta”
“Zitto. Al secondo posto troviamo Michael Clifford”
“Prevedibile”
“Zitta pure tu. E al terzo posto cosa troviamo?”
“Illuminaci”, mi derise il sangue del mio sangue.
“Gli appuntamenti a quattro”, dissi secca.
Ormai la macchina era ferma davanti alla scuola, ed eravamo pure in orario.
Ma nessuno si azzardava ad uscire.
“Ma andiamo!”, si lamentò lei.
“No”
“Mi vergogno ad andarci da sola”, continuò disperata.
Mi stava quasi per convincere, lo ammetto: se c’era una cosa che odiavo, era infatti vedere la mia migliore amica in quelle condizioni.
Ma… Michael Clifford, insomma.
“Previsioni della serata: io picchio Michael, lui picchia me, tu piangi. Assolutamente no”
“Michael non alzerebbe mai le mani su una ragazza”, lo difese lei, calmandosi per un secondo.
Con un gesto rapido della mano di asciugò una lacrima.
Tutto quel casino per un coglione tinto.
“Rettifico: Io picchio Michael, lui muore, tu piangi. Preferisci?”
“Sei un mostro”, sputò fuori lei.
Lo ammetto: non mi fece nessun effetto. Sapevo che non lo pensava assolutamente, era troppo buona e mi voleva troppo bene.
Ed io ero troppo menefreghista.
Così, corsi via dalla macchina, cercando di evitare quella pazza ragazza.
La prima ed ultima volta nella mia intera vita in cui corsi per raggiungere la scuola.
Com’è strana la vita, eh?
E prima di allontanarmi definitivamente, un ultimo sussurro confuso:
“Ma chi cazzo è Michael Clifford?”
 
***
 
 
Era la pausa pranzo, ma era anche giovedì.
E il giovedì, come ogni settimana, Raven si fermava con i suoi ‘colleghi’ – come li chiamava lei – del club di canto corale. ‘Se non pranzo con loro, durante i concerti mi metteranno dietro il pianoforte!’, continuava a dire.
Inutile dire che le sue preoccupazioni fossero tutte infondate: era l’unica gnocca in un branco di sfigati cessi, la sfoggiavano al centro del coro solo per distrarre il pubblico dalle loro brutte facce.
Ingegnoso, lo devo ammettere.
Tuttavia, per quanto mangiare in solitudine fosse vista come la peste sociale per i miei coetanei, a me non dispiaceva più di tanto – ci volevano dei momenti romantici, solo io e il cibo spazzatura che spacciavo per pranzo.
Poi ammettiamolo: delle volte quella ragazza, con i suoi drammi da teenager ossessiva, era proprio una rottura. Il silenzio, in quella giornata, era stata una meta piuttosto agognata.
Silenzio, patatine fritte (pranzo ragazzi, pranzo), e nessuna conversazione imbarazzante su Michael Clifford.
Cosa potevo desiderare di più?
Che il fato non mi prendesse per il culo, per esempio.
Perché proprio in quel momento una testa esageratamente blu mi si parò davanti.
Michael Clifford non si era mai seduto a mensa insieme a me, e mai l’avrebbe fatto.
La prima domanda che mi posi, ancora con la bocca spalancata, fu qualcosa come ‘Che cazzo sta succedendo?’. La seconda volta in una sola giornata, che bingo.
Già, ero sempre stata una ragazza piuttosto confusa.
Chiusi la bocca, e protessi il mio cibo con il braccio sinistro.
Successivamente assottigliai lo sguardo, ricambiando senza esitazione quello ghiacciato di lui.
Era incazzato, e anche molto.
Ma ehi, era pur sempre un tizio con i capelli fottutamente blu, chi sarebbe riuscito a prenderlo sul serio?
Evans” grugnì infastidito, come se poi fossi andata io nel suo tavolo.
“Ehilà, Angie”, disse invece allegro l’amico biondo al suo fianco.
Luke Hemmings prese subito posto davanti a me, senza abbandonare il suo sorriso.
Ero talmente impegnata a tentare di bruciare con la forza del pensiero gli orribili capelli di Clifford che non mi accorsi neanche del suo arrivo.
Ma quando lo feci, non riuscii a fare a meno di ricambiare il suo sorriso gentile.
“Ciao Luke”, gli feci un cenno della mano.
Come poteva un angelo come Luke Hemmings essere amico di una schifezza vivente come Michael Clifford, proprio non lo capivo. L’amicizia che li legava, tuttavia, era un po’ quella di cui gli scrittori solitari amavano parlare nell’intimità dei loro libri: c’erano sempre l’uno per l’altro, passavano la metà del loro tempo a ridere, amici fin dalla prima infanzia e con una lista di cazzate fatte insieme più lunga della lista della spesa che preparavano, insieme.
Ero gelosa? No, io avevo Raven.
Ma Ok, forse solo un pochino.
“Non so, volete del thè per chiacchierare meglio voi due?” sputò velenosa la piattola.
Dire che Clifford odiasse la mia amicizia con il biondo era un eufemismo.
Dire che io invece crogiolassi nella gioia ogni qualvolta scherzassi col biondo in sua presenza, era un eufemismo persino peggiore.
“Rilassati, amico”
Luke mise un braccio sulle spalle di Michael, come a volerlo consolare.
Lui, allora, riprese a fissarmi con odio puro.
Non che fosse una novità, ma quella volta non aggiunse nessuna battutina derisoria.
Il suo silenzio gelido mi fece uno strano effetto, lo ammetto: mai, e dico mai, mi ero sentita a disagio di fronte a quegli occhi chiari.
Eppure, quella volta, per poco non abbassai lo sguardo.
Che l’avessi combinata davvero grossa.
“Ancora quello zaino di merda, Evans?”
Feci un sospiro sollevato, dentro di me: non era cambiato niente.
“Ancora quella faccia di merda, Clifford?”, risposi a tono, nuovamente divertita.
“Se continui a mangiare patatine, ingrasserai”
“E sarei comunque più bella di te”, sorrisi bastarda.
Lui ricambiò e “Aspetta che lo chiedo al tuo ex ragazzo… ops, non esiste”
E proprio quando stavo per spruzzargli una generosa dose di Ketchup nei suoi stupidi occhi, la voce di Luke attirò la nostra attenzione.
Con la calma che da sempre lo caratterizzava, parlò: “Angie, Mike ti deve chiedere una cosa”
Michael annuì, riprendendo la sua espressione incazzata che con la voce del biondo si era allontanata.
“Tu uscirai con noi stasera” decretò.
E cosa fare quando Michael Clifford cercava di vestire le parti di un cattivo ragazzo?
Ridere, chiaramente.
E fu esattamente ciò che feci, talmente forte da attirare l’attenzione anche di qualche studente dei tavoli vicini.
“Sul serio – dissi dopo poco, tra le risate – non è riuscita a convincermi Raven, e pensi che con i tuoi modi del cazzo otterrai qualcosa. Ma vattene, per favore”
Pronunciai le ultime parole con una secchezza nella voce di cui mi sorprendo ancora.
Tutti, assolutamente tutte le persone in questa terra, a quel punto se ne sarebbero andate.
Tutti, tranne Michael Clifford, che poteva essere uno stronzo, un puttaniere, un rompipalle, e tante altre cose; ma rimaneva sempre il solo ed unico che mi tenesse testa.
Era anche la mia unica grande costante, nella vita: potevo non sapere cosa mangiare a colazione, di cosa avrei parlato con Raven, potevo addirittura non sapere che materia avessi alla prima ora.
Ma la mattina, appena mi svegliavo, di una cosa ero certa: che avrei insultato Michael Clifford, e che lui avrebbe insultato me.
E persino in quelle condizioni, lui non si arrese.
“Non me ne frega niente dei tentativi altrui, sai che tanto se io dico così, tu stasera ci vieni al Luna park”
E lì sì, sì cazzo, mi incazzai sul serio.
“Ma chi diavolo ti credi di essere, eh? E poi il Luna Park, Clifford, seriamente?
Assunse uno sguardo piccato e “Cos’hai contro i Luna Park?”, fece stizzito.
Gli insulti verso la sua scelta stilistica lo stuzzicavano più di ogni altra cosa.
“Non so, è solo il più grande clichè di tutti i tempi – feci indifferente, perdendo gran parte della rabbia – non ti facevo un bravo ragazzo, sai?”
Toccai il famoso tasto dolente, o tallone d’Achille, se vogliamo essere più poetici.
“E non lo sono!”, trillò, con una voce da ragazzina.
Gli lanciai un’occhiata eloquente, prendendo una patatine e mangiandola sotto il suo sguardo infuocato.
“Senti Evans, ti dico come si svolgeranno le cose – prese un grande respiro, intrappolando in un angolo remoto del suo corpo ogni emozione: faceva quasi paura – Andremo al Luna Park tutti insieme, io uscirò con Raven e tu con Ashton Irwin. Io mi farò i cazzi miei e tu i tuoi. Domani, sarà tutto come prima. Chiaro?”
Ashton Irwin.
Mi focalizzai solo su quelle due parole.
Ashton Irwin.
Ashton Irwin, davvero?
Sarebbe stato lui il mio appuntamento?
Feci mente locale, cercando di associare il nome ad un volto noto.
Cercai disperatamente nei meandri della mia mente, ma niente, niente.
Di Ashton Irwin, ce n’era solo uno.
E diavolo, non poteva essere lui il mio appuntamento.
“Ashton Irwin, quello sfigato?!”, sbottai incredula, lasciando definitivamente perdere le mie patatine.
“Non parlare del tuo fidanzatino così” ghignò felice della mia reazione infastidita, conquistando nuovamente il suo dannato sorrisetto bastardo.
“Quello là ancora piange per la rottura con Heaven. E si sono lasciati da tre fottuti anni!” mi lamentai, ancora incredula dalla sporca rivelazione.
“Ha bisogno di distrazioni”, lo giustificò, con una scrollata di spalle.
“Non me ne frega niente!”
“Chiodo schiaccia chiodo, no?”
“La segue a casa sua tutti i pomeriggi, dopo scuola – cercai di farlo ragionare, ancora scioccata – quel ragazzo è uno stalker, Clifford!”, ci mancava poco che urlassi a squarciagola.
“Non è poi così male”
“C’è una denuncia per molestie nel futuro di Ashton Irwin, te lo dico io”, sbottai.
Quella volta non mi trattenni ancora: mi alzai di scatto, facendo quasi cadere la sedia.
Le mie amate patatine erano finite nel dimenticatoio da un pezzo, insieme al loro collega biondo Luke Hemmings.
C’eravamo solo io e la stupidità di Michael Clifford.
“Non me ne frega niente”, digrignò i denti lui, imitando la mia posa.
“A me sì”
“Ma che peccato, oggi non sei tu a decidere”
“E sarai tu a decidere per me? Ma ritirati, Clifford”
I nostri volti erano più vicini di quanto non lo fossero mai stati in quei quattro anni di liceo.
I nostri occhi non si azzardavano a cambiare direzione, e sentivo chiaramente il suo respiro irregolare sul mio naso.
Anche io respiravo in modo irregolare, quasi come se avessi fatto una corsa ad ostacoli.
Le cause, però, erano del tutto differenti: perché la sua vicinanza di faceva quell’effetto?
Da quella distanza riuscivo pure a sentire il suo profumo, fresco, muschio bianco probabilmente.
Quattro anni di insulti e mai, mai, avevo sentito il suo profumo.
Né tantomeno avevo scorto così tante sfumature di verde nei suoi occhi.
Era possibile avere degli occhi del genere?
Occhi che, per quanto belli potessero essere, avevano sempre un velo di vuoto e stronzaggine.
O almeno, quando guardavano me.
E fu esattamente quello a ricordarmi che il ragazzo di fronte a me rimaneva sempre Michael Clifford.
La viscida persona che era Michael Clifford.
“Sarò più chiaro, questa volta – parlò finalmente lui, sussurrando. Riuscii a sentire pure il suo alito, a quel punto. Menta? Sì, decisamente menta – Ti metterai uno straccetto decente, qualcosa meglio delle solite merdate in pratica. Alle otto in punto tu sarai pronta e io busserò alla porta. Uscirai subito: non mi farai aspettare. Poi entrerai nella mia macchina e non fiaterai, capito. Non fiaterai
E no, non fiatai sul serio.
Ma le mie ghiandole salivarie mi stavano supplicando di sputargli in un occhio.
Nessuno aveva mai osato rivolgersi a me in quel modo, nessuno aveva mai osato avvicinarsi così tanto a me per parlarmi.
“Non sono la tua puttanella del giorno, Clifford. Non osare dire a me queste puttanate. Posso rovinarti la vita e lo sai”, sibilai, presa da un moto di odio puro.
Fu lì che raggiunsi l’apice del mio odio per quel ragazzo.
Ci furono degli attimi di silenzio, rotti solo dai nostri respiri forti.
Eravamo ancora troppo vicini.
“A stasera, Angie”
Si allontanò di scatto, rompendo finalmente il legame dei nostri occhi.
Non disse altro, così come me.
“Scusalo – sussurrò d’un tratto Luke Hemmings, con uno sguardo davvero mortificato – E’ che ci tiene sul serio. Se non ti fidi di lui, fidati di me. Vai stasera, ti prego”, implorò quasi.
Non risposi.
Mi allontanai nella direzione opposta.



 
***
 
 


“Guarda guarda! Ora partorisce”, trillò David, proprio come un bambino.
Gli lanciai un’occhiata di sbieco senza dire niente, continuando a mangiare i pop-corn che avevo preparato.
“Oddio che bello! Sono tantissimi!”, continuò gioioso.
Se c’era un canale di cui la famiglia Evans non poteva fare a meno, quello era National Geographic.
Ergo, il canale più irritante e schifoso di tutti i tempi.
Certo, era una fonte inestimabile di sapere e saggezza, ma la riproduzione delle mosche non era una di quelle cose di cui mi piaceva parlare.
Né tantomeno guardare.
“Disgustoso”, espressi i miei pensieri.
Il ragazzo al mio fianco sbuffò, rubandomi il cibo, infastidito.
“Non capisci niente”
“Sei talmente sessualmente represso che ti diverti a vedere le mosche copulare”, lo accusai.
“Tu sei talmente sessualmente repressa da accusare gli altri di essere sessualmente repressi per nascondere il fatto che tu sia sessualmente repressa”, rispose.
I nostri sguardi la dissero tutta: la battaglia era appena cominciata.
“E tu sei talmente sessualmente represso da accusare gli altri di essere sessualmente repressi per nascondere il fatto che il fatto che tu sia sessualmente represso ti spinge a guardare documentari di mosche che copulano!”, gridai, alzandomi dal divano vittoriosa.
Lui mi imitò, pronto a combattere, mettendosi esattamente di fronte a me.
Evans maschio contro Evans femmina: uno scontro fra titani.
“E tu sei talmente sessualmente repressa che ti metti a dire cavolate sul fatto che io sia sessualmente represso perché sei gelosa che il fatto che io sia sess… - ah basta, sei stupida!”, urlò allora.
“E tu sei fastidioso!”
“La metti così? Beh, allora tu sei grassa”
“Se io sono grassa tu sei molto grasso”
“Wow, non troppo cattiva”
“Mi vuoi vedere cattiva eh? Beh allora…”
La minaccia che non avevo ancora progettato venne interrotta dal campanello.
Drinn-drinn!
Sì, eravamo una di quelle famiglie col suono del campanello felice: così anni novanta.
Drinn-drinn, drinn-drinn!, ancora.
La mamma non poteva essere: aveva il turno di notte, come ogni giovedì, e non si sarebbe mossa dalla caserma per niente al mondo.
Una tetra consapevolezza si impossessò del mio corpo: Michael Clifford.
Non posso mentire: sapevo che sarebbe passato.
Non ne dubitai neanche per un secondo; eppure, durante quella serata, sperai più volte che non venisse a bussare alla mia porta. Anche una sua morte imminente poteva andare bene, bastava che io potessi rimanere del dolce tepore della mia casetta.
Ma il fato aveva altri progetti per me.
“Aspetti qualcuno?”, mi chiese David confuso.
Era anche un po’ irritato: odiava quando interrompevano un nostro litigio.
‘E’ l’unico modo che ho per scaricare la rabbia repressa in aula!’, diceva sempre.
E ogni volta mi convincevo sempre più che fosse uno sfigato completo.
“Allora? Sai chi è alla porta?”, mi ridestò dai pensieri.
Io sbuffai e “Sì. Sì, lo so”, risposi seccata.
“Allora vai ad aprire, no?”
Fosse stato così semplice…
“No… non credo lo farò”, dissi vaga.
“Chi è alla porta, Angie?”
Era curioso, David, con quei suoi occhietti vispi e il sorrisetto furbo.
Proprio come me.
“E’ Michael Clifford”, sospirai allora.
Lui mi fissò per un momento, cercando di ricordare dove avesse già sentito quel nome.
Dopo interminabili secondi in cui fissò il vuoto come in catalessi, fece un grosso sospiro illuminato: aveva capito.
Così scoppiò a ridere, senza ritegno.
E le sue risate non fecero altro che stuzzicare il mio animo nervoso: ripeto, che merda di fratello.
“Stai dicendo che il tizio che odi è qui fuori?”
“Esatto”, confermai.
“Wow, Raven questa volta ha tirato gli artigli”, ridacchiò.
Certo, lui non lo sapeva: lui non sapeva che Raven non centrava proprio niente, che era tutta opera di quel ficcanaso di Clifford, che tutti i mali del mondo erano causati da lui – l’ultima affermazioni ha origini non documentate, lo consideravo un dogma.
“Nessun commento”
“EVANS, EVANS APRI!”, urlò Clifford da dietro la porta, ignorando le buone maniere da quiete pubblica.
E cavolo, che polmoni. Da dove avesse tirato tutta quella voce, non lo sapevo proprio.
“Sembra urgente”, mi fece David, fissandomi sorridente.
Era chiaro: voleva che gli lasciassi casa libera, ma mai nella vita.
“Non mi importa”, dissi secca.
Improvvisamente la riproduzione della mosca divenne davvero interessante.
“CAZZO EVANS! APRI QUESTA FOTTUTA PORTA”
“Non demorde, eh?”, rise ancora.
“Guarda, la madre sta f…”
“EVANS! GIURO CHE DO’ A FUOCO IL TUO STUPIDO CANE SE NON TI MUOVI!”
Ma fai pure, gli avrei tanto voluto dire.
“Sapevi che le mosche sono alla posizione numero c…”
“Cinque nelle cose che odi di più al mondo? Sì, Angie, lo sapevo”
L’essere prevedibile mi fece abbassare a testa, sconfitta.
“EVANS ORA SFONDO LA PORTA E TI UCCIDO”
“Arrivo!”
Successe tutto nel giro di pochi secondi: prima che mi potessi anche solo accorgere di un suo movimento, David si catapultò verso la porta d’ingresso, spalancandola immediatamente.
“No!” urlai teatrale, facendo cadere tutti i pop-corn per terra dallo spavento – una slow-motion ci sarebbe stata davvero bene.
Michael Clifford, con un paio di jeans finalmente intatti e una giacca quasi decente, mi fissò con astio.
Prima guardò confuso l’Evans maschio, poi mi fissò con astio.
“Quindi tu sei Michael Clifford! – fece allegro mio fratello – sai che mia sorella ti odia?”, continuò, lasciandosi andare all’ennesima risata.
Clifford abbandonò un attimo la mai figura, fissandosi su quella di David: lo guardò curioso “Sì, lo sospettavo”, ridacchiò anche lui.
Il terribile presentimento che quei due potessero fare amicizia mi colpì in pieno, come un treno in corsa.
David gli avrebbe potuto dire tante di quelle cose imbarazzanti sul mio conto che avrei dovuto cambiare città, come minimo. Anche paese, forse. Ecco, cambiando mondo sarebbe stato perfetto.
E la terrificante immagine di un Michael Clifford nuovamente a casa mia – magari anche invitato a cena da mia madre, come spesso faceva con gli amici di David – mi fece muovere.
Strattonai il ragazzo per un braccio, fuori da casa mia, per poi chiudere con forza la porta: Michael Clifford non sarebbe entrato mai più a casa mia.
“Ah, ti sei decisa vedo”, fece lui, con uno sguardo di sfida.
E dopo un documentario sulle mosche io, di sfidarlo, non ne avevo proprio voglia.
“Senti piattola, andiamo e basta”
Diede una veloce occhiata al mio abbigliamento e “Certo che sei proprio cessa”, sbottò velenoso.
“Fortuna che devi uscire con Raven e non con me, allora”
“Già, fortuna”, disse. Mi lanciò uno sguardo indecifrabile, ma decisi di non farci caso.
Avevo sempre pensato che il Michael Clifford criptico non valesse la pena di essere scoperto.
“Entra in macchina”, mi ordinò poi.
Era più pulita e splendente degli altri giorni – aveva davvero fatto tutto quello per la mia amica?
Ubbidii, senza polemizzare oltre: tra urla, battibecchi e risate fastidiose eravamo in ritardo di mezz’ora.
“Ce ne hai messo di tempo”
Ashton, al mio fianco, si rivolse a Michael. Non mi salutò, non mi parlò, non mi guardò neanche.
Mi presi un po’ di tempo per osservarlo da vicino, ed ebbi la conferma di ogni voce di corridoio circolata su di lui: era davvero un depresso cronico.
Un’aria triste e disperata aleggiava nei suoi occhi, e la sua espressione da cane bastonato perenne rendeva le sue emozioni ancora più palesi.
Ma chi cazzo mi ritrovavo a fianco.
“E’ colpa sua”, mi accusò lui.
Non dissi niente: era troppo stupido persino per litigarci, in quel momento.
“Ciao An”, fece invece timorosa Raven. Indossava il suo abito preferito, lei, quello azzurro con il corpetto stretto, che metteva in risalto i suoi occhi.
Decisi di non risponderle, e Michael partì.
 


“Allora… dove andiamo di bello?”
Il sorriso di Raven cercava disperatamente di alleggerire l’aria pesante in quell’auto.
Dopo solo dieci minuti di viaggio, eravamo davvero in una situazione di merda.
Io non facevo altro che fissare il paesaggio dal finestrino, Ashton continuava a guardare la foto di Heaven che conservava nel portafoglio, e lei cercava di farci sembrare un gruppo di amici normale.
Lo stronzo, invece, non faceva altro che sorridere vittorioso.
“E’ una sorpresa”, disse, con tono dolce.
E il tono dolce usato da Michael Clifford non faceva che renderlo ancora più patetico.
“Al Luna Park”, svelai, tanto per prendermi una piccola rivincita.
“Lurida stronz…”
“Fantastico! Adoro il Luna Park”, lo interruppe lei.
“Heaven amava i Luna Park”, sussurrò invece Ashton.
Lo guardai infastidita, cercando di trovare una persona al mondo più patetica di lui.
Non ci riuscii.
“Cosa c’è al Luna Park?”, chiese facendo la finta ingenua la mia amica, schiarendosi la voce a disagio: persino lei non apprezzava Ashton, lo sapevo.
Ma che domanda stupida.
Eppure, Clifford le sorrise calorosamente.
“Ci sono le montagne russe, la macchinetta per lo zucchero filato, il tiro a bersaglio… e c’è pure Calum Hood”
“Chi è Calum Hood?”, disse curiosa lei, trepidante.
Come se un tizio in un Luna Park potesse essere davvero interessante.
“Heaven adorava lo zucchero filato”
Ebbi la malsana voglia di picchiarlo.
Ma le parole di Michael attirarono anche la mia attenzione: “E’ un sensitivo: ti fa vedere il tuo futuro”
E Madonna che minchiata, mi dissi.
Non mi presi neanche la briga di ridere: quelle cavolate non valevano un solo mio sospiro.
“Davvero?!”, fece sorpresa lei.
Perché quella sera stavo odiando la mia migliore amica?
“E’ un sensitivo maschio?”, chiesi invece io, confusa.
Certo, non che fosse quella la parte interessante della cosa, ma andiamo: un sensitivo maschio.
Pensavo che solo le ragazze con le tette grandi potessero fare affari nel mondo dell’imbroglio.
Il mondo stava andando ufficialmente a puttane.
“Sì”, confermò lui, lanciandomi una strana occhiata.
L’ennesima della serata, per la precisione. Quel ragazzo non me la raccontava giusta.
“Heaven adorava le sensitive”, sbuffai, ma decisi di ignorare il mio pseudo-accompagnatore ancora una volta; alla faccia del ‘chiodo schiaccia chiodo’.
“E funziona davvero?”, era incantata dalle parole del ragazzo, come una bambina.
“Non lo so, non ci ho mai provato”, rise lui.
“Heaven l’avrebbe fatto di sicuro. Adorava provare cose nuove”
Mi girai di scatto verso quell’aborto di uomo di un Ashton Irwin, lanciandogli un’occhiata d’odio.
“Heaven adorava un sacco di cose, eh?” cominciai.
Lui annuì, “Sai che cosa non adorava?”
Quella volta scosse la testa.
Te. Non adorava te. Questo perché sei l’essere più scassapalle che abbia mai solcato questo pianeta!”, urlai, al limite della pazienza.
Le amebe come lui mi facevano uscire fuori di testa, non ci potevo fare niente.
“Sono cambiato per lei! Ora sono un uomo migliore, quando lo vedrà…”
Gli diedi un cazzotto forte sul braccio “Ma quale uomo migliore”
“Sei manesca!”, mi accusò, quasi con le lacrime agli occhi.
“E scommetto che Heaven non era manesca, eh?”
Lui annuì, “Dovresti imparare da lei”, continuò.
“E ritrovarmi uno psicopatico che mi segue come te? No grazie”
“Io non sono un…”
“Sì sì, dicono tutti così”, lo liquidai in fretta, con un gesto della mano.
Ero stizzita: da quella situazione del cavolo, dall’ingenuità della mia amica, dai sorrisi di Michael Clifford e da… tutto di Ashton Irwin.
Nessuno osò parlare per il resto del viaggio, ma lo vedevo che Michael cercava di non ridere.
E io, intanto, pensavo all’ennesimo sfigato che avrei incontrato nel mio cammino:
Calum Hood, il primo sensitivo maschio della storia.


 
***
 
 
I piccioncini si erano allontanati da soli, lasciando la triste coppia che eravamo io ed Ashton da soli.
Erano andati sulla ruota panoramica – come se poi ci fosse un panorama da vedere, in quella città del cavolo.
Inutile dire che era stata la serata più brutta di tutti i tempi.
Metà della serata l’avevo passata con le lamentele di Ashton, perché Clifford cerava di recitare al meglio la parte da ragazzino innamorato; l’altra metà, invece, l’avevamo passata ad insultarci come sempre.
E ahimè, dovevo ammettere che i momenti migliori li avevo passati quando dicevo una battuta particolarmente offensiva, e quando lui mi guardava sbigottito.
“Conosci Brittany?”, mi chiese Ashton.
Lui non ci voleva andare, sulla ruota panoramica: diceva che era troppo romantico e andandoci insieme a me avrebbe tradito Heaven.
Beh, meglio così.
“No, non la conosco”
E io conoscevo un centinaio di Brittany, ma non volevo affatto intraprendere una conversazione con lui.
“Brittany era la migliore amica di Heaven. Mi adorava”
“Ma non mi dire”
Annuì felice “Sai che ti dico? Ora la chiamo e cerco di convincerla a darmi il numero di Heaven!”
Non so se fu per il suo tono, o direttamente per le parole usate, ma in quel momento mi sembrò a dir poco inquietante.
Ne ero certa: stavo uscendo con un fottuto stalker.
Mi vennero i brividi.
“Vai pure”, feci una sorta di sorriso che in teoria doveva convincerlo ad allontanarsi da me, ma che in pratica lo spaventò ulteriormente.
In un modo o nell’altro ero rimasta sola, e la cosa mi appagava più del lecito.
Non che vagare come un’anima in pena in un Luna Park trasandato fosse nei miei piani, ma era meglio del resto della serata.
Non avevo abbastanza soldi per prendermi lo zucchero filato, ma ne avrei rubato un po’a Raven, appena scesa dalla ruota.
Lei, non mi aveva ancora rivolto la parola.
Il senso di colpa che nutriva nei miei confronti era davvero palese, e la mia brutta faccia ogni qualvolta incrociassi per sbaglio il suo sguardo la diceva lunga sui miei sentimenti.
Se devo essere sincera, non mi pentivo del mio atteggiamento.
Mi aveva costretta – anche se alla fin fine era stata tutta colpa di Michael Clifford – a partecipare ad una stupida serata con della stupida gente.
Poi Ashton Irwin era persino peggio di quello che si diceva in giro.
Forse era per il fatto che i miei occhi privi di ogni pena vedessero in lui solo pateticità e ossessione compulsiva, ma quel ragazzo che era stato ‘crudelmente lasciato dalla ragazza che amava con tutto sé stesso’ non riaccendeva nessun sentimento da crocerossina in me.
“Serata solitaria?”, una voce mi distrasse dai miei pensieri.
Mi ero talmente abituata alla solitudine che quasi sobbalzai alla vista di un altro essere umano.
Era un ragazzo, giovane, e stava fumando.
Si era posizionato davanti ad un piccolo bazar in legno con qualche cianfrusaglia sopra, l’unico stand vuoto.
Aveva la pelle ambrata, le labbra carnose, e o sguardo penetrante.
Lo devo ammettere: quel ragazzo aveva il suo charm.
Nella sua semplicità, sapeva attirare l’attenzione.
O più probabilmente ero io, con la mia irrimediabile solitudine, a trovare interessante ogni essere vivente che avesse il coraggio di rivolgermi la parola.
“Qualcosa del genere”, risposi, anche se in ritardo.
Che idiota.
“Sai chi sono io?”
Quel suo profilo da cattivo ragazzo, iperbolizzato dallo sguardo troppo assottigliato e dalla posizione troppo ricurva, si sfracellò davanti ai miei occhi.
Erano bastati dieci secondi per rovinare tutto nuovamente.
“No, non lo so”, sbuffai.
Non era altro che l’ennesimo sbruffone che, per qualche trucco di magia, si credeva Dio sceso in terra.
“Io sono Calum Hood”
Pronunciò quelle due parole molto stile un nome, una leggenda.
Calum Hood, signore e signori. Quasi ci speravo di incontrarlo.
Per poco non gli scoppiai a ridere in faccia.
Ma insomma, mi ritrovavo davanti al mitico Calum Hood, non potevo sfigurare.
“Calum Hood? Il sensitivo maschio?”, chiesi conferma, quasi come se mi trovassi davanti una leggenda.
E in fondo un po’ lo era: un sensitivo maschio, cavolo.
“Sul serio?! – sbottò, quasi come se gli avessi sfatato un mito – un sensitivo maschio?”
“Cosa preferisci? Piccolo maghetto?”
Mi lanciò un’occhiata d’odio, lasciando cadere per terra la sua sigaretta ancora accesa.
“Attento, il tuo bazar è di legno: potrebbe prendere fuoco”
“Fanculo il bazar!”
Lì sì che sembrò un vero cattivo ragazzo.
“Io non sono un sensitivo”, si lamentò, sedendosi dietro il bancone.
Era a metà tra l’infastidito e lo sconsolato; non so perché, davvero non lo so, ma lo raggiunsi.
Ci trovammo faccia a faccia, isolati.
Entrambi due anime solitarie, entrambi due sfigati.
Com’era strano, quel momento.
“Significa che non mi guarderai la mano e non mi dirai quanti figli avrò?”, misi un finto broncio, che non fece altro che infastidirlo ulteriormente.
Mi stavo divertendo, c’era poco da fare.
“No. Lo vedrai tu stessa”
“E come?”, ridacchiai.
“Sono uno stregone. Io non ti dico il futuro. Io te lo faccio vivere
Lo guardai per un attimo, ma non riuscii a trattenermi: gli risi in faccia.
“E hai tipo una bolla di cristallo o cosa?”
“Ma mi ascolti quando parlo? Ho detto che lo vivrai, il futuro”
“Grazie al cazzo lo vivrò – risi – è il mio futuro”
“Tu non mi stai prendendo sul serio”, fece, passandosi la lingua sulle labbra serrate, pensieroso.
Cosa gli stava passando per la testa?
Al tempo, non lo immaginavo neanche.
Adesso, invece, ho una mezza idea.
“Cosa te lo fa credere, Gandalf?” feci la finta sorpresa.
Ero davvero una pessima attrice.
“Non chiamarmi Gandalf!”
“Oh, mi dispiace, ma con la storia dello stregone ti sei scavato la fossa da solo, amico”, risi ancora.
Mi piaceva, quel Calum Hood.
Mi piaceva la sua convinzione e mi piaceva pure come mi servisse le battute orribili su un piatto d’argento.
Era un nuovo passatempo, più divertente di Michael Clifford.
E poi lui, per lo meno, non mi insultava.
“Tra tutti gli scettici che ho incontrato, tu sei il peggiore”, sibilò.
E ok, forse un pochettino mi insultava, ma non era niente di che.
“Ne sono lusingata”
“Non dovresti”
“Bah, solo una delle cose che mi riescono male. Vuoi aggiungere altro?”
“Sì. Fai battute schifose”, mi sembrò di trovarmi davanti Clifford.
Fu un’immagine orrenda.
“Siete voi che non capite il mio umorismo”, cercai di giustificarmi.
“Noi chi?” fece confuso.
“Voi persone”, lo liquidai in fretta.
Dalla stizza mi portai velocemente una ciocca dietro l’orecchio, poggiando meglio i gomiti sul bancone.
Eravamo faccia a faccia. Nonostante le brutte parole, eravamo ancora faccia a faccia.
E lui continuava a guardarmi pensieroso.
Poi, d’un tratto la domanda “Tu guarderesti il tuo futuro?”
“No”, risposi subito.
Insomma, chi si vorrebbe spoilerare la propria vita?
Me l’ero fatta tante volte, quella domanda. Ed ogni volta rispondevo di no.
Ma lo volevo davvero?
“Sei sicura?”, fece, cercando un minimo di indecisione nel mio sguardo.
“Insomma – espressi i miei pensieri – ho paura di diventare una fallita di merda”, non ero proprio una ragazza di classe, ma il concetto l’avevo espresso al meglio.
“E?”, mi incitò lui.
“E vorrei vedere cosa diventerò, così se vedo che le cose mi vanno male mi do una svegliata. O qualcosa del genere, insomma”, tentai.
Mi rendevo conto del discorso contorto che stavo affrontando con uno sconosciuto, ma ero troppo incuriosita dal ragazzo per mettermi limiti di qualsiasi tipo.
Anche se una bela censura sarebbe stata gradita.
“Ma parliamo delle cose serie: se sei un sensitivo, perché non hai un turbante?”
Tutto l’interesse che avevo trovato nei suoi occhi per le mie parole se ne andò in un batter d’occhio.
“Ma sei seria?!”, sbottò.
“Dai, almeno il bastone…”, riprovai.
“Ho 19 anni, non ho bisogno di un fottuto bastone!”
“E le magie? Come le fai?”, infierii ulteriormente.
Mi trovavo davanti a un mago, dovevo sfoderare tutte le battute che avevo.
“Con queste”, disse trionfante.
Armeggiò per qualche secondo con un qualcosa dietro il bancone, senza neanche guardare, ma con attenzione.
Poi, tirò fuori una sacchetta contenente della polverina colorata.
Una volta constatato che non fosse crack, risi – quel ragazzo mi piaceva sempre di più.
“Polvere di fata?”
“Qualcosa del genere”
“Quindi non ti arrabbi se dico ‘le fate non esistono’?”
“La vuoi finire”
“Le fate non esistono!”, risi, facendolo infervorare ulteriormente.
Dio, quanto mi divertiva infastidire la gente strana.
“Vorresti vivere un giorno da ragazza di dieci anni più vecchia?”, chiese, arrabbiato.
“Cosa c’entra?”, feci invece io, improvvisamente confusa.
“Tutta la conversazione si basa su questo. Allora, lo faresti?”
Certo, che l’avrei fatto.
Perché ero una povera deficiente, perché ero sola, e perché Ashton era un fottuto stalker.
E anche perché avevo più paura del futuro di tutti i miei coetanei messi assieme.
“Sì”, risposi allora.
E per un attimo persi addirittura tutto il mio divertimento.
Poi lui prese una mancata di polvere tra le mani, borbottò qualcosa di incomprensibile, e me la lanciò addosso.
Il tutto con una serietà disarmante.
Vedendolo in quello stato, non feci a meno di ridere, ancora.
Mi scrollai la polvere di dosso, ancora ridendo.
“Tutto qui?”
“Tutto qui”, confermò, con un sorrisetto bastardo.
“Ma te la devo pagare questa cosa? – dissi ancora, divertita – Perché non ho soldi”
Lui si sporse verso di me, incatenando il mio sguardo nuovamente “Facciamo una cosa: se vedi che funziona, torni e mi paghi”
Mi piaceva il suo modo di fare, mi piaceva eccome.
Così strinsi con forza la mano che mi aveva porso, ricambiando il sorrisetto malizioso.
“Angie! Muoviti, smettila di provarci col primo che passa!”
Si sentì una voce in lontananza. E a chi poteva appartenere se non a Michael Clifford.
Sbuffai sconsolata, con la consapevolezza che non avrei mai più rivisto quello strano personaggio che mi aveva incuriosito così tanto.
Gli sorrisi, sinceramente quella volta, e lo salutai con una mano “Addio, Calum Hood”
Lui mi prese la mano, con fare da cavaliere, e mi baciò il dorso sorridendo.
Da quando mi aveva lanciato quella polvere addosso, sembrava molto più sicuro di sé.
Risi, e lui insieme a me.
“Volevi dire a presto, Angie”
“No. Volevo dire esattamente addio, Calum”
Mi allontanai velocemente dal ragazzo che continuava a fissarmi, raggiungendo la statua di ghiaccio che era diventata Michael Clifford.
Quando fummo ad un palmo di distanza, non si premurò di dirmi niente; semplicemente, mi fulminò con lo sguardo.
Per cosa poi, non lo capirò mai.
Prima di allontanarmi mi girai un secondo verso il leggendario Calum Hood.
Non lo vidi.


 
 



Que sera, sera
Whatever will be, will be
The future's not ours to see
Que sera, sera
What will be, will be
 









wooowoowowooowoo
Ah, sono finalmente riuscita a pubblicare questo primo capitolo. 
Ok, è lungo e sotto alcuni aspetti pure noioso, ma ehi, abbiate pietà vi prego. Spero comunque ch vi sia piaciuto - la speranza è l'ultima a morire, suvvia.
Questo, è il vero inizio della storia. Abbiamo conosciuto quella gioia di fratello di Angie, Raven la timorata di Dio, Ashton Irwin il depresso cronico che Angie odia (scusa Ash), il Michael Clifford che se vi sta sul cazzo va bene così perchè sarebbe carino. Anche se la Muke forever and ever e anche se Clifford è da prendere a pugni Luke vedrà sempre del bene il lui e insomma... sì, Luke Hemmings qui è davvero un amore.
Inutile dire che il mio bff è Calum Hood a cui ho fatto fare la parte dello strano anche in queSTA STORIA SRRY CALUM BUT I CAN'T.
Adoro quel ragazzo, è così versatile.
CMQ mancano solo due capitoli e poi la storia si concluderà. In realtà stavo pensando ad un possibile sequel perchè sono stupida e al posto di dormire la notte mi metto a pensare scusatemi mondo. 
Mi farebbe davveeeeero piacere se scriveste la vostra opinione su questo capitolo, così mi faccio anche un'idea se fare questo fantomatico sequel.
Anyway, grazie per la lettura, a presto :)





 

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Capitolo 3
*** 2/3 ***


Que sera, sera


2/3
 
 


When I grew up and fell in love,
I asked my sweetheart
What lies ahead?
Will we have rainbows ,day after day?
Here's what my sweetheart said
 
 
 
 
 

La poeticità, nella vita, è importante.
E ok che c’è la crisi, la guerra, il riscaldamento globale e i teenagers razzisti, ma la poeticità regala sempre un momento di pace e tranquillità nella nostra frenetica vita.
Perciò, ripeto: la poeticità nella vita è importante.
E questa grave mancanza, causata dalla mia indole seguace della filosofia ‘alla cazzo di cane’, l’ho sempre trovata una profonda sofferenza.
Ma non c’era proprio niente da fare.
L’avevo capito a sei anni, alle prese con il primo pensierino sulla mamma, ma l’avevo finita con un ‘la mamma è paranoica’.
L’avevo capito a dodici anni, quando Raven cercava di rendermi partecipe dei suoi sentimenti per l’affascinante Sean di seconda c’, ma l’avevo finita col fregarle tutto il gelato al cioccolato, causandole ulteriore depressione.
E l’avevo capito pure a diciassette, di anni, quando per il diciottesimo di Raven, in segno della nostra secolare amicizia, avevo pensato che un pezzo di carta con un grande ‘18’ rosa brillantinato (il suo colore preferito, terrei a precisare) valesse come dedica di compleanno.
Ebbene, a distanza di anni, posso dire che furono proprio queste piccole cose a fottere i grandi momenti della mia vita.
I momenti belli, brutti, strani, divertenti, e anche quelli fastidiosi, sì.
Persino quel momento.
Quel momento in cui avrei potuto dire tante, davvero tante cose, ma non un “Cazzo!” piuttosto soddisfatto.
Tuttavia, c’è una motivazione persino per quell’esclamazione poco signorile.
La prima cosa che notai, quando mi svegliai quella mattina, fu un peso sul corpo.
Un peso particolare.
E no, non era il braccio nudo di un bel ragazzone rimorchiato in discoteca – niente da fare, mi dispiace.
E neanche il fantomatico peso nel cuore di una che ne ha passate tante, forse anche troppe, per avere solo diciotto anni – poca poeticità, ricordate?
Bensì, dopo un momento di incredulità, constatai che sì, erano proprio le mie tette.
Il sorriso raggiante che feci, giuro, non potrà mai essere eguagliato a tutti quelli della mia vita.
Sono cose che, se non si provano, non si possono capire.
Con gli occhi lucidi, la bocca spalancata, e le mani tremanti dall’emozione, mi palpai.
Esatto, mi palpai.
E quando realizzai a pieno che quelle fossero davvero le mie tette – nessun palloncino messo sotto la maglietta per scherzo, e nemmeno palle di carta-igienica! – mi lasciai andare ad un urlo eccitato.
“Mamma, mi sono cresciute le tette!”, esclamai, tanto per rendere la cosa nota a tutto il quartiere.
L’avrebbe notato la signora Freeman, quella stronza della signora Freeman, che mi prendeva sempre in giro per la mia scarna mercanzia.
L’avrebbe notato il nuovo postino (quello biondo zoppo, non quello che frugava tra i miei pacchi), e mi avrebbe fatto gli sconti – certo, Angie.
E già mi immaginavo quando l’avrebbe notato George, il mio vicino di casa universitario sexy, che ci avrebbe provato con me – sempre più credibile, Angie.
Forse anche Kyle avrebbe avuto più rispetto per me.
Le tette grandi mi avevano mandato in pappa il cervello, era chiaro.
Ma ci pensò qualcosa a farmi tornare con i piedi per terra, o meglio, qualcuno.
“Non è vero!”, si sentì una voce, lontana, oltre la porta.
Era una voce maschile, ridente, e familiare in modo agghiacciante.
Se la riconobbi?
Certo che la riconobbi, ma preferii fare finta di niente, ingannando il mio stupido subconscio.
Ma fu quel piccolo dubbio, mentre constatavo la morbidezza del mio seno, a farmi svegliare completamente.
E solo allora mi accorsi di tutto.
Perché David non era in camera a bullizzarmi? – ed erano le 7.35, ragazzi.
Perché mia madre non stava festeggiando con me per le tette grandi?
E ancora, perché poco prima non mi aveva lanciato un’onda energetica per l’imprecazione mattutina?
Ma soprattutto, dove cazzo mi trovavo?
A quel punto, le mie grandiose tette, divennero solo un lontano ricordo.
Mi guardai intorno con il terrore negli occhi.
Certo, era una bella stanza: mura di un tenue azzurro, mobili moderni ma non troppo, un bel quadro dei Pink Floyd proprio sopra la bella scrivania piena di cianfrusaglie, e pure una tv al plasma; ma non era la mia, di stanza.
Dov’erano finiti i vestiti per terra? I poster di Sid Vicious? La pistola ad acqua per cacciare David in caso di emergenza?
Subito, mi alzai sul letto.
Deglutii a fatica il magone che mi aveva bloccato la gola, formatosi durante la contemplazione della stanza.
Ciò che provai fu puro e semplice panico, nella più oscura delle sue manifestazioni.
Non ero terrorizzata, non ero esaltata, niente adrenalina nel mio corpo, purtroppo.
E fu proprio per quello che il mio cuore, lo sentii chiaramente, perse un battito.
Nessun dubbio: quella fu la sensazione più brutta di tutta la mia vita.
Era come se tutte le mie certezze, tutte i miei progetti, fossero andati in fumo.
Come se non esistessi neanche.
Tutto questo solo per una stanza mai vista – avevo il cuore debole, che ci posso fare.
“Ti vuoi muovere? Farai tardi a lavoro!”, continuò, sempre quella voce.
Lavoro.
Avevo diciotto maledettissimi anni, un animo pigro, e una madre paranoica: io non potevo avere un lavoro.
Solo a quel punto la fantomatica adrenalina arrivò. Un po’ in ritardo, ma arrivò.
Così, in piedi in un letto non mio, con una sudorazione sfasata e il respiro affannato, gridai con tutto il fiato che avevo: “CHI CAZZO SEI E CHE CAZZO VUOI DA ME?!”
Io, ragazza tranquilla che prendeva le tragedie con talmente tanta filosofia da trasformarle in commedie da quattro soldi, non avevo mai gridato in quel modo.
D’altronde, non avevo neanche mai provato tutte quelle sensazioni.
Altro che ciclo.
E con il mio super-udito amplificato dall’adrenalina, sentii dei pesanti passi veloci avvicinarsi a me.
Cazzo, ora mi stuprano, poi mi ammazzano, mi danno in pasto ai cani e bruceranno le loro feci.
La porta si spalancò, di colpo, con talmente tanta forza da farla sbattere contro il muro.
“CHE SUCCEDE”
Un Michael Clifford più trafelato che mai, con i capelli molto più normali del solito, e senza una fottuta maglietta, mi si parò davanti.
Lo guardai negli occhi, per un momento che mi sembrò infinito.
E mo’ questo che ci sta a fare qui?
Ma inutile negarlo, signore e signori, la vista della sua brutta faccia mi fece perdere ogni traccia di panico.
Perché persino in quella situazione, doveva essere sempre e solo lui la mia grande costante?
“Dio, Angie!”, fece arrabbiato, ma con un velo di sollievo nei suoi occhi.
Michael Clifford non mi ha mai chiamata per nome, notai.
E fu proprio quel particolare a farmi pensare che forse c’era qualcosa che non andava.
“Lo sai che mi impanico quando urli così”, continuò, quella volta sorridendo apertamente “Sei proprio una stronzetta”, sorrise ancora di più.
Michael Clifford stava sorridendo a me, proprio a me, mentre io continuavo a guardarlo come uno stoccafisso.
Ero proprio una deficiente.
Mi si avvicinò lentamente, fino ad arrivare ad un palmo dal mio viso e “Non farlo mai più, fiorellino” disse, accarezzandomi la guancia con dolcezza.
E tralasciando il ‘col dolcezza’…  fiore-cosa?
“Non chiamarmi fiorellino!”, dissi incazzata, staccandogli velocemente la mano dal mio viso.
La paura, scoraggiata dagli addominali del ragazzo di fronte a me, era ormai scomparsa.
C’ero solo io, il ragazzo che avevo sempre odiato, e il mio odio per lui.
“Lo sai che adoro quando ti arrabbi, amore”
Mentre io ero concentrata alla visione del suo petto che, cazzo, da dove erano spuntati fuori quei pettorali?, sentii l’agghiacciante parola.
Amore.
Amore.
Amore.
“Come cazzo mi hai chiamata?!”, ammetto che l’assenza di mia madre mi aveva fatto diventare più sboccata del solito  - quanto ne stavo approfittando, cavolo.
“O andiamo! – si lamentò, quella volta – ti è sempre piaciuto questo, di nomignolo! Sembri essere tornata a dieci anni fa, con quello sguardo”
Oh.
Dieci anni cosa?
“Ripeti”, dissi, senza neanche pensarci.
“Cosa”
“Quello che hai detto”
“Ho detto che sembri essere tornata a dieci anni fa”
Dieci anni fa, eh?
E lì, ricordai: l’appuntamento terrificante, il sorriso inquietante di Ashton Irwin, e quella cazzo di polverina magica di Calum Hood.
Calum Hood, quella puttana.
Era tutta colpa sua, con i suoi discorsi sconclusionati, i suoi ‘Vuoi vedere il tuo futuro? Gngngn, sono un mago vero, gngngn’.
Certo che non volevo vedere il mio futuro!
Era tipo lo spoiler più grandioso di tutti i tempi!
Non avevo mai immaginato che qualcuno potesse prendere sul serio le cazzate che dicevo – ma me lo dovevo aspettare da un disperato che si atteggiava da grande divo.
“Quindi…”, feci, imbarazzata.
E io imbarazzata davanti a Clifford? Mai visto.
“Va tutto bene?”
“Certo”, risposi velocemente, tanto da rendere la mia affermazione più falsa delle tette della Minaj.
E una domanda sorse spontanea: che ci faceva Michael Clifford nella casa della me ventottenne?
“Tu sei tipo il mio giardiniere o cosa?”
La mi stupidità aveva raggiunto i massimi livelli.
Certo, potevo capire che il mio ipotetico giardiniere non mi avrebbe mai chiamata ‘amore’, ma insomma… io e Michael Clifford non potevamo essere quelli.
“Mi stai prendendo per il culo?”, mi rispose invece lui, scoppiando a ridere.
E mi accorsi che Michael Clifford stava ridendo fin troppo spesso in mia presenza, e che mi rivolgeva sguardi fin troppo dolci.
Non potevo più negarlo: tra me e Michael Clifford (del futuro, tengo a precisare), c’era qualcosa.
Abbandonai ogni traccia di stupidità e avventatezza: era arrivato il momento di indagare senza farmi scoprire e senza fare ulteriori figure di merda.
Le opzioni per questo suo comportamento, erano due:
1. Aveva una cotta segreta per me
2. Eravamo – scusate il conato di vomito – fidanzati.
3. Mi stava prendendo per il culo. E si parlava sempre di Michael Clifford, nonostante i muscoli e i dieci anni in più, quindi poteva tranquillamente considerarsi un’ipotesi accreditata.
Ma poteva davvero spiegare la sua presenza in quella che, per logica, doveva essere casa mia?
Per avere una risposta, dovevo prima porre una domanda.
E qual miglior modo di risolvere una situazione del genere se non sembrando stupida?
“Ma se io… tipo… - non potevo credere che lo stessi dicendo davvero – ti dicessi che ti amo… - sputai quelle due parole quasi con disgusto, ma riuscii a mascherarlo bene – come reagiresti?”
“Ti direi che il venerdì degli Oasis lo si passa ad ascoltare Be here now, è il mio turno di decidere, dolcezza
Avevamo stabilito una tabella per decidere la musica da mettere in macchina? – beh, supposi si trattasse della macchina.
Le cose tra me e lui, allora, dovevano essere davvero serie.
“Ma What’s the story (Morning Glory) è assolutamente migliore!”, mi lamentai.
“Oh, lo so bene che preferisci quell’album”, ridacchiò allegro “Ma questa settimana tocca a me decidere”
“E poi cosa farai? Sceglierai Closer nella giornata dei Joy Division?”, lo derisi.
“Oh, ci puoi contare”
Stavo giusto per lanciargli una scarpa (fanculo la storia dei fidanzati), quando lui scappò dalla stanza ridendo come un povero scemo.
Lo ammettevo: mi sorprendeva davvero tanto – forse troppo – sentirlo ridere così spesso in mia presenza.
Non mi sembrava, però, che il nostro rapporto fosse diventato improvvisamente da diabete: cosa era cambiato, allora?
Io? Lui? Entrambi?
Di una cosa ero certa: volevo scoprire più cose possibili.
In seconda elementare, il supplente della signora Jones ci aveva fatto fare un gioco: dovevamo stabilire un piano per risolvere una situazione problematica in un ipotetico viaggio nel tempo.
Io avevo semplicemente creato una storia sulla me di sette anni che creava un impero di dinosauri ammaestrati – e mi aveva messo un misero ‘buono’, la canaglia – ma Raven no.
Raven aveva creato un piano esattamente per la situazione in cui mi trovavo in quel momento.
Divertente come una Raven di sette anni fosse comunque più intelligente della me diciottenne.
Il primo punto, comunque, consisteva nel trovare una persona fidata (possibilmente che si conosca già), per farsi dare le informazioni necessarie alla sopravvivenza.
E anche se Michael Clifford era la mia grande costante, non riuscivo proprio a vederlo come un ipotetico alleato nella guerra che era quella strana giornata.
Dovevo sopravvivere, scoprire quello che volevo sapere, e non sembrare una povera deficiente allo stesso tempo.
Ce l’avrei fatta?
“Ah, ricordati che stasera alla cena c’è pure Vivian. Ti ricordi che Vivian è allergica ai granchi, no?”
Vivian, certo.
“Non penso che qualcuno in questa casa fosse intenzionato a cucinare granchi. Vero, Clifford?”
Io odiavo i granchi, non c’era nulla da fare.
“Smettila di insultare i Magnifici Granchi”
“Magnifici Gra…”
Sì, Magnifici Granchi. E smettila anche di chiamarmi Clifford”
Sbuffai pesantemente alla sua richiesta.
Come avrei dovuto chiamarlo, allora? Michael? Ma per favore.
“Certamente, zuccherino
“Ah, sei incorreggibile”, ridacchiò.
“Proprio così, pupazzetto di neve”
“Pupazzetto di neve?”, fece lui, entrando nuovamente nel mio campo visivo.
Mi accorsi di essere ancora in mutande, ma lasciai perdere – non c’era tempo per quei dettagli.
“Perché sei pallido e non ti piace il sole”, spiegai risoluta.
“Non mi abituerò mai alle tue cazzate”, sussurrò sensualmente, avvicinandosi pericolosamente a me.
Non pensai tanto al velato insulto (io non dicevo mai cazzate), mi preoccupai più che altro alla sua vicinanza.
Non mi piaceva per niente, tutta quella confidenza. E non mi piaceva per niente neanche Michael Clifford.
Io non lo sopportavo proprio, e anche in quel momento non lo sopportavo.
“Prendere o lasciare, scoiattolino mio
“In tal caso – finse di pensarci, picchiettando l’indice sulla guancia destra – prendo prendo”
Non feci in tempo a rispondergli, e neanche a guardarlo male. In realtà, non feci neanche in tempo a respirare, che subito me lo trovai incollato.
Ma proprio incollato incollato.
Mi baciò con un’irruenza talmente dolce da lasciarmi scioccata.
E ci aggiunse pure la lingua, lo stronzo, mentre io, con i miei occhi spalancati, cercavo disperatamente di non prenderlo a pugni.
Se mi piacque?
No, cazzo, no che non mi piacque.
Mi fece davvero schifo – non mettevo in dubbio le sue abilità, certo, ma era pur sempre Michael Clifford.
E io avevo bisogno di tempo per realizzare di poter baciare Michael Clifford senza vomitare – tipo dieci anni.
“Ti aspetto, tesoro”
Tesoro sto cazzo.
 



***
 
 
Eravamo in macchina, e lui alla guida.
Mi sembrava poco opportuno usurpargli il posto da autista con la scusa del ‘e chi si fida della tua guida’, così decisi di tentare la sorte e lasciare fare a lui.
In realtà, guidava bene.
Certo, mi aspettavo un veicolo più tecnologico – magari con dispositivi alla Tony Stark al posto delle ruote – ma mi accontentai della nostra Mercedes nera.
Clifford, al mio fianco, non faceva altro che urlare ogni singola parola di Noel Gallagher come a voler sottolineare la sua vittoria musicale – e io ero pure innamorata di lui? Ma andiamo.
Tuttavia, trovai del tempo per pensare – ottima fuga, per chi volesse evitare lo sguardo di un Michael Clifford improvvisato cantante come me.
Ebbene, la prima domanda che mi posi fu: come sfruttare quella giornata?
Perché, ammettiamolo: non era da tutti poter vivere una situazione del genere.
Così, mi risposi, volevo sapere com’erano andate le cose.
Non a me, per carità, ma ai miei amici.
Sapete, le solite cose: se la troietta della scuola era morta di overdose, se il capitano di football era finito a lavorare nell’officina del padre abbandonando i suoi sogni da grande sportivo, se la sfigata odiata da tutti era finalmente diventata una figa da paura con un marito ricco e potente.
Le solite cose, no?
E ok, forse i sopracitati non erano esattamente miei amici, ma ero curiosa.
Per quanto riguardava la mia, di vita, volevo sapere solo una cosa: ero davvero felice?
Per quello, dovevo rivolgermi ad una persona fidata – e chissà se l’avrei trovata! – una ben consapevole delle mie ambiguità comportamentali.
Certo, era una domanda stupida, poco originale, e piuttosto vaga, ma volevo davvero sapere se alla fine, nonostante la poca magnificenza della mia persona, sarebbe andato tutto bene.
Tuttavia, la palla al piede canterina che avevo al mio fianco fungeva da pessimo presagio.
“Stand by me, nobody knows the way it’s gonna beee”
“Sei una femminuccia, Clifford”
“Io ti dedico una canzone del genere e tu mi rispondi così?”, fece lui, con un finto broncio.
Terrificante.
“Sarebbe stato più carino se mi avessi dedicato Wonderwall…”, feci quasi afflitta.
In realtà avrei semplicemente preferito tornare ai cari e vecchi tempi in cui ci dedicavamo scritte offensive nei banchi di scuola – altro che canzoni degli Oasis – ma dovevo mantenere un profilo basso e non destare sospetti.
Più di quanto non avessi già fatto, chiaramente.
“Tu e quel dannato album…”, disse scoraggiato.
“Tu e la tua voce. Sai, potevamo anche evitare tutto questo se non mi avessi svegliata”
Mi lanciò un’occhiata diffidente, per poi prestare nuovamente attenzione alla strada.
Grazie al cielo.
“Ma così saresti arrivata in ritardo a lavoro”
“Per una volta…”, feci la vaga.
In realtà, ero una ritardataria cronica. Tuttavia, in vista del fantomatico diploma, già progettavo una nuova me universitaria super puntuale ad ogni appuntamento.
Ed ero seriamente convinta che ce l’avessi fatta – insomma, avevo avuto dieci anni di tempo.
“Ma per favore! – mi derise invece, lasciandosi andare ad una grassa risata – riusciresti ad arrivare in ritardo persino al tuo funerale!”
Evidentemente mi ero sbagliata.
“Non sarà mai troppo tardi per quello…”
“O peggio – mi ignorò completamente – al nostro matrimonio!”
Mi si gelò il sangue per un secondo.
Ok, forse non era proprio un secondo, ma non mi misi a cronometrare la mia permanenza in quello stato di shock totale.
Non avrei scommesso un soldo, nella nostra coppia.
In realtà mi aspettavo che, nonostante la convivenza e le parole dolci del ragazzo, le cose fra noi due non fossero così serie.
Ma con quelle parole, mi spiazzò completamente, facendomi perdere tutta la fiducia che avevo riposto nell’Angie ventottenne.
Che razza di persona ero diventata?
Avrei preferito vedermi nelle vesti di una narcotrafficante pedofila che mogliettina premurosa di Michael Clifford.
“Ma-matrimonio?”, balbettai.
“Sì però non farmi aspettare sul serio”, sorrise, lui, come se io non stessi tentando di farmi esplodere le viscere con la forza del pensiero.
“Mh”, mugugnai.
“Non sto scherzando – fece, diventando improvvisamente serio – guarda che la cazzata della sposa che ‘deve farsi aspettare’ è una leggenda metropolitana”
“Già”, lo stavo a mala pena ascoltando.
Ero troppo presa da matrimonio, matrimonio, matrimonio…
“Ti giuro, dieci minuti. Ti aspetto per dieci minuti e poi corro a cercarti”, continuò.
“Vorrà dire che mi beccherai con il mio amante e per me sarà più semplice lasciarti. Eviteremo la scenata in chiesa in cui scappo a gambe levate, almeno”
Lui rimase in silenzio un attimo, quasi pensieroso, poi mi lanciò una strana occhiata.
Nuovamente.
Che avessi davvero un amante? Ci contavo proprio, cavolo.
“Sappiamo entrambi che non hai trovato nessuno che ti vuole, a parte me”
E poi riprese a ridere.
Sapevamo entrambi che avesse ragione – scherzi a parte, ci avrei scherzato pure io – ma non era lui quello che mi doveva dire cose come ‘sei la mia vita’, ‘ti amerò per sempre’, ma anche ‘sei la donna più bella che abbia mai visto’?
Che fregatura di marito.
Dovevo proprio fare due chiacchierate con la Angie vecchia.
If you’re leaving will you take me with you? I’m tired of talking on my phone…
Stupido Clifford…
 
 
“Ti senti bene?”
“Mi stai prendendo per il culo?”
“Scusa, non volevo sembrare derisora. Ma stai bene?”
“Sto alla grande, grazie”
Avere una conversazione civile con Michael Clifford si stava rivelando più complicato del previsto.
“Uhm, allora perché siamo davanti all’ospedale, se non stai bene?”
Un oscuro dubbio si insinuò nella mia mente, ma preferii evitare di affrontarlo.
“Perché ci lavoriamo, magari?”
Oh. Oh. OH.
Quello sì, che era un gran bel problema.
Con quella nuova consapevolezza avevo pure soppiantato l’immagine ‘matrimonio con Michael Clifford’ dalla casella ‘tragedie della vita di Angie  Evans’.
Avrei tanto voluto avere una piccola Raven al mio fianco per farle una semplice domanda: quanto poteva andare avanti la farsa del ‘ehi sono strana ma va tutto bene! Non sono mica un’Angie teenager nel corpo dell’Angie adulta ah ah ah!’? Ne sarebbe valsa la pena, persino con il sacrificio di vite umane – ergo, miei ipotetici pazienti?
Per un attimo, la parte sadica di me rispose ‘sì, certo!’, chè già avevo baciato Michael Clifford, mica potevo mandare tutto quanto all’aria.
Poi tornai a me – l’angioletto sulla mia spalla destra con la faccia di mia madre aveva avuto la meglio sul diavolo David sulla spalla sinistra – e mi dissi che, forse, sarei potuta uscire illesa da quella situazione.
O meglio, lo sarebbero usciti i poveri malati americani, se si fossero tenuti ben alla larga dalla sottoscritta.
“Senti”, lo fermai un attimo.
Neanche mi ero accorta che fossimo scesi dalla macchina – che non volava, stupido futuro poco tecnologico… - e che ci stessimo dirigendo verso l’entrata dell’ospedale.
Bella situazione di merda, come direbbero ad Oxford.
“Cioè, prima non dicevo che tu ti sentivi male. Dicevo che io mi sentivo male”, spiegai.
In realtà mi stavo torturando le mani dal nervoso, e stavo pure balbettando.
Per un attimo temetti che mi avrebbe presa per il culo per il resto della mia vita – insomma, era Michael Clifford – poi mi ricordai del nostro matrimonio imminente, e mi tranquillizzai. Beh, più o meno.
“Ah”, fece lui, sospettoso.
Sapevo di non poter fingere di stare male all’interno dell’ospedale: nella casa dei medici mi avrebbero beccata subito – ero super intelligente e l’avevo capito subito, quel problema.
Così mi affidai alla sua ignoranza da non medico – perché figuriamoci se Michael Clifford era diventato un medico!
“Cioè, non mi sento tanto bene – ritentai, facendo una faccia addolorata – potrei uccidere qualche mio paziente!”, e lo dissi con una serietà disarmante.
Fu proprio per quel piccolo motivo, associato alle mie parole, che Michael Clifford cominciò a ridere di gusto – si stava burlando di me.
E io stavo odiando la sua risata ogni secondo di più.
“Fai questa battuta tutti i giorni, ma continua a far ridere”, disse poi, quando si calmò completamente.
Ma quale cazzo di battuta?!, continuavo a chiedermi.
Erano bastate poche ore senza mia madre ed ero diventata la peggiore tra le ragazze sboccate, che vergogna.
“Dai ora entriamo”
Ed entrammo sul serio, maledetto Clifford.
La gente ci guardava come se ci conoscesse davvero, ci sorrideva, poi ci salutava, e infine tornava a fare quello che stava facendo prima.
C’erano troppi camici blu, troppe barelle e un odore di ospedale fin troppo pesante.
Come diavolo facevo a lavorare qui?
“Bene, io sono al decimo oggi. Ricordatelo se volessi… chessò, farmi una sorpresa”
Ma decimo cosa?!
“Ti eviterò come la peste, stai tranquillo”, lo liquidai.
“Ma per favore, pur di stare un po’ con me di faresti i dieci piani a piedi”
Oh, quindi era al decimo piano. E se non era davvero malato come aveva più volte ribadito, allora non c’erano altre possibilità: Michael Clifford era diventato un dannato medico.
Oppure era lo sguattero del reparto pediatrico – ci speravo tanto, in realtà – ma mi sembrava troppo conosciuto per quel ruolo.
Che poi, pure io avrei potuto ricoprire il ruolo di sguattera, ma avevo troppa stima per me stessa per anche solo immaginarlo – che narcisista.
“E disturbarti mentre cerchi di rianimare un paziente con le tue mani da pollo? Non potrei mai”
“Meno male che sono uno psichiatra, allora”, sorrise furbo.
Uno psichiatra… Michael Clifford era uno psichiatra. Non avevo parole per descrivere il mio disgusto.
“Allora divertiti con le urla dei tuoi simili, tesoro”, risposi acida, con la speranza che almeno in quel modo si sarebbe finalmente volatilizzato.
“Il mio lavoro da psichiatra lo svolgo con te, dolcezza – ridacchiò – Passo il mio tempo qui solo per hobby”
E poi se ne andò.
Stupido Clifford.
 
Fu solo quando se ne andò che mi accorsi di essere sola.
Per un momento rimpiansi la sua presenza (giuro, solo per un momento), poi  mi convinsi che ‘meglio soli che male accompagnati, no?’.
Quando mi convinsi anche del fatto che ‘Pff, non è una stupida frase che dicono alla zitella cessa e disperata quando l’unico uomo che l ha calcolata la lascia!’, mi ritenni soddisfatta.
A quel punto, cercai un volto amico. Avevo una tecnica infallibile, per quello: bastava fissare intensamente la persona prescelta. Se codesta persona sorrideva, non mi conosceva. Se faceva una smorfia oscena o mi mandava a fanculo, era la mia migliore amica.
O meglio, funzionava più o meno così.
Pensai di avere tanti amici quando realizzai che tutti rispondevano alle mie occhiate con uno sguardo minaccioso, ma non mi avvicinai a nessuno di loro – ah, la timidezza!
Fu quando ero nel pieno dello sconforto da ‘sono ancora sfigata nonostante i ventotto anni’ che sentii una minuta figura travolgermi.
Ok, non è che mi travolse proprio, ma mi andò addosso. E mi diede anche fastidio.
Sembravamo coetanee, più o meno. I suoi occhi saggi (potevano degli occhi sembrare saggi?) parlavano più dei suoi capelli blu acceso.
Sembrava proprio un’adulta che non aveva ancora accettato il fatto di essere effettivamente adulta.
Ecco, lei era il genere di persona che sarebbe potuta essere identificata tranquillamente come mia amica.
“Angie! Dannata Angie! Muoviti che dobbiamo andare a lavoro!”, quasi mi urlò contro, con la sua voce squillante che si addiceva parecchio alla sua persona così stravagante.
Rimasi così incantata a fissarla, tanto ero presa dal realizzare che cavolo, hai un amico Angie!, da farla solo sbuffare.
Ah, l’amicizia.
“E muoviti! L’obitorio ci aspetta, amica mia. Non possiamo mica far aspettare gli zombie!”, rise.
Così capì: obitorio.
Ero quella sfigata che lavorava in obitorio – beh, insieme alla ragazza coi capelli blu.
Ripensai a Michael Clifford e alla sua risata sulla mia ipotetica battuta.
Mentalmente, risi con lui.
 
 
“E insomma poi lui arriva e mi fa ‘Ashley, devi decidere: o me o lui’. Ma insomma, sta parlando del mio migliore amico! Come posso distruggere la mia amicizia con Alex per Max? così gli ho detto che ci penserò, ma a quel punto Alex se n’era già andato. Dio, spero che non abbia sentito le mie parole… tu che ne pensi, Angie?”
La piccola furia blu , a cui avevo da poco associato il nome ‘Ashley’, non faceva altro che blaterare sul suo triangolo amoroso dove, come da commedia, c’era in mezzo il suo migliore amico Alex e il migliore amico di suo fratello maggiore Max.
Lei aveva due contendenti. Io un Michael Clifford.
Che sfigata, cavolo.
“Non devi permettere che rovini i tuoi rapporti, non è nessuno”, feci risoluta.
“Ma è figo!”
“Allora sei in un bel problema, amica”
“Ah, lo so…”
Eravamo dentro una stanza, fredda. Molto fredda, in realtà, ma avevamo già acceso una stufa.
Le pareti erano azzurrine – proprio come quelle della mia camera da letto, inquietante – e davanti a noi c’era un frigo.
Un frigo molto grande, tanto grande che era quasi sicura che non ci conservassero la coca-cola, lì dentro.
Poi c’erano diversi piani di lavoro, tutti con un taglio piuttosto moderno e dalle fattezze molto serie, e mi sentii molto inopportuna, in quel posto.
C’era anche una scrivania, all’angolo, con un computer – un Mac, per la precisione, addirittura più grande delle ultime versioni.
Ashley continuava a non fare niente, così anche io continuavo a non fare niente.
Ammetto che, nonostante il lavoro potenzialmente inquietante, ero piuttosto felice di non dover uccidere nessuno – erano già tutti morti, evviva!
Eppure, nonostante la mia anima in pace – non mi sentivo tranquilla: potevo considerare Ashley la mia ipotetica alleata per quella pazza giornata?
In realtà, nonostante l’esuberanza e gli interminabili racconti sulla sua vita, non mi fidavo tanto.
Poteva certamente essere persino la mia migliore amica – dove fosse finita Raven, poi, neanche ci pensavo – eppure non riuscivo a parlare del Problema.
Era ormai evidente: se volevo trovare le risposte che cercavo, se volevo davvero dare un senso a quella patetica avventura, dovevo trovare la mia fantomatica alleata (o il mio fantomatico alleato, niente discriminazioni).
E per trovarlo, dovevo già conoscerlo.
Il che restringeva il campo a Michael Clifford, ma non avrei mai raggiunto quel fantomatico decimo piano per niente al mondo.
Quindi, non mi restava altro che cercare i miei vecchi amichetti (e il campo si era ristretto ulteriormente), ma come?
Nella mia mente, una forte voce che gridava a squarcia gola “FACEBOOK” si fece parecchio presente, quindi decisi di darle ascolto.
Certo, dare un’utilità a quell’abominevole social network era un affronto al mio orgoglio, ma non mi restava altra scelta.
Anche perché il mio cellulare (un iPhone 6, così incredibile per me ma così catorcio per il 2025) era fuori uso – o meglio, non avevo idea di quale sarebbe potuta essere la password.
Ma come facevo ad usare facebook se stavo lavorando?
Fingere di stare male in un ospedale, come avevo già accennato, era una pessima idea.
E cosa potevo fare se non sembrare idiota per l’ennesima volta?
“Ehi Ashley…”
“Sì?”
“Ma se io… tipo… non avessi voglia di lavorare?”
“Parliamoci chiaro, Evans: vuoi usare il bonus adesso?”
E io non avevo proprio idea di cosa fosse il bonus, ma annuii comunque.
“Ok, allora vai. Ti copro io”
Sapevo solo che quel bonus mi piaceva tanto.
Sorrisi grata alla mia nuova amica, mentre già puntavo lo sguardo nel fantomatico Mac. Speravo almeno che la Apple non avesse complicato ulteriormente il sistema operativo – non volevo peggiorare ulteriormente la situazione.
“Devi solo firmare un po’ di cose, poi puoi fare quello che ti pare”, disse lei, prendendo una pila di fogli da un cassetto della scrivania.
Cominciò a compilare la prima riga, poi mi porse carta e penna.
Fortunatamente, mi indicò lei dove firmare, con un sorrisetto incuriosito sul viso.
Grazie al cielo, nonostante la mia evidente confusione, non fece domande.
“Oh, vuoi vedere la signora Leeds? Mi hanno detto che è disgustosa!”, rise lei.
Ed ero quasi sicura che si trattasse di un morto, quindi non me la sentii proprio di ridere.
Anche io ero come Ashley? Anche io ridevo per i morti?
Certo, gli zombie mi piacevano, e avevo una cotta per gli scheletri di Tim Burton; ma davvero queste mie stranezze mi avrebbero portato a quel punto?
“Forza, vieni!”, si avvicinò al grande frigorifero (in cui preferii non sbirciare – e ne tirò fuori una barella.
Quello era decisamente un cadavere, sì. E non mi andava proprio di scoprire la creatura ‘disgustosa’ dal telo bianco candido che la ricopriva.
“Dicono che la dobbiamo dissezionare!”, gongolò.
Non sapevo che razza di mondo ci permettesse di fare una cosa del genere su un corpo umano, ma proprio non mi andava di indagare.
Inoltre, il fetore che emanava era tanto forte da farmi quasi svenire.
Era così che passavo le mie giornate?
Poi, mi illuminai. Letteralmente.
E il motivo era uno solo: l’utensile che Ashley aveva appena afferrato.
Era la mia anima nerd ad agire, lo giuro, non fui io.
Fatto sta che di fronte a quella meraviglia della tecnologia non potetti fare a meno di ridere e rubargliela tra le mani.
Signori e signore, ebbene sì: nel 2025, per dissezionare i cadaveri, si usavano le spade laser.
Ma non semplici spade laser, no: erano un plagio bello e buono di Star Wars, e come potevo non fare niente a riguardo?
“Sfidami, Ashley. Io faccio la Jedi e tu fai il S…”
“E magari rischiamo il licenziamento come l’altra volta. Già hai rischiato di farti arrestare al Comic Con l’anno scorso, vuoi pure perdere il lavoro, adesso?”
E lì realizzai una cosa importante. Tralasciando il fatto che le spade laser vere dal vivo fossero l’ottava meraviglia del mondo, scoprii una cosa molto importante della Angie ventottenne: nonostante gli anni fossero passati, ero rimasta una grande testa di cazzo.
E pure intelligente, dato che ero laureata in medicina.
Può sembrare stupido, ma non ho paura di ammetterlo: in quel momento, per la prima volta in tutta la mia vita, mi sentii fiera di me.
E tutto grazie ad una spada laser.
 
 

Quando avevo preso posto nella scrivania, Ashley mi aveva lanciato uno sguardo diffidente.
Forse perché non ero ancora uscita dalla camera dei morti nonostante avessi usato il bonus (Dio benedica il bonus, di cui ancora non avevo colto la natura), forse perché avessi esultato quando avevo constatato che sì, facebook esisteva ancora, o forse perché continuavo a ridere davanti allo schermo ogni tre secondi.
E no, non stavo guardando video divertenti di gattini vestiti da persone – quello era il compito di Raven, ricordate? – ma stavo girovagando su facebook.
Avevo aperto il diabolico social network con l’intenzione di trovare il mio Alleato (con la ‘a’ maiuscola, perché ormai era diventata una questione di vita o di morte), poi mi erano venute in mente una serie di cose: la strafiga della scuola, il capitano di football, la sfigata secchiona…
Ebbene, feci le seguenti scoperte:
Hayley Houston, ragazza dai facili costumi, era diventata una modella di discreto successo che pubblicizzava delle calze rimodellanti per una agenzia di Denver.
Michael (un altro) Jhonson, grande sportivo, insegnava basket (non football, basket) in una scuola media dell’Ohio.
Vicki Wilson, il piccolo genio inglese emigrato in America per una serie di sfortunati eventi, aveva guadagnato soldi con una piccola invenzione di cui ancora mi erano oscure le utilità, e con i soldi guadagnati si era rifatta le tette. Poi era caduta in miseria, e in quel momento lavorava in un supermercato in Florida.
I futuri che trovai, lo ammetto, non furono tanto entusiasmanti; eppure, era diventata una droga: avevo cominciato a cercare tutte le persone che mi venivano in mente.
Danny faccia da rospo, a discapito delle leggende cinematografiche, era rimasto grasso e brutto; tuttavia, era il direttore di un negozio di antiquariato, sempre nella periferia di Boston.
Louise la stilista, invece, era morta l’anno prima di cancro – il che mi fece pensare che ‘diavolo, non hanno ancora inventato una cura per il cancro?’, poi pensai che ‘Oh, ma anche io sono medico…’, conclusi sorridendo perché ‘Le spade laser sono proprio una figata’.
Jennyfer la ragazzina antipatica che se la tirava tanto, invece, si era sposata con un vecchio ricco che anche lui, pover’uomo, era stato fregato dalla sfiga e l’aveva finita senza un soldo. La biondina faceva la commessa in un centro commerciale del Texas.
E così, tanti altri.
Cercai pure Raven: si era trasferita in Norvegia, lei, ed era felicemente (o almeno si sperava) sposata con un bel ragazzo del posto. Lavorava come imprenditrice lì. La forte consapevolezza che forse la nostra amicizia era spezzata da un pezzo si fece chiara, ma fui felice della sua felicità.
Luke Hemmings, invece, aveva il profilo privato. Tuttavia, mi concessero la visione della sua immagine del profilo: era diventato persino più figo di dieci anni prima, e sorrideva insieme ad una bellissima ragazza dai capelli rossicci e gli occhi verdi. Erano davvero bellissimi, quei due.
Dopo il divertimento, però, pensai al dovere.
Come trovare una persona che già conoscevo, strana, credulona e abbastanza andata da starmi ad ascoltare e rispondermi pure?
Il suo nome arrivò, quasi subito.
Lo cercai.
Lo trovai.
E risi, risi davvero tanto – e fanculo le occhiate strane di Ashley.
Risi, perché cazzo, io sapevo fin dall’inizio come sarebbe andata.
E risi ancora.
 
 
 
***
 
 
Ci fissavamo, senza dire una parola.
Io cercavo ancora di trattenere una risata (non mi sembrava il luogo adatto per lasciarsi andare), mentre lui mi guardava quasi incredulo – sembrava felice della mia presenza, comunque.
Indossava una tuta arancione  - così come tutti gli altri, d’altronde – e pensai che proprio quel colore non gli donasse per niente.
Si schiarì la voce, e io con lui.
Poi, mi sorrise; fossette abissali comprese.
“Come stai, Angie?”, era allegro, il ragazzo.
Fece pure per abbracciarmi, ma una delle guardie lo fermò severo.
Lui ubbidì.
“Alla grande Ashton. Tu?”
Mi sembrava una domanda piuttosto stupida, la mia, ma lui non ci fece neanche caso.
“Bene, mi sono ambientato ormai”, gongolò “All’inizio mi sentivo a disagio, nelle docce. Poi il mio compagno di stanza era piuttosto burbero, e anche un tantino violento. Ma ora con me c’è Fred, e Fred è simpatico”
“Davvero?”, feci, interessata “Sono felice che tu stia bene con Fred”
“Oh sì! – esultò, allargando il suo sorriso – ha ucciso una ragazza, in macchina, ma lui dice che non l’ha fatto apposta e io gli credo. Fred è una brava persona”
Una persona grandiosa, Ash.
Me lo chiesi, eccome se me lo chiesi. Mi credete stupida, per caso? Certo che me lo chiesi: in che cazzo di guaio ti stai cacciando, Angie? Stai davvero chiedendo aiuto ad Ashton Irwin?
“Se lo dici tu…”
“E comunque, avevi ragione”, si riscosse improvvisamente.
“Riguardo a cosa?”
“Riguardo a Heaven. Heaven non mi amava”
E ci credo bene, Irwin, ti hanno dato quattro anni per stalking, amico.
“Però ancora non ho capito dove ho sbagliato…”
“Beh – cominciai, cercando sempre di non ridere – la seguivi di notte continuamente, non va bene. Poi hai picchiato suo fratello pensando fosse il suo ragazzo… per non parlare di quando sei entrato in casa sua di nascosto… e insomma, vi siete lasciati da parecchi anni. Sono cose che le ragazze trovano… poco attraenti, ecco”, cercai di spiegarmi.
Lui sospirò, e sembrò riflettere seriamente sulle mie parole.
Poi “Già, forse hai ragione”, commentò, con lo sguardo basso.
Si riscosse nuovamente, puntando i suoi smeraldi su di me e sorridendo nuovamente.
“Mi sei mancata, sai? Da quando sono entrato, mi sei venuta a trovare solo una volta. Ed eri con Michael e lo sgridavi dicendo che ‘guarda con chi mi hai fatta uscire, allocco’, e ridevate, e non abbiamo parlato di Heaven e io volevo parlare di Heaven…”
Per un attimo mi immaginai la scena descritta da Ashton, e capii che eravamo davvero crudeli, io e Clifford. Pensai pure che, se non fossimo stati noi due, avrei definito i due una bella coppia.
Ma eravamo noi due e non eravamo una bella coppia.
“Ashton – lo richiamai, nuovamente – ti ricordi della nostra uscita?”, decisi di cominciare Il Discorso.
Era arrivato il momento.
“Sì, le luci di quel Luna Park erano proprio belle”
“Già, bellissime – lo liquidai velocemente – ti ricordi Calum Hood?”
“Calum Hood?”
“Sì, Calum Hood”, ci pensò un po’.
“Era il tizio delle giostre? Quello che fumava canne in faccia ai bambini?”
Sbuffai “No, quello è Bob. Calum Hood è – cioè, era il sensitivo maschio, ricordi?”
“Oh! – esultò – quello che tu prendevi per il culo?”
Stupido karma…
“Sì, proprio lui. Ecco, ti devo parlare di una cosa che è successa…”
E così, gli parlai di tutto.
Descrissi tutto nei minimi dettagli, da Michael Clifford con dei pettorali veri al colore delle trapunte, descrivendo persino il mio stato d’animo.
Parlai della mia conversazione con Calum Hood, della spada laser, e anche dei capelli blu di Ashley.
Parlavo, senza mai fermarmi, come un fiume in piena, e lui ascoltava attento ogni mia parola.
Non mi rise in faccia neanche una volta, anzi, dopo ogni parola si faceva sempre più interessato.
Non l’avrei mai detto a voce alta, mai, ma quel giorno Ashton Irwin si rivelò molto più di un Alleato: fu la mia ancora di salvezza.
Non pensavo che viaggiare nel tempo fosse così stressante (anche il fattore ‘ma sono diventata scema?’ non è da sottovalutare), ed esprimere tutte le mie parole a voce alta mi levò un peso dal cuore.
Ashton Irwin, quel giorno, fu il mio migliore amico.
“Wow”, sussurrò.
“Già”, gli diedi ragione, quasi con il fiatone. Ero quasi sicura che il mio discorso non avesse molto senso, ma a lui sembrava andare bene lo stesso.
E io non avevo bisogno d’altro.
“Sono felice che tu abbia pensato a me, Angie – disse, felicemente – sai, avevo l’impressione di non starti molto simpatico”
Dici, Ashton?
“Ah, che sciocchezze”, ridacchiai, accompagnando l’esclamazione ad un gesto disinteressato della mano.
“Pensavo che avresti chiamato Michael, in una situazione del genere”
“Chi Clifford? – lo derisi, quasi – e chi si fida di lui”
“Dovresti. Lui ti ama molto, Angie”
Inconsapevolmente, mi stava dicendo proprio quello che volevo sapere.
Eppure, sentirlo finalmente, mi fece uno strano effetto.
Una parte di me era felice: mai avrei pensato di trovare una persona che mi amasse davvero, mai.
L’altra parte di me, tuttavia, continuava ad urlarmi ‘Ma è Michael Cazzone Clifford!’, ed era una parte piuttosto convincente.
Mi schiarii la voce e “Vorrei sapere proprio di questo…”, sussurrai.
“Vuoi sapere come ti vanno le cose? Vuoi sapere come vi siete messi insieme, quando? Vuoi sapere con chi uscite, cosa vi piace fare? Vuoi sapere come ti ha chiesto di sposarlo? Come avete scelto casa vostra? Oh, questa è una storia piuttosto divertente ti piac –“
“No – lo interruppi, nonostante la curiosità mi stesse mangiando viva – non voglio sapere queste cose”
“Oh… allora cosa vuoi sapere? Risponderò a tutto!”
Mi sorrise. E il suo sorriso aveva perso una parte della sua inquietudine, il che fece sorridere pure me.
“Io… ecco, io sono felice?”, gli chiesi, quasi timorosa.
E anche se era piuttosto stupido chiedere quelle cose ad un carcerato, era l’idea migliore, in quel momento.
“Tu sei molto felice. Sia per il lavoro che con Michael”, disse felice “E io sono felice per te”
Mi si sciolse il cuore, a quelle parole, ma cercai di non darlo a vedere: avevo una reputazione, io.
“Pensi che la me diciottenne sarebbe fiera di me?”
“Sarebbe onorata di essere te, Angie”
Allora ridacchiai “Mi diverto?”, mi guardò confuso, allora mi spiegai meglio “Voglio dire: ho un fidanzato, un lavoro stabile… ma mi diverto? Vado ancora ai concerti, alle fiere, viaggio in giro per il mondo?”
“Beh – cominciò, con uno sguardo divertito – ai concerti ci vai, ma fanno sempre sold out in dieci secondi, le band. Quindi tu ti imbuchi sempre. Per il mio compleanno mi hai spedito un libro scritto da te: 1001 modi per imbucarsi ad un concerto”
Una sensazione di fierezza mi riempì il cuore di gioia, e quasi mi scese una lacrima.
Quasi, perché la scacciai con la mano prima ancora che cominciasse il suo percorso.
“Alle fiere? E’ più probabile vederti con indosso qualche costume strano di qualche personaggio dei fumetti che in jeans e maglietta. E non ti perdi neanche una fiera di qualche cibo nel raggio di 200 km”
Ergo, non avevo mai smesso di cosplayare. Mi aveva dato un assaggio Ashley, di questo mio aspetto, ed averne un’ulteriore conferma mi rendeva ancora più felice.
“Se viaggi? Hai passato il natale in India, a cavalcare elefanti. Mi hai mandato una cartolina dove dicevi ‘guarda, sto cavalcando Heaven!’. Va bene che è ingrassata, ma è stato poco carino da parte tua, Ashton”
Dentro di me esultavo, cercai di nasconderlo  “Hai ragione, Ashton. Sono stata una sciocca”
“Ti perdono, non temere”
“Ti ringrazio. Ma ora, ecco… mio fratello?”, la mia famiglia mi interessata parecchio.
Non volevo chiedere di mia madre, avevo paura di saperla morta da chissà quanto tempo, ma con mio fratello me la sentivo di rischiare.
“Tuo fratello? – rise – è proprio dietro di te”
Non feci neanche in tempo a girarmi, che sentii un braccio stringermi le spalle, con fare rassicurante.
Avrei riconosciuto quella presa da rammollito ovunque: era proprio il mio fratellone.
Avevo proprio voglia di abbracciarlo, ma non lo feci: che figura avrei fatto? Poi me l’avrebbe rinfacciato a vita, ne ero certa.
“Sei venuta a trovare la tua vecchia fiamma, Angie? Corro a dirlo a Michael, adesso”, mi prese in giro.
“Preferisco lasciargli la sorpresa il giorno del matrimonio, non temere”
“Sei proprio crudele. Come fa quel ragazzo a sopportarti, poi, non lo so”
“E’ l’avvocato di Fred” spiegò Ashton, come se qualcuno li avesse davvero chiesto qualcosa.
Tuttavia, apprezzai l’intervento.
“Oh, ti occupi di grandi personaggi tu, eh?”
“Disse quella che passa il suo tempo con i cadaveri”
“E spade laser, prego”
“Non me ne hai ancora regalata una, stupida. Le cene di Natale sarebbero tutte più divertenti così, ma tu non mi dai ascolto…”, mi rimproverò.
“Sono quasi sicura che sia illegale”
“E io sono quasi sicuro di essere io, la legge”
“No, non credo”
E mentre lui si perdeva in uno dei suoi lunghi discorsi senza senso, tra le risate di un Ashton più felice del solito, gli lanciai uno sguardo sulla mano sinistra.
Una fede, aveva una fede.
Il mio fratellone era sposato, allora.
E io non mi sentii mai felice come allora, in tutta la mia vita.
 
 
***
 
 
Non mi trattenni in prigione a lungo.
Dopo aver conosciuto Fred – che continuava a guardarmi in modo strano, se devo dirla tutta – decisi di dover proprio andare.
Non avevo neanche pranzato, il che mi sorprese parecchio.
Eppure, non avevo per niente fame.
Ero tornata a casa in taxi (grazie al cielo avevo controllato l’indirizzo, prima di seguire Michael Clifford in macchina, quella mattina), e avevo passato tutto il tempo a frugare tra le cose.
Avevo persino trovato uno ‘scatolone dei ricordi’, ma avevo preferito non guardare.
Mi ero tenuta alla larga anche dalle foto appese per tutta la casa, combattendo contro la me curiosa fin troppo spesso – ma era la stessa me che mi aveva messa in quella situazione di merda, quindi mica mi fidavo tanto.
Ad un certo punto della giornata, poi, un Michael Clifford piuttosto incazzato mi aveva chiamato al telefono gridando un ‘Dove cazzo sei?!’ spaventoso. Si rilassò solo dolo un ‘Shallati’ dall’accento giamaicano e con un voce molto simile a quella di Bob Marley.
E mi ero quasi dimenticata, io, della famosa serata con Vivian allergica ai granchi (Magnifici Granchi, prego) e altri sconosciuti.
Ero preoccupata di avere a che fare con ulteriori personaggi sconosciuti.
Ma mai quanto lo ero nel vedere Michael Clifford intento a cucinare.
Io mi ero occupata di apparecchiare la tavola inconsapevole del fatto che quella mia manovra avrebbe portato un’oscura conseguenza: sarebbe stato Michael Clifford ad occuparsi del cibo.
Sembrava a suo agio, tra fornelli e pomodori, ma continuava a non convincermi affatto.
“Ho un’idea”, feci.
Ero seduta in un posto del tavolo, e continuavo a fissarlo pensierosa, continuando a mangiare dei grissini.
“Puoi smetterla di mangiare? Ti rovini l’appetito così”
“Lo dici solo perché vuoi una moglie magra”, sbuffai.
“Se avessi voluto una moglie magra ti avrei già lasciata da un pezzo”
“Che maleducato” dissi, scuotendo la testa.
“Disse quella che continua ad insultare la mia cucina”, mi accusò.
“E in tal proposito – feci saggia – vorrei stabilire alcune regole”
“Tu e le tue stupide regole…”
Lo ignorai “Regola numero uno: se bruci qualcosa, paghi tu”
Si fermò un attimo, rivolgendomi un’occhiata confusa e “Sei così tragica”, mi disse.
Lo ignorai ancora.
“Regola numero due: se fai esplodere qualcosa, paghi tu”
“Non ti preoccupi di eventuali danni alla nostra salute?”, ridacchiò.
“No. Regola numero tre: se rompi qualcosa –“
“Pago io?”
Annuii soddisfatta, smettendo finalmente di mangiare quei dannati grissini.
Altro che moglie grassa, si sarebbe ritrovato una balena sul letto, quel Clifford.
“Impari in fretta”, feci finta di adularlo.
“Zitta e vai ad aprire, donna”
Ero quasi sul punto di prenderlo a colpi con il mestolo che stava utilizzando proprio in quel momento, ma non me la sentii di far aspettare ulteriormente la gentaglia alla porta.
I suddetti intrusi, infatti, stavano bussando con un’enfasi più spropositata del lecito.
Potetti giurare di aver sentito pure un ‘smettetela di limonare e muovetevi!’, per cui Michael Clifford ridacchiò.
Rideva, lo stronzo, capite?
Peccato che neanche il mio odio per l’essere mi distrasse dalle mie azioni: stavo andando ad aprire ai miei amici.
E sicuramente avremmo cominciato conversazioni pazzesche su tante avventure passate e, oltre a spoilerarmi vita morte e miracoli, sarei passata per quella idiota che non si ricordava niente e che si limitava a sorridere.
Una cosa positiva, però, c’era: a furia di stare a stretto contatto con Michael Clifford, avevo perso ogni timidezza nei confronti del genere umano; ergo, avevo già toccato il fondo, quindi ero capace di dare confidenza anche ad un sasso.
Almeno così, i miei amici non avrebbero avuto niente da ridire sul fronte affettivo.
Mi ero avvicinata emotivamente persino a Michael Clifford (erano litigate innocue, le nostre), il che era tutto da dire.
Così mi feci coraggio, e aprii la porta.
“Era ora, piccola Angie!”, un uragano più alto della porta mi travolse, stringendomi in un forte abbraccio.
Quasi non sentii il ‘Ehi, giù le mani dalla mia donna!’ di Clifford, tanto ero incredula di fronte a quella dimostrazione d’affetto.
Ma non tanto dal gesto in sé, ma dalla persona in questione.
Ebbene, non era niente popo’ di meno che il grande Luke Hemmings.
Neanche speravo, di vederlo. Eppure eccolo lì, con la sua altezza spropositata, i suoi cappelli biondi naturale e il sorriso di uno che mi è stato amico per tanto, tanto tempo.
Era cambiato, nel corso degli anni – grazie al cielo, sarebbe stato strano il contrario.
I lineamenti erano molto più maturi, la barbetta era diventata un must del suo stile, e non aveva più il piercing al labbro – Michael l’aveva tenuto, invece, quello al sopracciglio.
Eppure, i suoi grandi occhi azzurri erano rimasti assolutamente immutati.
E fu guardando quelle perle preziose che ricambiai la stretta del biondo, quasi con più forza della sua, e mi sentii così felice.
Ero davvero felice di vederlo, già.
Poi pensai che ‘Davvero Michael Clifford e Luke Hemmings sono rimasti amici per tutto questo tempo?’, e mi emozionai ancora di più.
Michael Clifford era una persona di merda, e Luke Hemmings era una persona troppo dolce.
Eppure, insieme, erano la coppia perfetta. E lo erano anche nel 2025.
“Ora lascia la sposina a me, Lukey”
“Oh, tesoro, dovevi solo chiedere. Lo sai che farei di tutto per te”
Sentii una risatina femminile, prima che il caloroso corpo di Luke Hemmings mi abbandonasse.
E allora, scorsi una chioma rossiccia, e due fari verdi; la riconobbi subito (una bellezza del genere non si dimenticava): era la ragazza della foto del profilo.
E molto probabilmente era anche la Vivian a cui non piacevano i Magnifici Granchi – brava ragazza.
“Angie, come stai?”, anche lei mi abbracciò, ma con un tocco ben più delicato del biondo.
Profumava di lavanda.
E tutta quella perfezione, mi intimidì.
“B-bene, tu?”, balbettai. E sembravo proprio scema, quando balbettavo.
“Alla grande!”
E poi passai all’ultimo ragazzo rimasto, ma quello non l’avevo mai visto.
“Troppe coppie felici”, disse, poi mi abbracciò.
Alla sua pseudo-lamentela risposi con una semplice risatina.
Era alto pure lui, forse un po’ più basso di Clifford. Aveva i capelli rossi e gli occhi verdi pure lui, al che pensai fosse imparentato in qualche modo con Vivian.
Effettivamente anche i loro lineamenti del viso si assomigliavano un po’, ma lasciai perdere le indagini – avevo ben altro a cui pensare, per esempio come passare la serata senza complicazioni.
Tutto quello di buono che potevo tirare fuori da quella giornata l’avevo tirato fuori con Ashton Irwin: la missione era compiuta. Dovevo semplicemente tenere fede al secondo comandamento della lista di Raven e tutto sarebbe andato bene.
“Non stai cucinando granchi, vero?”
“Non potrei mai”, rispose Clifford. E quasi mi arrabbiai quando non fece anche a lei la partaccia sui Magnifici Granchi, ma preferii non commentare.
“Ah, Angie… - mi richiamò Luke, mentre fissava divertito le performance di Clifford alle prese con della carne – non avresti mai dovuto regalargli quel corso di cucina…”
Ognuno aveva preso posto nel tavolo apparecchiato, lasciando due posti vicini l’uno all’altro.
Mi sedetti anche io.
“Ma doveva! – intervenne il sosia di Ed Sheeran (che fine aveva fatto, poi, Ed Sheeran?) – era l’anno dei regali di Natale di merda!”
L’anno cosa? Che nel corso degli anni fossimo diventati ancora più strani? Era forse possibile?
“Effettivamente conservo ancora la scultura di grucce che mi avevi regalato”, fece Hemmings, guardando il ragazzo misterioso divertito.
“Ehi, quella è arte”
“Sì, lo dicono tutti…”
“Zitti, ora, non siamo qui per questo!”, li interruppe subito la ragazza, ma non sembrava affatto arrabbiata.
Anzi, era più elettrizzata che altro.
Mi rivolse un sorriso dolce, e ancora non riuscii a rimanere indifferente davanti a tutta quella perfezione.
Non mi sorprendeva affatto che Luke Hemmings si fosse fidanzato con una ragazza simile.
“Dobbiamo parlare del matrimonio del secolo e prendere grandi decisioni su Michael e Angie!”, continuò.
E al diavolo la bellezza paradisiaca e gli occhietti dolci, bella merda di serata.


 
“No!”
“Ti dico di sì, invece”
“Michael, non affitteremo un cavallo rosa”, sbuffai, per l’ennesima volta.
“Il nostro viaggio romantico verso il ricevimento merita un cavallo rosa, Angie!”
“Sai cosa non merita? La pausa cacca, ecco cosa non merita”
Ci lanciavamo sguardi di sfida, e quasi mi sembrò di tornare indietro ai cari bei vecchi tempi del liceo.
Poi lui mi sorrise dolcemente, e rovinò tutto ancora una volta.
Sbuffai.
“Quindi – Vivian ci guardava divertita – cancelliamo il cavallo rosa dalla lista di Michael?”
Per quanto mi costasse ammetterlo, quella si stava rivelando una grandiosa serata.
Non mi ricordavo neanche l’ultima volta che avevo riso così tanto.
Avevano scelto un gioco carino: io e Michael dovevamo scrivere una lista ciascuno in cui decidevamo dei particolari del matrimonio. Luke e Vivian leggevano i punti della lista, e poi ne discutevamo.
Infine, Wade, si limitava a ridere rumorosamente, con la sua birretta in mano, e commentava ogni tanto.
La cena era finita da un pezzo (ed era pure deliziosa, maledetto Clifford), eppure nessuno di noi era intenzionato a porre fine alla serata.
“Ma bruciala direttamente, quella lista”, feci alla ragazza, che di tutta risposta rise insieme al suo fidanzato.
“Ancora non ho capito perché ti ho chiesto di sposarmi”, sbuffò invece Michael, nonostante avesse un gran sorriso stampato in faccia.
Ero stufa di quello stupido sorriso, ma feci comunque finta di niente.
“Perché sa ballare il tip tap!”, e dopo la grande battuta, Wade riprese a ridere senza freni.
Era proprio uno strano ragazzo.
“Quartetto d’archi per la marcia nuziale”, lesse Luke.
“No!”, urlò invece il mio fantomatico marito, alzandosi di colpo dal divano su cui ci eravamo stabiliti.
“Dobbiamo far cantare ‘Ave Maria’ a zia Mary!”
E io la conoscevo, quella zia Mary. Dopo aver fatto fallire il suo negozio di fiori, si era dedicata al canto lirico.
Eppure, le sue performance sembravano più parodie che altro.
“Non ci penso neanche!”, risi di gusto, solo immaginandomi la mitica zia Mary alle prese con un brano del genere il giorno del mio matrimonio.
“Ma sarebbe trooooppo divertente”, rise anche lui.
E allora “Cavolo, hai ragione – mi costò tanto ammetterlo – vada per zia Mary”
Lui mi diede il cinque, soddisfatto, per poi puntare lo sguardo su un Luke incredulo e una Vivian divertita.
“Siete proprio strani”, commentò Wade, alla sua quinta birra.
“E riprendiamo la lista di Michael: acrobati cinesi vestiti di giallo”
La ragazza, dalle risate, fece pure fatica a dire quelle parole.
“Perché vestiti di giallo?”, chiesi invece, cercando di ignorare un Wade che si stava soffocando con la sua birra.
“Non credo che sia questo il punto”, sussurrò Luke.
“Ma il giallo stonerebbe troppo”
“E’ per creare distacco con i colori pastello”
“Ma allora facciamoli rossi, no?”
“Siete molto strani”, fece ancora Wade.
“Perché rossi?”, mi chiese Clifford, più interessato che mai.
“E’ un colore più figo, no? Lo spettacolo sarà più coinvolgente con un colore così forte, no?”
E gli acrobati cinesi erano davvero divertenti, anche se abbastanza assurdi in un matrimonio, ma questo non lo dissi.
“Non vedo l’ora che mamma Karen veda questa lista”, disse Luke, scuotendo la testa divertito.
“Abbiamo noi il potere – rispose Michael, mettendomi un braccio intorno alle spalle – non può combattere il volere dei protagonisti”
E cercando di ignorare quel fastidioso peso sul mio corpo, pensai alla famosa Karen.
“Io dico che può”
“E lo sappiamo tutti – rise ancora, Vivian – ma ora andiamo avanti con la lista… la torta con la faccia di David Bowie si fa o non si fa?”
 
 
Avevamo deciso tante cose, del matrimonio: ci sarebbe stato un invitato strano ad ogni tavolo (in quello dei genitori avevamo scelto un imitatore di Jackie Chan, per noi invece un Elvis preso dalle strade di Las Vegas), per il rcevimento ci sarebbe stata una cover band dei Franz Ferdinand (e ‘quanto siete antichi!’, ci avevano detto), inoltre avevamo deciso di mettere cupcake colorati per tutti i tavoli.
Lasciarono la casa che erano le 2.30, con un Wade ubriaco e Vivian con la ridarella.
Meno male che c’era Luke, sempre con la testa sulle spalle, e aveva risolto lui la situazione.
“Non vedo l’ora di leggervi il mio discorso da testimone”, ci aveva detto, prima di uscire.
E anche io volevo sentirlo, magari con un altro marito al mio fianco.
Gli avevamo augurato la buonanotte, e una volta chiusa la porta, mi sentii in imbarazzo.
Sapevo cosa dovevo fare: andare nel letto insieme a Michael.
Lui già era entrato, in camera. Io con la scusa del ‘devo bere’ mi trattenni qualche momento in cucina.
E lì sì, che arrivarono i problemi, quelli a cui non avevo pensato per tutto il giorno.
Quelli che arrivavano con la notte, e ti spaventavano, tanto.
‘E se non mi svegliassi nel 2015, domani? E se rimanessi ventottenne per sempre? E se mi perdessi i miglior anni della mia vita? E se non mi conoscessi nemmeno? Cosa avrei fatto, allora?’
Avevo dato per scontato che mi sarei svegliata nella mia realtà, eppure, in quel momento i dubbi furono tanti.
E avevo voglia di scappare, di trovare Calum Hood, di guardarlo dritto negli occhi e poi picchiarlo, picchiarlo forte.
“Angie”, sentii una voce chiamarmi, lieve, e subito dopo una figura.
Michael Clifford indossava dei pantaloni grigi, probabilmente di una tuta, e una maglietta a maniche corte dei Radiohead, parecchio scolorita.
“Tesoro”, mi raggiunse, e mi abbracciò forte.
Passò la mano sulla mia schiena, con dolcezza, quasi volesse portare via così il velo di tristezza nei mie occhi.
Chiaramente non sapeva di essere lui stesso la causa della mia tristezza, ma era meglio così.
E lui mi guidò fino alla nostra camera, ancora stretto a me, con mosse davvero impacciate che mi fecero ridere.
Lui rideva insieme a me.
Quasi fui tentata di chiedergli di andare a dormire sul divano – ma dopo quella serata non mi sembrava davvero il caso.
“Buonanotte, Angie”, mi sussurrò ad un orecchio.
Eravamo messi a cucchiaio, e il disgusto per quella posizione soppiantò per un attimo i miei timori.
Le cose non erano cambiate: io odiavo ancora Michael Clifford, nonostante l’incredibile giornata. E avrei continuato ad odiarlo.
Quindi, in nome di quella stupida polverina, speravo di avere almeno dieci anni di tempo per convincermi a sposare quello strano ragazzo.
E saperlo al mio fianco, in quel momento, paradossalmente mi diede più forza di sperare.
Speravo, speravo tanto.
E intanto pensavo agli acrobati cinesi.
“Buonanotte, Clifford”
Ma non sembrava esattamente una notte buona, quella.
Io, in un modo o nell’altro, continuavo a sperare.
 
 
 


Que sera, sera
Whatever will be, will be
The future's not ours to see
Que sera, sera
What will be, will be



 
Angolo autrice

Cioè, ragà, sono tornata. Alzi la mano chi se lo aspettava!
No sul serio, questa volta ho la scusa migliore del secolo.
In pratica le mie due più grandi amiche (ho amici, lo giuro, ma solo loro due shhh) sono state investite lo STESSO GIORNO in due parti completamente diverse della città e boh, dopo un momento in cui ho riso tanto perchè 'ah, che sfigate!', c'è stato il panico e sono andata a trovarle in ospedale. Ebbene, la Fede si è solo fatta un po' male al piede ma è una scenosa pazzesca, invece la Vane si è rotta la gamba e l'hanno operata povera.
E insomma, ero troppo occupata a fare la buona amica offrendo pranzi e pranzi della Mc alle due sfigate e non ho scritto niente. 
Che poi, con le mie battute di humor nero sono diventata bff con il dad di Fede, mentre la madre della Vane non ha apprezzato tanto e mi ha cacciata dalla camera della figlia wtf. Ebbene sì, non posso più andare a trovare Vane quando c'è la madre perchè mi trova "inopportuna" - la storia della mia vita.
 

MA PASSANDO AL CAPITOLO 

Non sono soddisfatta, per niente, ma contemporaneamente sentivo di non poter migliorare le cose.
E' stato un PARTO cavolo, neanche vi immaginate. Ma vi prego di non odiarmi.
Non so se vi aspettavate un cambio d'idea su Michael durante il capitolo, ma sappiate che non ci sarebbe mai stato.
Poi che le cose tra Mike e Angie sarebbero andate così, mi sembrava piuttosto ovvio.
COMUNQUE, grandi notizie: il sequel non ci sarà più. 
Quindi potete evitarvi altre merde, investimenti, Michael Clifford con cAPelli NOrMALI coSa e viaggi nel tempo.
Quindi con il prossimo capitolo finisce la storia.
Al massimo scriverò qualche one-shot (una o due) su questa serie, ma niente di più.


PER QUELLI CHE SEGUONO SIA EUROPE CHE QUESTA, I need consigli:
Aggiorno prima questa, con il finale, o Europe? perchè tipo che quella non la aggirono da più di un mese e mmmmhhh, però dai, decidete voi. Sappiate che in un modo o nell'altro non so quando aggiornerò bc ho la fantasia di un sasso e faccio skifo srry.

Quindi grazie a tutti della lettura, a presto (spero) :)

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