Wikipedia : On Dead!

di Dido88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nome e Cognome ***
Capitolo 2: *** Josh... ***
Capitolo 3: *** Per caso o per destino... ***
Capitolo 4: *** Staticità vitale ***
Capitolo 5: *** Nursering ***



Capitolo 1
*** Nome e Cognome ***


Quando digitai il mio nome, seguito dal cognome, non mi sarei mai aspettato nulla del genere

Quando digitai il mio nome, seguito dal cognome, non mi sarei mai aspettato nulla del genere. Pensai fosse uno scherzo e all’inizio la presi sul ridere. Su wikipedia, qualcuno aveva scritto pagine e pagine dedicate alla mia vita. Incredibile pensai,  doveva per forza essere uno scherzo. Ero un alunno delle superiori, mica una super star o uno di quei V.I.P. a cui si dedica una biografia. La pagina era infestata da paragrafi e didascalie precise e dettagliate. C’era il mio primo giorno d’asilo (con un piccolo asterisco con delle spiegazione sul perché mi misi a piangere dando calci alla maestra), le figuracce fatte durante la recita scolastica, gli atti di bullismo subiti alle medie, il mio primo bacio; il tutto diviso in piccole sezioni : la mia famiglia, gli amici, la vita privata, il lavoro…

Mi conficcai una sigaretta tra le labbra, presi l’accendino e ne bruciai l’estremità. Il fuoco la colorò di rosso facendo uscire piccoli sbuffi di fumo. Ero divertito dallo scherzo ben congegnato, ma c’era qualcosa di macabro che mi rendeva teso. Tutte quelle informazioni… così precise e dettagliate. Sicuramente sarà stato mio fratello o quello scemo di Russ sussurrai nel silenzio della mia cameretta. Tirai un’ultima boccata alla sigaretta, prima che mi scivolasse dalle labbra. Abbassando lo scroll col mouse, vidi un paragrafo annunciatore di sventura. Era intitolato 22/02/2009 IL FATALE INCIDENTE ed era ornato da una foto in bianco e nero di un bambino vestito da clown. Il piccolo sorrideva di gusto, ma una piccola lacrima, zampillata dall’occhio sinistro, gli lacerava una guancia. Il paragrafo era formato da sole due parole :

 

Ti ucciderà!

 

«Ti ucciderà» Lessi mentalmente… Balzai in piedi rovesciando la sedia in terra. La gola si seccò e un vento gelido iniziò a percuotermi per intero. Qualcosa si stava muovendo intorno a me. Qualcosa di mostruoso e violento. Se era uno scherzo, faceva veramente gelare il sangue nelle vene.

Buttai di nuovo gli occhi sul monitor per leggere quelle due maledette parole, ma non c’erano più… la pagina era diventata bianca. Solo due cose, ora,  erano presenti sullo schermo. La parola scappa e la foto di quel raccapricciante pagliaccio. Strabuzzai gli occhi notando che la foto fosse cambiata. Un piccolo cappio gli aveva adornato il collo come un piccolo collier di diamanti maledetti. Lo sguardo era spento e della lacrima non c’erano più tracce. Afferrai la sigaretta tirandola come se fosse l’ultima pippata di piacere cancerogeno della mia vita. Sentii il catrame sciogliersi dalla sigaretta e riempirmi i polmoni. Quando cacciai il fumo, piccoli schizzi di sangue iniziarono a macchiare la scrivania del mio computer. Alzai un’ultima volta lo sguardo. Il pagliaccio mi stava facendo un occhiolino, sfoggiando un sorriso beffardo ed una mannaia insanguinata. Il vento gelido tornò ad avvolgermi. Questa volta lo sentii fitto sul collo, come se una lama, la sua lama, stesse recidendo la mia anima lentamente.

Quando lo schermo esplose, esplose anche una piccola parte di me. La paura aveva preso il sopravvento. Quello non era affatto uno scherzo. Iniziai a gridare con tutto me stesso, superando la mia stessa voce. Balzai fuori dalla camera sbattendo con forza la porta alle mie spalle. La scossa fece cadere il calendario della pin-up di play boy. Su di esso una piccola pinzetta indicava la data di quel giorno : 25/01/2009. La scritta diabolica di wikipedia aveva previsto la mia morte  tra circa  un mese

 

 

 

Allora come vi è sembrato questo primo capitolo ? Fatemi sapere, la storia è appena iniziata, ma per Dylan la situazione già si sta facendo ardua. Ma non temete… presto non sarà solo…

Un saluto. Dido.

 

P.S. Ho scritto Ti ucciderà!, non è un errore di battitura!

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Capitolo 2
*** Josh... ***


Prima di iniziare a leggere…

Prima di iniziare a leggere

 

Un ringraziamento sincero a tutte le persone che hanno commentato (Mi avete lusingato. Sul serio!) e a chi ha inserito questa fiction trai i preferiti.

 

P.S. Questo secondo capitolo può sembrare più lento rispetto al precedente…

 

 

 

Spensi la sigaretta con la scarpa e mi scrutai con attenzione allo specchio. I miei occhi azzurri scintillavano come lame affilate, la mia cresta d’avena era dura quanto bastava, il mio lucchetto pendeva dal collo più fiero di un impiccato innocente e il mio stomaco era intorcinato come non mai. Oggi era il giorno della consegna caz… cavolo! Pensai ad alta voce. Dylan doveva portare gli argomenti della ricerca che ci eravamo divisi… Dove cavolo si è cacciato? E pensare che gli avevo anche suggerito di andare a cercare dati extra su wikipedia… cavolo!

Se ci becchiamo un’altra insufficienza i miei mi si bevono. Pensai tra me e me prima di guardare l’orologio : erano le 8 e mezza e già mi stavo accendendo l’undicesima sigaretta della giornata. Se continuo così rischio di non arrivarci proprio alla maturità. E non per colpa delle insufficienze.

Dopo poco lanciai la carcassa della sigaretta nel WC e scaricai. Ormai la prima ora era quasi finita, meglio rientrare in classe evitando un bel cazziaton… una ramanzina dalla prof.

 

Quando entrai dalla finestra, lui era lì, disteso sul letto, con la bava che colava dalla bocca fino alla spalla. «Dormiglione… SVEGLIA!» Gli gridai nell’orecchio.

Ruzzolò per terra.

 

La casa di Dylan mi è sempre piaciuta. Rispetto alla mia è completamente un’altra musica. Per iniziare, tutte le pareti sono integre e verniciate (di un giallo scuro, quasi arancione). Ci sono molto bei mobili in finto legno antico (secondo me potrebbe essere anche vero legno antico…) e tante stanze spaziose e ben areate; per non parlare della favolosa cucina da cinema! Due ripiani in marmo, uno per cucinare ed uno per mangiare, due forni, un frigo in acciaio e una batteria di utensili per cuochi provetti.

Lo confesso…  Se potessi gliela ruberei.

«Smettila di fantasticare e dimmi perché continui ad entrare dalla finestra» Mi ammonì il bello addormentato nel bosco.

«Solo se tu mi dici perché stai facendo colazione alle 4 del pomeriggio!»

Mi fissò stravolto. Sembrava che non avesse chiuso occhio per tutta la notte.

«Cazzo! Oggi ci hai fatto prendere un altro 2! Un altro 2!»

«Cavolo. Si dice cavolo, non cazzo.» Mi ammonì. Ancora.

«Se permetti, cazzo, ci stava tutto questa volta. Ora mi spieghi cosa… » presi un bel respiro «Cavolo è successo questa notte da tramortirti a questo punto.»

Dylan mi guardò completamente rintronato. Era sconvolto. Delle occhiaie avevano deciso di pestargli gli occhi, mentre la sua solita coda di cavallo aveva lasciato spazio ad una moltitudine di capelli sparati alla Bill Kavolitz o come diavolo si chiama.

«Lascia perdere.» Gli si sgranarono gli occhi. «Ho avuto un incubo terrificante!» Sillabò quell’ultima parola con una strana enfasi.

 

Dopo la colazione (pomeridiana) ci mettemmo davanti al PC (integro) della sua stanza. Mi aveva raccontato per filo e per segno quel sogno così terrificante, tanto che alla fine mi incuriosì.

Digitai i nostri nomi e cognomi su wikipedia. Ma non ottenemmo nessun risultato.

Le pagine non esistevano. Che peccato, mi sarei divertito se avessi trovato pagine del genere sulla mia vita.

 

 

Chiusi la porta in fretta e furia,  precipitandomi nel salone alla disperata ricerca di mio fratello (Ho un fratello!?). Niente. La casa era vuota; i miei genitori non erano ancora tornati dal lavoro, ma Josh, dove si era cacciato? Caro, lui è morto! Non fare finta di non saperlo. Scacciai in un attimo quell’irritante vocina echeggiante dalla mia mente e iniziai ad ispezionare la casa con scarsi risultati. In tutte le stanze non c’era la presenza di un’anima viva eccetto me.  DRIIIIN… DRIIIN… ero paralizzato.

Dopo l’ispezione mi accasciai sul divano, tentando di rimettere le idee a posto. Il telefono squillava ma io non gli davo retta. Dovevo riordinare la mia mente, tutto il resto veniva dopo. Sprofondai tra i morbidi cuscini in pelle analizzando la situazione. In fondo poteva essere tutto uno scherzo… DRIIIN… DRIIIN… Un qualsiasi hacker avrebbe potuto creare quegli affetti col computer, non ci voleva molto dopotutto. L’esplosione del monitor sarà stata solo una sfortunata coincidenza… DRIIIN… TLACK! Una vocina meccanica iniziò a cincischiare  – Questa è la segreteria telefonica della famiglia Key, lasciate un messaggio dopo il BIP – La voce che seguì dopo quel suono non era umana : lo sai benissimo che non è uno scherzo. Lui ti ucciderà, così come ha ucciso tuo fratello. Io controllerei meglio nella cesta dei giocattoli-

I quadri nel salotto iniziarono ad ondeggiare, come se il mare che vi era raffigurato ( mio padre amava questo genere di quadri… volevo dire ama) stesse iniziando a prendere vita, pronto ad inondare l’intera sala. Uno in particolare sconvolse la mia mente. Raffigurava una piccola goletta che affrontava un’improvvisa burrasca. Lo fissai attentamente e notai che sulla bagnarole, in mezzo ai marinai che chiedevano aiuto a Nettuno o chi sa quale divinità… c’era anche lui. Mio fratello era in mezzo a loro, con la sua solita cresta bionda ed il suo lucchetto appeso al collo… Chiedeva aiuto e per una frazione di secondo giurai di sentire la sua voce spaventata invocare il mio nome in segno di soccorso…

 

Arrancai fino alla porta della sua cameretta e mi fermai. Non avevo il coraggio di aprirla e controllare, ma dovevo farlo. Presi un respiro e feci qualche passo indietro. Volevo prepararmi a reagire contro qualsiasi cosa ci fosse lì dentro. Posai la mano destra sul pomello dorato della porta facendolo scivolare con lei verso l’interno. Alzai lo sguardo ma mi arrestai. La porta era sghemba e pendeva verso destra. Lasciai di scatto il pomello, facendolo tornare alla posizione originale. Istintivamente chiusi gli occhi. Non può essere Dylan (Ma io non mi chiamo Dylan!?) , fermati. Dissi tra me e me. Rilassati. Stai entrando in paranoia. Riuscii a calmarmi e a convincermi a riaprire gli occhi. La porta era dritta. Con la mano sinistra asciugai il sudore che invadeva la mia fronte, mentre con la destra girai il pomello per entrare nella stanza. Non ci riuscii.

La porta era di nuovo sghemba.

Questa volta pendeva leggermente sulla sinistra.

Sentii lo stomaco torcersi, stavo per avere un altro attacco violento di vomito. Quella porta sembrava oscillare come un dannato pendolo causandomi una sensazione simile al mal di mare.

Chiusi nuovamente gli occhi,  otturai la bocca con la mano sinistra e con la destra feci scattare con forza il pomello. Ruzzolai nella stanza sbattendo la testa, ma almeno evitai una seconda scarica di vomito…

 

 

Quando Josh mi chiamò, cambiando per sempre le nostre vite, era il giorno seguente la ricerca svolta su wikipedia. Stavo per entrare in classe quando squillò il cellulare:

«Dylan…» Sospirò. «Ho sognato quello che hai sognato tu…»

«…»

Lo sentii piangere.

«Tuo fratello… è morto»

 

 

Non fraintendete quello che avete letto. Se vi siete sentiti disorientati e nel bel mezzo del caos… beh…  tutto va come deve andare. Tranquilli; spero solo di avervi spaventato o almeno turbato un po’.

 

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Capitolo 3
*** Per caso o per destino... ***


Inizio subito con delle scuse per il ritardo con cui ho postato questo capitolo, e vi ringrazio con tutto il cuore per i meravigliosi commenti lasciati

Inizio subito con delle scuse per il ritardo con cui ho postato questo capitolo, e vi ringrazio con tutto il cuore per i meravigliosi commenti lasciati. Ogni volta che li leggo mi sento carico e sono sicuro di riuscire a trasmettere le sensazioni che vorrei tramite word.

 

 

 

Una parte di me si ruppe in quel momento, un’altra si ravvivò. Josh mi raccontò, terrorizzato, il suo incubo: nel sogno lui era me e cercava disperatamente mio fratello, che però era lui. Più che un incubo, era un trip.

Tremava mentre raccontava l’orribile vicenda onirica, ma quando confessò di aver visto mio fratello fatto a pezzi nella cesta iniziò a piangere a dirotto.

Qualcosa mi si fermò in gola.

 

Non ci ragionammo molto e nemmeno ne discutemmo, ma entrambi ci dirigemmo verso la palestra. Luke era un vero fanatico del culturismo e, con suo immenso piacere e fortuna, lavorava quasi tutta la giornata alla Pallino Joe. Diceva sempre mens sana in corpore sano, e poi batteva i pugni sul proprio petto “marmoreo”. Un gorilla in pratica.

Però a quello scimmione ci tenevo con tutta l’anima. Era il mio punto di riferimento.

«Aveva…» Il filo spinato dei miei pensieri venne interrotto dalle parole singhiozzate di Josh «... Quando ho aperto la cesta, c’era… c’era la sua testa… schiacciata da un manubrio ginnico»

Si fermò per vomitare la colazione. Forse anche la cena della sera prima.

 

Giunti nell’atrio della palestra John si accasciò paralizzato contro gli armadietti di metallo. Un frastuono metallico vibrò nell’aria, insieme alle lacrime che gli rigarono le guance arrossate.

Aveva paura che quella visione fosse una specie di premonizione, ma non voleva scoprirlo.

Io dovevo.

Gli dissi di aspettarmi ed entrai nella sala attrezzi. Una lama scintillante di luce entrava da una piccola finestrella, illuminando per metà lo stanzone pieno di macchinari per la tortura fisica. Estensori, abduttori, stepper, macchine per addominali e una svariata scelta di tappetini per il fitness, infestavano la stanza, mentre un solo tapis roulant era stato messo prima della balconata che affacciava al piano inferiore.

Mi sporsi e notai che il piano inferiore era adibito per l’allenamento di un paio di gruppi di danza moderna e classica.  Iniziai a farmi strada fra le varie attrezzature ed i vari macisti iscritti; la signorina della reception, una donna grassoccia di mezza età dalla voce irritabilmente petulante, gli aveva detto che suo fratello stava aiutando un nuovo iscritto col tapis roulant. Io però non li avevo visti.

Una vampata di calore mi assalì portando il mio sguardo di nuovo verso i ballerini.

Mio fratello, schiacciato sul pavimento, in una pozza di sangue. Questa visione si era impadronita con prepotenza della mia mente per qualche istante. La scacciai (con grande sollievo) osservando l’immacolato parquet del piano inferiore.

«Ma guarda te chi ci viene a trovare» Trasalii. «Che ci fai qua mezza cartuccia?»

Luke era nascosto dietro una colonna della balconata, intento nella  riparazione del tapis roulant.

Sentii il mio corpo fremere di una felicità elettrizzante, quasi statica.

Gli corsi contro abbracciandolo, pentendomene subito. La sua tuta ed il suo viso erano zuppi di un sudore madido, maleodorante e appiccicoso. Quasi melmoso. Tre ore di allenamento mi si riversarono addosso in soli due secondi.

«Ero solo venuto a chiederti se tornavi oggi per pranzo…» Mi inventai una scusa che non si reggeva né in cielo né in terra. «Sai la mamma voleva sapere se doveva preparare il suo piatto speciale di Bucatini all’Amatriciana».

Mi fissò con rimprovero, inarcando il suo sopracciglio ferito (Non si era fatto male, ma diceva che tagliarsi un pezzo di sopracciglio era da duri), ma finì col darmi una pacca sulla spalla.

«Non spremerti per una balla mezza cartuccia.» Iniziò a ridacchiare di gusto «Ho capito che hai fatto sega con Josh.» Allungò la mano e l’indice verso la porta di vetro, dove Josh aveva spiattellato il suo viso. «Non ti preoccupare, non dirò niente a Mà e Pà. Ora vai che sto lavorando.»

Annuii col capo e partii sparato verso Josh. Sorridevo con tutto me stesso.

 

Prima che uscissimo, venimmo fermati dalla cicciona dietro la reception. Voleva sapere cosa ci facevamo qua e cosa volessi da mio fratello. Tutte richieste fatte con la sua vocina stridula. Buttammo lì qualche risposta banale, giusto per togliercela dalle scatole, ma era insistente.

«Sai che genere di ragazze piacciono a tuo fratello per caso?» Quella domanda ci spiazzò entrambi. Josh iniziò a ridere come un forsennato. Pensai istintivamente che stesse scaricando la tensione che si era accumulata durante quella mattinata. Chiusi la conversazione dicendo che era uscito da poco da una storia seria e che aveva bisogno di stare da solo; arrivati all’ingresso, facemmo passare prima una giovane donna con in mano dei manubri ginnici. Poi uscimmo.

 

Trascorremmo il resto della mattinata alla sala giochi del vecchio Frank. Una specie di taverna riempita da intere fila di videogiochi in stile arcade. Dico taverna perché Frank, un tipo burbero dalla folta chioma rossastra, anche alle nove del mattino era pronto a vendere degli alcolici a chiunque, anche a dei minori. Tutti si chiedevano come mai nessuno lo facesse chiudere, ma nessuno lo saprà mai.

Finiti i gettoni andammo a casa mia. I miei sarebbero tornati per le due, massimo le tre. Non avrebbero mai scoperto la nostra piccola fuga scolastica, potevamo rilassarci.

Ci stendemmo sui divani di pelle del salone, crollando in un sonno profondo privo di sogni.

 

 

 

Il braccio dolorante. Occhi irritati. Un lembo di carne penzolante dalla fronte. Sangue.

«Fanculo. Carrelli di merda. Messiah voglio la rivincita. Non accetto un game over come risposta!»

Lo scontro dei carrelli era divertente, ma porca troia quanto faceva male. Sia lodato l’inventore dei caschi integrali.

«Mike…» Gigi mi fissò col suo solito sguardo sornione «… NON ROSICARE!»

 

Quando finimmo di gareggiare (Messiah mi aveva stracciato, cazzo!), dopo aver sistemato i carrelli della Coop nella solita discarica con il resto dell’attrezzatura, Gigi ed io andammo a prenderci una birra da Frank.

Erano solo le nove e mezza del mattino, ma per Frank non faceva alcuna differenza. Una sbevazzata non va negata a nessuno, diceva sempre. Tutte cazzate: lo faceva solo per i soldi.

L’unico problema era che quel posto somigliava più ad una topaia che ad una sala giochi. Le mura erano di un verde rancido che ricordava vagamente il colore del marciume, mentre un leggero odore di muffa pervadeva tutte le macchinette, ricreandone l’effetto alla perfezione. Una volta mi parve addirittura di vedere un ratto che correva tra i vari fili elettrici che si districavano dietro il muro.

La cosa peggiore di quel posto però era l’illuminazione; quel buco non aveva nemmeno una piccola finestrella. L’unico fascio di luce proveniva dal piccolo oblò della porta di legno all’ingresso. Il resto delle luci invece erano degli schermi delle macchinette elettriche.

Se non fosse per l’alcool e per i giochi, nessuno con un briciolo di buon gusto ci avrebbe mai messo piede lì dentro. Era un antro.

 

Chiudendo la porta della mia camera non potei non notare come anche essa lo fosse. Ma almeno la mia è accogliente e odora di pino silvestre, pensai mentre sbucciavo la carta in plastica di uno Snickers. Non dormivo su un letto, ma su una brandina di vimini in pieno stile hawaiano. Avevo due scrivanie unite tra loro, una per lo studio e una per il mio Universo. Le pareti bianco sanitario erano abbellite da innumerevoli poster di eroine dei miei videogiochi preferiti, ed una sola finestra (sempre chiusa e con le tapparelle abbassate, anzi serrate) affacciava di fronte la palestra Pinco Pallino Joe.

Accesi il mio Universo e mi collegai ad internet.

Merda.

 

Pezzi di Snickers volarono sul tappeto, altri dentro la mia camicia bianca con sopra disegnati tanti piccoli Pac-Man. Non ricordavo chi di preciso, ma qualcuno mi aveva raccontato che a volte, su Wikipedia, qualche burlone si divertiva a scrivere ed inventare eventi delle vite degli altri per poi pubblicarli. A causa di copyright e leggi varie (anche se per me era solo questione buon gusto) queste cose venivano eliminate immediatamente.

Quando avevo deciso di controllare se esisteva una pagina dedicata a me, non avrei mai immaginato di ritrovarmi ad affrontare un’intera pagina in html bella e pronta.

«Cazzo!» Una piccola fuga della mia incredulità nell’ombra della mia caverna personale.

Scesi leggendo con attenzione tutti i dettagli dell’articolo, portando più di una volta la mano alla bocca per soffocare sul nascere le mie grida.

I fatti esposti rispecchiavano la realtà con una minuziosità per i particolari che mi faceva rabbrividire. Allungai la mano per prendere lo Snickers che avevo appoggiato sulla scrivania, ma non c’era. Abbassai lo sguardo nel cestino di plastica sotto la scrivania lo ritrovai lì dentro. Lo avevo buttato, ma non me ne ero reso conto.

Ripresi la lettura, ma non ci volle molto prima che il mio cuore iniziasse a scalpitare, come se volesse uscire dal mio petto, in preda al panico.

Il paragrafo finale dell’articolo era breve:

 

22/02/2009 Il FATALE INCIDENTE : Lo ucciderai!

 

Mi sentii pesante. La cosa non aveva senso, ma ne ero intimorito. Iniziai a guardarmi intorno, non ero più solo. Qualcosa mi fissava, svolazzava leggera intorno a me, come se un banco di nebbia invisibile si fosse impadronita della stanzetta. No. La nebbia non ti fissa. Poi capii, guardai i poster appesi alle pareti: tutti i loro sguardi erano diretti a me.

Iniziai a mangiarmi l’unghia del pollice destro, mentre, con entrambi gli occhi chiusi, mi ripetevo che era solo suggestione. Merda, doveva esserlo.

Qualche Hacker bastardo si sarà voluto vendicare di qualche tiro mancino che gli avevo tirato, dissi sotto voce a me stesso e alle donne di carta che continuavano a fissarmi.

Aprii gli occhi. I loro seni ora sporgevano all’infuori ed i capezzoli perdevano piccole gocce di sangue. Giurerei che una di loro stesse strizzando un occhiolino seduttore.

Buttai gli occhi sullo schermo. Non riuscii a trattenere un urlo.

Sulla pagina era apparsa una foto di mio padre con in mano una piccola bambola di pezza raffigurante un clown. I suoi occhi vitrei ed assenti stavano puntando me. Lo sentivo.

«Sei morto…» Singhiozzai mentre il suo sguardo si fece languido e tenero.

«Dettagli Figliuolo!» Una voce meccanica, ma dannatamente familiare, mi rispose dagli altoparlanti.

Le pupille mi si ribaltarono nella orbite.

Svenni.

 

 

 

 

Ed eccoci alla fine del 3° capitolo. Vi è piaciuto? So che è un po’ lineare, ma era inevitabile per l’evolversi della trama. Un saluto a tutti.

 

Ego me stesso ed io : Grazie per seguire la storia dall’inizio e per i tuoi commenti sempre ben dettagliati e anche tecnici. Li apprezzo perché mi permettono di migliorare.

 

Ciabysan : E beh come non poter ringraziare un grande appassionato di horror come me? E comunque per me il genio dell’imprevedibile sei tu! Soprattutto se si tratta di Horror orientale!

 

shura 4 ever : A chi lo dici! Quel pagliaccio osceno mi faceva rabbrividire

 

Tiky W & sarapastu : Vi ringrazio entrambi per la vostra eccentricità e per seguire con passione le mie fiction, anche quando non brillano.

 

ladystorm94 : mi sto gongolando, sei troppo buona

 

new_francysmile_live : ahahahah assasina! aahahahh. Mi fa piacere che ti sia piaciuto così tanto

 

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Capitolo 4
*** Staticità vitale ***


Un saluto a tutte le persone che seguono e commentano questa fiction

Un saluto a tutte le persone che seguono e commentano questa fiction. Giuro… mi fate sorridere di cuore. Comunque bando alle ciance e passiamo ai fatti : l’orrore inizierà a dilagare lungo le stradine della vita di Dylan e John. Il capitolo è abbastanza breve, ma è il preludio di un tragico susseguirsi di eventi… ah e non badate troppo alla parte finale. Ho dato solo qualche accenno, di indizi rilevanti per i fini della trama ce ne sono ben pochi!

Un saluto. Dido.

 

«Non c’è.» Dissi continuando a setacciare nella cassetta degli attrezzi da palestra. «Trovato niente?»

John aveva smesso di cercare mezzora prima e stava fissando le foto che Luke teneva appese sulle pareti della sua camera. Scene di premiazioni e feste tra compagni si susseguivano senza sosta. Tutte le cornici erano di legno, in piena armonia con la carta da parati verde pino. Vicino al letto a una piazza, per terra, c’erano vari manubri ginnici ed una corda da usare per lo stretching.

«Carini questi manubri…» Ne sfiorò uno, ma ritirò subito la mano. Tremava.

«Senti, ha detto che gli dobbiamo portare i guanti da boxe.» Smisi per un attimo di frugare nella sua cassetta «Datti da fare e cerca nei cassetti del mobile.»

«Si signore!» Tuonò con sarcasmo prima di mettersi a cercare nei cassetti del mobile bianco. Quanto lo odiavo quel mobile. Era un pugno in un occhio in quella stanza tutta verde e legno.

«Bingo!» Disse John facendo penzolare per dei fili legati i due guanti rossi da boxe.

 

Le luci della sala attrezzi erano piccole saette intermittenti. La notte seguiva il giorno dopo brevi istanti. Qualcuno non deve aver pagato le bollette, pensai attraversando i vari macchinari per le torture ginniche. L’unica finestrella che faceva filtrare un po’ di luce in quella fogna di odori malsani era chiusa questa volta, facendo sì che quando la luce della lampadina saltasse, l’oscurità potesse far da padrona ovunque. Non osai avvicinarmi alla balconata.

Luke stava correndo sul tapis roulant  con falcate veloci ed un fiatone quasi inesistente. La sua forza fisica e la sua resistenza negli anni avevano toccato picchi incredibili. Stava ore intere ad allenarsi, senza che il suo corpo ne potesse risentire. Quella corsetta per me sarebbe risultata sfibrante e quasi sicuramente avrei passato il resto della giornata steso sul letto per riprendere le energie. Per lui  era come bere un sorso d’acqua frizzantina.

Quando arrivai di fronte al macchinario, con in mano i penzolanti guanti rossi da boxe, la luce scomparve.

«Mezza cartuccia, non mi aspettavo che riuscissi a ritrovarli.» La luce tornò.

«Già… che problemi ci sono con la palestra? Non avete pagato le bollette e vi vogliono staccare la corrente?» Ripiombammo nel buio.

«Ma che, solamente un calo di energia. Da un paio di giorni qualcuno sta tentando di…» La luce tornò così forte da accecarci entrambi. Strinsi le mani a coppe sulla fronte, coprendo la vampata luminosa che mi aveva abbagliato.

«Da cosa dipende?» Chiesi frastornato.

«Dalla centralina elettrica. Sembra che qualcuno l’abbia manomessa. Forse è stato qualche tuo amico, eh mezza cartuccia?» Le tenebre presero possesso della mia vita.

 

I neon collegati al soffitto mutarono in sfere stroboscopiche anoressiche. Dai loro sottili corpi di plastica malnutrita, la luce e l’oscurità iniziarono a  muoversi, alternandosi, ad un satanico ritmo immaginario (O da noi non udibile). Nel mio petto qualcosa aveva iniziato a scalpitare con forza, come se volesse farsi sentire. Il mio cuore, seguiva il ritmo di quella danza maledetta tra l’oscurità e la luce. Iniziai a girarmi in torno, frastornato dalla velocità crescente dei cambiamenti di luce; come in una discoteca infernale tutti gli attrezzi e le persone iniziarono a mutare.

I lineamenti perfetti degli atleti iniziarono a pendere come pelle flaccida di un obeso; gli addominali scolpiti lasciarono spazio ad un crepaccio fatto di frattaglie, viscere e costole spezzate. In mezzo a quel pasticcio di organi riuscii ad intravedere un paio di cuori pulsanti. Seguivano lo stesso ritmo del mio.

Indietreggiai di scatto, urtando il tapis roulant. Qualcosa di viscido e caldo finì per impiastricciarmi i capelli ed il giubbotto di pelle. Iniziai a tastare il macchinario e quando un fascio di luce illuminò la notte in quella palestra vidi le sue zanne affilate e la sua lingua sporca di sangue.

Il mio cuore perse il ritmo. Si fermò per un istante, perdendo la cadenza infernale delle luci di quella discoteca fittizia.

«Tu morirai!» Sobillò la voce crudele del macchinario.

Il mio cuore inciampò ancora, non avrebbe più recuperato quel ritmo stroboscopico, ma temetti che forse rischiavo che non seguisse proprio nessun altro ritmo. Neanche quello della vita. La luce si spense. Deglutii e lo sentii riprendere a danzare.

La luce si accese, portando alla normalità la maledetta sala delle torture fisiche.

«Che cazzo di fastidio, ora ne vado dire quattro ad Anna» Disse Luke irritato, ma non gli diedi molto peso; stavo ancora fissando il macchinario che aveva preannunciato la mia morte.

Era tornato normale, anzi… era spento.

Un flash, come se fossimo stati fotografati prima di separarci per sempre, e le luci anoressiche ripresero il loro gioco di ombre e luci ad un ritmo sincopato.

Nero.

Bianco.

Nero.

Bianco.

Nero.

CRACK!

Bianco.

 

Quando il buio lasciò il passo alla luce delle lampade alogene, lo vidi volare via dalla balconata.

Il macchinario era ripartito di colpo a causa della tensione elettrica, dissero in seguito, ma io sapevo cosa era realmente accaduto. Sapevo che non era dipeso dalla corrente se il tapis roulant si era settato ad una velocità che neanche un atleta come mio fratello era riuscito a reggere.

Quel bastardo dalla lingua insanguinata se lo era scrollato via dalla schiena, come fosse stato una zecca che lo infastidiva succhiandogli via il suo fetido sangue.

«Tu morirai!» aveva biascicato. Solo che non lo aveva detto a me. Lo aveva detto al mio Luke… a mio fratello.

Quando la luce tornò a tutti gli effetti, mi voltai all’indietro. Non so di preciso perché, ma penso che lo feci per controllare se fossi ancora integro, se stessi piangendo, vomitando o gridando preso dall’isteria. Non sentivo più il mio corpo dopo aver visto Luke volare via dalla balconata e, prima di affacciarmi per vedere il parquet (Finalmente…) sporco di sangue, la mia mente aveva deciso di controllare se almeno non mi fossi pisciato sotto per la paura e l’orrore.

Quando mi fissai nello specchio, pensai di essere un fantasma tanto ero pallido.

Il cuore smise di battere. Barcollai all’indietro urtando la balaustra della balconata.

Volai giù da mio fratello.

 

 

Finii di scrivere il suo cognome,  e misi il foglietto dentro la busta bianca di carta.

Non capivo bene il perché, ma non me ne importava più di tanto, ero pagato per fare ciò che mi dicevano e quindi lo facevo.

Per 3000 € al mese voglio vedere chi non si sarebbe inchinato al loro volere. Anche se inchinare è sbagliato. Sono stati gentili ed accomodanti, non prepotenti e burberi.

Hanno anche rispettato i miei tempi di riflessione sul caso se accettare o meno.

Il fatto è che scrivere ciò che mi dicono, per poi cancellarlo… mi sembra insensato. Tutto qua!

Se poi mi dicono che devo segnare il nome della persona di cui mi hanno fornito i dati su un foglietto da imbustare e spedire unicamente dalla cassetta della posta N°23 ogni singola cosa perde di senso.

Le uniche regole di quel lavoro erano: non chiedere informazioni e non chiedere il perché. Lavora e basta. Quindi io lavoravo e basta, incurante delle morti che ultimamente stavano dilagando nel mio paesino…

 

Come vi è sembrato questo capitolo? Le cose sono degenerate molto in fretta per Dylan, ma questo è solo l’inizio… credo…

Intanto qualcuno sta giocando con i fili di alcune persone, come se fosse un burattinaio. Un piccolo sguardo dietro le quinte al nodo cruciale che si scioglierà con la fine della fiction… anche se sono indeciso se scioglierlo effettivamente o usarlo per far impiccare qualcuno… umor nero per un finale nero…

Un saluto a tutti e passiamo ai ringraziamenti:

 

Ego me stesso ed io : Sono felicissimo che ti stia piacendo questa avventura che ho deciso di intraprendere con tutte le persone che seguiranno questa fiction, ma soprattutto sono contento di essere riuscito a trasmetterti un po’ di paura e tensione.

 

shura 4 ever : Mi lusinghi troppo. Mi fa piacere che segui le mie storie e che ti piacciano quasi tutte.

 

new_francysmile_live : un po’ di ironia e di umor nero non guastano mai. E poi anche io ho riso mentre l’ho scritto.

 

Ciabysan : e il capitolo migliore secondo te? Eppure non è successo molto… grazie mille e viva l’horror!

 

ladystorm94 : niente talento, solo passione e voglia di scrivere. Gli orrori che susseguono altri orrori fanno parte della vita di tutti... Ma non abbattiamoci e pensiamo positivo! 

 

Tiky W : ahahahaa. Io amo Wikipedia, è geniale! La conoscenza universale (o quasi) alla portata di un click… mi sembra di aver girato uno spot pubblicitario più che un commento di ringraziamento…

 

Sarapastu : troppo buona, mi fai arrossire. E comunque devo ancora decidere che ruolo avrà il clown nella storia. Confesso di averlo inserito solo perché ne ho una paura matta.

 

Un ringraziamento generale a tutte le  persone che seguono questa fiction anche senza commentarla. Ho visto che siete in molti ad averla aggiunta nei preferiti anche se non la commentate. Mi fa piacere lo stesso. Grazie anche a voi!

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Capitolo 5
*** Nursering ***


Ragazzi perché vi adoro

Ragazzi perché vi adoro? Perché ogni vostro commento mi riempie di gioia? Perché ostino a dirvelo? Perché è la sacrosanta verità.

Quindi passiamo al sodo : il PDV di questo capitolo è completamente diverso dagli altri : John sta per prendere le redini degli eventi che seguiranno.

Un intuizione geniale (forse si rivelerà banale in seguito) mi ha spronato per un finale misto e non preciso. Lo so, non sono di aiuto e soprattutto quanto v fregherà quello che ho scritto?

Non so, quindi vi auguro (sperando vi piaccia) una buona lettura.

Un saluto. Dido; i ringraziamenti, come al solito, sono alla fine del capitolo.

 

P.S. Perdonate John per il suo “colto” vocabolario.

 

 

«Dalla non è un cantante, ma un consiglio» Lessi sul muro di mattonelle verdi. Da Frank faceva tutto schifo: la taverna (Una grotta per sociopatici), la birra (Non so come si pronunci il nome di quella marca scrausa), i videogiochi (Qualcuno gli vuole dire che siamo arrivati al quinto capitolo di Street fighter e non al secondo?!) e perfino il cesso; era fatto da quattro bare col buco (Frank osava chiamarle cabine), una di fianco all’altra, che affacciavano su un lavandino in marmo verde (Come le mattonelle d’altronde – il richiamo del vomito era nelle vene di quell’ubriacone) lercio e mezzo sgangherato. Pendeva verso sinistra, facendo schizzare il getto d’acqua nel cestino dell’immondizia in metallo. Cazzo, neanche un vetro dove specchiarsi o un po’ di sapone per pulirsi.

E pensare che non entravo mai in uno di quei cessi (Bare) senza un pacchetto di fazzoletti: la carta igienica in quel posto non era stata ancora inventata.

 

Scaricai lo sciacquone ed uscii senza lavarmi le mani. Andavo di fretta: dovevo fare una strage ad House Of Dead! Attraversai la striscia di macchinette arcade fino a raggiungere quella che cercavo.

Mi appoggiai sullo sgabello (Verde anche quello, cazzo!) e mi armai con entrambe le pistole laser (Indovinate di che colore erano).

Feci inghiottire alla mangia soldi due monetine e passai allo sterminio digitale.

Fanculo le buone maniere o il bon ton. Tanto mio padre non mi prenderà mai nella sua scuola privata per gentlemen; mi odia.

 

Posai le pistole nelle loro fondine di plastica, strofinandomi le mani per togliere il sudore appiccicaticcio che si era formato in quelle 3 ore di gioco. Superai la filadi macchinette video ludiche mangia soldi e mi buttai su una delle sedie del bancone.

«Frank» sospirai «Dammi una stufen splughen!»

Il barista cicciottello dalla folta chioma rossa increspò il viso infastidito.

«Stafenin Sprukenin si dice, pezzo d’asino!» Rombò Frank mentre allungava le mani nella cella frigorifera per bibite che teneva sotto il bancone.

«È la stessa cosa Frank. Vedi di non rompere, cazzo!»

Mi lanciò una birra. Che schifo, era tutta appiccicaticcia.

«Come cazzo fai ad avere sempre le mani sudate, eh Frank?» Dissi facendo  schioccare la linguetta della lattina; della schiuma amara traboccò dal barattolo. «Io almeno ho sparato per 3 ore di fila ad orde e orde di morti viventi!»

Frank non lo avevo mai capito. Un uomo libero, che guadagnava bene grazie ad un’attività di propria gestione, che beve senza pagare e che non fa un cazzo dalla mattina alla sera… perché un uomo così sta sempre incazzato nero? Gli mancava la compagnia del gentil sesso? Mah, non credo: uno come lui va con le lolite di notte. Ne  ero sicuro.

Diedi un sorso alla birra.

«Sa di piscio Frank! La prossima volta non te la pago»

Mi squadrò col suo sguardo burbero. Sapeva che bluffavo, ma si incazzava comunque (Tanto per cambiare).

«Pezzo d’asino ma tu non stavi migliorando a parlare?»

«Si Frank, ci provo… ma cazzo il mio vecchio non mi sopporta., quindi che spreco a fare il mio tempo, eh?!»

«Quindi getti la spugna?» Disse, passandosi una mano unta fra i capelli.

«Esatto» Sillabai mentre presi un altro sorso di piscio.

«Se vuoi provaci tu a migliorare il tuo lessico.» risi sotto i baffi. «Ne avresti bisogno»

Mi colpì con lo strofinaccio giallo con cui ripuliva il vomito dai pavimenti.

«Che schifo…»

«Dov’è oggi il tuo amichetto del cuore?» Riprese a parlare come se non mi avesse trasmesso chi sa quanti microbi e batteri grazie a quello schiocco di panno al rigurgito.

«Mah, era andato dal fratello in palestra…» Cazzo, ma che fine aveva fatto Dylan. «Fammelo chiamare che è meglio.»

Posai la lattina sul bancone di legno e presi il cellulare; una rapida sfogliata alla rubrica digitale e già stavo chiamando Dylan per cazziarlo come meritava.

 

Odiavo gli ospedali. Troppi brutti ricordi.

Quando chiamai Dylan, fu la madre a rispondere. Capii subito che era successo qualcosa di grave: Dylan non si staccava mai dal suo cellulare. Era troppo fissato; diceva che poteva tenersi in contatto con tutto il mondo con un semplice CLIK e di solito premeva la cornetta verde disegnata su un pulsante. Da quando poi Internet era compatibile con le funzionalità dei cellulari… diciamo che era entrato in brodo di giuggiole con quel suo aggeggio..

Io non ci tenevo molto a quei cosi, ma non so se perché non mi piacevano o perché il mio andava ancora con le suonerie monofoniche. Mio padre mi odia proprio

 

Raggiunsi in poco l’ospedale dove era ricoverato Dylan col fratello; era l’unico in tutto il paese e si trovava vicino la palestra Pinco Pallino. Avevo corso a piedi dalla sala giochi di Frank e quando arrivai nell’area di accettazione del San Gemini pensai di accasciarmi per una mezzoretta prima di entrarvi dentro, ma quel posto era inquietante.. L’ospedale più che donare uno stato di sicurezza e fiducia a chi vi entrava, emanava lugubri presagi di morte. Per un paziente doveva essere una tortura.

Appena superato il muretto d’entrata, come lapidi premonitrici, i necrologi di chi era ricoverato, erano incollati sulle pareti dell’edificio. Tutti i nomi e le date di decesso dei defunti, erano sistemate con ordine e precisione, quasi ci fosse un contabile vite in ospedale che ci tenesse a far sapere a tutti quanto fosse ligio al dovere. Questa mia fantasia era assurda: i necrologi erano appesi sulle pareti d’entrata  per avvertire (All’arrivo) sia il personale che la famiglia dei vari pazienti.

Via il dente, via il dolore

Prima di entrare mi fermai su una di quelle pareti tappezzate di vite infrante. Iniziai a fissarle una ad una, dispiacendomi per la loro fine prematura o meno.

Mi voltai per dirigermi verso l’entrata dell’ospedale, ma un tarlo iniziò a picchiettare nella mia mente. Io controllerei, diceva trapanandomi le orecchie. Io controllerei che non ci sia il nome del tuo amichetto…

Stupido tarlo, non poteva essere così. Non doveva!

Eppure hai sentito ciò che ti diceva la madre, sobillava mentre iniziava ad insinuarsi nel mio cervello, sia Luke che Dylan sono caduti dalla balconata del primo piano.

«Zitto» Gridai nel muto frastuono dell’ospedale «Sono entrambi vivi!»

Se lo dici tu… non ti va di controllare?

Il bastardo era insistente.

 

Mi appoggiai con la schiena contro il marmo ruvido della parete. Cazzo, era gelido.

«Va bene» Iniziai ad auto incitarmi per convincermi che tutto sarebbe andato liscio. «Una controllata rapida e vedrai che dei nomi di Dylan e Luke, non vi sarà traccia»

 

Iniziai a controllare tutti i manifesti mortuari :

Danny Loco – 67 anni

Ashley Ramadan – 71 anni

Joy Star – 75 anni

John Baud – 17 anni

Clarissa Sutherland – 89 anni

Lara Font – 94 anni

 

Per fortuna il loro nome non c’era.

 

Attraversai le porte automatiche in plastica dell’ospedale, fermandomi a chiedere informazioni alla reception sulle camere dei pazienti Key. L’infermiera digitò i loro nominativi sul PC  e mi disse di attendere.

L’atrio dell’ospedale era formato da un bancone azzurro al centro, dove c’erano le infermiere addette all’accoglienza dei pazienti; le pareti in panna erano ricamate da quadri raffiguranti varie zone anatomiche del corpo umano (Non ne riconoscevo nemmeno una) e delle panchine sparse lungo tutti i muri.

Mentre aspettavo che quella macchinetta elaborasse i dati, mi soffermai sul silenzio e sulla violenta pace che regnava in quella sala. Oltre a me e alle infermiere indaffarate (Nei loro camici rosa – molto succinti) non c’erano pazienti, visitatori o familiari in cerca dei propri cari.

«Entrambi sono ricoverati nella sala 23 al terzo piano» Disse l’infermiera ricercatrice spezzando la catena dei miei pensieri.

«Grazie» Sospirai «Scusi… come mai non c’è nessuno paziente o chi so io in ospedale oggi?»

La donna iniziò a guardarmi stralunata. Il sopracciglio sinistro le si era leggermente inarcato mostrando un piccolo neo peloso vicino la pupilla marrone dei suoi occhi,

«Cosa stai dicendo ragazzo? Siamo stracolmi di lavoro e tu ci prendi in giro?» Tuonò infastidita.

«Veramente…» Una spintonata mi interruppe: intorno a me uno sciame di sagome aveva saturato la stanza. Infermieri, malati e dottori si aggiravano affannosamente per la sala, alla ricerca di medicine o chi sa cosa.

«Scusi…» Biascicai, rosso come un pomodoro, prima di alzare i tacchi e prendere le scale che si trovavano sulla destra della reception.

 

Raggiunsi il terzo piano. Come per il resto della struttura, il bianco sterile regnava con prepotenza; iniziai a correre alla ricerca della stanza 23. Dovevo sapere come stava Dylan…

Mentre attraversavo il corridoio, sentii il tarlo iniziare a mangiucchiare pezzi della mia materia grigia. Forse non hanno ancora avuto il tempo di affiggerli i manifesti o forse appena entrerai nella loro stanza incontrerai un dottore che ti annuncerà la loro morte, disse il tarlo mentre zappava col becco nella mia mente, scavando sempre più nel profondo.

Accelerai il passo istintivamente, ma giunto alla fine del corridoio, prima dell’inizio delle scale che portavano al quarto piano, notai che della stanza numero 23 non vi era traccia. L’ultima stanza  era la 33. Iniziai a ripercorrere il corridoio, teoricamente la stanza 23 doveva essere la prima.

Correndo mi voltai distrattamente verso una delle finestre che affacciava sul giardino ospedaliero. Incespicai facendo urtare un piede con l’altro: dalla finestra, come dei fantasmi moribondi, le persone di cui avevo letto i necrologi si stavano accalcando. Erano in piena decomposizione; le loro teste erano prive di orbite, parti del corpo erano penzolanti e dei capelli era rimasta solo qualche piccola ciocca di ciuffi posticcia. Tutti erano insozzati di terreno, fango e vermi. Uno di loro ne aveva uno che attraversava una narice per uscirne dall’altra.

Iniziai a correre più in fretta che potevo, ma ogni volta che affiancavo una finestra, loro apparivano come se fossero un riflesso di un sole macabro. Un riflesso di morte.

Tra di loro ce n’era uno in particolare, integro…

Se ne stava in disparte, senza emettere rantoli o accalcarsi con gli altri sulla finestra. Non era nemmeno ricoperto di fango…

 

La stanza 23 era la prima. Appena la vidi, mi fiondai con entrambe le mani sulla maniglia della porta, abbassandola e spingendola internamente.

Sentii il rumore di una finestra che veniva fracassata, ma non mi voltai per controllare; chiusi la porta alle mie spalle.

 

Un dottore stava stringendo tra le braccia Luana quando entrai ella camera; Dylan e Luke invece erano stesi su delle lettighe, collegati ad alcuni macchinari per il controllo della salute. Lungo i loro bracci, un vortice di tubicini penetrava le loro vene, per trasportare il liquido di alcune flebo nei loro corpi immobili. Erano in coma.

 

Passarono 5 ore prima che mi cacciassero dalla camera 23 (Fine orario delle visite); quanto desideravo lo avessero fatto prima.

 

Quando la madre abbandonò la stanza, lasciandomi solo con i due fratelli in coma, una folata di vento penetrò la sterilità di quella camera.

L’unica finestra era bloccata, mentre la porta era chiusa. Il vento non sarebbe dovuto passare da nessuna parte.

Presi una delle sedie gialle del tavolino in plastica, e mi sedetti di fianco a Dylan. Con la sedia cozzai un vaso con una piantina, posto sul mobiletto di fianco la lettiga, che riuscii ad afferrare prima che si infrangesse in terra. Lo risistemai al suo posto e mi soffermai sul viso pallido del mio migliore amico.

I suoi lunghi capelli ramati erano stati coperti dalla garza e da alcuni punti di sutura che, come in un campo minato, riempivano la sua testa. Che si vedessero oppure no.

Ero tentato di allungare la mano e toccarne uno, ma la paura che si aprisse (Ed esplodesse) sputando fiotti di sangue e brandelli di cervello, mi fermò.

Puntai gli occhi sul freddo schermo del suo battito cardiaco, una specie di step elettronico che saliva e scendeva seguendo il suo battito cardiaco.

«Cazzo… Dylan… Luke… merda!» Digrignai i denti fino a scheggiarne qualcuno, non sapevo come reagire, così finii col pensare a tutte le cazzate fatte insieme nel corso degli anni. Ci eravamo conosciuti alle elementari e da allora avevamo frequentato gli stessi indirizzi, un po’ per fortuna un po’ perché volevamo. Nei momenti più bui della mia vita lui mi aveva sempre dato una mano. Ora che gliene serviva una, io non sapevo cosa fare. Forse non potevo fare nulla, ma non riuscivo ad accettare quest’assurda idea di dover attendere che il fato decidesse che valeva la pena di salvare la sua vita o no.

Mi alzai dalla sedia, raggiungendo la lettiga di Luke.

«Sei uno stronzo… ma ti ho sempre voluto bene» Dissi, nascondendomi il volto tra le mani.

«Non ti preoccupare per loro» Una voce infantile irruppe nella stanza insieme ad un’altra folata di vento. Iniziai ad ispezionare la stanza. Non riuscivo a capire da dove provenisse.

«Chi sei?» Gridai con tutto me stesso; speravo di svegliare i due comatosi facendo casino…

«Apri il pacchetto il giorno di San Valentino…» La sua voce era divenuta quasi un sospiro impercettibile.

Iniziai a mettere a soqquadro la stanza, buttando per terra il tavolo, le sedie ed il vaso che prima avevo salvato. Niente. Tranne me e i due fratelli, non c’era nessuno.

Una risata acuta come lo stridio di un violino echeggiò nella mia testa. Il tarlo, pensai istintivamente, prima di vedere un pacchetto rosso a forma di cuore sulle gambe immobili di Dylan.

Lo afferrai con la mano sinistra mentre con la destra sollevai di poco la parte superiore del pacchetto. Apri il pacchetto il giorno di San Valentino, aveva detto la vocina fanciullesca…

Nella mia mente si formò l’immagine nitida di un pagliaccio sorridente. I suoi dentini brillavano nell’oblio della mia mente con il loro marciume giallastro. Osservandoli bene, notai che dietro ogni fila di denti ce ne era un’altra, come le fauci degli squali.

Scacciai quell’immagine dalla mente e mi soffermai sul cuore che avevo tra le mani. Un improvviso fetore salì dal suo interno, un misto tra il rancido e la decomposizione. Vagamente mi ricordava la spazzatura rimasta esposta per troppo tempo al sole. Una parte di me avrebbe buttato da qualche parte quella scatoletta, ma l’altra voleva sapere cosa c’era.

Scoperchiai la scatola.

Poco dopo un infermiera entrò per dirmi che l’orario di visite era finito; riuscii a vedere i suoi occhi strabuzzare prima di riempirsi di lacrime… stava tremando.

 

Ed eccoci alla fine del 5° capitolo. Sono riuscito ad angosciarvi un pò? A farvi venire i brividi? Ultimamente non sto leggendo molto e quindi temo che la mia scrittura ne risenta… mah, spero solo (e sempre) che a voi piaccia tanto quanto sia piaciuto a me scriverla.

 

new_francysmile_live : eheheheh. Temevo di aver fatto un mezzo flop col gioco di luci. Mi fa piacere che ti abbia colpita,

Sarapastu : ahahahahah  mi fa piacere di averti confusa le idee.

shura 4 ever : Grazie, troppo buona. Poverini, deve far molto male cadere da una balconata…

Tiky W : mmm… non so che fine farà Luke, però c’è da dire che come personaggio è approssimativo, non l’ho approfondito molto… perché è uno dei tuoi preferiti?

Ego me stesso ed io : Mi fa piacere che il modo in cui descrivo le situazioni e gli eventi sia di tuo gradi mento e… NO! Non sono tanto normale (in senso buono ovviamente… credo!)

Ciabysan : Lo so, ma era inevitabile. Non ho ideato subito tutta la storia ed il suo evolversi (e so che è sbagliato), ma questo passaggio era obbligatorio. Comunque sempre lieto di riempire la sua lettura di tensione e terrore.

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