Resilient Rose

di ella96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. wild nature ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

PROLOGO
Rideva, rideva tanto, si portava quella manina piccola piccola davanti la bocca e gli occhi si assottigliavano e quel verde intenso dell'iride diventava brillante mentre si girava verso di lui, lui che l'aveva fatta ridere e che ora la avvolgeva fra le sue braccia, non la faceva scappare, la divertiva. Era diventata grande quella bambina. Lo era diventata da un giorno all'altro, sai, come capita di solito. Il giorno prima sei ancora una bambina, tutti ti stanno attenti perché non sei autosufficiente e il giorno dopo sei diventava una donna. Eppure la riconoscevo ancora, anche dopo anni, nei piccoli gesti. Sai, nelle piccole cose: non sapevo se lavorasse, se facesse sul serio con quel ragazzo nè come stesse la sua famiglia nè se avesse continuato realmente la cura come aveva promesso. Ma sapevo che non aveva mai imparato a mangiare come una signorina: si sporcava le labbra e le mani e si puliva le mani sui pantaloni e lui aveva imparato a sederglisi al suo fianco e a poggiarle un tovagliolo sulle gambe, così che non si sporcasse più del dovuto. E lei gli sorrideva, gli sorrideva sempre. Ed era bellissima. Non che fosse realmente bella, cioè, lo era ma di quella bellezza che non noti, di quelle ragazze che ti passano accanto e le puoi anche guardare per ore ma l'attimo dopo non ti rimane più nulla. Erano i modi di fare. Era quel modo di sorridere, di arricciare il naso, di abbassare gli occhi per la timidezza derivante da un complimenti inaspettato e le spalline delicate e piccolissime che si stringono sminuendo il mondo tutt'attorno a lei. Era così piccola che nessuno le si avvicinava mai più del dovuto, temevano tutti che, anche solo sfiorandola, ci fosse il rischio di spezzarla.
Ma lei era una resiliente. 
E solo io potevo conoscere la sua storia. Non il ragazzo che ora la guardava come se fosse un tesoro raro, non la madre di lui che la tratta come se fosse una figlia baciandole le guancie , non la bambina di quattro - o forse cinque - anni che la sta rincorrendo.
La osservo da lontano, io non appartengo al suo mondo, ma io so perché lei è una resiliente. So perché è così lontana da casa, esiliata in quel luogo che è l'Ungheria, con il suo sole caldo che le sfiora le spalle coperte da una sottilissima camicetta bianca, leggerissima.
Ha 26 anni ora, ha il viso rosato e i capelli corti mossi le rendono morbide le forme ancora da bambina, sembra molto più piccola della sua età e la prima volta che la vidi non era tanto diversa da ora. Non d'aspetto, per lo meno.
Indossava un vestito leggerissimo, bianco con un sottile nastro di raso azzurro sulla vita che le sottolineava il fisico esile, la gonna lunga fino alle ginocchia svolazzava ad ogni suo movimento  e l'assenza di spalline lasciavano nudo il collo se non fosse stato per quella massa di capelli scuri, bruni, boccolatissimi lunghi fino alla vita. Sembrava una fatina uscita fuori da un libro di fiabe: il fisico esilissimo, il vestitino leggero, i movimenti leggerissimi, compiuti sulla punta dei piedini, e quei capelli che seguivano ogni suo movimento. Più capelli che ragazza. Aveva solo diciannove anni all'epoca e ne mostrava quattordici, forse quindici. Aveva il nasino all'insù a furia di curiosare all'interno della stanza quadrangolare non troppo grande nella quale si trovava, fatta di scaffali di mogano colmi di libri dal volume consistente che percorrevano tutte e quattro le pareti, un tavolo rettangolare grande con tanti oggettini che lei sfiorava con le sue dita lunghe, non capendo l'utilità di quella sfera che cambia colore o quella che le sembrava fosse una penna che non scriveva a forma cubica. Rideva piano, uno squittio di topolino, si divertiva a toccare tutte quelle cose che non sapeva cosa fossero o a cosa servissero. Girava intorno alla scrivania, guardava le varie cartelle mediche, le sfiorava e poi alla fine cedette alla curiosità, si sedette sull'ampia poltrona e io ricordo che ce ne sarebbero potute stare tre di lei e iniziò a sfogliare quelle cartelle, le leggeva e poi le richiudeva, interessandosi a quella successiva. Non si era interessata per nulla al lettino sull'angolo della stanza, alla poltrona dietro esso o alle finestre sigillate nonostante fosse una fresca giornata primaverile.
«Il mio studio è di suo gradimento, signorina?» il viso paffuto e gentile del Dottor Kavens spuntò da oltre la porta, chiudendola dietro di sè e stringendo fra le mani una cartella clinica, dallo spessore si sarebbe detto che fosse vuota. Invece di reclamare il suo posto, si sedette di fronte alla scrivania, dove sarebbe dovuta stare quella ragazzina invadente ma dal viso pulito e semplice, e le porse la cartella. «Vuole vedere cosa c'è scritto?» le propose con gentilezza. 
La bimba fissò quell'uomo per qualche secondo in silenzio, inclinando la testolina e lasciando che gli occhioni lo esaminassero. «Manca un tocco femminile in questa stanza» aveva la voce acuta, squillante, ma non in modo fastidioso, da bambina. «Penso  che sarebbe carino ravvivare un po' questa stanza. E' tanto scura, tutto questo mogano...» mise su il broncio finendo per divertire il dottore che si passo una mano sui suoi baffi all'inglese poggiando di fronte alla ragazza la cartella medica che lei non fissò, mai, era come se non ci fosse. E lui non le disse nulla, poggiò comodamente la schiena sulla sedia da visitatore come se dovessero solo chiaccherare.
«E mi dica, cosa metterebbe di nuovo? Un vaso di fiori?» la voce gentile del medico e i suoi occhi scuri non erano cattivi nei confronti della ragazzina, attendevano un cenno di assenso che arrivò ben presto. «E che tipo di fiori?»
«Rose» rispose senza esitazione ma lasciò le labbra socchiuse per un po' quando le chiese quali tipo di rose. Era come se non riuscisse a dirlo, non immediatamente. «...Canine. Rose canine. Mi piacciono quelle.» la voce si era abbassata, come gli occhi per un istante. 
Il medico dispose al suo assistente, rimasto sul fondo della stanza, in silenzio, a prendere appunti, di uscire a comprare quelle rose canine insieme a un bel vaso, colorato a variopinto, per dare un tocco di luce alla stanza. 
«E ora mi vuole spiegare perché proprio le rose canine, Miss Hamilton?»
TITOLO: 

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Rideva, rideva tanto, si portava quella manina piccola piccola davanti la bocca e gli occhi si assottigliavano e quel verde intenso dell'iride diventava brillante mentre si girava verso di lui, lui che l'aveva fatta ridere e che ora la avvolgeva fra le sue braccia, non la faceva scappare, la divertiva. Era diventata grande quella bambina. Lo era diventata da un giorno all'altro, sai, come capita di solito. Il giorno prima sei ancora una bambina, tutti ti stanno attenti perché non sei autosufficiente e il giorno dopo sei diventava una donna. Eppure la riconoscevo ancora, anche dopo anni, nei piccoli gesti. Sai, nelle piccole cose: non sapevo se lavorasse, se facesse sul serio con quel ragazzo né come stesse la sua famiglia o se avesse continuato realmente la cura come aveva promesso. Ma sapevo che non aveva mai imparato a mangiare come una signorina: si sporcava le labbra e le mani e si puliva le mani sui pantaloni e lui aveva imparato a sederglisi al suo fianco e a poggiarle un tovagliolo sulle gambe, così che non si sporcasse più del dovuto. E lei gli sorrideva, gli sorrideva sempre. Ed era bellissima. Non che fosse realmente bella, cioè, lo era ma di quella bellezza che non noti, di quelle ragazze che ti passano accanto e le puoi anche guardare per ore ma l'attimo dopo non ti rimane più nulla. Erano i modi di fare. Era quel modo di sorridere, di arricciare il naso, di abbassare gli occhi per la timidezza derivante da un complimenti inaspettato e le spalline delicate e piccolissime che si stringono sminuendo il mondo tutt'attorno a lei. Era così piccola che nessuno le si avvicinava mai più del dovuto, temevano tutti che, anche solo sfiorandola, ci fosse il rischio di spezzarla.

Ma lei era una resiliente. 

E solo io potevo conoscere la sua storia. Non il ragazzo che ora la guardava come se fosse un tesoro raro, non la madre di lui che la tratta come se fosse una figlia baciandole le guance, non la bambina di quattro - o forse cinque - anni che la sta rincorrendo.

La osservo da lontano, io non appartengo al suo mondo, ma io so perché lei è una resiliente. So perché è così lontana da casa, esiliata in quel luogo che è l'Ungheria, con il suo sole caldo che le sfiora le spalle coperte da una sottilissima camicetta bianca, leggerissima.

Ha 26 anni ora, ha il viso rosato e i capelli corti mossi le rendono morbide le forme ancora da bambina, sembra molto più piccola della sua età e la prima volta che la vidi non era tanto diversa da ora. Non d'aspetto, per lo meno.


Indossava un vestito leggerissimo, bianco con un sottile nastro di raso azzurro sulla vita che le sottolineava il fisico esile, la gonna lunga fino alle ginocchia svolazzava ad ogni suo movimento e l'assenza di spalline lasciavano nudo il collo se non fosse stato per quella massa di capelli scuri, bruni, boccolatissimi lunghi fino alla vita. Sembrava una fatina uscita fuori da un libro di fiabe: il fisico esilissimo, il vestitino leggero, i movimenti leggerissimi, compiuti sulla punta dei piedini, e quei capelli che seguivano ogni suo movimento. Più capelli che ragazza, era questo lo slogan di chi la vedeva. Aveva solo diciotto anni all'epoca e ne dimostrava quattordici, forse quindici. Aveva il nasino all'insù a furia di curiosare all'interno della stanza quadrangolare non troppo grande nella quale si trovava, fatta di scaffali di mogano colmi di libri dal volume consistente che percorrevano tutte e quattro le pareti, un tavolo rettangolare grande con tanti oggettini che lei sfiorava con le sue dita lunghe, non capendo l'utilità di quella sfera che cambia colore o quella che le sembrava fosse una penna che non scriveva a forma cubica. Rideva piano, uno squittio da topolino, si divertiva a toccare tutte quelle cose che non sapeva cosa fossero o a cosa servissero. Girava intorno alla scrivania, guardava le varie cartelle mediche, le sfiorava piena di indecisione e alla fine cedette alla curiosità, si sedette sull'ampia poltrona e ricordo che ce ne sarebbero potute stare tre di lei lì. Iniziò a sfogliare quelle cartelle, le leggeva e poi le richiudeva, interessandosi a quella successiva. Non si era interessata per nulla al lettino sull'angolo della stanza, alla poltrona dietro esso o alle finestre sigillate nonostante fosse una fresca giornata primaverile.

«Il mio studio è di suo gradimento, signorina?» il viso paffuto e gentile del Dottor Kavens spuntò da oltre la porta, chiudendola dietro di sé e stringendo fra le mani una cartella clinica, dallo spessore si sarebbe detto che fosse vuota. Invece di reclamare il suo posto, si sedette di fronte alla scrivania, dove sarebbe dovuta stare quella ragazzina invadente ma dal viso pulito e semplice. Non le disse nulla, come se fosse lui il paziente e lei la dottoressa. Anzi, le porse la cartella che tratteneva fra le mani. «Vuole vedere cosa c'è scritto?» le propose con gentilezza notando che aveva sbirciato fra le altre cartelle.

La bimba fissò quell'uomo per qualche secondo in silenzio, inclinando la testolina e lasciando che gli occhioni lo esaminassero. «Manca un tocco femminile in questa stanza» aveva la voce acuta, squillante, ma non in modo fastidioso, da bambina. «Penso che sarebbe carino ravvivare un po' questa stanza. E' tanto scura, tutto questo mogano...» mise su il broncio finendo per divertire il dottore che si passo una mano sui suoi baffi all'inglese poggiando di fronte alla ragazza la cartella medica che lei non fissò, mai, era come se non ci fosse. E lui non le disse nulla, poggiò comodamente la schiena sulla sedia da visitatore come se dovessero solo chiacchierare.

«E mi dica, cosa metterebbe di nuovo? Un vaso di fiori?» la voce gentile del medico e i suoi occhi scuri non erano cattivi nei confronti della ragazzina, attendevano un cenno di assenso che arrivò ben presto. «E che tipo di fiori?»

«Rose» rispose senza esitazione ma lasciò le labbra socchiuse per un po' quando le chiese quali tipo di rose. Era come se non riuscisse a dirlo, non immediatamente. «...Canine. Rose canine. Mi piacciono quelle.» la voce si era abbassata, come gli occhi per un istante. 

Il medico dispose al suo assistente, rimasto sul fondo della stanza, in silenzio, a prendere appunti, di uscire a comprare quelle rose canine insieme a un bel vaso, colorato a variopinto, per dare un tocco di luce alla stanza. 

«E ora mi vuole spiegare perché proprio le rose canine, Miss Hamilton?»

 

 

NOTE AUTORE:

Salve a tutti *-* è estate e mi sto imbarcando in una nuova avventura con una storia originale ♥ Miss Hamilton - aka sto ancora cercando un nome carino adatto a questa signorina, quindi abbiate pazienza *-* - è un personaggio che in vari modi sto già delinando da anni, quindi eccovela riproposta qui, come la protagonista di una storia u.u

Se il prologo vi è piaciuto, lasciare una recensione incoraggia sempre ♥ se non vi è piaciuto, lasciatela lo stesso la recensione, così capisco come migliorare u.u°
PS molte tag le ho messe in previsione del futuro e/o le ho saltate perché non ho ben deciso quanto descrivere. Quindi in seguito potrebbero esserci dei cambiamenti di tag/raiting che non dovrebbero turbare il lettore o modificare il mood della storia, solo essere più coerenti possibili con quello che descriverò. Grazie a tutti della lettura però :)

 

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Capitolo 2
*** 1. wild nature ***


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Il dottor Kavens finì per affezionarsi a quella ragazzina, ma questo avvenne solo dopo tanto tempo. E Miss Hamilton passò davvero molto tempo in quello studio.

Ma prima ancora di finire in quello studio medico, da uno psicologo con una cartella che riportasse a lettere cubitali il suo nome, prima ancora di essere conosciuta come "Miss Hamilton", quella ragazzina era stata una bambina come tutte le altre. Una brava bambina.

Io, a quei tempi, non potevo far altro che non averla in simpatia. Sembrava una fatina, questo sì, ma era terribilmente viziata ed abituata ad ottenere tutto quello che voleva. E si imbronciava facilmente e quando lo faceva, non c'erano possibilità di compromesso con lei. Questo fu evidente fin dalla prima volta che la vidi, quando richiese quel vaso di rose canine. L'assistente tornò circa un'ora dopo per informare che non era stato possibile trovare quel tipo di rose e quindi ne aveva preso un altro mazzo, rose variopinte, bellissime, e lo erano davvero, bellissime, intendo. Lei, invece di essere grata per il disturbo e per il pensiero di aver scelto così accuratamente dei fiori sostituitivi a quelli da lei richiesti, si mise a piangere, a sbattere i piedi e a dire che non li voleva, che se fossero entrate quelle rose, nella stanza, lei sarebbe uscita di lì. Solo il dottor Kavens riuscì a quietarla dopo una decina di minuti pieni, assicurandole con tono gentile e modi pacati che il suo assistente avrebbe fatto del suo meglio per trovarle ugualmente quello che lei aveva richiesto, anche a costo di andarle a raccogliere lui stesso. E allora si quietò, tornò a sedersi sulla poltrona con un broncio da bambina che, pensandoci ora, mi strappa un sorriso dalle labbra ma allora, a quei tempi, l'avrei voluta prendere a ceffoni.

Molte ore dopo, finalmente, la richiesta di Miss Hamilton fu esaudita e la fanciulla saltò dalla sedia con un moto di felicità precedentemente assente, correndo in punta di piedi verso la porta e con le sue piccole manine afferrare il grosso vaso che le era stato porto dall'assistente, stringerlo al petto e tornare traballante, sotto quel peso, verso la scrivania, poggiandolo proprio lì in mezzo. Non si preoccupò del fatto che, per fare spazio al vaso, avesse fatto cadere decine di cartelle mediche a terra, rovinandone l'ordine e instastidendo palesemente l'assistente del dottor Kavens.

Kavens, d'altra parte, sembrava davvero divertito dal comportamento di Miss Hamilton la quale ora si era tranquillizzata, si era seduta sulla poltrona e sfiorava le rose canine e chiacchierava di tutto e di nulla, ridacchiando e scuotendo la testolina con i suoi bei capelli e ogni volta che lo faceva, sembrava farlo con una leggera malizia ma era difficile dirlo con sicurezza visto quanto sembrasse più piccola della sua età.

«Ahi!» l'unico istante in cui smise di parlare fu quando una rosa la punse sull'indice da cui uscirono due o tre goccioline di sangue rosso intenso. E gli occhi le si inumidirono, li alzò verso il medico e sussurrò nuovamente «...ahi» ma non ci fu risposta. Probabilmente era abituata che al minimo problema o comando, tutti si interessassero a lei, ma ora non era più così. Kavens scoppiò a ridere, di una risata profonda, rauca. Quella bimba lo divertiva. E lei si imbronciò, nuovamente, tornando a dedicarsi alle sue rose in silenzio per diverso tempo.

Ben presto, però, fu ovvio che la sua non era una natura silenziosa e dopo un tempo che a me sembrò davvero troppo poco, riprese a parlottare, seguendo solo i propri pensieri, non certo una linea logica.

«La mia scuola aveva un giardino. Era grande, curato, c'erano tanti abeti, pini, aiuole, era proprio un bel giardino, sì, e tutti, appena arrivava la bella stagione, andavano lì. Non c'era mai un posto libero per sedersi se arrivavi tardi» lo disse sovrappensiero, continuando a fissare le sue rose e sfiorandone i petali, quasi come se non fosse diretta a nessuno questa frase. Non aveva risposto alle domande del dottor Kavens, ovviamente, neppure ad una, sembrava come se non si fosse resa conto di trovarsi all'interno di uno studio medico. Lei parlava, così, a caso. Quello che le veniva in mente lo diceva. E io all'inizio ne fui annoiato. Era una paziente, si doveva riuscire a capire le cause del male per riuscire a curarne i sintomi e pensavo che quello che stesse dicendo fosse una perdita di tempo. Presto, molto presto, non lo pensai più. Non pensai più nulla. Iniziai solo ad ascoltarla con sempre più passione e partecipazione. C’era qualcosa dietro quel suo parlottare che riusciva a coinvolgere chiunque. Che ne fosse consapevole o meno, non fui mai in grado di capirlo.


La risorsa più importante della Gran Bretagna, quella che gli ha permesso di diventare grande, è ritrovabile nell’oceano, nei suoi porti e nei suoi marinai. Ovunque vi è un po’ d’acqua, vi è l’anima inglese che vi si risiede, imperturbabile ed eterna. Ma vi è un luogo, uno solo, un’isola così piccola da non comparire neppure nelle comuni mappe geografiche che spesso viene scordata e i marinai non vi approdano facilmente se non in un periodo dell’anno ben preciso. Era come se quell’isola non esistesse nel tempo restante. Ed è lì che Miss Hamilton visse buona parte della sua giovanissima vita. In una isola della Gran Bretagna di pochi chilometri quadrati. Un bel luogo, un’isoletta tranquilla, lontana dallo smog industriale della capitale, circondata dall’umore della natura: il rumore delle placide onde che si infrangevano su una costa sabbiosa tiepida erano il sottofondo perenne, il cinguettio di uccelli piccolissimi che creavano il loro nido sulle grandi querce che circondavano l’intera isola di verde e flora erano la melodia che ben si conosceva ma sempre meravigliava, i fiori selvaggi, il sole non troppo caldo che rischiarava le giornate, gli animali selvaggi che se ne andavano in giro indisturbati, consapevoli che quello fosse il loro luogo. E dalla costa si apriva una stradina ciottolata non troppo larga, unico sentiero per arrivare all’unico luogo abitabile di quella isoletta lontana dal mondo. E se la si percorreva, si potevano ammirare gli animali spiarti da dietro questa o quell’altra querce che si andavano piano piano ad inspessire e a occupare più spazio quanto più si salisse in superficie, creando una vera e propria foresta.

E alla fine del percorso, se si conosceva la via e non ci si perdeva, il residente – o visitatore che fosse, purché accompagnato – si ritrovava ad aspettare di fronte un cancello di ferro battuto intrecciato con forme floreali. Oltre esso, superato quell’ultimo ostacolo, il paesaggio cambiava completamente.

 

 

NOTE D'AUTRICE:

Hi! Sono tornata con un nuovo capitolo *-* in realtà sarebbe dovuto essere più lungo ma essendo molto descrittivo quello che ho abbozzato fin'ora del prossimo capitolo, ho preferito dividere in due per evitare che diventasse noioso! ♥
Sperando che il nuovo capitolo vi piaccia e che troviate il tempo di recensire, vi auguro un buon fine settimana *-*

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