Lettera a una mamma che non ha saputo amare (me)

di SofiaAmundsen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cara mamma, ***
Capitolo 2: *** Cara mamma, ***
Capitolo 3: *** Cara mamma, ***
Capitolo 4: *** Cara mamma, ***
Capitolo 5: *** Cara mamma, ***
Capitolo 6: *** Cara mamma, ***
Capitolo 7: *** Cara mamma, ***
Capitolo 8: *** Cara mamma, ***
Capitolo 9: *** Cara mamma, ***
Capitolo 10: *** Cara mamma, ***
Capitolo 11: *** Cara mamma, ***
Capitolo 12: *** Cara mamma, ***
Capitolo 13: *** Cara mamma, ***
Capitolo 14: *** Cara mamma, ***
Capitolo 15: *** Cara mamma ***
Capitolo 16: *** Cara mamma, ***



Capitolo 1
*** Cara mamma, ***


Cara mamma, 
 
ti ho sempre chiesto di scegliere, o me, o lui. E tu ti sei sempre rifiutata di farlo, o almeno è questo quello che dicevi a me.
Ma adesso che sono qui, per ironia della sorte, tutto mi sembra più chiaro e capisco che è stato scelto lui, ma a scegliere non sei stata tu.
 
Non potevamo esserci entrambi, questo lo hai sempre saputo, in fondo. Il mondo non era abbastanza grande per l'odio tra un padre e una figlia, per l'odio tra me e lui. E l'universo è come la giungla, questo l'ho imparato, vale la legge del più forte. Io sono la bambina. Lui l'orco. Io sono la donna. Lui l'uomo. Io ero fragile. Lui era roccia. Ed è strano, perchè adesso mi sento incredibilmente forte, mi sento potente, coraggiosa, grande, sento che la scelta è nelle mie mani, e io scelgo lui, scelgo te, scelgo voi, scelgo di morire e abbandono la battaglia, perchè ho lottato troppo e so di aver perso. O di aver vinto, con il vento tra i capelli e gli ultimi ricordi che sfrecciano tra le lettere della parola suicidio.
 
Il vento tra i capelli, come quando andavo in altalena e facevo finta di essere felice.
Ti ricordi quando andavamo ai giardinetti, quelli nella piazza sopra a casa nostra? Quelli alla fine della salita ripida e brecciosa?
I giardinetti rossi. Li chiamavo così perchè tutti i giochi erano verniciati di rosso. C'era uno scivolo rosso, una girandola rossa e un'altalena rossa. Erano giardinetti piccoli, ma a me piacevano così tanto. E a te piacevo io, ancora. 
Facevo sempre un giro su ogni gioco, poi ricominciavo, così da non annoiarmi mai, e tu mi spingevi un po', o mi aiutavi a salire sullo scivolo, o mi guardavi dalle panchine sorridendo di una bambina paffuta nel suo cappottino, cucito da te, che si arrampicava sulle scalette rosse.
Poi hanno tolto l'altalena. C'erano pochi bambini in quella zona, non servivano dei giardinetti. Poi la girandola. Poi una panchina.
Poi, ce ne siamo andati noi.
 
Siamo andati via da quella casa che tu e tuo marito odiavate, quella casa di cui parli con disprezzo, tutte quelle scale, mai un posto in cui parcheggiare. Quella casa di cui io non ricordo niente.
Ho una fitta al cuore, ogni volta che la nomini, perchè penso che ci sei dovuta andare per forza, li, perchè è stato il meglio che hai trovato, nel poco tempo che hai avuto dopo aver scoperto di essere incinta, dopo aver scoperto di aspettare me.
Nomini quella casa e sputi odio e fastidio e io penso "ti prego, mamma, non dare la colpa a me, ti prego, non volevo", ma in fondo lo so che la colpa è mia, un incidente imprevisto e fastidioso come un polso slogato.
 
Poi ci siamo riandate, in quei giardinetti. Ma non era più la stessa cosa. Tu non eri più la stessa.
Era rimasto solo lo scivolo, arrugginito e sporco, e quasi tutta la vernice rossa si era scrostata e lasciava spazio al metallo freddo e grigio. Quel giorno aveva piovuto, ma poi un sole luminoso e caldo, come ora non ce ne sono quasi più, aveva asciugato tutto. Una piccola pozzanghera, però, rimaneva da ricordo della pioggia caduta e rispecchiava nell'acqua torbida il sole splendente, proprio alla fine della lastra metallica dello scivolo sulla quale il sole disegnava linee imperfette. 
Ero così delusa! E volevo scivolare per forza, nonostante la pozzanghera. Sono sempre stata così testarda, me lo dici di continuo, quelle poche volte che parliamo. Parlavamo.
Così ho deciso di scivolare lo stesso e ti ho chiesto di fermarmi prima di cadere nella pazzanghera, di prendermi al volo così non mi sarei sporcata. Te l'ho fatto promettere tante volte, almeno dieci, credo, perchè giá avevo cominciato a fidarmi meno degl'altri e più di me stessa. 
Solo quando ero stata sicura avevo iniziato a salire faticosamente le piccole scalette ed ero arrivata in cima, sentendomi un po' importante per avercela fatta da sola. Mi ero seduta, pronta per scivolare, e te l'avevo fatto promettere un altro paio di volte, per sicurezza.
 
«Pronta mamma?»
 
Ero stata io a chiederlo a te, non tu a me, come fanno i grandi prima di spingerti sull'altalena o farti volare sopra la testa, e forse era giá un piccolo segno del destino.
Tu hai annuito distrattamente e io, felice, mi sono spinta in avanti, con le manine paffute che sfregavano sui bordi ruvidi dello scivolo, ma quando è arrivato il momento, tu non mi hai preso.
É successo tutto in un minimo secondo, eppure ho avuto il tempo di pensare, come ti succede misteriosamente in quei momenti. 
 
Mamma, prendimi!
Mamma, ora!
Mamma, non ti dimenticare di me. 
 
Non mi hai preso e sono caduta nella pozzanghera, affondando suduta nell'acqua fino alla pancia. 
Era fangosa e sporca e ricordo quella terribile sensazione fastidiosa dei vestiti bagnati che mi si appiccicavano addosso e le mani marroni di quella melma, ma il vago bruciore di disagio che mi si era diffuso dentro non era stato per il fango o lo schianto, ma perchè tu mi avevi lasciata cadere.
Mi sono sentita tradita. Abbandonata. Persa. Sola. Ho sentito che tu non c'eri, non c'eri più, ho sentito che per me non c'erano le calde mani di una mamma a prendermi, ma il freddo e duro terreno. Ho sentito che non potevo piú fidarmi di te.
 
E ho iniziato ad urlarti contro, perchè io sono così, niente lacrime, solo denti e unghie da mostrare. Ma avevo voglia di piangere, di piangere per te, che non ti importava fossi bagnata, mi hai solo chiesto di mettere una busta sul sedile della tua macchina, per non sporcarla, e piangere per me, che avrei voluto una mamma che mi sollevasse tra le braccia e invece ne avevo una che si dimenticava di prendermi.
 
Ci siamo riandate in quei giardinetti, ma tu non eri più la stessa: già non ti importava piú di me.

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Capitolo 2
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,
 
è di questo dolore che ti parlavo quando non riuscivo a spiegarti come si può soccombere sotto un peso più grande della tua forza, più grande di te. Una fitta al cuore, tagliente, affilata, aguzza, che preme ogni giorno, ogni momento, e non se ne va mai. Non se ne va, è sempre lì a cercare di traforarti il cuore e osservarne i rivoli di sangue. Puoi ignorarlo, ed è facile fingere che non ci sia, che vada tutto bene, sorridere al mondo tra le macerie del tuo, ma fa male ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno.
 
Ho provato a spiegarti come mi sentivo, ma tu non hai mai avuto tempo di ascoltare, tu che il tempo avresti potuto venderlo. Ho provato a raccontarti di una bambina che si sentiva piccola come una lacrima nel mare sotto mani così grandi da essere tempesta, distruzione, morte, che cercava uno scoglio tra l’indifferenza e la follia di due persone. 
 
Ho provato a raccontarti di un’adolescente che si sentiva persa in un universo di ripicche, inganni, odio, senza trovare un appiglio, senza riuscire a riemergere, che guardava il mondo, guardava voi, con un velo di tristezza negli occhi di chi la felicità non sa cos’è.
 
Ho provato  raccontarti della donna che sarei diventata, se tu me l’avessi permesso, una donna forte, vera, sicura, una donna che lotta contro il mondo e contro i ricordi per lasciare la sua impronta in qualcosa e non scivolare via come tanti volti nel mare. Una donna. Non come te, che sei solo l’ombra di tale.
Ma tu non hai mai voluto ascoltarmi.
 
Perché è questa la differenza, mamma, è tra potere e volere. Avresti potuto abbracciarmi, quando ancora entrambe eravamo in grado di farlo, ma non hai voluto. Avresti potuto dirmi che mi volevi bene, quando ancora questa frase non era macchiata di bugia, ma non hai voluto. Avresti potuto capirmi, quando ancora avevo il cuore aperto per lasciarti entrare, ma non hai voluto. Avresti potuto salvarmi, ma non hai voluto.
 
 
Ti ricordi quando ho finito la quinta elementare c’era quella festa per salutare i compagni di scuola? Io non ho mai avuto tanti amici, ma mi sarebbe piaciuto andarci. Era importante, come per i bambini sono importanti le cose piccole che improvvisamente diventano enormi  e indispensabili.
Ti ho pregato tanto di accompagnarmici ma tu, ancora una volta, non hai voluto. Non volevi accompagnarmi perché alle tre del pomeriggio eri abituata a dormire, a lasciare sola una bambina piccola senza farti tanti problemi, perché quando abbandoni qualcuno prima che sia pronto, questo impara così è l’autonomia, e la solitudine. Io ero abituata a stare da sola, a fingere di non avere bisogno di te e tu eri abituata a non interessarti a me, mentre dormivi vicino al tuo mostro, dimenticando di essere madre per essere moglie.
Non mi ci avevi portato e io,  che avevo visto una possibilità di essere felice, anche soltanto per un’ora, sfumata davanti ai miei occhi tristi, avevo passato il pomeriggio a piangere.
Ma se non sei che ebrea in terra di nazisti, le tue lacrime non hanno diritto di esistere.
Tuo marito si era alzato dal letto e come l’orco malvagio che è sempre stato era entrato in camera mia: sbattendo, urlando, odiando.
Lo avevo disturbato con i miei singhiozzi. Avrei dovuto piangere in silenzio, o non piangere affatto, secondo lui. Non lo so, so solo che le parole scagliate contro di me erano molto più grandi e pesanti di quanto non lo fossi io.
Ma non mi ero voltata: io ero la bambina che doveva apparire forte, quella che a dieci anni era già stata donna, mamma, vecchia. Non volevo mi vedesse piangere. Così ero rimasta piegata su me stessa, in ginocchio sul pavimento, la schiena rivolta a lui, a sussurrare nella mia testa ti prego vai via, ti prego vai via. 
Fin quando non avevo sentito un dolore lancinante alla schiena e allora avevo cercato solo di riprendere aria. Ma non ci riuscivo. Non respiravo, come se qualcosa mi fosse caduto addosso così pesante da schiacciare i polmoni. 
 
Solo dopo quel lunghissimo, eterno, momento di panico ero riuscita a girarmi e capire. Mi aveva lanciato contro il bigliardino. Il legno mi aveva colpito la spina dorsale e i manicotti mi avevano ferito i fianchi. 
Avrebbe fatto male per giorni, ma questo non te l’ho mai detto.
Il paradosso? Me lo aveva regalato lui, quel bigliardino, per il io compleanno. 
 
Quando te lo avevo raccontato, non piangevo più. Ero solo seria e speravo, ancora, ancora e ancora, che tu capissi. Ma non hai capito. Non hai voluto capire.
 
Mamma, avrebbe potuto spezzarmi la spina dorsale.
 
Eh capirai.
 
Quello che mi resta, ora, è solo il ricordo dei tuoi no, di tutto quello che non hai voluto, di tutte le tue mancanza, e se penso a ciò che di bello mi rimane di te, sento un grande vuoto dentro, profondo come quello che mi aspetta, sotto di me.

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Capitolo 3
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,
 
in questo momento penso ai tuoi occhi. È stupido, perché di mille cose a cui potrei pensare, penso ai tuoi occhi, che non ho mai avuto il coraggio di cercare.
 
Penso ai tuoi occhi che mi hanno guardata piangere tante volte. Tornavo da scuola e fingevo che andasse tutto bene, con la solita espressione di chi ha visto già tutto e sembra immune al mondo, quando in realtà avevo infinite ferite aperte che sgorgavano sangue dentro di me, tossendo dolore, sputando tutto l’odio che mi era stato buttato addosso e che in qualche modo avevo assorbito, facendolo mio, facendone la mia difesa contro la paura di desiderare ancora essere amata. Ero così brava a fingere, che a volte ingannavo anche me stessa. Ma poi c’eravate voi a riportarmi alla realtà. C’erano le vostre parole avvelenate, i vostri sguardi di sarcastico disprezzo, le vostre voci scure. E io, piccola come non lo sono mai stata, forte come avevo imparato ad essere, non volevo lasciarvi il dolce sapore della soddisfazione, così mentivo ancora, ostentando indifferenza, finché quelle scale che ho imparato a detestare finivano sotto i miei passi stanchi e la mia camera mi aspettava pronta a contenere tutti i singhiozzi del mondo, pronta ad ascoltare il dolore di una vita.
 
Piangevo, piangevo per ore, mentre sussurravo un perché a cui nessuno ha mai risposto, o lo urlavo, citando un Dio che non mi ha mai salvata dai suoi figli, disperando la sofferenza che grondavo, che mi appesantiva, rendendomi una vecchia con il peso del mondo sulle spalle a un’età in cui il mondo non lo conoscevo ancora. Piangevo, senza più asciugarmi il viso, come se non fosse stato importante, come se farlo avesse voluto nascondere quelle lacrime salate, amare, sofferte, e io di nascondermi, non ne potevo più.
 
Poi entravi tu, a volte. Quasi sempre. Non sei mai entrata solo per me, mai. Entravi perché volevi leggere il termostato sulla mia finestra, o perché il mio armadio era troppo grande per una ragazzina che non ha vestiti, così lo riempivi di roba che non avevi il coraggio di buttare, lasciandola lì, sperando che, non so, se ne fosse andata da sola. Un po’ come hai fatto con me. Vedevi che stavi piangendo, non ho mai cercato di occultare le mie lacrime calde, ma tu non mi hai mai chiesto tutto bene?     Io che odio le domande retoriche, quella avrei voluta sentirmela dire. Mi guardavi piangere, con i miei occhi che urlavano dì qualcosa, ti prego e tutto quello che riuscivi a dire era
 
Metti in ordine questa stanza, fa schifo. Come te.
 
Penso ai tuoi occhi, a quante volte hanno visto e a quante volte non hanno parlato. I tuoi occhi sono come i miei. Sono scuri, di quel marrone che diventa quercia quando anche il cuore è scuro. Se guardi bene, riesci a vederci dentro tutto il dolore di una donna che era tale e che un uomo ha trasformato in reminiscenza di essere umano, sotto forma di rassegnazione che si muove a comando. Quindi sapevano, tu sapevi, quando il mio sguardo implorava pietà supplicando il mostro di lasciarmi andare, quando si riempivano di lacrime sotto le sue mani assassine e violente, sotto quei colpi che ancora sento addosso, quando mi sveglio in piena notte urlando, perché il gatto ha fatto scricchiolare le scale e io penso che sia lui, di nuovo troppo fatto per ricordarsi che sono ancora piccola. Sapevano quanto stavano soffrendo. Forse, non sapevano che se io piangevo, con il corpo che tremava sotto percosse che avrebbero potuto uccidermi se assestate nel posto giusto, non era per il dolore fisico, quel bruciore così intenso da andarmi al cervello, da dilatarsi sulla pelle come olio in un pavimento liscio, non era per i lividi che sapevo avrei dovuto ricordarmi di avere, quando mi sarei mossa tra la gente i giorni successivi e quelli dopo ancora. Quelle lacrime, erano per te, per i tuoi occhi che vedevano e non parlavano.
 
 
Penso ai tuoi occhi, che, come un Dio difronte a crociate che non ha chiesto, guardavano senza osservare una bambina che mossa da un istinto donatoci non per difenderci dai propri genitori, si raggomitolava su sé stessa, così da proteggersi il più possibile da mani enormi e da cattiveria ancora più grande.
 
Penso ai tuoi occhi, che mi hanno vista morire e non hanno mai parlato.
 
Penso ai tuoi occhi e a tutta l’indifferenza che mi hanno vomitato addosso.

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Capitolo 4
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,

scusami se ci sto ancora male, forse non dovrebbe importarmi più, non dovrebbe essermi mai importato.
 
Eppure ho ancora voglia di stare male per te, nonostante tu per me non sia mai stata male. Io sono quella egoista, tu quella che si sacrifica per la famiglia, eppure, delle due, quella che ora sta aspettando la morte con il suicidio che la spinge sempre più verso il vuoto sotto di lei, quella che piange per l’altra, sono io.
Forse non piango davvero per te, forse piango per le donne. Piango per le donne che tu rappresenti, per tutte quelle donne che non hanno mai avuto il coraggio di  essere tali, che si sono lasciate sprofondare nel loro dolore, arrivando così in basso nel buio di quel nero denso e appiccicoso, da imparare a vivere per inerzia, muovendosi meccanicamente tra i pomodori del supermercato, come un corpo senz’anima. Ed è effettivamente quello che sono: donne, senza più nulla, neanche loro stesse. Donne che erano troppo deboli per sentirsi delle principesse, donne che erano troppo deboli per dire di no a un uomo che le ha illuse e che poi ha preso la loro vita e l’ha schiacciata sotto il peso della violenza. Donne che sono diventate serve, oggetti, ombre.

Tu, mamma, sei una di quelle donne e io, che ho lottato tutta la vita per un sesso che la storia ha sempre guardato con sufficienza, questo non l’ho mai accettato. Ma ora che non ho più motivo per lottare, ora che non ho quasi più neanche la vita, posso solo cercare di capirti. Ci provo, te lo giuro, ma riesco solo a vedere tutta la tua sofferenza, tutte le tue lacrime.

Ti cerco nei ricordi di quando ero piccola e vorrei vedere una mamma dalla quale andavo a piangere se qualche bambina mi prendeva in giro a scuola. Invece, vedo solo te, che piangi su di me come se io fossi stata già grande, che piangi su di me come un’adulta sulla sua roccia, che piangi su di me senza dirmi niente, senza spiegarmi niente, affidando alla mia intelligenza tutti i dubbi che una bambina può avere quando vede la propria madre sgretolarsi lentamente sotto le mani di un gigante.
E io capivo già. Perché lo sai che piccola non lo sono mai stata, che sono sempre stata la bambina che capiva tutti e stupiva il mondo ogni volta che parlava, lo sai che piccola non lo sono mai stata, perché non ho potuto: ho dovuto dare a te il tempo di esserlo, piccola sotto le sue mani. Capivo della droga e della follia, capivo della tua assurda Sindrome di Stoccolma che ti portava ad amare quel mostro, capivo della tua fragilità, di come ti attaccavi a quel dolore perpetuo perché era l’unica cosa che ti era rimasta.
Quello che non capivo era che cosa ti tenesse ancora chiusa in una gabbia che avevi costruito da sola. Ci hai provato, per un po’, a fingere che fossi io il motivo per cui non volevi divedere una famiglia che non c’è mai stata, ma poi l’hai capito da sola che stavi mentendo a te stessa, mentre disperata ti urlavo portami via, salvaci.

Non lo capisco neanche ora, ma adesso non ha più importanza. Adesso ti vedo ancora piangere e urlare pietà sotto quelle mani, ti sento ancora gridare il mio nome nel cuore della notte per pregarmi di aiutarti da lui, cerco il tuo sguardo perso nei miei ricordi e fingo di non notare quanto tu sia irriconoscibile, gialla e viola in volto, dopo che lui è passato sopra a tutti noi. E poi vedo lui, che, pazzo più del solito, torna al suo divano e non sa, o forse finge, di aver distrutto delle vite.

E poi vedo me, con un peso enorme sulle spalle che cerco di portarti in salvo, come un moderno Atlante. E sorrido, perché adesso quel peso non esisterà più: a schiacciarmi, sarà solo la forza di gravità che mi toglie l’aria e spegne i miei ricordi ardenti per sempre, liberandomi.

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Capitolo 5
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,
 
mi fa schifo chiamarti così. Mi fa arrabbiare. Lo odio. 
 
Non mi piace chiamarti mamma, perché tu, una mamma, per me, non lo sei mai stata. Sei stata una madre, forse: hai cucinato per me e mi hai lavato i vestiti. Ma non hai mai asciugato le mie lacrime mentre piangevo, non mi hai mai detto che andava tutto bene quando credevo il mondo stesse per crollare, non hai lasciato che ti urlassi contro perché il mio fidanzato mi aveva lasciata,  non mi hai mai fatto le trecce nei capelli, non hai mai appeso un mio disegno al frigorifero,  non mi hai mai detto che ero bellissima con un vestito.
 
Questa cosa, in particolare, mi è mancata.
 
Mi sarebbe piaciuto che mi avessi trovata bella.
Te lo dico ora, che non ho più nulla da dimostrare, che non serve che io ostenti la mia finta immunità al dolore, la mia forza, non ora che mi sto arrendendo nel più completo e vile dei modi. 
Mi sarebbe piaciuto che, guardandomi, ti si fossero riempiti gli occhi di orgoglio, nel vedere che stavo diventando una donna, che iniziavo ad avere  il seno e ad essere  più alta di te di qualche centimetro. Mi sarebbe piaciuto che mi avessi comprato dei jeans aderenti perché, vedendoli in una vetrina o indosso a una ragazza che li provava, avessi pensato che a me sarebbero stati bene. 
Mi sarebbe piaciuto vederti trattenere a stento le lacrime, la prima volta che ho messo un vestito.
Mi sarebbe piaciuto vederti sorridere, anche se un po’ preoccupata per le mie caviglie, quella sera che ho messo i miei primi tacchi.
Mi sarebbe piaciuto che mi avessi sistemato i capelli lunghi dietro le orecchie, o che me li avessi arricciati con il ferretto, in un modo che avrebbe risaltato il mio sorriso, o i miei occhi, o qualsiasi cosa avessi trovato di bello in me.
 
Invece mi hai sempre trovata brutta. E mi fa male due volte, perché io ti somiglio come una goccia d’acqua.
Mi guardavi con disprezzo, riuscivo a leggerlo dalla piega della tua bocca, prima che dai tuoi occhi. Avevi quell’espressione di chi guarda qualcosa di riluttante, come del pesce marcio o un cadavere squartato in un film poliziesco. Forse, perché ero grassa.
 
Mi dispiace mamma, per essere stata una di quelle persone che mangiano quando non sono in grado di parlare. Mi dispiace per aver sostituito il cibo alle lacrime. Mi dispiace per essermi dovuta nascondere in un barattolo di nutella, pur di non sentire le vostre parole.
Avrei dovuto avere la forza di capire quanto male mi facesse quello sfogo masochistico, anche se dentro di me, almeno un po’, lo sapevo: ogni volta che mangiavo mi sentivo sprofondare sempre più in basso.
Tu hai sempre odiato il fatto che fossi grassa. Perché non ci si può vantare con le amiche di una ragazzina che pesa novanta chili a tredici anni, non si può dire loro guardate quant’è bella mia figlia, ma soprattutto non si può dire loro che se mi nascondevo dietro a una massa che non rispettava la mia anima, è perché avevo paura di voi, dei vostri colpi e delle vostre parole.
 
Quante, quante parole mi hai detto quando mangiavo. E quante me ne ha dette il tuo mostro.
Le ricordo ancora tutte, nonostante io abbia pregato per dimenticarle, nonostante ci abbia provato con tutta me stessa, ogni giorno. Ma tranquilla, le ho seppellite dentro di me e non le ho ascoltate più. Lascio che parlino ora, che non ho più niente da perdere.
 
Fai schifo.
Dovremo allargare la porta.
Sei una disadattata.
Finirai per morire di diabete.
Sembri un camionista.
 
E ti vergognavi di me. Lo hai ammesso, in un modo o nell’altro. 
 
Ti vergognavi quando mi portavi in un negozio, perché i miei jeans erano così lacerati che non riuscivi a rattopparli per la terza volta, nonostante avessimo soldi per comprare tutti i pantaloni degli scaffali, anche quelli che non mi piacevano, anche quelli da uomo.
Mi guardavi come se avessi potuto uccidermi con la cattiveria nei tuoi occhi castani, mentre sceglievo vestiti da provare, poi mi raggiungevi in camerino e lì, mi uccidevi davvero. Le tue frasi facevano male perché eri tu a dirle, perché mi stavi insegnando qualcosa che mi avrebbe segnato per sempre, qualcosa che ho disimparato troppo poco tempo fa: nessuno al mondo mi avrebbe mai apprezzata.
 
Dove pensi di andare con quei pantaloni? Non vedi che ti fanno i rotoli di grasso?
La gente riderà di te.
Sai quante ne dicono alle tue spalle le tue amiche, quando ti vedono vestita così?
 
Se solo tu sapessi, mamma, quante volte avrei voluto sprofondare nel pavimento lucido di quei camerini. Avrei voluto piangere e sparire tra quelle mattonelle, morire, anche con dolore, e non dover uscire da quella tenda per sentirmi addosso gli sguardi delle commesse che ci avevano sentite urlare, tu contro di me, io in difesa da te.
Alla fine, morivo davvero. Morivo uccidendo la mia volontà e lasciando che mi comprassi vestiti di due taglie più grandi: perché nascondermi dietro gli sbuffi di una felpa era più facile che accettarmi.
 
Ti vergognavi di me anche solo uscendo e portandomi con te. Come quella volta che, quando le porte trasparenti e automatiche del supermercato si sono aperte, tu ti sei allontanata con il carrello e i hai intimato di starti lontano, perché non volevi chela gente sapesse che ero con te.
 
Poi sono dimagrita, con la forza di una speranza e di un’amica. Il mio corpo raccontava storie di allegria e d’amore, con le curve giovani e i segni della sofferenza nascosti bene sotto i top aderenti. Avevo smagliature enormi, come i solchi che mi avevi scavato nel cuore. Ma questo gli altri non lo vedevano: ora, la gente riusciva a vedere solo una ragazza con i vestitini che le lasciavano le gambe scoperte e si affacciavano sul seno.
Allora era più facile trovarmi bella, no? Allora potevi portarmi in un negozio e far si che uscissi senza te che mi urlavi dietro di coprirmi.
Ma era troppo tardi. Perché è troppo facile amare le cose belle, quelle che piacciono a tutti: tu avresti dovuto cogliere le sfumature che nessuno vedeva, ma non l’hai fatto.
 
Non sei stata una mamma, non una di quelle che pensano che i loro figli siano i più belli del mondo, anche se la chemioterapia ha fatto cadere loro tutti i capelli, anche se hanno una cicatrice che attraversa tutto il viso. Non sei stata una mamma che ha saputo amare, me. Non sei mai stata una mamma.

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Capitolo 6
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,
 
perché ho ancora voglia di piangere?
 
Le cicatrici non dovrebbero aver smesso di bruciare, ora che non potranno più sanguinare, ora che non ci sarà neanche più un corpo da infettare?
E invece bruciano e sanguinano mentre scrivo questa lettera, perché attraverso le mie dita passano tutti i miei ricordi, quelli che non mi hai mai concesso di avere, passano tutte le parole, quelle che non mi hai mai permesso di dirti.
 
Le prime, tra queste, sono ti voglio bene.
 
Non sono mai riuscita a dirtelo perché c’era sempre qualcosa di troppo grande tra di noi perché ci riuscissi, c’era sempre un uomo che ti aveva assorbita e mangiata e poi rimesso di nuovo al mondo, senza che tu fossi più te stessa, ma un’appendice del suo pensiero malato. C’era la tua vita senza di me, che ti chiamava da un’isola felice della tua testa in cui tu avevi deciso che io ero la causa dei tuoi problemi, io ero la cattiva, io ero il danno. C’era l’odio, l’astio, il risentimento, come se fossimo state  nemiche, come se io fossi stata Cenerentola e tu la matrigna, come se tu fossi stata Biancaneve e io la strega.
 
Non c’erano carezze e abbracci, non c’era buonanotte principessa prima di dormire, non c’erano sorprese dolci e belle nella loro semplicità, non c’eri tu che eri contenta dei miei voti a scuola, non c’ero io che tornavo di fretta per vedere i tuoi occhi brillare mentre leggevi la pagella.
 
Soprattutto, non c’erano sorrisi.
 
Forse sono la cosa che mi è mancata di più. Perché tu mi hai regalato una vita buia, grigia, triste, una vita in cui non c’erano luccichi a splendere nel viso di nessuno, in cui l’aria era così pesante da schiacciarmi il cuore, in cui c’era solo tenebra, mai luce. Una vita che, sai, avresti potuto tenere o buttare, invece di lacerarla e lasciare a me l’ingrato compito di metterle fine.
Mi chiedevo sempre com’era il tuo sorriso, da piccola, perché non lo ricordavo. Perché non sorridevi mai, mamma?
Forse sorridevi, ma non a me. Quando mi parlavi, la tua voce era dura, il tuo sguardo era duro, le tue labbra erano dure. Anche il tuo cuore era duro: non mi hai mai permesso di entrarci e trovare posto. E io ero invidiosa dei sorrisi delle altre mamme, che prendevano in braccio le figlie come fossero state piume, sorridendo, che le aspettavano davanti a scuola, sorridendo, che compravano loro il gelato, sorridendo.
 
Tu non hai mai sorriso mentre facevi queste cose, perché io non ero la tua gioia, io ero il tuo lavoro. Io ero quello che dovevi fare, perché il senso del dovere ti spingeva a tenermi vicina, ma tutto, in te, mi allontanava. Riuscivo a sentire il fastidio traspirare dalla tua pelle quando entravo nella stanza, lo avvertivo come un gas mortale che mi entrava nei polmoni e mi soffocava lentamente, in una morte dolorosa  e maligna, che ti da il tempo di riflettere su tutto quello che non hai avuto. Era irritazione, disturbo, sdegno, quello nei tuoi occhi, non amore.
Non si ama un lavoro, un lavoro lo si fa, annoiati, aspettando che finisca. Si ama una figlia, ma non so quanto tu possa avermi considerato tale.
 
Quel fastidio è cresciuto insieme a me. Io diventavo grande, tra  i vostri no e il vostro odio, tra le mura di quella prigione, tra le nuove scoperte, la nuova consapevolezza che il mondo non era fatto tutto di persone come voi, che, al di fuori di casa mia, qualcuno mi voleva, per qualcuno ero importante. E diventava grande il tuo fastidio, con tuo marito che moriva sempre più nella mia vita, che diventava un’ombra sfocata nei miei ricordi, le mie urla durante la notte, negli incubi, man mano che imparavo a mentire a me stessa, fingendo che non esistesse. Cresceva il tuo fastidio e non era più un sospiro trattenuto, ma erano parole che mi vomitavi addosso ogni giorno. Era tu che non mi permettevi di realizzare i miei sogni. Era tu che mi guardavi scocciata quando tornavo da scuola o uscivo dalla mia camera. Eri tu che non mi volevi in quella casa e cercavi, invano, di fingere il contrario, quando mi minacciavi che mi avresti cacciata solo per il mio disordine. Eri tu che dicevi che avvelenavo la tua vita, che ero un tarlo che rosicchia tutto dall’interno e guarda crollare solo per il gusto di farlo. Eri tu che mi dicevi di essere il tuo problema più grande. Almeno, mamma, esistevo nella tua vita.
Di certo non sorridevi quando mi dicevi queste cose. Era lo stesso sguardo di disprezzo di sempre, solo che questa volta parlava anche.
 
A volte, però, sorridevi, con tuo marito, quel mostro che ci ha uccisi tutti e lasciati agonizzanti a supplicare pietà. A lui sorridevi perché lui ti ha ingannata. Io ti guardavo sorridere dal mio angolo, così come ti guardavo piangere e disperarti, e mi chiedevo per quanto, ancora, saresti stata cieca.
Per quanto avresti mentito a te stessa, al mondo, a me. Per quanto ancora mi avresti odiato.
 
Perché mi odiavi, mamma? Per lo stesso motivo per cui non mi sorridevi mai?
Non lo capisco neanche ora, che tutte le verità del mondo dovrebbero essermi chiare, ormai che non posso più dirle a nessuno. Ero solo una bambina. Ero solo una bambina. Ero solo una bambina. Ero solo una bambina. Te lo ripeto più volte perché forse, così, capirai, che una bambina non può essere il male solo perché è figlia di questo, che una bambina non può essere un danno e non un dono.
 
Ti ripeto ancora un’altra cosa, che non hai mai capito. Una persona non può semplicemente essere sbagliata. Le persone possono fare cose cattive e commettere errori, possono comportarsi nel modo peggiore e pentirsi, o non farlo. Ma nessuno è sbagliato e basta.
Tu hai sempre pensato che fossi sbagliata. Che io fossi marcia, da buttare, un rifiuto, che non ci fosse speranza per me, che non ci fosse cura, che fossi semplicemente difettosa, come un computer fatto con qualche distrazione da parte del tecnico.
 
Ci ho messo la vita e ho rinunciato alla vita per capirlo, ma tra le parole che non ti ho mai detto scrivo ti voglio bene, ero solo una bambina, non ero sbagliata.
 
Non si sorride a un errore. Un errore lo si guarda schifato, come facevi tu.
Ma io, mamma, avrei voluto vederti sorridere per me, prima di morire. Non succederà, vero? Non più, me lo dice questa lacrima che sta sfuggendo via senza che me ne accorga, che il vento asciuga.
 
Sorridi, quando verrai a trovarmi tra gli altri morti, quelli che non volevano morire, sorridi perché te l’ho sempre chiesto e tu non lo hai mai fatto.

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Capitolo 7
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,
 
perché non hai mai voluto difendermi?
 
Scusa se te lo chiedo ora, che non ha più senso, che non c’è più niente da difendere. Avrei dovuto insistere, quando te lo chiedevo prima, quando davanti a me c’era una vita di successi, cadute e sorrisi, e non il vuoto di un suicidio. Avrei dovuto pretendere la tua risposta e non permetterti di sviare il discorso sulle mie, presunte, colpe.
 
Avresti potuto farlo, anche  non sempre, anche solo a volte. Avrei voluto che l’avessi fatto, mamma.
Avrei voluto che tu avessi detto no, convinta e sicura di quello che stavi sostenendo, quando lui mi diceva che ero un aborto della natura, una disadattata, un’andicappata. Quando lui mi diceva che la mia vita non aveva senso, che avrei pesato sulle sue tasche finché la legge lo avrebbe imposto e che poi mi avrebbe lasciato a me stessa, ai miei fallimenti.
 
Parlava come se mi avesse salvata, invece di uccidermi.
Parlava come se fosse stato l’eroe e non l’orco.
Parlava come se non fossi sprofondata ogni giorno, tra le sue parole e le sue mani.
 
I suoi, di no, li ricordo. Ricordo i no quando chiedevo di poter uscire e vedere il mondo, i no quando chiedevo di poter essere semplicemente me stessa, i no quando chiedevo di poter essere felice.
Sono i tuoi, di no, che mancano. Mancano i no alle sue parole, mancano i no alle sue mani.
A volte li inserisco nei miei ricordi, in modo ridicolo ed artificiale, sperando che, in qualche modo, il passato si plasmi al mio desiderio. Inserisco no urlati, pianti, disperati, no che riecheggiavano nella casa e nella testa, no che non ammettevano obiezioni, no di una madre che salva la figlia dal mostro.
 
Ma quei no, mamma, non ci sono mai stati. C’è stato il tuo sguardo indifferente, mentre io urlavo, ci sono state le tue spalle rivolte a me, le mani nella cena o in qualcosa di fittizio, mentre io supplicavo a loro di aiutarmi, c’è stata la tua sigaretta, che disegnava fumo nell’aria tra i miei singhiozzi, che una volta si è spenta sulla mia pelle è ha bruciato quanto tutti i tuoi no mancati.
 
Perché non mi hai difeso, mamma?
 
Credevi che non ne valesse la pena? Forse, tra le tante cose, anche questo. Non hai mai capito che c’era in me qualcosa che avesse valore. Mi hai sempre considerato immondizia, lo scarto di qualcosa di indesiderato, l’insufficienza della tua vita. Non ti sei mai accorta che ero intelligente, che sapevo disegnare e sorridere anche quando ero triste. Non ti sei mai accorta che avevo un carattere, una personalità, con pregi, difetti, sfumature: per te, ero soltanto nero e cattiveria.
Forse, per questo non mi difendevi. Forse, pensavi meritassi tutto quello, tutto quel dolore, tutta la droga come male nei suoi occhi e violenza su di me. Forse avevi deciso che avrei dovuto soffrire, come avevi sofferto tu quando ti eri svegliata nel tuo sogno incantato costruito di bugie e ti eri accorta fosse un incubo.
 
Ma io, mamma, ero piccola. Io ero così piccola da scomparire sotto quelle mani e quella malvagità, da vedere tutto enorme come un bambino in una scuola nuova. Ero piccola e, ancora, non lo meritavo. Poi diventiamo tutti adulti, poi, forse sarei stata davvero cattiva e ingiusta e avrei meritato di soffrire, per una crudele legge del Karma, anche se certe cicatrici dentro non le avrei mai meritate. Ma ancora non ero macchiata di un peccato originale tanto grande da vedere la mia vita come briciole sotto i piedi di un gigante, io, che ero solo una bambina nascosta tra i suoi libri, dove nessuno poteva picchiarla, dove nessuno poteva odiarla.
 
Perché non mi hai difeso, mamma?
 
Non contavo davvero nulla? Avrei voluto, invece, che mi avessi voluto bene. Perché per come le cose si erano messe per me, scritte dal destino o da Dio, non mi importa, un papà, non avrei mai potuto averlo. Non avrei potuto, perché un tossico bastardo che ti picchia e uccide l’animo ogni giorno, che odia le donne e le considera merda e oggetto dell’uomo, che non ha rispetto neanche di sé stesso, tra i fumi di una sostanza che ti prende e ti fa dimenticare chi sei, non lo si potrebbe mai chiamare papà.
Quanto mi fa male questa parola. Non riesco a dirla, neanche a pensarla, e il mio cuore sputa sangue ogni volta che qualcun altro la pronuncia a voce alta. Non per quello che non ho avuto, ma per quello che ho avuto.
 
Ma una mamma, quella si, avrei potuto averla. Avrei potuto avere una mamma che mi asciugasse le lacrime disegnate da lui e medicasse le ferite dello scontro tra il mio e il suo corpo. Una mamma che mi dicesse che ero bellissima, anche mentre piangevo, che mi dicesse di smettere di singhiozzare, perché aveva bisogno del mio sorriso per andare avanti, una mamma che mi dicesse che tanto c’era lei, ad amarmi, tutto il resto non contava.
 
E invece non l’ho avuta. Non l’ho avuta perché tu hai scelto lui. Tra il bene e il male, tu hai scelto il male. Tra l’orco e la principessa, tu hai scelto l’orco. Tra l’assassino e la vittima, tu hai scelto l’assassino.

Ecco, allora, perché non mi hai difeso. Perché hai scelto lui.
 
Perché non mi hai difeso, mamma?
 
Te lo chiedo ancora, e ancora, e quando avrò avuto il coraggio di lasciar andare, te lo chiederà il mio silenzio per me, la mia assenza per me, il mio lutto per me.
 

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Capitolo 8
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,
 
ad uccidermi, oggi, non sarà l’impatto sanguinoso contro un terreno che non arriva mai, non sarà la mancanza di ossigeno, troppo sfuggevole nella velocità di un corpo che cade nel vuoto, saranno i ricordi. Quei ricordi che mi hanno ucciso ogni giorno da quando sono stata in grado di elaborarli, che mi hanno tenuta sveglia la notte, che mi hanno fatta urlare quando mi addormentavo, che mi hanno fatto avere paura delle persone e del mondo, che mi hanno privato di ogni possibilità di essere felice.
 
In quei ricordi ci sei tu.
 
Ci sei, ma è come se non ci fossi. Sei nello sfondo, tra i vetri rotti, le bomboniere lanciate contro qualcuno o qualcosa, le sedie gettate a terra in una posizione innaturale, come un corpo morente che chiede pietà. Sei come le urla e i ti prego, ti diffondi nella stanza, ma nessuno ti nota.
 
Io, però, mi ricordo di te.
 
Mi ricordo di te che continuavi i tuoi compiti assurdi, come una geisha senza più valore o dignità, mentre io lasciavo un piccolo pezzo di me davanti alla tua porta, ogni giorno, lo perdevo, come se qualcosa stesse lentamente scalfendo la mia roccia. Finchè non è rimasto più niente. Finchè non sono rimaste che le briciole, quelle che ora getto sulla voce del vento.
 
Non preoccuparti se ho deciso di uccidermi, mamma, perché io ero morta già da tempo.
 
Sono morta quando lui mi ha tolto tutto quello che avevo.
 
Sono morta quando tu mi hai abbandonato senza ammetterlo.
 
Sono morta quando a te non è importato che mi stessi autodistruggendo, che mi stessi lasciando perire solo per non concedere a lui il lusso di uccidermi.
 
Sono morta quando tutto è stato così difficile e io così piccola.
 
Sono morta quando il tuo volto era giallo e viola e il mio cuore nero, di sangue denso e di dolore: non mi piacciono questi colori.
 
Sono morta quando il sole ha smesso di splendere e ho iniziato a vedere solo pioggia, che non lava ma infanga.
 
Sono morta quando il mostro mi ha colpita così forte da illudermi che finalmente fosse finita.
 
E sono morta ogni volta nel ricordarlo, ogni giorno, ogni notte, ogni momento. Non mi hanno mai abbandonato, i ricordi, ed è il paradosso della mia vita, perché a te che ho chiesto di stare con me è sempre stato facile allontanarti, a loro che ho urlato di andare via, è sempre stato facile perseguitarmi.
Quante volte ho sperato di battere la testa così forte da dimenticare tutto. Quante volte ho attraversato la strada senza guardare, sperando di avere un incidente e perdere la memoria o, magari, la vita.
 
Ma invece ho sempre ricordato tutto, sempre saputo tutto. Ero strana anche per questo, me lo dicevano sempre. Io ero quella che poteva ripetere intere conversazioni a memoria, dopo averle ascoltate una volta, quella che leggeva una frase e ce l’aveva per sempre impressa a fuoco nella testa , quella che non aveva bisogno di studiare perché apprendeva come per magia. Io ero quella che ricordava, troppo, e il troppo in questo mondo è sempre un posto per i diversi.
 
Non era magia, mamma. Era il disperato tentativo di una ragazza, con una mente particolare, di attaccarsi a ogni briciola, a ogni dettaglio, pur di cambiare le cose. Ero sicura che se avessi scavato bene nella mia testa, prima o poi, sarei riuscita a trovare qualche immagine di te che sorridevi, che mi difendevi, che mi amavi.
Non ci sono mai riuscita. Hai vinto tu, ancora. Hai vinto sulla vita, sui ricordi, su tutto. Ti sentirai soddisfatta, della tua vita perfetta, come l’avevi immaginata senza di me: che io sia morta o mai nata non farà la differenza, già lo so.
 
I ricordi, forse, tormenteranno anche te, una volta o due, ma scemeranno, come scemerà il mio nome e il pensiero di me. Non te ne faccio una colpa, mamma, non ti sto accusando. Anzi, forse, ti sto capendo, come tu non hai capito mai me. Hai sempre voluto una vita in cui io non c’ero, una vita fatta di te che potevi amare tuo marito senza che io ti ricordassi cosa ti aveva fatto, cosa ci aveva fatto, una vita in cui non avevi bisogno di fingere o mentire, perché a te andava bene così, sottomessa e livida come una schiava senza diritti. Una vita in cui la tua famiglia felice non era solo la storia che raccontavi a te stessa, ma una realtà costruita, artificiosa, che puzzava di plastica anche da lontano, ma che a te sarebbe piaciuta. Una vita il cui unico elemento di rottura poteva essere qualche pianto ogni tanto, sola in camera, quando proprio non ne potevi più, e non una bambina troppo attenta, troppo forte per stare in silenzio.  Una vita di bugie, le stesse che raccontavi a me.
Io te la regalo, questa vita, te ne faccio dono, pagandola con il prezzo più alto: la mia morte.
 
Non gioco a fare l’eroina, mamma, non ti sto dicendo che lo faccio per te, che lo faccio a causa tua. Per una volta, la protagonista sono io, solo io. Sono io che decido, io che vivo, io che muoio. Non sei più tu da essere salvata invece da salvare, non è più lui che uccide invece di essere ucciso. Sono io, che scelgo di rinunciare e scelgo di farlo per me.
Perché i ricordi non si cancellano, quelli sono indelebili. Penetrano nella tua pelle e diventano parte di te, della tua volontà, quasi perdi coscienza in favore loro, tanto che ti guidano sussurrando diabolici dogmi del tuo passato. C’è solo un modo per ucciderli e io sto per farlo.
 
Non importa se tu non ricorderai, mamma, non importa, davvero.

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Capitolo 9
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,
 
nella mia vita sono mancate tante cose.
 
Non solo le cose grandi, come l’amore di una madre, le carezze di un padre, i sorrisi, i giochi, il calore di una casa, ma anche quelle piccole, quelle che vedevo in mano agli altri bambini, quelle che invidiavo segretamente, quelle che immaginavo, quando chiusa nella mia stanza a fantasticare disegnavo una nuova famiglia per me.
 
Come le bomboniere.
 
Avrei tanto voluto avere delle bomboniere nella mia vita, nella mia casa. Forse riderai leggendo questa lettera, perché una bambina che non ha avuto altro se non fango e catrame dalla sua vita, perché dovrebbe chiedere delle bomboniere, come suo ultimo desiderio prima di morire? Eppure è questo che voglio, anche se non sarà esaudito, anche se non sono più una bambina.
 
Delle bomboniere, in realtà, ce le avevamo, ma poi si sono rotte come si è rotto tutto il resto.
Avrei voluto delle bomboniere con tutto il significato che avevano per le altre famiglie, per gli altri bambini. Il ricordo di un battesimo, di una comunione, di un matrimonio. Membri della famiglia, amici, che celebrano qualcosa. Noi che andiamo a festeggiare a festeggiare con loro, sorridendo, voi che mi sgridate allegramente  perché assaggio un sorso di spumante durante il taglio della torta, io che sporco il vestitino nuovo che mi avete comprato per l’occasione.
 
Ma non è mai stato così. È sempre stato arrivare in ritardo alla cerimonia e solo io e te, mamma, perché lui era sempre troppo ubbriaco per riuscire ad alzarsi in tempo, tu che mi trascinavi corredo sui tacchi dell’ultima festa, perché non avevi avuto coraggio di chiedergli soldi per comprare delle scarpe nuove. Io che avevo solo voglia di scomparire, con i vestiti orrendi che mi avevi messo addosso, vestiti che odiavo, che, forse, avevi scelto proprio per questo, vestiti che mi facevano sentire, o sembrare, o entrambe, brutta.
 
È sempre stato andare al ristorante e la storia che si ripeteva, sempre uguale, sempre terribile. Avevo imparato a distinguere le fasi e le contavo aspettando, silenziosa, ferita, stremata, che passassero tutte, anche quella peggiore: il ritorno a casa. C’era lui che arrivava e si comportava come se la festa fosse sua, nel senso peggiore, smaniando, urlando, intrattenendo come un volgare comico ubriaco. Le sue parolacce, le sue battute, il suo modo di umiliare noi, me e te, per mostrarsi, non so, virile? Padrone?, di fronte agli altri, me lo ricordo ancora e ancora, mi fa paura. Così come ricordo gli sguardi degli altri, che passavano dal compatimento, al disprezzo, al fastidio. Gli altri, che smettevano di chiedermi perché parlassi così poco quando lui iniziava a dire quelle cose orribili, su di me, che ero solo una bambina, a farmi cadere, a farmi sporcare, perché umiliarmi era l’unica cosa che voleva festeggiare in quelle occasioni. E tu, zitta, sorridevi per le apparenze, e ignoravi i miei sguardi umidi di lacrime trattenute e di suppliche.
 
È sempre stato tornare a casa e ascoltare voi che litigavate. Perché c’era sempre qualcosa, c’eri tu che avevi detto una parola di troppo per i suoi gusti, c’era lui che aveva esagerato tanto da farti arrabbiare e percepire l’umiliazione. E c’ero io, che andavo in camera mia e rimanevo lì, ad aspettare che le acque si calmassero. Ma le acque non si calmavano, non subito: prima, diventavano onde enormi che si scagliavano contro di me, perché a un certo punto, l’unico accordo a cui riuscivate a giungere, era che fosse tutta colpa mia, in un modo o nell’altro.
 
Le bomboniere, per un po’, rimanevano. Stavano lì, sul muretto del camino, e mi ricordavano quanto odiassi le cerimonie, quanto l’ultima volta avesse fatto più male della precedente. Ma mi piacevano. Le prendevo tra le mani e accarezzavo il tulle, la porcellana, i confetti bianchissimi. Anche a te piacevano, mamma, ed è per questo che avrei voluto averle nella mia vita.
 
Ti piacevano e quindi, come tutte le cose che amavi, diventavano un’arma contro di te, quando litigavate. Vi sentivo urlare dalla mia stanza, per quanto mi sforzassi di pensare più forte dei vostri deliri. Sentivo cose rompersi, cadere a terra e frantumarsi, mobili tremare, te piangere e soccombere.  
 
Tieni la tua cazzo di bomboniera.
 
Poi cocci che si spaccavano, te che urlavi.
Quando lui tornava nel suo sonno mancato, ucciso, solo in apparenza, dalla sua stessa dipendenza, io scendevo le scale ed era ancora tutto lì. Tra le sedie rovesciate e i vetri, il mio sguardo cercava sempre quella. E lo trovavo. Sul pavimento, un braccio della ballerina di porcellana, o l’ala in fil di ferro e tulle di un angioletto. La guardavo e mi chiedevo se sarei riuscita ad aggiustarla, ma poi capivo che non si può aggiustare la mattonella, quando il mondo crolla a pezzi.
 
Alla fine, avevo rinunciato a desiderarne una. Quasi non mi faceva più male, quado la vedevo mutilata a terra. Quasi. Alla fine, avevo imparato a non affezionarmi più a niente.
 
Una piccola parte di me, però, ha sempre continuato a desiderarle. Me ne rendevo conto quando andavo a casa di altre persone e rimanevo affascinata da quei mobiletti antichi con il vetro, dietro al quale si esibivano tane bomboniere, diverse tra loro, tutte bellissime. Ma ormai cresciuta, le piccole cose mi sembravano solo il ricordo di quello che non avevo potuto avere.
 
 
È un vero peccato che per i funerali non si usi regalare delle bomboniere: finalmente, avrei avuto la mia, e nessun avrebbe avuto il coraggio di romperla.
 
 
                

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Capitolo 10
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,
 
gli occhi, mi bruciano. Mi bruciano come se fossero fiamme, veleno, acido. Mi bruciano e li sento gonfi sotto le palpebre stanche. Mi bruciano per le lacrime.
 
Non so se mi brucino più per le lacrime che ho pianto o per quelle che, troppo orgogliosa, ho nascosto sotto la mia finta forza.
Non so quante volte ho pianto, mamma. Milioni. Miliardi. Tutti piangiamo, tutti abbiamo un motivo per urlare, disperarci, gettarci a terra e singhiozzare finché non passa, finché il cuore non ricomincia a battere al suo ritmo, finché il respiro si fa sempre più regolare, tanto che alla fine non lo sentiamo più, finché l’impeto della rabbia e del dolore non lasciano il posto a una dolce, amara, tristezza. Piangiamo per gli altri, piangiamo per noi stessi, piangiamo per il mondo. Piangiamo per le cose stupide, quelle che ci fanno guardare indietro e dire forse, non era così importante. Poi piangiamo per le cose grandi, quelle che lasciano segni indelebili, quelle per le quali non finisci mai di piangere e ogni volta che i singhiozzi ti abbandonano non è mai un addio, ma un arrivederci.
 
Io ho pianto per tutte queste. Ho pianto anche per chi non piange mai, ho pianto anche per chi non ha gli occhi, le lacrime, la vita. Ho pianto per tutte le persone che hanno sofferto e non l’hanno detto:  ho pianto anche le loro lacrime. E non è giusto. Non è giusto, perché per piangere davvero, per quelle cose che ti uccidono e che sembrano la fine di tutti i mondi che puoi immaginare, bisognerebbe essere abbastanza grandi per sopportarlo.
 
Vorrei aver pianto per la mia barbie rotta. Vorrei aver pianto per essere caduta sulle ginocchia scoperte. Vorrei aver pianto perché la mia amica si trasferiva in un’altra città. Vorrei aver pianto perché non piacevo al ragazzo di cui mi ero innamorata. Vorrei aver pianto perché una professoressa mi aveva preso di mira. Vorrei aver pianto per essere stata snobbata a una festa. Vorrei aver pianto perché il mio fidanzato mi aveva lasciato.
 
Invece, ho pianto per te. Ho pianto per noi. Ho pianto per me. Se ci penso adesso, quasi mi pento, adesso che pentirsi non serve più a nulla, perché piangendo non ho cambiato nulla, ho solo inondato quella stanza di lacrime e singhiozzi.
 
Mi perdonerà, la mia camera, per essere sempre stata il teatro della mia tragedia monologale, ne sono certa. Mi perdoneranno le mura che mi hanno sentito urlare e urlare, come se Dio avesse potuto sentirmi e salvarmi, come se ci fosse stato davvero qualcuno ad ascoltare. Mi perdonerà il cuscino, per tutte le volte che è stato umido tutta la notte di lacrime e di morsi dati per soffocare il respiro, troppo violento, troppo rumoroso. Mi perdoneranno i giocattoli di quando ero piccola, che hanno dovuto vedermi crescere in preda alla disperazione e al panico. Mi perdoneranno i libri, i miei unici amici, che si saranno sentiti in colpa per non riuscire a raccontare una storia più triste della mia, o che saranno stati fieri di sé, per avermi dato una piccola via d’uscita da quella favola in cui la strega finiva per uccidere Biancaneve e banchettare con il cacciatore del suo cuore.
 
Ma io mi perdonerò? Non ho bisogno di perdonarmi, sto per morire, ma in questi ultimi istanti, prima di perdere il respiro, il pensiero, il battito, la vita, mi perdonerò? Non se ho davvero voglia di farlo.  Non so se ho voglia di perdonare una bambina che non ha saputo capire subito il suo destino, arrendersi o combatterlo, e che ha scelto di temporeggiare nelle lacrime. Avrei dovuto saperlo, fin dall’inizio, fin dai primi passi.
 
Non è colpa tua, questa volta, è colpa mia. Tu mi hai sempre mandato tutti i segnali. Tu che non mi ascoltavi mai, quando ero solo una bambina e cercavo la tua attenzione, tu che preferivi il tuo tempo con lui al tuo tempo con me, tu che mi nominavi solo quando potevo essere un’arma, per difenderti, per proteggerti: una bambina che è merce di scambio e di compromesso, nulla più.
I pezzi del puzzle c’erano tutti, sono io che non ho saputo formare la figura finché non sono stata abbastanza grande. Grande, poi, per quanto lo possa essere una bambina cresciuta senza infanzia, una bambina che si uccide prima ancora di poter essere donna. La figura, a un certo punto, ha preso forma da sé, davanti ai miei occhi. Forse prima erano troppo annebbiati dalle lacrime perché io potessi veramente vederla. Ma il quadro, il disegno, il destino, erano chiari.
 
Una madre che non ama la figlia. Un padre che odia una bambina solo per quello che rappresenta. Una donna che si vende l’anima e il parto per pagare la propria sottomissione. Un mostro che vince sempre, nelle favole dove i cattivi regnano e il lieto fine non esiste. Una bambina che non regge l’impatto e alla fine sceglie di uccidersi.
 
Forse è questo il lieto fine. Non è proprio come quello delle favole, con la principessa che dimentica  l’odio e le cicatrici e se ne va via su un bel cavallo bianco, ma a suo modo è un lieto fine. Nel posto dove sto andando non avrò bisogno di piangere, nel posto dove sto andando non c’è nessuno di voi: non si piange sotto terra. È così che finisce la storia, perché nella realtà la fata turchina è morta anche lei, nella realtà il principe azzurro è delle bambine con i genitori che sorridono. Deve essere per questo motivo che piangevo, perché le mie favole, quelle che amavo e rileggevo, anche quando ormai sapevo ogni parola, quelle che tu non mi hai mai letto, finiscono bene e invece la mia finirà male. Forse è per questo che i libri che amavo parlavano di ragazze disperate, parlavano di pazzi, di omicidi, di vittime e assassini. Forse cercavo la mia storia tra quelle righe.
 
 
Ma a me va bene anche così, con un lieto fine che non è lieto per nessuno. Perché non si piange dall’altra parte della vita e io, mamma, ho gli occhi che mi bruciano: gonfi e rossi, vogliono morire anche loro.
 

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Capitolo 11
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,
 
quello che non hai mai capito, è tutto il peso che portavi sulle spalle.
 
Non ti sei mai resa conto di quanto grande fosse quel macigno, di come gravasse sulla tua schiena stanca, che si piegava come una canna di bambù sotto il suo peso, che si spezzava, troppe volte, troppo spesso, ma trovava sempre abbastanza disperazione e masochismo da aggiustarsi.
 
Un macigno più grande ogni giorno, come un cancro, che si nutre di te e cresce abusivo nel tuo corpo, vivendo della tua vita e prosperando ad ogni tuo respiro più debole. Riuscivo a vederlo, in trasparenza nei tuoi occhi, quando troppo stanca di tutto quel male, non facevi neanche più finta di stare bene, neanche per te stessa. Quando anche fingere era troppo doloroso. E allora non mentivi più, in quei pochi attimi che ti vedevo piangere, e io ero spaventata e fiera di te allo stesso tempo. Non hai mai imparato a non mentire davvero, ma di mostrarmi quanto dolore ci fosse dietro al tuo peso, non hai mai smesso.
 
Forse era colpa mia. Forse sarei dovuta nascere più stupida, più ingenua, più superficiale. Non so perché riuscissi a vedere in te tutto quello che non  mi dicevi, come se tu fossi stata trasparente, un libro di tante parole scritte nere su bianco che io potevo leggere. Avrei voluto essere cieca, e invece vedevo. Riuscivo a vedere quanto in realtà tu soffrissi, quanto quell’uomo ti avesse davvero privato di tutto, portandoti via molto più di te stessa, portandoti via noi. Riuscivo a vedere che la tua bugia non lo era davvero, perché tu non mentivi a me o al mondo, mentivi a te, mentivi per te. Ti ripetevi che andava tutto bene, quando il nostro mondo cadeva a pezzi sotto le sue mani, quando le tue scelte mi uccidevano ogni giorno, per mezzo di un mostro a cui non eri stata capace di rinunciare.  Fingevi, ed eri così brava da crederci, da odiarmi, perché io alla tua recita non sono mai venuta. Ho aspettato fuori dal teatro, dove la gente normale sapeva di entrare e trovare attori. Ma tu eri l’Enrico IV di Pirandello e non hai mai saputo distinguere la vita dal copione.
 
Hai finto che la tua famiglia felice esistesse e che io fossi solo l’inconveniente di scena. Nelle prove generali succede sempre qualcosa che non va, ma poi la rappresentazione è un incanto. Io ero quel qualcosa. Io ero sbagliata perché ero fuori programma, perché senza di me sarebbe andato tutto bene e tu avresti potuto continuare a sognare Matilde finché avessi voluto.
 
Ma non ero io il tuo macigno. Ora che morirò, con il respiro che si mozza tra le ultime parole e racconta questa storia senza ascoltarla di nuovo, ora che leggerai questa lettera e forse ti sveglierai da questo sogno illusorio, spero lo capirai. Solo perchè non volevo mentire, non significa che io fossi il tuo macigno. Il tuo macigno eralui. Eri tu sotto le sue mani violente, sotto la sua bocca bastarda, sotto la vita che ti aveva imposto. Era lui che ti uccideva una figlia. Eri tu che mi perdevi. Era lui che mi odiava e odiava un po’ anche te, per aver tenuto in grembo il suo piccolo fastidio.
 
Certi macigni, mamma, non vanno mai via. Rimangono lì, a lasciare cicatrici indelebili, a provarti ogni giorno, a sfidare il tuo istinto di sopravvivenza quando alla fine, quello, è l’unica cosa che ti è rimasta.
 
Io lo vedevo il tuo macigno, che si era cicatrizzato in te, tanto che senza quella sofferenza negli occhi non ti avrei riconosciuta. Come non ti ho riconosciuta quando gialla e viola in volto sei venuta nella mia camera a chiedere a me, piccola, di salvare te, grande: ma in quel caso la sofferenza era troppa, talmente tanta da sovrastare tutto il resto.
 
Sai perché quel macigno pesa così tanto? Perché lì dentro c’è ogni giorno. Non è il macigno di una volta, il macigno di un incidente, di una sera, di un colpo. È il macigno di una vita intera vissuta di attimi di paura e terrore, di una vita passata a nascondersi da lui, a implorare di poter sopravvivere, almeno un altro giorno, almeno un'altra ora. È una vita di te che pregavi cambiasse e di me che pregavo morisse. È la vita di una madre che ha scelto di perdersi quella di una figlia, tutti i momenti che avrebbe potuto tenere nel cuore, per soccombere e morire tutte le volte che lei la odiava, che lui odiava lei.
 
È il macigno di tutti quei giorni in cui la televisione, a un volume ingiusto anche solo per il corpo, copriva i nostri pianti silenziosi o le urla disperata. Quei giorni in cui il cibo sembrava fatto di spine, mentre scendeva per le nostre gole chiuse dal dramma di quel posto. Quei giorni in cui le promesse diventano vendette e le vendette ricordi.
 
Sono le tue scelte, quel macigno. Pesano, vero? Per questo ho scelto di suicidarmi. Le ho portate io sulla pelle le tue scelte, incise in tagli sanguinanti che bruciavano a contatto con i vestiti, ma adesso sono improvvisamente leggera. Perché sto scegliendo per me, cosa che tu non hai mai fatto. Hai sempre scelto per lui, hai sempre scelto di sacrificare noi per lui.
 
Io mi sacrifico, ma mi sacrifico per me. E forse ora il tuo macigno sarà ancora più grande, perché conterrà anche la mia morte. Mi dispiace, mamma, perché tutti i tuoi errori, quelli che porti sulle spalle, che pesano, che ti fanno affogare nelle tue stesse lacrime, sono già un peso enorme. Vorrei non esserci anche io in quel peso, ma so che ci sono sempre stata, dal momento in cui sono nata.
 
Ero troppo piccola per portare il peso di una bimba che non doveva essere al mondo. Il mio peccato originale, non quello di Eva, quello che mi hai attribuito tu, era molto più grande di quanto non lo fossi io. A questo, si sono aggiunti i tuoi errori, che ho pagato io, ogni volta che ho avuto il coraggio di respirare.
 
 
Certi macigni, mamma, non vanno mai via. È incredibile come questo mi consoli, ora. Muoio, sì, ma con la mera speranza che almeno qualcosa di me rimarrà, anche se una cicatrice arrossata.
 
Certi macigni, mamma, non vanno mai via. Io, invece, scelgo di andare via. Scusa.

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Capitolo 12
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,
 
se solo tu avessi saputo. Se solo avessi saputo quanto odiavo quel posto maledetto in cui vivevamo, che sanguinava dalle mura e aveva tutte le pareti nere, di tutte le stanze. Che mi guardava piangere, immobile e, quasi umano, tendeva verso di me come ad abbracciarmi e consolarmi: lo sentivo incrinarsi sotto il mio dolore.
 
Quante volte ho urlato tra quelle pareti buie e quante volte le ho viste fondersi in una strana melma, diventare tutt’uno con i miei sentimenti e inglobare me: sabbie mobili da cui neanche Dio può salvarti.
Ricordo casa nostra con ogni senso, la ricordo con gli occhi, con il naso, con la bocca, con le mani, con le orecchie, con il cuore.
 
 
Ricordo che tutto, lì dentro, aveva lo stesso sapore. Forse per questo mangiavo così tanto: una bambina sola alla ricerca di un cibo che non sapesse di distruzione. Ricordo che puzzava, di qualcosa che non sapevo definire, un odore acre e soffocante che bruciava in gola. Solo dopo ho capito che in quel fumo non c’era solo tabacco, ma anche droga e follia. Ricordo che era fatto di suoni acuti, graffianti, come delle unghie sulla lavagna. Che fossero urla, piatti che si rompevano, o bomboniere lanciate, non faceva differenza. Ricordo che i colori c’erano, ma erano sempre troppi, confusi, arrangiati, come un quadro sul quale il pittore è inciampato. Niente aveva la giusta tonalità: le cose che avrebbero dovuto essere bianche erano grigie, le cose che avrebbero dovuto essere nere erano grigie, le cose che avrebbero dovuto essere rosa erano gialle. E poi c’era il rosso, perché il sangue e il vino a casa nostra non mancavano mai. Ricordo che era tutto terribilmente ruvido. Passavo le dita sottili sulle superfici di casa, cercando qualcosa di abbastanza liscio e morbido da ricordare l’abbraccio di una mamma. I miei polpastrelli si graffiavano sulla consistenza arcigna delle crepe nel muro.
 
lo odio quel posto. Lo odio come non sono riuscita ad odiare neanche te. Eppure non ha colpe, ma questa è la storia degli innocenti che vengono puniti e dei colpevoli che sopravvivono.
 
Lo odio perché ha tutti i segni, tutte le cicatrici, di quello che ha visto. Un po’ come me. Il muro accanto alla mia stanza ha una lunga crepa. Un pezzo di vernice è crollato, portando con sé il cartongesso, e lasciando un vuoto irregolare nel disegno squadrato. Si è incrinato sempre più, ogni volta che hai sbattuto la porta, o che l’ha sbattuta lui. O che l’ho sbattuta io, non contro il vento ma contro di lui e la paura delle sue mani. Poi, una volta lui l’ha sbattuta più forte del solito, e c’ero io dietro, e c’era il mio mondo dietro. Non è crollato solo l’intonaco, quel giorno. Ma le mura del mio cuore sono fatte per essere abbatte ogni giorno, come case costruite sul letto del fiume, e poi rinascere dalle loro ceneri, come la fenice. Finché non ci sono stati più mattoni, finché non ci sono state neanche più le ceneri, e sono rimasta io, vuota, con il suicidio che mi chiamava.
 
La culla dove dormivo da piccola ha il legno spezzato in un punto. Sembra zoppicare, pendente com’è sul lato dove manca una gamba. L’ha presa a calci lui, non ricordo quando. Forse, ero persino troppo piccola per ricordare, oltre che per capire. Non so neanche se ci fossi io dentro, quando la droga se l’è presa con il legno. So solo che tu hai conservato quel pezzo di legno, ma non ho mai capito perché. Tu non conservi niente, mamma. Non hai le mie prime scarpette. Non hai il mio primo ciuccio. Non hai le foto della prima volta che ho camminato, o sorriso. Non hai le scarpe del tuo matrimonio. Non hai i miei quaderni delle elementari. Eppure, hai scelto di conservare la gamba spezzata di una culla, in un cassetto. Perché? Speravi di aggiustarla, un giorno? Non sai che i ricordi non si aggiustano con la follia?
 
Lo sportello della dispensa in cucina pende da un lato. Penderà sempre da un lato, anche dopo che me ne sarò andata. Prima, non pendeva, prima che il tuo corpo ci sbattesse contro violentemente, una, due, dieci volte. Io c’ero a guardarlo rompersi e c’ero a guardare rompere anche te, mentre cercavo di tenere insieme i miei pezzi, per essere l’unica che sarebbe sopravvissuta. Ironia del destino, sarò l’unica a morire davvero. Sembravi quasi un burattino senza anima, mentre lui ti sbatteva violento e pazzo contro il legno laccato di bianco. Sembravi inerme, come qualcuno che è morto ma non ha il coraggio di ammetterlo.
 
Non ricordo neanche perché steste litigando. Strano, perché io ricordo sempre questi piccoli, stupidi, dolorosi dettagli: un bicchiere che cade, una camicia poggiata nel posto sbagliato, un telecomando che non si trova. C’era sempre una scintilla che nessuno vedeva, eppure io la sentivo, angusta e infida che si insinuava nella falsa tranquillità di casa, la calma prima della tempesta, e da lì in poi tutto diventava nero. Chiudevo gli occhi e aspettavo, sperando che le urla e le lacrime sarebbero svanissero presto, che quelle mura familiari e scrutatrici mi avrebbero fatta sparire tra di loro.
 
La sentivo fin da fuori, l’aura di quel posto, quando tornando da scuola sentivo lo stomaco chiudersi e l’aria mancarmi. Mi chiudevo nella mia stanza fingendo che non facesse parte di quella casa, come se fosse stati un’unità a sé stante, come se lì dentro avessero vissuto davvero tutti i personaggi dei miei libri. Ma ogni volta che lo sentivo tossire o parlare, sussultavo: vivevo con l’eterno terrore che entrasse nella mia camera e sfogasse tutti i suoi mali su di me. Quando succedeva, faceva quasi meno paura di quando me lo immaginavo. Forse, però, un po’ più male.
 
Quella casa mi parla ancora adesso, quassù che non sento altro che la voce del vento. Mi sta chiedendo scusa, per non aver potuto fare di più, per essersi limitata a spettatrice e non a protagonista, per non aver alzato le mani quando le mani venivano alzate. Mi porge le sue scuse per quello che non hai fatto tu, mamma.
 
Le tue scuse non le aspetto più, è troppo tardi anche per ricordare. 

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Capitolo 13
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,

 

i miei libri, i miei amati libri, quelli che mi hanno salvato tante volte, quelli in cui mi nascondevo per non vedermi, per non vedervi, raccontavano storie incredibili. Raccontavano storie di persone coraggiose, di paura, di pericoli, di emozioni, di mostri, di avventure. Raccontavano storie di queste ragazze giovanissime che partivano senza sapere cosa avrebbero trovato e affrontavano molto più di quanto erano pronte a sopportare. Combattevano draghi anche se fino al giorno prima non avevano neanche mai ucciso una zanzara fastidiosa. Scalavano montagne spigolose, cascate potenzialmente mortali, attraversavano forsete proibite e villaggi immersi nella magia nera, anche se fin ora non erano neanche mai uscite dal loro tranquillo paesino.

Mi piacevano i fantasy: era bello credere che potesse esistere un altro mondo. Uno in cui voi non c’eravate.

 

Tutti i miei libri raccontavano di storie incredibili, ma la nostra, nessuno l’ha mai raccontata.

Non credere che questa storia meriti pagine e pagine, inchiostro a fiumi, meno di quelle avventure magiche. Le storie che tutti tacciono sono quasi sempre quelle che invece andrebbero ascoltate.

 

In fondo, poi, la trama non era neanche tanto diversa. Una bambina sola. Piccola. Senza poteri che lei conoscesse. Qualcuno di così cattivo da non poter essere nominato. Qualcuno di così crudele da non essere ancora stato sconfitto. Una guerra. Del sangue. Della paura. Una forza che viene da chissà dove. Le lacrime di chi ha perso qualcosa. La stanchezza completa e infinita di chi ha vinto perdendo qualcosa di irreparabile.

Io non avevo nessun potere. Io ero solo una bambina, e se ci penso adesso, vedo quant’ero piccola. Se ci penso adesso, vedo un corpo infantile e una mente adulta.

 

Credo che il mio potere, quello che a un certo punto la protagonista del libro scopre di avere e

che usa per sconfiggere il male, fosse la forza. Avevo questa incredibile cocciutagine, questo coraggio nell’anima, che mi spingeva a non arrendermi mai. Lui mi picchiava e io mi rialzavo. Lui distruggeva tutto quello che avevo e io lo ricostruivo. Lui mi faceva a pezzi e io rimontavo tutte le parti, come un puzzle che non combacia più perfettamente perchè lo hai fatto troppe volte.

Ad un certo punto non piangevo neanche più. Ero diventata grande, sì - per quanto grande possa essere un’adolescente terrorizzata - ma avrei comunque potuto disperarmi. Disperarmi davvero, come solo le vittime sanno fare, quelle che hanno sofferto e che non avranno mai indietro ciò che hanno perso. Ma non mi disperavo. Stringevo gli occhi e bloccavo le lacrime, cercavo di respirare, perchè a volte faceva davvero troppo male perchè il fiato non mi si bloccasse all’altezza del cuore e premesse, come se qualcosa in me sarebbe esploso da lì a poco. Non piangevo, perchè ero forte abbastanza da combattere.

 

Ho combattuto per anni, mamma.

Ho combattutto come una vera guerriera. Dovresti essere fiera di me, perchè le persone molto spesso rinunciano anche se la posta in gioco è alta. Rinunciano perchè pensano di non potercela fare. Rinunciano perchè non tutti siamo fatti per sopportare il dolore. Io sono fiera di me. Anche se ora sono io a rinunciare - alla vita, addirittura! - sono fiera di non aver mai chinato la testa.

Ho combattuto, a testa alta, con i lividi, il sangue e le lacrime trattenute addosso. Ho combattuto con la tua indifferenza che mi trafiggeva. Ho combattuto tutti i demoni che un’intera generazione e tu, donna e madre, non siete riusciti a combattere. Ho combattuto senza spada e senza scudo, con me stessa che ero sia arma che riparo.

 

Il problema, mamma, è che un drago lo puoi ferire al cuore. Un orco puoi colpirlo alla testa. Uno stregone puoi catturarlo prima che faccia magie.

Ma come sconfiggi qualcosa che non ha braccia, gambe, testa? Come sconfiggi qualcosa che non ha un cuore?

Come sconfiggi la droga?

Forse è per questo che nessuno ha mai raccontato la nostra storia. Da un libro ci si aspetta che finisca bene. Da un libro ci aspetta che i buoni vincano e i cattivi perdano.


Il fatto è che il libri raccontano storie di fantasia. Se raccontassero la realtà, tutti sapremmo che le storie a lieto fine sono davvero poche.

Se i libri parlassero di tutte quelle donne, donne come te, che si sono sottomesse, hanno perso tutto, hanno sacrificato la propria femminilità, il proprio corpo, la propria intelligenza, i propri figli, per uomini che hanno fatto di loro oggetti da maltrattare. Che hanno fatto di loro scarpe vecchie e tappeti rovinati da lasciar mordere al cane.

Se i libri parlassero di quegli uomini che non hanno saputo essere tali, ma che si sono sentiti re nell’essere tiranni sulla debolezza di altri, sulla debolezza di chi ha rinunciato a tutto per loro. Quegli uomini che hanno perso la loro umanità in una sostanza effimera e ne sono risultati un essere che di artificiale ha più del giusto.

Se i libri parlassero di tutti quei bambini che si sono riempiti gli occhi di immagini eterne di dolore e violenza, immagini troppo brutte, troppo vere, per i loro occhi così grandi, così innocenti, per i loro sguardui ingenui, spaventati. Immagini di persone che si urlano, si ammazzano tra loro, si violentano, si distruggano, si scavano cicatrici indelebili, si vomitano addosso una sofferenza che non avrà mai inizio e mai fine.

Se i libri parlassero di queste storie, il mondo saprebbe.

 

Perchè siamo tutti talmente abituati abituati alle favole, con il loro felice finale pomposo, che ci dimentichiamo di quanto le storie di vita possano essere terribili. E allo stesso tempo più belle da leggere, più vere.

 

La mia storia non l’ha mai letta nessuno. Perchè alla fine la protagonista muore. Quale libro finirebbe con la morte della protagonista? Un libro triste. Un libro brutto.

 

Forse, mamma, ce l’avrei anche fatta a vincere l’orco e il suo terribile potere, se tu mi avessi aiutata. Forse, con tutta la mia forza e il dolore trasformato in coraggio, avrei potuto combattere un altro giorno, finchè lui non sarebbe crollato.

Ma c’è un nemico che è ancora più difficile dei draghi e della droga da combattere.

L’indifferenza.

La tua, di indifferenza.

Ora che sono abbastanza saggia da sapere quand’è il momento giusto per sceglierei di lasciare andare, so che la tua non era vera indifferenza. So che nel tuo non guardarmi mentre piangevo, so che nel tuo non dire niente quando lui aveva le sue mani su di me, senza motivo, e io urlavo così forte da coprire quasi il suono dei suoi insulti, non era vera indifferenza. Era codardia. Adesso so che dentro di te, nascosta sotto cumuli di macerie, sotto la paura più profonda, c’era una mamma.

Ma una mamma, per essere considerata tale, deve amare oltre le sue forze, oltre qualsiasi limite e qualsiasi circostanza.

Tu, mamma, non mi hai mai saputo amare (me) abbastanza da difendermi.

Per questo ho perso. Per questo ha vinto lui.

Perchè contro il male si lotta, ma senza l’amore non si vince mai.


Magari qualcuno la leggerà la mia storia. Magari un giorno starai riguardando questa lettera seduta su una panchina, al parco. Ti alzerai e la dimenticherai lì, come tante volte ti sei dimenticata di me. Qualcuno la troverà, la leggerà e la pubblicherà.

Così tutti sapranno di quella bambina che ha lottato fino all’ultimo, ma, alla fine, non ha vinto.

 

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Capitolo 14
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,
 
anche se ora non hanno più senso, anche se ora non importa se non avranno mai risposta, le domande che mi faccio rimangono le stesse. Le stesse domande, la stessa ragazza, lo stesso dolore: solo un posto diverso, il vento e il tempo che mi urlano contro e il vuoto che mi chiama a sé.
 
Mi chiedo come avrei potuto fare, ad amare davvero, con tutto il male che mi è stato fatto. Hai sempre pensato che io fossi una persona fredda, tutte le volte che mi hai urlato contro di non avere un cuore o che dovevo avere una malattia, perché le persone normali si lasciano commuovere, perché le persone normali si innamorano a quindici, sedici, diciassette anni. Perché le persone normali hanno degli  amici che vogliono loro bene e che non le abbandonano con la nuova stagione, come un cappotto vecchio. Perché le persone normali si lasciano toccare e non indietreggiano ogni volta che qualcuno prova a dimostrare loro affetto.
 
Io invece sono sempre stata diversa e tu questo non lo hai mai accettato, perché avresti voluto avere una figlia con un bel fidanzato, magari ricco, magari uno studente modello, di cui vantarti con le amiche, o una figlia che ha delle amiche con cui andare al cinema, quando tu non hai voglia di vederla. Quello che non capisci, però, è che io avrei potuto andare contro il mondo intero, ma non ce l’avrei mai fatta ad amare davvero.
 
Penso a tutte le volte che tuo marito mi ha spezzato il cuore, a come ha preso i miei sentimenti e ci ha giocato, li ha masticati e li ha sputati per terra, lentamente, guardando il dolore nei miei occhi, guardando una bambina che non voleva piangere ma a cui sfuggivano sempre lacrime senza singhiozzi. Ho imparato a non affezionarmi a niente, perché ogni volta che ho tenuto a qualcosa voi l’avete presa e l’avete distrutta davanti ai miei occhi. Tutte le piccole cose. Tutte. Quelle che fanno felici le bambine, che le fanno sorridere e fanno sorridere anche chi le guarda per la loro spensieratezza. Tutte. Ogni volta una piccola parte del mio cuore diventava nera, come carbone, si cicatrizzava nel suo dolore e io la sentivo tremare e  crepare su sé stessa, assumendo una forma orribile e porosa che sarebbe rimasta per sempre, memore di quella piccola perdita. Con gli anni, le parti ancora morbide del mio cuore sono finite e io ho smesso di amare, lasciandovi liberi di distruggere il mio mondo, tanto non mi importava più.
 
Un’altra cosa he non hai mai capito, mamma, è perché avevo paura delle persone. Paura. Paura ogni volta che qualcuno mi diceva di volermi bene.
 
Perché voi, quando ero piccola, mi dicevate di volermi bene.
 
Subito dopo, mi distruggevate in pezzi così piccoli che facevo fatica a ritrovare me stessa, in mezzo a tutte quelle lacrime e quel dolore. E io ero così spaventata. Non riesci neanche a capire quanto davvero lo fossi, perché solo i bambini riescono ad avere paura in quel modo. Il terrore dei piccoli non ha confini come quello degli adulti, non si estende fino alle possibilità di pericolo, ma diventa tutto, come se il nero di un sospetto assorbisse la realtà ed ogni più piccolo dettaglio fosse un canale sul quale potrebbe viaggiare la minaccia che attenta al tuo sorriso.
 
Io non riuscivo mai a sorridere davvero, avevo troppa paura per farlo. Paura che sarebbe arrivato uno schiaffo su quel sorriso, paura di dovermici nascondere in quel sorriso. Paura che se mi aveste visto felice avreste cercato di ucciderlo, quel sorriso.

Avevo paura di lui.
 
Poi è stato tutto un gioco psicologico così ovvio che avrei dovuto aspettarmelo. Una bambina che ha ricevuto solo male dal mondo, cosa può aspettarsi da questo? Cosa può diventare, se non un’adolescente che del mondo non vuole sapere nulla?
Così ho lasciato fuori gli altri e mi sono chiusa in mura di mattoni e cicatrici. Perché mi hai insegnato ad avere paura di tutto: se i tuoi genitori, che dovrebbero amarti e difenderti, sono il tuo mostro nell’armadio, allora cosa devi aspettarti dagli estranei? O forse, semplicemente, non c’era più niente da dare, forse un cuore non ce l’avevo più da tempo, frantumato e malridotto com’era, quindi non potevo darlo a chi l’avrebbe voluto.
 
Ancora adesso, che sto per morire e ne sono felice, sono terrorizzata che qualcuno mi dica ti voglio bene, che si avvicini a me, che mi sfiori, perché in me c’è sempre la bambina che si copre il viso con le mani, ogni volta che sente questa frase.
 
 
Se ci penso, mi rendo di quanto sia terribile. Le parole che avrebbero dovuto salvarmi, mi hanno distrutta. C’è dell’odio in quelle parole e io lo sentivo, perché vibrava tra le sillabe ed era pronunciato molto più delle altre lettere, solo che non tutti sapevano ascoltare.
 
Ora che ho un po’ meno paura posso dirti quello che ho sempre pensato: non è vero. Non è vero, mamma, non mi hai mai voluto bene, non hai mai sentito il bisogno di tenermi tra le tue braccia per farmi sentire un calore che, ora lo capisco, non c’è mai stato. Non hai mai desiderato vedermi crescere e ricordarmi ogni giorno, con tanti piccoli gesti, che ci saresti sempre stata con me. Non hai mai voluto tenermi al sicuro: dagli altri, dalla televisione, dalle sue mani.
 
Non mi hai mai voluto bene, mamma, e lo so che ci vuole coraggio per ammetterlo, per questo non l’hai mai fatto. Come si può ammettere di essere contro natura? Come si può ammettere di mancare nel compito più grande che la società e la vita ti hanno dato? Come si può ammettere di essere così diversi dal resto del mondo? Come si può ammettere di non amare una figlia?
 
Eppure era così. Tu non sei mai riuscita ad amarmi, forse non ci hai provato, forse non ne sei stata capace.
Ti lascio il beneficio del dubbio – te lo lascio per l’eternità – perché ora che guardo le cose da una prospettiva diversa, quasi esterna, quasi indifferente, come se fossi già morta, riesco a veder e il tuo inciampare nel modo goffo e gelido che avevi di rapportarti con me. Riesco ad essere abbastanza forte da asciugarmi le lacrime e dire “forse ci ha provato, ma io non me ne sono mai accorta.” Mi sto illudendo?
 
Ci provo a pensarlo, perché magari in mezzo a tutta quella violenza tu avresti voluto essere davvero una mamma. Magari, hai desiderato davvero abbracciarmi quando ne avevo bisogno o salutarmi con un sorriso quando tornavo a casa. Ma magari, anche tu, come me, non ce l’hai fatto.
 
 
Non pensare che io, scrivendo questa lettera, abbia dimenticato quanto anche tua sia una vittima. Lo so, mamma, lo so che hai sofferto quasi quanto ho sofferto io, forse di più, forse di meno. Lo so che quelle mani sono state anche sul tuo corpo e hanno lasciato tanti segni. Lo so, perché c’ero. L’ho visto picchiarti, prenderti a calci, sputarti sul viso ammostato, tirarti i capelli, chiamarti puttana e lurida parassita, trattarti come una schiava. L’ho visto importi di non amarmi mai, di non rendermi mai felice. E come avresti potuto, anche se avessi voluto, riuscire ad amarmi? Per spirito di sopravvivenza, mi avresti comunque lasciato perire sotto il peso di tutta quella follia.
 
 
 
La domanda allora rimane aperta, come una ferita. Hai davvero tanto tempo per cercare di trovarle una risposta, peccato che io non sarò lì ad ascoltarla. Chiediti se io sarei riuscita ad amare, se non avessi scelto di morire. Prima, però, chiediti se tu sei mai riuscita ad amare, me.
 
 

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Capitolo 15
*** Cara mamma ***


Cara mamma,
 
mi sono sorpresa spesso a chiedermi da dove venisse tutto quell’odio.
 
Per odiare, bisogna essere forti. Bisogna avere coraggio, costanza, tenacia. L’odio non è un sentimento facile da provare. È un sentimento che richiede impegno, che ti logora da dentro, come un tumore, che fa male a te prima che agli altri. È un sentimento che prende tutto e lo trasforma in petrolio: nero, appiccicoso, maleodorante, ma potente.
L’odio a volte è potere, ti permette di andare avanti, per odiare un altro giorno, per cercare vendetta.
Io lo so bene, lo provo da così tanto tempo che non mi ricordo neanche come si vive senza.
 
Tu sei troppo debole per questo. Sei sempre stata incredibilmente debole e incredibilmente forte.
Non mi viene in mente nessuno al mondo che sarebbe riuscito a sopportare tutto quello che hai visto tu, tutti quei colpi, tutti quei ti prego, tutti quei pianti, tutti quei bicchieri rotti, tutti quei vetri taglienti e andare avanti come se nulla fosse, fingendo di non avere lividi in faccia, fingendo di non avere paura, fingendo che io non esistessi. Non so davvero dove tu abbia trovato la forza di alzarti ogni mattina, accanto a lui.
Non so neanche come tu sia potuta essere così debole. Come mai tu non sia riuscita a trovare da nessuna parte il coraggio di prendermi e portarmi via, senza niente da possedere se non la libertà, la possibilità di respirare senza che la paura ci chiudesse la gola.
 
Non sei stata abbastanza forte per odiare. Come avresti potuto? Non avevi la forza di amarmi, dove avresti potuto trovare quella per odiarmi?
 
Il tuo odio non era altro che lo strascico di quello di qualcun altro. Come tutto in te, del resto.
La tua sessa vita era l’eco, l’ombra di quella di un altra persona e i tuoi sentimenti non potevano fare eccezione, non potevano non essere plagiati.
 
Quell’odio, quello che ha generato tutto, che ci ha logorate entrambe, fino allo sfinimento, fino alla morte (la mia). Il suo odio. L’odio del mostro.
La cosa devastante è che non era solo un odio grande, potente, malvagio. Era un odio dettagliato.  A un odio immenso riesci a sfuggire: a volte è così grande che acceca, spesso è così concentrato su sé stesso che te ne accorgi solo quando è troppo tardi.
Ma un odio così preciso, minuzioso, non ti dà vie di scampo.
 
Non c’era una cosa che potessi fare senza essere odiata. Ogni cellula del mio corpo scatenava in lui delle reazioni di ira e fastidio che raggiungevano l’assurdo.
Non andava bene come mangiavo la mela. Lui lo odiava.
Non andava bene la lunghezza delle mie unghie. Lui la odiava.
Non andava bene come camminavo. Lui lo odiava.
Non andava bene come rispondevo al telefono. Lui lo odiava.
Non andava bene neanche come urinavo. Ricordo di averlo sentito da dietro la porta decretare qualcosa di orribile, mentre ero in bagno, su quanta pressione mettessi nel fare pipì. L’ho trovato così disgustoso e umiliante.
 
Tutto questo odio, forse, ha corroso quel poco che c’era di ancora umano in lui. Quanto deve essersi impegnato, per odiarmi così tanto. Detestava cose che io neanche sapevo di fare, parti di me che non sapevo di avere.
 
Lui è stato contaminato da quest’odio, ma io ne sono stata distrutta.
La mia vita è stata quella di un ebreo in un mondo governato da nazisti.
Non potevo fare nulla senza essere minacciata, senza che qualcuno minasse alla mia dignità. Vivevo come un fuggitivo in punta di piedi sui rovi.
 
Alla fine ho smesso di mangiare mele. Era il mio frutto preferito, lo sai mamma? No, come potresti saperlo. Non me l’hai mai chiesto, non ti è mai interessato.
Ho smesso di mangiarle perché ogni volta che mi avvicinavo a una di esse, qualcuno urlava Sembri una scimmia, Guardati, non ti fai schifo?, Non osare prendere una mela se andiamo a cena fuori, mi fai vergognare, animale. Non potevo più mangiarle dopo i pasti, perché c’era lui, ma non le ho più mangiate neanche quando non c’era, nei momenti in cui finalmente dormiva, perché anche solo l’immagine di quel frutto così tondo e bello e dolce mi faceva sentire inadeguata.
 
Avevo iniziato a chiudere le dita in una specie di pugno raggrinzito, come se avessi avuto qualche terribile malattia alle mani, per nascondere le mie unghie. Non ho mai avuto le unghie belle ed eleganti delle ragazze. Non potevo limarle, ovviamente e non potevo mettere lo smalto: chi mai mi avrebbe comprato queste cose?
Però odiavo la sensazione delle unghie tagliate alla radice, fin da piccolissima. Mi davano un senso di debolezza, fragilità.
Ma non si possono tenere le dita piegate per sempre. Prima o poi devi allungare una mano per prendere una bottiglia d’acqua o raccogliere qualcosa che qualcuno ti ha tirato. E lui le vedeva.
Un episodio, in particolare, mi è rimasto scavato nella memoria. Eravamo nella nostra casa vacanze, al mare, e c’erano le zanzare. Mi pizzicavano e io non avevo unghie per grattarmi. Era come se un essere umano a cui è stata tagliata la lingua cercasse di urlare nel vuoto. Frustrazione. Mortificazione. Umiliazione.
Poi mi sono ricresciute, poco, quel tanto che bastava perché non avessi la costante impressione di avere le dita fasciate. Ero così contenta di essermi tolta quel fastidio.
Sono durate due giorni, due soli giorni. Lui le ha notate in una di quelle giornate in cui io ero più sbagliata del solito per lui. Quelle giornate in cui il mondo gli faceva schifo ed era automaticamente colpa nostra, come se lo avessimo costruito noi e non lo avessimo fatto a sua immagine e somiglianza.
Le urla.
Il mio cuore che batteva forte.
Lui che andava in bagno, prendeva il tagliaunghie.
La sua forza contro la sua, mentre mi teneva ferma e me le tagliava quasi a sangue.
La mia paura.
 
Quando ebbe finito, c’era solo una parola che poteva descrivere come mi sentivo, anche se probabilmente ero troppo piccola per conoscerla: mutilata.
Mutilata.
Mutilata.
Mutilata.

Mi sembra di sentirti, mentre leggi questa lettera, sulla mia tomba forse, e dici erano solo unghie.
Ma non lo erano, mamma.
Mi sentivo come se non fossi stata più in grado di afferrare oggetti, come se non avessi potuto stendere più le dita completamente. Erano così corte che mi facevano un male terribile e qualsiasi superficie toccassi mi urtava cento volte tanto, perché quella piccola porzione di pelle creata per essere protetta dall’unghia, era indifesa e scoperta a tutto.
 
Ti stai chiedendo dov’eri, tu, mamma, in tutto questo?
Eri lì, proprio accanto a noi. E non hai fatto nulla.
 
Per questo so che quell’odio non viene da te. Non sei riuscita ad alzare un dito mentre tua figlia subiva quella che per lei era una tortura, sotto i tuoi occhi, come avresti potuto odiare così tanto?
Semplicemente, non l’hai contrastato quell’odio.
Hai lasciato che crescesse sempre di più, che ti passasse attraverso, ti penetrasse, ti facesse sua, finché non sei stata anche tu catrame con il quale hai cercato di soffocarmi.
 
Non hai avuto la forza di amare (me).
Non hai avuto la forza di odiare.
Ora avrai la forza di seppellirmi? Avrai la forza di seppellire tutto questo?
 

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Capitolo 16
*** Cara mamma, ***


Cara mamma,

tu ci hai sempre voluto qui.

È una delle cose che più mi hanno ferita, quando sono diventa grande e ho iniziato a capire i meccanismi perversi e oliati di rancore che muovevano la nostra famiglia.

Tu non hai mai davvero cercato un lieto fine. Tu non hai mai davvero considerato l’idea di andare via. Tu non hai mai lottato perché avessimo un futuro migliore. Tu non hai mai cercato di tirarci fuori da quell’incubo distorto.
Tu non hai mai provato a salvarci, a salvarmi.
Tu non hai mai pensato a me. Hai sempre pensato solo ed esclusivamente a te,  a quello che tu ti eri convinta di volere, a quello che, per forza o disperazione, pensavi di poter sopportare in nome di un mondo migliore che ti sarebbe caduto dal cielo. Tu hai sacrificato me per quello che volevi, per quello che non avresti mai potuto avere.

Noi, io, te e quel terribile mostro che hai sposato, non saremmo mai potuti essere una famiglia normale.
Solo adesso capisco che era tutto quello che volevi. Tu eri una mamma casalinga che dedicava la sua vita a una casa che cadeva a pezzi e a una famiglia che seminava odio e se ne nutriva come unico alimento. L’unico obiettivo nella vita, la tua attività principale e fondamentale, falliva ogni giorno rovinosamente, e tu eri il capitano Smith, che guardava il suo indistruttibile Titanic andare a fondo da dentro di lui.
Forse l’avrei voluta anche io una famiglia, di quelle vere, in cui le persone si amano, litigano di tanto in tanto e poi si amano di nuovo, se non fossi stata così disperatamente impegnata a chiederti di salvarmi.

Se questo sogno vaneggiante di una redenzione da parte di un demone che non era e non sarebbe mai potuto essere altro che male che genera altro male avesse coinvolto solo te, io ti avrei dichiarata colpevole solo di ingenuità. Ti avrei anche forse dato l’attenuante della follia, in quell’ipotetico tribunale che ho costruito nella mia testa per giudicare i miei boia. Perché chi, se non una pazza, vede ogni giorno la cattiveria gratuita, il disgusto sincero e la violenza scontata di qualcuno riversarglisi addosso e spera ancora di poter trovare tra le ceneri delle proprie carni l’amore per quell’uomo, se ancora di umanità si può parlare? Chi, se non qualcuno che per dolore ha perso il senno come Astolfo per amore, può credere che dietro mani grandi e crudeli e parole piccole e affilate ci potesse essere ancora spazio per l’amore?

Non ti avrei scarcerata dalle pene che meriti per non aver avuto il coraggio di amarti, ma ti avrei perdonata per esserti autoinflitta un uomo che non meritavi.

Ma tu, in questa buia camera delle torture, hai trascinato anche me. Tu ti sei nascosta dietro a me. Perché se in una coppia che si ama un figlio è solo il frutto maturo e roseo del loro amore, in due persone che si disprezzano un figlio è solo un acero arcigno che li tiene incatenati l’un l’altro. E io ero la scusa dietro alla quale ti nascondevi per non ammettere di non avere il coraggio di sperare una vita migliore.

Io ero l’odio. L’odio come essenza, perché dall’odio ero nata, nell’odio ero cresciuta e con l’odio venivo nutrita. E dietro il suo odio per me, forse, riuscivi a trovare un po’ di amore per te. Sotto la luce distorta di quanto sbagliata fossi io, il vostro amore malato riusciva quasi a sembrare giusto.
Chissà, se non fossi arrivata io da odiare e da distruggere, che scusa avresti trovato per continuare a farti ammazzare. Chissà se non ci sarebbe riuscito, ad ammazzarti, se non ci fossi stata io tra te e quel coltello, tra te e le sue mani, tutte quelle volte. Chissà se non sarebbe stato meglio.

È solo capendo questo, quello che davvero volevi, ti aspettavi, una rinascita, che ho capito che non hai mai voluto davvero salvarmi.

Ho decine, forse centinaia di ricordi di me, inginocchiata ai tuoi piedi, con tutte le lacrime che un corpo umano può piangere, tutto il cuore spezzato che si può avere rovesciato sul pavimento, tutte le braccia e il volto dolorante che un bambino può avere, a supplicarti, a implorarti, a scongiurarti.

Portami via, portami via!

Quante volte te l’ho chiesto, mamma? Quanto ho provato a farmi salvare da te?

In tutti i ricordi, fatti di diverse altezze, diverse, tragiche situazioni, la tua indifferenza è chiara e nitida come se il ricordo fosse un quadro di sguardi e sentimenti. Ricordo che non mi guardavi neanche, c’era la televisione accesa, era lei la tua bambina. A volte mi piace raccontarmi che non mi guardavi perché vedermi così ti faceva soffrire troppo, perché la carne della tua carne era tremante sotto di te, le lacrime delle tue lacrime scorrevano incessabili, la pelle della tua pelle era ferita, il petto del tuo petto era scosso da interminabili singhiozzi. Ma se mi sento forte e mi permetto di non mentirmi, non posso che ricordare le volte che mi dicevi di piangere più piano o in un’altra stanza, perché non sentivi la televisione, e soprattutto non posso che constatare che se davvero non avessi voluto vedermi così, avresti alzato un dito, e non le spalle, mentre lui mi picchiava fino allo stremo davanti a te.

Portami via mamma, portami via! Ti ho supplicato tante volte e tu, quando non mi ignoravi, inventavi scuse che ai tempi mi sembravano ostacoli veri. Non abbiamo soldi, non ho un’altra casa.
Quando mi sono potuta informare e ho potuto sapere che, se avessimo voluto, avremmo potuto far fronte a questo con molta più facilità di quello che una bimba poteva sapere, ho capito che erano scuse.
E mi sono sentita terribilmente tradita.

Io che ho lottato per la mia vita prima ancora di essere in grado di farlo, quella vita che tu avresti dovuto proteggere a costo della tua, io che ti ho protetta, salvata e consolata quando non ero neanche in grado di capire cosa stesse succedendo, io che ho sempre cercato una soluzione, un’ancora per noi e mai solo per me, ero stata abbandonata fin dal principio da chi non aveva mai lottato per me.

È una sensazione disarmante, sai? Non puoi capirlo, perché l’amore dei genitori è qualcosa di unico al mondo, per il quale abbiamo una sola possibilità in tutta la nostra vita e allo stesso modo è l’assenza di questo. Si può immaginare che significhi avere un vuoto così immenso, che si cerca di colmare con mille altre cose, ma solamente chi è stato solo fin dal principio può capire quanto una tale assenza possa essere soffocante. Ancora di più, se hai creduto, sperato, di essere in due a remare in quel catrame pesante e appiccicoso di follia, droga e lividi, per poi scoprire che l’altra persona aveva remato contro di te dal momento stesso in cui lei, proprio lei, ti aveva buttato in quel mar morto.

Forse è stato lì che ho incominciato ad odiarti. Quando ho capito che avresti potuto e non hai voluto, quando ho capito che non hai lottato per me, ma contro di me, quando ho capito che in un gioco così pericoloso tu avevi sempre barato e io avevo perso per la tua disonestà.
Ma è durata poco. Subito dopo parte del rancore è diventato pena, perché solo questo si può provare per chi ha più codardia che amore materno.  Perché c’è qualcosa di profondamente sbagliato in una creatura che sacrifica i propri figli per appianare le divergenze.*
 
 
 



 
*citazione da Hunger Games- Il canto della rivolta

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