Ragazzi perché vi adoro? Perché
ogni vostro commento mi riempie di gioia? Perché ostino
a dirvelo? Perché è la sacrosanta verità.
Quindi passiamo al sodo :
il PDV di questo capitolo è completamente diverso dagli altri : John sta
per prendere le redini degli eventi che seguiranno.
Un intuizione geniale
(forse si rivelerà banale in seguito) mi ha spronato per un finale misto
e non preciso. Lo so, non sono di aiuto e soprattutto quanto v fregherà
quello che ho scritto?
Non so, quindi vi auguro (sperando vi piaccia)
una buona lettura.
Un saluto. Dido; i ringraziamenti, come al solito, sono alla
fine del capitolo.
P.S. Perdonate John per il suo
“colto” vocabolario.
«Dalla non è un cantante, ma un consiglio» Lessi sul muro
di mattonelle verdi. Da Frank faceva tutto schifo: la taverna (Una grotta per
sociopatici), la birra (Non so come si pronunci il nome di quella marca
scrausa), i videogiochi (Qualcuno gli vuole dire che siamo arrivati al quinto
capitolo di Street fighter e non al secondo?!) e
perfino il cesso; era fatto da quattro bare col buco (Frank osava chiamarle
cabine), una di fianco all’altra, che affacciavano su un lavandino in
marmo verde (Come le mattonelle d’altronde – il richiamo del vomito
era nelle vene di quell’ubriacone) lercio e mezzo sgangherato. Pendeva
verso sinistra, facendo schizzare il getto d’acqua nel cestino
dell’immondizia in metallo. Cazzo, neanche un vetro dove specchiarsi o un
po’ di sapone per pulirsi.
E pensare che non
entravo mai in uno di quei cessi (Bare)
senza un pacchetto di fazzoletti: la carta igienica in quel posto non era stata
ancora inventata.
Scaricai lo sciacquone ed uscii
senza lavarmi le mani. Andavo di fretta: dovevo fare una strage ad House Of
Dead! Attraversai la striscia di macchinette arcade fino a raggiungere quella
che cercavo.
Mi appoggiai sullo sgabello (Verde
anche quello, cazzo!) e mi armai con entrambe le pistole laser (Indovinate di
che colore erano).
Feci inghiottire alla mangia soldi due monetine e passai allo sterminio digitale.
Fanculo le buone maniere o il bon
ton. Tanto mio padre non mi prenderà mai nella sua scuola privata per
gentlemen; mi odia.
Posai le pistole nelle loro
fondine di plastica, strofinandomi le mani per togliere il sudore
appiccicaticcio che si era formato in quelle 3 ore di gioco. Superai la filadi macchinette video ludiche mangia soldi e mi buttai su
una delle sedie del bancone.
«Frank» sospirai
«Dammi una stufen splughen!»
Il barista cicciottello dalla
folta chioma rossa increspò il viso infastidito.
«Stafenin Sprukenin si dice, pezzo
d’asino!» Rombò Frank mentre allungava le mani nella cella
frigorifera per bibite che teneva sotto il bancone.
«È la stessa cosa
Frank. Vedi di non rompere, cazzo!»
Mi lanciò una birra. Che
schifo, era tutta appiccicaticcia.
«Come cazzo fai ad avere
sempre le mani sudate, eh Frank?» Dissi facendo schioccare la linguetta della
lattina; della schiuma amara traboccò dal barattolo. «Io almeno ho
sparato per 3 ore di fila ad orde e orde di morti viventi!»
Frank non lo avevo mai capito. Un
uomo libero, che guadagnava bene grazie ad un’attività di propria
gestione, che beve senza pagare e che non fa un cazzo dalla mattina alla
sera… perché un uomo così sta sempre incazzato nero? Gli
mancava la compagnia del gentil sesso? Mah, non credo: uno come lui va con le
lolite di notte. Ne
ero sicuro.
Diedi un sorso alla birra.
«Sa
di piscio Frank! La prossima volta non te la pago»
Mi squadrò col suo sguardo
burbero. Sapeva che bluffavo, ma si incazzava comunque (Tanto per cambiare).
«Pezzo d’asino ma tu
non stavi migliorando a parlare?»
«Si Frank, ci provo…
ma cazzo il mio vecchio non mi sopporta., quindi che
spreco a fare il mio tempo, eh?!»
«Quindi getti la spugna?»
Disse, passandosi una mano unta fra i capelli.
«Esatto» Sillabai
mentre presi un altro sorso di piscio.
«Se vuoi provaci tu a
migliorare il tuo lessico.» risi sotto i baffi. «Ne avresti
bisogno»
Mi colpì con lo
strofinaccio giallo con cui ripuliva il vomito dai pavimenti.
«Che schifo…»
«Dov’è oggi il
tuo amichetto del cuore?» Riprese a parlare come se non mi avesse
trasmesso chi sa quanti microbi e batteri grazie a quello schiocco di panno al
rigurgito.
«Mah, era andato dal
fratello in palestra…» Cazzo,
ma che fine aveva fatto Dylan. «Fammelo chiamare che è
meglio.»
Posai la lattina sul bancone di
legno e presi il cellulare; una rapida sfogliata alla rubrica digitale e
già stavo chiamando Dylan per cazziarlo come meritava.
Odiavo gli ospedali. Troppi
brutti ricordi.
Quando chiamai Dylan, fu la madre
a rispondere. Capii subito che era successo qualcosa di grave: Dylan non si
staccava mai dal suo cellulare. Era troppo fissato; diceva che poteva tenersi
in contatto con tutto il mondo con un semplice CLIK e di solito premeva la cornetta verde disegnata su un
pulsante. Da quando poi Internet era
compatibile con le funzionalità dei cellulari… diciamo che era
entrato in brodo di giuggiole con quel suo aggeggio..
Io non ci tenevo molto a quei
cosi, ma non so se perché non mi piacevano o perché il mio andava
ancora con le suonerie monofoniche. Mio
padre mi odia proprio…
Raggiunsi in poco
l’ospedale dove era ricoverato Dylan col fratello; era l’unico in
tutto il paese e si trovava vicino la palestra Pinco Pallino. Avevo corso a
piedi dalla sala giochi di Frank e quando arrivai nell’area di
accettazione del San Gemini pensai di accasciarmi per una mezzoretta prima di
entrarvi dentro, ma quel posto era inquietante.. L’ospedale
più che donare uno stato di sicurezza e fiducia a chi vi entrava,
emanava lugubri presagi di morte. Per un paziente doveva essere una tortura.
Appena superato il muretto d’entrata,
come lapidi premonitrici, i necrologi di chi era ricoverato, erano incollati
sulle pareti dell’edificio. Tutti i nomi e le date di decesso dei
defunti, erano sistemate con ordine e precisione, quasi ci fosse un contabile vite in ospedale che ci tenesse a far sapere a
tutti quanto fosse ligio al dovere. Questa mia fantasia era assurda: i
necrologi erano appesi sulle pareti d’entrata per avvertire (All’arrivo)
sia il personale che la famiglia dei vari pazienti.
Via il dente, via il dolore…
Prima di entrare mi fermai su una
di quelle pareti tappezzate di vite infrante. Iniziai a fissarle una ad una,
dispiacendomi per la loro fine prematura o meno.
Mi voltai per dirigermi verso
l’entrata dell’ospedale, ma un tarlo
iniziò a picchiettare nella mia mente.
Io controllerei, diceva trapanandomi le orecchie. Io controllerei che non ci sia il nome del tuo amichetto…
Stupido tarlo,
non poteva essere così. Non doveva!
Eppure hai sentito ciò che ti diceva la madre, sobillava
mentre iniziava ad insinuarsi nel mio cervello, sia Luke che Dylan sono caduti dalla balconata del primo piano.
«Zitto» Gridai nel muto
frastuono dell’ospedale «Sono entrambi vivi!»
Se lo dici tu… non ti va di controllare?
Il bastardo era insistente.
Mi appoggiai con la schiena
contro il marmo ruvido della parete. Cazzo, era gelido.
«Va bene» Iniziai ad
auto incitarmi per convincermi che tutto sarebbe andato liscio. «Una
controllata rapida e vedrai che dei nomi di Dylan e Luke, non vi sarà
traccia»
Iniziai a controllare tutti i
manifesti mortuari :
Danny Loco – 67 anni
Ashley Ramadan – 71 anni
Joy Star – 75 anni
John Baud – 17 anni
Clarissa Sutherland – 89 anni
Lara Font – 94 anni
Per fortuna il loro nome non c’era.
Attraversai le porte automatiche
in plastica dell’ospedale, fermandomi a chiedere informazioni alla
reception sulle camere dei pazienti Key.
L’infermiera digitò i loro nominativi sul PC e mi disse di attendere.
L’atrio dell’ospedale
era formato da un bancone azzurro al centro, dove c’erano le infermiere
addette all’accoglienza dei pazienti; le pareti in panna erano ricamate
da quadri raffiguranti varie zone anatomiche del corpo umano (Non ne
riconoscevo nemmeno una) e delle panchine sparse lungo tutti i muri.
Mentre aspettavo che quella
macchinetta elaborasse i dati, mi soffermai sul silenzio e sulla violenta pace
che regnava in quella sala. Oltre a me e alle infermiere indaffarate (Nei loro
camici rosa – molto succinti) non c’erano pazienti, visitatori o
familiari in cerca dei propri cari.
«Entrambi sono ricoverati
nella sala 23 al terzo piano» Disse l’infermiera ricercatrice
spezzando la catena dei miei pensieri.
«Grazie» Sospirai
«Scusi… come mai non c’è nessuno paziente o chi so io
in ospedale oggi?»
La donna iniziò a
guardarmi stralunata. Il sopracciglio sinistro le si era leggermente inarcato
mostrando un piccolo neo peloso vicino la pupilla marrone dei suoi occhi,
«Cosa
stai dicendo ragazzo? Siamo stracolmi di lavoro e tu ci prendi in giro?»
Tuonò infastidita.
«Veramente…»
Una spintonata mi interruppe: intorno a me uno sciame di sagome aveva saturato
la stanza. Infermieri, malati e dottori si aggiravano affannosamente per la
sala, alla ricerca di medicine o chi sa cosa.
«Scusi…»
Biascicai, rosso come un pomodoro, prima di alzare i tacchi e prendere le scale
che si trovavano sulla destra della reception.
Raggiunsi il terzo piano. Come
per il resto della struttura, il bianco sterile regnava con prepotenza; iniziai
a correre alla ricerca della stanza 23. Dovevo sapere come stava Dylan…
Mentre attraversavo il corridoio,
sentii il tarlo iniziare a mangiucchiare pezzi della mia materia grigia. Forse non hanno ancora avuto il tempo di
affiggerli i manifesti o forse appena entrerai nella loro stanza incontrerai un
dottore che ti annuncerà la loro morte, disse il tarlo mentre zappava
col becco nella mia mente, scavando sempre più nel profondo.
Accelerai il passo
istintivamente, ma giunto alla fine del corridoio, prima dell’inizio
delle scale che portavano al quarto piano, notai che della stanza numero 23 non
vi era traccia. L’ultima stanza era la 33. Iniziai a ripercorrere
il corridoio, teoricamente la stanza 23 doveva essere la prima.
Correndo mi voltai distrattamente
verso una delle finestre che affacciava sul giardino ospedaliero. Incespicai
facendo urtare un piede con l’altro: dalla finestra, come dei fantasmi
moribondi, le persone di cui avevo letto i necrologi si stavano accalcando.
Erano in piena decomposizione; le loro teste erano prive di orbite, parti del
corpo erano penzolanti e dei capelli era rimasta solo qualche piccola ciocca di
ciuffi posticcia. Tutti erano insozzati di terreno, fango e vermi. Uno di loro ne aveva uno che attraversava una narice per uscirne
dall’altra.
Iniziai a correre più in
fretta che potevo, ma ogni volta che affiancavo una finestra, loro apparivano
come se fossero un riflesso di un sole macabro. Un riflesso di morte.
Tra di loro ce n’era uno in
particolare, integro…
Se ne stava in disparte, senza
emettere rantoli o accalcarsi con gli altri sulla finestra. Non era nemmeno ricoperto
di fango…
La stanza 23 era la prima. Appena
la vidi, mi fiondai con entrambe le mani sulla maniglia della porta,
abbassandola e spingendola internamente.
Sentii il rumore di una finestra che
veniva fracassata, ma non mi voltai per controllare; chiusi la porta alle mie
spalle.
Un dottore stava stringendo tra
le braccia Luana quando entrai ella camera; Dylan e Luke invece erano stesi su
delle lettighe, collegati ad alcuni macchinari per il controllo della salute.
Lungo i loro bracci, un vortice di tubicini penetrava le loro vene, per
trasportare il liquido di alcune flebo nei loro corpi
immobili. Erano in coma.
Passarono 5 ore prima che mi
cacciassero dalla camera 23 (Fine orario delle visite); quanto desideravo lo
avessero fatto prima.
Quando la madre abbandonò
la stanza, lasciandomi solo con i due fratelli in coma, una folata di vento
penetrò la sterilità di quella camera.
L’unica finestra era
bloccata, mentre la porta era chiusa. Il vento non sarebbe dovuto passare da
nessuna parte.
Presi una delle sedie gialle del
tavolino in plastica, e mi sedetti di fianco a Dylan. Con la sedia cozzai un
vaso con una piantina, posto sul mobiletto di fianco la lettiga, che riuscii ad
afferrare prima che si infrangesse in terra. Lo risistemai al suo posto e mi soffermai
sul viso pallido del mio migliore amico.
I suoi lunghi capelli ramati erano
stati coperti dalla garza e da alcuni punti di sutura che, come in un campo
minato, riempivano la sua testa. Che si vedessero oppure no.
Ero tentato di allungare la mano e
toccarne uno, ma la paura che si aprisse (Ed esplodesse) sputando fiotti di
sangue e brandelli di cervello, mi fermò.
Puntai gli occhi sul freddo
schermo del suo battito cardiaco, una specie di step elettronico che saliva e
scendeva seguendo il suo battito cardiaco.
«Cazzo… Dylan…
Luke… merda!» Digrignai i denti fino a scheggiarne qualcuno, non
sapevo come reagire, così finii col pensare a tutte le cazzate fatte
insieme nel corso degli anni. Ci eravamo conosciuti alle elementari e da allora
avevamo frequentato gli stessi indirizzi, un po’ per fortuna un po’
perché volevamo. Nei momenti più bui della mia vita lui mi aveva
sempre dato una mano. Ora che gliene serviva una, io non sapevo cosa fare.
Forse non potevo fare nulla, ma non riuscivo ad accettare quest’assurda
idea di dover attendere che il fato decidesse che valeva la pena di salvare la
sua vita o no.
Mi alzai dalla sedia,
raggiungendo la lettiga di Luke.
«Sei uno stronzo… ma
ti ho sempre voluto bene» Dissi, nascondendomi il volto tra le mani.
«Non ti preoccupare per
loro» Una voce infantile irruppe nella stanza
insieme ad un’altra folata di vento. Iniziai ad ispezionare la stanza.
Non riuscivo a capire da dove provenisse.
«Chi sei?» Gridai con
tutto me stesso; speravo di svegliare i due comatosi facendo casino…
«Apri il pacchetto il
giorno di San Valentino…» La sua voce era divenuta quasi un sospiro
impercettibile.
Iniziai a mettere a soqquadro la
stanza, buttando per terra il tavolo, le sedie ed il vaso che prima avevo
salvato. Niente. Tranne me e i due fratelli, non c’era nessuno.
Una risata acuta come lo stridio
di un violino echeggiò nella mia testa. Il tarlo, pensai istintivamente,
prima di vedere un pacchetto rosso a forma di cuore sulle gambe immobili di
Dylan.
Lo afferrai con la mano sinistra
mentre con la destra sollevai di poco la parte superiore del pacchetto. Apri il pacchetto il giorno di San Valentino,
aveva detto la vocina fanciullesca…
Nella mia mente si formò
l’immagine nitida di un pagliaccio sorridente. I suoi dentini brillavano
nell’oblio della mia mente con il loro marciume giallastro. Osservandoli bene, notai che dietro ogni fila di denti ce ne era
un’altra, come le fauci degli squali.
Scacciai quell’immagine
dalla mente e mi soffermai sul cuore che avevo tra le mani. Un improvviso fetore
salì dal suo interno, un misto tra il rancido e la decomposizione.
Vagamente mi ricordava la spazzatura rimasta esposta per troppo tempo al sole.
Una parte di me avrebbe buttato da qualche parte quella scatoletta, ma
l’altra voleva sapere cosa c’era.
Scoperchiai la scatola.
Poco dopo un infermiera
entrò per dirmi che l’orario di visite era finito; riuscii a
vedere i suoi occhi strabuzzare prima di riempirsi di lacrime… stava
tremando.
Ed
eccoci alla fine del 5° capitolo. Sono
riuscito ad angosciarvi un pò? A farvi venire i brividi? Ultimamente non
sto leggendo molto e quindi temo che la mia scrittura ne risenta… mah,
spero solo (e sempre) che a voi piaccia tanto quanto sia piaciuto a me
scriverla.
new_francysmile_live
: eheheheh. Temevo di aver fatto un mezzo flop col
gioco di luci. Mi fa piacere che ti abbia colpita,
Sarapastu : ahahahahah mi fa piacere di averti confusa le idee.
shura
4 ever : Grazie, troppo
buona. Poverini, deve far molto male cadere da una balconata…
Tiky
W : mmm… non so che fine
farà Luke, però c’è da dire che come personaggio
è approssimativo, non l’ho approfondito molto… perché
è uno dei tuoi preferiti?
Ego me stesso ed io : Mi fa piacere che il modo in cui descrivo le
situazioni e gli eventi sia di tuo gradi mento e… NO! Non sono tanto
normale (in senso buono ovviamente… credo!)
Ciabysan : Lo so, ma era inevitabile. Non
ho ideato subito tutta la storia ed il suo evolversi (e so che è
sbagliato), ma questo passaggio era obbligatorio. Comunque sempre lieto di
riempire la sua lettura di tensione e terrore.